Trotula, la prima ginecologa. Ma non chiamatela femminista
Biografia in forma di romanzo per la donna che sapeva ascoltare il dolore. E divenne Magistra tra i dottori di Salerno
di Maria Serena Natale (Corriere della Sera, 28.12.2014)
È un mondo di principesse longobarde che impugnano la spada, di pensatori arabi che traducono testi greci, di memorie pagane che si intrecciano alla liturgia cristiana. Tempo di congiure e invasioni nel quale un drappello di mercenari può fondare una dinastia, un Papa sfidare l’imperatore, un re tradire un giuramento.
«Era l’anno del Signore 1020, il primo giorno del mese di settembre, l’ora seconda del mattino, poco dopo il sorgere del sole». La nascita di Trotula de Ruggiero è avvolta nella leggenda, come la sua vita di scienziata nell’«opulenta Salerno» dell’XI secolo. Mix di sangue normanno, longobardo e greco, Trotula vive il momento con l’intensità e l’impazienza di chi avverte la connessione tra le epoche, il senso di una ricerca personale che si salda alla grande avventura umana e si esprime nella cura del singolo istante, nel rispetto di ogni creatura. Un sentimento panico di immersione nel potente mistero della natura che rivive nel libro di Dorotea Memoli Apicella, studiosa appassionata della «medichessa» celebrata in tutta l’Europa medievale per i suoi rimedi ai mali del corpo e dell’anima, Io, Trotula (Marlin 2013, ora giunto alla terza ristampa, finalista al Premio Fiuggi Storia 2014 per la sezione Romanzo storico).
Un lavoro scrupoloso di ricucitura che fa confluire nel gioco della finzione letteraria le tracce disseminate attraverso i secoli da un personaggio spinto ai margini delle cronache ufficiali - ne fu messa in dubbio l’esistenza - ed entrato nel mito. Opera di scavo sin dal titolo, da quell’Io che pone con forza la questione dell’identità e l’urgenza di riaffermare la soggettività della prima ginecologa della storia, decisa a trasformare il sapere empirico in scienza e a far breccia nel non detto che grava sulla sessualità femminile, sottomessa al patriarcato.
Il racconto procede in prima persona dall’infanzia all’amore impossibile per Edoardo il Confessore, re d’Inghilterra tra il 1042 e il 1066, fino alla consacrazione come Magistra. L’aspirazione della protagonista a uno spazio individuale di indipendenza critica si fonde con lo sviluppo di una coscienza «di genere» fondata sulla condivisione delle intime fragilità delle sue pazienti, incapaci di dare un nome a una sofferenza che, in un sistema dove il pudore diventa strumento di potere, è fisica e psicologica. Nesso che Trotula comprende in anticipo sulla modernità.
Un approccio laico e razionale, maturato nel contesto cosmopolita della Scuola medica salernitana che vede collaborare scienziati arabi, ebrei, bizantini. Una visione trasferita nei pionieristici studi di cosmetica, nell’idea della bellezza come forza liberatrice che trova nel corpo il luogo privilegiato della scoperta di sé.
Trotula femminista ante litteram ? Fedele a un progetto di massima aderenza alla verosimiglianza storica sulle orme di Jacques Le Goff, l’autrice indaga una sensibilità estranea alle tensioni rivendicative della contemporaneità, sottraendo la narrazione della maternità al piano politico del conflitto tra i sessi per riconsegnarla a un orizzonte naturale intriso di sacra devozione che lega l’immanente al trascendente in un eterno rigenerarsi. «Non è vero - si domanda Trotula - che il sole del tramonto a volte sembra quello dell’alba?».