Socrate alle Ardeatine, ovvero di cosa parliamo dicendo «Occidente»
di Alessandro Portelli (il manifesto del 25.03.2025).
La sera del 23 marzo 1944, l’Obersturmbannführer Herbert Kappler va in ufficio. Va in archivio, prende i registri, torna alla scrivania, si siede, e fa un elenco di nomi. Sono gesti normali che generazioni di burocrati e pubblici impiegati hanno ripetuto uguali. Con questi gesti ordinari comincia strage delle Fosse Ardeatine. Non facciamoci ingannare quando nella lapidi affisse sui nostri muri leggiamo «la barbarie nazista». I barbari fanno cose barbare, ma per fare le Fosse Ardeatine c’è voluto lo stato moderno, la burocrazia, gli uffici, la scrittura; per fare la Shoah ci sono voluti i treni, l’industria chimica, persino i primi computer. C’è voluto il paese più civile d’Europa, il paese di Bach, Beethoven e Kant. Sono stragi civili, europee e occidentali fino al midollo.
In questi giorni, il ministero per l’istruzione e il merito richiede di insegnare agli studenti di tutte le scuole della Repubblica che «Solo l’Occidente conosce la storia». Come ha detto un professore dal palco di una grande manifestazione a piazza del Popolo, «In Europa abbiamo Socrate, Spinoza, Hegel e Leopardi. Ma gli altri le hanno queste cose?» (certo che sì. Qualche filosofo ci sarà pure stato in Cina; il Sundiata è un grande poema epico del Mali; e qualche anno fa un prezioso libro di Francesco Gabrieli si intitolava Storici arabi delle Crociate. Ma non è nemmeno questo il punto).
Manipolando una frase di Marc Bloch (e, sospetto, con qualche mal digerito residuo di Morte e pianto rituale di Ernesto de Martino), le linee guida redatte dalla commissione presieduta da Ernesto Galli della Loggia spiegano questa eccezionalità della nostra cultura col fatto che «Il cristianesimo è una religione di storici. È nella durata, dunque nella storia, che si svolge il gran dramma del Peccato e della Redenzione». Solo noi pensiamo alla storia come un progresso verso un fine, dalle tenebre alla salvezza.
Proviamo a cambiare il punto di vista. Proprio di questo infatti parla l’ultimo libro di Amitav Ghosh, scrittore indiano che la cultura dell’Occidente la conosce bene. Si chiama Fumo e ceneri, risale al 2023, quindi prima delle linee guida di Valditara e della Loggia, e spiega in modo assai convincente come la prosperità dell’Occidente si sia basata in larga misura sul commercio dell’oppio. A pagina 47 (non ho ancora la traduzione italiana, ritraduco dall’originale) leggiamo: «Un altro concetto dell’Illuminismo che ha svolto un ruolo importante nel dare forma all’immagine che l’Occidente ha di sé, la Storia come una narrativa di progresso che si evolve verso certi fini trascendenti fondata su una concezione del tempo, e della storia, come una narrativa di ininterrotto Progresso ascensionale».
Grazie a questa concezione, continua Ghosh, l’Occidente ha potuto raccontare la propria storia come un percorso progressivo di liberazione ed emancipazione, in cui «le storie intrecciate di genocidio e schiavitù erano oscurate o presentate come deplorevoli deviazioni da questa narrazione», e ha potuto legittimare il suo dominio con la superiorità della propria cultura tralasciando quanto fosse fondato su schiavitù, colonialismo, commercio della droga (dalla coltivazione dell’oppio imposta dalla Gran Bretagna ai contadini indiani alla sua importazione imposta alla Cina con le ottocentesche guerre dell’oppio). Queste cose sono «relegate nell’irrilevanza semplicemente perché non rientrano nella narrazione del Progresso».
In realtà, abbiamo sviluppato anche un’altra tecnica della narrazione storica. Anziché dimenticare le Fosse Ardeatine e la Shoah, per esempio, le ricordiamo ossessivamente e ritualmente, ma oscuriamo la tecnologia, l’organizzazione, le procedure, il quadro mentale che le hanno rese possibili, e ci scarichiamo di questi orrori relegandoli nell’inumanità della «barbarie» o della «belva nazista». Siamo sempre vittime, mai perpetratori.
Grazie a questa concezione della storia, l’Occidente illuminato ha potuto spiegare il fatto che gran parte del genere umano non avesse la stessa storia progressiva collocandolo fuori dell’umanità stessa. Dopo tutto, quando parliamo di Occidente non parliamo di geografia (Dakar è molto più a occidente di Roma) ma di razza: l’Occidente di cui parliamo coincide sostanzialmente con la razza bianca.
Come ci ricorda il critico afroamericano Henry Louis Gates, secondo Hume gli africani non erano umani alla stessa stregua di come lo siamo noi; secondo Kant esisteva una diretta relazione fra «stupidità» e «nerità» («uno dei tanti esempi», commenta Gates, «dell’innata capacità dei filosofi europei di concepire l’umanità in termini ideali (bianchi, maschi) e disprezzare, aborrire, colonizzare o sfruttare esseri umani non ’ideali’».) e ancora nel 1813 Hegel ribadiva l’innata inferiorità degli africani. Più tardi, i nazisti ribadivano l’innata inferiorità dei latini e noi latini ribadivamo l’innata inferiorità degli slavi.
Ora, io so benissimo che anche «gli altri» hanno i loro orrori e i loro crimini (per capirsi: il 7 ottobre è un atto barbarico; Gaza è un massacro moderno, tecnologico e civilizzato), e non mi vergogno affatto di appartenere a questo benedetto Occidente in cui sono casualmente nato. Ma vorrei che questa identità che mi appartiene non venisse declinata in termini di etnocentrismo e suprematismo; vorrei che, quando ci illuminiamo di Imperativo Categorico, di Mozart e di Beatles, non ci scordassimo del Congo belga, degli Herero e di Debra Libanòs (e di Gaza).Va bene ricordarci di Hegel come gloria dell’Europa e dell’Occidente, ma forse potremmo ricordarci anche che la cultura che ha generato Hegel (e che Hegel ha contribuito a formare) ha prodotto anche Auschwitz . Sì, «solo l’Occidente» è stato capace di immaginare la Shoah e di realizzarla. Insegniamo anche questo, ai ragazzi delle scuole della Repubblica, quando celebriamo gli anniversari.
* Articolo pubblicato su il manifesto del 25.03.2025.