Dove porta l’odio dell’altro
di Barbara Spinelli (La Stampa, 6 giugno 2009)
Tra il discorso di giovedì all’Università del Cairo e la commemorazione dello sbarco in Normandia che avrà luogo oggi in Francia, Barack Obama ha scelto la sosta a Buchenwald, il campo di morte dove tra il 1937 e il 1945 furono rinchiusi 250 mila esseri umani provenienti da cinquanta Paesi diversi.
Morirono uccisi in 56 mila: 11 mila ebrei, gran parte del gruppo dirigente comunista a partire dal suo capo Ernst Thälmann, centinaia di soldati russi, e omosessuali, Rom, Sinti, uomini malati ritenuti «inabili al lavoro». Il Cairo, Buchenwald, la Normandia: tre luoghi e tre date si intrecciano, compongono insieme una storia e un tempo più vasto. Il passato dà pienezza al presente, il Ventesimo Secolo parla al Ventunesimo conferendogli profondità. In ambedue i secoli c’è sete di liberazione, in ambedue è questione di edificare un dopoguerra. Il 6 giugno 1944 in Normandia l’Europa fu liberata dal nazismo, l’11 febbraio 1945 furono i superstiti di Buchenwald a salvarsi. Oggi tocca uscire da un’altra guerra, prima che precipiti in ennesimi orrori e distruzioni: tocca, come ha detto al Cairo il Presidente, metter fine all’infausta guerra tra civiltà. La criminalizzazione dell’Islam deve finire, perché il rischio è grande di punire la diversità nel diverso, e di considerare la diversità un pericolo. Tutte e tre le tappe - Il Cairo, Buchenwald, la Normandia - narrano la difficile edificazione di un dopoguerra meno buio, fondato sulla memoria viva del passato.
Nel suo discorso a Buchenwald Obama ha sottolineato la centralità della memoria, perché non esiste ricominciamento che possa farne a meno. Soprattutto quando si è messi a cospetto di orrori talmente dolorosi che nello spettatore «subentra il mutismo, l’incapacità di proferire verbo» (accadde allo zio Charlie Payne, soldato che partecipò alla liberazione del campo: «per mesi», tornato in America, si chiuse nel silenzio). Eisenhower ne ebbe coscienza, quando vedendo il drappello di scheletri viventi accanto alle baracche disse a sè stesso e decise: bisogna che tutti vedano in immagine quel che sto guardando (tutti: tedeschi, giornalisti, soldati e deputati americani) altrimenti verrà il giorno in cui l’impensabile diverrà un’opinione.
Anche questa decisione ha voluto rammentare Obama, e anche in questo caso le tre tappe del suo viaggio si incrociano e quasi si fondono. Non si inizia una nuova relazione tra Islam e Occidente negando quel che è accaduto durante il nazismo. Non ci si mette a fabbricare un dopoguerra «raccontando menzogne sulla nostra storia». Obama sarà intransigente con lo Stato israeliano, giovedì ha definito «intollerabile» la vita dei palestinesi che vivono in terre di occupazione e ha chiesto al governo di Gerusalemme di smettere subito gli insediamenti, ma tutto questo ha senso se si riconosce quel che gli ebrei hanno sofferto e come avvenne la distruzione dell’ebraismo in Europa. Se si tocca con mano la verità storica come lui ha fatto ieri con Angela Merkel. A Buchenwald, è una guerra giusta che il Presidente Usa ricorda: l’ultima, forse, che gli americani considerino unanimemente tale. Tutti i conflitti successivi - Corea, Vietnam, Iraq - furono contestati.
Obama ha una propensione, forte, a connettere storie e tempi disparati; a creare mosaici molto ramificati, cosmopoliti. Anche la scelta di Buchenwald e di Dresda è colma di significati. Buchenwald fu innanzitutto massacro del diverso. Elie Wiesel, che ha accompagnato il Presidente assieme a un altro ex detenuto di Buchenwald, Bertrand Herz, ha usato ieri un’immagine tremenda: «Il primo esperimento di globalizzazione è stato fatto a Buchenwald, con il solo scopo di diminuire l’umanità degli esseri umani». Ma il luogo dove Hitler decretò la «distruzione attraverso il lavoro» fu anche qualcos’altro: fu simbolo della resistenza, perché i detenuti alla fine si organizzarono e presero il controllo del Lager. Quando i comandanti del campo si resero conto che le truppe Usa si stavano avvicinando, tentarono un’evacuazione dei detenuti (le «marce della morte») e i prigionieri salvarono centinaia di bambini e detenuti nascondendoli. Poi contattarono via radio i militari statunitensi e facilitarono il loro arrivo, l’11 aprile 1945.
Anche la visita di Dresda è significativa: è un esempio luminoso della politica della memoria in Germania, proprio perché evoca la vendetta atroce che si abbatté su di essa (Dresda subì un bombardamento alleato che fece 35 mila morti). Buchenwald simboleggia infine l’altro totalitarismo del ’900: il campo infatti non fu chiuso nel ’45, trovandosi prima in zona sovietica e poi in Germania comunista. Restò aperto fino al 1950: i morti per sevizie furono 7 mila.
Ricominciare la storia è ricordare dove può condurre l’odio dell’altro, e sapere che sempre può riaccendersi trasformandosi: oggi prende le forme, ha detto Obama, «del razzismo, dell’antisemitismo, dell’omofobia, della xenofobia, del sessismo».
Le parole sono importanti per Obama, il suo viaggio in Medio Oriente ed Europa lo dimostra. E proprio perché sono importanti, non si può stravolgerle con bugie e revisionismi. A Ahmadinejad il Presidente ha offerto giovedì il dialogo, giungendo fino a confessare il coinvolgimento americano nella liquidazione violenta di Mohammed Mossadeq (il primo ministro entrato in conflitto con lo Scià negli Anni 50: «Gli Usa svolsero un ruolo nel rovesciamento di un governo iraniano eletto democraticamente», ha ammesso al Cairo), ma gli ha anche detto: ecco, prima di qualsiasi dialogo è a Buchenwald che devi mentalmente venire, sono queste pietre che devi toccare come le sto toccando io. Altrimenti ogni parola è infangata, e il dono della lingua dato agli umani è insensato.
Altrimenti succede come ai nazisti, che fabbricarono un mostro presso Weimar, la città di Goethe e Schiller, e sul cancello del Lager scrissero, a grandi lettere, A OGNUNO IL SUO - JEDEM DAS SEINE, mostrando come uno dei più nobili precetti del diritto romano possa pervertirsi e divenire il più cinico e mortifero segno di odio.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FATTORIA ITALIA". LA SCRITTA SUL CANCELLO D’ENTRATA: "IL POPOLO DELLA LIBERTA’" ....
Datagate
Obama “spione”: a chi conviene?
di Furio Colombo (il Fatto, 31.10.2013)
Bisogna prendere posizione, su questa incredibile storia dello spionaggio americano sul mondo, a cominciare dalla ragnatela di ascolti tipo Stasi (ricordate il bel film Le vite degli altri?) che sembra aver preso nella rete tutti i capi di Stato e di governo europei. La storia è effettivamente complicata e disorientante, se pensate a un botta e risposta fra Casa Bianca e New York Times su questo strano affare, in questi giorni. Qualcuno dalla Casa Bianca avrebbe detto, in modo un po’ generico che “tutto ciò che il Presidente autorizza, si fa nell’interesse nazionale”. Un commentatore del quotidiano newyorchese ha risposto secco: “L’interesse nazionale più importante per gli Stati Uniti è la fiducia dei Paesi e dei popoli alleati”.
Naturalmente una simile storia non si chiarisce con una battuta, e dunque bisognerà riprendere il filo da capo. All’inizio, nell’affrontare questa vicenda, a tutti sembra che vi sia una sola drammatica domanda: perché Obama, presidente eletto e rieletto per liberare il Paese da personaggi inclini a governare col segreto (George W. Bush) ha preso un’iniziativa allo stesso tempo arrischiata e tanto immorale? Da persona che ha viaggiato a lungo accanto o attraverso le istituzioni americane, propongo che ci sia anche un’altra domanda, altrettanto drammatica, che nessuno ha finora proposto. Ma per ora tengo la seconda domanda di riserva, e tento di rispondere alla prima. Lo farò con i seguenti, discutibili punti, a ciascuno dei quali, però, io do credito.
1) A partire dall’11 settembre 2001, abbiamo imparato la necessità della sicurezza condivisa e sappiamo che soltanto gli Stati Uniti sono in grado di esercitare un (pur imperfetto) monitoraggio mondiale. Per questo abbiamo ceduto agli Stati Uniti il controllo dei nostri viaggi, dei nostri passeggeri, dei nostri voli e di una buona parte della nostra privacy. In questa attività, che gli Stati Uniti esercitano, senza nasconderlo, sul territorio di tutti (e che sembra avere diminuito di molto i rischi americani, ma anche i rischi comuni ) c’è un sopra e un sotto. Il sotto è il mondo quasi invisibile degli spionaggi incrociati (vedere certe buone serie televisive americane piuttosto esplicite e molto ben fatte) dove avvengono, quasi non notati, conflitti e alleanze, misteriosi delitti e fraterne collaborazioni). Il sopra sono gli apparati di governo. Da un lato quasi tutti sono porosi e meno sicuri del sistema americano. Dall’altro, come si è visto dalle reazioni meno insincere dei vari capi di Stato e di governo, nessuno sembra sia stato colto davvero di sorpresa. Possibile che avessero servizi di intelligence e monitoraggio non in grado di scoprire per tempo un’intercettazione così clamorosa ?
2) Prima di gridare allo scandalo e domandarci increduli in che mondo viviamo e con che diritto l’America eccetera, cerchiamo di ricordare il caso Litvinenko, la ex spia sovietica, ucciso a Londra con il terribile avvelenamento da plutonio (immensamente doloroso, agonia di settimane, dunque un’esecuzione esemplare da mostrare a qualcuno). Litvinenko, al momento del delitto, era in servizio presso il MI6 inglese (quello di Bond, per intenderci) ed è stato eliminato a cura di quattro ex colleghi ancora al lavoro per Putin, ma anche informatori del Regno Unito. Tener conto che Litvinenko, al momento della morte, era anche al servizio della Commissione parlamentare d’indagine italiana detta “Mitrokhin” istituita da Berlusconi con il compito di dimostrare che Prodi era stato al soldo dell’Urss. In Italia nessuno ha mai chiesto chiarimenti sulla sordida vicenda, anche se un certo Sgaramella, consulente della Commissione parlamentare d’indagine italiana, risulta coinvolto in molte vicende oscure che riguardano la parte italiana del caso Litvinenko. Tener anche conto che l’Alta Corte di Londra ha interrotto ogni indagine sul doloroso caso spiegando che “per ragioni di Stato” non vi sarebbe stata alcuna sentenza.
3) Qualcuno ha notato che tutti si indignano per le intercettazioni di Angela Merkel, a eccezione di Angela Merkel? Il vero problema è la definizione dell’area e del tipo di segreto. Un buon autore di thriller darebbe più risposte della Casa Bianca e più spiegazioni del settimanale DerSpiegel che ha lanciato la parte tedesca della storia. Ricordiamoci però che c’è segreto e segreto e che intere sovrastrutture e sottostrutture degli Stati comunicano tra loro indipendentemente dai capi, in una fitta rete di scambi che è impossibile riferire a una sola persona. Inoltre, anche se non ce l’avessero detto Schlesinger e Kissinger in ponderosi testi accademici sul potere, vi sono eventi di cui il Capo non deve essere informato per non portarne la responsabilità o trovarsi nella necessità di mentire.
4) È possibile che certe intercettazioni potessero avere luogo mentre l’intercettato ne era parte consapevole? Non c’è e non ci sarà mai la risposta perché un capo di governo non può ammettere un’eventuale cessione di sovranità, per qualsiasi ragione. Però un buon autore di trame di spionaggio (che sia in servizio alla National Security Agency o alla Twenty Century Fox) sarebbe in grado di rendere plausibile e anzi logica una vicenda del genere. (Esempio: sapere di più di qualcuno che pubblicamente dice altre cose).
5) Credo sia importante notare che questo attacco a Obama, spione del mondo, segue una serie di altre violentissime aggressioni, tutte tese allo scredita-mento personale. Del presidente che ostinatamente rifiuta di impegnare l’America in altre guerre, e si ostina a occuparsi di ospedali, di scuole, di salvataggio di imprese e di posti di lavoro. Vorrei far notare che tutte quelle aggressioni, a cominciare dalla denuncia di avere falsificato il certificato di nascita per fingersi americano, fino al recente tentativo di dichiarare Obama l’uomo che “ha fatto fallire gli Stati Uniti”, negandogli tutti i fondi federali, puntano a colpire non la politica ma la persona del presidente, che deve apparire infido, mentitore e pericoloso. Non vi sembra che ci sia un rapporto fra quest’ultima accusa e tutte le altre contro il primo americano nero che diventa presidente degli Stati Uniti?
A questo punto mi sembra possibile proporre la seconda domanda: chi manda Snowden? Perché Snowden , il cavaliere bianco, compare ai tempi di Obama con decine di migliaia di informazioni segrete che in teoria mettono in pericolo il Paese ma in realtà diffamano il presidente? Se fosse questa la vera domanda?
L’insediamento
Obama, uomo libero libera l’America
di Furio Colombo (il Fatto, 23.01.2013)
Nel suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama, carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto, si sono ingrigiti, parla all’America del tempo che sta per venire come di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto. Lo testimonia il New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”.
Ma poiché noi parliamo dall’Italia, chiedo ai lettori di guardare per un momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare) nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma inquieti a proposito “dell’America che tende a tirarsi indietro”.
Stando attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”, “l’America non è più quella di una volta”. L’ho sentito dire, anche nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte) per discutere dell’invasione del Mali, dell’intervento francese, del rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan. Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è presentato alla festa di Obama).
MA TORNIAMO a Washington. Il fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945) che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole difficili da dimenticare: “Non scambiate l’assolutismo per un principio, non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un insulto valga un argomento della ragione”.
Ma ecco il punto alto, caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini. Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il 21 gennaio è il giorno che l’America dedica al leader assassinato a Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e la segregazione.
E infatti l’incedere della voce, se lo ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano, negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa. Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell’uguaglianza, a cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.
“Il nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell’Apalachia sapranno che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo, sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.
E DICHIARA, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è vero che l’assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che l’intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono. Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i commentatori americani usando parole da libri d’avventure, per dire qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l’America nei prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o economica: “L’America (certo l’America di Obama) non è più quella di una volta”.
L’uguaglianza di Obama
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 23.01.2013)
L’eguaglianza è la grande assente nel linguaggio politico contemporaneo, nonostante la nostra sia un’età a tutti gli effetti di egemonia democratica, e la democrazia sia un sistema che fa dell’eguaglianza (civile e politica, ma anche delle condizioni di partecipazione alla vita della società) il suo fondamento e la sua aspirazione.
Nel suo epico discorso di insediamento come 44esimo Presidente degli Stati Uniti, Barak H. Obama lo ha ricordato ai suoi concittadini e a tutto il mondo. E lo ha fatto riandando alle origini del patto sul quale l’America che lo ha rieletto è nata, alla Dichiarazione di Indipendenza: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.
A scrivere queste rivoluzionarie parole era stato Thomas Jefferson, un illuminista che credeva come i nostri Filangieri, Verri e Beccaria, che la legge dovesse occuparsi non ad opprimere o dominare ma a creare le condizioni di benessere dei cittadini. La “felicità pubblica” era un ideale importante. Dalla consapevolezza della sua importanza comincia la storia della democrazia moderna.
Il governo, secondo questa filosofia che a noi sembra desueta, dovrebbe creare le condizioni grazie alle quali le persone possono prima di tutto conoscere le loro potenzialità (a questo serve un sistema educativo aperto a tutti) e poi contare su leggi giuste e ben fatte e istituzioni trasparenti e funzionali per poter progettare la loro vita secondo il loro discernimento.
Insomma vivere, e vivere con soddisfazione per quanto possibile, e non nella sofferenza, nell’umiliazione e nella miseria. E questo è un bene per il singolo e la società. Il governo non dispensa felicità dunque. Ciò che si impegna a fare è rendere le persone davvero responsabili della loro vita; far sì che esse possano contare su se stesse, non sulla fortuna di appartenere a una buona famiglia, non sul favore delle persone potenti, non sull’elemosina di chi ha più.
La democrazia, parola per secoli vituperata per volere dare potere e visibilità a tutti, anche ai poveri e inacculturati, è stata nobilitata anche dalla Rivoluzione americana alla quale Obama si è ispirato. Essa ha inaugurato una visione evolutiva delle conquiste sociali e politiche al centro delle quali c’è la persona come valore attivo, agente di scelte, ma anche soggetto dotato di sensazioni e sentimenti, che valuta la propria vita all’interno delle relazioni con gli altri.
Nella democrazia, l’intera struttura della società, dall’etica alla politica, ruota intorno alla persona, ed è valutata in ragione del grado di soddisfazione o di felicità che riesce a procurare a ciascuno. Il benessere e la libertà degli individui sono la condizione per misurare il benessere o il progresso dell’intera società.
Rivalutando questa tradizione che dal Settecento cerca di coniugare democrazia e giustizia, si può dire che c’è giustizia soltanto quando la riflessione pubblica non evade da questi compiti, non lascia il campo alla giungla degli interessi (e quindi alla vittoria di chi è più forte) per riservarsi, eventualmente, di venire in soccorso a chi soccombe. Lo stato della democrazia non fa questo. Esso prepara il terreno all’eguale libertà invece di giungere dopo; non dispensa carità ma garantisce diritti, e per questo promuove politiche sociali.
Ecco perché il principio della libertà individuale non sta solo scritto nelle costituzioni ma diventa a tutti gli effetti un criterio che valorizza le capacità concrete e sostanziali delle persone di vivere il tipo di vita al quale danno valore. L’espansione della libertà è condizione di felicità, perché possibilità di fare, di scegliere, di sperimentare con dignità e senza subire umiliazione.
Ecco perché il tema della giustizia è un tema di risorse o di condizioni di benessere, non semplicemente di esiti e nemmeno soltanto di equo trattamento. A questa promessa di “felicità” è ritornato il presidente Obama per inaugurare il suo secondo mandato: una promessa di impegno per uno sviluppo “illimitato” come o indefinito (cioè senza limiti predeterminati) è il mondo delle nostre possibilità in quanto persone libere nei diritti ed eguali nelle opportunità.
In questo inizio secolo, il viaggio mai finito della democrazia sembra aver trovato il suo Ulisse, nocchiero di un percorso incerto negli esiti e periglioso, ma avvincente e mosso da uno scopo che dovrebbe essere alla nostra portata: vivere con dignità, apprezzando il valore della nostra libertà.
La mala rottamazione
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 24 ottobre 2012)
Rottamazione, dice il vocabolario, è l’azione che si compie quando si demoliscono oggetti fuori uso: specie automobili. Vengono triturati, per riutilizzare le parti metalliche. A volte, ottieni sconti sulla nuova vettura. Applicata alle persone e al ricambio di dirigenti politici, è una delle parole più maleducate e violente che esistano oggi in Italia. I rottamatori sono fieri di chiamarsi così, e quando l’operazione riesce esibiscono le spoglie del vinto: «La rottamazione comincia a produrre i primi frutti», ripeteva Matteo Renzi, domenica in un’intervista in tv.
La lotta per l’avvicendamento ai vertici della politica ha sue ragioni, e lo stile brutale risponde a un’ansia, enorme e autentica, di cambiamento: si vorrebbe azzerare l’esistente, e come nella poesia di Rimbaud ci si professa «assolutamente moderni». È un conflitto legittimo, anche necessario: che va portato alla luce perché nell’ombra degenera o ammutolisce. È il grande merito del sindaco di Firenze, come di Grillo. Impressionante è la campagna di quest’ultimo in Sicilia: lunga, martellante, è rifiuto del mutismo. Da due settimane è nell’isola; nessuno s’era messo per tanto tempo in ascolto delle sue collere.
Ma la parola rottamazione, anche se Renzi intende cambiamento, resta ustionante e parecchi la prendono alla lettera. L’avversario-rivale è trattato alla stregua di arnese metallico. Se l’idea della rottamazione non avesse alle spalle una storia lunga, di degradazione della persona a oggetto servibile, non susciterebbe tanto disagio. Non sveglierebbe fantasie di uomini «di troppo», di rottami. Forse chi la usa (non solo il sindaco di Firenze) non se ne rende conto, ma il termine alligna nelle terre della pubblicità ed è lessico della generazione Berlusconi. È nato con lui, con le sue disinvolture verbali. Non ingentilisce ma corrompe il discorso pubblico. È figlio della rivoluzione non solo politica ma linguistica, di stile, che Berlusconi inaugurò nel ‘94. Fu una rivoluzione della noncuranza, del «tutto è permesso»: non badava alle conseguenze di quel che veniva detto, ai tabù infranti.
È una parola del tutto anomala, inoltre. In Europa o America, nessun politico che magnifichi il Nuovo oserebbe condurre una campagna in cui gli anziani, i seniores, vengano definiti ferrivecchi. Nell’aprile 2002, quando il socialista Jospin alluse all’età del rivale Chirac, i sondaggi lo punirono, screditandolo. Aveva avuto l’impudenza e l’imprudenza di dire che il Presidente era «affaticato, invecchiato, vittima dell’usura». Gli elettori non amavano Chirac, ma la mancanza di gentile rispetto dell’anzianità, in Jospin, fu ritenuta intollerabile.
Una cosa è attaccare la linea dell’avversario: soffermandosi su di essa, senza censure. Altra cosa è assalire la persona. Se rottamazione scomparisse dal vocabolario giornalistico e politico non sarebbe male. Conterebbe più la sostanza: l’errore di Veltroni, quando affondò l’ultimo governo Prodi annunciando che il Pd, rompendo le catene della sinistra radicale, sarebbe «corso da solo» (come se non fosse stato il centro a silurare Prodi). O si potrebbe raccontare D’Alema: il suo rapporto sprezzante con giornalisti e magistrati, i piaceri che fece a Berlusconi, i dispiaceri che procurò a Prodi, l’influenza eccessiva esercitata su Bersani. Ci dedicheremmo a quel che Renzi vuol dire, e alla fiducia che riscuote in persone di prestigio come Pietro Ichino.
Rottamazione è un cartello stradale che depista: non dice quel che promette, né sull’Europa né sulla corruzione né sulla ‘ndrangheta che ci assilla. Vale la pena ripercorrere la storia di questo vocabolo, tanto più cruento in un paese fragile: dopo la Germania, siamo il popolo che più invecchia in Europa. Vale la pena tener viva la memoria, perché lo sgarbo non è episodico ma ha radici in una sistematica denigrazione dei più anziani: nei luoghi di lavoro e nella politica.
Il Parlamento si era appena insediato, nel ‘94, e fu subito offensiva contro un senior come Norberto Bobbio. Eletto alla Camera alta, Franco Zeffirelli giubilò: la Seconda repubblica aveva spazzato via «la triste sfilata dei senatori a vita, uno più cadaverico dell’altro, una vecchia Italia che non vogliamo più e che si è seppellita da sola».
Facendogli eco, Maurizio Gasparri diceva di Indro Montanelli: «Quello è arrivato al tramonto della vita e anche delle capacità intellettuali del suo cervello»
L’offensiva rottamatrice proseguì, più feroce, nel 2006-2008. Ricordiamo gli improperi riversati su Rita Levi Montalcini, e sulla sua tenace presenza in Senato per sostenere il governo di centro sinistra. Sul Giornale del 14-7-07, Paolo Guzzanti parlò di vecchi «scongelati, inchiavardati allo scranno e costretti a pigiare col ditino il pulsante guidato da una senatrice badante». Storace promise «un bel paio di stampelle da consegnare a domicilio. Si comincia dalla senatrice a vita Levi Montalcini ». Su Libero, diretto da Vittorio Feltri, apparve il titolo d’apertura: «La dittatura dei pannoloni».
Siamo dunque lontani dal vero, quando scriviamo che Berlusconi è finito, e con lui il lessico d’insulti della Lega. Il loro modo d’essere e di dire sgocciola come da una flebo nelle vene di un’intera generazione. È il suo marchio, così come le parole del ’68 intrisero due generazioni. I francesi faticano ancor oggi a uscire dalla generazione Mitterrand. Faticheremo anche noi, più di quel che si dica.
Il cambiamento è altra cosa. È la crisi non come decadenza ma trasformazione: un desiderio che Renzi intuisce, e vuol incarnare. È un conflitto ineluttabile: fra ieri, oggi, domani. È un progetto diverso di crescita, non nuovo tra l’altro, se già nel 1987 il rapporto Brundtland scriveva: «Lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni». È un orizzonte dato a giovani cui non si può dire, come il ministro Fornero: «Siete troppo choosy!» («schizzinosi » è mal tradotto, cancella il furto della scelta). E che volto devono avere le nostre città, i nostri pubblici spazi e servizi? Come congegnare pensioni che non tramutino gli anziani in gente bandita o - abbondano anche qui truci aggettivi - in esuberi o esodati? Dai tempi dei Viceré e del Gattopardo sappiamo che cambiar facce non basta alle Grandi Trasformazioni.
Rottamazione oltre che parola brutta è diseducativa, non prepara alcunché. Alla sua insegna non può svolgersi dibattito fra candidati alla guida del Paese. Eppure di discussioni dirette c’è bisogno: per districarsi da soli, senza mediatori nei giornali o in Tv. Nelle primarie americane e francesi è la norma, sebbene scabrosa.
Il rottamatore di professione, presente ovunque nei partiti, ti fruga, alla ricerca degli istinti più bassi, delle passioni più tristi. Viene in mente il Viaggio agli inferni del secolo di Buzzati: nei sotterranei milanesi, sotto la metro, c’è un mondo parallelo in cui i vecchi, inservibili, sono scaraventati dalle finestre nei marciapiedi.
Entrümpelung, parola che Buzzati prende dal lessico nazista, significa repulisti, sgombero: è una variante dell’igienica rottamazione. Anche quel repulisti viene celebrato come «festa della giovinezza, della rinascita, della speranza», del Mondo Nuovo.
Accade così che il diverso appaia come uomo di troppo: povero o vecchio, esodato o immigrato. Sono i disastri del moderno, non del barbarico. Una volta che te la prendi con classi d’età, quindi con la biologia, entri nella logica del capro espiatorio, dell’innocente che paga per il collettivo. Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo, secondo René Girard, che riporta ordine in seno alla comunità. Nel linciaggio, la violenza di tutti contro tutti sfocia in violenza di tutti contro uno. Sarebbe bello se a dirlo, con voce non bassa, fossero anche i giovani