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GIAMBATTISTA VICO: OMERO, LE DONNE, E I "NIPOTINI" DI PLATONE

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C’era un lord in Lucania.... *
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> LE DONNE, E I "NIPOTINI" DI PLATONE --- Assia Djebar, la rivincita delle donne arabo-musulmane (di Francesca Paci).

domenica 8 febbraio 2015

Assia Djebar, la rivincita delle donne arabo-musulmane

Assia Djebar, pseudonimo di Fatima-Zohra Imalayen, era nata a Cherchell, 80 chilometri a Ovest di Algeri il 30 giugno 1936

Si è spenta a 78 anni la scrittrice algerina che si batté per l’indipendenza del suo Paese e aprì la strada al femminismo islamico

di Francesca Paci (La Stampa, 08.02.2015)

Quando c’interroghiamo sul ruolo delle donne nel mondo arabo-musulmano, presupponendo una subalternità quasi genetica, dimentichiamo spesso nomi come quello di Assia Djebar, la scrittrice algerina morta a 78 anni ieri in un ospedale di Parigi. Ritenuta una sorta di Toni Morrison nordafricana, a detta di Le Figaro ha sempre mancato di poco il premio Nobel per aver voluto scrivere solamente in francese (la lingua che suo padre insegnava alla scuola elementare di Cherchell, sulla costa algerina).

Chi studia il femminismo islamico nelle sue molteplici declinazioni, dalle attiviste di «Tahrir bodyguard» che denunciano il dilagare delle molestie sessuali in Egitto fino alle aspiranti mujaheddin follemente ma consapevolmente votate alla guerra santa di Siria, non può ignorare l’opera e la vita di Assia Djebar, in trincea quando ignoravamo quella trincea.

La futura autrice di opere come Donne d’Algeri nei loro appartamenti e Lontano da Medina ha 22 anni quando nel 1958 sposa a Parigi il membro della resistenza algerina Ahmed Ould-Rouis conosciuto durante le proteste studentesche. L’Europa in quel momento è lanciata verso il futuro e la Francia, dove il padre ha mandato Assia a studiare storia dopo la scuola coranica privata algerina frequentata da due sole bambine, è assai diversa dal paese spaventato che oggi vede nel fondamentalismo islamico la propria immagine distorta e profanata.

Assia cresce, assorbe, conosce, quando decide di mettersi a scrivere dimentica di chiamarsi Fatima-Zohra Imalayen per non creare problemi alla famiglia e durante un gioco in taxi con il fidanzato del momento si ribattezza Assia Djebar, il nome con cui si batterà per l’indipendenza patria, lavorerà come giornalista in Tunisia rivelando il dramma dei connazionali rifugiati, pubblicherà i libri maghrebini più tradotti al mondo e diventerà la prima donna algerina ammessa alla Ecole Normale Supérieure francese. Rinuncerà alla Ecole durante la guerra per l’indipendenza algerina, ma verrà reintegrata da Charles de Gaulle per «meriti letterari» (otterrà anche il titolo di Accademica di Francia).

Pochi hanno raccontato come Assia Djebar il corpo mortificato delle donne arabo-musulmane quando non era di moda, quando le adultere lapidate nello stadio di Kabul non facevano notizia, quando quasi nessuno aveva realizzato che l’Algeria dei primi Anni 90 era un laboratorio di terrore così annichilente da spingere una come lei a lasciare l’università di Algeri e trasferirsi negli Stati Uniti perché stanca di un paese in cui «in strada non si vedono più donne, solo uomini».

Il corpo delle protagoniste dei romanzi e dei documentari di Assia Djebar è lingua, una lingua così tanto silenziata nel suo mondo d’origine d’averla probabilmente spinta a servirsi del francese rinunciando a quell’arabo disprezzato per essersi messo al servizio degli uomini. Con il film in bianco e nero La Nouba des femmes du Mont Chenoua la Djiebar guadagna il premio internazionale della critica al Festival di Venezia 1979, ma a sedurre l’Italia è più la potenza dell’immagine che la forza della denuncia di un’avanzata integralista che dopo la marginalizzazione delle donne come lei sarebbe dilagata oltre.

Negli ultimi anni si è sentito poco il suo nome, aveva sempre meno voglia di parlare. Una delle ultime uscite risale all’indomani delle Twin Towers, la Djebar era a New York mentre le Torri Gemelle crollavano seppellendo l’illusione della fine della Storia e la pacificazione del mondo. Disse di aver pensato che «il dramma conosciuto in Algeria negli anni della violenza integralista fosse sotto i miei occhi in una versione più spettacolare». E intitolò il libro appena terminato La donna senza sepoltura, il testamento di una cultura.


Assia Djebar morta: raccontò il corpo delle donne nella società islamica

La scrittrice è morta a Parigi a 78 anni. I suoi 14 romanzi sono stati pubblicati in Italia da Giunti e Il Saggiatore. Le protagoniste, vere e proprie eroine femministe, sfidavano spesso i divieti imposti dalla società musulmana algerina

di Davide Turrini (Il Fatto quotidiano, 7 febbraio 2015)

Assia Djebar, in quell’islamismo radicale che oggi tanto sconvolge, era completamente immersa. Eppure in 50 anni di romanzi, sceneggiature, film e riflessioni su quel macigno storico e culturale, la Djebar, scomparsa la notte scorsa a Parigi all’età di 78 anni, da donna, da algerina, da femminista, e da anticolonialista riuscì a crearci un poema infinito, suadente e penetrante, musicale e magmatico, tumultuoso ed affascinante, lungo 14 romanzi (in Italia pubblicati da Giunti e Il Saggiatore) in 50 anni di carriera.

Nata Fatima-Zohra Imalayan il 4 agosto del 1936 nel sobborgo costiero di Cherchell, vicino al porto di Algeri, quando decise di esordire nel 1957 come scrittrice con il libro La Sete adottò un nom de plume che poi le rimase per il resto della vita: Assia Djebar. Timorosa della punizione paterna e delle leggi di un patriarcato onnipresente e regolatore dimostrò subito di che pasta fosse fatta: quel libro e quello immediatamente successivo - Le Impazienti (1958) - erano romanzi provocatori le cui protagoniste, vere e proprie eroine femministe, sfidavano i divieti imposti dalla società algerina alla condizione della donna. Pubblicità

La Djebar aveva subito compreso che la partita dell’emancipazione femminile, intersecatasi in quegli anni con un’altra “guerra”, quella del popolo algerino contro il colonialismo francese, passava attraverso il corpo delle donne: “Per tutte, giovani o vecchie, in clausura o mezze-emancipate, la lingua resta quella del loro corpo: quel corpo che gli occhi dei maschi chiedono sia invisibile, finché non riescono a incarcerarlo coprendolo interamente; quel corpo in trance, danzante, che si adatta alla speranza e alla disperazione; quel corpo ribelle, in grado di leggere e scrivere, in cerca di qualche spiaggia sconosciuta come meta del suo messaggio d’amore”, spiegò con una prosa armonica la scrittrice algerina.

Perché lei, mentre le cugine pensavano a mettersi il velo, imparava il francese e andava al liceo: nel 1955 va a Parigi, dove è la prima donna ammessa all’École Normale Supérieure de Sèvres. E nel ’58 è a Tunisi dove da un giornale locale denuncia il dramma dei rifugiati algerini. L’esordio letterario si intreccia poi con la guerra di liberazione algerina. Nello stesso anno sposa Ahmed Ould-Rouïs, membro della Resistenza Algerina, dal quale divorzia per poi sposare nel 1980 il poeta Malek Alloula.

Nel 1962 è ad Algeri dopo la dichiarazione d’indipendenza algerina. Insegna Storia del Nord Africa presso la Facoltà di Lettere poi nel 1977 ecco l’esordio dietro la macchina da presa con La Nouba des femmes du Mont Chenoua, film in bianco e nero che vince il Premio Internazionale della Critica al Festival di Venezia nel 1979, dove si narra la vicenda di una donna che decide di tornare sulle montagne berbere del suo paese natale alla ricerca delle “Madri” che parteciparono alla guerra d’indipendenza algerina per ritrovare i suoni della “memoria strappata”.

Con le recrudescenze dell’oscurantismo islamico che fa irruzione in Algeria negli anni ottanta, la Djebar si allontana definitivamente dal suo paese natale per trasferirsi negli Usa, in Louisiana, poi a Parigi, e ancora a New York: ironia della sorte proprio pochi giorni prima degli attentati dell’11 settembre 2001: “Quella mattina ero lì, a dieci minuti a piedi dalle Torri Gemelle, chiusa nel mio appartamento, senza televisione. (...) La mia prima impressione è stata che il dramma che avevo conosciuto in Algeria negli anni della violenza integralista fosse sotto i miei occhi in una versione più spettacolare”, spiegò la Djebar.

“La cosa che più mi ha colpito, nei giorni successivi, sono state le fotografie dei dispersi appese dappertutto e, a partire dal quarto giorno, la disperazione dei parenti che capivano che non avrebbero più avuto indietro neppure i loro corpi. È stato allora che ho deciso di chiamare il romanzo che avevo appena finito La donna senza sepoltura”. Djebar è, infine, stata la prima donna di origine araba a far parte dell’Accademia di Francia nel 2006. “E’ una fortuna essere uno scrittore, perché la scrittura - e questo me lo prometto ogni giorno interiormente - deve essere risparmiata dal sangue e dall’oscurità della violenza”, disse in un’intervista a Giovanna Taviani. “Ancor di più oggi mi rendo conto che il compito della scrittura letteraria è proprio questo: lavorare su se stessi, sulla propria memoria, sul ritorno o sul non-ritorno”.


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