Quella Madonna islamica ci ricorda l’individuo perduto in ogni massacro
di Mauro Covacich (Corriere della Sera, 11.02.2012)
Nella furia insaziabile della guerra ci sono persone che muoiono, dappertutto, in continuazione. Esseri umani che cadono dalla rupe della nostra consolidata e forse inevitabile indifferenza precipitando nel vuoto, dimenticati per sempre. Veniamo aggiornati in tempo reale sul numero delle vittime di ogni conflitto.
Sappiamo dei morti quotidiani in Siria, e anche sugli insorti dello Yemen, volendo cercarle, le notizie non mancano.
Poi però arriva la fotografia, la massa indistinta della materia umana si ritira sullo sfondo e appare l’uomo, quest’uomo. Il suo corpo è raccolto nel grembo di una donna in chador. Importa poco che sia la madre, la zia o la sorella: difficile non pensare a un Cristo appena deposto dalla croce, a una pietà islamica. L’uomo è stato ferito durante le proteste contro il presidente Saleh il 15 ottobre scorso, ha la bocca aperta in cerca d’aria, il volto seminascosto nella stretta della donna, una scritta - forse il suo nome - che taglia di traverso l’avambraccio. Entrambi hanno le braccia infilate nei manici della borsa di lei. Una busta di plastica a scacchi, i cosiddetti effetti personali. Lui ce la farà, eppure dal modo in cui la donna lo stringe al petto cogliamo d’un tratto una cosa che avevamo sempre avuto sotto gli occhi, vediamo ciò che stavamo guardando: a morire è sempre un individuo, un uomo con nome e cognome, fatto della sua storia unica e irripetibile.
Quando veniamo informati sulle cifre della battaglia di oggi dobbiamo ricordare che perdiamo lui, quest’uomo.
Dobbiamo ricordare il dolore di questa madre di Gesù uscita dal Corano. Dobbiamo immaginare una fotografia così per ognuna delle voci dell’enciclopedia dei morti.