L’autoironia di Orazio epicureo indulgente
Nelle «Satire» confessa tutti i suoi difetti
di Mario Andrea Rigoni (Corriere della Sera, 07.06.2012)
Il maggior poeta lirico della latinità, Quinto Orazio Flacco, nato a Venosa nel 65 e morto a Roma nell’8 a.C., oltre alle sue celeberrime Odi ed Epistole, scrisse due libri di Satire (il I, dedicato a Mecenate, ne contiene dieci, il II otto), che si intitolano Sermones perché sono un genere in versi (nel suo caso esametri), ma vicino alla prosa, agli argomenti e al tono della comune conversazione. Esse rappresentano (insieme agli Epodi o Giambi) l’esordio poetico di Orazio e sono anche la sua opera più letta nel Medioevo, per la quale egli è ricordato da Dante nella Divina Commedia subito dopo Omero («Mira colui con quella spada in mano, / che vien dinanzi ai tre sì come sire:/ quelli è Omero poeta sovrano;/l’altro è Orazio satiro che vene»).
Assente nella tradizione greca, la satira era un genere tipicamente romano: Orazio (I, 4) riconosce a Lucilio il merito di averlo fondato, di essere arguto e di avere naso fino, benché gli rimproveri un’abbondanza fangosa dalla quale egli si vuole liberare nell’intento (quanto raccomandabile anche oggi, vista la massa di grafomani dai quali siamo circondati) di scrivere poco e bene.
Orazio (I, 10) confessa di essersi dedicato alla satira perché essa soltanto gli sembrava in grado di promettergli il successo, dato che era scarsamente praticata, ma è chiaro che le caratteristiche di questo genere (l’autobiografismo, la riflessione morale e sociale, la varietà tematica e aneddotica, la vivacità dialogica, lo stile sciolto e conciso) corrispondevano alle inclinazioni profonde del poeta: una di queste è l’ironia, che Orazio esercita meravigliosamente anche verso se stesso. Nella terza satira del II libro, dove sono elencati i vizi umani che i filosofi considerano pazzia senza rendersi conto quanto sono pazzi essi stessi, lo stoico Damasippo illustra e rimprovera a Orazio tutti i suoi difetti fisici e morali: scimmiotta i grandi, lui che è figlio di un liberto e anche basso di statura; vive al di sopra delle proprie possibilità; è terribilmente iracondo; perde la testa per ragazze e giovinetti. È in realtà un perfetto autoritratto, per il quale il poeta chiede indulgenza, in omaggio a quel principio del giusto mezzo che notoriamente costituisce il centro della sua morale epicurea.
Tale principio agisce in modo implicito o dichiarato in tante satire: nella prima del I libro, nella quale Orazio, parlando dell’eterna insoddisfazione degli uomini per la propria condizione, tratta con esempi e aneddoti dell’avarizia, concludendo con la proverbiale massima Est modus in rebus; nella seconda, dove mette in guardia dai guai dell’adulterio, consigliando di evitare le matrone non meno che le prostitute e di accontentarsi delle più agevoli liberte; nella terza, che predica l’indulgenza verso i vizi degli amici anche al fine di «non sancire una legge iniqua contro noi stessi» e ridicolizza la pretesa stoica che il saggio possieda al massimo grado non solo ogni virtù ma anche ogni capacità; nella seconda del II libro, che elogia i vantaggi della sobrietà a tavola.
L’autoritratto indiretto si completa nella settima satira del II libro, dove il poeta si fa impartire una lezione di morale dal suo schiavo Davo in occasione della festa dei Saturnali, la sola circostanza in cui i servi potevano trattare i padroni da pari e pari e godere di piena libertà di parola e di critica. Davo dimostra che Orazio non possiede nessuno dei requisiti di quella saggezza che pure egli professa, assimilando scherzosamente il dono delle Muse a una malattia mentale: «quest’uomo», dice lo schiavo, «o è pazzo o è poeta».
Non c’è forse poeta latino più classico e insieme più moderno di Orazio. Cultore e maestro dell’arte dello stile; modello di eleganza, insieme con Virgilio, «a tutti i secoli», come annotò Leopardi; osservatore sottile del costume, immerso nella vita quotidiana del suo tempo, che ritrae in immagini e massime immortali, ma assediato dal senso della caducità e volto alla ricerca della libertà interiore; incurante della folla e pago di pochi lettori, egli censura senza malignità i vizi degli altri, ma è sempre consapevole dei propri limiti e non osa neppure mettersi nel rango dei poeti (che lezione): «Anzitutto mi voglio togliere dal novero di quelli, cui concederei di chiamarsi poeti: né infatti fare un verso conchiuso diresti che sia sufficiente; né uno che scriva, come noi, più vicino alla prosa, tu lo riterresti poeta. Chi abbia del genio, chi un’ispirazione divina e una voce capace di suoni sublimi, a lui dà di questo nome l’onore» (I, 4).
L’infinita varietà del mondo
Corriere della Sera, 07.06.2012
Non aveva nemmeno trent’anni, il poeta latino Orazio, quando iniziò a comporre le Satire, proposte nella collana con la prefazione inedita di Roberto Galaverni. La «varietà» (cioè la satura appunto) spiega il prefatore, «rappresenta sia dal punto di vista espressivo sia da quello tematico l’elemento caratterizzante della poesia satirica». E così, varie sono le riflessioni, i dialoghi, le descrizioni di vizi e virtù, gli ammaestramenti etici che si trovano in quest’opera, in cui l’autore mette a frutto tra l’altro gli insegnamenti di filosofia ricevuti (per lo più di scuola epicurea). È l’opera in cui si trovano frasi passate alla storia, come «est modus in rebus», oppure «quest’uomo è pazzo o è poeta», e così via, e i ritratti di personaggi e situazioni rispecchiano la varietà, «l’imprevedibile spettacolo del mondo coi suoi tanti personaggi, caratteri e vivacissimi dialoghi». Non per farne un’ironica caricatura, ma per ottenerne «un ulteriore movimento conoscitivo» facendo «dell’inquietudine, dell’incertezza, delle oscillazioni, della curiosità, la sua forza più grande». (i.b.)