Sfida all’apocalisse
[Foto] "The Last Judgment" in the dome of Florence (iStock/JavenLin)
di Antonio Spadaro (*)
Il 9 novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino. Da quel giorno migliaia di berlinesi demolirono quel simbolo che li aveva tenuti in ostaggio per quasi trent’anni. Quella è una data emblematica del tramonto dei totalitarismi. Una nuova epoca sembrava sorgere, segnata dalla globalizzazione. Eppure essa ha oggi i tratti dell’indifferenza e del conflitto, come spesso papa Francesco ripete. A fronte di un muro crollato, nel mondo ne sono sorti tanti altri[1]. Il Pontefice, parlando a un gruppo di gesuiti, non ha usato mezzi termini: «Ci sono muri che separano persino i bambini dai genitori. Mi viene in mente Erode. E per la droga invece non ci sono muri che tengano»[2].
Quando Francesco parlò della Chiesa come «ospedale da campo dopo una battaglia», non intendeva usare una bella immagine, retoricamente efficace. Quel che aveva davanti agli occhi era uno scenario mondiale da «guerra mondiale a pezzi». La crisi globale prende varie forme e si esprime in conflitti, dazi, fili spinati, crisi migratorie, regimi che cadono, nuove alleanze minacciose e vie commerciali che aprono la strada a ricchezza, ma anche a tensioni. Si può costruire una mappa, peraltro sempre incompleta[3].
Frenare la fine: l’Impero o la Chiesa?
Quale il senso di questa storia che viviamo? Alcuni anni fa Massimo Cacciari, in un volume dal titolo Il potere che frena, indicò una strada che riteniamo interessante da percorrere. Aveva proposto una riflessione di teologia politica alla luce della Seconda lettera ai Tessalonicesi (2,6-7). Scrisse dell’enigmatica figura del katechon, cioè qualcosa o qualcuno che «trattiene» e «contiene», arrestando o frenando l’assalto dell’Anticristo[4]. In qualche modo la sua funzione è paragonabile a quella del fratello di Prometeo, Epimeteo: tramontato il sogno di progresso del quale si era fatto carico Prometeo, tocca a suo fratello governare le sorti degli umani, impedendo l’apertura dei vasi in cui sono contenuti i mali del mondo.
I Padri della Chiesa cercarono di individuare di chi parlasse Paolo e che cosa potesse frenare la fine del mondo. Fino a un certo punto, l’interpretazione prevalente fu che il katechon fosse l’Impero romano, con la sua potestas amministrativa che teneva unito il mondo. Ma questa funzione non può che pretendere per sé anche una auctoritas spirituale. Con lo sgretolamento dell’Impero, essa è passata, di fatto, alla Chiesa, che in questo senso è diventata erede dell’Impero.
Ma oggi viviamo in una dimensione globale che l’Impero romano non aveva conosciuto. Ecco allora la nostra domanda: qual è il compito della Chiesa in questo complesso scenario? Sembra che non si possa sfuggire a una alternativa tra due possibilità. La prima possibilità: annunciare la fine imminente di questo «mondo» e accelerarne per quanto possibile la conclusione. La seconda possibilità: essere «muro di contenimento», forza frenante, l’ultima difesa prima della catastrofe verso cui ci conduce il potere che domina il sistema della globalizzazione selvaggia, che governa sregolando i rapporti, garantendo immunità e sicurezza solo al denaro, rendendo arbitra la guerra. Siamo certi che non esista una terza possibilità? È quel che cercheremo di indagare.
Il compito della Chiesa davanti all’apocalisse
La Chiesa è ospedale da campo nel senso che guarisce le ferite di una guerra ormai persa, o intende rinvigorire membra fiaccate che vogliono riprendere la lotta? C’è chi in maniera militante fa leva proprio sull’accelerazione, che tende a costruire un ghetto di pochi «puri» contro gli «altri», cioè i tanti cattivi che dilagano[5].
E Francesco? Il suo ministero come romano pontefice vive dell’utopia di un mondo migliore o della tragedia di una demolizione del mondo da evitare a qualunque costo? La terra per lui è un pallone bucato a cui dare un calcio perché il male sia debellato indicando «cieli nuovi e terra nuova»? Oppure è un vaso di coccio in frantumi che va restaurato pezzo per pezzo a ogni costo con un lento lavoro di «combaciamento» dei pezzi?
Per Francesco, il compito della Chiesa non è quello di adattarsi alle dinamiche del mondo, della politica, della società per puntellarle e farle sopravvivere alla meno peggio: questo è da lui giudicato «mondanità». Tantomeno egli intende schierarsi contro il mondo, contro la politica e contro la società. Il Papa non respinge la realtà in vista di una apocalisse agognata, di una fine che vinca la malattia del mondo distruggendolo. Non spinge per portare alle estreme conseguenze la crisi del mondo predicando la fine imminente, né trattiene i pezzi di un mondo che sta crollando cercando alleanze comode, equilibrismi, collateralismi. Inoltre, non cerca di eliminare il male, perché sa che è impossibile. Semplicemente esso si sposterebbe e si manifesterebbe altrove, in altre forme. Cerca invece di neutralizzarlo. Proprio qui sta la dialettica dell’azione bergogliana. E qui sta il nodo per comprendere quale sia il suo significato. Qui il rovello.
Il ruolo globale del cattolicesimo nel contesto odierno
È dunque per questo che, sotto il profilo diplomatico, Francesco si assume la responsabilità di posizioni rischiose. La tradizionale cautela diplomatica si sposa con l’esercizio della parresia, fatta di chiarezza e talvolta di denuncia. Le prese di posizione contro il capitalismo finanziario speculativo, il costante riferimento alla tragedia dei migranti, «vero nodo politico globale»[6], la memoria del «genocidio» armeno, la ulteriore formalizzazione dei rapporti con la Palestina. Gli echi persistenti che hanno generato sono quelli che provengono da una «voce che grida nel deserto», per citare Isaia, il profeta biblico. E il Papa della misericordia non esita a gridare «maledetti», durante una Messa a Santa Marta, a coloro che fomentano le guerre e lucrano su di esse.
Francesco si confronta con il nuovo ruolo globale del cattolicesimo nel contesto odierno. E in questo contesto la sua è e vuole essere essenzialmente una visione spirituale ed evangelica dei rapporti internazionali. Persino quando parla di diplomazia, come ha fatto in un suo incontro privato il 3 maggio 2018 nell’Accademia ecclesiastica, afferma una «diplomazia delle ginocchia», cioè radicata e fondata nella preghiera.
Tutto sta nell’alternativa descritta all’inizio. Se Francesco volesse trattenere il collasso, non potrebbe che far leva sulla legge, sul potere costituito, sulla mediazione tra Stato e Chiesa, sulle regole che permettono al sistema di sostenersi, fino al collateralismo. Se volesse invece accelerare i cieli nuovi e la terra nuova, non avrebbe altra scelta che lavorare di piccone, di denuncia, di disarticolazione di ciò che tiene in piedi il potere e dunque il mondo così come si va configurando.
Da qui il conflitto delle interpretazioni. Chi attacca Francesco lo fa perché lo accusa di venire a patti con il «mondo». E d’altra parte egli piccona l’establishment - sia mondano sia ecclesiastico, il che poi è lo stesso - e snocciola persino l’elenco delle malattie dalle quali è affetto. Chi elogia Francesco lo fa perché lo sente sensibile misericordiosamente alla realtà del mondo in maniera da sospendere persino il giudizio. E d’altra parte il Papa dice con veemenza - lo ha fatto durante la sua visita a Napoli - che la corruzione «spuzza» e non usa mezze misure nella denuncia.
C’è un criterio profondamente spirituale che non bisogna mai perdere di vista. È quello che spinge Gesù ad accogliere la peccatrice e a buttare per aria i banchetti dei commercianti davanti al tempio. Il criterio è lo stesso Gesù. C’è chi, vedendo i due gesti, li considera contraddittori perché - per rigorismo o lassismo - non ha inteso il Vangelo di Cristo.
Occuparsi della politica internazionale di Francesco significa immergersi in una visione spirituale che si nutre di un profondo senso della catastrofe possibile e delle forze del male in azione, e nello stesso tempo di una fiducia unica nel mistero di Dio che porta ad accettare i piccoli passi, i processi, l’autorità mondana, i colloqui, le trattative, i tempi lunghi, le mediazioni[7].
Ma questa accettazione si fonda sulla coscienza che il mondo non è diviso tra bene e male, tra i buoni e i cattivi. La scelta non è il discernimento delle forze (partitiche, politiche, militari...) con cui allearsi e da sostenere per far trionfare il bene. Questa accettazione della conversazione diplomatica si fonda sulla certezza che non si dà a questo mondo l’impero del bene. Per questo bisogna dialogare con tutti. Il potere mondano è definitivamente desacralizzato. Se chi fa il politico è chiamato a farsi «santo» proprio facendo il politico, operando per il bene comune, d’altra parte nessun potere politico è «sacro».
In tal senso Francesco confida tutto e solo nel futuro escatologico, confida in Dio solo. Ma è proprio questo che lo spinge a mettere in atto ogni possibile sforzo per puntare sull’«integrazione», su tutto ciò che - mettendo da parte ogni falsa illusione di «sacro impero» - porta gli uomini sulla strada del bene, pur in mezzo alle tentazioni di questo mondo. Proprio per questo nessuno è il «cattivo», cioè l’incarnazione del demonio. E questo è scandaloso perché lascia aperta una porta (a volte davvero stretta, ma aperta comunque) anche in situazioni politicamente problematiche.
Contro la tentazione di un cattolicesimo tribale
L’energia che lo porta a frenare la caduta del mondo nel baratro dunque non spinge il Pontefice al compromesso con i poteri. Questo è il punto più delicato del ragionamento, perché a volte la Chiesa crede che l’unico modo di poter frenare la decadenza sia quello di allearsi con un partito politico che ne permetta la sopravvivenza come agenzia di senso. È stato spesso il dramma della nostra Italia. E le nostalgie non sono ancora spente. Bergoglio invece non crede a questo potere del potere. Il sacro non è mai puntello del potere. Il potere non è mai puntello del sacro.
Il discorso alto proprio del pontificato allora sposa tanto i temi dell’uguaglianza, della necessità di «terra, casa e lavoro», quanto quelli legati alla libertà. Il «relativismo» viene svelato adesso ancora di più nei suoi aspetti sociali devastanti. L’appello alla «lotta» contro la dittatura del relativismo tocca il cuore della dignità umana, che resta indifesa e inerme senza terra, casa e lavoro. E questo non perché Francesco immagini il paradiso in terra: il suo non è un utopismo mondano. Ma perché il suo è uno sguardo di fede, che si fonda sul Giudizio finale così come il Vangelo delle Beatitudini ce lo presenta.
A questo proposito, un ambasciatore ha notato che «il linguaggio di Benedetto XVI era quello della modernità occidentale, che da una parte riconosceva il pluralismo delle visioni del mondo nella società contemporanea, dall’altra denunciava la “dittatura del relativismo”. Il linguaggio di Francesco, pur guardando in faccia le molte sfide della modernità culturale, al contempo considera prevalente il processo di polarizzazione sociale ed economico che si va dipanando su scala globale, con una progressione incalzante e un’intensità crescente»[8].
Cade, a questo punto, la contrapposizione tra laico e cristiano, intesi come categorie ideologiche, campi semantici e riferimenti astratti. Lo Spirito è incontenibile. Il pensiero «cristiano» si oppone di per sé a un pensiero «laico» solo se si è mutato in ideologia. Ma se esso stesso diventa ideologia non ha più nulla a che fare con Cristo.
In realtà - ha detto il Papa in Egitto[9] - cadono tutte le contrapposizioni irrigidite dalla polvere dei tempi. La vera sapienza è «aperta e in movimento, umile e indagatrice al tempo stesso». Non c’è che una sola contrapposizione: o la «civiltà dell’incontro» o l’«inciviltà dello scontro». E le religioni? «La luce policromatica delle religioni ha illuminato questa terra». La policromia non contrappone i colori mettendoli in antitesi, ma li assume in una visione non conflittuale. In fondo è questo il grande problema oggi: si vive molto spesso la diversità in termini conflittuali.
Nel suo discorso per la pubblicazione del fascicolo 4000 de La Civiltà Cattolica Francesco affermava: «Fate conoscere qual è il significato della “civiltà” cattolica, ma pure fate conoscere ai cattolici che Dio è al lavoro anche fuori dai confini della Chiesa, in ogni vera “civiltà”, col soffio dello Spirito». E poco prima, nello stesso discorso, aveva detto che «la cultura viva tende ad aprire, a integrare, a moltiplicare, a condividere, a dialogare, a dare e a ricevere all’interno di un popolo e con gli altri popoli con cui entra in rapporto»[10].
La cultura per Bergoglio ha valore di verbo più che di sostantivo. Solo i verbi la esprimono bene. In particolare: aprire, integrare, moltiplicare, condividere, dialogare, dare e ricevere. Sette verbi flessibili al passato, presente e futuro. Sette verbi che possono indicare o invitare o esprimere un imperativo che muove all’azione[11]. Il primo è «aprire».
È lontana dal Papa l’idea di un populismo cattolico o - peggio ancora - un etnicismo cattolico, perché il Dio che lui cerca è dovunque. È ben lontana qui l’idea di un «tribalismo» che si appropria del libro dei Vangeli o del simbolo stesso della croce. Le nozioni di radici e di identità non hanno il medesimo contenuto per il cattolico e per l’identitario neo-pagano. Le radici etniche, trionfaliste, arroganti e vendicative sono semplicemente il contrario del cristianesimo.
La terza guerra mondiale non è un destino. Evitarla implica usare misericordia e significa sottrarsi alle narrazioni fondamentaliste e apocalittiche abbigliate di paludamenti e maschere religiose. Francesco lancia una sfida all’apocalisse e al pensiero di networks politici che sostengono una geopolitica apocalittica dello scontro finale, fatale e inevitabile. La comunità dei credenti, della fede (faith), non è mai la comunità dei combattenti, della battaglia (fight).
Occorre fuggire la tentazione trasversale di proiettare la divinità sul potere politico che se ne riveste per i propri fini. Si svuota così dall’interno la macchina narrativa dei millenarismi settari che preparano all’apocalisse e allo «scontro finale». La sottolineatura della misericordia come attributo fondamentale di Dio esprime questa esigenza radicalmente cristiana.
Per questo Francesco sta svolgendo una sistematica contro-narrazione rispetto alla narrativa della paura. Occorre, dunque, combattere contro la manipolazione di questa stagione dell’ansia e dell’insicurezza. E pure per questo, coraggiosamente, il Papa non dà alcuna legittimazione teologico-politica ai terroristi, evitando, ad esempio, ogni riduzione dell’islam al terrorismo islamista. E non la dà neanche a coloro che postulano e che vogliono una «guerra santa» o che costruiscono barriere di filo spinato proprio con la scusa di frenare l’apocalisse e di porvi un argine fisico e simbolico allo scopo di ripristinare un «ordine». L’unico filo spinato per il cristiano, infatti, è quello della corona di spine che Cristo ha in capo.