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> IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. ---- Classi dirigenti, immobilismo e declino (di Michele Ciliberto)

lunedì 11 giugno 2012

Classi dirigenti, immobilismo e declino

di Michele Ciliberto (l’Unità, 11.06.2012)

Nel nostro Paese manca una moderna classe dirigente. Ed è interessante come Ferruccio De Bortoli ha riconosciuto e affrontato ieri il problema nell’editoriale del Corriere della sera. Si tratta di una questione assai seria, che riguarda il destino dell’Italia. E non possiamo certo limitarci a descrivere questa situazione, e a deplorarla, senza cercare di capire le ragioni che stanno alla base della decadenza delle classi dirigenti italiane.

Anzitutto, siamo di fronte a una crisi dell’Italia nella sua generalità. In secondo luogo, è una crisi che viene da lontano. In terzo luogo, è determinata dal fatto che nel nostro Paese è venuta meno la mobilità sociale e, con essa, anche una seria e fisiologica circolazione delle classi dirigenti. Mobilità e circolazione, del resto, sono fondamentali perché una nazione possa avere le energie e la forza necessarie per guardare, con occhi nuovi, davanti a sé e progredire. Circolazione e ricambio, invece, stanno venendo meno perché in Italia, almeno dalla fine degli anni Ottanta, la politica vive una crisi da cui non è ancora riuscita a sollevarsi, generando una separazione tra «governanti» e «governati» quale mai si è avuta, per estensione e profondità, nella vita della Repubblica.

Si possono individuare molte ragioni di questa negativa dinamica, certo, resa ancora più grave dalla crisi internazionale, dalle nuove sfide che sono state poste alle nostre classi dirigenti, dalla loro incapacità, salvo poche e importanti eccezioni, nel reggere il confronto con la globalizzazione. Qui però mi limito ad indicarne una, tipica della storia italiana, che negli ultimi quarant’anni si è però potenziata in modo straordinario, sia a destra che a sinistra. Mi riferisco a quella vera e propria struttura della nostra vita nazionale, che è il «trasformismo». Viene da molto lontano e, certamente, è generato da una particolare morfologia delle nostre classi sociali, dalle modalità specifiche del nostro sviluppo. Ma non mi fermo, ora, su questo.

Mi interessa piuttosto rilevare che il trasformismo non è mai stato così forte nella vita della Repubblica come negli ultimi vent’anni, con la presa del potere e l’affermazione di Silvio Berlusconi quale figura centrale della vita politica italiana. Con un paradosso a prima vista inspiegabile: Berlusconi si è infatti presentato come profondo innovatore dei costumi politici nazionali e come sostenitore di un moderno bipolarismo, in grado di porre su nuovi basi la politica italiana, favorendo la costituzione di schieramenti alternativi, chiamati volta per volta al governo sulla base del consenso elettorale.

Tutte chiacchiere: all’ideologia del bipolarismo ha corrisposto una pratica politica di carattere strutturalmente trasformistico. E quando dico questo non penso agli Scilipoti o alla campagna acquisti degli ultimi mesi; mi riferisco a un tratto costitutivo del berlusconismo fin dalle origini e alla conformazione che, per suo impulso, la politica italiana ha assunto negli ultimi anni, incidendo a fondo, e direttamente, anche nella crisi e nella decadenza delle classi dirigenti nazionali.

Come ci è stato spiegato dai classici del pensiero politico, la circolazione, e il ricambio, delle élite richiedono infatti competizione, lotta, conflitto. Berlusconi ha proceduto invece in modo opposto: assorbendo, e integrando, nel proprio schieramento, a volte in modo molecolare, a volte in forma più larga (fino a coinvolgere interi partiti ), tutte le forze disponibili nell’arco politico italiano. Ed è riuscito in questo garantendo, in un momento di massima crisi dei soggetti politici tradizionali, continuità del loro potere, stabilità, staticità dei ruoli e delle gerarchie sociali. Mentre si cianciava di competizione, di merito, di primato dell’individuo, l’Italia è precipitata, progressivamente, in uno stato di progressiva stagnazione, di immobilismo e, di conseguenza, di forme di corruzione pubbliche e private mai viste prima, almeno in questa forma, con una crisi profondissima del ruolo della politica, della circolazione delle classi dirigenti, del mutamento e del ricambio sociale.

-  Il problema che De Bortoli solleva giustamente viene di qui, è un effetto diretto del ventennio trascorso. Ma se questo è vero appare anche chiara la via maestra da seguire per rimettere in moto la nazione. Bisogna costruire un ethos repubblicano che mantenendo intangibili, e anzi sviluppandoli, il principio dell’eguaglianza e il primato del lavoro affermi il valore del mutamento e del ricambio sociale, l’importanza decisiva della circolazione delle élite e, in questo quadro, anche il valore della competizione e del conflitto (se si può ancora usare un termine messo al bando) a patto, naturalmente, che, come prescrive la Costituzione, tutti siano messi in grado di competere e di farsi valere.

È solo in questo nuovo quadro generale che può essere posto, e affrontato, anche il problema della formazione delle nuove classi dirigenti . Ma nulla di tutto questo potrà essere, non dico fatto, ma iniziato se non si stabiliscono nuovi canali di comunicazione tra «governanti» e «governati» , cioè nuove forme di partecipazione. Questo è oggi, da ogni punto di vista, il problema decisivo perché coincide con il problema della democrazia italiana.

Bersani ha rilanciato recentemente le primarie come mezzo utile in questa prospettiva. Né è ora il caso di insistere sulla complessità, e anche sulle «ambiguità», di questo, pur importante, strumento. Alla luce di molte esperienze fatte esse vanno ripensate e predisposte in modi nuovi, se si vuole che generino un accrescimento della partecipazione e della democrazia, e non il contrario, come a volte è accaduto. In ogni caso bisogna dare atto al segretario del Pd di avere avvertito la profondità e l’urgenza del problema, avviando una riflessione importante anche in relazione al problema delle modalità di formazione, in Italia, di nuove classi dirigenti.


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