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> SALERNO: CARMELITANI A CONTURSI TERME DAL 1561-AL 1652 --- Da Caravaggio a Bernini, a Roma il Seicento italiano caro ai re di Spagna (di N. Speltra)

venerdì 14 aprile 2017

Da Caravaggio a Bernini, a Roma il Seicento italiano caro ai re di Spagna

Alle Scuderie del Quirinale una grande mostra sulle relazioni artistiche tra le due culture nel diciassettesimo secolo. Sessanta opere in arrivo dai celebrati palazzi reali di Madrid e dintorni. Sino al 30 luglio

di NICOLETTA SPELTRA (la Repubblica, 13 aprile 2017)

E’ dedicata alle relazioni artistiche tra Spagna e Italia nel XVII secolo la mostra che apre domani, 14 aprile, alle Scuderie del Quirinale, per concludersi il prossimo 30 luglio. Relazioni che nacquero nel corso del dominio spagnolo su diversi territori della nostra penisola, durato oltre un secolo e mezzo, a partire dalla pace di Cateau Cambrésis, datata 1559. In questo lunghissimo lasso di tempo le due culture, quella iberica e quella italiana, ebbero modo di influenzarsi considerevolmente a vicenda.

Il barocco italiano era molto apprezzato da vicerè, principi, ambasciatori e dignitari di corte, che acquistavano o commissionavano opere per inviarle ai sovrani di Spagna, su loro diretta richiesta o, come dono, per riceverne in cambio appoggio e favori, considerato che gli Asburgo erano grandi appassionati d’arte. Queste acquisizioni contribuirono alla nascita, nel 1821, del Museo del Prado, mentre le opere rimaste nelle residenze reali, prima annoverate nel “Patrimonio de la Corona de España”, sono poi divenute, ufficialmente dal 1940, “Patrimonio Nacional”.

La mostra, intitolata “Da Caravaggio a Bernini - Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni Reali di Spagna” e curata da Gonzalo Redín Michaus, attinge proprio dalle importanti collezioni di questo patrimonio, con sessanta opere seicentesche di pittura e scultura che provengono dal palazzo reale di Madrid e dagli altri siti reali: per esempio, l’Escorial, El Pardo, che, dal 1940 al ’75, fu anche la residenza ufficiale di Francisco Franco, e il palazzo reale della Granja di San Ildefonso, conosciuto come la “piccola Versailles”.

In esposizione ci sono pezzi molto noti accanto a opere conservate in luoghi non aperti al pubblico e rimaste inedite fino allo scorso anno, quando furono esposte in una mostra presso la reggia madrilena che ha fatto da fondamentale prologo a quella romana.

Sono molti, infatti, i capolavori che tornano, per l’occasione, nella terra in cui furono concepiti. Tra questi, “La tunica di Giuseppe”, olio su tela di grandi dimensioni realizzato da Diego Velázquez, presumibilmente subito dopo il suo primo viaggio in Italia, tra il 1629 e il 1631, quando aveva ancora negli occhi le immagini dell’arte classica ma anche delle opere caravaggesche e dei maestri della scuola bolognese. Il dipinto, tra i più belli e interessanti della rassegna e perciò collocato in posizione centrale nell’allestimento, illustra con grande chiarezza e compostezza compositiva, come se si trattasse della scena di una rappresentazione teatrale, il momento in cui i fratelli di Giuseppe, dopo averlo venduto come schiavo, raccontano al padre Giacobbe la menzogna della sua morte, mostrandogli una tunica insaguinata. Solo il cane in primo piano, fiutandola, riconosce che il sangue è quello di un capretto e abbaia inutilmente, ignorato da tutti.

Altro capolavoro ben noto è la “Salomè con la testa del Battista” di Caravaggio, proveniente dal palazzo reale di Madrid e databile intorno al 1607, quindi un po’ anteriormente rispetto all’altro quadro caravaggesco a medesimo tema conservato presso la National Gallery di Londra.

Nel dipinto, che faceva parte della collezione di García de Avellaneda y Haro, conte di Castrillo, viceré di Napoli tra il 1653 e il 1659, da uno sfondo verde scuro, riscoperto da un recente restauro, emergono i busti della principessa giudaica che ha tra le mani il vassoio con il capo mozzo del Battista, della madre di lei, Erodiade, e del giovane giustiziere che regge la spada, rappresentati con tutto il contrasto luministico e la drammaticità caratteristici del linguaggio dell’autore.

E a Napoli hanno la loro prima origine anche molte altre opere presenti in questa mostra, dal momento che la città dette un contributo veramente significativo al Patrimonio Nacional spagnolo. Basti pensare a tutti i nomi di artisti attivissimi in terra partenopea che troviamo tra le sale dell’esposizione, quali Jusepe de Ribera, noto anche come “lo Spagnoletto” (molto intenso il suo “San Gerolamo penitente”, del 1638), Andrea Vaccaro, Massimo Stanzione e Luca Giordano. Consistente anche il contributo dalla Collezione Maratti, appartenuta alla poetessa Faustina Maratti, figlia del pittore Carlo, acquistata nel 1722 a Roma per il palazzo della Granja. Da questa raccolta provengono opere dedicate a regine ed eroiche figure femminili, come “Lucrezia si dà la morte” di Carlo Maratti (1685 circa).

Nella sezione dedicata alla scultura risaltano due opere in bronzo del Bernini: un modello della Fontana dei Quattro Fiumi e un Cristo crocifisso, inizialmente molto sottovalutato in Spagna e per motivi ancora ignoti sostituito poco dopo il suo arrivo al Pantheon reale dell’Escorial da un crocifisso di minor valore di Domenico Guidi, allievo di Alessandro Algardi, uno dei principali antagonisti di Bernini. Eppure il grande crocifisso berniniano è ritenuto dalla critica un manufatto di eccezionale qualità, anche perché, come scrive Tomaso Montanari nel catalogo della mostra, è l’unico esemplare di figura completa in metallo, autonoma e mobile, di Bernini che ci sia pervenuta, vale a dire l’unica non legata, fisicamente o anche solo concettualmente, a una architettura o a un complesso monumentale.

Interessantissima, infine, la storia di una delle due opere di Guido Reni presenti in mostra. Oltre a una “Santa Caterina”, c’è la “Conversione di Saulo”, realizzata intorno al 1620. L’episodio, tratto dagli Atti degli Apostoli, è ben noto: mentre cavalca sulla via di Damasco, Saulo, fino ad allora feroce persecutore dei cristiani, viene disarcionato dal cavallo da una luce folgorante accompagnata dal rimprovero di Cristo. Il dipinto, finora quasi sconosciuto, è stato attribuito al suo autore proprio dal curatore della mostra, Redín Michaus, che ne ha ricostruito anche la complicata, prestigiosa e a tratti sfortunata vicenda collezionistica, che ha origine tra le ricche raccolte del cardinale Ludovico Ludovisi e tra le sale della sua villa situata sulle colline del Pincio, a Roma. Guido Reni riprende un tema già affrontato per ben due volte, circa vent’anni prima, da Caravaggio. Tra i due non correva buon sangue e, anche se quando Reni dipinge la sua opera, il rivale è già morto, il linguaggio che adopera, teso alla ricerca del bello ideale, vuole rappresentare una sorta di contrapposizione e di critica al linguaggio, fortemente realistico, dell’altro, e forse un tentativo di oscurarne la fama. E’ l’emblema stesso, in questo senso, di un inquieto passaggio di consegne e del tramonto di un’epoca.


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