“Gomorra” o la verità della parola
di Costantino Cossu*
Il porto. Sta dentro la città, non è città. Luogo separato. Separatezza che pulsa come un cuore. Lì più che altrove si comprende. Da lì bisogna cominciare. Dal porto di Napoli si apre il racconto, come se si sbarcasse in una terra che si vede per la prima volta. Solo così lo sguardo può diventare parola, narrazione. “Gomorra” di Roberto Saviano (Mondadori) solo incidentalmente parla di camorra. La delinquenza organizzata è una figura dell’atroce ansia di dominio che anima un mondo ben più vasto, nello spazio e nel tempo, di Scampia e di Secondigliano.
Nel porto entrano le merci: “Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli”. “Napoli è circoscritta da muraglie di merci. Mura che non difendono la città, ma al contrario la città difende le mura”. Senza quelle mura fatte di merci la città semplicemente non esisterebbe. Racconta, Saviano, di come le merci entrano nel porto. In silenzio e velocemente. Tutto deve avvenire nel minore tempo possibile e lasciando meno tracce possibile. Migliaia di container scaricati sulle banchine, camion che escono dopo controlli veloci. La registrazione alla dogana non dice quasi nulla di ciò che effettivamente accade. L’ordine si fonda sull’omissione. Il dominio si regge sul silenzio.
Questo s’impara nel reticolo senza forma del porto. Le merci impongono il loro ordine, ma lo fanno discretamente, senza clamore, in fretta. Un ordine non gridato, semmai sussurrato. Come le voci dei commercianti cinesi. Uomini fantasma, gente che non devi vedere, presenze che non devi notare. Portare alla luce significa mettere tutto in pericolo, c’è il rischio che le regole saltino. “Euro, dollaro, yuan. Ecco la mia triade”. Triade come malavita organizzata? Xian Zhu, l’imprenditore cinese di Saviano, dice che il gioco è più largo, che l’orizzonte di senso dentro il quale stanno i boss che sparano e che uccidono è più vasto. “Nessuna ideologia, nessuna sorta di simbolo e di passione gerarchica. Profitto, business, capitale. Null’altro. Si tende a considerare oscuro il potere che determina certe dinamiche e allora lo si ascrive a un’entità oscura: mafia cinese. Una sintesi che tende a scacciare tutti i termini intermedi, tutti i passaggi finanziari, tutte le qualità d’investimento, tutto ciò che fa la forza di un gruppo economico criminale”.
“Gomorra” dentro tutti i passaggi intermedi, invece, entra, con l’esattezza di un reportage giornalistico che cita nomi, spiega logiche, descrive mappe di alleanze, ragiona sulle cause di conflitto tra bande concorrenti. Nessuno meglio di Saviano ha fatto sinora questo lavoro. Per avere informazioni altrettanto dettagliate l’unico modo possibile è andarsi a leggere gli atti delle inchieste della magistratura napoletana sugli ultimi vent’anni di camorra.
Si scoprono, leggendo “Gomorra”, i nessi che legano l’economia legale con quella illegale, si vede l’ intreccio che tiene insieme l’economia assistita di tanta parte del Sud d’Italia con la produzione di reddito garantita dalle attività illegali, si tocca con un’ evidenza estrema la continuità tra un sistema di valori tradizionali, contaminato e corrotto dal contagio televisivo e mass mediatico, e il codice di significati che muove l’azione degli affiliati alle organizzazioni malavitose. Lavoro prezioso, nel quale però non si esaurisce affatto il libro di Saviano. “Gomorra” ha altri due livelli di lettura, che ne fanno qualcosa in più, differente da un reportage sulla camorra e sul suo impero economico.
Al primo dei due livelli abbiamo già accennato. Il libro di Saviano dice di una genealogia: “Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli”. Passa, dal lembo di terra che separa l’indefinito del mare dalla struttura della città, non la spiegazione di cos’è la camorra (non solo), ma la spiegazione di cos’è l’universo di senso dentro il quale sta la camorra. Lo slittamento spaziale e temporale, rispetto a Napoli e alle sue periferie, è evidente. “Davanti agli dèi si afferma soltanto chi si sottomette senza residui. L’emergere del soggetto è pagato con il riconoscimento del potere come principio di tutti i rapporti. Di fronte all’unità di questa ragione la divisione tra dio e umano appare davvero irrilevante. Come signori della natura, dio creatore e spirito ordinatore si assomigliano. La somiglianza dell’uomo con Dio consiste nella sovranità sull’esistente, nello sguardo padronale, nel comando”. Ci si scuserà questa lunga citazione dalla “Dialettica dell’illuminismo” di Horkheimer e Adorno, ma essa ci è venuta alla mente appena abbiamo aperto “Gomorra”, appena abbiamo letto le parole di Hannah Arendt messe in epigrafe: “Comprendere cosa significa l’atroce, non negarne l’esistenza”.
Comprendere cosa significa l’atroce significa andare ben oltre Napoli e i suoi boss. Saviano è stato capace di farlo. Partendo da uno sguardo in qualche modo originario, uno sguardo che fissa il mostro e ne coglie la verità. Il mostro non è la camorra. è una cultura che, dalle mitologie omeriche sino al razionalismo e allo scientismo, fonda sulla separazione dell’umano dal resto del reale l’inveramento, nella concreta prassi storica, di rapporti diseguali tra gli individui e tra genere umano e natura.
Qui sta la radice dell’atroce, una radice culturale che ha alimentato di sé un intero percorso di “civilizzazione”. Le maschere di Ciruzzo ’o milionario, di ’O scellone, di Punt’e curtiello nascondono, e insieme svelano, un universo di codici comune, la norma di tutte le norme, il “riconoscimento del potere come principio di tutti i rapporti”. Le maschere della tragedia napoletana non sono diverse dall’atroce shakespeariano, Carmine Alfieri ’O ’ntufato è parente strettissimo di Re Lear. Ecco perché, chiudendo il libro di Saviano, si ha la percezione di essere andati molto aldilà di un semplice percorso di conoscenza dei termini sociologici del fenomeno camorra. “
Gomorra” disegna uno scenario tragico, ha della tragedia la potenza esplicativa totale. Una schiera foltissima di personaggi viene adunata da Saviano sul palcoscenico della rappresentazione. I capi e le capesse dei clan, i gregari, i pentiti, la gente dei vicoli del ventre molle di Napoli, i giovani. Due parole bisognerà spenderle per i ragazzi di Napoli, sin dalla nascita gettati dentro - tanti almeno di loro - a un mondo che non prevede vie di fuga. L’“emergere del soggetto”, l’individuo astratto principio e termine di ogni cosa, si traduce, nelle loro vite, in un vuoto pressoché assoluto di socialità. Ogni rapporto, d’amicizia, d’amore, diventa funzionale all’affermazione di un sé che si misura solamente in termini di dominio, il possesso funzionale al dominio. Il fatto che tutto questo prenda le forme di una sottocultura criminale è del tutto secondario. è contenuto. Ciò di cui “Gomorra” ci parla è il contenitore. Il grande atroce modello storico di una ragione senza più corpi, senza più natura.
Un altro testo che ha cominciato a suonarci nelle orecchie non appena iniziata la lettura di “Gomorra” è “Il mare non bagna Napoli”. Quant’è costato a Anna Maria Ortese aver detto che Napoli era figura di un orrore ben più grande dei confini della città, oggi lo sappiamo. Lei diceva quand’era difficile capire. Lo sguardo della Ortese è simile a quello di Saviano. Uno sguardo che non giudica niente di ciò che guarda, e però insieme giudica tutto. Giudica andando oltre. Oltre Napoli, oltre le convulsioni di una civiltà nella sua fase estrema. Giudica intera una civiltà. E se ci è concesso di proseguire nel gioco dei rimandi, ad altri due indagatori di tracce profonde ci ha richiamato “Gomorra”: Ottiero Ottieri e Paolo Volponi. “Donnarumma all’assalto”, “L’irrealtà quotidiana”, “Corporale” e “Le mosche del capitale” sono testi che raccontano l’oggi svelando dentro il presente la persistenza dell’onda lunga di una cultura, di un codice, che comincia ben prima dello stesso pensiero borghese, per tornare a Horkheimer. Testi che dicono, come quello di Saviano, di una genealogia.
“Gomorra”, quindi, giudica. Vorremmo sottolinearlo questo verbo, giudicare. Scrivere come in un giudizio. Sta qui il terzo livello di lettura del testo di Saviano. Citiamo: “Io ho le prove. Io so cosa trasuda il profitto. Io so. E la verità della parola non fa prigionieri perché tutto divora e di tutto fa prova. E non deve trascinare controprove e imbastire istruttorie. Osserva, soppesa, guarda, ascolta. Sa. Non condanna in nessun gabbio e i testimoni non ritrattano... Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio, brutta parola, che ancora può valere quando sussurra ‘è falso’ all’orecchio di chi ascolta le cantilene in rima baciata dei meccanismi di potere. La verità è parziale, in fondo se fosse riducibile a formula oggettiva sarebbe chimica. Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità”.
Siamo assediati da narratori convinti che il mondo ormai coincide con un immaginario mediatico privo di senso, privo di ogni rintracciabile verità. è una letteratura della fuga, che si nasconde dietro il paravento dell’irrealtà per alzare bandiera bianca. Cresce una generazione di scrittori arresi. Scrittori che hanno smesso di giudicare perché uno stuolo di pessimi maestri ha insegnato loro che avere un punto di vista sulla realtà storica è sommamente disdicevole, che non si può fare letteratura se si ha la pretesa di giudicare.
Quell’“io so e ho le prove” che evoca Pasolini è detto da un giovane scrittore non arreso che pur nella sua fragilità crede nella “verità della parola”. Dove “verità della parola” non sta solo per possibilità di seguire il tracciato dato da un ordine del discorso unico e pervasivo, come in chi scrive secondo quanto editor comandano. “Verità della parola” sta nella possibilità di interrogare il reale in nome di qualcosa che al reale non si ferma, lo eccede, lo nega. Saviano sta dentro un filone che della letteratura fa il campo della nostalgia del totalmente altro. L’unica letteratura che non si sia venduta e che con la verità - questa parola scivolosa che fa paura agli arresi - conservi ancora un rapporto.
Lo Straniero, n. 73. luglio 2006
De Magistris: "Presto Saviano libero a Napoli Pasquino presidente dell’assemblea"
Il candidato dell’Idv risponde così alle dichiarazioni di sostegno dell’autore di Gomorra. "Saviano deve essere uno dei protagonisti del cambiamento di Napoli". E poi lancia la proposta al rettore di Salerno, sconfitto al primo turno delle elezioni a sindaco *
"Voglio creare le condizioni perchè Saviano possa tornare liberamente a Napoli". Con questa promessa Luigi de Magistris risponde a l’autore di Gomorra che ha dichiarato di voler sostenere l’ex magistrato al ballottaggio di domenica. "Saviano ha avuto il coraggio di portare il tema dei rapporti tra camorra e politica fuori dai confini nazionali - piega il candidato Idv - e lui deve essere uno dei protagonisti del cambiamento che vuole Napoli".
Per questo, fa sapere di essere intenzionato a "organizzare una passeggiata con Saviano e i giovani di Napoli". De Magistris aggiunge: "Mi è piaciuta l’espressione che ha usato ’Liberare Napoli’. E’ la stessa che ho utilizzato io in campagna elettorale". Oggi, per l’ex pm, è il giorno dell’incontro con i giovani sulle scale dell’Università di Napoli Federico II, in corso Umberto. Anche stavolta prende il megafono e parla ai ragazzi. "Adotta un astenuto e portalo a votare", dice. Gli studenti intonano il coro "Sindaco, sindaco".
Poi, il candidato di centrosinistra, riprende a parlare e sottolinea di "voler creare le condizioni" per evitare la fuga dei cervelli. "Da europarlamentare - spiega De Magistris - ho incontrato troppi ragazzi che sono andati via perchè qui non c’è lavoro".
"Credo che Pasquino possa essere un ottimo presidente del Consiglio e quando sarò sindaco voglio lui in questo ruolo". Lo ha detto Luigi de Magistris, candidato sindaco di Napoli, parlando del rettore dell’Università di Salerno Raimondo Pasquino, candidato sindaco del Terzo polo escluso dai ballottaggi. " una persona che ho imparato ad apprezzare in campagna elettorale per il suo stile - ha affermato a margine di un incontro con i giovani - così come ho apprezzato il suo annuncio di voler rimanere in Consiglio comunale".
* la Repubblica, 26 maggio 2011
La denuncia di Saviano: circondato dall’odio per le mie parole
Vado via perché voglio scrivere ed ho bisogno di stare nella realtà
"Io, prigioniero di Gomorra
lascio l’Italia per riavere una vita"
di GIUSEPPE D’AVANZO *
ANDRO’ via dall’Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà...", dice Roberto Saviano. "Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. ’Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l’odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me".
La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d’animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un’imprevedibile popolarità, dall’odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall’invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo. "Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all’anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, "usarmi". E’ come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell’attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell’energia sociale che - come un’esplosione, come un sisma - ha imposto all’agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila. E’ la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più, come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan, Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini? Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono.... I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E’ una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?". Piacciono poco, da noi, i martiri. Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi, diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna. Capita anche in queste ore, qui e lì. E’ poca, inutile cosa però chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più? O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare, prima di Natale, con il tritolo lungo l’autostrada Napoli-Roma o se gli assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l’esplosivo e i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie delle polizie sia certa o soltanto probabile. E’ poca e inutile cosa, dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno Roberto Saviano. Dovesse essere l’ultimo sangue che versano. Sono ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e devono dimostrare l’inesorabilità del loro dominio. Devono poter provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai "sudditi" che nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte.
Lo sento addosso come un cattivo odore l’odio che mi circonda. Non è necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga sulle mura di Casale di Principe: "Saviano è un uomo di merda". Nessuno da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l’onore delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: "Saviano è un ricchione". No, dicono, si è arricchito. Quell’infame ci ha messo sulla bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura dell’esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell’infame ha scritto il libro. E quest’argomento mette insieme la parte sana e quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi, l’intera comunità può liberarsi della malattia che l’affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell’inciviltà e dell’impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo, hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende sarà per loro una sconfitta. E’ il peso delle parole che ha messo in movimento le coscienze, la pubblica opinione, l’informazione. Negli anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano - ne ammazzarono cinque - finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Non pensavo che potessimo giungere a questo. Non pensavo che un libro - soltanto un libro - potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là della mia voglia. L’ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York. Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se avessi una famiglia, se avessi dei figli - come li hanno i miei "angeli custodi", ognuno di loro non ne ha meno di tre - avrei un altro equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo - lo so - ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via dopo quest’ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi hanno solo detto: "Robe’, tranquillo, ché non ci faremo fottere da quelli là"".
A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla? Il destino di Saviano - quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà il luogo dove sceglierà, "per il momento", di scrivere per noi le sue parole necessarie - sono sempre di più un affare della democrazia italiana.
La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in un’area d’indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti.
* la Repubblica, 15 ottobre 2008
L’opera prima del giornalista-reporter Roberto Saviano nella sezione "non fiction"
"Un potente reportage nel violento impero della criminalità organizzata napoletana"
Il New York Times incorona "Gomorra"
tra i migliori cento libri del 2007
NEW YORK - Roberto Saviano si è conquistato un posto nell’Olimpo degli autori stilato dal New York Times. Il prestigioso quotidiano ha infatti inserito Gomorra (edito negli Stati Uniti da Farrar, Straus & Giroux con il titolo Gomorrah) nell’elenco dei cento migliori libri del 2007 nella sezione "non fiction".
Il libro di Saviano appare nell’elenco dei "100 notable books of 2007", stilato ogni anno dal New York Times, accanto a biografie, saggi, studi storici rigorosamente in ordine alfabetico, ognuno con due righe di motivazione e il titolo linkato alla recensione. "Un viaggio personale nel violento impero internazionale della criminalità organizzata napoletana" si legge nella motivazione di Gomorra, "un potente reportage che alla sua uscita ha scatenato un dibatto in Italia". La recensione, assicura il quotidiano, sarà pubblicata domani nelle pagine culturali, mentre la sintesi dell’annata, ossia i migliroi dieci del 2007, saranno resi noti sul sito il prossimo 28 novembre.
L’opera prima del giornalista-reporter, caso letterario dell’anno, testimonianza di una realtà spietata e durissima, è intanto diventato uno spettacolo teatrale che arriverà presto a Roma, al teatro Valle dal 27 novembre all’8 dicembre.
* la Repubblica, 22 novembre 2007.
Vi dico da che parte sto
di Roberto Saviano *
Ad un certo punto mi sono reso conto, forse perché vivevo una realtà complicata che la parola doveva fare altro, doveva tornare ad essere necessaria. Necessaria significa andare oltre quelle che sono le rappresentazioni delle cose. I media raccontano ad una velocità impressionante tutto ciò che accade; non c’è più bisogno quindi della parola del cronista, ma della parola letteraria, quella che entra nella ferita della ragione. La ragione è una ferita, andarci dentro è il compito. Ecco, la letteratura può fare ancora questo, perché nell’iper-rappresentazione continua, bulimica, di tutto ciò che accade, in una rappresentazione non soltanto fasulla come quella dei talk show, ma spesso anche disciplinata, come quella realizzata da alcuni reporter coraggiosi, la cronaca non basta. Tutto questo non basta, tutto questo mostra quello che è, ma la scrittura letteraria deve andare oltre, deve capire la struttura molecolare, il fegato delle cose, capire dove stiamo andando. Ad un certo punto capisci che la scrittura, in questo senso, può rovinare quello che racconta, può rovinare la vita di quel delirante autore che decide di raccontarla, può rovinarla perché la scrittura quando non ti rovina la vita, tutto sommato è una scrittura innocua.
Personalmente detesto le scritture innocue. La scrittura invece rovina la vita nel senso che ad un certo punto la scrittura diventa un unico perenne tradimento. Tradimento di tutto, perché nel momento in cui decidi di raccontare quello che per te è la verità, la tua versione delle cose, significa che stai svelando, danneggiando, infangando, rovinando, congetturando. Nel momento in cui la scrittura si prende la libertà di poter vaticinare, raccontare tutto, non aver più rispetto per nulla - perché il rispetto nello scrivere è distanza, è tutto sommato un limite, un vincolo che lo scrittore non può avere - ti accorgi che tu sei andato oltre, che hai raccontato il volto delle cose, che le hai raccontate con nome e cognome - come William Langewiesche ha raccontato i pompieri che nelle Torri Gemelle rubavano 100 paia di jeans e li andavano a vendere di contrabbando, distruggendo così l’immagine da eroi che avevano e trasformandoli all’improvviso in banditi (...)
Io cito sempre, in maniera forse anche ossessiva, l’episodio di don Peppino Diana, il parroco ucciso a Casal di Principe dalla camorra, che lui stesso prendeva da don Tonino Bello, il quale in un’omelia, ad un funerale, disse: «A me non importa sapere chi è Dio, a me importa sapere da che parte sta». Questa frase è diventata per me una sorta di manifesto anche letterario, perché gli scrittori sempre meno mostrano da che parte stanno (...)
La scrittura, tutto sommato, credo che sia questa possibilità di rendere chiara la dannazione, il vivere condizioni in cui l’umanità è sospesa ed è possibile raccontarla soltanto se gli scrittori si rendono conto che è finito il tempo della scrittura d’evasione - se mai c’è stato - quando si tratta di raccontare il meccanismo del reale. Ovviamente sto parlando di un preciso percorso letterario che per fortuna non è tutta la letteratura. La letteratura che in questo momento sento mordermi alle budella è quella che smette di raccontarsi e inizia a raccontare, a strappare la maschera delle cose, a guardare oltre, nel tessuto muscolare della realtà, senza sentire impossibile il timore della verità. Credere sempre che la verità non esiste. Una frase bellissima di Victor Serge, messa in esergo ad un suo libro sui processi staliniani, era: «tutto sommato la verità esiste». Intendendo per verità la propria versione, giocarsi così il racconto di quello che sta accadendo, il racconto soprattutto del potere.
Alla fine si va sempre a finire lì, io quanto meno vado a parare sempre lì, alla relazione tra verità e potere... forse sarà un mio errore credere all’antica verità dei tragici greci che verità e potere non coincidono mai. Questa alterità tra tra verità e potere è colmata dallo spazio della scrittura, una scrittura non cortigiana, capace di raccontare casi limite - come intendeva Foucault, raccontare lo spazio del proprio stomaco soltanto in relazione coordinata col tumulto dell’intera rete universale dell’essere umano.
Questa è la grande scommessa della letteratura. Raccontare, come mi sono ripromesso da una vita, anche se ho solo 27 anni, il percorso, per esempio, di Vito De Rosa che è stato il detenuto italiano con più anni di carcere nella storia. Più di cinquanta, dimenticato in una prigione di Aversa, un manicomio criminale. Cinquant’anni. Non bastano dieci ore per raccontare la sua storia, è finito in galera per aver ucciso il padre che lo picchiava, poi è stato volutamente dimenticato dalla famiglia in carcere. Quando mi sono accorto di lui, grazie ad un libretto pubblicato da alcuni amici, immediatamente ho pensato che solo la scrittura letteraria poteva affrontare la sua storia, perché solo la scrittura letteraria poteva coinvolgere al punto tale da far sentire quei cinquant’anni d’isolamento in una stanza. Tutti in quel momento in quella stanza, non attraverso il trucco di una parola che in qualche modo stuzzica il lettore e lo fa commuovere, ma attraverso una parola che immediatamente fa coincidere il perimetro della carne di quel detenuto col personaggio stesso, col lettore che entra in quello spazio.
* www.unita.it, Pubblicato il: 25.11.06 Modificato il: 25.11.06 alle ore 12.56
Dal suo rifugio segreto, in una intervista a "El Paìs", lo scrittore parla dei boss e dei clan "mito e ossessione"
"La solidarietà è solo una parola"
"Mi sono lasciato prendere dal carisma di questa gente per poterlo raccontare"
di LAURA LUCCHINI *
Roberto Saviano Saviano: "Non riscriverei Gomorra
PRIMA sono arivate le telefonate anonime; poi, le minacce di morte, infine, la scorta e l’esilio lontano dalla sua città. Tutto è cambiato per Roberto Saviano, 28 anni, da quando ha pubblicato il suo primo libro, "Gomorra", che ha già venduto 300mila copie. Fino ad allora, la sua vita era stata relativamente tranquilla. Viveva a Napoli, amava percorrere le strade sulla sua Vespa e seguire le trame criminali. La camorra era, e continua a essere, la sua ossessione. Dedicava tutto il suo tempo a rivedere gli incartamenti giudiziari, si sintonizzava sulla radio della polizia per arrivare sul luogo del delitto insieme alle pattuglie.
"El País" lo ha intervistato nel suo rifugio, mentre a Napoli si scatenava una nuova guerra tra camorristi e si lanciava l’ennesimo allarme per l’aumento della criminalità mafiosa.
Qual è la differenza tra la mafia siciliana e la camorra napoletana?
"La mafia siciliana ha una struttura piramidale e la Camorra l’ha orizzontale. Entrambi i sistemi si rapportano in maniera diversa al potere politico. Il meccanismo mafioso è semplice e si riduce al binomio appalti-mafia. Vale a dire che la mafia, tramite la politica, ottiene appalti pubblici (edilizia, raccolta dei rifiuti, ospedali, ecc.). La camorra, invece, funziona con una logica ultraliberale il cui fulcro non è l’appoggio dei politici. Ciò rende la camorra più flessibile e più imprevedibile. Non può esistere nella camorra un boss che abbia il monopolio dei prezzi, perché se lo facesse sarebbe assassinato o arrestato. Un esempio: Sandokan Schiavone a un certo punto aveva monopolizzato l’usura, il prezzo del cemento e il prezzo del latte. Fu arrestato. Altri boss arrivarono e il prezzo del latte tornò a scendere".
Quindi nella camorra non possono esistere boss come Bernardo Provenzano, il capo di Cosa Nostra per decenni?
"No, è molto difficile. Un boss che mantiene il potere fino ai 70 anni e, inoltre, con quel carisma ... È stata molto significativa la vicenda di Provenzano, lo hanno scovato nella sua casa. Viveva in condizioni indecenti. Anche Sandokan Schiavone fu trovato nel suo paese nascosto sotto la sua casa. Ma lì non aveva una cantina, ma un palazzo".
I boss della camorra l’affascinano in qualche modo?
"La struttura criminale è molto più importante degli individui. Ma le personalità semplici hanno per me, che sono uno scrittore e non un giornalista, un valore letterario enorme. Penso a Augusto la Torre, il boss psicoanalista, che parlava citando Lacan. O a Giuseppe Misso, che ha scritto diversi libri. O a Luigi Volla, soprannominato Il Califfo, che ama i quadri di Botticelli. O a Sandokan Schiavone, che possedeva una vasta biblioteca dedicata a Napoleone... Sono stato accusato spesso di essere vittima del loro fascino e in qualche modo è così. Mi sono lasciato prendere dal carisma di questa gente per poterlo raccontare. Perché sono i miei miti, i miti del posto in cui sono cresciuto. Per capire i boss, ho dovuto guardarmi allo specchio, più che guardare loro".
Si è lasciato ossessionare dalla camorra?
"Sì. E credo che uno scrittore debba ossessionarsi con ciascuno dei suoi libri. Se avessi scelto di scrivere di cavalli, avrei visto muscoli, tendini, figure in velocità e metafore equine ovunque. Ma ho scelto di raccontare la mia epoca e la condizione umana attraverso la camorra. Mi sono lasciato ossessionare da queste storie perché sono una loro vittima, perché sono cresciuto in quel luogo".
Se potesse tornare indietro, lo scriverebbe Gomorra?
"No. E non per le minacce, ma per quello che esse hanno comportato: il comportamento degli editori e di molte persone vicine. La solidarietà è solo una parola".
(Copyright El País-La Repubblica traduzione di Guiomar Parada)
la Repubblica, 13 novembre 2006
Mafie da esportazione
Saviano: la camorra dilaga in Spagna
di Gian Antonio Orighi (La Stampa,13/11/2006)
MADRID. «Una delle ragioni per cui mi sono deciso a parlare con El País è che la Spagna è stata invasa dai soldi della camorra e non capisco perchè non si presti più attenzione al fenomeno». Non potrebbe essere più esplicito Roberto Saviano, 27 anni, autore del bestseller «Gomorra», protetto e sotto scorta dopo essere stato minacciato dalla criminalità organizzata napoletana, nello spiegare perchè abbia concesso l’intervista fiume (tre pagine) al quotidiano madrileno.
Di dichiarazioni ad alzo zero lo scrittore ne ha in serbo anche sull’Italia. Dice amaro: «Non riscriverei più Gomorra. Non per le minacce, ma per tutto ciò che si è portato dietro: il comportamento degli editori e di molte persone. Solidarietà è solo una parola». Il grido d’allarme di Saviano mette il dito sulla piaga di una realtà su cui si parla poco in Spagna, anche se gli arresti di esponenti di spicco della camorra sono incessanti: 130 dal ‘98, l’ultimo, Carmine Rispoli, capo del clan Di Lauro, in luglio. «Può darsi che i magistrati e gli specialisti siano preoccupati ma non sembra che esista, tra i politici, la coscienza del fatto che la camorra partecipa allo sviluppo economico spagnolo - afferma Saviano - negli Anni ‘80 è stata molto attiva, il clan dei Casalesi ha investito nella Costa del Sol (ribattezzata non a caso Costa nostra per l’alta affluenza dei criminali italiani, soprattutto a Marbella) e in Andalusia».
La Spagna, in realtà, è terra di conquista anche di mafia e n’drangheta da una vita, come testimoniano gli arresti dei boss Badalamenti e Cuntrera (Cosa nostra) e del calabrese Panuzzi. Non solo per la lingua simile e la vicinanza ma soprattutto perchè fino al 2000 non consegnava all’Italia i criminali condannati in contumacia. E poi la Spagna è la pipeline della cocaina dal Sud America Latina e dell’haschish dal Nord Africa. Ma Saviano si dedica solo al Sistema - così chiama la camorra - e spiega: «Ci fu un accordo tra due clan in guerra, quello di Bardellino e i Casalesi, col risultato che l’Andalusia passò ai bardelliniani». La piovra vesuviana si estende dal controllo del narcotraffico a Barcellona agli investimenti in immobili, turismo e persino discoteche, denuncia il Rushdie napoletano. Giuseppe D’amico, condannato per appartenenza alla camorra e proprietario di music-bar, è stato freddato vicino ad Almeria in settembre. Saviano critica la magistratura spagnola: «L’intervento dei giudici potrebbe essere determinante nell’ostacolare la crescita economica dei clan. Tutti sanno che la cocaina arriva in aereo a Madrid e, soprattutto da Madrid e Barcellona, i napoletani ne controllano l’entrata in Italia. I soldi della "neve" si lavano comprando immobili in loco». Non a caso il Paese vive da anni un boom edilizio.
Lo scrittore assicura che, per ora, i clan partenopei non hanno una struttura militare nel Paese, e che l’unico che ci ha provato, fallendo, è stato il boss Giuseppe Quadrano alla fine degli Anni ‘90. Però prevede: «Per il momento la camorra investe e fa da intermediaria, ma credo che potrebbero arrivare a un controllo militare del territorio. Parte di Tenerife (isola delle africane Canarie) è stata costruita con i soldi dei Nuvoletta».
Saviano dà infine la sua (strampalata) versione sul perchè i camorristi scelgano la Spagna: «I cartelli partenopei la vedono come i rifugiati politici vedevano la Francia. Mitterrand accolse Khomeini, le Br e i guerriglieri palestinesi: tutti potevano rifugiarsi a condizione che mantessero la pace dentro il territorio francese. Allo stesso modo i boss della camorra ritengono di poter star bene in Spagna: continuano nelle loro attività ma rinunciano, entro certi limiti, alla violenza. Soldi sì, ma senza proiettili». Zapatero come Mitterrand? Gli arresti di camorristi dimostrano il contrario. Peccato che Saviano non risalti di più (come dimostra l’arricchimento della Galizia, ribattezzata la Sicilia spagnola per l’infiltrazione sociale dei suoi narcos) che anche qui - mafia, camorra o n’drangheta che sia - «pecunia non olet». I soldi si prendono da qualunque parte arrivino.
Aporie, conflitti e prospettive sotto l’ombra del Vesuvio
La contrapposizione tra la Napoli “lazzara” e “illuminata” e l’ossessione della politica per il “centro”. Sei filosofi lanciano la provocazione: per emanciparsi la città ha bisogno di riscoprire la sua ”porosità“ con un governo di transiti e scambi
di Vincenzo Cuomo (Liberazione.it, 01.08.2006)
Aporie napoletane è il titolo del volume appena pubblicato dalla casa editrice Cronopio (Napoli, pp. 202, euro 15) che raccoglie sei provocazioni “filosofiche” che scommettono sulla possibile emancipazione politica e sociale di Napoli. Si tratta di un testo coraggioso che espone da un lato le contraddizioni della grande città mediterranea in crisi, dall’altro sottopone a critica frontale e definitiva l’abusata ideologia delle “due città”, quella “lazzara” e quella “illuminata”, che, secondo una interpretazione che parte da Vincenzo Cuoco e arriva fino a Giorgio Bocca, si contrapporrebbero da sempre nella storia napoletana, segnandone il carattere. La stessa politica del centro-sinistra, che governa la città dal 1993, non solo non è stata capace di discostarsi da tale approccio interpretativo ma lo ha definitivamente sposato e portato alle sue estreme conseguenze. Si è quindi costruita, come rileva Maurizio Zanardi nel saggio introduttivo, una città musealizzata e anti-porosa ossessionata dal suo “centro” e incapace di progettare una rottura col suo destino di lenta periferizzazione rispetto alle correnti dell’economia globale. Non a caso, una delle novità della politica del centro-sinistra a Napoli è stata «la promozione dell’arte contemporanea come elemento dell’arte di governo». Ma ciò ha finito per musealizzarne il centro storico rendendolo di fatto impermeabile al resto, caotico, della metropoli. La caratteristica “porosità” che Walter Benjamin trovava nella Napoli degli anni Venti dello scorso secolo, sembra così bloccata o forse addirittura cancellata.
Tuttavia, tutti i saggi del volume, al di là della diversità degli approcci e anche delle prospettive ultime di soluzione, scommettono sulla necessità di (ri) attivare la porosità di Napoli attraverso una politica e un governo dei passaggi, dei transiti, degli scambi. La porosità di Napoli non può essere oltrepassata; è essa la vera “aporia” da cui forse ripartire per una politica di emancipazione.
Certo, la situazione in cui versa la vita della città non sembrerebbe dare molte speranze. Come scrive Gianfranco Borrelli nel suo saggio, «la città di Napoli consiste delle trame contraddittorie di parti poste nelle condizioni di permanenti e profondi conflitti, che attraversano gli individui, i gruppi, i ceti e le agglomerazioni sociali». E tale irrimediabile antagonismo intestino, che regna a Napoli da secoli, ha reso impossibile la mediazione politica democratica tra gli interessi e i gruppi e ha portato, nel migliore dei casi, all’istaurarsi di ciò che Machiavelli «avrebbe denominato principato civile: centralità della funzione esecutiva del governo, che conquista l’ampio appoggio popolare, attraverso l’esaltazione del potere di intervento personale (magari sostenuto da un partito organizzato a tal fine)».
Con un implicito riferimento anche a tale ingovernabilità dei micro-conflitti che percorrono il corpo della città, Bruno Moroncini, nel suo saggio, utilizzando in chiave politica alcuni strumenti concettuali lacaniani, descrive la città di Napoli come tradizionalmente solcata da una opposizione tra il Reale ed l’Immaginario: da un lato la storia di Napoli è segnata da un periodico manifestarsi del ribellismo e dalla violenza della “plebe”, dall’altro, per opposizione, è caratterizzata dal prodursi di un discorso esorcizzante immaginario che definisce il mito della Napoli della Cultura e dell’Arte. Sulla base di tale opposizione tra il Reale della plebe e l’Immaginario della cultura si è potuto tradizionalmente parlare, da Vincenzo Cuoco in poi, dell’opposizione tra le “due città”, tra quella formata da una plebe incolta e spesso in preda a pulsioni distruttive e auto-distruttive e quella formata da una élite borghese colta e attratta da modelli culturali nord-europei e distanti.
Ma per Moroncini (e per gli altri saggisti) si tratta di sottoporre ad una critica radicale la teoria delle “due città” cominciando a riflettere seriamente proprio sulla quella opposizione tra Reale ed Immaginario (in carenza di mediazione “simboliche”) che sembrerebbe una costante della storia napoletana. Il vero problema, egli scrive, è che Napoli appare priva di “soggetti” che siano in grado di “simbolizzare” il disagio, la sofferenza, il non essere. Napoli è paradossalmente priva di “sintomi” che siano in grado di “parlare” e, quindi, di soggettivizzare il dolore: «Napoli è una struttura priva di soggetti e perciò non cambia. A Napoli non si formano sintomi e quindi soggettività, a Napoli dominano l’Immaginario e il ritorno periodico del Reale. A Napoli il legame si scioglie; ma non per formarne un altro, più complesso e articolato. Si scioglie e basta». In effetti, ciò che è mancato e ciò che ancora manca a Napoli è la capacità di “lavorare” il Reale con il Simbolico e non solo di esorcizzarlo con l’Immaginario. Infatti, il Reale «si soggettiva, si trasforma in sintomo, solo se entra nell’articolazione simbolica». E solo l’articolazione simbolica potrà istaurare e governare ad un tempo la “porosità” perduta, ma ineludibile, di questa città.
Di articolazione simbolica mancata e/o bloccata trattano anche i saggi di Arturo Martone e di Pierandrea Amato. Quest’ultimo sviluppa una serrata critica all’ideologia e al progetto politico sottesi all’impianto urbanistico napoletano, tutto fondato sulla contrapposizione tra il “centro storico” e il resto della metropoli. Tale contrapposizione è quel che genera un continuo conflitto urbano «tra la visibilità permanente del centro, il suo aver luogo continuamente ridefinito mediante una prestazione retorica che ne esalta le manifestazioni, e l’altro, lo spazio oltre la città, la metropoli che apparentemente esiste solo nelle note a margine dei discorsi centrali, sito senza materia se non per chi lo abita». Anche per Amato, quindi, a Napoli ci si trova di fronte ad una carenza di transiti e di scambi simbolici - in questo caso soprattutto urbanistici - che bloccano la vita della città impedendone la porosità. La soluzione al conflitto tra il centro iper-visibile della città e l’immensità invisibile e caotica della restante metropoli - conflitto che non riesce, per quanto detto, neanche a farsi “politico” - è individuata da Amato in una possibile metamorfosi urbana che parta dalla “decollazione” del centro, anche perché «decollarne il centro è l’opportunità di non fare del nucleo storico una scena del consumo turistico e dell’esclusione di chi non consuma». Ma decollare il centro significa anche, a suo parere, ricreare in esso degli spazi vuoti senza memoria, non musealizzati (come è accaduto per piazza Plebiscito), in cui possano crearsi e ricrearsi i transiti e i passaggi simbolici negati dallo sviluppo “centripeto” e museale della città.
Ma la questione di Napoli non può essere risolta solo guardando a Napoli. Infatti, per Giuseppe Antonio Di Marco, che rilegge, con gli strumenti concettuali marxisti, la storia della città all’interno del rapporto tra sviluppo e sottosviluppo nel meridione italiano, la crisi politica e sociale di Napoli va ricercata nelle trasformazioni interne all’economia globale nel passaggio epocale tra fordismo e post-fordismo. Per tale ragione il carattere di facciata che ha finito per assumere il cosiddetto “rinascimento napoletano” di Bassolino, non ha, a suo parere, motivazioni semplicemente politologiche o etiche ma «ha la sua radice in nessi strutturali molto più forti, in quella crisi del processo fordista». Come per ricordare che le trasformazioni sono sovra-determinate e che la risposta alla crisi di Napoli deve passare necessariamente anche da una rinnovata capacità di guardare politicamente Napoli a partire dal mondo (e non più solo il mondo a partire da Napoli).
BERLINO
Dopo il successo di «Gomorra», lo scrittore italiano ieri in Germania ha raccontato il suo impegno contro la camorra
Saviano: mafia questione europea
«Dopo la strage di Duisburg, è sempre più chiaro che la criminalità organizzata può essere sconfitta solo con una lotta a livello globale»
Da Berlino Vincenzo Savignano (Avvenire, 06.09.2007)
Il ragazzo che sfidò la camorra. Roberto Saviano, nato nel 1979 a Casal di Principe in provincia di Napoli, in poco più di un anno è diventato un fenomeno mediatico. A un anno dal successo italiano del suo libro Gomorra in cui, come mai nessuno prima, descrivendo con una sconvolgente minuziosità di particolari e facendo nomi e cognomi, ha ricostruito il mondo affaristico e criminale della camorra, la Germania lo ha accolto come una star, un personaggio unico da conoscere e scoprire. Ieri è arrivato a Berlino, dove oggi inaugurerà il Festival della letteratura, leggendo alcune parti del suo libro, che anche qui è ormai un best seller.
Nella capitale tedesca è protetto giorno e notte da una decina di agenti di sicurezza, ma lo seguono ovunque anche fotografi e cameraman. Ha già rilasciato interviste a tutte le principali televisioni nazionali tedesche, che prima di tutto gli hanno chiesto un’opinione sulla strage di ferragosto a Duisburg, dopo la quale la Germania ha capito di essere anch’essa terra di mafia. «Non mi sono affatto sorpreso di ciò che è accaduto a Duisburg - ha sottolineato Saviano, nel corso della conferenza stampa, svoltasi ieri a Berlino alla sede della stampa estera - la magistratura e la polizia sia italiana sia tedesca sanno perfettamente quanto sono presenti e diffuse le mafie italiane in Germania». Saviano sa tutto della camorra, o meglio del "Sistema" perché «così la chiamano i boss», dei quali nelle sue inchieste ha seguito le tracce, giungendo proprio fino in Germania. Ieri ha fatto riempire pagine di appunti ai giornalisti tedeschi, snocciolando date, nomi e luoghi sulla nascita, formazione e diffusione delle mafie italiane in Germania. «Nel 1991 - ha raccontato - si svolse una riunione segreta a Praga, dove alcuni boss della camorra e della ’ndrangheta si spartirono gli affari. I Licciardi si stabilirono a Monaco, i Di Lauro a Stoccarda ed altre famiglie iniziarono ad acquistare terreni ed immobili in tutta la ex Ddr, che diventò in poco tempo l’avamposto per la conquista dell’est Europa». Secondo Saviano, «la Germania è stata scelta come base dai cartelli criminali, anche perché nel diritto penale tedesco non esiste il reato di associazione mafiosa e non sono consentiti facilmente le intercettazioni telefoniche e il sequestro dei beni». Ma il "Sistema", la camorra, e la Cosa Nuova, come lui definisce la ’ndrangheta, hanno costruito i loro imperi grazie all’oro bianco: la cocaina. «Verso la fine degli anni ’90 - ha aggiunto - Rostock è diventato uno dei principali porti di ingresso della cocaina tanto che le mafie italiane preferiscono far arrivare la cocaina in Germania e poi trasportarla in Italia, piuttosto che il contrario, come avveniva negli anni ’80».
In silenzio i migliori giornalisti della stampa tedesca hanno ascoltato il racconto lucido del giornalista d’inchiesta Roberto Saviano che però preferisce definirsi uno scrittore. «Mi sento scrittore - ha spiegato - perché quando iniziai a seguire la guerra di camorra non m’imposi l’imperativo della cronaca, ma come diceva Truman Capote ho voluto raccontare la verità attraverso lo strumento letterario». Stupisce Roberto Saviano per la sua capacità di analisi e di sintesi su uno degli argomenti più controversi della storia della nostra Repubblica.
Saviano allo stesso tempo è un po’ scugnizzo e un po’ intellettuale. A Casal di Principe, quella che lui definisce la capitale della camorra, è cresciuto con e come gli scugnizzi, con il mito dei boss: «Ricordo che marinavo la scuola per andare a vedere gli interrogatori in video-conferenza di "Sandokan", il boss Roberto Schiavone». Ma poi la rabbia e lo sdegno hanno fatto scattare qualcosa nella mente di questo giovane studente di filosofia, iscritto all’Università di Napoli, che si è trasformato nell’uomo più coraggioso di Casal di Principe. «Non ho mai voluto nascondermi per questo nel mio libro parlo sempre in prima persona e per questo ho messo la mia foto sulla copertina. Non farlo, oltre ad essere un gesto di codardia, significava sottrarre qualcosa di importante al mio racconto».
Lo scrittore scugnizzo intellettuale Saviano conosce la camorra, anzi il "Sistema", come pochi altri perché c’è cresciuto dentro: «Ho visto il primo morto ammazzato a dodici anni». Per questo ha raccontato nei minimi particolari l’organizzazione affaristica con ramificazioni impressionanti in tutto il pianeta e il fenomeno criminale profondamente influenzato dalla spettacolarizzazione mediatica, per cui i boss si ispirano negli abiti e nelle movenze ai gangster del cinema americano. Per questo Saviano vuole indicare la strada per sconfiggere quello che definisce «un male peggiore del terrorismo islamico». «Oltre ad una battaglia culturale - ha spiegato - bisogna intraprendere una lotta ai più alti livelli della politica, ed in questo la Germania può svolgere un ruolo fondamentale, modificando la propria legislazione e portando il problema a livello europeo».