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GIAMBATTISTA VICO: OMERO, LE DONNE, E I "NIPOTINI" DI PLATONE

giovedì 28 marzo 2024
C’era un lord in Lucania.... *
Se pochi filosofi e letterati sanno dell’omaggio di Ugo Foscolo al filosofo delle “nozze e tribunali ed are” (“Dei sepolcri”, v. 91), moltissimi “addottrinati” ignorano ancora e del tutto che Vico per circa nove anni decisivi per la sua vita ha abitato a Vatolla, (...)

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> GIAMBATTISTA VICO: OMERO, LE DONNE, E I "NIPOTINI" DI PLATONE --- Storia globale: "A New History of Humanity" . L’alba di tutto, ovvero: non siamo mai stati stupidi (di Lorenzo Velotti).

giovedì 17 marzo 2022

L’alba di tutto, ovvero: non siamo mai stati stupidi

di Lorenzo Velotti (gli asini, 1 marzo 2022)

Un giorno d’ottobre 2018, in una Londra decisamente già troppo invernale, entravo nervoso in una classe stracolma. Anche ai lati, per terra, gli spazi scarseggiavano. Riuscii a sedermi per terra, quasi sotto un banco. Il professore, David Graeber, che vedevo in quel momento per la prima volta, era impegnato a scrivere sulla lavagna: “Rousseau; Hobbes; De Lahontan; Kandiaronk...”. Si girò e ci rassicurò: avrebbe chiesto all’amministrazione una classe più grande. Poi cominciò la lezione, con un po’ di studenti costretti a seguire da fuori, sbirciando dalla porta aperta. Fu la prima lezione del corso “Antropologia e Storia Globale”, che si tenne solo quell’anno e del quale gran parte dei contenuti erano relativi al libro che, ci rivelò, stava scrivendo con l’archeologo David Wengrow. Il corso si interrogava sulla relazione tra antropologia e storia, e culminava con le domande: “In che modo la storia è consapevolmente prodotta da chi ne partecipa? Secondo quali dinamiche la potenziale inquadratura narrativa degli eventi diventa un elemento chiave in politica o, addirittura, l’aspetto decisivo dell’azione politica stessa?”

Ora, queste non sono, almeno esplicitamente, le domande che pone il libro L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (Rizzoli 2022), che Wengrow e Graeber finirono di scrivere soltanto una settimana prima della prematura morte di quest’ultimo (avvenuta a Venezia nel settembre 2020). Tuttavia, sono domande particolarmente utili da cui partire per cogliere gli aspetti fondamentali di questa ricerca. Infatti, nonostante i sospetti postmoderni nei confronti delle metanarrative, queste ultime sembrano aver costituito, da sempre, un elemento fondamentale nell’intreccio tra storia e azione politica.

Da una parte, scegliere di ignorarne la rilevanza implica quasi sicuramente la loro accettazione. Dall’altra, riconoscerle, spacchettarle, studiarne le basi storiche e le implicazioni politiche, problematizzarle e, così facendo, porre potenzialmente le basi per narrative diverse, è l’ambiziosa e interessante sfida colta da Graeber e Wengrow.

Il punto di partenza è che, nonostante l’illusorio disincanto associato parallelamente al metodo scientifico e alla massimizzazione di utilità e profitti, la società e la sua “scienza sociale” continuano a fondarsi su una serie di miti. I miti, ci dice l’antropologia, si svolgono sempre in un passato indefinito, ma hanno effetti concreti sul mondo presente. Il più delle volte hanno a che fare con un’indagine sulla natura umana.
-  Ora: vi sarà capitato, in un’accesa discussione politica sull’origine dei problemi attuali, di arrivare al punto in cui da una parte si sosterrà che la natura umana è fondamentalmente egoista e competitiva e, dall’altra, qualcuno dirà che invece è essenzialmente altruista e collaborativa? Tendenzialmente, la prima sarà una posizione difesa da chi si colloca un po’ più a destra, e la seconda da chi si sente un po’ più a sinistra (ma non necessariamente).
-  Questa dicotomia, in ogni modo, ha un chiaro corrispettivo nella storia delle dottrine politiche e viene ricercata in ciò che viene spesso definito lo “stato di natura”. In questo passato mitico, in cui troviamo esseri umani che altro non hanno che la loro pura umanità, le possibilità sembrano essere due: o gli esseri umani vivevano fondamentalmente la violenza quotidiana del tutti contro tutti (da qui la posizione hobbesiana secondo cui lo stato sarebbe necessario per convivere in pace); o erano invece esseri cooperativi ed egualitari “per natura”, ma la rivoluzione agricola e la conseguente invenzione della proprietà privata hanno rappresentato una caduta dall’Eden (elemento mitico ricorrente) verso l’inevitabile disuguaglianza attuale (Rousseau).

La tesi hobbesiana è di fatto ripresa da gran parte della destra o da pensatori liberali come Steven Pinker. Quella rousseauiana, in realtà dominante, è il sottotesto dei best seller di Francis Fukuyama, Jared Diamond o Yuval Noah Harari. L’agricoltura introduce necessariamente un surplus appropriabile e dunque la proprietà privata. La popolazione aumenta e le società diventano più “complesse”, dove la complessità è praticamente sinonimo di gerarchia. -Un’idea di “scala” tanto diffusa quanto infondata (che gli autori confessano essere, probabilmente, la più difficile da scalfire) crea una corrispondenza tra gerarchie spaziali e sociali, che si materializzano inevitabilmente attraverso la burocrazia e lo stato. Ma, per fortuna, con tutto questo arrivano anche la scrittura, la scienza e l’arte. La civilizzazione è inspacchettabile: o tutto o niente.

I miti, tuttavia, non si fondano primariamente su fatti realmente avvenuti. La storia classica delle dottrine politiche, neppure. Né Hobbes né Rousseau affermano, in alcun modo, che si tratti di fatti (pre-)storici. Si tratta di ipotesi, o esperimenti mentali, che tuttavia hanno finito per diventare miti cosmogonici.
-  In L’alba di tutto, la conoscenza delle più recenti scoperte archeologiche da parte di David Wengrow, unita alla teoria antropologica e politica di David Graeber, servono a mettere insieme innumerevoli pezzi - di fatto già esistenti nella letteratura specifica delle due discipline - per rivelare l’abisso che le separa dalla metanarrativa mitica. Naturalmente, la messa in discussione della metanarrativa imperante ha delle profondissime implicazioni per quanto riguarda il dibattito politico contemporaneo e il relativo spettro di possibilità alternative. Gli autori sono in grado di presentare un’abbondanza di dati archeologici e antropologici così da mostrare, essenzialmente, una diversa, ben più complessa, storia del mondo. Non solo, sono in grado di farlo in modo estremamente piacevole per chi legge, mantenendo, attraverso le oltre cinquecento pagine che compongono il saggio, una suspense continua.

Non è facile riassumere un tomo di queste dimensioni, ma proverò a delinearne alcuni elementi fondamentali. Il libro inizia problematizzando una domanda piuttosto comune, da cui gli autori stessi raccontano di essere partiti: “Quali sono le origini della disuguaglianza sociale”? Il problema, rilevano però gli autori, sta nella domanda stessa, giacché si presta con estrema facilità a una risposta di natura mitica. Il concetto di eguaglianza, peraltro, è relativamente recente: nel medioevo, i termini “uguaglianza” e “disuguaglianza” erano tutt’altro che comuni.
-  Verso la fine del diciassettesimo secolo, raccontano gli autori, l’incontro tra coloni europei e indigeni americani (e in particolare la critica politica elaborata dai secondi nei confronti dei primi) ha prodotto un notevole fermento di idee riguardo al concetto di libertà. Gli americani, infatti, erano particolarmente scossi dall’assenza di libertà che rilevavano presso gli europei.
-  In particolare, i protagonisti di questo capitolo sono: Kandiaronk, noto leader politico e diplomatico nordamericano (che visitò l’Europa), e il Baron de Lahontan, grazie ai cui scritti conosciamo il pensiero di Kandiaronk. Non è l’unico incontro rilevante, ma sicuramente il principale. In breve, le idee nordamericane di libertà, nell’incontro con la realtà europea, cominciano a scontrarsi con determinate nozioni di proprietà, l’abilità di trasformare la ricchezza in potere, e dunque l’“uguaglianza”. In Europa, acquisiscono una tale rilevanza che qualcuno comincia a sentire la necessità di rispondere e giustificare le condizioni sociali europee: è qui che Turgot elabora la nozione stessa di “progresso”, fatto di stadi di sviluppo che, pur creando inevitabilmente la povertà di alcuni, hanno fatto avanzare la società “complessa” nella sua interezza. L’idea non dispiacque a Adam Smith, che la riprese. In questo quadro, Rousseau non fece altro che una sintesi intelligente tra le due posizioni di cui si discuteva animatamente nella Francia di quei tempi, e la sua sintesi divenne, in qualche modo, il documento fondante del progetto intellettuale della sinistra dominante fino a oggi (chiamata appunto: “sinistra progressista”).

Tornando alla domanda sulle “origini”: il progetto di Graeber e Wengrow è quello di confutare la tesi che ci sia una netta separazione tra uno stato di natura composto da selvaggi egualitari (o di caos e violenza) e un successivo, unidirezionale, monolitico processo di civilizzazione che ci ha portato sin qui. -La preistoria, per esempio, è un periodo di circa tre milioni di anni che viene spesso appiattito in frasi quali: “l’uomo preistorico era così”; “le società preistoriche erano organizzate cosà”; e così via. Esiste un tacito pregiudizio nei confronti dei “primitivi” quali esseri del tutto incapaci di riflessioni consapevoli, ed è infatti comune - per esempio nel caso di Harari, fanno notare gli autori - considerarli più simili alle scimmie che agli esseri umani. Da qui il determinismo di chi sostiene che il “modo di sussistenza” è l’unica variabile in grado di spiegare quanto un popolo fosse più o meno gerarchico: le condizioni ecologiche non sono prese come alcune delle variabili in gioco ma come la variabile determinante.
-  Gli autori argomentano che nel periodo corrispondente all’era glaciale le forme sociali non erano “congelate”, bensì costantemente trasformate in base a molteplici fattori, a volte anche stagionalmente.
-  Da qui la domanda che ricorrerà più e più volte tra le pagine del libro: piuttosto che interrogarci sulle origini della disuguaglianza, chiediamoci: com’è possibile che gli esseri umani sono stati in grado di fare e disfare gerarchie costantemente, e ora non sembrano esserlo più? Come si è persa quell’autoconsapevolezza politica? Come si è finiti a credere che ci sia una sola modalità possibile? Che cosa si è inceppato?

Da un certo punto di vista, il problema è la proprietà: gli autori analizzano dunque diverse concezioni di proprietà (nella storia e nell’antropologia) per dimostrare che anche la proprietà non ha, di per sé, un’origine definita: in un certo senso, esiste da sempre. La domanda da porsi è, piuttosto, come sia arrivata a definire così tanti altri aspetti dell’esistenza umana. La riflessione viene dunque portata ai processi di schismogenesi culturale (e di rifiuto creativo) avvenuti nella costa occidentale del continente nordamericano, in relazione alla schiavitù, alla cura, e ai modi di produzione.
-  Chi legge è dunque trasportato da un continente all’altro per problematizzare l’idea che la “rivoluzione agricola” sia un concetto effettivamente utile. La domesticazione di pianti e animali, secondo l’archeologia più recente, ha cominciato a verificarsi in una ventina di posti diversi nel mondo, in un processo durato almeno 3000 anni, senza implicare necessariamente delle enclosures, e peraltro spesso alternata o parallela alla caccia e ai raccolti, o addirittura adottata per certi periodi, abbandonata e poi ripresa. Peraltro, sottolineano gli autori, la prima agricoltura ha avuto a che fare con un’organizzazione sociale più egualitaria, e non il contrario; il tutto, sostengono Graeber e Wengrow, in un contesto di scelte politiche consapevoli.
-  Un altro viaggio nel tempo e in diversi continenti avviene per demolire, servendosi di recenti scoperte archeologiche, la narrativa convenzionale e teleologica che riguarda l’avvento delle città. Anche qui, l’associazione tra urbanizzazione e gerarchizzazione delle relazioni risulta riflettere più dei preconcetti che non sulle prove fornite dall’archeologia. Tra le vicende più interessanti ci sono quelle che compongono la storia sociale mesoamericana, composta da repubbliche urbane e da democrazie indigene (come l’incredibile storia di Tlaxcaca).

Segue una brillante argomentazione sulle origini dello stato; o meglio: sul perché lo stato non avrebbe “un’origine”. Si tratta anche qui di un concetto recente (risalente alla fine del sedicesimo secolo), nei confronti del quale gli autori mostrano che qualsivoglia definizione si decida di adottare, si trovano innumerevoli esempi di forme di organizzazione sociale storica in grado di smentire, rendere inadeguata, o sfidare il senso di qualsivoglia particolare descrizione contemporanea di stato.
-  Siamo invitati dunque a lasciar perdere gli stati-nazione attuali come categorie di cui proiettare l’immagine su società passate, per ricercare invece direttamente nella storia l’esistenza o meno di quelle che gli autori identificano come le tre forme di dominazione fondamentali: il controllo della violenza (alla base della sovranità), il controllo dell’informazione (alla base della burocrazia), e il carisma individuale (alla base della politica competitiva, ossia della “democrazia” liberale). Questi tre principi, a seconda dell’esempio storico prescelto, possono essere ipotizzati in un ordine temporale diverso, ma l’assunto teleologico criticato dagli autori è che, fondamentalmente, si dia per scontato che il risultato è e debba essere necessariamente l’unione definitiva di questi tre principi. Gli autori, attraverso una lunga analisi delle varie combinazioni possibili di tali principi che si ritrovano nella storia, dimostrano che gli attuali stati nazione sono solo una delle innumerevoli organizzazioni possibili dei vari elementi, che hanno origini proprie e assai diversificate. Così facendo, riescono a liberare il concetto di “civilizzazione” da quello di “stato”, riscoprendone il significato di “estesa comunità morale”, peraltro in gran parte fondata sul lavoro e le innovazioni delle donne (al contrario del luogo comune che lega la civilizzazione allo stato-nazione patriarcale e ai monumenti).

Infine, una volta concluso quest’avvincente viaggio attraverso la storia dell’umanità, il libro torna a mettere in luce la trappola dell’evoluzionismo, nonché ciò che ci può offrire uno sguardo nuovo nei confronti delle popolazioni nordamericane, a partire dal loro stesso pensiero politico, che sembra aver avuto un ruolo fondamentale nel dare forma alle idee più emancipatorie dell’illuminismo.

L’emancipazione e la libertà sono senza dubbio i concetti chiave del libro. Gli autori non si riferiscono alla libertà in senso astratto, o liberale, ma identificano, a partire dalla loro ricerca, tre forme concrete di libertà sociali che hanno avuto enorme peso in passato e che, nella configurazione attuale, sembrerebbe che abbiamo perso. Queste sono (1) la libertà di andarsene o trasferirsi altrove; (2) la libertà di ignorare o disobbedire gli ordini; (3) la libertà di dare forma a nuove realtà sociali, o di alternarne più d’una. Le prime due emergono come sostegno fondamentale della terza in innumerevoli casi.

Ed è proprio questa terza libertà, e la consapevolezza politica su cui si fonda, a destabilizzare le basi delle nostre concezioni mitiche. Incrociando i dati gli autori scoperchiano un’abbondanza di elementi controintuitivi: piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori estremamente gerarchici da una parte, grandi città egualitarie che praticavano l’agricoltura dall’altra, ma anche società che cambiavano organizzazione sociale a seconda delle stagioni, o regioni che vivevano lunghi periodi di libertà, seguiti da secoli gerarchici poi ribaltati da ribellioni che innescavano interi periodi di pratiche consapevolmente anti-autoritarie, o infine il fatto che tanto la schiavitù quanto la guerra stessa siano state abolite più volte, in luoghi diversi, lungo tutto il corso della storia dell’umanità.

Tra i fattori in grado di materializzare queste forme concrete di libertà ricorre quello del gioco (in particolare associato a riti, feste e carnevali), presentato come costante elemento di sperimentazione sociale o, lo definiscono gli autori, come un’enciclopedia delle possibilità sociali. Non è un caso che Graeber abbia definito altrove il giocare come la massima espressione della libertà. Ma anche alle origini dei regni, racconta il libro, c’erano forme giocose, così come si possono identificare agli inizi dell’agricoltura. Non è un caso, credo, che gli autori scrivano di aver iniziato a fare ricerca per questo libro, circa dieci anni fa, al margine delle loro principali preoccupazioni accademiche, come forma di gioco: anche il libro stesso è, in un certo senso, un’enciclopedia delle possibilità sociali.

La pubblicazione di The Dawn of Everything: A New History of Humanity (Allen Lane, 2021), nel mondo anglofono, ha avuto una certa risonanza. Immediatamente un best seller del New York Times, nonché libro dell’anno del “Sunday Times”, dell’“Observer” e di “BBC History”, è stato elogiato da innumerevoli intellettuali. Mi limito a tradurre le belle parole di James Scott: “L’Alba di Tutto merita di diventare il porto di imbarco per quasi tutti i successivi lavori su questi temi così significativi. Chi si imbarcherà avrà, nei due David, navigatori impareggiabili”. Indubbio, quest’opera non è stata e non potrà essere ignorata. È altrettanto vero, com’è ovvio, che ha suscitato reazioni di tutti i tipi. Tra le recensioni entusiaste ci sono quelle di “The Atlantic”, il “Guardian”, il “New York Times” - che si chiede “E se tutto quello che abbiamo imparato sulla storia umana fosse sbagliato?” - e “Jacobin”, dove Giulio Ongaro paragona il libro alle opere di Galileo e Darwin.
-  Tra le recensioni critiche: sulla “New York Review of Books” il filosofo Kwame Anthony Appiah contesta, in modo molto dettagliato, le fonti storiche e archeologiche utilizzate (e da qui emerge un interessante scambio a partire dalle risposte di Wengrow); l’antropologo Chris Knight scrive che il libro sbaglia quasi su tutto; lo storico David A. Bell lo valuta trascurato e pieno di errori anche sul sito di “Domani”; mentre troviamo un’interessante e bilanciata recensione su “Micromega”, dove Graeber e Wengrow vengono tuttavia accusati di volontarismo. Certamente, come ha scritto lo stesso Wengrow, il libro è tutto fuorché la parola definitiva sulla storia dell’umanità (se così fosse sarebbe tutt’altro che emancipatorio) e c’è da augurarsi un ampio spettro di ricerche che investighi più a fondo le questioni poste.

Concludo da dove ho iniziato. Quando Graeber, ai margini del corso, ci parlava del libro, raccontava divertito del titolo provvisorio che aveva in mente: “Non siamo mai stati stupidi”, in una sorta di ribaltamento del “non siamo mai stati moderni” di Latour. A me, forse, piaceva di più, e ci diceva che il “selvaggio” non era né nobile né stupido. In altre parole, è come noi tanto cognitivamente quanto intellettualmente, e non esiste un’“infanzia degli esseri umani” dove gli umani più umani di noi mostrano la vera natura umana. La vera natura umana, probabilmente, non è altro che la singolare capacità di negoziare costantemente tra le infinite alternative possibili.


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