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MANDELA E LA FILOSOFIA. Lettera a Primo Moroni (in memoria) da ’Johannesburg’ - di Federico La Sala

domenica 15 dicembre 2013
Un breve saggio (in pdf). Cliccare sul titolo per aprirlo (e leggerlo):
"CHI" SIAMO NOI IN REALTA’. Relazioni chiasmatiche e civiltà. Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)

Sul tema, nel sito, si cfr.:
UBUNTU: "Le (...)

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> MANDELA E LA FILOSOFIA. ---- Mandela, modello di umanità (di Marcello Flores)

lunedì 9 dicembre 2013

Mandela, modello di umanità

di Marcello Flores (Il Sole-24 Ore, 8 dicembre 2013)

È difficile individuare la data più importante nella storia di Nelson Rolihlahla Mandela, oggi che Madiba - il nome datogli dalla tribù Xhosa cui apparteneva - è pianto non solo in Sudafrica, ma universalmente in ogni parte del mondo.

Due, tuttavia, vengono immediatamente alla mente: il 20 aprile 1964, quando concluse la sua arringa finale al processo di Rivonia, che lo avrebbe condannato all’ergastolo, con le parole «Ho nutrito l’ideale di una società libera e democratica in cui tutte le persone possano vivere insieme in armonia e con uguali opportunità. È un ideale per cui spero di vivere e di poter raggiungere. Ma se fosse necessario, è un ideale per cui sono pronto a morire»; e il discorso di insediamento come Presidente della Repubblica democratica del Sudafrica il 10 maggio 1994 - trent’anni dopo in cui disse «Abbiamo trionfato nello sforzo di istillare la pace nei petti dei milioni di appartenenti al nostro popolo. Il nostro accordo solenne è di costruire una società in cui tutti i Sudafricani, neri e bianchi, potranno camminare a testa alta, senza paura nei loro cuori, sicuri del loro inalienabile diritto alla dignità umana - una nazione arcobaleno in pace con se stessa e il mondo».

Mandela era già stato arrestato prima del processo di Rivonia, e assolto il 29 marzo 1961 insieme ad altri 29 dirigenti dell’ANC (African National Congress), dall’accusa di tradimento. Proprio nel corso di questa detenzione essi avevano deciso di passare alla lotta armata per difendersi da violenze e discriminazioni che il regime di apartheid rendeva sempre più intense e continue. Una decisione che nel luglio 1961 aveva approvato anche Albert Luthuli, il leader pacifista dell’ANC che verrà premiato nell’ottobre di quell’anno con il Premio Nobel per la pace e che continuerà a perorare in disparte la causa di una battaglia non violenta.

In un discorso nel centenario della nascita di Luthuli, nel 1998, Mandela lo celebrò come un capo di cui aveva seguito il cammino, anche se proprio una settimana dopo il suo ritorno da Oslo per ritirare il Premio Nobel, erano iniziati le azioni di sabotaggio violento del MK (Umkhonto we Sizwe - La lancia della Nazione), il braccio armato dell’ANC, quei «combattenti della libertà» le cui azioni Mandela rivendicò proprio al processo di Rivonia.

Convinto che nei primi anni ’60 anche l’azione di lotta del MK si sarebbe inserita nella guerriglia che si stava sviluppando in molte parti del mondo, Mandela cercò sempre di suggerire una strategia che contemplasse la violenza contro i simboli e le istituzioni dell’apartheid solo quando necessario, privilegiando la mobilitazione di massa e le ribellioni popolari, come quelle che ebbero luogo a Soweto e in altre township nel 1976 per opporsi all’uso obbligatorio dell’afrikaans nelle scuole per neri.

Nei ventisette anni della sua detenzione a Robben Island (dal ’62 all’82) e poi nella prigione di Pollsmoor (dall’82 all’88) e di Victor Verster (dall’88 al ’90), Mandela si confrontò criticamente con i giovani prigionieri del movimento Black Consciousness che auspicavano una lotta radicale anche contro i bianchi contrari all’apartheid, con i fautori delle uccisioni delle spie e traditori interni all’ANC e al MK, con chi suggeriva e praticava, negli anni ’80, azioni di tipo terroristico che colpivano vittime civili innocenti. Respingendo sempre, al tempo stesso, ogni richiesta del governo di dichiarare la fine della lotta armata in cambio di condizioni migliori di detenzione e di uno sconto di pena.

Quando l’11 febbraio 1990 Mandela uscì libero, in una giornata di sole, dal carcere di Victor Verster, le televisioni di tutto il mondo registrarono il suo appello alla riconciliazione ma anche l’invito a non smantellare l’organizzazione di lotta che era stata costruita negli anni. Presto l’abbandono della lotta armata venne ufficializzato e Mandela iniziò a prodigarsi con De Klerk - il Presidente sudafricano che aveva annunciato l’insostenibilità dell’apartheid, la legalizzazione dell’ANC e la liberazione dei prigionieri politici poche settimane dopo la caduta del Muro di Berlino - in quella lunga e difficile transizione alla democrazia, boicottata dalla violenza di gruppi bianchi e neri ostili alla riconciliazione, che ebbe termine con la grande festa democratica delle prime elezioni libere del 27 aprile 1994.

Assicurata la democrazia al Sudafrica, Mandela si prodigò in quello che è forse il lascito più importante e duraturo della sua azione da uomo libero: la creazione della TRC (Truth and Reconciliation Commission - Commissione per la verità e la riconciliazione) cui diede vita con l’aiuto dell’Arcivescovo Desmond Tutu, anche lui premiato nel 1984 con il Premio Nobel per la Pace (Mandela e De Klerk lo ottennero insieme nel 1993).

Alla base della TRC vi era la convinzione che la giustizia punitiva non avrebbe permesso il processo di riconciliazione, mentre era necessario che l’intero paese venisse a conoscenza del quadro più possibile completo di cosa fosse stato il regime di apartheid, delle sue cause, azioni, effetti, violenze e violazioni gravissime dei diritti umani che aveva perpetrato per decenni. Per questo si cercò di combinare la possibilità di amnistiare i colpevoli che avessero pienamente confessato i loro delitti con un processo pubblico di racconto della verità in cui veniva data possibilità alle vittime di far sentire pienamente la propria voce.

Il riconoscimento delle passate atrocità, accompagnato da quello della dignità calpestata e perduta per milioni di persone, consegnava alla nuova democrazia una politica fondata sulla morale, che la nuova Costituzione del 1996 riassumeva mirabilmente nelle prime parole del suo preambolo: «Noi, popolo del Sudafrica, riconosciamo le ingiustizie del passato; onoriamo coloro che soffrirono per la giustizia e la libertà della loro terra; rispettiamo coloro che hanno lavorato per costruire e sviluppare il nostro paese; e crediamo che il Sudafrica appartenga a tutti coloro che ci vivono, uniti nella loro diversità».

Nei quindici anni successivi alle prime elezioni democratiche si sono confrontate, sul terreno della memoria, due discorsi tra loro in competizione, due strategie che avevano obiettivi diversi.

Il primo è quello che è stato chiamato «rainbowism», la cultura arcobaleno promossa da Mandela e da Tutu e che la TRC ha fatto più di ogni altra istituzione per radicare nella mentalità collettiva. Questa strategia ha cercato di enfatizzare la storia condivisa del Sudafrica, gli aspetti comuni, i valori universali, nella convinzione che solo la cooperazione e la solidarietà potevano superare un passato di divisioni e di lutti.

La seconda strada è stata quella dell’«africanism», che ha posto, invece, la leadership africana nella lotta di liberazione e nel governo post-apartheid al centro della propria rappresentazione, in modo esclusivo e trionfalista, facendo della narrazione della lotta di liberazione il perno della storia nazionale divenuta sempre più coerentemente storia ufficiale del paese. Finché la memoriali Mandela rimarrà viva, la sua cultura continuerà a rappresentare un modello di cui l’umanità intera, e non solo il Sudafrica, hanno estremamente bisogno.


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