Muhammad Iqbal |
Al di là della “concezione edipica del tempo”(Vattimo).
Sovranità e Sacerdotalità - universali. VIRGILIO, DANTE ... E IL ’CODICE’ DI MELCHISEDECH: DIO è AMORE ... in ‘volgare’ - E LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMI-COMICHE”!
Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino
di Federico La Sala
“L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei”, così scriveva Ennio Flaiano nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”. Una forte e bella illuminante idea! Ma, se è così, allora è altrettanto bello pensare che, quando dietro “il telescopio di Galilei”. c’era Galilei, lo sguardo era sempre lo sguardo di Dante ... e di Leopardi (e tantissimi altri e tantissime altre), a proiettarsi oltre: un oltre-uomo, un oltre-mondo, un oltre-dio conosciuto - con Nietzsche. Una sfida e una scommessa: oggi, forse, possiamo ancora riprendere questo ‘sguardo’ carico d’amore... e ri-guardare oltre, oltre la nostra ‘carta’ dell’Uomo, della Terra, e del Dio del passato!!! L’ipotesi di ricerca e l’idea-guida, semplicemente, è questa: BEATRICE è Bella, la madre di Dante; LUCIA è Gemma, la sposa di Dante; e MARIA è la madre di Gesù. E, come Giuseppe è il padre di Gesù, così BERNARDO (il nuovo Virgilio, il fedele di Maria), è Alighiero II (il fedele di Beatrice) - il padre di Dante! E tutti e tutte, figli e figlie di "Dio", l’AMORE, il "Padre Nostro".
VIRGILIO - pur essendo un romano (“savio gentile che tutto seppe, mar di tutto il senno, virtù somma, sol che sani ogni vista”), è tuttavia come Giovanni Battista - è colui che accompagna Dante dalla “selva oscura” (senza negare l’intervento decisivo di Lucia per giungere in Purgatorio: "I’ son Lucia;/lasciatemi pigliar costui che dorme;/sì l’agevolerò per la sua via") alla “divina foresta spessa e viva” - alla soglia del “paradiso terrestre” e ... al Battistero della nuova città del Fiore, del nuovo e ver-giglio - Firenze (sulla connessione “paradiso terrestre” e Firenze, cfr. F. La Sala, “Dante. Alle origini del moderno”.
Con Virgilio, Dante - come Ulisse - è giunto ai limiti delle sue possibilità e del suo orizzonte: è stato un grande discepolo, è diventato un “dio”, il sovrano di se stesso!!! Dante, con acutezza incredibile e sorprendente, fa di Virgilio ciò che Marx farà - nella sua tesi di laurea - di Epicuro: il maestro della "scienza naturale dell’autocoscienza"!
E, così, Virgilio non può che assegnargli le meritate chiavi del potere temporale (corona) e del potere spirituale (mitria) della sua ‘casa’ (“libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare più a suo senno: per ch’io sovra te corono e mitrio”) e, nello stesso tempo, ri-affidarlo a Beatrice e salutarlo ... La divinità di se stesso è condizione necessaria, ma non sufficiente. Per conoscere se stessi, bisogna andare oltre, oltre se stessi... Oltre Kant, oltre Hegel, oltre Marx, oltre Nietzsche - oltre l’alleanza edipica (Freud)!!!
L’incontro con Matelda e la conseguente ri-nascita portano finalmente il neo-nato Dante alla vista dei “due luminari”, dei “due Soli” - il ‘padre’ e la ‘madre’, al nuovo-incontro con BEATRICE, la ri-trovata madre Bella - e, poi, con san BERNARDO (il nuovo Virgilio), il ri-trovato padre Alighiero II, che - con le ali e la vista di aquila, date dalla preghiera e dalla contemplazione della giustizia - lo innalza e lo guida fino alla conoscenza diretta di “Dio” - “L’Amore che muove il Sole e le altre stelle” - da cui acquista virtù e conoscenza - nuove ..... che fanno di Dante - sulla scia Gesù, come di Francesco e di Chiara di Assisi - un Figlio di “Dio” e, così (come già era avvenuto per Francesco) un cristiano i-n-a-u-d-i-t-o - che ri-trova e ri-attiva (oltre la “corona” e il “mitrio” di Virgilio) l’incompreso e negato “ordine di Melchisedech” (sul tema, cfr. la nota - in occasione del FESTIVAL DI FILOSOFIA - su MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”.
Per chi è diventato come Cristo, un nuovo re di giustizia e un nuovo sacerdote, non resta che denunciare tutta la falsità (con CATONE, "Cristo" del Logos antico - oltre: non della donazione, ma) delle fondamenta stesse dell’intera costruzione teologico-politica della Chiesa di Costantino - e ri-indicare la direzione eu-angélica a tutti gli esseri umani, a tutta l’umanità!!! Per sé e per tutti gli esseri umani, Dante ha ri-trovato la strada: ha saputo valicare Scilla e Cariddi, andare oltre le colonne d’Ercole ... e non restare all’inferno! La memoria del mondo (Calvino) è stata ri-conquistata! In principio era il Logos - identità e differenza: ha ri-capito il cerchio della vita e delle generazioni e ha ri-trovato tutto e tutti, e Lucìa - Gemma. Maria Antonia, la figlia di Dante e Gemma, diviene suora: prende il nome di BEATRICE ...
E’ il tempo di Giovanni XXII, e del Cardinale Del Poggetto. Firenze ha condannato Dante all’esilio perpetuo, la Chiesa lo condanna a morte per eresia - si brucia la “Monarchia”, si vogliono bruciare le sue ossa ... Ma la memoria non si perde e il filo non si interrompe: “Amore è più forte di Morte” (Cantico dei cantici: 8.6 - trad. di G. Garbini)!!! Manzoni aveva intuito e, forse, sapeva; e - come Dante - si rimette in cammino e cerca di ritrovare la strada: Renzo e Lucia - I Promessi Sposi!!!
Anche il cardinale Roncalli sicuramente ricordava: divenuto papa, prenderà il nome di Giovanni XXIII ... e cercherà di correre ai ripari. Una nuova Chiesa, per credenti e non-credenti, che sappia essere finalmente, “Mater et Magistra” ... come la Maria di Gesù e la Beatrice di Dante! “Pacem in terris”: un nuovo Concilio, subito!!!
Tuttavia, dentro la Chiesa, si capisce e non si capisce, si vuole e non si vuole camminare sulla diritta via!!! Le tentazioni sono molte: ma “Maria-Beatrice” rimprovera e sollecita. Il cuore di Wojtyla risponde - Assisi, 1986!!! - ma subito la sua testa viene ‘imprigionata’ da tutta la gerarchia del ‘sacro romano impero’!. Tuttavia, dall’inizio alla fine ha lottato, come un leone. Basta: “lasciatemi andare”!!! Egli sapeva dell’Italia - il giardino dell’ Impero, della “Monarchia” di Dante. Non a caso, grande è stata la sua amicizia con Carlo Azeglio Ciampi, il nostro Presidente della Repubblica - egli sapeva che la Costituzione della Repubblica Italiana era ed è la nostra “Bibbia civile”. Pater et Magister!
W O ITALY ... Dopo di lui, in Vaticano, è tornata la confusione, la paura, e la volontà di potenza e di dominio. Un delirio grande, al di qua e al di là del Tevere, ma La Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti è sana e robusta ... Dante è riascoltato a Firenze, come in tutta Italia - e nel mondo. Anche nel Pakistan - memori del “Poema Celeste” (Muhammad Iqbal) - la Commedia non è stata dimenticata!!!
*
Questa è la proposta di lavoro - una indicazione ’comica’: un ‘piccolo’ lavoro di spostamento delle relazioni dei ‘pezzi’ - e l’intero mosaico dell’opera, forse, porterà alla luce significati sorprendenti. Una Vita Nuova, per l’Italia e per la Terra? Boh?! Nel frattempo, e già, non possiamo che cominciare a pensarci e a ri-prendere la ‘relazione’ del viaggio dantesco, per ri-considerare di nuovo e meglio le nostre amorose radici ... cosmicomiche - non cosmitragiche! Italo Calvino aveva perfettamente ragione, contro tutti i fondamentalismi terrestri - e celesti!!! Via, ri-prendiamo: ri-iniziamo ... Oh! La Commedia, finalmente! (12.09.2006).
Federico La Sala
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EGITTO: DISCORSO DI BARACK HUSSEIN OBAMA ALL’UNIVERSITA’ DEL CAIRO.
IL NOME DI DIO. ---- IL CORTILE DEI GENTILI. In realtà, però, a dover essere purificato non è solo il cortile, è anche e soprattutto l’interno del tempio (di Piero Stefani - Dalla cattedra al cortile).
FLS
PIANETA TERRA: EARTHRISE! IRAN: CECILIA SALA LIBERATA. E’ GIA’ UN BUON INIZIO DELL’ANNO: UN "BUON LAVORO" E UN "BUON 2025"! Un "annuncio" di rinascita, di "una prima rinascita" per l’intera Terra! Un augurio all’intero popolo iraniano, a Cecilia Sala, all’Italia... *
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Federico La Sala
STORIA FILOSOFIA E LETTERATURA E STORIOGRAFIA: UNA IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA" (2007)
DANTE. ALLE ORIGINI DEL MODERNO *
Dante corsaro
Modernità di Dante di Giacomo Marramao
di Chiara Scarlato (FataMorgana Web, - 16 Dicembre 2024)
Sono ormai ampiamente percorse le ragioni che portano la teoresi filosofica a ricorrere, quasi di necessità, al confronto con una serie di campi altri di applicazione grazie ai quali la filosofia stessa può trarre un vantaggio nell’esemplificazione concreta di concetti e idee che resterebbero altrimenti ancorati a un piano distaccato dalla realtà materiale e concreta. Alla luce di questa necessità o bisogno, spesso, il pensiero filosofico si è rivolto a un linguaggio differente dal suo (si pensi al ricorso al linguaggio letterario o, più genericamente, artistico) allo scopo altresì di favorire il passaggio da uno scenario teorico unico alla costruzione di un immaginario di stampo plurale. Una simile attitudine è riscontrabile nel volume Modernità di Dante (Bollati Boringhieri, 2024), che Giacomo Marramao ha dedicato al “sommo poeta”, elaborando al suo interno alcune fondamentali idee teoriche utili per riflettere sull’articolazione tra linguaggio e politica, pur mantenendo aperto lo sfondo di problematizzazione all’interno del quale vengono affrontati alcuni temi dirimenti per la contemporaneità quali il ruolo e la funzione dell’essere umano nel mondo a partire dalla sua dimensione di azione quale singolo individuo.
L’operazione compiuta in Modernità di Dante - che, per molti aspetti, è analoga anche a quanto da Marramao proposto in Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo (2022) - assume uno specifico valore teoretico poiché, ponendo al centro l’esperienza di un particolare essere umano (in questo caso Dante ma, come si è appena ricordato, lo stesso vale anche per Pasolini), intende mettere a tema i modi in cui, sia con la scrittura sia con il corpo, si ha l’opportunità di esercitare una forma di resistenza nei confronti del mondo. Questa forma di resistenza riguarda tanto un piano formale quanto un livello concreto di applicazione, dacché non si può sperare di intervenire sul presente senza unire le parole alle azioni rendendo, in certo senso, tali parole effettive grazie a una serie di gesti concreti che, per mutuare un termine del lessico pasoliniano, sono gesti corsari. Gesti corsari capaci di convogliare l’attenzione su questioni che, pur essendo originate da una riflessione sul presente, aprono squarci su un tempo a venire che risulta, pertanto, inatteso nella sua esposizione. Da qui deriva il carattere di modernità di autori come Dante e come Pasolini, tra gli altri.
L’accostamento tra Dante e Pasolini è stato in certo modo abilitato dallo stesso Pasolini che instaura un dialogo a distanza con Dante componendo la sua divina mimesis (progetto avviato nel 1963, mai completato e pubblicato, per volere dello stesso Pasolini, nel 1975) in cui l’Inferno del neocapitalismo si impone con le sue storture di fronte al presentarsi di due domande: «Chi può segnare il momento in cui la ragione comincia a dormire o, meglio, a desiderare la propria fine? Chi può determinare le circostanze in cui essa comincia a uscire, o a tornare là dove non era ragione, abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta, per passione, per ingenuità, per conformismo?» (Pasolini 2011, p. 17). Le questioni chiariscono in modo limpido le due istanze che si trovano alla base di ogni tentativo di comprensione del reale a partire dalla mediazione di un pensiero altro, riproducendo un meccanismo analogo a quello in atto nella congiunzione della filosofia alla letteratura, che rimanda inevitabilmente all’oscillazione della loro disgiunzione. Dal presente attuale al presente possibile, dalla ragione alla disragione per poi tornare, ancora una volta, al presente ma con uno sguardo differente. Ecco allora che Pasolini sembra tradurre quel sentimento corsaro che lo accomuna allo spirito dantesco: l’essere naufrago per aggrapparsi di nuovo e ancora al mondo ma con l’innocenza sporcata dalla consapevolezza di essere parte di quel mondo e non di un altro.
Nella rotta tracciata da un corpo approdato dal mare a una terra sconosciuta si può collocare anche l’operazione che Marramao compie su Dante, articolando il suo percorso in due momenti: il primo rivolto a un’esplorazione del concetto di “Politico” a partire da un attraversamento di opere come il De monarchia, il Convivio e la Commedia; il secondo consistente in un lavoro di accostamento critico tra le visioni di Dante e Machiavelli intorno alla questione politica. La posizione centrale che la politica (o il Politico) - come questione, problema e tema - occupa all’interno del testo è sintomatica del progetto di osservare non solo la modernità di un autore, bensì il valore che tale pensiero assume per la nostra stessa contemporaneità. Anche per questa ragione alla base del primo studio sta la proposta di osservare Dante come antesignano dell’autonomia del Politico a partire dall’ipotesi che il De Monarchia sia una prolessi della Commedia, tracciando l’una e l’altra un virtuoso rapporto di complementarità che per Marramao lascia «emergere la dimensione poetica come un viaggio attraverso i molteplici “corpi” dell’esperienza: corpo linguistico, corpo umano, corpo politico, corpo celeste» (ivi, pos. 20).
I quattro corpi - che rimandano rispettivamente al linguaggio, all’esistenza, alla dimensione del mondo e alla dimensione ultraterrena - sono anche indicatori dei diversi piani in cui tale autonomia trova la sua realizzazione. In particolare, stando alla prospettiva delineata dal testo, la modernità di Dante sta nella «netta distinzione tra la finalità teologica della salvezza e l’obiettivo politico della felicità» delle quali la prima si aggancia «ai percorsi di vita individuali, l’altra alla dimensione collettiva e alla vita della comunità» (ivi, pos. 18). L’autonomia politica dell’individuo getta, di conseguenza, nuova luce anche sulle nozioni di umano e umanità fino a condurre di fronte alla scelta radicale di pensare che «i principi etici e filosofici degli antichi» fossero «sufficienti alla realizzazione del fine politico della pace e della felicità terrena» (ivi, pos. 25), scelta rivendicata, per Marramao, anche dalla decisione dantesca di collocare Catone l’Uticense a custodia del Purgatorio.
In quest’ottica vi è una distinzione tra politica e fede che si mantiene inalterata con l’eccezione unica dell’idea di plenitudo temporum in cui le due si congiungono per la realizzazione dell’eschaton, il momento dell’avvento di Cristo che rimanda a «una pienezza dei tempi che non ha nulla a che fare con una promessa messianica, bensì piuttosto con un evento già accaduto nella storia, ma di tale portata da determinare un punto di non ritorno nel viaggio dell’umanità» (ivi, pos. 37). Ciò significa che l’autonomia del Politico non esclude una visione teologica del mondo, bensì individua due diversi piani di realizzazione in base alle dimensioni di riferimento: da un lato la felicità terrena, dall’altro la beatitudine celeste; da un lato i principi della filosofia, dall’altro i precetti della religione; da un lato il «destino del Comune», dall’altro «quello del Singolare, che rappresentava, per Dante, la sola via per affermare, nell’autunno del Medioevo, la radicale autonomia del Politico» (ivi, pos. 39). La modernità del gesto di Dante sta allora, in questo caso, nello sforzo di pensare una distinzione tra ciò che era canonicamente riunito in un unico e solo sfondo di riferimento. In senso analogo è operato il confronto tra Dante e Machiavelli che occupa la seconda parte del testo.
Obiettivo principale di tale lettura comparativa è superare la dicotomia tra «un Dante immerso nella spiritualità medievale a fronte di un Machiavelli cinico realista» (ivi, pos. 42). A tal fine, Marramao evoca il concetto di dignitas che si trova alla base dell’umanesimo dantesco e dell’“umanesimo tragico” machiavelliano che, a partire dall’autonomia del Politico del primo, opera una ridefinizione ampia e radicale della nozione di politica concepita «concepita come un’anomalia tassonomica: come il diagramma di un plesso dinamico capace di tenere insieme due opposti» (ivi, pos. 48). Entro tale prospettiva, si delinea anche un’apertura rispetto a quanto si diceva in merito alla congiunzione/disgiunzione tra un pensiero filosofico e un pensiero altro o, meglio, sulla tensione che conduce il pensiero necessariamente di fronte a una pratica. In questo caso, è dirimente quanto Marramao scrive in merito al fatto che la «politica non innova mai, se non a partire da un rivolgimento culturale dei linguaggi: del linguaggio della scrittura come del linguaggio del teatro e della musica, del linguaggio dell’arte come del linguaggio della scienza, del linguaggio della poesia come del linguaggio dei corpi» (ivi, pos. 55).
Ed è questo l’aspetto sul quale occorre concentrarsi per capire appieno il senso di una modernità capace ancora oggi di offrire strumenti per rinnovare un sistema di pensiero. Se, riprendendo quanto scrive Gilbert in merito a Machiavelli, sono poche le persone che, «dopo aver guardato dritto in faccia che cosa sia l’uomo nella realtà, siano state capaci di attenersi a quanto hanno visto e non si siano rifugiate nel sogno di quello che l’uomo dovrebbe essere» (1977, p. 245), allora il punto è riuscire a risalire la china seguendo la rotta tracciata da quel pensiero corsaro che - di volta in volta - occorre convocare per rendere effettiva ogni pratica di rivoluzione.
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FLS
"COME TI CHIAMI?": LA QUESTIONE DEL #NOME, A TUTTI I LIVELLI.
UN "SAUSSURE" DI #ANTROPOLOGIA #CHIASMATICA ("#CRISTOLOGIA"), #FILOLOGIA, #STORIA, #PSICOANALISI, #PSICHIATRIA, E #LINGUISTICA...
“Bisogna delirare un po’ per trovare il nome giusto”, scrive Pietro Barbetta nel libro "#Follia e #creazione. Il caso clinico come esperienza letteraria" (Mimesis Edizioni, 2012). #Anna Stefi, nella sua recensione (cfr. "Pietro Barbetta. Follia e creazione", "Doppiozero", 13 marzo 2013 ), muove dal #nodo fondamentale del discorso:
Una indicazione e una sottolineatura formidabile, a mio parere, un segnavia per venir fuori dall’orizzonte della tragedia, della #claustrofilia (Elvio Fachinelli, 1983), e aprire la strada a "una #schizofrenia della #salute" (#Rubina Giorgi)!
#STORIAELETTERATURA E #METATEATRO: "THE #MOUSETRAP" (#SHAKESPEARE). Questo è il problema amletico su cui riflettere: ne va del proprio "essere, o non essere" ("#Amleto").
CREATIVITA’ E #MENTEACCOGLIENTE: #COMENASCONOIBAMBINI? Freud dice: "La psicoanalisi è una mia #creatura". Ma "Chi", #Chi (lettera dell’ alfabeto greco: "X"), ha dato il nome a "#PietroBarbetta": al "#bambino" (a tutti gli "esseri" del "mondo")?!
ANTROPOGENESI FILOLOGIA E FILOSOFIA: CHE GRANDE "PREISTORIA" DELL’INTERA #UMANITA’ DEL PIANETA TERRA!
RIPARTIRE DA #CAPO, E #IMPARARE A #CONTARE, A #CALCOLARE...
INDIVIDUO E #SPECIE: "L’ONTOGENESI RICAPITOLA LA FILOGENESI" (ERNST #HAECKEL).
MA QUALE "#RICAPITOLAZIONE", COME DA #ANTROPOLOGIA COSMICA, QUALE QUELLA DI #DANTE ALIGHIERI ("L’#AMOR CHE MUOVE IL #SOLE E LE ALTRE #STELLE") O COME QUELLA (DELL’ATTUALE #PRESENTE STORICO) DA #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DA "#CAVERNA" PLATONICA E PAOLINA)?!
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1784). NON E’ IL CASO DI CORRERE AI RIPARI E, FINALMENTE, uscire dall’orizzonte della #tragedia e dal #letargo epistemologico e #correggere un’operazione #matematica "sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#FrancaOngaro #Basaglia, 1978)!!!
COSMOTEANDRIA E STORIA. LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3)
POESIA, LETTERATURA, STORIOGRAFIA E FILOLOGIA CRITICA:
BAUDELAIRE, DE QUINCEY, E "LES SEPT ViEILLARDS" ( E I "SETTE DORMIENTI DI EFESO").
SE E’ VERO, COME E’ VERO, CHE IL SIGNIFICATO della figura dei "Sept vieillards" rimane "enigmatico. Qui, l’altrove (alle) a cui la figura rimanda o da cui parla (agoreuo) si sottrae al dominio della ragione (“vainement ma raison voulait prendre la barre”, v.49), è un mare “mostruoso e senza limiti” (v.52). [...] Baudelaire ci descrive gli effetti dell’apparizione dei vecchi [2]: la ragione non riesce più a governare ciò che vede, deve arrendersi al suo nauseante “sdoppiamento”; una tempesta si oppone ai suoi sforzi, ma lo fa en jouant, come per gioco; quel gioco crudele sembra contagiare anche l’anima che, invece di opporglisi, si mette a danzare come una vecchia scialuppa senza alberi né vele",
E’ ALTRETTANTO VERO CHE, COME E’ DETTO NELLA NOTA "[2]", "L’immagine presenta non poche analogie con un passo di De Quincey sulla “tirannia del volto umano” che Baudelaire cita nei Paradisi artificiali: «Allora sulle acque inquiete dell’Oceano cominciò a mostrarsi il volto dell’uomo; il mare mi parve selciato da innumerevoli teste rivolte verso il cielo; visi furiosi, imploranti, disperati, si misero a danzare sulla superficie, a migliaia, a miriadi, a generazioni, a secoli; la mia agitazione diventò infinita e il mio spirito balzò e rotolò con le onde dell’Oceano»”.
MESSO A FUOCO QUESTO LEGAME E, AMPLIANDO LO SGUARDO SULLO SPAZIO LETTERARIO E STORICO, A CUI RINVIANO PER LA LORO STESSA FORMAZIONE SIA BAUDELAIRE SIA DE QUINCEY, FORSE, E’ IL CASO DI RIAPRIRE LA DISCUSSIONE SUL TEMA E RIPENSARLO ALLA LUCE DELLA #LEGGENDA DEI "SETTE DORMIENTI DI EFESO"".
PROBABILMENTE, un indizio per la risoluzione dell’enigma del significato della figura dei "Sept viellards" è da rintracciarsi nella sintesi "storiografica" (e "teologico-politica") dello "chá timent de l’orgueil" ("L’orgoglio punito" di "Les Fleurs du Mal", XVI) e, al contempo, al ’fatto’ segnalato già da De Quincey, che "sulle acque inquiete dell’Oceano cominciò a mostrarsi il volto dell’uomo; il mare mi parve selciato da innumerevoli teste rivolte verso il cielo; visi furiosi, imploranti, disperati, si misero a danzare sulla superficie, a migliaia, a miriadi, a generazioni, a secoli".
GIOVANNI MACCHIA: "Baudelaire aveva ragione. La nostra epoca è divenuta sempre più «baudelairiana». E’ divenuta baudelairiana senza che noi siamo tornati indietro d’un passo" (Charles Baudelaire, "Poesie e Prose", Milano 1973).
CINEMA TEATRO, ARTE E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI":
"KEDI - LA CITTA’ DEI GATTI", L’ENIGMA DELLA "TRAPPOLA PER TOPI" ("THE MOUSETRAP") DELL’AMLETO, LA "MADONNA DELLA GATTA" (DI FEDERICO BAROCCI), E IL "CASO" DELL’ "UOMO DEI TOPI" DI SIGMUND FREUD.
Una recensione di Francesca Ferri, del film-documentario di Ceyda Torun:
"[...] "Sono cresciuta a Istanbul fino all’età di undici anni - ha spiegato Ceyda Torun - e credo che la mia infanzia sarebbe stata infinitamente più solitaria se non fosse stato per i gatti e io non sarei la persona che sono oggi. Sono stati i miei amici e confidenti e dopo il trasferimento, ogni volta che mi capitava di tornare a Istanbul, trovavo la città sempre meno riconoscibile ad eccezione di una cosa: i gatti, unico elemento costante e immutato che incarnava l’anima stessa della metropoli. Questo film è, per molti versi, una lettera d’amore a quei gatti e alla città".
Divinizzati dagli antichi egizi, i gatti sono notoriamente amati dai musulmani da quando il profeta #Maometto fu salvato da una #gatta soriana, che lo protesse da un serpente. Maometto così regalò ai felini la facoltà di poter osservare contemporaneamente il mondo terreno e la dimensione ultraterrena.
Attraverso lo sguardo dei sacri felini, dunque, Ceyda Torun ci lascia ammirare la città da un’altra prospettiva, mostrandoci gli angoli più nascosti, gli scorci dimenticati, i nascondigli segreti. Istanbul svela il fascino decadente di una città in continuo cambiamento in cui il nuovo si aggiunge al vecchio senza mai sostituirlo. Da sotto i tavoli dei caffè e dei mercati o dall’alto dei cornicioni dei palazzi, come i gatti, osserviamo la città, il suo magma indistinto, la sua chiassosa umanità. E seguendo le loro impronte scopriamo la città dei gatti. Nella vastità di Istanbul ogni #gatto, "kedi" in turco, ha il suo quartiere, le sue abitudini, i suoi riti. [...]" (MYmovies.it, mercoledì 25 aprile 2018 - ripresa parziale).
a) SHAKESPEARE, "AMLETO". LA "TRAPPOLA PER TOPI" REALIZZATA DAL "#SERPENTE-RE" E LA #PANTOMIMA FATTA RAPPRESENTARE A SUO "ONORE" DAL PRINCIPE AMLETO, CHE CON LA #TESTA SOPRA IL #GREMBO DI OFELIA "RECITANO" INSIEME NEL "LORO" SPETTACOLO DELLO "SPETTACOLO":
b) ARTE E ANTROPOLOGIA: LA "MADONNA DELLA GATTA". Federico #Barocci (Urbino 1528/1535 - 30 settembre 1612), Visita di Sant’Elisabetta, con San Giovanni Battista e San Zaccaria, alla Madonna col Bambino e San Giuseppe, detta "Madonna della gatta" ).
c) PSICOANALISI E STORIA. S. #Freud, "Casi clinici 5: L’uomo dei topi: Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva", 1909, Bollati Boringhieri.
STORIA LETTERATURA E METATEATRO: #HAMLET #ETICA #MENTE, CON IL #BAMBINO "SULLE SPALLE DEI GIGANTI" (#PROFETI E #SIBILLE).
ANTROPOLOGIA STORIOGRAFIA E CRITICA DEL #SONNODOGMATICO (KANT) DELLA "STORICA" #COSMOTEANDRIA PLATONICO-PAOLINA "OCCIDENTALE"...
CRISTIANESIMO E CATTOLICESIMO NELL’EUROPA DEL #SEICENTO. Shakespeare, come #DanteAlighieri, ha (a mio parere) una visione della storia e della società che ha già i piedi nel #futuro, ben al di là della teologia-politica del #paolinismo cattolico e protestante (ateo e devoto), ben oltre l’orizzonte costantiniano di #Nicea (325-2025) e della #tragedia e della "biblica" #caduta. Sia Dante, sia #Michelangelo (v. foto allegata), sia Shakespeare (con #GiordanoBruno e ... Isaac Newton), sono con il bambino "sulle spalle dei giganti" (Robert K. #Merton), non con i pifferai-giganti sulle spalle dei bambini, di ieri e di oggi.
L’ ITALIA, METAFORA DEL GIARDINO: SIGMUND FREUD (E DANTE ALIGHIERI) ALLA RICERCA DELLA VIA D’USCITA DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA (E DELLA "CADUTA" LUCIFERINA ALL’INFERNO).
USCIRE DA SE’ PER CERCARE LA "ANTICA TERRA" E RI-TROVARE "I PROPRI #GENITORI". Come #DanteAlighieri, con #Virgilio ("dolcissimo patre"), così Sigmund #Freud, con più difficoltà edipiche (con il suo padre #Jakob): entrambi cercano "l’antica madre" (#Eneide, III, 116-117), il "sogno di una cosa" (K. #Marx), il "giardino dell’Impero" l’uno, la "Terra promessa" l’altro.
DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata #Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
AMARE L’ITALIA. Freud, confidando nell’amore di sua madre #Amalia (#Nathanson), come Dante, nell’amore di sua madre, la "#Bella e beata", "#Beatrice"), l’uno, come l’altro, affrontano un lungo cammino per risalire "salomonicamente" la corrente, e, finalmente, ritrovare al di là della dell’inferno e della tragedia, "l’antica matre" ("#Eva") e l’antico padre ("#Adamo"), e, finalmente, rigenerarsi nell’acqua viva dell’#amore "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
COSMOLOGIA #POESIA E #LOGOS. Quando avremo sondato l’Universo alla ricerca della nostra incapacità di dominarlo e di capirlo, dovremo ritornare al Poeta e concludere che a muover il Sole e le altre stelle (a muoverle, ma non a spiegarle) è l’Amore. Allora la nostra fede non sarà più liberatrice, ma deduttiva, accettata per la nostra incapacità di andare oltre. Crederemo perché è evidente, non perché è assurdo." (#ENNIO #FLAIANO, "DIARIO DEGLI ERRORI", 1967).
* MARINA D’ANGELO, "I VIAGGI DI FREUD IN ITALIA. LETTERE E MANOSCRITTI INEDITI", BORINGHIERI 2024:
Arrestata in Pakistan la madre di Saman
Era latitante dal primo maggio 2021, trovata in un villaggio ai confini con il Kashmir
di Redazione ANSA, 31 maggio 2024
La madre di Saman Abbas, Nazia Shaheen, 51 anni, è stata arrestata in Pakistan.
La donna a dicembre è stata condannata all’ergastolo dalla Corte di assise di Reggio Emilia, per l’omicidio della figlia, accusata dall’indagine della Procura e dei carabinieri. Era latitante dal primo maggio 2021, il giorno in cui era tornata in patria da Novellara, insieme al marito, dopo l’omicidio. Su di lei c’era un mandato di cattura internazionale. E’ stata trovata in un villaggio ai confini con il Kashmir, nell’ambito delle attività d’indagine poste in essere in collaborazione con Interpol e la Polizia Federale pachistana.
Nazia Shaheen, madre di Saman Abbas, dopo l’arresto in un villaggio ai confini con il Kashmir, a quanto si apprende è stata trasferita a Islamabad per le procedure formali di estradizione. La donna, latitante dal primo maggio 2021 e condannata all’ergastolo dalla Corte di assise di Reggio Emilia per l’omicidio della figlia, è comparsa questa mattina in tribunale nella capitale pachistana alle 10 ora locale (le 7 in Italia).
La madre di Saman Abbas, Nazia Shaheen, era latitante dal primo maggio 2021 insieme al marito, Shabbar Abbas, padre della ragazza di 18 anni uccisa a Novellara (Reggio Emilia) nella notte fra il 30 aprile e il primo maggio. I due erano fuggiti, partendo con un biglietto di sola andata, il primo maggio, da Milano Malpensa per Lahore, come testimoniato dalle liste d’imbarco e dalle telecamere al gate dell’aeroporto. La richiesta di estradizione per entrambi, madre e padre di Saman, era stata firmata dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia il 23 settembre 2021. Shabbar fu arrestato il 15 novembre 2022 nella regione del Punjab su mandato di cattura internazionale. Dal momento dell’arresto al suo arrivo in Italia trascorsero quasi dieci mesi. Per lui la procedura di estradizione fu particolarmente lunga per la mancanza di accordi bilaterali in materia fra Italia e Pakistan. Il via libera da parte della magistratura, dopo molti rinvii, arrivò il 4 luglio 2023, ma mancava l’ok del governo pachistano. Il semaforo verde si accese a fine agosto, con la concessione dell’estradizione del ministro dell’Interno pachistano. Un esito storico perché non era mai successo che una estradizione attiva fosse concessa dal Pakistan. Shabbar atterrò in Italia su un volo dell’Aeronautica militare nella notte tra il 31 agosto e il primo settembre 2023.
STORIA E LETTERATURA: LA "BEATA E #BELLA" DONNA DI #DANTEALIGHIERI, LA #DIVINACOMMEDIA, E LA #FILOLOGIA "ROMANZA_TA".
A #ONORE E #MEMORIA DI #FRANCISCO #RICO, UNA NOTA A MARGINE DI UNA SUA INTERVISTA, APPARSA NEL 2017 SU "INSULA EUROPEA" A CURA DI ROBERTA #ALVITI:
RIFLETTENDO "sul canone dei suoi autori e maestri" (come sollecita a fare Carlo Pulsoni), forse, non è il caso di rimeditare sull’ importante affermazione relativa a uno dei suoi "maestri, il grande Giuseppe #Billanovich, [che] diceva che cercando bene, si sarebbero trovate perfino le #lettere di #Dante a #Beatrice..." (cit.)?! A partire da questo #abbaglio storiografico di lunga durata sulla figura della "donna #beata e bella" (Inf. II, 53), non è ora di pensarci su e mettere in discussione il "buon senso" con cui da sempre è stata attinta l’acqua alla #fonte del #Boccaccio e del #Petrarca?! A 700 aanni e più dalla morte di Dante, è ancora "lecito" condividere filologicamente del petrarchista Marco #Santagata (cfr. "Le donne di Dante", Il Mulino, 2021) l’idea di una giovane "Beatrice", come un «#manichino senza corpo», messa a confronto di una "#Laura", «personaggio pieno, sfaccettato»?! Non è il caso di svegliarsi dal #sonnodogmatico e uscire dall’orizzonte infernale, con l’aiuto del saggio "#Virgilio" e della #Bella "Beatrice"?!
NOTA:
LA "STORIA" DEL "CAPRO ESPIATORIO" (RENE’ GIRARD): COME UN ARIETE, UN MONTONE, DIVENNE UN "CAPRONE".
PRIMAVERA2024, #21MARZO: UNA "NOTA" SULLE "COSE NASCOSTE SIN DALL’ORIGINE DELLA FONDAZIONE DEL MONDO" (Mt. 13, 35).
Ariete ♈️: #25marzo (#Dantedì). Considerando (e accogliendo) astrologicamente che da #oggi "il segno dell’Ariete, simbolo per eccellenza dell’#Equinozio di Primavera", è il #segno "che ci accompagnerà fino al 20 aprile, e che la sua "figura mitologica si collega al Dio primaverile che nelle varie culture poteva rappresentare colui che apre l’anno, colui che abita il bosco sacro, il guardiano del Ponte #Arcobaleno, colui che si sacrifica, ecc." e, ancora, che l’ Ariete "è un segno cardinale di fuoco, governato da #Marte e opposto al segno della #Bilancia" (#LeaCimino, "#Calendariopagano"), forse, è opportuno ricordare che l’Ariete ė una delle figure centrali della storia dell’immaginario occidentale, decisiva per la comprensione stessa non solo dell’importanza dell’ impresa di #Giasone alla ricerca del "Vello d’Oro", come della fuga di #Ulisse dall’antro di #Polifemo, ma anche e soprattutto della "Divina #Commedia" di #DanteAlighieri (e della stessa possibilità di uscita dall’orizzonte della tragedia e dall’inferno, a tutti i livelli).
ARCHEOLOGIA FILOLOGICA A E ANTROPOLOGICA. BENCHE’ SULLA IMPORTANZA DELLA FIGURA DELL’ARIETE SI SIA IN UNA CONFUSIONE "BESTIALE", E SI FACCIA FINTA DI NULLA, FORSE, VALE LA PENA PRENDERE ATTO DI UNA ELOQUENTE "RISPOSTA" DELL’ANTROPOLOGO RENE’ GIRARD.
Per Girard (ma così per tutte le storiche Accademie della tradizione culturale europea), un capro, un "capro espiatorio», non è altro che l’«#agnello di Dio», il #Figlio del "Padre Nostro":
"DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929). René Girard confonde ’ciecamente’ i livelli e nega l’immortale acquisizione di Sigmund Freud. L’ "edipo completo" permette di capire la rivalità dei #fratelli (e delle #sorelle) e lo stesso messaggio evangelico, non viceversa. L’incomprensione della lezione di Freud spinge ad una cieca apologia del cattolicesimo costantiniano (#Nicea 325 - 2025): il #cristianesimo non è un cattolicismo... e in #Principio non c’era un #Logo (altrimenti, si cade e si ricade sempre e ancora tra le "braccia" del ’tragico’ #caprone)!
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PACE PERPETUA" (#KANT2024):
A CHE #GIOGO GIOCHIAMO?! ANCORA ALLA "SPADA DI DAMOCLE"?!
RIPETIZIONE E DIFFERENZA: EUROPA 2024. Dopo millenni di #cosmoteandria, si ricorda ancora la lezione del vecchio dogmatico pro-ver-#dio "chi di spada ("gladio") ferisce, di spada ("gladio") perisce"?!
A quanto pare la filologia e la teologia-politica della #tragedia non sa nulla dell’#hamlet _ ica questione dell’#enigma (e della visione) del "#crepuscolo degli #idoli": «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?».
Nonostante la sollecitazione dell’ #EcceHomo (#Nietzsche, 1888) si continua a non aver il coraggio di fare buon uso della propria facoltà di giudizio ("#Sàpere aude!", #Koenigsberg 1784/ #Kaliningrad 2024) nulla del "buon messaggio" (Matteo 26,52) e, l’anno prossimo, ci si appresta a celebrare, l’imperatore cosmoteandrico, il figlio del dio Mammona, #Costantino (Nicea, 325-2025)?!
Non è forse meglio, per il #Dantedì, per il #25marzo, rileggere la "divina commedia", la fenomenologia dello spirito dei due Soli e cercare di uscire dall’orizzonte della tragica #caduta nel luciferino #buconero?!
STORIA E LETTERATURA ANTROPOLOGIA E "SAPERE AUDE!" (#KANT2024): CON #DANTE ALIGHIERI, OLTRE I "#BUCHI NERI" E I "BUCHI BIANCHI".
DIVINA COMMEDIA: "ULISSE", SEGUENDO LA LINEA DELLA CADUTA DI LUCIFERO, ESCE FUORI DALL’IMBUTO DELL’ INFERNO TERRESTRE E RIPRENDE LA NAVIGAZIONE NELL’OCEANO CELESTE. Alcuni appunti sul tema...
COLLOCANDOSI "Dentro l’orizzonte" di Carlo Rovelli, contrariamente a quanto egli pensa, a ben interpretare il suo convincimento relativo al fatto che, "Dopo aver salito la montagna del Purgatorio Dante perde Virgilio [la paterna guida], ma in quello stesso momento, travolto dall’emozione, vede apparire Beatrice - conosco i segni de l’antica fiamma!" (C. Rovelli, "Buchi bianchi", Adelphi 2023, pp. 74-75 ), forse, è opportuno e precisare (dopo secoli) che "conosco i segni dell’antica fiamma!" (Pg. XXX, 48) sono parole di un figlio, Dante, rivolte alla sua paterna guida (vv. 50-52: "Virgilio, dolcissimo patre, /Virgilio a cui per mia salute die’mi; né quantunque perdeo l’antica matre"), nel momento stesso in cui riconosce la "#bella e #beata" (Inf. II, 53), #Beatrice, la guida materna, e "vola al di là dello spazio e del tempo" (C. Rovelli, cit., p. 75).
A questo punto, al di là di quanto generalmente si è pensato e si pensa ancora, è bene riconoscere che "i segni della fiamma antica" non rimandano affatto a una #Didone-Beatrice, ma, più precisamente, a "#Ulisse", "Lo maggior corno della fiamma antica" (Inf. XXVI, 1), che in questo caso, accompagnato dal padre, riconosce e ritrova "la antica matre" (Eva) e la nuova #madre, la giovane #Maria-Beatrice, e... Sé stesso, divenuto un #altro #Cristo - antropologicamente e cristianamente (al di là della teandrica logica di #BonifacioVIII)!
DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, XXX, 55--57, 73-84:
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
[...]
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.
(Dante Alighieri, Purg. XXX, vv. 55-57, 73-84)
L’ #ODISSEA DI DANTE ALIGHIERI. Nella loro indagine scientifica e antropologica, "Il #Mulino d’#Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo" (Adelphi 1983 e 2003), Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, hanno già detto parole fondamentali sull’inaudito legame "cosmoteandrico" (antropologico, cosmologico, e teologico) nella visione e nella "scelta esistenziale dell’uomo Alighieri. I poeti non sanno custodire la loro verità. Ulisse che si mette in viaggio verso sud-ovest in un ultimo, disperato tentativo predestinato dall’ordine delle cose al fallimento, che cerca di raggiungere «il mondo sanza gente» e viene inghiottito dal gorgo in vista della meta: eccolo il simbolo. Ed è rivelato non dal pensiero cosciente del poeta, ma dalla potenza degli stessi versi, così incomparabilmente remoti, come luce proveniente da un «oggetto quasistellare». [...] egli fu colui che volle fino all’ultimo, anche contro Dio, acquistare esperienza e conoscenza. La sua nobiltà luciferina rimane nella nostra memoria più della suprema armonia dei cori celesti" (op. cit.).
***
B) - NUOVI ORIZZONTI LETTERARI. Né realismo né fantasie. Allo scrittore piace farlo strano: "[...] Sperduti nella selva. Il ‘900 si apre con la confessione di Kafka a Milena. Questi vorrebbe solo posare la guancia nel conforto luminoso e rasserenante, ordinario offerto della mano dell’innamorata, eppure egli avverte anche il continuo oscuro richiamo alla “selva, a questa origine, a questa vera patria”. Impossibile per un lettore italiano e non solo evitare la suggestione dell’avvio immaginativo di un altro padre fondatore della letteratura moderna, 600 anni prima. Anche Dante aveva preso le mosse dalla “selva”, luogo del traviamento, dell’informe, declinazione continentale del mare oscuro per generazioni di europei, passaggio di tutte le “incertezze della ioventude”, nelle sue stesse parole, ma anche luogo iniziatico delle avventure cavalleresche, dei loro bivi e sentieri ambigui. E, ovviamente, incipit di innumerevoli fiabe.
L’intera “Commedia” è una sorta di potatura, che per giungere alla purezza della Candida Rosa deve passare da un Giardino dell’Eden laddove Dante capisce che in fondo la selva era lui stesso (Purg. XXX, 118-20). Ma il carattere di sperimentazione e ibridazione permangono fino all’ultimo verso, nella sua perenne fusione di realismo, fantastico, teologia della storia, “quest” eroica, memoir proustiano e itinerario mistico-visionario. Un’operazione sperimentale, spiazzante persino a quei tempi. In essa è possibile ravvisare semi e fermenti che poi, al pari delle sentenze della Sibilla, si sparpagliano al vento, e ognuno afferra quel che riesce.
Per C. S. Lewis la scalata di Lucifero e l’inversione dei poli al centro della terra costituiva la prima grande scena di fantascienza dell’era moderna, secoli prima di Jules Verne. Col senno di poi, la foresta attorta e sanguinante dei suicidi di Inferno XII ove le Arpie “versi fanno in su li alberi strani”, con tutta l’ambiguità di quello “strano” che sembra riferirsi tanto alle strida che ai rami, pare davvero condensare tutte le bizzarrie biologiche dell’Area X del lovecraftiano Jeff Vandermeer. Petrarca non solo rifiuterà un simile coacervo di sperimentazioni e fusioni ma compirà un’opzione, urlare i suoi gabbiani dei circoli polari con voce sinistra, umana. “Tekeli-lì, Tekeli-lì.” E sarà proprio quel grido a essere ripreso dal suo erede H. P. Lovecraft per tratteggiare la propria mitologia d’orrore cosmico su “Weird Tales”.
[...]
La guerra tra fantastico e realistico è finita, o è cambiata. Siamo tornati nella Selva, tra rami spezzati, fruscii, minacce, fantasmi soccorritori che ci tengono forse la mano e propongono “un altro viaggio”. E molti sentono che per raccontarlo occorre non essere semplicemente ciechi e per questo poeti, come già il gran padre Omero, ma pure “uomo e donna” come Tiresia il veggente, abbattere così ogni steccato, rifiutare persino la dialettica feconda tra opposizioni, giacché “ogni vera conoscenza è sempre un sacrilegio”. È così che Nietzsche descrisse la dolorosa vocazione di Prometeo ed Edipo." (EDOARDO #RIALTI, "Il Foglio", 02 mag. 2023).
MITO E ANTROPOLOGIA: UNA DOMANDA DI UMBERTO SABA E LA SPERANZA (IL FILO DEL "SERPENTE") DI DANTE ALIGHIERI
(Par. XXV, 97-99: "E prima, appresso al fin d’este parole, / ‘#Sperent in te’ di sopr’a noi s’udì: a che rispuoser tutte le carole.").
STORIA E LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. Nella dimensione dell’#immaginario di Saba, nella lotta di "fratelli contro fratelli", gli "italiani" affondano con i piedi e con la testa non solo nella #Terra di #Romolo e #Remo ("#Cesare", ma anche di #Caino ed #Abele ("#Cristo"): e di qui, forse, la possibilità di risalire la corrente dei fiumi e, come i #salmoni e le #anguille, con #Salomone (e #Freud e Trieste e Napoli) e Dante Alighieri, e ritrovare la #sorgente, "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
DIVINA COMMEDIA. Nel non detto delle parole di Umberto Saba, non emerge un #segnavia "delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo" (#RenéGirard) che sollecita a proseguire il cammino e portarsi oltre la #tragedia?
#Earthrise #Dante2021 #Kant2024
*
Note:
A) CON #DANTE, RICORDANDO #MICHELANGELO E LA SUA #RAPPRESENTAZIONE DEL BIBLICO "SERPENTE DI BRONZO" NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA.
B) INCONTRO DEL #RE #SALOMONE E DELLA #REGINA DI #SABA (Part. della "Porta del Paradiso" del #Battistero di San Giovanni Battista di Firenze realizzato da Lorenzo Ghiberti, tra il 1425 e il 1452.
C) PER (RIFLESSIONI SUL TESTO DI) UMBERTO SABA, cfr. "Italiani fratricidi / commenti /", a c. di Helena Janeczek ("Doppiozero", 7 Marzo 2011).
EUROPA, NAVE DEI FOLLI E STORIA DELLA FOLLIA. L’interpretazione dei sogni (S. Freud, 1899) è un’arte e una scienza molto difficile, a quanto pare: dall’orizzonte della tragedia, l’umanità è incapace di uscire? *
Una gita a Clusone e una a Pinzolo non guastano. La danza macabra di Borlone de Buschis di Clusone (1485) e quella di Simone Baschenis di Pinzolo (1539) segnano forse l’inizio e la fine di un periodo di comunità inconfessabile (Blanchot, 1983). Inconfessabile perché composta di trapassati, che, in quanto tali, già sono passati in giudicato, ingiudicabili. In molti accomunano questa comunità a un’altra, che potrebbe essere anche la medesima, chissà. Si tratta della Stultifera Navis. Cos’hanno in comune gli stolti e i morti? Il semplice fatto di non essere confessabili. Gli uni per il regno dei cieli, gli altri per la terra, sono inguaribili. Bosch e le illustrazioni a Brant di Dürer ne danno rappresentazione figurativa. Ecco una figura chiave, il centro del primo capitolo, della prima parte della Storia della follia di Foucault: Sebastian Brant (1458-1521). Vissuto tra l’opera del de Buschis e quella del Baschenis. Nel giugno 1984 Francesco Saba Sardi (1922-2012) ci regalò, in versi endecasillabi, la traduzione di Das Narrenschiff.
Narrenschiff uscì per la prima volta nel 1494, due anni dopo la scoperta dell’America. Prima di Brant abbiamo alcune opere importanti sull’argomento a partire dal 1360. Si immagina una sorta di confraternita delle persone strambe - le sole che possano esservi ammesse. Corporazione non chiusa per via di censo, particolari privilegi o saperi occulti. Bisognava essere, per esempio, un vescovo che aveva ipotecato il reddito per comprare il titolo religioso, un alchimista che aveva sciolto nel crogiolo le sue ricchezze.
La follia è ingiudicabile altrettanto quanto la morte, inguaribile. Questa caratteristica segna una linea di confine comunitaria, la nave è uno dei suoi contenitori. A quel tempo - successivo alla lebbra e alla peste, coevo di una nuova malattia giunta dalle Americhe, la sifilide - i folli venivano allontanati dalle città, imbarcati su navi per essere abbandonati altrove, ma il navigatore spesso le gettava a mare o le sbarcava in qualche landa desolata, dove morivano. Molti annegavano. Non è difficile immaginarlo oggi che abbiamo sotto gli occhi le immagini di uomini e donne morti alla deriva delle coste italiane. Unica differenza: allora giungevano dove nessuno stava, oggi invece si torce il collo altrove.
Gran satira grottesca o poema moralista? L’opera di Sabstian Brant ci lascia ancora nel dubbio. Quando Foucault ci parla della Stultifera Navis, qualunque opera scritta o figurativa ci venga in mente, dà un senso a quell’insieme indistinto di uomini e donne che ci entravano. Foucault distingue questo ammasso indifferenziato dalla follia così come viene identificata a partire dal secolo XVIII. Dal Settecento la follia diventerà regno del dominio medico, verrà diagnosticata e sistematicamente curata.
La nave dei folli non è che l’inizio di un processo che vedrà successive partizioni, da Erasmo fino a Pinel; è un crogiolo umano, un pleroma. Per alcuni Brant si confronta con l’avvento del Nuovo Mondo. La nave dei folli richiama le navi che iniziano a salpare verso le Americhe, fino al Seicento con la Mayflower, carica di puritani. Nave che navigò la luna, secondo i versi di Paul Simon. Anche loro inconfessabili, in quanto protestanti, spirito del capitalismo.
Brant sarebbe il primo progressista dell’epoca moderna, sguardo disincantato verso il futuro imminente e immanente, fiducia nella città come luogo dell’innovazione e, per via dei commerci, luogo d’incontro multiculturale. La città è il centro dove ogni superstizione, credenza, invidia, odio saranno eliminati. Brant progressista. Invero sulla nave - destinata a Narragonia, che si dirige verso Cuccagna - non ci sono solo i folli contemporanei, bensì usurai, giocatori d’azzardo, adulteri, viziosi, prodighi, invidiosi, voluttuosi, ingrati, spergiuri, bestemmiatori. Tutta la follia premoderna raccolta dentro questa nave autorganizzata, autosufficiente, autopoietica. Brant moralista.
A voler ben guardare, la maggioranza del testo elenca, tra l’altro, la cupidigia, le nuove mode, il retto Catechismo, gli istigatori di discordia, le male costumanze, il dispregio delle Scritture, i galanti, la crapula e la gozzoviglia, le ciarle, i desideri superflui, gli studi inutili, le procrastinazioni, l’adulterio, la presunzione, la voluttà, l’ingratitudine, la bestemmia, l’usura.
Come scritto, Albrecht Dürer illustra l’opera di Brant e Bosch crea una sua opera, sempre nel 1494. Nel frattempo altre comunità inconfessabili si muovono per via terrena, gli Ebrei, cacciati da Spagna e Portogallo, i Valdesi perseguitati ed erranti tra le valli montane fino alla Riforma.
Quanto l’opera si adatti all’ultimo ventennio, quanto sia attuale, quanto si stia trasformando nella Nemesi, lo vediamo dal momento in cui l’Europa è essa stessa, oggi, una nave di folli. Ci si aspetta solo un grande evento naturale, il distacco dagli Urali.
*
A) - EUROPA (1914-1918): "[...] In occasione della prima guerra mondiale [Groddeck] fu richiamato in servizio nella sua qualità di medico militare. Poiché aveva cercato di dirigere anche l’ospedale da campo come fosse stato quello che spesso chiamava il suo #Satanarium (invece di #sanatorium) si attirò le antipatie di tutti, fino ad essere allontanato dal servizio nonostante l’intervento di autorevoli pazienti di un tempo, quali la stessa sorella del Kaiser e il marito.
Fu nel maggio 1917 che Groddeck scrisse la sua prima lettera a Freud [...]" (cfr. Martin Grotjahn, "Georg Groddeck (1866-1934). L’analista indomito", in AA. VV., "Pionieri della Psicoanalisi", Feltrinelli, Milano 1971).
B) - GEORG GRODDECK, "SATANARIUM" (il Saggiatore, MILANO 1996):
SCHEDA EDITORIALE: "Siamo nel 1918. Il macello della guerra è in pieno corso. Groddek, che da anni dirige una clinica per malattie mentali, il #Sanatorio #Marienhohe, presso #BadenBaden, decide che il ruolo passivo dei suoi ospiti non è più sufficiente. Essi devono gridare ciò che li tormenta e li opprime, devono esprimere i loro desideri, manifestare le loro fantasie e, nel castello in aria del #Sanatorio, dedicarsi alla #ricostruzione dell’#Europa. "Mi propongo di dare all’uomo la possibilità di urlare il proprio tormento liberamente, senza timore né pudore. L’unico luogo in cui ciò è consentito mi pare essere l’#inferno; perciò chiamo questa rivista ’Satanarium’. Ne usciranno 23 numeri, tutti raccolti in questo volume che ricalca anche le caratteristiche grafiche degli originali." (https://www.ibs.it/satanarium-libro-georg.../e/9788842803928).
ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA. Psicoanalisi, Religione, e Storia:
Una nota a margine della notizia relativa al fatto che
°°°
"Cum grano salis", e con tutte le differenze implicite ed esplicite. Per quanto possa sembrare strano, a mio parere, siamo di fronte a una pericolosissima e importantissima "freccia ferma" della intera storia umana, quella antropologica: siamo di fronte alla famosa #question sottolineata da #Shakespeare: "The time is out of joint" ("Amleto", I.2).
CULTURA E SOCIETA’. Quanto sta succedendo sul Pianeta Terra , sul piano antropologico e sociologico-politico, non ha niente a che fare con l’indagine #critica di Freud e dei suoi grandi collaboratori (ricordo, in particolare: Theodor Reik) sull’immaginario "biblico" e sulla più che millenaria tradizione tragica (paradigmaticamente indicata dalla figura di Edipo)?
INTERPRETAZIONE DEI SOGNI. Su quanto sta succedendo, in particolare in #Afghanistan, non è da "interpretarsi" come la memoria e l’emergenza del "preistorico" #iceberg di "Adamo ed Eva" e del "mosaico" su cui ha lavorato per tutta la vita lo stesso Sigmund Freud?!
*
ALMANACCO QUOTIDIANO
di Almanacco quotidiano *
Nonostante l’anno di celebrazioni per il settimo centenario dantesco, il nome di Guido Vernani resta ai più sconosciuto. Perfino la sua Rimini sembra esserselo del tutto dimenticato, nel 2021 come del resto da sempre. Eppure Guido Ariminensis, o Vergnani, o Vernano o de Vergnano, fu l’ideologo dei più accaniti avversari del Sommo Poeta. Ma non si trattava di poesia, bensì di politica. E l’idea politica del fiorentino è condensata nel trattato De Monarchia.
La poesia rende immortali, la politica difficilmente ci riesce. Eppure la meravigliosa costruzione poetica di Dante voleva essere innanzi tutto politica e filosofica. Per i contemporanei, almeno i più potenti e istruiti nel latino in cui è scritto, il De Monarchia andava letto con attenzione ancora maggiore della Commedia.
Un’attenzione che per gli avversari politici di Dante si risolse in condanna totale. E fu così che nel 1329 - la data e nemmeno l’episodio hanno il conforto di prove certe, ma sono riferite pochi anni dopo da Bartolo da Sassoferrato e poi da Boccaccio, cui danno credito la maggioranza degli storici odierni - tutte le copie del De Monarchia che si riuscirono a rastrellare furono messe al rogo nella piazza di Bologna. A volere la condanna per heresia, il cardinale Bertrando del Poggetto, nonostante l’Autore, com’è noto, fosse morto già da 8 anni.
Il prelato avrebbe pure tentato di impadronirsi delle ossa di Dante per gettare fra le fiamme anche quelle; non vi riuscì solo per le risolute opposizioni del plenipotenziario di Firenze Pino della Tosa e di Ostasio Da Polenta signore di Ravenna. Oltre duecento dopo, nel 1559, il De Monarchia venne ritenuto ancora così pericoloso da essere inserito dal Sant’Uffizio nel primo Indice dei libri proibiti. Condanna confermata nelle successive edizioni dell’Indice sino alla fine del XIX secolo.
Nel 1329 Bertrand du Poujet, italianizzato in Bertrando del Poggetto, era da 10 anni Legato per la Provincia Romandiolæ (la Romagna più il Bolognese) e la Toscana per conto di papa Giovanni XXII, suo parente e protettore, che stava ad Avignone. Il Cardinal Legato conduceva, anche con le armi, la difficile lotta contro i Ghibellini, che avevano vieppiù rialzato la testa con la calata in Italia dell’imperatore Ludovico il Bavaro. Castruccio Castracani dalla sua Lucca controllava gran parte della Toscana paralizzando le guelfe Firenze e Siena; Visconti di Milano, Scaligeri di Verona e Bonaccolsi di Mantova dilagavano ormai in tutto il nord Italia e minacciavano la stessa Bologna. Qui Bertrando aveva stabilito la sua roccaforte, facendovi anche costruire il sontuoso palazzo-fortezza della Galliera.
Ma la penna ferisce più della spada. Per ribattere efficacemente agli imperiali non bastavano nè guerre nè roghi di manoscritti. Quel Dante che aveva esaltato l’Impero e negato potesse essere sottomesso a un Papa, andava debellato negli stessi campi in cui aveva voluto avventurarsi: giuridico, filosofico, teologico. Tanto più pericoloso in latino, quanto la sua Commedia in volgare lo stava rendendo sempre più popolare. Ed ecco che compare la “De Reprobatione Monarchiae compositae a Dante“. Autore: il frate domenicano Guido Vernano de Arimino.
Luigi Tonini nell’Ottocento rintracciò negli archivi tutte le scarne notizie che lo riguardano. Ipotizza l’orgine del cognome: dalla villa di Vernano, dipendente dalla pieve di Santa Paola di Roncofreddo, castello appartenente al Comune di Rimini sin dal 1197 e alla fine del Duecento a Gianciotto Malatesta. Vernano fa tutt’ora parte della diocesi riminese sebbene sia ricompresa nella provincia di Forlì-Cesena, comune di Sogliano al Rubicone. Nella località, raggiungibile percorrendo la ripidissima via Vernano-Montetiffi che poco a monte di Ponte Rosso lascia il fondovalle dell’Uso e la strada provinciale 88, esiste tuttora una chiesetta risalente al XII secolo dedicata a San Benedetto.
Il primo indizio sul nostro personaggio compare “in Atto del 10 maggio 1293, nel Codice Pandolfesco, fra i possessori adjacenti a certo terreno posto in curia Veruculi v’ha un Guido Vernanus. Se costui non fu un omonimo, potremo dire che il suo ingresso alla Religione fosse posteriore a quell’anno”. In quanto chi prendeva i voti non poteva detenere beni propri quale tal terreno a Verucchio, mentre Guido a un certo punto risulta far parte de’ Predicatori di S. Domenico. I frati mendicanti Domenicani avevano a Rimini il grande convento dedicato a San Cataldo. Una pergamena della Gambalunga datata 31 dicembre 1324 nomina “Fra Guido de Vernano” fra i fedecomissari di una permuta.
Ma la prima prova della sua attività di autorevolissimo predicatore è del 22 settembre 1325. “Quando - dice sempre il Tonini - Guido Rettore della Chiesa di S. Severo di Cesena, Vicario di Giovanni Vescovo di Rimini, pubblicò nella Cattedrale di S. Colomba la Bolla di Papa Giovanni XXII contro Ludovico il Bavaro, e contro Castruccio tiranno di Lucca, Fr. Guido de Vernano Ord. Praedicat. de Arimino vulgarizzavit et vulgariter exposuit dictas litteras Johis. XXII. Così il Garampi trovò notato nell’Archivio segreto Vaticano”. Tocca dunque a lui tradurre dal latino e spiegare al popolo riminese perchè il Papa scomunicava l’Imperatore e il principale capo ghibellino.
Un altro documento è del 7 maggio 1326, quando “in presentia fratris Guidonis Vernani, e di altri Religiosi Domenicani, Girolamo Vescovo di Rimini diede la Bolla per la fondazione del Monastero delle Monache di Santa Catterina fuori Porta S. Andrea”. Ancora, l’8 dicembre del 1329 tale Umizino di Fusolo della contrada di San Cataldo prospicente l’omonimo convento (all’incirca l’attuale via Raffaele Tosi) nel suo testamento lascia un legato di 25 lire a “Fratri Guidoni Vernano pro suis necessitatibus”. L’ultima notizia che lo dà vivente è del 20 gennaio 1344: è “sindaco” di San Cataldo e in quanto tale vende una casa, posta sempre nella contrada omonima, a tale Martino Tommasini per 30 lire di Ravenna.
Fin qui le carte riminesi che parlano del Vernani. Dalle altre risulta lettore nello Studium generale dell’ordine dei frati predicatori in Bologna tra il 1310 e il 1324; nel 1312 consulente per l’inquisitore diocesano presso il convento di San Domenico sempre a Bologna.
Di quanto Guido ha scritto di suo pugno restano tre opere. La prima è un commento alla bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, quindi un trattato De Potestate summi pontificis del 1327. Sempre in ardente difesa della potestà assoluta del Papa, come si addiceva ai Domenicani allora in fierissima contesa con i Francescani, pure loro frati mendicanti e predicatori, ma schierati con l’Impero. Infine “un libello polemico che riguarda direttamente la fortuna di Dante nel Trecento: il De Reprobatione Monarchiae compositae a Dante, dedicato a Graziolo de’ Bambaglioli”, come annota Pier Giorgio Ricci nell’Enciclopedia Dantesca della Treccani (1970).
Graziolo era un insigne personaggio di Parte Guelfa, primo cancelliere di Bologna e “notaro alle spie” per il Cardinale del Poggetto: il che allora non significava essere il capo dei servizi segreti, ma comandante degli altrettanto preziosi esploratori militari. Scacciato da Bologna il Cardinale nel 1334 appena morto il Papa suo protettore, abbattuto a furor di popolo il forte della Galliera (dove oggi è il parco delle Montagnola), tutti i Bambaglioli furono esiliati e i loro beni confiscati. Quindi non stupisce che Guido dedichi la sua censura anti-dantesca e anti-imperiale a Graziolo, filo-papale quanto lui. Curioso invece che lo stesso Bambaglioli nel 1324, se non prima, sia stato uno dei primissimi a commentare e in termini entusiastici l’Inferno di Dante. Tanto potente fu da subito il fascino di quelle terzine, al di là delle appartenze politiche. Il De Reprobatione si ritiene scritto in contemporanea o subito dopo la condanna cardinalizia, che dovrebbe risalire al 1328.
Appaiono semmai più sconcertanti le considerazioni di storici e filologi italiani moderni sul conto del domenicano riminese. Lo stesso Tonini si rammarica nel constatare che “il nostro Fra Guido con la precisione della dialettica scolastica, sebbene in modo aspro oltre il bisogno, pone a sindacato ciascuna proposizione del Filosofo Poeta”. Addirittura, il già citato Pier Giorgio Ricci nel compilare la voce Vernani, Guido dell’Enciclopedia Dantesca, alla venerabile distanza di sette secoli sente il dovere di confutare lui quel frate medievale, facendo dire all’Alighieri quel che Egli non potè, essendo ormai defunto: “Con linguaggio acerbamente polemico il trattatello si studia di sottolineare i molti errori nei quali sarebbe incorso Dante, tacciato d’ignoranza e di stupidità, bollato come perverso ed eretico”; “Ma D. avrebbe potuto rispondere che il V. gli attribuiva affermazioni che nel testo della Monarchia non esistono, ovvero che male aveva inteso il suo pensiero”; “Ma ancora una volta D. avrebbe potuto rispondere che il V. non aveva inteso bene il suo pensiero”. E come si spiega quell’imbarazzante dedica dell’acerbissimo inquisitore al Bambaglioli, di ferma fede guelfa e tuttavia primigenio e appassionato commentatore dell’Inferno? Non si spiega, ma la solita Enciclopedia Dantesca (Aldo Vallone, 1963) ci tranquillizza: “Un avvenimento che non può lasciare ombre e perplessità sulla devozione del B. per Dante”.
Il che però non rende onore nè alla storia e tantomeno alla grandezza di Dante. Che viene invece colta in pieno in pagine di gran lunga più interessanti, ma scritte fuori dall’Italia. Come quelle di Ernst Hartwig Kantorowicz.
Nato a Poznań nel 1895, ebreo, volontario nella prima guerra mondiale e alla fine del conflitto nei Freikorps dell’ultra-destra in armi contro polacchi e comunisti, autore di una monumentale biografia di Federico II d Svevia, docente all’Università di Francoforte, autosospeso nel 1933 alle prime persecuzioni antisemite di Hitler, emigrato negli USA nel 1939, licenziato dall’università di Berkeley nel 1949 per aver rifiutato di prestare giuramento di anticomunismo, docente a Princeton fino alla morte nel 1963.
Kantorowicz per tutta la vita si interrogò sul potere. Da dove proviene? Nell’agognarlo come nel subirlo, gli uomini come se lo sono spiegato? Perchè riconoscono ad altri un’autorità? Insieme alla biografia dello “stupor mundi” l’altro capolavoro del medievista tedesco è -“I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia poltica medievale” (“The King’s Two Bodies. A Study in Mediaeval Political Theology”, 1957). Tutto il libro tende all’ultimo capitolo: dedicato a Dante. E inevitabilmente al suo antagonista dottrinale più stimolante, Guido Vernani.
Il De Monarchia per essere dato alle stampe in Italia attese la bellezza di quattro secoli. Vigente la condanna dell’Indice, il veneziano Pasquali che stava pubblicando l’opera omnia di Dante osò far gemere i torchi per il trattato anti-papale solo nel 1740 e premunendosi con false indicazioni sul frontespizio: Dantis Aligherii florentini Monarchia, Coloniae Allobrogum, apud Henr. Albert. Gosse & Soc. Il Tonini ci casca e ci informa che, “per essersi pubblicato in Colonia il libro De Monarchia che Dante ebbe scritto a’ tempi di Lodovico Bavaro contro la S. Sede, il P. Tommaso Ricchini Domenicano stimò opportuno la pubblicazione anche di essi”, cioè De Potestate e De Reprobatione di Vernani “i quali per ciò videro la luce per la prima volta in Bologna nel 1746 coi Tipi di S. Tommaso”.
Appena Dante si riaffacciava si rendeva necessario contrattaccare, con il predicatore riminese in testa e sempre partendo da Bologna.
Ma cosa aveva scritto Dante di tanto grave? Nel Purgatorio (XVI, 106) lo condensa così: “Soleva Roma, che l’buon mondo feo/ due soli aver, che l’una e l’altra strada/ facean vedere, e del mondo e di Deo”. E’ la “teoria dei due soli” che ogni liceale conosce e che nel De Monarchia è sviluppata compiutamente. In parole poverissime, papato e impero sono i due soli che illuminano il cammino del genere umano, il primo per condurre al paradiso celeste, il secondo al paradiso terrestre. Le due autorità supreme sono dunque alla pari. Così era nell’impero romano, nel quale Dio scelse di far nascere suo Figlio, fatto uomo quale suddito di Cesare.
Secondo Kantorowicz, “in effetti Dante ebbe una posizione chiave nelle discussioni politiche e intellettuali attorno al 1300 e se superficialmente il suo atteggiamento è stato spesso etichettato come reazionario, è solo la prevalenza dell’idea imperiale nelle sue opere per quanto differente essa fosse da quella dei secoli precedenti ad aver oscurato i caratteri assolutamente non convenzionali delle sue vedute politico-morali”.
Da una parte c’erano i “monisti” teocratici: “il potere del papa deriva da Dio, il potere dell’imperatore da quello del papa”, ovvero il sole è uno solo. Che invece i soli fossero due, che papa e imperatore derivassero entrambi i loro poteri da Dio, erano già in tanti a teorizzarlo fin dall’XII secolo. Con una spiacevole conseguenza per il papa: perchè l’imperatore potessere esercitare il suo potere gli era sufficiente essere eletto, senza bisogno dell’incoronazione pontificia. La pensavano così i “dualisti”. Ma Dante si spinge oltre.
“Due fini, adunque, cui tendere l’ineffabile Provvidenza pose dinanzi all’uomo: vale a dire la beatitudine di questa vita, consistente nell’esplicazione delle proprie facoltà e raffigurata nel paradiso terrestre; e la beatitudine della vita eterna, consistente nel godimento della visione di Dio, cui la virtù propria dell’uomo non può giungere senza il soccorso del lume divino, e adombra nel paradiso terrestre”. (De Monarchia, III, 16.14 sgg e 43 sgg.)
Glossa Kantorowicz: “Dante distingueva tra una perfezione «umana» e una «cristiana», due aspetti profondamente diversi della possibile felicità umana”. Aspetti destinati non a contrapporsi ma a sostenersi. “Gli autonomi diritti della società umana - per quanto dipendente dalla benedizione della Chiesa - erano con tanta forza esaltati che si può veramente dire che Dante ha «bruscamente e completamente mandato in frantumi» la concezione dell’indiscutibile unità tra temporale e spirituale”. “Dante non contrappose humanitas e christianitas, ma separò completamente l’una dall’altra; egli tolse l’«umano» dal campo cristiano e lo isolò come valore autonomo - forse il tributo più originale conseguito da Dante nell’ambito della teologia politica”. In effetti, un terremoto non da poco per un “reazionario”. Semmai qualcosa che anche nei termini odora già di “umanesimo”.
Ma non basta. “La sua humana universitas abbracciava non solo i cristiani o i membri della Chiesa romana, ma era concepita come la comunità universale di tutti gli uomini, cristiani o no. Essere «uomo», e non essere «cristiano», era il criterio per appartenere dalla comunità umana di questo mondo che, per il raggiungimento della pace, giustizia, libertà e concordia universale, doveva essere guidato dall’imperatore-filosofo alla propria autorealizzazione secolare nel paradiso terrestre“. “L’humana civitas di Dante comprendeva tutti gli uomini: gli eroi e i saggi pagani (greci e romani) come il sultano musulmano Saladino e i filosofi musulmani Avicenna e Averroè”
“E Dante, riprendendo un argomento tradizionale, poteva sostenere che il mondo fu nella condizione migliore quando venne guidato dal divo Augusto, che dopo tutto era un imperatore pagano, sotto il cui regno Cristo stesso scelse di farsi uomo e, perciò, cittadino romano“.
Ce n’era abbastanza per chi invece sosteneva che non vi era “nessun legittimo impero fuori dalla Chiesa”. Peggio, nessun imperatore pagano aveva esercitato un potere legittimo. E di qui parte il contrattacco di Guido Vernani: “Fra i pagani non vi fu mai vera res publica nè vero imperatore”, scrive il riminese.
Ancora Kantorowicz: secondo Dante “l’uomo qua uomo non necessitiava dell’assistenza della Chiesa per giungere alla felicità filosofica, alla pace, giustizia, libertà e concordia terrena, che erano alla sua portata grazie all’azione delle quattro virtù intellettuali. Questa idea fondamentale venne ben intesa non solo da contemporanei come Guido Vernani, che appassionatamente vi si oppose, ma anche da quegli esponenti del mondo della cultura che successivamente ripresero, per accoglierle, le posizioni dantesche”.
E qui lo studioso passa brillantemente ad illustrare gli affreschi del Perugino nella Sala dei Cinti Collegio del Cambio di Perugia: magnifico esempio dei postumi frutti danteschi.
Quindi, punto dopo punto, elenca le confutazioni del domenicano. Trovandole assai fondate. Dante si abbevera dal pagano Averroè: “Pur in modo superficiale, il suo avversario Guido Vernani aveva quindi ragione ad etichettare la dottrina filosofica del poeta pessimus error“. “Vernani - giustamente dal punto di vista tradizionale - partiva dall’anima intellectiva, dall’anima intellettuale, presupponendo quindi la tradizionale unità di intelletto e anima”. Anima e intelletto che invece Dante aveva separati.
“Guido Vernani poteva segnare ancora un punto a suo favore concludendo che «il monarca dell’intera razza umana prefigurato da Dante deve di necessità superare in virtù e saggezza l’intera razza umana». Vernani respingeva la tesi di Dante negando possibilità di esistenza ad un essere umano tanto perfetto. Con una riserva, tuttavia; egli affermava infatti che, stando alla stessa teoria dantesca, si poteva di fatto immaginare l’esistenza di un solo essere in cui fosse presente in atto tutta l’umanità: Cristo, l’unico vero monarca del mondo. Le considerazioni di Vernani coglievano nel segno”.
Dunque con quel “trattatello” il domenicano aveva capito benissimo che Dante non era nostalgico del tempo che fu, ma temibilissimo profeta di un futuro da combattere con le forze disponibili.
Ovviamente Kantorowicz sta dalla parte di Dante e lo adora. Proprio per questo riconosce a Vernani il massimo degli onori: quello di essere stato il contemporaneo che meglio ha saputo comprendere il poeta in tutte le sue enormi, sconvolgenti implicazioni. E quindi, in corerenza con le proprie idee, colui che meglio di tutti ha saputo stargli alla pari e controbatterlo.
* Fonte: Chiamamicitta.it, 10 Mag 2023 (ripresa parziale).
COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E DIVINA COMMEDIA: "SIDEREUS NUNCIUS" (GALILEO GALILEI, 1610) E "SAPERE AUDE!"(I. KANT, 1784). Alcuni appunti sul tema dell’antropogenesi (e cristogenesi) nell’opera di Dante...
NELL’ANNO DANTE2021, SU MARTE, "INGENUITY" INIZIA LA SUA ATTIVITA’ E LA SUA MISSIONE ESPLORATIVA:
CON ULISSE, OLTRE: VIRTU’ E CONOSCENZA. Ai suoi tempi, Dante ha esplorato con il suo "oudemico" ingegno l’intero "oceano celeste" (Keplero) e, al ritorno, ha raccontato che, trovandosi nel V cielo, quello del Pianeta Marte, rimase colpito da "una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno (Pd XIV, 101 e 123).
L’INGEGNO, IL GENERE UMANO ("GATTUNGSWESEN"), E LA "TERRA" DI MARTE:
NELL’ANNO 2023, "Lo scorso 13 aprile il piccolo elicottero marziano Ingenuity ha azionato le sue eliche per la 50esima volta, percorrendo 320 metri in poco più di 2 minuti e mezzo, durante i quali ha infranto anche il precedente record di altezza, salendo fino a 18 metri. Ingenuity, che il 19 aprile ha festeggiato i suoi primi due anni su Marte, fu inizialmente concepito come dimostratore tecnologico, un modo cioè per provare che il volo controllato a motore su un altro pianeta fosse possibile. [...]
Costruito con molti componenti di serie, come processori e fotocamere di smartphone, Ingenuity ha superato di 23 mesi terrestri e 45 voli la durata prevista. Ad oggi, ha volato in totale per oltre 89 minuti e più di 11,6 chilometri. «Abbiamo fatto tanta strada e vogliamo andare ancora più lontano», dice Teddy Tzanetos, responsabile del team della missione al Jpl. «Ma sappiamo fin dall’inizio che il nostro tempo su Marte è limitato e ogni giorno operativo è una benedizione. Che la missione di Ingenuity finisca domani, la prossima settimana o tra qualche mese è qualcosa che nessuno può prevedere al momento. Quello che posso prevedere è che, quando succederà, ci sarà una bella festa». " (cfr. Jacopo Danieli, "Cinquanta voli per l’elicotterino marziano", INAF, 21/04/2023).
EARTHDAY 2023 #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
UNA QUESTIONE DI LOGOS (NON DI LOGO) E DI ANTROPOLOGIA (NON DI ANDROLOGIA).
APPUNTI:
A)
"IL PROFETA GIUSEPPE" è L’ANELLO DI CONGIUNZIONE DEI "TRE" MONOTEISMI.
«Josephologie»: pochi anni fa (2007) è stato pubblicato un importante studio di #MassimoCampanini sul patriarca di Israele e sul profeta del Corano, forse, è opportuno ri-leggerlo. A quando la ri-considerazione e il riconoscimento da parte della hChiesacattolica dell’altro Giuseppe, quello del cristianesimo, che dà il nome "Gesù" a suo figlio?!
B) IL PROBLEMA DEI "TRE ANELLI" E L’ANELLO DELLE "RECINZIONI" (ENCLOSURES): L’AMORE EVANGELICO (CHARITAS, gr. #XAPITAS) E "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. #FREUD, 1929).
La "question" (Shakespeare, "Amleto"), nella sua semplicità, richiama la questione antropologica (della buona madre e del buon padre) e la questione teologica: "In principio era il Logos" (non il logo dell’alleanza edipica del furbo e della furba di turno).
C) L’ESSENZA DEL #CRISTIANESIMO, LA FILOLOGIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("ECCE HOMO"), OGGI:
RESTITUIRE A SAN GIUSEPPE ONORE E GLORIA. UNA INDICAZIONE E UNA EREDITÀ DI #TERESADAVILA:
D) Ricordando che l’interpretazione del messaggio evangelico di Teresa d’Avila è connessa alle "Meditazioni sul Cantico dei cantici" (e non all’androcentrismo della lettura paolina), ed è molto prossima a quella di Michelangelo #Buonarroti e al suo "Tondo Doni" e al suo "Mosè", forse, è bene ed è tempo di riproblematizzare la questione antropologica ("Ecce #Homo", non "Ecce #Vir") e portarsi oltre la cosmoteandria del cattolicesimo costantiniano (Nicea 325 - 2025). Uscire dall’inferno epistemologico. Se non ora, quando?!
E) B) STORIA STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: L’EUROPA E COSTANTINOPOLI. Riprendendo il filo dalla #Dotta Ignoranza (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440), e dall’assedio e caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453), non è forse tempo di correre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica?!
#DIVINACOMMEDIA E #DISAGIODELLACIVILTÀ (#Freud, 1929): #Dante2021.
Per meglio comprendere, a mio parere, la inaudita portata antropologica e teologica della #Monarchia di #Dante, occorre porsi all’altezza del nostro presente storico e sedersi a fianco della "ottantenne (che si) toglie l’hijab" e ascoltare le parole di (Maria) #BEATRICE che, a Dante che le chiede : "#Madonna, mia bisogna / voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono", risponde: "Ed ella a me: "Da tema e da vergogna/voglio che tu omai ti disviluppe,/ sì che non parli più com’om che sogna" (Purg. XXXIII, 26-33 ).
#FILOLOGIA E #MITOLOGIA. #Europa2023: #Eleusis2023 (Memoria di #Demetra e #Persefone). Dopo millenni di #Ci-#Viltà e #Cosmoteandria (laica e religiosa), il gesto della donna e madre iraniana (che #ovviamente si sta rivolgendo non solo agli uomini, ma soprattutto alle donne e alle madri dell’Iran - e non solo!) indica la via della #critica alla ragione olimpica: uscire dal tragico "stato di minorità" (#Kant, #Koenigsberg 1784 - #MichelFoucault, 1984), e, possibilmente, fare qualche passo di coraggiosa chiarezza sulla logica pestilenziale di #Edipo e di #Giocasta - a livello planetario.
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA...
A PRAGA, IL PIACERE DELLA SCOPERTA: ULISSE CON DANTE RICORDA LA "CASA DEI "DUESOLI".
Se l’Odissea è un libro per Nessuno, la Divina Commedia è per Everyman (Ezra Pound), come anche la Monarchia
***
Dante 2021 (#divinacommedia) ed Europa 2023: Praga.
PRAGA. L’altra sera, Alberto Angela ha proposto una visita nella città di Praga e, nel suo percorso per il Il "Piccolo Quartiere" (in ceco, "Malà Strana") e per via Nerudova, ha ricordato che al n. 47 di questa via c’è la "Casa dei #DueSoli". Si sentiva proprio una "strana" aria di casa ... DANTE. Nel corso delle celebrazioni dantesche del 2021, chi ha mai sentito parlare del tema e del problema dei "due Soli", nella Commedia e nella #Monarchia?!
ULISSE. Se è vero, com è vero, che l’#Odissea è "un libro per tutti e per #nessuno", e, quindi, è per tutti e per #Ulisse, non è così anche per la Divina Commedia, che è un libro per Dante ma anche per "#Everyman" (come voleva #EzraPound), allora non ci resta che cercare di capire #chi è quel Dante Alighieri che è uscito dall’inferno, è risalito fin sulla montagna del Purgatorio, è uscito dalla Terra, nell’"oceano celeste" (#Keplero, 1611), e a 702 anni dalla morte (1321) lo ricordiamo ancora?!
#BEATRICE. Chi era un "cretino"? Un "rimbambito" che se ne andava in giro per il mondo con il fantasma della sua "amata" nella sua testa, abbandonando la sua compagna Gemma e i suoi figli, compresa suor Beatrice?!
ITALIA. E gli italiani e le italiane, chi sono? e perché hanno deciso di dedicare il giorno #25marzo proprio a lui, il #Dantedì, a Dante Alighieri?! Non è forse "l’ora che volge al disio" e sollecita a riprendere la navigazione?!
L’#ALBA DELLA #MERAVIGLIA: IL #SORGEREDELLATERRA (https://it.wikipedia.org/wiki/Sorgere_della_Terra). Ricordo che questo anno una delle capitali europee della cultura è Eleusi: #Eleusis2023. E, oggi, l’antica Terra-Madre (#Demetra) splende (ancora) davanti agli occhi (e non solo) degli astronauti e delle astronaute, in tutto il suo meraviglioso brillante colore.
QUESTIONE ANTROPOLOGICO-POLITICA: "DUE SOLI". Non è questo il tempo di rileggere meglio la #Monarchia e cercare di uscire dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784) e capire, alla luce della nostra terrestre #Costituzione, che ogni #essereumano ("Everyman") è già sé con sé (due-in-uno) "#papa" e "#imperatore" e che abita già in una "casa" di "due Soli"?! Non è il caso di svegliarsi e riprendere il cammino alla luce del #Sole?
La tradizione monastica per rileggere Dante
A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, una nuova prospettiva di approccio alla lettura della Divina Commedia. Ad offrirla è il libro di Giulio d’Onofrio “Per questa selva oscura”, edito da Città Nuova. Una ricerca durata circa dieci anni conduce lo studioso a dimostrare il forte influsso esercitato dalla cultura alto-medievale, patristica e monastica, nell’opera del Divino Poeta.
di Paolo Ondarza *
Città del Vaticano. Un’invocazione nascosta in un antico commento al Pentateuco redatto dal monaco alto-medievale, Bruno di Segni, che fu vescovo della città di Asti ed entrò in contatto con personaggi chiave della cultura dell’XI secolo avrebbe ispirato l’incipit della Divina Commedia. “Ma ora io rendo grazie a Dio onnipotente, che fino a qui mi ha guidato sulla via dritta, come credo, per questa selva oscura assai fitta”, scrive il religioso al termine della faticosa stesura del commento al libro dell’Esodo. Impossibile non riconoscere in queste poche righe una forte analogia con l’incipit della Divina Commedia. Un’assonanza che poche righe più giù ritorna ancora in Bruno di Segni quando definisce la selva “aspra” e “amara”.
La scoperta destinata ad accendere il dibattito culturale è il frutto del lungo ed articolato studio condotto da Giulio d’Onofrio, docente di storia della filosofia medievale all’Università di Salerno, nel libro “Per questa selva oscura”, appena pubblicato da Città Nuova.
“É la testimonianza - spiega l’autore a Vatican News - che Dante utilizza e conosce le fonti che costituivano la base della tradizione monastica”. Una simile premessa, “apre alla possibilità di leggere Dante non come classicamente si fa, ovvero come un aristotelico, dipendente per lo più da Tommaso d’Aquino e Alberto Magno. Senza negare l’influenza di questi autori del XIII secolo, si può quindi affermare che la cultura alto-medievale, patristica e monastica, abbia fortemente influenzato la concezione dantesca in relazione ad un tema molto forte nella Divina Commedia come la purificazione dell’uomo dal male e l’attuazione delle virtù, intesa come realizzazione del progetto che Dio ha pensato quando ha creato l’uomo”.
In estrema sintesi si comprende meglio la missione di Dante: “portare la verità del Vangelo agli uomini che l’hanno dimenticata e mostrare che per tutti c’è la possibilità di essere felici”. La mentalità monastica infatti era tutta “finalizzata alla realizzazione dell’uomo perfetto che attua in sé, ciò che Dio vuole per lui fin dai tempi della creazione”. Questa visione della vita ricalca quella della filosofia antica secondo cui l’uomo è felice quando realizza la propria perfezione dell’anima, entelechia, le capacità e le virtù che ha in sé”.
La conoscenza da parte di Dante di queste idee apre a nuove interpretazioni della sua opera: “É una concezione di tipo platonizzante - prosegue d’Onofrio - che implica la presenza di archetipi, di idee eterne nella mente di Dio. In questo modo possiamo leggere in modo nuovo famosi testi come il sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare: da sempre studiato come ispirato all’amore cortese e all’ideale della donna angelo, se riletto alla luce delle fonti monastiche si comprende che l’ideale di bellezza incarnato da Beatrice è quello dei filosofi greci antichi: perfezione dell’idealità dell’essere umano che realizza in modo perfetto la volontà divina. Beatrice in questo sonetto è infatti anticipazione delle virtù di Maria descritte da Dante nell’ultimo canto del Paradiso”.
“Nella terza cantica inoltre - prosegue d’Onofrio - Il luogo dove sono i santi è la mente di Dio. Dante viene accolto nella mente di Dio per poter raccontare agli uomini come purificarsi dagli errori e raggiungere la beatitudine. É nella mente di Dio che le creature diventano come Dio, perché desiderano ciò che Dio desidera.
Lo studio di D’Onofrio è una testimonianza della fecondità e della ricchezza, ancora da penetrare a fondo, dell’opera di Dante Alighieri, il cui messaggio, a quasi settecento anni dalla morte, è “immensamente attuale”. “Le prospettive aperte da questo studio - aggiunge l’autore - non sono state finora considerate abbastanza. Se ad esempio leggiamo la parola virtute la traduciamo automaticamente come “virtù, perfezionamento etico”, ma nel linguaggio alto medievale essa indica la potenzialità, l’attuarsi di ciò che è nelle capacità dell’uomo e che con una conversione al bene si può attuare”.
“Allo stesso modo va compresa la parola salute: Dante si innamora di Beatrice quando gli concede il saluto. Lei, è mediatrice tra umano e divino, venuta da cielo in terra a miracol mostrare, salutando si fa portatrice di salvezza”.
Per intendere pienamente il pensiero di Dante quindi occorre penetrare ciò che lui ha studiato e comprendere il contesto nel quale si è formato e dal quale ha preso le mosse per compiere l’alta missione, teoretica ed etica, di elevazione e rieducazione dell’umanità, dispersa in una selva oscura.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 04 gennaio 2021
NOTA:
DANTE E BEATRICE (BELLA DEGLI ABATI, LA MADRE)
Dopo i maestri del sospetto (Marx Nietzsche e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare all’altezza del #Dantedi2021 che il Sommo Poeta tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice? Sogno o son desto?
CRISTIANI NEL MONDO MUSULMANO
Quando il Cristianesimo incontra l’Islam: San Francesco e il Sultano
di Viviana Schiavo *
Otto secoli fa, nel corso della V crociata, San Francesco incontrò il Sultano Malik al-Kāmil. Che cosa resta oggi di quel famoso evento?
La conversione di Francesco
La storia del Patrono d’Italia è quella, ordinaria, di un giovane nato da famiglia agiata, destinato a una vita di privilegi. Il suo sogno uguale a quello di molti suoi coetanei: diventare cavaliere. Un progetto ambizioso, che subisce una svolta inaspettata. Nel 1203, mentre cerca di raggiungere Lecce per imbarcarsi verso Gerusalemme e partecipare alla IV crociata, bandita dal “Servo di Dio” Papa Innocenzo III, una rivelazione cambia la rotta della vita di Francesco. «Perché cerchi il servo in luogo del padrone?», gli chiede Dio in una visione notturna, secondo le parole del Santo. L’ordine è quello di tornare ad Assisi.
Da quel momento in poi, racconta Tommaso da Celano, Francesco «mutò le armi mondane in quelle spirituali, ed in luogo della gloria militare ricevette una investitura divina»[1]. È con questo invito a seguire il padrone, invece del servo, che Francesco si trasforma, secondo i suoi confratelli, in autentico e spirituale Miles Christi, soldato di Cristo, cioè colui che ama il nemico, invece di ucciderlo. Si tratta di un’espressione attribuita, a partire da S. Bernardo, ai crociati, ma che affonda le sue radici in S. Paolo, con un’accezione tutta spirituale: «Insieme con me prendi anche tu la tua parte di sofferenze, come un buon soldato di Cristo Gesù» (2Tim 2,3). Non è Francesco a usarla per sé. Piuttosto i biografi, dopo il racconto della visione, iniziano ad attribuirla al Santo, recuperandone il senso originario. L’invito alla pace diventa allora un pensiero costante per il giovane. Al capitolo XIV della sua Regola non Bollata, scrive infatti che «quando i frati vanno per il mondo», in qualunque casa entrino, devono augurare la pace: «non resistano al malvagio; ma se uno li percuote su una guancia, gli offrano l’altra. [...] Diano a chiunque chiede; e a chi toglie il loro, non lo richiedano»[2].
La V crociata e l’incontro con il Sultano
Qual è la posizione di Francesco sulle crociate e la guerra? Non lo sappiamo con certezza. Il Santo non si è mai espresso a riguardo in modo netto e chiaro. Proprio questo silenzio è stato interpretato, nel tempo, in modi diversi. Tra gli storici c’è chi ha criticato fortemente la visione di un Francesco “pacifista”, vista come un’elaborazione strumentale, un “mito” recente. Alcuni, come Michetti, hanno postulato un consenso-assenso, secondo cui la mancanza di scritti di Francesco sulla questione e il suo rispetto delle gerarchie indicherebbero una mancanza di critica, se non talvolta un’approvazione della crociata[3]. Altri studiosi, come Massignon e Basetti-Sani, hanno invece visto nello spirito francescano i semi di un’opposizione netta[4]. Ciò che sappiamo è che nel 1219, nel corso della V crociata, Francesco si imbarca per raggiungere la Terra Santa. Del viaggio dall’Italia si conosce poco. Le fonti, spesso di parte, presentano diverse lacune. L’unico scorcio ce lo offre Tommaso da Celano, secondo il quale è «l’ardore della carità» a muoverlo: «tentò di partire verso i paesi infedeli, per diffondere, con l’effusione del proprio sangue, la fede nella Trinità»[5].
La destinazione finale è il centro dei combattimenti, Damietta, la città sul delta del Nilo considerata dai crociati la chiave per raggiungere il Cairo e andare al cuore dell’esercito musulmano, nell’impossibilità di conquistare Gerusalemme. Ad accompagnare il Santo c’è probabilmente fra’ Illuminato, chiamato così perché si dice miracolato e guarito dalla cecità dallo stesso Francesco. I biografi non raccontano molto sulla permanenza dei due frati nel campo di Damietta. Sicuramente incontrano diversi re cristiani e il legato apostolico, Pelagio Galvan. Pelagio è un uomo autoritario, in dissenso, all’interno del campo, con il re Giovanni di Gerusalemme ed altri capi della crociata. Motivo di divisione era la proposta fatta dal Sultano di porre fine alle ostilità in Egitto, cedendo Gerusalemme ai crociati. Il mite re Giovanni di Brienne vuole accettare l’accordo. Pelagio la pensa diversamente: vuole continuare la guerra per distruggere definitivamente l’armata musulmana il cui cuore, a suo parere, risiede proprio in Egitto.
Il 29 agosto del 1219 l’esercito crociato subisce una clamorosa sconfitta: più di sei mila cristiani muoiono in battaglia. È tra questo momento di lutto e la vittoria finale dei musulmani, nel novembre dello stesso anno, che Francesco va dal Sultano. Nonostante la mancanza di dati certi da parte dei biografi e di testi arabi che descrivano l’incontro, le testimonianze esistenti che ne attestano la storicità sono diverse e provengono da fonti francescane e fonti crociate, come gli scritti del cardinale Jacques de Vitry, presente nel campo di Damietta all’epoca degli avvenimenti. Sull’attendibilità delle Fonti Francescane il dibattito è ancora aperto[6]. Una fonte araba confermerebbe infine la presenza di un monaco cristiano presso la corte di al-Kāmil: è l’epigrafe di Fakhr ad-Din al-Fārisī, direttore spirituale del Sultano.
Non possiamo sapere con certezza cosa si dissero S. Francesco e Malik al-Kāmil. Con sicurezza, sappiamo solo che il Sultano d’Egitto accolse il poverello d’Assisi e lo rilasciò incolume, fatto di per sé strabiliante visto il periodo di forte tensione tra musulmani e cristiani. Inoltre, tutte le principali fonti dell’epoca sono concordi nel presentare lo spirito di coraggio che animava Francesco e la saggezza che caratterizzava il Sultano. Malik al-Kāmil, nipote di Saladino e Sultano di Egitto e Palestina, era un uomo di cultura, conosciuto per la sua giustizia e per il suo interesse verso le discussioni scientifiche e religiose. Dalle cronache cristiane sappiamo anche che non era un guerrafondaio: secondo le parole del cardinale Jacques de Vitry, la sua benevolenza «nei riguardi dei cristiani crociati divenne sempre più grande»[7].
Del contenuto dell’incontro parlano alcune fonti cristiane, tra cui quelle francescane e la Cronaca d’Ernoul, datata 1227-1229. In entrambe le versioni, Francesco riesce a parlare con il Sultano e ad annunciare la sua fede in Cristo, dichiarando a motivo della sua visita la salvezza di al-Kāmil e del suo popolo. A questo scenario, la Cronaca d’Ernoul aggiunge dei dettagli interessanti. Secondo questo testo, il frate di Assisi, interrogato dal Sultano, chiede di poter parlare con lui, anche alla presenza dei suoi dottori, per dimostrar la verità della fede cristiana e la falsità della loro. Il rifiuto dei dottori è categorico[8]. Il racconto prosegue con il Sultano che invita i due frati a restare con lui: Francesco e Illuminato declinano la proposta, così come quella di prendere dell’oro e dell’argento. Se non possono rendere la sua anima e quella del suo popolo a Dio, nulla ha più valore. Vogliono solo tornare nel campo cristiano. La versione concorda con quella di Jacques de Vitry, soprattutto per quanto riguarda l’attraversata coraggiosa dei due frati e l’incontro rispettoso con il Sultano. Il cardinale racconta infatti che «[Francesco] partì per il campo del Sultano d’Egitto senza alcuna paura, forte dello scudo della fede», mentre quest’ultimo venne «convertito alla dolcezza dallo sguardo di quest’uomo di Dio»[9]. Al contrario dell’Ernoul però, il cardinale racconta che Francesco non solo si professò cristiano, ma ebbe modo di parlare al Sultano della sua fede in Cristo nel corso di diversi giorni e di essere ascoltato. Un racconto confermato da San Bonaventura, il quale al contempo, come l’Ernoul e riportando le parole di fra’ Illuminato, descrive un Sultano talmente colpito dal Santo da chiedergli di restare presso la sua corte. Anche in questa versione, Francesco rifiuta, affermando di essere disposto a rimanere solo nel caso di una conversione di al-Kāmil al cristianesimo. Per convincerlo, gli propone la famosa ordalia del fuoco: «Io, con i tuoi sacerdoti, entrerò nel fuoco e così, almeno, potrai conoscere quale fede, a ragion veduta, si deve ritenere più certa e più santa»[10]. Una prova che il Santo è disposto a fare anche da solo. Sappiamo però che questo tipo di ordalia, era stata abolita da papa Innocenzo III nel Concilio Lateranense IV. Per questa ragione e visto il carattere umile del Santo, molti storici hanno rifiutato la veridicità di questa offerta. Il racconto di San Bonaventura prosegue con il Sultano che non accetta la prova, per timore, secondo fra’ Illuminato, di una sedizione popolare. Nuovamente appare l’offerta da parte di Malik al-Kāmil di doni preziosi che Francesco rifiuta, con grande ammirazione del Sultano. Questo allora gli propone di accettare quei doni per offrirli ai poveri e alle chiese, ma Illuminato racconta l’ulteriore rifiuto di Francesco, giustificato dal desiderio di rimanere libero dal denaro[11].
Le interpretazioni e la Regola Non Bollata
Negli 800 anni trascorsi da quello storico e misterioso incontro, molti sono stati gli interrogativi sorti, le rappresentazioni e le interpretazioni di cui è stato fatto oggetto. Come ci ricorda John Tolan, autore dell’opera più esaustiva sulle rappresentazioni di quell’incontro, l’evento non ha smesso di nutrire l’immaginario letterario, storico e artistico. Contesto e preoccupazioni storiche hanno determinato la lettura che ne hanno fatto le singole epoche.
Alcuni autori del XV secolo, per esempio, sottolineano la violenza del Sultano e del suo esercito. Il Santo è allora rappresentato, in diversi quadri, mentre legato viene portato violentemente davanti ad un Sultano poco incline ad ascoltarlo. Al contrario, col declino dell’impero ottomano e il depotenziamento delle armate musulmane, i filosofi illuministi del XVIII secolo, critici verso gli ordini religiosi, presentano Francesco come un fanatico pazzo davanti ad un Sultano saggio. Tra il XIX e il XX secolo, la visione è quella di un’azione civilizzatrice, che incarna a pieno lo spirito di bontà attribuito alle colonizzazioni dell’epoca. Conquista militare e evangelizzazione andavano, infatti, di pari passo.
Solo tra il XX e il XXI secolo, in un’ottica di critica alle crociate, l’incontro assume dei colori differenti, diventando esempio e modello di uno spirito di dialogo. L’opera di Francesco diventa sempre di più quella di un uomo che ha cercato un’alternativa pacifica alle crociate[12]. È un’interpretazione contestata, ma che ben si sposa con le posizioni del Santo sulla fraternità, l’amore al nemico e il rapporto con i musulmani. Come anticipato, Francesco non condanna apertamente la guerra e le crociate e la sua opinione a riguardo non può essere definita con certezza. Ma sappiamo quello che afferma sull’amore al nemico, che per imitatio Christi, diventa amico. Fortemente presente nella memoria del poverello di Assisi è infatti il comandamento di Cristo ad amare il nemico, tanto da scrivere, al capitolo 22 della regola che, sull’esempio di Cristo che «chiamò amico il suo traditore [...], sono, dunque, nostri amici tutti coloro che ingiustamente ci infliggono tribolazioni e angustie, ignominie e ingiurie, dolori e sofferenze, martirio e morte, e li dobbiamo amare molto poiché, a motivo di ciò che essi ci infliggono, abbiamo la vita eterna»[13].
Una visione particolare, considerato che il sentire dell’epoca vede i musulmani come dei nemici «immondi», come li definì Papa Urbano II nel famoso discorso di Clermont. Al contrario, Francesco dedica loro un intero capitolo della sua Regola. Estremamente interessante è la versione contenuta nella Regola non bollata del 1221, scritta quindi appena due anni dopo l’incontro con il Sultano, che non lascia dubbi sulla visione francescana dell’evangelizzazione. Francesco comanda ai frati di andare «come agnelli in mezzo ai lupi», laddove la pecora è simbolo dell’umiltà di Cristo.
I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio perché essi credano in Dio onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo, Creatore di tutte le cose, e nel Figlio Redentore e Salvatore, e siano battezzati, e si facciano cristiani, poiché, se uno non sarà rinato per acqua e Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio[14].
I frati non devono quindi nascondere la propria fede. Tuttavia, la professione non ha lo scopo di creare ostilità, né di offendere l’altro. E se Francesco non parla apertamente di fraternità universale, l’umiltà rimane primaria caratteristica dell’ordine e il servizio agli altri una costante. Questi altri non sono più solo i cristiani, ma «ogni creatura umana» a cui i frati devono essere soggetti «per amore di Dio». Il primo compito è quello della testimonianza della vita, più importante delle parole, come ribadisce in diversi scritti: «E tutti i frati si guardino dal calunniare alcuno, e evitino le dispute di parole», scrive al capitolo XIX della stessa Regola. Le parole rischiano di essere sterili. Sono gli atti che permettono di aprire i cuori e manifestare l’amore di Cristo: «Tutti i frati, tuttavia, predichino con le opere»[15]. In un secondo momento può arrivare l’evangelizzazione vera e propria, ma solo «quando piace al Signore». Sono queste le indicazioni che hanno accompagnato l’ordine francescano in questi 800 anni, permettendogli di rimanere presente pacificamente in Terra Santa.
È in questa accezione che lo spirito di Assisi diventa un modello a cui la Chiesa può ispirarsi per improntare il cammino verso la pace. Proprio facendo riferimento a questo spirito, Papa Giovanni Paolo II, il 27 ottobre del 1986, ancora in clima di Guerra Fredda, si recò ad Assisi con i leader cristiani e delle religioni mondiali per pregare per la Pace. Ecco allora che l’approccio di Francesco, basato su rispetto dell’altro e testimonianza della vita, diventa una luce a cui guardare nelle relazioni interreligiose. Un approccio particolarmente presente nel Pontificato dell’attuale Papa Francesco, il quale ha fatto riferimento a quell’incontro e allo spirito d’Assisi in diverse occasioni. Non ultima, il suo viaggio ad Abu Dhabi:
Con animo riconoscente al Signore, nell’ottavo centenario dell’incontro tra San Francesco di Assisi e il sultano al-Malik al-Kāmil, ho accolto l’opportunità di venire qui come credente assetato di pace, come fratello che cerca la pace con i fratelli. Volere la pace, promuovere la pace, essere strumenti di pace: siamo qui per questo[16].
Note
[1] Tommaso da Celano, Vita seconda di San Francesco, c.2, n.6, in Fonti Francescane, n. 586-587 [consultato il 13/03/2019], http://www.santuariodelibera.it/FontiFrancescane/fontifrancescane.htm
[2] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVI, in Fonti Francescane, n. 40.
[3] Per una panoramica delle posizioni vedi Alfonso Marini, “Storia contestata: Francesco d’Assisi e l’Islam”, in Franciscana. Bolletino della Società internazionale di studi francescani, Fondazione Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto 2012.
[4] Giulio Basetti-Sani, L’Islam e Francesco D’Assisi. La missione profetica per il dialogo, La Nuova Italia, Firenze 1975
[5] S. Bonaventura, Leggenda Maggiore, c. IX, n. 7, in Fonti Francescane, n. 1172.
[6] Alfonso Marini, “Storia contestata: Francesco d’Assisi e l’Islam”, p. 1-2.
[7] Jacques de Vitry, Historia de Jerusalem, in Giulio Basetti-Sani, L’Islam e Francesco D’Assisi, p. 159.
[8] Aa. Vv., Chronique d’Ernoul et de Bernard le Trésorier, (TDA) in John Tolan, Le Saint chez le Sultan. Le rencontre de François d’Assise et de l’islam. Huit siècles d’interprétation, L’Univers historique, 2007, p. 76-77.
[9] Jacques de Vitry, Historia occidentalis, (TDA) in John Tolan, Le Saint chez le Sultan, p. 44.
[10] S. Bonaventura, Leggenda Maggiore, c. IX, n. 8, in Fonti Francescane, n. 174.
[11] Ibidem
[12] John Tolan, Le Saint chez le Sultan, p. 21.
[13] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, c. XXII, in Fonti Francescane, n. 56.
[14] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVI, in Fonti Francescane, n. 42-44.
[15] Francesco d’Assisi, Regola non bollata, XVII, in Fonti Francescane, n. 46.
[16] Discorso del Santo Padre Francesco, Incontro Interreligioso al Founder’s Memorial di Abu Dhabi, 4/02/2019 [consultato il 13/03/2019], http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/february/documents/papa-francesco_20190204_emiratiarabi-incontrointerreligioso.html
* Fonte: Oasis, Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 (ripresa parziale).
Asia. Svolta storica in Pakistan: una donna alla Corte suprema
La giudice Ayesha Malik ha 55 anni e si è laureata ad Harvard. È stata, per anni, all’Alta Corte di Lahore ed è considerato merito suo se, nel Punjab, è stato definito illegale un test di verginità
di Silvia Guzzetti (Avvenire, lunedì 24 gennaio 2022)
Cambia la storia in Pakistan dove, per la prima volta, una donna entra a far parte della Corte Suprema, nota per il suo approccio molto conservatore. La nomina alimenta la speranza che la scelta della giudice Ayesha Malik, 55 anni, laureatasi ad Harvard, possa aprire la strada ad altri giudici di sesso femminile e a una maggiore tutela delle donne davanti alla legge.
Ayesha Malik ha prestato giuramento nella sede del più importante tribunale del Paese asiatico, a Islamabad, e condividerà la sua carica con altri 16 colleghi uomini. La sua nomina, nei mesi scorsi, non è stata, però, senza polemiche. "Ayesha è stata nominata per merito", ha detto oggi il presidente della Corte Suprema, Gulzar Ahmed, come riferisce "Geo Tv", emittente di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, mentre la ministra per i Diritti umani, Shireen Mazari, ha definito, in un tweet, il momento della nomina della giudice come "storico".
A lei sono arrivate subito le congratulazioni del premier Imran Khan che, in un tweet, le "augura tutto il meglio". "Un’immagine potente che simboleggia l’emancipazione raggiunta dalle donne in Pakistan. Spero sia una risorsa", ha twittato il ministro dell’Informazione, Fawad Chaudhry, con una foto di Malik.
La scelta di Ayesha Malik, da parte del tribunale pakistano di massima istanza, è stata approvata dal presidente del Pakistan Arif Alvi. Nata nel 1966, Ayesha ha studiato giurisprudenza al Pakistan College of Law di Lahore e si è laureata presso la Harvard Law School, di Cambridge, negli Stati Uniti. Ha, poi, servito per 20 anni come giudice presso l’Alta corte di Lahore, nell’Est del Pakistan.
Le è stato riconosciuto il merito, durante questo incarico, di aver contribuito ad un’evoluzione della giurisprudenza e dell’attuazione delle leggi ancora molto improntate al patriarcato. Nel 2021 la giudice Malik ha bloccato l’esecuzione di un test di verginità su una giovane donna, una pratica molto invasiva e diffusa per indagare sul passato sessuale delle vittime di stupri.
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essereumano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che è "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
DIVINA COMMEDIA: UNO STRAORDINARIO OMAGGIO A DANTE!
Materiali di studio 5.
Il letargo di Dante (di Stefano Marcucci, "L’errore di Kafka/blog", 19 aprile 2021):
ENTRATO NEL PUNTO .. UNA BRILLANTE FUSIONE NUCLEARE CONTROLLATA!
"[...] L’ESPERIENZA-LIMITE o SEGMENTO ZERO. Nessuno può sembrare più lontano da Dante di Nietzsche. Pensare solo di accostarli è folle, d’accordo, sebbene non sia lecito tralasciare che il trasumanar dantesco e il concetto di Übermensch di Nietzsche, oltre a condividere il medesimo carattere di neologismo, presentano una convergenza di significato piuttosto imbarazzante. L’eterno ritorno dell’uguale di Nietzsche, sorta di rivelazione di cui è depositario l’Übermensch, è una dottrina mai presa sul serio e screditata dai principali suoi commentatori. Più che di un concetto si tratta di una meditazione sul pensiero che non può pensare se stesso (come un letargo?) o sul vertiginoso pensiero del nulla che azzera il tempo come durata.[xv] Il déjà-vu è una di quelle esperienze strane che fanno baluginare o intravedere una possibile sovrapposizione del passato col presente (e viceversa) e fanno sorgere un dubbio, nonché un piacevole stupore (come quello di Nettuno-Dante?), se ciò che stiamo vivendo sia presente o passato. [...]" (Stefano Marcucci, Il letargo di Dante, cit., senza note).
"[...] (Successivamente alla stesura della presente riflessione, all’autore di queste righe è occorso di imbattersi nella Sura 18 del Corano, denominata anche Sura del Venerdì o Sura dei Sufi. Ne ha parlato a Radio3 Riccardo Bernardini, studioso e storico delle opere di Karl Gustav Jung, all’interno della trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, nel ciclo curato da Bruno Madera e intitolato Ricordati di rinascere II puntata - I simboli della rinascita. «La Sura mostra un sonno che prende dei viandanti, i quali si risvegliano da questo sonno dopo secoli completamente trasformati e avendo acquisito una immortalità nella grazia divina.» Senza essere specialisti di Dante, e senza aver letto Henri Pirenne, è noto che la cultura araba abbia avuto una non irrilevante influenza su quella medievale europea a partire dall’anno mille. Si pensi solo ad Avicenna e ad Averroè, entrambi musulmani, che Dante “incontra” nel Limbo. Possiamo escludere che Dante avesse letto o conoscesse il Corano? Non è, quantomeno, suggestiva, questa coincidenza di un sonno che dura secoli e che conduce, attraverso la trasformazione nella grazia divina, all’immortalità?) [...]" ((Stefano Marcucci, Il letargo di Dante, cit.).
***
P. S. - Alcune note sulla “corrispondenza d’amorosi sensi” tra ->Dante e Nietzsche.
Dante, la prima Divina commedia tradotta in cinese arriva dall’Accademia della Crusca
Autore Agostino Biagi, un toscano trapiantato a Genova. A donarla la nipote, la deputata Mara Carocci
di Vittorio Coletti (la Repubblica, 21 Ottobre 2021)
È probabile che la novità più singolare e forse davvero unica di un anno dantesco ricco di edizioni, approfondimenti e letture, ma (inevitabilmente) non di inediti, arrivi da Genova. Nei prossimi giorni, infatti, saranno presentate ufficialmente nell’Accademia della Crusca di Firenze diverse e parallele traduzioni in cinese della Divina Commedia, in gran parte elaborate a Genova e ora donate all’Accademia, con un gesto di pura liberalità, dall’on. Mara Carocci, ex parlamentare del Pd, che le ha rinvenute nelle carte di famiglia alla morte della madre. Quella che sembra davvero essere la prima traduzione integrale in cinese e in versi del Poema dantesco, è opera, singolarmente, non di un cinese, come ci si potrebbe aspettare e in genere sempre avviene (chi traduce è perlopiù madrelingua nell’idioma d’arrivo), ma di un italiano, di un toscano trapiantato a Genova, dove ha vissuto a lungo ed è morto nel 1957: Agostino Biagi, di cui la Carocci è pronipote.
Agostino Biagi era nato a Cantagallo, sull’Appennino tosco-emiliano nel 1882. Entrato giovanissimo nell’ordine dei Francescani era andato missionario in Cina, dove aveva imparato il cinese e conseguito il titolo per insegnarlo. Tornato in Italia ed entrato in polemica con la Chiesa di Roma, si era convertito alle confessioni protestanti ed era diventato pastore evangelico ad Avellino e poi a Genova, dove è rimasto sino alla morte. Antifascista della prima ora, picchiato per le sue idee politiche filocomuniste, “attenzionato” per esse dalle questure di mezza Italia, ha vissuto stentatamente insegnando cinese ed altre lingue in varie scuole della Penisola.
La sua biblioteca, che ora, insieme con le traduzioni della Commedia, l’on. Carocci ha donato alla Crusca, testimonia la varietà dei suoi studi e traduzioni in e dal cinese, la sua precoce intuizione del ruolo di leader mondiale che la Cina avrebbe poi assunto in ogni campo, la sua attenzione per i più svariati aspetti della cultura di quel Paese e un ininterrotto studio della sua lingua, attestato da abbozzi di grammatiche (una ha anche circolato come dispensa) e di vocabolari di cinese per italiani.
Dal passato ritorna un fantasma umile e colto, un uomo di fede religiosa e politica ben in anticipo sui tempi del cattocomunismo (anche se per lui sarebbe più appropriato parlare di cristiano-comunismo), un intellettuale di grande curiosità, un linguista capace di maneggiare lingue diverse e tra di loro lontanissime (oltre al cinese, insegnò anche tedesco e inglese).
Commuove pensare ad Agostino Biagi, che vive nella semipovertà del suo ruolo di pastore qui, vicino a noi, con la moglie che cerca senza fortuna un editore per la traduzione della Commedia in modo da raggranellare qualche soldo per curare la sua lunga malattia, con la sua inesauribile passione per la Cina e il cinese, con il suo tenace impegno civile.
Gli studiosi, cui la Crusca metterà subito a disposizione le carte Biagi, diranno del valore letterario di queste traduzioni. Ma i sinologi che già hanno potuto dare una prima occhiata si sono detti meravigliati per la loro varietà metrica, la qualità grafica della scrittura ideogrammatica, la precisione dei disegni che le accompagnano.
Fin da ora, queste traduzioni in versi (ma ce n’è anche una che parafrasa in prosa la Commedia) lasciano intravedere un’impresa lunga e paziente, che ha cercato di portare Dante in Cina prima di chiunque altro.
In vita Agostino Biagi non c’è riuscito, complice le difficoltà prima politiche e poi economiche della sua situazione. Ora, la pronipote, donando la sua opera alla Crusca, la propone all’attenzione e alla considerazione che essa e il suo autore meritano e l’Italia e Genova aggiungono un’altra figura al loro già nutrito albo di uomini illustri.
LA "DIVINA COMMEDIA", IL "POEMA CELESTE", E I SEGNI DI UNA CRISI ANTROPOLOGICA PLANETARIA...
DANTE 1321 - 2021. L’anno dantesco sta terminando (M. Cazzato, "Dante, Maometto e Charlie Hebdo: segni di una crisi persistente", Le parole e le cose, 6 ottobre 2021)... ma lo spirito storiografico europeo è ancora quello del "Re Sole" (Luigi XIV) e quello di Napoleone-Hegel e della loro "Fenomenologia dello Spirito". E della fenomenologia di Dante Alighieri, della "Monarchia" dei suoi "Due Soli", non se ne trova traccia da nessuna parte.
Comprensibili i giochi di prestigio delle varie traduzioni e delle alterne interpretazioni, ma su questa strada si è ancora del tutto a terra, incapaci di vedere che cosa ci fa "tanto feroci" (Par. XXII, 151). E dell’amor, "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), si continua a pensare che sia solo una licenza poeticamente (e politicamente) audace, pericolosa. O no?
Appunti sul tema:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Gli afghani e noi. Vent’anni svaniti in 10 giorni
Non ripetere il passato
di Andrea Lavazza (Avvenire, martedì 17 agosto 2021)
Un’avanzata durata dieci giorni per ribaltare vent’anni di occupazione e di sostegno a una transizione alla democrazia. L’impietosa differenza temporale tra la ripresa dell’Afghanistan da parte dei taleban e gli sforzi dei Paesi occidentali impegnati nella coalizione che rovesciò il primo emirato dice molto sul Paese e sugli errori commessi in due decenni. Gran parte delle parole di circostanza che da lontano accompagnano il dramma che si sta consumando all’aeroporto e nelle vie di Kabul suonano purtroppo retoriche o addirittura in malafede. I leader politici delle nazioni che hanno ritirato le truppe seguendo, forse inevitabilmente, la decisione Usa non sembravano particolarmente preoccupati delle conseguenze, che pure avevano ben presenti, sugli assetti e sulle condizioni di vita del Paese lasciato senza più tutela.
Difficile nascondersi che nessun governo e nessun popolo vuol condurre una guerra senza fine o continuare a vedere i propri soldati cadere e spendere miliardi in operazioni di stabilizzazione senza orizzonte temporale definito. Con prospettive e modalità diverse, era la scelta già compiuta da Barack Obama, malamente concretizzata da Donald Trump e Joe Biden. Non si può dimenticare che l’invasione del 2001 fu motivata dalla volontà di annientare i santuari del terrorismo qaedista, capace dell’impensabile: abbattere le Torri gemelle a New York.
Quella era la missione, che presto poté anche trasformarsi in un’opportunità di ricostruire un Paese povero e segnato da conflitti e infine ingabbiato dal fondamentalismo degli ’studenti di teologia’, vincitori perché in grado di imporre un po’ di ’normalità’ al prezzo della più stretta e opprimente dottrina islamistica. In Afghanistan, si fece una guerra che costò molte vittime, anche civili, e gli occupanti certo non furono subito ben accolti dalla popolazione. In seguito, come gli italiani hanno saputo fare forse meglio di tutti, la presenza dei contingenti stranieri ha permesso di migliorare l’accesso alla scuola e alla sanità, ha restituito diritti alle donne, ha contribuito a rimettere in moto un processo politico aperto e trasparente.
Le prime elezioni democratiche - le presidenziali del 2004 e le legislative del 2005 - con un’alta affluenza considerate le circostanze (allora l’analfabetismo sfiorava il 70%) e quasi metà dell’elettorato femminile - sembrarono un commovente segnale e l’inizio di un cammino senza ritorno. Non era evidentemente così. In vent’anni è cresciuta una nuova generazione di afghani che in buona parte non ha esitato a schierarsi con il rinnovato movimento taleban. La società civile attiva, consapevole dei diritti conquistati, aperta al mondo è rimasta una minoranza, quella forse più visibile o forse quella che preferivamo vedere per convincerci in buona coscienza del risultato positivo della missione internazionale. Ora è la minoranza che più rischia con l’instaurazione del secondo emirato islamico e che, con qualche ragione, si sente tradita dalla frettolosa partenza delle forze occidentali.
Difendere i diritti umani, si dice ora. Chi non è d’accordo? Ma come fare? Che strumenti di pressione rimangono sul nuovo regime, una volta che si sono prese per buone le intenzioni, poi disattese, dei mullah nei negoziati in Qatar e le delegazioni civili sono ora in frettolosa fuga dopo il ritiro dei militari? La sinistra del Partito democratico Usa critica Biden per l’abbandono degli afghani al loro destino, ma in passato era contro la ’guerra imperialista’. Dobbiamo - e speriamo di riuscire a farlo - salvare le centinaia di collaboratori locali che si sono ’compromessi’ con gli invasori. Ma non potremo che assistere impotenti allo strazio di decine di migliaia di persone che pregano per una possibilità di partire.E alla strage dei diritti di donne e bambini e credenti di altre religioni e di un islam diverso da quello dei jihadisti vincitori.
Ci sarà tempo per riflettere su che cosa non ha funzionato in questi vent’anni; per quale motivo è così difficile convincere che il rispetto della libertà e della dignità di ciascuno sia compatibile con la propria fede e la propria tradizione. Oggi è necessario pensare politicamente come agire per evitare che i taleban riportino le lancette degli orologi al 2001, compreso il rischio terrorismo. Si dovrà decidere se isolare il nuovo Afghanistan, come accadde allora, quando solo tre Stati riconoscevano l’esecutivo in carica (Pakistan, Arabia Saudita ed Emirati Arabi).
Proprio il Pakistan, da sempre tutore e sponsor degli ’studenti coranici’, può essere l’obiettivo di azioni diplomatiche (e di eventuali pressioni, anche in forma di sanzioni) affinché spinga i nuovi padroni di Kabul alla moderazione. Non è poi escluso che la Cina, altra grande artefice della repentina riconquista islamica, voglia mantenere l’ordine e un minimo di presentabilità del regime appena insediato al fine di controllare a proprio favore gli equilibri nella regione. Si ripresenta, insomma, il dilemma di tante crisi: cercare di nuovo di strangolare gli oppressori - rafforzandone l’orgoglio e gravando ulteriormente sulla popolazione - o diventare complici passivi e indifferenti?
Di certo, l’esperimento di esportazione sic et sempliciter della democrazia è fallito. Si tratta adesso di evitare che avanzi l’oscurantismo. E non sarà nemmeno questa un’impresa facile.
Sul tema, in rete, si cfr.:
Liberare il cielo. Sul Logos (che non è un “logo”), i monoteismi (che non sono il monoteismo) e sull’esportazione della democrazia (che non è la democrazia).Una nota su due “gaffe” (di Giovanni Sartori e Gian Maria Vian) ("ildialogo.org, Sabato, 21 aprile 2007.
Federico La Sala
#Parola Di Dante
...viro
(Paradiso XXIV, 34)
***
#Beatrice chiede al #proboviro
#SanPietro di verificare
se #Dante ha capito la differenza tra
l’#Ecce Homo dell’#antropologia
(#PonzioPilato: gr. «idou ho #anthropos»)
e
il #vir dell’#andrologia di
#SanPaolo
(#capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]: 1 Cor 11,1-3).
#Dante2021.
#Cosmicomiche - non cosmitragiche!
aveva perfettamente #ragione.
"Divina commedia"
si trova nella fascia degli asteroidi
fra #Marte e #Giove,
a 381 milioni di chilometri dal
#Sole.
***
L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE
(#Dante).
#Storia dell’#astronomia:
"La conoscenza degli effetti e la ignoranza delle cause produsse l’#astrologia"
(#Giacomo Leopardi).
#SapereAude!
(#Kant):
#Ingenuity
(Pianeta #Marte, 2021).
Report . Ventiquattro matrimoni forzati in due anni. Un terzo ha coinvolto minorenni
Il Viminale ha pubblicato il primo rapporto sulle donne costrette a un’unione che non vogliono. Nove casi si sono verificati nei soli primi cinque mesi di quest’anno. In tante come Saman Abbas
di Silvia Guzzetti (Avvenire, lunedì 28 giugno 2021)
Quante sono le Saman in Italia? Ovvero quante ragazze sono costrette a matrimoni forzati o uccise perché non vogliono accettarli? È questa una delle domande alle quali cerca di rispondere il primo "Report sulla costrizione o induzione al matrimonio in Italia", curato dal Viminale, secondo il quale dal 9 agosto 2019 al 31 maggio 2021 sono 24 i casi di matrimoni forzati registrati nel nostro Paese, 9 dei quali nei soli primi cinque mesi di quest’anno. È proprio al 9 agosto 2019, infatti, che risale l’entrata in vigore del "Codice rosso", che ha introdotto uno specifico reato con lo scopo di contrastare proprio il fenomeno delle "spose bambine",
Dietro la definizione un po’ arida di "matrimonio precoce" come di una "unione formale nella quale viene coinvolto un minorenne, considerato forzato se quest’ultimo non è in grado di esprimere compiutamente e consapevolmente il proprio consenso non solo per le responsabilità che ci si assume con quell’atto ma anche per il fatto che la sua età le impedisce il raggiungimento della piena maturità e capacità di agire", che è contenuta nel rapporto del Viminale, vi sono anche tante storie tragiche simili a quella di Saman Abbas. La diciottenne, di origine pakistana, abitante a Novellara, è scomparsa dalla fine di aprile e gli inquirenti, che stanno indagando per omicidio e occultamento di cadavere il padre e la madre della ragazza, sospettano che sia stata la famiglia a ucciderla e farla scomparire.
LA SCOMPARSA DI SAMAN
Saman è stata vista per l’ultima volta l’11 aprile quando si è allontanta dal centro protetto nei pressi di Bologna dove viveva dallo scorso dicembre. Aveva voluto tornare a casa sua, forse per prendere alcuni documenti, e non ha più fatto ritorno. Agli assistenti sociali che la stavano seguendo e le avevano garantito un rifugio lontano dall’ambiente oppressivo della sua famiglia, aveva raccontato che i genitori volevano costringerla a un matrimonio forzato con un cugino residente in Pakistan. Papà e mamma non riuscivano a perdonare alla figlia di volersi costruire un futuro diverso che comprendesse andare a scuola, viaggiare, lavorare. Le immagini delle telecamere di sorveglianza poste nei pressi dell’azienda in cui lavorava il padre della ragazza mostrano, la sera del 29 aprile, tre persone provviste di un secchio, un sacco nero per la spazzatura e una pala dirigersi verso il campo che circonda l’abitazione di Saman.
CHE COS’E’ IL MATRIMONIO FORZATO
Storie simili vengono suggerite dalle parole usate dal Report del Viminale. "Il fenomeno del matrimonio forzato ha radici storiche, culturali e talvolta religiose. L’emersione di questo reato non è facile perché spesso si consuma tra le mura domestiche e le vittime sono quasi sempre ragazze giovani, costrette ad abbandonare la scuola, talvolta obbligate a rimanere chiuse in casa nell’impossibilità di denunciare anche per paura di ritorsioni".
È sempre il Report ad ammettere che "i dati, inevitabilmente, fotografano una situazione sottodimensionata rispetto a quella reale".
Insomma le statistiche senz’altro sottostimano l’incidenza di questo reato. Il rapporto, che è stato curato dalla direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza, parla di un 85% dei reati, sempre tra agosto di due anni fa e maggio scorso, riguardanti donne. In un terzo dei casi le vittime sono minorenni (il 9% hanno meno di 14 anni e il 27% hanno tra i 14 e i 17 anni). Ci sono poi le straniere, che sono il 59%, in maggioranza pachistane, seguite dalle albanesi mentre per Romania, Nigeria, Croazia, India, Polonia e Bangladesh si registra una sola vittima.
Nel 73% dei casi gli autori del reato sono stati uomini, anche in questo caso più frequentemente pachistani, seguiti da albanesi, bengalesi e bosniaci. Nel 40% dei casi i responsabili erano di età compresa tra 35 e 44 anni mentre il 27% aveva tra 45 e 54 anni. Il 15% aveva tra 25 e 34 anni.
LA PANDEMIA HA PEGGIORATO LA SITUAZIONE
Sempre il Report del Viminale getta anche uno sguardo globale su questo fenomeno, ricordando che, nel 2020, per effetto delle conseguenze economiche della pandemia, per la prima volta, dopo anni di progressi, si è registrato un peggioramento dell’incidenza dei matrimoni forzati che stanno coinvolgendo molte adolescenti, soprattutto nell’Asia meridionale, nell’Africa centrale e nell’America Latina.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
FLS
"IAM REDIT ET #VIRGO" (#Virgilio).
Nell’approssimarsi dell’#alba,
un’ottima sollecitazione:
riascoltare la lezione di
#Stazio
su
#come nascono i bambini
(Purg. XXV, 34-78)
e riprendere le ricerche
#Giovanni Valverde
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mc 12,29-30)
#Questione Antropologica.
La cit. di Mc 12, 29-30 ha un senso andrologico (e cosmo-te-andrico) o antropologico,
come il #Padre di ogni essere umano (#PonzioPilato: #Ecce homo),
quell’#Amore (di #Dante Alighieri),
che muove il #sole e le altre #stelle -
e anche la #Terra?!
NEL NOSTRO OCCIDENTE, SI VA ANCORA A LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Patriarcato aut religione? La responsabilità delle religioni nei femminicidi
C’è chi sostiene che l’Islam non c’entra nella terribile uccisione di Saman Habbas. Ma il trattarsi di femminicidio non assolve la religione, anzi.
di Edoardo Lombardi Vallauri (MicroMega, 21 Giugno 2021)
Approfittando che sono spesso associate a condanne un po’ troppo automatiche, alcune parole possono essere usate per creare capri espiatori, distogliendo l’attenzione dalle vere cause di un male e dai veri responsabili di un’ingiustizia.
Dopo la terribile uccisione di Saman Habbas da parte dei suoi familiari in nome dei valori tradizionali a cui non voleva sottomettersi, come in precedenti occasioni dello stesso tipo, diversi rappresentanti della cultura islamica hanno preso iniziative volte a smarcarsi. Facciamo solo un paio di significativi esempi.[1] Nadia Bouzekri, vicepresidente dell’Unione delle Comunità Islamiche Italiane, ha rilasciato un’intervista al Corriere della sera, uscita il 9 giugno 2021 con il titolo: L’Islam non c’entra. Nozze forzate illegali anche in Pakistan. In essa si incontrano frasi come questa:
Da questo assetto giuridico l’interessata vorrebbe che noi capissimo che in Pakistan non esiste una cultura (fortemente intrisa di religione) dei matrimoni forzati; mentre noi, suo malgrado, capiamo immediatamente che è il contrario. Dice anche, Bouzekri:
Femminicidio è un termine il cui uso viene spesso esteso facendo di ogni erba un fascio fra tutti i tipi di violenza subita da donne, compresi quelli in cui la donna è oggetto di aggressione non perché di sesso femminile, ma (altrettanto atrocemente e ingiustificatamente) perché convivente, partner o comunque ostacolo alla felicità del compagno, o fonte di una sofferenza che lui crede assurdamente di risolvere così. Molte delle violenze nella coppia non sono femminicidi, ma sopraffazione di un individuo fisicamente più debole da parte dell’individuo fisicamente più forte, nell’ambito di una conflittualità non necessariamente infiltrata da idee maschiliste. Lo stesso avviene per le violenze psicologiche, dove chi sia l’individuo più capace di torturare l’altro non dipende dal sesso, e infatti è con pari frequenza il maschio o la femmina. Oppure nel caso degli infanticidi, dove sia il padre che la madre sono fisicamente più forti del bambino.
Qui, però, nel caso di Saman Habbas e in tutti quelli simili, si tratta proprio di femminicidio; cioè di uccisione di una donna in quanto donna, in nome di idee sul ruolo rivestito dal suo sesso, a cui si ritiene che abbia il dovere di adeguarsi. Ma il trattarsi di femminicidio significa forse che la religione e la cultura della civiltà dove esso è perpetrato non c’entrino?
È utile riflettere sia su questo modo di pensare, sia su questo modo di comunicare. Bouzekri e la giornalista che l’ha assistita nel predisporre quell’intervista, Alessandra Arachi, mostrano di essere convinte che basti usare la parola femminicidio per dirigere altrove la ricerca del colpevole. Sono ormai abituate a una civiltà in cui parole come femminicidio e patriarcato scatenano automaticamente indignazione, condanna, risentimento e perfino odio nei confronti di qualcosa e di qualcuno di molto diverso dalla religione e dai suoi rappresentanti. Per la precisione, contro il genere maschile e i suoi rappresentanti: i maschi.
L’attivista femminista intersezionale Wissal Houbabi, nostro secondo esempio, in una acclamata intervista raccolta da Giansandro Merli per il Manifesto del 9-10 giugno 2021, dal titolo Wissal Houbabi: «Il problema non è l’islam e l’occidente non è la soluzione» (https://ilmanifesto.it/wissal-houbabi-il-problema-non-e-lislam-e-loccidente-non-e-la-soluzione/), dichiara:
Sante parole. Cui Houbabi aggiunge:
Cioè, secondo Houbabi, a causa della visibilità dell’islam e della invisibilità del patriarcato, tutti danno la colpa all’islam (che non ne ha) e non danno la colpa al patriarcato (che è il vero colpevole). Di nuovo una parola magica, che serve a indirizzare la colpa lontano dalla religione, verso un ormai collaudatissimo capro espiatorio. In realtà, tutti sono così abituati a dare colpe al “patriarcato” inteso come mera maschilità, che perfino citarlo in un ragionamento completamente sghembo, può funzionare per intercettare le responsabilità che sono di una religione e scaricarle sugli appartenenti a un sesso. Anzi, Houbabi sostiene che la madre di Saman, pur avendo agito allo stesso modo dei membri maschi della famiglia, in realtà può non essere colpevole come loro, perché:
Cerchiamo di raccapezzarci in questo genere di “ragionamenti”. Se una famiglia islamica si coalizza per uccidere una ragazza, non significa che tutti gli islamici siano dei femminicidi. E se un uomo bianco uccide la sua compagna non significa che tutti i maschi bianchi siano dei femminicidi. Tuttavia, nella famiglia islamica che si è coalizzata, i maschi sono più colpevoli delle femmine. La colpa è del patriarcato, che per di più è una forma di pensiero strutturale, cioè non individuale ma sociale e collettiva. E se la colpa è del patriarcato, la colpa non è della religione o della cultura islamica.
Dobbiamo dedurne che il patriarcato è l’unico complesso assetto socioculturale a non avere cause culturali? Che esso è slegato dalla cultura dominante, e indipendente dalle religioni che per millenni hanno avuto un ruolo di primissimo piano nel determinare quella stessa cultura, e in particolare, all’interno di essa, la morale corrente? Il fatto che il femminicidio avvenga anche in Italia significa che la religione non c’entra con una mentalità di subordinazione della donna? Chiunque ci legga deciderà se deve dedurre questo, o se invece preferisce dedurre che nelle dichiarazioni di Bouzekri e Houbabi c’è qualche imprecisione.
Se del femminicidio non ha nessuna colpa la religione, a maggior ragione non ne possono avere colpa altri e minori fenomeni o correnti culturali. Tuttavia, le cose non possono non avere cause. Se si escludono le ragioni socioculturali, che cosa può causare il patriarcato? Non rimangono che le cause naturali. Ed ecco: la sempre più diffusa tentazione di pensare che, alla fine, tutti i maschi sono in qualche misura dei femminicidi, rientra dalla finestra. Anche quando viene, per decenza, ripudiata nelle dichiarazioni esplicite, ci viene inoculata implicitamente mediante l’insieme del discorso.
Ma per fortuna, a dispetto di molte visioni di femminismo radicale, le cose non stanno così. Il patriarcato non è una diretta conseguenza del genoma umano o in particolare del cromosoma Y, ma un prodotto culturale. Lo provano, fra l’altro, le civiltà non patriarcali (comprese quelle matriarcali), e i miliardi di maschi capaci di rispettare le donne quanto gli uomini. Certo, come ogni fatto culturale anche il patriarcato non parte da una tabula rasa della natura, ma neanche ne è un riflesso automatico, in cui la cultura non imprima in modo decisivo il suo marchio. Ad esempio, il fatto che i maschi siano più robusti fisicamente è un’eccellente premessa naturale perché possano usare la prepotenza; ma non li obbliga affatto ad essere prepotenti. Lo saranno dunque molto di più in una civiltà che li incoraggi o addirittura li obblighi ad esserlo, e di meno in una civiltà più ragionevole. Del resto, la prospettiva che le cause del patriarcato siano interamente naturali è quasi apocalittica. Se è proprio la natura che ha fatto le donne giuste (ragionevoli e buone) e gli uomini sbagliati (prepotenti e cattivi), così come ha fatto le donne adatte alla gestazione e gli uomini alla fecondazione, allora è inutile cercare di cambiare le cose culturalmente: tanto vale accettare che l’esistenza è una guerra fra i due sessi, e che vinca il più forte.
Ma insomma, no, anche nel caso di Saman Habbas, il trattarsi di patriarcato e di femminicidio non assolve le religioni, anzi. Non è onesto cercare di scagionare le religioni dalle loro responsabilità con questi sgangherati effetti di scaricabarile. E non è onesto perché storicamente questo genere di responsabilità le religioni ce l’hanno eccome. Io non conosco profondamente l’islam, quindi non provo neanche a citare ovvietà triviali come gli harem, perché non posso confutare seriamente l’ipotesi che millenni di islam siano stati irrilevanti nel produrre una mentalità che subordina la donna. Ma conosco un’altra religione, il cristianesimo, quanto basta per dire che esso ha dato e continua a dare un formidabile contributo a questo tipo di mentalità.
Nel nostro occidente, una religione che ha sempre negato e continua accanitamente a negare alle persone di sesso femminile la possibilità (la dignità!) di ricoprire qualsiasi carica significativa nei propri organigrammi, ha responsabilità evidenti per l’esistere di una cultura di subordinazione della donna. Una religione che predica la monogamia sessuale e la colpevolezza di chi la infrange, è responsabile della mentalità che conduce al femminicidio, perché arma ideologicamente ogni partner del diritto di condannare l’altro se non rimane completamente fedele alle leggi monogame della coppia. Se a parere di una religione “Dio” destina addirittura all’inferno chi viene meno all’esclusiva e definitiva appartenenza sessuale al partner, chiaramente questo costituisce un formidabile invito a considerarlo spregevole, colpevole, meritevole di durissima punizione. E questo arma entrambi, compreso il più debole, della possibilità di condannare (come accade continuamente in tutte le coppie). Ma il più forte, lo arma anche dell’autorizzazione a “punire”.
NOTE
[1] Chi volesse vederne un terzo, apparso su Il Riformista del 15 giugno 2021 e punteggiato da esplicite inesattezze addirittura sui dati concreti, può andare qui: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=2960034570899118&id=100006778116561
Tante come la pachistana scomparsa.
Mai più da sole le Saman d’Italia
di Asmae Dachan (Avvenire, venerdì 11 giugno 2021)
Le speranze di ritrovare in vita la giovane Saman Abbas si fanno sempre più deboli e mentre non c’è ancora un posto dove portare un fiore alla sua memoria, e prometterle giustizia, la tragedia che l’ha colpita sta diventando l’ennesimo pretesto per uno scontro politico e per guerre di parole.
Saman era una ragazza italiana come tante, come sono stata anche io, con le mie origini siriane e la mia fede musulmana, che fanno i conti con la bellezza, ma anche le problematiche di una doppia identità. Non tutti hanno la fortuna di avere famiglie illuminate, che investono sulla formazione dei figli e li spingono a perseguire i propri obiettivi.
Ci sono purtroppo anche ragazzi e soprattutto ragazze, che si sentono invisibili, indesiderati, incompresi, dentro e fuori casa. Tra le mura domestiche parlano una lingua, che non è solo patrimonio lessicale, diversa da quella che usano all’esterno; vivono una dimensione come sospesa nel tempo e nello spazio e che non ha nulla a che vedere con l’immaginario delle famiglie.
A volte queste ultime cercano di mantenere vive le tradizioni del Paese d’origine e non si accorgono della frattura che inesorabilmente si consuma, dovuta al cambiamento generazionale, ma anche a una diversità culturale che spesso non sono pronte ad affrontare. Quel ’da noi si fa così’ in cui i figli non si sentono rappresentati, perché il loro noi è diverso, può provocare grandi sofferenze. Per i figli maschi, in questi casi, voltare le spalle alla famiglia e allontanarsi e più facile. Per le figlie femmine il discorso è sempre più complesso. Inutile girarci intorno, sul corpo e sulla mente delle donne, sin da piccole, si esercita sempre un maggiore controllo.
Le Saman in Italia sono molte e le sfide che devono affrontare sono tutte in salita: farsi accettare dai compagni, dagli amici, e dalla società, ma anche farsi accettare dalle famiglie. Non è mai facile compiacere gli uni e gli altri. A scuola avevo una compagna cristiana praticante con cui siamo presto diventate amiche e che un giorno mi aveva confidato che voleva mantenersi ’pura’ fino al matrimonio, ma che poteva dirlo solo a me perché gli altri l’avrebbero presa in giro, mentre io l’avrei capita. Da persona osservante, effettivamente la capivo.
A volte ci sentivamo le ingenue del gruppo, perché gli altri ci sembravano tutti più spigliati, ma eravamo felici delle nostre scelte e il fatto che fossimo amiche ci aiutava a sentirci meno diverse. A quell’età la parola diversità fa tanta paura, mentre la parola scelta rende felici. Anche Saman voleva scegliere, aveva capito che fuori dal contesto familiare, che pare fosse molto duro, esisteva un’alternativa che l’avrebbe sottratta a un destino di sofferenza, con un matrimonio che non voleva. Forse Saman sperava che, pur non accettando le sue idee, la famiglia l’avrebbe lasciata vivere come preferiva; invece, se verranno confermate le ipotesi degli inquirenti, la disumana fine della giovane sarebbe stata premeditata e condivisa proprio da chi avrebbe dovuto esserle più vicino. In nome di chi, in nome di cosa? Perché l’islam non avrebbe accettato il legame di una musulmana con un non musulmano, o perché la comunità avrebbe isolato e mal giudicato la famiglia? Non può esistere nessuna giustificazione, si tratta di un crimine barbaro e di una violenza che non possono che essere condannate fermamente. In diversi Paesi a maggioranza musulmana si sta mettendo mano alla riforma del codice di famiglia per liberalizzare i matrimoni con persone di fede diversa, ma anche su altre questioni che sino a oggi hanno in qualche modo penalizzato le donne. Esiste cioè un fermento dal basso, per rivendicare più diritti e abolire logiche patriarcali, ma il cammino è ancora molto lungo e coinvolge solo alcuni Paesi.
Non va dimenticato che il Pakistan è stato la patria di Benazir Bhutto, tra le prime donne nella storia a ricoprire per due volte l’incarico di primo ministro, diventata poi vittima dell’odio che l’ha condannata a morte. Oggi in Pakistan matrimoni combinati e femminicidi sono proibiti e condannati dalla legge, quindi nemmeno nel Paese di origine Saman avrebbe dovuto subire quello che ha subito. Se le indagini confermeranno le terrificanti ipotesi, vorrà dire che Saman è stata brutalmente uccisa qui, nel Paese dove sognava di vivere da donna libera, dove forse le sue denunce e richieste di aiuto avrebbero dovuto essere ascoltare con più attenzione. Di Saman è piena l’Italia. Donne che chiedono aiuto, ma che vengono lasciate sole. Lo sappiamo dalla cronaca, lo vedono ogni giorno Forze dell’ordine e soccorritori. Tante volte mi è capitato, durante i turni da volontaria del 118, di aiutare donne disperate, picchiate e minacciate da mariti e familiari; donne che sentono di non avere speranza, di essere braccate, che non hanno documenti italiani per poter fuggire, e che spesso non parlano nemmeno la lingua perché tenute quasi segregate. A volte, in quelle circostanze, vedere una donna che sentono ’più vicina’, aiuta a raccogliere le loro denunce e a capire cosa stanno subendo. C’è poi il passo successivo alla denuncia, che può davvero salvare una vita, che è quello del sostegno. Un sostegno che necessita di un osservatorio, di una rete, in cui si deve necessariamente lavorare insieme.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA BIBBIA, IL CORANO, E LA LAPIDAZIONE: "LA" PIETRA SU CUI SI FONDA "LA" CIVILTA’!!!
fls
Riletture
La magnifica inattualità della "Commedia"
Si fa un gran parlare di Dante mettendo l’accento sulla sua attualità, che è però distante dalla visione della vita, della morale civile e del rapporto creatura-Creatore che è nella sua opera
di Gianni Oliva (Avvenire, domenica 23 maggio 2021)
È sotto gli occhi di tutti che l’anno dantesco, il 2021 (700 anni dalla morte di Dante), vada a gonfie vele. Le manifestazioni erano già cominciate l’anno precedente con l’istituzione da parte del ministero dei Beni culturali del Dantedì, una ricorrenza fissa, come il giorno della memoria, che ha indubbiamente il suo valore promozionale. Già dagli ultimi giorni del 2020 è andato crescendo il clamore per la ’riscoperta’ (ahimé) di Dante nei salotti televisivi, ove si avvicendano dantisti dell’ultima ora col loro libro sotto braccio. Si tratta nella maggior parte di profili e di ricostruzioni biografiche non sempre di prima mano allestite per l’occasione o di adattamenti della Commedia in forma di narrazione, come se l’opera si risolvesse in un’affascinante avventura dagli Inferi «a riveder le stelle», magari alludendo alla pandemia in corso da cui tutti vorremmo uscire al più presto. Libri destinati a non lasciare traccia, adatti semmai a tamponare l’occasione della ricorrenza o a trasformarsi, nei casi peggiori, in regali di Natale, con soddisfazione degli editori e degli scaltri autori. In ogni caso c’è da chiedersi se tutto ciò sia un bene o un male.
Potremmo dire che è comunque un bene se come conseguenza ha l’avvicinamento del grande pubblico alla poesia dantesca, anche a rischio dell’estrema semplificazione e di una conoscenza approssimativa, se non distorta. Qualche anno fa venivano criticate dagli addetti ai lavori le istrioniche letture di Benigni ma certamente per la divulgazione di Dante hanno fatto molto di più quelle performances delle pur prestigiose (a volte noiose) lecturae Dantis delle accademie (nelle quali riconosco di essere stato molte volte coinvolto di persona).
Cento anni fa, nel 1921, altro anno deputato per il centenario dantesco, Giovanni Papini, in un libro intitolato Dante vivo, non si faceva scrupoli di prendere di mira i dantisti, i dantomani, gli sterili chiosatori del poema (Marinetti a sua volta parlava di un «verminaio di glossatori»), i quali, presi dalle loro minuzie interpretative (le cosiddette cruces dantesche), erano accusati di perdere di vista l’anima di Dante, insomma, la sostanza profonda del suo messaggio. Il dantismo celebrativo di oggi rischia di sortire forse gli stessi effetti perché il tema primario sembra essere quello dell’attualità del grande poeta.
Ci si chiede sempre: ma Dante è attuale? Come se gli autori possano essere scelti in base al tasso di attualità della loro opera ignorando la connessione stretta col loro tempo. Certo, come tutti i grandi classici, Dante contiene messaggi che riguardano il comportamento degli uomini e per questo è come Omero, come Shakespeare, autori in cui si riflettono le verità universali. Attenzione però. Alcune di queste verità, indubbiamente le più importanti, sono di natura spirituale e dunque connesse con un sapere teologico profondissimo e complicato con cui oggi si è persa dimestichezza. Va detto a scanso di equivoci che Dante è un poeta difficile e come tale richiede rispetto.
Etienne Gilson diceva che quando ci si accosta a Dante è necessario dismettere gli abiti laici. Un’epoca utilitaristica come la nostra, fondata sul tessuto finanziario e sull’economia è davvero in grado di recepire senza difficoltà un discorso ’anagogico’ che prevede il ricongiungimento della creatura col Creatore? Il viaggio di Dante non è un’escursione più o meno avventurosa nei regni dell’oltremondo, tra diavoli e gerarchie angeliche, in compagnia di personaggi alcuni dei quali indimenticabili protagonisti del suo universo. Affermare questo significa ignorare il realismo figurale, il significato delle scritture su cui Dante tanto insiste.
L’anagogia nel suo significato etimologico (dal greco anagoghè), ossia viaggio dal tempo all’eterno indica il fine ultimo dell’uomo che, in quanto creatura, tende a ricongiungersi con il Creatore. L’epoca attuale ricava da Dante quello che vuole e che più gli aggrada ( Quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur: Qualunque cosa venga ricevuta, viene ricevuta secondo le possibilità di chi la riceve), senza curarsi molto della verità sostanziale. Si vuol dire che i problemi che Dante pone sono molto più complessi di quello che sembra; sono molto più lontani dalle posizioni morali che convengono alla società evoluta dei tempi nostri. Il mondo dantesco, a livello politico, ideologico, culturale, è ben altro dal nostro e penetrarvi per conoscerlo richiede pazienza, attitudine all’ascolto e allo studio. Tutto si può fare e, volendo, anche senza essere degli specialisti, è possibile affrontare lo studio di Dante con cognizione di causa, rimuovendo però atteggiamenti frettolosi e superficiali. Magari un corso di lezioni tenute a un pubblico volenteroso (e davvero curioso) forse sortirebbe migliore effetto, qualora, al di là delle convenienze, si insistesse su un principio fondamentale: che la Commedia non è uno svago, ma è la coscienza e la consonanza della sorte umana, è il poema che ricorda agli uomini che la vita è assidua meditazione della morte e infinita malinconia di beni sperati e smarriti, prova incessante di passione e di pentimento, di violenze e rinunce, di verità e d’ignoranza.
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla "#Visione di Dio" (1454), si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia (#Eschilo).
DANTE E LA PERSIA:
“The Divine Comedy of Dante and the Virāf-Nāmeh of Ardāi Virāf” di Jivanji Jamshedji Modi *
Dello studio di Jivanji Jamshedji Modi, che segna di fatto l’avvio, agli inizi del Novecento, dell’interesse degli iraniani nei confronti della Commedia, rese conto in Italia per la prima volta Carlo Formichi (1871-1943), “l’Orientalista del Duce”, uomo coltissimo, sanscritista a Pisa e poi Roma, vicepresidente dell’Accademia d’Italia, il quale sostò sovente in India dove ebbe modo di conoscere il venerabile Modi presso il Cama Oriental Institute, fondazione creata dalla comunità Parsi di Bombay che promuove, ancora oggi, gli studi iranici e mira a creare una rete di contatti tra studiosi di tutto il mondo. Formichi, in un articolo intitolato Dante e la Persia 89, commentò le ricerche che il dotto Modi dedicò a Dante, raccolte in un volume edito nel 1914 intitolato
Dante Papers, le quali rappresentavano un ulteriore approfondimento di quanto aveva pubblicato pochi anni prima, nel 1901, l’orientalista francese Edgar Blochet, il quale, come già ricordato, fu tra i primi ad avanzare l’ipotesi che nell’opera di Dante fossero confluiti elementi della tradizione zoroastriana, in particolare di quel testo, giuntoci in diverse redazioni di cui la più antica in pahlavī (e poi pazānd, neopersiano e gujarāti), noto appunto come Virāf-Nāmeh. Il Virāf-Nāmeh 90
è il racconto di un viaggio nei regni dell’oltretomba, messo per iscritto la prima volta in un periodo non meglio precisato tra il IV e il IX secolo, per alcuni studiosi assai probabilmente in epoca sasanide (IV-VII secolo) quando lo Zoroastrismo conobbe un periodo di rigoglio grazie al sostegno della corte imperiale. La varietà della tradizione e il carattere stesso del componimento ci inducono a pensare che si tratti di un testo che, da un ristretto contesto sacerdotale dove venne redatto per mano di un autore a noi sconosciuto, divenne ben presto patrimonio del popolo dei fedeli ed elemento vivo del catechismo zoroastriano. Si racconta nel Virāf-Nāmeh che a seguito dell’’incendio di Persepoli ad opera di Alessandro Magno (330 d.C.) e la conseguente distruzione dei testi sacri zoroastriani, l’Avesta e lo Zand (che si sarebbero trovati nella sala del tesoro della reggia di Persepoli oppure - secondo altre tradizioni - nella Fortezza delle Scritture, a Staxr i Papakan, nelle vicinanze di Persepoli) la società persiana fosse caduta in una crisi profondissima e che, per porre rimedio a questo stato di disordine, i sacerdoti, riunitesi in solenne assemblea nella regione del Pārs, avessero deciso di mandare un uomo di eccezionale devozione, noto a tutti con il nome di Ardāi Virāf, nell’altro mondo affinché ritornasse con un messaggio di salute e di speranza per tutta la comunità dei fedeli. Bevuta una pozione sonnifera, Ardāi entra così in un sonno profondo da cui si risolleverà dopo sette giorni, raccontando, al suo risveglio, ad uno scriba i particolari della sua visione della quale fornisco qui il riassunto offerto da Carlo Formichi nella sua recensione:
Com’è possibile notare da questo breve riassunto le somiglianze tra la narrazione persiana e il poema dantesco sono piuttosto evidenti, e non si può negare che esistano strane concordanze non solo tra le linee generali, ma anche tra molti particolari dei due componimenti. Oggi noi sappiamo che difficilmente Dante avrebbe potuto attingere in maniera diretta da questa lettura e che le fonti delle quali avrebbe potuto valersi erano assai ampie anche nella tradizione occidentale, come ci rammenta Carlo Formichi: il VI canto dell’Eneide, in cui Enea discende nell’Ade alla ricerca di una profezia sul proprio destino;gli atti di Perpetua e Felicita citati da Tertulliano e Sant’Agostino in cui sono presenti numerosi visioni dei mondi ultraterreni; la storia di Traiano narrata nella vita di Gregorio Magno da Paolo Diacono, secondo la quale papa Gregorio Magno, afflitto dal pensiero che un uomo così giusto come l’Imperatore romano dovesse essere dannato perché pagano, ottenne con le sue preghiere da Dio che l’anima di Traiano fosse richiamata in vita per breve tempo e che in tal modo avesse la possibilità di credere in Cristo e quindi salvarsi; e ancora la visione dei tre Regni del monaco Drithelm riferita dal Venerabile Beda; quella del santo irlandese Adamnan (VII sec.), le visioni di Wettin di Reichenau, di Prudenzio, Carlo il Calvo e Carlo il Grosso del IX secolo; il viaggio di San Brandano (XI sec), di san Patrizio, di san Paolo, di Albericodi Monte Cassino, ed infine il più recente Tesoretto di Brunetto Latini. [...]
* FONTE: LA TRADUZIONE PERSIANA DELLA DIVINA COMMEDIA. ANALISI E COMMENTI (Tesi di Laurea di Maria Teresa Orlandini - Pisa, 2013-2014).
Maria Corti da Milano al Salento *
di Lucio Causo (Cultura salentina, 30 luglio 2015)
Il fascicolo del 1952 della Lectura Dantis dell’editore Carlo Signorelli, col commento del V canto dell’Inferno di Antonino Pagliaro, è ricco di una bibliografia di autori che hanno studiato la dottrina visionistica dell’oltretomba: ad essi non sfugge l’influenza dei testi islamici che si riscontrano nella letteratura occidentale.
Verso la 2^ metà del VI secolo, nel libro di Artàk Viràz è descritto il viaggio di un uomo che visita l’inferno e il paradiso, in compagnia di angeli e nel 1920 a Bombay il dottor Jivanji Jamshedji (1854-1933), studioso indiano, pubblica una sua raccolta che rivela la visione di Dante tratta dalle opere iraniche.
Sorge poi l’ipotesi che durante il suo esilio Dante Alighieri abbia conosciuto un dotto israelita, Immanuel Ben Solomo, che ha riferito sulla letteratura visionistica.
Cerulli ha fatto i suoi studi sul “Libro della Scala” dell’VIII secolo, tradotto da Bonaventura da Siena, che tratta del viaggio di Maometto nell’oltretomba.
La penisola iberica ha raccolto sempre le leggende e le critiche degli autori che hanno tramandato le varie vicende delle visioni dell’altro regno (Fonti arabo-spagnole della Divina Commedia del 1949, Città del Vaticano).
Brunetto Latini è stato in Spagna, ma non è dato sapere quanto egli ha riferito al suo ritorno a Firenze.
Nel 1919 sono state pubblicate le ricerche di Asin Palacios, arabista spagnolo. E. Guidubaldi ed A. Vallone hanno rilevato poi le fonti arabe in Dante Alighieri.
L’Accademia Salentina ospitava Maria Corti quand’ella era nel Salento per trascorrere le vacanze presso la dimora del padre, l’ing. Emilio.
I letterati che si riunivano a Lucugnano, in casa del poeta Girolamo Comi, erano Luciano Anceschi, Alfonso Gatto, Piero Bigongiari, Gianni Manzini, Mario Luzi, Luigi Corvaglia ed altri che accoglievano festosamente la presenza della Corti, introdottavi da Oreste Macrì.
Maria Corti è stata eletta cittadina onoraria di Maglie, quando Claudio Micolano, docente di lettere classiche nel Liceo Capece, ha potuto avvertire la richiesta dell’emerita scrittrice di valorizzare i poeti locali, come Salvatore Toma, nato nel 1951 e deceduto trent’anni dopo.
Nel 1962 Maria Corti, dopo aver insegnato nelle scuole medie, ha occupato la cattedra di storia della lingua italiana nell’Università di Lecce, proprio nel Salento dei suoi libri “Ora di tutti” e “La signora di Otranto” successivi ai suoi scritti sulla rivista “Libera Voce”.
Tornando ai suoi studi danteschi, diviene d’obbligo evidenziare le notizie riportate dai quotidiani: “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 31 maggio 1995 ed “Il Giornale” del 1° giugno 1995, relative alle pubblicazioni della Corti, ormai accademica della Crusca, elaborate per la rivista “Belfagor” sull’inferno di Dante ispirato dai testi islamici.
Nelle Malebolge, le immagini e le parole scritte nel “Libro della Scala”, coincidono con quelle dell’Alighieri riscontrate da Maria Corti con il suo stile creativo derivato da indagini incomparabili. Ed infine il quotidiano “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’8 maggio 2004, con la sigla di G. Cassieri, dà notizia del volume degli “Ori di Puglia” scritto da Anna Longoni con il titolo: “Maria Corti da Milano al Salento”.
___
Maria Corti (Milano, 7 settembre 1915 - Milano, 22 febbraio 2002)
Jivanji Jamshedji (1854-1933):
LA TRADUZIONE PERSIANA DELLA DIVINA COMMEDIA. ANALISI E COMMENTI (Tesi di Laurea di Maria Teresa Orlandini - Pisa, 2013-2014).
Federico La Sala
In cammino con Dante/7.
Brunetto Latini, un maestro all’Inferno
Nel girone dei sodomiti Dante incontra lo scrittore e politico fiorentino. Non solo i versi del Tesoretto sono spesso citati, ma Latini fu il tramite del "Liber Scalae", fonte islamica della Commedia
di Carlo Ossola (Avvenire, sabato 1 maggio 2021)
Sotto le falde di fuoco che cadono senza posa sui sodomiti, Dante trova il proprio maestro, Brunetto Latini, traduttore dell’Etica di Aristotele e della Retorica di Cicerone; ora questi, dal «viso abbrusciato» dalle fiamme, tocca umilmente l’orlo della veste del discepolo, distendendo il proprio braccio martoriato; nel riconoscerlo Dante ha un gesto di pietas: «E chinando la mano a la sua faccia, / rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?” / E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia / se Brunetto Latino un poco teco / ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia» (Inf XV, 29-33).
La doppia ripetizione del vocativo, del nome di persona, è rara nella Commedia, superata solo dalla triplice invocazione del nome di Virgilio, nel momento in cui, al sommo del monte del Purgatorio, lascia luogo a Beatrice: «Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo patre, / Virgilio a cui per mia salute die’mi» (Purg XXX, 49-51).
Chi era dunque Brunetto, al quale Dante riconosce un ruolo così alto? Grande personalità della storia fiorentina, nato da nobile famiglia intorno al 1220, attraversa da protagonista tutta la storia del XIII secolo e muore a Firenze intorno al 1294 o 1295. Scrittore, notaio, uomo politico, "scriba degli anziani" del Comune di Firenze, nel 1254, inviato presso Alfonso X di Castiglia per ottenere aiuto per i guelfi fiorentini, come scrive nel suo Tesoretto («Esso Comune saggio / Mi fece suo messaggio / A l’alto Re di Spagna», II, 11-13), ma la vittoria dei ghibellini a Montaperti (1260) lo costrinse all’esilio in Francia per quasi un decennio. Rientrato a Firenze, divenne nel 1273 Segretario del Consiglio della Repubblica e ricoprì altre cariche, tra cui quella di priore nel 1287.
La vicenda di Brunetto Latini è importante, nella Commedia, anche per un’altra vexata quaestio: e cioè se Dante abbia conosciuto il Liber Scalae Machometi (il Kitab al-Mirag, edito da E. Cerulli, Il "Libro della scala" e la questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1949). La versione latina, e francese (da un esemplare ridotto dall’arabo al castigliano da Abraham Alfaquim) si deve a Bonaventura da Siena, "domini regis notarius et scriba", alle dipendenze della corte di Alfonso nel 1264, presso la quale egualmente si reca, negli stessi anni, appunto Brunetto Latini.
Come sostenuto da Miguel Asín Palacios e poi da Maria Corti, è probabile che quel testo sia giunto a Dante, non meno, su altro versante, che le versioni latine della Guida dei perplessi di Maimonide, ora studiate da Diana Di Segni. Non si tratta dunque di un calcolo di dipendenze, dalla cultura araba o da quella ebraica, ma della profonda unità delle tradizioni mediterranee, nel crogiolo e nella koiné universale del latino.
Quale che sia, per Brunetto, la funzione di tramite, quella di autore è certa: del Tesoretto è vivissima eco nell’incipit della Commedia, «nel mezzo del cammin» e «per una selva oscura» corrispondendo alla chiusa del secondo canto: «Pensando a capo chino, / Perdei il gran cammino, / E tenni a la traversa / D’una selva diversa» (II, 75-78). Così Brunetto si scontra, come Dante nella selva, con temibili fiere: «Ma tornando a la mente, / Mi volsi, e posi mente / Intorno a la mon- tagna; / E vidi turba magna / Di diversi animali, / Ch’i’ non so ben dir quali: / Ma uomini, e muliere, / Bestie, serpenti, e fiere» (III, 1-8).
Così pari incipit segna Tesoretto, III e Inferno, VI: «Ma tornando a la mente» e «Al tornar de la mente»; e non meno l’insistente «quivi» di tante designazioni dantesche: «Quivi sospiri, pianti e alti guai» (III, 22) pari ai «Quivi non ha viaggio, / Quivi non ha persone, / Quivi non ha magione » del Tesoretto (XIII, 16-18).
Il seguito del poemetto ripercorre le giornate della Genesi, con simboli paralleli a quelli che torneranno nella Commedia; così la “valletta dei principi”, nell’Antipurgatorio, riprende spunto dal XIII canto del Tesoretto. Al canto XV viene annunciato il Tresor: «Ma chi le vuol trovare, / Cerchi nel gran Tesoro, / Ch’è fatto per coloro, / Ch’hanno lo cor più alto. / Là farò grande salto / Per dirle più distese / Ne la lingua Franzese»; infatti Li livres dou Tresor sarà scritto da Brunetto in lingua d’oil ed è una sorta di grande enciclopedia del sapere del tempo, quale Dante comporrà poi nei trattati del Convivio.
La fama di questo trattato Brunetto raccomanda, come unica cosa che gli resti cara, a Dante, quando tornerà tra i vivi: «Sieti raccomandato il mio Tesoro, / nel qual io vivo ancora, e più non cheggio» (XV, 119-120). Si prolunga qui la penombra di malinconia che aleggia sul «nobile castello » degli «spiriti magni» nel canto IV e che risorgerà nel canto di Ulisse; la dignità e l’autorità del sapere che eleva sempre l’uomo, «in loco aperto, luminoso e alto», quale che sia il destino ultraterreno che lo attende. Così, soggiunge Dante, «m’insegnavate come l’uom s’etterna», secondo la lezione del Trésor: «Gloire done au proudome une seconde vie» (II, cxx 1), nonostante il luogo ove ora Brunetto giace e ove son puniti «e litterati grandi e di gran fama, / d’un peccato medesmo al mondo lerci» (XV, 107-108).
È l’elogio incondizionato della poesia, al quale il Boccaccio, commentando questo canto nelle sue Esposizioni, renderà commosso omaggio: «La poesì, la qual solamente a’ nobili ingegni se stessa concede, poiché con vigilante studio è apresa, non diriza l’appetito ad alcuna riccheza, anzi quelle, sì come pericoloso e disonesto peso, fugge e rifiuta; e prestando diligente opera alle celestiali invenzioni e esquisite composizioni, in quelle con ogni sua potenzia, ché l’ha grandissima, si sforza di fare eterno il nome del suo divoto componitore».
E nella poesia dei secoli Brunetto Latini è rimasto, per la struggente voce di T.S. Eliot, testimone dolente sulla pietra dura del male universale: «Colsi tosto lo sguardo d’un maestro morto / Conosciuto, obliato, in parte ricordato, / [...] / Gli occhi avea d’uno spettro familiare, composito, / Intimo e pur non identificabile. / Così io assunsi un doppio ruolo, e gridai / E un’altra voce udii: “Come! Siete voi qui qui?” / [...] / Concordi in quel momento d’intersezione, / Quel tempo d’incontrarci in nessun luogo, / senza prima né poi / Sul lastricato andammo in pattuglia di morti» (Quattro quartetti, 1942; Little Gidding, II).
Islam e Occidente:
Francesca Bocca-Aldaqre, "Nietzsche in Paradiso" (Mimesis, 112 pp., 10 e.)
di Alessandro Mazzi (Il Foglio, 19 marzo 2021)
Un libro che parla con l’esattezza filosofica della ricerca e il rigore della poesia ispirata da alteintuizioni, quello della professoressa Bocca-Aldaqre. E’ raro trovare libri in grado di accordare così armoniosamente due realtà che ancora oggi si vorrebbero tenere scisse, diventando invece testimonianza filosofica di una conciliazione già presente, che attende solo di essere riconosciuta.
L’occidente, frammentato in una costante ricerca di una propria identità, e l’islam, depauperato come nemico barbaro a cui contrapporsi, sono fratelli che si parlano da tutta la loro storia attraverso le parole dei loro filosofi più illustri.
Con questo spirito il libro di Bocca-Aldaqre è composto da coppie di filosofi visionari che si incontrano nella sfera del pensiero, la cui poetica tocca vette mistiche che dalle loro reciproche temporalità continuano a dialogare assieme.
Il perno dell’incontro, la coppia centrale, è costituita da Nietzsche, accolto in Paradiso dalla poesia di Muhammad Iqbal, padre spirituale del Pakistan, il quale comprese già all’epoca dei suoi studi a Heidelberg la grandezza del filosofo tedesco, scrivendo "guai al mistico che ha la sventura di nascere in Europa!", tacciata come terra che non riconosce i propri profeti.
Nietzsche d’altro canto cerca una guida con"occhio oltre-europeo", citando più di cento riferimenti all’islam nella sua opera, per riscoprire nei popoli musulmani l’affermazione della vita che Iqbal ha trovato nell’amore sufico di Rumi, suo maestro spirituale.
L’Europa e l’islam si sostengono a vicenda oltre il nichilismo. Similmente il ribelle di Jünger si sposa con l’azione riformatrice di Jama-luddin al Afghani, impegnati contro la lotta al materialismo e promotori del ritorno a un vivere essenzialmente sacro. Entrambi desiderosi di riunificare le differenze religiose dall’interno della religione stessa nella riscoperta dell’ispirazione originaria, "il grande fiume non può essersi inaridito", scriveva Jünger, d’accordo con Afghani che la ribellione consiste nell’attingere alla sorgente della poesia per rivoluzionare radicalmente la propria vita e la nostra azione nelmondo.
Certo l’autrice non vuole semplicemente scrivere un’opera di filosofia comparata, ma al contrario, come dichiara lei stessa, cerca in questa alchimia eurasiatica di promuovere quel percorso di ricerca di una via europea lasciatoci in eredità da Heidegger e Corbin. Proprio il filosofo della foresta nera scrisse l’incipit "Vie, non ope-re" nell’edizione dei suoi primi scritti, sposando una filosofia asistemica che trascenda la presa teoretica sull’essere, affratellato in questo con Ibn Arabi, il quale trovò la sapienza incamminandosi nel proprio cuore (Alessandro Mazzi).
L’Islam piacentino che fa scuola 2.0 ai musulmani d’Italia
La direttrice dell’Istituto Averroè Francesca Bocca-Aldagre:
«Catechismo online per bambini e ragazzi ogni domenica»
di Simona Segalini ("Libertà" , 17.11.2020)
La catechesi religiosa si aggiorna e si adegua ai tempi. Parte da Piacenza il progetto di lezioni a distanza sull’Islam destinato ai giovanissimi, dagli 8 ai 14 anni. Non solo quelli piacentini, ma di tutta Italia. L’idea, diventata realtà due giorni fa, domenica, con la prima giornata di catechismo dedicato alle storie del Profeta, è venuta all’Istituto di studi islamici Averroè di Piacenza diretto da Francesca Bocca-Aldagre. La 33enne teologa piacentina, docente di Lingua e Cultura Araba alla Società Umanitaria di Milano, coordina il gruppo di docenti - una decina, per ora - che dalla piattaforma Zoom porta il messaggio ai fedeli di Maometto e in particolare ai bambini e ai ragazzi, dentro le loro case. Annullate, infatti, le lezioni in presenza al Centro islamico sulla Caorsana, dopo che soltanto la prima seduta di catechismo si era potuta tenere coi bambini presenti, prima delle nuove restrizioni di ordine sanitario.
Quest’anno l’Istituto Averroè era partito con un centinaio di adesioni, contro le 250 degli anni precedenti. Una riduzione dei partecipanti imposta dalla necessità del distanziamento. Ma, anche questa corsa ai ripari non è stata sufficiente a salvaguardare la catechesi in presenza. Catechesi online, allora, e perché no, allargata a tutta Italia. Sono già oltre 200 le adesioni pervenute.
Francesca Bocca-Al-dagre è la vulcanica direttrice dell’Istituto. Teologa, ma anche prolifica scrittrice, nel 2019 ave-va dato alle stampe, con il giorna-lista Pietrangelo Buttafuoco, ilsaggio "Sotto il suo passo nasco-no i fiori" (La Nave di Teseo) men-tre è appena uscito il libro di poesie "Non amo chi tramonta"(ed. Cartacanta). A gennaio la teologa piacentina sarà ancora sul mercato editoriale con una terza opera. Un saggio (ed. Mimesis) daltitolo "Nietzsche in Paradiso"
Del progetto di catechesi a distanza è fondatrice e coordinatrice. « Dopo la prima lezione - racconta la professoressa Bocca-Al-dagre - abbiamo dovuto spostare online gli incontri per le note ragioni sanitarie. E facendolo abbiamo esteso la possibilità di entrare nelle nostre aule virtuali, formate ciascuna da una decina di presenti, anche ai giovanissimi ditutta Italia. Molti di loro vivono in piccoli centri che non hanno un luogo di culto e di catechesi, e questa che offriamo loro, dunque, è una bella possibilità di sperimentare comunque la comunità». Per i più piccoli le lezioni - incentrate sulle storie dei profeti,Mohamed, la preghiera, i valori etici dell’Islam - vengono integrate anche da quiz e giochi per catturare più agevolmente l’attenzione dietro uno schermo. Tutto viene svolto rigorosamente in lingua italiana. «Fino all’anno scorso - spiega la direttrice - svolgevamo anche lezioni di lingua araba, ma attualmente replicarle online non è possibile, stiamo cercando soluzioni». Gli insegnanti sono musulmani piacentini di seconda generazione. Alla decina attualmente in cattedra se ne aggiungeranno dei nuovi, al termine delle attività di formazione.
LA POCA SAGGEZZA DELLA FILOSOFIA, I “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO DI DANTE E LA PRESENTE STORICA CRISI DELLA CULTURA EUROPEA...
CONSIDERATO CHE UN FILOSOFO, "Anche quando sbaglia di grosso, se è un vero filosofo sbaglia con argomenti non banali, fino al punto che, grazie a lui, l’errore brilla della luce convincente della verità" (cf. S. Benvenuto, op. cit.), E VISTO CHE EGLI HA MESSO IL DITO NELLA PIEGA (e nella piaga) della storia della filosofia, nel gioco sofistico di Socrate: «Malgrado lo slogan “so di non sapere”, tutti ci rendiamo conto che Socrate in realtà sapeva tante cose. Ma il suo sapere squisitamente filosofico era proprio quello di non sapere, ovvero, il suo appello all’epistheme come “ricominciare tutto daccapo”» (op.cit. ), VISTO IL PERSISTERE E , AL CONTEMPO, L’ESAURIRSI DELLA "GRANDE INSTAURAZIONE" ANTROPOLOGICA ED EPISTEMOLOGICA apollinea-socratica (su questo, si cfr. la grande analisi di Nietzsche!), forse, è bene e salutare riprendere alla radice (Marx!) la questione e, riaccogliendo l’indicazione di Sofocle, ripensare le «perversioni» di tremila e più anni (come sapeva Dante, meglio di Goethe), rileggere il cap. 15 del manuale di "Anatomia" (Roma, 1560) di Giovani Valverde, e ripensare l’«edipo completo», come voleva Freud e Fachinelli. Altro che continuare a menare la canna per l’aria. O no?!
MESSAGGIO EVANGELICO E LA "NUOVA ALLEANZA" DI "MARIA E GIUSEPPE". EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA.... *
La biblista francese.
Pelletier: «Donne, Chiesa polifonica»
Per la studiosa occorre «ritrovare una struttura consonante a quanto presenta Paolo, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri»
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, mercoledì 27 gennaio 2021)
Anne-Marie Pelletier non è solo una sagace esegeta e una brillante docente universitaria. Già Premio Ratzinger per la teologia, l’intellettuale francese diventa anche una paladina delle donne, dentro e fuori la Chiesa, quando affronta il tema dell’odierna condizione femminile.
«Un club di uomini anziani, vestiti in modo strano, che dicono alla gente come si deve comportarsi a letto». Con questa sarcastica definizione Timothy Radcliffe illustra come, a suo dire, la gente vede la Chiesa. Perché non viene invece riconosciuto il grande apporto delle donne alla vita della Chiesa?
Le parole di Radcliffe sono impietose ma esprimono bene la realtà. La visibilità della Chiesa cattolica resta incontestabilmente quella della sua gerarchia, esclusivamente composta da uomini. E questa visione non è un effetto ottico.
È sufficiente aprire la porta di una chiesa durante una celebrazione per constatare che il presbiterio è uno spazio che appartiene agli uomini, in via maggioritaria se non esclusiva. Inoltre, l’autorità viene collegata al sacerdozio ministeriale. E per molti questo tipo di sacerdozio resta la chiave di volta del corpo ecclesiale. Anzi, passa l’idea che ne costituisca l’espressione suprema.
Da qui le reiterate denunce di clericalismo da parte di papa Francesco.
Cosa va perso in questa visione maschio-centrica?
Il dramma è che la verità della Chiesa viene nascosta. Infatti, la Chiesa non è innanzitutto la sua gerarchia, ma prima di tutto un corpo, che questa gerarchia ha la funzione di servire. Questo corpo è composto da uomini e donne che, nei loro diversi stati di vita, si riconoscono convocati dalla parola di Cristo. Questo popolo di battezzati dona carne e presenza al Vangelo nel mondo, spesso silenziosamente ma in modo autentico. E bisogna ammettere che le donne, in questo corpo, hanno un posto eminente, anzi dominante perché, in molti luoghi e circostanze, sono loro il volto e la mano della Chiesa per i nostri contemporanei. Io perdo un po’ la pazienza quando sento ripetere che ’bisogna fare spazio alle donne’ quando, invece, la prima cosa da fare è riconoscere il posto che esse occupano nelle parrocchie, nella catechesi, nelle missioni. Senza di loro, la Chiesa sarebbe già sparita.
Altrove lei ha sottolineato come l’attenzione della Chiesa con Francesco verso le donne non sia una questione nuova: da 50 anni i Papi prestano un’attenzione crescente al mondo femminile con diversi documenti. Allora è la Chiesa che ha fallito, rispetto all’uguaglianza uomo-donna, se ancora oggi viene percepita come maschile?
Si tratta di un dato impressionante. Dagli anni Sessanta il magistero ha prestato alle donne un’attenzione inedita. Non si era mai visto un elogio tale della donna da parte delle autorità della Chiesa. Eppure, nella Chiesa cattolica, le donne - in gran numero - hanno continuato a sentirsi emarginate, vedendosi assegnate a posti secondari, trattate con accondiscendenza, talvolta disprezzate da un mondo clericale che si arroga ogni decisione. Al punto da far sorgere l’opinione che molte poche cose sarebbero potute cambiare. Il problema di fondo non è semplicemente parlare delle donne, né parlare alle donne, ma lasciarle esistere, farle parlare a nome proprio nella Chiesa, far sì che siano esse a giudicare i problemi della vita e le questioni della fede, di cui hanno esperienza tanto quanto gli uomini.
In un suo testo su ’Vita e Pensiero’ lei scrive: «Il futuro dell’istituzione ecclesiale è intrinsecamente legato, nel cattolicesimo, a una riflessione polifonica ovvero alla condivisione della ricerca della verità, sempre più grande di quanto siamo capaci di cogliere». Può essere una riforma solo ’intellettuale’ sufficiente per far progredire il posto delle donne nella Chiesa? Oppure serve anche una riforma strutturale?
Per me è chiaro che una vera riforma della Chiesa deve incarnarsi nelle strutture della sua vita e nell’organigramma della sua governance. In questo senso non bastano tante belle parole. Il punto focale è che noi, uomini e donne, ci troviamo insieme nella responsabilità verso il Vangelo e nella missione della Chiesa. Rispetto al motu proprio recente, esso ritorna su un testo del 1972 che apriva il lettorato e il servizio di accolitato ai laici, a condizione che fossero uomini: in questo caso il magistero permette di metter fine ad un’aberrazione che squalifica la Chiesa. Resta il fatto che sarebbe troppo poco cercare solo di ridistribuire i poteri in una struttura immutata. Sono convinta che siamo in un momento cruciale in cui l’istituzione ecclesiale deve reinventarsi. Si deve tornare all’ecclesiologia. Non si significa fossilizzarsi su un’attività astrattamente intellettuale. Anzi, qui c’è la leva per un vero cambiamento di fondo. In questo senso mi piace comprendere la messa in guardia di papa Francesco di non attenersi alle semplici ’funzioni’. Per questo, mi trovo a disagio quando si pensa che l’accesso al sacerdozio femminile costituirebbe la soluzione della questione. Piuttosto vi constato un modo per ricondurre e confermare l’intero ordine ecclesiale al primato del sacerdozio ministeriale. Invece, penso che si debba uscire da questo schema per ritrovare una struttura consonante a quanto Paolo presenta, cioè la Chiesa come corpo, dove l’istituzione si fonda su doni particolari assegnati agli uni e agli altri per il servizio di tutti. E così la Chiesa si ridisegna come una comunità di battezzati, dove il sacerdozio battesimale, condiviso da tutti, ritorna ad essere il più importante.
Nel suo libro Una comunione di uomini e donne lei ha parlato di un «machismo diventato il marchio di fabbrica della Russia putiniana e dell’America trumpiana». Perché l’avversione all’emancipazione femminile è così forte nel sovranismo?
Le donne oggi si ritrovano ad essere sotto la minaccia di regimi autoritari che proliferano e che hanno un’aria di dejà vu, i cui leader sono esclusivamente uomini. La Russia vive sotto il comando di un dirigente che esalta la virilità brutale, che mostra mediaticamente i suoi muscoli e che porta avanti una repressione impietosa delle opposizioni: la guerra in Cecenia ne é un sinistro esempio. Non è un caso che una delle maggiori oppositrici di questa ideologia sia una donna, il premio Nobel Svetlana Aleksievic, che ha scritto un libro intitolato La guerra non ha volto di donna. -Quanto al populismo di Donald Trump o Jair Bolsonaro e altri, sappiamo bene come questi uomini disprezzino le donne, sia nei loro discorsi che nella loro vita privata. Non dimentichiamo che le più grandi manifestazioni nella storia degli Usa sono state quelle delle donne che denunciavano il machismo insolente di Donald Trump nel 2016.
I movimenti per l’emancipazione delle donne sono un segno dei tempi. Come far sì che diventino positivi per l’intera società e non restino relegati ad essere - per quanto giuste - solo proteste?
É indubbio che i femminismi, per natura, sono movimenti protestatari e militanti. Come stupirsi che, per denunciare le violenze che pesano di esse e gli asservimenti cui sono costrette, le donne scendano in piazza e brandiscano lo stendardo della rivolta? Ma l’obiettivo dovrebbe essere quello di uscire dalla guerra tra sessi, per arrivare ad un’auspicabile stima reciproca, fino a un’alleanza felice per la pienezza degli uni e delle altre. Non è certo quello che intendono quante oggi riesumano i testi di Valérie Solanas, l’intellettuale americana che sognava l’eliminazione del maschio dall’umanità. Un atteggiamento oltranzista, questo, che non opera per il bene delle donne ostaggio della miseria, delle povertà e del machismo che prospera su questo terreno.
*
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
FLS
Testimoni.
Massignon, salvati dai meriti dell’altro. L’importanza dell’ospitalità
Pio XI lo definì «il cattolico mussulmano». Grande orientalista, terziario francescano e mistico. L’accoglienza e le cure ricevute da alcuni contadini musulmani gli fecero ritrovare il cristianesimo
di Simone Paliaga (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
«Un uomo a cavaliere di più realtà, traghettatore attraverso confini, al margine di più mondi e sistemi di rappresentazione » così, Manoël Pénicaud, nella sua recente e appassionata biografia, presenta Louis Massignon. Le “catholique musulman” (Bayard, pagine 432, euro 23,90), come lo definì nel 1934 Pio XI. Decano dell’islamologia francese, diplomatico di spessore che non fece mancare la sua voce agli accordi di Sykes-Picot né alla nascita di Israele, né ai profughi palestinesi e neppure agli araldi della decolonizzazione arrivando fino alla guerra di Algeria.
Professore al Collège de France, docente volontario nei corsi serali nelle banlieue parigine e nelle carceri, terziario francescano, mistico e pensatore cattolico di prim’ordine, questo e molto altro è stato lo studioso francese oggi quasi dimenticato in Francia e quasi mai davvero conosciuto da noi in Italia. Se si escludono La parola data (Adelphi), Il soffio dell’Islam e L’ospitalità di Abramo (Medusa) poco altro è stato pubblicato, tra cui va comunque ricordato il suo epistolario con Giorgio La Pira.
Forse un giorno questo grande savant troverà finalmente l’attenzione che merita, soprattutto nelle terre che si affacciano sul Mediterraneo luogo di incontro privilegiato delle tre religioni abramitiche, al cuore della fede di Massignon. Oggi si fa più pressante che mai l’importanza della sua opera, almeno quanto lo era nel periodo del suo impegno politico e spirituale, tra il 1917 e il 1962. In quel torno d’anni l’islamologo d’Oltralpe attraversa grandi eventi e incontra alcune delle personalità più importanti del Novecento.
Nulla si è fatto mancare del secolo passato. Le due guerre mondiali, la colonizzazione del Marocco, la fondazione dello Stato di Israele e l’indipendenza dell’India, Charles de Foucauld, Paul Claudel, Jacques Maritain, Lawrence d’Arabia, Ibn Saud e il generale de Gaulle, Georges Bataille, Jean Daniélou, Judah Magnes e Martin Buber, le figure di spicco del nascente Stato di Israele, e poi ancora Muhammad Iqbal, Gandhi e l’India all’epoca in cui Madre Teresa inizia il suo apostolato tra gli intoccabili e lebbrosi di Calcutta.
Nato nella villa di famiglia a Nogent- sur-Marne nel 1883 e morto a Parigi nel 1962, Louis Massignon comincia il suo cammino di studio in Marocco concentrandosi sulla figura di Leone l’Africano e appassionandosi poi sempre più ai legami tra modelli spirituali e politici. Durante un viaggio in Mesopotamia, nel 1908, viene salvato da una grave infezione da alcuni contadini musulmani che gli offrono ospitalità. L’accaduto sancirà non solo il riconoscimento del ruolo dell’accoglienza nelle relazioni tra gli uomini ma anche la sua riconversione al cattolicesimo.
È proprio l’ospitalità a essere centrale nell’esperienza religiosa e politica di Massignon. In essa lo studioso francese riconosce il sigillo dell’umanità come un tempo era accaduto per le leggi non scritte evocate da Antigone. Senza ospitalità non di dà alcun incontro né conoscenza dell’Altro. A rafforzare la convinzione sarà la frequentazione, non solo intellettuale, con l’esperienza mistica di Mansur Al-Hallâj, il sufi nato a Baghdad nell’857 e torturato e condannato a morte il 27 marzo 922. A lui Massignon dedica la monumentale tesi di dottorato in quattro volumi discussa nel 1922 e che meriterebbe una traduzione italiana.
Nello studioso francese ricerca intellettuale e ricerca spirituale si intrecciano in maniera inestricabile. Lo conferma la tensione al martirio che mutua da Charles de Foucauld. Sarà proprio il “fratello del deserto” a esortarlo, al tempo della Grande Guerra, a lasciare il quartier generale per sopportare le sofferenze della fanteria coloniale sul fronte orientale.
Sulle orme di De Foucauld Massignon desidera e attende costantemente il martirio, dono integrale di sé per l’altro e per Dio. Ma non conoscerà mai questa grazia, tanto da decidere di trasmutare la sua vocazione in una diversa testimonianza. Essa maturerà nel 1934 nella creazione di gruppo di preghiera, un vero e proprio sodalizio, chiamato Badaliya che rende in arabo il termine sostituzione. In essa i cristiani pregano per la salvezza dei musulmani, e non per la loro conversione.
Manoël Pénicaud ha il merito di mettere in luce come l’idea della sostituzione mistica, centrale nel pensiero e nell’esperienza di Massignon, derivi non solo della frequentazione di teologi ma da Joris-Karl Huysmans. Amico del padre dello studioso, l’autore di À rebours nel 1900 non è più il campione dell’estetismo che troneggia nei manuali di letteratura.
E il 27 ottobre di quell’anno, su ispirazione del padre, Massignon si reca da solo a Ligugé, vicino a Poitiers e all’Abbazia di Saint- Martin, dove Huysmans si è ritirato all’indomani della conversione al cattolicesimo. Immerso nella scrittura di Sainte Lydwine de Schiedam, il letterato spiega al giovane diciassettenne i principi della “sostituzione mistica” e della “reversibilità dei meriti” secondo cui «ognuno è responsabile delle colpe degli altri e deve anche espiarle; e ognuno, a Dio piacendo, può anche attribuire con la preghiera i meriti che possiede o acquisisce a chi non ne ha». Sarà questo il cuore della fede di Louis Massignon.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Dante e l’Islam. L’escatologia islamica nella Divina Commedia (di Carlo Ossola - Cultura islamica di padre Dante).
I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO".
FLS
Il poeta e l’interprete: storia di una passione dantesca
di Valentina Pagnanini (Il Chiasmo/Treccani, 29 giugno 2020)
Ufficialmente è stato al servizio del governo cinese, prima interprete, poi diplomatico, infine console, appassionato di scacchi nonché grande conoscitore della lingua e cultura cinese, coinvolto in iniziative militari segrete: l’effettiva professione di Eugenio Volpicelli ancora oggi resta un mistero.
È stato uno dei più grandi sinologi italiani, tra i primi ad aver diffuso la Divina Commedia in Oriente, coltivando la passione per Dante oltre l’attività diplomatica. È grazie a lui se nell’Ottocento in Cina iniziarono a circolare le prime traduzioni del poema dantesco, l’opera più rappresentativa della cultura italiana in Asia. A far luce su alcuni periodi oscuri della sua vita interviene il saggio di Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, nel quale si ripercorrono i viaggi, le missioni diplomatiche e gli incontri politici di Volpicelli e della moglie Iside. Quello tra i due coniugi è stato un sodalizio affettivo e ideologico. Eugenio e Iside si sono sposati a Milano il 14 febbraio 1891, insieme hanno condiviso l’amore per Dante e per la patria, le missioni diplomatiche e i segreti di stato, nonché i viaggi, da Milano a Hong Kong, a Nagasaki e Macao.
L’interesse per Dante sorge in lui in giovane età. La formazione di Volpicelli è affidata all’Istituto Orientale di Napoli, un unicum organizzato sul modello del Collegio dei cinesi, che costituisce la base per la sua attività diplomatica. Qui egli studia con profitto la letteratura italiana e le lingue orientali, per primo ottiene «una borsa di studio offerta dall’Istituto asiatico. E agli esami finali del 1881 si posizionò ancora una volta in testa a lla classifica. Dieci decimi in persiano e arabo, lingua questa che fu incaricato di insegnare» riporta Eric Salerno. In quello stesso anno, appena diplomato, egli decide di abbandonare Napoli e di seguire il richiamo dell’Est.
Volpicelli si interessava ai complotti della diplomazia e alle strategie politiche, praticava l’arte della guerra sfidando gli alti ufficiali a scacchi e wei ch’i, un gioco molto praticato in Giappone come esercizio di tattica militare, «istruttivo nell’arte della guerra». Si appassiona a tal punto da pubblicare due articoli su di essi per il Journal of the North China Branch of the Royal Asiatic Society di Singapore. «L’oggetto del gioco di wei ch’i può apparire molto facile, eppure sarà sufficientemente difficile portarlo a termine. Si tratta di occupare più spazio possibile sul tavolo e di impedire all’avversario di fare lo stesso» scrive nel 1892 e continua: «l’interesse del gioco non è concentrato in un posto come con gli scacchi, intorno al re, ma è sparpagliato ovunque sul tavolo, in quanto ogni singolo posto ha un effetto ugualmente importante nel risultato del gioco e conta nel totale finale che rappresenta la posizione delle due parti alla fine della lotta». Per concludere il gioco, «tradotto in termini militari, più che dare scacco matto al re bisognava puntare alla conquista del territorio». In ventotto pagine di spiegazioni e illustrazioni Volpicelli forniva le prime istruzioni di gioco del wei ch’i in una lingua europea, l’inglese. Se in Cina «lo veneravano come esperto degli scacchi cinesi», in Italia «lo idolatravano come uno dei primi ad aver compreso e descritto la struttura della lingua cinese, tra i simboli e le tonalità più diverse».
Egli arriva in Cina sul finire del diciannovesimo secolo e trova un paese profondamente diverso rispetto ai suoi studi, in piena crisi e in balia di conflitti interni ed esterni. Il suo primo incarico inizia nel 1882 ad Amoy, l’attuale Xiamen, porto strategico per le esportazioni di tè nel corso del Novecento. Qui, Volpicelli risiede per un lungo periodo, alternando visite alla capitale e ad altre città d’interesse coloniale, e racconta con orgoglio di una sua impresa compiuta in quegli anni che gli valse un importante impiego. Egli riuscì a circumnavigare a nuoto l’isola di Kulangsu - chiamata anche l’isola dei pianoforti per la più elevata presenza dello strumento musicale - prova della sua intraprendenza e coraggio, nonché di virtù. L’episodio fu seguito dall’assegnazione di un nuovo mandato: si richiedeva la sua presenza come interprete nella missione imperiale cinese volta a ottenere un armistizio con la Francia per il comando del Tonchino. Volpicelli prese parte alla missione, coordinata dalle dogane dell’impero, e diede prova delle sue abilità dialettiche. «Ebbe diritto, in segno della gratitudine cinese, all’ordine del Doppio Dragone» nota Eric Salerno, Parigi invece «insignì Volpicelli della commenda del Dragone dell’Annam, creata ad hoc per chi aveva fornito assistenza durante le operazioni navali in quel settore del Sudest asiatico».
La sua fama era giunta ben presto anche in Italia, il suo volto si stagliava in primo piano sulle copertine delle riviste italiane, le sue imprese erano motivo di orgoglio e onore per il governo italiano. L’8 novembre 1885 è dedicata a lui la copertina Un mandarino italiano in Cina del settimanale L’illustrazione italiana dove appare un’immagine di Volpicelli, fotografato con un casco coloniale in testa, corredata dalla didascalia: «L’italiano Volpicelli e i plenipotenziari per la pace in Cina». L’articolo menzionava le missioni diplomatiche nel Tonchino e in Corea, alle quali aveva partecipato Volpicelli come interprete e mediatore degli interessi italiani, ottenendo per i suoi servizi una commenda cinese:
La carriera di Volpicelli però non fu sempre costellata da riconoscimenti e onorificenze. Ci furono anche momenti bui, periodi di sospetti, critiche e accuse che coinvolsero Volpicelli in intrighi diplomatici. In Gran Bretagna c’era molta attenzione al modo in cui circolavano le informazioni e venivano diffuse le notizie, soprattutto nell’ambiente diplomatico. Volpicelli, d’altro canto, si interessava a questioni appartenenti non soltanto alla sua sfera di competenza, ma dava suggerimenti anche in altri ambiti, come nel campo militare, consigliando con perizia strategie e nuove mosse, tattiche da esperto giocatore di scacchi e wei ch’i. Fu proprio questa sua curiosità a procurargli degli inconvenienti politici. Se nel 1885 Eugenio Volpicelli era ritenuto degno di una delle più alte onorificenze cinesi e stimato in tutta Europa, trent’anni dopo, nel 1914 per l’esattezza, il suo operato non era più ben visto in Occidente e fu in breve tempo allontanato dalla sfera pubblica. Abbandonati gli incarichi ufficiali, egli si dedica alla lettura e alla scoperta dell’opera di un grande poeta e scrittore, viaggiatore esiliato come lui dai pubblici offici: Dante Alighieri.
Come sottolinea il filosofo Aijaz Ahmad in Orientalismo e dopo (2009), «Dante è la figura centrale attraverso cui si possono gettare dei ponti fra l’Antichità e la modernità», questo perché, secondo la definizione dell’orientalista Edward W. Said, «la forza poetica di Dante contribuisce a intensificare e generalizzare questa prospettiva [Orientalista] dalla quale l’Oriente è contemplato». Volpicelli avrebbe condiviso la passione per il poeta fiorentino con suo cugino Francesco Torraca, celebre commentatore della Divina Commedia, che nei primi anni del Novecento era professore di letteratura comparata all’Università Federico II di Napoli. La passione per il sommo poeta lo accompagnò sin dagli inizi, già a Napoli da studente era solito frequentare salotti rinomati nei quali veniva letto Dante.
Oltre l’attività di «interprete, diplomatico, storico e forse qualcos’altro, [Eugenio] si servì di una penna brillante per raccontare momenti importanti della sua avventu ra in Oriente e per spiegare ad altri diplomatici, ministri, re e principi, e poi alla gente comune, la realtà di quel mondo», di quella stessa penna si servì anche, e soprattutto, per tradurre Dante e farlo conoscere al pubblico cinese. «L’autore della Commedia fu sempre nel cuore e nella mente del nostro console generale» racconta Salerno.
L’amore per Dante era nato in Volpicelli da studi e ricerche, letture appassionate e ancora ricerche, Eugenio si era interessato alla vita del poeta in alcuni anni così simile alla sua, una carriera trascorsa al servizio del potere pubblico oscurata da false accuse di corruzione, l’allontanamento dalla propria patria più o meno forzato, la passione per i viaggi e le infinite peregrinazioni. Dante scrive: «Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete», e anche Volpicelli, in definitiva, fu un pellegrino. Confrontando l’Alighieri e il Volpicelli, si notano molti punti di contatto tra le due esperienze biografiche: due uomini politici, il letterato e l’interprete, entrambi orfani fin da giovani, ma con una vasta rete di amicizie, i loro anni migliori spesi tra l’otium litterarum e il negotium. Dal 1319 al 1321 anche Dante era stato ambasciatore, a Venezia, al servizio del signore di Ravenna Guido da Polenta. Comune anche l’interesse per le strutture della lingua, italiana per il poeta, cinese per il console, e per i numerosi dialetti coesistenti, alla ricerca di una lingua comune.
Nel 1942, è Anna Silvia Bonsignore, giornalista per L’Ambrosiano milanese di Umberto Notari, che nell’elzeviro Sull’italiano creato mandarino racconta all’Italia della passione dantesca di Volpicelli e segnala anche un suo viaggio in Cina alla ricerca di Dante. Volpicelli riscontra delle «similarità tra la carriera di Dante e quella del grande saggio cinese Confucio», al punto tale da intraprendere una traduzione della Commedia in lingua cinese. Egli aveva ritrovato nei testi filosofici cinesi echi del poema dantesco, che si traducevano in raffigurazioni, simboli e descrizioni strettamente legati alla Commedia. Si legge da un originale autobiografico del diplomatico:
Esattamente un secolo fa, in Cina, Eugenio Volpicelli rivelava al mondo la sua passione per l’opera dantesca, celebrando l’amore di Dante per Beatrice proprio nel ventottesimo anniversario del suo matrimonio, simbolo del duplice legame, affettivo e letterario, che lo univa indissolubilmente al sommo poeta.
Per saperne di più:
Si consiglia la lettura del saggio di Eric Salerno da cui sono tratte le citazioni dell’articolo: Eric Salerno, Dante in Cina: la rocambolesca storia della Commedia nell’Estremo Oriente, Il Saggiatore, Milano, 2018. Per approfondire il processo di divulgazione della Divina Commedia in Oriente si propone la lettura dei contributi di Federico Masini: Una “Divina Commedia” cantonese, in Mondo Cinese, n.73, a. 1991, pp. 27-48 e La Divina Commedia in lingua cinese a Ravenna, in Mondo Cinese, n.98, a. 1994; sui rapporti storico-letterari tra l’Italia e la Cina, si suggerisce il volume di Giuliano Bertuccioli, Federico Masini, Italia e Cina, Laterza, Bari, 1996. Sull’orientalismo si propongono i testi: E. W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1991; A. Ahmad, Orientalismo e dopo, in M. Mellino (a cura di), Post-orientalismo, Meltemi, Roma, 2009.
Lettera.
Iqbal Masih e la lotta per i diritti dei bambini schiavi
L’eroica testimonianza del sindacalista a soli 10 anni e la sua lotta per l’emancipazione umana di bambini strumenti-schiavi della produzione
di Giovanni Seclì (Avvenire, mercoledì 15 aprile 2020)
Caro direttore, nel giorno di Pasqua del 1995, il 16 aprile, veniva ucciso in Pakistan Iqbal Masih, di soli 12 anni. Già era diventato testimone-simbolo mondiale della lotta contro lo sfruttamento schiavistico di centinaia di milioni di bambini soltanto in Asia. La sua uccisione lo ha trasformato in martire: sia per il suo impegno sociale a favore dei bambini dall’“infanzia negata” e contro sfruttamento dei lavoratori; sia per la sua fede cristiana. Sicuramente questa sua fede - legata all’educazione familiare, professata in situazione di emarginazione socio-religiosa (la comunità cristiana è soprattutto composta da persone delle “caste inferiori”, dal lavoro più umile) - ha alimentato e sorretto la sua indignazione contro le ingiustizie e l’eroica lotta per l’emancipazione umana di bambini strumenti-schiavi della produzione; probabilmente la sua testimonianza cristiana è stato una concausa delle dinamiche che favorirono l’assassinio.
In quel giorno di Pasqua di 25 anni fa - dopo la Messa e con il Vangelo in mano, si tramanda -, Iqbal fu strappato dalla terra, per risorgere nella memoria di tanti di noi, rigenerando il messaggio universale di liberazione umana. La sua condizione di vita sfruttata - a partire dai 4 anni in una fabbrica di mattoni, per proseguire in una di tappeti, venduto dalla famiglia indigente - si era trasformata a 10 anni in denuncia e in testimonianza, smuovendo l’opinione pubblica internazionale e favorendo nel “suo” Pakistan (ma non solo) alcuni provvedimenti politici di limitazione delle pesanti condizioni di lavoro schiavistico, a danno soprattutto di bambini, secondo una prassi secolare perpetrata da proprietari di laboratori tessili di tappeti e di altri settori di lavoro ancor più duro. Il risentimento nei suoi confronti, probabilmente, è stato accentuato dal clima di intolleranza religiosa prevalente in Pakistan (soprattutto con la creazione di un doppio sistema legale, di cui uno basato sulla sharia, dal 1991) verso la minoranza cristiana, presente in particolare nella regione del Punjab e purtroppo perdurante anche in questo XXI secolo, con il rigurgito di fondamentalismi, risposta perversa anche all’ingerenza politica e militare perpetrata dall’Occidente in diverse regioni. Il suo martirio si inquadra all’interno di tale contesto; per questo Iqbal Masih va riproposto come testimone di giustizia, di solidarietà, di costruzione di una comunità fraterna, di attuazione del messaggio evangelico all’interno della sua nazione, dalle perduranti drammatiche criticità sociali: miseria e sfruttamento, mancanza di diritti elementari all’istruzione e alla sanità, conflitti etnici, intolleranza religiosa a danno della minoranza cristiana - ri-esplosa nella persecuzione di Asia Bibi, per fortuna sottratta alla pena di morte, grazie all’impegno internazionale - compresa la lunghissima campagna informativa di Avvenire - oltre che alla resipiscenza della giustizia del Pakistan.
Per tali motivi, in occasione dei venticinque anni del martirio di Iqbal Masih, è commovente e mobilitante che papa Francesco, in una lettera ai Movimenti popolari di tutto il mondo, abbia sollecitato un salario universale minimo per tutti coloro che si ritrovano confinati e sfruttati nelle infinite zone grigie e nere del lavoro a livello planetario. È importante riproporre, nel quadro di tale impegno, anche il forte e ricco ricordo di questo giovanissimo lavoratore assetato di bene e di equità, vivificando il suo messaggio: un’onda lunga figlia di una vita breve, ma senza tempo. Monito e modello insieme per un cammino di giustizia sociale, da Masih testimoniato in modo coraggioso, consapevole e insieme spontaneo e “ingenuo”. Ad appena dodici anni egli ha compiuto il “miracolo” di aver trasformato, con il messaggio incarnato nella sua vita, leggi e pratiche ataviche, cause del male sociale dello sfruttamento schiavistico minorile, liberando, almeno in parte, milioni di bambini da una condizione di miseria umana e materiale. Una missione di testimonianza del Vangelo, riproposto anche da lui quale strumento di conversione e di liberazione umana. Il ricordo di Masih in questo tempo di Pasqua può rappresentare anche un percorso di dialogo tra fedi e culture in quella nazione e civiltà antica, nobile, ma anche lacerata; oltre che riconoscimento per l’eroicità della fede professata dai cristiani in quella regione.
Giovanni Seclì
Forum Ambiente Salute
Leggi anche
Pakistan: Musharraf condannato a morte
Ex presidente accusato di alto tradimento
di Redazione ANSA *
(ANSA) - ROMA, 17 DIC - Una corte pachistana ha condannato a morte l’ex presidente Pervez Musharraf nell’ambito del processo per l’accusa di alto tradimento. Lo riferisce la stampa pachistana. Musharraf risiede a Dubai ed aveva annunciato il suo ritorno a Islamabad subordinandolo alla possibilità di potersi candidare alle elezioni legislative di fine luglio. Musharraf prese il potere con un colpo di Stato nel 1999 e fu presidente ’de facto’ fra il 2001 e il 2008.
* ANSA, 17 dicembre 2019 (ripresa parziale).
Chi era Ruth Pfau, celebrata dal doodle di Google
Una suora medico tedesca ribattezzata la ’Madre Teresa pachistana’ per l’instancabile lotta contro la lebbra Il doodle di Google dedicato a Ruth Pfau © Ansa FOTO
di Redazione ANSA 09 settembre 2019
Il doodle di Google celebra oggi Ruth Pfau, in occasione dei 90 anni dalla nascita, una suora medico tedesca ribattezzata la ’Madre Teresa pachistana’ per la sua instancabile lotta contro la lebbra. La religiosa, morta in Pakistan il 10 agosto 2017 all’età di 87 anni, è stata fra le fondatrici del Centro per lebbrosi Marie Adelaide, e ha contribuito all’annuncio nel 1996 da parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità del Pakistan come ’Paese libero dalla lebbra’.
Suor Pfau fu mandata in Pakistan nel 1960 dalla superiora delle Sorelle francescane del Cuore di Gesu’ e Maria Immacolata per coordinare un servizio medico per gli studenti pachistani. Dopo essersi resa conto della gravita’ della lebbra in Pakistan, decise di non rientrare in Germania e di continuare il suo lavoro vicino alle persone sofferenti per questa malattia infettiva e cronica. Anche per questo nel 1988 il governo le concesse la cittadinanza pachistana.
Pakistan.
«Nessuno è infedele»: 500 imam si schierano con Asia Bibi
Svolta dei predicatori: la «Dichiarazione di Islamabad» condanna le discriminazioni delle minoranze
di Lucia Capuzzi (Avvenire, martedì 8 gennaio 2019)
«Uccidere con il pretesto della religione è contrario ai precetti dell’islam». Inizia così la “Dichiarazione di Islamabad”, firmata domenica durante un incontro organizzato dal Consiglio pachistano degli ulema. Oltre cinquecento imam di tutto il Paese hanno sottoscritto il documento che condanna senza mezzi termini violenze e discriminazioni sulle minoranze e chiede il rispetto per tutti i pachistani, a qualunque religione appartengano. Un passo non da poco, «in una nazione in cui i fondamentalisti si accaniscono sugli appartenenti a fedi minoritarie, in particolare cristiani, ahmadi e sciiti. La stessa legge anti-blasfemia viene spesso impiegata arbitrariamente come strumento di persecuzione nei confronti di questi ultimi. A rendere ancora più eccezionale la Dichiarazione, una risoluzione ad essa allegata in cui i predicatori islamici fanno un esplicito riferimento ad Asia Masih, ovvero Asia Bibi, emblema degli abusi della normativa anti-blasfemia.
Arrestata il 19 giugno 2009, la donna cattolica è stata condannata a morte senza prove con l’accusa di aver offeso Maometto e detenuta per 3.421 giorni fino al pieno proscioglimento, da parte della Corte Suprema, il 31 ottobre scorso. I gruppi estremisti legati al movimento Tehreek-e-Labbaik non si sono, però, dati per vinti e hanno presentato una richiesta di revisione del verdetto. Al riguardo, i 500 imam firmatari chiedono al ministero della Giustizia di esaminare il suo caso con assoluta priorità, in modo «da far conoscere all’opinione pubblica la verità giuridica» sulla vicenda.
Gli esperti sostengono che il riesame sia un atto formale, dato che ad esprimersi saranno gli stessi alti togati autori della sentenza di assoluzione. Fino al pronunciamento, però, Asia Bibi resta in un limbo. Fuori ormai dal carcere, la donna è costretta a nascondersi in un luogo segreto, sotto stretto controllo autorità. Queste ultime cercano di proteggerla dagli estremisti, che l’hanno condannata a morte. Il rischio aumenta di giorno in giorno: da quasi tre mesi, la donna aspetta un visto d’espatrio, l’unica possibilità di tornare davvero libera, seppur in esilio. Sembra difficile, però, che le autorità pachistane glielo concedano prima dell’ultimo pronunciamento della Corte.
Da qui la richiesta degli imam di un rapido pronunciamento. Articolata in sette punti, la dichiarazione affronta il problema del terrorismo a tutto tondo. Non solo gli assassinii di innocenti con «pretesti religiosi» sono contrari ai precetti dell’islam. Lo è pure «dichiarare un gruppo religioso o setta», qualunque esso sia, come «infedele» e privarlo dei propri diritti costituzionali di vivere nel Paese in base alle proprie norme culturali e dottrinali. Per tale ragione, le esecuzioni extragiudiziali di presunti «infedeli» - pratica frequente soprattutto nel caso di accusati di blasfemia - sono condannate con forza, come pure le pubblicazioni, cartacee e digitali, che incitino all’odio, nonché le “fatwa” (editti) emesse in modo indiscriminato dagli ulema radicali.
Nella parte finale, il documento, riconoscendo il Pakistan come nazione multietnica e multiculturale, sottolinea il dovere del governo di «proteggere la vita e le proprietà dei non musulmani» e i loro luoghi sacri. Per tale ragione, ribadisce l’importanza di applicare il Piano d’azione nazionale contro il terrorismo e decreta il 2019 come anno di eliminazione della piaga che l’anno scorso ha ucciso almeno 595 persone.
Asia Bibi assolta dalla Corte suprema del Pakistan
Annullata condanna morte donna cristiana per blasfemia su Islam
di Redazione ANSA ISLAMABAD *
La Corte suprema del Pakistan ha assolto Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte per blasfemia nel 2010. Il verdetto accoglie così il ricorso presentato nel 2015 contro la condanna emessa dall’Alta corte di Lahore (Lhc), che nell’ottobre 2014 aveva confermato la decisione di un tribunale di novembre 2010. Gli attivisti per i diritti umani e la e comunità cristiana hanno accolto con favore il verdetto finale della Corte suprema. Khadim Hussain Rizvi, a capo del partito islamista Tehreek-e-Labbaik Pakistan (Tlp), sta invece organizzando una protesta nazionale contro l’assoluzione della donna. Asia Bibi era stata arrestata nel 2009 dalla polizia nel suo villaggio di Ittanwali, nella provincia del Punjab, in seguito alla denuncia di altre donne di fede musulmana per blasfemia dopo un presunto reato contro il profeta Maometto durante una discussione.
"Non vedo l’ora di riabbracciare mia madre. Finalmente le nostre preghiere sono state ascoltate!". Con la voce rotta dal pianto Eisham Ashiq, la figlia minore di Asia Bibi, commenta ad Aiuto alla Chiesa che Soffre la notizia dell’assoluzione della madre, decisa dalla Corte Suprema. "È la notizia più bella che potessimo ricevere - dice il marito di Asia, Ashiq Masih - è stato difficilissimo in questi anni stare lontano da mia moglie e saperla in quelle terribili condizioni. Ora finalmente la nostra famiglia si riunirà, anche se purtroppo dubito che potremo rimanere in Pakistan"
"Siamo di fronte a un verdetto storico e a un’importante vittoria per la tolleranza religiosa. Per quasi otto anni, Asia Bibi, una povera contadina cristiana e madre di cinque figli, ha vissuto in un limbo, rischiando l’esecuzione sulla base di prove infondate. Coloro che in questi anni si sono espressi in suo favore hanno ricevuto minacce di morte o sono stati addirittura uccisi". Lo ha detto Omar Waraich, vicedirettore di Amnesty International per l’Asia meridionale.
Manifestazioni di protesta sono esplose in tutto il Pakistan dopo la sentenza della Corte suprema che ha assolto Asia Bibi, la donna cristiana condannata a morte nel 2010 per blasfemia. Il partito Tlp (Tehreek Labbaik Pakistan), che rappresenta i musulmani sunniti, ha promosso le proteste con il supporto di altri partiti di ispirazione islamica. Ed era stato proprio il suo leader Khadim Rizvi, la scorsa notte, ad esortare gli attivisti ad essere pronti a reagire in caso di verdetto favorevole ad Asia Bibi
Donne sospese tra due mondi
Islam a testa bassa
La vita delle ragazze musulmane, cresciute in Italia ma costrette a fronteggiare le loro famiglie, pronte alla violenza per imporre la tradizione: dai vestiti fino ai matrimoni combinati.
Una sfida che può avere un prezzo altissimo. Che però molte riescono a vincere. Ecco le loro storie
di Francesca Caferri (la Repubblica, 25.05.2018)
LE storie di queste ragazze non sono certo una fotografia esaustiva dell’Islam italiano: una comunità composta, fra l’altro, da migliaia di giovani che studiano, lavorano e vivono senza problemi in questo Paese, spesso da cittadine. Ma sono un angolo della fotografia: quello che racconta della parte minoritaria della comunità che fatica ad integrarsi in una società con regole diverse da quelle a cui è abituata. Così, se è sbagliato puntare il dito contro un intero gruppo, è un fatto che negli ultimi anni il fenomeno delle violenze, anche mortali, contro le donne di religione musulmana sia arrivato sotto i riflettori anche qui. «Il problema è molto più esteso di quanto non si creda», sostiene Tiziana Del Pra, presidente dell’associazione Trama di Terre di Imola, che si occupa di sostegno alle donne vittime di violenza. « Le bambine arrivate quando l’onda migratoria era al picco sono diventate grandi. Tante altre sono nate qui. Sono ragazze diventate adulte in un Paese che non è quello dei genitori, dentro a una cultura diversa, con sogni differenti da quelli delle madri o dei padri. Non tutti sanno accettarlo».
Secondo gli ultimi dati, in Italia ci sono circa 150mila musulmani fra i 15 e i 24 anni: più di 300mila sono gli under 15. La metà sono ragazze. «È impossibile dire quante di loro entreranno in conflitto con la famiglia. Tantomeno capire che risposta potranno avere questi conflitti: dipende dalle famiglie, dai Paesi di origine, dal modo in cui si è inseriti nella comunità qui in Italia», spiega Renata Pepicelli, docente di Storia dei Paesi islamici all’università di Pisa e una delle maggiori esperte della questione in Italia. « Non si può generalizzare, ma è un dato di fatto che le Seconde generazioni oggi pongano delle questioni. Siamo di fronte a giovani donne piene di sogni, di speranze e di aspirazioni: che risposte troveranno?».
Le aspirazioni di cui parla Pepicelli hanno diverse facce, ciascuna potenzialmente portatrice di tensioni: proseguire o no lo studio, indossare o meno il velo, quali luoghi e quali compagnie è lecito frequentare, chi scegliere come compagno di vita. Una risposta univoca su questi temi non c’è, neanche nei Paesi di origine: il Marocco non è il Pakistan, il Bangladesh non è l’Egitto, solo per citare i luoghi di provenienza di alcune fra le comunità più numerose. E anche lì la vera questione non è tanto la religione - che sulle donne dice molte cose e molto diverse, anche all’interno dello stesso Corano - quanto il modo in cui viene interpretata: la tradizione, dunque. Ma è innegabile che in alcuni casi a queste domande nelle società di origine degli immigrati musulmani si diano risposte considerate inaccettabili nel mondo occidentale. E che spesso la diaspora complica ulteriormente il quadro, spingendo le comunità a chiudersi in se stesse per paura di perdere la loro identità.
«Dici che la mia voce è haram (proibita ndr) perché ti eccita. Ma forse sei tu quello che ha bisogno di calmarsi, forse sei tu quello che ha bisogno di rileggersi il Corano. Io ho il velo in testa: tu sei l’assetato, tu sei l’eccitato, tu nel tuo completo da signore importante. Pensi che solo tu puoi dirmi cosa fare. Pensi che solo tu sai cosa è giusto: ma sei solo un cane», canta in Dog (Cane), singolo da milioni di hit su YouTube, Mona Haydar, 28 anni, rapper siriano-americana, velata e femminista: uno dei simboli di una generazione di ragazze poco disposte a sentirsi dire in silenzio cosa dovrebbero e non dovrebbero fare.
Una nuova vita
Dal giorno in cui si è chiusa la porta di casa alle spalle, tutto nella vita di Alison è cambiato. Ha lasciato la città dove viveva, non ha potuto dire a nessuno dove si trova né contattare la famiglia. Le operatrici cui è stata affidata le hanno tolto il cellulare: il rischio è che in un momento di debolezza possa inviare un messaggio, fare una telefonata o postare sui Social network una foto che faccia capire dove si trova. Allora l’incubo tornerebbe: « Mio fratello vuole ancora uccidermi, ne sono certa - dice mentre si tormenta le mani - ogni volta che prendo il treno ho paura di trovarmelo davanti». Incontriamo Alison in un luogo segreto: a prima vista sembra una ragazza come tante, ma appena parla il suo bagaglio di dolore torna a galla: « Vorrei sentire mia madre, spiegarle: ma non posso chiamarla. Ho scritto una lettera alla mia migliore amica: solo per dirle che non deve preoccuparsi per me. Spero glielo abbia detto».
Oggi Alison vive con una famiglia italiana. Con il nome falso, è tornata a scuola: i nuovi amici non sanno nulla della sua storia. «Quando guardo la famiglia in cui vivo e la normalità del loro affetto, come si parlano, come si trattano, mi torna in mente tutto. E sono triste. Ma poi penso ai pigiama party, che avevo tanto sognato nella mia vecchia città e a cui ora posso andare: sono bellissimi!». Non fa in tempo a terminare questa frase che le lacrime le salgono agli occhi.
A passarle un fazzoletto è una ragazza poco più bassa di lei, vestita in jeans e maglietta, con lunghi capelli neri. Per raccontare la sua storia sceglie il nome di Zoya: come Alison è una fuggitiva, come lei ha scelto un nome falso per parlare con noi. Fino a qualche mese fa le due non si conoscevano nemmeno: ma il fatto di condividere la stessa sorte le ha unite al di là dei caratteri diversi.
Anche Zoya ha vent’anni: nata in Pakistan, è arrivata a Roma quando ne aveva tre. È una ragazza sveglia, si capisce subito, e non c’è da dubitare quando dice che sin dai primi giorni di scuola ha capito di essere diversa dalle altre bambine. « Ero costretta a indossare il velo e gli abiti pachistani, non potevo giocare con i maschi né uscire: nessu na festa, nessun parco giochi - racconta - Non facevo che chiedere perché a tutti: maestre, bidelle, amici». Jeans strappati, unghie laccate, voce decisa, Zoya ha un look da ribelle: o forse solo da una che è diventata brava a mascherare quello che ha vissuto. «Ho preso tantissime botte. Sono cresciuta in un clima di oppressione: se infrangevo le regole mi picchiavano, minacciavano di uccidermi, di darmi fuoco. Ma non non mi sono mai arresa: odiavo essere presa in giro per i miei vestiti, volevo essere libera».
Dai sei anni in su, la sua vita è tutta uno stratagemma: un trucchetto per poter restare fuori un po’ di più, un altro per fare quello che fanno le altre ragazzine. Essere brava a scuola è fondamentale: le fa conquistare un po’ di spazio, qualche libertà in più. E a 15 anni, in un momento di gloria scolastica, un cellulare. «Me lo comprò mio padre - racconta - mio fratello lo controllava ogni sera, ma i nomi degli amici maschi erano salvati al femminile e i messaggi cancellati. Così nessuno poteva dirmi nulla. Non si accorsero neanche quando mi iscrissi a Facebook: passavo dal motore di ricerca e cancellavo la cronologia » . Sul Social network Zoya incontra un ragazzo di origini pachistane che abita in Italia: iniziano a parlare, a flirtare, poi lui prende un treno e va a trovarla. La loro storia inizia quel giorno. «Veniva quando poteva: io fingevo di andare a scuola, ma passavo la giornata con lui. Durante una di queste fughe incontrai mia cugina: quella che rispettava sempre le regole, era devota e veniva additata ad esempio per tutte noi. Anche lei era in giro con il suo fidanzato clandestino, un ragazzo che mai la nostra famiglia avrebbe accettato. Le dissi che se non mi copriva avrei detto tutto agli zii. Da allora tutto fu più semplice: mia madre era felice che passassi del tempo con lei, pensava che mi avrebbe fatto bene. Invece quando uscivamo lei era con il suo fidanzato e io con il mio».
La vita di Zoya andò avanti così per anni, fino all’appuntamento che nella vita di altre ragazze, per ultima Sana Cheema, si è rivelato decisivo: una vacanza nel Paese di origine, il Pakistan per entrambe. Lì la giovane si trova di fronte ad un matrimonio organizzato dalla madre: uno zio che arriva a casa con il cugino per chiederla in sposa e un corredo che conteneva « tutte le cose bellissime che mia madre non mi aveva mai comprato: trucchi, gioielli, abiti » . Zoya disse no, davanti a tutti, in modo plateale. «Mi presentai di fronte a mio zio senza velo e senza trucco. Presi a urlare contro mia madre. Fu un dramma: lei mi diede due schiaffi e mi trascinò in camera. Mi conficcò le unghie nel viso. Mi picchiava e gridava: “ Parla, parla! Se c’è qualcuno ti ammazzo”. Quando venne a sapere del mio fidanzato prese un bastone e iniziò a picchiarmi così forte che alla fine il bastone si spezzò. Avevo sangue sulla schiena, non riuscivo a muovermi, ma lei prese un altro bastone e ricominciò. Nessuno faceva nulla. Mio fratello di dieci anni pur di fermarla mi si gettò addosso. Lei lo colpì e lui svenne: dovettero portarlo in ospedale. Solo così la violenza cessò. Anche io avrei dovuto essere curata, ma mi rinchiusero in camera per una settimana. Quando la porta si aprì mia madre mi disse che ero la vergogna della famiglia. Che avrei dovuto sposare subito il mio fidanzato visto che era chiaro che non ero più vergine. E che comunque per lei ero morta. Io ero vergine: provai a dirlo, ma lei non volle neanche ascoltarmi. Alla fine celebrammo le nozze per procura: lui era in Italia, io in Pakistan. La famiglia di mia madre si presentò in lacrime e vestita di nero ».
Il rientro in Italia non fu semplice: dopo qualche mese di serenità il matrimonio si trasformò in un incubo fatto di violenza e di tradimenti. Senza possibilità di chiedere aiuto alla famiglia, Zoya fuggì. Solo l’incontro fortuito con una ufficiale di polizia le permise di entrare nello stesso percorso di accoglienza che ha salvato Alison.
Come la sua amica, ha cambiato tutto. E come lei sta cercando di ricostruirsi la vita con un nome falso e in una città lontana. Ma le conseguenze delle sue scelte non le danno pace. « Nessuno nella mia famiglia ha davvero capito perché ho fatto quello che ho fatto, nessuno ha ragionato sugli errori che hanno commesso. Mia sorella, che ha 12 anni, ha qualche libertà più di me. Non è obbligata ad indossare abiti pachistani, per esempio. Studia moltissimo, vorrebbe diventare dottoressa: ma mia madre l’ha già fidanzata con il fratello minore del cugino che avrei dovuto sposare io, per cancellare l’onta. E le dice sempre che se la scopre a parlare con dei ragazzi la farà infibulare. Lei mi chiama disperata, è in trappola: e io non so come aiutarla. Mia cugina è stata scoperta e rispedita in Pakistan: non è mai più tornata».
È solo a questo punto che la voce di Zoya si incrina: lo smalto sulle unghie è rovinato, da quando ci siamo sedute non hai mai smesso di giocarci. « Dicono che l’Islam impone tutte queste regole ma non è così. L’Islam dice che non puoi forzare tua figlia a sposare una persona senza il suo consenso. L’Islam non dice che le donne sono merce. Io sono orgogliosa di essermi ribellata, di aver lottato. C’è stato tanto dolore, ma spero che mia sorella possa avere una vita più facile della mia».
Alison e Zoya sono un’eccezione: protette dalla promessa di non rivelare dove vivono e chi le ha aiutate, hanno accettato di raccontare la loro storia. Ma trovare donne disposte a parlare per questa inchiesta è stato difficilissimo. Come la maggior parte delle vittime di violenze e di soprusi in qualunque parte del mondo, le musulmane italiane preferiscono rimanere in silenzio. Per paura e anche per solitudine. È un silenzio comune a tante donne abusate, qualunque religione pratichino, in qualunque Paese vivano. Una realtà che in Italia, dove i tassi di violenza sulle donne sono altissimi, conosciamo bene. Ma è anche una realtà che in questo caso si carica di un peso maggiore, quello legato alla religione e allo stigma che - a torto - l’Islam si porta dietro. « Avrei voluto morire piuttosto che esporre la mia famiglia alla condanna pubblica. Anche quando mi picchiavano - ha detto una ragazza di origine siriana - non avrei sopportato un solo sguardo in più su di loro: ci giudicano già abbastanza perché siamo musulmani, perché mamma è velata».
Più delle italiane doc dunque, le figlie della migrazione rischiano di sentirsi sole: per questo anche quelle di loro che a un certo punto trovano il coraggio di denunciare rischiano di non farcela, di tornare indietro. È quello che è accaduto a Nosheen, 28 anni, che otto anni fa vide la madre massacrata a colpi di bastone a Novi di Modena perché voleva salvarla da nozze combinate. Quel giorno anche lei fu ferita gravemente: ma dopo i due processi in cui padre e fratello sono stati condannati è rientrata nella comunità con cui aveva tagliato i ponti.È tornata a indossare il velo che aveva tolto uscita dall’ospedale e ha chiuso i rapporti con l’avvocato che l’aveva rappresentata.
ISLAM A TESTA BASSA. La vita delle ragazze musulmane...
La catena di solidarietà
In un contesto così difficile, gli “angeli custodi”, le figure incontrate lungo il percorso che offrono sostegno e aiuto alle ragazze, hanno un ruolo fondamentale. Naima Daoudagh è una di loro: in 17 anni di lavoro non ricorda neanche quante donne ha aiutato. «A un certo punto ho smesso di contare » , dice di fronte a un caffè nella sua Brescia. « Alcune neanche le conosco di persona. Ricevo telefonate dalla Calabria, dal Veneto, dal Piemonte. Io faccio quello che posso: ma il passo più grande, dire basta, spetta a loro».
Nata in Marocco, Naima è arrivata in Italia quasi 30 anni fa, quando ne aveva 16. «Eravamo i primi marocchini a stabilirsi in Sardegna - ride - ci guardavano come qualcosa di raro. Ma furono tutti molto gentili » . Qui si è trasferita nel 1995, per seguire il marito, bresciano doc. Dopo poco ha iniziato a lavorare come mediatrice transculturale, poi si è specializzata nell’ambito sanitario e ha cominciato a lavorare in ospedale. «Ho aiutato a partorire donne con mutilazioni genitali. Assistito signore che hanno abortito a causa delle botte ricevute dai mariti. E tenuto per mano adolescenti con il naso e le costole spaccate da padri-padroni che le picchiavano per punirle di uno stile di vita “troppo occidentale”. Quando dico che siamo di fronte a un problema in aumento parlo per esperienza. C’è una questione aperta nella comunità musulmana in Italia oggi. Nei Paesi di origine delle migrazioni si discute sull’interpretazione storica del Corano, di come sposare le regole della religione e quelle della vita contemporanea: qui non si parla, e chi solleva questi temi viene accusato di offrire il fianco agli islamofobi».
Più si passa del tempo con Naima più diventa chiaro che quello di cui discute non è solo il suo lavoro, ma la sua vita: l’amore per un uomo italiano e cristiano che ha rifiutato l’ipocrisia di una conversione finta per sposarla. La difficoltà di crescere la figlia in una famiglia con due culture e due religioni, l’inflessibile volontà di parlare a nome di un Islam che, rivendica con forza, «non è fatto solo di donne con il velo. Non ha una visione unica » . « Non mi si può tacciare di ignoranza perché non mi sono mai coperta la testa: sono musulmana anche io. Prego anche io. E conosco il Corano», spiega.
«Se dico che c’è un problema - insiste - è perché lo vedo. Queste ragazze sono straniere per legge ma italiane nei fatti: nate e cresciute qui, nelle nostre scuole, accanto ai nostri figli. Molte di loro conducono un’esistenza tranquilla, in armonia con il mondo esterno e con la famiglia. Ma per altre la storia è diversa. I genitori vogliono che mantengano l’identità delle origini, ma le loro origini sono qui: non hanno ricordi dei Paesi di origine delle famiglie, ma di Brescia. Siamo nella città di Hina, la ragazza uccisa nel 2006. Noi abbiamo ben presente dove può portare la tensione».
Parole profetiche: qualche settimana dopo questa conversazione, c’è stata la morte in Pakistan, presumibilmente per mano di padre e fratello, di Sana Cheema, che a Brescia era cresciuta e viveva, apparentemente felice. La notizia ha devastato Naima: «Siamo sotto choc: dodici anni dopo ci ritroviamo allo stesso punto. È il segno di un fenomeno che è stato sottovalutato. Non sto dicendo che va tutto male: ci sono giovani realizzate e famiglie felici. Ma c’è anche altro: e non bisogna vergognarsi a dirlo, non bisogna essere buonisti. C’è una zona grigia e va affrontata: perché se non lo facciamo crescerà».
In teoria Naima e Amina Alzeer stanno dalla stessa parte: entrambe combattono contro la violenza, entrambe si spendono anima e corpo nel loro lavoro, entrambe sono diventate un punto di riferimento nazionale. Eppure rappresentano due mondi che si guardano da lontano, a tratti con diffidenza. «Nei confronti di noi donne con il velo c’è un certo pregiudizio » , sospira Amina. « Le femministe e le laiche spesso non ci apprezzano perché proponiamo un approccio anche religioso alla questione della violenza. Allo stesso tempo alcuni esponenti della comunità musulmana ci danno addosso perché dicono incoraggiamo le donne a ribellarsi. Ma se tutti ci criticano, vuol dire che stiamo facendo bene».
Quarantadue anni, italopalestinese, madre di sei figli, Amina è la vicepresidente di Aisha, un progetto che prende il nome dalla moglie preferita del Profeta Maometto il cui scopo è contrastare la violenza e la discriminazione contro le donne. Aisha è un’iniziativa unica in Italia, nata a Milano due anni fa: le donne che vivono una violenza possono rivolgersi al gruppo e avere consulenza legale, terapia di coppia e individuale e, se richiesta, assistenza religiosa. La sua peculiarità è quella di operare all’interno delle comunità, coinvolgendo Imam e moschee. «Tutto nasce da una constatazione semplice: noi musulmane non siamo esenti dal problema della violenza » , dice Amina. Che rifiuta con forza di etichettare la questione come un problema religioso. «È una questione trasversale. Certo da noi c’è da fare uno sforzo in più, quello della consapevolezza: parliamo spesso con donne che non conosco i propri diritti, giuridici, personali e anche sessuali. E per questo sono passive di fronte alla violenza. Ma la religione non c’entra nulla: al massimo, viene usata come scusa».
Il progetto Aisha non è il mio primo impegno pubblico di Amina: da tempo nel Caim - il coordinamento delle associazioni islamiche di Milano e Monza - è abituata a dover difendere le sue scelte. «Sono stanca di ripetere sempre le stesse cose: che velo non vuol dire sottomissione, che chi dice che l’Islam autorizza la violenza sulle donne mente, che siamo parte della società come gli uomini. Uno si aspetterebbe che dopo tanti anni il dibattito in Italia si fosse un po’ evoluto. Ma così non è». Dopo un lancio un po’ faticoso, finora Aisha ha aiutato una ventina di donne: «Parlando anche con i mariti quando abbiamo potuto. Accompagnandole ai centri anti-violenza pubblici quando necessario. E facendole parlare con un imam, quando ce lo chiedono».
La religione
« Non discuteremo di velo, vero? » . Mohammed Ben Mohammed accompagna la frase con un sorriso bonario. Nato in Tunisia, dopo più di venti anni in Italia e alla testa di una comunità, come quella di Centocelle a Roma, che ha attraversato diverse tempeste, l’Imam vorrebbe davvero parlare di qualcosa che non fosse polemico. Se accetta di discutere della questione della violenza di genere è perché la considera «un problema vero». Ma prima di rispondere alle domande ci tiene a chiarire un punto. « L’Islam sta attraversando una fase delicata. La gente fatica a capire come vanno applicate le regole del Corano. Continuo a ripetere che conservare la visione del Profeta non significa vivere come ai suoi tempi, ma nel tempo le diverse interpretazioni della parola sacra hanno creato tradizioni che non rispettano i veri valori. Questo è valido in particolare per la situazione della donna. Con Maometto, le donne avevano un ruolo di primo piano nella società, a cominciare dalle sue mogli. Avevano anche massima libertà nella scelta dello sposo. Adesso siamo lontani anni luce da tutto questo, molto spesso le ragazze non possono dire “no”. Sono tradizioni difficili da cambiare. Ma non è la religione a prescrivere tutto questo».
L’Imam di Centocelle sa per esperienza che quella di cui parliamo è una sfida centrale per il futuro: sua figlia, Takoua Ben Mohammed, 26 anni, vignettista, è uno dei volti emergenti della comunità. Intraprendente, articolata, spiritosa. Una delle poche in grado di raccontare, con la leggerezza del suo tocco di matita e la profondità di chi ha respirato religione e politica sin da bambina, il complesso rapporto fra i giovani musulmani e la società italiana.
«Gestire i ragazzi e le ragazze al crocevia fra due mondi e due culture è difficile», sospira l’uomo. «Nascono, crescono, studiano qui ma i genitori spesso insegnano loro un’altra cultura. Bisogna capire e aiutare. Capita che le famiglie vengano a chiedere aiuto: cerco di spiegare che non si possono imporre cose ai figli. Spesso i genitori restano in silenzio: non sanno affrontare tutto questo. C’è chi non capisce che si possono conservare i nostri valori e vivere nell’Europa di oggi. È la nostra sfida».
Davanti alle storie di Alison e Zoya, di Jessica e a ai racconti delle tante altre donne con cui abbiamo parlato, Ben Mohammed stringe gli occhi e per la prima volta sembra perdere la serenità: «Non si può imporre la religione. E neanche il velo. Sono scelte. Chi sarà costretto a subirle non sarà coerente né sereno. Non è questo che ci ha chiesto il Profeta».
Dalla moschea di Centocelle al quartiere di Torpignattara ci vogliono circa 20 minuti: quattro fermate del tram che attraversa via Casilina, zona popolare della città, portano nei pressi della Pisacane, la scuola che è uno dei cuori pulsanti del quartiere. Qui gli insegnanti si trovano di fronte a problemi simili a quelli che affronta l’imam Ben Mohammed. Torpignattara è una delle zone con il tasso di immigrati più alti di Roma: da anni fra i banchi del suo istituto ci sono allievi di origine bengalese, egiziana, marocchina, ma anche dell’Europa dell’Est.
* la Repubblica, "Le storie al rallentatore" (inserto), 25.05.2018, pp. 1-8 (ripresa parziale, pp. 1-6, senza immagini).
Malala ha lasciato il Pakistan dopo una storica visita
Ha visitato anche la scuola che frequentava quando i talebani la ferirono
di Redazione ANSA (02.04.2018).*
Al termine di una visita di quattro giorni al natìo Pakistan, la prima dopo l’attentato dei talebani che nel 2012 quasi la uccise, la premio Nobel per la Pace Malala Yousafzai ha lasciato Islamabad in aereo, diretta in Gran Bretagna. Durante la sua permanenza la ventenne attivista per l’emancipazione delle bambine pachistane ha visitato la casa di Mingora, nella Valle dello Swat, dove abitava e dove un militante del Tehrek-e-Taliban Pakistan (TTP) le sparò alla testa su un minibus mentre lei tornava da scuola per punirla per la sua attività di blogger.
Malala era giunta a sorpresa nella capitale pachistana il 29 marzo in compagnia dei genitori, di due fratelli e dei dirigenti della sua Fondazione. Il primo incontro è stato con il primo ministro Shahid Khaqan Abbasi, a cui ha confessato di aver potuto con questo viaggio "realizzare il suo più grande sogno". In interviste ai media locali in cui ha ribadito le sue convinzioni sulla necessità di lavorare intensamente per dare pari opportunità educative a bambine e giovani pachistane, Malala ha assicurato che una volta terminati gli studi nell’Università di Oxford tornerà a stabilirsi e a operare in Pakistan.
Malala ha anche visitato la scuola che frequentava quando quasi sei anni fa i talebani la ferirono gravemente rimproverandole la sua attività di blogger in difesa dell’emancipazione educativa delle bambine pachistane.
Malala ha manifestato la sua gioia via twitter definendo Mingora e la Valle dello Swat "il posto più bello per me sulla terra". Nel suo profilo Twitter la ventenne leader pachistana ha anche pubblicato una foto insieme ai suoi genitori e fratelli davanti alla casa da lei abitata fino all’attentato del 2012 da parte dei talebani. E in un altro messaggio ha aggiunto: "Una gioia davvero grande nel vedere la casa dei miei genitori, nel visitare gli amici e nel mettere i miei piedi di nuovo su questa terra".
L’ANNUNCIO
Pakistan: il premio Nobel per la Pace Malala Yousafzai ammessa a Oxford
La 20enne pakistana lo ha annunciato con un tweet. Frequenterà lo stesso corso scelto dall’attivista birmana Aung San Suu Kyi e dall’ex premier del Pakistan Benazir Bhutto
di Redazione Online *
A farlo sapere al mondo è stata proprio lei, con un tweet. Malala Yousafzai, la giovane attivista pakistana premio Nobel per la Pace nel 2014 studierà a Oxford.
L’annuncio
«Molto entusiasta di andare a Oxford!» ha scritto Malala, 20 anni, comunicando di essere stata ammessa presso la prestigiosa università, dove studierà politica, filosofia ed economia. « Ben fatto a tutti gli studenti che hanno preso la maturità - l’anno più difficile. I migliori auguri per la vita che vi aspetta!». All’inzio dell’anno Malala aveva raccontato di aver ricevuto una proposta per iscriversi a un’università del Regno Unito ma finora non aveva rivelato di che ateneo si trattasse. Il corso di laurea da lei scelto è lo stesso frequentato in passato tra gli altri dall’ex premier David Cameron, la ex premier pakistana Benazir Bhutto, l’attivista birmana Aung San Suu Kyi.
Malala
Malala, mobilitata in prima persona in una campagna a favore dell’accesso delle bambine all’istruzione, nel 2012 era sopravvissuta al tentativo dei talebani di assassinarla mentre era in autobus diretta a scuola. Rimase però ferita gravemente alla testa e curata a Birmingham. Nel 2014 ha ricevuto il premio Nobel per la Pace, a 17 anni, la più giovane a riceverlo nella storia.
* Corriere della Sera, 17 agosto 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
La ragione oscurata dalla «guida suprema»
Islam. Un’intervista con Hamed Abdel-Samad, autore di «Fascismo islamico», pubblicato da Garzanti
di Guido Caldiron (il manifesto, 10.06.2017)
Hamed Abdel-Samad è un uomo in guerra. Si muove scortato da guardie del corpo, riceve costanti minacce e il suo nome è oggetto di una fatwa e di un’accusa di «eresia» da parte dei religiosi di al Azhar. Quando, lo scorso anno, insieme alla giornalista Nazan Gökdemir ha realizzato per la tv pubblica tedesca Zdf l’inchiesta I musulmani d’Europa si è visto chiudere più di una porta in faccia. E questo malgrado il suo lavoro di studioso sia apprezzato da figure di rilievo dell’Islam europeo come l’islamologo Bassam Tibi e l’ex imam di Marsiglia, Soheib Bensheikh.
Quarantacinque anni, nato a Giza, non lontano dal Cairo, figlio di un noto imam e lui stesso cresciuto negli ambienti dei Fratelli Musulmani, Abdel-Samad vive in Germania da vent’anni dove si è fatto conoscere per il suo lavoro di politologo all’università di Monaco e dove ha acquisito grande notorietà per quella che considera come una sorta di battaglia esistenziale in nome di un «illuminismo arabo» contrapposto sia all’islamismo politico che all’«oscurantismo religioso» musulmano. Tesi ribadite nel suo libro più noto e polemico, Fascismo islamico, Garzanti (pp. 224, euro 16).
Fin dal titolo, il suo libro è stato percepito in molti ambienti musulmani come una provocazione, cosa l’ha spinta a scriverlo?
Mi sono formato attraverso lo studio dell’Islam e delle culture politiche che vi sono legate. Perciò mi ero già accorto di come buona parte degli studiosi occidentali considerino la relazione tra fede e politica in ambito musulmano, ed in modo particolare l’islamismo, come un fenomeno nuovo, sorto soltanto in reazione al colonialismo e che non avrebbe avuto alcuna genesi specifica e autonoma. È una grave semplificazione che rende poco comprensibile quanto accade oggi e perciò ho deciso di analizzarne le radici ideologiche e il modo in cui si è andato definendo nel corso del tempo, a partire dalle similitudini sinistre che sono emerse all’inizio del Novecento tra l’Islam politico e i fascismi europei.
Lei si concentra sulla nascita dei Fratelli Musulmani nell’Egitto degli anni Venti. I punti di contatto tra costoro e i fascisti non vanno però letti anche come una conseguenza del fatto che la democrazia inglese, erano all’origine del dominio coloniale al Cairo?
Una lettura di questa vicenda all’insegna di un’alleanza tattica con «il nemico del mio nemico» spiega solo superficialmente le cose. Fin dalla fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928, il loro leader, Hassan al-Banna dava più importanza al fatto che fossero banditi tutti gli altri partiti, tranne «quello di Allah» che non alla democratizzazione del paese o alla lotta per l’indipendenza. Quanto alle similitudini con il fascismo, appaiono a più livelli. Mi riferisco ad una visione del mondo che si basa sul fatto di considerare i musulmani superiori al resto dell’umanità, un po’ come avviene per il «mito ariano» dei nazisti.
In entrambi i casi, i nemici sono disumanizzati, paragonati alle bestie, soprattutto gli ebrei, mentre la guerra e la morte sul campo di battaglia, o nella jihad, costituiscono il cuore dell’identità del movimento che si muove nella prospettiva di dominare il mondo con ogni mezzo e, nel frattempo, di ripristinare un rigido ritorno ai ruoli sociali e di genere tradizionali.
Infine, al vertice c’è una «guida suprema», o un «duce» che traduce certezze metafisiche a beneficio delle masse. A tutto ciò, si può poi aggiungere che al-Banna scrisse pagine di ammirazione per Hitler e Mussolini e fu molto vicino al Gran muftì di Gerusalemme, Amin Al Husseini, tra i principali collaborazionisti arabi. Il problema è che le idee dei Fratelli Musulmani sono all’origine sia dei partiti islamisti contemporanei che di gruppi terroristici come Al Qaeda e l’Isis.
Dopo aver definito «il fascismo» come «un lontano cugino del monoteismo», lei spiega che nel mondo musulmano i consensi per gli islamisti traggono origine da una lunga tradizione di oscurantismo religioso consolidatasi nei secoli. Perciò, il suo lavoro a chi si rivolge?
Sono cresciuto nella fede, ma non faccio appello né alla cosiddetta «comunità dei credenti», né ai musulmani in quanto tali. Mi rivolgo ai singoli e alle loro coscienze. Di fronte alla minaccia incarnata da chi giustifica i propri orrori e il proprio dominio evocando «la parola di Dio», il Corano, è sul pensiero e gli sforzi individuali che possiamo ancora puntare per cambiare le cose.
Anche chi parla di una possibile «riforma» dell’Islam si inganna: la fede deve trasferirsi nella sfera privata di chi fa questa scelta e smetterla di voler dettare legge nella vita pubblica, sui corpi e le persone. Solo allora la minaccia che incombe su tutti noi potrà essere sconfitta davvero.
I "PROMESSI SPOSI": DON RODRIGO, DON ABBONDIO, E QUEL "RAMO D’ORO" DEL LAGO DI COMO! Liberare gli studenti dalla "boria" dei "sapientissimi" proff. e dalle sapientissime proff.!!!
“Liberiamo gli studenti dai Promessi sposi”
La noia di leggere Manzoni a quindici anni
I "Promessi sposi" sono testo obbligatorio dal 1870. Ora docenti come Giunta e Gardini, e scrittori come Camilleri, Terranova e Trevi chiedono di cambiare. Per salvare le prossime generazioni di lettori
di Marco Filoni ("pagina 99", 19 maggio 2017)
Facciamo un esperimento. Provate a immaginare una sensazione, un’immagine che vi torna alla mente dei Promessi sposi. D’accordo, a tutti più o meno risuona il famoso incipit Quel ramo del Lago di Como... Ma provate a far emergere dai vostri ricordi qualcosa che più che a mezzogiorno “volge” alle vostre emozioni. -Siate sinceri: pensate a un misto di noia e fastidio? Bene, la cosa non deve preoccuparvi. Fatti salvi gli studiosi, rientrate nella quasi totalità della popolazione italiana che, a scuola, ha letto le pagine dei Promessi sposi. Lo chiamano “effetto-Manzoni” e, secondo molti, sarebbe alla base di una successiva ripulsa verso la letteratura di molti giovani.
C’è però una considerazione che forse è arrivato il momento di fare. Ovvero: quanto questo romanzo ottocentesco (la prima versione è del 1827, la sua edizione definitiva uscì fra il 1840 e il 1842) è davvero costitutivo del carattere nazionale dell’Italia?
La domanda non suoni peregrina. Se la sono posta allo scoccar d’ogni decennio funzionari ministeriali, scrittori e insegnanti dal 1870 in poi - alternando elogi delle pagine manzoniane a severi giudizi sulla loro utilità, proponendo alternative (le Confessioni di un ottuagenario di Ippolito Nievo nel 1922, fra gli altri) e netti rifiuti (come Giosuè Carducci «perché dalla lingua dei Promessi sposi a certa broda di fagioli non c’è traghetto e dall’ammagliamento logico dello stile e discorso manzoniani alle sfilacciature di calza sfatta di cotesti piccoli bracaloni c’è di mezzo un abisso di ridicolo»).
Sul nuovo numero di pagina99, in edicola e in versione digitale, pubblichiamo una lista dei libri che sono le letture obbligatorie in differenti Paesi del mondo (compilata da Daryl Chen e Laura McClure per il sito dei Ted Talks). Perché sapere cosa un Paese fa leggere ai suoi giovani ci dice qualcosa di quel Paese. Prendiamo la Germania, dove si legge Il diario di Anna Frank (scritto in olandese, non in tedesco). Per non dire dei molti Paesi che fanno leggere romanzi scritti negli ultimi decenni: per esempio il Pakistan che propone Il fondamentalista riluttante di Mohsin Hamid (2007).
Verrebbe da chiedersi, con Italo Calvino, cos’è oggi un classico... E nel rispondere a questa domanda ci vorrebbe forse un po’ di coraggio per superare un certo familismo culturale che investe la nostra società: i nostri padri vogliono che studiamo le stesse cose che hanno studiato loro, così come noi vogliamo che i nostri figli studino quello su cui siamo incappati noi stessi. Una sorta di immobilismo che ritroviamo esplicitato nelle così dette riforme della scuola italiana, alla cui crisi si accompagna una mancanza di coraggio (ricordate don Abbondio?) forse insita nel nostro patrimonio culturale...
(federico la sala)
Se Dante va in Paradiso sulle orme di Maometto
I debiti del poeta toscano nei confronti dell’Islam. La nuova edizione del Libro della Scala riporta alla ribalta un aspetto meno conosciuto della Commedia
di Noemi Ghetti *
La poesia delle origini della lingua italiana sembra interessare un numero sempre più largo di lettori, soprattutto quando si annunciano novità, magari note agli specialisti ma poco divulgate al vasto pubblico, e certamente originali rispetto al sapere usualmente trasmesso a scuola. Tanto che negli ultimi mesi i maggiori quotidiani nazionali dedicano al tema intere pagine. Dopo l’articolo firmato da Cesare Segre sul Corriere della Sera del 13 giugno (vedi N. Ghetti su Babylon Post, ndr), che annunciava il ritrovamento di manoscritti di poesie della Scuola siciliana trascritte in Lombardia e nella versione originale prima che in Toscana, eccone uno nuovo, sempre di Segre, dal titolo intrigante: Maometto prima di Dante all’Inferno. Un viaggio miracoloso che precede o forse ispira la "Commedia". Ma è solo apologetico.
L’occasione è la pubblicazione per la Bur del Libro della Scala di Maometto, edizione filologica a cura di Anna Longoni della traduzione latina fatta da Bonaventura da Siena: esule in Spagna dopo il 1260, il notaio utilizzò la versione spagnola dell’originale arabo (perduto), commissionata dal re Alfonso il Savio alla metà del Duecento. Una trafila, come si vede, assai complessa, che attesta l’intensità dei legami tra cultura araba ed europea nell’età medievale. Il racconto del viaggio notturno (mi’raj) di Maometto, con la guida dell’arcangelo Gabriele e a cavallo di Buraq, cavalcatura dal volto di donna, dalla Mecca a Gerusalemme, e da là all’inferno e infine in paradiso lungo la scala dei sette cieli, prende le mosse dalla sura XVII del Corano. Il racconto ispirò nei secoli diverse elaborazioni letterarie arabe sul tema, con affinità che al lettore attento di Dante non potevano non evocare la Commedia. È quanto ai primi del Novecento evidenziò per primo Miguel Asín Palacios, eterodossa figura di gesuita, valente arabista e docente all’università di Madrid, nel suo Dante e l’Islam. L’escatologia islamica nella Divina Commedia.
Asín Palacios riscontrò nella secolare letteratura sufi derivata dal mi’raj di Maometto sorprendenti analogie con il poema dantesco non solo nell’architettura, ma anche in numerose creazioni fantastiche e in episodi interi. In particolare si soffermò su due elaborazioni della leggenda, Il libro del viaggio notturno dell’arabo-spagnolo Ibn Arabi, scritto nel secolo di Dante, e L’epistola del perdono del siriano Abul Ala, del secolo precedente. Due poeti che, in un passaggio critico della vita, si volgono a riconsiderare la propria trascorsa ricerca sull’amore dalla prospettiva mistico-allegorica di un viaggio filosofico, compiuto nell’oltretomba con l’accompagnamento di un saggio.
È la stessa vicenda narrata da Dante nella Commedia, quando all’uscita dalla selva oscura volge le spalle all’esperienza poetica stilnovista e alle simpatie filosofiche averroiste giovanili, e con la guida di Virgilio compie il suo itinerario di espiazione verso Dio. Rivivendo, attraverso i gironi dell’abisso infernale e le sfere celesti, situazioni e sensazioni del viaggio notturno di Maometto: dalla legge del contrappasso che regola le pene, fino al timore che la luce divina lo possa accecare, e che la memoria offuscata dall’esperienza mistica del ’trasumanare’ non gli consenta di trovare le parole per descriverla.
Il libro di Asín Palacios, che pose fine all’eclissi pressoché totale sugli importanti legami intercorsi tra letteratura araba ed europea nel tardo Medio Evo, scatenò feroci polemiche e stroncature da parte dei custodi dell’ortodossia dantesca. Idee inattuali, alla luce dei fascismi che dominarono la cultura europea dei primi decenni del Novecento, segnarono per lo studioso l’ostracismo, toccato negli stessi anni anche a Bruno Nardi. Il valente dantista italiano in mezzo secolo di ininterrotte ricerche, raccolte in Dante e la cultura medievale, mise tuttavia in crisi la concezione monolitica del tomismo integrale della Commedia, riportando alla luce gli eterodossi retroscena aristotelico-averroisti e mistico-avicenniani della formazione del poeta. Ed era da poco finita la seconda guerra mondiale quando il ritrovamento del manoscritto del Libro della Scala a cura di Enrico Cerulli offrì la conferma del lavoro di Asín Palacios, e spianò la strada alle successive ricerche di Maria Corti. Della geniale studiosa per l’occasione viene riproposto nel Libro della Scala il più famoso dei saggi su Dante e l’Islam, tratto dalla silloge Scritti su Cavalcanti e Dante.
Ormai è dunque innegabile: Dante, instancabile lettore, non poteva non conoscere almeno Il libro della Scala, la cui diffusione in Italia è testimoniata all’epoca della stesura del Poema sacro. Tra la Commedia e la letteratura araba del viaggio all’oltretomba le differenze ovviamente ci sono, ma le analogie sono suggestive. Ci sembra ad esempio interessante osservare come all’indeterminatezza se il viaggio di Maometto svoltosi in una sola notte sia stato, come alcuni teologi islamici sostengono, un sogno, oppure un evento reale come vuole la tradizione popolare, si sostituisca in Dante l’esplicita affermazione di avere realmente compiuto l’ascensione attraverso i sette cieli, fino alla visione di Dio, proprio con il corpo con il quale era venuto al mondo:
Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba.
S’i’ era sol di me quel che creasti
novellamente, amor che ’l ciel governi,
tu ’l sai, che col tuo lume mi levasti.
La dichiarazione di poetica posta in apertura del Paradiso (canto I, 70-75) è un chiaro indizio dello scarto tra la rappresentazione fiabesca del viaggio dei testi arabi e quella che Dante presenta come la descrizione di un fatto veramente accaduto, secondo le regole consolidate del realismo occidentale: differenza che meriterebbe di essere approfondita. Penso ai nessi possibili con il dogma cristiano dell’incarnazione. Penso alla distanza anche linguistica tra una concezione dell’arte come libera espressione della fantasia, oppure come strumento di edificazione morale, quale intende essere non solo la Commedia, ma tutta l’attività letteraria dantesca a partire dalla Vita nova.
Quello che qui interessa sottolineare è che questo filone di studi centenario, finalmente riconsiderato, apre la ricerca su scenari mediterranei tardomedievali ancora poco conosciuti. Poesia, musica, filosofia naturale, medicina, ottica, geometria, astronomia: gli scambi con la raffinata cultura araba erano allora, come ormai è dimostrato, all’ordine del giorno in Spagna, in Linguadoca e in Sicilia. Ovvero precisamente nei luoghi in cui con la poesia d’amore - tradizione del tutto assente nella letteratura cristiana medievale - nacquero, in opposizione al latino della Chiesa, i nuovi idiomi volgari. E mentre i crociati combattevano contro gli infedeli nella decina di ’pellegrinaggi armati’ che si succedettero in meno di due secoli, i poeti delle origini della nostra lingua leggevano con attenzione i testi arabi, resi ancora più accessibili dalle scuole di traduzione promosse da Federico II in Sicilia e da Alfonso il Savio a Toledo.
Quanto a Dante, che in gioventù all’università di Bologna aveva condiviso con Guido Cavalcanti non solo lo Stilnovismo, ma anche gli studi di filosofia naturale degli averroisti parigini, condannati come eretici nel 1277 dall’arcivescovo Tempier, è interessante ricercare nella Commedia le numerose tracce di quel passato. Le scopriremo magari in alcune calcolate oscillazioni presenti nel Poema sacro, per le quali ad esempio se Maometto è orribilmente punito tra i «seminator di scandalo e di scisma» nel canto XXVIII dell’Inferno, Averroè e Avicenna, i grandi commentatori arabi delle opere di Aristotele sconosciute in Europa, sono invece onorati nel castello degli «spiriti magni» del Limbo, accanto ai maggiori pensatori greci. E Sigieri di Brabante, filosofo e docente averroista, scomunicato a Parigi dal vescovo Tempier e assassinato nella curia Orvieto nel 1282, si trova addirittura in Paradiso tra gli spiriti sapienti del cielo del Sole, accanto al suo avversario Tommaso d’Aquino. In virtù, certamente, della fama di un pentimento tardivo.
Così il maestro e ’primo amico’ Guido Cavalcanti, poeta dell’amore irrazionale per la donna e «massimo esponente» della rivolta duecentesca al pensiero teocratico (A. Gramsci), è destinato a raggiungere «color che l’anima col corpo morta fanno» nel girone degli eretici, mentre Ulisse, per la folle presunzione della conoscenza senza la grazia divina, è condannato con i suoi compagni al naufragio. Dante invece, convertitosi dalla filosofia alla teologia, dall’amore per la donna all’amore per Dio, come un novello Adamo è da Dio direttamente ispirato nel ridare il nome alle cose. Guidato da Virgilio, purificherà il sensuale volgare d’amore delle origini mutuato dai Siciliani, latinizzandolo e rendendolo «illustre, cardinale, aulico, curiale». Adatto ad essere strumento di cristiana redenzione dal peccato.
Noemi Ghetti
FONTE: CENTRO DANTESCO.
Bruciata viva in Pakistan
di Stefano Vecchia (Avvenire, 2 giugno 2016)
Uccisa, arsa viva, a 19 anni per avere rifiutato di sposare il figlio del preside della scuola privata dove insegnava ma che aveva lasciato per evitare le pressioni e le minacce.
La giovane si chiamava Maria Sadaqat ed è stata prima torturata e poi bruciata da un gruppo di individui che si sono introdotti lunedì nella sua abitazione, guidati - secondo i familiari - da chi avrebbe voluto diventasse sua suocera contro la sua volontà e che ha visto come un oltraggio il rifiuto. Il delitto è avvenuto nel distretto di Upper Dewal non lontano dalla capitale Islamabad.
Lo sposo rifiutato «era già divorziato e aveva il doppio dei suoi anni per questo la ragazza ha declinato la proposta e ha lasciato il lavoro ma loro - ha indicato Abdul Basit, uno zio della giovane - hanno continuato a insistere per il matrimonio, fino all’aggressione finale». L’autopsia, compiuta ieri nell’ospedale di Murree dove era stata ricoverata con ustioni sull’85 per cento del corpo, ha confermato le tragiche circostanze della morte di Maria.
La polizia ha aperto un’inchiesta segnalando cinque sospetti e sottoponendo a fermo un individuo. Purtroppo si tratta di una tragedia non rara in Pakistan, dove anche il rifiuto a un matrimonio imposto - può scatenare un «delitto d’onore» (1.100 casi registrati lo scorso anno) dettato da usanze socio-religiose arcaiche sostenuto dalla discriminazione sessuale e ancor più da quella verso le minoranze religiose.
Sono centinaia le donne di fede cristiana, indù o della setta di origine musulmana degli Ahmadiya che subiscono stupri, conversione forzata e matrimoni riparatori o, in alternativa, a rischiare ostracismo, violenze o ritorsioni sulle loro famiglie. La legge rende nei fatti difficile ottenere giustizia. E, anche quando una denuncia viene presentata e accettata, per ottenere giustizia ci si deve sottoporre a procedimenti estenuanti che espongono le vittime e i loro familiari a “isolamento” e al rischio di pesanti ritorsioni.
Quello di Maria è il secondo caso in poco più di un mese di una giovane donna uccisa per presunte ragioni «d’onore». Il 29 aprile, una ragazza non ancora diciottenne era stata drogata, strangolata e poi bruciata su ordine del consiglio degli anziani del suo villaggio per aver aiutato un’amica a fuggire con l’uomo di cui era innamorata.
La triste cronaca dei «delitti d’onore» pachistani, ha avuto anche un precedente in Italia, quando nel 2006, a Zanano di Sarezzo (Brescia), la ventenne Hina Saleem venne uccisa dal padre e da altri congiunti per essersi fidanzata con un italiano non musulmano e aver rifiutato di sposare un connazionale.
World
In Iran si insedia il nuovo parlamento: più donne che ayatollah
Secondi i calcoli dell’emittente Presstv, i riformisti moderati, sostenitori del presidente Rohani, hanno conquistato il 42% dei seggi. *
Si sono insediati questa mattina a Teheran i 290 deputati del nuovo parlamento, il decimo Majlis della Rivoluzione islamica, eletto nel voto popolare del 26 febbraio scorso. Sono arrivati su lussuose macchine nere, e hanno giurato tutti insieme, in coro, citando i versi del Corano, sotto la volta piramidale della moderna, gigantesca aula dell’assemblea legislativa.
Secondi i calcoli dell’emittente iraniana Presstv, i riformisti moderati, sostenitori del presidente Rohani, hanno conquistato il 42% dei seggi, i fondamentalisti - tra cui una maggioranza di contrari all’accordo sul nucleare - il 29%, gli indipendenti il 22,41. Un rimanente 7% e’ occupato dalle minoranze religiose (2 armeni, un caldeo, un ebreo e uno zoroastriano) e da deputati che si sono presentati sia nelle liste dei riformisti che in quelle degli ultraconservatori, cosa perfettamente legittima nella Repubblica islamica.
Ma la grande novità dell’Assemblea è il numero delle donne: diciotto deputate, un record mai raggiunto dai tempi della Rivoluzione islamica.
Un altro dato interessante è il crollo della presenza di religiosi, ridotta ai minimi storici: solo sedici ayatollah sono riusciti a conquistarsi una poltrona, ulteriore conferma di un paese ormai in marcia verso la laicita’. Stamani e’ stato il momento dei discorsi, dei messaggi, dei giuramenti, dell’inno nazionale, dei canti religiosi. Il presidente Hassan Rohani, dal palco dell’assemblea, ha rivendicato i successi del suo governo: dall’accordo sul nucleare al nuovo ruolo politico ed economico dell’Iran sulla scena mondiale, dalla battaglia contro l’inflazione, ridotta dal 40% al 10%, alla ripresa delle esportazioni petrolifere, che hanno ormai raggiunto i livelli del pre-embargo.
Il messaggio inviato ai neo-deputati, dall’ayatollah Ali Khamanei. La Guida Suprema ha chiesto loro di "difendere l’economia di resistenza e i valori islamici" dell’Iran e di "costituire un bastione contro i progetti e le eccessive domande dell’arroganza internazionale". Un invito a posizioni isolazioniste. Sulla carta, la nuova assemblea dovrebbe riuscire ad esprimere una maggioranza moderata e pro-Rohani, a differenza del nono Majilis, dove i falchi ultraconservatori dominavano e facevano di tutto per mettere i bastoni tra le ruote al governo.
Da ricordare che in Iran non esistono partiti politici organizzati, la politica si presenta molto fluida e l’ago della bilancia potrebbero essere gli indipendenti. Il primo banco di prova per sondare i veri rapporti di forza in Parlamento sarà l’elezione del presidente dell’Assemblea: i due principali sfidanti sono il leader della formazione moderata - riformista, Mohammad Reza Aref, e il presidente del precedente Majlis, Ali Larijani, conservatore fedele alla Guida Suprema e al tempo stesso non ostile all’accordo sul nucleare. Nel caso di vittoria di Aref, Rohani potrebbe contare su un Parlamento amico, in grado di sostenerlo nella sua politica di riforme economiche e politiche e di tirargli la volata per una rielezione come presidente nel voto del 2017.
Il decimo Majlis rimarrà in carica fino al 27 maggio del 2020. La sua attività legislativa e’ sotto il controllo del Consiglio dei guardiani, un organismo giuridico religioso nominato dalla Guida Suprema, che ha il potere di selezionare gli aspiranti deputati e di bocciare tutte le leggi "non conformi ai valori islamici".
Sadiq Khan, musulmano attento ai diritti gay ed ecologista favorevole al business. Ecco chi è il nuovo sindaco di Londra
Il 45enne avvocato dei diritti umani è nato in una famiglia proletaria di immigrati pachistani. Il suo programma punta all’incremento dell’edilizia sociale ma anche alla lotta contro il terrorismo e ogni tipo di estremismo
di Daniele Guido Gessa (Il Fatto, 6 maggio 2016)
Londra ha ora un sindaco musulmano, laburista, ecologista ma attento anche al business e alle imprese, almeno stando alle promesse. E soprattutto da venerdì 6 maggio la capitale ha un primo cittadino che è forse l’unica vera magra consolazione per il Labour di Jeremy Corbyn, il leader dell’opposizione dallo scorso 12 settembre, che è stato accusato da più fronti di aver fatto virare il partito troppo a sinistra. Mentre si leccano ancora le ferite per i brutti risultati a livello locale (nel Regno Unito si votava anche per i parlamenti nazionali di Scozia, Galles e Irlanda del Nord e per diversi consigli comunali, nonché per due seggi parlamentari riassegnati in due elezioni suppletive), i laburisti possono ora vantare un amministratore che, nel panorama europeo, è veramente rivoluzionario.
E Sadiq Khan, avvocato per i diritti umani 45enne, non è dirompente solo per le sue origini pachistane e per la sua fede di musulmano praticante, ma anche per le sue aperture ai diritti gay, tanto da aver votato da parlamentare a favore della legge sui matrimoni fra persone dello stesso sesso, nel 2013, ricevendo diverse minacce di morte. Ma anche per la sua estrazione proletaria: figlio di un autista di autobus e di una umile sarta, avendo vissuto per anni in una casa di edilizia popolare, fra ‘lavoretti’ del fine settimana, molti sacrifici e una carriera tutta in salita e assolutamente guadagnata fino in fondo. Senza appoggi o ‘spintarelle’, si direbbe in Italia.
Al di là dell’agiografia del vincitore, comunque, Khan è stato in grado, scrive la stampa britannica, di intercettare le vere volontà dei cittadini londinesi, quasi 9 milioni di abitanti di cui almeno il 40% nato all’estero o comunque di origine straniera. Stop all’aumento spropositato delle tariffe del trasporto pubblico, già ora uno dei più cari al mondo, con l’introduzione di un biglietto della durata di un’ora sugli autobus. Non è così ora a Londra, dove se si prende più di un mezzo si paga un biglietto diverso - e lo si paga veramente, altrimenti non si sale sul bus - ogni volta che si passa dalla porta anteriore. Ancora, sì all’ambientalismo ma senza esagerare: la coscienza ‘verde’ di Khan non pare essere così sviluppata come quella di Zac Goldsmith, il candidato conservatore sconfitto, che dell’ecologismo ha sempre fatto il suo cavallo di battaglia. Rinnovo del parco auto, dei mezzi del trasporto pubblico e soprattutto un abbattimento delle emissioni domestiche sono comunque fra gli obiettivi del nuovo sindaco laburista, che aggiunge nel suo programma di voler far diventare Londra una città waste free, libera dalla schiavitù della produzione di rifiuti. Non si sa come, ma le promesse sono importanti. E Khan ci ha messo la faccia, dicendo di capire le ragioni degli ambientalisti soprattutto per la sua asma che spesso non gli dà pace.
Ancora, Khan, che da giovane lavorò anche in un negozio, promette di essere estremamente attento al business, che mai come oggi a Londra ha bisogno di essere protetto dai rischi della Brexit. L’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione europea, in seguito al referendum del prossimo 23 giugno, è uno spauracchio sempre più concreto considerando la relativa vittoria alle elezioni locali di giovedì 5 maggio dell’Ukip di Nigel Farage. Più che uno spauracchio, è un vero e proprio terrore per le aziende, con la Cbi, la ‘Confindustria britannica’, che più volte si è espressa contro l’eventualità. Ecco così che Khan promette incentivi, un ambiente ancora più internazionale e favorevole al business, se possibile, e una generale e maggiore attenzione alle ragioni degli uomini di impresa in quella che già da tempo è una delle capitali mondiali della finanza, dei servizi, delle startup, della ricerca, della scienza e della tecnologia.
Ancora, per Khan, uno dei temi vincenti riconosciuti dalla stampa, durante la sua campagna elettorale, è stato quello della casa, in una città dove i prezzi delle abitazioni sono alle stelle a causa degli investitori internazionali (sceicchi arabi, oligarchi russi ma anche molti italiani) che arrivano sotto il Big Ben solamente per comprare appartamenti e ville. Con il risultato che ormai il prezzo medio di un’abitazione londinese supera le 500mila sterline (650mila euro al cambio attuale), un fatto che ormai è un incubo persino per la classe media, sempre più impossibilitata a comprare casa. Le giovani coppie scappano sempre più da Londra, città dove già oggi una larghissima parte della popolazione vive in affitto, avendo spesso difficoltà a pagarlo. Ecco così che Khan ha promesso più edilizia sociale per tutti, con l’obiettivo di costruire anche fino a 80mila nuove abitazioni all’anno. Edilizia sociale (o popolare) ma anche case a prezzi calmierati e il rendere la vita più difficile a chi affitta case ed è senza scrupoli. Chissà se il ragazzo cresciuto in un council flat, e che proprio nel giorno delle elezioni ha visitato i suoi poveri ex vicini, riuscirà nell’impresa.
Infine, e non è roba di poco conto in una metropoli così multietnica, la lotta al terrorismo e all’estremismo di ogni genere. “Sarò il sindaco di tutti i londinesi”, ha promesso più volte Khan. Aggiungendo però di voler andare contro tutti quei londinesi che fanno preoccupare Scotland Yard, antiterrorismo e servizi segreti. Nel suo programma elettorale c’è la chiara volontà di “predisporre un piano per affrontare la diffusione dell’estremismo”. Nella sua carriera da avvocato per la difesa dei diritti umani, Sadiq Khan ha difeso tanti clienti dal passato oscuro e dai legami non molto chiari. E i tabloid hanno puntato molte volte sul presunto rischio dell’avere in città un sindaco musulmano.
Per ora una cosa è certa: i londinesi non si sono fatti prendere dalla paura e hanno votato in massa per il “ragazzo più sveglio del Labour”, come è stato più volte definito. Del resto era nello stesso suo proclama elettorale: “Scegliete la speranza e non la paura”, aveva scritto a chiare lettere il nuovo sindaco prima di essere eletto. Per ora i londinesi - e con lui anche i britannici europeisti e mezza Europa tutta - sperano con forza.
Un’italiana nella squadra Labour dell’aspirante sindaco Khan
Ivana Bartoletti, ’’Spero di poter restituire a Londra quello che mi ha dato’’
di Redazione ANSA *
’Spero di poter restituire a Londra quello che questa città mi ha dato’. Ivana Bartoletti, l’italiana candidata fra le file del Labour nella ’squadra’ di Sadiq Khan, spera di poter conquistare un seggio nella London Assembly, l’assemblea della capitale, a coronamento di una carriera professionale tutta ’british’ all’interno dell’Nhs, il servizio sanitario nazionale, oltre che come attivista e membro del partito guidato da Jeremy Corbyn.
"Mi sono integrata in una comunità che non era la mia - spiega - e ora voglio difendere la diversità e il multiculturalismo che hanno permesso a me e a tanti altri di trovare una propria dimensione qui". E ricorda come proprio la storia di Khan, di radici musulmane e pachistane, sia l’esempio migliore dello spirito di Londra. "Noi vogliamo che non solo questo resti ma che migliori, con una città sempre più aperta e tollerante in cui non importa da che parte del mondo tu venga, la tua religione o il tuo colore della pelle".
Bartoletti punta poi il dito sull’avversario di Khan, il Tory Zac Goldsmith, sul fatto che vorrebbe invece una Londra per pochi privilegiati, fuori dall’Europa in quanto sostenitore della Brexit, e sul tipo di campagna "al veleno" che ha condotto. "Ha cercato di attaccare Khan con una serie di accuse legate al terrorismo ma anche molti conservatori non si sono riconosciuti in quello che Goldsmith affermava".
Ivana ha già in mente cosa farà se eletta, si impegnerà per i giovani e quanti hanno difficoltà a trovare un alloggio e naturalmente anche per la comunità italiana che è sempre più numerosa nella capitale, dopo quello che alcuni hanno descritto come un esodo dalla Penisola di 20-30enni in cerca di lavoro e di nuove opportunità.
Pakistan, lo strano caso dei ’fratellini del sole’: si paralizzano al tramonto
I due ragazzini hanno 9 e 13 anni. Nel corso della giornata sono attivi e vivaci, come tutti i loro coetanei, ma all’imbrunire cadono in catalessi. I medici non si spiegano l’origine della paresi *
E’ UN CASO misterioso che i medici in Pakistan non riescono a spiegarsi: al tramonto due fratelli di 9 e di 13 anni si paralizzano. E’ come se entrassero in catalessi. Con il buio non riescono più a muoversi. Per questo sono stati ribattezzati i "bambini del sole". Di giorno sono due ragazzini vivaci e attivi, si muovono e giocano come tutti i loro coetanei. Ma all’imbrunire si fermano e cadono in una sorta di stato vegetativo.
I medici. I medici che li seguono non sono riusciti a fare una diagnosi precisa. "Non riesco a capire che cosa succede - spiega Javed Akram, docente di medicina all’Istituto di Scienze mediche, in Pakistan - e non ho nessuna idea di che cosa provochi questi sintomi. Per noi questo caso è una sfida, i nostri medici stanno facendo una serie di test per capire come mai i fratelli sono vivaci durante il giorno e non riescono né ad aprire gli occhi, né a parlare quando il sole tramonta".
La famiglia. I due giovani provengono da una famiglia povera e il governo sta fornendo loro cure gratuite a Islamabad. Campioni del loro sangue sono stati mandati all’estero per ulteriori esami. I ricercatori stanno anche raccogliendo campioni di terra e di materiali che si trovano nell’abitazione della famiglia, per capire se ci possa essere una sostanza all’origine del problema.
Al buio. Il padre, Mohammad Hashim, abita con i ragazzini in un villaggio vicino a Quetta. Lui e sua moglie sono cugini. Due dei loro sei figli sono morti in tenera età, mentre gli altri bambini non hanno problemi di salute. Hashim è tranquillo. Spiega il misterioso fenomeno ricorrendo alla saggezza popolare. "I mie figli prendono tutta la loro energia dal sole", dice. Ma i medici escludono questa ipotesi perché i ragazzini si muovono durante il giorno anche se si trovano in una stanza buia.
Pakistan: kamikaze fa strage di cristiani a Lahore, 72 morti, maggior parte donne e bambini Le autorità hanno indetto tre giorni di lutto. Il Papa: "Strage orribile". Talebani Jamatul Ahrar rivendicano l’attentato
di Redazione
ANSA ISLAMABAD
28 marzo 2016
E’ salito a 72 il numero delle vittime e a 320 quello dei feriti causati dall’azione di un kamikaze ieri pomeriggio in un parco di Lahore, nel Pakistan centrale, dove si erano raccolte molte persone di religione cristiana per celebrare all’aperto e in famiglia la festività pasquale. Confermando il bilancio, un responsabile del governo della provincia del Punjab a detto alla tv Express News che "le operazioni di soccorso sono ancora in pieno svolgimento". Fra le vittime una trentina sono bambini, che nel momento dello scoppio utilizzavano i giochi e le attrezzature sportive del Gulshan-e-Iqbal Park. Le autorità hanno indetto tre giorni di lutto, mentre si cerca di risalire ai responsabili del movimento Jamat ul Ahrar che ha rivendicato l’attentato.
La polizia pachistana ha arrestato nelle ultime ore 15 persone. Lo riferisce oggi Geo Tv. Fra gli arrestati, si è appreso, vi sono anche tre fratelli del giovane kamikaze che si è fatto esplodere fra le famiglie che trascorrevano la Pasqua nel Gulshan-e-Iqbal Park della città. L’attentatore suicida è stato identificato come Yousuf, 28 anni, figlio di Ghulam Farid e residente nel distretto di Muzzafargarh.
S.Sede: Papa prega, strage orribile - "La strage orribile di decine di innocenti nel parco di Lahore getta un’ombra di tristezza e di angoscia sulla festa di Pasqua. Ancora una volta l’odio omicida infierisce vilmente sulle persone più indifese". Lo dichiara padre Federico Lombardi, sull’attentato in Pakistan. "Insieme al Papa - che è stato informato - preghiamo per le vittime, siamo vicini ai feriti, alle famiglie colpite, al loro immenso dolore, ai membri delle minoranze cristiane ancora una volta colpite dalla violenza fanatica, all’intero popolo pachistano ferito".
Strage cristiani a Lahore - Oltre 70 persone, in stragrande maggioranza donne e bambini della minoranza cristiana, sono state uccise in serata in un attacco suicida in un parco pubblico di Lahore, nel Pakistan centrale, gremito di famiglie che celebravano la Pasqua. L’esplosione, di forte entità, è avvenuta vicino a un ingresso del Gulshan-i-Iqbal Park situato nell’area di Iqbal Town, un popolare ritrovo domenicale e particolarmente affollato in occasione della festività cristiana.
Il kamikaze si è fatto esplodere vicino a delle altalene in mezzo alla folla. E’ stata una carneficina con oltre 300 feriti, rivendicata dai talebani del gruppo Jamatul Ahrar. Secondo quanto riferito all’ANSA da Xavier P. William, responsabile dell’ong Life for All Pakistan che si occupa di diritti delle minoranze religiose, almeno 51 vittime e 157 feriti appartengono alla comunità cristiana. I sopravvissuti hanno detto di aver visto i corpi smembrati dalla deflagrazione riversi in pozze di sangue. Per trasportare i numerosi feriti negli ospedali sono stati usati i taxi e gli autorisciò che erano parcheggiato all’uscita del parco. Il governo di Islamabad ha dispiegato alcuni reparti dell’ esercito per facilitare le operazioni di soccorso. La polizia ha confermato la presenza di un kamikaze e anche l’uso di sfere metalliche nell’esplosivo per aumentare l’effetto letale. Al momento della strage c’era una grande folla nel parco a tal punto che le vie di accesso erano intasate dal traffico. E’ emerso che non c’era alcun servizio d’ordine a protezione dei numerosi ingressi del parco pubblico che è uno dei più grandi di Lahore. Il massacro è stato duramente condannato da India, Stati Uniti e anche dall’Italia.
"Il pensiero corre alle piccole vittime pachistane di #Lahore e alla Pasqua insanguinata dalla follia kamikaze #prayforlahore" ha scritto su Twitter il premier Matteo Renzi. Anche la premio Nobel per la pace Malala Yousafzai ha stigmatizzato la strage sempre su Twitter. "Sono sconvolta da un crimine insensato - ha scritto la giovane - che ha colpito gente innocente". Il 15 marzo dello scorso anno due kamikaze sempre del Tehrek-e-Taliban Pakistan (TTP) Jamat-ul-Ahrar, si erano fatti esplodere all’ingresso di due chiese di Lahore vicine fra loro, la cattolica St.John’s Church e la cristiana Christ Church causando 17 morti.
Charlotte Brontë (21 aprile 1816 - 31 marzo 1855)
Donne che non immaginate
Il bicentenario è l’occasione per rendere giustizia a un’autrice moderna e indipendente che fu vittima del suo secolo
di Elisabetta Rasy (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.03.2016)
L’ultimo film dal romanzo Jane Eyre è stato fatto nel 2011 da Cary Fukunaga, il regista della serie iniziale di True Detective, il primo risale al 1910, un cortometraggio muto diretto dal pioniere del cinema Theodore Marston. In mezzo un numero considerevole di altre trasposizioni cinematografiche , tra cui una, la più celebre, con Orson Wells del 1944, e da noi quella di Zeffirelli del 1996, oltre a una nutrita serie di adattamenti per la televisione in vari Paesi europei.
Ma Charlotte Brontë, la sua autrice, non ne sarebbe affatto stupita: quando scrisse Jane Eyre, nel 1846, a trent’anni, era convinta di scrivere un’opera rivoluzionaria e di aver inventato un’eroina di un tipo nuovo affidata al futuro, molto diversa dalle protagoniste dei romanzi scritti dagli uomini, create «dalla loro stessa fantasia», artificiali «come la rosa del mio cappello». E diversa anche dai personaggi femminili usciti dalla penna di illustri colleghe, per esempio Jane Austen, che Charlotte non amava molto.
Se Orgoglio e pregiudizio è, come Jane Eyre, un altro romanzo evergreen che gli contende il primato delle versioni cinematografiche e televisive e che sfida audacemente i secoli, le due protagoniste non potrebbero essere più diverse: la Elizabeth Bennett di Austen è una ragazza intraprendente che naviga intelligentemente nei valori della società del suo tempo: denaro, stato sociale, matrimonio. L’istitutrice Jane, invece, mette in campo valori nuovi: lavoro soprattutto e forza della passione, proponendo al lettore un’immagine di inedita indipendenza femminile.
In tutti i suoi quattro romanzi, Charlotte dà voce a molte idee, ma una è quella portante: le donne non sono come gli uomini se le immaginano. Lo fa dire esplicitamente dalla protagonista di un’altra opera, Shirley: «Se gli uomini potessero vederci come realmente siamo, sarebbero alquanto sorpresi».
Una verità innegabile alla metà dell’Ottocento, ma tutt’altro che superata all’inizio del terzo millennio. Anche per questo l’Inghilterra festeggia con convinzione il bicentenario (21 aprile) della nascita della intraprendente signorina Brontë, che tale - signorina - rimase fino a un anno prima della morte, quando, ormai priva delle sorelle Emily e Anne, accettò un tardivo matrimonio con un uomo che faceva lo stesso mestiere del padre, il curato di campagna.
Tra le tante iniziative per ricordarla, una mostra alla National Portrait Gallery di Londra, con manoscritti e ritratti, e una esposizione di oggetti personali e cimeli famigliari nella casa museo Brontë Parsonage, ad Haworth, nello Yorkshire, dove la scrittrice visse quasi tutta la vita. Mentre una nuova biografia di Charlotte a opera della studiosa Lyndall Gordon, (Una vita appassionata) viene pubblicata in Italia dall’editore Fazi, che in occasione del duecentesimo compleanno ripubblica anche Il professore, dopo aver riedito qualche mese fa Shirley.
La bibliografia sulla più anziana e nota delle sorelle Brontë (benché il vero capolavoro, Cime tempestose, l’abbia scritto Emily) è sterminata, a partire dalla prima biografia scritta poco dopo la sua morte da un’altra intraprendente scrittrice sua contemporanea, Elizabeth Gaskell, legata a lei da una benevola amicizia. Ma la signora Gaskell aveva a cuore soprattutto l’onore vittoriano e cercava di difendere la figura di Charlotte dall’immagine non sempre lusinghiera che ne avevano dato gli scrittori del suo tempo.
Il critico e poeta Matthew Arnold, per esempio, l’aveva descritta come «nient’altro altro che fame, ribellione e rabbia», e anche William Thackeray, che pure la stimava, decise di non poter essere suo amico: «Il fuoco e la furia che ardono quella piccola donna, la collera che infiamma il suo cuore non fanno per me». Per questo la prima biografa creò l’icona destinata a entrare nella mitologia Brontë, quella di una «vita di desolazione», di una donna «passata per sofferenze tali da averla privata di ogni scintilla di allegria».
In realtà - e su questo insiste il racconto biografico di Lyndall Gordon - se è vero che la vita di Charlotte fu segnata da gravi sofferenze - morte precoce della madre, perdita continua di familiari amati, problemi di denaro e di solitudine -lei non ne fu piegata e vinta: era una persona tutt’altro che desolata e invece molto appassionata e determinata a emergere, ad affermarsi, a trasformare le proprie sofferenze in materia d’ispirazione. Soprattutto decisa a dedicarsi a un lavoro considerato poco adatto a una donna.
All’inizio dei suoi esperimenti letterari aveva cercato la protezione del poeta laureato Robert Southey, ma lui le aveva scritto perentoriamente: «Signora, la letteratura non può essere l’occupazione della vita di una donna». Lei gli aveva risposto con l’apparente ossequio che un tipo del genere si aspettava dalle signore, ma con sotterranea ironia che un occhio meno conformista non poteva fraintendere: «Mi sono sforzata di assolvere pienamente non solo tutti i doveri di una donna, ma anche di interessarmi profondamente a essi. Non sempre ho successo, perché talvolta, mentre insegno o lavoro di cucito, preferirei leggere o scrivere, ma cerco di reprimermi...».
Comunque quando decise di pubblicare scelse lo pseudonimo maschile Currer Bell, cognome che, con altri nomi maschili, assunsero anche le sorelle Emily e Anne per firmare i loro libri, essendo tutte e tre convinte che le autrici vengono «spesso guardate con pregiudizio» e che «i critici si servono per condannarle, dell’arma del loro essere donne, e per lodarle di un’adulazione che non è vera lode».
Ma anche quando il velo dello pseudonimo cadde, Charlotte, malgrado le accuse di sfacciataggine, continuò per la sua strada, raccontando cosa si prova a essere un’istitutrice colta e povera in una casa di ricchi ignoranti e maleducati, come si patisce a non poter esercitare pubblicamente la propria intelligenza, quanto è frustrante non poter ambire a un lavoro all’altezza delle proprie capacità e anche di quanta passione siano capaci le donne seppure respinte da chi amano, come era successo a lei travolta dal desiderio per un professore che aveva conosciuto durante un periodo giovanile di studio a Bruxelles. Fedele alla sua nuova eroina: la donna che lavora e che si costruisce la sua strada, non bella ma tenace e soprattutto in rivolta contro le convenzioni dell’epoca.
Dopo la sua morte il padre e il vedovo se ne spartirono l’ eredità, il padre facendo con i suoi cimeli piccoli souvenir da vendere, il marito (che si era velocemente risposato) nascondendo le lettere in cui il suo spirito ribelle veniva allo scoperto.
Ma il patrimonio lasciato da Charlotte è riuscito eludere la stretta sorveglianza dei suoi volenterosi custodi, e a circolare nei luoghi più imprevisti.
Per esempio recentemente in Pakistan: dove la Brontë Society ha tradotto la sua guida in urdu per venire incontro al crescente interesse delle donne pakistane, che trovano la loro condizione e i loro desideri molto simili a quelli espressi da Miss Brontë nelle sue opere.
la svolta
Il Pakistan e il film-denuncia
Il premier: «Basta delitti d’onore»
Nawaz Sharif all’anteprima di «A Girl in the River», in corsa agli Oscar di domenica, ha promesso nuove leggi per punire chi commette questi reati «degradanti» e «ignobili»
di Alessandra Muglia *
In Pakistan oltre mille ragazze vengono uccise brutalmente in nome dell’onore ogni anno. Un delitto «assolutamente contro l’Islam, chiunque lo compia deve essere punito molto duramente, bisogna cambiare la legge il più presto possibile». A sollecitare un cambiamento che sa di rivoluzione in questo Paese non è ora un attivista dei diritti umani ma il premier pachistano in persona.
La decisa presa di posizione di Nawaz Sharif, raccolta dal Guardian, arriva dopo la proiezione a Islamabad del docufilm sui delitti d’onore in corsa agli Oscar di domenica. Ed è già una prima vittoria per «A Girl in the River: The Price of Forgiveness» (Una ragazza nel fiume: il prezzo del perdono), storia della diciannovenne pachistana Saba Qaiser sopravvissuta miracolosamente al tentativo di delitto d’onore da parte del padre e dello zio.
All’inizio del film la ragazza ripete più volte «non li perdonerò mai» ma alla fine si ritrova ad ammettere di aver ceduto, esausta, alle richieste dei parenti. Il documentario svela l’immensa pressione esercitata da una società fortemente patriarcale per indurre la giovane a perdonare i suoi aggressori. L’interpretazione corrente della sharia permette agli assassini di evitare la pena se perdonati dalla famiglia delle vittime.
«Omidici premeditati»
«Non può esserci perdono per il crimine d’onore, si tratta di omicidi premeditati», è la denuncia lanciata dalla regista Sharmeen Obaid-Chinoy, già vincitrice dell’unico Oscar pachistano con un altro documentario (nel 2012, sulle donne sfregiate dall’acido). «Prima di arrivare a cambiare la mentalità delle persone, dobbiamo mandare i colpevoli in prigione, così la gente può iniziare a capire che uccidere qualcuno è una cosa grave che merita una lunga detenzione» ha detto.
«Nessun onore»
La sfida è stata raccolta dal premier Sharif, presente all’anteprima del film a Islamabad:«Il documentario mostra che non c’è nessun onore nei delitti d’onore», ha dichiarato, definendo tale pratica «degradante» e «ignobile», «contraria agli insegnamenti del Corano e agli ideali di Mohammad Ali Jinnah», padre fondatore della nazione. Per questo la legge islamica che permette alle famiglie di uccidere le loro figlie in nome dell’onore e di evitare le pene sarà presto contrastata, ha assicurato.
Sfida all’establishment religioso
Un coraggioso atto di sfida all’establishment religioso più conservatore per alcuni osservatori sorprendente da parte di Sharif che nei suoi primi due mandati da primo ministro, negli anni ’90, aveva portato avanti politiche islamizzanti pro sharia. Mufti Kifayatullah, leader del partito religioso Jamiat Ulema-e-Islam, ha ammesso un «cattivo uso della legge islamica», avvertendo però che ogni tentativo di riforma sarà contrastato. «Abolire le leggi islamiche non sarà tollerato, visto che questo Paese è nato nel nome dell’Islam. I partiti religiosi non permetteranno al governo di risolvere il problema in questo modo». La guerra è cominciata. E Los Angeles può dare una mano a vincerla.
* Corriere della Sera, 23 febbraio 2016 (ripresa parziale).
Pakistan: assalto ad ateneo, almeno 25 morti
50-60 i feriti, assalitori asserragliati all’interno
di Redazione ANSA ISLAMABAD 20 gennaio 201609:07
Un attacco da parte di un folto commando di militanti armati all’università Bacha Khan University di Charsadda (nel Pakistan nord-occidentale) ha causato almeno 25 morti e fra 50 e 60 feriti: lo ha dichiarato Shaukaut Yousafzai, responsabile politico del partito Pakistan Tehreek-i-Insaf (PTI). Secondo fonti ufficiali, invece, i morti sarebbero 10: sei tra studenti e professori e quattro militanti. Gli assalitori si sono asserragliati all’interno dell’ateneo.
Il primo ministro pachistano, attualmente in Svizzera per partecipare al Forum di Davos, ha condannato l’attacco sostenendo che "chi uccide studenti innocenti non ha fede né religione". "Siamo determinati - ha concluso - a spazzare via la minaccia del terrorismo dal nostro Paese".
Ingenti forze di polizia ed unità antiterrorismo pachistane hanno circondato l’università. Nel corso dell’attacco si sono udite una decina di esplosioni e numerosi scambi di colpi d’arma da fuoco. Un portavoce militare ha dichiarato ai media che quattro degli aggressori, che sarebbero dieci o undici in tutto, sono stati uccisi, mentre gli altri sono stati circondati in due edifici del campus. Alcuni degli studenti che sono riusciti a fuggire hanno assicurato che "i morti sono molto numerosi".
L’università di Charsadda è stata fondata da Khan Abdul Ghaffar Khan, un pacifista e rispettato leader della nonviolenza, conosciuto con il nomignolo di ’Bacha Khan’ e morto nel 1988. Nel momento in cui, attorno alle 9:00 locali, i militanti sono entrati nel campus si calcola che circa 600 fra professori e studenti si apprestavano a partecipare ad un recital di poesie dedicato a ’Bacha Khan’ nell’anniversario della sua morte.
Dal Pakistan, la storia di un libraio e dei bambini che rubavano i libri
di Redazione Il Libraio 01.01.2016
Dopo la morte del padre, Ahmad Saeed ha preso il suo posto dietro la grande scrivania al pianterreno della grande libreria di famiglia. Dopo qualche tempo, alcuni uomini anziani hanno iniziato a entrare in libreria cercando Ahmad per saldare i debiti che avevano accumulato da giovani.
Siamo a Islamabad (la capitale del Pakistan) e la libreria in questione è la Saeed Book Bank, fondata dal padre di Ahmad Saeed, Saeed Jan Qureshi, scomparso lo scorso settembre. I “debitori” in processione sono i bambini che spesso Qureshi scopriva a rubare libri dai suoi scaffali ma che non ha mai punito: il libraio pensava infatti che un libro rubato da un ragazzino rappresenta comunque un investimento per un futuro in cui le persone leggeranno ancora, e quelli saranno i suoi clienti.
L’amore di Saeed Jan Qureshi per i libri nasce da piccolo, quando inizia a lavorare nella biblioteca di Mir Banda Ali, padrone del feudo in cui abitava la famiglia di Qureshi, un territorio così grande da comprendere al suo interno cinque stazioni ferroviarie. Qui il piccolo Qureshi aveva il compito di spolverare gli scaffali contenenti i preziosi libri del latifondista, ma non riusciva a resistere al fascino di tutte le storie che si celavano in quelle pagine. Così un giorno il padrone lo sorprende a leggere un libro invece di lavorare: gli ordina di tornare immediatamente a lavorare, aggiungendo che, se vuole, può portarsi a casa il libro e riportarlo una volta finito, a patto che non lo rovini. Qureshi non ha la possibilità di frequentare la scuola superiore, ma diventa un accanito lettore grazie alla generosità del padrone e, dopo la scuola, inizia a lavorare in una libreria a Peshawar, dove più tardi, negli anni Cinquanta apre una sua libreria.
Durante la Guerra Fredda, Peshawar era prima un avamposto dell’esercito americano nella lotta contro l’Unione Sovietica in Pakistan, poi una base militare e più tardi una base d’operazione della CIA. La città era dunque frequentata da molti americani ed è proprio assecondando i loro gusti e proponendo libri nella loro lingua che Qureshi costruisce il successo della libreria. In seguito, con l’avvento del terrorismo e del fondamentalismo islamico, particolarmente radicato a Peshawar, la città diventa pericolosa per un libraio, specie se propone testi ritenuti “eretici” come quelli di Karen Armstrong e dello scienziato Richard Dawkins. Costretto a chiudere il negozio a Peshawar, Qureshi lo riapre a Islamabad, la capitale, dove, nonostante la città sia inospitale per i diplomatici e gli stranieri, una larga maggioranza dei cittadini pakistani legge libri in lingua inglese.
La Saeed Book Bank ha così modo di crescere, fino ad arrivare a occupare i cinque piani attuali e a dare lavoro a 92 impiegati. Saeed Jan Qureshi diventa il punto di riferimento di chi entra in libreria per ricevere consigli di lettura (tra cui non può mancare Fallen Leaves di William Durant) e amplia continuamente l’offerta di libri e riviste frequentando, insieme al figlio Ahmad, le principali fiere dell’editoria mondiali, da Francoforte a Nuova Dehli, non riuscendo però a recarsi mai negli Stati Uniti per un problema con il visto.
Qureshi ha assicurato una buona educazione ai propri figli, che adesso hanno preso in mano le redini della libreria: Ahmad ha una laurea in amministrazione e cura l’ambizioso progetto di rendere automatizzato il magazzino della libreria e di rimodernare il sito di vendita online che registra già vendite per 1000 dollari al giorno, in un paese dove la carta di credito è ancora una novità.
Per il padre, i libri erano molto più che un lavoro, racconta Ahmad Saeed al New York Times, narrando un episodio successo molti anni prima, quando il padre aveva sorpreso un bambino a rubare un libro e gli aveva detto: “È bello che ti piacciano i libri. Ogni sera puoi prendere un libro da leggere a casa, a patto che tu me lo riporti non rovinato, così che io lo possa ancora vendere“. Questo bambino, ormai cresciuto, è adesso il vice rettore dell’Università di Iqra, a Islamabad, e afferma: “Tutto quello che sono diventato lo devo a tuo padre”.
Lo Stato Islamico usa la nostra storia dell’Islam per la sua guerra. Soltanto noi musulmani possiamo cambiare questo stato delle cose.
Un contributo di Tamim Ansary - nato a Kabul nel 1948, storico, vive a San Francisco.
Die Zeit online - 24 dicembre 2015
Il vero potere di Daesh non sta nelle sue bombe e armamenti vari e neppure nella sua orrenda risolutezza. Esso si trova molto più nel modo geniale in cui l’organizzazione formula la sua immagine mondiale e la forgia come un’arma. È in corso un conflitto apocalittico fra ‘Islam e l’Occidente. «Non si tratta qui semplicemente di un’altra guerra, fratelli e sorelle, è l’inizio della fine, perché presto Dio riscriverà la storia e i suoi [figli] diletti sono predestinati come vincitori. Essi cancelleranno i satanici, gli altri, e unificheranno la Terra sotto il tetto dell’Islam. Chi vi si unisce farà parte dei benedetti da Dio. Chi perde la vita in battaglia raggiunge direttamente il paradiso, chi sopravvive diventa onorato membro di una società che vive esattamente secondo le regole che Dio ha trasmesso all’umanità attraverso il suo inviato Maometto».
Può Daesh venire sconfitto uccidendo il suo sedicente Califfo Al Bagdadi? Sterminando tutti i suoi adepti? Certamente no, perché si tratta soltanto di persone. Ma l’immagine mondiale, che sospinge la sua campagna militare, è una rete di idee che vive e respira nello scambio che ne fanno milioni di musulmani.
Il massacro di San Bernardino dimostra la sua potenza minacciosa. In quel luogo Tashfeen Malik, madre di un bambino di sei mesi, che viveva col marito in un esemplare sobborgo californiano, si mette in movimento con lui per falciare con il mitra persone che non aveva mai visto prima. Come ha potuto questa azione apparirle sensata e giusta?
Prima di partire per l’assassinio Tashfeen Malik ha giurato fedeltà allo “Stato Islamico” con un post su Facebook. Quando questo scritto è venuto alla luce, nessuno a dire il vero ha chiesto che cosa si sarebbe potuto intraprendere contro questa visione del mondo. Ben Carson, un candidato repubblicano alla Presidenza, ha detto che San Bernardino dovrebbe significare “la fine del dibattito” circa l’accoglienza dei profughi siriani. Donald Trump, che già si era dichiarato a favore della reintroduzione della tortura, ha preteso un divieto generale di entrata per i musulmani. Gran Bretagna, Francia e USA intensificano nel frattempo i bombardamenti in Siria.
È questo il piano? Chiudi i confini, bombarda il Medio Oriente, erigi un muro e mettigli in cima il filo spinato, perché i terroristi e le loro armi non entrino? Il filo spinato può tenere fuori le persone, ma le idee gli scorrono attraverso come acqua. Tuttavia deve essere sconfitta quella visione omicida del mondo che può fare apparire qualsiasi azione di insensata violenza come atto eroico.
A chi punta questa visione del mondo? Essa si indirizza soprattutto a quei musulmani marginalizzati, la cui vita non ha più alcun senso. I figli di musulmani emigrati in Europa o in America sono la prima linea di questo gruppo demografico - giovani uomini e donne, la cui identità è in crisi fin dalla nascita.
Conosco questo fenomeno per la mie esperienze fra i richiedenti asilo e i profughi afghani in America. Il loro primo contatto con il mainstream americano i bambini lo hanno avuto in quelle famiglie, in quelle scuole statali, in cui molti sono stati trattati con disprezzo per la loro appartenenza all’Islam. Se poi hanno cercato di comportarsi nel miglio modo possibile come americani, i loro sforzi sono andati a sbattere contro il sarcasmo e la derisione. Dopo queste lezioni sono tornati a casa dai loro genitori, i quali sognavano di una patria perduta, di un tempo e una cultura che i ragazzi non avevano mai conosciuto. Se i figli si comportavano lì come americani incombevano su di loro accuse e rimproveri. Così essi facevano del loro meglio per comportarsi come buoni afghani musulmani. Un giovane mi disse: «A casa faccio come se fossi afghano. Poi esco e faccio come fossi americano. Mi chiedo: quando sono veramente me stesso?».
Lo Stato Islamico (Daesh) conosceva il suo pubblico
Mentre l’espansionismo occidentale travolgeva la loro civiltà, nel mondo arabo le persone si attaccavano al loro solo sogno perduto - la fantasia romantica degli «incrollabili vincoli famigliari». Ma come dovunque altrove, anche qui è accaduto lo stesso: la modernità industriale e il capitalismo hanno dissolto le strutture della stirpe e del clan. La rete emotiva della società tradizionale è stata sostituita da un mondo di nuclei monofamiliari e di individui, ognuno dei quali segue il suo proprio singolo destino. I ruoli tipici tradizionali dei sessi non reggono più.
Poi sullo schermo appare lo Stato Islamico. Che conosceva il suo pubblico. Offriva una visione del mondo che era sintonizzata perfettamente su queste situazioni, questa schiera imponente di potenziali reclute.
L’ideologia dello Stato Islamico non ha niente a che fare con l’Islam, l’Islam è la religione della pace, perorano troppo spesso molte voci benpensanti. Tutto ciò è poco sincero. La visione del mondo delio Stato Islamico ha a che fare naturalmente con l’Islam. Se non fosse così non susciterebbe tanta eco. Effettivamente l’immagine del mondo [di Daesh] si inserisce perfettamente nella storia, tanto amata dai musulmani, delle loro origini. Molto tempo fa vi fu un piccolo gruppo di anime pure che si attenevano precisamente e minuziosamente alle direttive che Dio aveva loro imposto. Queste persone stavano di fronte a un nemico spietato, che le voleva eliminare. Ma la comunità aveva come guida l’unica persona sulla Terra che fosse ispirata direttamente dall’Unico Dio. Sotto la sua guida la piccola comunità si pose con successo in difesa e poi portò la lotta nel campo nemico. Essa conseguì vittoria dopo vittoria, finché dominò il mondo (o almeno la parte più importante di questo). Questa è la storia della quale lo Stato Islamico si serve. E ha la forza di un mito.
Questa storia, obiettivamente considerata, esiste, perché centinaia di milioni di persone la conoscono e con essa sono cresciute. Uccidere qualche persona che conosce questa storia non uccide la storia stessa. Una visione del mondo può essere eliminata soltanto da un’altra visione e quella che domina lo Stato Islamico non può sorgere da alcuna origine occidentale. Non può derivare da concetti e valori di una cultura occidentale laica, con idee come “Libertà”, “Democrazia”, “Capitalismo” e “Parificazione della donna” come punti di arrivo prestabiliti. Può avere forza soltanto se è nata dal mondo islamico, abbozzata da teologi musulmani, che godono di stima per la loro erudizione. Il punto-chiave: devono utilizzare la medesima storia delle origini della quale lo Stato Islamico fa uso, ma giungere a conclusioni differenti.
Ma da scritti, dottrine e tradizioni dell’Islam può veramente svilupparsi una visione del mondo progressista e modernistica? Naturalmente! Tutti gli ingredienti sono a portata di mano. La tolleranza nei confronti di chi crede diversamente, per esempio. Che cosa hanno fatto i primi musulmani, dopo essersi spostati da La Mecca a Medina, la loro nuova patria? Formularono il regolamento comunitario di Medina, la prima Costituzione apparsa al mondo. Le loro regole dovrebbero garantire che le diverse comunità vivano le une accanto alle altre con armonia, ognuna alla sua maniera.
E i diritti delle donne? Sotto la guida del profeta Maometto, nell’ambito interno della comunità svolsero un ruolo centrale alcune eminenti personalità femminili - come Chadisha, Aicha, Fatima. Nell’Islam primitivo lo status delle donne fu migliorato, per la prima volta fu concesso loro di ereditare denaro, avere proprietà, ottenere il divorzio. Per quei tempi furono passi radicali.
O il tema delle atrocità in guerra. Scritti musulmani e sentenze di Maometto fissarono regole e condizioni che avrebbero dovuto limitare gli eccessi in guerra - precoci precursori della Convenzione di Ginevra.
Tutti questi elementi sono parte della preistoria, mitica e originaria, dell’Islam. Sì, la visione jihadistica del mondo ha pienamente a che fare con l’Islam, ma non è la stessa cosa dell’Islam. È soltanto una delle molte visioni del mondo che si fanno originare dalle medesime fonti storiche. Nessun fondamento teologico di alcun genere smentisce che una forte visione opposta possa entrare in concorrenza con il jihadismo. Il risultato positivo dipenderà da questioni come la seguente: “Come può la sharia essere adattata a tempi in mutamento?”. Infatti, anche se gli esempi prima ricordati si spostassero come fossero stati formulati 1400 anni fa, questo non farebbe ancora dell’Islam una religione progressista.
Una questione di vita o di morte
Tuttavia si può pensare la sharia così che gli odierni musulmani possano agire diversamente da come avrebbero fatto nel VII secolo? I jihadisti dicono che questo non sarebbe possibile: la sharia non potrebbe adeguarsi ai tempi, ma i tempi dovrebbero adattarsi alla sharia. Ma si deve proprio intendere la sharia come un ammasso di prescrizione e istruzioni da prendere alla lettera? Non si può considerarla come un tesoro di principi profondi, che guidano il comportamento secondo la morale? E se sì, come vengono applicati questi principi? Nel mondo musulmano questa è oggi una questione di vita o di morte.
Essa non si deciderà alla fine sui campi di battaglia, ma nei seminari e nelle aule di studio. Perché possa avviarsi una interpretazione progressista dell’Islam, quest’ultimo deve oggi adattarsi alle realtà della vita islamica. I musulmani che vivono nel mondo occidentale si sentono marginalizzati e derubati della loro identità. La struttura sociale delle loro società di origine è inteso come in decadimento. I musulmani stanno sulle rovine del loro mondo davanti alla sfida di dare un senso alla loro vita.
Coloro che decidono politicamente in Occidente non possono sollevarli da tutto questo, ma hanno tuttavia una funzione da espletare. Essi possono rendere ciò più facile o più difficile per gli intellettuali musulmani. Quando in Europa o in America i politici vietano i copricapo religiosi, quando parlano di documenti d’identità speciali, quando chiudono le frontiere ai profughi musulmani oppure - come adesso negli Stati Uniti si dibatte durante la campagna elettorale - vogliono introdurre esami di religione, per fare sì che nel Paese entrino soltanto cristiani, essi li spingono nelle braccia dello Stato Islamico. È la conferma delle affermazioni dei jihadisti: che questo scatena una lotta apocalittica fra due potenti blocchi. Uomini come i candidati repubblicani Donald Trump, Ben Carson e Ted Cruz si comportano quasi come fossero adepti dormienti dello Stato Islamico. Quale pazzia! Infatti la vera competizione oggi ha luogo non già fra l’Islam e l’Occidente, bensì fra due visioni musulmane del mondo.
Immaginatevi di vivere da qualche parte nel mondo come musulmano. Vi trovereste nuovamente fra due visioni del mondo. Una delle quali indica che è iniziata una lotta di proporzioni epiche. Voi avete la possibilità di aggregarvi a lato di chi è predestinato ad essere il vincitore e potreste salire al rango di eroe immortale. L’altra visione spiega una volta di più che alcune persone sono civilizzate e degne, ma voi non ne fate parte. Voi non siete altro che gentaglia meritevole di abominio, che certo può vivere, ma che non ha nulla di buono da apportare. Vi si terrà continuamente d’occhio e vi si disprezzerà. Probabilmente finirete in prigione e sarete torturato. Ora vi chiedo: per quale visione del mondo optereste?
Così l’antica rivalità tra sciiti e sunniti allontana il sogno della Mecca
di Tahar Ben Jelloun (la Repubblica, 06.01.2016)
IL PELLEGRINAGGIO alla Mecca è uno dei cinque pilastri dell’islam. Per poterlo effettuare bisogna disporre dei mezzi materiali e psicologici. Consiste in una visita dei luoghi santi della Mecca e di Medina e deve avvenire durante il dodicesimo mese dell’anno dell’egira.
La data è fissata nella seconda settimana del mese di Dhu-l-Hijja. La visita consiste prima di tutto nella purificazione. Fare le abluzioni, non portare abiti cuciti, per le donne non truccarsi; praticare l’astinenza sessuale; niente litigi; niente insulti; niente collera. Dopodiché, il pellegrino va sul monte Arafat, poi a Muzdalifah e a Mina, dove deve sostare tre giorni durante i quali lapiderà Satana e sgozzerà una pecora in sacrificio per rendere omaggio ad Abramo. Poi deve girare intorno alla Kaaba, dove si trova la pietra nera, e percorrere diverse volte la distanza che separa le due colline di Safa e Marwa.
Prima o dopo di questo rituale, il pellegrino deve andare a Medina e stare una settimana in raccoglimento sulla tomba del profeta Maometto.
Ogni anno la Mecca accoglie tre milioni di pellegrini in arrivo da tutto il mondo. L’Arabia Saudita ha stabilito delle quote per ogni paese. Il Marocco, per esempio, ha l’autorizzazione per il pellegrinaggio di 25.000 credenti, che vengono scelti per sorteggio. Ci sono talmente tante richieste che la gente passa giorni e notti a pregare perché il proprio nome sia tra quelli estratti. Ora che Teheran ha sospeso seppure temporaneamente l’Umra Hajji, “il pellegrinaggio minore” che si può fare in ogni periodo dell’anno, si può immaginare il timore delle migliaia di candidati al pellegrinaggio annuale che vengano annunciati nuovi blocchi.
La crisi attuale ha la sua remota origine nella contestazione, da parte degli sciiti, del monopolio saudita sui luoghi santi. Appena salito al potere, l’ayatollah Khomeini aveva espresso il desiderio di vedere i luoghi santi gestiti a turno da sunniti e sciiti. Per i sauditi, l’ipotesi di cedere quel ruolo - che gli assicura uno status politico e religioso (Guardiano dei luoghi santi) ed entrate cospicue - è fuori discussione.
Un musulmano, un credente, non vive assolutamente il pellegrinaggio alla Mecca come un obbligo o un dovere, ma lo considera il desiderio più caro, il sogno più ambito. Una volta compiuto, il pellegrinaggio conferisce al credente una sorta di “sacralizzazione” che fa di lui un “hajj”: colui che ha lavato i propri peccati e che si prepara a fare ritorno nel proprio paese con il cuore e lo spirito pacificati, colmi di virtù e di umanità.
Il pellegrinaggio è anche la conferma di quanto dice il Corano: «Dio vi ha creati in popoli diversi perché vi incontriate e vi conosciate ». Il credente vive sul posto la diversità intorno alla stessa fede e allo stesso messaggio, quello della pace e dell’importanza della spiritualità rispetto ai beni materiali. Vive una grande solidarietà, perché popoli venuti da tutti i continenti, molti dei quali non parlano arabo, si ritrovano intorno alla stessa speranza.
In quest’ottica, la rottura delle relazioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran è un colpo fatale per tutti quelli che si apprestavano a partire per la Mecca. Per loro, sciiti o sunniti che siano, si tratta di suggellare il loro attaccamento alla religione musulmana. Gli sciiti rappresentano circa il 10% dei musulmani nel mondo. Dopo la morte di Maometto, nel 632, alcuni hanno contestato il califfato di Abu Bakr, preferendogli Alì, genero e cugino del profeta.
I musulmani ortodossi ricordano che Maometto è l’ultimo profeta e che la sua successione è una prerogativa di Dio e non degli uomini. La rottura tra i due clan risale ad allora. Alì accederà al califfato ma cinque anni più tardi sarà assassinato da un ribelle. Gli sciiti sono eternamente in lutto per quella morte.
Oggi i credenti iraniani devono accettare di non poter andare temporaneamente alla Mecca. Dopo tutto è una questione politica e Khomeini ha detto e ripetuto che «L’Islam è politica o non esiste più». (traduzione di Elda Volterrani)
Quest’anno il Natale cristiano e quello musulmano cadono la stessa notte
Non accadeva da mezzo millennio. Una bella coincidenza di questi tempi
Quando gli dei si parlano
di Monika Bulaj (la Repubblica, 20.12.2015)
L’HO SENTITO NEI SOSPIRI DEI SUFI A KABUL, al Cairo e a Istanbul, durante i riti dionisiaci dei musulmani del Maghreb, tra le esplosioni di petardi e rulli di tamburi nella Tripoli agghindata con palloncini e teste di squalo. Era il canto natalizio dei musulmani. Quest’anno, per la prima volta negli ultimi quattrocentocinquantasette, quel canto si leverà nel mondo musulmano nella stessa notte in cui i cristiani celebreranno il loro Natale, quella tra il 24 e il 25 dicembre. Perché quest’anno Maometto nasce quando nasce Gesù. Sarà il secondo Mawlud del 2015, il primo è caduto tra il 3 e il 4 gennaio: l’anno liturgico dei musulmani, governato dalla Luna, corre più veloce di quello cristiano.
Coincidenze. Del resto - e oggi pare così strano ricordarlo - le due religioni si sono rispecchiate l’una nell’altra nei secoli a suon di melodie e usanze, e si sono prestate poesie e riti come i buoni vicini si prestano il sale. E fu forse proprio per resistere all’incanto della notte di Betlemme che un califfo decretò la nascita del Profeta come festa popolare. Da allora il Natale musulmano viene festeggiato dal Maghreb fino all’Indonesia con fuochi d’artificio e regali per i bambini, cortei e danze estatiche, ed è replicato a sua volta per i santi locali in una infinità di Natali minori.
Sono anni che viaggio nelle sacre periferie delle religioni del Libro, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute di un’umanità in fuga. Come i santuari dei mistici dell’Islam, che dal Pakistan al Mali stanno scomparendo a suon di bombe. Odiati dagli ultras dell’Islam e ignorati dall’Occidente, i sufi sono forse una delle poche barriere contro la barbarie. Riempiono le biblioteche, godono della lettura come i mistici ebrei, mettono l’esperienza al di sopra della teoria, chiamano la pratica "strada" e il fanatico "asino che porta sulla groppa una pila di libri".
Sono zone franche. Come le donne armene e turche che dormono assieme sulla tomba di un santo cristiano sul Bosforo; come i monasteri nel deserto egiziano, ora assediati dai fondamentalisti, dove Abuna Fanous ascolta i sogni dei pastori beduini che per parlare con lui si fanno ore di coda sotto il sole; oppure come la venerazione dei kosovari verso lo sfortunato santo dei serbi, il re Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Zone franche sono i cristiani e i musulmani che pregavano assieme nella moschea di Damasco, o quelli che hanno rimesso a posto le pietre del monastero di Deir Mar Musa, sempre nella povera Siria.
Sono queste le ultime oasi d’incontro tra le fedi, luoghi dove gli dei ancora si parlano, terre di promiscuitˆ millenaria scomoda ai predicatori dello scontro di civilt ˆ, luoghi dove la catena delle vendette si rompe, dove si mangiano le stesse pietanze, si intonano gli stessi canti, si fanno gli stessi gesti. Accadde anche nella mia Polonia prima della Seconda guerra, nel Marocco degli anni Cinquanta prima dell’esodo degli ebrei. Il buon santo è buono per tutti. A Mea Sharim, il quartiere dei Chassidim di Gerusalemme, i nomi delle sinagoghe rievocano paludi bielorusse, pianure polacche, bianche colline ucraine.
È un mondo parallelo e invisibile che va dall’Asia centrale all’America latina, dalle Russie al Medio Oriente. Il calendario dei miei spostamenti tra Gibilterra e l’Afghanistan segue anniversari di nascita e morte di uomini e profeti, pellegrinaggi e sacrifici, lune, solstizi e stagioni che annodano il tempo: persiano, aramaico, arabo o ebraico non importa, svela comunque una trama di sorprendenti parallelismi. Elia diventa tra i musulmani “Khidr il verde”; San Giorgio viene festeggiato nei Balcani da cristiani e musulmani; attorno alle Madonne si radunano donne musulmane e greco-ortodosse, di Napoli e di Istanbul.
Accade che a un certo punto sono le stesse immagini che vengono a cercarti. Svelano una continuità che abbiamo disimparato a osservare. Quello che faccio io è una cosa quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della Torre di Babele, tessere di un mosaico che non sarà mai completo. Poi metto tutto nell’ordine che mi sembra giusto, o forse solo possibile.
di Enzo Bianchi
LA SINGOLARE COINCIDENZA di calendario tra la festa della natività di Gesù e la commemorazione del profeta Muhammad dovrebbe scuoterci dal nostro analfabetismo nel dialogo islamo-cristiano, distoglierci dalle polemiche insensate sulla presenza o meno del presepe nelle scuole e nei luoghi pubblici istituzionali e spingerci alla pratica di quella “ospitalità culturale” di cui c’è grande urgenza per una convivenza buona e intelligente.
Conoscere le feste dell’altro, il significato delle celebrazioni, la reale portata delle tradizioni instauratesi nel corso dei secoli è il passo più semplice e tra i più fecondi per scoprire l’universo religioso di chi ci sta accanto e, al contempo, per riscoprire il fondamento di ciò che noi stessi ricordiamo, sovente offuscato dall’abitudine.
Dai primi secoli i cristiani fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea il 25 dicembre: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il “sole invitto”, il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, vincitore sulla tenebra che offusca la terra. Essendo Gesù Cristo vero sole, luce del mondo, era naturale fare memoria della sua nascita al solstizio d’inverno.
Per i musulmani invece la “commemorazione” (non la “festa”, perché nel calendario islamico solo due sono le “feste”: Id al-Fitr alla conclusione del mese di Ramadan, e Id al-Adha, la festa del Sacrificio) della nascita del Profeta, nel dodicesimo giorno del mese lunare di Rabi’ I che quest’anno cade appunto il 24 dicembre, risale a non prima del X secolo, con ispirazione alla festa cristiana, e oggi è particolarmente sentita a livello popolare e tra i bambini, sebbene sia contestata da alcuni che la giudicano troppo modellata sul Natale cristiano.
Due feste differenti, dunque, senza possibili sincretismi né simmetrie perché nella fede non si festeggia nulla insieme: ai cristiani è chiesto rispetto per la commemorazione dei musulmani, così come ai musulmani è chiesto rispetto per la festa cristiana della nascita di colui che per loro è comunque considerato un profeta, ma non colui che i cristiani confessano quale loro Signore e loro Dio. Insieme si può solo celebrare la gioia dell’altro e scambiarsi auguri di pace, e questo non è poco in un’umanità tentata di smentire la fraternità e di far divampare conflitti religiosi.
Gesù e Muhammad quest’anno nascono nella stessa notte
di Francesca Bellino (L’Huffington Post, 22/12/2015)
"Sti musulmani mo’ ci rubano pure il Natale..." ha esclamato un uomo in un bar a Roma, rivolgendosi al giovane barista. Non è una barzelletta, è il segno che l’islamofobia non ha limiti. Per prendersi gioco di chi crede che gli immigrati ci portino via il lavoro e che Daesh, il sedicente Stato islamico, ci abbia rubato la tranquillità, ma soprattutto di chi è convinto che sia sempre colpa dei musulmani, che ci sia l’Islam dietro ogni terrorismo e che i jihadisti uccidano per conquistare il paradiso, quest’anno ci ha pensato il calendario a creare una situazione anomala, quanto significativa e anche provocatoria.
Il Natale musulmano, ossia il Maulid, la festa per la nascita di Muhammad, capita nella stessa notte del nostro Natale: tra il 24 e il 25. Gesù e l’arrasul, ossia il profeta Muhammad, nasceranno nello stesso momento e dunque le due comunità festeggeranno nelle stesse ore. È un evento eccezionale che si verifica dopo 457 anni, quasi mezzo millennio. La notizia ha iniziato a circolare già da qualche settimana e ovviamente non è passata inosservata a chi pensa che "sti musulmani mo’ ci rubano pure il Natale..."!
Il Maulid quest’anno capita due volte. Secondo il calendario musulmano che segue il ciclo lunare, e quindi cambia ogni anno, è già caduto tra il 3 e il 4 gennaio. È uno dei giorni più sacri dell’Islam ed è una festa religiosa importante per i praticanti insieme all’Aid Ilfiter, la festa per la fine del Ramadan che cade nel nono mese del calendario musulmano, e all’Aid Ilidha, la festa del sacrificio che si tiene due mesi e dieci giorni dopo la fine del Ramadan. Questa commemora l’atto di Abramo di sacrificare, per ordine divino, il figlio Ismaele (o Isacco, per i cristiani), un atto sventato all’ultimo minuto con la sostituzione di Ismaele con un agnello.
È bizzarro che mentre la fase storica che viviamo spinge verso la separazione e la sfiducia, il calendario ci porta all’incontro e alla condivisione. Tantissime famiglie composte da persone di diversa provenienza, infatti, quest’anno si ritroveranno a celebrare le due feste insieme. Questa è la realtà dell’Italia di oggi. Un’Italia multietnica dove, in particolare cristiani e musulmani, vivono uno accanto all’altro.
Per chi come me crede che nulla succeda per caso, questa "coincidenza" ci porta un messaggio profondo che spero non passi inosservato. Non abbiamo bisogno di retorica, né di (belle) frasi fatte, come non abbiamo bisogno di paura, ma di azioni (belle), canti d’amore e nuovi pensieri. Pensieri positivi e pregni di fiducia verso gli altri. Auguri a tutti e godetevi questa notte della nascita che porta all’incontro e alla pace.
Il tempo della guerra e il tempo della storia
di Massimo Campanini (Il Mulino, 23 novembre 2015])
È venuto il tempo della guerra, pare, ma è venuto anche il tempo della parresia. Del dire la verità. Michel Foucault, nella prolusione di apertura dei suoi corsi al Collège de France nel 1970, come sempre avanzava un’idea geniale ma, come al solito, non arrivava a trarne tutte le conseguenze. Da una parte, infatti, notava giustamente che uno dei più potenti meccanismi di controllo e di esclusione esercitati dal potere nella società contemporanea è quello della manipolazione del discorso e del controllo sulla parola. D’altro canto, l’esigenza che sottende al dire, l’esigenza che spinge gli uomini a parlare è la volontà di verità, ma questa volontà di verità - e qui Foucault sbagliava - avrebbe l’implicazione negativa di alimentare l’esclusione, grazie al suo stesso essere assertivo. In parte ciò è vero, ma se non si cerca la verità, o almeno “una” verità provvisoria, per manifestarla con la parola, come si può riuscire a smascherare il meccanismo del controllo e dell’esclusione?
È quello che accade oggi con l’islam su cui l’unico discorso veramente lecito è quello dell’esecrazione e del sospetto, sulla base della convinzione che si tratti di un pericolo mortale per la civiltà (dell’Occidente ovviamente, come se ce ne fosse una sola). Se volessimo applicare la parresia che viene stimolata dalla volontà di verità, potremmo ritornare alla conoscenza e alla storia, e accorgerci che ciò che sta accadendo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso non è l’erompere irrazionale di forze magmatiche che risalgono dalle profondità dell’inferno, di un inferno dove Maometto veniva atrocemente punito da Dante come seminatore di scisma (nel Medioevo l’islam era spesso dipinto come un’eresia cristiana). Il jihadismo invece ha una storia, un perché.
L’opinione pubblica in Occidente si ferma attonita davanti ai suoi morti, ma deve imparare a ragionare freddamente, deve imparare a individuare le radici della malattia per combatterla. E queste radici non stanno nell’intrinseca violenza dell’islam come farneticano alcuni intellettuali, politici e opinion makers. Anche se ci volessimo fermare al testo base, il Corano, disconoscendo le conquiste di scienza, d’arte e di pensiero dell’islam lungo quindici secoli, il Corano contiene sì versetti bellicosi, ma anche versetti come il seguente: «O uomini, invero Noi [è Dio che parla, NdA] vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù perché vi conosceste a vicenda» (49,13). Dunque, il pluralismo e il rispetto reciproco sono voluti da Dio, sono insiti nell’islam.
Pertanto non vale richiamare ridicoli parallelismi tra il Corano e il Mein Kampf, se non si dice la verità storica, se non si formula un discorso storico che smaschera il meccanismo dell’esclusione. Perciò è necessario cominciare col colonialismo tra Ottocento e Novecento, con l’espropriazione violenta della libertà e della cultura dei popoli afro-asiatici (e musulmani) in seguito all’espansione imperialistica. L’impatto violento, attraverso il colonialismo, sulla visione del mondo musulmana da un lato le ha fatto (in parte) smarrire l’identità, dall’altro ha suscitato reazioni di antagonismo anche radicale.
L’atteggiamento colonialista dell’Occidente in realtà non è mai finito, anche dopo che i Paesi musulmani hanno conquistato l’indipendenza. La pesante ingerenza euro-americana in Medioriente, fino agli ultimi anni, dall’Afghanistan all’Iraq alla penisola araba, ha dato una motivazione a Bin Laden nell’organizzare al-Qaeda. Il jihadismo si è poi alimentato nel marasma delle dissoluzioni delle statualità mediorientali, come in Libia, in cui la caduta di Gheddafi è stata determinata decisivamente dall’intervento franco-britannico.
Nello stesso orizzonte si colloca naturalmente la questione israelo-palestinese, una ferita mai sanata dal 1948 (nascita dello Stato di Israele) fino ad oggi, con tutto quanto ha comportato in termini di guerre, destabilizzazione regionale, sradicamento di popoli, fronti del “rifiuto”.
Sul piano interno ai Paesi arabi-musulmani, i regimi dittatoriali - per decenni sostenuti proprio dall’Occidente che ipocritamente predica una democrazia a suo uso e consumo - hanno annientato la società civile, rendendola fragile e incapace di sviluppare anticorpi efficaci contro la negazione dei diritti. E infine, last but not least, una devastante crisi economica e sociale, favorita dall’applicazione di un liberismo selvaggio, iniziata già a partire dalla fine degli anni Settanta, ha depauperato le classi medio-basse.
In questo humus, la propaganda aggressiva di predicatori estremisti, il richiamo al jihad di organizzazioni spesso, se non create, alimentate per fini egemonici da Paesi strategicamente importanti (leggi l’Arabia Saudita), l’insipienza della strategia occidentale (leggi la miope emarginazione dell’Iran) e le stesse divisioni interne tra i Paesi chiave (come gli Stati Uniti e la Russia) hanno preparato il terreno a un incancrenirsi del jihadismo che rischia di affascinare ampi settori di popolazione, soprattutto giovanile, disadattata e in cerca di un Welfare che la società di mercato non offre più.
La parresia storica dunque fornisce una chiave di interpretazione credibile e non semplicistica. La ponderazione degli elementi che compongono questo quadro, la correzione delle storture che ne emergono sono gli unici veri mezzi per andare alle radici di quello che chiamiamo, con un termine che non spiega nulla, ma si limita ad accrescere spavento e insicurezza, “terrorismo”. A ciò dovranno aggiungersi la conoscenza e l’educazione, nelle scuole, nelle università, nei mass-media che plasmano l’opinione pubblica ma che finora consentono, come diceva Foucault, un solo tipo di discorso lecito.
Mohsin Hamid.
L’autore pachistano: “L’attacco a Msf è l’ultimo orrore di un conflitto disumano”
“Tanti innocenti vittime di guerra, un uomo non è una statistica”
intervista di Anna Lombardi (la Repubblica, 05.10.2015)
“LA GUERRA è questa: disumana. Assistiamo al collasso di tutte quelle retoriche che ancora dicono che l’uso della forza potrà ristabilire l’ordine. L’attacco all’ospedale di Medici senza frontiere è solo l’ultimo di una serie di eventi inutilmente tragici di cui siamo testimoni». Lo scrittore pachistano Mohsin Hamid, autore del bestseller Il fondamentalista riluttante , è uno dei più lucidi intellettuali del suo paese. «Non ci sono combattenti buoni e cattivi. Gli orrori accadono di continuo da entrambe le parti».
Gli orrori accadono. Ma qui si è trattato, nella migliore delle ipotesi, di un gravissimo errore. ..
«In un luogo dove c’è una situazione di guerra radicata come l’Afghanistan, la verità è molto difficile da dedurre: perché ce ne sono molte. Ma che si sia trattato di un incidente o di un attacco de-liberato, è senz’altro un atto gravissimo».
Il capo delle operazioni militari americane ha detto che l’attacco è avvenuto per fermare i Taliban che sparavano sui militari. Colpire i terroristi vale la morte di così tanti civili?
«Un attacco aereo che distrugge un intero ospedale non è certo una risposta adeguata. Purtroppo non è la prima volta che accade. Il clamore oggi è dato dal fatto che è l’ospedale di una importante organizzazione occidentale di cui io stesso ho molta stima. Ma ci sono stati altri ospedali distrutti durante questa guerra di cui nessuno ha parlato. Altri ”danni collaterali”, altre vittime che finiscono per essere solo statistiche».
Parlare di “danni collaterali” è un modo per dire che la vita di un innocente vale meno di quella di un soldato?
«C’è da stupirsi? È in questo che consistono le guerre. Questo episodio è solo l’ennesimo ripugnante episodio. Certo, in luoghi dove non c’è guerra il concetto di “danni collaterali” sembra impensabile: ma per assicurarsi la morte di un terrorista questo tipo di “danni” sono avvenuti anche in città pachistane che non sono in guerra. Questo attacco ci ricorda che ormai il mondo è diviso in due: chi vive in pace, anche se magari martoriato dalla crisi. E chi vive in guerra un orrore quotidiano che può arrivare da ogni parte».
Cosa intende?
«Nella parte di mondo in guerra, diritto e dignità umana sono ormai stati abbandonati. E per la gente in Afghanistan, ma anche in Siria, in Iraq, i cattivi possono cambiare continuamente: la gente martoriata di volta in volta dagli Stati Uniti, dalla Russia dallo Stato Islamico, dai Taliban dall’esercito locale. Per questo la gente fugge, ci sono milioni di rifugiati alle porte d’Europa: la gente vuol lasciare il mondo della guerra e andare nel mondo della pace. Vuole vivere: andare in luoghi dove non è accettabile bombardare ospedali e uccidere civili».
Medici senza frontiere è un’organizzazione così rispettata per il suo impegno da aver vinto il Nobel per la pace nel 1999. Non è paradossale che a bombardare il suo ospedale sia stato l’esercito che ha come comandante in capo un altro Nobel per la pace, il Presidente Obama?
«I medici e i volontari di Msf e altre organizzazioni simili sono veri eroi. La loro scelta di credere nella vita così tanto da affrontare i rischi di una guerra ci ricorda che ciascuno di noi può fare cose straordinarie. Quanto ad Obama, continuo a credere che abbia un ruolo storico importante. Né credo che questo bombardamento gli sia imputabile, anche se naturalmente condivido il paradosso. Lo ritengo ancora un uomo di buona volontà, quel che ha fatto con Cuba e l’Iran lo dimostra: ma che si trova davanti a un mondo complicato. Una guerra infinita che nessuno vince e non accenna a finire. Dove servirebbero nuove soluzioni».
Il New York Times denuncia il fallimento del programma americano per formare forze afgane affidabili. Cosa non funziona?
«Quella afgana è una società ferita e violenta. I suoi nodi sono profondi e difficili da risolvere. Non è la guerra la soluzione. È una società che avrebbe bisogno di strumenti per maturare: scuole, lavoro. Solo allora, e nel giro di almeno una, due generazioni, cambierà qualcosa. Se invece continui a ritrovarti fra una guerra e l’altra, cerchi solo di capire a quale carro del vincitore è meglio attaccarti per sopravvivere».
Benigni show in Senato: ’Dante voleva fondare il Pd, politico fiorentino con caratteraccio’
Grasso: ricordarlo per riscatto morale dell’Italia
di Redazione ANSA *
Ovazione per Benigni in Senato. Neanche l’ufficialità delle celebrazioni per i 750 anni della nascita di Dante tiene a freno l’esuberanza del regista e attore premio Oscar che inizia la sua performance nell’aula di palazzo Madama con battute sullo stesso Senato, su Renzi e sul PD. "Questo anniversario cade al momento giusto: se fosse arrivato tra due anni il Senato lo avrebbero trovato chiuso", esordisce Benigni nell’aula di Palazzo Madama, davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al presidente del Senato, Pietro Grasso, al presidente emerito, Giorgio Napolitano, e ad altre autorità. "Questo è proprio un posto dantesco - aggiunge il premio Oscar - del resto Dante si è occupato di politica, intendeva la politica come dovrebbe essere considerata oggi, poter servire, costruire. Era impegnatissimo, ma si è fatto molti nemici per il suo caratteraccio. Del resto, si sa - sorride alludendo al premier Renzi - che i politici fiorentini hanno un caratteraccio. Non gli andava bene essere guelfo, bianco o nero, né ghibellino. Voleva far parte per se stesso, fondare il partito personale di Dante, insomma il Pd dell’epoca", ironizza. Dopo un’analisi della bellezza della Commedia e della sua lingua straordinaria, Benigni comincia a recitare a memoria il canto XXXIII del Paradiso.
Alla fine tutta l’aula di Palazzo Madama si è alzata in piedi alla fine della performance del premio Oscar. Tra i presenti, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il presidente del Senato Pietro Grasso, il presidente emerito Giorgio Napolitano, il ministro dei Beni culturali e del Turismo Dario Franceschini e il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, cardinale Gianfranco Ravasi. "La Divina Commedia - ha sottolineato Benigni - è un miracolo, è un’opera la cui bellezza mozza il fiato", scritta in una lingua "che pur avendo oltre 700 anni si comprende ancora". E il canto più bello, a giudizio dell’attore e regista, "è proprio il XXXIII del Paradiso, l’ultimo, in cui c’è la perfezione dell’alveare, è proprio un diamante, un dono incredibile davanti al quale si rimane come sospesi".
Papa: Dante ci aiuti in tante selve oscure della storia - "Dante è profeta di speranza", diamo "onore" a Dante, arricchiamoci "della sua esperienza per attraversare le tante selve oscure ancora disseminate nella nostra terra e compiere felicemente il nostro pellegrinaggio nella storia". Così il Papa per i 750 anni della nascita dell’Alighieri, la cui Commedia è "paradigma di ogni autentico viaggio" dell’umanità.
L’opera e il pensiero di Dante Alighieri ci servono oggi "per ribadire la volontà di riscatto morale attraverso la cultura" dell’Italia. Lo ha sottolineato il presidente del Senato Pietro Grasso celebrando il 750 anniversario della nascita del poeta a palazzo Madama alla presenza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
"L’attualità di Dante risulta infatti sempre viva in ogni settore della cultura, della scuola, ma anche fuori dagli ambienti accademici, prova ne sia la moltiplicazione e la grande affluenza di pubblico all’antica consuetudine delle Lecturae Dantis diffuse in ogni parte d’Italia e all’estero: contributo prezioso - ha spiegato il presidente Grasso parlando in aula al Senato - alla circolazione del messaggio poetico dantesco, stimolo alla lettura e alla riscoperta soprattutto della Divina Commedia, e di cui avremo oggi, grazie alla generosità di Roberto Benigni, un esempio insieme efficace e profondo. Una "lettura", la sua, che ha già avuto successi e riconoscimenti per aver saputo, mantenendo il massimo di adesione al modo e al tono della lettura antica, far rivivere e trasmettere a tutti noi l’emozione di una poesia che vive da settecento anni nell’ammirazione e nell’amore dei lettori in tutto il mondo".
Pietro Grasso ha ricordato che "nel 1865, pochi anni dopo l’Unità d’Italia, per il Sesto Centenario della nascita di Dante in tutto il Paese ci fu un grande fervore di iniziative per celebrare la ricorrenza". Commemorazioni che, ha aggiunto, che "intendevano, attraverso quei gesti, affermare il loro legame storico e sentimentale con l’Italia appena unificata". "Quel fermento vide insieme la volontà di rendere omaggio, nel modo più solenne, al sommo Poeta - ritenuto a ragione il "padre della lingua italiana" - ma anche quella di assumere Dante come simbolo della nuova Italia nata dal Risorgimento", ha spiegato il presidente del Senato.
La musulmana Commedia
Maometto è all’«Inferno», ma sempre più indizi suggeriscono che il poema abbia fonti arabe
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, La Lettura, 15.02.2015)
Nel 750° della nascita di Dante, una cospicua serie di occasioni editoriali riporta sulla scena - in una fase storica peraltro tragicamente sensibile a questi temi - il discusso rapporto tra l’Alighieri e il mondo arabo. Intanto, la riproposta dell’autentico classico sull’argomento: lo studio del gesuita spagnolo Miguel Asín Palacios, L’escatologia islamica nella Divina Commedia (in libreria per Luni editore con introduzione di Carlo Ossola), che al suo apparire, nel 1919, fu tanto pionieristico da scatenare accese polemiche tra i dantisti italiani, scandalizzati dall’ipotesi di un influsso dei modelli arabo-islamici sul poema dantesco.
Si sarebbe poi scoperto che tra questi testi agì certamente il cosiddetto Libro della Scala di Maometto, che narra il viaggio notturno del profeta e la sua ascesi al cielo: un’opera (il cui originale arabo, dell’VIII secolo, è andato perduto) diffusa in Europa attraverso due versioni, in latino e in francese. Fu sicuramente il notaio toscano Bonaventura da Signa, esule alla corte toledana di Alfonso il Savio dopo il 1260, l’autore della traduzione latina, edita nel 1949 da Enrico Cerulli e riproposta lo scorso anno per le attente cure di Anna Longoni (Bur).
Maria Corti ebbe il merito di riprendere la questione dei contatti tra cultura arabo-islamica e letteratura cristiana in epoca medievale (in primo luogo studiando il canto di Ulisse e il passaggio delle Colonne d’Ercole), e di approfondire in particolare l’ipotesi di un rapporto intertestuale tra il Libro e la Commedia. Si trattava poi di capire come Dante ne fosse venuto a conoscenza, tenendo presente che l’ipotesi ricorrente accreditava come chiave di volta la mediazione di Brunetto Latini, il maestro dell’Alighieri che frequentò la corte di Toledo; probabilmente l’opera era più diffusa di quel che si pensa. Di recente il filologo Luciano Gargan ha trovato il Libro citato nell’inventario di una piccola biblioteca raccolta da un frate domenicano, Ugolino, e donata nel 1312 al convento bolognese di San Domenico: e Gargan ( Dante, la sua biblioteca e lo studio di Bologna , Antenore) suppone che Dante abbia potuto avvicinarsi alla leggenda islamica durante i suoi soggiorni bolognesi.
A tutto ciò si aggiunge ora uno studio che uscirà nel prossimo numero dei «Quaderni di filologia romanza», diretti da Andrea Fassò (maggio-giugno 2015, Patron editore). Si tratta di una Lettura (faziosa) dell’episodio di Muhammad proposta dal filologo di origine egiziana Mahmaoud Salem Elsheikh, allievo di Gianfranco Contini, curatore di diversi testi italiani delle origini e fino al 2007 responsabile dell’Ufficio Filologico dell’Opera del Vocabolario Italiano.
Il saggio dedica una prima parte al trattamento riservato, nelle varie traduzioni arabe, ai versi «offensivi» del XXVIII dell’ Inferno riguardanti il profeta dell’islam e il suo genero Alì: un canto «splatter» di rara violenza verbale in cui i due fondatori dell’islam, finiti nella nona bolgia come seminatori di scismi, esibiscono orrende ferite e mutilazioni, esatto contrappasso delle divisioni di cui sarebbero stati responsabili. Ecco Maometto squarciato dal mento «infin dove si trulla» (cioè fino all’ano, ovvero dove si scorreggia) e Alì con la faccia sfigurata dal mento alla fronte.
Non potendo tollerare una tale offesa, i traduttori arabi, pur inebriati dall’ipotesi di una influenza della loro cultura nel poema dantesco, lavorano di forbici. Siamo nel 1930 quando Taha Fawzi pubblica al Cairo un profilo biografico di Dante, con «una sobria e puntuale analisi delle opere minori e un garbato riassunto delle tre cantiche». In contemporanea, fra il 1930 e il ’33, tocca al libanese Abbud Abu Rašid, naturalizzato italiano, dare alle stampe una versione in prosa in cui vengono cassati i nomi di Maometto e di Alì: una «traduzione, resa quasi illeggibile dalle molte chiose sovrapposte e intricate». Più radicale sarà l’intervento del giordano cristiano Amin Abu Sha’ar, che nella sua traduzione in prosa dell’ Inferno , uscita a Gerusalemme nel 1938 e basata sulla versione inglese di Henry Francis Cary, decide di saltare non solo il canto XXVIII ma anche il XXIX e il XXX.
Servono quarant’anni di lavoro all’egiziano Hassan Uthman per portare a termine una «pregevole» traduzione apparsa tra il 1955 e il ’69, condotta sull’originale e corredata da un ampio commento didascalico. Uthman taglia però i versi 22-64, poiché «inadatti alla traduzione» e frutto di «un grossolano errore» dovuto all’influenza di «quanto in quell’epoca era opinione comune sul grande Profeta».
Meno riuscito il tentativo di rendere la Commedia in versi da parte dell’iracheno Kazim Jihad, il quale nel 2002 con il contributo dell’Unesco, fornì, secondo Elsheikh, «una traduzione assolutamente incomprensibile»: i nomi di Maometto e di Alì vengono sostituiti da puntini di sospensione tra parentesi tonde. È la decisione che prende anche il siriano Hanna Abbud nella sua traduzione damascena dello stesso anno, cercando di «camuffare l’identità dei personaggi fino a rendere incomprensibile il passo dantesco».
Venendo all’immagine di Muhammad diffusa nel Medioevo cristiano, Elsheikh si sofferma sulle rappresentazioni offensive. Si comincia dalle cadute provocate dall’apparizione dell’arcangelo Gabriele, che vengono interpretate come stratagemma per mascherare l’epilessia. E si prosegue con le narrazioni che lo vogliono monaco arrivista, impaziente di diventare patriarca di Gerusalemme (così lo vede Ildeberto di Lavardin, arcivescovo di Tours, all’inizio del XII secolo), oppure mago pseudo-profeta e capo dei ladroni (secondo una leggenda tramandata anche da Jacopo da Varazze alla fine del XIII secolo). Altri (Ricoldo da Montecroce, morto nel 1320) lo descrivono come diavolo invidioso delle vittorie altrui.
C’è poi il filone che lo immagina cardinale romano, addirittura della famiglia Colonna: così nei rifacimenti toscani del Tresor di Brunetto Latini. Nel secondo in particolare, del 1310, con il nome di Pelagio vuole farsi eleggere papa ma non ci riesce per l’opposizione della maggioranza dei cardinali. Diventa così Malchonmetto (ovvero Maometto, perfida coniazione secondo etimologia popolare) e se ne va errando e predicando. L’anonimo versificatore prosegue narrando che Maometto, aggredito da un drappello di porci, viene morso da una scrofa che gli provoca la fuoriuscita del cervello e quindi la morte: sarebbe per questo che i musulmani non mangiano carne di maiale. La tradizione orale occidentale, che si cristallizza nella scrittura, tende a dimostrare che Muhammad fu «un cristiano o un mago ingannatore ammaestrato da un cristiano (con l’aiuto di qualche ebreo) e che l’islam è propaggine eretica del cristianesimo». Dunque Dante non fa che stare nel solco della leggenda vulgata nella sua epoca.
Il canto XXVIII, secondo Elsheikh, è strutturato su una «carica fonica irta e segmentata, che sottolinea la brutale aggressività delle immagini», con la ricerca di vocaboli comico-realistici, «al limite della volgarità» intenzionalmente orientati a dipingere il personaggio con coloriture grottesche e persino buffonesche che non hanno pressoché eguali in tutta la Commedia. Ma c’è di più. Lo studioso segnala vistose affinità tra il poema dantesco e l’archetipo del Libro della Scala , cioè la più antica versione dell’ascensione ( mi’raj ), attribuita ad Anas ibn Malik, discepolo del Profeta, morto nel 712: un testo a lungo tramandato per via orale fino ad arrivare, variamente elaborato, in opere latine antimusulmane diffuse in Europa.
È un racconto scabro del viaggio di Maometto, ma guarnito di elementi che non verranno ripresi dai testi latini e che rimangono dunque unici. Tra questi, l’immagine di Gabriele che, prima dell’ascensione, apre il ventre e il torace del Profeta, lo svuota e lo purifica riempiendolo di fede e di sapienza. Il taglio «dalla cavità della gola fino al basso ventre» è l’equivalente quasi letterale del dantesco «rotto dal mento infin dove si trulla». A ciò si aggiunge il passo che riguarda Alì, «fesso nel volto dal mento al ciuffetto», il cui squarcio prosegue idealmente quello del Profeta (sfregiato dalla gola in giù), a segnalare l’ulteriore divisione dell’islam tra sunniti e sciiti. Ebbene, di quella lesione, che avvenne nei fatti, Dante poté aver saputo solo attraverso la cronaca araba dello storico ibn al-Athir o da qualche suo ignoto derivato. Per quali vie l’Alighieri si appropriò delle immagini di ibn Malik e di ibn al-Athir? Non lo sappiamo, perché, secondo Elsheikh, il «mosaico che compone la conoscenza arabo-islamica di Dante» va ancora adeguatamente ricostruito.
Ed eccoci giunti a quella che lo stesso Elsheikh definisce una «mera ipotesi provocatoria». Si tratta di una congettura psicologica, la «sindrome del debitore». Dante si accanirebbe con particolare ferocia contro i suoi antichi modelli culturali in seguito ripudiati: tra questi il sodomita Brunetto con il suo carico di colpe panarabistiche; ma anche il poeta provenzale Bertran de Born, segnalato nel De vulgari eloquentia come il maggior cantore delle armi, che compare nello stesso XXVIII con il capo mozzo tenuto in mano «a guisa di lanterna», a saldare la simmetria strutturale del canto, nella bolgia dei «creditori colpevoli». Come furono Maometto e la sua cultura? Forse. Il crudele «contrappasso» (parola citata qui per l’unica volta in tutto il poema) sarebbe dunque, tutto sommato e per paradosso, un riconoscimento di cui i fratelli di Elsheikh dovrebbero andare fieri. Altro che censura...
Pakistan, folle attacco dei talebani a scuola. Lutto nazionale: ’E’ il nostro 11 settembre’
"Spari a bruciapelo contro bambini", almeno 141 morti in Pakistan
di Maurizio Salvi *
ISLAMABAD
Il brutale attacco da parte di un commando di talebani alla Scuola pubblica militare di Peshawar che ha causato la morte di 141 persone di cui 132 bambini ed adolescenti "e’ il nostro 11 settembre". Lo scrive in prima pagina il quotidiano The Express tribune di Islamabad. Mentre il Pakistan osserva il primo dei tre giorni di lutto nazionale decretato dal governo, il giornale scrive che questo atto "e’ il nostro 11/9. E’ un attacco al futuro del Pakistan, ai suoi giovani figli e figlie". "Gli abitanti di Peshawar - si dice ancora - non sono alieni a al dolore e al lutto. Ma mai questa citta’ ha vissuto qualcosa di tale grandezza nei 2.500 anni della sua storia". Il primo ministro pachistano Nawaz Sharif, giunto ieri a Peshawar per coordinare il piano di risposta all’attacco presiedera’ oggi in citta’ un vertice di tutti i partiti presenti in Parlamento per concordare una lotta piu’ efficace al terrorismo.
Con una furia contro bambini e civili innocenti senza precedenti nella storia del Paese, i talebani del Tehrek-e-Taliban Pakistan (TTP) hanno attaccato oggi a Peshawar una scuola pubblica gestita dai militari sparando all’impazzata ed uccidendo, al termine di nove ore di follia e scontri con le forze di sicurezza, 141 persone, di cui ben 132 bambini e adolescenti. I feriti sono invece 124, di cui 121 minori.
Unanime la condanna mondiale del gesto terroristico.
Malala, l’adolescente pachistana appena insignita del premio Nobel per la Pace e che questi stessi talebani tentarono di uccidere, ha parlato di "un attacco atroce e vile".
Il presidente Usa Barack Obama ha tuonato contro "la depravazione" degli assalitori, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki moon ha definito l’azione "un atto di vigliaccheria" e il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni non ha esitato a bollare l’accaduto come "un crimine contro l’umanità".
I talebani afghani hanno criticato l’eccidio compiuto in Pakistan in una scuola dagli uomini di Tehrek -e-Taliban. Lo riferisce la Bbc online. Il portavoce Zabihullah Mujahid ha detto che "l’emirato islamico è scioccato da quanto avvenuto e condivide il dolore delle famiglie dei bambini uccisi nell’attacco".
Sembrava una giornata come molte altre nella ’Army Public School’, una struttura del nord-ovest pachistano che ospita centinaia di scolari e studenti fra i 6 ed i 17 anni, quando intorno alle 10.30 (le 6.30 italiane) è invece letteralmente "scoppiato l’inferno". Un commando di sette militanti pesantemente armati, fra cui almeno un kamikaze, sono infatti penetrati nel compound dell’istituto scolastico che si trova sulla Warsak Road vestiti con uniformi militari false ed hanno subito preso in ostaggio un gruppo di giovani nella zona dell’auditorium. Mentre questo succedeva, il portavoce del TTP, Muhammad Khorrasani, ha rivendicato l’attacco sostenendo che si trattava di una "vendetta" per i tanti militanti talebani catturati ed uccisi nei territori tribali durante le operazioni militari di questi mesi nel Waziristan settentrionale e nella Khyber Agency. "Abbiamo scelto con attenzione l’obiettivo da colpire con il nostro attentato", è stato il folle messaggio, perché "il governo sta prendendo di mira le nostre famiglie e le nostre donne. Vogliamo che provino lo stesso dolore". Poi, per sottolineare la determinata ferocia dell’attacco, uno dei membri del commando si è fatto esplodere fra la gente, causando decine di vittime. In un quadro di grande confusione e di terrore, moltissime persone sono riuscite comunque a mettersi in salvo per raccontare ai media gli orrori di cui erano stati testimoni.
Imperterriti i militanti hanno proseguito la loro missione omicida entrando con le armi in pugno classe per classe sparando a bruciapelo contro chiunque incontrassero. "Come in una macabra processione - ha raccontato Musdassar Abbas, tecnico del laboratorio di fisica della scuola - sei o sette di loro sono entrati nelle aule e hanno sparato contro professori ed allievi come in un tiro al bersaglio". E ancora, una fonte dell’esercito ha raccontato alla tv americana Nbc che i terroristi avrebbero dato fuoco ad un insegnante e costretto i bambini a guardarlo mente moriva. "Sono entrati in classe - ha assicurato un testimone - ed hanno gettato della benzina sul corpo dandogli fuoco". Durante tutto l’attacco i talebani hanno fatto esplodere rudimentali ordigni, almeno 12, che hanno reso ancora più drammatica la situazione. Poi, a poco a poco, le forze di sicurezza hanno preso possesso dei quattro edifici scolastici, riuscendo ad uccidere tutti gli assalitori e mettendo così fine alla loro crudele impresa. Un attacco che riceverà un’immediata risposta da parte delle forze di sicurezza: il premier pachistano Nawaz Sharif, condannando l’assalto, ha detto che la campagna militare in Nord Waziristan, lanciata a metà giugno ed entrata nella fase finale, "continuerà fino a che non saranno eliminati tutti i terroristi".
* ANSA, 17 dicembre 2014 (ripresa parziale)
Pakistan, attacco talebano a scuola: 132 morti, è strage di studenti
Circa 250 feriti ricoverati in ospedale, insegnante arso vivo. Malala: attacco atroce e vile.
Renzi: ’Orrore inconcepibile, mondo reagisca’
di Redazione ANSA ISLAMABAD *
Un commando di una decina di talebani pachistani, vestiti con false divise militari, ha fatto irruzione nella Scuola pubblica militare di Peshawar (Pakistan nord-occidentale) compiendo un massacro con un bilancio provvisorio di almeno 132 morti, di cui un centinaio di scolari e studenti fra i 6 ed i 17 anni. Cominciata intorno alle 10,30 locali (le 6,30 italiane), l’operazione terroristica rivendicata dal Tehrek-e-Taliban Pakistan (TTP), il più importante movimento talebano pachistano, non si era ancora conclusa circa otto ore dopo.
’’Un attacco atroce e vile’’. Così la premio Nobel Malala Yousafzai ha definito il massacro in Pakistan. ’’Sono straziata da questo atto di terrorismo assurdo e spietato’’, ha aggiunto.
"Abbiamo scelto con attenzione l’obiettivo da colpire con il nostro attentato. Il governo sta prendendo di mira le nostre famiglie e le nostre donne. Vogliamo che provino lo stesso dolore", ha detto il portavoce del movimento, Mohammed Umar Khorasani. Secondo l’ufficio stampa dell’esercito (Ispr) quattro militanti sono morti mentre gli altri sono ora raccolti nell’ultimo dei quattro edifici di cui è composta la scuola. Le forze di sicurezza pachistane hanno circondato l’edificio, impegnandosi in un lungo scontro a fuoco con gli insorti, mentre regolarmente dall’esterno si sentiva il fragore di ripetute esplosioni.
Secondo quanto raccontato da una fonte dell’esercito alla tv americana Nbc, i terroristi avrebbero dato fuco ad un insegnante e costretto i bambini a guardarlo mente moriva. "Sono entrati in classe e gli hanno gettato della benzina su tutto il corpo e gli hanno dato fuoco", ha raccontato il testimone.
"Bambini, bambini uccisi, bambini uccisi a scuola. Inconcepibile. Il mondo deve reagire all’orrore". Così il presidente del Consiglio Matteo Renzi su Twitter.
L’alto bilancio di vittime è dovuto, secondo i media pachistani, al fatto che uno degli attentatori si è fatto ad un certo punto esplodere all’interno dell’edificio in una zona affollata e che poi i militanti hanno allineato un gruppo di studenti più grandi in una stanza, uccidendoli a bruciapelo.
Le autorità delle provincia di Khyber Pakhtunkhwa hanno decretato l’emergenza in tutti gli ospedali di Peshawar e della provincia, sollecitando la popolazione a donare sangue per le decine di feriti. Come sottolineato dal loro portavoce, Muhammad Khurassani, i talebani considerano questa una rappresaglia per le operazioni militari, cominciate in giugno ed in ottobre, in due territori tribali (Waziristan settentrionale e Khyber Agency) al confine con l’Afghanistan in cui sono morti centinaia di militanti. Secondo gli insorti, però, molti di essi non sarebbero stati uccisi dalle forze di sicurezza in combattimenti, ma giustiziati dopo la cattura.
* Ansa, 16 dicembre 2014 (ripresa parziale).
Cultura islamica di padre Dante
di Carlo Ossola (Il Sole-24 - Domenica, 14.12.2014)
«Hic incipit liber qui arabice vocatur Halmahereig, quod latine interpretatur: "in altum ascendere". Hunc autem librum fecit Machometus et imposuit ei hoc nomen» («Qui comincia il libro che in arabo si intitola Halmahereig, che in latino significa: "salire in alto". Maometto lo compose, e gli diede tale nome»). Ben prima che Enrico Cerulli pubblicasse, nel 1949, il Libro della scala. La questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, un grande studioso spagnolo, Miguel Asín Palacios (Saragozza, 5 luglio 1871 - San Sebastián, 12 agosto 1944) aveva posto, con una erudita e vastissima messe di allegazioni, il problema dei contatti tra la struttura della visione di Dante e le tradizioni dell’ascensione o mi’ra-’g’ di Maometto nei regni dell’oltretomba.
Il suo saggio La escatología musulmana en la Divina Comedia, pubblicato nel 1919, suscitò polemiche enormi; non si riconosceva più, nell’autore, il sacerdote pieno di dottrina che aveva edito l’Averroísmo teológico en Santo Tomás de Aquino (1904), bensì un avventuroso e incauto assertore di contatti immaginari, e proprio alla vigilia del VI centenario della morte di Dante (1921).
Naturalmente il libro non venne tradotto in italiano, ma trovò un recensore attento nel grande arabista francese Louis Massignon, che gli consacrò, nello stesso 1919, un lungo saggio ora ripreso, da Andrea Celli, nel prezioso volume dello stesso Massignon, Il soffio dell’Islam. La mistica araba e la letteratura occidentale (Medusa, 2008).
Asín conosceva i resoconti del viaggio di Ricoldo da Montecroce, ma morì prima di aver potuto vedere l’edizione del Liber de scala, che certo avrebbe portato ben altri suffragi alle sue tesi (esso è ora edito da Anna Longoni, Rizzoli-Bur, 2013).
Nei cinquant’anni dalla morte di Asín Palacios proposi all’editore Pratiche di pubblicare il volume (nell’ottima traduzione di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik) e da allora il libro si è ristampato, sino alla presente edizione, nella quale propongo il bilancio di ulteriori vent’anni di indagini. Dalle parallele ricerche di Maria Corti, e poi di più giovani studiosi - da Andrea Celli a Luciano Gargan -, è apparsa evidente l’ampia circolazione occidentale del Liber de scala, sino alla menzione di una copia del Liber de scala nell’inventario della biblioteca di un domenicano bolognese ai tempi di Dante.
Ora non si tratta né di attingere a tipologie intemporali che riunifichino i culti, come fece Frazer, e neppure di voler immaginare filiazioni dirette, bensì - ben vide Maria Corti - ritrovare costellazioni di testi e di senso che circolarono con libertà e influenze reciproche nel Mediterraneo della fine del Medioevo (Mediterraneo oggi irriconoscibile, per fratture e reciproca ignoranza, rispetto alla sua storia plurimillenaria).
Si tratta, ancor più, di sceverare ciò che è della "memoria collettiva" di tutte le tradizioni semitiche (ad esempio, il capitolo XXXIII che «parla del Paradiso in cui fu creato Adamo, e dei fiumi che in esso si trovano») da ciò che è più tipico di una tradizione araba che si innerverà in Occidente («Il XXVI capitolo parla di come Dio fece molteplici mondi e creature di molteplici specie»), e dai luoghi che possono aver suscitato l’attenzione di Dante e che ho ampiamente esaminato nell’"Introduzione".
Oggi, nel ripubblicare il volume, occorre riconoscere la funzione storica che il saggio ebbe, e rendere onore a Miguel Asín Palacios, probo e coraggioso nel l’aprire un problema storiografico, che non è spento. I libri servono a suscitare ricerche: e mi auguro che questa edizione, prima che nuovi giudizi, riapra le porte dell’inchiesta storica, sì che rientri il vento delle generazioni che corsero le acque e le terre, come vide Julio Cortázar per la parabola di Marco Polo: «Con il mio nome / ho gettato sulle porte la pergamena aperta» (Marco Polo ricorda).
Malala alle donne pachistane: "Lottate"
In videoconferenza a Peshawar durante cerimonia in suo onore
di Redazione ANSA ISLAMABAD
18 novembre 2014
(ANSA) - ISLAMABAD, 18 NOV - Malala, la ragazza coraggio pachistana vincitrice del Premio Nobel per la Pace lo scorso 10 ottobre, ha partecipato a un evento in video conferenza a Peshawar e ha esortato le donne del suo paese a lottare per far rispettare i loro diritti, soprattutto quello all’istruzione.
"Per portare il cambiamento nella nostra società - ha detto tra l’altro alla cerimonia organizzata per festeggiare il Nobel per la Pace - occorre lottare con una forza immensa".
Le scuole pakistane contro Malala Yousafzai
Un’associazione di 150mila istituti privati ha organizzato una giornata contro la 17enne premio Nobel, che nel resto del mondo è diventata simbolo della lotta per l’istruzione delle donne *
Lunedì la Federazione delle scuole private pakistane - che rappresenta circa 150 mila scuole in tutto il paese - ha organizzato una giornata contro Malala Yousafzai, la 17enne pakistana che da tempo si batte per il diritto all’istruzione delle donne nei paesi musulmani, a cui i talebani spararono in testa nel 2012 e che lo scorso ottobre ha vinto il Nobel per la Pace. La giornata è stata chiamata “I am not Malala” (“Io non sono Malala”) in contrapposizione al titolo della biografia della ragazza, che si intitola appunto Io sono Malala. Il libro si chiama così perché l’uomo che tentò di ucciderla nel 2012 sapeva chi era ma non avrebbe saputo riconoscerla in viso, quindi salì sul bus dove Malala si trovava con altre studentesse e chiese: “Chi è Malala?”. Lei rispose “Io sono Malala” e lui le sparò.
L’associazione delle scuole private pakistane ha anche chiesto che la biografia di Malala venga vietata nel paese in quanto offensiva nei confronti dell’Islam e del Pakistan. Mirza Kashif Ali, presidente della federazione, ha spiegato infatti che «siamo tutti a favore dell’istruzione e dell’emancipazione delle donne, ma l’Occidente ha creato questo personaggio che è contro la costituzione e l’ideologia islamica del Pakistan».
Ali ha anche accusato Yousafzai di difendere e «far parte del club» di Salman Rushdie, lo scrittore indiano colpito da una fatwa, cioè una condanna a morte, emessa dall’ayatollah Ruhollah Khomeini nel 1989 per il romanzo I versetti satanici, tuttora vietato in Pakistan. In realtà nel libro è soltanto raccontato che il padre di Yousafzai aveva trovato il libro offensivo verso l’Islam, ma che secondo lui i musulmani dovrebbero leggerlo prima di giudicarlo. La ragazza viene anche criticata per aver indicato il presidente statunitense Barack Obama «come il suo modello», spiega Ali, «anche se è responsabile di migliaia di morti in Pakistan con i suoi droni». Inoltre, dice sempre Ali, nel libro Malala utilizza la parola “Dio” anziché “Allah”, e quando scrive il nome del profeta Maometto non lo accompagna con la tradizionale espressione “la pace sia con lui”. Il presidente dell’associazione ha promesso che l’evento verrà organizzato ogni 10 novembre, finché Yousafzai «si scuserà e rinnegherà la spazzatura anti-pakistana e anti-islamica che ha scritto». La federazione rappresenta circa due milioni di studenti, provenienti soprattutto dalle classi povere e medie del paese, e non comprende invece le istituzioni didattiche più prestigiose ed elitarie.
In Pakistan Malala Yousafzai è considerata un personaggio divisivo, guardata da alcuni come un eroe nazionale e da altri come una fantoccio dell’Occidente che minaccia l’Islam e i valori tradizionali. In Occidente invece è diventata un simbolo della lotta per l’emancipazione femminile da quando, nel 2012, è stata ferita alla testa e al collo da un colpo di pistola sparato da un talebano, mentre stava tornando a casa da scuola a Mingora, nella valle di Swat. Tre anni prima aveva scritto un testo raccontando il caos della città in cui viveva e i roghi delle scuole femminili da parte dei talebani. Il testo fu pubblicato sul sito della BBC e circolò molto in Pakistan. Malala ha ricevuto molti premi e riconoscimenti internazionali, e lo stesso primo ministro pakistano le consegnò il “Premio nazionale per la pace” e un assegno da circa 4000 euro. Al momento studia e vive con la sua famiglia in Regno Unito.
* IL POST, 12 novembre 2014 (ripresa parziale - senza i riferimenti agli allegati)
Nobel per la Pace
Un premio a favore dei diritti dei bambini
La pachistana Malala sopravvissuta a un attacco talebano e l’indiano Satyarthi i due nuovi simboli
di Ugo Tramballi (la Repubblica, 11.10.2014)
«Chi di voi è Malala?». Era il 9 ottobre 2012. Nessuno poteva immaginare - nemmeno il talebano che lo aveva chiesto, convinto di emettere una sentenza di morte - che due anni dopo la vittima designata, centrata alla testa da un colpo di pistola, sarebbe diventata un Nobel per la Pace: all’età di 17 anni, la più giovane di un riconoscimento la cui media dei premiati è di 62 anni. Forse è per questo, per la paura di una straordinarietà ritenuta eccessiva perfino dai giurati del Nobel, che alla fine hanno deciso di dividere il premio, attribuendolo anche a un sessantenne.
Malala, cioè Malala Yousafzai, pachistana diciassettenne, e Kailash Satyarthi, attivista sociale indiano, 60 anni, sono i due protagonisti di quest’anno. La commissione di Oslo li ha scelti per la comune lotta, anche se condotta separatamente, contro lo sfruttamento e in favore del diritto dei bambini all’educazione. La provenienza di entrambi dal Subcontinente indiano è casuale ma non del tutto: musulmani o hindu, è lo spirito millenario di quel luogo che crea persone votate al bene degli altri, con una fede assoluta. È lo spirito gandhiano che nella motivazione della commissione di Oslo, è stato volutamente richiamato.
Uguali le ragioni del premio ma diversi i campi di battaglia nel quale la pachistana e l’indiano lo hanno conquistato. Nel suo Malala deve affrontare un nemico culturale e religioso: l’Islam oscurantista che educa all’ignoranza, soprattutto delle bambine. Già l’anno scorso Malala era nella rosa dei candidati al Nobel: era stata l’età a impedirle di vincere. Quest’anno, per quanto la giovane pakistana fosse ancora minorenne, premiarla aveva una valenza politica.
C’è sempre un messaggio politico nelle scelte fatte a Oslo: a un premiato esplicito corrisponde sempre un implicito biasimo. Si nomina Al Gore per condannare George Bush, un dissidente cinese per punire il regime di Pechino, un attivista del Terzo mondo per evidenziare le colpe del Primo. Il Nobel a Malala, una piccola musulmana dal grande carattere, enfatizza la mostruosità del califfato iracheno; esalta i valori della prima in contrapposizione ai disvalori del secondo.
Il campo di battaglia di Kailash Satyarthi è economico. L’India è uno dei cinque Paesi Brics che già sfidano in crescita le potenze occidentali. Investe molto nell’educazione, la scolarizzazione elementare è ormai garantita al 93%; il Paese produce quasi tre milioni di laureati l’anno nelle sue 17.600 università e mille business schools. Per gli indiani, come per i cinesi e gli ebrei, l’educazione dei figli è un valore assoluto: se sfogliate l’annuario degli alumni di Harvard o Yale troverete migliaia di nomi indiani.
Ma il 25% della popolazione, quasi il 50 di quella femminile, resta analfabeta. È in questa ombra lasciata fuori dal cono di luce della "India Shining", che la povertà continua a prosperare. Si calcola che siano almeno 60 milioni i minori costretti a lavorare spesso in una condizione di reale schiavitù. Satyarthai, con una laurea e un lavoro da ingegnere elettrico, era comodamente dentro il cono di luce dell’India splendente. Ma ha saputo guardare dentro il buio. Viene dal Madhya Pradesh, lo Stato indiano centrale la cui capitale è Bhopal dove nel 1984 ci fu la più grande tragedia industriale della storia: l’esplosione della fabbrica di pesticidi della Union Carbide uccise subito quasi 3mila persone. Ma 500mila ne subirono le conseguenze nei mesi e negli anni a venire, nessuno sa quanti morirono.
Quattro anni prima Satyarthai aveva fondato il Bachpan Bachao Andolan, il Movimento per la salvezza dell’infanzia. Erano bambini la gran parte delle vittime fra gli operai dentro la fabbrica della Union Carbide, e fuori, negli slum a ridosso delle mura del complesso industriale. Negli anni successivi Kailash Satyarthai avrebbe compiuto in tutta l’India degli autentici raid fra i produttori di tappeti, nelle miniere, nelle fabbriche di note marche occidentali per smascherare la condizione di schiavitù nella quale facevano lavorare i minori.
«Chi di voi è Malala?», è invece il culmine di una storia tanto breve quanto più conosciuta e ormai leggendaria. Satyarthi già salvava da anni bambini dando loro un’educazione (sono 80mila a tutt’oggi quelli che gli devono un futuro), quando in una scuola della valle dello Swat, una bambina di due anni e mezzo frequentava le lezioni accanto a bambini di 10. Malala Yousafzai era un prodigio. Nel Pakistan settentrionale tutti ricordano quando i talebani conquistarono lo Swat, imponendo la loro legge islamica e chiudendo 400 scuole. Ancor di più ricordano quando Malala, all’età di 11 anni, convocò una conferenza stampa e gridò nel microfono: «Come osano i talebani, negarmi il mio diritto fondamentale all’educazione?».
«In realtà non volevamo ucciderla, sapevamo che sarebbe stata una cattiva pubblicità sui media», avrebbe poi detto un portavoce dei talebani dello Swat. «Ma non avevamo alternative». Dal loro punto di vista non avevano torto: una bambina ostinata e prima della classe li stava umiliando. Così il 9 ottobre 2012 un talebano salì sullo scuolabus, si fece dire chi fosse Malala e le sparò in testa. Essendoci un Dio pietoso, diverso da quello al quale credono gli estremisti, la ragazzina si salvò. Nove mesi più tardi andò alle Nazioni Unite a tenere un discorso ormai entrato nella storia: «Pensavano che i proiettili ci avrebbero fatto tacere. Ma hanno fallito: da quel silenzio sono venute migliaia di voci». E due anni più tardi, a dicembre a Oslo, Malala riceverà insieme a Kailash Satyarthi il più alto dei premi.
Malala: “I libri che mi aiutano a combattere”
“Amo gli scrittori che fanno conoscere mondi e storie di cui non so nulla”
La ragazza pachistana, vittima della violenza dei taliban, racconta cosa legge
di Jodi Kantor (la Repubblica, 29.08.2014)
MALALA , quale libro stai leggendo in questo periodo?
«Sto leggendo Uomini e topi di John Steinbeck, che è nell’elenco dei libri previsti dal programma scolastico. È un libro corto, ma pieno di molte cose. Rispecchia la situazione degli anni Trenta in America. Sono rimasta affascinata leggendo come erano trattate le donne a quei tempi e che vita facessero i poveri lavoratori itineranti. I libri riescono a cogliere e riflettere le ingiustizie in un modo che ti colpisce e ti resta impresso, ti fa venir voglia di fare qualcosa per risolverle. È per questo motivo che sono così importanti».
Qual è l’ultimo libro che hai letto?
« L’alchimista di Paulo Coelho. Mi piace perché è pieno di speranza e ispirazione».
Quali sono i tuoi scrittori contemporanei preferiti?
«Deborah Ellis (autrice di Il viaggio di Parvana ) e Khaled Hosseini ( Il cacciatore di aquiloni ). Entrambi raccontano storie di giovani che vivono in circostanze difficili, devono fare scelte complesse e trovare la forza di andare avanti. Dipingono in maniera molto accurata le regioni lacerate dai conflitti. Mi piacciono gli scrittori che possono farmi conoscere mondi di cui non so nulla, ma i miei autori preferiti sono quelli capaci di creare personaggi o realtà che sento realistici e familiari, o che riescono a ispirarmi. Ho scoperto i libri di Deborah Ellis nella biblioteca della mia scuola. È accaduto dopo non molto che ero arrivata in Gran Bretagna, e i miei amici mi mancavano moltissimo. Leggere dell’Afghanistan mi ha fatto quasi sentire di nuovo a casa mia. Questo è il potere dei libri: riescono a portarti anche in posti irraggiungibili».
Qual è lo scrittore che preferisci in assoluto?
«Paulo Coelho».
Quali libri raccomanderesti ai giovani di leggere per comprendere la terribile situazione della vita delle ragazze e delle donne pachistane oggi?
« La città di fango, parte della trilogia Il viaggio di Parvana.
Questa serie mi ha letteralmente catturato... non sono riuscita a staccarmene più. Ellis racconta magnificamente l’infanzia in paesi lacerati dalla guerra come l’Afghanistan e il Pakistan».
C’è un libro che vorresti che tutte le bambine del mondo leggessero? Uno che secondo te tutti gli studenti dovrebbero leggere?
« Sotto il burqa, sempre di Deborah Ellis. Il libro narra la storia di una bambina che raccoglie la sfida di salvare la sua intera famiglia. Io penso che tutte le bambine del mondo debbano imparare come sono trattate le donne in alcune società. Ma anche se Parvana è trattata come una inferiore ai maschi e agli uomini, non si sente mai tale. Crede in sé stessa ed è più forte nella sua lotta contro la fame, la paura e la guerra».
Ci sono stati alcuni libri in particolare che ti hanno aiutato a superare il processo di guarigione dopo l’attentato che hai subito per mano dei taliban?
« Il meraviglioso mago di Oz è stato il primo libro che ho letto in ospedale. Per un po’ ho sofferto di forti mal di testa e non potevo concentrarmi su niente. È un libro adorabile, uno dei 25 che mi ha spedito in regalo l’allora premier inglese Gordon Brown, ed è stato il mio preferito».
Quali libri potremmo stupirci di trovare nella tua libreria?
«Breve storia del tempo di Stephen Hawking. L’ho letto in un periodo in cui la vita nel distretto pachistano di Swat era molto difficile. Mi serviva per distrarmi, per evadere dalla paura e dal terrorismo e farmi pensare ad altro cose, per esempio come ebbe inizio l’universo e se è possibile viaggiare nel tempo».
Qual è stato l’ultimo libro che ti ha fatto ridere?
«Il piccolo principe».
E l’ultimo libro che ti ha fatto piangere?
«Non ho mai pianto leggendo un libro».
L’ultimo libro che ti ha fatto infuriare, allora...
«Il mio! È stato molto difficile scriverlo, soprattutto perché volevamo che fosse tutto giusto e che uscisse in un breve arco di tempo. Le giornate di lavoro erano lunghissime, ma ne è valsa davvero la pena».
Che cosa ricordi dei tuoi libri e delle tue letture da bambina?
«Uno dei primi libri che ho letto si intitolava Mai tornerò indietro : era la storia di una bambina che si batteva per i diritti delle donne e l’istruzione in Afghanistan. Ho letto anche una biografia di Martin Luther King, adattata per giovani lettori. In realtà, però, non ho letto tanto da piccola. Nel mio paese molti bambini non frequentano la scuola e non imparano a leggere. In molti non possono permettersi l’acquisto dei libri, e la maggior parte di questi ultimi è di seconda mano.
Io sono stata molto fortunata ad avere avuto un padre che considerava importante l’istruzione e che io fossi in grado di leggere. Uno dei momenti più indimenticabili della mia vita è quando mi è stato chiesto di inaugurare la Biblioteca di Birmingham, la più grande e nuova d’Europa. Non avevo mai visto così tanti libri, tutti accessibili ai membri della comunità. Se solo i bambini pachistani avessero accesso ai libri!».
Se tu potessi obbligare il presidente americano a leggere un unico libro, quale sarebbe?
«Mi piacerebbe suggerirgli di leggerne molti, e tra i tanti anche Il cacciatore di aquiloni, Il piccolo principe, o forse L’alchimista se volesse estraniarsi dal mondo reale e tuffarsi in un mondo immaginario».
E se potessi obbligare il Primo ministro pachistano a leggere un unico libro, quale sarebbe?
«Vorrei suggerirgli Mai tornerò indietro , la storia di Meena, eroina dell’Afghanistan e fondatrice del Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne afgane. E anche Mille splendidi soli».
Qual è il libro più bello che tu abbia mai letto?
« L’alchimista».
E il peggiore?
«Penso che sarebbe irrispettoso dirlo, ma in effetti di recente ne ho letto uno che ho trovato terribile».
-Traduzione di Anna Bissanti © 2014 The New York Times
Dante e il libro di Maometto
Arriva la conferma che nella biblioteca frequentata dal poeta c’era una copia del viaggio nell’aldilà del profeta dell’Islam
di Corrado Bologna (il Sole-24ore Domenica, 22.06.2014)
Aby Warburg elesse a epigrafe della propria ricerca un motto divenuto celebre: «Der liebe Gott steckt im Detail», «Il buon Dio abita nel dettaglio». Nel dettaglio può nascondersi il buon Dio, ma certo anche il perfido Demonio. In una massa enorme di dati, se si individua con sottile sagacia ermeneutica «il particolare giusto» e si riesce ad aprirlo come un forziere, scaturirà un tesoro inatteso, un’intera visione del mondo. Un piccolo dettaglio, allora, diventerà una cornucopia, una bacchetta magica, una lampada di Aladino.
Le ricerche delle Annales lo hanno dimostrato con dovizia, spesso affidandosi a quell’arte della lettura delle tracce che gli inglesi chiamano serendipity. Abbiamo tutti nella memoria, per evocare un caso luminoso, la straordinaria biblioteca in miniatura del mugnaio cinquecentesco Menocchio, che Carlo Ginzburg dedusse dagli interrogatori dell’Inquisizione, e che permise di restituire un fossile culturale di grande importanza: il "Fioretto della Bibbia", il "libro delle cento novelle del Boccatio", il "cavallier Zuanne de Mandavilla" (cioè i Viaggi di John Mandeville), un perturbante, quasi incredibile Corano. «Ma Menocchio», commentava Ginzburg, «non era Montaigne, era soltanto un mugnaio autodidatta».
Quel Corano tra le mani di un mugnaio del XVI secolo in odore d’eresia brilla come una pepita d’oro nella ganga della miniera. Da un’altra miniera strepitosa, gli elenchi dei libri posseduti dalle biblioteche dei grandi Ordini mendicanti dei secoli XIII-XIV e smarriti lungo i secoli, è stato appena scavato un altro simile diamante rarissimo, dalla forma curiosa, che permette d’essere incastonato alla perfezione in un’elegante collana di ricerche avviate giusto un secolo fa.
Il giacimento è la «piccola ma significativa biblioteca messa insieme da un frate converso domenicano fuori del comune di nome Ugolino, di cui per ora sappiamo soltanto che all’inizio del Trecento svolse il compito prestigioso di "arcarius" e cioè di "guardiano" della celebre arca sepolcrale di san Domenico, eseguita nel 1267 per l’omonima chiesa bolognese da Nicola Pisano e dalla sua bottega».
L’elenco dei libri, che in età avanzata Ugolino decise di regalare al proprio convento, Luciano Gargan l’ha ricavato dall’atto di donazione (1312) conservato in una pergamena dell’Archivio di Stato di Bologna che in realtà era già stata pubblicata mezzo secolo fa da due storici dell’ordine domenicano, rimanendo però del tutto inerte in fondo a uno studio per specialisti.
A valorizzarlo in una dimensione di storia della cultura, in particolare di cultura dantesca, è oggi la métis di Gargan, cioè il suo fiuto, la sua capacità di riconoscere i dettagli importanti immersi nel magma e di collegarli in una sottile ricostruzione filologica e storiografica. Storicizzati, i dettagli respirano, tornano a parlare di vita, di potenzialità e di realtà.
Tutte le ricerche di Gargan «per la biblioteca di Dante» sono zeppe di materiali interessantissimi. Le raccoglie ora un importante libro dell’Editrice Antenore (che sempre più si conferma faro sicuro nel settore degli studi su Medioevo e Umanesimo): una piattaforma di sintesi e di messa a punto anche bibliografica essenziale per qualsiasi futura indagine sulla cultura dantesca.
Piacerebbe avere spazio per illustrare le tante novità che offre, specie sulla presenza dei Vittorini. Ma mi limito all’ultimo fra i 14 libri dell’elenco notarile bolognese del 1312, che mi fa sobbalzare mentre leggo: «Item voluit frater Hugolinus predictus quod huic donationi adderetur liber qui dicitur Scala Mahometti... ». Dunque, fra Ugolino "aggiunse" ai libri di teologia e di filosofia regalati alla biblioteca di S. Domenico di Bologna quel famoso e un po’ misterioso Libro della Scala di Maometto che (annota giustamente Gargan, nella sua sobria prudenza filologica) «non è menzionato in nessun altro inventario di biblioteca medievale». Dante, durante i suoi studi bolognesi «nelle scuole delli religiosi», poté quindi leggere, tradotta in latino, la storia del viaggio di Maometto nell’oltretomba, accompagnato dall’arcangelo Gabriele.
«Poté» leggere: non «lesse certamente». È chiaro che su questo punto le polemiche tra i filologi si accenderanno. A me pare tuttavia che questo dettaglio rappresenti una punta di diamante fortissima, incisiva, per stabilire un affidabile paradigma di compatibilità logica, storica, documentaria.
Per la prima volta abbiamo la prova sicura che, negli anni stessi in cui Dante scriveva la Commedia, in una delle biblioteche in cui è verosimile che egli abbia studiato si conservava il Libro della Scala, forse nella stessa versione latina approntata nel 1264 nella Toledo di Alfonso X "il Saggio" dal notaio Bartolomeo da Siena.
La pubblicò nel 1949 Ernesto Cerulli, traendola da un codice parigino segnalato nel 1944 da Ugo Monneret de Villard, e congetturando che Brunetto Latini, maestro di Dante e ambasciatore di Firenze a Toledo, potesse essere stato mediatore dell’arrivo dell’opera in Italia (un’utile traduzione italiana, con il testo latino a fronte, procurò l’anno scorso un’allieva della Corti, Anna Longoni). Cerulli puntualizzava le acute ricerche del grande arabista spagnolo Miguel Asín Palacios che per primo, nel 1919, con L’escatologia islamica nella Divina Commedia, aveva segnalato l’affinità dell’impianto concettuale e figurale dell’architettura dell’aldilà dantesco rispetto a quello islamico (Carlo Ossola, definendolo «una delle poche opere-guida nella produzione erudita europea del ventesimo secolo», lo fece tradurre nel 1994). Oggi, scoprendo che nel 1312 i domenicani bolognesi possedevano il Libro della Scala, la questione va riaperta con un livello di compatibilità molto più alto.
Mentre leggo Gargan penso al sorriso solare che sarebbe sbocciato, se avesse potuto conoscere questi studi, sul volto di Maria Corti, la grande maestra coraggiosa, generosissima, che negli ultimi anni di una vita intensamente dedicata in particolare alla ricerca su Cavalcanti e Dante riprese con intelligenza l’idea di Asín Palacios, segnalando «un possibile influsso sulla metafisica della luce dantesca» da parte del Libro della Scala, ma ribadendo prudentemente che l’influenza «è più strutturale che puntuale, cioè tale da aver agito soprattutto sull’idea organizzativa del poema, e solo localmente su qualche episodio».
Quel sorriso lo immagina di certo anche Gargan quando proprio a Maria Corti dedica un altro dei suoi capitoli innovativi sui libri di logica, filosofia e medicina «che Dante poté avere occasione di leggere o rileggere mentre soggiornava a Bologna». In un inventario del 1286 (lo scoprì nel 2008 Armando Antonelli), legato a «un singolare processo in cui si trovò coinvolto il medico Tommaso d’Arezzo», per la prima volta si trova una traccia sicura della circolazione bolognese delle opere di Sigieri di Brabante e di Boezio di Dacia, che la Corti, nel suo bellissimo Dante a un nuovo crocevia (1981), propose fossero stati studiati direttamente da Dante, e poi allegoricamente cifrati nella Commedia in «un rapporto simbolico fra la vicenda di Ulisse e il pensiero degli aristotelici radicali» (fra cui Guido Cavalcanti, compagno di studi di Dante proprio a Bologna).
Trent’anni fa la polemica divampò, e si disse che non esistevano prove che Dante avesse letto quei testi. L’inventario del 1286, oggi studiato minuziosamente da Gargan, dimostra che «l’incontro di Dante con l’averroismo latino» assai probabilmente ci fu, e «poté avvenire nella facoltà di arti e medicina di Bologna». Il buon Dio, abita nel dettaglio!
L’INIZIATIVA DI CHANGE.ORG
Nobel per la Pace a Malala Yousufzai
firmano anche Dario Fo e Franca Rame
"La ferocia e la crudeltà travolgono ogni dimensione umana quando si scontrano con la voglia di libertà e la bellezza", ha detto il grande commediografo che ha ottenuto il riconoscimento per la Letteratura nel 1997. Continua la campagna che ha già raccolto 130mila firme nel mondo. L’appello ai parlamentari italiani *
ROMA - "La ferocia e la crudeltà travolgono ogni dimensione umana quando si scontrano con la voglia di libertà e la bellezza". Dario Fo e Franca Rame hanno sottoscritto la petizione su Change.org per chiedere che Malala Yousufzai venga candidata al Premio Nobel per la Pace. Malala è la ragazza pakistana di 15 anni che lo scorso 9 ottobre, è stata ferita gravemente alla testa da un colpo di pistola sparato da un commando di talebani che volevano "mettere fine alle sue oscenità". Le "oscenita" di Malala consistono nell’aver difeso con i suoi scritti il diritto delle ragazzine di andare a scuola. Nella sua zona, la valle di Swat, una femmina istruita può diventare oggetto della stupida ferocia dell’integralismo religioso. Malala, ricoverata in Inghilterra e sottoposta a un delicato intervento chirurgico, adesso sta meglio e, probabilmente, non porterà conseguenze della sua terribile avventura.
"Guardate il volto di Malala - dice il premio Nobel per la Letteratura 1997 : - è una ragazzina di quindici anni, si batte per la dignità delle donne del Pakistan, mette per iscritto pensieri colmi di sogni aperti e irrinunciabili. La osservo e nel suo sorriso vedo una dolcezza inarrestabile, leggo la voglia di vivere di un’adolescente che sa intonare canti e muoversi nella danza. Chiedeva per sé e per le sue amiche che le si concedesse la dignità di essere libera e festosa. Hanno cercato di eliminare il suo cervello. E’ un miracolo che non ci siano riusciti. Io non sono un credente ma ogni tanto penso che l’impossibile, il magico esista e si faccia vivo quando serve".
La campagna italiana per la candidatura al Premio Nobel per la Pace di Malala Yousufzai è stata lanciata su Change. org da Giovanna Fiume, Professoressa di Storia moderna all’Università di Palermo. La petizione richiede ai leader dei maggiori partiti presenti nel Parlamento Italiano di sostenere tutti insieme questa candidatura. I parlamentari, infatti, sono tra coloro che possono presentare le candidature per il Premio Nobel per la Pace. Destinatari della petizione sono quindi Pier Luigi Bersani, Angelino Alfano, Roberto Maroni, Antonio Di Pietro, Pier Ferdinando Casini, Mario Staderini, Gianfranco Fini, i leader, cioé della forze politiche rappresentate in Parlamento.
L’iniziativa fa parte di una campagna internazionale iniziata dallo scrittore canadese Terek Fatah su Change. org. In totale, ad oggi, quasi 130.000 persone hanno firmato in Canada, Inghilterra, Francia e Germania per chiedere ai propri rappresentanti politici di fare lo stesso. "Ho sempre considerato l’istruzione e, per suo tramite, la cultura tra le più potenti armi di avanzamento della società in generale e della condizione delle donne in particolare.", ha commentato Giovanna Fiume, "Per questo non posso restare indifferente di fronte al coraggio di Malala in Pakistan, e ho iniziato questa petizione perché credo che la politica italiana debba dimostrare il proprio deciso sostegno verso questa causa."
Che cos’è Change. org? Change. org è una piattaforma aperta che permette a chiunque di lanciare, promuovere e vincere una campagna per realizzare il cambiamento che vuole vedere. Con oltre 20 milioni di membri in tutto il mondo, di cui circa 200.000 nel nostro paese, Change. org è la piattaforma online per l’attivismo che cresce più velocemente al mondo. Dallo scorso luglio Change. org è anche in Italia con un sito tutto in italiano e un team di esperti in attivismo online.
* la Repubblica, 13 novembre 2012
L’appello per il riconoscimento alla ragazza pachistana
Diamo a Malala il premio nobel per la pace
di Dario Fo (la Repubblica, 17 novembre 2012)
Scrive Shady Hamadi: «Malala Yousafzai è una ragazza pakistana di 14 anni che ha rischiato di morire per un colpo di pistola sparatogli da breve distanza da un gruppo di Talebani; la ragione è che Malala ha chiesto il diritto di andare a scuola. Per questa gente richieste del genere sono contrarie alla shari’a e offendono Allah. Di certo il Dio di cui parlano i Talebani dev’essere un omonimo del mio Allah e di quello delle centinaia di migliaia di persone che sono scese in piazza a manifestare per Malala. Non tengono in alcun valore la conoscenza, questi integralisti, e impongono agli altri, specie alle donne, di farsene una. Sono imprenditori della paura, falsificatori dell’Islam che tendono ad imporre a tutti noi la loro visione squilibrata affumicando di dogmi la libertà».
Malala non è una ragazzina qualunque: non era ancora uscita dalla pubertà e già lottava per i sacrosanti diritti alla ragione, per convincere le compagne a lottare per guadagnarsi il piacere di essere libere, immenso dono di Allah. All’età di 13 anni è diventata celebre per il blog scritto per laBBCdove documentava il regime, contrario ai diritti delle donne, dei Talebani Pakistani e la loro occupazione militare del distretto dello Swat. Per questo è stata colpita dai fanatici sul pullman sul quale tornava a casa da scuola. Ricoverata nell’ospedale militare di Peshawar, si è salvata solo dopo la rimozione chirurgica dei proiettili.
Inoltre, è stata nominata per l’International Children’s Peace Prize, premio assegnato da KidsRights Foundation per la lotta ai diritti dei giovani. Ihsanullah Ihsan, portavoce dei talebani pakistani, ha rivendicato la responsabilità del-l’attentato, dicendo che la ragazza «è il simbolo degli infedeli e dell’oscenità », aggiungendo che se fosse sopravvissuta, sarebbe stata nuovamente attaccata. La ragazza è stata in seguito trasferita in un ospedale di Londra che si è offerto di curarla.
Franca (Franca Rame, ndr) ha scritto una poesia in solidarietà a Malala.
Si intitola Il canto della allodola sapiente.
Eccola:
«La ferocia e la crudeltà travolgono ogni dimensione umana quando si scontrano con la voglia di libertà e la bellezza.
Guardate il volto di Malala: è una ragazzina di quindici anni, si batte per la dignità delle donne del Pakistan, mette per iscritto pensieri colmi di sogni aperti e irrinunciabili.
La osservo e nel suo sorriso vedo una dolcezza inarrestabile, leggo la voglia di vivere di un’adolescente che sa intonare canti e muoversi nella danza. Chiedeva per sé e per le sue amiche che le si concedesse la dignità di essere libera e festosa.
Hanno cercato di eliminare il suo cervello. È un miracolo che non ci siano riusciti.
Io non sono una donna credente ma ogni tanto penso che l’impossibile, il magico esista e si faccia vivo quando serve.
Ho visto una ragazza di quattordici anni che con altre figliole danzava sotto le piante di cedro sull’argine del fiume.
La leggerezza del loro gestire faceva pensare al volo delle allodole. L’allodola canta al tramonto, muovendo alla tenerezza gli amanti.
Alcuni religiosi tristi sono convinti che quel volatile sia non gradito da dio e che sia quando canta al tramonto che quando si muove nel rito dell’accoppiamento, allude alla festosità delle femmine libere.
Quei religiosi assicurano che l’aquila che aggredisce l’uccello dal canto lascivo è mandata dal creatore e l’altissimo è grato a chi punisce duramente ogni creatura indegna. Indegna è di certo la femmina che pone in evidenza il proprio ingegno, che parla e ragiona con saccenteria, che non curva il capo quando spunta il sole. Che non sa tacere quando l’uomo, suo padrone, ordina e soprattutto ride di sottecchi quando quello inciampa pronunciando sciocchezze. Non c’è quindi pena né pietà per la femmina che non sta alposto suo, cioè l’ultimo».
Malala ha vinto, con lei le giovani del Pakistan
di Cristiana Cella (l’Unità, 15.10.2012)
Milioni di persone spiano con il fiato sospeso ogni minimo segno di miglioramento, il movimento di un dito, di una mano, ogni segno di ripresa. Malala Yusufzai, la giovanissima attivista per i diritti delle donne in Pakistan, gravemente ferita dai talebani, combatte per la sua vita in un ospedale di Rawalpindi, intubata e in terapia intensiva. Forse sarà trasportata all’estero da un aeroambulanza degli Emirati Arabi Uniti, atterrata oggi a Islamabad. Intorno a lei, nel suo paese e nel mondo, cresce un’onda di protesta anti talebana e di solidarietà. Milioni di studenti in Pakistan pregano per lei, insieme agli insegnanti, fiaccolate di ragazzine della sua età gridano per le strade la loro rabbia per l’attacco alla «figlia della nazione».
I social media sono sommersi da accorati appelli, da migliaia di denunce. Sabato, nelle scuole afghane, le lezioni sono iniziate con una preghiera per lei. Ma non solo. Venerdì fedeli e perfino mullah, nelle moschee pachistane, prendevano posizione apertamente, durante la preghiera, dichiarando come anti-islamico il feroce gesto di violenza. Leader politici del suo paese, da sempre ambiguo verso i talebani, che ha sostenuto e sostiene da decenni, denunciano la violenza oscurantista. Per i giovani pachistani è un’eroina, un simbolo.
È questa la vittoria di Malala, una vittoria sanguinosa, che ha svegliato di colpo un paese intero, sotto shock per l’attentato. Come scrive il NewYorkTimes, è successo qualcosa di fondamentalmente diverso, l’attacco a Malala ha «liberato menti incatenate e talebanizzate». Ha dimostrato che, contro la ferocia e l’odio fondamentalista, si può reagire, con strumenti di pace, anche, e soprattutto, all’interno della comunità islamica.
Malala aveva denunciato, con il suo diario scritto per la BBC, nel 2009, l’insostenibile vita quotidiana di ragazze e donne negli anni in cui la Swat Valley, la sua bellissima regione, era sotto il controllo talebano. Da allora è nel mirino. Nelle aree sotto il loro controllo, in Pakistan come in Afghanistan, i talebani proibiscono l’istruzione femminile, attaccano le studentesse con l’acido, danno alle fiamme le scuole, uccidono insegnanti e donne che ricoprono ruoli pubblici, ottengono di trasformare i programmi scolastici e le scuole in madrasse. Impediscono le vaccinazioni, bandiscono le leggi laiche, sostituendole con quelle islamiche, con effetti devastanti per le donne.
IL DIRITTO ALL’ISTRUZIONE
Come studentessa, Malala, figlia di un insegnante illuminato e democratico, ritiene la chiusura delle scuole per le ragazze insopportabile. Come sbarrare una porta sulla vita e sul futuro. Aveva solo 11 anni quando ha deciso di cominciare a parlare e non ha mai smesso, nonostante le minacce. Per Malala l’istruzione è l’unica vera arma contro l’integralismo e per l’affermazione dei diritti umani: «Io ho dei diritti. Ho il diritto all’istruzione. Ho il diritto di giocare. Ho il diritto di cantare. Ho il diritto di parlare. Ho il diritto di andare al mercato. Ho il diritto di parlare in pubblico».
I talebani hanno cercato di farla tacere ma hanno sbagliato strategia. La sua voce si è moltiplicata, portandosi dietro un paese intero. Ha scatenato la reazione di una società civile che non sopporta più gli abusi di potere giustificati da un’ interpretazione oscurantista dell’Islam. In un’intervista di un anno fa, Malala dice che vorrebbe parlare con i talebani e lo farebbe mostrando loro il Corano e sfidandoli a trovare, nelle parole sacre, qualcosa che sostenga le loro feroci intimidazioni.
COME A KABUL
La sfida di Malala è una vittoria per milioni di ragazze, nel suo paese, come in Afghanistan, al di là delle sue montagne, dove il fondamentalismo islamico continua a mietere vittime e a incatenare la vita delle donne. E delle bambine. Perché la guerra delle donne inizia presto qui. Vendute in matrimonio dall’età di 9 anni, scambiate per rimediare alle offese tra famiglie, stuprate, subiscono ogni tipo di violenza, non possono studiare, uscire da sole, lavorare, curarsi, avere giustizia. Non hanno diritti e non sanno di averli. Vite cancellate, non solo dai talebani che hanno molti fratelli in Pakistan come al di là del Kyber Pass, in Afghanistan.
I partiti fondamentalisti che governano molte province afghane non sono da meno. Usare leggi oscurantiste per controllare metà della popolazione e impedire la loro esistenza pubblica non è un problema religioso. È una strategia brutale di controllo politico del potere. Ho incontrato ragazzine, con lo stesso bel viso ancora infantile, con lo stesso sguardo determinato e coraggioso di Malala, anche nelle scuole dei quartieri degradati di Kabul. Ragazzine che sapevano quello che sa e dice Malala: che l’istruzione è un’arma contro il sopruso, la violenza e l’ignoranza. Per cambiare e conquistarsi una chance. Bambine che andavano a scuola di nascosto da padri e mariti, rischiando molto, per avere gli strumenti per prendere in mano la propria vita. Malala è una di loro, cresciuta in una famiglia aperta e lungimirante, e che, anche per loro, rompe la violenza del silenzio. Il suo coraggio è il loro. E la marea di denuncia e di sostegno che ha messo in moto la sua aggressione non si fermerà.
La lezione della piccola Malala
Rifiutare l’ingiustizia e costruire il proprio destino
di Jawad Joya (La Stampa, 15.10.2012)
La settimana scorsa i taleban hanno sparato alla testa a Malala Yousafzai. Malala è una ragazzina di 14 anni che, a quanto riportano i media, ha mostrato un irriducibile amore per lo studio: per sè e per le ragazze come lei. I taleban hanno considerato questa attività come una minaccia al loro stile di vita e alla prevalenza della loro ideologia. Perciò hanno deciso di uccidere la quattordicenne, affinché servisse da esempio alle altre.
Questa è una notizia choccante ma non è affatto nuova per me. Io ho vissuto laggiù e l’ho visto con i miei occhi. Quando nel 1996 i taleban presero Kabul, chiusero quasi tutte le scuole nella capitale e nel resto del Paese. Dal primo giorno i taleban hanno riservato una speciale attenzione alle donne e alle ragazze. Sono ossessionati dalle donne, dalle loro vite, dai loro corpi. Mi ricordo che nel 1966 sentii annunciare a Radio Kabul che tutte le donne che lavoravano, nel pubblico come nel privato, dovevano restare a casa fino a «ulteriori notizie».
Le «ulteriori notizie» non sono mai arrivate pubblicamente. Da allora, «ulteriori notizie» è diventato un nome in codice per la punizione di chi ha il coraggio di disattendere un ordine dei taleban, specialmente le donne. In molte località del Sud del Paese ricevere «ulteriori notizie» significa essere uccisi o puniti pubblicamente. Quando nessuna di queste due cose è possibile, mandano un kamikaze per consegnare la loro «risposta». È vero che i taleban non hanno più il controllo di Kabul, ma continuano a influenzare la vita pubblica nel Sud e nell’Est dell’Afghanistan. Recentemente hanno lapidato una coppia per adulterio e fucilato una donna per una presunta relazione sessuale con un uomo «non autorizzato». Nell’idea di mondo dei taleban, fare del sesso «non autorizzato» porta alla morte.
Quello che io avverto a Kabul è un senso di crescente differenza generazionale tra i vecchi e i giovani. I più anziani sono socialmente conservatori e la maggior parte di loro è stanca di guerre, personali o nazionali. I giovani invece sono più affamati di rischi. Hanno mostrato un forte desiderio di essere collegati con il mondo globale che è dinamico, vario, interconnesso e allettante. L’istruzione può fornire un biglietto per quel «mondo». In questo contesto i taleban non offrono ai giovani alcunché di utile, mentre tolgono loro la capacità di competere, di costruirsi una vita diversa guadagnandosi il pane legittimamente. Ma i taleban non prevarranno.
Ma queste rivoluzioni sono senza donne
di Joumana Haddad (Corriere della Sera, 18 ottobre 2012)
Sin dal marzo del 2011, quando il mondo intero - l’Occidente in particolare - fu travolto dall’euforia delle Primavere arabe, ho avuto modo di esprimere il mio scetticismo verso quegli avvenimenti, in quanto già intuivo i grandi rischi che correvano le donne, malgrado gli slanci iniziali delle varie rivoluzioni. Sono stata criticata da molti, all’epoca, come «uccello del malaugurio». Ma purtroppo gli eventi mi hanno dato ragione, anche se non mi sentirete mai gongolare «ve l’avevo detto!». Avrei di gran lunga preferito sbagliarmi nella mia analisi dei fatti. Chi non le ha viste, tutte quelle donne coraggiose scese in strada in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen, per partecipare alle manifestazioni, reclamare la caduta dei dittatori e dare il loro contributo alla rivoluzione? «Le abbiamo viste», dico, ma è un verbo che va usato al passato. Perché difatti dove sono finite quelle stesse donne, ora che vengono erette le nuove strutture degli Stati, ora che si avverte un estremo bisogno di ascoltare la loro voce e di vedere la loro partecipazione attiva e fattiva nel costruire il futuro di questi Paesi, le loro leggi e i loro valori?
Che razza di rivoluzioni sono queste, se le donne si accontentano di farsi manovrare come pedine, per finire scartate e relegate in un angolo quando viene il momento di prendere decisioni cruciali per il futuro del Paese? Che razza di rivoluzioni sono queste, se non sono riuscite a rovesciare i tavoli del patriarcato sulla testa degli oppressori e se promettono una nuova forma di arretratezza - l’estremismo religioso - per sostituire quella appena abolita?
E chi sarebbe il vincitore in un gioco che vede metà della popolazione ridotta a una schiera di spettatrici mute - e imbavagliate?
Non fraintendetemi: con queste mie parole non intendo affatto tessere una lode ai dittatori e alle dittature. Ma non posso non essere preoccupata dalla crescente influenza dell’estremismo islamico negli ultimi anni in Medio Oriente (tanto nel ramo sunnita che in quello sciita). Non posso non essere preoccupata dal fatto che questo Islam fanatico alimenta la causa dell’estremismo di destra in Occidente. Non posso non preoccuparmi del destino della regione, e specialmente delle donne della regione, se quello che viene dopo la dittatura equivale a una nuova dittatura, ovvero, un regime fondamentalista arretrato che si fonda, tra varie atrocità, su un rincaro di misoginia, violenza, patriarcato, segregazione e intolleranza nei confronti delle donne.
Troppo spesso noi arabi siamo costretti a scegliere tra due mostri, e per quanto mi rallegri che il mostro della dittatura sia stato eliminato, vedo con sgomento un nuovo mostro che alza la testa e si prepara a prendere il potere. È fondamentale sbarazzarsi dei dittatori, ovviamente. È importantissimo combattere la fame e l’ingiustizia, non c’è alcun dubbio. È di vitale importanza mettere fine alla corruzione.
Ma è altrettanto importante combattere l’estremismo religioso, come pure rispettare e legittimare i diritti e la dignità delle donne, e questo vuol dire sbarazzarsi degli strumenti e dei sistemi del patriarcato che fingono di proteggere le donne e che sfruttano questa cosiddetta protezione al fine di giustificare l’oppressione.
Anzi, ciò che aggrava la situazione è sentir dire da alcune donne che essere trattate con tanta superiorità fa parte delle loro «scelte». Potrebbe anche darsi, se per scelta esse intendono «annientamento» o «lavaggio del cervello». Perché come si può mai parlare di scelta quando non esistono alternative? O quando l’alternativa è finire ostracizzate, o aggredite, o imprigionate, o persino uccise?
* * *
Pertanto mi chiedo se le rivoluzioni che si sono verificate e che si stanno ancora verificando nel mondo arabo possano definirsi anche rivoluzioni delle donne: in questo senso, si tratta di vere rivoluzioni? Sotto i perfidi regimi arabi (quelli rovesciati e quelli che a breve cadranno, senza ombra di dubbio), fondati per la maggior parte sul disprezzo della donna e sulla negazione dei suoi diritti, non posso fare a meno di chiedermi: quando verrà il giorno in cui la donna del mondo arabo si stancherà di invocare «datemi i miei diritti» per urlare «i miei diritti me li prendo con le mie stesse mani»?
Quando capirà che i suoi diritti non sono un lusso, ma la chiave di volta di tutto? Quando capirà che non è nata per sposarsi, fare figli, obbedire, nascondersi e servire i maschi della famiglia? Quando capirà che tutti i discorsi di democrazia sono chiacchiere vuote senza l’affermazione della sua uguaglianza con gli uomini? E che tutti i discorsi di libertà sono scempiaggini se le sue libertà civili non vengono rispettate? E che tutti quei discorsi di cambiamento e modernizzazione non valgono un fico secco se la sua situazione, la sua posizione e il suo ruolo non vengono rivalutati? Quando comincerà a infuriarsi per le offese e le ingiurie che le sono rivolte a ogni istante e che mirano ad annientarla giorno dopo giorno, in ogni ambito della vita? E quando, infine, la smetterà di contribuire al rafforzamento del sistema patriarcale, con i suoi valori retrogradi?
In breve, quando esploderà la «bomba» delle donne arabe? E mi riferisco alla bomba delle loro capacità, ambizioni, libertà, forze e fiducia in sé stesse; la bomba della rabbia per tutto quello che è stato loro imposto, e che spesso esse accettano senza osare criticare.
* * *
Le donne che vivono nella nostra parte del mondo sono gravemente discriminate in tanti modi che costituiscono vere e proprie violazioni dei diritti umani, dai delitti d’onore al matrimonio delle bambine, dal test di verginità alle mutilazioni genitali, dal divieto all’istruzione alle limitazioni alla libertà di movimento fino alla posizione di inferiorità in campo sociale, economico e formativo, e via dicendo.
Ma la difesa delle donne non deve limitarsi a diventare uno slogan esclusivamente femminile. Gli uomini sono i compagni indispensabili nella lotta contro le ingiustizie inflitte alle donne che nascono da un’arretratezza in vari ambiti, politici, militari ma soprattutto religiosi, contesti e sistemi che, proprio come la mitica idra, fanno man mano spuntare nuove teste per ognuna delle vecchie che viene recisa.
Per questo motivo ci occorre un nuovo tipo di uomo, l’uomo che non ha bisogno di opprimere le donne, negare i loro diritti e disprezzare i loro sentimenti per sentirsi «virile». Ma ci occorre anche un nuovo tipo di donna, quella donna che saprà lottare con le unghie e con i denti per ottenere i suoi diritti senza dover ricattare o cancellare gli uomini. Vogliamo donne che non si limitino a sostituire il patriarcato con il matriarcato, ma che aspirino a una vera collaborazione e solidarietà con il genere maschile.
«Primavera araba», davvero? Per quanto ne so io, ci si prospetta un nuovo inverno, oppure una primavera semplicemente cosmetica. La soluzione? Ce n’è una sola. Non si tratta di rappezzare il muro che abbiamo davanti, non si tratta di augurarsi che sparisca di colpo. Non si tratta di negare la sua esistenza, né di pregare per la sua distruzione. La soluzione è distruggere, distruggere e distruggere. E ricostruire. Ricostruire insieme, uomini e donne, mano nella mano. È questa la vera battaglia di cui abbiamo bisogno. È questa la vera rivoluzione che ci meritiamo. (Traduzione di Rita Baldassarre)
Pakistan, i taleban uccidono la cantante “scomunicata”
Assassinata da sicari Ghazala Javed, 23 anni, idolo della musica leggera di Kiran Nazish (La Stampa, 20.06.2012)
KARACHI Si chiamava Ghazala Javed ed era la più famosa cantante pashtun del Pakistan. L’hanno uccisa ieri a Peshawar, con sei colpi di pistola, da un commando di quattro uomini in moto. La rivendicazione non c’è ancora, ma la pista più probabile è quella dei taleban. Che l’avevano minacciata più volte. Per il semplice motivo che cantava, contro i precetti del Corano e della sharia. Ghazala era fuggita dal suo villaggio nella Swat Valley, ora sotto il controllo dei militanti, per poter proseguire la sua carriera. Ma non è bastato. L’hanno raggiunta nella grande città dove aver raggiunto il successo e freddata.
La polizia conferma «che è stata raggiunta da sei colpi appena uscita da un salone di bellezza». Le prime indagini si sono però orientate sulla pista famigliare, con l’ex marito come primo sospettato. Ma un cugino della ragazza, Wajid Omer, che suona l’armonica a Peshawar, conferma che «è stata uccisa da sconosciuti. Era in quattro su due moto. Hanno sparato anche sul padre, che era con lei. Penso che siano stati i religiosi fanatici». La sorella, anche lei sul posto, è invece ricoverata all’ospedale, in stato di choc. «Non può sopportare il dolore - dice sconsolato Wajid - di aver due funerali in casa allo stesso momento. È un colpo troppo forte».
Ghazala, originaria del villaggio di Banrr, nella valle dello Swat, era la cantante più famosa nella regione del Khyber, e conosciuta in tutto il Pakistan, non solo fra ragazzi e ragazze, ma anche presso un pubblico più adulto. Era rispettata dai suoi fan, anche per il coraggio mostrato dopo le minacce dei taleban. La sua esecuzione avrà un impatto tremendo sui giovani, e soprattutto sulle altre cantanti, terrorizzate dagli islamisti.
Anila, una sua discepola, dice che potrebbe non avere più il coraggio di esibirsi in pubblico: «Sono scioccata. Ho pianto. Ma sono anche spaventata e mi chiedo se potrò continuare la mia carriera». Poi, dopo un’interruzione: «Ghazala avrebbe di certo continuato, però, era così bella e coraggiosa». La maggior parte delle cantanti nella regione non ha espresso apertamente i propri sentimenti. Ma di sicuro sentono la minaccia che incombe su di loro. Una, che vuole rimanere anonima, ammette, «potrebbero colpirci semplicemente perché abbiamo commentato la notizia della sua morte. Ma dobbiamo onorarla. E stata un grande esempio per le giovani cantanti e una grande compagna per me».
L’industria musicale nella regione del Khyber non è molto amichevole con gli artisti, musicisti e poeti in genere. Oltre alle pressioni di tipo religioso, ce ne sono altre di ordine famigliare o sociale. E così il potenziale talento della musica pashtun rimane inespresso.
Uno dei più importanti producer già rimpiange Ghazala: «Aveva un talento eccezionale. Appena ha cominciato ha ottenuto subito un suo seguito nel pubblico. Forse all’inizio gli ascoltatori erano attratti dalla sua bellezza, ma il numero dei fan nella regione ha continuato a crescere a ritmi incredibili, per il suono angelico della sua voce, per il suo senso della musica, del ritmo». Ghazala era ammirata anche per il suo coraggio di esibirsi in pubblico nonostante le continue minacce, «ora la sua morte è un choc, molto violento», conclude.
Ghazala Javaid era davvero una meravigliosa ragazza pashtun e la sua scomparsa è un colpo durissimo per i suoi fan in tutto il Pakistan, ma il dolore va anche oltre la cerchia dei suoi ammiratori, perché il terrore islamista ha superato un’altra soglia che sembrava invalicabile.
Se Dante è razzista lo sono anch’io
di Renata Rusca Zargar
Alcune considerazioni sulla fantasiosa uscita di una sedicente agenzia collaboratrice internazionale per i diritti umani che afferma essere Dante razzista, islamofobo, ecc. *
“Leggere Dante è dovere, rileggerlo necessità, sentirlo presagio di grandezza.” (Niccolò Tommaseo)
Ho letto con “moderato stupore” la notizia che ’Gherush92’, organizzazione di ricercatori e professionisti consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, ha definito la Divina Commedia un’opera dai "contenuti razzisti, islamofobici e antisemiti”. “La Divina Commedia - ha spiegato all’Adnkronos Valentina Sereni, presidente di Gherush92 - pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo’’.
Dico moderato stupore perché, già una decina d’anni fa, avevo ascoltato con attenzione le contestazioni rivolte all’affresco del 1400 di Giovanni da Modena rappresentante l’Inferno e, in particolare, la punizione del (per Dante) seminatore di divisioni Maometto. Alcuni musulmani, appoggiati, però, anche da personalità quali Francesco Cossiga, che ne aveva chiesto addirittura la rimozione, si sentivano offesi, forse, dal fatto che nel 1400 non avessero previsto che loro sarebbero andati a visitare le chiese di Bologna sei secoli dopo.
Insegno Dante da moltissimi anni con grande amore e passione. Certo, non ho il fascino né la notorietà di Benigni, ma, nel triennio del mio Liceo, in particolare, leggo e spiego la Divina Commedia (Inferno in terza, Purgatorio in quarta, Paradiso in quinta) per un’ora la settimana, per tutto l’anno scolastico. Nella scuola italiana, Dante viene presentato agli studenti dai docenti e i libri di testo offrono numerosi e diversificati commenti critici. Non credo che qualcuno lo legga per conto proprio, in quanto di difficile comprensione sia per la lingua che per i contenuti. Quindi, c’è sempre la mediazione e la storicizzazione dell’educatore.
Devo rilevare con dispiacere, però, in base alle mie esperienze, che alcuni professori tendono a diminuire il tempo dedicato a Dante. E sbagliano, secondo me. Dante, prima di tutto, è un modello di vita da proporre ai giovani: impegnato nella sua città, mai schiavo del potere, ha pagato di persona con l’esilio per tutta la vita. Quando avrebbe potuto tornare nella sua amatissima Firenze, ha rinunciato, perché avrebbe dovuto chinare il capo davanti all’ingiustizia. Nessuno come lui, secondo me, incarna il dovere morale, la serietà, il sacrificio, la responsabilità, persino la capacità di trattare, nelle cose pubbliche, gli amici come i nemici! Ha rappresentato male gli ebrei?
Come dico sempre ai miei alunni, noi non possiamo attribuire a persone di altri secoli il nostro pensiero: sarebbe poco realistico acquisire i contenuti di un’opera letteraria dei primi anni del 1300 come se Dante fosse un uomo del 2000. Speriamo anche che l’umanità abbia fatto un po’ di cammino da allora! Inoltre, la Divina Commedia è un’opera creativa (di fantasia): Dante è andato davvero all’Inferno? Ha davvero visto ciò che c’è laggiù? Siamo proprio sicuri che ai nostri antipodi ci sia la montagna del Purgatorio? Inoltre, la Chiesa come ne esce? Papi all’Inferno, decadenza degli ordini monacali... E come si spiega un Catone suicida guardiano del Purgatorio, e il Saladino - musulmano- tra gli “Spiriti Magni” del Limbo (per il quale nessuno protesta!)?
Dante è anticonformista (per il suo tempo) e mira a rappresentare il suo mondo: il dolore di un’Italia che non esiste ma che non perde occasione di combattersi sanguinosamente, la corruzione e la confusione dei poteri temporale e spirituale. Egli, cristiano credente, respira un universo cristiano medioevale: forse che possiamo criticarlo perché non usava il frigorifero o la lavatrice?
“Dante rimane soprattutto poeta, anche se per i suoi interessi mentali e per le esigenze dell’età tende ad apparire una quantità di altre cose e perfino scienziato. Egli si può senz’altro definire un : ma in quanto creatore non già di un astratto mondo geometrico, bensì di un fantastico e appassionato mondo poetico.” (da “L’Inferno di Dante”, Giovanni Buti, Edizioni C.E.L.I. Bologna)
Certo, oggi si trovano spesso ragazzi (e adulti) razzisti, sessisti, omofobici... Ma la maggior parte di loro proviene da scuole (o non frequenta scuole) dove Dante non viene neppure letto. Forse, i razzisti, oggi, si ispirano, più che a Dante, a partiti che usano addirittura i simboli delle crociate, chissà, o che dividono l’umanità in bianchi e neri (che puzzano), che hanno fatto della presunta virilità una bandiera, che ritengono le donne oggetti da utilizzare...
Invece, la donna di Dante è non solo bella ma buona, avvicina l’uomo a Dio, lo innalza, lo rende consapevole, in sua presenza non si possono neppure compiere azioni malvagie. Non sarebbe utile che a lei si ispirassero quelle fanciulle, che vanno oggi per la maggiore, appassionate di turpiloquio e che fanno gioiosamente merce di scambio dei loro attributi?
Mi chiedo, inoltre, quale sia il contributo economico percepito dalla commissione che ha presentato agli Organismi internazionali valutazioni tanto sensazionali: sarebbe auspicabile, trattandosi di questioni di grande interesse formativo e culturale, oltre che nazionale, la trasparenza e la divulgazione degli emolumenti di tale commissione.
Sarebbe anche auspicabile esaminare obiettivamente i libri di storia, che non dovrebbero essere fantasiosi né scritti prima che l’Illuminismo ci insegnasse lo spirito della ricerca (!), e verificare quanto siano islamofobi e poco dettagliati sulla denigrazione, la persecuzione e il genocidio degli ebrei, ad esempio.
Infine, se studiare Dante è essere razzisti, omofobi, islamofobi, antisemiti, allora voglio esserlo anch’io! L’alternativa sarebbe assomigliare a quei talebani che, per “difendere l’Islam”, hanno fatto saltare in aria, nel 2001, un patrimonio storico-artistico dell’umanità tutta, cioè i Buddha di Bamiyan, due enormi statue scolpite nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan: una delle due statue era alta 38 metri e risaliva a 1800 anni fa, l’altra era alta 53 metri e aveva 1500 anni.
Prof.ssa Renata Rusca Zargar
Savona
* Il Dialogo, Lunedì 19 Marzo,2012
http://www.ildialogo.org/editoriali/autorivari_1332146074.htm
La Commedia di ognuno di noi
di Carlo Ossola (Il Sole -24 Ore, 18 marzo 2012)
Siamo stati formati dalla critica a pensare alla Divina Commedia come «viaggio a Beatrice» (così suona il titolo del celebre saggio di Charles S. Singleton, Journey to Beatrice, 1958). Il fedele d’Amore mantiene la promessa che chiudeva la Vita nova: «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei». Beatrice appare nel Paradiso Terrestre, al sommo della montagna del Purgatorio, ivi trionfa e ivi nomina, per la prima volta nella Commedia, Dante: «Quando mi volsi al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra» (Purg., XXX, 62-63). La teoria romantica che da Rossetti a Gourmont ha ispirato la lettura del poema trova qui il suo sigillo.
Ma molti ostacoli presenta tuttavia una lettura siffatta: il primo ed evidente è che Dante si fa lì nominare per essere aspramente rimproverato da Beatrice: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57). Anche a voler ammettere che Dante si pieghi a un gesto di umiltà, e poi ascenda gloriosamente con Beatrice al Paradiso, sul più bello - come si dice in maniera colorita ma calzante - Dante si fa poi abbandonare da Beatrice: «Uno intendëa, e altro mi rispuose: / credea veder Beatrice e vidi un sene / vestito con le genti glorïose» (Par., XXXI, 58-60).
La guida al mistero e alla visione finale sarà san Bernardo: su questo "transito" Jorge Luis Borges ha scritto pagine finissime e non resta che rinviare ai suoi Nove saggi danteschi. L’ipotesi romantica rimane monca e toglie anzi grandezza al «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par., XXV, 1-2), toglie spessore alla lettura allegorica del testo che Dante difende spiegando, nell’Epistola a Cangrande, e citando nel poema il salmo In exitu Isräel de Aegypto (Purg., II, 46).
Occorre prendere sul serio il testo e ritornare a una ipotesi già avanzata dal Boccaccio e dai primi commentatori e ripresa nel Novecento da Ezra Pound: «In un senso ulteriore è il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare "Ognuno", cioè "Umanità", per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (E. Pound, Dante, in Lo spirito romanzo, 1910). Se il protagonista del viaggio è «Everyman», non è più necessario attribuire a Dante viator l’esperienza eccezionale di una visione mistica, ma di riconoscere in lui il volto di Ognuno: per questo «la Commedia di Dante è, di fatto, una grande sacra rappresentazione, o meglio, un intero ciclo di sacre rappresentazioni» (ivi).
La lettura di Pound incontra, dicevamo, la chiosa che il Boccaccio propone sin dall’apertura delle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante, estrema opera della sua vita, suggerendo che non solo da Beatrice Dante si faccia nominare, ma soprattutto da Adamo al sommo del Paradiso: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: "Dante, la voglia tua discerno meglio", eccetera».
Ora precisamente Boccaccio adotta una lezione, per Par., XXVI, 104, trádita dai più antichi codici (il Landiano, 1336, il Trivulziano, 1337, e molti altri) e confermata dagli antichi commentatori, da Pietro Alighieri, alle Chiose ambrosiane, a Francesco da Buti; lezione che cambia profondamente il senso del poema, poiché ora - nominato da Adamo - Dante non è più solo il fedele d’Amore, ma è il «novello Adamo» di un’umanità redenta, come riassume, nel suo commento, Pietro Alighieri e, con raffinata pertinenza, ribadiscono le «Chiose ambrosiane» (da situare intorno al 1355; traduco dal bel latino): «Dante - Qui il poeta si fa nominare dal primo uomo che impose il nome a tutte le cose e senza quella excusatio alla quale ebbe a ricorrere nel Purgatorio ove disse: "Che de necessità qui se registra". Nota quindi che il poeta mai volle essere nominato nell’Inferno, e neppure nel Purgatorio nei luoghi ove si purgano i vizi, ma concesse di farsi nominare fuori dalle cornici dei vizi, sebbene dovendosi scusare (tamen cum excusatione). Ma in Paradiso senza doversi scusare, come appunto qui - essendo l’opera ormai quasi compiuta - e dopo che, esaminato, aveva fatto professione delle virtù teologali».
Quando parallelamente si osservi il comportamento di Boccaccio copista, in particolare nell’esemplare «Chigiano L VI 213 (= Chig), di mano del Boccaccio, che lo trascrisse non molto avanti la nomina a lettore di Dante, nell’agosto del 1373» (G. Petrocchi, I testi del Boccaccio, in La Commedia secondo l’antica vulgata), si dovrà concludere che anche lì un codice Chig «il quale si impone sugli altri con la qualifica di edizione ultima e definitiva del testo dantesco» (Petrocchi) mantiene la lezione «Dante, la tua voglia discerno meglio» (nel ms. a p. 330; ringrazio di cuore Rudy Abardo per il prezioso riscontro filologico e Marisa Boschi Rotiroti per la sollecitudine) con perfetta coerenza alle ragioni enunciate nelle contigue Esposizioni.
Si tratta dunque di ritornare alle origini, non solo agli autorevolissimi manoscritti che inscrivono: «Dante» o «da- te» e non «da te» (lezione minoritaria), come ha adottato il Petrocchi e con lui - snervando il vigore del testo - le edizioni moderne della Commedia («Indi spirò: "Sanz’essermi proferta / da te, la voglia tua discerno meglio"»); e di riconoscere che - nell’eliminare Dante nominato da Adamo - non si è fatta solo una "rimozione" a favore di una lettura meramente amorosa del poema, ma si è privato il testo stesso di quella grandiosa e universale coralità che Dante voleva conferire al proprio viaggio. Poiché, qui, Dante non è più il poeta della Vita nova, ma l’autore del «poema sacro»; egli è ormai, e per sempre, Everyman, il "novello Adamo" dell’umanità redenta, sì che dal «padre antico» (Par., XXVI, 92) possa ricevere la più alta consacrazione.
Occorre insomma pensare alla Commedia, come a «l’albero che vive de la cima» (Par., XVIII, 29); che si compie nella "nuova Genesi" del Paradiso di Gloria, come ben vide Giovanni Getto, sin dal 1947, sottolineando «cotesto epos della vita interiore come esultanza delle spirito elevato verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria e dell’eterno» (Poesia e teologia nel «Paradiso» di Dante, in Aspetti della poesia di Dante); ma anche come partecipazione dell’umanità tutta alla speranza della Resurrezione della carne della storia e dei corpi, che ansiosamente i beati in Paradiso attendono («Come la carne glorïosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta», Par., XIV, 43-45).
Così dunque, in questa quotidiana coralità di Everyman, è da proporre al XXI secolo la Divina Commedia, bene comune non dell’Italia soltanto, ma dell’umanità intera; e sempre così è stata intesa, dai primi commentatori al Boccaccio, come il poema al quale bussare e attingere per avere accoglienza, ospitalità, conforto. Lo testimonia ancora, al portale di un palazzo di Cannaregio il battente dantesco, e i tanti uomini che in nome di Dante, e leggendo il suo poema, hanno sfidato la barbarie, da Osip Mandel’štam a Primo Levi. Ogni giorno, Dante è davvero tutti noi.
Suoni e danze sufi per abbattere i muri fra le religioni
Uno spettacolo centrato sui versi di Rumi, il «Dante islamico»
Dopo Roma un tour che toccherà le maggiori capitali europee
di Roberto Monteforte (l’Unità, 14.03.2012)
La scommessa è alta. Soprattutto di questi tempi. L’arte, la musica, la danza e il teatro possono arrivare dove non riesce a giungere la diplomazia? Possono toccare il cuore dell’uomo e favorire il dialogo tra le culture e le religioni? Possono far riscoprire fraternità malgrado le differenze in una società secolarizzata e poco aperta al sacro? Questa è la scommessa lanciata con Suoni, danze e versi per un viaggio nel mondo di Rumi, lo spettacolo prodotto da Shariar Alemi con il sostegno di Alessandra Riccardi Infascelli per la «Mirabiliartis» e realizzato da Sandro Giupponi che è andato in scena ieri sera all’Auditorium del Parco della Musica a Roma e che sarà replicato questa sera.
Ha qualcosa da dire all’uomo di oggi il pensiero del poeta e mistico turco Jalal al-Din Rumi (1207-1273) , considerato il «Dante islamico» e tra i più grandi maestri del Sufismo, il filone spirituale islamico che vede nella spiritualità la radice autentica delle forme religiose e il percorso di avvicinamento alla scoperta del Dio unico che affratella tutti i credenti. Un percorso di ricerca mistica e spirituale, considerato eretico e ancora oggi motivo di persecuzione nel mondo islamico fondamentalista, proprio perché favorisce il dialogo interreligioso e interculturale, che ha trovato nuovo vigore nella stagione della «primavera araba» e che viene riproposto attraverso la musica, le danze e i versi di Rumi recitati da Virginio Gazzolo e dalla piccola Bianca Brussani.
UN DONO
L’appuntamento al Parco della Musica rappresenta quindi non solo uno spettacolo, ma anche un coraggioso atto culturale e politico, compiuto soprattutto dagli artisti, musicisti, danzatori, attori, scrittori, residenti in Italia e di nazionalità iraniana, egiziana, indiana e italiana che hanno deciso di offrire gratuitamente i propri compensi professionali al fine di diffondere il messaggio di questo grandissimo e sconosciuto poeta medievale: un personaggio che sfidò i pregiudizi e le convenzioni religiosi della sua epoca. Il suo pensiero viene riproposto come contributo all’incontro tra le religioni, in particolare tra quelle del Libro, che coinvolge quegli islamici, cristiani ed ebrei che credono nella scommessa del dialogo tra le culture e le religioni per la fraternità, la pace e la giustizia. Obiettivi tragicamente attualissimi come testimonia la cronaca di questi giorni. Una sana provocazione che viene sottolineata dalla Coreis italiana, l’associazione dell’Islam italiano fondata da Pallavici particolarmente impegnata in questo percorso di dialogo interreligioso e interculturale. Un impegno condiviso. Lo testimonia la presenza alla rappresentazione del presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, Renzo Gattegna e di una delegazione del Pontificio consiglio per la Cultura, presieduto dal cardinale Gianfranco Ravasani ed anche dei rappresentanti diplomatici dei Paesi islamici all’Auditorium della Musica.
Ma quella di Roma sarà solo la prima tappa di un tour tra le maggiori capitali europee per far conoscere attraverso l’arte, la musica, la danza e la poesia, il pensiero di Rumi, il grande maestro del sufismo e quanto possa essere attuale il suo originale contributo alla causa della pace.
TESTIMONI
Bhatti, un martire nel Pakistan diviso
Ho conosciuto Bhatti. Il ministro per la difesa delle Minoranze era venuto a Roma nel settembre del 2010 per incontri importanti, tra cui l’udienza con Benedetto XVI. Colpiva per la serenità e il coraggio. Non aveva l’aria dell’eroe o del protagonista.
di Andrea Riccardi *
Avrei dovuto incontrarlo di nuovo in Pakistan, avevo fissato l’appuntamento proprio due giorni dopo il suo assassinio nel cuore di Islamabad. Poi, all’improvviso, il 2 marzo del 2011, mi fermò la tragica notizia: l’attentato, in pieno giorno, nel cuore di Islamabad. Diceva un grande cristiano, il poeta David Maria Turoldo: «Essere stati amici e commensali di grandi è un fatto che ci mette a nudo e ci rivela che abbiamo imparato poco, che non ci siamo convertiti, che siamo quelli di sempre». Siamo stati amici e commensali di Bhatti. Lo ricordo a cena, a Sant’Egidio, la sera dell’11 settembre 2010, dopo una partecipata preghiera in memoria delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle.
Essere sopravvissuti ai martiri, come amava sottolineare Giovanni Paolo II, è prima di tutto un debito di memoria. Bhatti è morto per una causa: liberare i cristiani del Pakistan dalla paura, dall’umiliazione e dalla marginalità, senza mai cercare lo scontro, insieme a un buon gruppo di politici e religiosi musulmani. In questo senso, per le sue battaglie civili, in Shahbaz c’è qualcosa che ricorda Martin Luther King, assassinato nel 1968, proprio l’anno in cui era nato il ministro martire.
Bhatti era un cristiano innamorato del suo Paese. Nonostante le minacce concrete alla sua persona, non aveva mai pensato di abbandonarlo. Lottava e sognava un futuro diverso con una passione tutta evangelica. A soli tredici anni comprese che la sua «vocazione» era quella di spendersi «per i cristiani e per i poveri». Era un venerdì santo e - racconta lo stesso Bhatti - aveva appena ascoltato una predicazione sul «sacrificio di Gesù». Una fede profonda accompagna anche tutto il suo percorso politico.
Non era ancora ventenne quando, con i suoi compagni di lotta, riuscì a bloccare un progetto di legge che avrebbe obbligato ogni cittadino pakistano ad aggiungere la propria confessione religiosa sulla carta d’identità. Dopo le battaglie portate avanti con il suo Christian Liberation Front (Clf), a difesa dei diritti dei cattolici e dei protestanti, fondando l’Apma (All Pakistan Minorities Alliance) intuì l’importanza di un patto con le altre minoranze presenti nel Paese e del lavoro a favore di tutti i poveri e le vittime dell’ingiustizia, senza distinzioni. Tanto che, in occasione del terribile terremoto che colpì il Pakistan nel 2005, si preoccupò che gli aiuti raccolti arrivassero a tutti, a partire dai musulmani che erano rimasti senza casa. Bhatti era convinto che la giustizia resa alle minoranze rendesse il Pakistan migliore per tutti, anche per la maggioranza musulmana.
Proprio del rapporto con i musulmani fece uno dei punti cardine del suo programma una volta diventato ministro, con autorevoli amicizie costruite con passione, dal governatore del Punjab, Salman Taseer, ucciso in un attentato due mesi prima di lui, fino all’imam della grande moschea di Lahore, Abdul Khabir Azad, passando per innumerevoli altri contatti. Bhatti credeva fermamente nel dialogo, inteso come conoscenza diretta, amicizia, frequentazione, ricerca di una soluzione comune dei problemi. Portò avanti con coraggio, a partire dagli anni Ottanta, una forte battaglia per modificare la tristemente famosa legge sulla blasfemia, che ancora oggi conduce a giudizio troppi innocenti.
Nella sua difesa di Asia Bibi, la donna cristiana diventata simbolo di questa lotta a livello mondiale - e che molti indicano come prima causa della sua morte insieme a quella del governatore Taseer, un giusto musulmano - pensò che il metodo migliore fosse il confronto: soddisfatto per la solidarietà internazionale attorno alla vicenda, era convinto però che la soluzione si sarebbe dovuta trovare in Pakistan, con le autorità religiose e civili del Paese. Bhatti non era un uomo di partito e non avrebbe voluto diventare né parlamentare, né ministro. Ma alla fine, dopo molte resistenze, accettò di assumere un incarico politico.
In appena tre anni (dal 2008 al 2011) raggiunse risultati insperati con un’intelligente opera di mediazione. Le sue conquiste vanno dalla legge nazionale che stabilisce, per gli uffici pubblici, l’obbligo di assumere almeno il 5% del personale tra le minoranze religiose, all’istituzione della Festa delle Minoranze, l’11 agosto, giorno anniversario dello storico «discorso alla nazione pakistana» con il quale, nel 1947, Ali Jinnah proclamò uguali diritti per tutti i cittadini.
Dopo la morte di Bhatti è sopravvissuto il suo Ministero, anche se ora ha un nome diverso, mentre suo fratello Paul è diventato consigliere speciale del primo ministro per le Minoranze nel difficile tentativo di portare avanti la sua eredità politica. Shahbaz ci lascia soprattutto un grande patrimonio spirituale. Ha fatto politica con una missione molto chiara, utilizzando gli strumenti istituzionali offerti dallo scenario pakistano. All’inizio del XXI secolo, la sua figura, aureolata dal martirio, si propone come modello di politico cristiano, che non ricerca il proprio interesse, ma serve il suo Paese e i più deboli tra i suoi concittadini.
Andrea Riccardi
* Avvenire, 8 marzo 2012
IL CASO
Attacco di elicotteri Nato
25 soldati pachistani uccisi
Colpita una postazione militare lungo la frontiera con l’Afghanistan, nel distretto di Baizai. Ci sono anche una decina di feriti. Immediata la reazione di Islamabad che blocca i rifornimenti all’Alleanza *
ISLAMABAD - Elicotteri della Nato provenienti dall’Afghanistan hanno colpito nella notte una postazione militare pakistana lungo la frontiera, uccidendo 25 soldati pachistani e ferendone altri 14. Lo hanno denunciato fonti militari pachistane precisando che l’attacco è avvenuto nel distretto di Baizai, nella regione tribale di Mohmand.
Da Kabul un portavoce dell’Isaf, la forza di sicurezza internazionale sotto l’egida della Nato, ha confermato che c’è stato "un incidente sul lato pachistano della frontiera" su cui "si stanno raccogliendo informazioni".
Immediata la reazione di Islamabad, che ha deciso di bloccare i rifornimenti alla Nato in Afghanistan attraverso il passo Khyber, che collega il paese al Pakistan.
Il governatore della provincia nord-occidentale pakistana di Khyber Pakhtunkhwa, Masood Kausar, ha affermato che "questi attacchi lungo la frontiera sono inaccettabili e intollerabili" e ha avvertito che porterà la questione al più alto livello e ordinerà un’inchiesta approfondita.
La regione tribale del Pakistan alla frontiera con l’Afghanistan è spesso teatro di incursioni dei droni americani che colpiscono postazioni dei talebani e di Al Qaeda. In passato il Pakistan ha più volte accusato le forze Nato di sconfinare nel suo territorio alla ricerca di militanti talebani e qaedisti e di colpire le sue truppe schierate lungo la frontiera.
Già nel settembre del 2010 Islamabad aveva chiuso per protesta la principale via terrestre per i rifornimenti alle forze Nato in Afghanistan. Questo nuovo incidente rischia di rendere ancora più tesi i rapporti tra gli Stati Uniti e il Pakistan, loro difficile e incostante alleato nella lotta al terrorismo.
* la Repubblica, 26 novembre 2011
L’asse Islamabad-Pechino Pakistan, la tentazione cinese
I contrasti con Washington spingono l’unico Stato islamico con l’atomica a un’alleanza con la Cina
Lo scrittore indiano Dilip Hiro ha studiato in India, Gran Bretagna e Stati Uniti. È autore di 32 volumi sulla storia, la politica e l’economia dell’Asia
di Dilip Hiro (La Stampa, 30.05.3011)
Washington spesso agisce come se il Pakistan fosse semplicemente un suo Stato cliente, con nessun altro possibile partner se non gli Stati Uniti. La leadership americana dà per scontato che i dirigenti pakistani, dopo aver fatto le solite dichiarazioni sulla «sovranità» del Paese, finiranno per soddisfare le periodiche richieste americane, incluse le mani libere negli attacchi con i droni nelle aree tribali che confinano con l’Afghanistan.
Ma Washington dimentica che il Pakistan ha una stretta alleanza con un’altra grande potenza, potenzialmente un realistico sostituto degli Stati Uniti, se le relazioni con l’amministrazione Obama dovessero continuare a deteriorarsi. La partnership Washington-Islamabad è già oscillata da rapporto strettissimo all’inizio degli Anni Ottanta, durante la jihad anti-sovietica in Afghanistan, alla totale alienazione nei primi Anni Novanta, quando il Pakistan era sulla lista nera degli Usa, tra gli Stati che appoggiavano il terrorismo. Invece i rapporti tra Islamabad e Pechino sono sempre stati sostanzialmente cordiali, almeno negli ultimi tre decenni. Un altro fattore che Washington deve soppesare riguarda la guerra in corso in Afghanistan. Mentre negli Anni Ottanta il Pakistan è stato il canale strategico per gli aiuti e le armi da consegnare ai jihadisti in Afghanistan, oggi potrebbe essere un ostacolo per i rifornimenti all’esercito americano. L’amministrazione Obama sembra aver perso di vista la forza delle carte in mano a Islamabad. Per rifornire gli oltre 100 mila soldati americani, i 50 mila alleati e i 100 mila contractor in Afghanistan, il Pentagono deve aver libero accesso al Paese attraverso i suoi vicini. Ora, dei sei Paesi confinanti, solo tre hanno porti sul mare. Uno, la Cina, è troppo distante. Il secondo, l’Iran, è il nemico numero uno di Washington nella regione. Resta soltanto il Pakistan.
Tre quarti dei rifornimenti per le oltre 400 basi della Nato - da quella gigantesca di Bagram ai piccoli avamposti - passano attraverso il Pakistan, compresa la quasi totalità delle armi e munizioni. Da Karachi, l’unico grande porto sul mare pakistano, possono prendere due strade per i principali posti di confine con l’Afghanistan: Torkham e Chaman. Torkham, che si raggiunge attraverso il famigerato Khyber Pass, porta direttamente a Kabul e alla base di Bagram. Chaman, nella provincia meridionale del Beluchistan, porta invece a Kandahar.
Circa trecento camion pakistani passano ogni giorno da Torkham, altri duecento da Chaman. L’aumento degli attacchi da parte dei taleban a partire dal 2007 ha messo alle strette il Pentagono, che cerca alternative. Con l’aiuto di un alleato della Nato, la Lettonia, come della Russia, gli strateghi del Pentagono sono riusciti a organizzare il Northern Distribution Network. E’ una ferrovia lunga 5000 chilometri che dal porto lettone di Riga arriva a Termez, al confine tra Uzbekistan e Afghanistan, sul fiume Oxus, e di lì alla città afghana di Hairatan. Ma la ferrovia Termez-Hairatan può portare solo 130 tonnellate di merci al giorno. E le spese di viaggio per una via così lunga incidono troppo sul bilancio di 120 miliardi di dollari all’anno destinato alla guerra afghana. Il Pakistan resta così indispensabile. Lo scorso settembre, dopo che un elicottero Usa uccise per sbaglio tre soldati pakistani, Islamabad chiuse il Khyber Pass, bloccando i camion con i rifornimenti. Un’opportunità unica per i guerriglieri islamisti di incendiarli e distruggerli. Come infatti fecero. Il capo di Stato maggiore, ammiraglio Mike Mullen scrisse al suo omologo Ashaq Parvez Kayani, porgendogli «le più sincere condoglianze». Il Pakistan tenne chiuso il passo per una settimana.
Su quel terreno difficile i passi montagna giocano un ruolo cruciale. Quando Cina e Pakistan, nel 1962, cominciarono i negoziati per la demarcazione della frontiera dopo la guerra sino-indiana, Pechino insistette per ottenere il Khunjeran Pass, nel Kashmir. E lo ottenne. Questo accordo portò alla costruzione dell’autostrada del Karakoram, lunga 1200 chilometri, dalla città cinese di Kashgar ad Abbottabad, città ora diventata famigliare a ogni americano. Ma quella strada ha anche suggellato un’importate partnership strategica.
Pechino e Islamabad condividono lo stesso scopo: impedire all’India di diventare la superpotenza dell’Asia meridionale. Dal 1962 la Cina cerca anche di rafforzare militarmente l’alleato. Oggi, circa quattro quinti dei carri armati, tre quinti degli aerei militari, tre quarti delle corvette e dei lanciamissili pakistani sono made in China. Di conseguenza, negli scorsi decenni, si è sviluppata una potente lobby pro-Pechino nelle forze armate pakistane. E quindi non sorprende, sull’onda degli attriti con gli Usa dopo il raid di Abbottabad, che gli ufficiali pakistani abbiano permesso ai cinesi di esaminare il rotore dell’elicottero «invisibile» americano andato in avaria durante il blitz e lasciato sul terreno dai Navy Seals.
Tra i numerosi progetti sino-pakistani c’è ora una ferrovia tra Havelian, in Pakistan, e Kashgar, piano già approvato nel luglio 2010, che sarà però solo il primo passo di una infrastruttura molto più ambiziosa che collegherà Kashgar al porto di Gwadar. Il piccolo villaggio di pescatori, sulla costa del Beluchistan, è stato trasformato in un porto moderno dalla China Harbour Engineering Group. Il porto è a soli 500 chilometri dallo Stretto di Hormuz, all’imboccatura del Golfo Persico, attraverso il quale passa la maggior parte del petrolio diretto in Cina dal Medio Oriente. Nell’ultima visita del premier pakistano Gilani a Pechino i cinesi hanno raggiunto l’accordo per gestire in futuro il porto.
Lo scopo finale, per la Cina, è disporre di una via alternativa per le importazioni di petrolio, per evitare la rotta delle petroliere attraverso lo Stretto delle Molucche, vicino a Singapore, sorvegliato dalla Marina statunitense, da dove passa il 60 per cento del greggio che importa. Il piano strategico spiega anche la sollecita solidarietà di Pechino con Islamabad che si lamentava delle «perdite» dovute alla guerra al terrorismo e l’appoggio al tentativo «di restaurare la stabilità nazionale e lo sviluppo dell’economia», subito dopo l’uccisione di Bin Laden.
La reazione cinese al raid di Abbottabad e agli strascichi in Pakistan dovrebbe essere un avvertimento all’amministrazione Obama: nelle sue trattative con il Pakistan per raggiungere gli obiettivi in Afghanistan è molto più debole di quanto immagini. Un giorno Islamabad potrebbe bloccare le linee di rifornimento e giocare la carta cinese per tentare di dar scacco a Washington.
"Hina. Questa è la mia vita. Storia di una figlia ribelle" di Giommaria Monti e Marco Ventura pagine 304, euro 16,00 Piemme
Hina uccisa perché libera
di Flore Murard-Yovanovitch (l’Unità, 20.03.2011)
È sepolta a Brescia, davanti alla pizzeria dove cercava di diventare libera e indipendente, la giovane pachistana Hina. Sgozzata dal padre a Sarezzo il 12 agosto del 2006, a colpi di 20 coltellate, perché desiderava vivere la propria libertà come voleva; seppellita una prima volta nella buca del giardino di casa, cosi lui l’avrebbe avuta sempre per sé, anche da morta.
Hina, questa è la mia vita è il racconto irrealmente vero, ad opera di due cronisti di razza, Giommaria Monti e Marco Ventura, dell’efferato omicidio che per mesi è stato la «prima pagina» dei media ed è diventato emblematico del «femminicidio» in Italia. Ricostruita senza infarciture né pietismi dal diario della ventenne, dalle pagine processuali e da decine di testimonianze e interviste: la vita di Hina, che voleva volare come farfalla. Portare i jeans e le magliette, ballare come le coetanee bresciane, amare chi le pareva e studiare. Costruirsi una propria identità.
A 17 anni, Hina si ribella al matrimonio combinato con un cugino mai visto, rifiuta le asfissianti norme di un Paese che non sente più suo: «sono musulmana ma non sono più pachistana, non voglio più esserlo. Non voglio neppure essere cristiana, sono italiana e basta». Ma la comunità di origine la addita e la rinchiude nel velenoso cerchio di pettegolezzi e rimproveri al padre, come una di «facili costumi» con «l’ombelico in vista», scavando piano il terreno del dramma. Un dramma dai risvolti bui e complicati. Consumato nel silenzio e la complicità torbida degli altri membri del clan, zii e cognati, tutti d’accordo che «questa» li svergognava; e che se non avesse accettato quell’estate stessa il ritorno in Pakistan, o di farsi «domare», si sarebbe cercata un’altra soluzione... premeditata. Neppure gli affetti e conoscenze del mondo intorno, i vicini, i premurosi carabinieri, i servizi sociali (forse fu sbagliata la scelta della «comunità di recupero», perché lei cercava una vita tutta sua), furono da riparo. Fragili tasselli nella spirale verso la tragedia finale. Persino Beppe Tempini, il suo fidanzato, presentiva che la morte della «sua bambola» era avvenuta per mano del pater familias e che lei giaceva nel giardino di casa. Hina stessa annotava nel suo diario: «Ho paura del papà, qualcosa un giorno pure me lo farà, ma io non torno indietro». Pure la madre Bushra, ambivalente e sottomessa, si era sognata il dramma. Come se la fine fosse stata da sempre, nei meandri dell’inconscio, «intuita» o saputa.
I media, in coro e troppo presto, accreditarono l’eccitante versione dell’«esecuzione islamica», dello «sgozzamento rituale e religioso». Dietro il motivo del delitto, invece, non c’era né Corano, né soltanto un folle «onore» da salvare. Ma pazza e assoluta violenza patriarcale, quella che colpisce ancora centinaia di donne nel mondo e in Italia dove, dopo Hina, ci fu ancora Sanaa e le altre, uccise da mariti, fratelli ed ex fidanzati tra le mura domestiche.
Da questo importante libro-inchiesta spuntano anche nuovi particolari: i ripetuti abusi (addirittura a sfondo sessuale, come Hina aveva denunciato prima di ritrattare) di un padre-padrone che considerava la figlia una sua esclusiva proprietà: la sua cosa. Ben poco c’entra l’origine «etnica» o il «fondamentalismo islamico», come si è troppo detto in un dibattito politico pronto sempre a sfociare in vere campagne sicuritarie per la «scarsa integrazione» di queste comunità chiuse. Il problema semmai è la universale malattia millenaria di un patriarcato che, sotto ogni cielo, e alleandosi con la religione di turno, esercita la sua violenza sulla donna libera. E la «annulla», fino a farla «sparire». In una buca.
Io voglio servire Gesù
di Shahbaz Bhatti
in “Oasis” (www.oasiscenter.eu ) del 2 marzo 2011
Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».
Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora - in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan - Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese.
Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa, hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all’ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.
Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi». I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro. Per cui cerco sempre d’essere d’aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.
*Shahbaz Bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, Venezia 2008
(pp. 39-42)
Shahbaz Bhatti, ministro pakistano per le minoranze, cattolico, è stato ucciso martedì 1 marzo a
colpi d’arma da fuoco in un agguato tesogli nella città di Islamabad.
Già co-fondatore e direttore dell’APMA (All Pakistan Minorities Alliance), un’organizzazione che
rappresenta le comunità emarginate e le minoranze religiose del Pakistan, da ministro si è speso in
prima persona per la pari dignità di tutte le comunità del Paese.
Recentemente era intervenuto
nella vicenda di Asia Bibi, pronunciandosi con decisione a favore di una revisione della legge sulla
blasfemia. Forse proprio questa ultima sua battaglia ha mosso i suoi assassini.
Un uomo di fede che aveva il coraggio di cercare il dialogo
di Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 3 marzo 2011)
La protezione gli era stata tolta con la fine del precedente governo. Nominato nuovamente ministro nel nuovo esecutivo di Syed Yusif Raza Gilani non gli era stata concessa la scorta, nonostante le pressioni di varie ambasciate occidentali. Sono i misteri (forse non tanto oscuri) dello Stato pakistano, le cui forze dell’ordine sono infiltrate dalle influenze islamiste. All’inizio di gennaio, il governatore Salman Taseer è stato ucciso da un agente della scorta. Taseer è un «giusto» musulmano: aveva chiesto la grazia per Asia Bibi, condannata per blasfemia, e l’abolizione della legge che prevede il crimine. Un forte fronte islamico si oppone a questo cambiamento, quasi fosse una deislamizzazione dello Stato, anche se è evidente l’uso strumentale della legge. I cristiani in Pakistan rappresentano un gruppo sociale povero, veri paria della società. Tra loro si sente il peso dell’intimidazione che li spinge a rassegnarsi alla marginalità. Bhatti era un cattolico che era emerso. Proveniva da un misero villaggio cristiano, ma aveva studiato grazie all’aiuto della Chiesa e di un forte e illuminato vescovo pakistano, mons. Lobo. Giurista, entrato nel partito del presidente, aveva fatto carriera politica. Aveva fondato All Pakistan Minorities Alliance in difesa della libertà religiosa in un paese musulmano al 97%(dove non mancano tensioni tra la maggioranza sunnita e gli sciiti). I cristiani sono l’1,5%degli abitanti: 750.000 i cattolici. Meno dell’1%della popolazione è indù. Ci sono gruppi zoroastriani, buddisti, sikh e ahmadiyya (un’«eresia» dell’islam), resti di una complessa stratificazione religiosa, risalente a prima della Partition del 1947. Allora il Pakistan fu eletto a patria dei musulmani indiani con il biblico esodo di questi dall’India indipendente (e degli indù dal Pakistan).
Lo Stato, non omogeneo etnicamente, nato dall’identità musulmana, non ha
potuto resistere al vento dell’islamizzazione. All’inizio la nomina di un ministro per le minoranze
sembrava solo un fatto di facciata. Ma Bhatti lottava seriamente e a mani nude: «Voglio mandare un
messaggio di speranza alla gente che vive la rabbia, la delusione, la disperazione...» , aveva
dichiarato. Sentiva che qualcosa poteva cambiare. Ultimamente era più tranquillo e con qualche
speranza, anche se riceveva forti minacce. Avrei dovuto incontrarlo - l’appuntamento era già preso
proprio domani a Islamabad. Era venuto a Roma nel settembre scorso. Colpiva per la serenità e il
coraggio, nutrito da profonde convinzioni cristiane. Bhatti si era molto esposto, parlando forte
contro i pogrom anticristiani.
Su altre vicende, come quella di Asia Bibi, consigliava meno clamore mediatico per alleggerire la reazione musulmana. Univa alla tenacia un’intelligenza della situazione pakistana. Il dialogo con parecchi leader musulmani era una sua priorità. Bisognava far accettare i cristiani dall’islam come parte della nazione. Ieri è morto senza alcuna difesa. È una sconfitta non solo per i cristiani. La convenienza politica spinge il governo a non proteggere le minoranze in modo fermo. Ma proteggerle è difendere la libertà di tutti. Prima il totalitarismo islamico colpisce i pochi cristiani; poi arriva l’ora degli altri, magari musulmani, colpevoli solo di non volersi piegare.
Il sogno di Shahbaz Bhatti
«Uguali diritti per tutti»
di Marco Impagliazzo (Avvenire, 3 marzo 2011)
Il ministro per le Minoranze del governo pachistano, il cattolico Shahbaz Bhatti, è stato barbaramente ucciso a Islamabad mentre si recava al lavoro senza scorta. Dopo la recente crisi di governo, Bhatti era stato confermato con il rango di ministro federale, nonostante una drastica riduzione del numero dei ministri. Era divenuto una figura nota internazionalmente per la sua battaglia per la riforma della legge sulla blasfemia. Nata per difendere la religione in Pakistan, tale legge si è spesso trasformata in uno strumento di denuncia e di persecuzione verso le minoranze, particolarmente i cristiani. Essi rappresentano il 2 per cento dei pachistani. Bhatti era uno di loro, che aveva deciso di spendere la sua vita per la libertà religiosa e per costruire una società del vivere insieme nonostante le differenze di pensiero o di etnia.
Nato il 9 settembre 1968 a Lahore, da parlamentare diventò ministro per le Minoranze affermando di voler combattere per «l’uguaglianza di tutti gli uomini, la giustizia sociale, la libertà religiosa, e per sollevare le minoranze religiose». E aveva aggiunto: «Voglio mandare un messaggio di speranza alla gente che vive nella rabbia, nella delusione e nella disperazione; Gesù è il cuore della mia vita e voglio essere un suo vero seguace attraverso le mie azioni, condividendo l’amore di Dio con i poveri, gli oppressi, le vittime, i bisognosi e i sofferenti del Pakistan». Una delle sue prime battaglie è stata, fin dal 1985, quella contro la legge sulla blasfemia. Sin da ragazzo ha organizzato incontri e studi sulla Parola di Dio.
Il ministro Bhatti era un’espressione bella, coraggiosa e indifesa di quella minoranza cristiana pachistana le cui difficoltà, oggi sono sotto gli occhi del mondo, derivano anche da una storia complessa e sofferta.
I primi nuclei di cristiani iniziarono a svilupparsi alla fine dell’Ottocento, sostenuti dall’opera infaticabile di missionari olandesi, irlandesi, italiani che, assieme alla predicazione del Vangelo, volevano migliorare le condizioni di vita dei contadini, praticamente schiavi alla mercé di grandi proprietari terrieri. Ai margini della società indiana si trovavano coloro che non rientravano nelle caste, destinati ai lavori più degradanti e senza alcuna speranza di riscatto. Proprio tra costoro l’annuncio della buona notizia ricevette l’accoglienza maggiore. La preoccupazione della Chiesa fu allora quella di aiutarli con scuole e piccoli terreni da coltivare in proprio.
L’impero britannico, paradossalmente, fu il primo oppositore di questo processo, poiché andava ad intaccare lo statu quo. I senza-terra e i fuori-casta indù dovevano rimanere tali. Nacquero comunque 53 villaggi in cui i cristiani potevano vivere insieme, accedere all’educazione e iniziare almeno a disporre di strumenti basilari per poter coltivare le terre. I due terzi di questi villaggi dai nomi evocativi (Mariamabad, Francisabad, Yohannabad) sorsero e si svilupparono prima dell’indipendenza del Pakistan. Altre famiglie vivevano sparse nelle regioni del Punjab e del Sindh.
Nel frattempo, protestanti e cattolici crearono una rete preziosa di scuole e ospedali. Tali istituzioni sono aperte a tutti, tanto che numerosi esponenti dell’élite musulmana del Paese hanno studiato in licei o università gestite dai religiosi. Eppure, la piccola minoranza autoctona cristiana deve affrontare quotidianamente discriminazioni, gesti di piccole o grandi prepotenze. Gli attacchi contro i cristiani si verificano da anni in maniera improvvisa. Dopo l’11 settembre si sono intensificati sulla base della falsa semplificazione tra cristiani e Occidente. Basta paventare l’accusa di blasfemia contro il Corano, e prima ancora che un qualsiasi tribunale civile o religioso possa documentarne la fondatezza, i cristiani sono sotto accusa da parte di mani invisibili che si scagliano contro di essi. Non di rado dietro queste accuse si nascondono gelosie o interessi economici, per appropriarsi con la prepotenza o il ricatto di terreni, beni o denaro dalle famiglie incriminate.
Al di là della violenza aperta, poi, nella vita quotidiana talvolta i cristiani incappano in discriminazioni nello studio o sul posto di lavoro. Molti cristiani professano la loro fede in un’esistenza davvero precaria e insicura, segnata non solo dalla povertà ma anche dallapersecuzione. La Messa domenicale è l’espressione gioiosa e pubblica di questa minoranza. Vi partecipa una folla variopinta di adulti, giovani e bambini, che non si lascia intimidire dalle minacce e si aggrappa alla preghiera come ad un’ancora di salvezza. Si tratta di una Chiesa giovane e vivace, all’interno della quale vivono movimenti ecclesiali laicali, che professa la sua fede con dignità e coraggio. Di questa Chiesa era figlio Shahbaz Bhatti.
Il cristianesimo semplice del pakistano Bhatti
di Enzo Bianchi (La Stampa, 6 marzo 2011)
Di fronte a eventi tragicamente ordinari - come un omicidio politico in un Paese ad alta tensione terroristica - le reazioni possono essere fondamentalmente di due tipi: o si lascia che l’emozione di un momento scivoli via in un’amara assuefazione oppure si accetta che la vicenda scombini tanti luoghi comuni del nostro pensare e interpretare le situazioni attorno a noi e nel mondo più vasto. Un elemento che molti considerano assodato per un Paese di antica cristianità come il nostro è, per esempio, il fatto che il cristianesimo, nella sua declinazione cattolica, abbia una dimensione "popolare", sia in un certo senso quasi connaturale all’Italia. Una compenetrazione che un tempo si misurava sul numero dei «praticanti» e la percentuale di battesimi e di matrimoni in chiesa e che ora trova parametri più aggiornati nel numero degli «avvalentisi» dell’insegnamento della religione cattolica, dei firmatari dell’otto per mille a favore della chiesa cattolica oppure nella disponibilità a seguire gli insegnamenti del magistero sulle tematiche eticamente più sensibili.
Questo, ci viene detto, è il cristianesimo reale, concreto, quotidiano, così armonico rispetto al comune sentire, così poco differente rispetto all’opinione della maggioranza, così tranquillo nell’assumere comportamenti e tradizioni divenuti scontati per i più. Chi non si ritrova in questa accezione della popolarità del cristianesimo e magari constata il venir meno di una "differenza cristiana", la perdita di sapore del «sale della terra», la confusione tra il radicare il proprio comportamento nel vangelo e l’appellarsi a radici di alberi che hanno smesso di dare frutti corrispondenti, viene facilmente tacciato di elitarismo, additato come sostenitore di una mitica cerchia di «puri e duri«, come sognatore di un’utopica realtà fatta di persone coerenti: reazione sintomatica di un’implicita tendenza di comodo a contrapporre rarissime «virtù eroiche» a diffusissime abitudini dalla matrice cristiana un po’ sbiadita. Ma a volte gli eventi ci portano a conoscere da vicino la vicenda straordinaria di qualcuno che ha preso sul serio la propria fede cristiana e di scoprire che questa figura «eroica» è in realtà un uomo, una donna normalissima, simile a tanti suoi contemporanei, una persona del popolo, uno di quei «piccoli» a cui Gesù dice che sono state rivelate le cose nascoste ai sapienti e agli intellettuali.
Lo abbiamo visto nella vicenda umanissima dei monaci di Tibhirine in Algeria: uomini semplici, in buona parte di umile estrazione, legati nel quotidiano a un popolo altrettanto semplice; lo ritroviamo nelle lettere e negli scritti dal carcere di Franz Jägerstätter, un contadino austriaco che accetta la condanna capitale per non servire nell’esercito di Hitler e resta fermo nel suo spontaneo, naturale rifiuto nonostante molti, anche tra i pastori della sua chiesa, cerchino di dissuaderlo da un gesto tanto audace; lo scopriamo nelle parole pacate di Shahbaz Bhatti, ministro cristiano nel Pakistan musulmano, brutalmente assassinato - come del resto un suo collega musulmano di orientamento «laico» - per non aver desistito dal difendere gli indifesi, cioè dal fare il suo dovere di ministro (che significa "servitore") delle minoranze religiose. Costoro non sono eccezioni, sono piuttosto l’emergere alla visibilità di una moltitudine di oscuri testimoni della speranza di cui nessuno si ricorda, costituiscono la realtà portante dell’autentico «popolo di Dio» cui il Vaticano II ha ridato consapevolezza e responsabilità, rimettendogli fra le mani quella parola di Dio che, come la pioggia, non scende dal cielo senza irrigare, fecondare e far germogliare la terra.
«Voglio servire Gesù da uomo comune»: così inizia una testimonianza di Bhatti risalente ad alcuni anni fa e che andrebbe riletta per intero per cogliere in essa tutta la straordinaria quotidianità di un cristiano semplice e proprio per questo così eccezionale per il nostro mondo. Un mondo, una società e a volte persino una chiesa che faticano sempre più a coniugare vita cristiana e profezia, a cogliere quello che il teologo von Balthasar chiamava «il caso serio»: la capacità di rendere testimonianza a Cristo nel quotidiano di un’esistenza, anche a costo di perdere la vita.
«Non voglio posizioni di potere, voglio solo un posto ai piedi di Gesù... Quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro». Il fatto che espressionisimili suonino insolite ai nostri orecchi, quasi fossero visioni di un mistico fuori dal mondo - mentre invece provengono da un cristiano nato in una famiglia semplice, in una paese dove i cristiani non sono nemmeno l’uno per cento degli abitanti, un uomo divenuto ministro proprio per quel suo desiderio di difendere «i bisognosi, gli affamati, gli assetati» - la dice lunga sull’idea dominate che abbiamo, qui e ora, dei cristiani nella storia.
Se potessimo chiedere a persone come Bhatti dove hanno trovato la forza e il coraggio per andare avanti in mezzo a tanti rischi e ostilità, chi gliel’ha fatto fare di esporsi a tal punto, come hanno potuto sfidare anche la morte per amore della vita e del prossimo, forse li vedremmo restare un attimo silenziosi, stupiti di fronte alla nostra domanda, per poi risponderci con disarmante semplicità: «Perché, tu cosa avresti fatto?». Già, cosa faremmo se davvero fossimo convinti della nostra fede? Forse balbetteremmo parole come quelle di Bhatti che invece ci sembrano stonate nel nostro mondo pur così permeato di riferimenti cristiani: «Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo». Sì, seguire Gesù Cristo con la propria vita: in fondo, la semplice popolarità del cristianesimo, la fede dei piccoli è tutta qui.
Il diktat dell’Alta Corte
"Niente grazia per Asia Bibi" *
ISLAMABAD- Niente grazia per Asia Bibi. L’Alta Corte di Lahore ha impedito al governo di Islamabad di pronunciarsi a favore della donna cristiana condannata a morte per impiccagione con l’accusa di blasfemia per aver insultato il profeta Maometto 1. Diversi avvocati hanno infatti inviato una petizione alla Corte di Lahore per impedire che il presidente Asif Ali Zardari perdoni la Bibi 2. Il caso della donna, madre di cinque figli, ha mobilitato la comunità internazionale e lo stesso Papa Benedetto XVI ha chiesto il suo rilascio. La più influente alleanza sunnita pakistana, però, lunedì è scesa in piazza per chiedere che non venga concessa la grazia la donna in quanto il rischio è che il Paese sfoci nell’anarchia.
Asia Bibi è stata condannata a morte l’8 novembre in base alla legge sulla blasfemia, che prevede la pena capitale per chi commette questo reato, ma che al momento in Pakistan non è mai stata eseguita. Le accuse contro la donna, però, risalgono al giugno del 2009, quando è stata denunciata con l’accusa di aver offeso il profeta Maometto durante una discussione con alcune musulmane. La Bibi è stata la prima donna pakistana a essere condannata a morte in base alla legge sulla blasfemia in vigore nel Paese, dove i cristiani sono meno del cinque per cento della popolazione. La sua sentenza potrà essere messa in atto solo se sarà confermata in appello dall’Alta Corte di Lahore, che al momento non ha ancora fissato una data per l’udienza.
* la Repubblica, 29 novembre 2010
Asia Bibi graziata dal presidente Zardari
Pakistan non abrogherà legge blasfemia
La notizia, diffusa ieri, era stata smentita. Oggi una nuova conferma data da Cnn che cita come fonte il il governatore del Punjab.
Gruppi religiosi musulmani hanno minacciato dure proteste contro la liberazione
ISLAMABAD - Ieri la notizia della grazia per Asia Bibi, la cristiana cristiana pachistana condannata a morte per blasfemia, aveva fatto il giro del mondo. Ma poco dopo la smentita aveva di nuovo fatto temere per la sorte della donna. Oggi una nuova conferma: il presidente Asif Ali Zardari ha concesso la grazia. Lo dice la Cnn citando il governatore del Punjab, Salman Taseer. "Il presidente Zardari è un liberale, non lascerà che questa povera donna muoia - ha detto -. Non sarà una vittima di questa legge". E ha aggiunto: "L’Alta corte dovrebbe sospendere la sentenza e rilasciarla. Se lo fanno, bene. Altrimenti, allora la grazieremo’’.
Si conclude così, una vicenda che ha tenuto migliaia di persone con il fiato sospeso e che ha suscitato manifestazioni di solidarietà e protesta in tutto il mondo. Nonostante il clamore suscitato dalla vicenda, però, il Pakistan non Il Pakistan non abrogherà la legge sulla blasfemia, ma si limiterà a introdurre degli emendamenti per evitare eventuali abusi contro le minoranze religiose. Lo ha detto oggi il ministro delle Minoranze, Shakbaz Bhatti, secondo quanto riporta il sito internet del quotidiano Dawn.
La legge, introdotta dal dittatore Zia al Haq negli anni Ottanta, gode di un vasto supporto nel Paese dove i musulmani sono il 95% della popolazione. Il ministro, un cristiano, ha detto che un’eventuale revoca potrebbe suscitare le proteste dei gruppi religiosi fondamentalisti che sono interessati a rovesciare il governo. Bhatti ha annunciato che "saranno tenute delle consultazioni con i diversi rappresentanti della società" per discutere delle modifiche da apportare, ma ha escluso l’abrogazione della severissima legge. "Dobbiamo valutare attentamente le reazioni di coloro che non sempre hanno sentimenti tolleranti. Per ora è sufficiente impedire che sia usata con altri fini" ha aggiunto.
Secondo alcune stime, dal 1987 oltre mille persone sono state incolpate per blasfemia, ma non un singolo caso è stato confermato in appello. Inoltre nessuna sentenza di morte è finora stata mai eseguita. Asia Bibi è stata prima donna a essere condannata alla pena capitale per blasfemia.
* la Repubblica, 23 novembre 2010
Un appello per il Pakistan
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo appello di UNICEF a favore delle popolazioni alluvionate del Pakistan *
“L’alluvione in Pakistan è un lento Tsunami.
Il suo potere distruttivo aumenterà e crescerà con il tempo.
Credetemi: questo è un disastro globale, una sfida globale.
E’ una delle più grandi prove per la solidarietà globale dei nostri tempi.”
Ban Ki-moon, Segretario Generale ONU, Assemblea Generale di New York, 19 agosto 2010.
Le inondazioni che hanno colpito il Pakistan nelle ultime settimane hanno già sommerso un quinto del paese. Interi villaggi cancellati, più di 17 milioni di persone coinvolte, oltre 3,5 milioni di bambini esposti al rischio di malattie legate alla contaminazione dell’acqua potabile come il colera, la dissenteria e la diarrea.
Come ci riferisce Martin Mongwanja, rappresentante UNICEF in Pakistan: “questo è il più grande disastro naturale che ha colpito il Pakistan a memoria d’uomo. La popolazione coinvolta è più numerosa di quella colpita dal terremoto di Haiti di gennaio e dallo tsunami del 2004. Milioni di donne e bambini stanno lottando per sopravvivere, spesso in condizioni disastrose. Aiutarli è una corsa contro il tempo”.
L’UNICEF, con i suoi partner, ha già allestito 24 ospedali da campo, e inoltre garantisce acqua potabile quotidianamente a quasi 2 milioni di persone, ma di fronte all’emergenza di milioni famiglie sfollate, con l’acqua che continua ad alzarsi di livello e con lo spettro di nuove piogge in arrivo, la situazione in Pakistan si aggrava di ora in ora.
Abbiamo bisogno del tuo aiuto!
Comitato Italiano per l’UNICEF Onlus
Manda questo messaggio a tutti i tuoi contatti, anche questo è un aiuto importantissimo.
Pakistan, un altro milione di sfollati
Le inondazioni continuano a devastare il Paese
ISLAMABAD - Un altro milione circa di persone è sfollato nelle ultime 48 ore nel Sindh, nel Pakistan meridionale, mentre le inondazioni continuano a devastare il Paese. Lo hanno reso noto oggi le Nazioni Unite a Islamabad.
EVACUATA ALTRA CITTA’, 300 MILA IN FUGA -Circa 300 mila abitanti di una città della provincia meridionale del Sindh stanno lasciando le loro case dopo la rottura di alcuni argini artificiali costruiti per contenere al piena record del fiume Indo. Lo riferisce stamattina Dawn News. Dopo lo straripamento avvenuto nella nottata, le autorità locali hanno dato l’ordine di evacuazione per i residenti del centro di Thatta che si stanno trasferendo con ogni mezzo in direzione di alcune alture dove l’esercito ha preparato degli accampamenti. "Centinaia di veicoli, carretti trainati da animali, carovane di muli e motocicli sono stati visti lasciare l’area" riferisce Dawn News che aggiunge anche che " la gente protesta per la mancanza di autobus e per il rincaro delle tariffe di trasporto". Ieri era scattato il piano di evacuazione per 400 mila persone in tre città lungo il bacino dell’Indo dove il livello dell’acqua continua a salire minacciando anche la metropoli di Hyderabad, a nord est di Karachi.
STANZIATI AIUTI PER 800 MILIONI DI DOLLARI
Pakistan, allarme nuove inondazioni
Evacuati in 200 mila nel sud del Paese
L’emergenza si sposta nella provincia del Sindh
Lunedì incontro tra le autorità di Islamabad e l’Fmi
MILANO - L’emergenza inondazioni si sposta nel sud. Una seconda ondata di monsoni colpisce il Pakistan, rischiando di aggravare il bilancio già drammatico di almeno 1.600 morti e 20 milioni di persone colpite. Le autorità della provincia meridionale del Sindh fanno sapere che le alluvioni hanno colpito almeno quattro distretti, incluse le aree urbane, e costretto alla fuga circa 200 mila persone in 24 ore. In 100 mila hanno lasciato la città di Shahdadkor. Evacuati anche, secondo il ministro regionale dell’Immigrazione Jam Saifullah Dharejo, la maggior parte dei villaggi circostanti.
EMERGENZA UMANITARIA E AIUTI - Nelle altre zone del Paese le acque iniziano invece a ritirarsi. Ma resta gravissima l’emergenza umanitaria. L’Organizzazione mondiale della Sanità lancia l’allarme epidemie e l’Onu avverte che 3,5 milioni di bambini rischiano di contrarre malattie mortali. Il Fondo monetario internazionale parla per il Pakistan di uno «sforzo economico enorme». Si terranno lunedì a Washington gli incontri con i funzionari di Islamabad, per aiutare il Paese a rivedere il suo budget e le sue prospettive finanziarie. Il Pakistan è un Paese dal delicato equilibrio politico e il malcontento nei confronti del governo, accusato di essere troppo «lento» nella gestione dell’emergenza, rischia di rafforzare i gruppi islamici fondamentalisti. Secondo il ministro degli Esteri pakistano, Mahmood Qureshi, ammontano a 800 milioni di dollari gli aiuti versati dalla comunità internazionale.
Redazione online
* Corriere della Sera, 22 agosto 2010
Il Pakistan ha bisogno di tutti noi
di BAN KI-MOON (La Stampa, 21/8/2010(
Domenica scorsa in Pakistan, sotto un cielo di piombo, ho visto un mare di sofferenza. Le acque dell’alluvione hanno spazzato via migliaia di città e di villaggi. Strade, ponti e abitazioni in ogni provincia sono andati distrutti.
Dal cielo ho visto migliaia di ettari di terreno agricolo - la risorsa essenziale dell’economia del Pakistan - inghiottiti dall’innalzamento delle acque. Sul terreno, ho incontrato gente terrorizzata, che vive nella paura quotidiana di non riuscire a sfamare i propri figli o a proteggerli dalla prossima ondata di crisi: la diffusione di diarrea, epatite, malaria e colera. La portata del disastro quasi sfida l’umana capacità di comprensione. In tutto il Paese si stima che tra 15 e 20 milioni di persone siano state toccate dall’alluvione: più di quanti furono colpiti dallo tsunami nell’Oceano Indiano, dal terremoto in Kashmir nel 2005, dal Ciclone Nargis nel 2007 e dal terremoto ad Haiti di quest’anno, messi insieme.
Almeno 160 mila chilometri quadrati di terreno sono sott’acqua, quasi l’equivalente dello Stato di New York. Perché il mondo è stato così lento nel comprendere le dimensioni di questa calamità? Forse perché un disastro così, con il suo impatto improvviso e le sue drammatiche operazioni di salvataggio, non si presta a essere riproposto in tv. Un terremoto può mietere decine di migliaia di vittime in un istante; in uno tsunami, città intere sono inghiottite in un istante insieme ai propri abitanti. Questa, invece, è una catastrofe al rallentatore - che va prendendo forma nel tempo. E che è ben lungi dall’essere finita.
Le piogge monsoniche potrebbero continuare per settimane. Anche se le acque si ritirano da alcune zone, nuove inondazioni ne interessano delle altre, in particolare nel sud. E ovviamente sappiamo che ciò sta accadendo in una delle regioni più problematiche del mondo, dove stabilità e prosperità sono nell’interesse comune di tutto il mondo. Per tutti questi motivi, le inondazioni di agosto sono molto più di un disastro che riguarda esclusivamente il Pakistan. Esse rappresentano piuttosto la più grande prova di solidarietà globale del nostro tempo.
Ecco perché le Nazioni Unite hanno lanciato un appello per aiuti di emergenza del valore di 460 milioni di dollari. Si tratta di meno di un dollaro al giorno per persona per tenere in vita sei milioni di individui per i prossimi tre mesi - compresi tre milioni e mezzo di bambini. L’impegno in aiuti internazionali cresce di giorno in giorno. Meno di una settimana dopo il lancio dell’appello, siamo già a metà strada, anche se l’entità della risposta è inadeguata alla dimensione del disastro. Giovedì, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è riunita per intensificare i nostri sforzi collettivi. Se agiamo ora, una seconda ondata di morti causata da malattie trasmesse dall’acqua può essere prevenuta. Non è facile organizzare operazioni di soccorso in condizioni tanto difficili, a volte rischiose. Ma l’ho visto accadere in tutto il mondo, dalle più remote e pericolose zone dell’Africa fino alle città dilaniate ad Haiti. E ho visto la stessa cosa in Pakistan questa settimana.
Una moltitudine di agenzie Onu, gruppi di soccorso internazionali come la Croce Rossa/Mezzaluna Rossa e altre organizzazioni non governative hanno sostenuto il Governo del Pakistan nella risposta all’emergenza. Utilizzando camion, elicotteri, perfino muli per trasportare il cibo e per raggiungere quanti erano tagliati fuori dagli aiuti, abbiamo fornito razioni di cibo per un mese a circa un milione di persone. Più o meno lo stesso numero di persone ha ora un riparo di emergenza, e un numero ancora maggiore riceve acqua potabile ogni giorno. Medicinali anti-colerici, dosi di antidoto contro il veleno dei serpenti, strumenti chirurgici e sali di disidratazione orale stanno salvando sempre più vite.
Questo è un inizio, che richiede però un forte impulso. Sei milioni di persone non hanno cibo; 14 milioni necessitano di cure sanitarie, in particolare i bambini e le donne incinte. E man mano che l’acqua si ritira, dobbiamo agire rapidamente per aiutare la gente a ricostruire il proprio Paese e le proprie vite. La Banca Mondiale ha stimato danni alle coltivazioni per almeno un miliardo di dollari. Gli agricoltori avranno bisogno di semi, fertilizzanti e attrezzi utili per ripiantare, con l’intento di evitare che il raccolto del prossimo anno vada perso come quello attuale. I prezzi degli alimenti nelle maggiori città del Pakistan hanno già subito un’impennata. Nel lungo periodo, il grande danno provocato alle infrastrutture dovrà essere riparato: da scuole e ospedali a canali d’irrigazione, reti di comunicazione e trasporto. Anche le Nazioni Unite avranno un ruolo in tutti questi progetti.
Attraverso i media sentiamo parlare di «fatica» - voci secondo cui i governi sarebbero riluttanti a fronteggiare un altro disastro ancora, ed esiterebbero nel sostenere maggiormente questa parte del mondo. Ma è vero il contrario. I donatori stanno offrendo il proprio contributo al Pakistan e ciò è incoraggiante. Se qualcuno deve essere stanco, sono quelle persone normali che ho incontrato in Pakistan: donne, bambini, piccoli agricoltori e tutti coloro che hanno perso tutto, stanchi dei disastri, dei conflitti e della difficile situazione economica. Eppur, al posto della fatica, ho visto determinazione, resistenza e speranza: speranza e fiducia di non essere soli nelle loro ore più buie di bisogno. Semplicemente non si può rimanere a guardare e lasciare che questo disastro naturale si trasformi in una catastrofe umana. Restiamo vicini al popolo del Pakistan lungo tutto il difficile cammino che ci aspetta. *Segretario Generale delle Nazioni Unite
IL DISASTRO
Pakistan, nell’inferno del fango
Le Ong alla battaglia di cibo e acqua
L’alluvione lascia migliaia di morti e la totale emergenza alimentare e sanitaria. Da Msf alle altre organizzazioni il grande sforzo italiano
di CARLO CIAVONI *
ROMA - Difficile raccontare. Resta senza parole chi da tre settimane lavora in mezzo al fango, ai detriti e a ciò che resta di villaggi e città, nel nord della valle di Swat nelle province del Khyber Pakhtunkhwa o a Bakhtirabad nel Baluchistan. Sono i luoghi più colpiti dall’alluvione devastante che s’è abbattuta sul Pakistan. Le piogge monsoniche, cominciate alla fine di luglio e durate per giorni e giorni, hanno cancellato migliaia di vite umane e lasciato una scia di carcasse di animali annegati, macerie, malattie e lacrime, in una quantità che non ha possibili paragoni con eventi del genere accaduti in passato.
Coinvolte 20 milioni di persone. L’alluvione - provocata dal fenomeno monsonico, scaturito dal forte contrasto termico fra la terra molto calda e la temperatura del mare più fresca - ha già fatto seppellire, per ora, già più di 1.600 morti (ma il bilancio è ancora provvisorio) e costretto alla fuga oltre 8 milioni di persone, dei circa 20 milioni colpiti dall’immane disastro, con 3,5 milioni di bambini a rischio di malattie infettive, numerosi casi di polmonite, diarrea e malaria già accertati. Senza contare i 200.000 capi di bestiame inghiottiti dalle acque. I numeri del disastro, secondo la Federal Flood Commission sono questi: oltre 300mila case distrutte e 600.000 ettari di terreni coltivati inondati; più di 15mila mucche sono annegate solo negli ultimi otto giorni. Per rispondere allimmane tragedia, l’ONU stima siano necessari almeno 460 milioni di dollari, ma al momento le donazioni a livello globale non superano i 150 milioni
Il confronto con altri disastri. Tutto questo è aggravato, di ora in ora, dalle innumerevoli e gigantesche frane che stanno interessando oltre che molte aree del Pakistan anche il Kashmir indiano. Il confronto con altre emergenze umanitarie recenti mette in risalto ancor di più le proporzioni inaudite del disastro di oggi: il terremoto del 2005, sempre in Pakistan, colpì 3 milioni di persone; lo tsunami del 2006 provocato dal terremoto a largo dell’Indonesia, 5 milioni di persone; il sisma di Haiti "solo" 3 milioni.
L’ex Svizzera del Pakistan. Ora le acque del fiume Swat - nell’omonima valle, conosciuta come la Svizzera del Pakistan, dove le famiglie andavano a passeggiare tra le montagne e godersi i prati sulle rive del fiume per i picnic - sono uscite dagli argini ed hanno ingoiato ben 25 ponti, con una furia mai vista. Acque impetuose che continuano a precipitare giù verso il fiume Indus, che sfocia sul mar Arabico.
I problemi più urgenti. I problemi più urgenti da risolvere sono la mancanza di generi alimentari, acqua potabile soprattutto, perché i pozzi sono pieni di fango, e poi medicinali, energia elettrica, gas... Ma le frane, i detriti, le rovine di ogni genere, rendono difficilissimi i soccorsi. Scene già viste nel 2006, del resto, ad un anno esatto dal terremoto, quando tutto sembrava rimasto come 12 mesi prima, un po’ per le oggettive difficoltà di raggiungere i luoghi colpiti, ma soprattutto per l’assenza delle istituzioni locali, alle quali si sostituirono - come accade oggi - le organizzazioni umanitarie.
L’appello del premier Gilani. Anche il premier Yusuf Raza Gilani, dopo aver visitato le zone inondate ha rivolto un "appello accorato" alla comunità internazionale perché arrivino nuovi aiuti per far fronte alla "alla peggiore catastrofe umanitaria della storia del Pakistan".
Il contributo delle Ong italiane. Di fronte a tutto ciò, è stata immediata la risposta delle Ong italiane. Moschee, scuole e cortili privati sono diventati punti di distribuzione per l’acqua, il bene primario di cui si sente più bisogno in questo momento. "L’attenzione su questa emergenza è purtroppo assolutamente inadeguata alle dimensioni della catastrofe", ha detto Marco Bertotto, direttore di AGIRE, il coordinamento di alcune tra le più autorevoli e accreditate Ong - ActionAid, AMREF, CESVI, CISP, COOPI, COSV, GVC, Intersos, Save the Children, Terre des Hommes e VIS - che hanno scelto di unire le proprie forze per intervenire in modo tempestivo sulle grandi emergenze umanitarie. "Solo aumentando la visibilità sul dramma che stanno vivendo 20 milioni di persone in Pakistan sarà possibile portare gli aiuti necessari e sostenere l’impegno generoso delle organizzazioni umanitarie". Donazioni con carta di credito al numero verde 800.132.870. Donazioni on line dal sito internet www.agire.it
I Medici Senza Frontiere. Intanto, gli operatori di Medici Senza Frontiere sono già presenti in Pakistan da 10 anni, e sono dunque potuti intervenire sin dalle prime ore. A 3 settimane dalle alluvioni i 1.126 operatori umanitari (tra staff internazionale e operatori pakistani) hanno utilizzato più di 110 tonnellate tra medicinali, kit per il trattamento del colera e materiali per la potabilizzazione dell’acqua. Per il miglioramento delle condizioni igieniche sono state effettuate oltre 14.302 consultazioni mediche, di cui una buona parte attraverso 9 cliniche mobili, sono stati distribuiti 8.938 kit di prima necessità e kit igienici a oltre 62.000 persone e 4.700 tende distribuiamo ogni giorno oltre 480.000 litri d’acqua potabile alle comunità colpite dalle alluvioni
Gli aiuti più urgenti di MSF. Punti di distribuzione d’acqua sono stati allestiti a Charsadda, nel Lower Dir (vicino Khazana ) e in 8 località dello Swat (circa 100.000 persone). Inoltre, MSF garantisce la fornitura di acqua potabile all’ospedale distrettuale nel Lower Dir. A Tangi, a nord di Charsadda, MSF ha identificato nuclei familiari che hanno perso le loro case e che vivono in edifici scolastici. I bisogni medici sono coperti, ma MSF sta pianificando una distribuzione di kit igienici, kit per costruire ripari e kit da cucina. Altre distribuzioni verranno effettuate nei prossimi giorni per le migliaia di famiglie sfollate nei distretti di Nowshera e Peshawar.
Le équipes mediche. Nella zona di Nowshera, dal primo agosto MSF ha iniziato a supportare il Pabbi Satellite Hospital. L’équipe medica di MSF effettua una media di 275 visite al giorno e le patologie più frequentemente riscontrate sono: malattie della pelle e diarrea acuta. Dal 2 agosto, MSF supporta anche l’ospedale distrettuale di Nowshera, concentrandosi sulle attività di pronto-soccorso e ambulatoriali. Nei prossimi giorni, prima di riconsegnare l’ospedale alle autorità locali, MSF ripristinerà i sistemi di fornitura elettrica e di acqua potabile. MSF ha fornito anche 3 ambulanze per il trasferimento dei pazienti.
Le cliniche mobili. Nell’area di Peshawar, con un sistema di cliniche mobili MSF fornisce supporto alle strutture sanitarie locali. A Bakhtirabad, una delle città più colpite del Belucistan, MSF ha distribuito tende e kit igienici per circa 750 famiglie. Nel canale di Fadfedar, sempre in Belucistan, i team di MSF hanno distribuito kiti igienici, da cucina e taniche per l’acqua a oltre 250 famiglie. Nei prossimi giorni verranno effettuate altre distribuzioni che includeranno pastiche di cloro (per disinfettare l’acqua) e zanzariere per prevenire la malaria.
Il capo missione MSF. "Non siamo ancora in grado di dire se questi casi sono legati alle conseguenze delle alluvioni", spiega Pierluigi Testa, capo missione per MSF nel Baluchistan. "Terremo sotto controllo l’aspetto nutrizionale perché la situazione alimentare sta peggiorando dato che gli allagamenti mettono a rischio il prossimo raccolto. In molte zone i bisogni della popolazione rimangono urgentissimi". E ancora: "La nostra priorità è fornire acqua potabile a più persone possibile", riferisce Thomas Batarday, che coordina la distribuzione dell’acqua a Charsadda. "Stiamo distribuendo più di 85.000 litri d’acqua al giorno, attraverso i 21 punti di erogazione che abbiamo messo in piedi nella città. Li terremo attivi finché il sistema idrico non sarà di nuovo in funzione". Punti di erogazione dell’acqua sono stati attivati anche a Lower Dir e in otto località della provincia di Swat (per circa 100.000 beneficiari). Inoltre, MSF fornisce acqua pulita all’ospedale distrettuale di Lower Dir e sta lavorando per ripristinare la fornitura di acqua potabile nel Nowshera attraverso il reintegro del complesso idrico e il trasporto dell’acqua.
* la Repubblica, 20 agosto 2010
EMERGENZA ALLUVIONI
Pakistan, 20 milioni di sfollati in fuga dalle inondazioni
Almeno 1.400 i morti e oltre il 12% della popolazione in difficoltà in cerca di un riparo. La Farnesina: "Rintracciati in India tutti gli italiani nelle zone dei monsoni"
di PIETRO DEL RE *
LE CATACLISMICHE alluvioni che colpiscono il Pakistan hanno già flagellato la vita di 20 milioni di persone, pari al 12 per cento della popolazione. Lo ha reso noto ieri il premier Yusuf Raza Gilani nel sommesso discorso tenuto in occasione dell’anniversario dell’indipendenza del paese, evento che in segno di lutto è stato celebrato senza feste o parate militari. "La sfida più grande che il nostro governo sta affrontando è la riabilitazione di coloro che si trovano in difficoltà senza cibo, vestiti o riparo, alle prese con malattie di ogni genere", ha detto Gilani.
Sono raccapriccianti, le cifre del disastro. Mancano elettricità e acqua potabile, ponti e strade sono stati distrutti, molte aree sono raggiungibili solo per via area. Tra la province di Khyber Pakhtunkhwa, Punjab e Sindh, dove l’acqua che avanza non ha ancora raggiunto il suo culmine, milioni di ettari di frumento sono andati distrutti. Perciò, un sacco di farina di 40 chili costa adesso 5000 rupie, il doppio dall’inizio dell’emergenza. Dopo aver inondato tutte le città sulle sue sponde, il fiume Indo ha raggiunto in alcuni tratti una larghezza di 25 chilometri, che è venti volte quella normale.
Il presidente Asif Ali Zardari, criticato per aver continuato una sua visita a Londra nonostante il disastro, ha tracciato un bilancio indicando che 71 distretti hanno subito gli effetti di piogge e inondazioni, 720.000 case sono andate distrutte e 1,2 milioni di persone hanno perso tutto. Si materializzano anche i rischi di epidemie: nell’ospedale di Mingora, principale città della Valle dello Swat, è stato ieri segnalato un caso di colera, oltre ad altri sei sospetti.
Solo nelle ultime ore sono state evacuate intere città con centinaia di migliaia di abitanti. Nell’area di Kutcha, l’acqua ha sommerso 25mila villaggi. Per oggi è atteso il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che si recherà nelle zone più devastate dalle peggiori inondazioni degli ultimi 80 anni.
Sempre ieri, un gruppo di sfollati ha assalito un convoglio di mezzi di due ong carichi di aiuti per le vittime. L’assalto è avvenuto vicino al villaggio di Jadeywala, nel distretto di Muzaffargah, nella provincia del Punjab, una zona evacuata in vista di nuove inondazioni. Altrove, dopo analoghi attacchi, la polizia ha disperso la folla affamata con i manganelli e arrestato cinque persone.
Intanto, sono stati tutti rintracciati gli italiani presenti nel Ladakh, regione dell’India colpita dalle alluvioni nei giorni scorsi. Lo riferisce la Farnesina evidenziando che "chiaramente non escludiamo ve ne siano altri che non sono stati ancora segnalati, ma prevale l’ottimismo". Proseguiranno invece le ricerche di Riccardo Pitton, il ragazzo torinese disperso durante le inondazioni. Il ministero degli Esteri insiste nello scoraggiare i turisti a recarsi a Leh o a proseguire verso le zone inondate. Si è aggravato infine il bilancio delle vittime per le frane nella provincia cinese di Gansu, nel nord-ovest del paese. Il numero delle vittime è salito a 1.239. Ma il tragico computo dei morti potrebbe aggravarsi, poiché mancano all’appello circa 500 persone.
* la Repubblica, 15 agosto 2010
Serve l’aiuto internazionale
Il Pakistan tra alluvioni e terrorismo
di Gabriele Nicolò *
Lotta al terrorismo ed emergenza umanitaria causata dalle devastanti alluvioni: è la doppia sfida al Pakistan e che, nello stesso tempo, sollecita il sostegno della comunità internazionale. In un Paese già segnato dalla povertà, è facile prevedere, anche sulla base delle ultime stime del Fondo monetario internazionale, che l’endemica crisi economica, a seguito delle alluvioni, (che hanno colpito circa 14 milioni di persone) assumerà presto proporzioni ancor più vaste. La popolazione è in ginocchio, mentre incombono carestia e malattie. La comunità internazionale ha cominciato a mobilitarsi con l’obiettivo di alleviare, per quanto possibile, queste ferite profonde. Ma sul fronte della lotta al terrorismo, la stessa comunità internazionale si dice scettica sull’atteggiamento delle autorità di Islamabad, sospettate di non fare abbastanza per estirpare dal territorio la presenza talebana. E, fatto non meno grave, di dare rifugio ad alcuni leader guerriglieri, considerati le menti di attentati e imboscate.
Le autorità di Islamabad, oltre a respingere ogni addebito, si stanno offrendo, con sempre maggiore insistenza, come interlocutore privilegiato nell’ambito degli sforzi diplomatici per uscire dalla crisi afghana e regionale. Sull’effettivo contributo che il Pakistan può dare alla lotta al terrorismo pesa la difficile realtà, sociale e politica, con la quale il Paese deve fare i conti: una realtà che le alluvioni, e il conseguente disastro ambientale, hanno reso ancor più drammatica.
Sul piano politico, dunque, la comunità internazionale valuta con sospetto l’atteggiamento ondivago del Pakistan nei riguardi del terrorismo. Ma Islamabad - il cui Governo, tra l’altro, è segnato da tensioni interne - non demorde e si dice determinata a rivelarsi una delle chiavi per risolvere la crisi regionale.
Quando il presidente pakistano Zardari ha valutato, in un’intervista a "Le Monde", che l’Occidente sta perdendo la guerra contro il terrorismo, Kabul ha replicato sostenendo che, di fronte a tale sfida, occorrerebbe una più forte cooperazione regionale e globale. Il presidente pakistano, nel lanciare il suo allarme, intendeva sottintendere, come rilevano alcuni analisti, che la guerra contro il terrorismo potrebbe avere miglior sorte se il ruolo di Islamabad fosse adeguatamente valorizzato.
Recentemente le autorità pakistane hanno comunicato di aver arrestato il numero due nella gerarchia talebana, il mullah Abdul Ghani Baradar, da tempo ricercato. Islamabad ha sottolineato che il suo arresto è anche un segno della volontà di cooperare nella lotta al terrorismo nell’intera regione, nonché la risposta a quanti sospettano che il Pakistan, in proposito, non faccia abbastanza. L’accusa è stata rinnovata nei giorni scorsi dal premier britannico David Cameron. La reazione di Islamabad non si è fatta attendere: durante l’incontro, a Londra, con Cameron, il presidente pakistano Zardari ha rivendicato il ruolo del proprio Paese nella lotta al terrorismo, chiedendo più fiducia in Islamabad.
Quella di Cameron è solo l’ultima di una serie di critiche che la comunità internazionale ha rivolto al Pakistan. Non fu certo tenero il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, quando, nei mesi scorsi, le autorità di Islamabad firmarono un’intesa con i talebani per gestire il controllo della strategica valle dello Swat. Il capo della diplomazia statunitense accusò il Pakistan di "eccessiva accondiscendenza" nei riguardi dei guerriglieri. Clinton parlò anche di "compromesso" che avrebbe potuto avere gravi ripercussioni sui già fragili equilibri nella regione. Al segretario di Stato americano fece presto eco l’Unione europea, dicendo di dubitare dell’affidabilità del Pakistan quale alleato nella lotta al terrorismo. Zardari e il premier Gilani hanno sempre ribattuto a queste accuse, replicando con la promessa di un vero impegno per estirpare dal territorio la presenza talebana.
Negli ultimi tempi, con l’arresto di vari terroristi e con offensive militari nelle aree giudicate più a rischio, il Pakistan sta riacquistando la fiducia della comunità internazionale. Di recente lo stesso presidente Obama ha preso le difese di Islamabad, accusato di "collaborazionismo" con i talebani: il capo della Casa Bianca ha tenuto a sottolineare che il Pakistan rimane un alleato prezioso nello scenario mondiale. Certo la fuga di notizie sulla guerra in Afghanistan (oltre novantamila documenti segreti del Pentagono) da cui emergerebbero legami tra i servizi segreti pakistani e i talebani, non aiuta a migliorare le credenziali del Pakistan. Colpisce, tuttavia, l’immediata difesa formulata dall’Amministrazione statunitense che, sgombrando il campo da possibili speculazioni, ha dichiarato che i rapporti fra Washington e Islamabad non subiranno ripercussioni: tanto meno da congetture tutte da verificare.
Spicca dunque la riserva di fiducia sulla quale il Pakistan (nonostante le critiche che gli vengono mosse) può ancora contare, anzitutto da parte degli Stati Uniti, che a loro volta, secondo un chiaro calcolo politico, sanno che volgere le spalle a Islamabad significherebbe privarsi di un utile sostegno nella guerra al terrorismo. La recente visita di Hillary Clinton a Islamabad è stata indicativa di questa strategia del "bastone e della carota": il capo della diplomazia statunitense, mentre invitatava le autorità pakistane a impegnarsi più a fondo contro i terroristi, annunciava cospicui aiuti economici a beneficio di Islamabad.
* ©L’Osservatore Romano - 13 agosto 2010
Coinvolte nelle alluvioni quattordici milioni di persone
In Pakistan emergenza umanitaria senza precedenti *
New York, 10. Sul piano dell’emergenza umanitaria e delle distruzioni materiali, le alluvioni che hanno colpito il Pakistan stanno avendo conseguenze addirittura più gravi di quelle dello tsunami del 26 dicembre 2004 o del terremoto ad Haiti del 12 gennaio di quest’anno o di quello che devastò il Pakistan stesso nel 2005. Lo ha sottolineato ieri l’ufficio dell’Onu per il coordinamento degli interventi umanitari (Ocha). Evidentemente il pur terribile numero di milleseicento morti accertati nelle inondazioni, riferito ancora oggi dal Governo di Islamabad, non è paragonabile alle centinaia di migliaia di vittime causate in tanti Paesi dalla terribile ondata di maremoto del 2004 o ai 230.000 morti di quest’anno ad Haiti. Tuttavia, l’affermazione riferita dal portavoce dell’Ocha, Maurizio Giuliano, ha purtroppo senso, dato che le persone coinvolte in varia misura nelle alluvioni sono 14 milioni - compresi sei milioni di bambini - come riferiscono concordemente l’Un News Centre, il sito internet dell’Onu, il Governo di Islamabad e le diverse organizzazioni impegnate nei soccorsi.
Lo stesso Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, rivolgendo ieri un nuovo appello alla solidarietà internazionale, ha detto che la scala del disastro rivaleggia con quella del sisma del 2005, ma coinvolge territori molto più vasti e molte più persone. Il terremoto, infatti, ebbe effetti su una superficie di circa trentamila chilometri quadrati, con tre milioni di abitanti. Le alluvioni di questi giorni hanno interessato una superficie di 132.000 chilometri quadrati, con appunto 14 milioni di persone coinvolte, compresi più di cinque milioni di sfollati, con 650.000 case distrutte, il 90 per cento dei ponti crollati e la quasi totalità delle strade impraticabili.
Proprio questo rende estremamente difficoltosa l’azione dei soccorritori, impegnati in una lotta contro il tempo per portare cibo, medicinali e generi di prima necessità. Intanto incombe il pericolo di nuove inondazioni provocate dalle piogge monsoniche, previste di forte intensità per tutto il mese di agosto. La Caritas Pakistan, che è riuscita a portare aiuti a 2.500 famiglie in alcune delle zone più colpite, sottolinea che anche quando i monsoni saranno terminati ci vorranno molte settimane prima che le centrali elettriche e le altre infrastrutture tornino a funzionare normalmente. Fino ad allora, resterà la minaccia di quello che già oggi è il maggior motivo di apprensione, cioè il diffondersi di malattie e il rischio di epidemie causate dalla mancanza di acqua potabile. "Quella delle epidemie potrebbe infatti diventare la causa principale di morte nelle prossime settimane", si legge in una nota diffusa ieri dalla Caritas italiana, impegnata a sostegno di quella pakistana.
Analogo allarme è giunto dalle agenzie dell’Onu e dalle organizzazioni non governative impegnate in Pakistan, concordi nel giudicare priorità immediate assicurare ai sinistrati acqua potabile e cibo e ripristinare le reti di trasporto per accelerare la consegna degli aiuti. Già in questa fase e più ancora nelle prossime settimane, l’Onu sollecita dalla comunità internazionale una forte risposta di solidarietà agli appelli del Governo di Islamabad. L’inviato speciale dell’Onu nella zona del disastro, Jean Maurice Ripert, ha confermato che il Pakistan avrà bisogno di ricevere un consistente aiuto finanziario dalla comunità internazionale, per far fronte a questa crisi.
Dopo il Khyber Pakhtunkhwa, il Gilgit Baltistan, l’Azad Kashmir, il Belucistan e il Punjab, ora rischiano di essere inondate anche le fertili pianure meridionali del Sindh, dove si teme in particolare per la tenuta della diga di Sukkur. Il flusso d’acqua che preme sulla diga è stato stimato ieri a 1,4 milioni di metri cubi al secondo, a fronte di una capacità di resistenza valutata a novecentomila litri. La parte settentrionale del Sindh è già sotto l’acqua e i soccorritori da giorni continuano a sgomberare migliaia di famiglie delle zone sulle rive dell’Indo in piena che rischia di esondare. Anche nel Sindh, come più ancora nelle regioni nordorientali, le frane hanno aumentato l’isolamento delle zone più colpite. Il maltempo ha reso difficile anche agli elicotteri la consegna del cibo in alcune zone della valle dello Swat, a nord ovest di Islamabad, una delle zone più colpite dalle inondazioni. Un portavoce dell’esercito ha comunicato che si stanno utilizzando un centinaio di muli per portare aiuti nei posti più remoti della valle dello Swat in cui gli elicotteri non riescono ad arrivare.
Nel frattempo, le conseguenze del maltempo si rivelano di ora in ora più gravi anche nelle altre regioni dell’Asia colpite. Nello Stato indiano dello Jammu e Kashmir, le vittime accertate finora sono 165, ma altre quattrocento persone risultano disperse. Tra i morti ci sono anche 16 stranieri, compreso un italiano, come ha confermato questa mattina il ministero degli Esteri di Roma. In Cina, sono 702 i morti accertati e un migliaio i dispersi nelle disastrose inondazioni che hanno colpito la zona di Zhoqu, nella provincia nord orientale tibetana del Guansu.
In Africa la situazione più difficile resta quella del Burkina Faso, ma il Paese più colpito è la Sierra Leone, dove ci sono stati 16 morti. In leggero miglioramento, ma sempre allarmante, è invece la situazione nell’Europa nordorientale, dove non si segnalano nuove vittime dopo le quindici registrate nei giorni scorsi in Germania, Polonia, Repubblica Ceca e Lituania.
* ©L’Osservatore Romano - 11 agosto 2010
ALLARME MALTEMPO
Alluvioni in Pakistan, quasi 300 morti
Frane e case distrutte, migliaia di sfollati
Emergenza nelle province nordoccidentali del Paese. Centinaia di migliaia di sfollati
MILANO - Sale ad almeno 267 morti e decine di dispersi il bilancio dell’ondata di maltempo che negli ultimi giorni ha flagellato le province nordoccidentali del Pakistan. Lo riferiscono i media di Islamabad. Il presidente della Repubblica, Asif Ali Zardari, ha preso contatto con le autorità provinciali e chiesto al premier, Syed Yusuf Raza Gilani, di predisporre i soccorsi e tutti i necessari aiuti di emergenza.
VILLAGGI ISOLATI - Le piogge incessanti hanno fatto salire a dismisura il livello dei fiumi, che hanno rotto gli argini in più punti e abbattuto ponti, creando una grave emergenza: centinaia di migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le loro case invase dalle acque. Moltissime altre, invece, sono bloccate in cittadine e villaggi che, a causa delle inondazioni, non dispongono di vie di fuga terrestri. È il caso delle località di Kabal, Matta, Bari Kot, Charbagh, Khwaza Khela, Behrin e Babuzai. I distretti più colpiti, riferisce GEO Tv, sono quelli di Swat e Shangla, dove in particolare l’esondazione del fiume Swat ha causato gravissimi danni alle zone residenziali.
LE VITTIME - Difficile in questa emergenza tenere una corretta contabilità delle vittime, ma a quanto sembra è Shangla a registrare il maggior numero di morti, circa un centinaio. Nella Valle dello Swat si segnala il decesso di almeno 25 persone, mentre altre 16 sono state sepolte da uno smottamento di terra ad Alandar. Infine, nell’Upper Dir, 780 case, 34 scuole, sei ponti principali, 28 ponti di collegamento e centinaia di ettari di terra hanno subito distruzioni per il maltempo.
Redazione online
* Corriere della Sera, 30 luglio 2010
IL TEMPIO CHIUSO PER LA PRIMA VOLTA DA SECOLI
Pakistan, 42 morti in attacco suicida
Colpita la moschea di Data Darbar a Lahore: i feriti sono 180 *
ISLAMABAD È di almeno 42 morti il bilancio di un attentato suicida contro la moschea sufi di Data Darbar a Lahore, in Pakistan, mentre i feriti sono circa 180, dopo l’attacco di due attentatori suicidi. Per la prima volta da secoli il tempio è stato chiuso per ragioni di sicurezza, proprio in una giornata festiva (il venerdì islamico) in cui sono migliaia i fedeli che affluiscono all’edificio.
La città di Lahore è praticamente in stato d’assedio: tutti i punti di ingresso e di uscita della città sono controllati dalle forze di sicurezza pachistane, mentre cospicui contingenti di polizia sono stati dispiegati nella città e nell’area circostante. Severissime misure di sicurezza sono state imposte in tutti i templi minori e maggiore nel Punjab e a Lahore.
Intanto non mancano le polemiche. L’emittente televisiva TV Geo sostiene che il 24 giugno sarebbe stato inviato al governo provinciale un avvertimento dell’imminanenza di un possibile attacco suicida contro la mosche sufi di Data Darbar, ma sarebbe stato ignorato.
* La Stampa, 2/7/2010 (9:49)
Nel volo del Profeta l’incontro delle civiltà
Nuova traduzione del Viaggio notturno, un testo fondamentale della tradizione islamica: siamo tutti figli della contaminazione
di Elena Loewenthal (La Stampa, 27/6/2010)
Fatima era una bambina curiosa. «Bussarono alla porta. Fatima uscì per vedere chi era e trovò un individuo ingioiellato e parato a cerimonia con due ali verdi che sbarravano la vista a Oriente e a Occidente». La piccola tornò in casa e disse all’inviato di Dio: «Padre mio, alla porta c’è qualcuno che mi ha messo paura e sgomento!».
Con questa vivida scena e le parole di sua figlia, comincia il viaggio del profeta Muhammad, cioè Maometto. Siamo nell’ottavo anno della sua missione, e la figura alata che bussa alla porta del fondatore dell’Islam è l’arcangelo Gabriele: i luoghi che il profeta andrà a visitare esigono un dito che indichi, una voce che spieghi. Se per Dante furono Virgilio e Beatrice, a scortare Muhammed saranno questo «fratello» celeste e Buraq, «volto umano e il corpo come quello di un cavallo... la criniera fatta di una tramatura di perle fresche e mature e bacchette di giacinto, scintilla di luce».
Il Viaggio notturno e l’ascensione del Profeta è un testo fondamentale della tradizione islamica, che Ida Zilio Grandi propone per la prima volta in una suggestiva traduzione italiana dall’originale arabo, con una prefazione di Cesare Segre e una postfazione di Maria Piccoli (Nue Einaudi, pp. XLI-102, € 24). È questo un racconto di grande tenuta poetica e generosità immaginifica, che si legge come un’avventura dall’estetica raffinata. Del resto sono proprio le due civiltà iconofobe - l’ebraismo e l’Islam - ad aver dato alle parole la capacità di plasmare al posto dell’arte figurativa quelle immagini che esse considerano pericolose scorciatoie verso l’idolatria.
Il viaggio del profeta sono in realtà due, come sottolinea Cesare Segre. Uno che spazia nella dimensione orizzontale e conduce il viaggiatore dalla città lucente di Medina sino al «tempio più remoto» (al masgid al-aqsa) che la tradizione islamica identificherà in Gerusalemme. L’altro che parte di lì e grazie a una «scala» (che tanto in ebraico quanto in arabo si dice sullam) giunge nell’alto dei cieli, in verticale. Non a caso, il punto da cui secondo la tradizione Muhammad spiccò il volo in sella a Buraq per visitare il Paradiso e guardare l’inferno è esattamente lo stesso sul quale il patriarca Giacobbe si addormentò apposta per sognare la sua, di scala, con un frenetico viavai di angeli.
«Lassù, tra le creature di Dio Eccelso e Sommo, vidi un angelo tanto enorme che se Dio gli ordinasse di inghiottire in un solo boccone tutti e sette i cieli lo farebbe con facilità», dice il Profeta dell’Islam. L’angelo che fa accapponare la pelle è Malik, il guardiano dell’Inferno, dove tra i tanti vi è chi beve «acqua purulenta e quando un po’ giunge loro nel ventre, ecco che la pelle cade a brandelli, e poi torna a formarsi nuovamente» (sono gli usurai). Sopra c’è il invece Paradiso, dove la «terra bianca è come fosse argento, i ciottoli di perle e di corallo, la polvere è di muschio, le piante di zafferano, gli alberi hanno foglie d’argento e foglie d’oro e sono coperti di frutti simili a stelle luccicanti». E qui conviene lasciare al lettore curioso la sorpresa...
Questo cammino mistico trova il suo spunto là dove nel Corano è detto «Gloria a colui che rapì di notte il Suo servo... per mostrargli parte dei Nostri segni» (17, 1). La tradizione islamica è incerta se attribuire una dimensione «corporea» a questo viaggio o farne piuttosto qualcosa di diverso - un’avventura vissuta da Muhammed attraverso l’anima.
Non è difficile intravedere in questo testo paralleli e convergenze fra civiltà. A incominciare naturalmente da Dante, dei cui rapporti con la cultura islamica e questo filone in particolare molto è stato detto, e passando per le visite in paradiso e inferno di cui è ricca la tradizione ebraica, con una poetica propensione all’iperbole molto simile a quella che si trova qui - dove si perdono le proporzioni di spazio e tempo, e dove la luce ha una ricchezza di sfumature difficilissima da rendere (Ida Zilio Grandi ci è riuscita a dire il vero benissimo).
Di fronte a questo testo così antico, così «straniero» eppure così familiare, chi dispensa sul passato, sul presente e anche sul futuro l’etichetta «scontro di civiltà» si troverà un po’ spiazzato: scoprirà che siamo tutti figli della contaminazione. E a volte, come in questo caso, decisamente felice.
IL PAESE NEL CAOS
Pakistan, attacco all’ospedale: è strage
Lahore, commando nell’edificio
Almeno 12 morti, alta tensione *
ISLAMABAD. Alcuni uomini hanno aperto il fuoco contro un ospedale a Lahore (est del Pakistan), uccidendo 12 persone. Lo hanno reso noto fonti mediche. Secondo i medici, nell’ospedale sono ricoverate decine di persone rimaste ferite negli attacchi di venerdì scorso a due moschee di ahmadi, una setta musulmana minoritaria (80 morti e 110 feriti).
L’attacco sarebbe stato compiuto almeno da tre uomini che hanno fatto irruzione nell’edificio sparando a casaccio. Un responsabile dell’ospedale ha detto che «gli aggressori hanno preso numerosi osrtaggi». Secondo una fonte che ha chiesto l’anonimato sarebbe stato ucciso anche uno dei killer di venerdì scorso, che era rimasto ferito ed era curato nella struttura.
L’attacco di venerdì scorso è stato rivendicato dai Talebani e le autorità ritengono che sia stato eseguito da sette persone, di cui solo due sono sopravvissute. Rana Sanaullah, esponente del governo della provincia del Punjab, di cui Lahore è la capitale, ha spiegato che gli esecutori dell’attacco hanno ricevuto due mesi e mezzo di formazione in Waziristan, regione tribale ai confini con l’Afghanistan. Domenica mattina hanno preso il via nel cimitero di Rabwa, a nord-ovest di Lahore, le cerimonie di sepoltura delle vittime degli attacchi, mentre la comunità Ahmadiya ha rivendicato il suo diritto a essere protetta dalle autorità pakistane.
«Non siamo anche noi cittadini del Pakistan? Abbiamo il diritto di essere protetti, ma sfortunatamente questa protezione non ci è riconosciuta», ha detto al sito del quotidiano Dawn, Raja Ghalab Ahmad, un leader locale degli Ahmadi, comunità nel mirino degli estremisti e sgradita alle autorità perchè giudicata eretica.
* La Stampa, 31/5/2010 (21:44)
PAKISTAN
Lahore, assalto a due moschee
Duemila in ostaggio, decine di morti
I commando hanno fatto irruzione durante la preghiera del venerdì sparando e gettando granate. Gruppo filotalebano rivendica: il loro obiettivo è la setta Ahmadi. Uccisi 5 dei 7 attentatori
ISLAMABAD - Duemila persone riunite in preghiera in due moschee di Lahore, nell’Est del Pakistan, sono state prese in ostaggio dal Punjab del Tehrik-i-Taliban Pakistan (Ttp), movimento armato clandestino talebano in lotta con il governo centrale di Islamabad. Gli uomini del commando hanno fatto irruzione sparando all’impazzata e lanciando bombe a mano e poi si sono asserragliati, cominciando a sparare dai tetti sulle forze di sicurezza che hanno circondati gli edifici. Gli attacchi simultanei avrebbero fatto decine di vittime, ma non è ancora stato fornito un bilancio ufficiale mentre l’operazione dell’esercito per liberare i templi è in corso e le tv riprendono immagini di corpi di morti e feriti trascinati all’esterno.
Secondo l’emittente Express News, il commando che ha attaccato la prima moschea era formato da quattro o cinque uomini "fortemente armati ed addestrati". I due luoghi di culto attaccati dai talebani sono a diversi chilometri di distanza l’uno dall’altro: nel quartiere di Garhi Shahu, dove i 2.000 fedeli sono stati rinchiusi nel tempio, e l’altro nella ricca zona di Model Town. Le autorità parlano di circa 9 morti ma hanno spiegato che l’eventualità che ce ne siano altri è probabile. Mohammed Hussain, funzionario di polizia, ha spiegato che "uno scontro a fuoco è ancora in atto’’ mentre i talebani sparano sulle forze di polizia dai tetti delle moschee. Secondo Dawn News Tv, oltre a due uomini della sicurezza, sono state uccise molte persone e molte altre sono state ferite. Morti anche cinque dei sette terroristi che hanno sferrato l’attacco. Un altro è stato arrestato nel corso dell’operazione.
Gli attacchi hanno preso di mira il gruppo Ahmadi, in passato già bersaglio delle organizzazione fondamentaliste sunnite. Gli Ahmadi, gruppo "eterodosso" dell’Islam, sono infatti rifiutati dalla comunità islamica che non riconosce al suo fondatore, Mirza Ghulam Ahmad, lo status di movimento religioso. E anzi, gli Ahmadi vengono denominati "murtadd" a causa dell’incompatibilità tra le dottrine da loro professate e il credo islamico: l’Ahmadiyya, la dottrina, incoraggia il dialogo interreligioso ed è impegnata nell’opera di correzione dei vari malintesi "occidentali" sull’Islam. La situazione in Pakistan è ormai di emergenza. In tre anni sono stati effettuati circa 400 attentati e altrettanti attacchi da parte dei miliziani talebani alleati di Al Qaeda. Il bilancio è di più di 3.300 morti in tutto il Paese negli ultimi tre anni.
* la Repubblica, 28 maggio 2010
Pakistan: scarsa trasparenza sui civili uccisi dall’esercito
DI AWAB ALVI, TRADOTTO DA GAIA RESTA *
Sabato 10 aprile scorso l’esercito pakistano ha bombardato alcuni villaggi nella Valle di Tirah, regione del Khyber, provocando la morte di oltre 70 civili. I militari hanno negato l’episodio, mentre il governo locale ha confermato il versamento di un’indennità per i civili morti e feriti. «Tutti quelli che sono stati uccisi erano civili, innocenti al 100%», ha spiegato Jan Ikramullah Kukikhel, membro anziano di una tribù. Il quale ha poi raccontato di una casa abitata da donne, bambini e anziani che era stata bombardata: appena gli abitanti del villaggio si sono precipitati per salvare le persone intrappolate sotto le macerie, anch’essi attaccati sono stati, e molti sono rimasti uccisi.
Data la mancanza di trasparenza che circonda numerose operazioni militari, possiamo affermare con certezza che questa non è la prima volta che dei civili vengono uccisi dall’esercito. In alcuni casi i media sono stati obbligati a pubblicare solo storie approvate dall’Inter Services Public Relations [ISPR, ente amministrativo che coordina le informazioni dell’esercito all’interno delle testate nazionali], mentre le notizie giunte da fonti indipendenti site nelle regioni del conflitto sono state sistematicamente scartate. Sulle maggiori testate la questione delle morti civili e del comportamento dell’esercito non viene né riportata né discussa. Gli articoli critici nei confronti dell’esercito praticamente non esistono perché è l’esercito stesso a non permetterne la pubblicazione. Dopo il bombardamento di Tirah, un reporter della BBC si è visto negare l’accesso all’ospedale Hayatabad di Peshawar dove erano stati portati i feriti.
Il giornalista Fahad Deshmukh riporta sull’operazione militare avvenuta nel distretto di Swat: "Abbiamo incontrato innumerevoli civili i cui familiari o amici sono rimasti uccisi durante gli scontri." Dopo aver parlato con molti cittadini colpiti dall’operazione, il giornalista aveva cominciato a scrivere un articolo dove parlava di quanti accettavano le operazioni dell’esercito e anche di quanti le hanno subite e vi si opponevano. Nel pubblicare l’articolo il capo-redattore di Deshmukh eliminò dal testo tutti i dati sulle vittime causate dall’esercito. Deshmukh chiese spiegazioni e per tutta risposta gli dissero: "Siamo spiacenti, secondo la direzione possiamo pubblicare solo articoli a favore dell’esercito. Questi sono gli ordini dall’alto". Il giornalista si chiede quale sarebbe l’impatto se i media mostrassero le immagini delle incursioni aeree allo stesso modo in cui vengono mostrati i bombardamenti degli alberghi nelle grandi metropoli.
La Commissione dei Diritti Umani in Pakistan ha presentato un elenco dei 249 presunti omicidi extra-giudiziari compiuti dal 30 luglio 2009 al 22 Marzo 2010, per lo più nel distretto di Swat. Si sostiene inoltre che tra i giornalisti indipendenti e la gente del luogo sia opinione diffusa che dietro queste esecuzioni ci siano le forze armate. Secondo le stime dell’Istituto di Studi per la Pace in Pakistan, nel solo 2009, 3.021 persone sono state uccise dai ribelli, 6.329 durante operazioni dell’esercito pakistano, 1.163 negli scontri tra l’esercito e i talebani, e 1.419 in altri episodi di violenza, compresi gli attacchi con missili guidati.
Dal marzo 2010, i militari hanno iniziato una nuova operazione nella regione di Orakzai. Secondo alcune fonti, in soli 21 giorni sono stati uccisi tra 423 e 558 "militanti" Data la poca chiarezza di queste operazioni, le cronache delle fonti indipendenti e i tentativi da parte dell’esercito di oscurare tutte le notizie negative, c’è bisogno di capire e discutere la condotta dell’esercito in questa guerra e il suo ruolo in queste uccisioni.
La resistenza popolare non accetta la versione ufficiale del conflitto fornita dal ISPR e chiede trasparenza e assunzione di responsabilità da parte dell’esercito e dei media. Noi non tolleriamo le violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra commessi dai nostri militari con il pretesto di liberare le regioni in rivolta. Noi condanniamo le forze armate del Pakistan che danno supporto logistico sin dal 2004 agli Stati Uniti per compiere attacchi a distanza. Il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha duramente criticato gli attacchi radiocomandati, il loro relativo fallimento e la mancanza di interesse nel rilevare le vittime civili, definendo tutto ciò come violazione delle norme internazionali. Chiediamo che tutte queste operazioni militari, che offrono in modo diretto o indiretto supporto agli attacchi radiocomandati degli Stati Uniti, vengano sottoposte a processo. Chiediamo inoltre che i media adempiano al loro dovere e seguano questa guerra con coraggio e onestà. Solo un’informazione corretta e senza censura può portare alla fine della guerra e dell’insurrezione: solo quando la gente verrà messa nella condizione di giudicare fatti e opinioni autentichepotrà muoversi verso soluzioni concrete per l’insurrezione e la guerra.
Esprimiamo solidarietà a tutte le vittime di questa guerra, e soprattutto alla gente di Orakzai, Khyber, Swat, Buner, del Sud e Nord Waziristan -- persone che hanno sopportato tutto il peso di queste operazioni militari.
Il vostro dolore non passerà inosservato.
* La Stampa, 28/4/2010 - Ripreso da TEETH MAESTRO
Quindici anni fa veniva ucciso Iqbal Masih. Oggi i bimbi parlano di lui
di Massimo Filipponi *
La scuola elementare del quartiere Casilino (Roma) ha un nome strano. «Iqbal Masih». Chi è, anzi, chi era ce lo spiegano i bambini dell’istituto nella pagina accanto con disegni, pensieri e poesie.
Iqbal lavorava già all’età di 4 anni, si è poi ribellato al padrone divenendo il simbolo della lotta contro lo sfruttamento dei bambini. Saif Ranjha, presidente dell’associazione Together Italy-Pakistan , nella sua terra torna ogni anno per portare nei villaggi il materiale e i soldi raccolti nella scuola con l’adozione a distanza. «Mi vergogno a chiedere soldi - dice Saif - ma ce n’è bisogno». Nelle 19 classi che hanno aderito al progetto sono i bambini stessi a «risparmiare» un euro al mese e versarlo agli insegnanti.
La maestra Susanna Serpe ci tiene che siano «risparmiati». «Quando ci consegnano le loro monetine - racconta - gli alunni ci dicono “un giorno non ho mangiato il gelato” oppure “ho comprato un pacchetto di figurine in meno”». «Dopo decenni di dittatura militare, da due anni in Pakistan la democrazia sta facendo passi in avanti - dice Saif - Le cose stanno cambiando e molto, pensi che la rappresentanza femminile nel nostro Parlamento è già del 22%... Però il problema è culturale e ci vuole tempo. Certo il lavoro minorile ancora esiste e non solo per la realizzazione dei tappeti.
I bambini vengono sfruttati nelle fabbriche di mattoni, come domestici o nei ristoranti». «Quando torno in Pakistan parlo con i genitori dei bambini - aggiunge Saif - Dico loro che devono mandare i figli a scuola. Mi rispondono che è un problema economico: se lavorano guadagnano anche per la famiglia, se vanno a scuola no. E poi non è che la scuola, una volta terminata, gli garantisca il lavoro... ». Per questo con i fondi raccolti in Italia l’associazione Together Italy-Pakistan ha costruito una scuola frequentata attualmente da più di 100 bambini e si impegna nelle adozioni a distanza. «È un lavoro enorme, perché in alcuni villaggi non c’è nemmeno l’obbligo di registrazione immediata delle nascite». Come uscirne? «Il Pakistan purtroppo investe la maggior parte dei suoi soldi per la sicurezza delle frontiere, armi e soldati da schierare ai confini con India, Russia, Cina, Iran e Afghanistan... Se potessimo farne a meno, senz’altro più bambini andrebbero a scuola». E non ci sarebbe più il rischio di un altro Iqbal Masih...
* l’Unità, 16 aprile 2010
“I nostri giovani islamisti? Antiamericani immaginari”
intervista a Moshin Hamid,
a cura di Francesca Paci (La Stampa, 24 marzo 2010)
Quando cinque mesi fa ha lasciato Londra per tornare a vivere nella natia Lahore Moshin Hamid ha scoperto che durante la sua assenza il paese s’era riempito di tipi come Changez, il fondamentalista riluttante protagonista dell’omonimo romanzo che l’ha reso celebre. «All’inizio vedere tante donne con il velo integrale è stato uno shock», racconta seduto al ristorante del Carlton Hotel di Karachi, dove partecipa alla prima edizione del Karachi Literature Festival. Poi si è guardato intorno: «Ci sono mille sfumature. Una donna impiegata in banca e coperta dal burqa non è necessariamente oppressa, magari utilizza quella protezione per farsi largo nella società maschilista».
Jeans abbondanti, camicia a righe, snikers, l’enfant prodige della letteratura pakistana non assomiglia affatto al giovane connazionale del libro che guarda il crollo delle Torri Gemelle scoprendosene compiaciuto. Piuttosto l’assoceresti all’altro personaggio, l’americano che ascolta in silenzio la confessione del musulmano tradito dal sogno a stelle e strisce. Ma c’è davvero contraddizione tra quelle due identità, chiede Moshin Hamid passando per un momento da intervistato a intervistatore. La risposta è fuori, nella Karachi da 18 milioni di persone in cui convivono la madrassa dove studiò il mullah Omar e l’MQP, Muttahida Qaumi Movement, l’unico partito del mondo islamico che manifestò ufficialmente per le vittime dell’11 settembre 2001.
Secondo politici, militari, analisti, i giovani pakistani sono ammalati di radicalismo e aggiungono all’antipatia nazionale per gli Stati Uniti un’allarmante sensibilità ai profeti armati. Che ne è stato del Paese più occidentale della galassia islamica?
«I giovani sono radicali per definizione, lo sono sempre stati in qualsiasi parte del mondo. Ma ce ne preoccupiamo solo quando la società intorno a loro cambia repentinamente come pare stia accadendo in Pakistan, dove, per altro, l’età media della popolazione è circa vent’anni. Il radicalismo però non è per forza religioso. In Italia, per esempio, è cool ascoltare Manu Chao o votare a sinistra. Oggi in Pakistan professarsi antiamericano è uno status symbol, ti fa sentire dalla parte giusta nonostante poi tutti vagheggino Harvard, la Columbia, Princeton. Se essere filoamericani significa preferire la costituzione a qualsiasi altra legge lo siamo, se si tratta di libertà di stampa ce l’abbiamo, se riguarda il leggendario melting pot in quale altro Paese convivono tante etnie? Il Pakistan è assai più simile agli Stati Uniti che all’Italia».
Il fondamentalismo è una proiezione paranoica del pregiudizio occidentale?
«La presenza del fondamentalismo islamico nel mio Paese è una realtà. Amplificarla però, sarebbe come sostenere che nel parlamento italiano siedono le pornostar. È successo, ma in che misura? Il problema del Pakistan è il sistema educativo scadente. Mio padre ha potuto mandarmi in una scuola privata, altri, meno benestanti, ricorrono alle madrasse che sono gratuite e funzionano spesso come centri di reclutamento. Essere una società tradizionale, conservatrice, attenta a valori religiosi, non vuol dire sponsorizzare il terrorismo».
Secondo l’«Economist» il Pakistan è oggi il Paese più pericoloso del mondo: al Qaeda, taleban, jihadisti, sono tutti qui.
«Mettiamola così, l’India è l’emblema della crescita sostenibile nonostante il 40% dei suoi bambini siano malnutriti, una situazione peggiore di molte regioni africane. In Pakistan, in piena crisi economica, la percentuale è meno del 30%. Significa che, oltre al radicalismo, esiste una rete sociale dietro cui spesso ci sono organizzazioni religiose. Pensiamo sempre l’islam in termini di fondamentalismo ma magari, è una provocazione, può essere uno strumento di lotta alle ingiustizie».
Anche contro le donne?
«Mesi fa mio zio, docente universitario, mi mostrò due foto con un gruppo di studenti, una era del 1979 e l’altra del 2008. Mi colpì che nella prima ragazzi e ragazze indossavano abiti occidentali laddove nella seconda c’erano solo veli, lunghe tuniche, barbe da mullah. Poi mio zio mi disse di contare le donne: 3 su 24 nel liberale 1979 e 20 su 24 nel 2008. Nella mia famiglia ci sono solo donne laiche e disapprovo il burqa da un punto di vista politico, poetico, culturale. Ma se per molte qui il look conservatore è servito a farsi rispettare allora, in uno strano modo, quel simbolo d’oppressione può diventare mezzo d’emancipazione. La realtà non è mai bianca o nera».
Quale minaccia teme maggiormente per il futuro del Pakistan?
«Il Pakistan è il fronte della guerra al terrorismo su cui si scontrano molti poteri esterni. Se ci fosse un altro attentato tipo Mumbai l’India reagirebbe e per noi sarebbe il collasso. L’instabilità rafforza i terroristi, signori dell’anarchia, e gli antiterroristi che, comunque agiscano, sono indispensabili. In mezzo ci sono i pakistani, una società più democratica di quella araba che rispetta la costituzione e ha aperto alle donne le porte del governo, delle forze armate, dei tribunali».
Chi vincerà?
«I pakistani: dosando religione e democrazia possono essere il laboratorio del mondo islamico. Forse il radicalismo dei giovani tradisce l’ansia d’una risposta. Io emigrando non l’ho trovata».
TERRORISMO, IL FRONTE DI ISLAMABAD
Pakistan, dove l’esercito rieduca i piccoli jihadisti
«La nostra scuola insegna a non seguire falsi profeti»
di FRANCESCA PACI (La Stampa, 20/3/2010)
INVIATA A PESHAWAR
Quando taleban e qaedisti in fuga da Mazar-i Sharif hanno attraversato il confine pakistano e si sono rifugiati nella gola dello Swat, Abid, il padre emigrante a Dubai e la madre assorbita dalla famiglia di 17 persone, passava il dopo scuola tra la moschea e i videogiochi made in Usa.
Non c’è voluto molto perché i profeti armati di Corano e granate lo conquistassero mettendogli in mano gli esplosivi che fino a quel punto, 13 anni appena compiuti, aveva maneggiato alla consolle. Nella realtà però, dalla parte dei nemici c’erano gli americani. Oggi Abid è uno dei cento ragazzini tra gli 8 e i 18 anni sottoposti alla terapia di riabilitazione per terroristi che l’esercito pakistano e la Ong Hum Pakistani stanno sperimentando in un blindatissimo istituto nella valle lunare tra Malakand e Swat.
«Li abbiamo trovati quando abbiamo attaccato la regione» spiega il comandante Mowadat Hussain Rana, direttore del reparto psichiatrico dell’ospedale militare di Rawalpindi e mentore del progetto a cui è stato dato il nome pashtun di Sabaoon, «il primo raggio di sole». Man mano che i talebani si ritiravano Abid e gli altri, più simili ai piccoli soldati della Sierra Leone che ai tira-pietre dell’Intifada palestinese, tornavano nelle case abbandonate sin dal 2003, quando i jihadisti s’erano infiltrati nelle madrasse dove vengono mandati i figli ribelli. Peccato che nella versione sanguinaria, formata a dosi massicce d’estremismo anziché di botte, i parenti non li volessero più.
Meglio consegnarli alle caserme: «Che succede se un bambino cresciuto senza autorità, dando la caccia ai gatti, trascurando la scuola magari per difficoltà d’apprendimento, incontra un leader carismatico, armato, un eroe capace ai suoi occhi di riconoscere il bene e il male? Alcuni avevano lavorato tipo schiavi, altri facevano le sentinelle, i più audaci erano stati addestrati per missioni suicide». Invece di incarcerarli l’esercito li ha intervistati, catalogati in base al rischio e affidati a una ventina tra medici e insegnanti d’inglese, islam, ginnastica.
La parlamentare pashtun Bushra Gohar diffida della «rieducazione» militare ma il dottor Rana garantisce l’uso di test psicologici di standard internazionale e chiede tempo. Per mappare la radicalizzazione dei giovani pakistani, l’anima d’una società in cui uno su due ha meno di 25 anni, bisogna partire da Peshawar, antico avamposto della Via della Seta a pochi chilometri dal confine circondato oggi da un milione e mezzo di rifugiati afghani censiti, un decimo della popolazione del distretto. Qui, tra i bazar dove i disoccupati sbarcano il lunario e gli sterrati regno di camion decorati come carretti siciliani e rekscia, sorta di Ape adattata a taxi, i terroristi riescono a nascondersi e farsi sentire. I sacchi di sabbia davanti agli edifici governativi e i poster con le foto dei poliziotti caduti rivelano la routine di un attentato al giorno.
«Il vero pericolo della regione è la presenza destabilizzante degli Stati Uniti» insiste il mullah Amanullah Haqani, leader del partito oltranzista Jamiat Ulema-e-Islam e seguace della stessa scuola coranica del mullah Omar che nel tempo libero caccia conigli lungo la frontiera. Altro che al Qaeda. Secondo lui dietro le bombe c’è lo zampino di Blackwater, la società di security americana che anche i media pakistani hanno talvolta indicato come l’occulto mandante delle stragi. Difficile poi toglierlo dalla testa al quindicenne che prende l’acqua al pozzo del campo profughi Kabayan, dove è sempre vissuto, e, masticando caramelle Imlee Titanic, quelle con Leonardo Di Caprio sulla scatola, spiega che «Obama è nemico dell’Islam tale e quale a Bush».
A Peshawar, come nel resto del paese, il numero delle moschee supera di gran lunga quello delle scuole. «Fino al 2008 i talebani avevano l’85% del sostegno popolare ma i kamikaze l’hanno ridotto al 5%» osserva Rasheed Safi, cronista di Mashriq, il principale quotidiano in lingua urdu stampato ancora, in parte, in una vecchia tipografia. Sepolta con le vittime pakistane l’infatuazione per i nemici degli americani è rimasto l’estremismo d’un popolo che sfoga nell’ossessione del complotto straniero il bisogno di partecipazione politica. «Negli Anni 80 i governanti si son dimenticati di rimuovere il fondamentalismo religioso che avevano usato contro i sovietici e è germogliato, cultura della paranoia, nella nostra generazione» nota Saba Nur, classe 1986, analista del Pak Insitute for Peace Studies. Con il 47% dei ragazzi appena alfabetizzati e la laurea lungi dal garantire un lavoro, il terreno era dei più fertili.
«Dobbiamo distinguere radicalismo e terrorismo per evitare che si colleghino» ragiona Saba. Vicino al suo ufficio, in uno dei centri commerciali della capitale, gli adolescenti stazionano al Kentucky Fried Chicken sognando la caduta yankee in Afghanistan. «Vorrei specializzarmi negli Stati Uniti ma non ci resterei mai» dice Aisha, 24 anni, studentessa d’economia all’università Qaid e Azam di Islamabad. Basta un giro nel prestigioso ateneo per confermare il Pew Global Attitude Project secondo cui il 64% dei pakistani considera l’America un nemico e solo il 9% un partner. Non contano i 7,5 miliardi di dollari in 5 anni concessi dal Congresso al presidente Zardari. Sadi, statistica, 23 anni, non si fida di Obama: «Ci mollerà dopo averci usato». Nessuno odia più intensamente dell’amante tradito.
«L’estremismo islamico ha colmato il vuoto di antiamericanismo lasciato dalla crisi dei partiti di sinistra e dopo la guerra in Iraq la situazione è peggiorata» chiosa Zaffar Abbass direttore di Dawn, il principale quotidiano del paese. Ci vorrebbe che la Casa Bianca rispolverasse il soft power. Ma per ora dal fronte distante meno di 250 chilometri giunge l’eco di quello hard.
intervista Shamsie: il Pakistan vuole normalità non fanatismo
La scrittrice a Milano parla del suo nuovo romanzo: «C’è troppa diffidenza reciproca fra islam e Occidente. La provo sulla mia pelle. Ma la cultura può davvero servire a vincere la paura»
DI DANIELA PIZZAGALLI (Avvenire, 21.01.2010)
La giovane Hiroko, marchiata dall’esplosione atomica di Nagasaki nel corpo e nell’anima, arriva a Nuova Delhi nel 1947, in tempo per innamorarsi di un indiano musulmano che dovrà forzatamente lasciare l’amata città e andare a vivere in Pakistan a causa della Partizione. E’ una storia di irrimediabili perdite ma anche di ostinata speranza, quella raccontata dalla pakistana Kamila Shamsie nel romanzo Ombre bruciate (Ponte alle Grazie, pagine 386, euro 18,60): nonostante gli eventi della vita di Hiroko contemplino anche un figlio recluta- to in un campo afgano di mujaheddin, un marito ucciso da un agente della Cia e si trovi infine a New York l’11 settembre 2001, lei non perde la voglia di sopravvivere e di guardare avanti. Hiroko è un personaggio di tale forza da essersi imposta anche all’autrice: «Il protagonista doveva essere il giovane pakistano Raza», ci dice Kamila Shamsie, già nota in Italia per il successo dei romanzi precedenti, Sale e zafferano e Versi spezzati «e gli ho attribuito una madre giapponese per il richiamo alla bomba atomica, perché il romanzo doveva iniziare al tempo dei test nucleari di India e Pakistan, con il conseguente pericolo di una deflagrazione mondiale. Ma la personalità della madre e le ragioni del suo arrivo in Pakistan mi hanno tanto preso da costringermi a mettere al centro dell’attenzione la generazione precedente, con Hiroko a fare da simbolo di un nuovo tipo di donna, uscito più volitivo e autonomo dal crogiuolo infuocato delle tragedie inflitte dalla Storia ».
Ombre bruciate , già tradotto in 17 lingue e finalista in Inghilterra all’Orange Prize, intreccia destini privati e riflessione storica: «Creiamo la desolazione e la chiamiamo pace », dice un personaggio del romanzo, un idealista che ha creduto nell’intervento americano in Afghanistan contro l’invasione sovietica, ma dopo il 2001 vede infrante le prospettive di una democrazia esportata. La scrittrice ha molta familiarità con questo argomento, perché vive tra gli Usa, dove ha studiato all’Università, Londra, dove scrive e collabora come opinionista per il Guardian , e Karachi, dove vive la sua famiglia.
«Ero in America l’11 settembre 2001, e mi ha colpito come la gente fosse presa alla sprovvista: non avevano idea dell’accumularsi dell’odio contro gli Stati Uniti, non sapevano quanto si fosse acuito e diffuso il fanatismo. Una parte significativa del romanzo si svolge in Afghanistan, perché come pakistana è una situazione esplosiva che abbiamo alle porte, anche nel recente attacco suicida è morto qualcuno che conoscevamo, a Karachi non c’è famiglia che non abbia subito disagi e lutti. La mia opinione è che gli americani non dovevano lasciare l’Afghanistan dopo aver cacciato i sovietici, dovevano restare a lavorare per la ricostruzione. Lo sbaglio è stato di non avere un programma a lungo termine, in quel momento Al Qaeda non disponeva ancora di un vasto seguito, poteva essere annientata. Di questo vuoto hanno approfittato i talebani, ora tutto è distrutto, e tutti sono armati, dunque la possibilità di una ricostruzione è sempre più remota».
Nell’ultima parte del romanzo, che si svolge a New York, prende spazio una giovane amica americana di Hiroko, Kim, che sogna, grazie ai suoi studi ingegneristici, di costruire grattacieli indistruttibili da attacchi nemici e, pur volendo essere ottimista sul futuro del mondo, si lascia sopraffare dai sospetti verso un giovane afgano che esalta i martiri della jihad. «Questa strisciante diffidenza reciproca - osserva Kamila Shamsie - io la provo sulla mia pelle. Ho sempre viaggiato molto fra un mondo e l’altro, e mi accorgo con fastidio di una crescente retorica ’ della differenza’, dei pregiudizi che impediscono una convivenza rilassata e sincera. Fra pochi giorni andrò a Karachi, che fra l’altro è sempre stata una città con grande voglia di vivere: i teatri sono pieni, la vita intellettuale è intensa, si fa di tutto per vincere la paura, che è sempre in agguato. Ogni atto ’normale’ richiede coraggio, anche solo quello dei genitori nel portare i bambini a scuola».
Violenze anticristiane in Malesia a proposito dell’uso del nome di
“Allah”
di Stéphanie Le Bars (con Reuters)
Le Monde del 12 gennaio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Si può considerare la parola araba “Allah” un’esclusività musulmana? Questa domanda apparentemente semantica suscita in Malesia, dall’inizio del 2010, delle tensioni interreligiose, che hanno indotto il governo ad intervenire nel dibattito.
Domenica 10 gennaio quattro chiese e un convento sono stati bersagli di attacchi e danneggiamenti. Già nella notte tra giovedì e venerdì tre luoghi di culto (due protestanti e uno cattolico) erano stati presi di mira da bombe incendiarie. E, all’uscita dalla grande preghiera del venerdì, diverse centinaia di musulmani avevano manifestato la loro opposizione all’utilizzo del termine “Allah” da parte dei cristiani.
Queste violenze sono legate alla polemica sull’uso della parola “Allah” da parte di non musulmani. La disputa è esplosa il 31 dicembre 2009, data nella quale l’Alta Corte della Malesia ha autorizzato un giornale cattolico, Herald-The catholic Weekly, edito in quattro lingue e con una tiratura di 14000 copie, ad usare questa parola per designare Dio.
Il giornale utilizza il termine “Allah” nella sua edizione destinata ai fedeli di lingua malese dell’isola di Borneo. Questo paese di 28 milioni di abitanti, in maggioranza musulmano e malese - il 60% della popolazione - conta anche una forte minoranza di cristiani (9% della popolazione, di cui 850 000 cattolici), di buddisti e di induisti, di origine cinese e indiana. La costituzione vi garantisce la libertà di culto.
Mentre nella maggior parte dei paesi di lingua araba la parola “Allah” designa sia la parola “dio” sia il Dio dell’islam, ed è utilizzato dai non musulmani, i musulmani malesi hanno ritenute che l’uso di questo termine da parte dei cristiani fosse suscettibile di creare confusione e di favorire il proselitismo. “Allah appartiene solo a noi”, scandivano dei fedeli all’uscita dalle moschee di Kuala Lampur, venerdì.
Di fronte al rischio di scontri tra comunità, il governo ha presentato appello contro la decisione della Corte e ottenuto, il 6 gennaio, la sospensione dell’autorizzazione concessa ai cristiani dall’Alta Giurisdizione. “Si tratta di una faccenda di interesse nazionale”, ha detto il procuratore generale per giustificare questa sospensione.
Nel suo appello, il governo del primo ministro, Najib Razak, al potere dall’aprile 2008, ha fatto riferimento ad una decisione dell’Alto Consiglio nazionale della fatwa del 2008, che statuiva che la parola “Allah” potesse essere utilizzata solo dai musulmani.
Dei membri dell’opposizione, in particolare il Pan-Malaysian Islamic Party, hanno accusato il partito al potere, l’Organizzazione nazionale malese unita (UMNO), di cercare di politicizzare l’argomento. Il primo ministro ha condannato gli attacchi di venerdì contro le Chiese e ha annunciato il rafforzamento della sicurezza attorno ai luoghi di culto cristiani. Sabato si è recato in una chiesa che aveva subito danneggiamenti. “L’islam ci proibisce di insultare o di distruggere tutte le altre religioni, sia fisicamente che attaccando i luoghi di culto”, ha dichiarato. Il suo appello alla calma evidentemente non è stato ascoltato.
Eletta con la più bassa percentuale della sua storia nel 2008, la coalizione è al potere da 52 anni. Le minoranze etniche e religiose denunciano regolarmente l’islamizzazione della società e le discriminazioni sociali di cui si dicono vittime. Padre Lawrence Andrew, direttore del giornale cattolico al centro di questa polemica, ha dichiarato venerdì che, anche se non c’era “pericolo immediato”, la situazione restava “preoccupante”.
In Vaticano, Monsignor Robert Sarah, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, ha espresso la sua inquietudine a Radio Vaticano: “Penso che esista realmente una volontà di annientare i cristiani, di ignorarli, di rifiutare di ammettere che hanno una fede in Dio. Il fatto che sia loro proibito pronunciare il nome di Dio equivale a considerarli dei pagani che quindi devono essere convertiti all’islam.”
Il grande assalto ai cristiani
di Giordano Stabile (La Stampa, 11 gennaio 2010)
Dall’Algeria alla Malaysia passando per l’Egitto, lungo un fronte immaginario lungo diecimila chilometri, le minoranze cristiane nei Paesi musulmani sono sotto attacco. Dopo la strage del Natale ortodosso a Luxor, nei giorni scorsi è stata la volta di Kuala Lumpur, dove le rappresaglie degli islamici contro in centri di culto cristiani sono state scatenate dal verdetto dell’Alta Corte che difendeva il diritto di un settimanale cristiano di usare la parola «Allah» per riferirsi a Dio.
La maggioranza musulmana, il 60 per cento della popolazione contro il 10 per cento di cristiani, lo ha considerato un’offesa gravissima. Venerdì tre chiese sono state attaccate nella capitale, altre sono state date alla fiamme sabato. Ieri, con le chiese della maggiori città presidiate massicciamente dalla polizia durante le messe della domenica, due bombe molotov sono state lanciate contro un convento cattolico e una chiesa anglicana di Taiping, nello stato di Perak, a 300 chilometri da Kuala Lumpur.
Il governo del premier Najib Razak - in cerca di consensi tra i non musulmani per farsi rieleggere nel 2013 - sembrava propenso ad autorizzare l’uso della parola Allah, come sinonimo di Dio, anche nelle celebrazioni dei culti non musulmani. Adesso il verdetto della Corte Suprema è sospeso, proprio per il ricorso presentato dall’esecutivo in difesa dell’esclusivo uso del termine da parte degli islamici.
Disquisizioni teologiche di questo tipo, in apparenza bizantine, sono cruciali in Paesi dove le minoranze religiose faticano a farsi accettare a pieno diritto. In Indonesia, ma anche in Siria e Egitto, l’uso della parola Allah da parte dei cristiani è già autorizzato. Ma mentre nei primi due l’integrazione sta migliorando, in Egitto la condizioni dei copti è drammatica. Secondo molti dei loro leader, il governo del presidente Hosni Mubarak li sta usando come valvola di sfogo per le tensioni sociali che attraversano un Paese sovrappopolato e con poche risorse, ormai fuori controllo.
Ieri la polizia egiziana ha arrestato 42 persone, 14 musulmani e 28 copti, con la accusa di aver fomentato i disordini dopo la strage nella chiesa di Baghorah, vicino a Luxor, nella notte tra il 6 e il 7 gennaio, giorno di Natale secondo il calendario ortodosso seguito dai copti. Un esito paradossale: pagano i cristiani, dopo che otto di loro sono stati trucidati. Nessuno sviluppo, invece, nelle indagini sul commando che da una automobile aprì il fuoco con fucili mitragliatori sui fedeli, all’uscita dalla chiesa.
Secondo i copti, non c’è la volontà politica di arrivare ai colpevoli. «L’aggressione aveva un obiettivo ben diverso: l’assassinio del vescovo Kirillos . - accusa Ashraf Ramelah, presidente della Voice of Copts -. Kirillos si era rifiutato di accettare le "sedute di pace" organizzate dal governo dopo gli attacchi vandalici contro i beni dei cristiani. Voleva giustizia, non una riconciliazione che equivaleva a una resa». Secondo Ramellah, gli aggressori contro i copti non hanno mai avuto una condanna: «La legge dell’Islam indica che il musulmano non può essere condannato se la vittima non è musulmana - spiega -. Il regime in Egitto ha un unico scopo: la pulizia etnica».
Con oltre otto milioni di fedeli, una storia di 1900 anni che risale a San Marco, la chiesa copta è la più radicata tra le chiese nordafricane. La parola copto deriva da un termine greco, storpiato poi dagli arabi, che significava «egiziani». E i copti si considerano ancora oggi i «veri» egiziani, colonizzati e convertiti a partire dal Settimo secolo dopo Cristo, ridotti a una minoranza sempre più esigua, arroccata nella fede cristiana, un’isola in un mare musulmano.
Nel resto dell’Africa del Nord rimangono solo piccole comunità, anche loro sotto attacco. Ieri la chiesa protestante di Tizi Ouzou, la capitale della regione berbera della Cabilia, in Algeria, è stata incendiata da un gruppo integralisti islamici. Nella regione berbera è presente una delle più importanti comunità protestanti dell’Algeria, circa un migliaio di fedeli. I «barbuti», come vengono chiamati gli islamisti fanatici, la vogliono far sparire.«La violenza verso i cristiani in varie parti del mondo suscita sdegno». Queste le parole di condanna pronunciate dal Papa davanti ai fedeli riuniti in piazza San Pietro per l’Angelus, facendo riferimento alla strage in Egitto e ad altri episodi di violenza di questi giorni. «La diversità religiosa non può mai giustificare la violenza, e non può esserci violenza in nome di Dio - ha continuato Benedetto XVI -. Occorre che le istituzioni sia politiche, sia religiose non vengano meno alle proprie responsabilità». «La violenza - ha aggiunto Ratzinger - non sia mai per nessuno la via per risolvere le difficoltà. Il problema è anzitutto umano. Invito a guardare il volto dell’altro e a scoprire che egli ha un animo, una storia e che Dio lo ama, come ama me».
Se il cristiano insulta Maometto
di Filippo Di Giacomo (l’Unità, 10 novembre2009)
Un cristiano che insulta Maometto, contro chi bestemmia? Nel Corano, Gesù viene fatto nascere musulmano. Tra i 6666 versetti che compongono il testo sacro dell’Islam, circa 100 sono le righe dedicate a Gesù Cristo e alla Vergine Maria. In modo più preciso: in 25 versetti viene menzionato Gesù Cristo, in 11 il Messia, 34 cantano - letteralmente - l’immacolata concezione della Vergine Maria, in 12 viene confermata la verità del Vangelo e in 14 la presenza e i rapporti con i nazareni, cioè i cristiani.
Certo, un lettore acculturato non fa fatica a ritrovare nel racconto islamico dell’Annunciazione e del Natale le tracce del primo capitolo del Vangelo di Luca, dove l’annuncio di un figlio fatto dall’angelo a Maria è preceduto dalla promessa di un figlio - Giovanni il Battista - fatta dall’angelo al vecchio sacerdote Zaccaria e a sua moglie Elisabetta. Neanche lo scetticismo di Zaccaria, in contrasto con la fede di Maria, può apparire strano agli occhi di un cristiano perché il Corano fa spesso ricorso ai testi e alle tradizioni orali apocrife del cristianesimo copto e siriaco.
Il Corano di Maria racconta anche la nascita e il ruolo di tutore che Zaccaria, marito della cugina Elisabetta, ha svolto a protezione dell’infanzia immacolata di Gesù: un racconto che nel secondo secolo dopo Cristo già narrava il Protovangelo di Giacomo, testo in cui la pietà popolare cattolica ancora trova i nomi e la devozione per i genitori di Maria, San Gioacchino e Sant’Anna. Anche il piccolo Gesù che si diverte a fabbricare e animare piccoli uccelli di creta è del tutto uguale al Bambino del Vangelo dell’infanzia di Tommaso, un altro testo apocrifo del cristianesimo nascente.
Per il cristianesimo siriano, da cui Maometto trasse la conoscenza della storia di Gesù, il fondatore dell’Islam è stato a lungo considerato “un fratello che sbagliava”. Giovanni Damasceno, dottore della Chiesa, gran visir per lungo tempo a Damasco del governo omayyade del califfo Mu‘awiya Abi Sufyan e dei suoi due primi successori, vedeva nel dogma islamico dell’eternità del Corano una forma dell’insegnamento cristiano sul Logos. È vero che proprio per questo Dante pone Maometto all’inferno, tra gli eresiarchi.
Ma è anche per questo che il numero tre della Nostra Aetate, il
documento del Concilio Vaticano II sulle religioni non cristiane ricorda ai cattolici che:
«La Chiesa
guarda con stima anche i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso
e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. Essi cercano anche di
sottomettersi con tutto il cuore ai decreti nascosti di Dio, come si è sottoposto Abramo, al quale la
fede islamica volentieri si riferisce. Benché essi non riconoscano Gesù come Dio, lo venerano però
come profeta; onorano la sua madre vergine Maria e talvolta pure la invocano con devozione.
Inoltre attendono il giorno del giudizio quando Dio ricompenserà tutti gli uomini risuscitati. Così
pure essi hanno in stima la vita morale e rendono culto a Dio soprattutto con la preghiera, le
elemosine e il digiuno. Se nel corso dei secoli non pochi dissensi e inimicizie sono sorti tra cristiani
e musulmani, il sacrosanto concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente
la mutua comprensione, nonché a difendere e a promuovere insieme, per tutti gli uomini, la giustizia
sociale, i valori morali, la pace e la libertà».
Il cristiano che offende Maometto bestemmia, dunque, soprattutto contro la propria Chiesa. E specularmente, già che la mamma dei confusi gode quando i suoi figli vanno in tv, contro chi bestemmiano quei tre o quattro presunti imam cacio e pepe che, benché ultraminoritari e rappresentativi di nulla e di nessuno fanno da spalla alle santancherate di turno?
In Europa, la frequenza di studenti musulmani nelle scuole cattoliche è un fenomeno ormai generale. In Belgio e Germania è molto alta, sia nelle scuole materne primarie che nelle scuole superiori (talvolta con picchi dell’80% di allievi musulmani in taluni Kinder-garten). In Italia la presenza di allievi musulmani nelle scuole cattoliche è in crescita. In Francia gli studenti musulmani nelle scuole cattoliche sono molti: nei quartieri popolari di Marsiglia, di Lille e a Paris-Nord possono superare il terzo o la metà del totale degli iscritti, e così in Danimarca. L’ethos cattolico è apprezzato rispetto alla neutralità della scuola. Il musulmano che irride il crocifisso, bestemmia soprattutto contro la stragrande maggioranza dei musulmani europei. Perché come diceva Camus, se anche in Europa Cristo e Maometto non hanno alcun bisogno di incontrarsi, cristiani e musulmani sono condannati a farlo.
Stamattina avevano assaltato il quartier generale dell’esercito
Gli aggressori fuggiti con gli ostaggi. Rivendicazione dei talebani
Pakistan, assalto al quartier generale
In ostaggio 15 agenti di sicurezza
RAWALPINDI - Sono 15 gli agenti delle forze di sicurezza sequestrati dai terroristi a Rawalpindi, spiega il portavoce militare Athar Abbas, precisando che il commando è composto da almeno quattro o cinque islamisti. I militanti avevano attaccato due posti di blocco all’ingresso del quartier generale delle forze armate alle 11.30 (le 7.30 di questa mattina in Italia). L’assalto è stato rivendicato dal gruppo dei talebani pachistani di Amjad Farooqi, contro la crescente influenza degli Stati Uniti in Pakistan.
La dinamica dell’agguato - Tutto era cominciato in mattinata con un attacco al presidiatissimo quartier generale dell’esercito a Rawalpindi che ha causato la morte di quattro terroristi e di sei militari. L’assalto al quartier generale di Rawalpindi si è presto trasformato in una crisi con ostaggio. Un gruppo di talebani si è asserragliato in uffici adiacenti alla caserma. "Stanno trattenendo alcuni nostri soldati" ha detto una fonte militare, "è una crisi con ostaggi: chiedono il rilascio di alcuni loro compagni" In un primo tempo le autorità pachistane avevano detto che la situazione era sotto controllo e che due miliziani erano riusciti a sfuggire allo scontro a fuoco. In realtà, si è appreso in seguito, un numero più consistente di terroristi ha sequestrato alcuni soldati e li tiene in ostaggio. "Ci sono più di due terroristi che hanno catturato alcuni soldati" ha detto il generale Athar Abbas alla tv pachistana, "li abbiamo circondati e stiamo facendo di tutto per portare in salvo i nostri".
Non si ferma l’escalation di violenza in Pakistan - Appena ieri Peshawar era stata teatro di un attentato costato la vita a una cinquantina di civili. La spirale di violenza si è aggravata dopo l’uccisione, nell’agosto scorso, del leader talebano Baitullah Mehsud, durante un attacco statunitense. L’esercito pachistano è impegnato in una serie di operazioni militari contro i talebani in varie aree del nord-ovest del Paese.
* la Repubblica, 10 ottobre 2009
Le parole di Cristo nel Corano
Un Gesù più ascetico nei testi islamici
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 29.8.2009)
Per il Corano e l’Islam Gesù non è figlio di Dio e la sua crocifissione è stata «apparente» (nel senso che, secondo alcuni, al suo posto, morì un sosia, secondo altri fu un accadimento, appunto, solo apparente). È, invece, un grandissimo profeta e, privilegio che non è di Maometto, la sua nascita proviene dal grembo di una donna vergine: Maria, oggetto di culto e di venerazione, dichiarata dal libro sacro «eletta sopra le donne dei mondi». È il caso unico di una religione che adotta la figura centrale di un’altra, finendo per riconoscere questa figura come costitutiva della propria identità.
Del resto, non poche sono le vie di comunicazione tra le due religioni: il Corano mostra stretti legami con l’Antico e il Nuovo Testamento; la biografia di Maometto conferma il valore di quei legami (il suo incontro col monaco cristiano Sergio nella città siriana di Bostra, la concubina cristiana Maria la Copta dalla quale ebbe l’unico figlio maschio); i rapporti tra cristiani e musulmani nella medesima regione geografica mediorientale sono sempre stati fecondi; altrettanto fecondi vanno considerati i contatti tra i circoli del sufismo e i monaci cristiani.
Sappiamo che una larga tradizione, costituita da vari scritti cristiani non canonici - come, ad esempio, la Lettera di Giacomo , il Vangelo di Tommaso , il Vangelo degli Ebioniti , il Vangelo degli Egiziani - attesta come le parole pronunciate da Gesù nella sua vita, non siano soltanto quelle attribuitegli dai quattro Vangeli.
I detti islamici di Gesù (edizioni Mondadori-Lorenzo Valla, a cura di Sabino Chialà, pp. 220, e 24), raccoglie i detti di Gesù che, dall’VIII al XIX secolo dopo Cristo, appaiono, oltre che nel Corano, nella moltitudine dei trattati religiosi o filosofici, talvolta di grande pregio letterario, nei quali si riferiscono detti o insegnamenti attribuiti a vari mistici o asceti e tra questi Gesù. È un libro molto interessante. I lettori vi troveranno parecchie parole simili o quasi a quelle che conoscono dai Vangeli; altre diverse, eppure riconducibili alla medesima verità; altre ancora completamente sconosciute; infine, attraverso il Gesù dell’Islam, leggeranno l’Islam.
Come il Gesù cristiano, il Gesù dell’Islam guarisce i malati e resuscita Lazzaro. Cammina sulle acque e al discepolo che gli viene incontro affondando dice: «Dammi la mano, uomo di poca fede. Se il figlio di Adamo avesse la misura di un chicco o di un atomo di fede sicura, certamente camminerebbe sull’acqua». A chi si preoccupa del proprio sostentamento dice: «Non vedete forse gli uccelli del cielo, che non seminano e non mietono, eppure Dio che è in cielo li sostenta? Mangiate pane d’orzo ed erbe selvatiche e sappiate che, se neppure per quelle cose voi rendete grazie, come potreste farlo per cose superiori a quelle?». A chi gli chiede di insegnargli in che modo un servo può essere veramente devoto verso Dio, risponde: «Devi veramente amare Dio con il tuo cuore, agire per lui con tutta la diligenza e la forza di cui sei capace ed essere misericordioso con quelli della tua razza come lo sei con te stesso», specificando che «quelli della tua razza» sono tutti i figli di Adamo. Al Getsemani, conosce la tristezza e la paura della morte; rimprovera i discepoli che non riescono a vegliare con lui; (ma è a loro che chiede di intercedere presso Dio per ritardare la sua ora: quindi, non è il Figlio, non chiama suo Padre, non si rivolge direttamente a Lui - come in Marco, Matteo e Luca - dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare da me senza che io lo beva, sia fatta la tua volontà»). Finalmente, ai discepoli che, una volta tornato fra loro, gli raccontano che Giuda si è ucciso impiccandosi, dice che se Giuda «mai si fosse rivolto verso Dio, Dio si sarebbe volto verso di lui» - e così spiega il perdono.
Rispetto al Gesù cristiano, il Gesù dell’Islam è più ascetico e, se vogliamo, più severo. La sua ossessione è il mondo. Anche il Gesù dei Vangeli ammonisce che la vera vita non è di questo mondo. Le parole che il Gesù dell’Islam pronuncia a condanna del mondo, sono le stesse o non molto dissimili da quelle pronunciate dal Gesù della tradizione cristiana: «La dolcezza del mondo è amarezza dell’aldilà e l’amarezza in questo mondo è dolcezza dell’aldilà... Non cercate il mondo perdendo voi stessi ma cercate voi stessi lasciando ciò che è in esso... Se siete miei commensali e compagni, disponetevi a essere nemici del mondo e a odiarlo; se non l’avrete fatto, non sarete miei compagni e fratelli». È pure vero, tuttavia, che la congiunzione divina del Padre e del Figlio nella carne, consente al cristiano «ospite del mondo» di guardare al mondo con maggiore indulgenza e una segreta riserva d’amore.
La nazionale "multietnica" di cricket
di Massimo Franchi *
Da buoni patrioti a fine premiazione hanno intonato l’Inno di Mameli. Ha cominciato Harpreet, indiano sikh del Piemonte, poi gli sono andati dietro Adnan, pakistano musulmano di vicino Milano e Charith, nativo italiano da famiglia bengalese. Un “Fratelli d’Italia” del terzo millennio, multietnico e multireligioso, cantato più con gli accenti e le cadenze dei dialetti padani che con quelli delle lingue d’origine. Senza musica se la sono cavata improvvisando qualche parola ("Viva l’Italia" invece che "Italia s’è desta"), ma il risultato è stato più che accettabile. Molto simile a quella della Nazionale di calcio, almeno fino a quando dall’alto non fu imposta la conoscenza dell’inno. Se conoscessero anche “Va Pensiero”, invece, non è dato sapere. I festeggiamenti sono stati all’altezza del trionfo. C’era da festeggiare una vittoria storica: il campionato Europeo di Cricket Under 15. Mai una squadra giovanile di cricket aveva vinto un titolo europeo, sebbene di Seconda divisione. Si tratta di una nazionale in gran parte padana, dieci ragazzi su tredici provengono da squadre del Nord (Lombardia, Trentino, Emilia). Sono immigrati di seconda generazione, quasi tutti figli di quei ricongiungimenti familiari che le nuove leggi della destra renderanno molto più difficili, se non impossibili.
Sabato scorso sul campo di Pianoro, vicino Bologna, ognuno portava una storia che partiva da molto lontano. Famiglie di tutto il mondo che hanno messo radici nel nostro paese, dove, nonostante tutto e tutti, si trovano bene. E non vogliono andersene, alla faccia di Bossi. E proprio al capo lumbard la vittoria è stata dedicata. A farlo è stato il presidente della Federazione italiana cricket Simone Gambino. "La dedichiamo a chi non vorrebbe che questi ragazzi fossero italiani e che invece hanno dimostrato come gli immigrati sono una ricchezza per il nostro Paese". Loro, i ragazzi, Bossi per fortuna non lo conoscono (ancora). Solo qualche genitore gliene ha parlato: naturalmente male. “Mio padre dice che non ci rispetta come noi rispettiamo gli italiani e che non si ricorda che una volta gli italiani erano come noi, emigranti”, racconta Charith, figlio di genitori dello Sri Lanka in Italia da 20 anni. “Io sono nato qua, e la penso allo stesso modo: siamo italiani anche se lui non lo pensa e abbiamo gli stessi suoi diritti”, continua battagliero. Harpreet, indiano sikh arrivato a Mondovì da 4 anni, Bossi non lo conosce, ma concorda con la dedica del suo presidente. “Ha ragione a dedicare la nostra vittoria a uno che non ci vuole perché io sto in Italia e voglio bene all’Italia come all’India. Ci deve accettare come italiani”. Aamir invece è arrivato a Bologna a 6 anni dall’India e a differenza del suo co-nativo è musulmano. “Noi siamo immigrati, è vero. Ma a scuola nessuno mi considera diverso, il razzismo non lo mai sentito e quindi sono italiano come tutti i miei compagni, anche se molti di noi vengono da paesi lontani”. Il capitano è Adnan, pakistano arrivato a Milano a 6 anni, Bossi non lo conosce, così come non sa che fra lui e i suoi amici indiani non è sempre andato tutto alla perfezione. “Fra di noi parliamo italiano e non conosciamo quello che succedeva prima fra i nostri paesi. Magari i nostri i genitori, ma mi sa che ormai qua in Italia se lo sono dimenticati”.
Per diventare italiani a tutti gli effetti la legge sulla cittadinanza più restrittiva d’Europa impone loro di aspettare il compimento dei 18 anni. “Aspetteremo”, rispondo in coro, ben informati sulla questione. Anche perché quasi tutti hanno fratelli minori: il ricongiungimento familiare quasi sempre porta altri figli in dono e dunque altri italiani a tutti gli effetti. Il più “sfortunato” è Aamir che ha due fratelli più piccoli bolognesi, ma non se la prende: “Sono io che li ho insegnato l’italiano”. Il più “fortunato” è invece Charith, nato a Roma e da sempre a Torrevecchia. “Mio padre fa l’autista e ho un fratello più piccolo. So che per me è stato un piccolo vantaggio essere nato qua, ma con gli altri non è mai parlato. Hanno 15 anni e fra poco saranno italiani anche loro”. Diventare italiani comporta anche rinunce dolorose, soprattutto per i loro genitori. Harpreet, per esempio, da buon sikh dovrebbe portare il turbante. “Quando l’ho tolto e ho tagliato i capelli qualche anno fa mia madre era disperata. Non mi voleva più parlare. Poi mio padre l’ha convinta: anche lui l’ha dovuto togliere perché lavora in una stalla e con tutti quei capelli faceva fatica con gli animali”. Tutti i musulmani invece rispettano il ramadam, il mese sacro di purificazione e digiuno diurno. “Le tradizioni vanno rispettate, questo mi ha insegnato mio padre e io non ho problema a farlo perché so cosa significa per loro e per la nostra religione”, spiega Aamir. In famiglia quasi tutti però soprattutto con i genitori parlano la lingua di origine. Le madri in quasi tutti i casi stanno a casa e sono quelli che parlano meno l’italiano. Adnan, capitano della Nazionale, pakistano milanese, però spiega che le cose stanno cambiando.
“Oramai anche lei certe parole le usa solo in italiano, insomma finiamo per parlare una lingua mista italiano-pakistano”. Con gli amici invece l’italiano è di rigore. “Anche con i miei amici pakistani e ormai molti di loro usano il dialetto milanese. Io lo capisco, ma ancora non lo parlo: ha dei suoni un po’difficili”. L’unico "italiano-italiano" della squadra è Edoardo Scano. Pure lui è però un piccolo “immigrato” visto che ha dovuto “emigrare” dalla Sardegna a Roma a causa del lavoro del padre. Lui il cricket l’ha conosciuto per via coloniale. Arrivato a Roma è finito in classe con due inglesi (uno è James, compagno di squadra) che lo hanno convinto a provare questo strano gioco. Da lì a finire in Nazionale il passo è stato breve e per lui essere l’unico italiano al 100 per cento non è stato un peso. “Anzi. Mi sono trovato benissimo. Li considero italiani come me e anche se qualcuno non sapeva le parole dell’inno hanno dato tutto per il nostro paese”. L’unico vantaggio era quello di poter prendere in giro i compagni che sbagliavano qualche parola. “Alamin, milanese che viene dal Bangladesh aveva una grossa vescica sul piede e il dottore l’ha visitato. Quando è tornato mi ha detto: “Me l’hanno punzata”, con l’accento milanese. Per quella parola inventata l’ho sfottuto per tutto il torneo, ma lui non se l’è presa e ci siamo fatti delle grandi risate”.
A tenere uniti tutti questi ragazzi è l’amore per uno sport che negli ultimi anni ha subito cambiamenti fortissimi, tanto quanto la nostra società. Se da noi, terra di emigranti, la presenza dei famigerati "extracomunitari" si è allargata dai primi anni novanta diventando "un problema" sempre più grande, così lo sport a squadre più elitario e coloniale del globo si è trasformato in uno strumento di riscatto sociale per le popolazioni immigrate in paesi che con il cricket non avevano niente a che fare. Mazze e pallina in mano fin da piccoli, giocando quasi sempre per strada con i wickets da abbattere e le corse avanti indietro per segnare più punti. Il cricket si contende con il calcio il primato mondiale di praticanti con dati ballerini da uno studio all’altro. “Il cricket è davvero uno sport globale e difatti molti non si spiegano il perché il calcio abbia attecchito in tutto il mondo tranne sul sub continente indiano e Asia del Sud. E’ lo sport che impersonifica l’immigrazione est-ovest meglio di tutti perché chi emigra dall’India continua a giocare dovunque si sposti - spiega il presidente Gambino -. Per noi questo successo è importantissimo: se a livello seniores abbiamo fatto un grande salto grazie agli oriundi, la vittoria di questi ragazzi completamente italiani è un grande vanto. Stiamo lanciando una scuola basandola sull’immigrazione di secondo livello e il boom dei praticanti lo conferma con tanti italiani da generazioni che si avvicinano al nostro sport”.
La diffusione sul territorio è un po’ a macchia di leopardo. Buona al nord, in Emilia e in Lazio, scarsa al sud. In Piemonte c’è poco e per giocare Harpreet deve fare più di 150 km per spostarsi da Mondovì a Varese. Nella profonda Padania ci sono i fortissimi Kingsgrove, un ex babele di lingue ed etnie. Ma anche per trovare questa squadra Harpreet si è dovuto impegnare. “Quando ero in India e giocavo ogni giorno per strada con i miei amici, non credevo che in Italia ci fosse il cricket. L’ho scoperto leggendo i risultati del campionato sulla “Gazzetta dello Sport”. Allora quando sono arrivato ho cercato su internet la squadra più vicina e l’ho trovata a Varese. Quando ho detto a mio padre quanto era distante non ci voleva credere, ma poi l’amore per il cricket ha avuto la meglio e ogni settimana mi accompagna avanti indietro senza problemi”.
Il loro presente da immigrati è questo. E il loro futuro da italiani come lo sognano? "Mi piacerebbe fare il giocatore di cricket professionista - risponde Harpreet - ma sono che sarà difficile". Più pragmatico Aamir: "Sto facendo la scuola professionale, fare il meccanico mi è sempre piaciuto. Poi potrò sempre a giocare a cricket".
* l’Unità, 28 agosto 2009
Da venerdì garage, cascine e e cinema verranno trasformati in luoghi di culto
Mese sacro per oltre un milione: pochi spazi e orari inflessibili
La fabbrica diventa una moschea "Ecco il nostro ramadan in Italia"
di PIERO COLAPRICO *
MILANO - Il ramadan comincia all’alba di dopodomani, venerdì, ma per molti è già partito in sordina, con un piccolo gesto: "Voi non lo sapete, ma già quaranta giorni prima del mese sacro noi fedeli smettiamo di bere alcol, è una tradizione anche questa", racconta Arafà. È un egiziano di 33 anni, sta alla cassa della prima delle sue macellerie, in viale Tibaldi a Milano. In province meno leghiste, la sua storia sarebbe da manuale dell’imprenditore. Alcuni anni fa andò a comprare un po’ di carne nella macelleria dell’Istituto islamico di viale Jenner, poi fece due conti: "Mio zio in Egitto - racconta - ha un minimarket, sapevo a quanto vendeva lui, cominciai a studiare come organizzare le importazioni". Ora, con i fratelli, ha 15 negozi. E in ognuno, per i clienti, è stato stampato un foglietto pubblicitario con "Orario di preghiera del mese di Ramadan 1430. Agosto/settembre 2009 per Milano". Si trovano gli orari della luna, indispensabili per fissare e conoscere l’ora delle preghiere. A Milano ce l’hanno tutti i fedeli.
Comincia dunque il mese in cui "fare i buoni" diventa una forte aspirazione (più o meno, è come il Natale dei cristiani) e una novità interessante arriva da Torino. Qua il direttore del Centro islamico "Mecca", Amir Younes, ha fatto arrivare dal Cairo dieci imam: "Chi guida la preghiera nelle moschee italiane a volte è un fabbro, o un muratore, non un imam. Per allargare la conoscenza del vero islam ho invitato dieci imam, tutti laureati all’università d’Al Azhar, che lavorano con il Ministero della religione islamica in Egitto. Staranno a Torino, andranno a Lodi, Genova, Aosta, Imperia e altre città, come ambasciatori dell’Islam. Non diamo clamore all’iniziativa perché non c’interessa andare in tv, ma lo facciamo da anni".
Spesso si sente dire che in Italia ci sono ottocento moschee, ma non è esattamente così. Le moschee "vere" sono tre, a Roma, a Catania e a Segrate. Poi ci sono ex garage, cascine, sottoscala, cinema che sono stati trasformati in luogo di culto. Al massimo possono contenere trecento persone, facendo attenzione a vigili urbani e vicini di casa. Quindi, "se si fa qualche rapido conto, si capisce che, rispetto al milione e duecento mila mussulmani presenti in Italia, meno del dieci per cento ha un luogo pubblico dove pregare e celebrare il ramadan", dice il signor Hamza, da Brescia. Ma tutti, o quasi, si stanno organizzando come minuscole fotocopie della moschea romana di Monte Antenne: "I fedeli più poveri in tutt’Italia potranno rompere il digiuno mangiando vicino a dove si prega, un pasto viene offerto dopo la preghiera del tramonto", dice Abdel Hamid Shaari, dell’istituto islamico di viale Jenner, che invano lotta con il Comune di centrodestra per far spuntare a Milano una vera moschea.
Insieme con il ramadan, arriva qualche frizione. A Gallarate, provincia di Varese, dopo le continue ispezioni tecniche (o politiche?) del Comune, è stata montata una tenda, su disposizione del cardinale di Milano Dionigi Tettamanzi, vicino alla chiesa dei santi Nazario e Sauro, ad Arnate. C’è chi trova soluzioni, i circa ottomila lavoratori musulmani del Padovano hanno da qualche tempo a disposizione delle sale di preghiera nelle fabbriche e nei cantieri, quei pochi aperti durante il mese sacro. Mentre a Mantova è scoppiata, anche se presto rientrata, una polemica apparentemente salutista. La Coldiretti voleva imporre ai braccianti islamici l’"obbligo" di bere e Hammadi Ben Mansour, il portavoce, ha puntato i piedi: "Non è che stiamo giorni senza bere, non beviamo dall’alba al tramonto, poi ci rifocilliamo. Siamo abituati a fare così da bambini, sarà dura, ma sono affari nostri, è la nostra fede".
Già nel 1960, l’ex presidente tunisino Habib Bourguiba, socialista, chiese al popolo di "saltare" il ramadan perché il paese (indipendente da poco) aveva bisogno di lavoro per lo sviluppo. Da allora, non solo in Italia, ma in tutto il mondo islamico ci s’interroga sul tema, ma, come dice Amara Lakhous, scrittore algerino che vive a Roma, "la notizia di Mantova ha fatto il giro del mondo con questo titolo preoccupante: "L’Italia costringe i braccianti musulmani a non fare il ramadan!". Direi un grande danno all’immagine dell’Italia. È un vero peccato, le soluzioni ci sono. Tanti lavoratori immigrati musulmani scelgono di andare in ferie proprio durante il ramadan, altri che fanno un orario leggero, di quattro ore, e si impegnano a recuperare il resto. I datori di lavoro ragionano...".
Forse più dei politici? E uno che è datore di lavoro e islamico, come il giovane imprenditore di carne di via Tibaldi a Milano, non vede tutti questi problemi, se c’è "rispetto". Dice Arafà: "Chi non può fare il ramadan, per esempio chi prende farmaci, per una forma di rispetto verso chi digiuna, non beve, non mangia e tantomeno fuma alla presenza degli altri", racconta. "E in macelleria io devo servire il cliente. Se mangia va bene, se beve va bene, perché anche rispettare il cliente è ramadan".
Ma è vero che dopo il digiuno, molti islamici cenano insieme ogni sera? "Io sto a casa con la famiglia, non invito e non accetto inviti. C’è chi invita il povero, e questo è rispetto del ramadan. Le cene, però, possono essere divertenti. Sulle tavole in questo periodo arrivano cinquanta tipi di cibo, e mica li mangi tutti... ". Forse ci si sazia un po’ con gli occhi. Se nel ramadan d’agosto si sta diciotto ore senza bere e mangiare, un premio ci vorrà: anche alla vista, non solo all’anima.
* la Repubblica, 19 agosto 2009
Il leader dei Taliban del Waziristan è morto durante un attacco missilistico
Accusato di essere il mandante dell’attentato alla Bhutto. Su di lui una taglia di 5 mln di dollari
Pakistan, decapitata Al Qaeda
"Meshud ucciso da un drone Usa" *
ISLAMABAD - Il leader dei taliban pachistani, Baitullah Mehsud, è stato ucciso in un attacco missilistico mercoledì scorso insieme alla moglie e alle guardie del corpo. La notizia, riferita dal ministro dell’Interno pachistano, Rehman Malik, è stata ribadita da fonti americane. "Abbiamo motivo per credere che le notizie della sua morte possano essere vere, ma per il momento ciò non può essere confermato", ha spiegato la fonte chiedendo di restare anonima.
Gli Stati Uniti avevano messo una taglia di 5 milioni di dollari sulla testa di Mehsud, considerato un alleato chiave di al Qaeda in Pakistan. E’ ritenuto anche il mandante dell’omicidio di Benazir Bhutto. L’attacco in cui Mehsud sarebbe stato ucciso è stato sferrato mercoledì scorso da un drone americano a Makeen, nell’area tribale del Waziristan del Sud.
Malik, secondo quanto riporta Geo. TV, ha detto di avere in merito alla morte di Mehsud "informazioni che provengono dall’area dell’attacco e la buona notizia è che arrivano dal suo gruppo". Il ministro, però, ha aggiunto: "Non sono in grado di confermare finché non avrò indizi solidi".
Insieme a lui c’erano la moglie la suocera e altre sette persone. Mehsud è stato colpito nell’area di Zangra e, secondo fonti dei taliban contattate da Geo. TV, è stato sepolto lo stesso mercoledì a Nigosa.
In queste ore i taliban decidono il nome del successore di Mehsud, sospettato di aver deciso l’assassinio dell’ex premier pachistana, messo in atto nel 2007. Una shura (consiglio, assemblea ristretta) dell’organizzazione di Mehsud, Tehreek Taliban Pakistan, che conta dai 10.000 ai 20.000 miliziani, si tiene a Nigosa. Tra i papabili vi sono Wali Rehman, Azmatullah Mehsud e Hakimullah Mehsud.
* la Repubblica, 7 agosto 2009
Gesù profeta musulmano
di LORENZO MONDO (La Stampa, 21/6/2009) *
Molti mostreranno sorpresa per il fatto che sia possibile montare una ricca antologia dedicata ai Detti islamici di Gesù, come quella pubblicata pregevolmente dalla Fondazione Valla-Mondadori (a cura di Sabino Chialà, traduzione di Ignazio De Francesco, entrambi monaci). Eppure, a partire dal Corano e fino ai giorni nostri, sono innumerevoli gli scritti che tramandano parole di «Gesù figlio di Maria», considerato uno dei grandi profeti dell’Islam. A lui solo, neanche a Maometto, è riconosciuta la nascita da una vergine, anche se viene negata la sua divinità e messa per lo più in dubbio la morte in croce.
In questi «detti» Cristo viene rappresentato via via come un sapiente, un santo e un mistico, protagonista di gesti e «parabole» avvincenti. Essi nascono con evidenza da una rilettura dei Vangeli e degli apocrifi e attestano gli stretti rapporti che ci furono in origine tra cristiani e adepti della nuova fede. Qualche studioso parla addirittura di un «vangelo musulmano», sottolineando il fatto, rimasto unico nella storia, di una religione mondiale che adotta la figura costitutiva di un’altra religione. Restano memorabili tra tutte le parole di Rumi, il grande mistico persiano: «Il corpo è simile a Maria:/ognuno ha un Gesù dentro di sé./ Se sentiremo in noi i dolori,/il nostro Gesù nascerà».
Sarebbe stolto indulgere a improponibili sincretismi o reciproche attenuazioni dottrinali. Non si possono cancellare gli scontri sanguinosi ispirati per secoli, tra conquiste e riconquiste, dalle due religioni. E rimpiangere quello che non è stato, un diverso, meno conflittuale, rapporto tra i fedeli, spesso abusivi, di Cristo e di Maometto. Mentre assistiamo, in area islamica, al perdurare e al rincrudirsi del fondamentalismo politico-religioso contro l’Occidente giudeo-cristiano, questi «detti» offrono tuttavia una boccata di aria fresca.
D’accordo, sono le parole di spiriti eletti che difficilmente riescono a filtrare nei sentimenti collettivi, nel gioco degli interessi politici contrapposti. Ma inducono a sperare che in un futuro non troppo lontano venga riscoperta la vicinanza obnubilata tra le due fedi, dalla quale si incrementi un patto di tolleranza e di mutuo rispetto, un rifiuto della religione inquinata dalle potestà terrene. Sarà soltanto un sogno, ma proviamo a sognarlo.
Continuano gli scontri tra esercito e talebani nella valle dello Swat, arrestati attentatori
con giubbotti imbottiti di esplosivo.
Bomba in moschea Pakistan
almeno quaranta morti
L’inviato speciale Usa Richard Holbrooke: "Stanziati altri 200 milioni di dollari
per gli aiuti umanitari".
ISLAMABAD - E’ di almeno 40 morti il bilancio delle vittime provocate dall’esplosione di una bomba in una moschea nel nordovest del Pakistan, durante la preghiera del venerdì, a Dir Bala, nella zona di Hayagi Sharqi. Lo riferisce Atif-ur-Rehman, un alto funzionario del distretto di Upper Dir dove si è verificato l’attentato: "Almeno 40 persone sono state uccise. Non abbiamo idea di quanti siano i feriti".
L’attentato è avvenuto a poche ore dalla conferma dell’arresto di tre leader dei gruppi pro-talebani della regione dello Swat, poco lontana dal distretto di Upper Dir. Uno di loro è Izzat Khan, portavoce del partito Tehrik-e-Nifaaz Shariat-e-Muhammadi (TNSM), il partito che ha raggiunto l’accordo con il governo per l’imposizione della sharia (la legge islamica) nella regione.
Questa mattina la polizia ha arrestato alcuni sopsetti attentatori suicidi con giubbotti imbottiti di esplosivo a Islamabad e Rawalpindi. Lo ha riferito il ministro degli Interni Rehman Malik, senza specificarne però il numero. Il ministro non ha voluto commentare il possibile legame tra gli attentati e la presenza nel paese di Richard Holbrooke, inviato speciale Usa per l’Afghanistan e il Pakistan, che si trova lì per duiscutere le misure da adottare riguardo al conflitto con i Talebani nella valle dello Swat. Già ieri, poche ore dopo la visita di Holbrooke ai campi profughi del distretto di Mardan, i militanti avevano ucciso cinque poliziotti e un soldato.
Nella zona si moltiplicano i posti di blocco e le operazioni militari per eliminare le ultime sacche di resistenza dei Talebani, come riferisce il generale Ashfaq Kayani, che dirige le operazioni nella zona. Holbrooke ha spiegato che incontrerà tutti i leader del Pakistan per discutere del risanamento della valle dello Swat una volta sconfitti i terroristi talebani. Gli Stati Uniti, oltre ai 110 milioni già stanziati, contribuiranno con altri 200 milioni di dollari per far fronte all’emergenza umanitaria dei profughi, e Holbrooke ha esortato gli stati europei e islamici a fornire aiuti alla regione. Secondo quanto riportano le Nazioni Unite, infatti, cibo e medicine finiranno entro luglio. Il primo ministro pachistano Yosuf Raza Gilani ha anche chiesto agli Stati Uniti di cancellare il debito del paese, dati gli ingenti sforzi economici necessari per combattere i militanti talebani.
E intanto il presidente Asif Ali Zardari cerca di convincere la popolazione che non stanno combattendo la "guerra degli americani". "Anche se siamo alleati con gli Usa per sconfiggere Al Qaeda" ha dichiarato al Financial Times "stiamo combattendo per la nostra stessa sopravvivenza. Non possiamo pernmetterci di perdere, o le future generazioni non ce lo perdoneranno".
Una volta che la regione dello Swat sarà sotto controllo, è probabile che l’esercito sposterà il suo obiettivo al Waziristan, dove quattro soldati sono stati uccisi da una bomba alcuni giorni fa.
L’esercito riferisce che dall’inizio del conflitto, in aprile, oltre 1200 militanti e 90 soldati sono morti. "La popolazione della regione dello Swat ha iniziato a capire che tutti i problemi sono causati dagli estremisti talebani" spiega Rehman Malik "che non sono solo nemici della nazione ma anche dell’Islam stesso".
* la Repubblica, 5 giugno 2009
Scontro a fuoco dopo il fallimento di un tentativo di negoziato I sequestratori stavano portando gli ostaggi nel Waziristan del Sud
Liberati dall’esercito pachistano
gli studenti rapiti dai Taliban
PESHAWAR (Pakistan) - Sono stati liberati, dopo una feroce battaglia tra i sequestratori e l’esercito pachistano, 71 studenti e i loro nove insegnanti rapiti ieri da un gruppo di Taliban armati e mascherati nel villaggio di Bakka Kheil, nella turbolenta regione tribale del Waziristan del Nord. Non è chiaro se qualche decina di ostaggi sia ancora in mano ai sequestratori. Secondo un portavoce militare gli ostaggi sono tutti liberi, ma il preside della scuola, Javed Iqbal Piracha, teme che una quindicina di ragazzi manchino ancora all’appello. Informazioni contraddittorie, ieri, indicavano che i rapiti erano 400.
Lo scontro a fuoco è avvenuto mentre i sequestratori stavano cercando di spostarsi con i loro ostaggi nel Waziristan del Sud. L’esercito aveva bloccato tutte le strade dopo che il gruppo di studenti (tutti tra i 15 e i 25 anni) e insegnanti era stato prelevato dal collegio di Razmak.
Dopo un primo tentativo di ottenere la liberazione degli ostaggi con un negoziato, i militari sono passati alle vie di fatto, ha raccontato un portavoce dell’esercito, aggiungendo che nell’operazione non ci sono state vittime né tra i civili né tra i militari. Gli studenti rapiti facevano parte di un nutrito gruppo che stava lasciando il collegio per trasferirsi a Bannu per l’inizio delle vacanze.
* la Repubblica, 2 giugno 2009
Pakistan, attentato a Lahore
almeno 40 morti e oltre 100 feriti *
LAHORE - Almeno 40 persone hanno perso la vita e 150 sono rimaste ferite in un attentato alla centrale di polizia di Lahore. L’attacco terroristico è stato compiuto con un’autobomba. Dopo l’esplosione ci sono stati colpi d’arma da fuoco e sul posto sono arrivati un gran numero di soldati. L’edificio preso di mira è situato in un quartiere di uffici e negozi. Negli ultimi tempi la seconda città del Pakistan, capitale del Punjab situata al confine con l’India, è stata teatro di numerosi attentati.
La Stampa, 15/5/2009
DISTRETTO DELLO SWAT
Pakistan, migliaia di civili in fuga
"Assedio alla roccaforte dei taleban"
Aumenta l’offensiva contro le basi degli jihadisti. L’esercito è alle porte di Mingora, il capoluogo dello Swat
PESHAWAR (PAKISTAN) Migliaia di civili intrappolati nei combattimenti fra l’esercito pachistano e i talebani nel capoluogo del distretto dello Swat, Mingora, nel nordovest del Pakistan, hanno cominciato a fuggire oggi grazie a una sospensione temporanea del coprifuoco.
Dopo venti giorni di una vasta offensiva dell’esercito in questa valle e nelle zone vicine, secondo l’Onu circa 835.000 civili sono già fuggiti e si sono rifugiati nei campi profughi. Tuttavia almeno 200.000 abitanti del capoluogo Mingora sono rimasti intrappolati per molti giorni nella città in mano ai talebani e assediata dall’esercito, che aspetta di attaccare.
Il coprifuoco in città e nelle zone confinanti di Kanju e Kabal è stato tolto dalle 6 alle 14 ora locale (dall’una di notte alle nove del mattino in Italia), ha annunciato l’esercito in un comunicato. Le autorità locali hanno diffuso messaggi chiedendo ai civili di lasciare la città, che in tempi normali ha 300 mila abitanti. La gente scappa a migliaia in veicoli privati o sui 150 autobus che l’esercito lascia passare. I talebani intanto hanno cominciato a costruire barricate e a minare le strade.
Gli attentatori, addestrati dai Talebani, sarebbero pronti a farsi salatare in aria
Allarme attentati in Pakistan: pronti 40 kamikaze. L’ex capo dei servizi: siamo sull’orlo della rivoluzione
Il governo di Islamabad ha deciso di rafforzare le misure di sicurezza nelle principali città pachistane. L’ex numero uno dell’Inter Services Intelligence, Hamid Gul: ’’La forza militare contro i Talebani da sola non basta. Ma l’arsenale nucleare è assolutamente al sicuro’’
Islamabad, 13 mag. (Adnkronos/Aki/Ign) - In Pakistan è allarme per possibili attentati kamikaze. Circa 40 aspiranti attentatori, addestrati dai Talebani del distretto di Buner, nelle zone tribali del Pakistan, sarebbero pronti a farsi saltare in aria. Lo riferiscono fonti anonime all’emittente pachistana Geo Tv, precisando che il governo di Islamabad ha deciso di rafforzare le misure di sicurezza nelle principali città pachistane in previsione di attacchi terroristici.
Ieri mattina, intanto, un presunto raid aereo americano ha provocato la morte di otto persone nel Waziristan del Sud, roccaforte del comandante talebano Baitullah Mehsud, leader di Tehrik-e Taleban-e Pakistan (Ttp).
Hamid Gul, l’ex capo dell’Inter Services Intelligence, l’Isi, i potenti servizi segreti di Islamabad, considerato uno degli ’inventori’ dei Talebani in un’intervista all’ADNKRONOS traccia, dal suo punto di vista, il quadro della situazione che in queste settimane sta sconvolgendo il suo Paese. Raggiunto a Ryadh, in Arabia Saudita, il generale, che ancora oggi viene indicato come uno dei sostenitori e consiglieri occulti del Mullah Omar, non si tira indietro, come accadeva nell’ottobre 2001, in piena operazione Enduring Freedom, quando la sua villetta di Rawalpindi era meta obbligata per chi voleva comprendere la mentalità degli ’studenti del Corano’. "E’ vero, il Pakistan è sull’orlo di una rivoluzione, ma non credo verrà guidata dai Talebani - spiega l’ex comandante dell’Isi - i Talebani sono solo una frangia minoritaria della società, non sono il centro della società pachistana". Gul cerca però di esorcizzare scenari troppo apocalittici, con i rischi che una potenza nucleare di 160 milioni di abitanti possa cadere in mano alle tribù che stanno insanguinando le aree tribali a ovest del Paese e compiendo decine di attentati in molte città pachistane.
’’Non ci si può aspettare una rivoluzione di tipo iraniano in Pakistan, ma una sollevazione generale, del tipo che abbiamo visto il 15 marzo, con il movimento massiccio guidato dagli avvocati sì, e penso che quel tipo di movimento, su alcuni temi, possa dare il via a una sollevazione che non sarà sanguinosa come in Iran, ma una rivoluzione morbida, dove venga chiesta l’implementazione della Costituzione e il raggiungimento degli obiettivi che il Pakistan si diede all’epoca della sua creazione". Quello che conta, per Gul, è la necessità di instaurare in Pakistan la sharia, la legge islamica, quale fonte principale del diritto e delle consuetudini quotidiane: "La maggioranza della società pachistana è in favore dell’Islam, perché - afferma - tutti gli altri sistemi che abbiamo provato hanno fallito. C’è un altro esperimento che dev’essere tentato e la gente lo chiede, la sharia".
Sul fronte militare, sugli scontri che le truppe di Islamabad stanno conducendo contro la guerriglia talebana, con centinaia di migliaia di profughi in fuga, Gul non si fa molte illusioni e più che altro interpreta quanto sta accadendo come il sintomo di una partita più grande, la salvaguardia dell’indipendenza dell’arsenale nucleare pachistano. "L’esercito è sotto pressione degli americani - spiega - gli Stati Uniti hanno detto: se i Talebani si avvicinano ancora di più a Islamabad allora dovrete accordarci una custodia congiunta del vostro arsenale nucleare". E questo naturalmente, afferma perentorio Gul, "l’esercito pachistano non vuole farlo!". Il generale ci vede anche, ma non è una novità, il consueto complotto israeliano: "Israele ha chiesto agli Stati Uniti che, prima di ritirarsi dal Pakistan, lo rendano assolutamente denuclearizzarlo". Inoltre, "Obama ha bisogno di mostrare qualche risultato", ma come il suo predecessore Bush, "non ha una politica per la regione". Quanto agli scontri tra i militari di Islamabad e i Talebani, Gul dubita della vittoria finale: "L’esercito sta combattendo, ma quel movimento non sparirà mai, non si può fare affidamento solo sulla forza militare, se fosse solo quella la chiave del successo, allora gli Stati Uniti e le forze Nato avrebbero già vinto in Afghanistan". Sbaragliare i Talebani, spiega, è praticamente impossibile: "Quando c’è gente così dedita a una certa forma di pensiero, non è così semplice fermarli solo con la forza militare". Inoltre, le vittime civili provocate dai combattimenti rischiano, per Gul, di far diventare "quel movimento ogni giorno più forte".
Tornando al rischio più grande, quello che l’arsenale nucleare pachistano cada in mano talebana, Gul non ha dubbi: "L’arsenale nucleare è assolutamente al sicuro!". I talebani, per il generale, non solo "non sono così forti come si crede" ma "per quanto possano avvicinarsi, non avanzeranno fino a Islamabad, perché la gente non li accetterebbe". Quanto ai legami con Al Qaeda, Gul tende a escluderli: "Non c’è nessun collegamento tra questi Talebani e Al Qaeda, questo movimento chiede solo l’applicazione della sharia, che storicamente, nel passato di quelle tribù, fino al 1969, è stata un’esperienza positiva".
REPORTAGE / Tra i disperati che lasciano la valle dello Swat circondata dall’esercito
Un esodo biblico, centinaia di migliaia di profughi come nel 1947
Un popolo in fuga dai Taliban
sul fronte di guerra del Pakistan
dal nostro inviato GUIDO RAMPOLDI *
MARDAN (PAKISTAN) - Arrivano dentro furgoncini stipati oltre il verosimile, le donne inscatolate nel cassone, gli uomini pencolanti all’esterno, i bambini sul tettuccio insieme a bagagli, a qualche provvista, al ragazzino poliomielitico legato sulla sua carrozzella. Duecentomila profughi, finora l’unico risultato visibile della guerra che oppone l’esercito e i Taliban nella verde vallata dello Swat, a nord di Peshawar. Chi non ha parenti in grado di ospitarlo si affaccia nel campo di raccolta di Mardan, una polverosa città agricola all’imboccatura dello Swat. Alveari, campi di canna da zucchero, mandrie di bufali a mollo fino alla gola dentro pozze fangose; e adesso l’andirivieni disordinato degli sfollati. Quelli che incontro tra le duemila tende dell’Alto commissariato per i rifugiati sono convinti che la situazione sia tragica ma non seria. Tutto questo è teatro, mi dicono. L’esercito finge, come sempre. Vuole compiacere gli americani, non liberarci dei Taliban. Vuole convincere, non vincere.
I sospetti dei profughi sono ragionevoli (e i loro racconti, come vedremo, esemplari). Ma questa volta potrebbero essere eccessivi. I generali non hanno scelta. Le loro casse, le casse dello Stato, sono vuote. Possono tentare di ingannare, ancora una volta, gli americani. Ma non possono ingannare se stessi. Come avverte il premier Gilani, la guerra dello Swat "è la guerra per la sopravvivenza del Paese". Della sua unità territoriale. Della sua dignità statuale. E delle sue élites, all’improvviso folgorate da una terrificante consapevolezza: i Taliban non sono più gli innocui selvaggi o gli utili idioti cui il Pakistan ricorreva per le sue grandi manovre nell’area.
Entrati nell’orbita di al Qaeda, stanno diventando l’avanguardia di una rivoluzione islamica che potrebbe spazzare via tutto - ricchezze, libertà, diritti, futuro, cultura, privilegi, tutto ciò che, nel bene come nel male, la classe dominante rappresenta. Il problema è che nelle Forze armate molti quadri intermedi non sembrano ostili alla prospettiva di una rivoluzione puritana. Detestano l’America, considerano la democrazia una deviazione occidentale, insomma sono un prodotto di quella "talibanizzazione delle menti" denunciata in questi giorni da alcune opinioniste.
Ormai anche nelle maggiori città del Paese accade che licei femminili bandiscano i blue-jeans, che donne siano apostrofate da passanti o da tassisti se i loro abiti non appaiono abbastanza "islamici", che gli altoparlanti di centri commerciali come il Liberty Market di Lahore invitino le frequentatrici a coprirsi la testa. Quel che rende questa deriva più preoccupante è la saldatura in corso tra il fondamentalismo più violento e i risentimenti di masse contadine o lumpenproletarie che il sistema neo-feudale condanna agli orrori della povertà più abietta.
Non è troppo tardi per fermare la deriva. Il Pakistan non è uno Stato fallito, ha una buona classe media, buoni giornali, un buon tessuto industriale, perfino un’ottima letteratura, e quel che più conta, la consapevolezza di quali mostruosi massacri comporterebbero il fallimento del progetto nazionale e la disgregazione. Ma adesso la parola è alle armi. E se l’esercito fallisse anche quest’ultima prova, così come finora hanno sempre fallito (dal 2004 non ha mai vinto uno scontro con i Taliban), le conseguenze sarebbero disastrose.
Le Forze armate sostengono che l’offensiva dello Swat va benissimo: i Taliban "sono in fuga", le loro perdite enormi. I comandanti Taliban che non temono di usare il cellulare smentiscono. Gli uni e gli altri si premurano di non avere giornalisti tra i piedi. Dunque i profughi sono gli unici testimoni di questa mischia senza immagini. Quelli che trovo a Mardan, nel campo di raccolta, non riescono a credere che l’esercito faccia davvero la guerra ai Taliban, che ne ammazzi centinaia al giorno, che la vittoria sia vicina. Chi ha visto cadaveri di Taliban? Nessuno. "Muore solo la gente come noi, i civili", dicono. "L’esercito ci invita a scappare e ci bombarda mentre fuggiamo. Ordina il coprifuoco, e tira sulle nostre case. Che senso ha tutto questo?". "Se volesse davvero liquidare i Taliban, dovrebbe mettere gli stivali sul terreno. Invece si affida ad aerei ed elicotteri". "Vuole soltanto disperderli, creda a me, non ucciderli". "I Taliban veri sono pochi, ma quelli non si arrenderanno mai". "Andrà come due anni fa. Offensiva dell’esercito per compiacere gli americani. Poi il grosso delle truppe se ne va e tornano i Taliban".
Il sospetto che snerva i profughi dello Swat è lo stesso che inquieta i liberali pachistani (e forse Washington): com’è possibile che dal giorno alla notte le Forze armate considerino un nemico quelli con i quali fino a ieri convivevano? Che si trattasse di rapporti amichevoli o di una non belligeranza utilitaristica, è un capitolo piuttosto indecente, se stiamo ai racconti dei profughi. Tre mesi fa, all’alba, un uomo va nella piazza principale di Matta per aprire la propria bottega, e scopre quattro cadaveri decapitati, legati agli alberi. Hanno la divisa nera dei Frontier Corps, un corpo di polizia, e la testa tra le cosce, per un estremo insulto; uno dei quattro ha le guance mangiucchiate dai cani. Un foglio affisso su un tronco ordina di non rimuoverli prima delle 11 di quella mattina. Tutta la cittadinanza si raduna nella piazza, qualcuno chiama la polizia, qualcun altro avverte la caserma dell’esercito, ma nessuno, né cittadino né rappresentante dello Stato, osa contravvenire al volere degli assassini. I quattro cadaveri saranno rimossi solo dopo la scadere del termine fissato dai Taliban.
Un altro commerciante sostiene che spesso i militari lo incaricavano di portare viveri ai Taliban. Un terzo mi segnala che i Taliban hanno scannato nello Swat trecento persone, soprattutto poliziotti, ma non un solo un ufficiale dell’esercito: non uno. Un quarto mi fa presente che i guerriglieri adottano un fucile mitragliatore in dotazione delle Forze armate, il GIII, non reperibile sul mercato clandestino. L’aneddotica è copiosa, e spiega perché tanti ora abbiano l’impressione di rischiare la pelle sul palcoscenico di una farsa.
Nel principale ospedale di Mardan, il Dhq, il dottor Mumtaz mi dice che la gran parte dei 25 feriti sono stati colpiti da schegge, insomma dall’aviazione di quell’esercito che non difese i pachistani dello Swat quando doveva. Una bambina di 11 anni, Shaista, ha visto morire il fratello, due sorelle e la madre quando una bomba ha colpito la sua casa, a Mingora, il capoluogo dello Swat. Una donna, Shams ul Qamar, ha perso il figlio, ucciso nel fuoco incrociato. La sua è una storia particolarmente atroce. L’anno scorso i Taliban avevano assassinato, mitragliandole in casa, le sue due sorelle e una nipote, colpevoli di fornire cibo ai Frontier Corps.
Prima di lanciare la guerra dello Swat il governo e le Forze armate hanno voluto garantirsi il consenso delle principali forse politiche. Ma se l’offensiva risultasse inconcludente e moltiplicasse i lutti, l’accordo tra maggioranza e opposizione si sfilaccerebbe, l’esercito perderebbe il mandato che ha ottenuto dal parlamento, e l’intera operazione entrerebbe in crisi.
Questo è il calcolo dei Taliban, ed è un calcolo ragionevole, come confermava ieri la prima dimostrazione "pacifista", organizzata da un partito fondamentalista. Dunque i generali devono riuscire a sbandare in fretta il nemico (a "decapitarlo", nelle loro parole).
Al momento i Taliban sono ancora padroni delle due principali città dello Swat, ma la fuga di quasi tutta la popolazione li ha privati di uno scudo. Prima o poi saranno costretti alla ritirata e tenteranno di riorganizzarsi nelle vallate circostanti, dove sono già presenti. Potrebbero impedirglielo le milizie di villaggio, così come richiesto dall’esercito. Ma quasi tutte si sono rifiutate, perché non credono nella determinazione dei militari o perché temono la ferocia dei Taliban, grossomodo cinquemila, un migliaio dei quali con una lunga esperienza guerrigliera alle spalle. La struttura di comando disporrebbe di copiosi finanziamenti e di un ottimo servizio segreto, al comando di un ex funzionario statale.
L’esercito è addestrato alla guerra convenzionale e non pare a suo agio contro una guerriglia. Talvolta dà la sensazione di improvvisare. Per convincere la popolazione a stare dalla parte dei militari, gli elicotteri hanno lanciato sulle case dello Swat un volantino sul quale era scritto (citiamo il maggior quotidiano pachistano): "I Taliban sono le stesse forze ebraiche che si oppongono all’esistenza del Pakistan. Hanno violato gli accordi di pace, occupato proprietà private, praticato estorsioni e costretto ragazze a sposarli". Questo vedere ovunque una cospirazione ebraica è una paranoia tipica della casta militare, e non depone a favore della sua intelligenza. In ogni caso, non sarà con la propaganda che le Forze armate riusciranno a riacquistare credibilità presso una popolazione oggi piuttosto dubbiosa, nello Swat come in Pakistan.
* la Repubblica, 11 maggio 2009
Islamabad, 19:08 *
IL PAKISTAN ROMPE CON GREENWICH E CREA UN’ORA AUTARCHICA
Dalla mezzanotte di oggi il Pakistan adottera’ un nuovo fuso orario spostando un’ora avanti gli orologi rispetto al meridiano di Greenwich. Per calcolare l’ora di Islambad se ne dovranno aggiungere sei contro le 5 fissate finora. Il governo ha chiarito che si tratta di una mossa per risparmiare energia elettrica e far fronte ai sempre piu’ frequenti blackout.
* la Repubblica, 14 aprile 2009
Pakistan, esce con un altro
-Viene fustigata in pubblico
Una ragazza di 17 anni è stata frustata e picchiata in pubblico nel nord ovest del Pakistan da alcuni talebani perchè ritenuta implicata in una relazione extraconiugale. E il video, ripreso da un telefonino, sta facendo il giro delle televisioni pachistane e indiane, oltre ad essere finito su internet.
Geo Tv sta mandando in onda il filmato nel quale si vede una ragazza con una gonna rossa e il volto coperto da un mantello scuro che viene tenuta ferma a terra da due uomini, uno dei quali suo fratello, mentre un terzo, con barba lunga e turbante, la frusta. Le urla della giovane vengono smorzate dall’incitamento della folla.
Secondo quanto è dato sapere, la ragazza, sposata, ha ricevuto 34 frustate per essere uscita con un uomo che non era suo marito. La punizione è stata decisa dai capi talebani della valle dello Swat, nel nord ovest del paese, dove vive la ragazza e dove da meno di un mese è in vigore, per un accordo con il governo di Islamabad, la sharia, la legge islamica.
Dopo essere stata frustata in pubblico, la donna è stata portata all’interno di un edificio. Non si sa a quando risalgono il video e la punizione, ma un portavoce dei talebani dell’area, che agiscono secondo la legge accettata sul posto, ha fatto sapere che la decisione di diffondere il filmato nasce dall’esigenza di far sapere alla gente quali sono le fondamenta della legge islamica e i principi che la regolano.
Già in passato, anche se la sharia non era stata ancora introdotta, nella parte occidentale del Pakistan ai confini con l’Afghanistan, i talebani hanno picchiato per punirle diverse donne, chiuso scuole femminili, negozi di musica e di parrucchiere per signora. È questa, però, la prima volta che queste punizioni vengono fatte in pubblico e che vengono riprese e mandate in onda in televisione.
Da quando è in vigore nell’area la sharia, queste azioni sono divenute legali e, con il video diffuso oggi e ripreso da un telefonino, si vuole dimostrare che la giustizia talebana funziona, mandando così un avvertimento a tutti. Il filmato non è però piaciuto alla parte meno fondamentalista del Pakistan, tanto che il presidente Asif Ali Zardari ha condannato l’episodio. Muslim Khan, portavoce di un gruppo talebano dello Swat, ha detto alla televisione Geo News che il video è molto vecchio, di oltre sei mesi fa, spiegando che, da quando è in vigore l’accordo tra talebani e governo per la sharia nello Swat, nessuno è stato frustato.
Secondo Khan, che ha detto che la ragazza era una prostituta, la diffusione del video sarebbe solo un tentativo di sovvertire l’accordo di pace grazie al quale è stata poi introdotta la sharia. L’area dello Swat, ai confini con l’Afghanistan, è ritenuta una roccaforte talebana nella quale, tra le varie tribù e i profughi provenienti dall’Afghanistan, giunti ormai alla terza generazione, troverebbero rifugio anche molti membri di Al Qaida e si nasconderebbe anche lo stesso Osama Bin Laden.
* l’Unità, 03 aprile 2009
Ansa» 2009-03-27 17:40
PAKISTAN: KAMIKAZE IN MOSCHEA, ALMENO 48 MORTI
NEW DELHI - E’ di almeno 48 morti e 100 feriti il bilancio - ancora provvisorio - del grave attentato suicida avvenuto oggi nella moschea di Jamrud, non lontano dal posto di controllo di Bhegari, nel distretto nord occidentale pachistano di Khurram, ai confini con l’Afghanistan. Un kamikaze, secondo le prime informazioni diffuse alla stampa pachistana da Tariq Hayat, alto funzionario del governo del Khurram, si è fatto esplodere all’interno della moschea, mentre nella struttura c’erano circa 300 persone riunite per la preghiera del venerdì. La moschea, un palazzo di due piani, è crollata a causa della forte esplosione e i soccorritori hanno tirato via dalle macerie i corpi senza vita di 48 fedeli. Hayat ha detto alla televisione Geo News che il bilancio potrebbe aumentare, almeno fino a 70 vittime, perché ancora molte persone sono intrappolate sotto le macerie e tra i 100 feriti ce ne sono alcuni in gravi condizioni.
In tutta la zona è stata dichiarato lo stato di emergenza e i feriti trasportati negli ospedali dell’area frontaliera con l’Afghanistan, fino a Peshawar, capoluogo della provincia di Nord Ovest. Le prime informazioni parlavano di un attentato alla vicina stazione di polizia di Bhegari che si trova non lontana dalla moschea, sulla strada usata per trasportare gli approvvigionamenti alle truppe alleate in Afghanistan. L’attentato non è stato rivendicato per il momento, anche se si punta il dito contro i gruppi talebani che operano nella zona e che si oppongono all’accordo tra il governo di Islamabad e quello di Washington nella lotta al terrorismo.
Ansa» 2009-03-16 08:28
PAKISTAN: SHARIF FERMA ’LUNGA MARCIA’ DI PROTESTA
GUJRANWALA (PAKISTAN) - Il principale leader dell’opposizione pakistana, Nawaz Sharif, ha chiesto ai suoi di fermare la ’Lunga Marcia’ di protesta verso Islamabad, dopo l’annuncio da parte del Governo di ristabilire nelle sue funzioni l’ex presidente della Corte suprema Iftikhar Chaudhry.
Il presidente Asif Ali Zardari ha accettato le principali richieste dell’opposizione, fra cui appunto la restituzione dell’incarico a Chaudhry. All’alba di oggi il primo ministro Yusuf Raza Gilani ha annunciato: "Dispongo che il responsabile della giustizia e altri giudici siano rimessi al loro posto, in sintonia con le promesse fatte da me e dal presidente".
Il rientro di Chaudhry nel suo incarico avverrà il 21 marzo, quando l’attuale presidente della Corte suprema, Abdul Hameed Dogar, si ritirerà. Gilani ha anche annunciato che "in uno spirito di riconciliazione nazionale" il governo chiederà la sospensione delle denunce riguardanti Sharif e suo fratello Shahbaz e disporrà il rilascio di tutte le persone arrestate nei giorni scorsi all’inizio e durante la ’Lunga Marcia’. Infine il premier ha reso noto che saranno eliminate le misure speciali del codice di procedura penale raccolte nella cosidetta ’Section 144’. Immediata la reazione dell’ex premier leader del partito Lega musulmana-N (Plm-N) che ha ringraziato Zardari e Gilani, sostenendo che "oggi è il giorno in cui ha trionfato la democrazia".
Ordine di arresto nella sua abitazione per l’ex premier e leader dell’opposizione
Ma il capo dell’opposizione esce di casa: "Provvedimento ingiusto e immorale"
Pakistan, Sharif sfida il governo
e lascia gli arresti domiciliari
LAHORE - Arresti domiciliari per l’ex primo ministro e capo indiscusso dell’opposizione pachistana Nawaz Sharif. La notizia ha provocato la rabbiosa protesta dei sostenitori della lega musulmana del Pakistan a Lahore, radunati davanti all’abitazione del loro leader. I manifestanti hanno lanciato pietre contro gli agenti, che sono intervenuti con gas lacrimogeni. Circa 250 persone sono state arrestate.
Ma sfidando il provvedimento di arresti domiciliari, Nawaz Sharif è uscito dalla sua abitazione: "Non accettiamo questa decisione", ha detto in un discorso trasmesso in diretta dalla tv di Islamabad. "Gli arresti domiciliari sono illegali e immorali. Tutte queste decisioni sono incostituzionali".
Sharif, ex primo ministro rientrato da poco dall’esilio, doveva guidare una marcia di protesta contro il governo, in programma per oggi, con partenza a Lahore e arrivo a Islamabad. Poche ore prima dell’inizio della marcia la polizia ordinato a Sharif di rimanere confinato nella sua abitazione di Lahore per tre giorni.
"Unitevi a me. Sto lasciando la mia casa. E’ arrivato il momento di marciare mano nella mano", ha affermato. "Non possono fermare le emozioni della popolazione. Abbiamo aspettato a lungo questo giorno. Non ci possono fermare".
* la Repubblica, 15 marzo 2009
Attacco alla nazionale di cricket dello Sri Lanka in Pakistan: 8 morti *
LAHORE - Almeno otto persone, sei poliziotti e due civili, sono rimaste uccise oggi in Pakistan nell’attacco di un gruppo di uomini armati contro il pullman che trasportava la squadra di cricket dello Sri Lanka e la sua scorta ad una partita con la squadra pachistana a Lahore. Lo ha reso noto la polizia.
L’attacco è stato condotto da una dozzina di persone, con mitra khalashnikov, razzi e granate, mentre il pullman stava arrivando allo stadio Gaddafi. "La polizia sta dando la caccia ai terroristi - ha detto il capo della polizia, Habib ur-Rehman -. Sembrano uomini addestrati".
I feriti cingalesi sono cinque giocatori e un vice allenatore, Paul Farbrace. Quest’ultimo è stato ricoverato in ospedale insieme al giocatore Thilan Samaraweera. Gli altri quattro feriti sono stati medicati all’ospedale e riportati in albergo.
Allo stadio Gaddafi di Lahore, che ha 60.000 posti, era in programma stamani la terza giornata di gioco del secondo Test fra le squadre di cricket di Pakistan e Sri Lanka. La formazione cingalese era stata invitata ad una serie di gare in Pakistan dopo che quella indiana aveva cancellato una tournè a seguito degli attentati di Mumbai, che gli indiani ritengono organizzati in Pakistan con la connivenza di settori dei servizi segreti locali. Anche l’Australia recentemente ha annullato per motivi di sicurezza partite già fissate in Pakistan.
* la Repubblica, 3 marzo 2009
Ansa» 2009-02-24 09:05
PAKISTAN, TALEBAN: CESSATE IL FUOCO IN VALLE DELLO SWAT
PESHAWAR (PAKISTAN) - I taleban hanno annunciato oggi un cessate il fuoco illimitato nella valle dello Swat, nella zona nord-occidentale del Paese. L’annuncio fa seguito all’accordo sulla sharia raggiunto con le autorità provinciali della regione.
La tregua è stata annunciata alla fine del consiglio consultivo convocato da Maulana Fazlullah, capo dei taleban nella valle dello Swat, ha confermato Muslim Khan, portavoce dei combattenti. "Il consiglio consultivo si è riunito oggi sotto l’autorità di Fazlullah e ha deciso il cessate il fuoco per un periodo illimitato", ha detto. "Oggi abbiamo liberato quattro paramilitari e rilasceremo tutto il personale di sicurezza nelle nostre mani come gesto di buona volontà", ha aggiunto Khan. Un precedente cessate il fuoco di dieci giorni era stato osservato dopo il 16 febbraio in seguito all’accordo fra il Pakistan e i leader islamici che prevedeva l’applicazione della legge islamica della sharia nella valle dello Swat.
Ansa» 2009-02-20 17:38
PAKISTAN, OLTRE 30 VITTIME IN ATTENTATO CONTRO FEDELI SCIITI
NEW DELHI - E’ di 33 morti il bilancio di un attentato suicida avvenuto questa mattina a Dera Ismail Khan, città della Provincia Frontaliera di Nord Ovest (NWFP) ai confini con l’Afghanistan. Una bomba è esplosa al passaggio di un corteo funebre nel quale centinaia di persone accompagnavano il feretro di Sher Zaman, un leader sciita locale, ucciso ieri a colpi di pistola.
Poco dopo l’esplosione della bomba, avvenuta nel centro cittadino nei pressi della moschea sciita e di un albergo, la folla inferocita che partecipava alle esequie si è scagliata contro la polizia colpevole, a loro dire, di non averli protetti e di non aver fatto controlli. Diverse auto e un autobus sono stati distrutti o dati alle fiamme, distrutte anche le vetrine di negozi. Alla notizia dei disordini, il governo locale ha inviato in zona militari dell’esercito e paramilitari che, dopo aver imposto il coprifuoco, sono riuscito a riportare la calma riprendendo il controllo della città. Il governo locale ha deciso di estendere il coprifuoco per almeno altri due giorni.
Oltre cinquanta persone sono ricoverate in ospedale a seguito dell’esplosione e dei disordini, alcune delle quali in gravi condizioni tanto che si teme che il bilancio delle vittime possa aumentare.
Due settimane fa 35 persone morirono per un altro attentato contro fedeli sciiti nella città di Dera Ghazi Khan nel Punjab pachistano. Sher Zaman, il leader sciita ucciso ieri, si trovava sulla sua moto nel mercato della città quando è stato colpito alle spalle da proiettili. Era uno dei leader religiosi e politici più ascoltati nella comunità.
La piccola vuole andare negli Usa per incontrare Obama
Pakistan, bambina 11enne combatte talebani a colpi di poesie
Dalla periferia di Islamabad, Tuba Sahaab scrive versi che raccontano il dolore e le sofferenze dei piccoli come lei
Islamabad, 18 feb. (Adnkronos) - Ad appena 11 anni Tuba Sahaab ha ingaggiato una personale battaglia a colpi di poesie contro i talebani dalla periferia di Islamabad dove vive. In un Pakistan dove molte bambine non possono frequentare la scuola e i loro libri vengono bruciati, Tuba non e’ stata ridotta al silenzio dagli estremisti islamici.
Scrive versi che raccontano il dolore e le sofferenze dei piccoli come lei, non temendo di dire a voce alta cio’ che pensa. A raccontare la storia di Tuba, che vive a meno di due ore di strada dalla zona passata sotto il controllo dei talebani, e’ la ’Cnn’, spiegando che la piccola, accompagnata dalla mamma, ha preso parte ad un programma alla radio.
"Vorrei che nel mio Paese tornasse la pace, mi battero’ per questo", dice la piccola poetessa che in uno dei suoi versi contro i talebani scrive: "E’ molto scioccante sentire che le ragazze non possono andare a scuola, ci stanno riportando all’Eta’ della pietra".
Quanto al neo-presidente americano, Tuba racconta di aver pregato per l’elezione di Barack Obama e di voler andare negli Usa per incontrare il suo eroe. "Voglio andare alla Casa Bianca per fargli leggere le mie poesie, fargli vedere cio’ che sta succedendo e chiedergli di venire in Pakistan per controllare perche’ lui - spiega la piccola - e’ una superpotenza".
PAKISTAN: BAMBINA DI 11 ANNI COMBATTE TALEBANI A COLPI DI POESIE
Islamabad, 18 feb. (Adnkronos) - Ad appena 11 anni Tuba Sahaab ha ingaggiato una personale battaglia a colpi di poesie contro i talebani dalla periferia di Islamabad dove vive. In un Pakistan dove molte bambine non possono frequentare la scuola e i loro libri vengono bruciati, Tuba non e’ stata ridotta al silenzio dagli estremisti islamici.
Ansa» 2009-02-17 14:44
PAKISTAN: SWAT, PER NATO E’ RAGIONE DI PREOCCUPAZIONE
BRUXELLES - L’accordo fatto da Islamabad nella zona tribale dello Swat, dove è stata concessa agli estremisti la legge islamica in cambio di una tregua, preoccupa la Nato. "E’ certamente ragione di preoccupazione" ha detto il portavoce dell’Alleanza atlantica, James Appathurai, rispondendo ai giornalisti che chiedevano se questo tipo d’intesa può rafforzare i taleban in Pakistan.
"Dovremmo essere tutti preoccupati da una situazione in cui gli estremisti dovessero avere un rifugio sicuro", ha detto Appathurai. "Il governo del Pakistan è ingaggiato in una sfida molto impegnativa", ha aggiunto facendo riferimento all’azione dei gruppi fondamentalisti che nella regione dello Swat alimentano una rivolta contro Islamabad. "Il Pakistan sta mettendo molte risorse contro gli estremisti, il premier ha perso anche sua moglie in questa battaglia, nessuno può dubitare della sua determinazione", ha proseguito Appathurai. La Nato "vuole approfondire le proprie relazioni con il Pakistan" e ha già presentato al governo di Islamabad una serie di offerte pratiche per fare questo. "La regione dello Swat è già messa molto male per quanto riguarda la presenza degli estremisti e non vorremmo che le cose peggiorassero", ha sottolineato Appathurai. La Nato - che guida la missione militare internazionale in Afghanistan - ha recentemente insistito a più riprese sul fatto che il Pakistan deve essere "parte della soluzione" e non parte del problema nella regione. L’Alleanza e il governo di Islamabad già collaborano su diversi fronti: esistono infatti centri congiunti di intelligence, per la formazione di militari e poliziotti e per il controllo delle frontiere.
La notizia lanciata qualche giorno fa dal tabloid ’National Enquirer’
Love story Bhutto-Clooney? L’imbarazzo di Fatima
La presunta storia d’amore potrebbe essere un problema nel Paese dai rigidi costumi musulmani. La nipote dell’ex primo ministro pakistano Benazir non conferma né smentisce le voci di una sua relazione con la star di Hollywood
Karachi, 13 feb. (Adnkronos) - "No comment, forget it". Vale a dire "nessun commento, non voglio parlarne". Fatima Bhutto, scrittrice, attivista politica e soprattutto nipote dell’ex primo ministro pakistano, Benazir uccisa in un attentato nel 2007, non conferma né smentisce le voci di una sua relazione con la star di Hollywood George Clooney (nella foto), lanciate qualche giorno fa dal tabloid americano ’National Enquirer’. Raggiunta telefonicamente a New York, dove si trovava, da un suo amico pakistano, la 27enne Fatima Bhutto si sarebbe appunto limitata a un laconico ’no comment’, come riferiscono all’ADNKRONOS fonti vicine alla famiglia della giovane.
Che la nipote di Benazir non abbia molta voglia di parlare della vicenda, che probabilmente le crea qualche imbarazzo in Pakistan, Paese dai rigidi costumi musulmani, è confermato dal fatto che il suo cellulare, così come il telefono della sua abitazione, squillano a vuoto. Stesso discorso per le email, che rimangono senza risposta.
C’è anche chi fa notare che in fondo, la giovane e attraente Fatima, già in passato avrebbe avuto una relazione con un divo del cinema, stavolta pakistano, anch’egli più grande di lei, come il 48enne Clooney. Intanto, dopo qualche giorno di silenzio, la notizia della presunta relazione tra Fatima e Clooney è stata ripresa anche dalla stampa pakistana. Ne hanno scritto il quotidiano ’The News’ e ne ha parlato l’emittente GeoTV.
Ieri il ’Dawn’, il maggiore quotidiano in lingua inglese del Paese, riprendendo un articolo scritto da Fatima sul britannico Guardian, avanzava l’ipotesi che la giovane Bhutto temesse una incriminazione da parte del governo di Islamabad per le sue accuse di corruzione e incompetenza rivolte all’establishment politico che attualmente guida il Pakistan, primo fra tutti il presidente Asif Ali Zardari, marito della scomparsa Benazir, zia di Fatima.
Ecco allora che il ’Dawn’ lascia intendere tra le righe che le voci su una presunta relazione tra Fatima e il ’rubacuori’ di Hollywood Clooney, potrebbero essere state create ad arte per creare imbarazzo alla giovane Fatima, che starebbe per pubblicare un libro sul clan Bhutto, probabilmente la famiglia più potente del Pakistan, sicuramente quella con la storia più controversa. Del resto, fa notare il quotidiano pakistano, le voci lanciate dal National Enquirer erano supportate da pochi dettagli e non erano accompagnate da immagini che ritraevano Fatima e Clooney insieme.
La storia dei Bhutto è segnata da tragedie e rivalità da almeno quattro generazioni. Il nonno di Fatima, il primo ministro Zulfikar Ali Bhutto, fu giustiziato nel 1979 dopo un golpe militare; suo zio Shahnawaz fu assassinato nel 1985, così come suo padre Murtaza nel 1996 e sua zia Benazir nel dicembre del 2007. Recentemente, Fatima aveva acceso i riflettori dei media in seguito all’annuncio di voler concorrere alle prossime elezioni in Pakistan per conquistare il seggio parlamentare nel collegio di Larkana, nella provincia del Sindh, roccaforte della famiglia, già appartenuto a sua zia Benazir.
AsiaNews.it» 11/07/2008 10:20
PAKISTAN
Un’indagine Onu sulla morte della Bhutto
Una Commissione delle Nazioni Unite cercherà, in collaborazione con il Pakistan, di individuare esecutori, mandanti e finanziatori. Critico il presidente Musharraf che la reputa non utile.
Islamabad (AsiaNews/Agenzie) - Le Nazioni Unite svolgeranno un’inchiesta sull’omicidio della ex premier pakistana Benazir Bhutto, accogliendo la richiesta di Islamabad. Il ministro pakistano degli Esteri, Shah Mahmood Qureshi, ha annunciato ieri a New York “un’intesa di massima”, dopo l’incontro con il segretario Onu Ban Ki-moon, spiegando che “l’obiettivo è identificare gli esecutori, gli organizzatori e i finanziatori dell’assassinio”.
Ha aggiunto che sono state delineate alcune modalità attuative, quali la natura della commissione d’inchiesta, l’accesso alle informazioni e come garantirne imparzialità e indipendenza.
La Bhutto, candidata alle elezioni generali pakistane del febbraio 2008, è stata uccisa lo scorso dicembre con un attentato esplosivo suicida durante una manifestazione a Rawalpindi. L’assassinio ha provocato proteste nell’intero Paese. Sono state arrestate 5 persone, ma nessuno è stato finora condannato. Il presidente Pervez Musharraf accusa terroristi islamici collegati con al-Qaeda e ritiene non utile un’indagine Onu. Ma il Partito popolare del popolo, di cui la Bhutto era leader e che ora fa parte della coalizione di governo che ha sconfitto gli alleati di Musharraf, ha insistito per l’indagine Onu osservando che non c’è stata neanche l’autopsia e che ancora non è certo nemmeno come esattamente sia morta (se per ferite al capo o altrimenti).
Attaccate scuole private, chiese e abitazioni
In Pakistan ancora violenze contro i cristiani *
Islamabad, 21. Non soltanto in India ma anche nel confinante Pakistan la persecuzione dei cristiani appare costante: attacchi a scuole, chiese e abitazioni della comunità si susseguono da anni in diverse aree del Paese asiatico. Oltre 170 scuole assaltate o distrutte in due anni; più di 400 fra istituti e collegi femminili costretti a chiudere per minacce e intimidazioni: è il bilancio del clima di terrore che stanno vivendo gli abitanti nel distretto di Swat, all’interno della provincia di frontiera di nordovest.
Si tratta di un territorio dove di fatto governano le bande dei talebani, che hanno preso di mira in particolare gli istituti di educazione femminili. Le scuole private gestite da gruppi e istituzioni cristiane o da altre associazioni ed enti indipendenti hanno infatti deciso la chiusura per non correre rischi, in seguito alla diffusione di un editto, lanciato da una radio locale, che minacciava attentati e ritorsioni alle strutture ancora in funzione dopo il 15 gennaio. Il distretto è divenuto nel passato un campo di battaglia fra l’esercito pakistano e gli integralisti che, dopo il ritiro dei militari, hanno occupato la zona.
Presidi, educatori e genitori delle scuole private hanno concordemente deciso, vista la situazione, la chiusura a tempo indeterminato delle strutture che si potranno riaprire, sottolineano, soltanto quando l’editto verrà revocato.
Si calcola che sono oltre 125.000 le studentesse penalizzate dalla situazione e private del diritto all’istruzione. Tra l’altro, una scuola gestita dalle suore carmelitane apostoliche srilankesi, che contava circa mille studentesse è stata anche distrutta dal lancio di rudimentali bombe.
Altre violenze sono avvenute nella provincia del Punjab: un non precisato numero di musulmani, ieri, hanno assaltato la chiesa e quattro abitazioni di cristiani nel villaggio di Kot Lakha Singh, compiendo anche atti di tortura. All’origine dell’attacco ci sarebbe la disputa sulla proprietà di un terreno.
Il fatto è stato reso noto, secondo quanto riporta l’agenzia AsiaNews, dalla Commissione nazionale per la giustizia e la pace del Pakistan.
Ad essere stata assaltata per prima è stata l’abitazione di un cattolico, William Masih: gli assalitori hanno torturato i presenti, incluse donne e bambini, e successivamente hanno rubato soldi e oggetti d’oro. I musulmani hanno quindi colpito le dimore di altre tre famiglie cristiane del villaggio e, infine, hanno fatto irruzione nella chiesa che accoglie cattolici e protestanti, danneggiando gli arredi e strappando i testi sacri. Le violenze sono state denunciate alla polizia che, tuttavia, non ha ancora individuato e arrestato alcun colpevole.
(©L’Osservatore Romano - 22 gennaio 2009)
Ansa» 2009-01-05 12:50 MUMBAI: PROVE IMPLICAZIONE PAKISTAN
NEW DELHI - L’India afferma di aver consegnato oggi al Pakistan le prove dell’implicazione di "elementi pachistani" negli attacchi di Mumbai, e di aspettarsi quindi ora indagini immediate. "Il materiale fa riferimento a elementi pachistani. Ci aspettiamo che il Governo del Pakistan intraprenda immediatamente ulteriori indagini", si legge in un comunicato del ministero degli Esteri indiano.
Negli attacchi portati a Mumbai nel novembre scorso da dieci uomini armati morirono oltre 170 persone, tra le quali nove degli attentatori. India, Stati Uniti ed Inghilterra accusano degli attacchi un gruppo islamico clandestino pachistano, che secondo le ultime prove raccolte dagli inquirenti indiani avrebbe il sostegno di "elementi" del regime pachistano.
Più di centomila pachistani in lacrime si sono radunati oggi dinanzi alla tomba della Bhutto
un anno dopo il suo assassinio. Il primo ministro la commemora nel palazzo del governo
Pakistan, in migliaia a ricordare Benazir
Il premier: "Non attaccheremo l’India"
Nonostante le relazioni tra i due Paesi siano molto deteriorate, Gilani ribadisce
"Noi vogliamo relazioni di amicizia con i nostri vicini. Ma, se ci attaccano, sapremo difenderci" *
GARHI KHUDA BAKHSH - Più di centomila pachistani in lacrime si sono radunati oggi intorno alla tomba dell’ex primo ministro Benazir Bhutto, nel sud del paese, un anno esatto dopo il suo assassinio. E, nel corso della cerimonia di commemorazione, il primo ministro pachistano Yusuf Raza Gilani ha ribadito che il Paese non vuole la guerra con l’India, nonostante le relazioni tra i due stati siano decisamente deteriorate, in seguito agli attentati di Mumbai.
"Non cerchiamo lo scontro con i nostri vicini. Vogliamo avere delle relazioni di amicizia con loro", ha dichiarato Gilani, nel corso della cerimonia in onore di Benazir Bhutto organizzata nella residenza ufficiale del governo. "Vi assicuro ancora una volta che non prendermo l’iniziativa. - ha detto ancora Gilani - Non faremo altro che reagire. Non saremo noi a lanciarci in un’avventura imprudente, ma, nello stesso tempo, saremo capaci di difendere il nostro Paese".
E intanto già dalle prime ore del mattino una marea di persone, alcune delle quali si battevano il petto per esprimere l’intensa emozione, ha fatto pressione ai posti di controllo situati all’entrata del cimitero dove si trova il mausoleo della famiglia Bhutto, nel villaggio di Garhi Khuda Bakhsh.
Il flusso ininterrotto di gente che sta continuando ad arrivare ha costretto le autorità a ritardare l’inizio della cerimonia di omaggio, inizialmente prevista per le ore 9 locali.
Il vedovo di Benazir, Asif Ali Zardari, presidente del Pakistan da settembre, e suo figlio, Bilawal Bhutto Zardari, entrambi copresidenti del Partito del popolo pachistano (PPP), sono attesi sul posto per condurre la processione e presiedere la cerimonia, che inizierà con una lettura del Corano, il libro santo dell’Islam. Un enorme dispositivo di sicurezza è stato dispiegato sul posto.
* la Repubblica, 27 dicembre 2008
New Delhi ai propri cittadini: «Non varcate la frontiera»
India-Pakistan: soffiano venti di guerra
Islamabad sospende le licenze dei militari e sposta truppe dal confine afghano a quello indiano
NEW DELHI - Non promette nulla di buono la fine d’anno tra India e Pakistan. Tornano a soffiare impetuosi venti di guerra a un mese di distanza dal massacro di Mumbai, che gli indiani attribuiscono ai pakistani, almeno per non aver fatto nulla per impedire che terroristi islamici del Kashmir raggiungessero seminassero morte nell’ex Bombay. Il ministro degli Esteri cinese Yang Jeichi ha telefonato ai colleghi indiano e pakistano per proporre un incontro a tre sulla crisi. Il capo della diplomazia di New Delhi, Pranab Mukherjee, ha chiesto però che prima Islamabad «faccia di più e distrugga i campi dei terroristi».
NON VARCATE LA FRONTIERA - Il governo dell’India ha invitato i propri cittadini a non recarsi in Pakistan. L’avvertimento è stato lanciato dal ministero degli Esteri di New Delhi mentre era in corso una riunione tra il premier Manmohan Singh e i vertici delle forze armate. «I cittadini sono avvisati che potrebbe essere non sicuro recarsi in Pakistan», ha detto un portavoce del ministero degli Esteri, rispondendo a una domanda sulla notizia dell’arresto di cittadini indiani dopo l’esplosione di un minibus giovedì in una strada centrale di Lahore che ha provocato la morte di una donna che passava e il ferimento di quattro cristiani che si stavano recando a Messa. L’obiettivo era un alto funzionario di polizia che prese parte a un’operazione che uccise un leader di Al Qaeda nel 2002 legato a un gruppo estremista islamico.
SPOSTAMENTI DI SOLDATI - Islamabad ha avvertito l’India di non lanciare attacchi e ha promesso di rispondere a ogni provocazione. Il Pakistan ha trasferito truppe dal confine con l’Afghanistan a quello con l’India e ha sospeso tutte le licenze ai militari con compiti «operativi». Negli ultimi giorni l’esercito e l’aeronautica di Islamabad hanno ridotto le operazioni contro i talebani e i miliziani di Al Qaeda nella valle di Swat e nell’area tribale di Bajaur. Fonti militari pakistane sostengono che è stato notato uno spostamento di truppe indiane verso la frontiera. Lo stato maggiore pakistano ha messo in stato di massima allerta soprattutto l’aviazione, dopo che il 13 dicembre jet indiani violarono lo spazio aereo pachistano presso Lahore. La notizia della violazione è stata poi smentita dall’India. «Vogliamo la pace, ma non dovremmo essere compiacenti con l’India», ha dichiarato il ministro degli Esteri pachistano Shah Mahmood Qureshi. «Dovremmo sperare per il meglio, ma prepararci per il peggio».
* Corriere della Sera, 26 dicembre 2008
INDIA: PREMIER PAKISTAN CONFERMA ARRESTO 2 RICERCATI PER ATTACCHI MUMBAI
GILANI, CATTURATI I CAPI DEI GRUPPI LASHKAR-E- TAIBA E JAISH-E- MUHAMMAD
Islamabad, 10 dic. (Adnkronos/Xin) Il primo ministro Yousaf Raza Gilani ha confermato l’avvenuto arresto in Pakistan di due comandanti dei gruppi sospettati dall’India per gli attentati di Mumbai. Parlando con la stampa nella citta’ di Multan, Gilani ha spiegato che Zaki-ur- Rhman Lakhvi, leader del gruppo Lashkar-e- Taiba, e Maulana Masood Azhar, capo del gruppo Jaish-e- Muhammad, sono stati "fermati per essere interrogati".
L’ANALISI.
Da Islamabad una svolta con il bliz contro i militanti di Lashkar e Taiba
Presa la mente dell’attacco a Mumbai
il Pakistan arresta vecchie conoscenze
di VINCENZO NIGRO *
Gli uomini arrestati domenica dalle autorità pachistane, e soprattutto Zaki ur Rehman Lakhvi, sono vecchie conoscenze dell’intelligence di Islamabad. Militanti che per anni hanno lavorato nei movimenti che lo stesso ISI, il principale servizio segreto pachistano, ha sempre armato e finanziato per combattere una guerra a bassa intensità nel Kashmir occupato dall’India.
Lakhvi è stato descritto dall’unico attentatore di Mumbai sopravvissuto agli scontri con la polizia come l’uomo che ha materialmente organizzato la missione, dando poi per telefono l’ordine di partire con l’attacco al commando di terroristi addestrati e organizzati in Pakistan. Il suo arresto è importante, perché dopo giorni di attesa passiva il governo civile e i militari pachistani hanno deciso di reagire alla pressioni, alle richieste di India e Stati Uniti.
"Lashkar-e-Taiba", l’esercito dei puri, è un gruppo militante nato da una costola di "Markaz Dawatul Irshad", una organizzazione caritatevole islamica che nel frattempo ha cambiato nome in Jamaat Ud Dawa. Per capirci, la Jamaat Ud Dawa era in prima linea nei soccorsi alle vittime del terremoto che nel 2005 fece almeno 70mila morti nel Kashmir pachistano e nella North West Frontier Province.
Lashkar, messo fuorilegge nel 2001 dal generale Musharraf, ha consolidato la sua fama tra gli islamici pachistani con la resistenza all’occupazione indiana del Kashmir: fondata nel 1989 da Hafiz Mohammad Saeed e da Zafar Iqbal, l’organizzazione ha basato la sua filosofia sul wahabismo, la corrente fondamentalista dell’Islam praticata in Arabia saudita, e la corte saudita è stata sempre uno dei principali sostenitori e finanziatori delle organizzazioni caritatevoli islamiche pachistane, organizzazioni tutte ad un passo dalla resistenza armata o addirittura dal terrorismo contro gli indiani.
I primi attacchi di Lashkar vennero portati a segno nel 2000-2001, con l’attacco più eclatante al Forte Rosso di New Delhi, una base dell’esercito indiano nel cuore della capitale dell’unione. Altri attacchi all’aeroporto di Srinagar nel 2001 e un blitz contro un gruppo di guardie di frontiera indiane nell’aprile del 2001. L’attacco più eclatante, il primo ad essere ricordato nelle cronache nei giorni degli attentati di Mumbai, fu l’assalto al parlamento indiano di New Delhi che portò India e Pakistan sull’orlo di una guerra generalizzata.
E’ importante capire quali saranno i prossimi passi del governo e dei militari pachistani contro Lashkar-e-Taiba: il presidente Zardari ha detto che chiunque venga arrestato in Pakistan perrà processato nel suo paese, ma i rapporti sotterranei di L-e-T con i servizi segreti pachistani e con i militari rendono qualsiasi inchiesta pachistana molto poco credibile.
* la Repubblica, 8 dicembre 2008.
Strage a Mumbai, arresti in Pakistan *
Arrestato uno degli organizzatori
NUOVA DELHI. È stato arrestato in Pakistan uno dei presunti organizzatori degli attentati di Mumbai. Lo rende noto l’agenzia di stampa indiana Press Trust of India. Secondo l’agenzia di stampa, la polizia pachistana avrebbe arrestato, insieme ad altre 15 persone, Zakiur Rehman Lakhwi, leader dell’organizzazione Lashkar-e-Taiba, ritenuto essere uno degli organizzatori degli attacchi che hanno provocato, lo scorso 26 novembre, oltre 180 morti nella capitale economica dell’India.
Ieri con un raid iniziato nel pomeriggio nell’area di Muzaffarabad, capitale della parte pachistana della regione disputata del Kashmir, le forze di sicurezza pachistane avevano preso il controllo di un campo utilizzato da militanti del gruppo Lashkar-e-Taiba, accusati dall’India di avere architettato gli attentati di Mumbai. Il segretario di stato americano Condoleezza Rice aveva d’altra parte sollecitato le autorità di Islamabad ad agire concretamente per contrastare il terrorismo.
* La Stampa, 08.12.2008
La Stampa, 7/12/2008 (11:40)
LA STORIA
Si finge il ministro dgli Esteri indiano
"Siamo pronti ad attaccare Islamabad"
Alta tensione tra i due paesi dopo la strage negli hotel. Una falsa telefonata rischia di far scoppiare una guerra
ISLAMABAD. India e Pakistan sono stati ad un passo da una guerra, nei giorni scorsi, a causa di una falsa telefonata. Lo rivela il quotidiano pachistano in lingua inglese Dawn, spiegando che venerdì 28 novembre sarebbe potuta essere la data di inizio della quarta guerra (se si esclude quella non dichiarata del 1998) tra i due cugini atomici. Secondo quanto scrive il quotidiano, tutto è cominciato la sera di venerdì dell’altra settimana, a due giorni dall’inizio degli attacchi terroristici a Mumbai, nelle stesse ore in cui i gruppi speciali indiani liberavano gli ultimi ostaggi negli alberghi della città. Nella residenza ufficiale del presidente pachistano Asif Ali Zardari squilla il telefono riservato: dall’altra parte il ministro degli esteri indiano, Pranab Mukherjee, accusa il Pakistan di aver aiutato i terroristi, annuncia di star spostando le truppe verso il confine pachistano e ingiunge a Islamabad di prendere provvedimenti contro i fondamentalisti islamici. Zardari richiama a Islamabad il primo ministro Yusuf Raza Gilani che era a Lahore, un aereo militare parte alla volta di New Delhi per riportare a casa il ministro degli esteri Shah Mahmud Qureshi che sarebbe dovuto ritornare il giorno dopo con un volo di linea.
Il capo di stato maggiore dell’esercito viene avvisato di mettere in stato di massima allerta le truppe, e di cominciare a spostare battaglioni dal confine afghano a quello indiano. Sono state 24 ore di intense telefonate, di contatti diplomatici tra Islamabad, New Delhi e Washington. Lo stesso pseudo ministro degli esteri indiano autore del falso telefonico con Zardari avrebbe provato a chiamare anche il segretario di stato americano Condoleezza Rice, ma i servizi americani non hanno passato la telefonata. La Rice ha invece parlato con Zardari e poi con Mukherjee, che ha smentito tutto. Con il ministro degli esteri indiano la Rice ha usato un tono grave dicendosi, secondo una fonte giornalistica, «estremamente preoccupata per l’escalation che avrebbe potuto portare ad una guerra provocata dall’India».
La Rice è stata poi inviata di persona a Delhi e Islamabad per calmare gli animi e normalizzare la situazione, stringendosi all’India nonostante la vecchia alleanza con il Pakistan. Il ministro pachistano dell’informazione, Sherry Rehman, si è affrettata stasera a dire che non c’è stata nessuna falla nella sicurezza, dal momento che la telefonata fasulla proveniva da un numero del ministero degli esteri indiano, già utilizzato in passato. Accertamenti sono in corso, in Pakistan e in India, per tentare di scoprire chi, spacciandosi per Mukherjee, è arrivato vicino a gettare le due potenze nucleari dell’Asia meridionale sulla strada del non ritorno. Più vicino, forse, di quanto abbiano potuto gli attentati di Mumbai. Il credito dato al falso telefonico è solo l’ultimo esempio di quanto sia alta la tensione tra i due paesi, i quali si erano ravvicinati negli ultimi anni normalizzando i loro rapporti, ma sono stati sul punto di romperli nuovamente dopo che l’India ha accusato Islamabad, i suoi servizi e alcuni esponenti militari, di aver in qualche modo aiutato i terroristi pachistani che hanno assaltato Mumbai facendo quasi 200 morti.
Ansa» 2008-12-05 14:58
HINA: CONFERMATI 30 ANNI AL PADRE, 17 ANNI AI COGNATI
BRESCIA - La Corte d’Assise d’Appello di Brescia ha confermato la condanna a 30 anni di reclusione per Mohamed Saleem, il padre di Hina, la ragazza pachistana uccisa l’11 agosto 2006.
Ha invece ridotto da 30 a 17 anni la pena per i due cognati della vittima, considerati complici nell’omicidio.
Come al termine del processo di primo grado, la madre di Hina, ha accolto con urla di disperazione la conferma della condanna del marito. E si è rifiutata di lasciare il palazzo di giustizia
La madre, dopo la lettura della sentenza, è scoppiata in lacrime
Hina, confermata condanna a 30 anni per il padre
Pena ridotta invece a 17 anni per i due cognati della giovane. Lo ha deciso la Corte d’Assise d’Appello di Brescia. La ragazza pakistana è stata sgozzata l’11 agosto 2006 a Sarezzo perché voleva vivere all’occidentale. L’Istituto culturale islamico di Milano: ’’Hanno fatto bene’’. Souab Sbai all’Adnkronos: ’’Verdetto esemplare’’
ultimo aggiornamento: 05 dicembre, ore 17:53
Milano, 5 dic. (Adnkronos) - Trent’anni di reclusione. Nessuno sconto per il padre di Hina Saleem (nella foto), la ragazza pakistana sgozzata l’11 agosto 2006 a Sarezzo, nel bresciano, perché voleva vivere all’occidentale. Pena invece ridotta da 30 a 17 anni per i due cognati della vittima, considerati complici dell’omicidio. E’ questa la sentenza emessa oggi dalla Corte d’Assise d’Appello di Brescia. Ad assistere alla sentenza anche la madre di Hina che, dopo la lettura della sentenza, è scoppiata in lacrime ed è stata assistita dai paramedici del 118. Quella madre che, il giorno dell’omicidio, era in Pakistan.
Hina è stata attirata con una trappola: è stata una telefonata del padre a convincerla a tornare a casa. "Vieni a trovarmi, è arrivato il nostro amico dalla Francia", le ha detto. Un raggiro per seguire, forse, una sentenza di morte già decisa. E’ stata uccisa attorno alle 6 del pomeriggio, ha stabilito l’autopsia, con un taglio alla gola inferto con un grosso coltello da cucina. Tenuta ferma a terra e sgozzata, poi il corpo è stato portato giù per le scale fino al pianterreno, fatto uscire dalla finestra e sepolto nella fossa già scavata nell’orto. Solo diverso ore dopo i carabinieri hanno trovato il corpo senza vita di chi voleva vivere all’occidentale.
Oggi, come già nei mesi scorsi, Mohammed Saleem, il padre di Hina, si era pentito di quell’atroce delitto. "Quel pomeriggio - aveva dichiarato già in passato - non capivo più niente. Se Hina non fosse venuta a casa ma fosse andata con sua mamma in Pakistan non sarebbe successo niente. Quel giorno non ho saputo controllarmi, ho perso la testa e ho ucciso mia figlia".
Abdel Hamid Shaari, presidente dell’istituto culturale islamico di Milano, commenta: "Hanno fatto bene". Per Shaari i giudici "non potevano fare altro". Del resto, conclude "in Italia c’è una legge che punisce chi ammazza. Lui ha ammazzato e giustamente è stato condannato".
Soddisfazione anche da Souab Sbai, Presidente dell’Associazione Donne Marocchine in Italia. ’’Siamo contenti - dichiara all’ADNKRONOS - perché questa è una condanna eccellente ed esemplare, che ridà fiducia nella giustizia e soprattutto più fiducia alle donne ". Il presidente dell’associazione rivolge parole di conforto e di comprensione anche alla madre di Hina a cui dice" oggi può iniziare il suo lutto e sentirsi liberata dal peso del processo".
PAKISTAN: RICE A ISLAMABAD PER SOLLECITARE COOPERAZIONE CON DELHI
Islamabad, 4 dic. (Adnkronos/Dpa) - Il segretario di stato Usa, Condoleeza Rice, e’ arrivata a Islamabad, dopo la tappa di ieri a Nuova Delhi, nel quadro di una missione nel subcontinente organizzata dopo gli attentati di Mumbai attribuiti al gruppo terrorista pachistano di Lashkar-e-Toiba per porre fine all’escalation di tensione fra India e Pakistan.
Ansa» 2008-12-02 14:41
MUMBAI: GLI USA AVVERTIRONO L’INDIA. APERTURA PAKISTAN
NEW DELHI - I servizi segreti degli Stati Uniti avrebbero avvisato due volte l’India circa un possibile attacco terroristico a Mumbai che sarebbe arrivato dal mare, l’ultima volta circa un mese fa. Lo rivela l’agenzia di stampa indiana PTI, riportando notizie di stampa americana che citerebbero fonti dell’antiterrorismo americano. Un ufficiale americano avrebbe dichiarato, dietro anonimato, alla CNN che il governo a stelle e strisce avrebbe informato due volte quello indiano dell’attacco a Mumbai, indicando che un gruppo terrorista sarebbe potuto entrare nel paese via mare e lanciare un attacco a Mumbai, citando come obiettivi anche gli alberghi, tra i quali il Taj Mahal Palace.
Secondo la CNN, riportata dalla PTI, le forze di sicurezza indiane avrebbero confermato di aver ricevuto le informazioni e gli avvisi da parte americana e per questo avrebbero innalzato le misure di sicurezza a Mumbai, ma mantenute solo per pochi giorni. Il 18 novembre, inoltre, l’intelligence indiana ha intercettato una telefonata effettuata tramite dispositivo satellitare verso un numero in Pakistan che si sa essere usato dai leader del gruppo terrorista di stanza in Pakistan Lashkar-e-Taiba, ritenuto dietro gli attentati della settimana scorsa. Lo avrebbe rivelato alla ABC un ufficiale dei servizi indiani. Lo stesso ufficiale avrebbe detto alla televisione che nell’intercettazione si parlava di un possibile attacco arrivato dal mare.
PAKISTAN PER INCHIESTA CONGIUNTA CON INDIA Il Pakistan ha proposto all’India una inchiesta congiunta sui fatti di Mumbai e, più in generale, un meccanismo congiunto per l’anti terrorismo. Lo ha detto alla stampa a Islamabad il ministro degli esteri pachistano Shah Mahmood Qureshi, al termine di un incontro con 36 diplomatici stranieri ai quali ha spiegato la posizione del suo paese nei confronti del terrorismo e degli attentati a Mumbai. Qureshi ha detto che il mondo intero è sotto la minaccia del terrorismo del quale sia Pakistan che India sono vittime.
PAKISTAN RISPONDERA’ A RICHIESTA INDIA PER TERRORISTI Il Pakistan ha deciso di rispondere alla richiesta indiana di consegnare a New Delhi una ventina di sospetti terroristi. Lo ha detto oggi il ministro dell’informazione pachistano Sherry Rehman ai giornalisti. La richiesta era stata presentata ieri dal governo di New Delhi in una nota consegnata all’ambasciatore pachistano in India.
La strana disfatta
di Barbara Spinelli (La Stampa, 30/11/2008)
È importante ascoltare quello che dicono gli indiani, quando si parla degli attentati di mercoledì a Mumbai (ex Bombay). Quel che essi vivono è un 11 settembre: un bivio egualmente costernante.
Uno scoprirsi massimamente potenti, e massimamente vulnerabili. Così è per scrittori come Amit Chaudhuri o Suketu Mehta, autore di Maximum City. Così per Amartya Sen. Meno perentori degli occidentali, essi vedono mali interni e esterni al tempo stesso. Mali interni perché la modernizzazione (l’India incredibile della pubblicità bellissima che appare a intervalli regolari sulla Bbc) suscita rancori non illegittimi nelle minoranze musulmane, e arroganti estremismi negli indù. Mali esterni perché i terroristi s’addestrano spesso in Pakistan, nutrendosi d’un conflitto tra India e Pakistan che non scema. Secondo Sen urge affrontare ambedue le cause, ma non con i mezzi del 2001: il premio Nobel dell’economia non parla di guerre e civiltà. Dice che «la priorità è ristabilire l’ordine e la pace, per evitare effetti negativi sullo sviluppo economico» indiano.
La prova somiglia all’11 settembre, ma i dubbi sulla risposta crescono. La via americana ed europea non ha curato i mali, ma li ha acutizzati. Non ha portato ordine in Asia centrale e meridionale, ma esasperato discordie locali. Soprattutto ha banalizzato la guerra, ovunque: quando la superpotenza l’adopera come una delle tante opzioni e non come l’ultima, tutti precipitano nella rivalità mimetica. Così fa il Pakistan, per proteggersi dall’India e dalla sua influenza sull’Afghanistan. Così l’Iran, per evitare attacchi Usa a partire da Kabul. Così l’India, che sospetta connivenze tra Pakistan e terroristi. Nei servizi inglesi sta facendosi strada l’idea che la parola stessa - guerra - sia stata rovinosa. Ha nobilitato criminali comuni, tramutandoli in belligeranti. Ha strappato le radici ai conflitti riducendoli a uno scontro planetario tra società del terrore e del consenso, scontro teorizzato da Philip Bobbit e criticato da David Cole sulla New York Review of Books: come se il terrore fosse un valore attraente, paragonabile al comunismo nel XX secolo. Nell’ottobre scorso, sul Guardian, Stella Rimington, ex direttore dei servizi interni inglesi, ha detto: «Spero che il futuro presidente Usa smetta di parlare di guerra al terrore». La reazione all’11 settembre fu sproporzionata, l’erosione delle libertà civili «non necessaria, controproducente»: la guerra «fu un errore perché fece credere che il terrorismo potesse esser debellato con le armi».
Le maggiori sconfitte son quelle che capitano quando si combattono guerre con i manuali di ieri: lo storico Marc Bloch pensò questo, quando Hitler sgominò la Francia, e nel ’40 parlò di Strana Disfatta. Anche quella occidentale è una strana disfatta. Due guerre son state condotte come se il problema fosse tutto nell’ideologia di Al Qaeda. Come se all’origine del male non ci fossero modernizzazioni instabili in Asia, diseguaglianze detestate, conflitti regionali incancreniti.
La guerra può esser necessaria ma è cieca alla geografia, alla storia, ammantata com’è d’ideologia. Mette bandierine su mappamondi che non guarda. Se il Pakistan è divenuto luogo d’addestramento terrorista, è perché in quel Paese ci sono malattie sistematicamente trascurate. Categorie semplificatrici come guerra e terrorismo impediscono di vedere il lento divenire d’un Paese, incitano a usare le lenti del giornalista, che della storia vede solo la coda. Anche le guerre contro il terrore sono bolle: la realtà è ignorata, al suo posto se ne costruisce una immaginaria, utile a scopi mai raggiunti.
Non ha senso guerreggiare ancora in Afghanistan se non s’impara a guardare la geografia degli attori. Ai confini afghani: Asia centrale a Nord, Iran a Ovest, Pakistan a Sud-Est, Cina a Est. Ai confini indiani: Pakistan a Ovest, Cina e Myanmar a Est. Ai confini pachistani: Iran e Afghanistan a Ovest, Cina a Nord, India a Est. Le dispute, cruente, risalgono all’epoca coloniale britannica, quando tribù e popoli erano usati come cuscinetti, pedine. Questo fu, nell’800, il Grande Gioco anglo-russo sulla pelle afghana, indiana. Il Gioco mortificante continua.
Il Pakistan è nazione cruciale e invelenita, da decenni. La guerra afghana ha solo spostato il terrorismo, spingendolo nei covi pachistani da cui era partito durante l’occupazione sovietica, con l’aiuto Usa. Un’intera regione pachistana è governata da talebani, al confine afghano (le Aree Tribali amministrate federalmente, Fata). Insorti e terroristi prosperano con l’appoggio di parte dei servizi pachistani, e Islamabad fatica a monopolizzare la violenza perché di queste mafie teme di aver bisogno. Ha bisogno delle Aree Tribali per controllare l’Afghanistan, dei talebani per frenare quella che percepisce come minaccia indiana. Non bisogna dimenticare che Musharraf fiancheggiò Bush per combattere non i talebani, ma l’India: lo disse il 19 settembre 2001. Zardari, suo successore, tenta coraggiosamente il riavvicinamento all’India e il controllo dei servizi. Sarebbe disastroso considerarlo già ora un vinto.
Il Pakistan si sente in una tenaglia, minacciato di smembramento, e questo spiega tante sue debolezze. L’alleanza India-Afghanistan, la nuova complicità (anche nucleare) indo-americana: sono segni infausti per una potenza nucleare tuttora trattata come paria. C’è poi la Cina, che investe sempre più in Afghanistan. Sette anni sono infine passati dalla guerra, e la questione pachistana decisiva ancora non è stata affrontata. È la questione dei confini, sia con l’Afghanistan sia con l’India: a tutt’oggi scandalosamente indefiniti. Kabul contesta la linea Durand al confine col Pakistan, perpetuando il bisogno pachistano, lungo tale linea, di una zona pashtun super-armata anche se ribelle. Con l’India la frontiera è indistinta, senza accordo sul Kashmir. Ordine e pace presuppongono frontiere certe: l’Europa lo insegna. Il loro venir meno è un progresso, quando ex nemici stringono un’unione. Quando essa non c’è le frontiere indefinite si spostano nelle menti, divenendo mortifere.
La strana sconfitta nelle guerre anti-terrore rivaluterà forse gli esperti, a scapito degli ideologi. In un saggio su Foreign Affairs, due grandi esperti come Barnett Rubin e Ahmed Rashid indicano vie molto concrete, consistenti in negoziati diplomatici multipli e iniziative contro corrente. Il fatto che non comincino acutizza il sospetto diffuso che l’Occidente voglia guerre infinite, per controllare le risorse d’Asia centrale e contrastare la Cina. La vera lotta al terrorismo, per Rubin e Rashid, comincerà il giorno in cui si accetterà di distinguere fra breve e lungo termine, e tra combattenti e terroristi. Al Qaeda non è un’onnipotenza: vive perché gli insorti non hanno sbocco (Al Qaeda «è un’ispirazione, non un’organizzazione», scrive Bernardo Valli su la Repubblica). Con i talebani è ora di negoziare, per sconnetterli dal terrore. Alcuni loro leader hanno fatto capire che se le truppe Nato se ne vanno, s’impegneranno a non attaccare l’Occidente.
Un impegno bellico accresciuto in Afghanistan è pericoloso, senza questa rivoluzione diplomatica. Così com’è pericolosa l’idea di Robert Gates, segretario alla Difesa, secondo cui Kabul deve avere un esercito di 204 mila uomini - soldati e poliziotti - prima di un disimpegno Usa. Non solo l’Afghanistan non potrà pagarselo (Rubin e Rashid spiegano come il costo di simile forza, 3,5 miliardi di dollari, sia proibitivo anche se Kabul avesse una crescita annua del 9 per cento), ma la guerra continuerà a esser l’unica sua risorsa, e l’unica risorsa della regione intera. È questa spirale che alimenta i terrorismi, locali e mondiali. Non vederlo è suicida da parte dell’India, dell’Afghanistan, degli occidentali. Alimenta i peggiori sospetti sulle loro e le nostre intenzioni.
Dopo il massacro dei terroristi a Mumbai. Il ministro degli interni indiano si dimette
Uno dei terroristi confessa: "I cittadini israeliani erano uno dei nostri obiettivi"
India, alta tensione con il Pakistan
"Pronti a rivedere processo di pace" *
ROMA - Il governo indiano è pronto a sospendere il processo di pace con Islamabad in seguito agli attentati di Mumbai, la cui paternità viene attribuita a gruppi terroristici con base in Pakistan. Lo scrive oggi l’agenzia stampa indiana Pti. E intanto il massacro di Mumbai provoca le prime conseguenze interne: il ministro dell’interno, Shivraj Patil, si è dimesso, ammettendo di avere una responsabilità morale nell’accaduto. Lo ha riferito la televisione Ndtv.
La decisione di Patil fa seguito ad una ondata di critiche che in modo compatto la stampa indiana ha rivolto nelle ultime ore al comportamento del governo e di tutto il mondo politico, unendo nel biasimo sia il partito del Congresso, al potere a livello federale, sia l’opposizione rappresentata essenzialmente dai nazionalisti indù del Bharatiya Janata Party.
Poco dopo il ministro dell’Interno si è dimesso il consigliere per la sicurezza nazionale del governo indiano, M.K.Narayan. Stando ai canali Ndtv e Times Now, M.K. Narayanan ha già presentato le dimissioni al primo ministro, Manmohan Singh, che le ha accettate. Secondo fonti vicine al premier, "molti altri membri importanti del governo dovrebbero lasciare".
Intanto (lo scrive il "Times of India") il pachistano Azam Amir Kasab, l’unico dei terroristi catturato vivo, ha detto alla polizia che il gruppo è stato inviato anche con la specifica missione di colpire cittadini israeliani per "vendicare le atrocità commesse contro i palestinesi". Ed è per questo, avrebbe sempre detto Kasab, che i terroristi hanno preso d’assalto il centro ebraico alla Nariman House.
Il ministero degli esteri israeliano ha reso noto ieri che sono in totale nove i cittadini israeliani uccisi negli attentati di Mumbai.
* la Repubblca, 30 novembre 2008
La Stampa, 29/11/2008 (14:26)
TERRORE IN INDIA - LE INDAGINI
Il cerchio si stringe sui gruppi islamisti pachistani del Kashmir
Ma il governo di Islamabad nega ogni coinvolgimento negli attentati
MUMBAI. Si stringe il cerchio attorno ai gruppi islamisti pachistani del Kashmir, mentre Islamabad respinge con fermezza le accuse e ribadisce la sua completa estraneità agli attentati sanguinosi di Mumbai, che hanno fatto almeno 195 morti. Le forze speciali indiane solo stamattina sono riuscite ad avere la meglio sugli ultimi tre terroristi ancora asserragliati nell’hotel Taj Mahal, uno dei dieci obiettivi attaccati mercoledì sera.
Le indagini sono ancora in una fase preliminare, ma dalle prime ricostruzioni sembra che ad agire siano stati dai 20 ai 40 terroristi, alcuni dei quali sbarcati via mare la sera stessa degli attacchi, mentre altri si trovavano già in città da un mese. Già ieri il ministro degli Esteri indiano Pranab Mukherjee ha indicato in conferenza stampa che dalle prime informazioni risulta che elementi del commando terrorista sono legati al Pakistan. Sulla pista pachistana portano anche le prove raccolte finora dalla polizia indiana e le informazioni raccolte dai servizi segreti di Stati Uniti e Gran Bretagna.
Fonti dell’intelligence americana, citate dal New York Times, affermano che dietro gli attacchi ci sarebbero due gruppi fondamentalisti pachistani del Kashmir, il Lashkar-e-Taiba e il Jaish-e-Mohammed, che avrebbero anche legami con al Qaida. A corroborare l’ipotesi della pista pachistana ci sarebbero anche le dichiarazioni rilasciate dall’unico terrorista arrestato a Mumbai dalle forze di sicurezza indiane. Secondo quanto riporta il sito web dell’Indian Express, di fronte agli investigatori il giovane pachistano di 21 anni, identificato come Azam Ameer Qasab, avrebbe ammesso di essere un membro del gruppo Lashkar-e-Tobia e di essersi addestrato in Pakistan.
Gli Stati Uniti temono che gli attentati di Mumbai possano inasprire i rapporti tra l’India e il Pakistan, i due nemici storici che dalla loro fondazione, nel 1947, hanno combattuto tre guerre per il controllo del Kashmir. Per questo il segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, ha già chiamato due volte il suo collega indiano e anche il presidente pachistano Asif Ali Zardari dall’inizio della crisi. Washington ha paura che una crescente tensione tra i due storici rivali possa sviare l’attenzione di Islamabad nella lotta contro i talebani e i terroristi di al Qaida, che operano nelle regioni tribali alla frontiera con l’Afghanistan.
Il governo pachistano, messo sotto pressione, nega però con fermezza ogni coinvolgimento e ha dichiarato di voler collaborare nelle indagini con le autorità indiane. Nelle ultime ore tuttavia Islamabad ha fatto sapere che il capo dei potenti servizi di intelligence pachistani, il generale Ahmed Shuja Pasha, non si recherà più a Nuova Delhi, come era stato inizialmente annunciato ieri dal primo ministro in persona. Al suo posto andrà invece un funzionario di grado inferiore. Non si conoscono le ragioni di questa brusca marcia indietro, ma fonti governative riferiscono che la decisione senza precedenti del premier Yusuf Raza Gilani ha suscitato una forte irritazione negli ambienti militari.
LA NAZIONE SOTTO CHOC
I pakistani grandi accusati mettono in campo gli 007 -Islamabad nega complicità. New Delhi: «Sono coinvolti»
DI STEFANO BASILE (Avvenire, 29.11.2008)
Già due giorni fa il premier indiano Manmoahan Singh aveva affermato che i terroristi che hanno colpito a Mumbai provenivano dai Paesi vicini, con un chiaro ma ancora implicito riferimento al nemico storico, il Pakistan. Ieri è stato il ministro degli Esteri indiano, Pranab Mukherjee, ad affermare ancora che «secondo informazioni preliminari elementi con collegamenti in Pakistan sono coinvolti» negli attentati. Il ministro ha anche esortato Islamabad a smantellare l’infrastruttura che appoggia i militanti. La prova che suffraga questa accusa «non può essere divulgata per il momento», ha detto ancora il ministro. «Ne siamo assolutamente certi: il Pakistan non è coinvolto », aveva invece affermato giovedì il ministro della Difesa di Islamabad, Ahmed Mukhtar. Sia il presidente pachistano Asif Ali Zardari che quello afghano Hamid Karzai hanno peraltro telefonato ieri al premier indiano Singh. È stato poi il ministro degli Esteri pachistano, Shah Mehmood Qureshi, a replicare a Mukherjee, dicendo che India e Pakistan hanno «un nemico comune» e che è necessario «unire gli sforzi per sconfiggerlo ». E ha invitato al tempo stesso New Delhi a non giocare con la politica riguardo agli attacchi. Il capo dei servizi segreti militari Isi del Pakistan, il tenente generale Ahmed Shuja Pasha, è stato intanto convocato in India per discutere di una serie di informazioni sugli attacchi di Mumbai. La richiesta è stata avanzata dal primo ministro indiano, Singh, nel corso di una telefonata ricevuta dall’omologo pachistano Yousan Raza Gilani. Un portavoce del premier pachistano ha poi annunciato che il capo dei potenti servizi segreti pachistani andrà effettivamente in India per collaborare nelle indagini sugli attentati a Mumbai.
Si è peraltro saputo che uno dei terroristi arrestato dalle forze di sicurezza indiane all’interno dell’Hotel Taj Mahal è di nazionalità pachistana. Lo ha confermato il ministero dell’Interno indiano. Il generale R.K. Hooda, comandante delle operazioni a Mumbai, ha affermato: «Vengono dall’estero e forse da Faridkot in Pakistan malgrado abbiano tentato di far credere di provenire dalla regione indiana dell’Hyderabad». Gli analisti s’interrogano sul ruolo del Pakistan negli attacchi. Secondo il Times of India, gli elementi raccolti dall’esercito di New Delhi e dagli esperti di sicurezza hanno spinto a puntare l’attenzione sul Pakistan e anche sullo stesso servizio segreto militare l’Isi. Negli ultimi mesi i rapporti fra le due potenze nucleari si erano distesi. Ora gli attacchi a Mumbai rischiano di scombinare tutto. Intanto continuano ad arrivare al governo indiano messaggi di solidarietà da tutto il mondo. Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, si è detto «profondamente rattristato dalla morte di almeno due americani e dalle ferite subite da altri negli attentati ignobili verificatisi mercoledì a Bombay».
Da Parigi il ministro degli Esteri Bernard Kouchner ha sottolineato che «i terroristi se la sono presa con la più grande democrazia del mondo. Tutti i democratici del mondo sono al suo fianco. Rinnovo il mio sostegno totale, quello della Francia e dell’Unione europea, alle autorità indiane e al popolo indiano in questa terribile prova che supereremo tutti insieme». Il premier britannico Gordon Brown ha intanto detto di non voler «arrivare a conclusioni affrettate» in merito alla presenza anche di un inglese di origini pachistane nel gruppo dei terroristi. Brown ha quindi indicato che ne parlerà con il premier indiano Singh, e ha concluso dicendo: «Ovviamente quando i terroristi sono in azione in un Paese possono ricevere sostegno da un altro Paese ed è importante che si raffozi la collaborazione anglo-indiana nell’affrontare il terrorismo».
I servizi di sicurezza indiani sono peraltro investiti dalle accuse di inettitudine da parte della stampa locale, accuse che gettano un’ombra sull’immagine del governo a pochi mesi dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento. «Mumbai sotto assedio: un catastrofico fallimento dell’intelligence » ha titolato ad esempio l’Indian Express, «Mumbai martoriata. Nazione svergognata», ha scritto il quotidiano Mail.
Ansa» 2008-11-28 20:48
MUMBAI: LIBERI GLI ITALIANI. BLITZ AL CENTRO EBRAICO
Il bilancio degli attacchi coordinati compiuti a Mumbai da estremisti islamici e’ di 155 morti e 327 feriti. Lo ha annunciato, quando in India si e’ gia’ arrivati alla mezzanotte, la televisione Cnn-Ibn. E’ stata l’organizzazione indo-pakistana Lashker e Toyba a mettere in atto a Mumbai una ’’strategia terroristica’’ che era stata ’’scientificamente preparata’’. Ad affermarlo e’ il Casa, il Comitato di analisi strategica antiterrorismo riunitosi oggi.
di Eloisa Gallinaro
E’ finito alle 09:41 di questa mattina un incubo durato 36 ore, quando gli ultimi due ostaggi italiani sono stati evacuati dall’hotel Oberoi, teatro - insieme al Taj Mahal - di un sanguinoso attacco terrorista a Mumbai che ha tenuto mezzo mondo con il fiato sospeso. Erano sette gli italiani bloccati all’interno del grande complesso alberghiero, insieme a decine e decine di altri occidentali e a mucchi di cadaveri: senza cibo né acqua, senza che gli uomini delle forze speciali indiane - le ormai note Nsg - sapessero bene dove cercare tra le centinaia di camere, i ripostigli, i servizi, distribuiti su venti piani controllati da terroristi efficienti e feroci.
Una bimba di sei mesi e la mamma, chiuse in una stanza; una coppia di Roma nascosta in un ripostiglio, il direttore dell’hotel Galles di Milano che aveva partecipato a un workshop dell’Enit insieme ad altre due persone asserragliate chissà dove. Alla fine ce l’hanno fatta, in poco più di tre ore. Alle 06:19 è giunta la notizia della liberazione della moglie e della figlia di Emanuele Lattanzi, chef romano dell’Oberoi, entrato di soppiatto nell’hotel per portare latte in polvere alla piccola.
Poi è stata la volta di Angela Bucalossi di Firenze e del suo compagno Fulvio Tesoro di Roma, di Arnaldo Sbarretti di Milano. Infine, per ultimi, Patrizio Amore e sua moglie Carmela Zappalà, usciti dal buio di un ripostiglio e scortati dalla polizia indiana nella residenza del console italiano Fabio Rugge. Subito è arrivato il "sollievo" del ministro degli Esteri Franco Frattini che poi, da Città del Messico dove è in visita, ha ammonito: "La risposta (al terrorismo,ndr) deve essere globale. Noi occidentali non possiamo sentirci fuori pericolo. Dobbiamo lavorare di più e insieme".
Il titolare della Farnesina ha detto di condividere l’allarme del ministro dell’Interno Roberto Maroni sul fronte terrorismo e quindi, ha precisato, "tenere alta la guardia non è allarmismo ma è essere pronti ". Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha ringraziato le autorità indiane e il presidente del Senato Renato Schifani ha espresso soddisfazione per la liberazione degli ostaggi. Le fasi della liberazione sono sembrate lunghissime, mentre continuavano ad accavallarsi le notizie di scontri e sparatorie negli altri luoghi presi di mira, e l’ambasciatore italiano a New Delhi Federico Toscano, intorno alle sette di mattina, avvertiva che non era ancora finita.
"Sono provati", aggiungeva poco dopo il capo dell’Unità di crisi della Farnesina, Fabrizio Romano, riferendosi ai due italiani in quel momento ancora all’interno dell’Oberoi e, parlando degli ostaggi già liberi, raccontava dell’estremo disagio vissuto. Ora, gli italiani finiti per caso nel mirino di una partita sporca e oscura tra India e Pakistan (gli attentatori, almeno in parte, sono pachistani) e con Al Qaeda che incombe sinistra, stanno tornando a casa.
Alcuni a bordo di un aereo francese giunto la notte scorsa a Mumbai. Altri, con aerei di linea. In procinto di rientrare anche una donna italiana di 62 anni rimasta lievemente ferita. Ci vorrà invece più tempo per il rientro della salma di Antonio Di Lorenzo, l’imprenditore livornese rimasto ucciso ieri nella prima fase degli attacchi. Sono invece già arrivate in Italia, e festeggiate con lo spumante all’aeroporto di Venezia, Carla Padovan, 48 anni, sua nipote Benedetta Padovan, di 19, e Rossella Bergamo, di 29, le tre vicentine fuggite illese dall’inferno del Trident nelle prime fasi dell’attacco terrorista.
NAPOLITANO, FERMA CONDANNA TERRORISMO, SODDISFAZIONE PER LIBERAZIONE ITALIANI ROMA - Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel ribadire la "ferma condanna del terrorismo in tutte le sue forme e motivazioni" e sollecitato uno "sforzo congiunto della Comunità internazionale per isolarlo e combatterlo", ha espresso la propria vicinanza alle Autorità ed al popolo indiano "duramente provati dal tentativo dei terroristi di minare la sicurezza del loro Paese".
Viva soddisfazione alla notizia dell’avvenuta liberazione di tutti gli ostaggi italiani a Mumbai, sequestrati dai terroristi che hanno attaccato la città. Il capo dello Stato ha rivolto un particolare pensiero di partecipazione al dolore della famiglia del signor Antonio Di Lorenzo, barbaramente sottratto ai suoi cari dalla furia omicida degli attentatori.
Napolitano ha vivamente ringraziato le autorità indiane per il loro decisivo impegno per la liberazione di tutti gli ostaggi. E ha manifestato apprezzamento per l’impegno del ministero degli Esteri e del personale del Consolato generale a Mumbai per la tempestiva ed efficace assistenza prestata ai connazionali coinvolti negli attentati.
===========================
Le forze speciali indiane sono entrate in azione per avere ragione degli ultimi focolai di resistenza dei terroristi che da quasi due giorni stanno seminando il terrore a Mumbai. Hanno fatto irruzione al centro ebraico della Nariman House e sono ancora impegnate contro un ultimo gruppo di irriducibili, forse ancora con ostaggi, all’hotel Taj Mahal.
E’ tornata finalmente la calma, invece, all’Oberoi/Trident. La situazione e’ ancora confusa circa lo stato delle operazioni di ’bonifica’ dei luoghi assaliti dai terroristi. Le notizie piu’ drammatiche vengono nelle ultime ore dal Centro ebraico. Secondo fonti israeliane all’interno dell’edificio sono stati trovati i corpi senza vita di cinque degli ostaggi, il cui numero peraltro non e’ancora del tutto chiaro. Tra le vittime ci sono il rabbino e la moglie
Uccisi anche due o tre terroristi. All’hotel Taj Mahal si continua a sparare sebbene sembri che vi sia rimasto solo un terrorista o al massimo due. Sul piano politico alle accuse - di connivenza se non di complicita’ - rivolte dagli indiani al Pakistan, Islamabad risponde per bocca del ministro degli esteri, Shah Mehmoud Qureshi. La lotta contro il terrorismo ci unisce, ha detto, specificando di volere cooperare a tutti i livelli con New Delhi e di volere incontrare al piu’ presto il premier indiano.
Poco prima il governo indiano aveva chiesto e ottenuto che il capo dei servizi segreti pachistani si rechi a New Delhi per incontrare i vertici della sicurezza e dividere con loro ogni informazione legata agli attacchi terroristici di Mumbai. Mentre il numero complessivo dei morti dovrebbe aggirasi intorno a 150, lentamente si allunga la fila delle vittime occidentali. Oltre all’Italiano, originario di Livorno, Antonio De Lorenzo, nelle ultime ore e’ stata segnalata la morte di due francesi e due americani, che si aggiungono a quattro tedeschi, un canadese, un giapponese e un britannico.
Quanto agli ostaggi italiani che si trovavano all’Oberoi/Trident, sono stati liberati all’alba di oggi insieme con altre circa 150 persone nell’operazione lanciata dalle forze di sicurezza indiane. All’Oberoi/Trident, dove tutto e’ ’’sotto controllo’’, sono stati trovati 24 cadaveri, mentre alcuni terroristi sono stati arrestati. Ora sono sotto interrogatorio.
MUMBAI: PARLA UN OSTAGGIO, ANCHE GLI ITALIANI NEL MIRINO ’’Volevano uccidere americani, inglesi e italiani. Ci siamo salvati restando chiusi per quasi due giorni in uno sgabuzzino’’. Patrizio Amore, l’ultimo ostaggio italiano ed essere liberato dalle forze speciali indiane, insieme alla sua compagna Carmela Zappala’, racconta all’ANSA come e’ sfuggito all’assalto dei terroristi nel ristorante dell’hotel Oberoi. ’Il loro obiettivo erano gli occidentali, ma cercavano in particolare americani, inglesi e italiani’’.
Nella zona nordoccidentale del Paese
Pakistan, ucciso operatore umanitario americano
Il cittadino statunitense è stato assassinato a colpi di arma da fuoco a Peshawar. Morto anche il suo autista. Lo riferisce la CNN, citando la polizia locale
Islamabad, 12 nov. (Adnkronos/Ign) - Un cittadino americano che lavorava come operatore umanitario è stato ucciso a colpi di arma da fuoco a Peshawar, nel Pakistan nordoccidentale. Con lui è morto anche il suo autista. Lo riferisce la CNN, citando la polizia locale.
Sempre nella zona nordoccidentale del Paese almeno tre militari sono morti in un attacco suicida, mentre altri sei soldati sono rimasti feriti. L’autobomba è esplosa a Shabqadar, città situata al confine con il distretto di Mohmand, nella zona tribale vicino alla frontiera con l’Afghanistan.
Assassinato un giornalista nel Pakistan settentrionale *
Islamabad, 11. Un giornalista pakistano è stato ucciso da una pattuglia di soldati mentre stava rincasando a Mingora, nella valle di Swat, nel nord-ovest del Pakistan: lo ha denunciato l’organizzazione Reporters sans frontiers (Rsf). "Qari Muhammad Shoaib, reporter del giornale locale Khabar Kar e collaboratore di un quotidiano nazionale, è stato ucciso da un gruppo di soldati mentre stava tornando a casa in auto, accompagnato da un conoscente" scrive in una nota l’organizzazione, che cita fonti della famiglia della vittima. "I soldati - denunciano i familiari - hanno cominciato a sparare senza alcun preavviso".
I vertici militari sostengono invece che il giornalista è stato avvertito a più riprese. I soldati stavano perlustrando il settore dopo aver ricevuto informazioni sull’organizzazione di un possibile attentato. In un comunicato l’esercito pakistano afferma che "dopo gli spari di avvertimento, ignorati, i soldati hanno sparato direttamente in direzione del veicolo". Responsabili militari a Mingora - scrive Rsf - hanno ufficialmente manifestato il proprio rammarico per l’incidente e hanno promesso un indennizzo alla famiglia del giornalista. Qari Muhammad Shoaib aveva 32 anni. Il 27 agosto era stato sequestrato da un gruppo di guerriglieri taleban e successivamente rilasciato. Rsf ha chiesto indagini "complete e fruttuose" alle autorità civili e militari pakistane sull’episodio.
Firmata al termine dell’incontro
La dichiarazione conclusiva del primo seminario del forum cattolico-musulmano
Pubblichiamo in una nostra traduzione italiana il testo della dichiarazione comune firmata a conclusione dell’incontro del forum cattolico-musulmano. *
Il forum cattolico-musulmano è stato creato dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e da una Delegazione dei 138 firmatari musulmani della Lettera aperta intitolata Una Parola Comune, alla luce di tale documento e della risposta di Sua Santità Benedetto XVI tramite il suo segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.
Il suo primo seminario si è svolto a Roma dal 4 al 6 novembre 2008. Sono intervenuti 24 partecipanti e cinque consiglieri di ciascuna delle due religioni. Il tema del seminario è stato "Amore di Dio, amore del prossimo". Il dibattito, condotto in un caldo spirito conviviale, si è concentrato su due grandi temi: "fondamenti teologici e spirituali", "dignità umana e rispetto reciproco".
Sono emersi punti di similitudine e di diversità che riflettono lo specifico genio distintivo delle due religioni.
1. Per i cristiani la fonte e l’esempio dell’amore di Dio e del prossimo è l’amore di Dio per suo Padre, per l’umanità e per ogni persona. "Dio è amore" (1 Giovanni, 4, 16) e "Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Giovanni, 3, 16). L’amore di Dio è posto nel cuore dell’uomo per mezzo dello Spirito Santo. È Dio che per primo ci ama permettendoci in tal modo di amarlo a nostra volta. L’amore non danneggia il prossimo nostro, piuttosto cerca di fare all’altro ciò che vorremmo fosse fatto a noi (cfr. 1 Corinzi, 13, 4-17). L’amore è il fondamento e la somma di tutti i comandamenti (cfr. Galati, 5, 14). L’amore del prossimo non si può separare dall’amore di Dio, perché è un’espressione del nostro amore verso Dio. Questo è il nuovo comandamento "che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati" (Giovanni, 15, 12). Radicato nell’amore sacrificale di Cristo, l’amore cristiano perdona e non esclude alcuno. Quindi include anche i propri nemici. Non dovrebbero essere solo parole, ma fatti (cfr. 1 Giovanni, 4, 18). Questo è il segno della sua autenticità.
Per i musulmani, come esposto nella lettera Una Parola Comune, l’amore è una forza trascendente e imperitura, che guida e trasforma il rispetto umano reciproco. Questo amore, come indicato dal Santo e amato profeta Maometto, precede l’amore umano per il Dio uno e trino. Un hadit mostra che la compassione amorevole di Dio per l’umanità è persino più grande di quella di una madre per il proprio figlio (Muslim, Bab al-Tawba: 21). Quindi esiste prima e indipendentemente dalla risposta umana dell’unico che è "amorevole". Questo amore e questa compassione sono così immensi che Dio è intervenuto per guidare e salvare l’umanità in modo perfetto, molte volte e in molti luoghi, inviando profeti e scritture. L’ultimo di questi libri, il Corano, ritrae un mondo di segni, un cosmo meraviglioso di maestria divina, che suscita il nostro amore e la nostra devozione assoluti affinché "coloro che credono hanno per Allah un amore ben più grande" (2: 165) e "in verità il Compassionevole concederà il suo amore a coloro che credono e compiono il bene" (19: 96). In un hadit leggiamo che "Nessuno di voi ha fede finquando non ama il suo prossimo come ama se stesso" (Bukhari, Bab al-Iman: 13).
2. La vita umana è un dono preziosissimo di Dio a ogni persona, dovrebbe essere quindi preservata e onorata in tutte le sue fasi.
3. La dignità umana deriva dal fatto che ogni persona è creata da un Dio amorevole per amore, le sono stati offerti i doni della ragione e del libero arbitrio e, quindi, le è stato permesso di amare Dio e gli altri. Sulla solida base di questi principi la persona esige il rispetto della sua dignità originaria e della sua vocazione umana. Quindi ha diritto al pieno riconoscimento della propria identità e della propria libertà di individuo, comunità e governo, con il sostegno della legislazione civile che garantisce pari diritti e piena cittadinanza.
4. Affermiamo che la creazione dell’umanità da parte di Dio presenta due grandi aspetti: la persona umana maschio e femmina e ci impegniamo insieme a garantire che la dignità e il rispetto umani vengano estesi sia agli uomini sia alle donne su una base paritaria.
5. L’amore autentico del prossimo implica il rispetto della persona e delle sue scelte in questioni di coscienza e di religione. Esso include il diritto di individui e comunità a praticare la propria religione in privato e in pubblico.
6. Le minoranze religiose hanno il diritto di essere rispettate nelle proprie convinzioni e pratiche religiose. Hanno anche diritto ai propri luoghi di culto e le loro figure e i loro simboli fondanti che considerano sacri non dovrebbero subire alcuna forma di scherno o di irrisione.
7. In quanto credenti cattolici e musulmani siamo consapevoli degli inviti e dell’imperativo a testimoniare la dimensione trascendente della vita attraverso una spiritualità alimentata dalla preghiera, in un mondo che sta diventando sempre più secolarizzato e materialistico.
8. Affermiamo che nessuna religione né i suoi seguaci dovrebbero essere esclusi dalla società. Ognuno dovrebbe poter rendere il suo contributo indispensabile al bene della società, in particolare nel servizio ai più bisognosi.
9. Riconosciamo che la creazione di Dio nella sua pluralità di culture, civiltà, lingue e popoli è una fonte di ricchezza e quindi non dovrebbe mai divenire causa di tensione e di conflitto.
10. Siamo convinti del fatto che cattolici e musulmani hanno il dovere di offrire ai propri fedeli una sana educazione nei valori morali, religiosi, civili e umani e di promuovere una attenta informazione sulla religione dell’altro.
11. Professiamo che cattolici e musulmani sono chiamati a essere strumenti di amore e di armonia tra i credenti e per tutta l’umanità, rinunciando a qualsiasi oppressione, violenza aggressiva e atti terroristici, in particolare quelli perpetrati in nome della religione, e a sostenere il principio di giustizia per tutti.
12. Esortiamo i credenti a operare per un sistema finanziario etico in cui i meccanismi normativi prendano in considerazione la situazione dei poveri e degli svantaggiati, siano essi individui o nazioni indebitate. Esortiamo i privilegiati del mondo a considerare la piaga di quanti sono colpiti più gravemente dall’attuale crisi nella produzione e nella distribuzione alimentare, e chiediamo ai credenti di tutte le denominazioni e a tutte le persone di buona volontà di cooperare per alleviare la sofferenza di chi ha fame e di eliminare le cause di quest’ultima.
13. I giovani sono il futuro delle comunità religiose e delle società in generale. Vivranno sempre di più in società multiculturali e multireligiose. È essenziale che siano ben formati nelle proprie tradizioni religiose e ben informati sulle altre culture e religioni.
14. Abbiamo concordato di prendere in considerazione la possibilità di creare un Comitato cattolico-musulmano permanente, che coordini le risposte ai conflitti e ad altre situazioni di emergenza, e di organizzare un secondo seminario in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
15. Attendiamo dunque il secondo seminario del Forum cattolico-musulmano che si svolgerà entro due anni, in un Paese a maggioranza musulmana ancora da definire.
Tutti i partecipanti sono stati grati a Dio per il dono di questo tempo trascorso insieme e per questo scambio proficuo. Alla fine del seminario, Sua Santità Papa Benedetto XVI e, dopo gli interventi del professor Seyyed Hossein Nasr e del Grand Mufti Mustafa Ceric, ha parlato al gruppo. Tutti i presenti hanno espresso soddisfazione per i risultati del seminario e la loro aspettativa di un dialogo più proficuo.
*
Ansa» 2008-10-31 17:56
PAKISTAN: AEREO USA LANCIA MISSILI, ALMENO 20 MORTI
NEW DELHI - Missili lanciati da aerei americani hanno provocato la morte di una ventina di persone in Pakistan, nella zona del Nord Waziristan. Secondo la polizia locale sono due i missili che hanno colpito una casa nella città di Mir Ali. Mentre altre fonti confermano che i morti causati dal lancio di due missili da un presunto aereo americano in una zona tribale del Pakistan, ai confini con l’Afghanistan, sono una ventina, non trova conferma la notizia dell’uccisione di un leader di al Qaida. Il giornale on line pachistano The News parla di 21 morti.I due missili avrebbero colpito l’abitazione di un capo villaggio, Amanullah Dawar, nella città di Mir Ali, nella travagliata regione del Nord Waziristan, nota anche per essere una delle roccaforti di Al Qaida in Pakistan.
Non sembra invece confermata, almeno per il momento, la morte del leader iracheno di Al Qaida, Abu Akasa. Secondo fonti di intelligence locale riportate da The News, infatti, quest’ultimo potrebbe non figurare tra le vittime. L’attacco avviene solo due giorni dopo la protesta del governo di Islamabad presso l’Ambasciatore americano in Pakistan contro attacchi di questo genere.
Nessuna richiesta di aiuti internazionali
Terremoto in Pakistan: 170 morti e 15mila senzatetto
Il sisma, di magnitudo 6,4 della scala Richter, ha colpito la provincia del Belucistan. Secondo le ultime infomazioni, i feriti sarebbero 375
Islamabad, 29 ott. (Adnkronos/Ign) - Continua ad aggravarsi il bilancio del violento terremoto che oggi ha colpito la regione sudoccidentale pachistana del Baluchistan. Secondo le ultime infomazioni, le vittime provocate dal sisma di magnitudo 6,4 della scala Richter sono 170, i feriti 375, mentre i senzatetto almeno 15mila. Alla prima scossa registrata prima dell’alba, ne sono seguite molte altre di assestamento nel corso della giornata, la più violenta delle quali di magnitudo 6,2.
Il presidente dell’autorità nazionale per i disastri naturali Farooq Ahmed Khan ha fatto sapere che il Paese non intende lanciare alcuna richiesta internazionale di aiuti per i soccorsi. ’’Secondo le prime informazioni la situazione è localizzata, possiamo farcela - ha detto - Se qualcuno offrirà assistenza sarà il benvenuto, ma non vogliamo lanciare alcun appello a livello internazionale’’. A offrire aiuti umanitari è stata subito l’Unione europea, per bocca del commissario alle Relazioni esterne Benita Ferrero-Waldner.
TERREMOTI: PAKISTAN; PIU’ DI 100 LE VITTIME, TV *
NEW DELHI - Sarebbe salito a 135 il numero delle vittime del terremoto che ha colpito oggi la parte sud occidentale del Pakistan. Lo ha detto alla televisione pachistana Dilawar Kakar, sindaco di una delle cittadine distrutte dal violento sisma. Kakar ha confermato che la città più colpita è quella di Ziarat, e che sono ancora molte le persone intrappolate sotto le macerie.
Per questo motivo, il ministro della sanità della provincia del Balucistan, Ainullah Shams, teme che il bilancio delle vittime sia ancora più alto. Parlando al telefono da Ziarat con l’agenzia pachistana Associated Press of Pakistan, Shams ha detto che fino ad ora sono stati recuperati nel solo distretto i corpi di almeno 85 persone, mentre in alcuni villaggi dove le squadre di soccorso non sono riuscite ad arrivare, sono stati già sepolti circa 40 corpi.
Secondo l’ufficio geologico del governo pachistano, l’epicentro del violento sisma, di 6,2 gradi della scala Richter (6,4 secondo il servizio geologico americano), è stato nelle montagne di Chiltan. Il capo dell’ufficio geologico pachistano, Asif Rana, ha spiegato alla televisione che c’é stata prima una scossa del quinto grado e poi quella che ha superato il sesto, e molte altre se ne aspettano nelle prossime 48 ore.
* Ansa» 2008-10-29 09:06
La zona colpita è considerata una roccaforte di Baitullah Mehsud
Pakistan, attacco Usa contro Talebani: 20 morti
Un missile, che sarebbe stato lanciato da un drone americano, ha colpito la regione tribale del Waziristan del sud. Obiettivo la casa del capo dei militanti islamici Mohammad Omar. Tre i feriti
Islamabad, 27 ott. - (Adnkronos/Ign) - E’ di almeno venti morti il bilancio provvisorio di un attacco missilistico compiuto nella regione tribale del Waziristan del sud, in Pakistan. Obiettivo dell’attacco era la casa di Mohammad Omar, uno dei comandanti dei Talebani, rimasto ucciso.
A quanto si apprende il missile sarebbe stato sparato da un drone americano. Tra le vittime, oltre al capo dei ribelli, ci sarebbero altre 19 persone, otto delle quali sarebbero ’stranieri’, ossia militanti legati ad Al Qaeda provenienti da altri paesi. Ammontere invece a tre il numero dei feriti.
La zona colpita è considerata una roccaforte di Baitullah Mehsud, il capo dei Talebani del Pakistan, considerato il mandante di una serie di attacchi compiuti nel paese, tra cui l’attentato costato la vita a Benazir Bhutto
Lo rivelano fonti militari
Pakistan, missili colpiscono scuola religiosa: 8 morti
Secondo quanto rende noto la ’Cnn’, sarebbero stati lanciati da un drone. Le vittime erano tutti studenti e avevavo tra i 12 e i 18 anni. Almeno 6 feriti
Islamabad, 23 ott. (Adnkronos) - Otto persone sono rimaste uccise, e altre sei ferite, nell’esplosione di due missili che hanno colpito una scuola religiosa coranica della località di Dandai Darpajel, nel distretto tribale del Waziristan settentrionale, in Pakistan. I missili sono stati lanciati da un drone. Nel riferirne la ’Cnn’ cita fonti militari.
L’attacco attribuito ad un drone (gli Stati Uniti, ricorda l’emittente, sono l’unico Paese che opera nella regione in grado di sferrare attacchi missilistici da aerei senza pilota) ha parzialmente distrutto la madrassa.
Secondo quanto riferito da un giornalista locale citato dalla ’Dpa’, tutte le vittime erano studenti di età compresa tra i 12 e i 18 anni. La scuola coranica si trova in una zona considerata una roccaforte di leader talebano Jalaluddin Haqqani. Il mese scorso, un attacco missilistico contro la casa e la madrassa di Haqqani aveva provocato la morte di due delle sue tre mogli e di una delle sue sorelle. Al momento dell’attacco, Haqqani si trovava in Afghanistan.
Visita lampo del ministro degli Esteri a Islamabad: «Un errore il tentativo di legittimare politicamente i guerriglieri»
Frattini in Pakistan: «Non si tratta con i terroristi»
DA ISLAMABAD (Avvenire, 21.10.2008)
In un Afghanistan che continua a bruciare per le violenze terroristiche, la via maestra per domare il caos non passa né per la legittimazione politica dei taleban né attraverso un aumento delle truppe sul terreno, bensì per lo sradicamento di «povertà e disperazione », due dei combustibili più pericolosi dell’estremismo fondamentalista.
Dalla sua missione lampo e a sorpresa in Pakistan di ieri, Franco Frattini è tornato a Roma con questa convinzione. Il titolare della Farnesina, da Abu Dhabi, è volato nella capitale pachistana per portare il sostegno dell’Italia al processo di riforme democratiche avviato dal presidente Asif Ali Zardari e dal premier Yusuf Raza Gilan.
La stabilizzazione del Pakistan e dell’intera regione è strettamente legata alla traballante situazione nel confinante Afghanistan, dove ormai anche il contingente italiano - oltre 2400 uomini tra Kabul e Herat - è quasi quotidianamente bersagliato dalla minaccia fondamentalista. Contrariamente alle aperture del presidente Hamid Karzai e del segretario americano alla Difesa Robert Gates, il capo della diplomazia italiana è stato categorico nel bollare come «un errore» il tentativo di « legittimare politicamente » i taleban. Con i terroristi «non si tratta», hanno scandito all’unisono Frattini e il collega pachistano Makhdum Qureishi. Certo, ha ipotizzato il titolare della Farnesina, una strada percorribile potrebbe essere quella di intavolare con i taleban colloqui indiretti, come l’Egitto sta facendo con Hamas, «ma non bisogna farne degli attori legittimi del dialogo politico». Tanto più che i tentativi di dialogo portati avanti da Karzai non hanno prodotto finora «grandi risultati».
Insistendo sulla necessità di una risposta non solo militare, sulla scia del summit Nato di Bucarest, Frattini ha sottolineato come l’unica «strategia vincente» sia quella di debellare «povertà ed estremismo»: «Il nostro obiettivo politico - ha detto il capo della diplomazia italiana escludendo un aumento del contingente italiano - è che la popolazione locale sradichi dal suo interno estremismo e terrorismo». Con il «sostegno», certo, della comunità internazionale, che tra i suoi compiti principali ha innanzitutto quello di aiutare il Paese a risorgere con la costruzione di infrastrutture e la creazione di nuovi posti di lavoro.
Anche a causa dell’escalation di attentati delle scorse settimane intanto, alla “Jirga” di pacificazione con i leader tribali afghani che si terrà ad Islamabad i prossimi 26 e 27 ottobre i taleban non sono stati invitati. Mentre Roma, ha spiegato Frattini ai suoi interlocutori, sta lavorando per organizzare una conferenza internazionale per la stabilizzazione della regione durante la prossima presidenza del G8. La conferenza, nel 2009, dovrebbe essere a livello dei ministri degli Esteri e coinvolgere Pakistan, Afghanistan, Cina, Emirati, Arabia saudita e India.
Islamabad, kamikaze su un’autobomba contro la sede della polizia Nel nord-ovest del paese uno scuolabus e un furgone esplodono su un ordigno
Due attentati in Pakistan
dieci morti e otto feriti
ISLAMABAD - Dieci persone sarebbero rimaste uccise e oltre una ventina ferite in seguito a un attentato, come riferisce l’emittente satellitare araba Al Jazeera, compiuto oggi in una zona nel nord-ovest del Pakistan, nel distretto di Upper, vicino alla Swat Valley, dove le truppe governative sono impegnate nell’offensiva contro i Taliban: un ordigno posto sul ciglio della strada è esploso al passaggio di uno scuolabus e di un furgone della polizia penitenziaria. Le vittime sono tre bambini, quattro poliziotti e tre prigionieri.
Quello nel distretto di Upper è il secondo attentato compiuto in Pakistan nella giornata di oggi. In precedenza, a Islamabad un kamikaze alla guida di un’autobomba si era lanciato contro un edificio delle Atf, la forza antiterrorismo. L’esplosione ha provocato il crollo di parte dell’edificio e ha ferito otto persone.
Il presidente pachistano Asif Ali Zardari ha condannato duramente l’attentato di oggi a Islamabad. "L’attacco - ha detto Zardari - non piegherà la volontà del governo di combattere questa guerra contro il terrorismo".
L’attentato odierno, sebbene non ancora rivendicato, è una prova di forza dei terroristi poichè è avvenuto in una città letteralmente blindata nella quale oggi si terrà la seconda giornata della sessione straordinaria del Parlamento nella quale i vertici militari e dei servizi di intelligence stanno illustrando al governo e alle forze politiche la situazione militare nelle aree tribali e le misure prese per fronteggiare l’attuale ondata di violenze terroristiche che sta insanguinando il paese.
* la Repubblica, 9 ottobre 2008
Kamikaze a Quetta: 3 morti tra cui una bambina di 11 anni
Pakistan, ambasciate europee in allerta per rischio attentati
Sono spariti quattro camion, uno dei quali si ritiene sia stato utilizzato per compiere l’attacco contro l’Hotel Marriott. La polizia è alla ricerca degli altri tre: si teme che possano essere usati dai terroristi. Il gruppo Fedayan al-Islam minaccia nuove azioni sanguinose
Islamabad, 24 set. (Aki/Ign) - Le ambasciate europee a Islamabad sono in stato di allerta perché i servizi di sicurezza locali ritengono possibile a breve un nuovo attentato in città che dovrebbe prendere di mira una delle sedi diplomatiche occidentali. Secondo quanto riferisce l’inviato della tv satellitare ’al-Arabiya’, la polizia è alla ricerca di tre camion rubati due settimane fa nella cittadina di Shahlan di cui si sono perse le tracce. Si teme che possano trovarsi a Islamabad, pronti per essere usati dai terroristi. Nella piccola località pakistana erano stati infatti rubati quattro camion e uno di essi si ritiene sia stato usato per compiere l’attentato contro l’Hotel Marriott della scorsa settimana.
Il gruppo islamico denominato ’Fedayan al-Islam’ ha minacciato oggi di compiere nuovi attentati in Pakistan e in particolare contro coloro che "aiutano le forze americane nel Paese". Con un sms a firma del suo portavoce inviato alla redazione di Islamabad di ’al-Jazeera’, la stessa sigla che nei giorni scorsi aveva rivendicato l’attentato all’Hotel Marriott ha rivolto minacce anche nei confronti di Sadreddin Rashwani, proprietario dell’hotel.
"Quanto detto dal Pentagono circa la morte di soli due marine nell’attacco all’Hotel Marriott è falso - si legge nel messaggio - perché nel momento dell’attacco l’albergo era pieno di marine, agenti della Cia, dell’Fbi e di diplomatici europei". Quella di Fedayan al-Islam è una sigla fino a poco tempo fa sconosciuta e apparsa per la prima volta proprio in occasione dell’attentato della scorsa settimana a Islamabad. Il gruppo sostiene di essere legato ad al-Qaeda.
Intanto non si arresta la scia di sangue. A Quetta, capoluogo del Beluchistan, secondo quanto riferisce la tv araba ’al-Jazeera’, un terrorista con indosso un giubbotto esplosivo si è fatto saltare in aria a un posto di blocco mentre con la sua auto si dirigeva dal centro cittadino verso l’aeroporto locale. L’attentato ha provocato la morte di tre persone, tra cui una bambina di 11 anni, e il ferimento di altre tredici.
Ancora, quattro capi tribali sono rimasti uccisi per l’esplosione di una mina nella regione di Bajaur, al confine con l’Afghanistan. Il gruppo era a bordo di un veicolo quando l’ordigno è esploso, causando anche il ferimento di sei persone, tre delle quali sarebbero in gravi condizioni. Il Bajaur è considerata una delle principali roccaforti in Pakistan dei talebani e nascondiglio di operativi di al Qaeda.
Ansa» 2008-09-22 18:08
STRAGE IN PAKISTAN: RIVENDICATA DA FEDAYIN ISLAM
DUBAI - I Fedayin dell’Islam (Seguaci dell’Islam), un gruppo poco conosciuto, hanno rivendicato l’attentato di sabato contro l’hotel Marriott a Islamabad, nel quale hanno perso la vita almeno 53 persone. Ne ha dato notizia oggi la tv satellitare Al Arabiya. Un portavoce del gruppo ha chiamato il corrispondente di Al Arabiya a Islamabad e ha avanzato diverse richieste al governo pachistano, inclusa la fine della cooperazione con gli Stati Uniti.
Due sospetti terroristi legati all’attentato di sabato sera all’hotel Marriott di Islamabad sono stati arrestati dalla polizia pachistana. Lo riferisce la televisione Dawn.
I due sarebbero legati ad al Qaida e uno dei due già ricercato per un tentativo di uccisione dell’ex presidente pachistano Pervez Musharraf. L’arresto è avvenuto a Gujaranwala, una città della provincia orientale pachistana del Punjab, tra Lahore e Islamabad. Altre tre persone sono state arrestate, per essere interrogate, in una moschea del distretto di Kharian, tra Lahore e Islamabad.
Sono considerate concluse, in molte parti dell’Hotel Marriott, le operazioni di ricerca di altre vittime. Lo riferisce la televisione pachistana Geo Tv.
I soccorritori avrebbero cercato in tutte le 298 stanze dell’albergo e nella maggior parte della struttura e, secondo quanto ha riferito la tv, non ci sarebbero possibilità di trovare altre vittime nell’albergo distrutto. Gli investigatori hanno comunicato di aver completato le prime indagini sull’attentato terroristico e che un primo dossier sulle modalità dell’attentato sarà reso noto oggi.
Gli ingegneri hanno detto che la struttura e le fondamenta dell’albergo sono solide e sicure, il piano terra e il tetto sono state danneggiati dall’esplosione. Nonostante il crollo di una piccola parte della parte posteriore, gli ingeneri escludono la possibilità che l’intera struttura possa crollare. Sadruddin Hashwani, il proprietario pachistano dell’albergo, ha detto di voler ricostruire in tre mesi l’hotel e che nessun dipendente perderà il lavoro.
Sarebbero legati all’attentato di sabato sera all’albergo di Islamabad
"Sono di Al Qaeda". La British Airways blocca i voli da e per il Pakistan
Strage hotel Marriott, cinque arresti
"L’obiettivo era il presidente"
Il ministero dell’Interno rivela: "Quella sera all’albergo era prevista una cena alla presenza delle maggiori cariche dello Stato: sono salvi per miracolo" *
ISLAMABAD- E’ caccia all’uomo in Pakistan: cinque sospetti terroristi legati all’attentato di sabato sera all’hotel Marriott di Islamabad sono stati arrestati dalla polizia. Sarebbero legati ad Al Qaeda, e uno era già ricercato per un tentativo di uccisione dell’ex presidente pachistano Pervez Musharraf. Ma oggi c’è un’altra notizia che potrebbe spiegare il perché della strage: la sera dell’esplosione, il neo-presidente Asif Ali Zardari e il premier Yousuf Raza Gilani dovevano partecipare a una cena di gala all’albergo, insieme ai vertici delle forze armate. Solo all’ultimo minuto, era stato deciso che il banchetto si sarebbe tenuto nella residenza del primo ministro.
La cena saltata. A rendere noto la circostanza è stato Rehman Malik, capo portavoce del ministero dell’Interno. "Solo in extremis - ha dichiarato - l’intera dirigenza dello Stato si è salvata". La cena sra stata indetta in onore del primo discorso dall’insediamento pronunciato in Parlamento poche ore prima da Zardari.
Gli arresti. Due arresti sono avvenuti a Gujaranwala, una città della provincia orientale pachistana del Punjab, tra Lahore e Islamabad. Uno dei due è sospettato per il fallito attentato contro Musharraf. Altre tre persone sono state fermate in una moschea del distretto di Kharia, tra Lahore e Islamabad.
Scontri nel Nord. Questa mattina l’esercito pakistano ha aperto il fuoco contro alcuni elicotteri americani che avevano superato il confine con l’Afghanistan, nel nordovest del Paese. Secondo quanto hanno riportato due funzionari dell’intelligence locale a sparare sono stati soldati ed esponenti delle tribù del nordovest. Gli ultimi raid dei militari statunitensi nelle aree tribali del nordovest, dove si sospetta siano nascosti gruppi di taleban ed esponenti di Al Qaeda, hanno destato un coro di proteste in Pakistan.
La British Ariways: stop ai voli. Oggi la compagnia aerea britannica ha annunciato la sua decisione: il clima nel paese non permette di garantire le condizioni di sicurezza ai propri passeggeri, per cui da oggi le rotte verso il Pakistan sono state sospese.
* la Repubblica, 22 settembre 2008
Lo scenario
Pakistan, gli errori dell’Occidente nella "guerra" sul fronte pakistano
di GUIDO RAMPOLDI *
A DUE PASSI dai palazzi del potere pakistano, l’hotel Marriott di Islamabad è, o più esattamente era, l’albergo dell’establishment, della stampa occidentale e delle delegazioni straniere; e per tutto questo lo proteggevano straordinarie misure di sicurezza. Ma nugoli di poliziotti, sbarramenti e paratie mobili ieri non sono riusciti a evitare che un camion caricato di dinamite lo colpisse con la violenza di una bomba sganciata da un aereo e sterminasse decine tra gli ospiti che cenavano al piano terra, come ogni sabato sera.
Con questa spaventosa dimostrazione di efficienza la vasta area dell’ultrafondamentalismo armato ha risposto al discorso pronunciato poco prima, nel vicino parlamento, dal nuovo presidente della Repubblica, Zardari. Il vedovo di Benazir Bhutto aveva ripetuto che il Pakistan avrà ragione dei Taliban pachistani, di Al Qaeda e delle altre bande terroriste che ormai minacciano la stessa esistenza della nazione. Ma la veemenza delle sue parole risultava meno convincente, davanti al rogo in cui ieri sera spariva il miglior albergo della capitale. Quell’incendio furioso pareva quasi rischiarare una realtà che l’Occidente evita ostinatamente di guardare.
Stiamo perdendo il Pakistan. Stiamo perdendo la seconda nazione musulmana per popolazione e forse oggi la prima per importanza strategica, perché ha la Bomba e perché è il retrovia del campo di battaglia afgano. Negli ultimi mesi una crisi economica che proietta l’ombra della morte per fame su milioni di pachistani si è aggiunta a mali ormai cronici: fragilissimo il sistema politico, molto dubbio il controllo dell’esecutivo sugli apparati di sicurezza, perlomeno incerta la lealtà di importanti settori militari.
Eppure il Pakistan non è un caso disperato. Il primo tra i motivi per sperare è l’ostilità con cui la grande maggioranza dei pachistani ormai guarda al terrorismo islamico. Ma senza un aiuto internazionale il Paese ha alte probabilità di implodere in un’anarchia militare congeniale unicamente ai Taliban e ad Al Qaeda.
Malgrado questo ormai sia chiaro, l’unico messaggio che l’Occidente sta inviando a Islamabad proviene dal Pentagono e non è né utile né amichevole. Da mesi l’aviazione americana si prende la libertà di bombardare i villaggi pachistani al confine con l’Afghanistan in cui ritiene si nascondano capi Taliban e dignitari di Al Qaeda.
L’insofferenza del Pentagono per l’inazione d’esercito pachistano è comprensibile. Meno comprensibile è l’insistere su bombardamenti che troppo spesso si concludono con stragi di civili, mettono il governo in difficoltà davanti all’opinione pubblica, irritano lo stato maggiore e costringono politici e generali a minacciare una reazione che prima o poi potrebbe seguire. E poiché la guerra che la Nato sta combattendo in Afghanistan si vince o si perde soprattutto in Pakistan, sarebbe ora che gli europei trovassero il coraggio di tutelare i loro soldati e i loro interessi. Se l’amministrazione Bush vuole combinare un altro disastro, faccia pure: ma si scelga un’altra parte del mondo. In Afghanistan, e dunque anche in Pakistan, Washington è vincolata ad un’alleanza: se non si ritiene tale lo metta in chiaro, e gli europei decidano se ad essi è congeniale una missione sulla quale non hanno pieno controllo.
Inoltre il fatto che il Pakistan sia il retrovia fondamentale della guerra afgana, obbliga americani ed europei a dotarsi di una strategia regionale. Finora non si è vista questa coerenza.
Nell’immediato occorre chiedersi se l’economia pachistana non abbia bisogno di una ciambella di salvataggio. È vero che nei sette anni precedenti gli americani hanno finanziato Musharraf con miliardi di dollari avendone in cambio poco di quello che era stato loro promesso. Ma lasciare affondare il Pakistan per ripicca sarebbe, nelle circostanze attuali, un far danno non solo alla Nato e alla missione in Afghanistan, ma anche alla stabilità della pace in una larga parte del mondo: nel caso il Paese collassi, forse gli americani riuscirebbero a trovare per tempo la dozzina di bombe atomiche di cui oggi dispone Islamabad e a metterle in salvo tutte, ma difficilmente in seguito potrebbero evitare che quei progetti nucleari siano riattivati per conto di nuovi committenti.
Infine sarebbe saggio affrontare le ossessioni dello stato maggiore pachistano. Pare convinto che l’India si stia impadronendo dell’Afghanistan e la patria rischi di essere stretta a sandwich dal nemico storico. Che si tratti di un alibi per intervenire in Afghanistan o di un sospetto non del tutto campato in aria, non lo si può ignorare.
Soprattutto se fosse vero che i servizi segreti indiani sono molto attivi su tutto il confine afgano-pachistano. Anche se non si vedono i presupposti per una conferenza internazionale che riunisca tutti i Paesi dell’area, qualcosa va fatto per ripristinare un minimo di fiducia tra Islamabad e Delhi, prima che le due caste militari riprendano a montare le loro guerre per procura.
Né il Pakistan né l’Afghanistan sono cause perse. Però occorre uno sforzo di intelligenza e di determinazione. Purtroppo queste non sono le doti precipue dei gruppi dirigenti occidentali.
* la Repubblica, 21 settembre 2008.
Solo dopo 13 ore i soccorsi riescono ad entrare tra le rovine dell’albergo
Il camion-bomba con 500 kg di esplosivo lascia un cratere di 20 metri
I soccorsi entrano in hotel
Disperso l’ambasciatore ceko
E un membro dell’ambasciata vietnamita. Bilancio provvisiorio: 60 morti, centinaia di feriti
ISLAMABAD - I soccorsi sono finalmente entrati in nquello che rimane dei sei piani dell’hotel Marriot. Ci sono volute oltre tredici ore dall’esplosione dal camion bomba imbottito di 500 chili di tritolo e plastico firmati Al Qaeda prima di riuscire a "orientarsi" di nuovo in mezzo a quello scenario di fiamme, rovine, urla e disperazione. Finora il bilancio parla di 60 morti ma l’ingresso dei soccorsi nell’albergo potrebbe far salire velocemente il bollettino della strage. Tra i dispersi c’è anche l’ambasciato9re della Repubblica ceca in Pakistan: ieri ha chiamato col telefonino l’ambasciata subito dopo l’esplosione ma poi se ne sono perse le tracce.
I soccorsi. Per tutta la notte i pompieri e i militari hanno lavorato per spegnere il gigantesco incendio che ha bruciato il grande e lussuoso hotel di oltre 300 camere nel cuore di Islamabad, ma senza potersi spingere oltre la hall d’ingresso e alcuni ristoranti ai margini dell’edificio di sei piani, che minaccia di crollare.
Solo in mattinata alcuni uomini della Protezione civile, in tuta arancione, attrezzati come speleologi e con bombole d’ossigeno, sono riusciti a entrare più in profondità, portando con sè barelle.
Le vittime. Fra i 60 morti finora accertati vi sono agenti della sicurezza e portieri dell’albergo, alcuni stranieri che stavano vicino alle uscite e passanti. Nessuna notizia dell’ambasciatore ceko Ivo Zdarek che ha chiamato l’ambasciata subito dopo l’esplosione chiedendo aiuto ma poi è scomparso nel nulla. Il cellulare è muto. Secondo l’agenzia Reuter è disperso anche un rappresentante dell’ambasciata del Vietnam.
La dinamica dell’attentato. Il kamikaze ha portato il suo camion bomba contro la barriera metallica che proteggeva l’accesso al Marriott, distante però solo una ventina di metri dalla hall d’ingresso. La potenza dell’esplosione ha danneggiato tutto l’edificio: il cratere dal camion bomba è di una ventina di metri di diametro e profondo circa otto.
Tutt’intorno al punto dell’impatto per un raggio di una cinquantina di metri si vedono alberi spezzati in due, auto ridotte ad ammassi di lamiere ed edifici costellati di squarci.
* la Repubblica, 21 settembre 2008.
A fuoco il Marriott della famosa catena americana. Più di 100 i feriti
Centinaia di persone sono intrappolate nell’edificio in fiamme
Pakistan, attentato a Islamabad
Autobomba contro hotel: 40 morti
La Farnesina: "Nessun italiano tra gli ospiti dell’albergo" *
ISLAMABAD - Quaranta morti e centinaia di feriti. E’ il bilancio, probabilmente destinato ad aggravarsi, di un nuovo attentato compiuto oggi a Islamabad, in Pakistan. Un kamikaze alla guida di un camion bomba si è lanciato contro l’ingresso dell’hotel della famosa catena americana Marriott, nel centro della città. L’esplosione ha provocato una forte fuga di gas che ha innescato un gigantesco incendio. Quasi 200 persone sono rimaste intrappolate nell’edificio in fiamme. L’albergo è andato in gran parte distrutto ed è concreto il rischio che possa crollare.
VIDEO - Le immagini della tv pakistana
VIDEO - La telecamera dentro l’albergo in fiamme
LE FOTO DELL’ATTENTATO
Le vittime. Secondo il capo della polizia, Asghar Raza Gardazi, l’attacco ha provocato almeno quaranta morti e centinaia di feriti, alcuni dei quali sarebbero in gravi condizioni. Ma secondo la televisione locale le vittime potrebbero essere cento. Un funzionario delle forze dell’ordine pakistane ha raccontato che "l’esplosione è avvenuta quando un’auto ha raggiunto il muretto di protezione davanti all’hotel". La polizia ha dichiarato lo stato di emergenza in tutto il Paese.
Diplomatici Usa nell’albergo. Al momento dell’attentato era in corso un ricevimento al quale partecipava una delegazione della Banca Mondiale ed erano presenti alcuni diplomatici americani. Il ricevimento era organizzato dalla presidente della Camera, Fehmida Mirza, in onore del neopresidente pakistano Asif Ali Zardari in occasione del suo primo discorso al Parlamento. In totale sembra che al banchetto stessero partecipando circa 200 persone. Al momento dell’esplosione Zardari si trovava nella residenza del primo ministro Yousaf Raza Gilani che si trova a poche centinaia di metri dal Marriott.
Gli italiani. Secondo quanto comunica l’unità di crisi della Farnesina, non ci sono italiani tra gli ospiti dell’hotel. Il ministero degli Esteri fa sapere che non si può tuttavia escludere, al momento, la presenza di nostri connazionali nella zona dell’attentato. Tra i feriti stranieri ci sono un diplomatico danese e tre cittadini americani. L’hotel Marriott è uno dei luoghi più frequentati dagli stranieri e già in passato era stato oggetto di attentati terroristici. Si trova in una zona di uffici governativi e ambasciate, tra cui anche quella italiana.
Il video di Al Qaeda. Poco prima dell’attentato il nuovo presidente del Pakistan, Asif Ali Zardari, aveva fatto il suo esordio davanti al Parlamento, con le due Camere riunite in seduta comune, e aveva ribadito il proprio impegno nella lotta contro il terrorismo e l’estremismo politico-religioso. Al momento non vi sono state rivendicazioni ma, nei giorni scorsi, un video di Al Qaeda aveva annunciato possibili attentati contro obiettivi americani.
* la Repubblica, 20 settembre 2008 - ripresa parziale
Pakistan, missile Usa su un villaggio: morti 12 civili
La guerra in Afghanistan fa morti anche in Pakistan. E come sempre sono civili: almeno 12 persone, tra cui donne e bambini, sono rimaste uccise da un missile sparato da un aereo americano senza pilota nel villaggio di Tol Khel, al confine con l’Afghanistan. Secondo fonti locali, l’obiettivo era colpire una casa appartenente ad un militante talebano. Nella zona infatti le forze della coalizione stanno ricercando dei miliziani di Al Qaeda. Si contano anche 10 feriti. Una strage senza fine visto che, appena la settimana scorsa, in un’operazione nel Waziristan meridionale avevano perso la vita venti persone tra cui donne e bambini.
L’ultima tragedia pakistana arriva dopo le polemiche su alcune indiscrezioni secondo cui in luglio il presidente Usa, George W. Bush, approvò ordini segreti per autorizzare azioni all’interno del Pakistan anche senza il consenso di Islamabad.
E sempre nella zona al confine con l’Afghanistan, precisamente nella regione del Bajur, sono morti almeno trenta guerriglieri nel corso di scontri con l’esercito pachistano. A cadere sotto il fuoco delle armi sono stati anche due militari pachistani. Per Murad Khan, portavoce dell’esercito pachistano, sarebbero centinaia i guerriglieri uccisi dalle forze di sicurezza nella regione nord-ovest del paese nelle ultime settimane.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.09.08, Modificato il: 12.09.08 alle ore 13.06
Ansa» 2008-09-06 19:27
PAKISTAN: ZARDARI PRESIDENTE. SANGUE SU VOTO, 15 MORTI
Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e co-presidente del Partito del Popolo pachistano, è stato eletto nuovo presidente del Pakistan dal parlamento. Succede a Pervez Musharraf, dimessosi il mese scorso prima di essere sottoposto all’impeachment.
L’elezione di Zardari, che sembrava scontata ai più, è stata comunque bagnata dal sangue. A Peshawar, la capitale della Provincia nord occidentale pachistana (NWFP) ai confini con l’Afghanistan, un attentato con un’autobomba ha provocato la morte di almeno 15 civili ad un check point della polizia. Alcuni edifici nei dintorni del posto di controllo di polizia di Zangi, sulla Kohat Road, dove è avvenuto l’attentato, sono crollati e ci sono ancora persone sotto le macerie.
Le operazioni di voto per l’elezione del presidente sono cominciate stamattina alle 10:10 ora locale (le 7:00 in Italia) e si sono concluse circa 5 ore dopo. Hanno votato prima i senatori e poi i membri dell’altra camera del parlamento pachistano, mentre in contemporanea votavano i membri delle assemblee delle quattro province. Il risultato ufficioso - si aspetta ancora lo spoglio definitivo per contare tutte le schede - è stato salutato dai parlamentari con slogan a favore dei Benzir Bhutto e della sua famiglia. Il vedovo di Benazir Bhutto sarebbe stato eletto con un grande distacco nei confronti dei due diretti concorrenti, Saeed-uz-Zaman Siddiqui della Lega Pachistana Musulmana-N (PML-N) di Nawaz Sharif e Mushahid Hussain Syed della Lega Pachistana Musulmana-Q (PML-Q) vicina all’ex presidente Musharraf. Zardari, che dovrebbe giurare stasera, diventa l’undicesimo presidente della repubblica pachistana dal 1956, anno in cui il paese islamico diventò repubblica, quattordicesimo se si contano anche i presidenti pro-tempore.
RICE, CI SONO BUONE PROSPETTIVE
ALGERI - Il segretario di Stato americano Condoleezza Rice ha salutato l’elezione oggi di Asif Ali Zardari a presidente del Pakistan, e ha lodato il fatto che egli abbia posto - ha detto - l’accento sulla lotta al terrorismo. Parlando ai giornalisti al suo seguito nel viaggio in Nord Africa, Rice ha detto che è impaziente di lavorare con Zardari, aggiungendo di avergli parlato al telefono. "Adesso con un nuovo presidente credo che abbiamo buone prospettive", ha detto il segretario di Stato. "Sono rimasta colpita dalle cose che ha detto riguardo alle sfide che il Pakistan ha di fronte, sulla centralità della lotta al terrorismo e sul fatto che la lotta la terrorismo è la lotta del Pakistan, e anche per le sue parole molto forti di amicizia e alleanza con gli Stati Uniti", ha detto.
Il vedovo di Benazir Bhutto (Partito Popolare) è il nuovo presidente
Voto insanguinato: kamikaze si scaglia contro check-point e fa una strage
Pakistan, eletto Asif Ali Zardari
Autobomba a Peshawar, 16 morti
PESHAWAR - Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto, è il nuovo presidente del Pakistan. Il segretario del partito popolare, 53 anni, erede designato della statista assassinata lo scorso dicembre, ha ottenuto 281 dei 426 voti validi dei deputati dei due rami del Parlamento e dei quattro Consigli provinciali. Secondo dati non ufficiali avrebbe raccolto oltre il 60% dei suffragi.
Si tratta però di un voto insanguinato. Questa mattina a Peshawar, nel nordovest del Paese, un kamikaze ha lanciato un’autobomba contro un posto di blocco provocando sedici morti e oltre ottanta feriti. L’esplosione, avvenuta a Zangi, sulla Kohat Road, ha causato il crollo di alcuni edifici circostanti tra cui un mercato coperto. Molti poliziotti e civili sono ancora sotto le macerie.
Peshawar è stata spesso teatro di attentati dei miliziani di Al Qaeda. In Pakistan, negli ultimi dodici mesi, gli attacchi terroristici hanno provocato 1200 morti. Lo stesso neo presidente, Asif Ali Zardari, proprio mercoledì scorso era scampato ad un attentato.
* la Repubblica, 6 settembre 2008.
Ansa» 2008-09-03 12:38
PAKISTAN: PREMIER GILANI SFUGGE A TENTATIVO ASSASSINIO
NEW DELHI - Il premier pachistano Yusuf Raza Gilani è sfuggito ad un tentativo di assassinio secondo quanto riferisce la televisione pachistana Geotv.
Due proiettili avrebbero raggiunto il veicolo di Gilani ma secondo quanto riferisce la televisione, che cita fonti dell’ufficio del primo ministro, Gilani sta bene e non e’ stato ferito.
Stava rientrando a Islamabad da Lahore dove era stato in visita e il suo convoglio e’ stato attaccato nei pressi dell’aeroporto di Rawalpindi.
La decisione della commissione elettorale dopo le dimissioni dell’ex generale
Saranno il Parlamento e le assemblee provinciali a designare il nuovo presidente
Pakistan, elezioni il 6 settembre
per il successore di Musharraf
ISLAMABAD - Il successore di Pervez Musharraf, dimessosi il 18 agosto, sarà eletto il prossimo 6 settembre. La decisione è stata presa dalla commissione elettorale pachistana e il successore di Musharraf sarà eletto dal Parlamento e dalle assemblee provinciali.
"Il candidato vincitore verrà annunciato il giorno stesso e le candidature potranno essere presentate a partire dal 26 agosto", ha detto il segretario della commissione, Kanwar Dilshad. Le candidature potranno poi essere ritirate entro il 30 agosto. Non è stata annunciata una data limite per le presentazioni. Al voto parteciperanno i deputati del parlamento federale e delle assemblee provinciali.
Asif Ali Zardari, 52 anni, vedovo di Benazir Bhutto, sarà il candidato leader del Partito Popolare Pachistano, mentre il primo ministro Nawaz Sharif rappresenterà il Partito della Lega Musulmana Pachistana.
Capo dello Stato ad interim è il presidente del Senato Mohammedmian Soomro, considerato un fedelissimo di Musharraf e quindi senza possibilità di essere confermato nell’incarico. L’attuale governo pachistano aveva costretto Musharraf alle dimissioni minacciando di avviare una procedura di impeachment contro di lui e accusandolo di aver violato la Costituzione. Lo scorso febbraio, due mesi dopo la morte di Benazir Bhutto in un attentato, il partito dell’ex generale aveva perso le elezioni politiche.
* la Repubblica, 22 agosto 2008.
Ansa» 2008-08-21 12:26
PAKISTAN: KAMIKAZE CONTRO FABBRICA ARMI, 45 MORTI
ISLAMABAD, 21 AGO - Almeno 45 persone sono state uccise oggi in un duplice attentato suicida a una fabbrica di armi in Pakistan. Lo ha detto la polizia.
Secondo il giornale pachistano The News, sarebbero 52 i morti causati dal duplice attentato alla fabbrica di armi in Pakistan, nella zona di Wah Cannt non lontano da Islamabad. I feriti sarebbero almeno una quarantina, alcuni in gravissime condizioni. Due uomini si sono fatti esplodere nei pressi dei cancelli della fabbrica al momento del cambio del turno del personale, in un momento di grande affollamento.
La deflagrazione nelle regioni tribali vicino al confine con l’Afghanistan
Pakistan, esplosione in ospedale: almeno 20 vittime
L’attentato è avvenuto a Dera Ismail Khan, nel Nord Ovest, nell’ala del nosocomio dove si trova il pronto soccorso. Trenta i feriti. Lunedì l’annuncio del presidente Musharraf: "Mi dimetto. False le accuse contro di me, ma sono pronto a sacrificarmi per il mio Paese’’. Entro due o tre giorni sarà fissata la data delle elezioni presidenziali
Islamabad, 19 ago. (Adnkronos) - E’ di almeno 20 morti e 30 feriti il bilancio delle vittime causato dall’esplosione di una bomba in un ospedale di Dera Ismail Khan, nel Pakistan nordoccidentale. Lo riferiscono le autorità locali.
La deflagrazione sarebbe avvenuta nell’ala del nosocomio dove è situato il pronto soccorso. Dera Ismail Khan è il capoluogo della provincia frontaliera di Nord Ovest (NWFP), situata nelle regioni tribali a ridosso del confine con l’Afghanistan.
Ansa» 2008-08-18 17:19
PAKISTAN, MUSHARRAF SI DIMETTE ’’NELL’INTERESSE DEL PAESE’’
ROMA - ’Mi dimetto nell’interesse del Paese’. Con queste parole Pervez Musharraf a sorpresa getta la spugna. Dopo nove anni di governo e settimane di speculazioni sul suo futuro politico, il presidente del Pakistan annuncia le sue dimissioni in un discorso tv alla nazione. Lo fa nel giorno in cui i partiti di governo erano pronti a presentare in parlamento il dossier che avrebbe supportato la procedura del suo impeachment. Musharraf esce di scena per non essere incolpato di accuse gravi contro la nazione e la Costituzione e per ottenere una via d’uscita onorevole, che lo portera’ secondo indiscrezioni captate dalla stampa indiana a un esilio dorato in Arabia Saudita. L’ex generale era salito al potere con un golpe incruento nel ’99. I due partiti d’opposizione non ne riconoscevano pero’ la legittimita’ perche’ eletto quando era ancora capo delle forze armate. Rieletto presidente a novembre, Musharraf aveva imposto lo stato d’emergenza, sospeso la costituzione, liquidato i giudici a lui ostili e fatto imprigionare migliaia di oppositori. Per l’opposizione tutti reati gravissimi, per i quali si preparava a votare la procedura d’impeachment.
MUSHARRAF IN DIRETTA TV GETTA LA SPUGNA
NEW DELHI - Pervez Musharraf getta la spugna. Dopo nove anni di governo e settimane di speculazioni sul suo futuro politico, il presidente del Pakistan ha annunciato in un discorso televisivo alla nazione le sue dimissioni. Lo ha fatto respingendo tutte le accuse nei suoi confronti nel giorno in cui i partiti di governo erano pronti a presentare in parlamento il copioso dossier che avrebbe supportato la procedura del suo impeachment. Musharraf esce di scena per non essere incolpato di accuse gravi contro la nazione e la costituzione e per ottenere una via d’ uscita onorevole, che lo porterà, secondo indiscrezioni captate dalla stampa indiana, a un esilio dorato a Jedda in Arabia Saudita.
"Mi dimetto nell’interesse del Paese", ha detto, aggiungendo che presenterà oggi stesso la lettera al presidente dell’Assemblea nazionale, il parlamento. Ma l’ex generale, salito al potere con un golpe incruento nell’ottobre 1999, respinge tutte le accuse dei suoi oppositori, Asif Ali Zardari e Nawaz Sharif in testa, bollandole come "false e senza fondamento". Il presidente ex generale ha avocato a sé i successi del Pakistan, che, ha detto, sarebbe cresciuto economicamente e democraticamente, ha combattuto il terrorismo e fatto cambiare di fronte al mondo l’immagine di Paese sponsor del terrorismo. Musharraf ha anche detto che la sua decisione di dimettersi prescinde dall’impeachment, le cui accuse non lo avrebbero colpito. "Non una sola accusa contro di me potrebbe essere provata perché non ho fatto nulla per me, ma tutto per il Pakistan".
Musharraf ha parlato di traditori che si stanno accanendo contro di lui e contro il Paese, alludendo al fatto di aver favorito, con leggi speciali, il ritorno di Sharif e di Zardari, insieme alla moglie Benazir Bhutto uccisa a dicembre. Sia Zardari che Sharif hanno parlato di "vittoria del popolo", mentre per il primo ministro, Yusuf Raza Gilani, è stata una "decisione realistica". Si profila ora incerto sia il futuro di Musharraf che del suo Paese. Secondo fonti di stampa pachistana, dovrebbe andare a Jedda nella stessa casa che ospitò Nawaz Sharif quando fu mandato in esilio dallo stesso Musharraf. Poco fa un leader della Lega Pachistana Musulmana-Q, partito vicino al presidente, ha detto che Musharraf invece resterà in Pakistan. E per la sua successione a Musharraf, si fa insistente proprio il nome di Sharif.
MUSHARRAF, TENACE ALLEATO USA E DISCUSSO LEADER Il presidente del Pakistan, Pervez Musharraf, che oggi ha annunciato in un discorso alla nazione le proprie dimissioni, alla vigilia di una procedura di impeachment, era salito al potere con un incruento colpo di stato nel 1999 ed è stato poi eletto per un secondo mandato l’ anno scorso dopo aver rinunciato alla divisa militare. Nato nel 1943 a New Delhi in una modesta famiglia e approdato nel neo-costituito Pakistan quattro anni dopo, Musharraf si è formato in una scuola cattolica, è vissuto sette anni in Turchia prima di entrare nell’Accademia militare, dove a 18 anni ha indossato la divisa che considera una "seconda pellé. Nel 2001, due anni dopo la sua presa del potere, quando George W. Bush lancia la guerra globale al terrorismo sulla scia degli attentati dell’11 settembre, Musharraf diventa alleato di Washington, che ricompensa il Pakistan con 12 miliardi di dollari, risollevandone l’economia. Presentatosi spesso come il salvatore della patria e persino del mondo intero contro al Qaida, Musharraf si trova spesso in difficoltà sul piano interno per le accuse di essere al servizio degli interessi Usa e nel fronteggiare diverse ondate di estremismo islamico. Ed è criticato dal vicino Afghanistan - e, più velatamente, dagli Usa -, che gli imputa di non fare abbastanza per combattere i Taleban pachistani e al Qaida nei territori tribali, dove i Taleban afghani trovano rifugio e sostegno. Il terrorismo islamico si intensifica, specie nelle regioni tribali, dopo l’assalto delle forze di sicurezza alla Moschea Rossa di Islamabad, centro dell’estremismo filo- talebano, che costò la vita a 105 persone. Ma le difficoltà maggiori per lui erano cominciate in marzo 2007, quando rimosse il popolare presidente della Corte suprema, giudice Iftikhar Chaudhry, campione dei diritti umani, scatenando un’ondata di proteste in tutto il Paese, tanto da essere costretto a reinsediarlo pochi mesi dopo. Quella mossa errata ha fatto degli avvocati e dei magistrati la principale forza di opposizione della società civile. Lo scorso 6 ottobre in una controversa elezione diviene presidente