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A Lorenzo Valla, in eterno!!!

I CONTI DEL VATICANO SONO IN ATTIVO. Dopo "Deus caritas est", tutta la teologia "cattolica" insiste - ancora di più!!! Ma Il Vangelo (senza la E) e il "Cristo" e il "Pesce" (I.ch.th.u.s.) senza l’ "acca" e senza l’acqua viva?! L’ ebraico, il greco, il latino? Ma che importa! A "motu proprio" è lo stesso. Una nota di Federico La Sala e una lettera aperta al predicatore del Papa di p. Fausto Marinetti

Restituire a Giuseppe l’anello del Pescatore!!!
giovedì 2 agosto 2007 di Maria Paola Falchinelli
Le prime comunità cristiane per identificare la propria religione non utilizzavano la croce, brutale e ignominioso strumento di morte, ma il pesce. "Pesce" in greco antico si dice Iχθύς (ichthýs) e fu considerato come l’acronimo di 5 parole, identificative dello status di Gesù Cristo: Iησοuς Χριστός Θεοù Yιός Σωτήρ (Iēsoùs Christòs Theoù Yiòs Sōtèr), (...)

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Ricoeur: la vita buona è aver cura dell’altro.

venerdì 12 ottobre 2007

Anticipazione [da: Etica e morale, Morcelliana, pagine 116, euro 10,50

Il «testamento» del grande pensatore, erede della filosofia personalista, sull’etica come sintesi di prassi e norma morale fondata sul dialogo reciproco fra i diversi

Ricoeur, la vita buona è aver cura dell’altro

D efinirei la prospettiva eti­ca con questi tre termini: auspicio della vita buona, con e per gli altri, all’interno di i­stituzioni giuste. Le tre compo­nenti della definizione sono e­gualmente importanti. Parlando innanzitutto della vita buona, desidererei sottolineare il modo grammaticale di questa espres­sione tipicamente aristotelica: è ancora quello dell’ottativo e non già quello dell’imperativo. È, nel senso più forte della parola, un auspicio ( souhait): «Possa io, possa tu, possiamo noi vivere bene», e anticipiamo l’adempi­mento di questo auspicio con u­na esclamazione del tipo: «Felice colui che... !». Se la parola ’au­spicio’ sembra troppo debole, parliamo - senza particolare fe­deltà a Heidegger - di ’cura’: cu­ra di sé, cura dell’altro, cura delle istituzioni.

Ma la cura di sé è un buon punto di partenza? Non sarebbe più opportuno partire dalla cura del­l’altro? Se tuttavia insisto su que­sta prima componente, è pro­prio per sottolineare che il ter­mine ’sé’ - che amerei associare a quello di ’stima’ sul piano eti­co fondamentale, riservando quello di ’rispetto’ al piano mo­rale, deontologico della nostra ricerca - non si confonde affatto con l’io ( moi), e quindi con una posizione egologica che dall’in­contro con l’altro sarebbe neces- sariamente sovvertita. Sono due le cose fondamentalmente sti­mabili in sé: innanzitutto, la ca­pacità di scegliere in base a delle ragioni, di preferire questo a quello - in breve, la capacità di agire intenzionalmente; poi, la capacità di introdurre cambia­menti nel corso delle cose, di co­minciare qualcosa nel mondo, la capacità di iniziativa. In tal sen­so, la stima di sé è il momento ri­flessivo della praxis: apprezzan­do le nostre azioni apprezziamo noi stessi in quanto ne siamo autori, e quindi in quanto altra cosa da semplici forze della na­tura o semplici strumenti. Si do­vrebbe sviluppare tutta una teo­ria dell’azione per mostrare co­me la stima di sé accompagni la gerarchizzazione delle nostre a­zioni.

Passiamo al secondo momento: vivere bene con e per gli altri. In che modo la seconda compo­nente della prospettiva etica, che designo con il bel nome di ’sollecitudine’, si connette con la prima? La stima di sé, con la quale abbiamo cominciato, non porta in sé, in ragione del suo carattere riflessivo, il pericolo di un ripiegamento sull’io, di una chiusura, di contro all’apertura sull’orizzonte della vita buona? Nonostante questo pericolo cer­to, la mia tesi è che la sollecitu­dine non si aggiunge dal di fuori alla stima di sé, ma ne dispiega l’implicita dimensione dialogale.

Stima di sé e sollecitudine non possono viversi e pensarsi l’una senza l’altra. Dire sé non è dire io. Sé implica altro da sé, affin­ché possa dire di qualcuno che stima se stesso come un altro. In verità, solo per astrazione si può parlare della stima di sé senza metterla in coppia con una ri­chiesta di reciprocità, secondo uno schema di stima incrociata, riassunta nell’esclamazione ’an­che tu’: anche tu sei un essere di iniziativa e di scelta, capace di a­gire secondo ra­gioni e gerarchiz­zando dei fini; e, stimando buoni gli oggetti della tua ricerca, sei ca­pace di stimare te stesso. L’altro ( autrui) è colui che può dire io al pari di me e, co­me me, conside­rarsi un agente, autore e respon­sabile dei suoi at­ti. Altrimenti, nes­suna regola di re­ciprocità sarebbe possibile. Il mira­colo della recipro­cità sta nel fatto che le persone siano riconosciute come insosti­tuibili nello scambio stesso.

Questa reciprocità degli insosti­tuibili è il segreto della sollecitu­dine. In apparenza, la reciprocità sembrerebbe completa solo nel­l’amicizia, ove l’uno stima l’altro quanto sé. Ma la reciprocità non esclude una certa inadeguatez­za, come nella sottomissione del discepolo al maestro. L’inegua­glianza tuttavia è corretta dal ri­conoscimento della superiorità del maestro, riconoscimento che ristabilisce la reciprocità. Inver­samente, l’ineguaglianza può provenire dalla debolezza del­­l’altro, dalla sua sofferenza. In questo caso è compito della compassione ristabilire la reci­procità, nella misura in cui, nella compassione, co­lui che pareva il solo a donare ri­ceve, attraverso la gratitudine e la ri­conoscenza, più di quanto abbia donato. La solleci­tudine ristabilisce l’eguaglianza là o­ve essa non è da­ta, come invece nell’amicizia tra eguali.

Vivere bene, con e per l’altro, all’in­terno di istituzioni giuste. Che la pro­spettiva del vivere bene comprenda in qualche modo il senso della giustizia, è implicato nella no­zione stessa dell’altro. L’altro è tanto l’altro quanto il tu. Corre­lativamente, la giustizia s’esten­de al di là del ’faccia a faccia’.

Sono qui in gioco due asserzioni: per la prima, il vivere bene non si limita alle relazioni interper­sonali, ma s’estende alla vita nel­le istituzioni; per la seconda, la giustizia presenta dei tratti etici non contenuti nella sollecitudi­ne, essenzialmente un’esigenza di eguaglianza d’altro tipo ri­spetto a quello dell’amicizia.

Riguardo al primo punto, come «istituzione» si deve intendere, a questo livello della ricerca, tutte le strutture del vivere insieme di una comunità storica, irriducibi­li alle relazioni interpersonali e tuttavia connesse a esse in un senso significativo che la nozio­ne di distribuzione - quale si ri­trova nell’espressione ’giustizia distributiva’ - permette di chia­rire.

In effetti, si può intendere una i­stituzione come un sistema di divisione, di ripartizione, atti­nente a diritti e doveri, redditi e patrimoni, responsabilità e po­teri - in breve, vantaggi e oneri. Proprio questo carattere distri­butivo - nel senso ampio della parola - pone un problema di giustizia. Una istituzione ha un’ampiezza più vasta del ’fac­cia a faccia’ dell’amicizia o del­l’amore: nell’istituzione, e attra­verso i processi di distribuzione, la prospettiva etica s’estende a tutti coloro che il ’faccia a fac­cia’ lascia fuori in quanto terzi. Si forma così la categoria del cia­scuno - che non è affatto il si - ma il partner di un sistema di di­stribuzione. La giustizia consiste precisamente nell’attribuire a ciascuno la sua parte.


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