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Realtà e dignità...

ITALIA: NAPOLI .... UN GIUDIZIO SU "GOMORRA", IL LAVORO-RACCONTO DI ROBERTO SAVIANO.

martedì 11 luglio 2006 di Federico La Sala
(...) Siamo assediati da narratori convinti che il mondo ormai coincide con un immaginario mediatico privo di senso, privo di ogni rintracciabile verità. è una letteratura della fuga, che si nasconde dietro il paravento dell’irrealtà per alzare bandiera bianca. Cresce una generazione di scrittori arresi. Scrittori che hanno smesso di giudicare perché uno stuolo di pessimi maestri ha insegnato loro che avere un punto di vista sulla realtà storica è sommamente disdicevole, che non si può (...)

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sabato 26 agosto 2006

Aporie, conflitti e prospettive sotto l’ombra del Vesuvio

La contrapposizione tra la Napoli “lazzara” e “illuminata” e l’ossessione della politica per il “centro”. Sei filosofi lanciano la provocazione: per emanciparsi la città ha bisogno di riscoprire la sua ”porosità“ con un governo di transiti e scambi

di Vincenzo Cuomo (Liberazione.it, 01.08.2006)

Aporie napoletane è il titolo del volume appena pubblicato dalla casa editrice Cronopio (Napoli, pp. 202, euro 15) che raccoglie sei provocazioni “filosofiche” che scommettono sulla possibile emancipazione politica e sociale di Napoli. Si tratta di un testo coraggioso che espone da un lato le contraddizioni della grande città mediterranea in crisi, dall’altro sottopone a critica frontale e definitiva l’abusata ideologia delle “due città”, quella “lazzara” e quella “illuminata”, che, secondo una interpretazione che parte da Vincenzo Cuoco e arriva fino a Giorgio Bocca, si contrapporrebbero da sempre nella storia napoletana, segnandone il carattere. La stessa politica del centro-sinistra, che governa la città dal 1993, non solo non è stata capace di discostarsi da tale approccio interpretativo ma lo ha definitivamente sposato e portato alle sue estreme conseguenze. Si è quindi costruita, come rileva Maurizio Zanardi nel saggio introduttivo, una città musealizzata e anti-porosa ossessionata dal suo “centro” e incapace di progettare una rottura col suo destino di lenta periferizzazione rispetto alle correnti dell’economia globale. Non a caso, una delle novità della politica del centro-sinistra a Napoli è stata «la promozione dell’arte contemporanea come elemento dell’arte di governo». Ma ciò ha finito per musealizzarne il centro storico rendendolo di fatto impermeabile al resto, caotico, della metropoli. La caratteristica “porosità” che Walter Benjamin trovava nella Napoli degli anni Venti dello scorso secolo, sembra così bloccata o forse addirittura cancellata.

Tuttavia, tutti i saggi del volume, al di là della diversità degli approcci e anche delle prospettive ultime di soluzione, scommettono sulla necessità di (ri) attivare la porosità di Napoli attraverso una politica e un governo dei passaggi, dei transiti, degli scambi. La porosità di Napoli non può essere oltrepassata; è essa la vera “aporia” da cui forse ripartire per una politica di emancipazione.

Certo, la situazione in cui versa la vita della città non sembrerebbe dare molte speranze. Come scrive Gianfranco Borrelli nel suo saggio, «la città di Napoli consiste delle trame contraddittorie di parti poste nelle condizioni di permanenti e profondi conflitti, che attraversano gli individui, i gruppi, i ceti e le agglomerazioni sociali». E tale irrimediabile antagonismo intestino, che regna a Napoli da secoli, ha reso impossibile la mediazione politica democratica tra gli interessi e i gruppi e ha portato, nel migliore dei casi, all’istaurarsi di ciò che Machiavelli «avrebbe denominato principato civile: centralità della funzione esecutiva del governo, che conquista l’ampio appoggio popolare, attraverso l’esaltazione del potere di intervento personale (magari sostenuto da un partito organizzato a tal fine)».

Con un implicito riferimento anche a tale ingovernabilità dei micro-conflitti che percorrono il corpo della città, Bruno Moroncini, nel suo saggio, utilizzando in chiave politica alcuni strumenti concettuali lacaniani, descrive la città di Napoli come tradizionalmente solcata da una opposizione tra il Reale ed l’Immaginario: da un lato la storia di Napoli è segnata da un periodico manifestarsi del ribellismo e dalla violenza della “plebe”, dall’altro, per opposizione, è caratterizzata dal prodursi di un discorso esorcizzante immaginario che definisce il mito della Napoli della Cultura e dell’Arte. Sulla base di tale opposizione tra il Reale della plebe e l’Immaginario della cultura si è potuto tradizionalmente parlare, da Vincenzo Cuoco in poi, dell’opposizione tra le “due città”, tra quella formata da una plebe incolta e spesso in preda a pulsioni distruttive e auto-distruttive e quella formata da una élite borghese colta e attratta da modelli culturali nord-europei e distanti.

Ma per Moroncini (e per gli altri saggisti) si tratta di sottoporre ad una critica radicale la teoria delle “due città” cominciando a riflettere seriamente proprio sulla quella opposizione tra Reale ed Immaginario (in carenza di mediazione “simboliche”) che sembrerebbe una costante della storia napoletana. Il vero problema, egli scrive, è che Napoli appare priva di “soggetti” che siano in grado di “simbolizzare” il disagio, la sofferenza, il non essere. Napoli è paradossalmente priva di “sintomi” che siano in grado di “parlare” e, quindi, di soggettivizzare il dolore: «Napoli è una struttura priva di soggetti e perciò non cambia. A Napoli non si formano sintomi e quindi soggettività, a Napoli dominano l’Immaginario e il ritorno periodico del Reale. A Napoli il legame si scioglie; ma non per formarne un altro, più complesso e articolato. Si scioglie e basta». In effetti, ciò che è mancato e ciò che ancora manca a Napoli è la capacità di “lavorare” il Reale con il Simbolico e non solo di esorcizzarlo con l’Immaginario. Infatti, il Reale «si soggettiva, si trasforma in sintomo, solo se entra nell’articolazione simbolica». E solo l’articolazione simbolica potrà istaurare e governare ad un tempo la “porosità” perduta, ma ineludibile, di questa città.

Di articolazione simbolica mancata e/o bloccata trattano anche i saggi di Arturo Martone e di Pierandrea Amato. Quest’ultimo sviluppa una serrata critica all’ideologia e al progetto politico sottesi all’impianto urbanistico napoletano, tutto fondato sulla contrapposizione tra il “centro storico” e il resto della metropoli. Tale contrapposizione è quel che genera un continuo conflitto urbano «tra la visibilità permanente del centro, il suo aver luogo continuamente ridefinito mediante una prestazione retorica che ne esalta le manifestazioni, e l’altro, lo spazio oltre la città, la metropoli che apparentemente esiste solo nelle note a margine dei discorsi centrali, sito senza materia se non per chi lo abita». Anche per Amato, quindi, a Napoli ci si trova di fronte ad una carenza di transiti e di scambi simbolici - in questo caso soprattutto urbanistici - che bloccano la vita della città impedendone la porosità. La soluzione al conflitto tra il centro iper-visibile della città e l’immensità invisibile e caotica della restante metropoli - conflitto che non riesce, per quanto detto, neanche a farsi “politico” - è individuata da Amato in una possibile metamorfosi urbana che parta dalla “decollazione” del centro, anche perché «decollarne il centro è l’opportunità di non fare del nucleo storico una scena del consumo turistico e dell’esclusione di chi non consuma». Ma decollare il centro significa anche, a suo parere, ricreare in esso degli spazi vuoti senza memoria, non musealizzati (come è accaduto per piazza Plebiscito), in cui possano crearsi e ricrearsi i transiti e i passaggi simbolici negati dallo sviluppo “centripeto” e museale della città.

Ma la questione di Napoli non può essere risolta solo guardando a Napoli. Infatti, per Giuseppe Antonio Di Marco, che rilegge, con gli strumenti concettuali marxisti, la storia della città all’interno del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo nel meridione italiano, la crisi politica e sociale di Napoli va ricercata nelle trasformazioni interne all’economia globale nel passaggio epocale tra fordismo e post-fordismo. Per tale ragione il carattere di facciata che ha finito per assumere il cosiddetto “rinascimento napoletano” di Bassolino, non ha, a suo parere, motivazioni semplicemente politologiche o etiche ma «ha la sua radice in nessi strutturali molto più forti, in quella crisi del processo fordista». Come per ricordare che le trasformazioni sono sovra-determinate e che la risposta alla crisi di Napoli deve passare necessariamente anche da una rinnovata capacità di guardare politicamente Napoli a partire dal mondo (e non più solo il mondo a partire da Napoli).


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