Giulio Andreotti, il direttore d’orchestra di mezzo secolo di politica italiana
di Marie-Claude Decamps
in “Le Monde” dell’8 maggio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
I devoti contadini della sua Ciocaria, vicino a Roma, lo chiamavano “San Giulio” , vedendolo andare ogni mattina a messa. Giulio Andreotti, personaggio dell’ex Democrazia Cristiana, senatore a vita dal 1991, che fu per sette volte presidente del consiglio tra il 1972 e il 1992, e più di venti volte ministro, è morto lunedì 6 maggio a Roma, all’età di 94 anni.
I suoi avversari, che lo accusavano di aver consolidato la “grande pace democristiana”, all’indomani della seconda guerra mondiale, su acrobatici compromessi con tutti i poteri, tra cui quello della mafia, lo soprannominavano “Belzebù”.
Ma nessuno, nemmeno la giustizia, che lo assolverà nel 2003, dopo averlo condannato l’anno prima a ventiquattro anni di prigione per essere stato il mandante dell’assassinio da parte di uomini della mafia, nel 1979, di un giornalista “che dava fastidio”, Mino Pecorelli, è mai riuscito a penetrare davvero il mistero di Giulio Andreotti.
Nato il 14 gennaio 1919, l’ “inossidabile” , un altro dei suoi soprannomi, era amico di papi e cardinali, ma aveva anche frequentato, in certe occasioni, personaggi “sulfurei” come Michele Sindona, il “banchiere di Dio”, morto per aver bevuto un caffè al cianuro, o come Licio Gelli, gran maestro della loggia massonica segreta P2, o ancora come Roberto Calvi, il banchiere ritrovato impiccato sotto un ponte a Londra nel 1982. Con la scomparsa di Andreotti, che ha incarnato mezzo secolo di politica italiana, così segreto che diceva lui stesso, con la sua gelida ironia: “Se si vuole mantenere un segreto, non bisogna dirlo a nessuno, nemmeno a se stessi”, si volta una delle pagine più tormentate della storia d’Italia.
Il suo aspetto ingobbito e il suo sguardo impassibile favorivano le mille caricature da vampiro del potere, volteggiante nei corridoi della defunta prima repubblica italiana. Ma Andreotti, che fino alla fine ha occupato la funzione onorifica di senatore a vita di una repubblica che aveva contribuito a fondare, essendo stato già a 27 anni deputato dell’Assemblea Costituente, non se ne preoccupava. “In Italia, ironizzava, “mi ritengono responsabile di tutto, eccetto che delle guerre puniche!”.
Sia in occasione del rapimento e dell’assassinio del capo (dell’ala progressista) della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, da parte delle Brigate Rosse nel 1978, o della presa in ostaggio di 450 passeggeri dell’ Achille Lauro nel Mediterraneo nel 1985 da parte del palestinese Abu Abbas, che giustiziò un americano, l’atteggiamento del senatore è stato molto discusso. Ma ogni volta non ha perso nulla del suo potere, quel potere che “logora solo chi non ce l’ha”, secondo la sua formula più celebre, ribattendo gli attacchi con uno humor sconcertante.
Lo si punzecchiava per la sua ambizione? “Sono consapevole di essere di statura media, ma non vedo giganti attorno a me”. Per i suoi rapporti pericolosi con personaggi di dubbia reputazione? “Nessuno è al riparo da certe frequentazioni. Perfino Gesù Cristo, tra i dodici, aveva Giuda”.
Il potere gli va incontro tramite la Chiesa. Già nella sua infanzia di orfano (perde il padre a 2 anni), il bravo bambino allevato dalla madre Rosa è affascinato dagli splendori del Vaticano. Un giorno del 1938, quando, dopo aver pensato ad un futuro in medicina, questo ex studente della Gioventù di Azione cattolica, sceglie la diplomazia, si reca alla biblioteca del Vaticano. Chiede di consultare un’opera sulla flotta pontificia. “Non ha niente di meglio da fare?”, borbotta il bibliotecario, che non è altri che Alcide De Gasperi, futuro fondatore della Democrazia Cristiana, nel 1943, ma per il momento inseguito dai fascisti e “messo al riparo” tra i vecchi libri.
L’incontro sarà decisivo: Giulio Andreotti diventa il pupillo di De Gasperi, con cui collabora al giornale “Il Popolo”, edito clandestinamente e che diventerà più tardi l’organo della Democrazia Cristiana. “È un giovane capace, così capace che lo credo capace di tutto”, dirà presto il maestro davanti all’ascesa del suo protetto. Il partito, l’enorme “balena bianca” spiaggiata al centro dello scacchiere politico italiano, che ingoia tutto e il suo contrario, compresa la sua opposizione interna, gli si adatta come un guanto: diritto al centro-centro. Pur mantenendo simbolicamente un piede all’esterno ( “Non ho mai voluto essere segretario di partito” ), ne incarnerà gli slanci e i misteri, cementati da quel bisogno di compromesso che, basato all’origine su una santa alleanza anticomunista, finirà, man mano che cadranno gli alibi ideologici, per spingere la politica italiana sulla via degli scandali e del clientelismo.
Comincia una carriera interminabile: sette anni sottosegretario alla presidenza del consiglio, sotto De Gasperi nel 1952; per quindici giorni ministro dell’interno di un effimero governo Fanfani nell’inverno 1954; ministro del tesoro nel 1958; per tre volte di seguito ministro della difesa tra il 1960 e il 1964; ministro dell’industria nel 1966; poi degli esteri... I ministeri si accumulano, e presto i governi. Formerà il suo primo gabinetto nel 1972, il suo settimo ed ultimo nel 1991. Un’impresa per quest’uomo falsamente fragile, a cui i medici, durante una visita di coscrizione, predissero “solo sei mesi di vita”.
La base dei suoi successi? Una strettissima rete di relazioni, il cui anello centrale sarà il Vaticano. Un tempo presidente della Federazione degli Universitari cattolici (FUCI), sarà amico di sei papi, soprattutto di Pio XII, poi di Giovanni Paolo II. Con le sue entrature al tribunale ecclesiastico della Santa Rota e i suoi contatti in tutte le nunziature.
Per compensare, questo consumato artista del “compromesso”, frequenterà tutto ciò che conta nella sinistra comunista “benpensante”. Una rete di relazioni sviluppata anche all’estero, che lo avvicina a Henry Kissinger, ai Rockefeller o a George Bush. Da burattinaio preciso ed efficiente, domina le crisi ministeriali e instaura degli equilibri da funambolo ai limiti del possibile. Lui, l’uomo degli americani, incontra anche Gheddafi, Arafat e la maggior parte dei leader arabi. Così come, dopo aver costituito sbarramento ai comunisti che scalpitavano nell’anticamera del potere, diventerà nel 1978 capo del primo governo sostenuto dalla “non sfiducia” del PCI di Enrico Berlinguer.
Nel frattempo, si è costituita un’altra rete di relazioni, adatta al gusto del segreto di Giulio Andreotti: sono i legami tessuti in Sicilia, alla fine degli anni 60, con personaggi come Salvo Lima, futuro deputato europeo e “proconsole” andreottiano sull’isola, ma anche, dicono i pentiti di mafia, cinghia di trasmissione tra la DC e Cosa Nostra... Così, con la Sicilia “serbatoio di voti”, Giulio Andreotti diventa arbitro del potere in seno al suo partito, cioè padrone dell’Italia.
Eppure, alle elezioni del 1992, la Democrazia Cristiana vacilla. Il cemento anticomunista ha fatto il suo tempo, e, sotto i colpi violenti sia della Lega Nord, il primo partito guastafeste della “pace democristiana”, sia dei giudici anticorruzione dell’inchiesta “Mani pulite”, la prima repubblica crolla. Giulio Andreotti ripiega sul posto di senatore a vita offertogli dall’amico Francesco Cossiga, allora presidente della Repubblica. Ma tutto è cambiato: già in primavera, l’assassinio di Salvo Lima segna il declino. Ed è ancora dalla Sicilia che arrivano altri colpi: una decina di pentiti di mafia accusano Andreotti di essere in combutta con la mafia. La giustizia accetta le accuse. Per la prima volta, l’ “inossidabile” sarà oggetto di un processo.
Quindi sono le pagine più cupe della storia d’Italia che si illuminano di una luce inquietante, come l’assassinio del generale Dalla Chiesa, assassinato a Palermo nel settembre 1982. Una Palermo dove sarebbe stato mandato per ucciderlo più comodamente, questo specialista della lotta antiterrorismo, che aveva avuto il torto di trovare alcuni diari segreti scritti da Aldo Moro nel periodo della sua prigionia nella mani delle Brigate Rosse. Diari molto compromettenti, si pensa, per l’alto personaggio dello Stato che era allora Giulio Andreotti. Lo stesso che sostenne il rifiuto di negoziare con le Brigate Rosse per salvare Aldo Moro. Per la stessa ragione, il giornalista Pecorelli, che stava per pubblicare dei brani di quei diari, sarebbe stato assassinato a Roma nel marzo 1979, e il senatore a vita è ritenuto “l’istigatore del reato”. Condannato a ventiquattro anni di prigione nel 2002, viene prosciolto l’anno successivo.
Impassibile, l’ “inossidabile” , a cui la madre ha insegnato a non andare in collera “per non dare un’ulteriore soddisfazione a chi ti ha fatto soffrire”, dice allora di avere un solo rimpianto. La morte di Moro? La deriva della DC? Il suo processo? “No, dice, stupito, è di aver dovuto firmare, io cattolico, la legge sull’aborto nel 1978”, per evitare una crisi di governo. Giulio Andreotti diventerà quasi una star televisiva, portando il suo eterno sorriso in trasmissioni in cui offre i suoi oracoli politici e in cui mette un po’ di pepe con le sue battute.
Nella primavera del 2008, le elezioni riportano la destra al potere, Roma vive una psicosi di mancanza di sicurezza. Che cosa ne pensa Andreotti? “La mancanza di sicurezza a Roma? Niente di nuovo. Guardi, all’inizio, erano solo in due, Romolo e Remo. Beh, uno è riuscito a trovare il modo di uccidere l’altro...”
Infine, ultima e stridente consacrazione, alcuni mesi dopo, un film polemico, “Il Divo” , dedicato da Paolo Sorrentino alla leggenda nera di colui che per così tanto tempo è stato il direttore d’orchestra della politica italiana, ottiene il premio della giuria al Festival di Cannes. Furioso, l’eroe suo malgrado se ne lamenta ( “È volgare, cattivo, diabolico!” ), poi non resiste ad un’ultima battuta davanti al successo del film: “Sono contento per il produttore. Se avessi una partecipazione agli utili, sarei ancora più contento...”.