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> COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. --- Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico (di Enrico Peyretti - L’impero di Cristo non era vangelo)

martedì 18 dicembre 2012

L’impero di Cristo non era vangelo

di Enrico Peyretti *

      • Gianmaria Zamagni, Fine dell’era costantiniana. Retrospettiva genealogica di un concetto critico, Prefazione di Giuseppe Ruggieri, Il Mulino 2012, pp. 197, euro 17,00

La cristianità «non volle più patire. Sotto il pretesto del bene dell’umanità essa aveva deciso di mettersi a suo agio». Così Karl Barth nel 1935, citato da Ruggieri. Già nella Dogmatica Barth aveva visto che la pacificazione costantiniana ebbe un ruolo negativo sulle stesse formulazioni dogmatiche dei concili del IV secolo. Come altri cristiani tedeschi, Barth vede una somiglianza tra la protezione data alla Chiesa da Costantino, a partire dall’editto di Milano del 313, e poi da Teodosio e via via nei secoli dell’imperium christianum, e la condizione del «cristianesimo positivo» tedesco, che legittimava il regime nazista, a differenza della Chiesa confessante, che voleva vivere delle «sole forze dell’evangelo».

Il tema del lavoro di Zamagni è nel contesto della riforma della Chiesa, che il cinquantesimo del Concilio, 2012-2015, e l’anniversario secolare del 2013, stanno riproponendo all’attenzione. L’Autore risale ad alcuni maggiori studiosi cattolici che, con sollecitudine ecclesiale, sebbene in posizioni «liminali», nel Novecento hanno indagato storicamente e teologicamente il concetto di fine dell’era costantiniana. Questo modello di lunga durata appare non solo obsoleto, e tuttavia non davvero superato, ma addirittura pericoloso per la Chiesa e la fede.

Chenu, Heer, Gilson, Mounier, Maritain, Buonaiuti, Peterson, sono gli studiosi esaminati. Erik Peterson, per esempio, «denuncia l’origine tutta mondana degli epiteti monarchici di Dio», con una prima traslazione dal piano politico a quello teologico, e una seconda che, viceversa, riveste il sovrano terreno di attributi metafisici o divini.

Lo storico viennese Friedrich Heer vede questo modello politico-teologico ripresentarsi dall’epoca di Costantino a quella di Carlo Magno e, nonostante il pluralismo dei Comuni e dei saperi, fino alla brutalità dei totalitarismi del Novecento, i quali hanno potuto con facilità associarsi la croce cristiana (già usata, come denunciava Erasmo, nelle insegne di guerra dei signori e delle nazioni, per non dire delle crociate, di cui il cristianesimo paga il prezzo oggi).

Inevitabile per noi pensare all’ostinato utilizzo puramente politico dell’immagine di Cristo crocifisso, ancora oggi voluto da nazionalismi e clericalismi.

Gli autori francesi di questa serie, più noti, pur riconoscendo in parte qualche effetto benefico di quel modello, in cui un cristianesimo aveva permeato la vita civile e politica, lo vedono non solo obsoleto, da superare in una «nuova cristianità», ma anche (Gilson) illusorio, perché è illusione la realizzazione attuale del regno di Dio, a cui la storia tende, ma che verrà del tutto solo oltre la storia.

Marie-Dominique Chenu (tra tutti il solo personalmente incontrato e ascoltato da noi: ci diede apprezzamenti e consigli nei primi anni de “il foglio”) è il teologo che più direttamente influì sul Concilio con l’idea del superamento della “era costantiniana”. Per lui, eventi come il Rinascimento, la Riforma, la Rivoluzione e la secolarizzazione, esigevano «un nuovo rapporto tra la Chiesa e il mondo», che sarebbe un ritorno al vangelo: non fare un “mondo cristiano”, ma porre fermenti cristiani nel mondo che autonomamente si costruisce. Del resto, negli ordini mendicanti del XIII secolo, il mito di Costantino aveva lasciato il posto al mito della comunità primitiva di Gerusalemme.

Tra i riferimenti importanti di Chenu c’è anche lo studioso fiorentino Mario Gozzini, di cui cita alcuni scritti del 1961, e la rivista Testimonianze di Ernesto Balducci, segno di una consonanza che si allarga. Con parole forti, Chenu paventava «l’odore di muffa del sacro romano impero per l’unificazione dell’Europa». Eppure, anche dopo il Concilio, abbiamo sentito i vertici cattolici chiedere che nelle carte ufficiali si dichiarassero le “radici cristiane” europee: ma quanto cristiane? e soltanto cristiane?

Tanti altri passi di un cammino di pensiero e di spiritualità troviamo nel libro di Zamagni: in Buonaiuti, in Maritain. Citeremo ancora, per finire, solo la discussione in Germania, in cui entrò anche Ratzinger, sulla Machtkirche, la chiesa delle grandi manifestazioni di massa.

Il Concilio avvertì e volle, non senza contrasti e residui, quell’abbandono della fede nell’impero, che in realtà è passo faticoso, tuttora incompiuto. Sarà un motivo di riflessione importante e di conversione comunitaria nei prossimi anni di ripresa del Concilio

* FINESETTIMANA.ORG, 18 dicembre 2012


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