FILOLOGIA CRITICA E STORIOGRAFIA EUROPEA. 7 DICEMBRE 2024: L’ «ANANKE» DI "NOTRE-DAME PARIS 1482" (VICTOR HUGO, 1831) E "LA FORZA DEL DESTINO" (GIUSEPPE #VERDI, 1862).
UN OMAGGIO A #PARIGI (A "NOTRE-DAME") E A #MILANO (A "LA SCALA"): #7DICEMBRE2024.
Una #citazione dall’opera di #VictorHugo: "[...] Jean lo perse di vista dietro l’enorme schienale. Per qualche minuto vide solo il suo pugno convulsamente contratto su un libro. Ad un tratto si alzò, prese un compasso, e silenziosamente incise sulla parete a lettere maiuscole questa parola greca:
«ANANKE»
«Mio fratello è pazzo», disse Jean fra sé; «sarebbe stato assai più semplice scrivere "#Fatum". Non sono tutti tenuti a conoscere il greco».
L’arcidiacono andò a sedersi sulla poltrona e posò il capo sulle mani, come fa un malato con la fronte pesante e febbricitante.
Lo studente osservava suo fratello con sorpresa. [...] Lo studente rialzò risolutamente lo sguardo. «Monsignor fratello, vi piacerebbe che vi spiegassi in buon francese quella parola greca che è scritta là sul muro?».
«Quale parola?»
«’𝛢𝛮𝛢𝛤𝛫𝛨» [«ANANKE»]
Un leggero rossore venne a diffondersi sui gialli pomelli dell’arcidiacono, come lo sbuffo di fumo che preannuncia all’esterno i segreti scotimenti di un vulcano. Lo scolaro lo notò appena.
«Ebbene, Jean», balbettò il fratello maggiore sforzandosi, «cosa vuol dire questa parola?».
«#FATALITÀ».
Don Claude si fece di nuovo pallido, e lo studente continuò con noncuranza: «E quella parola che sta sotto, incisa dalla stessa mano, «Ἀναγνέια», significa #impurità. Vedete che conosco il greco?».
L’arcidiacono rimaneva silenzioso. Quella lezione di greco l’aveva reso pensieroso. [...]" (V. #Hugo, "Notre-Dame de Paris 1482", L.VII, cap. IV).
NOTE:
"[...] Don Claude ascoltava in silenzio. All’improvviso il suo occhio infossato assunse
un’espressione astuta e penetrante a tal punto che Gringoire si sentì, per così dire, frugato
fino nel fondo dell’anima da quello sguardo.
«Benissimo, mastro Pierre, ma per quale motivo siete ora in compagnia di quella
ballerina d’Egitto?».
«In fede mia», disse Gringoire, «il fatto è che ella è mia moglie ed io sono suo
marito».
L’occhio tenebroso del prete si infiammò.
«Avresti fatto questo, miserabile?», gridò afferrando con furore il braccio di
Gringoire; «saresti stato a tal punto abbandonato da Dio da mettere le mani su quella
fanciulla?».
«Sulla mia parte di paradiso, monsignore», rispose Gringoire tremando in tutte le
sue membra, «vi giuro che non l’ho mai toccata, se è questo che vi preoccupa».
«E allora, perché parli di marito e moglie?», disse il prete.
Gringoire si affrettò a raccontargli il più succintamente possibile tutto quello che il
lettore sa già, la sua avventura della Corte dei Miracoli e il suo matrimonio con la brocca
rotta. Sembrava del resto che questo matrimonio non avesse avuto ancora alcun esito, e
che ogni sera la zingara gli rifiutasse la sua notte di nozze come il primo giorno.
«È una delusione», disse concludendo, «ma ciò deriva dal fatto che ho avuto la
sventura di sposare una vergine».
«Che volete dire?», domandò l’arcidiacono che si era andato gradatamente
calmando a quel racconto. [...]
[...] nella sua anima e nella sua coscienza il filosofo
non era molto sicuro di essere perdutamente innamorato della zingara. Amava quasi
altrettanto la capra. Era un animale incantevole, dolce, intelligente, arguto, una capra
sapiente. Niente di più comune nel Medio Evo di questi animali sapienti che suscitavano
grande meraviglia e che frequentemente conducevano al rogo i loro istruttori. Comunque
le stregonerie della capra dalle zampe dorate erano malizie molto innocenti. Gringoire le
spiegò all’arcidiacono, che sembrava vivamente interessato a questi dettagli. Nella
maggior parte dei casi, era sufficiente presentare alla capra il tamburello in un modo o in
un altro per ottenere da lei il gioco che si desiderava. Era stata addestrata a far ciò dalla
zingara, che aveva per queste finezze un talento così raro che le erano bastati due mesi per
insegnare alla capra a scrivere con delle lettere mobili la parola Phoebus.
«Phoebus?», disse il prete. «Perché Phoebus?».
«Non lo so», rispose Gringoire. «Forse è una parola che ella crede dotata di qualche
virtù magica e segreta. La ripete spesso a mezza voce quando si crede sola».
«Siete sicuro», riprese Claude con il suo sguardo penetrante, «che è soltanto una
parola e non un nome?».
«Nome di chi?» disse il poeta.
«Che ne so?», disse il prete.
«Ecco quello che immagino, messere. Questi zingari sono un po’ Ghebri e adorano il
sole. Da ciò Phoebus».
«Non mi sembra chiaro come a voi, mastro Pierre».
«Del resto non mi importa. Che borbotti il suo Phoebus quanto le piace. Di sicuro
c’è che Djali mi ama già quasi quanto ama lei». [...]
«Chi è questa Djali?».
«È la capra».
L’arcidiacono posò il mento sulla mano e sembrò per un momento pensieroso.
Tutto ad un tratto si rivolse bruscamente verso Gringoire:
«E tu mi giuri che non l’hai toccata?».
«Chi?», disse Gringoire, «la capra?».
«No, questa donna».
«Mia moglie! Vi giuro di no».
«E tu sei spesso solo con lei?».
«Tutte le sere, per un’ora buona».
Don Claude aggrottò le sopracciglia.
Il pallido volto dell’arcidiacono divenne rosso come la guancia di una fanciulla.
Restò un momento senza rispondere, poi con visibile imbarazzo:
«Ascoltate, mastro Pierre Gringoire. Non siete ancora dannato, che io sappia. Mi
interesso a voi e vi voglio bene. Ora il minimo contatto con questa egiziana del demonio vi
renderebbe vassallo di satana. Sapete che è sempre il corpo che perde l’anima. Guai a voi
se vi avvicinate a quella donna. Ecco tutto».
«Ho tentato una volta», disse Gringoire grattandosi l’orecchio. «Era il primo giorno,
ma mi ci sono punto».
«Avete avuto questa sfrontatezza, mastro Pierre?».
E la fronte del prete si rabbuiò.
«Un’altra volta», continuò il poeta sorridendo, «prima di coricarmi ho guardato
attraverso il buco della sua serratura, e ho visto la più deliziosa dama in camicia che abbia
mai fatto cigolare le cinghie di un letto sotto il suo piede nudo».
«Vattene al diavolo!», gridò il prete con uno sguardo terribile e, spingendo per le
spalle Gringoire tutto stupito, sprofondò a grandi passi sotto le più oscure arcate della
cattedrale. "(Victor Hugo - Notre Dame de Paris).