Al di là della “concezione edipica del tempo”(Vattimo).
Sovranità e Sacerdotalità - universali. VIRGILIO, DANTE ... E IL ’CODICE’ DI MELCHISEDECH: DIO è AMORE ... in ‘volgare’ - E LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMI-COMICHE”!
Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino
di Federico La Sala
“L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei”, così scriveva Ennio Flaiano nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”. Una forte e bella illuminante idea! Ma, se è così, allora è altrettanto bello pensare che, quando dietro “il telescopio di Galilei”, c’era Galilei, lo sguardo era sempre lo sguardo di Dante ... e di Leopardi (e tantissimi altri e tantissime altre), a proiettarsi oltre: un oltre-uomo, un oltre-mondo, un oltre-dio conosciuto - con Nietzsche. Una sfida e una scommessa: oggi, forse, possiamo ancora riprendere questo ‘sguardo’ carico d’amore... e ri-guardare oltre, oltre la nostra ‘carta’ dell’Uomo, della Terra, e del Dio del passato!!!
L’ipotesi di ricerca e l’idea-guida, semplicemente, è questa: BEATRICE è Bella, la madre di Dante; LUCIA è Gemma, la sposa di Dante; e MARIA è la madre di Gesù. E, come Giuseppe è il padre di Gesù, così BERNARDO (il nuovo Virgilio, il fedele di Maria), è Alighiero II (il fedele di Beatrice) - il padre di Dante! E tutti e tutte, figli e figlie di "Dio", l’AMORE, il "Padre Nostro".
VIRGILIO - pur essendo un romano (“savio gentile che tutto seppe, mar di tutto il senno, virtù somma, sol che sani ogni vista”), è tuttavia come Giovanni Battista - è colui che accompagna Dante dalla “selva oscura” (senza negare l’intervento decisivo di Lucia per giungere in Purgatorio: "I’ son Lucia;/lasciatemi pigliar costui che dorme;/sì l’agevolerò per la sua via") alla “divina foresta spessa e viva” - alla soglia del “paradiso terrestre” e ... al Battistero della nuova città del Fiore, del nuovo e ver-giglio - Firenze (sulla connessione “paradiso terrestre” e Firenze, si cfr. Federico La Sala, “Dante. Alle origini del moderno”).
Con Virgilio, Dante - come Ulisse - è giunto ai limiti delle sue possibilità e del suo orizzonte: è stato un grande discepolo, è diventato un “dio”, il sovrano di se stesso!!!
Dante, con acutezza incredibile e sorprendente, fa di Virgilio ciò che Marx farà - nella sua tesi di laurea - di Epicuro: il maestro della "scienza naturale dell’autocoscienza"!
E, così, Virgilio non può che assegnargli le meritate chiavi del potere temporale (corona) e del potere spirituale (mitria) della sua ‘casa’ (“libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare più a suo senno: per ch’io sovra te corono e mitrio”) e, nello stesso tempo, ri-affidarlo a Beatrice e salutarlo ... La divinità di se stesso è condizione necessaria, ma non sufficiente. Per conoscere se stessi, bisogna andare oltre, oltre se stessi... Oltre Kant, oltre Hegel, oltre Marx, oltre Nietzsche - oltre l’alleanza edipica (Freud)!!!
L’incontro con Matelda e la conseguente ri-nascita portano finalmente il neo-nato Dante alla vista dei “due luminari”, dei “due Soli” - il ‘padre’ e la ‘madre’ , al nuovo-incontro con BEATRICE, la ri-trovata madre Bella - e, poi, con san BERNARDO (il nuovo Virgilio) , il ri-trovato padre Alighiero II, che - con le ali e la vista di aquila, date dalla preghiera e dalla contemplazione della giustizia - lo innalza e lo guida fino alla conoscenza diretta di “Dio” - “ L’Amore che muove il Sole e le altre stelle” - da cui acquista virtù e conoscenza - nuove ..... che fanno di Dante - sulla scia Gesù, come di Francesco e di Chiara di Assisi - un Figlio di “Dio” e, così (come già era avvenuto per Francesco) un cristiano i-n-a-u-d-i-t-o - che ri-trova e ri-attiva (oltre la “corona” e il “mitrio” di Virgilio) l’incompreso e negato “ordine di Melchisedech” (sul tema, cfr. la nota - in occasione del FESTIVAL DI FILOSOFIA - su MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”).
Per chi è diventato come Cristo, un nuovo re di giustizia e un nuovo sacerdote, non resta che denunciare tutta la falsità (con CATONE, "Cristo" del Logos antico - oltre: non della donazione, ma) delle fondamenta stesse dell’intera costruzione teologico-politica della Chiesa di Costantino - e ri-indicare la direzione eu-angélica a tutti gli esseri umani, a tutta l’umanità!!!
Per sé e per tutti gli esseri umani, Dante ha ri-trovato la strada: ha saputo valicare Scilla e Cariddi, andare oltre le colonne d’Ercole ... e non restare all’inferno! La memoria del mondo (Calvino) è stata ri-conquistata! In principio era il Logos - identità e differenza: ha ri-capito il cerchio della vita e delle generazioni e ha ri-trovato tutto e tutti, e Lucìa - Gemma. Maria Antonia, la figlia di Dante e Gemma, diviene suora: prende il nome di BEATRICE ...
E’ il tempo di Giovanni XXII, e del Cardinale Del Poggetto. Firenze ha condannato Dante all’esilio perpetuo, la Chiesa lo condanna a morte per eresia - si brucia la “Monarchia”, si vogliono bruciare le sue ossa ... Ma la memoria non si perde e il filo non si interrompe: “Amore è più forte di Morte” (Cantico dei cantici: 8.6 - trad. di G. Garbini)!!! Manzoni aveva intuito e, forse, sapeva; e - come Dante - si rimette in cammino e cerca di ritrovare la strada: Renzo e Lucia - I Promessi Sposi!!!
Anche il cardinale Roncalli sicuramente ricordava: divenuto papa, prenderà il nome di Giovanni XXIII ... e cercherà di correre ai ripari. Una nuova Chiesa, per credenti e non-credenti, che sappia essere finalmente, “Mater et Magistra” ... come la Maria di Gesù e la Beatrice di Dante! “Pacem in terris”: un nuovo Concilio, subito!!!
Tuttavia, dentro la Chiesa, si capisce e non si capisce, si vuole e non si vuole camminare sulla diritta via!!! Le tentazioni sono molte: ma “Maria - Beatrice” rimprovera e sollecita. Il cuore di Wojtyla risponde - Assisi, 1986!!! - ma subito la sua testa viene ‘imprigionata’ da tutta la gerarchia del ‘sacro romano impero’!. Tuttavia, dall’inizio alla fine ha lottato, come un leone. Basta: “lasciatemi andare”!!! Egli sapeva dell’ Italia - il giardino dell’ Impero, della “Monarchia” di Dante. Non a caso, grande è stata la sua amicizia con Carlo Azeglio Ciampi, il nostro Presidente della Repubblica - egli sapeva che la Costituzione della Repubblica Italiana era ed è la nostra “Bibbia civile”. Pater et Magister!
W O ITALY ... Dopo di lui, in Vaticano, è tornata la confusione, la paura, e la volontà di potenza e di dominio. Un delirio grande, al di qua e al di là del Tevere, ma La Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti è sana e robusta ... Dante è riascoltato a Firenze, come in tutta Italia - e nel mondo. Anche nel Pakistan - memori del “Poema Celeste” (Mohammed Iqbal) - la Commedia non è stata dimenticata!!!
*
Questa è la proposta di lavoro - una indicazione ’comica’: un ‘piccolo’ lavoro di spostamento delle relazioni dei ‘pezzi’ - e l’intero mosaico dell’opera, forse, porterà alla luce significati sorprendenti. Una Vita Nuova, per l’Italia e per la Terra? Boh?!
Nel frattempo, e già, non possiamo che cominciare a pensarci e a ri-prendere la ‘relazione’ del viaggio dantesco, per ri-considerare di nuovo e meglio le nostre amorose radici ... cosmicomiche - non cosmitragiche! Italo Calvino aveva perfettamente ragione, contro tutti i fondamentalismi terrestri - e celesti!!! Via, ri-prendiamo: ri-iniziamo ... Oh! La Commedia, finalmente! (12.09.2006).
Federico La Sala
La domenica di Ratzinger e la "domenica della vita" di Hegel. Una nota di Gianni Vattimo
AL DI LA’ DELLA FALLACIA DELL’ACCIDENTE, UN NUOVO PARADIGMA. Due soli in Terra e il Sole del Giusto Amore (“Karitas seu recta dilectio”) in cielo. La nuova "Unità di Misura" della "Monarchia" di Dante
IL GRANDE BALZO DI DANTE ALIGHIERI, NEL NOSTRO PRESENTE: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE.!!! AL DI LA’ DI PLATONE E DI ARISTOTELE, E DI HEGEL, SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO MA, IMPLICITAMENTE, ANCHE SUL PIANO ANTROPOLOGICO.
A.
Monarchia, I. 11:
[...] ora il Monarca non ha più nulla da desiderare, poiché la sua giurisdizione è limitata soltanto dall’oceano (il che non si verifica per gli altri prìncipi i cui dominii confinano con altri dominii, come, per es., quello del re di Castiglia, che confina con quello del re di Aragona); quindi il Monarca, tra tutti gli uomini, è il soggetto di giustizia più esente da ogni cupidigia.
Inoltre, come la cupidigia, per quanto piccola sia, offusca l’abito della giustizia, così la carità, cioè il retto amore, lo rende più forte e più illuminato. Perciò, la persona che è capace di raggiungere il più alto grado di retto amore può attingere il massimo livello di giustizia; ora, questa persona è il monarca; quindi, con il monarca si instaura, o può instaurarsi, il massimo di giustizia. Che poi il retto amore produca tali effetti si può dedurre dal fatto che la cupidigia, spregiando il Bene supremo degli uomini, cerca altri beni, mentre la carità, spregiando tutti gli altri beni, cerca Dio e l’uomo, e di conseguenza il vero bene dell’uomo.
E siccome, fra tutti i beni dell’uomo, grandissimo è quello di vivere in pace, come si è detto sopra, e questo bene si raggiunge principalmente ed essenzialmente attraverso la giustizia, questa riceverà grandissimo vigore dalla carità, e tanto più quanto più quest’ultima sarà intensa. Che poi nel monarca debba trovarsi in sommo grado il retto amore degli uomini si dimostra nel modo seguente: ogni oggetto amabile è tanto più amato quanto più è vicino a chi l’ama; ora gli uomini sono più vicini al monarca che agli altri principi; quindi essi sono o debbono essere amati dal monarca più che da ogni altro.
La premessa maggiore è evidente se si considera la natura degli agenti e dei pazienti; la minore è dimostrata dal fatto che agli altri prìncipi gli uomini sono vicini solo in parte, al monarca invece nella loro totalità. Si aggiunga che gli uomini si avvicinano agli altri prìncipi attraverso il monarca e non viceversa, e quindi la cura del monarca verso tutti gli uomini è originaria ed immediata, mentre quella degli altri prìncipi passa attraverso la mediazione del monarca in quanto deriva dalla sua cura suprema. Inoltre, quanto più una causa è universale, tanto più è causa (la causa inferiore infatti non è causa se non in forza di quella superiore, come risulta dal libro «Delle cause»), e quanto più una causa è causa, tanto più ama il suo effetto, poiché tale amore è conseguenza diretta dell’essere causa; ora, il monarca è, tra gli uomini, la causa più universale del loro ben vivere (mentre gli altri prìncipi sono causa attraverso la mediazione del monarca, come si è detto); quindi il monarca ama il bene degli uomini più di ogni altro.
[Per il secondo punto], chi potrebbe mettere in dubbio che il monarca abbia il massimo potere per attuare la giustizia se non colui che non intende che cosa significhi quel nome? Se egli infatti è effettivamente monarca, non può avere nemici. E così è stata sufficientemente dimostrata la premessa minore del sillogismo principale, e pertanto è certa la conclusione che la monarchia è necessaria per un perfetto ordinamento del mondo. trad. di Pio Gaja
B.
MONARCHIA, III. 11:
Gli avversari portano poi un argomento di ragione. Utilizzando infatti un principio del decimo libro della Metafisica, essi argomentano così:
tutti gli esseri appartenenti ad uno stesso genere si riconducono ad uno, che è misura di tutti gli altri inclusi in quel genere;
ora tutti gli uomini appartengono allo stesso genere;
quindi vanno ricondotti ad uno come misura di tutti quanti.
Se questa conclusione è vera, il Sommo Pontefice e l’Imperatore, essendo uomini, vanno ricondotti ad un solo uomo. Ma poiché non è possibile ricondurre il Papa ad altri, resta che l’Imperatore, insieme a tutti gli altri uomini, deve essere ricondotto al Papa come misura e regola; e così anche con questo ragionamento arrivano alla conclusione da essi voluta.
Per confutare tale ragionamento, ammetto come vera la loro affermazione che «tutti gli esseri appartenenti allo stesso genere debbono ricondursi ad un essere di quel genere, che, nell’ambito di questo, costituisce la misura»; come pure è vera l’affermazione che tutti gli uomini appartengono ad un medesimo genere; ed è vera altresì la conclusione ricavata da tale premessa, che cioè tutti gli uomini vanno ricondotti ad un’unica misura nell’ambito del loro genere. Ma quando da questa conclusione essi inferiscono la conseguenza applicativa nei confronti del Papa e dell’Imperatore, incorrono nella fallacia dell’accidente.
Per afferrare bene questo bisogna tener presente che una cosa è essere uomo e un’altra essere Papa, come d’altra parte una cosa è essere uomo e un’altra essere Imperatore, così come una cosa è essere uomo e un’altra essere padre e signore.
L’uomo infatti è quello che è per la sua forma sostanziale, in forza della quale rientra in una specie e in un genere, ed è posto nella categoria della sostanza; il padre invece è tale per una forma accidentale che è la relazione, per la quale rientra in una specie e in un genere particolari, ed è posto nella categoria dell’«ad aliquid», cioè della «relazione». Se così non fosse, tutto si ricondurrebbe - ma ciò è falso - alla categoria della sostanza, dal momento che nessuna forma accidentale può sussistere per se stessa senza il supporto di una sostanza sussistente.
Pertanto Papa e Imperatore essendo ciò che sono in forza di certe relazioni (quelle appunto dell’autorità papale e dell’autorità imperiale, la prima delle quali rientra nell’ambito della paternità e l’altra nell’ambito del dominio), è chiaro che Papa e Imperatore, in quanto tali, devono essere posti nella categoria della relazione e quindi essere ricondotti ad un elemento rientrante in tale categoria. Quindi affermo che altra è la misura cui debbono essere ricondotti in quanto uomini, ed altra in quanto Papa e Imperatore.
Infatti, in quanto uomini, vanno ricondotti all’uomo perfetto (che è misura di tutti gli altri e, per così dire, loro modello ideale, chiunque esso sia), come a quello che è sommamente uno nel suo genere, come si può rilevare dai capitoli finali dell’Etica a Nicomaco. Invece, in quanto sono termini di relazione, allora, com’è evidente, o vanno ricondotti l’uno all’altro (se l’uno è subalterno all’altro o se sono accomunati nella specie per la natura della relazione), oppure ad un terzo elemento come alla loro comune unità.
Ora, non si può affermare che uno sia subalterno all’altro, poiché, in tale caso, l’uno si predicherebbe dell’altro, il che è falso (noi infatti non diciamo che l’Imperatore è Papa e nemmeno viceversa); e neppure si può affermare che siano accomunati nella specie, in quanto l’essenza formale di Papa è diversa da quella di Imperatore in quanto tale. Quindi si riconducono a qualcos’altro, in cui devono trovare la loro unità.
A questo proposito bisogna tener presente che i soggetti delle relazioni stanno tra di loro come le rispettive relazioni. Ora quelle particolari relazioni d’autorità che sono il Papato e l’Impero vanno ricondotte ad una [suprema] relazione d’autorità, da cui quelle discendono con le loro determinazioni particolari; quindi i soggetti di quelle relazioni, cioè il Papa e l’Imperatore, andranno anch’essi ricondotti a qualche soggetto unitario che realizzi la relazione d’autorità nella sua essenza formale, al di fuori di ogni determinazione particolare.
E questo soggetto unitario sarà o Dio stesso, in cui tutte le relazioni particolari trovano la loro unificazione assoluta, oppure una qualche sostanza inferiore a Dio, nella quale la relazione d’autorità, che proviene da quella relazione assoluta, si particolarizza attraverso una differenziazione nel grado d’autorità. E così diventa chiaro che Papa e Imperatore, in quanto uomini, vanno ricondotti ad un elemento comune, mentre, in quanto formalmente Papa e Imperatore, ad un elemento comune diverso. Attraverso questa distinzione si risponde all’argomento di ragione [portato dagli avversari].(traduzione di Pio Gaja)
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di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Nel 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza ...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)? O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” e “Mammona” o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ... e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemlea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
Se anche parlerò le lingue degli uomini e degli angeli, e non avrò l’Amore (Agape - Charitas), sarò simile ad echeggiante bronzo.... cfr., sul sito:
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di Fachinelli.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
ALLEGATI:
I
Divina Commedia:Inferno,Canto II.
Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno
toglieva li animai che sono in terra
3 da le fatiche loro; e io sol uno
m’apparecchiava a sostener la guerra
sì delcammino e sì de la pietate,
6cheritrarrà la mente che non erra.
O muse, o alto ingegno, or m’aiutate;
o mente che scrivesti ciò ch’io vidi,
9 qui si parrà la tuanobilitate.
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
12 prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
15secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogne male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
18 ch’uscir dovea di lui, e ’l chi e ’l quale
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu de l’alma Roma e di suo impero
21ne l’empireo ciel per padre eletto:
la qualee’lquale,a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
24 u’siede il successor del maggior Piero.
Per quest’andata onde li dai tuvanto,
intese coseche furon cagione
27 di sua vittoria e del papale ammanto.
Andovvi poi lo Vas d’elezïone,
per recarne conforto a quella fede
30 ch’è principio a la via di salvazione.
Ma io perché venirvi? o chi ’l concede?
Io non Enëa, io non Paulo sono:
33 me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
36 Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono».
E qual è quei che disvuol ciò che volle
e per novi pensier cangia proposta,
39sì che dal cominciar tutto si tolle,
tal mi fec’ïo ’n quella oscura costa,
perché, pensando, consumai la ’mpresa
42 che fu nel cominciar cotanto tosta.
«S’i’ ho ben la parola tua intesa»,
rispuose del magnanimo quell’ombra,
45 «l’anima tua è da viltade offesa;
la qual molte fïate l’omo ingombra
sì che d’onrata impresa lo rivolve,
48 come falso veder bestia quand’ombra.
Da questa tema acciò che tu ti solve,
dirotti perch’io venni e quel ch’io ’ntesi
51 nel primo punto che di te mi dolve.
Io era tra color che son sospesi,
e donna mi chiamò BEATA e BELLA,
54 tal che di comandare io la richiesi.
Lucevan li occhi suoi più che la stella;
e cominciommi a dir soave e piana,
57 con angelica voce, in sua favella:
"O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
60 e durerà quanto ’l mondo lontana,
l’amico mio, e non de la ventura,
ne la diserta piaggia è impedito
63 sì nel cammin, che vòlt’è per paura;
e temo che non sia già sì smarrito,
ch’io mi sia tardi al soccorso levata,
66 per quel ch’i’ ho di lui nel cielo udito.
Or movi, e con la tua parola ornata,
e con ciò c’ha mestieri al suo campare,
69 l’aiuta, sì ch’i’ ne sia consolata.
I’ son BEATRICE che ti faccio andare;
vegno del loco ove tornar disio:
72 amor mi mosse, che mi fa parlare.
Quando sarò dinanzi al segnor mio,
di te mi loderò sovente a lui".
75 Tacette allora, e poi comincia’ io:
"O donna di virtù sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
78 di quel ciel c’ha minor li cerchi sui,
tanto m’aggrada il tuo comandamento,
che l’ubidir, se già fosse, m’è tardi;
81 più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento.
Ma dimmi la cagion che non ti guardi
de lo scender qua giuso in questo centro
84 de l’ampio loco ove tornar tu ardi".
"Da che tu vuo’ saver cotanto a dentro,
dirotti brievemente", mi rispuose,
87 "perch’i’ non temo di venir qua entro.
Temer si dee di sole quelle cose
c’hanno potenza di fare altrui male;
90 de l’altre no, ché non son paurose.
I’ son fatta da Dio, sua mercé, tale,
che la vostra miseria non mi tange,
93 né fiamma d’esto ’ncendio non m’assale.
Donna è gentil nel ciel che si compiange
di questo ’mpedimento ov’io ti mando,
96 sì che duro giudicio là sù frange.
Questa chiese Lucia in suo dimando
e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
99 di te, e io a te lo raccomando -.
Lucia, nimica di ciascun crudele,
si mosse, e venne al loco dov’i’ era,
102 che mi sedea con l’antica Rachele.
Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
ché non soccorri quei che t’amò tanto,
105 ch’uscì per te de la volgare schiera?
Non odi tu la pieta del suo pianto,
non vedi tu la morte che ’l combatte
108 su la fiumana ove ’l mar non ha vanto? -
Al mondo non fur mai persone ratte
a far lor pro o a fuggir lor danno,
111 com’io, dopo cotai parole fatte,
venni qua giù del mio beato scanno,
fidandomi del tuo parlare onesto,
114 ch’onora te e quei ch’udito l’hanno".
Poscia che m’ebbe ragionato questo,
li occhi lucenti lagrimando volse;
117 per che mi fece del venir più presto.
E venni a te così com’ella volse;
d’inanzi a quella fiera ti levai
120 che del bel monte il corto andar ti tolse.
Dunque: che è? perché, perché restai,
perché tanta viltà nel core allette,
123 perché ardire e franchezza non hai,
poscia che tai tre donne benedette
curan di te ne la corte del cielo,
126 e ’l mio parlar tanto ben ti promette?»
Quali fioretti, dal notturno gelo
chinati e chiusi, poi che ’l sol li ’mbianca
129 si drizzan tutti aperti in loro stelo,
tal mi fec’io di mia virtude stanca,
e tanto buono ardire al cor mi corse,
132 ch’i’ cominciai come persona franca:
«Oh pietosa colei che mi soccorse!
e te cortese ch’ubidisti tosto
135 a le vere parole che ti porse!
Tu m’hai con disiderio il cor disposto
sì al venir con le parole tue,
138 ch’i’ son tornato nel primo proposto.
Or va, ch’un sol volere è d’ambedue:
tu duca, tu segnore, e tu maestro».
Così li dissi; e poi che mosso fue,
142 intrai per lo cammino alto e silvestro.
II
Abiura di Galileo Galilei
Letta il 22 giugno 1633
Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il sole sia centro del mondo e imobile e che la terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.
Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani.
Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633.
Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA CRITICA DEL MESSAGGIO EVANGELICO NELLE OPERE DI #SHAKESPEARE:
"L’AMORE NON E’ LO ZIMBELLO DEL TEMPO (SONETTO116). *
Una nota a margine del lavoro in progress di Paul Adrian Fried ("San Paolo e la dodicesima notte", 02 febbraio 2025)
"AMORE E’ PIU’ FORTE DI MORTE" ("Cantico dei cantici", 8.6). Alla luce delle #ipotesi di lettura, proposte e fatte, dell’opere di Shakespeare, in particolare, dell’ "#Amleto" e di "La #dodicesima #notte"*, come già molti altri autorevoli interpreti (rileggere almeno i "#maestridelsospetto": a partire da #Rousseau e #Kant, #Marx, #Nietzsche, e #Freud) hanno spesso avanzato, l’interpretazione paolina del #cristianesimo appare essere storicamente come una forma e una prosecuzione del "compromesso olimpico" con la tradizione tragica socratico-platonica.
La linea di teologia-politica cosmoteandrica costantiniana (Concilio di #Nicea, 325 -2025) della Chiesa cattolico-paolina, se pure viene messa profondamente in discussione dalla "Prima Rinascita" (#GioacchinodaFiore, #FrancescodiAssisi, e #DanteAlighieri), trova un suo momento cruciale di riaffermazione del #platonismo della "dotta ignoranza" (1440) e della "pace della fede" (1453) del cardinale #Cusano: a #Lepanto (1571), non a caso, si andrà con lo stendardo con la scritta costantiniana "IN HOC SIGNO VINCES" (in "barba" a Gioacchino da Fiore, Francesco di Assisi, Dante Alighieri... e dello stesso #Virgilio).
Come aveva ben messo in evidenza Johan Huizinga, "L’#autunno del Medioevo" (1919), era finito e cominciava l’#inferno della cosiddetta #Modernità. Non è bene e meglio riprendere a leggere Shakespeare e riaprire la "divina commedia" di Dante Alighieri (#Dantedì, #25marzo 2025), e ammirare l’#alba della Terra: #Earthrise...
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PIANETA TERRA: "IL NOME DELLA ROSA" E LA DEVASTAZIONE DEL "GIARDINO". LA "TRAGEDIA" DEL PRINCIPE "AMLETO" E LA "#COMMEDIA" DEGLI "IMBROGLI" DELLA "DODICESIMA NOTTE", PRIMA DELLA "EPIFANIA")
"VERE DUO IN CARNE UNA": PER UNA STORIA CRITICA DELL’ARITMETICA E DELLA GEOMETRIA DELLA "SOLITUDINE".... E DEL "CONTRATTO #SOCIALE" TEOLOGICO-POLITICO DEL TRAGICO "PREISTORICO" PRESENTE,
RIPRENDERE IL #PROGRAMMA DI KANT (CON BERNHARD #RIEMANN E HERMANN VON #HELMHOLTZ) *
RICORDANDO (E RICORDATO) CHE JEAN PAUL RICHTER, sulla strada di Jean - Jacques Rousseau, precisa e chiarisce (prima di tanti altri e di tante altre) che "PER MANCANZA DEL DUE NON [SI] PUO’ CONTARE FINO A UNO" ("Levana, 1807), sia opportuno fondamentale uscire dall’orizzonte del "#solipsismo" (e del #narcisismo edipico-tragico della "#cosmoteandria" teologico-politica) e ACCOGLIERE L’INDICAZIONE E LA LEZIONE DI #VITTORIO #MATHIEU:
OGNI ESSERE UMANO E’ UN "DUE IN UNO". SU QUESTA STRADA DI "UN SOGGETTO ATTIVO E RECETTIVO", si comprende come Kant abbia potuto aprire (così ULISSE E DANTE) la porta della caverna polifemica e platonico-paolina, comprendere le ragioni stesse della "#Claustrofilia (E. Fachinelli, 1983), e, con e oltre Newton, portarsi "sulla spiaggia" (E. Fachinelli, 1985), e offrire la chiave per un ri-orientamento gestaltico e antropologico, e, al contempo, per una ri-comprensione del #partorire, del nascere, e del rinascere (Federico LA Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", 1991).
* SUL "VERE DUO IN CARNE UNA". NOTE SUL PROGRAMMA DI KANT, mi sia lecito, cfr. il primo capitolo di un mio lavoro del 2010: Federico LA Sala, "KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE" ).
"DOTTA IGNORANZA" (1440) E "DE BERYLLO" (1458).
Una nota a margine del "Ritratto dei coniugi Arnolfini" del pittore fiammingo Jan van Eyck (1434).
Arte, Antropologia, Filosofia e Scienza nello "Occhio ("Specchio") polifemico e tragico di Niccolò Cusano (il cardinale Nicola di Kues ).
"VEDERE COME IN UNO SPECCHIO, IN MANIERA CONFUSA" (1 Cor. XIII, 12). A ben analizzare l’opera il "Ritratto dei coniugi Arnolfini" del pittore fiammingo Jan van #Eyck, realizzato nel 1434 (come sollecita a fare Vincent De Luise , in "SPECULUM SINE MACULA: The Eye behind the Mirror in the Arnolfini Double Portrait"), il senso che emerge appare essere (come del resto è storicamente) una apologia della "dotta ignoranza" della tradizione socratica, una astuzia della cosmoteandria platonica e paolina (cfr. Cusano, "De Beryllo", i capp. XIV e XV), molto lontana dallo spirito della tradizione evangelica (e dall’ idea di "sacra famiglia" di memoria francescana), e, ovviamente, anche da una logica della ricerca scientifica antropologicamente fondata!
A mio parere, accogliendo il contributo di Vincent de Luise, si tratta storiograficamente di riconsiderare l’analisi di Scott Horton ("Cusano e Van Eyck: l’occhio dietro lo specchio") e "capovolgere" il senso della interpretazione del suo stesso lavoro.
Come, ad aprire gli occhi, ben aiuta a capire Johan Huizinga, siamo storicamente alla fine della "Prima #Rinascita" (Gioacchino da Fiore, Francesco di Assisi, e Dante Alighieri), all’ "Autunno del Medioevo" (1919), all’inizio dell’ inverno del cosiddetto "Rinascimento", avviato dallo "straordinario" programma teologico-politico di Filippo il Buono di Borgogna, con la sua fondazione dell’ordine del "Toson d’oro" (o, meglio, del "#Vitello d’oro"), ripreso e rilanciato poi "alla grande" da Massimiliano I d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero e CarloV d’Asburgo.
STORIA FILOSOFIA E LETTERATURA E STORIOGRAFIA: UNA IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA" (2007)
DANTE. ALLE ORIGINI DEL MODERNO *
Dante corsaro
Modernità di Dante di Giacomo Marramao
di Chiara Scarlato (FataMorgana Web, - 16 Dicembre 2024)
Sono ormai ampiamente percorse le ragioni che portano la teoresi filosofica a ricorrere, quasi di necessità, al confronto con una serie di campi altri di applicazione grazie ai quali la filosofia stessa può trarre un vantaggio nell’esemplificazione concreta di concetti e idee che resterebbero altrimenti ancorati a un piano distaccato dalla realtà materiale e concreta. Alla luce di questa necessità o bisogno, spesso, il pensiero filosofico si è rivolto a un linguaggio differente dal suo (si pensi al ricorso al linguaggio letterario o, più genericamente, artistico) allo scopo altresì di favorire il passaggio da uno scenario teorico unico alla costruzione di un immaginario di stampo plurale. Una simile attitudine è riscontrabile nel volume Modernità di Dante (Bollati Boringhieri, 2024), che Giacomo Marramao ha dedicato al “sommo poeta”, elaborando al suo interno alcune fondamentali idee teoriche utili per riflettere sull’articolazione tra linguaggio e politica, pur mantenendo aperto lo sfondo di problematizzazione all’interno del quale vengono affrontati alcuni temi dirimenti per la contemporaneità quali il ruolo e la funzione dell’essere umano nel mondo a partire dalla sua dimensione di azione quale singolo individuo.
L’operazione compiuta in Modernità di Dante - che, per molti aspetti, è analoga anche a quanto da Marramao proposto in Pasolini inattuale. Corpo, potere, tempo (2022) - assume uno specifico valore teoretico poiché, ponendo al centro l’esperienza di un particolare essere umano (in questo caso Dante ma, come si è appena ricordato, lo stesso vale anche per Pasolini), intende mettere a tema i modi in cui, sia con la scrittura sia con il corpo, si ha l’opportunità di esercitare una forma di resistenza nei confronti del mondo. Questa forma di resistenza riguarda tanto un piano formale quanto un livello concreto di applicazione, dacché non si può sperare di intervenire sul presente senza unire le parole alle azioni rendendo, in certo senso, tali parole effettive grazie a una serie di gesti concreti che, per mutuare un termine del lessico pasoliniano, sono gesti corsari. Gesti corsari capaci di convogliare l’attenzione su questioni che, pur essendo originate da una riflessione sul presente, aprono squarci su un tempo a venire che risulta, pertanto, inatteso nella sua esposizione. Da qui deriva il carattere di modernità di autori come Dante e come Pasolini, tra gli altri.
L’accostamento tra Dante e Pasolini è stato in certo modo abilitato dallo stesso Pasolini che instaura un dialogo a distanza con Dante componendo la sua divina mimesis (progetto avviato nel 1963, mai completato e pubblicato, per volere dello stesso Pasolini, nel 1975) in cui l’Inferno del neocapitalismo si impone con le sue storture di fronte al presentarsi di due domande: «Chi può segnare il momento in cui la ragione comincia a dormire o, meglio, a desiderare la propria fine? Chi può determinare le circostanze in cui essa comincia a uscire, o a tornare là dove non era ragione, abbandonando la strada che per tanti anni aveva creduto giusta, per passione, per ingenuità, per conformismo?» (Pasolini 2011, p. 17). Le questioni chiariscono in modo limpido le due istanze che si trovano alla base di ogni tentativo di comprensione del reale a partire dalla mediazione di un pensiero altro, riproducendo un meccanismo analogo a quello in atto nella congiunzione della filosofia alla letteratura, che rimanda inevitabilmente all’oscillazione della loro disgiunzione. Dal presente attuale al presente possibile, dalla ragione alla disragione per poi tornare, ancora una volta, al presente ma con uno sguardo differente. Ecco allora che Pasolini sembra tradurre quel sentimento corsaro che lo accomuna allo spirito dantesco: l’essere naufrago per aggrapparsi di nuovo e ancora al mondo ma con l’innocenza sporcata dalla consapevolezza di essere parte di quel mondo e non di un altro.
Nella rotta tracciata da un corpo approdato dal mare a una terra sconosciuta si può collocare anche l’operazione che Marramao compie su Dante, articolando il suo percorso in due momenti: il primo rivolto a un’esplorazione del concetto di “Politico” a partire da un attraversamento di opere come il De monarchia, il Convivio e la Commedia; il secondo consistente in un lavoro di accostamento critico tra le visioni di Dante e Machiavelli intorno alla questione politica. La posizione centrale che la politica (o il Politico) - come questione, problema e tema - occupa all’interno del testo è sintomatica del progetto di osservare non solo la modernità di un autore, bensì il valore che tale pensiero assume per la nostra stessa contemporaneità. Anche per questa ragione alla base del primo studio sta la proposta di osservare Dante come antesignano dell’autonomia del Politico a partire dall’ipotesi che il De Monarchia sia una prolessi della Commedia, tracciando l’una e l’altra un virtuoso rapporto di complementarità che per Marramao lascia «emergere la dimensione poetica come un viaggio attraverso i molteplici “corpi” dell’esperienza: corpo linguistico, corpo umano, corpo politico, corpo celeste» (ivi, pos. 20).
I quattro corpi - che rimandano rispettivamente al linguaggio, all’esistenza, alla dimensione del mondo e alla dimensione ultraterrena - sono anche indicatori dei diversi piani in cui tale autonomia trova la sua realizzazione. In particolare, stando alla prospettiva delineata dal testo, la modernità di Dante sta nella «netta distinzione tra la finalità teologica della salvezza e l’obiettivo politico della felicità» delle quali la prima si aggancia «ai percorsi di vita individuali, l’altra alla dimensione collettiva e alla vita della comunità» (ivi, pos. 18). L’autonomia politica dell’individuo getta, di conseguenza, nuova luce anche sulle nozioni di umano e umanità fino a condurre di fronte alla scelta radicale di pensare che «i principi etici e filosofici degli antichi» fossero «sufficienti alla realizzazione del fine politico della pace e della felicità terrena» (ivi, pos. 25), scelta rivendicata, per Marramao, anche dalla decisione dantesca di collocare Catone l’Uticense a custodia del Purgatorio.
In quest’ottica vi è una distinzione tra politica e fede che si mantiene inalterata con l’eccezione unica dell’idea di plenitudo temporum in cui le due si congiungono per la realizzazione dell’eschaton, il momento dell’avvento di Cristo che rimanda a «una pienezza dei tempi che non ha nulla a che fare con una promessa messianica, bensì piuttosto con un evento già accaduto nella storia, ma di tale portata da determinare un punto di non ritorno nel viaggio dell’umanità» (ivi, pos. 37). Ciò significa che l’autonomia del Politico non esclude una visione teologica del mondo, bensì individua due diversi piani di realizzazione in base alle dimensioni di riferimento: da un lato la felicità terrena, dall’altro la beatitudine celeste; da un lato i principi della filosofia, dall’altro i precetti della religione; da un lato il «destino del Comune», dall’altro «quello del Singolare, che rappresentava, per Dante, la sola via per affermare, nell’autunno del Medioevo, la radicale autonomia del Politico» (ivi, pos. 39). La modernità del gesto di Dante sta allora, in questo caso, nello sforzo di pensare una distinzione tra ciò che era canonicamente riunito in un unico e solo sfondo di riferimento. In senso analogo è operato il confronto tra Dante e Machiavelli che occupa la seconda parte del testo.
Obiettivo principale di tale lettura comparativa è superare la dicotomia tra «un Dante immerso nella spiritualità medievale a fronte di un Machiavelli cinico realista» (ivi, pos. 42). A tal fine, Marramao evoca il concetto di dignitas che si trova alla base dell’umanesimo dantesco e dell’“umanesimo tragico” machiavelliano che, a partire dall’autonomia del Politico del primo, opera una ridefinizione ampia e radicale della nozione di politica concepita «concepita come un’anomalia tassonomica: come il diagramma di un plesso dinamico capace di tenere insieme due opposti» (ivi, pos. 48). Entro tale prospettiva, si delinea anche un’apertura rispetto a quanto si diceva in merito alla congiunzione/disgiunzione tra un pensiero filosofico e un pensiero altro o, meglio, sulla tensione che conduce il pensiero necessariamente di fronte a una pratica. In questo caso, è dirimente quanto Marramao scrive in merito al fatto che la «politica non innova mai, se non a partire da un rivolgimento culturale dei linguaggi: del linguaggio della scrittura come del linguaggio del teatro e della musica, del linguaggio dell’arte come del linguaggio della scienza, del linguaggio della poesia come del linguaggio dei corpi» (ivi, pos. 55).
Ed è questo l’aspetto sul quale occorre concentrarsi per capire appieno il senso di una modernità capace ancora oggi di offrire strumenti per rinnovare un sistema di pensiero. Se, riprendendo quanto scrive Gilbert in merito a Machiavelli, sono poche le persone che, «dopo aver guardato dritto in faccia che cosa sia l’uomo nella realtà, siano state capaci di attenersi a quanto hanno visto e non si siano rifugiate nel sogno di quello che l’uomo dovrebbe essere» (1977, p. 245), allora il punto è riuscire a risalire la china seguendo la rotta tracciata da quel pensiero corsaro che - di volta in volta - occorre convocare per rendere effettiva ogni pratica di rivoluzione.
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FLS
FILOLOGIA STORIOGRAFIA E CRITICA:
"GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"]: LA "DIVINA COMMEDIA", A PARTIRE DAL CANTO XXVII DEL "PURGATORIO".
Il dolcissimo padre: la figura di Virgilio in Purgatorio XXVII
di Roberta Conte ("Caffé Letterario 2.0", 24 giugno 2015)
Nel viaggio dantesco molti personaggi hanno un’importanza significativa, ma se c’è chi ricopre in una sola persona il ruolo di guida, maestro e padre questo è Virgilio, ed è in Purgatorio XXVII che queste tre funzioni emergono distintamente, in maggior misura l’ultima.
Dante è arrivato quasi alla fine del suo cammino nel Purgatorio, in particolare nella settima e ultima cornice dove si trovano i lussuriosi. È mezzogiorno e viene incontro a lui, Virgilio e Stazio l’angelo della castità che avverte i tre della necessità di attraversare il muro di fuoco che hanno davanti, se vogliono proseguire verso la cima del monte; così, superate le fiamme giungono in prossimità della scala per iniziare la salita, ma il calare del sole li costringe a fermarsi e nella notte Dante sogna Lia, la moglie di Giacobbe, intenta a raccogliere fiori. Al mattino, una volta arrivati alla sommità della montagna Virgilio parla a Dante per l’ultima volta e, congedandosi, lo incorona imperatore di se stesso.
Virgilio in questo canto tiene per due volte discorsi visibilmente lunghi e in entrambi si mostra non solo guida, ma padre buono. Come ogni padre sprona il figlio ad andare avanti e tuttavia nel momento della prova, prima, e del saluto, poi, un’umana tenerezza per forza di cose compare. Avviene dunque così, quando il «dolce padre» (v. 52), nel primo discorso, caldeggia Dante a non aver timore del muro («Figliuol mio, / qui può esser tormento, ma non morte», vv. 20-21) e ad aver invece fiducia, spronandolo a tentare il fuoco con la sua stessa veste. Questa volta però la ragione non ne esce vittoriosa, se ne rende conto Dante stesso, capendo che la sua paura e il rimanere paralizzato davanti alle fiamme vanno «contra coscienza» (v. 33), e se ne adombra «un poco» (v. 35) pure Virgilio.
Quello che vive Dante è un vero e proprio dramma che si consuma nella scelta di fidarsi o meno del suo maestro: sa che può farlo ma non ne ha il coraggio (e in questo si manifesta l’uomo Dante con tutte le sue debolezze), ciò nonostante attraversare il fuoco è per lui un imperativo. Il muro è lo strumento di punizione dei lussuriosi, ma è anche una barriera da oltrepassare per raggiungere la sommità del monte: Dante, infatti, si sta portando sempre più vicino al Paradiso terrestre dove incontrerà Matelda.
Di questo limite da varcare «è segno l’umano dramma di Virgilio, che riconosce qui la sua impotenza, e cede di fatto a Beatrice [...] il posto fin qui tenuto accanto a Dante» che si rinfranca all’udire il nome della donna, quando Virgilio afferma: «Or vedi, figlio: / tra Beatrice e te è questo muro» (vv. 35-36).
Il prezioso richiamo al mito di Piramo e Tisbe fa intuire come il nome di Beatrice sia così vincente: lei è l’amore che permette, sopra ogni ragione, di superare il fuoco. Questo Virgilio lo sa, come sa anche di rivolgersi a un Dante nell’atteggiamento di un figlio timoroso e di fatto gli sorride «come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (v. 45) dopo che Dante, al nome della donna, «fatta solla» (v. 40) la sua rigidità, si volge verso di lui. Allo stesso modo in cui Piramo, in punto di morte, al sentire Tisbe verso di lei muove gli occhi.
Se si osserva ancora il testo, si comprende come il rapporto che viene esaltato di più in Purgatorio XXVII non sia, dunque, soltanto quello fra maestro e discepolo, ma soprattutto quello fra padre e figlio. Il secondo, infatti, sembra avere molti accenni anche nella veste linguistica del canto.
Dante si rivolge a Virgilio solo una volta con l’appellativo di padre («Lo dolce padre mio», v. 52); quando invece si riferisce a entrambe le guide, dunque includendo anche Stazio, le chiama «buone scorte» (v. 19) e «gran maestri» (v. 114), e anche nel momento in cui Virgilio fa un passo indietro per richiamarsi all’aiuto del nome di Beatrice, si rivolge a lui chiamandolo «savio duca» (v. 41), ancorché l’evocativa immagine dei pastori («tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori», vv. 85-86) ricorda come, nel senso cristiano del termine, il pastore sia guida ma, ancor di più, padre buono e amorevole.
Tuttavia è nelle parole di Virgilio che si palesano numerosi riferimenti al rapporto padre-figlio. Innanzitutto Virgilio chiama Dante figlio per ben tre volte (vv. 20, 35 e 128) e il comportamento paterno che ha nei suoi confronti viene evidenziato soprattutto quando lo stesso Dante vive una situazione infantile sottolineata, come ha notato bene Contini, dall’uso del pronome allocutorio di prima plurale («Volenci star di qua?», v. 44): in questo momento Virgilio si comporta appunto come un padre o comunque nell’atto di rivolgersi a un fanciullo, non a caso il plurale viene solitamente usato dagli adulti quando parlano a un bambino.
Lo stesso Virgilio poi, con premura paterna, lo accompagna «dentro al foco» (v. 46), prega Stazio di seguirli e conforta Dante, con una frase che non può non metterlo al riparo da qualsiasi dubbio, «Li occhi suoi già veder parmi» (v. 54) e così a queste parole il fanciullo, insieme con le guide, giunge al principio della salita.
Dante ha dunque superato questa grande prova e, tralasciando tutti i risvolti simbolici che possono far pensare al passaggio del muro come a un rito di purificazione, da compiersi prima di arrivare nei pressi dell’Eden, ciò che si può rilevare è che la scomparsa del terrore in Dante (tramutatosi in fermezza tramite l’intervento implicito di Beatrice) e l’arrivo dall’altra parte del fuoco siano stati possibili grazie alle parole di Virgilio.
Tuttavia, dei due discorsi tenuti da Virgilio è sicuramente il secondo quello che resta nella memoria di ogni lettore, ovvero quello del momento del saluto, in cui la sua figura trova compimento: ha ormai portato a termine il suo compito e ha guidato Dante come maestro e come padre. Siamo alla fine del canto, ancora prima del congedo anche il paesaggio e l’atmosfera preparano l’evento, le tenebre fuggono da tutti i lati (v. 112) e la luce del nuovo giorno accompagna le parole piene di speranza di Virgilio:
«Quel dolce pome che per tanti rami
cercando va la cura de’ mortali,
oggi porrà in pace le tue fami». (vv. 115-117)
Il dolce frutto è la metafora della felicità terrena verso la quale Dante si avvicina sempre di più e il cui raggiungimento sarà la sua piena realizzazione, ma non solo, queste parole hanno così tanta forza da spronarlo a continuare a salire, purtroppo però «dove Dante arriva, Virgilio deve tornare indietro».
Le ultime parole di Virgilio sono profonde come il suo sguardo («in me ficcò [...] li occhi», v. 126): sa che la sua missione è compiuta dicendo a Dante «se’ venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno», inoltre comprende l’impossibilità di proseguire per la sua condizione di abitatore del Limbo, ma è una consapevolezza che, giustamente osserva la Chiavacci Leonardi, non cede al sentimento personale e che dunque non manca di autorità. Adesso a Dante viene data totale responsabilità poiché «dritto e sano» (v. 140) è il suo arbitrio.
In definitiva, si può leggere il canto come un momento di formazione in cui il fanciullo Dante, presosi di ardire e avendo con sé l’insegnamento di Virgilio, va avanti per la sua strada non più accompagnato, ma con la padronanza di sé ricevuta dall’incoronazione da parte del padre-maestro di imperatore di se stesso («per ch’io te sovra te corono e mitrio», v. 142). C’è qualcun altro che lo aspetta dall’altra parte, l’amore che vince le barriere di fuoco: Beatrice.
*
LA "DIVINA COMMEDIA", A PARTIRE DAL CANTO XXVII DEL "PURGATORIO": "GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"].
"INCREDIBILE, MA VERO": CHE, DOPO LA LEZIONE EVANGELICA DI FRANCESCO DI ASSISI (GRECCIO, 1223: IL "PRESEPE" COME "MODELLO" ANTROPOLOGICO E TEOLGOGICO), E, ALLA LUCE DELLA ACCETTAZIONE E CONDIVISIONE DA PARTE DI DANTE ALIGHIERI DELLA FRANCESCANA "IMITAZIONE DI CRISTO", è soprendente che, ancora oggi (dopo la celebrazione del "Dante 2021" e l’istituzione del "25 Marzo" come giornata del "Dantedì"), si continui a negare la tradizione evangelica per la quale "Il cristiano è un altro Cristo" e a difendere la tradizione autoritaria e dogmatica della tradizione paolina che "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"]: ARRIVARE A PENSARE CHE Dante non "cantò" i "mosaici" dei "faraoni", ma diede conto e testimonianza della Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri", dell’’Amore che muove il Sole e le altre stelle, e sollecitò a porre fine allo "spettacolo" della "tragedia" del cattolicesimo costantiniano, è cosa ancora impensabile per la dottrina della "dotta ignoranza" (1440) e della "pace della fede" (1453), nonostante il lavoro di Lorenzo Valla?! Non è il caso di riorganizzare le idee e orientarsi meglio sul problema antropologico del come nascono i bambini e come è possibile recuperare la diritta via e rinascere a sé?!
Federico La Sala
MEMORIA POETICA, STORIOGRAFIA, E FILOLOGIA: "IL DANTE D(E)I #CAPRONI", "LES FLEURS DU MAL" DI BAUDELAIRE, E LE "TESI" DI WALTER BENJAMIN:
"[...] L’intreccio fra Dante, Leopardi, Baudelaire, Caproni, si fonda su un’immagine mentale, su un’icona emozionale: e l’alternativa «Enfer ou Ciel» sintetizza, annullandola immediatamente («qu’importe?»), l’opposizione fra «ire in giù» e «com’altrui piacque» [...].
Già in Baudelaire d’altronde si era costituita una fondamentale linea tematica di memoria poetante, in cui la Commedia esercita un ruolo che definirei di asse di rotazione. La lirica di chiusura delle Fleurs sembra davvero rileggere come in uno specchio la conclusione della Commedia. Baudelaire dovette avere luminoso negli occhi e nella memoria il fulgore, l’éclair della visione finale di Dante (così rendevano il vocabolo le versioni francesi del poema, e così anche Walter Benjamin tradurrà il verbo aufblitzen traducendo le sue Tesi di filosofia della storia, per indicare «il lampo in cui l’immagine dialettica balena») [...]"(cfr. #CorradoBologna, in «Tutti riceviamo
un dono». Giorgio Caproni trent’anni dopo, a cura di Corrado Bologna, EDIZIONI DELLA NORMALE, 2024 , pp. 148-149).
LETTERATURA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (KANT): QUALE "LEGAME" PER DANTE TRA BERNARDO DI CHIARAVALLE E FRANCESCO DI ASSISI?
CON LA #NAVE DI "#GIASONE" ("#DANTEALIGHIERI") E LA SUA #DIVINACOMMEDIA ("L’OMBRA D’#ARGO"), UN "INVITO" A PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DELLA "#CADUTA" E DELLA #TRAGEDIA... *
A MIO PARERE, LA #DIVINA COMMEDIA, IL PERCORSO DELL’ #AUTORE E DEL #PERSONAGGIO, #DANTE ALIGHIERI, E’ LA SUA "SALOMONICA" RISALITA ALLA #SORGENTE DELL’AMORE COSMOLOGICO E ANTROPOLOGICO, E, CON L’AIUTO DELLA #MEMORIA DI "#BERNARDO" ("GIUSEPPE") E "#BEATRICE" ("MARIA"), LA "EVANGELICA" RINASCITA DI SE’ STESSO, COME DI UN "ALTRO #CRISTO" (COME UN ALTRO FRANCESCO DI ASSISI).
OLTRE LA #COSMOTEANDRIA "ADAMITICA" ED "EDIPICA": "ECCE HOMO" ("#ANTHROPOS"). IL "VIAGGIO" DI DANTE E’ UN CHIARIMENTO ANTROPOLOGICO FONDAMENTALE SU COME SI DIVENTA CIO’ CHE OGNI #ESSEREUMANO E’, IL "FIGLIO", IL "CRISTO" (IL "CRISTIANO", LA "CRISTIANA") DEL "DIO" ("DEUS") DELL’AMORE ("CHARITAS") CHE "MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" (Dante, Par. XXXIII, 145): IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS.
NOTA:
STORIA E LETTERATURA: LA "BEATA E #BELLA" DONNA DI #DANTEALIGHIERI, LA #DIVINACOMMEDIA, E LA #FILOLOGIA "ROMANZA_TA".
A #ONORE E #MEMORIA DI #FRANCISCO #RICO, UNA NOTA A MARGINE DI UNA SUA INTERVISTA, APPARSA NEL 2017 SU "INSULA EUROPEA" A CURA DI ROBERTA #ALVITI:
RIFLETTENDO "sul canone dei suoi autori e maestri" (come sollecita a fare Carlo Pulsoni), forse, non è il caso di rimeditare sull’ importante affermazione relativa a uno dei suoi "maestri, il grande Giuseppe #Billanovich, [che] diceva che cercando bene, si sarebbero trovate perfino le #lettere di #Dante a #Beatrice..." (cit.)?! A partire da questo #abbaglio storiografico di lunga durata sulla figura della "donna #beata e bella" (Inf. II, 53), non è ora di pensarci su e mettere in discussione il "buon senso" con cui da sempre è stata attinta l’acqua alla #fonte del #Boccaccio e del #Petrarca?! A 700 aanni e più dalla morte di Dante, è ancora "lecito" condividere filologicamente del petrarchista Marco #Santagata (cfr. "Le donne di Dante", Il Mulino, 2021) l’idea di una giovane "Beatrice", come un «#manichino senza corpo», messa a confronto di una "#Laura", «personaggio pieno, sfaccettato»?! Non è il caso di svegliarsi dal #sonnodogmatico e uscire dall’orizzonte infernale, con l’aiuto del saggio "#Virgilio" e della #Bella "Beatrice"?!
NOTA:
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PACE PERPETUA" (#KANT2024):
A CHE #GIOGO GIOCHIAMO?! ANCORA ALLA "SPADA DI DAMOCLE"?!
RIPETIZIONE E DIFFERENZA: EUROPA 2024. Dopo millenni di #cosmoteandria, si ricorda ancora la lezione del vecchio dogmatico pro-ver-#dio "chi di spada ("gladio") ferisce, di spada ("gladio") perisce"?!
A quanto pare la filologia e la teologia-politica della #tragedia non sa nulla dell’#hamlet _ ica questione dell’#enigma (e della visione) del "#crepuscolo degli #idoli": «Come? L’uomo è soltanto un errore di Dio? O forse è Dio soltanto un errore dell’uomo?».
Nonostante la sollecitazione dell’ #EcceHomo (#Nietzsche, 1888) si continua a non aver il coraggio di fare buon uso della propria facoltà di giudizio ("#Sàpere aude!", #Koenigsberg 1784/ #Kaliningrad 2024) nulla del "buon messaggio" (Matteo 26,52) e, l’anno prossimo, ci si appresta a celebrare, l’imperatore cosmoteandrico, il figlio del dio Mammona, #Costantino (Nicea, 325-2025)?!
Non è forse meglio, per il #Dantedì, per il #25marzo, rileggere la "divina commedia", la fenomenologia dello spirito dei due Soli e cercare di uscire dall’orizzonte della tragica #caduta nel luciferino #buconero?!
STORIA E LETTERATURA ANTROPOLOGIA E "SAPERE AUDE!" (#KANT2024): CON #DANTE ALIGHIERI, OLTRE I "#BUCHI NERI" E I "BUCHI BIANCHI".
DIVINA COMMEDIA: "ULISSE", SEGUENDO LA LINEA DELLA CADUTA DI LUCIFERO, ESCE FUORI DALL’IMBUTO DELL’ INFERNO TERRESTRE E RIPRENDE LA NAVIGAZIONE NELL’OCEANO CELESTE. Alcuni appunti sul tema...
COLLOCANDOSI "Dentro l’orizzonte" di Carlo Rovelli, contrariamente a quanto egli pensa, a ben interpretare il suo convincimento relativo al fatto che, "Dopo aver salito la montagna del Purgatorio Dante perde Virgilio [la paterna guida], ma in quello stesso momento, travolto dall’emozione, vede apparire Beatrice - conosco i segni de l’antica fiamma!" (C. Rovelli, "Buchi bianchi", Adelphi 2023, pp. 74-75 ), forse, è opportuno e precisare (dopo secoli) che "conosco i segni dell’antica fiamma!" (Pg. XXX, 48) sono parole di un figlio, Dante, rivolte alla sua paterna guida (vv. 50-52: "Virgilio, dolcissimo patre, /Virgilio a cui per mia salute die’mi; né quantunque perdeo l’antica matre"), nel momento stesso in cui riconosce la "#bella e #beata" (Inf. II, 53), #Beatrice, la guida materna, e "vola al di là dello spazio e del tempo" (C. Rovelli, cit., p. 75).
A questo punto, al di là di quanto generalmente si è pensato e si pensa ancora, è bene riconoscere che "i segni della fiamma antica" non rimandano affatto a una #Didone-Beatrice, ma, più precisamente, a "#Ulisse", "Lo maggior corno della fiamma antica" (Inf. XXVI, 1), che in questo caso, accompagnato dal padre, riconosce e ritrova "la antica matre" (Eva) e la nuova #madre, la giovane #Maria-Beatrice, e... Sé stesso, divenuto un #altro #Cristo - antropologicamente e cristianamente (al di là della teandrica logica di #BonifacioVIII)!
DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, XXX, 55--57, 73-84:
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
[...]
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.
(Dante Alighieri, Purg. XXX, vv. 55-57, 73-84)
L’ #ODISSEA DI DANTE ALIGHIERI. Nella loro indagine scientifica e antropologica, "Il #Mulino d’#Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo" (Adelphi 1983 e 2003), Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, hanno già detto parole fondamentali sull’inaudito legame "cosmoteandrico" (antropologico, cosmologico, e teologico) nella visione e nella "scelta esistenziale dell’uomo Alighieri. I poeti non sanno custodire la loro verità. Ulisse che si mette in viaggio verso sud-ovest in un ultimo, disperato tentativo predestinato dall’ordine delle cose al fallimento, che cerca di raggiungere «il mondo sanza gente» e viene inghiottito dal gorgo in vista della meta: eccolo il simbolo. Ed è rivelato non dal pensiero cosciente del poeta, ma dalla potenza degli stessi versi, così incomparabilmente remoti, come luce proveniente da un «oggetto quasistellare». [...] egli fu colui che volle fino all’ultimo, anche contro Dio, acquistare esperienza e conoscenza. La sua nobiltà luciferina rimane nella nostra memoria più della suprema armonia dei cori celesti" (op. cit.).
***
B) - NUOVI ORIZZONTI LETTERARI. Né realismo né fantasie. Allo scrittore piace farlo strano: "[...] Sperduti nella selva. Il ‘900 si apre con la confessione di Kafka a Milena. Questi vorrebbe solo posare la guancia nel conforto luminoso e rasserenante, ordinario offerto della mano dell’innamorata, eppure egli avverte anche il continuo oscuro richiamo alla “selva, a questa origine, a questa vera patria”. Impossibile per un lettore italiano e non solo evitare la suggestione dell’avvio immaginativo di un altro padre fondatore della letteratura moderna, 600 anni prima. Anche Dante aveva preso le mosse dalla “selva”, luogo del traviamento, dell’informe, declinazione continentale del mare oscuro per generazioni di europei, passaggio di tutte le “incertezze della ioventude”, nelle sue stesse parole, ma anche luogo iniziatico delle avventure cavalleresche, dei loro bivi e sentieri ambigui. E, ovviamente, incipit di innumerevoli fiabe.
L’intera “Commedia” è una sorta di potatura, che per giungere alla purezza della Candida Rosa deve passare da un Giardino dell’Eden laddove Dante capisce che in fondo la selva era lui stesso (Purg. XXX, 118-20). Ma il carattere di sperimentazione e ibridazione permangono fino all’ultimo verso, nella sua perenne fusione di realismo, fantastico, teologia della storia, “quest” eroica, memoir proustiano e itinerario mistico-visionario. Un’operazione sperimentale, spiazzante persino a quei tempi. In essa è possibile ravvisare semi e fermenti che poi, al pari delle sentenze della Sibilla, si sparpagliano al vento, e ognuno afferra quel che riesce.
Per C. S. Lewis la scalata di Lucifero e l’inversione dei poli al centro della terra costituiva la prima grande scena di fantascienza dell’era moderna, secoli prima di Jules Verne. Col senno di poi, la foresta attorta e sanguinante dei suicidi di Inferno XII ove le Arpie “versi fanno in su li alberi strani”, con tutta l’ambiguità di quello “strano” che sembra riferirsi tanto alle strida che ai rami, pare davvero condensare tutte le bizzarrie biologiche dell’Area X del lovecraftiano Jeff Vandermeer. Petrarca non solo rifiuterà un simile coacervo di sperimentazioni e fusioni ma compirà un’opzione, urlare i suoi gabbiani dei circoli polari con voce sinistra, umana. “Tekeli-lì, Tekeli-lì.” E sarà proprio quel grido a essere ripreso dal suo erede H. P. Lovecraft per tratteggiare la propria mitologia d’orrore cosmico su “Weird Tales”.
[...]
La guerra tra fantastico e realistico è finita, o è cambiata. Siamo tornati nella Selva, tra rami spezzati, fruscii, minacce, fantasmi soccorritori che ci tengono forse la mano e propongono “un altro viaggio”. E molti sentono che per raccontarlo occorre non essere semplicemente ciechi e per questo poeti, come già il gran padre Omero, ma pure “uomo e donna” come Tiresia il veggente, abbattere così ogni steccato, rifiutare persino la dialettica feconda tra opposizioni, giacché “ogni vera conoscenza è sempre un sacrilegio”. È così che Nietzsche descrisse la dolorosa vocazione di Prometeo ed Edipo." (EDOARDO #RIALTI, "Il Foglio", 02 mag. 2023).
#DANTEALIGHIERI, LA DIVINA COMMEDIA E L’IMMAGINAZIONE SCIENTIFICA:
LA "#CADUTA" DI UNA "#STELLA", #LUCIFERO (Inf. XXXIV), E LA FORMAZIONE DI UN "BUCO NERO".
IL MULINO A VENTO DI LUCIFERO (iNF. XXXIV, 1-9):
RECENSIONE
La lezione di Dante nell’Epistola a Cangrande: Ci vuole audacia per scalare la Commedia
Una nuova edizione critica della lettera con cui il poeta dedica il Paradiso allo Scaligero riaccende il dibattito critico È una dichiarazione di poetica, un’introduzione, ma anche il memoriale difensivo proprio di un momento di crisi
DI EDOARDO RIALTI (La Stampa, 17 febbraio 2014)
«Il nostro problema sta nel fatto che non abbiamo ancora narrazioni pronte non solo per il futuro, ma nemmeno per l’oggi concreto, per le trasformazioni ultrarapide del mondo di oggi. Mancano il linguaggio, mancano i punti di vista, le metafore, i miti e le nuove favole. In una parola, ci mancano nuovi modi di raccontare il mondo». Sono le parole di Olga Tokarczuk al conferimento del Nobel da cui forse è possibile prendere le mosse per riflettere sull’unicità e la rilevanza di Dante per le sfide della scrittura oggi, sollecitati anche dall’edizione monografica della sua Epistola a Cangrande (Antenore), a cura di Luca Azzetta. Montale definì quanto ottenuto dall’Alighieri l’ultimo miracolo della poesia, e magari aveva ragione nel sancirne l’irrepetibilità. Il recente centenario ha visto iniziative, convegni, pubblicazioni, e ciò resta giusto e doveroso, sebbene talvolta insidiato dal tarlo della retorica monumentale che sigilla una voce in catafalco o la riduce a marchio d’esportazione. Dante funziona sempre, notava Paolo Poli, come il nero, sfila e fa fare bella figura. Resta tuttavia un salto tra scrivere bene e scrivere davvero di qualcosa, così come tra il leggere bene e il leggerlo davvero. Prendi e mangia, intimava l’angelo dell’Apocalisse a Giovanni porgendogli un libro. Poesia e visione si accolgono con le viscere, permettendole di impattare i nodi più profondi e oscuri della nostra attuale posizione sulla terra. È proprio la capacità di Dante di coinvolgerci ancora in un sogno collettivo - un inconscio più antico del linguaggio stesso, nelle parole di McCarthy, riesponendoci a una capacità penetrativa del presente storico e concreto, particolare, che consente al contempo di proferire i verbi del futuro - a mettere in discussione l’asfissia di tanta scrittura e comunicazione, in pendolo perenne tra l’egotismo rattrappito di un io superficiale - dal narcisismo scriviamo per diventare ancora più narcisisti - e le narrazioni massificanti di qualche noi partitico, ottuso e violento. Il tutto in una prospettiva comunitaria ridotta a mera sopravvivenza, dove l’unico valzer ballabile resta quello del consumismo rapace e l’autorevolezza è stata barattata con la visibilità.
La lupa dell’avidità dopo ogni pasto ha più fame di prima. Rispetto a questo ricatto Dante sa ancora mostrare cosa vuol dire tatuarsi l’anima, come ha dichiarato Mircea Cartarescu, sfidarci a un diverso modo di vedere, e quindi di scrivere, l’io e il noi saldati fin dai primi due versi dell’Inferno. Nostra vita... mi ritrovai... Forse quella porta rimane sbarrata alle nostre spalle, ciò che l’ha consentita resta effettivamente inaccessibile. Pure, tornando a fissare quanto non può essere ripetuto, possiamo comunque attingere forze ed enzimi per esprimerlo in altro modo.
Si deve dunque sottolineare l’importanza d’una nuova pubblicazione monografica di un testo così decisivo, in cui l’autore medesimo - e che autore - fornisce categorie e appigli su come poterlo scalare, in quale relazione porsi con l’esperienza della Commedia - con ampia introduzione e commento a ripercorrere il dibattito sulla controversa attribuzione e illustrare i rapporti dell’epistola al signore di Verona con la precedente e coeva ars dictandi delle dediche, e le circostanze contingenti che indussero Dante a offrire questa introductio operis, questa chiave per schiudere la Commedia che è anche «un memoriale difensivo proprio di un momento di crisi», negli ultimi anni dell’esilio e del lavoro al poema che ha fatto macro e grigio il poeta.
Ma tutto ciò resta in fondo per tornare a fronteggiare «una sconcertante dichiarazione di poetica» in virtù della quale Dante stesso ci chiede di leggerlo «con un’audacia che non ha riscontro in alcuno degli antichi esegeti» come faremmo con la Bibbia o il Maharabatha, secondo quattro sensi che vanno dal letterale all’anagogico, come un prisma che si rigiri tra le mani e resti lo stesso nelle sue varie sfaccettature. In una clamorosa declinazione laica, storica e in italiano volgare dell’esperienza visionaria e profetica di Paolo, degli apostoli con Cristo e delle invettive di Ezechiele sulla corruzione di preti e politici - «finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis».
Trasportare, strappare i lettori dalla miseria e condurli, nuovo Mosè, alla felicità stessa. In questa vita - hac vita, non dopo. Forse non c’è davvero più stata una così radicale fiducia nel valore trasformativo dell’esperienza poetica. Che si creda o no all’eternità dell’anima e nel giudizio di Dio, resta l’interrogativo su quale sia il fondamento che ci possa consentire di mettere in discussione realtà e società, realizzando opere capaci di abbracciare gli affanni e gli struggimenti delle esistenze altrui. Come constatò una mia studentessa messicana all’università «Sembra che Dante abbia sempre saputo che lo avremmo letto a secoli di distanza».
MITO E ANTROPOLOGIA: UNA DOMANDA DI UMBERTO SABA E LA SPERANZA (IL FILO DEL "SERPENTE") DI DANTE ALIGHIERI
(Par. XXV, 97-99: "E prima, appresso al fin d’este parole, / ‘#Sperent in te’ di sopr’a noi s’udì: a che rispuoser tutte le carole.").
STORIA E LETTERATURA E #STORIOGRAFIA. Nella dimensione dell’#immaginario di Saba, nella lotta di "fratelli contro fratelli", gli "italiani" affondano con i piedi e con la testa non solo nella #Terra di #Romolo e #Remo ("#Cesare", ma anche di #Caino ed #Abele ("#Cristo"): e di qui, forse, la possibilità di risalire la corrente dei fiumi e, come i #salmoni e le #anguille, con #Salomone (e #Freud e Trieste e Napoli) e Dante Alighieri, e ritrovare la #sorgente, "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
DIVINA COMMEDIA. Nel non detto delle parole di Umberto Saba, non emerge un #segnavia "delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo" (#RenéGirard) che sollecita a proseguire il cammino e portarsi oltre la #tragedia?
#Earthrise #Dante2021 #Kant2024
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Note:
A) CON #DANTE, RICORDANDO #MICHELANGELO E LA SUA #RAPPRESENTAZIONE DEL BIBLICO "SERPENTE DI BRONZO" NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA.
B) INCONTRO DEL #RE #SALOMONE E DELLA #REGINA DI #SABA (Part. della "Porta del Paradiso" del #Battistero di San Giovanni Battista di Firenze realizzato da Lorenzo Ghiberti, tra il 1425 e il 1452.
C) PER (RIFLESSIONI SUL TESTO DI) UMBERTO SABA, cfr. "Italiani fratricidi / commenti /", a c. di Helena Janeczek ("Doppiozero", 7 Marzo 2011).
L’ESSENZA DEL GENERE UMANO, L’ANTROPOLOGIA, E LA "CLINICA DELLA SINGOLARITÀ":
CON MARX, RIPARTIRE DA DEMOCRITO ("GENDER") E DA EPICURO ("GENRE"), E SEGUIRE DANTE PER USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO.
PSICOLOGIA E LETTERATURA. Nel suo recente ed "euforico" saggio, dal titolo "Disforie di genre" ("Kayak. A Philosophical Journey", 11, 2024), Pietro Barbetta, offre una ottima ricognizione sul tema e sul problema del "genere" (e, con esso, ovviamente, anche della "biblica" questione antropologica, quella del "genere umano" ("gattungswesen"), dell’essere umano, di ogni essere umano...
FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Sembra un passo indietro, ma, a mio parere, è anche una sollecitazione per prendere la rincorsa e saltare meglio: "La traduzione di genere in inglese ha due significanti: genre e gender. [...]. #Genre e #gender sono infatti due visioni opposte dell’essenza: quella ideale, le cui cose materiali non sono che ombre, e quella del motto husserliano “verso le cose stesse”, che ne designa la singolarità e la materialità. Nel primo caso l’accidente è trascurabile, mero aspetto materiale dell’idea, nel secondo l’accidente è linea di fuga dal gender, ciò che, in quanto idiosincrasia, definisce il #clinamen. Il gender è come l’atomo di #Democrito, scende dall’alto verso il basso in modo verticale, senza deviare, il genre è come l’atomo di #Epicuro e Lucrezio, si scontra con altri atomi, deviando costantemente la propria traiettoria" (P. Barbetta, cit.).
STORIA E FILOSOFIA. CONTRARIAMENTE A QUANTO si è per lo più sempre pensato e si continua a pensare nel sonnambulismo cartesiano-hegeliano, il richiamo (non detto) alla tesi di Karl Marx, "La differenza tra la filosofia naturale di Democrito e la filosofia naturale di Epicuro" (1841), non appartiene alla preistoria della "critica dell’economia politica", ma è carica di "radioattività" teorica che può portare fuori dall’#inferno epistemologico della #tragedia platonico-hegeliana e paolina-marxista:
«In Epicuro, quindi, l’atomismo con tutte le sue contraddizioni si è realizzato e completato come scienza naturale dell’autocoscienza. Questa autocoscienza sotto forma di individualità astratta è un principio assoluto. Epicuro ha così portato l’atomismo alla sua conclusione finale, che è la sua dissoluzione e l’opposizione consapevole all’universale. Per Democrito, invece, l’atomo è solo l’espressione oggettiva generale dell’indagine empirica della natura nel suo insieme.» (K. Marx, cit.).
PIANETA TERRA: "LA SCIENZA NATURALE DELL’AUTOCOSCIENZA", DANTE ALIGHIERI, E LA "VECCHIA TALPA" DI SHAKESPEARE ("Amleto", I.5). La mancata chiarezza (claritas) su questa acquisizione e comprensione storiografica e teoretica del giovane Marx ha comportato (e comporta ancora) la "progressiva" incomprensione della lezione di Dante come di Kant (sulla critica della fisica e della metafisica del socratismo, platonismo, paolinismo, ecc.) e la radicale cancellazione della parola "critica" dall’intero discorso dell’economia politica marxiana, fino a fraintendere la stessa dichiarazione "dantesca" (Par. XXXIII, 145) di "Amleto" (II.2) : "Dubita che le stelle siano fuoco, /dubita che si muova il sole, /dubita che la verità sia menzognera, /ma non dubitare mai del mio amore [But never doubt I love]"; e, con il pavimento lastricato di "buone" intenzioni, arrivare a perdere insieme al "paradiso celeste" ("William Blake osserva che coloro che sostengono il bene in generale sono mascalzoni") anche il "paradiso terrestre", e vietare al desiderio stesso della "clinica della singolarità" ogni via di uscita.
Nota:
L’HAMLETICA QUESTIONE DELL"ESSERE, O NON ESSERE" (SHAKESPEARE) E LA CRITICA DEI PLATONICI "SOGNI DI UN VISIONARIO" (KANT).
#ANTROPOLOGIA #DIVINACOMMEDIA, #PSICOANALISI, E LIBERAZIONE TEOLOGICO-POLITICA: USCIRE DAL PAESE DEL CAVERNOSO #BALOCCO CON L’AIUTO DELLE "#TRE MARIE" (Maria-#Maria, Maria-#Lucia, e Maria-#Beatrice) E DI #VIRGILIO ("#VIR"- "#GIGLIO" / "#GIUSEPPE").
TRA IL #SAPERE "Platone non ci dice come sia uscito quel prigioniero" E IL #DIRE "a noi piace pensare che sia riuscito a fuggire da un luogo in cui si trovava incatenato per giungere a un altro dove non vi sono catene né visibili né invisibili", CHIARISSIMO Alfonso Maurizio Iacono, IN MEZZO NON C’E’ FORSE IL #MARE?! NON E’ IL CASO DI RIPRENDERE CON #ULISSE E #GIASONE LA NAVIGAZIONE E IL VIAGGIO DI #DANTEALIGHIERI E CON IL #GALILEO (NEL SUO "GRAN NAVILIO") E USCIRE DALLA #CLAUSTROFILIA (Elvio #Fachinelli, 1983) E DALLA #COSMOTEANDRIA PLATONICO-PAOLINA ED HEGELO-MARXISTA?! Se non ora, quando?
ANTROPOLOGIA, #ANTROPOCENTRISMO, E #CRITICA DELLA #RAGIONE "OLIMPICA" (EDIPICA-PLATONICO-PAOLINA ED HEGELO-MARXISTA). Con #Eraclito (g#Logos) e #Orazio ("#Sàpere aude"), per un’altra #facoltà di #giudizio (#Kant): "In effetti, di che cosa si occupa la #filosofia se non del terribile momento in cui il grammaticale diventa empirico, e in cui l’empirico diventa grammaticale?" (cfr. Felice Cimatti, "Nate e nati da donna. FinoraDonne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno di Adriana Cavarero", "FatamorganaWeb", 8 gennaio 2024
FILOLOGIA E "SÀPERE AUDE" (ORAZIO-KANT): "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" (LUDWIG #FEUERBACH). Un invito alla riflessione critica sul "pane" artistico quotidiano, di cui ci cibiamo... 7 Gennaio 2024
STORIA SOCIALE DELL’ ARTE E USO DELLE #IMMAGINI A FINI DI PROPAGANDA DI FEDE (TEOLOGICO-POLITICA E ANTROPOLOGICA), SOPRATTUTTO DELLA FIGURA DELL’#UOMO PER ECCELLENZA ("ECCE HOMO", VALE A DIRE DELLA FIGURA DI GESU’ CRISTO).
#STORIA E #STORIOGRAFIA: DA COSTANTINO A COSTANTINO, #NICEA (325-2O25). SI RACCONTA CHE #CarloMagno, rimasto affascinato dal canto di certi monaci greci che celebravano il #Battesimo del #Signore, fece tradurre in latino i testi che aveva udito cantare, forse, per ringraziarlo di questo prezioso e importante gesto, i grandi esperti della Chiesa Cattolica del tempo confezionarono la famosa "Donazione di Costantino":
CONSIDERATO che "nel 1440 l’umanista italiano Lorenzo Valla dimostrò in modo inequivocabile che la donazione era un falso", e, che il suo lavoro, "De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio" ("Discorso sulla donazione di Costantino, altrettanto malamente falsificata che creduta autentica"), poté essere pubblicato solo nel 1517 e in ambiente protestante, mentre la Chiesa cattolica difese per secoli la tesi dell’originalità del documento", e, ancora, che "nel 1559 lo scritto di Valla fu incluso nell’indice dei libri proibiti in quanto pericoloso per la fede [...]" (Donazione di Costantino), FORSE, è importante e utile (dal punto di vista antropologico) avere in mente non solo l’#uomovitruviano->https://it.wikipedia.org/wiki/Uomo_vitruviano], ma anche (v. allegato: figura di Mercurio con caduceo *) l’uomo mercuriale (l’uomo #ermetico) di un sopravvissuto affresco di fine #Quattrocento, conservato in una "Casa di caccia" della Milano di #Ludovico il #Moro (e di #Leonardo da Vinci), un #segnavia importante della tradizione di "Mercurio e la filologia", della tradizione ermetica e dell’ermetismo cristiano.
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LETTERATURA E PSICOANALISI: "IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI" (ITALO CALVINO).
L’INCONTRO CON "SIGISMONDO DI VINDOBONA" [DI VIENNA] NELLA "TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI".
Una "presentazione" del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi... *
"ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un #sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il #represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie.
(Si prenda un giovane, Fante di Denari, che vuole allontanare da sé una nera #profezia: #parricidio e #nozze con la propria #madre. Lo si faccia partire alla ventura su un Carro riccamente addobbato. Il Due di Bastoni segnala un crocicchio sulla polverosa strada maestra, anzi: è il crocicchio, e chi c’è stato può riconoscere il posto in cui la strada che viene da Corinto incrocia quella che va a #Tebe. L’Asso di Bastoni testimonia una rissa da strada, anzi da trivio, quando due carri non vogliono darsi il passo e restano coi mozzi delle ruote incastrati e i conducenti saltano a terra imbestialiti e polverosi, sbraitando appunto come carrettieri,insultandosi, dando del maiale e della vacca al padre e alla madre dell’altro, e se uno tira fuori dalla tasca un’arma da taglio è facile che ci scappi il morto.
Difatti qui c’è l’Asso di Spade, c’è Il Matto, c’è La Morte: è lo sconosciuto, quello proveniente da Tebe, che è rimasto in terra, così impara a controllare i suoi nervi, tu Edipo non l’hai fatto apposta, lo sappiamo, è stato un raptus, ma intanto ti ci eri buttato addosso a mano armata come se non avessi aspettato altro per tutta la tua vita. Tra le carte che vengono dopo c’è la Ruota della Fortuna o #Sfinge, c’è l’ingresso in Tebe come un Imperatore trionfante, c’è le Coppe del #banchetto di nozze con la regina #Giocasta che vediamo qui ritratta come Regina di Denari, in panni vedovili, donna desiderabile benché matura.
Ma la profezia si compie: la peste infesta Tebe, una nuvola di bacilli cala sulla città, inonda di miasmi le vie e le case, i corpi dànno fuori bubboni rossi e blu e cascano stecchiti per le strade, lambendo l’acqua delle pozzanghere fangose con le labbra secche. In questi casi non c’è che ricorrere alla #Sibilla Delfica, che spieghi quali leggi o tabù sono stati violati: la vecchia con la tiara e il libro aperto, etichettata con lo strano epiteto di #Papessa, è lei.
Se si vuole, nell’arcano detto del Giudizio o dell’Angelo si può riconoscere la scena primaria a cui rimanda la dottrina sigismondiana dei sogni: il tenero angioletto che si sveglia nottetempo e tra le nuvole del sonno vede i grandi che non si sa cosa stanno facendo, tutti nudi e in posizioni incomprensibili, mamma e papà e altri invitati. Nel sogno parla il fato.
Non ci resta che prenderne atto. Edipo, che non ne sapeva niente, si strappa il lume degli occhi: letteralmente il tarocco dell’Eremita lo presenta mentre si toglie dagli occhi un lume, e prende la via di Colono col mantello e il bastone del pellegrino. Di tutto questo la scrittura avverte come l’oracolo e purifica come la tragedia. Insomma, non c’è da farsene un problema [...]"
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LETTERATURA, STORIA, ANTROPOLOGIA, E FILOLOGIA:
IL "SOGNO DI UNA COSA" (K. MARX), "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (S. FREUD), E IL "COME NASCONO I BAMBINI".
Una nota a margine di una citazione da "Furore" di J. Steinbeck:
DANTE 2021. La "lezione" di Steinbeck, purtroppo, non è riuscita a portare i "due uomini" e le loro famiglie fuori dal fosso, fuori dall’orizzonte della biblica "caduta", e dalla tragedia (edipica, platonica e paolina), e la "Valle dell’ Eden" (1953), come "Furore" (1939), ha solo aiutato a non perdere la memoria e a riprendere la ricerca: "timshell". Marx, ai suoi tempi, leggeva ancora la "Divina Commedia" e sapeva (al di là dell’idealismo hegeliano) del "realismo di Dante": uscire dall’inferno è ancora possibile.
LO ZIGOTE DELLA TRAGEDIA. Memoria della Legge di Apollo (Eschilo): «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda».
L’IMMAGINARIO DEL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO: "Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, "la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO *
Il titolo, Dante poeta-giudice del mondo terreno (Roma, Viella, 2020), sembra lanciare una sfida, suggerire un recupero, offrire una conferma, o, detto in modo diverso, indicare una grande costruzione su una pianta vecchia. Reggerà? Conserverà molto e in modo riconoscibile l’edificio antico? o lo restaurerà con pochissime modifiche? Ecco alcune delle domande che il titolo in esponente fa sorgere, e il fatto che metta in moto il lettore con questa serie di promesse e di sfide e di curiosità dice molto della felicità di un titolo che cifra il libro e nello stesso tempo ne suggerisce una chiave di lettura. In effetti ogni dantista vi sente l’eco del Dante als Dichter des irdischen Welt, il celeberrimo saggio di Erich Auerbach del 1929, che, partendo da uno spunto hegeliano, segnava un modo assolutamente nuovo di leggere la Commedia.
Senza più perdersi negli infiniti problemi posti dalle esegesi positiviste o idealiste, Auerbach puntava sul tema del “realismo”, che conserva i tratti del mondo terreno pur trasferendoli nel mondo ultraterreno, e non solo li conserva ma li “essenzializza”, come poi dirà lo stesso Auerbach nell’altro ancor più celebre saggio Figura del 1938. In questi studi capitali, però, non compariva il “giudice” accanto al “poeta”, una presenza che invece Antonelli rileva nel suo titolo hyphenated, ossia con quel trattino che crea un’unità semantica nel momento stesso in cui la scompone. È una combinazione che consente di recuperare un altro dato cruciale negli studi danteschi, ossia quella distinzione tra autore e personaggio, lanciata simultaneamente da Contini e da Singleton negli anni Cinquanta. La distinzione è sottilissima e ha creato anche molta confusione perché è stata schematizzata e irrigidita. Antonelli invece la utilizza per avvalorare il “realismo” e trasformarlo in un messaggio profetico. Per lui il rapporto personaggio/autore non è un binomio oppositivo ma dialettico che consente al poeta Dante di “giudicare” l’operato e le reazioni del suo personaggio davanti alle anime dell’altro mondo. In altre parole, Dante assolve la funzione del “giudice” delle sue proprie azioni e reazioni negli incontri con le anime durante il suo viaggio nel regno dei morti. E poiché questo personaggio che reagisce e si giudica è il Dante che ha precisi tratti anagrafici, ma è anche un everyman (come viene annunciato fin dalla prima terzina con la compresenza del “nostra vita” e “mi ritrovai”), il giudizio su sé stesso è spesso anche giudizio sull’operato umano in generale. E siccome il Dante personaggio è un peccatore, il suo giudicarsi ha una funzione penitenziale. Per giunta l’everyman che è in lui giustifica e allarga il suo giudizio agli eventi del mondo, alla sua politica e ai suoi mores e valori. Il Dante autore prende la voce delle guide che lo sostengono nel viaggio, prima Virgilio e poi BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO BOLLETTINO BIBLIOGRAFICO 293 Beatrice; e man mano che il Dante personaggio si libera dei suoi peccati o delle tendenze peccaminose, tende ad identificarsi con la saggezza e il sapere delle sue guide. Ma il processo educativo non si ferma con l’esaurimento di questi insegnamenti: infatti, una volta superato l’esame davanti ai teologi e diventato “puro e disposto” a vedere Dio, il poeta e il suo personaggio si sovrappongono, anzi si identificano. Così, quando quel binomio diventa una sola persona, allora il poeta acquista la voce di un autore-profeta perché non parla più di sé ma parla a tutti gli uomini riferendo a questi la parola divina, e in tal modo la sua poesia prende il valore della profezia o di voce poetica ispirata da Dio.
Fino a questo punto vediamo che Antonelli erige un edificio in cui si riconoscono almeno le vecchie fondamenta, ossia i principi strutturali sui quali il poema viene costruito. Ma è anche vero che l’edificio presenta novità considerevoli: un realismo che produce realtà metafisiche e una coppia che ha per fine quella di comporsi in un’unità. Ma perché questa macchina funzioni alla perfezione è indispensabile un elemento strutturale del tutto nuovo: è la nozione del “teatro del mondo” lanciata da Harald Weinrich a proposito della Commedia e che Antonelli integra e ingrana nelle altre strutture indicate: è una novità che completa l’impalcatura in modo da rendere funzionale il nuovo edificio. Nelle intenzioni di Harald Weinrich “il teatro della memoria” serve a chiarire una modalità del “realismo dantesco”, spiegando come la collocazione dei personaggi contribuisca a renderli memorabili. Antonelli utilizza questa nozione - ampiamente chiarita nel terzo capitolo - e la porta a conseguenze estetiche ulteriori e ben più complesse di quanto non risulti dal saggio di Weinrich. La memoria che a lui interessa non è tanto quella dei lettori quanto quella del viator, sia nella veste dell’auctor sia nella veste del personaggio. L’autore ha bisogno di creare una struttura per il viaggio del suo personaggio e deve fare in modo che i “loci” in cui colloca le anime creino un ordine compatibile con le gerarchie dei sistemi morali e cosmologici.
Quella struttura è quindi fatta di simmetrie e di collegamenti che giustificano i rimandi interni dell’opera che - ora è chiaro - sono calcolati e quindi sono semanticamente significativi. Pertanto il teatro della memoria più che una costruzione tassonomica di cui si servivano le enciclopedie rinascimentali (chi non ricorda “il teatro della memoria” di Giulio Camillo?) è una sorta di “cassa di risonanza”, che spiega e autorizza i rimandi testuali che si possono cogliere all’interno del poema, le numerose allusioni ad episodi superati e ad episodi che verranno. Il teatro della memoria, insomma, “lega” la Commedia in un racconto dove l’autoreferenzialità conferma la sapienza e la consapevolezza di un portentoso piano costruttivo. Non un semplice palcoscenico dal quale lo spettatore può abbracciare “l’ordine del mondo” rappresentato dalle “sedi” o “categorie” della realtà, come volevano i teatri mnemonici rinascimentali, ma un vero teatro nel quale il personaggio deve muoversi e interloquire con i personaggi collocati nei loci assegnati loro dalla giustizia divina e corrispettivi al loro operato in questa terra. Tutto questo suggerisce la seguente considerazione: la Commedia è essa stessa una sorta di teatro o di finzione del vero così ben realizzata da sembrare vera. Il “teatro” in effetti è la più ovvia delle finzioni, e gli spettatori sanno di assistere a uno spettacolo non vero, ma che per essere persuasivo deve essere vero nella rappresentazione. Perché sia teatro bisogna che si seguano alcune convenzioni, fra cui primeggiano quelle dello spazio chiuso del teatro, il palcoscenico e la maschera.
A teatro gli attori saranno tanto più convincenti quanto più mentiranno, cioè fingendo di essere persone diverse da quello che sono. Era questo Le paradoxe sur le comedien di Diderot e ripreso da Gadamer, e nella Commedia gli eventi sono così ben “finti” che ancora potremmo discutere se il viaggio di Dante nell’oltretomba sia una visione vera o una visione immaginata. Congegnata in questo modo, la macchia della Commedia non è statica ma si muove, e Antonelli ne ricostruisce la dinamica in modo convincente. Sulle linee portanti dell’ordito indicato, Antonelli avvia la tessitura del libro che è composto di varie tappe, ma tutte viste nel fieri del viaggio, nel crescere del personaggio e del poeta in vista degli scopi che la loro dialettica si prefigge.
Ad esempio: il Limbo e l’incontro con i maestri classici e il fatto che Dante si senta “sesto fra cotanto senno” non significa solo che egli sia indebitato intellettualmente verso quella “bella scuola”, ma anche che dovrà procedere oltre e scrivere il “poema sacro”, e quindi la separazione da quei grandi poeti ha anche il senso del superamento e della missione penitenziale che presiede al viaggio intero. È anche un preludio alle “separazioni” che verranno: il Pellegrino si separerà da Virgilio quando avrà appreso da lui la “scienza” che si può ricavare dal sapere antico; e si separerà anche da Beatrice dopo che l’avrà guidato nel mondo della “sapienza” e lo ho reso capace di vedere Dio. Anche questo è un divenire che la “cassa di risonanza” aiuta a mettere in luce e in prospettiva.
La poesia come soggetto è uno dei temi toccati con frequenza altissima nel corso della Commedia per ragioni che sono in parte ovvie e in parte vengono alla luce da una lettura come quella di Antonelli. Le origini della Commedia si trovano nella Vita nuova, origini che sono anche un traguardo del viaggio come ritorno all’innocenza e alla purezza che rende atti alla visione finale e all’investitura divina della dote profetica, inverando dunque quelle potenzialità dell’amore che, intese male in gioventù, hanno sviato il poeta e i suoi compagni. La Commedia è ricca di personaggi poeti che indicano in modi diversi l’uso buono e meno buono di questo dono del linguaggio poetico, e fra questi ha un ruolo speciale Guido Cavalcanti, il primo amico di Dante. Non per nulla la sua è una presenza costante nel poema, ma una presenza inquietante e celata, anche perché egli è ancora vivo nel momento in cui Dante compie il viaggio. Cavalcanti è una specie di interlocutore mentale, possiamo dire, la cui voce viene colta spesso in allusioni di rime e di immagini che Antonelli coglie dove nessuno le aveva viste, e questo è possibile grazie alla sua esperienza scientifica di studioso della rima come fonema semantico. E le numerose osservazioni in tale senso sono anch’esse il risultato di quel “teatro della memoria”, in cui ogni locus sta in relazione ad altri, e la valorizzazione di queste corrispondenze dipende dalla sagacia del lettore.
Al tema della poesia sono intrecciate la missione del poema e il suo “messaggio”, e ciò spiega non solo l’accoglienza nella “bella scuola”, come abbiamo detto, ma tutta una serie di episodi che tramano il viaggio, dagli incontri con Francesca a Bertran de Born e Arnaut Daniel; è presente nella missione rivelatagli da Cacciaguida e nell’esame dei teologi che garantisce la fondazione dell’investitura celeste a parlare ai popoli dall’alto dei cieli con la parola umana ma con un messaggio sacro. E quando ciò sarà chiaro, sarà anche ovvio che il personaggio e il poeta parlano con la stessa voce perché il primo ha l’approvazione totale del secondo. Parallelo al tema poetico è quello politico che emerge in una serie di episodi “forti” - da Farinata, a Bonifacio VIII, all’aquila del paradiso e all’incontro con Cacciaguida e in vari altri - ma è presente ovunque non solo per il ruolo che la politica ebbe nel destino civile di Dante, ma perché la giustizia divina in terra si realizza con una sana politica che viene alterata quando i due poteri o i due “soli” collidono anziché cooperare. Ed è un argomento per il quale l’autore e il personaggio si erigono a “giudici” del mondo terreno, giudizio che all’inizio mette in luce gli errori che “il personaggio” stesso ha commesso e di cui ora vede le conseguenze, ma il viaggio penitenziale lo libera anche da queste scorie, per cui, con la maturità di chi conosce il mondo, si fa portavoce del volere divino. In tal modo e dall’alto dei cieli la sua parola acquista la qualità della profezia che annuncia i castighi e sa indicare la via giusta per evitarli. Anche in questo filone vediamo, dunque, che la tensione del duo autore/personaggio culmina nella fusione perfetta dei due. È la sola condizione che consenta il passaggio dal poeta al profeta e che autorizzi la definizione di “poema sacro” alla sua opera. Nessuno dei maestri/guida di Dante può essere “profeta” perché tale ruolo non è concesso né ai morti né ai santi: solo una persona viva, che per grazia speciale comunica con Dio, può rivelare ai vivi il volere e la giustizia divina. Il “realismo” della visione, così ben evidenziato da Auerbach, acquista ora una funzione chiara: esso sostanzia le istanze profetiche di giustizia davanti ad un mondo “che mal vive”, istanze ampiamente espresse nel corso di tutta l’opera. E in questa figura del profeta, suprema ipostasi del “poeta-giudice”, si condensa il messaggio morale e artistico del poema sacro.
La dinamica instaurata dalla compresenza di autore e personaggio viene dunque spiegata in modo nuovo e viene utilizzata in modo persuasivo. È sicuramente una delle conquiste di questo libro. Del quale non possiamo render conto dettagliato del come vengano affrontati annosi problemi del poema e del modo nuovo con cui vengano risolti; qui ci limitiamo a dire che tutti gli aspetti presi in esame contribuiscono a creare quel senso di organicità che gli edifici ben costruiti presentano. È un libro così intrecciato nei suoi quattordici capitoli che nessun particolare potrebbe essere sufficientemente descritto senza fare riferimento a tutte le ramificazioni che spiegano perché faccia parte del poema e perché lo si trovi nel punto in cui lo leggiamo. In ultima analisi ciò dipende dal fatto che tutto il poema tenda a culminare in quel punto che lo rende sacro e profetico pur rimanendo sostanzialmente autobiografico.
La poesia della Commedia ricrea il mondo terreno in uno spazio che dovrebbe essere abitato da sole ombre, ma di fatto esse sono più vere di quelle che hanno calpestato la terra perché sono “essenzializzate”, come aveva visto Auerbach. Antonelli aggiunge che il realismo risultante da tale interpretazione avvalora il giudizio della persona che visita il regno dei morti e lo addita ai viventi perché sappiano trovare nel teatro dell’aldilà o nell’eterno il luogo che tramanda la memoria di ciò che avviene sulla terra. È un passato storico messo a fuoco perché viene rivisto attraverso il filtro del giudizio divino: il poema non è solo “realistico” ma anche profondamente morale. La promessa di imitazione/sfida notata nel titolo viene adempiuta: si conservano elementi di alcune tesi ormai classiche, ma le si rinvigorisce con una visione sensibilmente rinnovata. Il risultato è un libro difficile da riassumere, ma che decisamente si distingue nella voluminosa dantistica attuale.
CINEMA, LETTERATURA, FILOLOGIA, E CRITICA:
BOCCACCIO, “IL MIO DANTE” E “DIECI FIORINI D’ORO“. *
Un omaggio a Pupi Avati...
Se è vero, come Pupi Avati scrive (“Il mio Dante”, Insula europea, 3 febbraio 2020), che «”L’origine delle idee non la si percepisce mai” lo asseriva il Budda e per quello che mi riguarda ho da sempre la sensazione che sia assolutamente vero» .... allora bisogna solo ringraziarlo per la schiettezza (sveglia da un sonno storiografico di lunga durata!) e, al contempo, prendere atto che, con il suo film “il mio Dante”, si assiste solo all’ennesimo ritornello storiografico che del viaggio di Dante (dell’uomo e del poeta), per “dieci fiorini d’oro”, si compra lo spirito fondante (“l’amor che move il sole e le altre stelle”) e si finisce per celebrare il desiderio di fama e di gloria di Boccaccio (non di Dante Alighieri): “Insomma Boccaccio voleva davvero che si facesse questo film” (Pupi Avati)!
Ma non è il caso e il tempo di uscire dal letargo (Pd. XXXIII, 94) e ricordare che la primavera è già arrivata e che uscire dall’inferno è possibile?!
Dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare, all’altezza del Dantedì ( 25 marzo 2023 ), che Dante tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice? (Sul tema, forse, può essere utile tenere presente una mia “vecchia” ipotesi di ri-lettura della vita e delle opere di Dante.
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INFANZIA ANTROPOLOGIA E STORIA:
IL "BALBETTIO" BABELICO, LA DIVINA COMMEDIA, E LA B-ARCA DEL BUON NOE’ (EU-NOE’).
LA "FEMMINA BALBA" (DANTE 2021), EUNOE’ (2022), E LA PRIMAVERA DELLA TERRA-MADRE (ELEUSIS 2023). Brillante coincidenza, chiarissimo Carlo Pulsoni: a Bologna nasce il MUBA, il nuovo "Museo dei bambini e delle bambine"), e "Insula Europea" decide la ripresa della "vecchia" riflessione di Corrado Bologna sul “Balbettio" in poesia, scritta per il volume "Eunoé. Liber amicorum per Giorgio Agamben", apparso presso Quodlibet di Macerata nell’aprile 2022)
«CERCATE L’ANTICA MADRE» (Eleusi 2023). La fomidabile immagine in copertina di Enrico Pulsoni, che dice della ripetizione e dello specchio, a me pare un buon-messaggio: auguralmente, sembra annunciare una sollecitazione epocale sia a portarsi oltre l’infantile stadio dello specchio e la persuasione edipica e narcisistica della "femmina balba" (Dante, Purg. XIX, 7) sia ad uscire dallo stato di minorità (e/o stato di superiorità) balbelica (e/o babelica) - a non restare ancora nella fascinazione di "quell’antica strega" (Purg. XIX, 58) e a portarsi oltre la "preistorica" dialettica del rispecchiamento platonico-hegeliano e paolino-costantiniano. Earthrise!
LA CRITICA DEL "CAPITALISMO COME RELIGIONE" (FRANZ KAFKA, WALTER BENJAMIN, GEORGE GROSZ).
STORIA E MEMORIA. Nel 1944, nello stesso anno dei militari italiani internati nel Lager di Wietzendorf, George Grosz, nel periodo americano, realizza il quadro "Caino o Hitler all’inferno".
ARTE E LETTERATURA. KAFKA, intorno al 1920, nel commentare un volume con i disegni di Grosz, esprime una opinione precisa sui limiti della teoria del rispecchiamento, della rappresentazione artistica: "Il capitalismo è un sistema di dipendenze: dall’interno verso l’esterno, dall’esterno verso l’interno, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è uno stato del mondo e dell’anima." (cfr. G. Janouch, "Colloqui con Kafka", in F. Kafka, «Confessioni e diari», Milano 1972). *
"THE TIME IS OUT OF JOINT" (Shakespeare). Come a dire, ciò di cui "invito" a prendere atto non è tanto il cosiddetto "tramonto dell’#Occidente" (di cui parla Spengler), ma è qualcosa di più radicale, di globale (riguarda tutta la società) ed epocale (riguarda un lungo periodo storico, quasi una "preistoria"); è, per dirla in "sintesi", un orizzonte spazio-temporale che tocca tutto e tutto il genere umano: è un problema biblico, di #caduta.
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (S. Freud, 1929). Alla luce della considerazione di Kafka (una traccia di riflessione sul "capitalismo come religione" molto prossima a quella che svilupperà di lì a poco, quasi in contemporanea, Walter Benjamin), l’opera di Grosz del 1944 mostra tutto il suo lato infernale e denuncia il più che millenario #letargo (v. Dante Alighieri) in cui continuiamo a vivere e sognare: il nostro Padre e il nostro Fratello è Caino, il Mentitore, e, Giocasta è la nostra Madre e la nostra Sposa, come Edipo (v. Sigmund Freud).
* La cit. è anche presente nel mio lavoro: si cfr. Federico LA Sala, "Della Terra, brillante colore", 2013, p. 94).
DANTE E LA TEORIA DEI "TRE SOLI":
"OCEANO CELESTE" (KEPLERO, 1611). Per non buttare il #bambino (Dante Alighieri) con l’acqua sporca ("Dante è di destra"), un invito storiografico a riprendere la navigazione nella #nave di Galileo (quella del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632) e rileggere Giordano Bruno:
FILOLOGIA E FILOSOFIA. Da ricordare che la ’casa’ di Dante Alighieri (la sua opera, la "Monarchia") era la "Casa dei Due soli", e ogni "potere" era non l’accoppiata "platonica" di un servo e di un signore, ma "due in uno" (al contempo, re e sacerdote) alla #luce del Sole - non di un solo Sole (come pretendeva Tommaso Campanella con la sua "Città del Sole" e le varie "monarchie" cosmoteandriche). Dante, a mio parere, è in sintonia con lo spirito di Giordano Bruno e le "TRE CORONE" dello "Spaccio de la Bestia trionfante" e con Keplero che a Galileo Galilei, e al suo "Sidereus Nuncius" (1610). da Praga (1611) quasi grida: "VICISTI, GALILAEE" ("HAI VINTO GALILEO")!
"LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!"
Ma è uno scritto futurista?
FILOLOGIA, STORIOGRAFIA, E "VITA NUOVA": USCIRE DALL’INFERNO... *
IL DANTE DI TUTTI. O QUASI
di Marco Grimaldi (Le parole e le cose, 11.11.2022)
Una volta Emil Ludwig chiese a Mussolini se “avesse vissuto molto con Dante”. Il duce dà una prima risposta, banale e scontata: «Veramente sempre... Egli per primo mi ha dato una visione della grandezza. Al tempo stesso mi ha indicato l’altezza alla quale la poesia può elevarsi». Poi ci ripensa, mette da parte “il tono platonico”, si protende in avanti, sorride e dice “con soddisfatto rancore”: «Oltre a ciò mi sento affine a lui per la sua passione faziosa, per la sua implacabilità. Dante non perdonò ai suoi nemici nemmeno quando li incontrò all’inferno!». Ludwig commenta: «Nel far simili confessioni egli spinge in avanti la mascella inferiore e pare che pensi a determinati avvenimenti». Ed è forse questa l’idea di Dante che avevano in testa quei professori di scuola, dantisti improvvisati, che durante il Ventennio cercarono varie volte di dimostrare che il personaggio destinato a liberare l’Italia dal vizio e dalla servitù al quale si allude nel Purgatorio con l’espressione «cinquecento diece e cinque», che in cifre latine è DXV e il cui anagramma è quindi DVX, ‘duce’, fosse appunto Mussolini, profeticamente annunciato dal poeta della Divina Commedia.
Tutto questo - Mussolini che si mette in posa e si identifica con Dante, Dante che avrebbe annunciato l’avvento di Mussolini - sembra oggi ridicolo, ma è parte di un fenomeno più ampio che merita ancora il nostro interesse. Dalla fine del Settecento Dante diventa infatti il simbolo di una nazione in cammino verso l’unificazione, di una patria che esiste prima di tutto nella lingua e nella letteratura e che - anche in nome di Dante - pretende l’unità politica. Dante resta legato ancora oggi a questo aspetto militante. Ed è per questo che c’è stato un Dante fascista, come c’è stato un Dante guelfo, ghibellino, massonico, risorgimentale, cattolico. Dante, per la capillare diffusione delle sue opere e per l’influenza che ha avuto sullo sviluppo della lingua e della cultura italiana, è diventato nel corso dei secoli Il Dante di tutti di cui parla un bel libro di Giuseppe Antonelli, appena pubblicato da Einaudi, trasformandosi in Un’icona pop, come recita il sottotitolo. Antonelli racconta questa storia in novanta pagine, agili e scorrevoli (e in nove capitoli, ovviamente...).
Si parte dall’oggi, da una scritta su un muro in Prati, a Roma («Ti amo Beatrice | Dante») e si ritorna infine al presente, con le riscritture di Dante nel rap e nel linguaggio giovanile. In mezzo ci sono i primi divulgatori popolari di Dante, gli sconosciuti che ne cantano e recitano i versi in piazza già nel Trecento, ci sono i moderni interpreti radiofonici e televisivi come Vittorio Gassmann e Roberto Benigni, ci sono i lettori colti come Giovanni Boccaccio, Franco Sacchetti, Francesco De Sanctis e Giosuè Carducci. C’è Dante tradotto in fumetti, dall’Inferno di Topolino al giapponese Gō Nagai. E c’è Dante protagonista al cinema e nei videogiochi, dai primi del Novecento al Dante’s Inferno del 2010.
Il libro ha molti pregi. Innanzitutto, benché destinato a un pubblico ampio e non specialista, non rinuncia a spiegare in parole semplici concetti difficili, ad esempio che «oltre l’80 per cento delle parole che oggi usiamo più spesso nella comunicazione quotidiana è già stato utilizzato da Dante». Oppure, al contrario, che non tutte le parole utilizzate da Dante hanno ancora lo stesso significato, come donna, che in sonetto famoso come Tanto gentile e tanto onesta pare significa ‘signora (del cuore)’. O ancora che il modo in cui per tutto il Novecento abbiamo tradotto in immagini i versi della Commedia è stato influenzato prepotentemente dalle illustrazioni di Gustave Doré (1861-1868). E che Dante, secondo Boccaccio, oltre al naso aquilino aveva anche la barba. E c’è poi la moltitudine di aneddoti e di immagini che Antonelli impiega per narrare la storia del Dante popolare e che rende il libro godibile e prezioso: la pubblicità del lassativo accompagnata dai versi «I’ son Beatrice che ti faccio andare»; l’artigiano che impazzisce cercando di imparare la Commedia a memoria (come il Matto di Edgar Lee Masters e De André con l’enciclopedia); il concorrente di Lascia o raddoppia che dichiara di sapere a memoria tutti i versi del poema; la copia dell’Inferno che compare in una scena della serie televisiva Mad Men. Tutto concorre a dimostrare, spiega Antonelli, «quanto sia grande la vitalità di Dante a sette secoli di distanza dalla sua morte» e a chiarire «senza ombra di dubbio che Dante sopravvivrà anche a questo centenario e a chissà quanti altri in futuro» grazie alla sua arte e al suo pensiero, alla sua biografia ormai mitica e al culto che gli è riservato in quanto padre della lingua italiana, ma anche «grazie a quella percezione collettiva che lo ha reso ormai una straordinaria icona pop», icona «nel senso di un simbolo legato a un immaginario condiviso». Starebbe qui, per Antonelli, «il potere atemporale di Dante», vale a dire «quel Dante metastorico che può essere citato in ogni epoca e a ogni proposito», un potere atemporale «che ha portato Dante e la sua opera a superare i confini della letteratura per diventare parte di un patrimonio più ampio e condiviso».
In questa storia luminosissima, tuttavia, ci sono anche delle ombre, e Antonelli lo sa bene. Nei versi ripetuti un po’ da tutti e nelle citazioni senza spiegazione, «la voce del poeta può arrivare a scomparire quasi del tutto», e il rischio dell’attualizzazione linguistica è di creare «un Dante in maschera», «un metalinguaggio che taglia fuori metà del messaggio». Si dovrà parlare allora di «abbassamento, attualizzazione e minima comune memoria dantesca». E infatti Antonelli cita quasi subito alcune considerazioni di Luca Serianni, secondo il quale «lo scotto che inevitabilmente paga un’opera divenuta popolare» è «l’alterazione dei significati originali, perlopiù attraverso la banalizzazione di un concetto e spesso anche modificando il dettato originale» (Parola di Dante). Ciononostante, per Antonelli persino il Dante che compare in un romanzo per ragazzi (Vai all’inferno, Dante! di Luigi Garlando) e che parla con le parole di oggi, discute di calcio e non può non essere considerato «un’aperta ed esplicita provocazione», persino questo Dante può essere letto come una provocazione che ha un effetto positivo: «Mescolare sacro e profano è il modo in cui si cerca di smontare o scavalcare o almeno aggirare il muro di una certa diffidenza. Dante s’impadronisce di quel lessico con l’obiettivo di creare un terreno comune. Per vincer la tenzone, risponde per le rime».
Il libro finisce così, con un’estrema nota di ottimismo. Ed è forse l’unico difetto. In questa storia del Dante popolare di cui si narrano sempre e solo le sorti magnifiche e progressive non c’è nessun cattivo. Non c’è Mussolini, non c’è la massoneria che contribuisce a creare il culto di Dante in opposizione alla Chiesa cattolica. Non c’è quel Dante che a ogni livello, colto e popolare, è stato ed è tuttora al centro della controversia, quel Dante che può essere evocato ancora oggi da molte parti politiche e da diverse ideologie, quel Dante che divide e non unisce, Dante come simbolo legato spesso a un immaginario non condiviso.
In una storia del Dante popolare ci vorrebbero più note oscure, perché a quella storia appartiene anche il Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce che nel 1920, a Ravenna, inaugurando le celebrazioni per il sesto centenario dantesco, dopo aver esortato a dare «Dante al popolo», sostiene che la Commedia si distacca dalla poesia del Medioevo poiché il poema di Dante è «privo di passione per la guerra in quanto guerra, delle commozioni che accompagnano la lotta militare».
Quel discorso meriterebbe di figurare in una storia del Dante popolare perché l’immagine di Dante che Croce vuole divulgare è falsa (Dante in una lettera ricorda ai fiorentini che se non si piegheranno all’imperatore le loro case verranno bruciate, le loro donne stuprate: Dante non era un pacifista), benché ai suoi occhi utile per fare di Dante un cantore della pacificazione attraverso la poesia (nella poesia, pensava Croce, «ci risentiamo veramente uomini e fratelli»), una pacificazione che pareva necessaria dopo la Prima guerra mondiale, quando l’Italia si apprestava a entrare nel ventennio più buio. La storia avrebbe spazzato via quell’idea di poesia, quell’idea di Dante e quell’idea di pace. Il vero Dante popolare sarebbe diventato di lì a poco il poeta che insegna a Mussolini a non perdonare mai il nemico.
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FILOLOGIA STORIOGRAFIA, E VITA NUOVA: USCIRE DALL’INFERNO...
Premesso che la “donna mia” di “Tanto gentile” vale “signora (del cuore)”, come è possibile continuare a pensare, oggi, anche dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), che Dante ami Beatrice, tradisca Gemma Donati, i figli, e la figlia Antonia, suor Beatrice?
(Sul tema, forse, può essere utile tenere presente una mia “vecchia” ipotesi di ri-lettura della vita e delle opere di Dante.
LA POESIA CHE CAMBIA. COME SI LEGGE DANTE
di Marco Grimaldi (Le parole e le cose, 27 Maggio 2021
1. Le parole e il mondo
Perché leggiamo ancora la Commedia? Prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta, nella quale Dante ha creato un mondo fantastico pienamente verosimile e coerente nel suo funzionamento. La leggiamo inoltre per il realismo. Nella letteratura medievale prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano quasi sempre fondate su schemi fissi ereditati dalla tradizione, ed erano descrizioni spesso molto efficaci. Per questa ragione, oggi abbiamo l’impressione che i poeti prima di Dante guardassero raramente dal vivo la realtà - proprio come gli artisti prima di Giotto. Dante, che conosce a fondo e rielabora la letteratura latina e volgare, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo, di cui oggi ammiriamo soprattutto la straordinaria capacità di osservare le emozioni, le idee, i fenomeni naturali e di tradurli in immagini e parole. Tutto questo Dante lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora. Perché la sua lingua - quella di un poema che per sette secoli è stato copiato, stampato, commentato, letto migliaia di volte - è ancora la nostra lingua. E queste sono le ragioni principali - e importantissime - che si spiegano di solito a scuola e all’università.
2. Il commento inesauribile
La Commedia ha avuto una diffusione straordinaria, fin da quando il poeta era ancora in vita (il poema circolava, in parte, prima del 1321). Ed è diventata rapidamente un classico anche perché fin dalle primissime fasi della divulgazione è stata accompagnata da commenti e apparati didattici, come era accaduto fino ad allora solo con le grandi opere dell’antichità presenti nel canone delle scuole e delle università medievali. Nessun altro classico della letteratura italiana ha una tradizione di commenti così ampia e precoce. Di fatto, la tradizione dei commenti alla Commedia è continua e ininterrotta. Come ha scritto il poeta russo Osip Mandel’štam: «Il commento (esplicativo) è parte integrante, strutturale, della Commedia». Il poema, in altre parole, non è mai stato e forse non può essere letto senza commento.
La Commedia viene letta dagli intellettuali, dai mercanti, dai religiosi; viene citata e riutilizzata nei trattati, nelle prediche, nei documenti pratici; i suoi versi sono imitati ripetutamente in forme poetiche molto diverse. E il poema arriva molto presto, già nel Trecento, fuori d’Italia: soprattutto in Francia, in Spagna, in Inghilterra. Ciò vuol dire che molte generazioni di italiani, e poi di europei, hanno appreso che cos’è la poesia leggendo Dante; leggendo Dante hanno imparato a guardare la realtà, a giudicare i vivi e i morti; leggendo Dante hanno scoperto che cosa vuol dire amare, peccare, esercitare la virtù; leggendo Dante hanno formato le loro idee sulla Chiesa, sull’Impero, sulla nobiltà, sulle grandi dinastie europee, sulla poesia, sulla teologia, sulla dottrina cristiana. Insomma, in tutta Europa e poi nel mondo, per molte generazioni, la Commedia, assieme soprattutto alle poesie liriche, è stata anche un’enciclopedia del sapere, un manuale di istruzioni per il presente. Anche oggi siamo liberi di usare Dante in questo modo. Ma dobbiamo saperlo leggere, attraverso la tradizione dei commenti. E dobbiamo fare molta attenzione a non superare i limiti dell’attualizzazione. Dante può ancora insegnarci molte cose, ma non è un nostro contemporaneo.
3. La ragione pratica
Leggiamo ancora la Commedia anche perché ha un messaggio profondo che non smette di interessarci. Dante è un poeta cristiano e non è quindi possibile mettere da parte o sottovalutare la componente propriamente religiosa del poema, nel quale ha cantato «con accenti quasi divini gli ideali cristiani dei quali contemplava con tutta l’anima la bellezza e lo splendore, comprendendoli mirabilmente», come scriveva Benedetto XV nell’enciclica del 30 aprile 1921 per il sesto centenario della morte. Ma non è necessario essere cattolici per apprezzare tutta la profondità del messaggio della Commedia. Ancora oggi, infatti, quando molti non credono più nell’esistenza di Dio e pochi in un sistema di pene e di ricompense nell’aldilà, tutti hanno comunque un’idea di che cosa dovrebbe accadere dopo la morte. Il nostro mondo morale continua a fondarsi principalmente su quelli che Kant definiva i postulati della ragion pratica: l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e il libero arbitrio. La Commedia mette in scena questi postulati: ci racconta che cosa accade dopo la morte ed è un altissimo elogio del libero arbitrio, della piena responsabilità dell’uomo nella determinazione del proprio destino. E la leggiamo anche perché è un’opera scritta per cambiare la vita degli uomini, come Dante ci dice in maniera molto chiara: il fine del poema è togliere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita e guidarli alla felicità. Non è arte per l’arte, è arte per la vita.
4. Teoria dei generi
Eppure, Dante non è nostro contemporaneo. Non lo è perché crede in tutta una serie di cose che non ci appartengono più: crede che la donna sia intellettualmente inferiore all’uomo per natura, che l’omosessualità sia un peccato, che la sete di conoscenza degli uomini debba avere dei limiti. Per questo, ad esempio, non ha fondamento storico l’idea che Dante abbia voluto rivoluzionare il modo di concepire il comportamento della donna. Certo, Beatrice è il personaggio più importante della Commedia; ma dal punto di vista di Dante è anche una donna chiusa nel suo ruolo di genere. Cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti gli uomini del suo tempo, concepiva i rapporti di genere, significa non comprendere che l’esaltazione della donna - già tipica della letteratura cortese - era possibile solo all’interno di quei ruoli. Dante non vuole ribaltare il modo di concepire il rapporto tra sesso e genere: vuole esaltare la virtù, l’umiltà e la bellezza di una donna la cui immagine tende a coincidere con quella della Vergine Maria. E in questo non c’è nulla di contemporaneo. Non ha senso tentare di avvicinare Dante alla nostra concezione dei rapporti tra i generi.
5. Vicino e lontano
In questa operazione di distanziamento, tuttavia, non bisogna andare oltre certi limiti. Una volta mi hanno chiesto: “come si fa a spiegare agli studenti che l’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è una cosa completamente diversa da quello che si intende oggi?”. Ora, questa prospettiva è molto cauta, ma è giusta solo in parte. L’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è infatti lo stesso amore che intendiamo oggi. Lo è perché le nostre emozioni, le nostre sensazioni (il brivido che si prova davanti alla persona che si ama, il desiderio di possesso, la gelosia) sono esattamente le stesse che descrive Dante. Per questo è così facile sentirsi coinvolti dal canto di Paolo e Francesca, che parla del momento in cui ci si innamora e dell’impossibilità di resistere al desiderio. Quello che è completamente diverso è il sistema di idee all’interno del quale Dante inserisce quella cosa che chiamiamo amore. Un sistema che condanna duramente, senza appello, Paolo e Francesca. Il personaggio di Dante prova compassione e sviene perché Dante, in quanto autore, intende condurre il lettore a identificarsi il più possibile con il pellegrino, perché i protagonisti dei romanzi cavallereschi svengono di continuo e perché già nelle visioni medievali chi compie il viaggio nell’aldilà (san Paolo, per esempio) si impietosisce per i dannati e viene esortato dalla guida (un angelo, di solito) a condannarli e a passare oltre. Ed è questo sistema di idee che dobbiamo cercare di ricostruire oggi per capire Dante. Ma per capirlo dobbiamo conoscere l’italiano antico, la storia e la filosofia del Medioevo. È la funzione della scuola: non quella di fare leggere Dante a tutti gli studenti, ma di dare a tutti le conoscenze necessarie per poter leggere Dante.
6. Il nostro tempo
Molti si chiedono, e chiedono spesso agli studiosi, se Dante offre soluzioni per i mali del nostro tempo. Io penso che se a volte sembra offrirle - se qualcuno crede di poter trovare in Dante delle soluzioni - nella maggior parte dei casi non sono soluzioni compatibili con la nostra vita di uomini moderni. Pensiamo alle idee politiche, per esempio alle teorie per risolvere il problema della cupidigia. Siamo liberi di considerare Dante un precursore delle critiche al capitale, all’accumulazione finanziaria, all’Europa delle banche. Ma quando lo facciamo dobbiamo sapere che la soluzione politica ed economica di Dante era concentrare tutto il potere e tutta la proprietà nelle mani di un imperatore assoluto che proprio perché possiede tutto non desidera nulla e mette in questo modo un freno ai desideri smodati di tutti gli altri governanti, portando così pace e felicità nel mondo. Questa è la soluzione di Dante, che oggi - credo - piacerebbe a pochi.
7. La poesia che aiuta a vivere
Quello che dovrebbe interessarci di più è il fatto in sé che Dante avesse una soluzione per i mali del suo tempo. Leggendo Dante veniamo infatti a contatto con un’idea di poesia e di letteratura molto diversa da quella oggi più comune. Basta pensare a Bob Dylan, premio Nobel per la Letteratura nel 2016, che quando gli si chiede cosa significano le sue canzoni dichiara di non volere essere dipinto come “un uomo con un messaggio”. Dante la vede in maniera completamente diversa: è esattamente il contrario di Dylan, è un uomo con un messaggio. Anzi: è un poeta con un messaggio. Un poeta che vuole cambiare la realtà, che vuole trasformarla, che ama, odia e si vendica dei nemici scrivendo la Commedia. Dante non canta solo per sé. Canta per gli altri, nel bene e nel male.
8. La storia del nostro peregrinare
La grandezza della Commedia sta quindi nella lingua in cui è scritta (che è ancora la nostra lingua perché Dante è davvero, come abbiamo imparato a scuola, il padre della lingua italiana). Sta nel mondo possibile che Dante ha creato, un mondo nel quale tutto è fantastico (il viaggio di un uomo nell’aldilà, i suoi incontri con le anime, i diavoli, i mostri, gli angeli e alla fine la visione diretta di Dio) eppure tutto è incredibilmente reale, perché Dante è un poeta della realtà che ci fa vedere le emozioni e la natura e che ci spiega la storia e le idee. E la grandezza sta anche nella sua idea di poesia, una poesia che cambia la realtà, che cambia gli uomini, che aiuta a vivere virtuosamente sulla terra.
Ma c’è anche un’altra ragione per cui leggiamo ancora la Commedia: perché è forse in assoluto l’opera letteraria nella quale è più esplicito quel meccanismo per il quale tutti noi tendiamo a riconoscere la nostra storia nelle storie che leggiamo, cercando qualcosa che ci riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente. È un concetto che esprime molto bene Francesco Petrarca quando nel Secretum racconta come nelle Confessioni di Agostino aveva l’impressione di leggere non la storia degli altri, ma quella del suo proprio peregrinare.
In Dante il meccanismo è più esplicito: quella che sta raccontando è la storia di un singolo uomo che vuole ritrovare sé stesso, che vuole superare il peccato e per farlo deve conoscere ciò che accade nell’aldilà. Ma è anche la storia dell’umanità intera. Dante aveva certamente previsto che sarebbe scattato quel meccanismo di riconoscimento e scrive la Commedia sapendo che tutti i lettori futuri avrebbero ritrovato nel suo viaggio la storia del loro peregrinare. E non perché Dante possa offrire risposte ai problemi del presente, ma perché leggendo la Commedia torniamo a interrogarci sulle domande fondamentali - la libertà, la giustizia, la vita oltre la morte, il senso dell’esistere, l’esistenza di Dio.
9. Una poesia di appartenenza
In una delle più belle poesie di Satura, Montale scrive:
Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno.
Montale risponde a una critica e per spiegare che la sua non è una poesia senza destinatario si rivolge a un tu - alla donna che ha amato - e dice che, proprio per aver parlato a lei, la sua poesia appartiene a qualcuno, è una poesia che si spinge all’esterno, che non è ripiegata sull’interiorità del poeta. Dante avrebbe potuto rispondere più o meno allo stesso modo - «Ma s’era tua era di qualcuno» - perché tra gli aspetti più straordinari della Commedia c’è che il poema è pensato per lodare una donna che incarna la perfezione cui possono tendere tutti gli uomini e che questa donna occupa un posto centrale in Paradiso. La Commedia appartiene a qualcuno perché appartiene a Beatrice.
Ma Dante avrebbe potuto rispondere anche in un altro modo. Avrebbe potuto dire: «se era mia era di tutti». Perché la Commedia è la storia di Dante e Beatrice, ma è anche la storia di tutti noi, la storia del nostro peregrinare.
Castelvecchi editore © 2021 Lit Edizioni s.a.s
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONE:
RIPENSARE COSTANTINO E LA TEOLOGIA E LA POLITICA DELL’EUROPA.
Un omaggio a Beatrice Maria e Lucia (8 marzo) e a Dante Alighieri (25 marzo - Dantedì)...
USCIRE A RIVEDERE IL CIELO STELLATO. Non avendo sottratto alla teologia e alla logica dell’ Imperatore Costantino l’opera di Dante Alighieri (ridotto dalla Chiesa Cattolica di Giovanni XXII, prima che da Ugo Foscolo, a "ghibellino fuggiasco"), filosofi e storici hanno finito per banalizzare anche il lavoro di Ernst H. Kantorowicz! Si tenga presente, per capire bene e meglio l’uno e l’altro, che l’ultimo capitolo (l’ottavo) dei "Due corpi del re" è intitolato "La regalità antropocentrica: Dante" e, al contempo, che la regalità antropocentrica è da leggersi in senso antropologico (di ogni essere umano, "ecce homo"), non in senso di una andrologia costantiniana (di ogni essere umano-maschio, "ecce vir")!
COSTITUZIONE. La "Monarchia" dei "due Soli" non dice né della dittatura dell’Imperatore né della dittatura del Papa, ma indica che l’uno e l’altro, semplicemente (la cosa più difficile a farsi), dia a "Dio" (l’amor che muove il sole e le altre stelle) ciò che è di "Dio" e ognuno all’altro (entrambi sovrani - memoria di don Milani) ciò che tocca all’uno e all’altro - nel riconoscimento della sovranità di "Dio" stesso, della Legge dei nostri Padri Costituenti e delle nostre Madri Costituenti. Se in principio era la Costituzione (il Logos), "Quis Ut Deus?" ("Chi è come Dio")?!
“Pensiero e poesia in Dante. Esercizi di filologia dantesca” di Raffaele Pinto *
Prof. Raffaele Pinto, Lei è autore del libro Pensiero e poesia in Dante. Esercizi di filologia dantesca edito da Aracne: quale rilevanza assumono i rapporti intratestuali nel processo interpretativo dell’opera dantesca?
Rileggersi è in Dante, almeno a partire da un certo momento, condizione dello scrivere. Il fenomeno è così caratteristico della sua mentalità, e così pervasivo, che alla sua scrittura può essere utilmente applicato il principio di indeterminazione di cui parlano i fisici, per il quale in un certo ordine di grandezze l’occhio dell’osservatore interferisce con il fenomeno materiale osservato impedendo una percezione ‘oggettiva’ di esso (che ne calcoli, nello stesso tempo, la velocità e la posizione). Per ciò che riguarda Dante, il primo ‘osservatore’ dei suoi testi è lui stesso, il che significa che agisce sui testi una soggettività di secondo grado (oltre quella, per così dire, istituzionale che presiede ogni atto di scrittura e mette a fuoco il testo dall’interno). Di conseguenza noi critici, osservatori secondari, non analizziamo mai nei suoi testi fenomeni verbali allo stato puro, ma sempre oggetti testuali fortemente aleatori, perché successivamente rimaneggiati nella loro significazione dal loro produttore (e saremmo quindi obbligati a distinguere ed a scegliere fra ciò che il testo ‘diceva’, quando fu scritto dal poeta, e ciò che il testo ‘dice’, ogni volta che viene da lui riletto). Se utilizzassimo concetti provenienti dalla psicoanalisi, invece che dalla fisica, potremmo parlare, e sarebbe forse più appropriato, di “plasticità del significato”, nel senso in cui Freud parlava di “plasticità delle pulsioni”: come nel cervello le cariche elementari di energia psichica (le pulsioni) sono suscettibili di subire trasformazioni nei loro contenuti (sia sul piano oggettivo delle mete pulsionali, sia su quello soggettivo delle rappresentazioni pulsionali), così nei testi di Dante le unità elementari di senso, i nuclei verbali in cui il testo si articola, subiscono nel tempo modificazioni nei loro contenuti. Un senso originario certo esiste, ed è quello che orienta l’invenzione del testo. Esso è però fin dal principio disponibile, forse programmaticamente, ai successivi rimaneggiamenti, così che vi si vanno successivamente depositando autointerpretazioni (autoallegoresi) che lo modificano parzialmente o totalmente. Se definiamo come ‘intratestualità’ tale dialogo di Dante con se stesso (fra un’opera e l’altra o fra le parti di una stessa opera), contro la tendenza oggi dominante negli studi danteschi a privilegiare la ‘intertestualità’ (cioè il reperimento delle fonti), marginalizzando o ignorando la ‘intratestualità’, questi esercizi ribadiscono la necessaria centralità dei rapporti intratestuali, nel processo interpretativo, e la relativa marginalità (tranne importanti ma rari casi) della intertestualità, che applicata a tappeto sui testi danteschi ha quasi sempre un effetto di appiattimento e confusa frammentarietà (le innumerevoli fonti che sono o sembrano rintracciabili in essi, e che invece di chiarirne il senso lo occultano o mistificano). La tendenza a cercare nelle fonti, reali o presunte, il significato del frammento testuale è così estesa e dilagante che si ha la sensazione, a volte, che Dante sia solo la scusa per giustificare ricerche su temi di storia e letteratura medievale che, relativamente periferici, acquistano un forte rilievo storiografico solo grazie al fatto che sono stati sfiorati (o potrebbero esserlo stati) dal genio del sommo poeta. Tale ‘frammentismo’, che dalla poesia rimbalza nel pensiero, decostruendolo, e magari banalizzandolo, nella prevedibilità di temi ‘istituzionali’ del pensiero medievale o antico ai quali le tesi dantesche dovrebbero per principio corrispondere (tesi spesso personalissime e comunque, almeno nella Commedia, governate da una strategia romanzesca che per di più va trasformandosi in itinere), preclude la prospettiva globale sul testo o sull’insieme delle opere, una prospettiva che nel caso di Dante è innanzitutto necessaria, e poi necessariamente diacronica, per le numerose palinodie che costellano il percorso della sua ricerca.
Di quale utilità è la nozione di “flusso testuale” per descrivere le modalità dantesche di scrittura?
Deduco, con una certa libertà, la nozione di ‘flusso testuale’ dalla critica estetica di Frederic Jameson, che oppone l’opera (caratteristica dell’arte moderna) al testo (caratteristico dell’arte postmoderna). La principale differenza consiste nella strutturazione dell’oggetto estetico, massima nell’opera e minima nel testo. Mentre l’opera è definita una volta per tutte in tutte le sue funzioni, il testo ha una provvisorietà vocazionale che lo espone ad ogni tipo di trasformazione. L’opera è fissa, il testo fluisce. Nella critica letteraria convenzionale, e particolarmente nella ecdotica, la nozione di testo equivale alla nozione di opera (secondo la terminologia di Jameson): ossia un oggetto letterario nitidamente identificabile rispetto a tutti gli altri oggetti letterari, innanzitutto nella sua esistenza materiale (conservata o no), e poi nel suo significato.
Le palinodie (o autoallegoresi) dantesche decostruiscono ogni volta la struttura dell’opera precedentemente realizzata, alterandone il significato alla luce dell’opera che sta scrivendo. Tale significato è quindi adeguatamente descrivibile solo nella sua trasformazione nel passaggio da un testo all’altro. La critica convenzionale, legata alla idea di opera, si pone normalmente il problema di scegliere fra il significato originale e quello nuovo, invece di considerare, come proprio oggetto di analisi, il movimento che conduce dall’uno all’altro. La ‘donna gentile’ (o pietosa) della Vita nuova è personaggio reale (come potrebbe esserlo Beatrice) o è allegoria (alla maniera, secondo il Convivio, della matrona della Consolazione di Boezio)? Se abbandoniamo la prospettiva dell’opera in sé conclusa e strutturata, ci rendiamo conto che questo personaggio ha veicolato una fondamentale modificazione della identità intellettuale di Dante, che da quel poeta che era, a Firenze, è diventato un filosofo, nell’esilio (e fino a quando deciderà di scrivere la Commedia) e che quindi i due testi, Vita Nuova e Convivio, sono collegati da una parte, perché Dante rivendica di entrambi la paternità, ma distinti dall’altra, perché nel passaggio dall’una all’altra si è prodotto un sostanziale mutamento della coscienza di sé del poeta, che si proietta all’indietro risemantizzando ciò che aveva già scritto. Per ‘flusso testuale’ intendo questo movimento di costante risemantizzazione dei testi già scritti, e mi sembra che tale nozione metta meglio a fuoco il dinamismo di un pensiero che si sviluppa e modifica attraversando le opere ed i registri espressivi (verso / prosa, romanzo / trattato, poesia / filosofia), e che quindi in gran misura trascende le une e gli altri.
Di tale dinamismo sono chiaramente percepibili la direzione e l’interna necessità che lo motivano, anche quando i mutamenti di rotta sono oggettivamente indotti dall’esterno, da eventi non previsti dal poeta e del tutto indipendenti dalla sua volontà (come l’esilio, cui lo obbligarono le condanne del 1302, o la campagna italiana, fra il 1310 e il 1313, di Arrigo VII). È anzi proprio tale flusso di pensiero che, depositandosi nei testi, fornisce un nitido diagramma evolutivo della esperienza letteraria e della ricerca filosofica di Dante. Mentre la lingua e lo stile, vale a dire la poesia intesa come fatto squisitamente verbale, alla maniera di Gianfranco Contini, ci restituiscono una immagine disgregata della sua opera (la “prova locale”, il “travaglio esplorativo”, il “furore dell’esercizio”: le memorabili categorie critiche con le quali lo studioso caratterizzava le Rime), il filo di pensiero che attraversa diacronicamente i testi mostra una ragionata linea di svolgimento intellettuale, che si deposita a volte, più o meno stabilmente ed organicamente, nelle opere di tipo speculativo, ma che sottende poi anche ogni frammento di poesia ed ogni trama romanzesca.
In che modo il dialogo-polemica con Guido Cavalcanti informa la produzione di Dante fino all’esilio?
Come si sa, la Vita nuova fu scritta PER Guido Cavalcanti. Il che significa che Guido non fu semplicemente il destinatario del testo, ma anche il suo ispiratore, e che la Vita nuova doveva rappresentare posizioni letterarie (di rottura rispetto alla tradizione lirica italiana) comuni ai due amici. I testi lirici composti da Dante fino alla Vita nuova confermano senz’altro una sostanziale identità di poetica con l’amico e un comune obiettivo polemico: il guittonismo, ampiamente inteso come verbalismo privo di seri fondamenti filosofici. Di questi fondamenti Guido e Dante sono promotori (dopo le incursioni guinizzelliane nel territorio della scrittura). Anche per ciò che riguarda la parodia teologica i due amici procedono di conserva, poiché liriche come Donne che avete e Veggio negli occhi rappresentano un analogo sconfinamento (salve restando le differenze di stile e di temperamento).
La Vita nuova dovrebbe, nelle intenzioni di Dante, ufficializzare tale complicità, inaugurando un tempo nuovo della poesia. La risposta di Guido, cioè Donna me prega, delude le aspettative di Dante, poiché al teologismo romanzesco del libello Guido oppone un ben più serio averroismo filosofico per il quale viene ribadita la natura patologica e delirante del desiderio, come la scienza medica dell’epoca insegnava. L’effetto di Donna me prega su Dante è immediato: il mito teologico di Beatrice viene abbandonato e sostituito da un altro mito, questo sì allineato alle posizioni negative di Guido, cioè la ‘giovane donna’ (poi pargoletta-pietra) insensibile al desiderio, che condanna l’amante alla più cupa disperazione. Da Amor che movi a Così del mio parlar è questo il fantasma di donna (sostanzialmente cavalcantiano) che ossessionerà Dante. È su altri registri ideologici che Dante cercherà un cammino proprio, diverso da quello di Guido.
Quale mutamento di prospettiva teologica e filosofica, intorno a temi come il libero arbitro e il peccato originale, si produce, nel passaggio dalla Vita nuova, al Purgatorio, al Paradiso?
In quanto veicolo del ‘consiglio della ragione’, Beatrice assicura al poeta l’esercizio del libero arbitrio (che l’amore patologicamente inteso neutralizza). Le riprese agostiniane nella Vita nuova vanno in questa direzione, e Virgilio, quando ne parla nel canto XVI del Purgatorio (vv. 73-75), affiderà a Beatrice il compito di dire la parola definitiva al riguardo. Dopo la parentesi misogina che si apre dopo la Vita nuova, la Commedia riprende il mito filogino di Beatrice e l’istanza di razionalizzazione che questo mito rappresenta.
Una svolta radicale, durante la stesura del Poema, si produce all’altezza del Paradiso, nel quale Dante deve riconsiderare il problema del libero arbitrio alla luce delle posizioni averroiste sostenute nella Monarchia, calibrando il suo teologismo su una prospettiva filosofica per la quale la razionalità e quindi la libertà (che da essa dipende) non sono più quelle del soggetto umano singolarmente considerato, ma bensì quelle della umanità universalmente intesa: razionalità e libertà dipendono ora (cioè nella Monarchia e nel Paradiso) completamente dalle condizioni politiche del genere umano. Il contraccolpo sul tema del peccato originale è devastante: ignorato fino al Purgatorio (perché ogni anima viene creata da Dio ‘semplicetta’, cioè originariamente innocente), il peccato originale diventa centrale nel Paradiso, ma in un senso diversissimo da quello della teologia convenzionale, poiché Adamo trasmette ai suoi discendenti umani non una ferita che ogni uomo dovrà risanare nel suo rapporto con Dio, ma una infrazione alla giustizia divina che sarà ricomposta solo con la creazione dell’Impero, quindi non individualmente ma collettivamente.
Quali oscillazioni e ripensamenti caratterizzano l’atteggiamento di Dante nei confronti della propria città?
La prima oscillazione la vediamo nel passaggio dalla Firenze-Gerusalamme della Vita nuova alla Firenze dei “falsi cavalieri” delle due dottrinali. Nell’esilio, fra Tre donne e la ‘montanina’, Firenze è la patria da cui è stato espulso, oggetto di nostalgia e rimpianto. A partire dall’episodio di Ciacco, nel VI dell’Inferno, il tono è progressivamente sempre più risentito, fino alla terribile invettiva della Epistola VI, nella quale Dante esprime il desiderio che Firenze venga rasa al suolo. La nostalgia riappare alla fine del Paradiso, nel contesto della conversazione con Giovanni del Virgilio: la difesa del volgare contro l’incipiente umanesimo latino induce Dante a riconsiderare il rapporto con la propria città sul piano linguistico, e nel XXV del Paradiso Firenze è di nuovo il “bello ovile in cui dormì agnello”.
Come si esprime la critica dantesca nei confronti dell’emergente «spirito del capitalismo»?
I recenti studi sul pensiero economico medievale hanno messo in luce una attenzione acutissima della teologia dell’epoca nei confronti della nuova economia che aveva trasformato la società italiana ed europea, e di cui Firenze era uno dei centri più attivi. Nel quadro di questa riflessione, la nozione di avarizia viene completamente risemantizzata rispetto al catechismo dei sette vizi capitali. Furono soprattutto gli ‘spirituali’ francescani che analizzarono, e legittimarono, l’economia di mercato e la nuova ricchezza di tipo capitalista che ne era il motore. Figura di spicco, in questa lettura positiva del capitalismo, fu Pietro di Giovanni Olivi, lettore a Santa Croce fra il 1287 e il 1289.
La polemica di Dante contro la mentalità capitalista (avarizia o cupiditas) inizia con le due dottrinali, ed ha momenti di estrema lucidità nel IV Trattato del Convivio e nella canzone Doglia mi reca. L’allegoria strutturale della Commedia è il conflitto fra la lupa ed il veltro, e la denuncia degli effetti perversi del culto del denaro (del maladetto fiore) prosegue in toni sempre più aspri fino alla fine del Paradiso. Qui, e nella Monarchia, lo spirito del capitalismo viene contrapposto all’esercizio della giustizia: dove domina il principio dell’arricchimento non può esserci giustizia (Monarchia, I xi 11): “iustitie maxime contrariatur cupiditas . . . Remota cupiditate omnino, nichil iustitie restat adversum [ciò che massimamente si oppone alla giustizia è l’avarizia ... Eliminata radicalmente l’avarizia, nulla resta che si opponga alla giustizia]. La colpa della Chiesa consiste nella sua legittimazione, e nella parallela esautorazione dell’Impero. Compito essenziale, se non unico, del Monarca universale è quindi quello di assicurare la giustizia sulla terra debellando il capitalismo e neutralizzando le ingerenze della chiesa nell’ambito temporale.
Quale rilevanza assume il tema della polarità tra fictio poetica e fictio romanzesca circa la questione dell’autenticità della Epistola XIII?
La Commedia è una svolta epocale nella storia dell’immaginario occidentale, poiché inaugura la modernità letteraria (nelle sue due modalità di fictio poetica e fictio romanzesca). Da tale svolta dipende la secolarizzazione della nostra società e della nostra cultura, per la quale la religione occuperà un luogo sempre più marginale o irrilevante nelle nostre coscienze (poiché la riduzione poetica e romanzesca operata da Dante, con le sue parodie scritturali, la svuota di ogni autorevolezza ecclesiale e confessionale). Dante è consapevole di tale riduzione ed anzi la rivendica costantemente nel Poema come propria iniziativa (nel quadro della rovente polemica anticlericale che lo ispira).
L’autore della Epistola, consapevole del significato ideologicamente sovversivo del testo (analogo a quello della Monarchia sul piano politico), e forse con la finalità di proteggerlo dalle prevedibili censure ecclesiastiche, si propone di occultare tale significato ortopedizzando ideologicamente il testo per renderlo compatibile con i valori religiosi ufficiali. Lo strumento concettuale di cui si serve è l’allegorismo del Poema, che egli legge in un senso opposto a quello che ha in Dante: mentre il poeta intende la polisemia come creatività di senso, cioè libertà di plasmazione del significato delle parole in funzione delle sue arbitrarie intenzioni espressive, l’autore dell’Epistola la intende come possibilità o necessità di ricondurre ogni arbitraria invenzione poetica ad un catechismo obsoleto finalizzato alla edificazione religiosa (come andare in Paradiso comportandosi da buoni cristiani), il che salvò certo la Commedia da censure radicali (come quelle che colpirono la Monarchia), ma al prezzo di stravolgerne completamente il senso. Il suo intervento è comparabile a quello del ‘braghettone’ (Daniele da Volterra), che coprì le nudità delle figure michelangiolesche della Cappella Sistina perché non offendessero il sentimento religioso controriformistico.
Raffaele Pinto (Napoli, 1951) è docente di Letteratura italiana nella Università di Barcellona. Si è dedicato soprattutto a Dante e alla sua irradiazione nella letteratura e nel cinema. Ha pubblicato numerosi saggi e le edizioni spagnole di Vida nueva (Cátedra, 2003); Dante, Libro de las canciones (Akal, 2014); De Vulgari Eloquentia (Cátedra, 2018); Monarchia (Cátedra, 2021); (con altri autori) Divina Comedia (Akal, 2021). In Italia ha pubblicato una edizione della Vita nuova (Edimedia, 2019).
* Fonte: Letture.org
Dante, la prima Divina commedia tradotta in cinese arriva dall’Accademia della Crusca
Autore Agostino Biagi, un toscano trapiantato a Genova. A donarla la nipote, la deputata Mara Carocci
di Vittorio Coletti (la Repubblica, 21 Ottobre 2021)
È probabile che la novità più singolare e forse davvero unica di un anno dantesco ricco di edizioni, approfondimenti e letture, ma (inevitabilmente) non di inediti, arrivi da Genova. Nei prossimi giorni, infatti, saranno presentate ufficialmente nell’Accademia della Crusca di Firenze diverse e parallele traduzioni in cinese della Divina Commedia, in gran parte elaborate a Genova e ora donate all’Accademia, con un gesto di pura liberalità, dall’on. Mara Carocci, ex parlamentare del Pd, che le ha rinvenute nelle carte di famiglia alla morte della madre. Quella che sembra davvero essere la prima traduzione integrale in cinese e in versi del Poema dantesco, è opera, singolarmente, non di un cinese, come ci si potrebbe aspettare e in genere sempre avviene (chi traduce è perlopiù madrelingua nell’idioma d’arrivo), ma di un italiano, di un toscano trapiantato a Genova, dove ha vissuto a lungo ed è morto nel 1957: Agostino Biagi, di cui la Carocci è pronipote.
Agostino Biagi era nato a Cantagallo, sull’Appennino tosco-emiliano nel 1882. Entrato giovanissimo nell’ordine dei Francescani era andato missionario in Cina, dove aveva imparato il cinese e conseguito il titolo per insegnarlo. Tornato in Italia ed entrato in polemica con la Chiesa di Roma, si era convertito alle confessioni protestanti ed era diventato pastore evangelico ad Avellino e poi a Genova, dove è rimasto sino alla morte. Antifascista della prima ora, picchiato per le sue idee politiche filocomuniste, “attenzionato” per esse dalle questure di mezza Italia, ha vissuto stentatamente insegnando cinese ed altre lingue in varie scuole della Penisola.
La sua biblioteca, che ora, insieme con le traduzioni della Commedia, l’on. Carocci ha donato alla Crusca, testimonia la varietà dei suoi studi e traduzioni in e dal cinese, la sua precoce intuizione del ruolo di leader mondiale che la Cina avrebbe poi assunto in ogni campo, la sua attenzione per i più svariati aspetti della cultura di quel Paese e un ininterrotto studio della sua lingua, attestato da abbozzi di grammatiche (una ha anche circolato come dispensa) e di vocabolari di cinese per italiani.
Dal passato ritorna un fantasma umile e colto, un uomo di fede religiosa e politica ben in anticipo sui tempi del cattocomunismo (anche se per lui sarebbe più appropriato parlare di cristiano-comunismo), un intellettuale di grande curiosità, un linguista capace di maneggiare lingue diverse e tra di loro lontanissime (oltre al cinese, insegnò anche tedesco e inglese).
Commuove pensare ad Agostino Biagi, che vive nella semipovertà del suo ruolo di pastore qui, vicino a noi, con la moglie che cerca senza fortuna un editore per la traduzione della Commedia in modo da raggranellare qualche soldo per curare la sua lunga malattia, con la sua inesauribile passione per la Cina e il cinese, con il suo tenace impegno civile.
Gli studiosi, cui la Crusca metterà subito a disposizione le carte Biagi, diranno del valore letterario di queste traduzioni. Ma i sinologi che già hanno potuto dare una prima occhiata si sono detti meravigliati per la loro varietà metrica, la qualità grafica della scrittura ideogrammatica, la precisione dei disegni che le accompagnano.
Fin da ora, queste traduzioni in versi (ma ce n’è anche una che parafrasa in prosa la Commedia) lasciano intravedere un’impresa lunga e paziente, che ha cercato di portare Dante in Cina prima di chiunque altro.
In vita Agostino Biagi non c’è riuscito, complice le difficoltà prima politiche e poi economiche della sua situazione. Ora, la pronipote, donando la sua opera alla Crusca, la propone all’attenzione e alla considerazione che essa e il suo autore meritano e l’Italia e Genova aggiungono un’altra figura al loro già nutrito albo di uomini illustri.
LA "DIVINA COMMEDIA", IL "POEMA CELESTE", E I SEGNI DI UNA CRISI ANTROPOLOGICA PLANETARIA...
DANTE 1321 - 2021. L’anno dantesco sta terminando (M. Cazzato, "Dante, Maometto e Charlie Hebdo: segni di una crisi persistente", Le parole e le cose, 6 ottobre 2021)... ma lo spirito storiografico europeo è ancora quello del "Re Sole" (Luigi XIV) e quello di Napoleone-Hegel e della loro "Fenomenologia dello Spirito". E della fenomenologia di Dante Alighieri, della "Monarchia" dei suoi "Due Soli", non se ne trova traccia da nessuna parte.
Comprensibili i giochi di prestigio delle varie traduzioni e delle alterne interpretazioni, ma su questa strada si è ancora del tutto a terra, incapaci di vedere che cosa ci fa "tanto feroci" (Par. XXII, 151). E dell’amor, "che muove il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145), si continua a pensare che sia solo una licenza poeticamente (e politicamente) audace, pericolosa. O no?
Appunti sul tema:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: AL DI LÀ DELLA COSMOTEANDRIA
RINASCERE. Beatrice chiede al "gran viro" San Pietro di esaminare Dante (suo figlio!) sulla fede (Par. XXIV, 34-45: " Ed ella: «O luce etterna del gran viro /a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, /ch’ei portò giù, di questo gaudio miro, /tenta costui di punti lievi e gravi, / come ti piace, intorno de la fede,/ per la qual tu su per lo mare andavi. // S’elli ama bene e bene spera e crede, /non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi /dov’ogne cosa dipinta si vede;/ ma perché questo regno ha fatto civi /per la verace fede, a gloriarla, /di lei parlare è ben ch’a lui arrivi»").
San Pietro chiede: «Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: /fede che è?» (52-53). Dante , illuminato dalla Grazia (58: «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»), accetta le parole di San Paolo, risponde: "«Come ’l verace stilo/ ne scrisse, padre, del tuo caro frate/ che mise teco Roma nel buon filo, /fede è sustanza di cose sperate /e argomento de le non parventi; /e questa pare a me sua quiditate»" (61-66), e va oltre!
Con la luce della Grazia (Amore), egli ha ben chiaro che la sua sua strada non è quella né di Enea né di San Paolo, che dell’ "Ecce Homo", della figura di Cristo ha fatto un "vir-o", anzi un superuomo ("Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3), e prosegue!!!
Il viaggio continua, fino a capire che è "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145): "La gloria di Colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende/ in una parte più e meno altrove. /Nel ciel che più della sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire /né sa né può chi di là sù discende: / perché appressando sé al suo Disire, / nostro intelletto si profonda tanto/ che dietro la memoria non può ire" (Par. I, 1-9). E a ri-nascere: aggrappato al "vello" di Lucifero (e... dello stesso San Paolo), con l’aiuto di Virgilio (e Maria e Beatrice e Lucia, Dante ce l’ha fatta! Il suo cammino non sì è interrotto! Dopo 700 anni, come direbbe Raffaella Carrà (in memoria), egli è qui! O no?!
Dante2021: Dante Alighieri non "cantò i mosaici" dei "faraoni" ...
Federico La Sala
#Vexilla Regis (If. XXXIV, 1):
a "gambe in sù" (90)!
#Marx
a #scuola da
#Dante
per ritrovare la #strada e
#imparare ad
dalla dialettica
dell’#andrologia di
#Platone
e
#Hegel
DANTE (1321-2021): L’ANTROPOLOGIA, L’ANDROLOGIA, E LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" ... *
I 100 anni di Pax Romana.
Quel fertile e globale luogo di dialogo tra chiesa e società
di Stefano Ceccanti (Avvenire, mercoledì 21 luglio 2021)
I cento anni di Pax Romana, associazione internazionale degli universitari cattolici. Caro direttore, una vecchia foto sul sito di Pax Romana ci riporta al luglio 1921, quando nacque l’associazione internazionale degli universitari cattolici. Per la Fuci c’era Giuseppe Spataro, di lì a poco ai vertici del Ppi. In quel primo periodo fu molto attivo anche Pier Giorgio Frassati, che vedeva in questa apertura delle associazioni e delle istituzioni un vaccino importante rispetto ai nazionalismi.
Il nome riecheggiava il verso di Dante che richiamava all’universalità del cristianesimo («quella Roma onde Cristo è Romano») oltre a ricordare i circa duecento anni di pace in cui si collocò anche la nascita di Gesù. Pax Romana svolse un primo congresso a Bologna nel 1925, insieme a quello della Fuci. Un terreno minato: quattro anni prima della Conciliazione la Fuci lo aveva posto sotto il patrocinio del Re per proteggersi dalle minacce fasciste, ma ciò creò un serio problema col Vaticano, che si risolse affidando a Giovanni Battista Montini e a Igino Righetti la guida della Federazione, Per gli anni successivi vi fu una grande prudenza sui rapporti internazionali per non sfidare il regime nazionalista. Però Montini ebbe lo stesso un’influenza chiave, insieme a Maritain. L’impostazione era quella che troviamo nel volumetto del 1930 ’Coscienza Universitaria’.
La Chiesa aveva perso influenza nelle università e nel mondo della cultura; se voleva riacquisirla doveva pensare in termini di rapporto biunivoco, ossia essa aveva certo da dare a questi ambienti, ma aveva anche da ricevere. In particolare ciò richiedeva un attento discernimento dei vari aspetti della modernità e una rilettura positiva della democrazia. «La verità non è folgorazione d’un lampo; è progressivo, graduale, quasi inavvertito albeggiare di luce», scriveva Montini. E per Maritain andava superata «la scissione fra principio democratico e principio cristiano in Europa, dove gli animi sono divisi tra un cristianesimo irriducibilmente formato nella sua struttura e nella sua dottrina, ma per troppi anni isolato dalla vita del popolo, e l’infedeltà aperta e militante o l’odio per la religione». Nel 1947, seguendo lo stesso schema italiano che aveva fatto sorgere dalla Fuci il Movimento Laureati, Pax Romana si arricchì di un secondo ramo.
Nelle giornate fondative, Étienne Gilson pose come obiettivo quello di «organizzare nel mondo intero la fraternità degli spiriti che pongono l’intelligenza al servizio di Dio», ribadendo il collegamento tra fede e ragione e l’apertura internazionalista. Non fu quindi per caso se persone con questa impostazione e che si erano abituate ad assemblee internazionali, utilizzando più lingue e con complesse procedure democratiche, si siano trovate al centro dei lavori conciliari: sia gran parte degli uditori laici (lo spagnolo Ruiz-Giménez, l’esule catalano Sugranyes de Franch, l’australiana Goldie) sia molti teologi che erano stati assistenti (Guano, Murray) o comunque vicini (Chenu, Congar, il neo-cardinale Journet). Lo stesso per l’impegno politico nelle nuove democrazie: per limitarci solo alla guida dei Governi europei sia in Portogallo (Pintasilgo e poi Antonio Guterres, attualmente segretario Onu) sia in Polonia (Mazowiecky) erano stati esponenti di primo piano di Pax Romana. Anche nella Chiesa del postconcilio il contributo è stato ampio e universale: basti solo pensare al Perù, dove sono stati assistenti nazionali Gutierrez e l’attuale arcivescovo di Lima, Castillo. Questi sono alcuni dei nomi più noti, ma molti sono stati coloro che si sono posti come nani sulle spalle dei giganti, tra Chiesa e società, in tutto il mondo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!!
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Dante e Guido, chiave per la Commedia
A colloquio con Enrico Malato sul saggio dedicato al Canto X dell’Inferno: «Svela i motivi per cui vari passaggi del poema fanno riferimento a Cavalcanti, amico ma non troppo».
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, mercoledì 17 giugno 2020)
La prima ’anticipazione per estratto’, dedicata al canto I dell’Inferno, risale al 2007. Alla vigilia del settimo centenario della morte di Dante (1265-1321), Enrico Malato si sofferma ora su un altro canto del-l’Inferno, il X. L’orizzonte complessivo è sempre quello della Necod, la ’Nuova edizione commentata delle opere di Dante’ che lo stesso Malato - professore emerito di Letteratura italiana alla Federico II di Napoli e presidente del Centro Pio Rajna - ha avviato nel 2012 presso la casa editrice Salerno. Otto i tomi già pubblicati, al quale se ne aggiungerà un nono in autunno. A coronare il progetto sarà poi la Commedia, di cui si annuncia un’edizione basata sullo storico testo stabilito da Giorgio Petrocchi, ma riveduto in centinaia di luoghi, con introduzioni di varianti e rettifiche di punteggiatura, accompagnato da un commento di forte originalità metodologica. Sono i criteri già seguiti, sia pure in modo sintetico, nella Divina Commedia ’tascabile’ curata nel 2018 da Malato per i ’Diamanti’.
Adesso è la volta del saggio dedicato a Il canto X dell’Inferno (Salerno, pagine 56, euro 12), al quale Malato riconosce una funzione cruciale. Ma è la complessità del rapporto tra i vivi e i morti a colpire, una volta di più, il lettore di Dante. «Una sentenza di Cicerone asserisce che la vita dei morti è riposta nel ricordo dei vivi; ma anche i vivi si nutrono del ricordo dei morti - afferma Malato -. In questa dialettica si trovano le ragioni profonde della fortuna della Divina Commedia. Che naturalmente trova altre motivazioni, nell’opera in sé, nel fascino della sua poesia, nei modi suggestivi della scrittura, nell’imponenza della costruzione.
Perché questo canto è così importante?
È uno snodo fondamentale, un architrave dell’intero poema. Nel canto X dell’Inferno Dante fa i conti con Guido Cavalcanti, il «primo amico» della giovinezza, dedicatario della Vita nuova, col quale è insorto in seguito un dissidio che ha portato forse a una frattura, certo a una contrapposizione che filtra fin nella Commedia. Tutto ciò è rimasto oscuro all’esegesi tradizionale. Che ancora nel ’900 avanzato discettava di quanto i due fossero amici per la pelle, Dante e Guido.
In questo canto Guido è fatto comparire surrettiziamente sulla scena infernale, non di persona, perché ancora vivo al momento del viaggio, ma evocato dal padre Cavalcante, dannato, che sviene alla malintesa notizia della sua morte. Ciò che provoca il collasso è però il pensiero che Guido, se morto prima di aver maturato la consapevolezza del peccato ed essersene pentito, possa essere a sua volta dannato. Così Dante fa dichiarare al padre l’errore del figlio.
Ma il protagonista del canto non è Farinata degli Uberti?
Sì, tradizionalmente è ’il canto di Farinata’: e in quanto tale, dall’esaltazione del condottiero che salvò Firenze dalla distruzione decretata dai nemici vincitori, ha tratto il simbolo dell’amor di patria e della passione politica. Che Dante e Farinata ebbero comune e assai viva, benché apparentemente contrapposta (uno guelfo, l’altro ghibellino), ma in realtà meno distanti di quanto potesse apparire. Il nuovo commento mette in rilievo un aspetto non adeguatamente approfondito nella lettura storica, che poi si rivela di straordinaria portata. Al ’gigante’ Farinata viene infatti affiancata una figura esibita come minore, Cavalcante, che in realtà è solo una controfigura del figlio Guido, punto focale del canto e per molti riflessi, dell’intera Commedia.
Che cosa divideva Dante e Guido?
Partiti da posizioni più o meno comuni, più o meno coerenti con i principii dell’amor cortese, pervengono a concezioni diverse e addirittura opposte: per Dante l’amore è una forza virtuosa, beatifica, che eleva a Dio e porta alla salvezza dell’anima; per Guido è, al contrario, forza tormentosa, impetuosa, ’mortifera’. La divergenza investe l’ideologia di sostegno del fedele su un principio fondamentale del credo cristiano, dominante nella coscienza del XIV secolo. E diventa scontro aperto. Alla teorizzazione di Dante, nella canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, poi nucleo della Vita nuova, Guido oppone, in contestazione, la sofisticatissima Donna me prega per ch’eo voglio dire. Il dissidio esplode pubblicamente. Poi Guido muore. Ma Dante non rinuncia alla replica di puntuale confutazione, trasferita nella Commedia e diluita in tutto il poema.
La rispondenza tra i testi è fittissima.
La Commedia è una ’rete mirabile’ di echi, riprese, intrecci di testi antichi e contemporanei di ogni genere, di cui nel commento è data ampia documentazione. Ma qui conviene mettere l’accento sulla continuità degli echi in replica a Guido, anch’essi sparsi in forma più o meno accentuata in tutte le cantiche. Per dare appena un’idea, basti rilevare che nel canto V dell’Inferno c’è l’episodio, costruito con la forza dell’exemplum medievale, di Francesca e Paolo che, per aver creduto nei principii dell’amor cortese asseverati da Guido, si trovano dannati all’Inferno.
Mentre nel Purgatorio, dopo che Virgilio avrà corretto la definizione di Francesca («Amor ch’al cor gentil ratto s’apprende, Amor ch’a nullo amato amar perdona») in chiave cristiana («Amore acceso di virtù sempre altro accese»), verrà l’incontro con Stazio, che per aver conosciuto e praticato quei principii ebbe salva l’anima pur essendo pagano.
I dannati possono vedere il futuro ma ignorano il presente: come mai?
Il concetto fondamentale è che la vita è un dono di Dio, concesso all’uomo perché lo impieghi al meglio, con la promessa della beatitudine dopo la morte. Chi non sa meritarla, anche dannato non perde la memoria e la nostalgia di quel bene perduto, con una sofferenza che si rinnova e si esalta osservando ciò che ancora avviene nella vita dei viventi, in quello che non senza precisa ragione è definito «il dolce mondo». Questa facoltà viene meno nel presente: il momento in cui può intervenire il pentimento, e con esso il recupero della grazia di Dio e la salvezza dalla dannazione, evento la cui visione non può essere concessa ai dannati. Perciò è preclusa a Cavalcante, lasciando volutamente oscuro il destino di Guido. Dante, come acutamente aveva intuito Contini, non esprime un giudizio di condanna, ma lascia abilmente aperta la possibilità che, senza un atto di pentimento, l’altro poeta sia infine dannato.
In cammino con Dante/18.
La cattedrale dell’arte vince l’oblìo
Il fascino perenne del Purgatorio è anche nel continuo trapassare la barriera della morte grazie all’immaginazione poetica che congiunge i tempi umani all’eterno
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 18 luglio 2021)
Il Purgatorio è la cantica delle arti, a cominciare dal musico Casella (canto II) che intona la canzone del Convivio: «Amor che ne la mente mi ragiona», sino al poeta Bonagiunta che nuovamente rende omaggio a Dante poeta: «Ma dì s’i’ veggio qui colui che fore / trasse le nove rime, cominciando / ’Donne ch’avete intelletto d’amore» (XXIV, 49-51), per compiersi nell’elogio di Guido Guinizzelli e di Arnaut Daniel al canto XXVI.
A ben vedere - a parte Brunetto Latini, condannato tra i sodomiti - gli amici e sodali di Dante son tutti a purificarsi nel Purgatorio, quasi le arti fossero - come additava don Giuseppe De Luca - quell’«imbastitura in bianco» che ancora non è abito di salvezza ma già ne annuncia la forma: «per me i poeti sono i maestri, non delle verità da credere, ma delle verità con cui credere. Più di ogni altro artista, il poeta si getta vivente nel suo fuoco, e dentro vi arde senza lasciar traccia d’estraneo né scoria» (G. De Luca, La poesia, paradiso artificiale, 1955; poi in “Archivio italiano per la storia della pietà”, X, 1997).
L’arte è quell’ordinata forma che il divino dipintore dà all’intero creato: «Quei che dipinge lì, non ha chi ’l guidi; / ma esso guida, e da lui si rammenta / quella virtù ch’è forma per li nidi» ( Par., XVIII, 109-111); e che l’artefice umano imitando manifesta come “sorriso” e “miniatura” dell’eterna bellezza: «“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi, / l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte / ch’alluminar chiamata è in Parisi?”. // “Frate”, diss’elli, “più ridon le carte / che pennelleggia Franco Bolognese; / l’onore è tutto or suo, e mio in parte”» (Purg., XI, 79-84).
La forma stessa delle cornici che cingono la montagna del Purgatorio, con gli exempla di vizi e di virtù scolpiti a monito e incitamento, è parte di questo processo: nel canto XII Dante posa i propri piedi come su lastre sepolcrali della storia e del mito (quasi percorresse la navata di un’antica cattedrale) e vi vede scolpiti, in tredici terzine mirabili, figurazioni di superbia punita: da Lucifero a Nembrot, ai piedi della torre di Babele, da Niobe a Roboamo. L’arte “fa segno”, rappresentando addita: «Mostrava ancor lo duro pavimento /... Mostrava la ruina e ’l crudo scempio / ... Vedeva Troia in cenere e in caverne». La sua conclusione arriva a quella perfetta fusione di rappresentazione e verità: «Morti li morti e i vivi parean vivi: / non vide mei di me chi vide il vero» (XII, 67-68), che già il poeta aveva illustrato, con ammirato stupore, nel canto X, appena entrato nella prima cornice del Purgatorio: «Là sù non eran mossi i piè nostri anco, / quand’io conobbi quella ripa intorno / che dritto di salita aveva manco, / esser di marmo candido e addorno / d’intagli sì, che non pur Policleto, / ma la natura lì avrebbe scorno» (X, 28 33). Vi è - come nelle vetrate delle cattedrali medievali - incisa tutta la storia della salvezza, a iniziare dall’Ave dell’Annunciazione: «L’angel che venne in terra col decreto / de la molt’anni lagrimata pace, / ch’aperse il ciel del suo lungo divieto, / dinanzi a noi pareva sì verace / quivi intagliato in un atto soave, / che non sembiava imagine che tace. / Giurato si saria ch’el dicesse “Ave!”» (X, 34-40).
Dante fa qui dell’arte lo «spazio dei tempi» (Friedrich Ohly, La cattedrale come spazio dei tempi. Il Duomo di Siena, 1979), il tramite tra la vita e la memoria quale ancora ci offrirà Marcel Proust: «Essi [gli uomini del Medioevo] entravano nella chiesa, vi prendevano quel posto che avrebbero conservato dopo la morte e dal quale essi potevano continuare, come in vita, a seguire il divino sacrificio, sia che - sporgendosi dalla loro sepoltura di marmo - volgessero lievemente la testa dal lato dell’Evangelo o da quello dell’Epistola, [...] sia che nel fondale delle vetrate, nei loro mantelli di porpora, o dell’azzurro oltremare che trattiene il sole, riempissero di colore i suoi raggi trasparenti, [...]; nel loro splendore, nella palpabile irrealtà, restano i donatori che avevano meritato la concessione d’una preghiera perpetua» (La morte delle cattedrali).
Non diversamente contempla Dante la storia raffigurata al vivo, che l’arte trasforma in presenza da una lontana storia biblica: «I’ mossi i piè del loco dov’io stava, / per avvisar da presso un’altra istoria, / che di dietro a Micòl mi biancheggiava » (X, 70-72). Il fascino inobliabile del Purgatorio è tanto nel commercio di intercessione e suffragio che lega le anime dei vivi a quelle dei defunti, quanto nel continuo trapassare la barriera della morte e dell’oblio che l’arte intraprende unendo i tempi umani all’eterno: «Intorno a lui [“i’ dico di Traiano imperadore”] parea calcato e pieno / di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro / sovr’essi in vista al vento si movieno» (X, 79-81).
Il dialogo con Forese Donati dunque (canto XXIII), con Bonagiunta (XXIV), con Guinizzelli (XXVI) dilata il potere “vivificante” della poesia; più che stabilire priorità e successioni di fama e di prestigio - che pure Dante puntigliosamente annota - giova osservare quel prorompere palpitante di vita che dà carne e affetti a quelle ombre: «sì lasciò trapassar la santa greggia / Forese, e dietro meno sen veniva, / dicendo: “Quando fia ch’io ti riveggia?”» (XXIV, 73-75), riportandole sul proscenio terreno, tra voli incantati di geometrie celesti: «Come li augei che vernan lungo ’l Nilo, / alcuna volta in aere fanno schiera, / poi volan più a fretta e vanno in filo, // così tutta la gente che lì era, / volgendo ’l viso, raffrettò suo passo, / e per magrezza e per voler leggera» (XXIV, 64-69). -Non diversamente, nel presentare al canto XXVI, Guido Guinizzelli e Arnaut Daniel (e nel porre in bocca a quest’ultimo tre terzine in provenzale che saranno care a T.S. Eliot), non tanto conta la certificazione del canone esibita dal primo: «“O frate”, disse, “questi ch’io ti cerno / col dito”, e additò un spirto innanzi, / “fu miglior fabbro del parlar materno. // Versi d’amore e prose di romanzi / soverchiò tutti [...]”» (XXVI, 115-119); bensì quel ravvivarsi, nel crogiolo dell’analogia, del mondo delle ombre e del creato, essendo ogni parvenza nell’unico grembo del Vivente: «Poi, forse per dar luogo altrui secondo / che presso avea, disparve per lo foco, / come per l’acqua il pesce andando al fondo» (XXVI, 133-135).
È, direbbe Eugenio d’Ors, quella «naturalezza del sovrannaturale» che Dante riserva ai suoi più cari; come qui l’immagine tornerà parimenti in Paradiso per segnalare l’allontanarsi, silente e dolce, di un’altra figura familiare, quella di Piccarda Donati: «Così parlommi, e poi cominciò “Ave, / Maria” cantando, e cantando vanio / come per acqua cupa cosa grave» (Par., III, 121-123). Identico raccoglimento, di limpidi affetti, è a noi richiesto come lettori, per ben seguire la poesia di Dante: «Voialtri pochi che drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli, del quale / vivesi qui ma non sen vien satollo, / metter potete ben per l’alto sale / vostro navigio, servando mio solco / dinanzi a l’acqua che ritorna equale» (Par., II, 10-15).
DANTE: ATTACCO A GUIDO CAVALCANTI ’SCOPERTO’ NELLA ’COMMEDIA’ NEL CANTO XVIII DEL PURGATORIO L’AMICO VIENE DEFINITO ’’CIECO’’
Roma, 31 lug. [1997] (Adnkronos) - C’e’ un duro attacco a Guido Cavalcanti nella ’’Divina Commedia’’, finora passato inosservato. Dante Alighieri avrebbe definito ’’cieco’’ il suo migliore amico, il piu’ grande poeta dello Stil Novo, in uno dei passi piu’ ambigui e misteriosi del Purgatorio. Lo ha ’’scoperto’’ lo storico della letteratura italiana Enrico Malato dell’universita’ di Viterbo, autore di un recente saggio nel quale ha ricostruito l’evoluzione dell’amicizia tra i due massimi poeti del Duecento, fino alla traumatica rottura.
Accanto alle due citazioni di Guido (nel decimo canto dell’Inferno e nell’undicesimo canto del Purgatorio), lo studioso ne ha individuata una terza in cui il nome di Cavalcanti non e’ esplicitamente formulato ma sembra ’’assolutamente evidente’’ il riferimento a lui. La polemica allusione si troverebbe nel diciottesimo canto del Purgatorio, dove il Sommo Poeta parla dell’’’error de’ ciechi che si fanno duci’’. Malato contesta l’interpretazione accettata finora dai critici e presente in tutti i commenti della ’’Commedia’’, secondo la quale questi versi sarebbero un’accusa contro i falsi maestri che si fanno condottieri.
Per lo studioso, che sull’argomento sta preparando un nuovo saggio di prossima pubblicazione, e’ ’’inverosimile un generico riferimento ai falsi maestri che avrebbero diffuso false dottrine, mentre un’attenta lettura dell’intero canto fa apparire che l’unico cieco, cioe’ privo della luce della verita’, che abbia preteso di insegnare cio’ che egli stesso non era in grado di vedere, non puo’ essere altri che Guido Cavalcanti: bersaglio innominato della contestazione di Dante’’. (segue).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
Federico La Sala
Non fu Beatrice la donna più importante di Dante
“La moglie di Dante” di Marina Marazza è un omaggio a Gemma Donati, colei che per 7 secoli se ne è stata nelle retrovie in uno stato di invisibilità ed apatia
di Marilu Oliva (HUFFPOST, 10.07.2021)
Tutti parlano del Sommo, in questo Settecentenario carico di atmosfera e ossequi, ma prima che lo facesse la scrittrice storica Marina Marazza, nessuno aveva mai puntato i riflettori sulla moglie in maniera così accurata. La negletta, la grande silenziosa, la quasi trasparente Gemma Donati. Invece Gemma fu connotata da una grande personalità, come dimostrano le cronache del tempo, e ricoprì un ruolo di rilievo nella complessa esistenza del più grande poeta di tutti i tempi.
“La moglie di Dante” di Marina Marazza (Solferino) è un omaggio a colei che per 7 secoli se ne è stata nelle retrovie in uno stato di invisibilità ed apatia, quando - nella vita quotidiana - fu invece donna di grande coraggioso e intraprendenza, in grado di adattarsi a situazioni difficili e reclamare i propri diritti, in un’epoca - ricordiamolo - in cui alle donne si dava sempre poco ascolto.
La ricostruzione dell’autrice alterna il dato storico - acquisito durante mesi e mesi di studio matto e disperatissimo negli archivi ma anche su testi autorevoli - con la componente romanzesca, laddove è stato necessario sopperire ai buchi neri, e lo fa con mano sapiente, ricordandoci quanto già era stata brava nei romanzi precedenti (cito “Io sono la strega” (Solferino), ma date un’occhiata alla sua corposa produzione).
Il lettore resterà incantato da questo affresco magistrale sulla Firenze medievale (e non solo Firenze, verso il finale lo scenario si allarga, per forza di eventi dovuti all’esilio di Dante), una città densa di intrighi, agguati, faide, dove però i poeti facevano dissing a suon di tenzoni e sonetti, dove la vanità femminile veniva repressa tramite le moralizzatrici leggi suntuarie (e per fortuna c’era chi le infrangeva), dove le famiglie vendicavano le onte subite anche con decenni di ritardo, dove per ammogliare una donna si controllavano le ricchezze del marito e lo stato di salute di lei, che fosse sana e adatta a figliare.
Incontrerete personaggi memorabili che forse ricordate dai libri di scuola. Guido Cavalcanti, Giotto, la malinconica e sfortunata Piccarda (cugina e amica di Gemma), il bellissimo e tremendo Corso Donati, Bicci, persino Beatrice che, secondo alcune ricostruzioni critiche elette dall’autrice, morì prima del matrimonio di Dante, quindi fu più metafora e costruzione poetica che non altro.
La bella scrittura di Marina Marazza ci altalena tra una storia che trasuda attualità (pensiamo ai voltafaccia politici, ai tradimenti, alla precarietà di certe situazioni di oggi, ma anche alla forza delle donne che ogni giorno devono combattere per inseguire una parità non ancora pienamente ottenuta) e un’epoca intrisa di fascino, mistero, magia, dove le bisce, cotte nell’olio e fatte unguento, venivano usate per curare le setole dei cavalli di puledro, ad esempio, e dove la Chiesa aveva un’ingerenza impressionante. Si tratta di una scrittura accurata, scorrevole, magnetica, con inserti dal sapore medievale ed espressioni dall’eco lontano (“mettere in saccoccia”, ad esempio) sempre perfettamente incastrati nei dialoghi o nella narrazione.
E Dante? Scoprirete tanti dettagli anche su di lui, probabilmente non tutti sanno che soffriva di mal caduco o epilessia. Ma come ne esce? Non certo santo né perfetto. Un po’ pedante, maschilista come era nella prassi del tempo, autoreferenziale, si risentiva facilmente e ogni tanto era affetto da quello che oggi chiamiamo narcisismo. Però era un uomo speciale e non solo per la sua incredibile cultura, per il motto sagace e per quel fascino che colpiva tutti. Ma anche per ciò che umanamente lo contraddistingueva: coraggioso, onesto, a volte eccessivamente idealista. Perfino fisicamente è molto distante da come lo dipinge l’immaginario collettivo:
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
#DivinaCommedia.
#Antropologia
#teologia e
#Costituzione:
"Ben puoi veder [...]
Soleva #Roma, che ’l buon mondo feo,/
#due soli aver, che l’una e l’altra strada/
facean vedere, e del mondo e di Deo [...] /
se non mi credi, pon mente a la spiga,/
ch’ogn’erba si conosce per lo seme.
"(Purgatorio XVI, 103-113).
#divina commedia.
dell’#ecumenismo rinascimentale di
come di
#PERUGINO,
con il suo
le sue #Sibille
e
i suoi #Profeti
del #Collegio del Cambio
a #Perugia
#Parola Di Dante
...viro
(Paradiso XXIV, 34)
***
#Beatrice chiede al #proboviro
#SanPietro di verificare
se #Dante ha capito la differenza tra
l’#Ecce Homo dell’#antropologia
(#PonzioPilato: gr. «idou ho #anthropos»)
e
il #vir dell’#andrologia di
#SanPaolo
(#capo della #donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]: 1 Cor 11,1-3).
#BIBBIA CIVILE
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO:
#COME NASCONO I BAMBINI?
#Divina Commedia:
#Dante2021.
se #Maria è #madre e #maestra.. #Giuseppe non è #padre e #maestro?!
Per un’altra #fenomenologiadellospirito:
IO, dall’#AMORE di #Due IO.
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. COME NASCONO I BAMBINI...*
È la nostra nascita il miracolo che salva il mondo
Quella postilla di Hannah Arendt che illumina i dati Istat sulla natalità
di Sergio Belardinelli (il Foglio, 24 apr 2021)
L’Istat ci ha comunicato di recente che, complice anche il Covid, in Italia nel 2020 i morti sono stati 746 mila e i nuovi nati 404 mila. Un dato agghiacciante nel suo significato sociale e culturale che a me, come una sorta di riflesso condizionato, richiama alla mente uno dei brani filosofici più intensi che abbia mai letto: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
Con queste parole Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. Si tratta di un brano che cito e commento ormai da quarant’anni, nel quale viene messo a tema un nesso, quello tra la libertà e la natalità, tra la libertà e la vita, col quale, che io sappia, soltanto la Arendt ha avuto l’acutezza e il coraggio di cimentarsi e che, a prima vista, può apparire persino paradossale. La vita infatti, almeno immediatamente, sembra richiamare non tanto la libertà, quanto piuttosto il gigantesco, immutabile ripetersi dei cicli naturali, l’ambito di quelli che il grande biologo Adolf Portmann, autore peraltro assai caro alla Arendt, definirebbe i “rapporti preordinati” - il contrario, quindi, di ciò che in genere intendiamo allorché parliamo di libertà. Quanto poi alla vita specificamente umana, essa, è certo impastata di libertà, ma è anche qualcosa che, a diversi livelli, non dipende da noi, qualcosa di cui, nonostante le tecnologie della riproduzione, non possiamo avere il completo controllo: la riceviamo semplicemente; non scegliamo i nostri genitori, né il luogo dove venire al mondo; dobbiamo fare continuamente i conti con gli altri, con le nostre passioni, i nostri istinti, le nostre inclinazioni, con quel coacervo di natura, ragione, sentimenti, usi e costumi che vanno a costituire appunto il “gran mare” della vita. La vita insomma pone una serie di condizioni e condizionamenti alla libertà che possono renderla persino impossibile. Eppure, rompendo in un certo senso questa grande catena, è proprio la libertà che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, qualcosa di imprevisto.
Pensieri non nuovi, si potrebbe dire. Ma proprio qui si inserisce la fondamentale postilla arendtiana, preziosa per leggere in una chiave forse inusuale ma certo illuminante anche i dati Istat sulla natalità in Italia da cui siamo partiti: è la stessa vita umana, il nostro venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita.
La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni - la libertà e la natalità - ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme fiducia nel futuro. In questo senso ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai.
Novità, pluralità (gli uomini, non l’uomo abitano la terra, ripete spesso Hannah Arendt) e speranza: questo ci schiude direttamente e in modo straordinario il discorso arendtiano sulla libertà radicata nella natalità. Ma indirettamente, specialmente oggi, tale discorso ci schiude molto di più. Ci fa capire, ad esempio, quale tragedia, anche simbolica, si consuma nel momento in cui un paese come l’Italia registra in un anno un saldo passivo tra morti e nuovi nati di 342 mila unità. È un po’ come se il mondo e la nostra libertà perdessero la speranza, ossia ciò che dà loro sapore, ciò che è insieme accettazione della realtà nella quale viviamo e fiducia nel futuro.
È vero, tutto passa. La vita non è altro che un eterno dissolversi nel gigantesco circolo della natura dove, propriamente, non esiste inizio né fine e dove tutte le cose e gli eventi si svolgono in un’immutabile ripetizione: la mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Ma la Arendt non accetta questa mestizia, poiché a suo avviso “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità.
Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Di nuovo l’inizio, dunque, diciamo pure, la natalità.
È proprio perché, in quanto uomini, siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che secondo la Arendt, siamo indotti ad agire. La definizione che più si addice agli uomini non è quella di “mortali”, ma piuttosto quella di “coloro che nascono”. In questo modo, quasi per una sottile ironia della sorte, la categoria della natalità diventa fondamentale proprio nel pensiero di un’allieva (e anche qualcosa di più) di Martin Heidegger, l’inventore dell’essere per la morte. Non che la Arendt ovviamente trascuri che la morte rappresenta l’ineluttabile fine di ogni vita umana, solo che, a suo avviso, gli uomini, anche se debbono morire, non nascono per questo, bensì per incominciare. E siamo di nuovo al passo da cui siamo partiti: “Il miracolo che salva il mondo....”.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
Federico La Sala
#Dante2021.
#Cosmicomiche - non cosmitragiche!
aveva perfettamente #ragione.
"Divina commedia"
si trova nella fascia degli asteroidi
fra #Marte e #Giove,
a 381 milioni di chilometri dal
#Sole.
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L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE
(#Dante).
#Storia dell’#astronomia:
"La conoscenza degli effetti e la ignoranza delle cause produsse l’#astrologia"
(#Giacomo Leopardi).
#SapereAude!
(#Kant):
#Ingenuity
(Pianeta #Marte, 2021).
Come Tatooine, un mondo con due soli scoperto dal telescopio Tess della Nasa
Riconosciuto grazie all’intuizione di uno stagista all’ultimo anno di liceo, dai dati della sonda americana a caccia di esopianeti. Al catalogo si aggiunge anche un altro pianeta simile alla Terra nella fascia di abitabilità ad appena 100 anni luce da noi
di Matteo Marini (la Repubblica, 07 Gennaio 2020)
ALBE, tramonti e soli che si eclissano in una danza stellare quotidiana, è quello che potremmo ammirare nel cielo di Tatooine, il pianeta natale della famiglia Skywalker in Star Wars, un mondo divenuto un’icona nell’immaginario fantascientifico e della cinematografia. Ma è meno fantasioso di quanto possa sembrare. Il telescopio spaziale della Nasa Tess ha infatti scoperto il suo primo pianeta che orbita attorno a una coppia di stelle. E sembra che la presenza di altri mondi con un doppio sole sia una regola più che un’eccezione: già il telescopio Kepler ne aveva trovati 12 in dieci sistemi planetari. Per Tess, lanciato ad aprile 2018, si tratta di una prima volta, e anche per il suo scopritore, uno stagista al suo ultimo anno di liceo. E nell’album del nuovo “cacciatore di pianeti” compare anche il primo di taglia terrestre, che orbita nella cosiddetta “fascia abitabile” e potrebbe avere acqua liquida sulla sua superficie.
Un cielo, due stelle
Al termine del suo ultimo anno di “High school” Wolf Cukier ha svolto uno stage al Goddard Space Flight Center della Nasa, nel Maryland. Il suo compito era quello di esaminare i dati sul calo di luminosità delle stelle prodotti da Tess. Quando ha notato un’anomalia: “Stavo cercando tra i dati quelle che erano state spuntate come binarie ad eclisse, un sistema dove due stelle girano una attorno all’altra e dal nostro punto di osservazione si eclissano a ogni orbita - afferma Cukier nella press release diffusa dalla Nasa - tre giorni dopo l’inizio del mio stage ho visto un segnale da un sistema chiamato TOI 1338, all’inizio pensavo fosse un’eclissi stellare, ma le tempistiche erano sbagliate. È saltato fuori che era un pianeta”.
Cukier è diventato così co-autore dello studio che descrive la scoperta, presentato all’American astronomical meeting di Honolulu: un pianeta che orbita attorno a due stelle, a circa 1.300 anni luce da noi, nella piccola costellazione del Pittore, visibile dall’emisfero australe. Riuscire a distinguere un pianeta nella danza delle due stelle è un compito arduo, perché i segnali confondono gli algoritmi. Per questo l’intuizione del giovane studente è stata cruciale. Per ora, tuttavia, immaginare un doppio tramonto come quello su Tatooine, è piuttosto difficile: TOI 1338 b (ciascun pianeta appena scoperto prende il nome dalla sua stella con l’aggiunta delle lettere dell’alfabeto) ha infatti una massa compresa tra quelle di Nettuno e Saturno. Potrebbe dunque non avere una superficie e un’atmosfera come quelle terrestri per godere dello spettacolo.
Tess è solo all’inizio del lavoro e sta producendo dati a tonnellate. Con quattro camere scruta il cielo, scattando una foto ogni 30 minuti per 27 giorni consecutivi. Quando la luce di una stella si affievolisce, con una certa regolarità, potrebbe essere dovuto a un pianeta che le passa davanti. Con questo metodo (detto “del transito”), Kepler ha scoperto oltre 2.700 pianeti confermati su 4.100 totali.
Un nuovo ’cugino’ della Terra
Dall’ottobre 2018 la seconda missione di Kepler (K2) è stata dichiarata conclusa e il testimone è passato a Tess, che ha al suo attivo appena 37 pianeti. Ma tra questi c’è anche il suo primo mondo simile al nostro. Almeno sulla carta e per i pochi dati disponibili. Orbita attorno a una stella più piccola e fredda del nostro Sole, ad appena 100 anni luce di distanza da noi, quindi relativamente vicino. Si chiama TOI 700 d, è il terzo di questo sistema stellare: “Tess è stato progettato e lanciato apposta per trovare pianeti di taglia terrestre in orbita attorno a stelle vicine - spiega Paul Hertz, astrofisico della Nasa - i pianeti attorno a stelle vicine sono i più facili da seguire con grandi telescopi da Terra e dallo spazio”. La scoperta è stata confermata anche dai dati del telescopio spaziale Spitzer.
TOI 700 d è il più esterno dei tre pianeti attorno a questa stella, il primo e più interno ha la stessa massa della Terra, ma è molto vicino. Il secondo è due e volte e mezzo il nostro pianeta mentre. Il terzo è lui: 20 per cento più grande della Terra e alla distanza giusta perché riceve dalla sua stella circa l’86% di energia che noi riceviamo dal Sole. Abbastanza per alzare la temperatura superficiale al di sopra dello zero. Ma ci sono delle controindicazioni in questo mondo lontano: come gli altri suoi “fratelli” dello stesso sistema, è in rotazione sincrona: significa che mostra al suo sole sempre lo stesso emisfero (come fa la Luna con la Terra). Una rotazione, un giorno dunque, dura 37 dei nostri ma non c’è alternanza di luce e buio. Mentre una faccia è costantemente illuminata, e quindi molto calda, l’altra è ghiacciata, sempre in ombra. Nessuno di noi vorrebbe vivere in un mondo così. Sono molti i pianeti in rotazione sincrona e molto vicini alla loro stella come questo, a cominciare dal sistema di Trappist, che conta almeno due o tre mondi nella fascia di abitabilità. La speranza per una eventuale forma di vita, è quella di incontrare condizioni favorevoli nelle zone di crepuscolo, dove il caldo non è infernale e il gelo non stringe troppo la morsa.
Atmosfera e acqua per la vita
Ma ci sono ancora molti interrogativi a cui rispondere. Il primo e più importante è se abbia o no un’atmosfera. Le nane rosse come TOI 700 sono le stelle più comuni dell’Universo conosciuto. Sono fredde e vivono molti miliardi di anni in più di tutte le altre. Ma sono ‘intemperanti’, spesso producono fiammate, eruzioni, in grado di spazzare via l’atmosfera di un pianeta che non abbia un campo magnetico a fargli da scudo. Tuttavia TOI 700 secondo gli astronomi appare piuttosto tranquilla, ma non sappiamo come si sia comportata negli ultimi miliardi di anni. Il destino di un pianeta nella zona abitabile infatti è legato a molti fattori (prendiamo come esempio Venere, un pianeta nella zona abitabile, con la massa della Terra, ma con un effetto serra che spinge la temperatura a oltre 400 gradi).
Gli studiosi della Nasa hanno già proposto alcuni modelli, ipotesi di come si potrebbe presentare, dal pianeta coperto da un gigantesco oceano come era un tempo Marte, a una Terra ma senza acqua. Per capire meglio questo nuovo ‘cugino’, ancora potenziale “gemello” della Terra, bisognerà attendere nuovi strumenti che possano sbirciare cosa c’è nella sua atmosfera, analizzando lo spettro della luce che filtra e arriva fino a noi.
L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE
(#Dante).
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#Storia dell’#astronomia:
"La conoscenza degli effetti e la ignoranza delle cause produsse l’#astrologia"
(#Giacomo Leopardi).
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#SapereAude! (#Kant):
#Ingenuity
(Pianeta #Marte, 2021).
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"IAM REDIT ET #VIRGO"
(#Virgilio).
Nell’approssimarsi dell’#alba, un’ottima sollecitazione:
riascoltare la lezione di
#Stazio
su #come nascono i bambini (Purg. XXV, 34-78)
e
riprendere le ricerche dall’#
Anatomia
di #Giovanni Valverde.
Report . Ventiquattro matrimoni forzati in due anni. Un terzo ha coinvolto minorenni
Il Viminale ha pubblicato il primo rapporto sulle donne costrette a un’unione che non vogliono. Nove casi si sono verificati nei soli primi cinque mesi di quest’anno. In tante come Saman Abbas
di Silvia Guzzetti (Avvenire, lunedì 28 giugno 2021)
Quante sono le Saman in Italia? Ovvero quante ragazze sono costrette a matrimoni forzati o uccise perché non vogliono accettarli? È questa una delle domande alle quali cerca di rispondere il primo "Report sulla costrizione o induzione al matrimonio in Italia", curato dal Viminale, secondo il quale dal 9 agosto 2019 al 31 maggio 2021 sono 24 i casi di matrimoni forzati registrati nel nostro Paese, 9 dei quali nei soli primi cinque mesi di quest’anno. È proprio al 9 agosto 2019, infatti, che risale l’entrata in vigore del "Codice rosso", che ha introdotto uno specifico reato con lo scopo di contrastare proprio il fenomeno delle "spose bambine",
Dietro la definizione un po’ arida di "matrimonio precoce" come di una "unione formale nella quale viene coinvolto un minorenne, considerato forzato se quest’ultimo non è in grado di esprimere compiutamente e consapevolmente il proprio consenso non solo per le responsabilità che ci si assume con quell’atto ma anche per il fatto che la sua età le impedisce il raggiungimento della piena maturità e capacità di agire", che è contenuta nel rapporto del Viminale, vi sono anche tante storie tragiche simili a quella di Saman Abbas. La diciottenne, di origine pakistana, abitante a Novellara, è scomparsa dalla fine di aprile e gli inquirenti, che stanno indagando per omicidio e occultamento di cadavere il padre e la madre della ragazza, sospettano che sia stata la famiglia a ucciderla e farla scomparire.
LA SCOMPARSA DI SAMAN
Saman è stata vista per l’ultima volta l’11 aprile quando si è allontanta dal centro protetto nei pressi di Bologna dove viveva dallo scorso dicembre. Aveva voluto tornare a casa sua, forse per prendere alcuni documenti, e non ha più fatto ritorno. Agli assistenti sociali che la stavano seguendo e le avevano garantito un rifugio lontano dall’ambiente oppressivo della sua famiglia, aveva raccontato che i genitori volevano costringerla a un matrimonio forzato con un cugino residente in Pakistan. Papà e mamma non riuscivano a perdonare alla figlia di volersi costruire un futuro diverso che comprendesse andare a scuola, viaggiare, lavorare. Le immagini delle telecamere di sorveglianza poste nei pressi dell’azienda in cui lavorava il padre della ragazza mostrano, la sera del 29 aprile, tre persone provviste di un secchio, un sacco nero per la spazzatura e una pala dirigersi verso il campo che circonda l’abitazione di Saman.
CHE COS’E’ IL MATRIMONIO FORZATO
Storie simili vengono suggerite dalle parole usate dal Report del Viminale. "Il fenomeno del matrimonio forzato ha radici storiche, culturali e talvolta religiose. L’emersione di questo reato non è facile perché spesso si consuma tra le mura domestiche e le vittime sono quasi sempre ragazze giovani, costrette ad abbandonare la scuola, talvolta obbligate a rimanere chiuse in casa nell’impossibilità di denunciare anche per paura di ritorsioni".
È sempre il Report ad ammettere che "i dati, inevitabilmente, fotografano una situazione sottodimensionata rispetto a quella reale".
Insomma le statistiche senz’altro sottostimano l’incidenza di questo reato. Il rapporto, che è stato curato dalla direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza, parla di un 85% dei reati, sempre tra agosto di due anni fa e maggio scorso, riguardanti donne. In un terzo dei casi le vittime sono minorenni (il 9% hanno meno di 14 anni e il 27% hanno tra i 14 e i 17 anni). Ci sono poi le straniere, che sono il 59%, in maggioranza pachistane, seguite dalle albanesi mentre per Romania, Nigeria, Croazia, India, Polonia e Bangladesh si registra una sola vittima.
Nel 73% dei casi gli autori del reato sono stati uomini, anche in questo caso più frequentemente pachistani, seguiti da albanesi, bengalesi e bosniaci. Nel 40% dei casi i responsabili erano di età compresa tra 35 e 44 anni mentre il 27% aveva tra 45 e 54 anni. Il 15% aveva tra 25 e 34 anni.
LA PANDEMIA HA PEGGIORATO LA SITUAZIONE
Sempre il Report del Viminale getta anche uno sguardo globale su questo fenomeno, ricordando che, nel 2020, per effetto delle conseguenze economiche della pandemia, per la prima volta, dopo anni di progressi, si è registrato un peggioramento dell’incidenza dei matrimoni forzati che stanno coinvolgendo molte adolescenti, soprattutto nell’Asia meridionale, nell’Africa centrale e nell’America Latina.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
FLS
«Dante e il paesaggio dopo la battaglia»: la lectio magistralis alla «Milanesiana», oggi
di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 28 giugno 2021)
Diceva Voltaire che Dante è più citato che letto, più apprezzato che amato.
Forse ha ragione. Molti non hanno amato Dante. Machiavelli non amava Dante. Lo rimproverava di aver denigrato la patria fiorentina, e di aver scritto troppe parolacce, di aver usato uno stile «porco»; ma Dante voleva usare tutti i registri, l’alto e il basso, il lirico e il comico, il sublime e il grottesco, per restituire tutte le sfaccettature dell’animo umano.
Anche Petrarca non amava Dante. Si vantava di non possedere neanche una copia della Divina Commedia e di non averla mai letta. E in una lettera a Boccaccio, che invece adorava Dante - fu Boccaccio a definire la Commedia «Divina», fu Boccaccio a inaugurare la tradizione delle letture di Dante in pubblico, arrivata sino a noi grazie a Giorgio Albertazzi, Vittorio Gassman, Vittorio Sermonti, Carmelo Bene, Roberto Benigni -, Petrarca scrive che lui non ha mai letto Dante, perché se l’avesse letto avrebbe tentato di imitarlo; e Dante è troppo grande per essere imitato. Ma, aggiunge Petrarca, se Dante fosse vissuto nel nostro tempo, «pochi avrebbe avuto più amici di me».
Poi, se volete la mia impressione, Petrarca non solo aveva letto Dante, l’aveva pure annotato e mandato a memoria.
Fatto sta che quando scoppia la guerra tra Genova e Venezia, Petrarca scrive una lettera ai dogi delle due città per scongiurarli di non combattersi. Genova e Venezia erano gli occhi d’Italia: uno guardava a Ovest, verso il Tirreno, l’altro a Est, verso l’Adriatico; e l’Italia aveva bisogno di entrambi gli occhi. I dogi ignorarono la lettera, e la guerra la fecero lo stesso. Eppure un seme era stato gettato.
L’idea dell’Italia era già nata, grazie a due poeti: Dante e Petrarca.
Qualcuno ha detto che Dante parla all’umanità, mentre Leopardi parla all’uomo. Certo Dante si è posto il problema dell’anima, del libero arbitrio, della salvezza, della cosmogonia; non a caso Eliot sosteneva che Dante fosse più profondo e più grande financo di Shakespeare, che detto da un inglese...
Ma Dante si è posto il problema di ogni singolo uomo. Non a caso il viaggio comincia così: «Nel mezzo del cammin di nostra vita»: dove la parola chiave è nostra.
Dante ci dice fin dall’inizio che la storia parla di noi. Ci interessa. Ci riguarda: in quanto esseri umani; perché la Divina Commedia non è solo un viaggio ultraterreno, è anche un viaggio dentro l’animo umano, sino ai confini di ciò che è in noi.
E ci riguarda in quanto italiani. Perché Dante è l’inventore dell’Italia.
Ci sono nazioni nate dalla politica, dalla diplomazia, dalla guerra.
La Francia è nata da una guerra: una donna forte, Giovanna d’Arco, aiuta un re fragile a cacciare gli inglesi invasori, e nasce la Francia.
La Spagna è nata da un matrimonio dinastico: la regina di Castiglia sposa il re d’Aragona, e nasce la Spagna.
L’Inghilterra è nata da un divorzio: Enrico VIII si libera della moglie e del Papa, e nasce l’Inghilterra moderna.
L’Italia no. L’Italia è uno Stato molto recente. Ma in realtà l’Italia, quando nel 1861 diventa uno Stato, c’era già, da molti secoli. Perché l’Italia è nata dalla cultura e dalla bellezza. È nata dagli affreschi di Giotto e dai versi di Dante. Che è quindi un po’ il nostro papà. Non a caso è l’unico poeta che chiamiamo per nome, anzi per soprannome (lui si chiamava in realtà Durante degli Alighieri); come se chiamassimo Leopardi Giacomino o Manzoni Sandro.
È Dante a inventare l’espressione Belpaese. Dante è il primo a parlare di Italia. Dante ci ha dato una lingua: una lingua viva ancora oggi, pensate a quante espressioni coniate da Dante usiamo ancora adesso: stare fresco, stare solo soletto, cosa fatta capo ha, essere a buon punto, avere un piede nella fossa, degno di nota, senza infamia e senza lode, non mi tange, far tremare le vene e i polsi, non ragioniam di lor ma guarda e passa, lasciate ogni speranza o voi ch’entrate, a riveder le stelle.
Ma Dante ha fatto molto di più: ci ha dato un’idea di noi stessi. Per Dante, l’Italia aveva conquistato il mondo due volte: con l’impero romano e con la fede cristiana. E per Dante l’Italia aveva una missione: conciliare la classicità con la cristianità, la Roma dei Cesari e la Roma dei Papi. E da questo incontro nasce la cultura umanista; che è il motivo per cui ancora oggi l’Italia è importante nel mondo.
A Firenze, accanto al «bel San Giovanni» dove Dante fu battezzato, c’è il meraviglioso campanile di Giotto. È un’opera di architettura; del resto, è un campanile. Ma è anche un’opera di pittura, perché è dipinto. Ed è un’opera di scultura, perché è scolpito. E agli Uffizi, accanto alla Maestà del suo maestro Cimabue, c’è una Madonna giottesca seduta su un trono che ha le stesse decorazioni del campanile; segno che si facevano così anche i mobili.
L’Italia è sempre stata il software del mondo. Il luogo in cui veniva pensato il mondo, e il modo di raffigurarlo. L’Italia è sempre stata il posto dove nascevano gli stili: la pittura gotica, il Rinascimento, il manierismo, il barocco, il rococò, il neoclassicismo, il futurismo, la metafisica. E tutto questo comincia con Dante.
L’idea d’Italia comincia con lui e arriva sino ai giorni nostri, passando attraverso i grandi di ogni tempo. Giotto affresca il volto di Giotto al Bargello. Raffaello ritrae Dante due volte nella stessa stanza in Vaticano, tra i teologi e tra i poeti, accanto a Omero. Poco prima di morire, il venerdì santo del 1520, a 37 anni, Raffaello scrive una lettera a un Papa fiorentino, Giovanni de’ Medici, Leone X, il figlio di Lorenzo il Magnifico, per chiedergli di salvare le vestigie dell’antica Roma, «quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana». Non dice «romana», Raffaello; dice proprio «italiana».
Michelangelo aveva un sogno: scolpire la tomba di Dante Alighieri. Così incoraggiò i fiorentini ad andare a recuperare i resti di Dante, che i ravennati non volevano restituire. Nottetempo, un commando penetrò nella tomba: ma trovò solo tre falangi di un dito. I frati avevano tolto lo scheletro dal sarcofago e l’avevano riposto nel convento. Scornatissimi, i fiorentini tornarono con un’urna vuota. Solo che i frati avevano nascosto i resti del poeta talmente bene, che non si trovavano più.
«Dante e il paesaggio dopo la battaglia»: la lectio magistralis alla «Milanesiana», oggi
di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 28 giugno 2021)
Nel 1865 l’Italia unita celebrò i seicento anni della nascita di Dante con feste e concerti. A Ravenna si lavorò a restaurare la tomba, la chiesa di san Francesco e l’area circostante; e un muratore trovò una cassetta con la scritta «Dantis ossa». Erano proprio quelle: combaciavano con le tre falangi mancanti.
Ugo Foscolo si commuove a santa Croce davanti alla tomba di Vittorio Alfieri, e scrive nei Sepolcri: «E l’ossa fremono amor di patria». Giacomo Leopardi compone l’Ode al monumento a Dante che si preparava in Firenze. Alessandro Manzoni viene a sciacquare i panni in Arno. Ippolito Nievo prima di morire a trent’anni tornando dalla vittoriosa spedizione dei Mille scrive le Confessioni di un italiano: «Io nacqui veneziano e morrò italiano».
La Divina Commedia è anche un viaggio in Italia. Dante descrive l’Italia. Parla di posti che conosce bene, come la Romagna: c’è un dannato, Guido da Montefeltro, che gli chiede notizie della Romagna, e Dante gli fa una rassegna delle città romagnole, Ravenna Rimini Cervia Forlì Faenza Cesena Imola, che comincia così: «Ravenna sta come sta è molt’anni»; a Ravenna non cambia mai nulla.
Dante è stato anche un grande reporter, questo potrebbe essere l’attacco di un formidabile reportage, come quello di Giorgio Bocca da Vigevano: «fare soldi per fare soldi per fare soldi, se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste...».
Ma Dante descrive con altrettanta maestria anche posti in cui non è mai stato. Come la Sicilia, che ama perché è la terra della poesia, della scuola siciliana: la chiama la bella Trinacria, descrive l’Etna - lo chiama Mongibello, con il nome arabo con cui ancora adesso lo chiamano i siciliani -, e lo stretto di Messina, Scilla e Cariddi.
Dante traccia proprio i confini d’Italia. Lo fa nel decimo canto, quello di Farinata degli Uberti, di cui parleremo.
Qui sono puniti gli eretici, chiusi dentro sepolcri. Per dare un’idea del paesaggio infernale, Dante lo paragona a due sepolcreti. Uno ad Arles, in Provenza, ai confini occidentali dell’Italia, sorto secondo la leggenda in una notte per dare sepoltura ai cavalieri cristiani caduti combattendo contro gli infedeli. L’altro a Pola, nel golfo del Quarnaro, che Italia chiude e i suoi termini bagna, i suoi confini. Questo è un verso citato da generazioni di irredentisti: trentini, triestini, giuliani, istriani, dalmati, che erano sudditi austriaci ma italiani di lingua e di cuore, e si battevano per innalzare statue a Dante, e per aprire scuole italiane da intitolare a Dante. Quando poi scoppiò la grande guerra, duemila di loro disertarono dall’esercito austriaco e andarono a combattere accanto agli italiani, sotto falso nome, andando incontro a morte quasi certa: se venivano catturati li impiccavano. Di questi duemila, mille avevano studiato al liceo Dante di Trieste. Tra loro c’era Nazario Sauro, che era di Capodistria. Catturato dagli austriaci, dichiarò di chiamarsi Nazario Sambo. Lo misero a confronto con la madre, che negò di conoscerlo, ma nonostante questo fu impiccato.
E quando dopo la seconda guerra mondiale 350 mila esuli istriani e dalmati dovettero lasciare le loro case portarono con sé le spoglie di Nazario Sauro, che ora riposano al Lido di Venezia.
Dante descrive l’Arsenale Di Venezia. Che era all’epoca la più grande fabbrica d’Europa. Poi Dante descrive il lago di Garda. È la più lunga descrizione geografica della Divina Commedia. A Nord le dolomiti, che separano il mondo tedesco dal mondo latino. E poi le valli bresciani e quelle veronesi, il lago, Sirmione, la fortezza di Peschiera, il Mincio, Mantova, la città di Virgilio, la Lombardia... Poi Dante descrive le città toscane. Lo fa spesso con rabbia, con indignazione.
Quando descrive il corso dell’Arno dice che prima scorre tra i porci, nel Casentino, poi tra i botoli, i cani ringhiosi, gli aretini, poi tra i lupi, i fiorentini, infine tra le volpi, i pisani. I lucchesi invece li mette all’inferno tuffati nella pece tra i barattieri, i corrotti, derisi dai diavoli che gridano: «Qui non ha loco il santo volto!», il crocefisso ligneo cui i lucchesi sono molto devoti, «qui si nuota altrimenti che nel Serchio!». E a noi viene in mente un altro grande poeta toscano, Giuseppe Ungaretti, e la sua poesia «I fiumi», in cui enumera i fiumi della sua vita, e per primo il Serchio, sulle cui rive sono nati i suoi antenati.
Ma i diavoli di Dante non sono veramente cattivi. Quando Dante inventa i nomi dei diavoli pare Caravaggio quando dipinge il cesto di frutta, o Maradona quando palleggia scalzo con le arance: è di una bravura al limite del virtuosismo.
Il capo si chiama Malacoda e deve comporre una squadra di dieci diavoli che scortino Dante e Virgilio fuori dalla malabolgia. In realtà è una trappola: il piano è che li portino su una strada sbagliata e facciano in modo che si perdano nell’inferno. Malacoda chiama a raccolta Alichino, Cagnazzo, Barbariccia, Libicocco, Draghignazzo, Ciriatto Sannuto, Graffiacane, Farfarello, Rubicante pazzo. Nomi che scoppiano come granate, che sembrano presi dalla commedia dell’arte: Alichino ricorda Arlecchino, Libicocco è la crasi tra libeccio e scirocco, venti che portano tempesta. Ma i diavoli di Dante non sono davvero cattivi. Il diavolo può essere raffigurato in molti modi. Può essere affascinante, come Mefistofele. Può essere spaventoso, terrificante, come il diavolo della saga cinematografia dell’esorcista. Oppure può essere buffo, grottesco, come Belfagor Arcidiavolo, il protagonista della novella di Machiavelli, che sale sulla terra per verificare se davvero le mogli siano la rovina degli uomini, si innamora perdutamente di monna Onesta, la prende in sposa; ma è talmente infelice per i suoi capricci che, insieme con i diavoli suoi aiutanti, preferisce tornare all’Inferno.
I demoni di Dante appartengono a questa terza categoria. Non hanno nulla di terrificante; sono inaffidabili e burloni, proprio come gli uomini.
Il male è dentro di noi. L’Inferno sono gli altri, come diceva Sartre; oppure l’Inferno può essere dentro l’animo umano. Homo homini lupus, diceva Plauto: l’uomo è un lupo per l’uomo.
Dante si pone il problema del male. Ma la pensa semmai come Terenzio: Homo sum, nihil humanum a me alienum puto; sono un uomo, nulla che sia umano lo considero estraneo a me.
A volte con i malvagi Dante è spietato. Nella Palude Stigia incontra Filippo Argenti, il suo nemico. Si chiamava in realtà Filippo Adimari, lo chiamavano Argenti perché ferrava di argento il suo cavallo e cavalcava per le vie di Firenze con le gambe larghe per ferire con gli speroni chi non era lesto a saltare di lato. Aveva schiaffeggiato Dante, e la famiglia degli Adimari aveva incamerato i beni degli Alighieri. Dante lo ritrova all’Inferno, lui gli dice: abbi pietà di me, vedi che son un che piango. Ma Dante non ha pietà: «Con piangere e con lutto, spirito maladetto, ti rimani, ch’io ti conosco, ancor sia lordo tutto»: anche se sei sporco di fango ti riconosco, e tu stai bene dove stai.
In fondo all’Inferno, tra i traditori della patria, Dante incontra Bocca degli Abati: il traditore di Montaperti. Montaperti per i fiorentini del Duecento e del Trecento era come per noi Caporetto: il sinonimo della sconfitta. Bocca degli Abati è un fiorentino che, corrotto dal nemico, mentre la cavalleria va all’assalto mozza la mano del portastendardo di Firenze, il gonfalone cade nella polvere, i fiorentini sbandano, i senesi contraccano e vincono la battaglia: diecimila morti in un giorno, l’Arbia colorato in rosso. Alla fine il comandante senese, Provenzano Salvani ordina di smettere di ammazzare i prigionieri guelfi, di salvare loro la vita per chiedere un riscatto: tutti tranne i fiorentini, quelli dovevano essere ammazzati senza pietà, anche quelli che invocavano san Zanobi.
Provenzano Salvani seconda la leggenda aveva un diavolo in bottiglia che gli prevedeva il futuro, e gli aveva detto che la sua testa sarebbe stata la più alta sul campo di battaglia. Parve che la vittoria avesse realizzato la profezia. Ma nove anni dopo Montaperti i fiorentini si presero la rivincita, sconfissero i senesi a Colle Val D’Elsa, Provenzano Salvani fu decapitato e la sua testa issata su una picca, per far vedere che Montaperti era stata vendicata. E quindi la sua testa fu davvero la più alta sul campo di battaglia.
Dante troverà Provenzano Salvani in Purgatorio, tra i superbi; salvato da un gesto di umiltà, aveva chiesto l’elemosina in piazza del Campo per un compagno d’armi fatto prigioniero dagli angioini, dai francesi. Ebbene quando Dante incontra in fondo all’Inferno Bocca degli Abati, il traditore, conficcato nel ghiaccio fino al collo, con solo la testa che spunta, gli strappa i capelli per fargli confessare il suo nome e il suo peccato.
Ma quando incontra Farinata degli Uberti, il vincitore di Montaperti, il comandante dei ghibellini fuoriusciti da Firenze, Dante gli riconosce la grandezza e la dignità. Virgilio gli dice: «“Voltati, che fai?/ Vedi là Farinata che s’è dritto/da la cintola in sù tutto ‘l vedrai”./ Io avea già il mio viso nel suo fitto;/ ed el s’ergea col petto e con la fronte/ com’ avesse l’inferno a gran dispitto».
Il petto e la fronte sono le parti del corpo dell’uomo che meglio manifestano la dignità. E Dante la riconosce a Farinata perché fu l’unico tra i comandanti ghibellini a «difendere Firenze a viso aperto», mentre gli altri la volevano radere al suolo. Poi Dante manda nell’Inferno i tiranni, affogati nel sangue che hanno sparso. E quattro Papi del suo tempo. Altri due li manda in Purgatorio, tra cui Martino IV tra i golosi perché era ghiotto di vernaccia e di anguille.
Celestino V è tra gli ignavi, tra coloro che non scelgono, perché «fece per viltade il gran rifiuto»: si dimise, lasciando il campo al grande nemico di Dante, Bonifacio VIII, l’uomo che consegnò Firenze ai Neri, e che andrà tra i simoniaci, tra coloro che fanno mercato delle cose religiose. Per Dante il Papa doveva essere un’autorità spirituale, non un sovrano assoluto: proprio quello che ora il Papa è diventato.
Anche per questo Papa Francesco ha definito Dante non solo un grande poeta, ma anche un profeta, che ha antevisto cose che poi sono accadute.
E Dante mette all’Inferno anche gli usurai, tra coloro che fanno violenza contro Dio, come i bestemmiatori. E spiega il motivo.
La natura - la terra, l’acqua, il grano, l’uva - è figlia di Dio. L’arte dell’uomo imita la natura; e quindi l’arte può dirsi nipote di Dio. L’uomo trae il suo pane dalla natura - i contadini, i vignaioli - o dall’arte: gli artigiani, gli artisti. Ma chi fa soldi con altri soldi sulla pelle della povera gente finisce all’Inferno.
Dante aveva già intuito le degenerazioni della finanza.
Dante ha una concezione molto moderna anche della donna. In un tempo in cui ci si chiedeva se la donna avesse o no l’anima, e molti rispondevano di no, Dante scrive che la specie umana supera tutto ciò che è sulla terra grazie alla donna.
È la donna che salva l’uomo; è Beatrice che salva Dante. Anzi, quando Dante si smarrisce nella selva oscura, una catena di donne si mette in movimento per salvarlo. La Madonna va da Santa Lucia - Dante era molto devoto a santa Lucia, protettrice della vista, perché le attribuiva la guarigione di una malattia agli occhi che aveva avuto da ragazzo -, santa Lucia va da Beatrice che scende dal Paradiso all’inferno, perché l’inferno non la tange, e affida Dante a Virgilio, che lo condurrà lungo l’Inferno e il Purgatorio sino al giardino dell’Eden, in cima alla montagna del Purgatorio, dove Dante ritrova Beatrice, scoppia in un pianto dirotto e purificatore, e vola con lei in Paradiso, sino davanti al volto di Dio.
E questa idea della donna che salva l’uomo, che salva il genere umano, è molto moderna. Perché la donna è capace di cura; e la cura non sminuisce, esalta. La donna da sempre si prende cura, nelle case, nelle famiglie, la donna dà la vita in tutti i modi in cui la vita può essere donata, concependo un figlio, dandolo alla luce, nutrendolo, curandolo; e oggi finalmente la donna è entrata nella vita pubblica, prende decisioni, esercita un potere. E la cura è una forma di potere, ora che abbiamo capito che la terra non è immortale, e la specie umana, come ci ha confermato la pandemia, è fragile; e tocca a noi, uomini e donne insieme, prendercene cura.
Dante mette in scena una pandemia all’Inferno. I falsari sono puniti con una malattia infettiva che li prostra, li costringe ad appoggiarsi l’uno alla schiena dell’altro: una scena terribile. Del resto le pandemie ai tempi di Dante non erano dolorose sorprese, erano dolorose abitudini.
La generazione successiva a quella di Dante sarà spazzata via dalla peste nera; la generazione dopo ancora farà il miracolo del Rinascimento. Ce l’abbiamo sempre fatta, ce la faremo anche questa volta. Diceva Borges - il grande letterato argentino, che adorava Dante e imparò l’italiano leggendo la Divina commedia sul tram che lo portava alla Biblioteca di Buenos Aires -, diceva Borges che la Divina Commedia è il più bel libro scritto dagli uomini.
Ed è un libro scritto nella nostra lingua, l’italiano, da un italiano: un nostro compatriota, un vostro concittadino. E già questo ci ricorda che essere italiani non è una sfortuna, come tendiamo a pensare; è un’opportunità ed è una responsabilità.
Ci ricorda chi siamo noi italiani. Ci ricorda quello che abbiamo fatto e possiamo, dobbiamo ancora fare, per tornare a riveder le stelle.
#Costituzione e #antropologia:
al di là della #zoppia #cecità e
#contraffazione della
#Trinità evangelica,
la #Monarchia trinitaria dei
#dueSoli di
#DanteAlighieri,
#oggi
RIPENSARE E RIORGANIZZARE "LI NOSTRI AFFETTI": PICCARDA DONATI "CON OCCHI RIDENTI" PARLA A DANTE E ALLA MADRE BELLA ("BEATRICE") E RICORDA IL SUO LEGAME CON GEMMA DONATI ("LUCIA")
A #Dante ("se la mente tua ben sé riguarda"), #PiccardaDonati #ricorda il suo legame ("non mi ti celerà l’esser più #bella") non solo con Corso e #ForeseDonati ma soprattutto con #GemmaDonati (#Lucia) e con #Beatrice ("#beata sono in la spera più tarda"):
Federico La Sala
Riletture
La magnifica inattualità della "Commedia"
Si fa un gran parlare di Dante mettendo l’accento sulla sua attualità, che è però distante dalla visione della vita, della morale civile e del rapporto creatura-Creatore che è nella sua opera
di Gianni Oliva (Avvenire, domenica 23 maggio 2021)
È sotto gli occhi di tutti che l’anno dantesco, il 2021 (700 anni dalla morte di Dante), vada a gonfie vele. Le manifestazioni erano già cominciate l’anno precedente con l’istituzione da parte del ministero dei Beni culturali del Dantedì, una ricorrenza fissa, come il giorno della memoria, che ha indubbiamente il suo valore promozionale. Già dagli ultimi giorni del 2020 è andato crescendo il clamore per la ’riscoperta’ (ahimé) di Dante nei salotti televisivi, ove si avvicendano dantisti dell’ultima ora col loro libro sotto braccio. Si tratta nella maggior parte di profili e di ricostruzioni biografiche non sempre di prima mano allestite per l’occasione o di adattamenti della Commedia in forma di narrazione, come se l’opera si risolvesse in un’affascinante avventura dagli Inferi «a riveder le stelle», magari alludendo alla pandemia in corso da cui tutti vorremmo uscire al più presto. Libri destinati a non lasciare traccia, adatti semmai a tamponare l’occasione della ricorrenza o a trasformarsi, nei casi peggiori, in regali di Natale, con soddisfazione degli editori e degli scaltri autori. In ogni caso c’è da chiedersi se tutto ciò sia un bene o un male.
Potremmo dire che è comunque un bene se come conseguenza ha l’avvicinamento del grande pubblico alla poesia dantesca, anche a rischio dell’estrema semplificazione e di una conoscenza approssimativa, se non distorta. Qualche anno fa venivano criticate dagli addetti ai lavori le istrioniche letture di Benigni ma certamente per la divulgazione di Dante hanno fatto molto di più quelle performances delle pur prestigiose (a volte noiose) lecturae Dantis delle accademie (nelle quali riconosco di essere stato molte volte coinvolto di persona).
Cento anni fa, nel 1921, altro anno deputato per il centenario dantesco, Giovanni Papini, in un libro intitolato Dante vivo, non si faceva scrupoli di prendere di mira i dantisti, i dantomani, gli sterili chiosatori del poema (Marinetti a sua volta parlava di un «verminaio di glossatori»), i quali, presi dalle loro minuzie interpretative (le cosiddette cruces dantesche), erano accusati di perdere di vista l’anima di Dante, insomma, la sostanza profonda del suo messaggio. Il dantismo celebrativo di oggi rischia di sortire forse gli stessi effetti perché il tema primario sembra essere quello dell’attualità del grande poeta.
Ci si chiede sempre: ma Dante è attuale? Come se gli autori possano essere scelti in base al tasso di attualità della loro opera ignorando la connessione stretta col loro tempo. Certo, come tutti i grandi classici, Dante contiene messaggi che riguardano il comportamento degli uomini e per questo è come Omero, come Shakespeare, autori in cui si riflettono le verità universali. Attenzione però. Alcune di queste verità, indubbiamente le più importanti, sono di natura spirituale e dunque connesse con un sapere teologico profondissimo e complicato con cui oggi si è persa dimestichezza. Va detto a scanso di equivoci che Dante è un poeta difficile e come tale richiede rispetto.
Etienne Gilson diceva che quando ci si accosta a Dante è necessario dismettere gli abiti laici. Un’epoca utilitaristica come la nostra, fondata sul tessuto finanziario e sull’economia è davvero in grado di recepire senza difficoltà un discorso ’anagogico’ che prevede il ricongiungimento della creatura col Creatore? Il viaggio di Dante non è un’escursione più o meno avventurosa nei regni dell’oltremondo, tra diavoli e gerarchie angeliche, in compagnia di personaggi alcuni dei quali indimenticabili protagonisti del suo universo. Affermare questo significa ignorare il realismo figurale, il significato delle scritture su cui Dante tanto insiste.
L’anagogia nel suo significato etimologico (dal greco anagoghè), ossia viaggio dal tempo all’eterno indica il fine ultimo dell’uomo che, in quanto creatura, tende a ricongiungersi con il Creatore. L’epoca attuale ricava da Dante quello che vuole e che più gli aggrada ( Quidquid recipitur, ad modum recipientis recipitur: Qualunque cosa venga ricevuta, viene ricevuta secondo le possibilità di chi la riceve), senza curarsi molto della verità sostanziale. Si vuol dire che i problemi che Dante pone sono molto più complessi di quello che sembra; sono molto più lontani dalle posizioni morali che convengono alla società evoluta dei tempi nostri. Il mondo dantesco, a livello politico, ideologico, culturale, è ben altro dal nostro e penetrarvi per conoscerlo richiede pazienza, attitudine all’ascolto e allo studio. Tutto si può fare e, volendo, anche senza essere degli specialisti, è possibile affrontare lo studio di Dante con cognizione di causa, rimuovendo però atteggiamenti frettolosi e superficiali. Magari un corso di lezioni tenute a un pubblico volenteroso (e davvero curioso) forse sortirebbe migliore effetto, qualora, al di là delle convenienze, si insistesse su un principio fondamentale: che la Commedia non è uno svago, ma è la coscienza e la consonanza della sorte umana, è il poema che ricorda agli uomini che la vita è assidua meditazione della morte e infinita malinconia di beni sperati e smarriti, prova incessante di passione e di pentimento, di violenze e rinunce, di verità e d’ignoranza.
#NiccoloCusano,
per indicare la #via alla
"#Visione di Dio" (1454),
si serve di
un quadro dell’artista Rogier Van der Wayden,
allievo di Robert #Campin,
autore del #TritticodiMerode
Con #Virgilio e #Beatrice (#dueSoli),
#NiccoloCusano,
(«Non è la madre che genera chi è chiamato figlio, ma solo nutrice è del seme gettato in lei»)
non esce dall’orbita
della #tragedia (#Eschilo).
DA VERSAILLES ALLA CIBERNETICA.
di Gregory Bateson
Devo parlare di storia recente, come appare a me nella mia generazione e a voi nella vostra, e mentre giungevo in aereo stamane, nella mia mente cominciarono a riecheggiare certe parole. Erano frasi più roboanti di quelle che io sarei mai capace di formulare. Una di queste frasi era: «I padri hanno mangiato il frutto amaro e i denti dei figli si sono allegati». Un’altra era l’asserzione di Joyce che «La storia è quell’incubo da cui non ci si sveglia». Un’altra era: «I peccati dei padri ricadranno sui figli anche fino alla terza o quarta generazione di quelli che mi odiano». E, infine, non così immediatamente pertinente, ma, penso, sempre pertinente al problema del meccanismo sociale: «Colui che vuol far del bene a un altro deve farlo nei Minuti Particolari. Il Bene Generale è la scusa del furfante, dell’ipocrita e dell’adulatore».
Stiamo parlando di cose gravi. Ho intitolato questa conferenza «Da Versailles alla cibernetica», menzionando i due eventi storici più importanti del XX secolo. La parola ’cibernetica’ è familiare, no? Ma quanti di voi sanno quello che accadde a Versailles nel 1919?
Il problema è: che cosa conterà della storia degli ultimi sessant’anni? Io ho sessantadue anni, e quando ho cominciato a pensare alla storia che ho visto nel corso della mia vita, mi è sembrato in realtà di aver visto solo due momenti che definirei veramente importanti dal punto di vista di un antropologo.
Uno concerne gli eventi che hanno condotto al Trattato di Versailles, e l’altro concerne la rivoluzione cibernetica. Forse sarete sorpresi o stupiti che io non abbia ricordato né la bomba atomica nè, addirittura, la seconda guerra mondiale. Non ho ricordato la diffusione dell’automobile o della radio e della televisione o molti altri fatti che sono accaduti negli ultimi sessant’anni.
Vi dirò il mio criterio per l’importanza storica.
I mammiferi in generale, e noi uomini in particolare, si curano moltissimo non degli episodi, ma delle strutture delle loro relazioni. Quando apro lo sportello del frigorifero e il gatto si avvicina emettendo certi suoni, esso non sta parlando del fegato o del latte, anche se so bene che è proprio quello ciò che il gatto vuole. Posso esser capace di indovinare e dargli ciò che desidera (se ce n’è nel frigorifero). Ciò che il gatto dice, in realtà, è qualcosa che riguarda la sua relazione con me. Se esprimessi con parole il suo messaggio, ne risulterebbe qualcosa del tipo: «dipendenza, dipendenza, dipendenza». In effetti il gatto sta parlando di una struttura piuttosto astratta nell’ambito di una relazione. Da quest’asserzione di una struttura, io dovrei passare dal generale al particolare: dedurre «latte» o «fegato».
Questo punto è fondamentale; questo è ciò che interessa i mammiferi. Essi si curano delle strutture di relazione, della posizione in cui si trovano rispetto agli altri in un rapporto di amore, odio, rispetto, dipendenza, fiducia, e astrazioni analoghe. Questo è il punto ove cadere in errore è doloroso. Se noi ci fidiamo di qualcuno e scopriamo che costui non meritava fiducia; o se diffidiamo di qualcuno e scopriamo che in realtà costui meritava fiducia, ci sentiamo male. Il dolore che può derivare agli uomini e a tutti gli altri mammiferi da questo tipo di errore è grandissimo. Se quindi vogliamo davvero sapere quali siano i punti significativi della storia, dobbiamo chiederci quali sono i momenti della storia in cui sono cambiati gli atteggiamenti. Sono questi i momenti in cui la gente soffre a causa dei ’valori’ precedenti.
Pensate al termostato di casa vostra. Il tempo fuori cambia, la temperatura della stanza scende, l’interruttore del termometro in soggiorno fa quello che deve fare e accende la caldaia, e quando la stanza è calda l’interruttore del termometro spegne di nuovo la caldaia. Il sistema è quello che si chiama un circuito omeostatico, o servomeccanismo. Ma c’è anche una scatoletta sulla parete del soggiorno con la quale si regola il termostato. Se nell’ultima settimana la casa è stata troppo fredda, dovete spostare in su il termostato dalla sua posizione attuale per far oscillare il sistema intorno a un altro livello. Il tempo esterno, in nessun modo, nè col freddo nè col caldo nè in altro modo, potrà cambiare questa posizione, che è detta ’polarizzazione’ del sistema. La temperatura della casa oscillerà, sarà più caldo o più freddo secondo varie circostanze, ma la posizione del meccanismo non sarà mutata da questi cambiamenti. Quando invece io vado a variare la polarizzazione, cambierò quello che si può chiamare l’ ’atteggiamento’ del sistema.
Analogamente, la domanda importante relativa alla storia è: la polarizzazione o l’atteggiamento sono stati cambiati? L’episodico accadere degli eventi sotto una polarizzazione stazionaria è cosa veramente trita. È questo che avevo in mente quando ho detto che i due eventi storici più importanti della mia vita sono stati il Trattato di Versailles e la scoperta della cibernetica.
I più, tra voi, probabilmente non sanno come si giunse a stipulare il Trattato di Versailles. La storia è molto semplice: la prima guerra mondiale continuava a trascinarsi; era abbastanza evidente che i tedeschi stavano perdendo. A questo punto George Creel, che si occupava di pubbliche relazioni (e vorrei che non dimenticaste che costui fu uno dei nonni delle moderne pubbliche relazioni) ebbe un’idea: l’idea era che forse i tedeschi si sarebbero arresi se avessimo offerto loro condizioni armistiziali leggere. Egli preparò allora un pacchetto di condizioni leggere, che non contemplavano provvedimenti punitivi. Queste condizioni erano articolate in quattordici punti; ed egli comunicò questi Quattordici Punti al Presidente Wilson. Se avete intenzione di ingannare qualcuno, come latore del messaggio dovete scegliere un uomo onesto; il Presidente Wilson era uomo di onestà quasi patologica e di sentimenti umanitari. Egli sviluppò i punti in un gran numero di discorsi: non dovevano esserci «né annessioni, nè riparazioni di guerra, nè distruzioni punitive...» e così via. E i tedeschi si arresero.
Noi, inglesi e americani (specialmente gli inglesi) continuammo ovviamente a tenere la Germania sotto embargo, perché non volevamo che i tedeschi si ringalluzzissero prima della firma del Trattato; e così, per un altro anno, essi continuarono a patir la fame.
La Conferenza di pace è stata vivacemente descritta da Maynard Keynes in The Economic Consequences of the Peace (1919).
Il Trattato fu finalmente redatto da quattro uomini, Clemenceau, «la Tigre», che voleva schiacciare la Germania, Lloyd George, che riteneva fosse politicamente vantaggioso ottenere dalla Germania molte riparazioni di guerra, e imporle qualche ritorsione; e Wilson, che doveva essere continuamente menato per il naso. Ogni volta che Wilson aveva dei ripensamenti su quei Quattordici Punti, essi lo portavano nei cimiteri di guerra e lo facevano vergognare di non sentirsi in collera coi tedeschi. Chi era l’altro? L’altro era Orlando, un italiano.
Si trattò di una delle più grandi svendite nella storia della nostra civiltà; un evento tra i più straordinari, che portò difilato e inevitabilmente alla seconda guerra mondiale. Portò anche (e questo è forse più interessante che non la prima conseguenza) a uno scadimento morale della politica tedesca. Se voi promettete qualcosa a vostro figlio, e poi vi rimangiate la promessa, inquadrando però tutta la faccenda su un piano etico elevato, la conseguenza sarà non solo che egli sarà in collera con voi, ma che i suoi atteggiamenti morali peggioreranno, in quanto egli sentirà l’ingiustizia della canagliata che gli fate. Non soltanto la seconda guerra mondiale è stata la risposta appropriata di una nazione che era stata trattata proprio in questa maniera; ciò che è più importante è che era lecito aspettarsi, da questo tipo di trattamento, uno scadimento morale di quella nazione. Lo scadimento morale della Germania ha causato anche il nostro scadimento morale. Ecco perché dico che il Trattato di Versailles è stato un giro di boa nell’ambito degli atteggiamenti morali.
Ritengo che sia necessario attendere ancora un paio di generazioni prima che i postumi di quella svendita esauriscano i loro effetti. Siamo, di fatto, come i membri della casa di Atreo nella tragedia greca. Prima ci fu l’adulterio di Tieste, poi Atreo ammazzò i tre figli di Tieste e glieli imbandì nel banchetto della riconciliazione; poi ci fu l’assassinio del figlio di Atreo, Agamennone, da parte di Egisto, figlio di Tieste; e infine Oreste uccise Egisto e Clitennestra.
La cosa continua ad andare avanti. È la tragedia della sfiducia, dell’odio e della distruzione, che vibrano e si propagano attraverso le generazioni.
Provate a immaginare di capitare nel bel mezzo di una tale sequela di tragedie. Come stanno le cose per la generazione intermedia degli Atridi? Essi vivono in un universo pazzesco. Dal punto di vista di quelli che hanno dato inizio al disastro, non è così pazzesco: essi sanno che cosa è accaduto e in che modo vi sono arrivati. Ma i successori, che all’inizio non erano presenti, si trovano a vivere in un universo pazzesco e si ritrovano pazzi proprio perché non sanno come ci sono capitati.
Prendere una dose di LSD va bene: si prova la sensazione di essere più o meno pazzi; ma ciò ha perfettamente senso, perché si sa che si è presa una dose di LSD. Se invece si prende I’LSD per accidente, e poi ci si sente impazzire senza sapere come e perché, questa è un’esperienza terribile e angosciosa; è un’esperienza assai più seria e spaventosa, molto diversa dal ’viaggio’, che potete anche godere se sapete di aver preso l’LSD.
Considerate ora la differenza tra la mia generazione e quelli di voi che hanno meno di venticinque anni. Tutti viviamo nello stesso pazzesco universo, in cui l’odio, la sfiducia e l’ipocrisia (specialmente a livello internazionale) risalgono ai Quattordici Punti e al Trattato di Versailles. Noi più anziani sappiamo come si è arrivati fino a questo punto. Ricordo che mio padre, leggendo a colazione i Quattordici Punti, disse: «Per Giove, vogliono conceder loro un armistizio decente, una pace onesta, o qualcosa del genere». E ricordo anche, ma non tento di ridirla, la cosa che disse quando il Trattato di Versailles fu reso noto: è una cosa che non si può stampare. Quindi io so più o meno come si è giunti a questo punto. Ma dal vostro punto di vista, noi siamo assolutamente pazzi, e voi non sapete quali eventi storici abbiano portato a questa pazzia. «I padri hanno mangiato il frutto amaro e i denti dei figli si sono allegati». Per i padri va bene: essi sanno che cosa hanno mangiato; ma i figli non sanno che cosa è stato mangiato.
DA VERSAILLES ALLA CIBERNETICA.
di Gregory Bateson
Vediamo che cosa è lecito aspettarsi da persone che abbiano appena subito un atroce inganno. Prima della prima guerra mondiale si pensava generalmente che il compromesso e un pizzico d’ipocrisia fossero ingredienti molto importanti per il raggiungimento di un certo comfort nella vita d’ogni giorno. Se leggete, per esempio, Erewhon Revisited, di Samuel Butler, capirete che cosa intendo dire. Tutti i personaggi principali del romanzo si sono cacciati in guai terribili: alcuni debbono essere giustiziati, altri debbono divenire oggetto di pubblica esecrazione; e il sistema religioso della nazione minaccia di crollare. Queste difficoltà e complicazioni sono appianate da Mrs. Ydgrun (o, come diremmo noi, «Mrs. Grundy») custode dei costumi di Erewhon. Ella ricostruisce con cura la storia, come un rompicapo a intarsio, in modo che nessuno stia realmente male e a nessuno capitino disavventure (e specialmente che nessuno sia giustiziato). Questa filosofia era assai comoda. Un po’ d’ipocrisia e un po’ di compromesso lubrificano gl’ingranaggi della vita sociale.
Ma dopo il grande inganno questa filosofia non può reggere. Avete perfettamente ragione, c’è qualcosa di sbagliato, e questo qualcosa ha la natura dell’inganno e dell’ipocrisia. Voi vivete in mezzo alla corruzione.
Ovviamente le vostre reazioni spontanee sono puritane. Non è un puritanesimo sessuale, poiché sullo sfondo non c’è inganno sessuale. Ma un rigoroso puritanesimo contro il compromesso, un puritanesimo contro l’ipocrisia che finisce col ridurre la vita in piccoli pezzi. Sono le grandi strutture integrate della vita che sembrano aver portato alla follia, e così voi cercate di concentrarvi sulle cose più minute. «Colui che vuol far del bene a un altro deve farlo nei Minuti Particolari. Il Bene Generale è la scusa del furfante, dell’ipocrita e dell’adulatore». Il bene generale puzza d’ipocrisia per la nuova generazione.
Non ho dubbi che se voi chiedeste a George Creel di giustificare i Quattordici Punti, egli invocherebbe il bene generale. È possibile che la sua operazioncella abbia salvato la vita di qualche migliaio di americani nel 1918. Non so però quante vite essa sia costata nella seconda guerra mondiale, e, dopo, in Corea e nel Vietnam. Ricordo che Hiroshima e Nagasaki furono giustificate col bene generale e col risparmio di vite americane. Ci fu un gran parlare di ’resa incondizionata’, forse perché non avevamo fiducia nella nostra capacità di osservare un armistizio condizionato. Il destino di Hiroshima fu decretato a Versailles?
Voglio parlare adesso dell’altro evento storico importante accaduto durante la mia vita, nel 1946-47 circa. Si trattò del coagularsi di numerose idee che erano sorte in luoghi diversi durante la seconda guerra mondiale. Possiamo chiamare l’aggregato di queste idee cibernetica, o teoria delle comunicazioni, o teoria dell’informazione, o teoria dei sistemi. Queste idee nacquero in molti luoghi: a Vienna con Bertalanffy, a Harvard con Wiener, a Princeton con von Neumann, nei Laboratori della Bell Telephone con Shannon, a Cambridge con Craik, e così via. Tutti questi sviluppi separati in diversi centri intellettuali avevano a che fare con problemi di comunicazione e specialmente col problema di quale fosse la natura di un sistema organizzato.
Noterete che tutto ciò che ho detto sulla storia e su Versailles è una discussione sui sistemi organizzati e le loro proprietà. Ora voglio dire che stiamo cominciando in una certa misura a comprendere in modo rigorosamente scientifico questi misteriosi sistemi organizzati. Quello che sappiamo oggi è assai più di quanto avrebbe mai potuto dire George Creel. Egli fu scienziato applicato prima che la scienza fosse matura per essere applicata.
Una delle radici della cibernetica risale a Whitehead e Russell e a ciò che si chiama la Teoria dei Tipi logici. In linea di principio, il nome non è la cosa cui il nome si riferisce, e il nome del nome non è il nome, e così via. In termini di questa potente teoria, un messaggio sulla guerra non è parte della guerra.
Diciamo così: il messaggio ’Giochiamo a scacchi’ non è una mossa del gioco degli scacchi; è un messaggio in un linguaggio più astratto di quello del gioco che si svolge sulla scacchiera. Il messaggio ’Facciamo la pace in questi e questi termini’ non è nello stesso sistema etico al quale appartengono gl’inganni e gli stratagemmi della battaglia. Dicono che tutto è lecito in amore e in guerra, e questo può essere vero all’interno dell’amore e della guerra, ma all’esterno e riguardo all’amore e alla guerra, l’etica è un po’ diversa. Per secoli gli uomini hanno giudicato il tradimento durante la tregua o le trattative per la pace peggiore dell’inganno in battaglia. Oggi questo principio etico trova un rigoroso fondamento teorico e scientifico. Ora l’etica può essere esaminata in modo formale, rigoroso, logico, matematico, e così via; e poggia su basi assai diverse dalle prediche e dalle invocazioni. Non è più inevitabile che ciascuno la pensi a suo modo; a volte possiamo distinguere ciò che è giusto da ciò che è errato.
Ho preso la cibernetica come il secondo evento d’importanza storica nella mia vita perché ho almeno una tenue speranza che possiamo indurci a usare queste nuove conoscenze con un po’ di onestà: se comprendiamo un pochino quello che stiamo facendo, forse ciò potrà aiutarci a uscire dal labirinto di allucinazioni che ci siamo orditi intorno.
La cibernetica, a ogni modo, è un contributo al cambiamento: non solo un cambiamento dell’atteggiamento, ma addirittura un cambiamento nella comprensione di ciò che è un atteggiamento.
La posizione che ho assunto nello scegliere ciò che è importante nella storia (quando ho detto che le cose importanti sono gli istanti in cui viene determinato l’atteggiamento, gli istanti in cui viene cambiata la polarizzazione del termostato), questa posizione deriva direttamente dalla cibernetica. Sono pensieri plasmati dagli eventi accaduti dal 1946 in poi.
Non dobbiamo illuderci di aver trovata la soluzione bell’e pronta. Abbiamo ora a nostra disposizione molta cibernetica, molta teoria dei giochi, e cominciamo a conoscere e comprendere i sistemi complessi. Ma ogni conoscenza può essere usata a scopi distruttivi.
Ritengo che la cibernetica rappresenti il boccone più grosso che l’uomo abbia strappato dal frutto dell’Albero della Conoscenza negli ultimi duemila anni. Ma la maggior parte dei bocconi di questa mela si sono dimostrati piuttosto indigesti (di solito per motivi cibernetici).
In se stessa, la cibernetica è integra, e questo può aiutarci a non essere indotti a più grande follia, ma non possiamo confidare che essa ci preservi dal peccato.
Ad esempio i ministeri degli Esteri di parecchie nazioni utilizzano oggi la Teoria dei Giochi, con l’ausilio del calcolatore, come un mezzo per decidere la politica internazionale. Dapprima, identificano quelle che sembrano essere le regole di gioco dell’interazione internazionale; poi considerano la distribuzione geografica di forze, armi, punti strategici, controversie, eccetera, nelle nazioni identificate. Essi poi chiedono al calcolatore di computare quale dovrebbe essere la mossa successiva per minimizzare le possibilità di perdere la partita; il calcolatore ronza e cigola e dà una risposta: e quasi quasi si è tentati di obbedirgli. Dopo tutto, se si dà retta al calcolatore si è un po’ meno responsabili che se si fosse presa una decisione autonoma.
Ma se si fa ciò che il calcolatore consiglia, con quella mossa si dà il proprio appoggio alle regole del gioco che si erano fornite al calcolatore: si confermano le regole del gioco.
Anche le nazioni rivali hanno certamente i calcolatori e fanno giochi simili e confermano le regole del gioco che essere forniscono ai loro calcolatori. Il risultato è un sistema in cui le regole dell’interazione internazionale divengono sempre più rigide.
È mia opinione che il vero problema in campo internazionale è che le regole debbono cambiare. Non è questione di che cosa sia meglio fare con le regole così come esse sono oggi; ma piuttosto di come ci si possa svincolare dalle regole secondo le quali abbiamo agito negli ultimi dieci o venti anni, o fin dal Trattato di Versailles. Il problema è di cambiare le regole, e nella misura in cui permetteremo alle nostre invenzioni cibernetiche (i calcolatori) di trascinarci in situazioni sempre più rigide, non faremo altro che calpestare e offendere la prima promettente scoperta fatta dal 1918.
Naturalmente vi sono altri pericoli latenti nella cibernetica, e molti non sono stati neppure individuati. Non si sa, ad esempio, quali possano essere le conseguenze dell’impiego del calcolatore per la gestione di tutti gli schedari della pubblica amministrazione. Almeno questo tuttavia è certo: che nella cibernetica è anche latente il mezzo per conseguire una nuova e forse più umana filosofia, un mezzo per cambiare la nostra strategia del controllo e un mezzo per vedere le nostre follie in una prospettiva più vasta.
* Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente [tit. orig.: Steps to an Ecology of Mind, 1972], Milano, Adelphi, 1977, pp. 487-496.
#DANTE2021 #DivinaCommedia, #oggi. Nel #Cielo di #Marte, #Dante in #Paradiso (Pd XIV-XV): problemi di #genealogia e di #rinascita - la visione della #croce (#albero di Jesse) e l’incontro con #Cacciaguida:
Albero di Jesse *
L’albero di Jesse (o Iesse) è un motivo frequente nell’arte cristiana tra l’XI e il XV secolo: rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Origine
Il tema iconografico trae spunto da un famoso annuncio messianico contenuto nel capitolo 11 del libro del profeta Isaia (11,1.10) [1] da cui ha origine il suo nome greco [2]. Gli artisti combinarono la frase con la genealogia di Gesù come appare nel vangelo secondo Matteo [3] o secondo il Vangelo di Luca (3, 23-38)[4], genealogie che tuttavia presentano vistose differenze.
La più antica rappresentazione conosciuta dell’albero di Jesse è datata 1086, e compare nel Codice Vissegradesi, vangelo dell’incoronazione di Vratislao II di Boemia[5].
Iconografia
Jesse viene solitamente rappresentato coricato, semi-coricato o nell’iconografia meno antica seduto[6][7]. Nell’arte romanica, solitamente, egli è rappresentato coricato all’aperto mentre in quella gotica appare più spesso dentro ad un letto riccamente adornato, come nelle vetrate della chiesa di Saint-Étienne a Beauvais che datano al 1520.
Spesso Jesse appare addormentato, la testa appoggiata su una mano. Questa posizione è, a volte, associata ad un sogno profetico concernente la discendenza del dormiente. Dal suo fianco o dal suo ventre o anche dal dorso[7] o più raramente dalla sua bocca, s’innalza un albero i cui rami sorreggono gli antenati di Gesù, in particolare Davide riconoscibile per la sua arpa, fino a Maria. Le vetrate della cattedrale di Chartres rappresentano, dal basso in alto Davide, Salomone, Roboamo, Abias ed infine Maria. Ogni artista, a seconda del testo che ha utilizzato, del proprio gusto e dello spazio che ha a disposizione, aggiunge altri personaggi dell’Antico Testamento, spesso i profeti che gli esegeti del Medioevo pensavano avessero annunciato la venuta di Cristo (sono quattordici sulle vetrate di Chartres). Alla sommità si trova Gesù, a volte in croce, a volte bambino, sulle ginocchia della madre.
Nel XIII secolo, l’albero si sviluppa verticalmente, ed è solo nel XV che comincia a ramificarsi lateralmente[6]. Ancora presente nell’iconografia cristiana del XV sec., il motivo declina nel XVI per scomparire con la Controriforma[6].
Esistono naturalmente anche altre forme di rappresentazione della genealogia di Gesù, che non utilizzano l’albero di Jesse, il più famoso è quello dipinto nelle lunette della Cappella Sistina da Michelangelo tratto dal Vangelo secondo Matteo[8].
I supporti
L’albero di Jesse è stato un motivo popolare in tutte le arti: si trovano esempi nei manoscritti miniati, le stampe, le vetrate, la scultura monumentale, gli affreschi, le tappezzerie o nei ricami[6].
Manoscritti
Il motivo appare in parecchie bibbie romane, ad esempio nella Bibbia di Lambeth, sotto forma di una B maiuscola decorata all’inizio del Libro di Isaia o del vangelo di Matteo. La bibbia di San Benigno, del XII secolo, una delle più antiche che ci sono pervenute, mostra Jesse e le sette colombe rappresentanti i sette doni dello Spirito Santo[9]. La bibbia dei Cappuccini (ultimo quarto del XII sec.) conservata nella Bibliothèque nationale de France ne è un altro esempio, l’albero di Jessi decora la L maiuscula del Liber generationis nel vangelo di Matteo[10].
Poiché il re Davide era considerato l’autore dei Salmi, i salteri erano sovente illustrati con un albero di Jesse, soprattutto i manoscritti inglesi, dove l’albero di Jesse s’arrotola attorno alla B maiuscola del testo latino Beatus Vir all’inizio del primo salmo. Uno dei primi esempi è il salterio di Huntingfield, della fine del XII secolo. La British Library possiede un bellissimo salterio del XIV sec., detto di Gorleston. In questi due esemplari Jesse è allungato ai piedi della lettera B. Si potrebbero citare ancora il salterio di Macclesfield (Fitzmuseum, Cambridge) ed il Salterio e le Ore del duca di Bedford [11].
Alcuni manoscritti consacrano una pagina intera al motivo, aggiungendovi personaggi, per esempio la sacerdotessa di Apollo Sibilla Cumana del salterio d’Ingeburg (inizio del XII sec.). Presso Colonia, in un lezionario di prima del 1164 si descrive un Jesse insolito, morto in una tomba o bara, da cui l’albero cresce[12].
Una prestigiosa rappresentazione dell’Albero di Jesse si trova nella cappella Roano (voluta dall’Arcivescovo Giovanni Roano), detta cappella del Crocifisso, sita all’interno del Duomo di Monreale in Sicilia.
Evoluzione
L’albero di Jesse, contaminato dalla popolarità del tema della parentela santa si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il modello da cui deriveranno le successive rappresentazioni degli alberi genealogici[13] e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali[14].
Per Tilde Giani Gallino l’albero di Jesse dell’abbazia di Saint-Denis rappresenta, dissimulato, un fallo di dimensioni sproporzionate. Questa rappresentazione è risultato dell’inconscia compensazione del suo ideatore, l’abate Sugerio, che - sfavorito dalla natura, causa imbecille corpusculum - proiettò, tramite quello che per lui era simbolo di forza e autorità, la sua «volontà di potenza».[15][16]
L’immagine dell’albero che nasce direttamente dal fianco di Jesse, affermatasi nei secoli XI-XII, ha una sconcertante analogia con la scena in cui si vede Brahmā seduto su un loto che esce dal ventre di Viṣṇu, secondo i testi sacri Veda. Nell’arte romanica i personaggi sono collocati direttamente sui rami e non nei calici dei fiori come avverrà dopo un paio di secoli, analogamente a quanto rappresentato nelle sculture buddhiste in Birmania, Cambogia, Cina ed altre parti dell’Estremo Oriente. Queste immagini si ritrovano a Worms, Issoudun (cappella dell’Ospedale), Rouen (cattedrale), Sens (cattedrale).[17]
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale, senza immagini e senza note).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI"... DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura.
FLS
Le parolacce di Dante e quelle di Marx
Intervista. Federico Sanguineti, docente di filologia dantesca autore della prima lettura autenticamente marxista della Commedia
di Beatrice Andreose (il manifesto, Alias, 17.04.2021)
È un testo filologicamente ineccepibile ma soprattutto è la prima lettura sociologica integralmente marxista quella che Federico Sanguineti, docente di Filologia italiana e Filologia dantesca all’Università di Salerno, ci regala nel suo ultimo volume Le parolacce di Dante (Tempesta editore, prefazione di Moni Ovadia). Una lettura della Divina Commedia che affronta a chiare lettere, nei quattordici brevi capitoli, l’uso da parte del poeta di parolacce come «merda», «puttana», «bordello» in continuità con quelle vergate nella Bibbia dove si incontrano di frequente termini come «stercora sua» o «puttana». È inevitabile poi che alle parolacce del poeta si aggiungano nei secoli successivi quelle dei copisti tantoché per il filologo il vertice poetico della nostra letteratura consiste in «un mix di parole e parolacce». Nell’inferno, a cui è destinata la società corrotta e borghese, le parolacce sono dominanti. Non così in Paradiso dove la proprietà privata è abolita e dove Beatrice, donna in carne e ossa, assegna a Dante un’altra voce. L’unico dantista citato nel volumetto è Karl Marx che ama e conosce Dante e, a sua volta, in una lettera indirizzata ad Engels il 2 aprile 1851 etichetta col termine «merda» l’intera economia politica.
Marx dantista e Dante «materialista storico» antelitteram, in che senso?
Marx cita Dante a ogni piè sospinto, e lo pone in epigrafe anche nel primo libro del Capitale. A lui non sfugge che il poeta fiorentino manda all’inferno la nascente società borghese, denunciandone il carattere diabolico, infernale, patologico. Il viaggio dantesco, attraverso la società corrotta dell’inferno, la società in transizione del purgatorio e l’arrivo in paradiso (la società giusta dove la proprietà privata è abolita), prefigura il percorso indicato da Marx, il passaggio dal modo di produzione capitalistico, attraverso il socialismo (dittatura del proletariato), fino al comunismo. Come non vedere che Beatrice, che sulla cima del Purgatorio si presenta in modo dittatoriale, come «ammiraglio», e impone a Dante di vergognarsi, lo prepara così, rovesciando gli stereotipi di genere, al comunismo del paradiso?
Merda e bordello, parolacce in discreta quantità nella Divina Commedia. Una appartenenza postuma alla classe sociale più povera o uno sberleffo iconoclasta del poeta? Certo che dal tuo libro chi ne esce un po’ maluccio è il Petrarca avvezzo a frequentare il Francesco carrarese e che, come il suo signore, detesta qualsiasi contaminazione con i proletari.
Dunque, con ordine. Merda è parola che Marx usa per definire l’economia politica borghese. La stessa parola che ricorre più volte nella Bibbia e in Dante. Dante si rifà al salmo 113, ‘In exitu Israel de Aegypto’ (che è il paradigma ebraico della liberazione) e ai vangeli e agli atti degli apostoli, che sono libri di regole economiche e di amore (secondo la definizione di Alex Zanotelli). Gli apostoli, Dante e Marx hanno comunque un solo obiettivo: l’abolizione della proprietà privata, ossia la realizzazione di un paradiso in terra, un mondo dove le parolacce sono un ricordo del passato. Quanto a bordello, questa è semplicemente l’Italia, un paese storicamente occupato da forze militari straniere, già prima di Dante (Longobardi e Carlo Magno), dopo Dante (Francia o Spagna), fino ad oggi (le basi americane). Quanto a Petrarca, di fronte a Dante, poveretto, è patetico: lui, intellettuale aristocratico, ama una Laura borghese (che non parla mai). Dante ha un altro modello di donna: una Beatrice loquacissima, che dà a Dante diritto di cittadinanza («e sarai meco sanza fine cive») e infrange l’obbligo imposto da San Paolo alle donne, quello di non aver voce in capitolo, di non poter insegnare.
A proposito di genere, tu scrivi anche e soprattutto di donne il cui ruolo nella letteratura viene finalmente disvelato. A partire da quella straordinaria Cristina da Pizzano, emigrata in Francia da piccola, intellettuale che vive del suo lavoro ed autrice, a soli cento anni dalla morte di Dante, di un’opera che rovescia al femminile la cornice dantesca. Beatrice, inoltre, non risulta più essere la donna «gentile» che ci hanno insegnato a scuola ma una donna in carne ed ossa. Un ribaltamento radicale.
Le undici sillabe più straordinarie di Dante sono «Guardaci ben, se ben sè ‘n Beatrice». Qui il poeta è invitato a rendersi conto di trovarsi in Paradiso, cioè di essere, alla lettera, «in Beatrice», compenetrato in lei. In nuce è già presente l’idea dell’”«inleiarsi» che sarà con formidabili parasintetici neologismi, ripresa nella terza cantica. Queste undici sillabe sono insopportabili al gusto borghese e quindi manomesse dai copisti e filologi i quali le leggono «Guardati ben! Ben sembri Beatrice (errore congiuntivo di una famiglia di codici). Per fortuna la lezione genuina è conservata dal ramo beta della tradizione: Urbinate 366, Urbinate 365, Florio ed Estense. Nel paradiso terrestre Dante è in Beatrice. Al funereo colpo di fulmine , di un amore « che ratto s’apprende», perché irresistibile(«a nullo amato amar perdona»), ovvero il top per l’estetica borghese, urge contrapporre il punto di vista opposto, quello vitale di Dante che celebra il piacere.
C’è un punto specifico nella Commedia o in altre sue opere in cui Dante pre «figura» una società comunista?
Tutto il Paradiso è una società giusta, dove non c’è più proprietà privata. Lo spiega molto bene una studiosa americana, Joan Ferrante (Columbia University), in un suo libro, The Political Vision of the Divine Comedy, mai tradotto in italiano.
Poiché le anime brillano di più man mano che si avvicinano a dio, che ruolo gioca questo ultimo nella società giusta?
In paradiso ognuna e ognuno si avvicina a realizzare se stesso umanamente, secondo i propri bisogni. Nella misura in cui ciò accade, si intensifica il piacere, si gode di più, Beatrice brilla di più: è la «dolce vita», un piacere indescrivibile. E in paradiso la gerarchia è apparente. In realtà, spiega Beatrice a Dante, non c’è gerarchia. E non c’è patriarcato: Dio non è padre, neppure nella preghiera conclusiva a Maria: «Vergine madre, figlia del tuo figlio». In Petrarca, nella poesia che chiude il Canzoniere, Dio padre ritorna invece in piena regola.
Ritorniamo alle parolacce, i copisti nel corso dei secoli hanno spesso modificato il testo originario. Lo chiedeva la controriforma ma anche prima il testo di Dante viene spesso disatteso. Ora è conosciuto come il sommo poeta. Strano destino il suo.
Immediatamente dopo la morte di Dante, il suo Poema è diventato un bestseller. I borghesi fiorentini hanno fiutato l’affare e hanno prodotto centinaia di copie manoscritte per un pubblico borghese. Quest’ultimo, ancora oggi, si identifica coi personaggi dell’inferno censurando tutto il resto (salvo questa o quella terzina «poetica») come «non poesia» o «struttura», cioè come elementi secondari liquidabili come «teologici» e «medievali». Ma, a parte il fatto che il medioevo non è mai esistito (è una categoria ideologica eurocentrica), ed è esistito invece il modo di produzione feudale, occorre dire che Dante non è un teologo della conservazione, ma un teologo della liberazione al pari di Gioacchino da Fiore, dunque un teologo (come Tommaso Campanella) che anticipa Marx.
"Esodo", il libro del servizio e della democrazia
di Jean-Louis Ska (Avvenire, 15.04.2021).
Dalla servitù al servizio: è così che Georges Auzou intitolava il suo breve commento al libro dell’Esodo, pubblicato in francese nel 1961 con le edizioni Orante. Ë difficile trovare un titolo più adatto a questo libro fondamentale per la fede d’Israele e per quella dei cristiani, il secondo libro del Pentateuco dopo quello della Genesi. In effetti, questo titolo ha l’enorme vantaggio di descrivere il passaggio da una situazione dolorosa, ossia dalla schiavitù, a una situazione più soddisfacente, cioè al servizio. In secondo luogo, questo titolo gioca sulla stessa radice linguistica, poiché «servitù» e «servizio» sono due parole correlate, due modi cli «servire».
Ora, anche il libro dell’Esodo gioca su tutte le sfumature di uno stesso verbo, il verbo «servire». Che in ebraico può significare «essere schiavi», «essere al servizio di», «lavorare» e finalmente «rendere un culto». Anche il sostantivo «servizio» possiede tutte queste sfumature: «servitù», «schiavitù», «servizio», «lavoro», «fatica», «culto»`e «liturgia».
Infine, il titolo scelto da Georges Auzou fissa in due parole l’essenziale di quello che avviene nel libro dell’Esodo: nel deserto, il popolo di Israele passa dalla servitù in Egitto al servizio del suo Dio, il Signore. Occorre notare che Israele non passa solo dalla servitù alla libertà, ma anche che questa libertà si traduce immediatamente in un «servizio», che gli dona il suo senso e il suo scopo. La libertà di Israele è una libertà «per». Uno dei messaggi del libro è inoltre quello che Israele sarà libero solo se è fedele a quel Dio che gli ha donato la sua libertä [...]
Il libro dell’Esodo è quindi un libro fondatore. Infatti, il popolo di Israele vi trova gli elementi essenziali della sua identità e della sua esistenza, l’equivalente di un territorio e di una monarchia o di un potere organizzatore. Il suo Dio sarà certamente il suo solo e vero sovrano, il solo degno di esserlo. Israele ne farà l’esperienza, talora anche a sue spese. La presenza di questo Signore si manifesta in realtà concrete: la Legge dï Mosè e il santuario. La Legge di Mosè definisce le vere frontiere del popolo, quelle del suo comportamento, poiché determina subito chi può far parte o deve essere escluso dal popolo di Dio. Come dice molto bene il poeta tedesco di origine ebraica Heinrich Heine, la Legge (in ebraico: la Torah) è per Israele una «patria portatile». Il santuario e le istituzioni del culto sono presenti per ricordare a Israele chi è il suo unico e vero sovrano, il solo che merita di essere onorato, perché Israele deve a lui la propria esistenza di popolo libero. Esodo, legge, alleanza e culto risalgono tutti a un personaggio, Mosè, unico mediatore tra Dio e il popolo. È a lui che il popolo d’Israele fa risalire tutte le istituzioni che considera indispensabili per la propria identità e sopravvivenza [..] Tutto ciò dovrebbe convincerci dell’attualità di questo libro che stabilisce un legame indissolubile tra l’esperienza di Dio e quella della libertà.
San Paolo lo ribadirà: ‹Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1).
Il libro dell’Esodo stabilisce un legame indissolubile anche tra l’esperienza della libertà e le esigenze del diritto. Quando Israele esce dall’Egitto, non sostituisce la tirannia del faraone con un’altra e ancora meno conl’anarchia. Israele si libera dalla tirannia imboccando la via del diritto e della Legge, che, stando al racconto dell’Esodo, è il vero mezzo per preservare e promuovere la libertà.
Citiamo nuovamente san Paolo «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13).
Dio libera il suo popolo per il servizio, un servizio libero e generoso, un servizio vicendevole che significa anche la costruzione di una società giusta ed equa, fondata sul rispetto del diritto. Anche le nostre democrazie attuali, talora senza saperlo, hanno ereditato questa esperienza. Come, infatti, fa notare il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677), Mosè non prende il posto del faraone, ma lo sostituisce con la Legge, «come in una democrazia».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SOVRANITÀ E OBBEDIENZA. "DICO": DI CHI, DI QUALE LEGGE - A CHI, A QUALE LEGGE OBBEDIRE?!! ... Al Faraone e alla sua legge o a Mosè e alla Legge che egli stesso segue?! Abramo, chi ascoltò: Baal, il dio dei sacrifici e della morte, o Amore, il dio dei viventi?! Un’analisi di Giovanni Filoramo
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" (2007) *
Beatrice, Lucia, Maria: il senso materno di Dio
Sono una triade che conduce a Dio e che Lo avvicina anche a noi lettori, facendoci notare l’aspetto più familiare, e in un certo senso materno, del Divino
di Bianca Garavelli (Avvenire, venerdì 26 marzo 2021)
Le tre donne che mandano Virgilio in missione, per così dire, rappresentano un filo verticale che dal Cielo arriva alla Terra, e sono perciò la parte più spirituale delle presenze femminili della Commedia. Maria ne è il culmine, perché è a lei che san Bernardo invita Dante a rivolgere lo sguardo, come all’essere creato che più somiglia a Dio, nel canto XXXII del Paradiso, poco prima della famosa preghiera. Perciò è una triade che conduce a Dio e che Lo avvicina anche a noi lettori, facendoci notare l’aspetto più familiare, e in un certo senso materno, del Divino.
C’è un’altra triade femminile che segue invece un percorso in apparenza orizzontale, perché procede attraverso le tre cantiche: un trio femminile più rasente alla Terra, ma che a sua volta illumina un percorso di salvezza, da un’angolazione del tutto umana e anche in gran parte autobiografica.
È il terzetto che inizia con Francesca da Rimini nel V canto dell’Inferno, prosegue con Pia da Siena in modo perfettamente simmetrico, nel V del Purgatorio e culmina nel canto III del Paradiso, con Piccarda Donati. Solo due fra le tre donne raggiungono la salvezza, nessuna di loro è un esempio perfetto di virtù, tuttavia sono tre personaggi perfetti per far vivere il grande messaggio di amore del poeta, che abbracci l’umanità intera.
Se la staffetta fra Maria, Lucia e Beatrice diventa nel poema la cordata verso la salvezza per Dante, Francesca, Pia e Piccarda si fanno ambasciatrici per tutti i lettori dei modi per arrivare all’eterna felicità del Paradiso. Il loro è un messaggio di pace, è l’esortazione suadente a superare i conflitti politici, di cui tutte e tre sono state vittime, attraverso l’esecrabile abitudine dei matrimoni politici, della necessità angosciosa a volte, altre volte avida, di ottenere alleanze, garantite da parentele forzate.
Francesca, che non ha fatto in tempo a pentirsi, è condannata per l’eternità; Pia da Siena, che forse è stata uccisa dal marito, a sua volta ha subito una morte violenta; Piccarda non ci dice, per delicata reticenza che l’autore trasferisce in lei, come è davvero morta. Ma anche per lei la causa indiretta è la politica, cioè la spietata prepotenza del fratello Corso, che la strappa al convento di clarisse in cui aveva scelto di vivere in armonia con la sua fede, costringendola a sposare un suo sodale.
Anche se non conosceva di persona tutte e tre, nella sua vita Dante aveva visto come la mancanza di scrupoli in politica potesse generare odio e violenza. Aveva personalmente combattuto in alcune battaglie delle guerre fra Guelfi e Ghibellini, tra cui Campaldino. E Pia ne è certamente una vittima, come testimonia la sua posizione nel canto, tragica conclusione, o tragico risultato, delle gravi tensioni fra i Guelfi, testimoniati da Iacopo del Cassero, e Ghibellini, rappresentati da Bonconte da Montefeltro. Tensioni che portarono allo scoppio delle ostilità fra Arezzo e la lega ghibellina e Firenze e la lega guelfa.
Con le tre donne Dante ci mostra il lato oscuro della storia del suo tempo, dominato dalla violenza maschile, e apre una finestra su un futuro possibile di pace. Le rende messaggere di tale pace, esempi di come il mancato rispetto dell’amore possa portare all’eterna rovina, come nel caso di Francesca, oppure a un infelice destino terreno, come nel caso di Pia e Piccarda. Anche loro perciò ci fanno puntare lo sguardo verso il Cielo, ma dall’angolazione della cronaca per Dante e della storia per noi, guidandoci nel centro della commedia umana. -Beatrice ne diventa la sintesi: in lei, perfetta messaggera di Dio, il poeta riconosce fin dall’infanzia lo stesso volto che più somiglia a Lui che rivedrà in Paradiso, la prima forma terrena dell’unico Amore, il primo volto umano dell’«amor che move il sole e l’altre stelle».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo.
Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
FLS
STORIA E FILOLOGIA. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO... *
Vita di Dante. Una biografia possibile contro il politicamente corretto
di Giorgio Inglese (MicroMega, 27 Marzo 2021)
Ho accolto con vivo compiacimento la proposta di far tradurre in cinese il mio libro “Vita di Dante. Una biografia possibile”, anche perché la traduzione è stata affidata a una studiosa esperta come la dottoressa Yuze
Questo settimo centenario della morte di Dante Alighieri è anche il primo centenario della traduzione cinese di alcuni canti dell’Inferno per opera di Qian Daosun, che aveva studiato italiano proprio all’Università di Roma. La millenaria cultura cinese non poteva restare indifferente alla straordinaria ricchezza fantastica e alla forza emotiva della Commedia: oggi sono disponibili varie traduzioni cinesi dell’intero poema e delle altre opere di Dante. Gli studi sulla biografia del Poeta (il lettore cinese ha già a disposizione fonti rilevantissime, come il Trattatello in lode di Dante di Giovanni Boccaccio e la Vita di Dante dell’umanista Leonardo Bruni), sulla società e la cultura del suo tempo concorrono alla comprensione storica dei suoi testi.
Quando leggiamo, ad esempio, il quinto canto dell’Inferno siamo toccati dalla espressione, così viva e penetrante, della passione d’amore. Ma non dobbiamo ignorare un dato essenziale di storia della cultura. A partire dalle grandi corti feudali francesi e provenzali, dagli inizi del secolo XII si diffonde in mezza Europa, attraverso la poesia, un’idea dell’eros come altissima affermazione di personalità, per gli uomini come per le donne.
Questa idea apre una lacerante contraddizione nella coscienza morale di estrazione cristiana. Una figura come quella di Francesca, colta dal Poeta nella sua caratteristica passionale e tuttavia condannata a una eterna punizione, rappresenta al vivo tale contraddizione. Siffatta “crisi” del giudizio morale si è tradotta, in Dante, in una più raffinata capacità di ricognizione psicologica della dimensione erotica, del tormentoso e irrealizzabile desiderio di fusione fra gli amanti, che ha trovato espressione nel dolente e vano connubio fra le ombre di Francesca e Paolo.
E che diremo di Ulisse? Ci emozioniamo dinanzi al “piccolo” equipaggio di uomini vecchi e affaticati, che pure si lancia nell’estrema avventura, per contemplare stelle mai viste risplendenti su un oceano senza fine, su un emisfero disabitato.
Ma anche dietro questa figura si riconosce un evento capitale di storia del pensiero: la riscoperta, verso la fine del sec. XII, della filosofia di Aristotele, un potentissimo sistema concettuale che obbligò i teologi cristiani a un drammatico confronto e a un arduo tentativo di conciliazione. Alcuni pensatori, come Sigieri di Brabante (pure collocato da Dante fra i beati cultori della Sapienza), si spinsero fino all’enunciazione di certe “verità di ragione” non integrabili alla “verità di fede”.
Il naufragio dell’Ulisse dantesco è simbolo dei limiti imposti alla ragione umana quando non sia assistita dalla fede, ma è anche la rappresentazione di una realtà più profonda, e positiva. Il cristiano Dante non poteva non identificare la perfezione del sapere con la beatitudine oltremondana, ma la sua sensibilità e la sua fantasia realistica gli permisero di cogliere e rappresentare, nella sconfitta di Ulisse, quel desiderio di conoscenza che nell’uomo è sempre vivo e vitale proprio perché non giunge mai a una “perfezione” che coinciderebbe con l’immobilità e la morte.
Contro ogni superficiale rilevazione di un eventuale “rispecchiamento” della realtà sociale, Marx invita a studiare le creazioni dell’arte e della letteratura «partendo dalle contraddizioni della vita materiale, dal conflitto in atto tra le forze sociali di produzione e i rapporti di produzione» (Per la critica dell’economia politica. Introduzione, 1859). Come ogni “classico”, l’opera di Dante rappresenta le contraddizioni di una fase storica. Le prime energiche formazioni di economia mercantile in città come Firenze, appaiono al Poeta quali manifestazioni diaboliche. Allo stesso modo, il tramonto di un ordine politico aristocratico, che ha il suo vertice nell’Imperatore, gli si presenta - rovesciato - in termini apocalittici, come preparazione di un definitivo e risolutivo intervento della divina Provvidenza.
La rappresentazione ideologica della “fine di un mondo” come “fine del mondo” ha permesso a Dante di concepire la realtà nella forma di un giudizio universale, cioè di assumere come proprio oggetto tutte le passioni dell’uomo, tutta la sua storia e tutto il cosmo in cui abita. Su questa base, egli ha potuto esprimere una rappresentazione artistica che per ampiezza e ricchezza ha un paragone (nell’ambito della letteratura europea) solo nell’opera di Shakespeare: la cui fresca, libera e multiforme poesia sorge piuttosto (volendo inseguire il paragone) sulla rappresentazione ideologica della “nascita di un mondo” - l’Inghilterra mercantile - come nuova “nascita del mondo”.
L’assunto che ogni creazione dell’arte e della letteratura è radicalmente caratteristica di una cultura storicamente determinata va oggi ribadito di fronte alle suggestioni provenienti, in particolare, dalle università nord-americane. In quegli ambienti, lo studio dei classici è minacciato da una persecutoria polemica moralistica, condotta in nome della “correttezza politica”, descritta molto bene nel romanzo tragico-grottesco di Philip Roth, La macchia umana. Per proteggere, in particolare, Dante da tali aggressioni, alcuni critici statunitensi ritengono di renderlo più “digeribile” alienandolo dalla morale del suo tempo, e presentandolo come tollerante verso l’omosessualità, verso gli ebrei o verso l’Islam; come “femminista”, portatore di tesi “rivoluzionarie”, “scomode” e “anticonformiste”, ovviamente rimosse e normalizzate dal conformismo cattolico e dal secolare commento. L’operazione è artificiosa, priva di fondamento filologico, antiscientifica e comunque di corto respiro.
I classici non si “difendono” evocandone una pretestuosa attualità, ma riconoscendone l’autentica e preziosa universalità.
Scrive Marx: «Non è difficile intendere che l’arte e l’epos dei Greci sono legati a certe forme dell’evoluzione sociale. Il problema è che per noi essi continuano a suscitare un godimento estetico [...] Un uomo non può tornare fanciullo, perché altrimenti diviene puerile. Ma non gode forse dell’ingenuità del fanciullo, e non deve esso stesso a riprodurre a un più alto livello la verità del fanciullo? E il carattere proprio di questa verità naturale non rivive forse in ogni epoca nella natura del fanciullo? E perché mai la fanciullezza storica dell’umanità, nel suo sviluppo più bello, non dovrebbe esercitare un eterno fascino come fase che più non ritorna?» (Introduzione alla critica dell’economia politica, 1857).
Nella prospettiva del materialismo, non c’è universalità fuori della storia, e non c’è nulla nella storia umana che non sia “universale”, ossia disponibile all’interesse e alla partecipazione di ogni intelletto umano, in qualsiasi tempo e luogo. Se «l’uomo è soprattutto creazione storica» (A. Gramsci, Socialismo e cultura, 1916), la conoscenza della storia altro non è che un viaggio nella nostra memoria profonda, alla scoperta di “come siamo diventati quello che siamo”. Ma perché questo “viaggio” non si risolva in un sogno ingannevole è indispensabile che i monumenti e i documenti del passato siano riconosciuti, per quanto è possibile, nella loro «verità effettuale»: ed è questo il compito della filologia.
Giorgio Inglese è ordinario di Letteratura italiana all’Università di Roma La Sapienza. E’ specialista di letteratura italiana medievale e moderna, e in particolare ha realizzato l’edizione del Principe di Machiavelli e ora, nel quadro della edizione nazionale, una nuova edizione della Commedia di Dante. Ha studiato con Alberto Asor Rosa e Gennaro Sasso e ha fatto parte dell’esperienza della rivista “Laboratorio Politico”. È stata appena pubblicato una sua raccolta di Studi danteschi per Carocci.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Giovedì la Lettera apostolica del Papa
Ravasi: «Dante, profeta di speranza»
Il cardinale illustra l’attualità anche religiosa dell’autore della Commedia. La Candor Lucis æternæ di Francesco, dedicata al Poeta, esce il 25 marzo, giorno di inizio del viaggio raccontato nel poema
di Gian Guido Vecchi *
«Dante è davvero un profeta di speranza, come lo considera Papa Francesco. Nel tempo della pandemia viviamo un periodo di dolore, paura, sconforto. Anche Dante ha vissuto un periodo così e ci ha mostrato come la grande poesia e la fede possano fiorire anche in un terreno devastato».
Il cardinale Gianfranco Ravasi sorride, «la Divina Commedia è un viaggio, un grande cammino che comincia il 25 marzo», e proprio giovedì sarà pubblicata la Lettera Apostolica Candor Lucis æternæ di Papa Francesco, dedicata a Dante Alighieri: il riferimento è al «candore de la etterna luce» che Dante, nel terzo trattato del Convivio, cita dal Libro della Sapienza.
Nella tradizione della Chiesa, il 25 marzo è il giorno dell’Annunciazione e anche della morte di Gesù, la data prossima all’equinozio di primavera che la dantistica indica (ma c’è chi opta per il Venerdì Santo del 1300, cioè l’8 aprile) come giorno d’inizio della Commedia. Il testo del Papa, come le iniziative programmate dal pontificio Consiglio della Cultura guidato dal cardinale Ravasi, mostra tutta l’attenzione della Santa Sede per Dante, nel settecentesimo anniversario di morte.
Eminenza, che cosa ci racconta, oggi, questo viaggio?
«Ciò che regge il cammino di Dante, il nostro cammino, è la speranza. Il viaggio comincia dall’Inferno, nel realismo del sottosuolo, nel fango della storia, la terra come «l’aiuola che ci fa tanto feroci» vista dall’alto del Paradiso, al canto XXII. Ma non è che finisca con il dolore irrimediabile di cerchi, gironi e bolge. Nel Purgatorio c’è la rappresentazione simbolica del passaggio dal peccato alla catarsi alla liberazione, dell’intreccio tra grazia divina e libertà umana. Ad esempio, quando nel canto terzo mette in scena la figura di Manfredi, che era stato trafitto da due colpi di spada...».
«...mentre che la speranza ha fior del verde».
«Proprio così. Manfredi, figlio illegittimo di Federico II, era stato scomunicato. E mentre sta morendo si rivolge a “quei che volontier perdona”, a Dio. Sono versi fondamentali: “Orribil furon li peccati miei;/ ma la bontà infinita ha sì gran braccia/ che prende ciò che si rivolge a lei”. Questa è la parabola del figliol prodigo: fino all’ultimo il Padre ti tende le “gran braccia”. Dante, oltre che poeta sommo, è un grande cristiano. Ed è di casa in Vaticano...».
In che senso?
«Nella Stanza della Segnatura, Raffaello lo rappresenta due volte. Nella cosiddetta Disputa del Santissimo Sacramento, sintesi della dottrina trinitaria, appare tra Agostino e Tommaso d’Aquino, come un teologo che annuncia la verità divina. La seconda immagine, col suo profilo segaligno, lo raffigura sul Parnaso come poeta, con Omero e Virgilio: la via pulchritudinis, la bellezza che parla anche a chi non crede. Interessante l’ interpretazione duplice: Dio gli ha dato il dono della poesia e lo ha incaricato di dire la verità. Il bello e il vero uniti».
Francesco è il terzo Papa a scrivere un testo ufficiale così importante su Dante.
«Sì, il primo fu Benedetto XV: nel 1921 compose un’enciclica, In Praeclara Summorum. Ma il Papa che in assoluto ha cantato più Dante è Paolo VI, che nel 1965 gli dedicò la Lettera Apostolica Altissimi cantus, un testo bellissimo. Da un lato scriveva “Dante è nostro”, non come trofeo ma per affermarne l’universalità e dire che vi si scoprono i tesori del pensiero e del sentimento cristiano. Dall’altra ammetteva: “Né rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti”».
In effetti nella «Commedia» abbondano i Papi all’inferno: nella terza bolgia dei simoniaci, ficcato a testa in giù in un pozzo occupato da svariati predecessori, Niccolò III si illude che Bonifacio VIII sia arrivato in anticipo e annuncia Clemente V...
«Sì, ci mette pure Papi ancora vivi! Del resto, negli anni del Concilio ero a Roma e ricordo che Paolo VI volle regalare a tutti i padri riuniti nelle Assise un’edizione della Divina Commedia...».
Sulla corruzione della Curia e della Chiesa è durissimo: «A la puttana e a la nova belva», scrive nel canto XXXII del Purgatorio. Forse non è un caso che i Papi ne abbiano scritto solo dopo la fine del potere temporale: imbarazzava la Chiesa?
«Probabilmente sì. Certo lo si celebrava: a chiamare Raffaello fu Giulio II, che magari Dante avrebbe messo, pure lui, all’inferno! Però lo si teneva un po’ a distanza. Era difficile elaborare la critica generale sulla corruzione della Chiesa: per questo fu molto significativo il dono di Paolo VI ai padri conciliari».
Dante è bellissimo da leggere, ma non facile...
«Michelangelo diceva di lui: “Simil uom né maggior non nacque mai”. Dispiega un’infinità di temi teologici, filosofici, astronomici, storici... Ci sarebbe un’infinità di cose da dire. Si pensi alla centralità delle figure femminili, Maria, Beatrice, Lucia...O alla visione della Trinità, al termine del Paradiso, che al centro “mi parve pinta de la nostra effige”: la nostra immagine, l’immagine del Cristo, il senso dell’essere nel volto umano...Chi non ha almeno una conoscenza essenziale della teologia non riesce a percorrere appieno questo viaggio. Inviterei la cultura contemporanea a non considerare la teologia come una cosa marginale, vecchia, decotta...».
Accade questo?
«Purtroppo sì. E invece qui vediamo la potenza di un pensiero che si fa poesia. In Dante si mostra quanto il pensiero cristiano sia importante nella cultura laica. Ed è drammatico il fatto che si tenda a insegnarlo in maniera superficiale, nelle scuole. Magari puoi scrivere note esplicative ma devi far capire la passione che animava Dante: un credente fervido e indefettibile. Non ti fa decollare dalla realtà: c’è l’inferno, tutti i vizi e le tragedie della storia le ha rappresentate. E poi c’è la forza della trasfigurazione, il “trasumanar” della redenzione cristiana. Lui è vissuto di quello».
Cosa dice Dante alla Chiesa, ancora oggi?
«L’autenticità del messaggio, senza compromessi mondani. E il coraggio della sincerità, anche nell’autocritica. -È la parresía che ci indica Francesco, segno di libertà interiore e di conversione».
Un poeta lo si celebra leggendolo. Che cosa direbbe per invitare a farlo?
«Le parole che confessava Jorge Luis Borges, grande poeta argentino che Francesco ha conosciuto, a proposito della Divina Commedia: “Nessuno ha il diritto di privarsi di questa felicità”».
LA “DIVINA COMMEDIA” E IL CUORE DEL “PADRE NOSTRO”, “L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE”...
PLAUDENDO ALL’ECCEZIONALE LAVORO DELLA REDAZIONE DELLA FONDAZIONE “TERRA D’OTRANTO”, ANCHE ALLA LUCE DI QUESTO ULTIMO CONTRIBUTO, CREDO CHE OGGI (19 MARZO 2021), ALL’INTERNO DI UN ORIZZONTE STORICO SEGNATO DA UNA PANDEMIA PLANETARIA, SIA OPPORTUNO RIFLETTERE SUL FATTO CHE QUESTO ANNO (2021) è l’anno dedicato all’Anniversario della morte (1321) di Dante Alighieri e che a Lui è stata dedicato come giorno di memoria il 25 marzo, giorno di memoria liturgica anche dell’Annunciazione (vale a dire del concepimento del Bambino).
Accogliendo la sollecitazione di questa importante connessione, forse, è meglio ripensare a “come nascono i bambini” (antropologicamente, filosoficamente e teologicamente), alla figura dell’uomo Gesù, all’”Ecce Homo”(«Ecco l’uomo», gr. «idou ho anthropos») di Ponzio Pilato, e, ancora, alla lezione di Dante.
A mio parere, la sua lezione non è solo “poetico-letteraria”, ma è anche teologica e politica: la sua “Monarchia” con l’indicazione relativa ai “due soli” ha, infatti, il suo fondamento teologico e antropologico nell’amore (charitas) del “Cantico dei cantici” (cioè, di Salomone - non di Costantino: rileggere il c. XIV del “Paradiso”) e pone le condizioni per rileggere l’intera figura di san Giuseppe! Egli non è affatto un falegname che prepara la croce per inchiodarci su il bambino che gli è stato affidato, ma lo sposo di Maria, discendente della casa di Davide (“de domo David”: -https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181) che, come Salomone, ha saputo decidere e portare in salvo la madre vera e il bambino vero! O no?!
STORIA, STORIOGRAFIA, E ANTROPOLOGIA: SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
Giuseppe, il santo dei mistici, e cosi vicino al «Geppetto» di Biffi
L’esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori ne rievoca alcuni aspetti: fondamentale la sua figura per capire la riforma del Carmelo
di Filippo Rizzi (Avvenire, venerdì 19 marzo 2021)
Patrono della Chiesa universale, padre putativo di Gesù, certo. Ma anche una figura chiave grazie al suo proverbiale silenzio e al fatto di «rimanere in secondo piano», defilato, per capire il linguaggio dei mistici e in particolare per comprendere il senso, quasi il dna più intimo degli Ordini contemplativi. San Giuseppe ha rappresentato, in un certo senso, quasi l’«emblema narrativo» del Carmelo riformato impresso da Teresa d’Avila (1515-1582). È la lettura che offre, nella sua riflessione, lo studioso ed esperto di letteratura religiosa Giacomo Jori per ripensare, in chiave attuale e per certi versi “controcorrente ”, la figura di san Giuseppe in questo Anno speciale dedicato a lui e nella solennità che si celebra oggi e rievoca, in tutti noi, la festa dei papà.
«Tra i dati più singolari c’è quello che rimane per tutta la vita un personaggio silente come ci testimoniano gli evangelisti Luca e Matteo - annota Jori, docente di letteratura italiana all’Università di Lugano -. Ma è un uomo che vive di sogni: tra questi quello premonitore della fuga in Egitto. Giuseppe è quasi in ombra, non parla nei Vangeli e non interloquisce con Gesù a differenza per esempio di uomini come Nicodemo e Pilato».
Non dimentica nel suo ragionamento lo studioso, allievo di Carlo Ossola e vicedirettore della Rivista di storia e letteratura religiosa («Uno dei prossimi numeri del nostro periodico in via di pubblicazione sarà proprio dedicato san Giuseppe») di fare emergere anche altri aspetti singolari a cui viene spesso accostata questa figura paterna, in molti quadri, nel solco del Concilio di Trento. «È stato un falegname rappresentato spesso con i ferri del mestiere o con quasi sempre in braccio Gesù bambino. Inoltre è stato raffigurato come marito ideale di Maria e padre vicario del Figlio di Dio».
Ma dietro al Giuseppe “quasi” assente dalle scene evangeliche si annida, per certi versi, molto di più. «Se si riprendono in mano le Avventure di Telemaco di Fénelon e la declinazione successiva che ne darà Collodi con il personaggio di Pinocchio - è il ragionamento - è facile avvicinare lo sposo di Maria alla figura di Geppetto, anche lui “padre putativo”, che guarda caso fa di mestiere il falegname. Anche Geppetto come Giuseppe non solo si sente il “padre” di quella creatura ma si avverte come il custode privilegiato della crescita di un bambino destinato a diventare grande (non più una marionetta) e a scegliere la libertà.
In questa prospettiva può essere ancora utile leggere l’interpretazione teologica che offre su questo tema il cardinale Giacomo Biffi nel suo famoso saggio degli anni Settanta «Contro Maestro Ciliegia. Commento teologico alle avventure di Pinocchio».
Una figura dunque «poco citata nei testi della Rivelazione» che affiora seppur sottotraccia nella stessa Divina Commedia. «Se rileggiamo oggi a 700 anni dalla morte di Dante - è l’osservazione - il canto XXXIII del Paradiso proprio dove si snoda l’inno alla Vergine di san Bernardo. Nei versi iniziali delle terzine dal 19 al 39 nascondono un acrostico: in esso sono racchiuse la parole “Joseph Av” cioè Ave Joseph (“Ave Giuseppe”). È suggestivo pensare che il Divin Poeta attraverso quest’acrostico renda omaggio al falegname di Nazareth, senza nominarlo esplicitamente ma tenendolo in silenzio».
Un santo che diventa uno dei pilastri «quasi interiori» su cui poggia la riforma spirituale dei carmelitani scalzi impressa da santa Teresa d’Avila. «Non è un caso che Teresa nei suoi Diari lo scelga come suo protettore - è l’argomentazione -. E studiando il carteggio inedito della carmelitana torinese la beata Maria degli Angeli, al secolo Marianna Fontanella vissuta tra il 1661 al 1717, ho scoperto di quanto la figura di Giuseppe fosse centrale, quasi “strategica”, nella vita di un Carmelo di fine Seicento. Se oggi san Giuseppe è il co-patrono di Torino lo dobbiamo proprio all’azione apostolica e “mediatrice” di questa religiosa. Fu lei a convincere i Savoia, a chiedere alla Sede Apostolica di accostare al patrono della città, san Giovanni Battista, il padre putativo di Gesù».
Un personaggio dunque che parla all’uomo di oggi. «Penso di sì perché si tratta di un uomo umile che si fa custode dell’infanzia di Gesù. Riguardando certe istantanee del film Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini ciò che più colpisce di Giuseppe è che parla più con gli sguardi che con le parole. Il segreto della sua grandezza e del suo carisma risiede credo proprio in questo».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PINOCCHIO E NOI, ITALIANI ED ITALIANE: IL CROCIFISSO E UN PEZZO DI LEGNO. INDIETRO NON SI TORNA. Una nota su una discussione già fatta (2003)
DON MARIANO ARCIERO, ILDEGARDA DI BINGEN, E UNA "CAPPELLA SISTINA" IN ROVINA. Al cardinale Angelo Amato, all’arcivescovo di Salerno Luigi Moretti, l’invito a un sollecito interessamento.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
Federico La Sala
Ricordiamo i nostri #Padri e le nostre #Madri #Costituenti:
"Una vera #paritàdigenere non significa un farisaico rispetto di #quoterosa richieste dalla #legge"
(#MarioDraghi).
e
dall’#immaginario
di una zoppa e cieca #antropologia.
A #ContursiTerme (#Salerno), almeno del 1989 è ripreso
il dibattito sulla #paritadigenere
grazie alla #memoria
di #Michelangelo e di #TeresadAvila
COME NASCONO I BAMBINI? LA “RISPOSTA” DELLA TRADIZIONE CATTOLICA NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA...
SOLLECITANDO CON QUESTA “RIPRESA” UNA LODEVOLE E RINNOVATA ATTENZIONE AL TEMA DELLA “ANNUNCIAZIONE” NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA E RICORDANDO CHE L’EVENTO “rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione [...] il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo”, e, che “Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante”, FORSE, è UTILE riconsiderare come nel “corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema” E ANCORA, se si vuole, cominciare a riesaminare con attenzione proprio il “mosaico dell’Annunciazione” di Pietro Cavallini (del 1291 - vedi, sopra: la seconda figura dell’articolo) e, poi, proseguire con le opere specifiche degli artisti “fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele” - e osservare con attenzione, IN PARTICOLARE, l’immagine del pannello centrale della “ANNUNCIAZIONE” (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin#/media/File:Robert_Campin_011.jpg) del “Trittico di Mérode” (1427) di Robert Campin (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin).
Proseguendo e, non dimenticando di riflettere anche sulla rilevanza per gli artisti del lavoro del cardinale Gabriele Paleotti sulle immagini sacre (“Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, del 1582), è opportuno arrivare all’attuale presente storico (il prossimo 25 marzo è anche il giorno della prima Giornata dedicata all’opera e alla memoria di Dante - il “Dantedì”) e ricordare quanto “poco fa”, proprio all’inizio del Terzo Millennio dopo Cristo, il CARDINALE CASTRILLON HOYOS (proprio come un artista del 1200 o del 1400) dichiarò alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” ("la Repubblica" del 17 novembre 2000, p. 35).
Forse, in questo “Anno speciale di San Giuseppe” indetto da papa Francesco (cfr. “DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” .. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-262319), sarà possibile sapere come nascono i bambini e le bambine e sarà possibile avere un’altra rappresentazione artistica della nostra stessa nascita?! Con Dante, non c’è affatto da dubitare: “L’amore muove il sole e le altre stelle” - e anche la Terra!
Buon lavoro...
STORIA DELL’ARTE E TEOLOGIA: LA PRIMA "CENA" DI "CAINO" (DOPO AVER UCCISO IL PASTORE "ABELE") E L’INIZIO DELLA "BUONA-CARESTIA"("EU-CARESTIA")! *
NELL’OSSERVARE "L’Ultima Cena raffigurata sulla parete di fondo del refettorio dell’ex convento dei francescani di Veglie" (sec. XVI/XVII ca.) E NEL RIFLETTERE SUL FATTO CHE "è tra le più canoniche rappresentazioni del momento in cui Cristo istituì la santissima Eucarestia" (Riccardo Viganò, L’Ultima Cena nel refettorio della Madonna della Favana di Veglie, Fondazione Terra d’Otranto, 07.06,2020), c’è da interrogarsi bene e a fondo su chi (teologi ed artisti) abbia potuto concepire e dare forma con straodinaria chiarezza e potenza a questa "cena"(vedere la figura: "Portata centrale, saliere e frutti", cit.) e, insieme, riflettere ancora e meglio sui tempi lunghi e sui tempi brevi della storia di questa interpretazione tragica del messaggio evangelico - a tutti i livelli, dal punto di vista filosofico, teologico, filologico, artistico, sociologico. O no?
NOTARE BENE E RICORDARE. Siamo a 700 anni dalla morte dell’autore della "COMMEDIA", della "DIVINA COMMEDIA", e della sua "MONARCHIA"!
SAPERE AUDE! (I. KANT). Sul tema, per svegliarsi dal famoso "sonno dogmatico", mi sia lecito, si cfr. l’intervento di Armando Polito, "Ubi maior minor cessat"(Fondazione Terra d’Otranto, 24.02.2021) e, ancora, una mia ipotesi di ri-lettura della vita e dell’opera di Dante Alighieri.
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#DANTE2021 A 700 anni dalla #morte di #Dante, ancora non compresi i #due significati (i #duesoli) del "vicisti, #Galilaee". PER #Keplero, come per #Kant, la vittoria di #GalileoGalilei è filosofico-scientifica!
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5061
#Mathematics #anthropology #Theology #philosophy In #memoria di #GalileoGalilei (nato il #15febbraio 1564), ricordare i #duesoli (#Dante2021) e i #duelibri di #Galilei e che il #logos non è un #logo
http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1205
FLS
Per Dante non ci fu solo Beatrice. Tana, Gemma e le altre donne
di PAOLO DI STEFANO (Corriere della Sera, 31 gennaio 2021)
È vero che quando pensiamo alle donne di Dante, il primo nome che viene in mente è quello di Beatrice, ovvero Bice Portinari. Ma si rimane un po’ frastornati leggendo, nell’ultimo libro di Marco Santagata, che le figure femminili che hanno contato di più nella vita travagliata di Dante, non del poeta ma dell’uomo Dante, sono state Tana e Gemma. Perché sono state loro, la sorella maggiore e la moglie, con le rispettive famiglie, a soccorrerlo nei momenti più difficili. Non è questa la sola considerazione che sorprende avvicinandosi a Le donne di Dante (il Mulino), il saggio che ha occupato gli ultimi mesi dello studioso, filologo, critico e scrittore, scomparso nello scorso novembre dopo aver dedicato lunghi anni a Petrarca, Leopardi, Boiardo, Boccaccio e ovviamente a Dante.
Il suo contributo dantesco è stato su tre piani: in primo luogo quello dello storico ed esegeta (con la direzione delle opere nei Meridiani), poi quello del notevole divulgatore (per esempio con una guida del poema e con una vita di Dante), infine quello del narratore che ha aggiunto agli elementi documentari una dimensione di ipotesi e immaginazione. Ne venne fuori, nel 2015, Come donna innamorata (Guanda), un romanzo sui tormenti d’amore per Bice, che morirà venticinquenne nel 1290, segnando il destino del poeta (e della nostra letteratura).
Il libro di Santagata (magnificamente illustrato con immagini che vanno dalle miniature trecentesche fino alle opere novecentesche di Dalì e oltre) si dispone cronologicamente in tre macronuclei tematici: una prima parte sulle donne di famiglia (famiglia d’origine e famiglia acquisita con il matrimonio, ovvero quella dei Donati); una seconda sulle donne amate (Bice su tutte, ma anche le donne schermo, la Pietosa, Pietra e la Donna Gentile); una terza parte dove campeggiano le figure-personaggi della Commedia, a cominciare da Francesca e da Pia.
Dunque, una vita di Dante alla luce delle donne. Considerando che di quasi tutte si sa ben poco, ma questa è l’ombra che oscura l’intera biografia dantesca, così piena di zone misteriose. A partire dalla madre Bella, forse discendente della famiglia ghibellina degli Abati e forse figlia del giudice Durante, per finire con la figlia Antonia, divenuta suor Beatrice (in omaggio al padre), monaca a Ravenna. Di «forse» è tempestata l’infanzia del poeta, ma si sa almeno che con la morte precoce di Bella il padre si sposa con Lapa, da cui avrà Francesco, unico fratellastro che si aggiunge a Tana, al terzogenito Dante e a una secondogenita di cui non si sa nulla, se non che ebbe un figlio, Andrea, molto somigliante allo zio sin dalla postura ingobbita.
Si diceva di Tana (Gaetana), il cui matrimonio con Lapo Riccomanni, ricco mercante e ottimo partito, gioverà a Dante, prima e dopo l’esilio, quale rete protettiva, esattamente come la famiglia Donati di Gemma: il cui contributo sarà finanziario (allo scopo di assecondare la sua malcelata ambizione di vivere di rendita), ma anche morale per la gestione dei beni e la custodia delle carte in assenza forzata del detentore (tra l’altro la conservazione dei canti della Commedia avviati a Firenze prima dell’esilio). Il racconto di Santagata è quello che abbiamo sempre ammirato: una narrazione pacata e forte, capace di selezionare e di gerarchizzare i dati valorizzando i dettagli che contano anche a vantaggio della curiosità del lettore. Per esempio, laddove si spiegano, con lieve ironia, le dinamiche amorose e familiari duecentesche, comprese le questioni di interesse politico-patrimoniale che prevalgono nettamente sulle esigenze affettive. Oppure nel confronto tra la Firenze del trisavolo Cacciaguida e quella di Dante, la cui serenità sociale e il cui equilibrio familiare, secondo il poeta, erano stati irrimediabilmente sconvolti dal commercio e dalla finanza crescente.
Insomma, si imparano un sacco di cose. Un altro esempio è la malattia. Quella di Dante è la «dolorosa infermitade» di cui parla nella Vita nova e che lo porta allo smarrimento e alla farneticazione, come gli accadde il giorno della nascita di Beatrice e il giorno della morte della stessa, e come accadrà più volte al pellegrino nell’aldilà («e caddi come corpo morto cade»). La malattia ci riconduce ancora una volta al ruolo centrale di Tana, la sorella maggiore, che sarebbe la «donna pietosa e di novella etate» della famosa canzone, il cui pianto (e spavento) richiama un nugolo di donne al capezzale del bambino in delirio. Santagata fa notare come la presenza di un familiare in poesia, tanto più in posizione iniziale, rappresenti una novità assoluta che risponde a diverse strategie. Se più che lecito vedere in quelle crisi manifestazioni epilettiche, lo studioso tiene a precisare che gli episodi psicosomatici, vieppiù legati all’apparizione dell’amata, sono tutt’altra cosa rispetto alla convinzione scientifica, diffusa allora, dell’amore come patologia, e sono altresì estranei alla tradizionale dinamica passione-malattia presente nella poesia. Questa «oppilazione» veniva considerata nel Medioevo una forma di possessione demoniaca: si trattava di un eccesso di umori capace di provocare l’ostruzione dei ventricoli del cervello (di fronte alla donna amata Dante si sente come un condannato davanti al patibolo). Come tale era sì il marchio di una condanna, ma d’altra parte il male si presenta a Dante (e Dante lo presenta) soprattutto come il segno capovolto di una predestinazione: quasi un dono dall’alto. In coincidenza con le figure femminili, si rivelano alcuni punti sensibili e innovativi (quando non eterodossi e scandalosi) della poetica dantesca e di una visione ad ampio raggio tutt’altro che limitata all’area amorosa. Il più vistoso e ricorrente è il colore politico di cui spesso Dante riveste le «sue» donne più o meno esplicitamente. Il caso estremo è Cunizza da Romano - la sorella di Ezzelino signore di Treviso ed esponente della più famosa famiglia ghibellina veneta - scelta strumentalmente per farne una paladina di Cangrande, «astro nascente» del ghibellinismo: collocata nel cielo di Venere, con il discorrere politico di Cunizza diventa per il poeta un’autodichiarazione di fede partitica. Vengono anche ricordate le motivazioni ideologiche che sottostanno ad altre figure di donne: Piccarda Donati, la Pia e la stessa Francesca da Rimini, il cui racconto cela tra le righe chiare componenti anti-malatestiane. E se il limite di Cunizza-personaggio, come ammette Santagata, è di essere eletta dal poeta a sua portavoce, le altre donne, pur con le loro coloriture ideologiche, mantengono ugualmente un notevole spessore evocativo. Le pagine dedicate a Francesca da Rimini sono una finissima interpretazione dei valori cortesi, degli intrecci ambivalenti tra amore e lussuria, tra buona fede e malizia (per esempio nella lettura del famoso libro «galeotto»), della confusione tra nobiltà d’animo e ambizione di status sociale, tra corteggiamento e seduzione, con l’irradiazione della micidiale triade adulterio-omicidio-incesto.
Altre donne amplificano la loro qualità poetica nella sottrazione o evanescenza misteriosa se non indecifrabile (sono i casi di Matelda e di Gentucca). A ben guardare, la stessa Beatrice che compare in quell’autobiografia poetica e sentimentale che è la Vita nova (autobiografia fittizia, una sorta di autofiction) è preliminarmente più assenza che autentica presenza, se è vero che i componimenti scritti per lei prima della morte sono non più di quattro o cinque, pari per numero a quelli dedicati alla rivale, la cosiddetta Donna Pietosa.
Destinata a diventare la Gentile (filosofia) del Convivio, la Donna Pietosa si configura, dopo la morte di Beatrice, come l’oggetto di una doppia verità. L’innamoramento si compie tramite l’inconsueto gioco di sguardi compassionevoli che la donna lancia da una finestra al poeta in preda al lutto: e verrà reso pubblico in città grazie alla circolazione delle poesie che lo celebreranno. Durerà finché Beatrice fanciulla appare in visione a Dante inducendolo al pentimento per averla tradita. Restano labili tracce, comunque, le tracce poetiche di Beatrice in vita, che non le assegnano una netta preminenza neanche rispetto a semplici dedicatarie come Fioretta, Lisetta, Violetta. Il riscatto non tarderà e Beatrice diventerà mito con la glorificazione gratuita post mortem, sconvolgente novità tutta dantesca.
Il petrarchista Santagata non manca di tracciare un conturbante parallelo tra il «manichino senza corpo» che è Beatrice (della quale si descrivono solo i vestiti) e Laura, «personaggio pieno, sfaccettato»: dotato com’è di capelli, trecce, occhi belli, bel fianco, mani belle, denti avorio, angelico seno, persino bel piede. Fisicità parcellizzata, ma fisicità a tutti gli effetti. C’è anche Laura nel corredo iconografico del libro. Ma le immagini permettono al lettore di intraprendere il proprio personale viaggio visivo nel paesaggio umano (reale e fantastico) dantesco, scegliendo i propri incontri con le figure che l’hanno più affascinato nel racconto di Santagata, lasciandosi sorprendere dai volti, dalle espressioni, dai gesti e dalle fisionomie. Ed è un gran bel viaggiare.
MARCO SANTAGATA
Dante in love: «Beatrice fu il vero amore, sesso solo con Gemma» *
di Redazione*
È un Dante intimo quello che esce da Come donna innamorata (Guanda, 175 pagine, 16,50 euro), romanzo di Marco Santagata in gara al Premio Strega, su presentazione di Umberto Eco e Angelo Guglielmi. Romanzo, ma ben documentato: l’autore, nato a Zocca (Modena) nel 1947, è uno studioso del sommo poeta. Ha curato il Meridiano Mondadori sulle opere dell’Alighieri e ha già esordito nel racconto divulgativo con Dante. Il romanzo della sua vita, premio Comisso 2013.
Perché, dopo tanto studio, un’opera di fantasia dedicata a Dante?
Credo di essermi tanto affezionato a Dante al punto di volermi immedesimare in lui. Gli studi di critico e di storico portano in direzione della biografia. Ma ho voluto compiere un ulteriore salto: la ricostruzione fantastica, basata ovviamente sui relativamente pochi dati storici di cui disponiamo. Ho la presunzione che tutto ciò possa illuminarne di luce nuova l’opera.
Si sa poco sul sommo poeta, ma per Beatrice ci troviamo davanti a veri e propri vuoti: come li ha riempiti?
La mia Bice Portinari è una giovane donna non bellissima, dagli affascinanti occhi verdi. Ho dovuto immaginare molto perché Dante non ne fa mai nei suoi scritti un ritratto a tutto tondo. Si sa che fu data in sposa a un membro di una facoltosa famiglia, Simone dei Bardi, che il matrimonio non fu fecondo e che lei morì precocemente. Io le ho immaginato una vita non felice, di sposa ignorata dal marito appunto perché sterile, ma capace di dispensare a tutti il suo sorriso. Un personaggio quasi francescano. Forse quello di Dante per lei era un amore letterario. Più che la donna, Dante amava se stesso e la sua poesia. I poeti medioevali non potevano cantare lo splendore di un’innamorata defunta. Per cui quando l’amata muore Dante, profondamente turbato, si domanda se potrà continuare con quella poesia, che l’ha elevato anche socialmente. È allora che avviene nella sua mente, più che nel suo cuore, uno scatto: Beatrice è un dono di Dio, qualcosa di immensamente grande, che ha predestinato la sua vita. Ancora incerto di sè, colui che diventerà un gigante si convince di avere il ruolo di profeta. Ma è questa ambivalenza tra amore e non amore, sentimento metafisico o egoistico e interessato, che mi ha coinvolto profondamente. Perché mi ha portato a intuire quel momento estatico in cui si generano le idee, l’ispirazione, se vogliamo, e con essa la felicità.
Quando Dante incontrò Beatrice?
La vide per la prima volta bambino mentre giocava con Manetto, il primogenito di Folco Portinari. La liquidò subito come una mocciosa. Ma l’incontro che lasciò il segno fu nel Calendimaggio del 1274 quando la rivide fanciulla, già promessa, vestita di rosso con una cintura d’oro. Il suo occhio di poeta rifulse di quei bagliori.
Nel suo romanzo lei allude alla malattia di Dante: aveva l’epilessia?
Non è una mia invenzione: è un’ipotesi suffragata da molte ipotesi, anche dagli scritti del poeta. Le crisi paiono scatenarsi - e in effetti l’emotività sembra avere un ruolo nel provocare le crisi epilettiche - quando vede la donna amata. Fa quasi tenerezza il modo in cui lui cercava di combatterle. Dai suoi scritti, però, si sa che non la riteneva una possessione del demonio, secondo l’idea peregrina del suo tempo. Piuttosto, come già gli antichi, vedeva nell’epilessia quasi un segno del suo essere speciale, un marchio della predestinazione divina.
Lei racconta il saluto tra Dante e Beatrice, da cui l’innamoramento. Capitò proprio così?
Sì, uno scambio augurale ci fu, Dante lo canta ne La vita nova. Un fatto importante, perché a quell’epoca le donne, sposate e no, non rispondevano a un saluto così facilmente. Io ci aggiungo di mio che Beatrice pronunci timidamente il nome di lui: «Buongiorno, Dante». Un’ulteriore segno di stima e confidenza. Lo scambio di saluti avviene nove anni dopo l’incontro del Calendimaggio. È da allora che Dante comincia a meditare sul numero nove e sul suo significato?
L’importanza del numero nove non me la sono proprio inventata io: Dante vi insiste ne La vita nova, arrivando a spiegare che il nove è Beatrice stessa. Tre per tre, tre volte la trinità. Comprende allora che, dato il loro legame costellato di segni, Beatrice gli è predestinata e comincia a pensare e costruire il suo futuro.
C’è un’altra donna cui lei rende omaggio, la moglie di Dante, Gemma Donati, di solito trascurata. Com’era?
Sembra la moglie silenziosa, analfabeta, che nella prima parte del romanzo viene effettivamente messa in ombra dalle opere gloriose dedicate a Beatrice. Appare gelosa mentre intima a Dante, che scrive sul tavolo della cucina, di sgombrare con le sue carte. Nella seconda parte del libro Gemma prende in mano, invece, le redini del destino del marito. Io ho voluto dotare il sommo poeta di una famiglia. Non è un’invenzione: ce l’aveva! Un rapporto affettivo non trascurabile, se due dei quattro figli diventano studiosi del padre. La femmina, Antonia, si monaca con il nome di suor Beatrice. E l’unico rapporto sessuale del romanzo l’ho voluto con Gemma: un atto d’amore coniugale, prima che il marito parta per l’esilio.
Come troviamo Dante alla fine del suo romanzo?
Qui sì che è un uomo solo! Tutti i suoi ideali politici sono falliti con l’imperatore Enrico VII e lui non può che aggrapparsi alla Commedia nella fredda Lunigiana dove attende, ma chissà se verrà, la famiglia. Sta scrivendo del Paradiso terrestre di Beatrice e torna con la poesia agli anni felici della giovinezza.
* Fonte: L’Arena, 27 aprile 2015
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E MEMORIA ANTROPOLOGICA.
USCIRE DALL’ORIZZZONTE DELLA BIBLICA "CADUTA" ...
DANTE - 2021 E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI": RISALIRE LA CORRENTE E RITROVARE I PROPRI "GENITORI". Al di là di Caino, la nuova Eva - Maria e Giuseppe, il nuovo Adamo , e Gesù è figlio dell’ amore [charitas] che move il Sole e le altre stelle (Pd. XXXIII, v. 145).
Federico La Sala
Dante e la sua Commedia: il Veltro, svelato l’arcano?
di Giovanni Delfino ed Emilio Bozzano *
Nell’anno 2021 in cui si commemorerà il settimo centenario della morte del più grande genio letterario italico ed universale, potrebbe essere un omaggio doveroso ed a lui gradito far luce sull’enigma dantesco che più ha affascinato e fatto discutere i dotti commentatori del suo poema.
Quest’enigma ci interroga e ci appassiona da subito sin dal primo canto del poema.
A chi allude Dante, con la famosa profezia del “Veltro” che finalmente caccerà la “lupa” che ha impedito al poeta di ascendere al colle della rettitudine ”il dilettoso monte” illuminato dal sole, allegoria della “grazia divina”, che guida ed indirizza all’umana virtù. ?
L’Ipotesi che io ritengo più verisimile è che Dante proponga proprio la sua “Comedia“ come il “Veltro” salvifico, in grado di cacciare dal mondo la lupa.
Che Dante avesse alta coscienza di sé e della sua missione educativa e redentrice risulta in tutto il poema: da quando si schermisce dall’affrontare il viaggio agli inferi “io non Enea, io non Paullo sono” a quando gli viene profetato da Brunetto Latini, un futuro di gloria “non puoi fallire a glorioso porto” o dal suo avo Cacciaguida una missione divina “sicut tibi cui bis unquam coeli ianua reclusa“. Allora vediamo di capire perché secondo questa ipotesi interpretativa il Veltro è la stessa Comedia del divino poeta.
Il paragone con il viaggio di Enea agli Inferi e l’elevazione di Paolo al Paradiso è molto eloquente; Enea fu scelto “nell’empireo ciel”.........”per padre dell’alma Roma“........e di “suo impero e del papale ammanto”; Paolo “lo vas dell’elezione” ... Per recare conforto a quella fede ...Che è principio alla via di salvazione”.
Il viaggio di Dante assume quindi un significato fortemente trascendente e per ben tre volte, Virgilio, la sua guida riduce al silenzio i demoniaci guardiani infernali (Caronte, Minosse e Pluto), affinchè non impediscano “il suo fatale andare” perché “volsi così colà dove si puote, ciò che si vuole e più non dimandare” assegnando cioè una sorta di imprimatur celeste all’eccezionale impresa ultraterrena del divino poeta.
Ed è proprio la sua straordinaria esperienza che può e deve cacciare dal mondo la lupa (cioè l’avarizia nella sua accezione più malvagia = avaurizia o aviditas auri) perché essa è la fonte di tutti i mali “radix omnium malorum” (San Paolo) e da lei nascono tutte le forme di empietà e le ingiustizie che hanno corrotto gli uomini, le città e i due sommi poteri civile e religioso (L’Aquila e la Croce), “soleva Roma che il buon mondo feo......due soli aver che l’una e l’altra strada.... facean veder e del mondo e di Deo“ ma la loro “mala condotta è la cagion che il mondo ha fatto reo”, e lo ha “diserto d’ogni virtute e di malizia gravido e coverto”. E’ indispensabile quindi correggere ed emendare questi sommi poteri che sviano le genti facendo loro perdere “la diritta via”.
E come Dante descrive il Veltro che farà, “morir con doglia” questa bestia “si malvagia e ria”?
Escludiamo che il Veltro possa essere un potente della terra, perché “non ciberà .....ne terre ne peltro”, ma solo “sapienza amore et virtute” , e nascerà “sua nazion sarà.......tra feltro e feltro” .
Occorre ora evidenziare come nel tredicesimo secolo cominciasse a diffondersi l’uso della carta, conosciuta e importata attraverso gli arabi dall’oriente, ma prodotta in forme rudimentali, molitura di stracci, con aggiunta di colle di riso che la rendevano appetibile a insetti e roditori, al punto che Federico II nel 1211 ne proibì l’uso per i documenti ufficiali.
E’ chiaro però che solo una diffusione massiva del supporto cartaceo, avrebbe consentito un uso più economico del materiale su cui scrivere ed avrebbe favorito quella vera rivoluzione culturale che caratterizzerà il XIV - XV secolo, grazie all’uso della carta prima e della stampa poi.
Solo la carta quindi poteva consentire una capillare diffusione del poema dantesco che sottoponeva al giudizio Divino il comportamento delle anime famose lanciando violente invettive contro i vizi degli uomini, ed in special modo dei potenti
In modo tale che la loro punizione divina ed eterna, potesse essere un monito imperituro per tutti gli uomini ai quali il poema era rivolto, e credo per questo motivo il poeta lo aveva concepito - novità assoluta - non in latino ma in volgare.
E allora “tutta tua vision fa’ manifesta...e lascia pur grattar dov’è la rogna” perché “questo tuo grido farà come vento...che le più alte cime più percuote....e ciò non fa’ d’onor poco argomento”
Ne conseguì che il poema venne presto trascritto, più e più volte (due volte pare dallo stesso Boccaccio) e fatto oggetto di pubbliche letture, e spesso imparato e recitato a memoria anche dal popolo, specie le invettive contro i potenti.
Pertanto solo la carta, consentirà una diffusione capillare della cultura e del sapere e quindi si ciberà di “sapienza amore e virtute” di cui è intrisa la Comedia, mentre proprio la carta per nascere ha bisogno di “feltro e feltro” perché l’impasto di molitura veniva steso, pressato e asciugato tra feltri.
Posso testimoniare avendo io assistito da fanciullo alla lavorazione della carta, in una delle numerose piccole e antiche cartiere, ancora esistenti a Varazze nei primi anni del secondo dopoguerra, che l’impasto veniva ancora steso pressato ed asciugato tra due rulli di feltro.
Quindi la carta diventava lo strumento principe per la diffusione del sapere, e a Dante era riservato l’onore di diffondere attraverso la sua Comedia un messaggio salvifico di “sapienza amore et virtute” così come confermato in molti passi della sua opera, (Brunetto Latini, Marco Lombardo, Cacciaguida, ecc...); possiamo allora convintamente dedurre che il Veltro che caccerà le fiere, ed in particolare la Lupa dalla faccia della terra, è proprio la Divina Comedia del Poeta impegnato a combattere le malvagità e le ingiustizie.
Sarebbe stata ovviamente impossibile, nonostante l’uso del volgare, una capillare diffusione del poema tra il popolo se esso fosse stato scritto sulle costosissime e rarissime pergamene, che di solito potevano essere raschiate e riscritte più e più volte (palinssesti).
Il Veltro è dunque, la stessa Comedia di Dante.
*
Fonte: Società Dante Alighieri. Comitato delle Isole Canarie, 28.09.2020.
Matematica e virtù civili: una recensione di “La matematica è politica” di Chiara Valerio
di Marco Verani (MaddMaths! Matematica Divulgazione, Didattica - 12 Settembre 2020)
“La matematica è politica” di Chiara Valerio ci parla di virtù civili, così importanti e così dimenticate, e del ruolo che la Matematica ha nel forgiarle.
Diverse sono le virtù civili che affiorano, come fari, tra le pagine di Chiara Valerio.
Amore per la verità. Verità che deve essere conosciuta, ricercata, detta anche quando e’ scomoda. Mai imposta, mai subita.
Perseveranza. La matematica è palestra per allenare la perseveranza, per coltivare l’attenzione.
Bello ricordare e affiancare a questo punto le parole indimenticabili sull’attenzione di Simone Weil e Cristina Campo.
Umiltà. Fare matematica è ripartire dai propri errori, spesso riconoscere la propria incapacità, confrontarsi con il limite, il non-possibile. Smantellare l’idea del tutto è possibile sempre, subito.
Cura del bene comune. Tra i beni comuni più preziosi che abbiamo vi è la democrazia. Fare matematica è difesa ed esercizio di democrazia.
Chiara Valerio usa una bella espressione: ci dice che la matematica è una “disciplina di manutenzione”, manutenzione della democrazia, del con-vivere nel rispetto e nella solidarietà. Bellissima parola “manutenzione” che richiama il gesto paziente, lento e accudente delle mani. Sì, e’ vero: la matematica è politica.
*
Uscire dal letargo (Dante), dall’orizzonte di Edipo (Freud)!
Dopo sette secoli dalla morte di Dante Alighieri non è forse giunta, infine, l’ora di chiarirsi le idee sulla "bella e beata" (Inf. 53), Beatrice, e sulla relazione evangelica del Figlio con la Madre ?! :
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE : UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
Federico La Sala
Uscire dal letargo "teologico" e "filologico" e dalla notte «in cui tutte le vacche sono nere»! La mistica dell’Amore (Deus charitas est), o quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est")?! *
Spiritualità.
Mistica cristiana: le nozze di eros e caritas
I Meridiani pubblicano il primo di tre volumi dedicati alla mistica cristiana. L’incontro con Dio supera ogni limite, fisico e linguistico, e si configura come esperienza sensibile di un amore totale
di Rosita Copioli (Avvenire, mercoledì 1 luglio 2020)
La Mistica Cristiana (Mondadori, I Meridiani, pagine. LXXXVIII+1624, euro 70,00), è il primo dei tre volumi di una vastissima opera - estesa dalle origini ai nostri giorni - ideata dieci anni fa e curata da Francesco Zambon, su ’impulso’ di Pietro Citati. Questo libro, curato da Zambon con Marco Rizzi, Sabino Chialà, Boghos Levon Zekiyan, comprende la mistica tardogreca e bizantina, siriaca, armena, latina e italiana medievale; il secondo volume presenterà la mistica tedesca e fiamminga, francese, italiana moderna; il terzo la mistica iberica (spagnola, portoghese e catalana), inglese e americana, russa, svedese. Nessun progetto ha avuto la medesima ampiezza, né pari cura filologica e critica: nemmeno i Mistici occidentali curati da Elémire Zolla; e altre pregevoli sillogi sono parziali.
Le radici sono ebraiche - nel Cantico dei Cantici, il testo più ardente e complesso dell’amore umano e divino - e greche: nel Fedro e nel Simposio di Platone, dove la ricerca della conoscenza diviene quella del bene e del bello, l’intelletto sale verso il divino: la mente si unisce allo slancio erotico, la mania che porta all’estasi: invasa da una luce alla quale tenderà tutta la tradizione occidentale fino al Rinascimento, e oltre: da Plotino, per il quale la contemplazione è superiore all’azione poiché permette la visione del vero, a Proclo; da Apuleio a Tasso, i poeti barocchi, i romantici, Yeats, Ungaretti, Luzi, Milosz.
La potenza della vista interiore è previsione e profezia. Lo afferma già Esiodo, e poi Saffo e Platone, seguiti da sant’Agostino e Dante: il poeta sprofonda nella memoria bevendo l’acqua di vita di Oceano, e lascia che il soffio del dio spiri dentro di lui, investendolo del suo nume sconvolgente. «Entra nel petto mio, e spira tue / sì come quando Marsia traesti / de la vagina de le membra sue». È il solo modo per riceverne il barlume, per glorificarlo: «O divina virtù, se mi ti presti / tanto che l’ombra del beato regno / segnata nel mio capo io manifesti».
Il mistico ricapitola ogni passaggio del Verbo incarnato e dello Spirito Santo che permette - osano i più temerari - di diventare Dio, trascinando con sé l’intera creazione. La trasfigurazione, la passione, la morte sulla croce di Gesù, il suo corpo martoriato sono lo strumento-specchio per rivivere Gesù in anima-spirito-corpo, oltrepassando i ’sensi spirituali’. Francesco nutre nelle viscere il sole - Cristo. Dalle mani e dai piedi spuntano chiodi di carne, sul costato si apre la ferita di Cristo.
Angela da Foligno aderisce al Crocifisso con i sensi dell’eros totale: «Tu sei me e io sono te». La mente di Iacopone da Todi, «En Cristo trasformata, è quasi Cristo, /cun Deo conionta tutta sta devina». Chi osa tanto, non teme la sintassi, scardina ogni figura e senso. Se fa miracoli, sfida la gravità e si innalza dal suolo, come Doucelina di Digne, altri aboliscono gli intermediari con Dio nel linguaggio, come Caterina Fieschi: «Il mio Mi è Dio, io non conosco altro Mi che esso Dio mio».
I mistici non hanno paura di niente, né del pudore, né di “ardiri” che il volgo deride: come i patriarchi della Bibbia, variano la metafora del latte della sapienza, con una passione tenerissima. Nel II secolo in Siria, un’Ode di Salomone, e Clemente Alessandrino suggono i seni del Padre e le dolci mammelle di sposa di Gesù; nel X secolo Gregorio di Narek, autore di inni inarrivabili al Cristo glorioso, invoca «comunione che distilla latte»: siamo in Armenia, dove la teologia del sacerdozio di tutti i fedeli - i corpi sono templi e altari - renderà possibile il sacrificio dell’intero popolo: il “Martirio armeno”. Misakh Metzarents (1886-1908) ne è l’ultimo fiore: «Nella notte discende ancora il ruscello di luce, / una goccia di latte della tua santità divenuta un mare; / e vedi, o Madre di Dio, ecco sto diventando bambino».
Come diceva san Tommaso d’Aquino, la mistica è la Cognitio Dei experimentalis, che Jean Gerson esplica: «Theologia mistica est cognitio experimentalis habita de Deo per amoris unitivi complexum». Ma è la più abissale delle imprese gnoseologiche e amorose. Per la “teognosia” dell’ombra, che deriva da Plotino e si distanzia da seguaci di Gesù come Giovanni e Paolo, e Agostino, mai giungeremo a conoscere Dio. La sua trascendenza rispetto a ciò che è, e all’essere stesso, è superessentialis: Dio non può essere conosciuto, descritto, visto, nemmeno dagli angeli e dai santi. Di Dio non si può parlare né in forma positiva, né in forma negativa. Ma la forma negativa si avvicina di più al suo mistero. Lo si contempla tra luce e tenebra.
Scrive Zambon: «Anche nella vita beata, al termine del reditus di tutta la creazione nel seno del Verbo, Dio sarà conoscibile solo attraverso delle mediazioni, delle teofanie (in greco, “manifestazioni, immagini di Dio”)». La teofania segue i gradi della contemplazione, della deificazione (theosis), e coincide con l’unione mistica. Ricorre alle immagini, al loro fantasma, alla fantasia: l’“alta fantasia” di Dante. La docta ignorantia fa apparire Chi è superiore alla Luce come tenebra, caligine, nube: nella “notte oscura” di Giovanni della Croce.
Una rivoluzione accade in pieno XII secolo: Guglielmo di Saint-Thierry, Bernardo di Clairvaux, Aelredo di Rievaulx, Ivo, e Riccardo di San Vittore (di cui Zambon ha curato sapientemente i Trattati d’amore cristiani del XII secolo per Valla Mondadori) mostrano a quale fuoco di trasformazione può accendersi l’intelletto d’amore che guida fino a Dio, intrecciando eros platonico e caritas paolina. Come in Ildegarda di Bingen, il grande impeto d’amore dà le ali. Culminano la poesia della fin’amor dei trovatori, le storie di Tristano e Isotta, il romanzo cortese.
Con Beatrice davanti alla candida rosa dei beati, Bernardo invita Dante a fissare Dio, nel movimento rapidissimo che imprime al creato e a noi: la metamorfosi dell’anima in Dio, l’excessus mentis, avviene per opera divina in un solo istante: «ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, / l’amor che move il sole e l’altre stelle». Riccardo di San Vittore è il più ardito. Amore terreno e carità hanno la stessa fonte, ma la carità non è mite. Ha la stessa struttura, manifestazioni e gradi della passione violenta. I Quattro gradi della violenta carità gridano in Iacopone da Todi: «Amor de caritate, perché m’ài ssì feruto? / Lo cor tutt’ho partuto, et arde per amore».
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus !!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
FILOLOGIA E "ANDROLOGIA". DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE: "UN UOMO, TUTTI GLI UOMINI"?! *
La raccolta.
Ivano Dionigi tra parola, vita e smarrimenti
Uno sguardo sul nostro tempo e le sue emergenze partendo dalla lettura dei classici e dei testi biblici. Un estratto dall’ultimo libro di Dionigi che trae linfa dalla rubrica “Tu quis es” per Avvenire
di Ivano Dionigi (Avvenire, giovedì 25 giugno 2020)
La parola, lógos per i Greci, verbum per i Latini, è il miracolo per cui l’uomo da creatura diventa creatore: essa può affascinare (delectare), insegnare (docere), mobilitare le coscienze (movere). La parola può unire e dividere, consolare e affannare, salvare e uccidere. Non solo custodisce e veicola il pensiero, ma lo genera. La Parola divina, quel Logos con cui si aprono l’Antico e il Nuovo Testamento: la Genesi («In principio Dio disse») e il Vangelo di Giovanni («In principio era la Parola»). Il lógos di Eraclito: «così profondo che della sua anima, per quanto tu possa camminare e neppure percorrendo intera la via, mai potresti trovare i confini». La parola che con Gorgia tutto può: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione ». La parola della “democratica” Atene, che uccise Socrate prima e più della cicuta.
La parola che, usata male, secondo Platone oltre a essere una cosa brutta in sé fa male anche all’anima. La parola che con Aristotele ci caratterizza come uomini distinguendoci dagli animali. La parola che con Cicerone salva la res publica, se prerogativa degli eloquentes e sapientes; la manda in rovina, se prerogativa dei disertissimi homines, i demagoghi. La parola della ragione di Lucrezio, l’arma più efficace per debellare i nemici interiori della cupido e del timor. La parola terapeutica di Seneca che interiorizza e consola. La parola che con l’apostolo Giacomo ora benedice ora maledice. La parola che con Elias Canetti si fa antidoto alla guerra. La parola che con don Milani diviene «la chiave fatata che apre ogni porta». La parola che con Mario Luzi «vola alta» e profonda, e «tocca nadir e zenith».
Questa parola oggi non gode di buona salute: ridotta a chiacchiera e barattata come merce qualunque, ci chiede di abbassare il volume, di ricongiungerla alle cose, di imboccare la strada del rigore. Soprattutto in questo tempo di calamità, in cui ci apprestiamo a un lungo esodo e alla traversata del deserto, le parole note suonano inadeguate se non improprie. -Abbiamo bisogno di parole nuove per nominare questo presente imprevisto, inaudito, alieno. Uguale, eppure così frantumato; estraneo, eppure così invadente attorno a noi e dentro di noi.
Orfeo e Euridice
A Orfeo è concesso di riportare la dolce sposa dall’Ade sulla terra a patto di non girarsi a guardarla. Ma, racconta Virgilio (Georgiche, 4, 485 sgg.), lo sprovveduto amante uscendo dagli Inferi viene preso dalla follia d’amore e viola i patti (rupta foedera): «Quale furia d’amore ha portato me misera, ha portato te Orfeo, alla perdizione? » (4, 494 sg.: Quis et me [...] miseram et te perdidit, Orpheu, / quis tantus furor?), grida Euridice quando Orfeo si volta a guardarla. «Muto e impaziente» Orfeo, «mite nella sua pazienza» Euridice, dirà Rilke. Non è forse vero che non bisogna amarla troppo questa vita per non perderla? Come non è forse vero che non bisogna attaccarsi troppo a una persona per non soffocarla?
Se non sopportiamo il peso della privazione, il prezzo dell’attesa, il páthos della distanza, perdiamo coloro che amiamo e perdiamo noi stessi. Restiamo agli Inferi: nell’Inferno della nostra identità. Questa favola vale per la scuola come per la vita. -Penso al nostro modo di leggere i classici, oscillante fra due estremi malsani: o non cogliamo le interrogazioni dei testi e li consideriamo come fossili, muti, inanimati, cadaverici, oppure vi sovrapponiamo le nostre domande e li riduciamo a pretesti per le nostre ragioni. Non abbiamo forse pietrificato i classici tutte le volte che, affetti da miopia e incapaci di resistere all’impazienza e all’illusione del possesso, abbiamo anteposto le ragioni della vicinanza e della presenza, incuranti di ogni distanza passata e futura?
Parole per noi
Negata anche la pietas: non si può abbracciare né chi nasce né chi muore. Catastrofe, inferno, tragedia sono le parole giuste per questi giorni. Va pensata la genesi dopo l’apocalisse: la scienza medica deve curare e guarire, la politica provvedere e prevedere, con l’auspicio che i tanti eurobond siano affiancati da altrettanti neurobond. Avremo bisogno di Mosè, di tanti Mosè che ci guidino nella traversata del deserto. Non è l’ora delle nostre parole che suonano inutili o inopportune. Altro timbro possiedono le parole di coloro che hanno scritto per noi e di noi, che resistono al tempo e alle mode. Ci ricordano con il Prometeo di Eschilo e l’Antigone di Sofocle che l’uomo ha posto rimedio a tutti i mali ma non al suo destino mortale; con il Platone della Repubblica, che non si possono privatizzare i beni materiali ma neppure i sentimenti quali la gioia e il dolore, e che nella città al vertice dell’istruzione deve sedere il migliore; con l’Aristotele della Politica, che l’uomo dotato di norme civili e di senso del giusto è la migliore delle creature; con Lucrezio, che solo la scienza può rimuovere la paura, frutto dell’ignoranza e causa di tutti i mali; con Virgilio, che i vecchi valgono non meno dei giovani; con Seneca, che è cosa diversa vivere (vivere) dallo stare al mondo (esse); con Marco Aurelio, che ognuno di noi vale quanto la causa per cui lotta; con Agostino, che la qualità dei tempi dipende da quella degli uomini (Sermoni, 80, 8: Nos sumus tempora: quales sumus, talia sunt tempora).
Lucrezio lo aveva detto
La storia ama non solo sorprendere ma anche ripetersi. Si vada alla peste di Atene (430 a.C.) descritta da Lucrezio nel finale del suo poema: vi si troveranno consonanze raggelanti con i nostri giorni. Sotto scacco, la medicina allora mostrava tutta la sua incertezza e impotenza: silenziosa e timorosa esitava e balbettava (6, 1179: Mussabat tacito medicina timore). Parimenti disarmata e svilita la religione (vv. 1276-1277: Nec iam religio divum nec numina magni / pendebantur): i templi stipati di cadaveri accatastati (vv. 1272-1273: omnia sancta deum delubra replerat / corporibus mors) e impediti in città perfino i riti della sepoltura (v. 1278: nec mos ille sepulturae remanebat in urbe). Anche la pietà parentale era messa a dura prova: quanti erano accorsi al capezzale dei loro cari, incorrevano nel contagio (v. 1243: Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant) e quanti si rifiutavano di portare soccorso morivano soli e abbandonati (vv. 1239 sgg.: Nam quicumque suos fugitabant visere ad aegros / [...] / poenibat [...] / desertos, opis expertis, incuria mactans).
Con i nostri occhi li abbiamo visti i medici supplire con la compassione alla carenza di terapie; le abbiamo viste le chiese diventate cimiteri, piazza San Pietro deserta e il Papa, solo, a testimoniare non la potenza del rito ma la passione della croce; li abbiamo visti negli ospedali i mariti separati dalle mogli, i fratelli dai fratelli, gli amici dagli amici. E morire senza potere prendersi la mano e neppure salutarsi.
Un uomo, tutti gli uomini
I rimedi per la ricostruzione del Paese dovranno essere proporzionati ai danni: incalcolabili. Ci vorranno braccia e menti, e una duplice chiamata: da un lato, quella dei migliori cervelli, in seduta permanente in una sorta di “cern” politico, economico, sociale, culturale per progettare il futuro; dall’altro, quella dei ventenni, perché siano i protagonisti della rinascita. Arrivati in un mondo fatto su misura dei loro padri, dovranno ora costruirne uno per i loro figli. A nulla valgono le retoriche consolatorie di questi giorni: il ricorso al patriottismo d’occasione, l’enfasi sull’eroismo dei medici oggi sull’altare e domani di nuovo nella polvere, l’illusione che ne usciremo migliori. I retti saranno ancora retti, gli acuti torneranno acuti, e gli ottusi resteranno ottusi. Più facile prevedere un indurimento degli animi, un ulteriore divario fra chi ha e chi non ha, un ripopolamento di umiliati e gregari che al riconoscimento delle istituzioni e alla rivendicazione dei diritti preferiranno panem et circenses. Avremo imparato che il mondo non è in equilibrio economico, ambientale, sanitario? Che sapere e potere, competenza e politica, cultura e amministrazione sono inseparabili? Che sarà il pronome noi a salvarci? Ce lo ricorda Borges: «Ciò che fa un uomo è come se lo facessero tutti gli uomini. Per questo non è ingiusto che una disobbedienza in un giardino contamini il genere umano; per questo non è ingiusto che la crocifissione di un solo giudeo basti a salvarlo» (La forma della spada).
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SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
FLS
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
LA FIGURA DI PILATO E IL "PELLEGRINAGGIO" CHE PORTA DANTE A DIVENTARE UN ALTRO CRISTO, A RINASCERE E A RITROVARE L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE... *
Il gran rifiuto (Inf. III 59-60)
di Romano Manescalchi (Independent Scholar),
Princeton.edu, 8 April 2014.
L’intervento di Lanza sul «gran rifiuto» riapre con grande determinazione la discussione riguardo il personaggio cui Dante si sarebbe riferito, discussione ultimamente sopita generalmente in favore di Celestino V.[1] In buona sostanza, ma in una sintesi necessariamente riduttiva, il Lanza evidenzia che l’atto di Celestino V non apparve riprovevole, se non a pochi estremisti, gli spirituali, che con Ubertino da Casale non ritennero valida l’abdicazione di Celestino, mentre generalmente apparve un atto di responsabilità, tanto che la Chiesa lo fece santo. Dante dagli spirituali rimarcò sempre le distanze;[2] ed aggiungerei che, per contro, Dante si trovò a lodare chi è capace di rinunciare ad un incarico per non sentirsi all’altezza, favorendo i meritevoli: «Molti rifiutan lo comune incarco» (Purg. vi 133); e a condannare quanti son sempre pronti a dire, irresponsabilmente, senza un minimo esame di coscienza «I’ mi sobarco» (ivi, 135).
Ma non intendo riassumere qui le sostanziose ragioni con le quali viene riproposta dal Lanza la candidatura di Ponzio Pilato e confutate le ragioni in favore di altri (Esaù, Celestino V soprattutto, Vieri de Cerchi, Giano della Bella, Giuliano l’Apostata, Romolo Augustolo ecc.), né ci sarebbe qui lo spazio per farlo. Qui vorrei solo aggiungere alcune mie considerazioni che vanno nella stessa direzione.
Innanzitutto una considerazione grammaticale e stilistica: «il gran rifiuto» può intendersi, su base grammaticale, in due modi: «quel gran rifiuto, che tutti conosciamo per averlo direttamente constatato», con «il» semplicemente indicativo; e la mente, in questo caso, va ad avvenimenti e personaggi recenti: Vieri di Cerchi, Giano della Bella, Celestino V ecc. Ma può intendersi anche «quel gran rifiuto di cui nessun altro è maggiore, il “gran rifiuto” per eccellenza, per definizione, per antonomasia»;[3] ed alla mente non può ricorrere se non Ponzio Pilato, con «il» che viene ad avere un valore superlativo, “antonomasico”. Ed ora il procedimento di Dante è questo: egli sostituisce i personaggi astratti del poema classico allegorico, semplici e unidimensionali personificazioni - vedi la Psicomachia di Prudenzio - con personaggi tratti dal mondo reale, indifferentemente della storia passata e del mito, o della cronaca dei suoi tempi. E la regola è questa: si sceglie il personaggio che meglio possa rappresentare quel peccato o vizio o virtù, che quel peccato o vizio o virtù lo rappresenti nel modo più eccellente, ne sia quasi la personificazione.
E da questo punto di vista Ponzio Pilato non ha rivali nell’indicare chi non si vuol compromettere, chi si ritira da un suo specifico dovere per viltà. Appartiene alle viscere del nostro linguaggio, da cui continuamente riemerge, il dire: «Ti comporti come Ponzio Pilato. Sei un Ponzio Pilato», come si dice «Sei un Giuda», frasi quasi altrettanto comuni come l’altra parallela del «lavarsene le mani», che comunque è ancor più ricorrente nel comune quotidiano parlare e rafforza in pari grado, o forse di più, le nostre argomentazioni. Dante avrebbe potuto trarre il personaggio esemplare dell’ignavo anche dalla cronaca quotidiana, come fa in tanti altri casi, riempiendo tra l’altro l’inferno con i suoi concittadini. Poteva quindi benissimo ricorrere a Celestino V, come a Vieri dei Cerchi o altri. Ma nessuno di questi personaggi può insidiare minimamente la candidatura di Ponzio Pilato, senz’altro il personaggio più rispondente, più adatto, ad incarnare il prototipo dell’ignavo, come gli riconosce senza obiezione alcuna tutta la nostra cultura, a cominciare, come detto, dal quotidiano parlare.
Vediamo ora il problema nell’economia della Commedia, nella cattedrale che anche è la Commedia, sintesi della storia universale dell’umanità in versione biblico-cristiana. Questa storia universale ha il suo punto centrale nella Redenzione della Croce, nella Crocifissione di Gesù. Non conosco racconto della storia della Crocifissione tante volte fatto dai pittori nelle cattedrali appunto, in cui manchino, accanto a Gesù, Pilato e Giuda. Ed ora Dante riconosce ed esalta i “meriti” di Giuda, dedicandogli a perpetua memoria - addirittura “eterna memoria” nel suo caso - un settore dell’inferno, la Giudecca, che appunto prende da lui il nome, dove anche grandeggia la sua statua vivente in una delle bocche di Lucifero (Inf. xxxiv vv. 61-63). Né è un settore qualunque quello a lui dedicato, bensì il più importante, dove è la reggia del sovrano infernale: diciamo che la Giudecca è la city della città infernale. Non penso proprio che Giuda si possa lamentare del trattamento che Dante gli ha riservato.
Ma lamentare si dovrebbe Pilato di cui non ci sarebbe nella Commedia, se gli togliamo di essere l’innominato di Inf. iii 59-60, niente altro che un fuggevole richiamo a Purg. xx 91 e solo per designare con il paragone con lui il sovrano di Francia Filippo IV. Davvero troppo poco. E se così fosse, dopo il tanto da lui fatto con il suo non far nulla, avrebbe ben motivo di rivoltarsi nella tomba contro un Dante tanto ingrato, dal momento che anche grazie a lui il poeta può fare questo pellegrinaggio[4] di redenzione che è la Commedia e guadagnarsi lui stesso il paradiso, grazie proprio a lui che in compenso del bene fatto (col non far nulla) come allo stesso poeta così a tutti i cristiani, dovrà subire pene eterne nell’inferno, pene che il poeta fiorentino non gli avrebbe nemmeno voluto determinare! E se non è troppo questo!
Dante darebbe a Pilato maggior rilievo a Mon. II xii 5-6: «Si ergo sub ordinario iudice Christus passus non fuisset, illa pena punitio non fuisset. Et iudex ordinarius esse non poterat nisi supra totum humanum genus iurisdictionem habens, cum totum humanum genus in carne illa Christi “portantis dolores nostros”, ut ait Propheta, puniretur. Et supra totum humanum genus Tiberius Cesar, cuius vicarius erat Pilatus, jurisdictionem non habuisset, nisi Romanum Imperium de iure fuisset. Hinc est quod Herodes, quamvis ignorans quid faceret, sicut et Cayphas cum verum dixit de celesti decreto, Christum Pilato remisit ad iudicandum... », dove il ruolo, comunque ragguardevole, avuto da Pilato è riconosciuto a chiare lettere, come anche a Mon. III xv 5 e ad Ep. V 28.
E dunque tanta importanza, quanto a mio avviso gli spetta, Dante dà a Pilato nella Monarchia, l’opera dantesca più vicina, per tematica e mole, alla Commedia, tanta in una lettera, comunque di molto peso come l’Ep. V indirizzata ai reggenti d’Italia, anche se di dimensioni indiscutibilmente minori; e non nominerebbe mai Pilato, direttamente, nella Commedia? A me pare molto, troppo, strano. Il personaggio è onnipresente nell’iconografia cristiana della Crocifissione e sarebbe assente nella Commedia, che è indiscutibilmente il massimo monumento laico della cristianità! È tanto inaccettabile quanto incomprensibile.
Da qualche parte Pilato deve essere anche nella Commedia e se non qui, a Inf. iii 59-60, dove? Nella storia universale della Chiesa (e dell’umanità) - da intendere in chiave biblico-cristiana - il personaggio di Pilato ha un grande rilievo come gli riconosce tutta l’iconografia e, come anche detto, il linguaggio spicciolo quotidiano. Celestino V e gli altri in questa prospettiva sono irrilevanti. Nel quadro specifico poi della Crocifissione, l’elemento centrale di quella storia universale in versione cristiana ed elemento centrale della Commedia che quella storia universale ha per suo sfondo e, direi, addirittura per suo oggetto, Pilato è un elemento addirittura indispensabile come lo è Giuda. Da qualche parte Dante deve averlo messo e il luogo più giusto è senz’altro tra gli ignavi. E se è tra gli ignavi nessuno gli può togliere - sarebbe una vera usurpazione - il diritto di rappresentare la categoria, che riconosce in lui, per il consenso di tutte le genti (cristiane), il suo massimo rappresentante.
Ci sarebbe anche un parallelismo: l’episodio della Crocifissione inizia con Pilato che, pur riconoscendo Cristo innocente, non fa il suo dovere, piegato dalla pressione della folla. E con Pilato posto nell’Antinferno comincerebbe la “crocifissione” di Dante, che ad una “crocifissione” del proprio ego lo porta il suo “pellegrinaggio” al santuario del Paradiso.[5]
Non mi sfugge che Inf. iii 59 - «vidi e conobbi» - crea delle difficoltà. Osserverei che si deve distinguere tra il “riconoscere” del v. 58, immediatamente precedente ed il “conoscere” del v. 59, volendo certo il poeta distinguere «quelli riconosciuti direttamente e quello che gli fu fatto conoscere da Virgilio» (Lanza, op. cit., p. 85) . Prosegue il Lanza: «Se si vuole un chiaro esempio di conobbi in questo senso, si veda il v. 122 del canto iv (ibidem), ovvero «tra quai conobbi Ettòr ed Enea». Vedi anche «sopra “riconosce”, qui “conosce”, vede in faccia» D. Mattalia, ad locum.
[1] Cfr. A. Lanza, Uno specchietto per allodole non previsto da Dante: Celestino V (Inf. iii 59-60, SD, lxxviii, 2013, pp. 45-100.
[2] Vd.: «ma non fia da Casal né d’Acquasparta» (Par. xii 124).
[3] L’espressione «per antonomasia» viene usata anche dal Lanza, op. cit. p. 93, ma riferita a Pilato e non all’espressione «gran rifiuto».
[4] Uso il termine “pellegrinaggio” soprattutto in onore di Vincenzo Barelli, il quale ha dato l’avvio alla interpretazione moderna delle tre fiere come «le tre disposizion che il ciel non vuole», ed è oggi totalmente dimenticato, indegnamente dimenticato visto che la sua scrittura è di alto spessore; vd. L’allegoria della Divina Commedia di Dante Alighieri / esposta da Vincenzo Barelli, Firenze, Galileiana, 1864, p. 64.
[5] Per questo concetto di “crocifissione” dantesca si tenga presente: «Si quis vult post me venire, abneget semetipsum et tollat crucem suam» ( Matth. XVI 24); «Qui autem sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, cum vitiis et concupiscentiis» (Ad Galatas v 24); «Ego enim per legem, legi mortuus sum, ut Deo vivam; Christo confixus sum cruci. Vivo autem jam non ego; vivit vero in me Christus» (Ibidem ii 19-20). È questo il traguardo che Dante deve raggiungere con la Commedia.
* Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura. della DIVINA COMMEDIA"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
CULTURA, CDM ISTITUISCE 25 MARZO GIORNATA DI DANTE
Franceschini: Dante rappresenta unità nazionale, ogni anno scuole saranno protagoniste del Dantedì
Il consiglio dei ministri, su proposta del ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo, Dario Franceschini ha approvato la direttiva che istituisce per il 25 marzo la giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri.
“Ogni anno, il 25 marzo, data che gli studiosi riconoscono come inizio del viaggio nell’ aldilà della Divina Commedia, si celebrerà il Dantedì. Una giornata per ricordare in tutta Italia e nel mondo il genio di Dante con moltissime iniziative che vedranno un forte coinvolgimento delle scuole, degli studenti e delle istituzioni culturali. A un anno dalle celebrazioni dei 700 anni dalla morte di Dante - ha aggiunto Franceschini - sono già tanti i progetti al vaglio del Comitato per le celebrazioni presieduto dal prof. Carlo Ossola. Dante - ha concluso Franceschini - ricorda molte cose che ci tengono insieme: Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa di Italia”.
La proposta della giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri oltre ad essere oggetto di diversi atti parlamentari aveva raccolto l’adesione di intellettuali e studiosi e di prestigiose istituzioni culturali dall’ Accademia della Crusca, alla Società Dantesca, alla Società Dante Alighieri, all’ Associazione degli Italianisti alla Società italiana per lo studio del pensiero medievale.
Ufficio Stampa MiBACT
L’unico segno, la necessaria chiarezza.
Il falso mito dei "due Papi"
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, mercoledì 15 gennaio 2020)
Per quanto suggestivo possa apparire nelle serie televisive e in un film di un certo successo, quello dei "due Papi" è un falso mito, che è necessario smascherare, anche perché viene sempre più spesso rappresentato in certe cronache che fanno specchio a vere o presunte polemiche e manovre, innescate da interventi intorno a temi scottanti per l’oggi della Chiesa e l’avvenire del cristianesimo.
A smentire la possibilità che nella Chiesa odierna vi siano due Papi è lo stesso Benedetto, il pontefice emerito, che ha sempre dichiarato «incondizionata reverenza e obbedienza» all’attuale Vescovo di Roma e ieri ha eliminato ogni equivoco, chiedendo di togliere il proprio nome sia dalla copertina sia dall’introduzione e dalle conclusioni dal volume del cardinal Robert Sarah sul celibato dei preti al quale aveva concesso un proprio saggio (uniche pagine che intende firmare). Questa chiarezza era indispensabile, così il lettore sa e comprende quale sia la posizione di Benedetto XVI e quanto invece non gli appartenga, perché scritto e divulgato da altri.
Finiscono con l’alimentare la falsa mitologia dei due Papi sia quelle rappresentazioni che sottolineano amicizia e continuità fra i due personaggi in questione, senza evidenziare l’obbedienza dell’emerito all’attuale Papa, ma molto più quelle che li contrappongono in maniera subdola e ideologicamente contrassegnata. La riflessione si impone, perché i credenti non vengano disorientati più di quanto non siano dal contesto culturale e sociale in cui vivono.
Il Papa è il segno tangibile e concreto dell’unità della Chiesa, altro ruolo oltre questo non gli compete. In questo senso non può essere che uno e unico. Le epoche, da questo punto di vista certamente buie, in cui sono convissuti contemporaneamente Papi e antipapi, non hanno prodotto nulla di buono per il tessuto ecclesiale e spirituale della comunità credente. E solo quando qualcuno, come Giovanni XXIII (l’antipapa quattrocentesco), ha saputo con umiltà farsi da parte, si è ricostituita l’unità ecclesiale e ha ripreso vigore l’evangelo nel mondo.
Senza questo unico segno di unità, il cristianesimo vivrebbe una frammentazione devastante e la divisione regnerebbe sovrana, laddove al contrario, nella lettera agli Efesini leggiamo che «vi è [e quindi vi deve essere] un corpo solo e un solo Spirito, come pure siete stati chiamati a una sola speranza, quella della vostra vocazione. V’è un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, fra tutti e in tutti» (4, 4-6). Il dualismo non appartiene al cristianesimo cattolico, e quindi neanche alla fede cristiana tout court, è piuttosto frutto dello gnosticismo storico e perenne, che costituisce una costante tentazione per coloro che credono.
Per passare dalla Bibbia e dalla storia all’oggi, non possiamo dimenticare che il pontificato interrotto di papa Benedetto sia stato il vero gesto rivoluzionario che ha consentito la stagione di papa Francesco, con le sue innovazioni e la sua vivacità, sempre nel solco della tradizione della Chiesa cattolica. Abitare tale gesto, stupefacente e drammatico allo stesso tempo, significa rendersi conto che nella Chiesa vi è un solo Vescovo di Roma, ossia un solo Papa. Parlare di due Papi è insensato, come impegnarsi per contrapporre le due figure più significative dell’attuale contesto cattolico. E c’è da sospettare che dietro operazioni che adottano tale modalità, ci sia chi intende distruggere la Chiesa stessa, attentando alla sua prima nota costitutiva, che - come recitiamo nel Credo - è l’unità. Certo demitizzare i "due Papi" significa andare contro corrente e avere meno audience, ma non per questo ci si può esimere da tale compito.
Ritenere che la tradizione sia da una parte e l’innovazione dall’altra significa non comprendere il senso autentico della tradizione stessa, che è radicalmente innovativa, in quanto non guarda solo al passato, ma si innesta nel presente e si apre al futuro. Questo vale per le strutture costitutive di quella religione che pone a suo fondamento la fede cristiana. In primo luogo il culto e la liturgia, che, ininterrottamente, ma con linguaggio sempre nuovo, fa sì che il mistero si renda presente nell’oggi della sacramentalità. Qui il gesto e le parole fondamentali sono sempre le stesse: il pane che si spezza, l’acqua che si versa, le mani che si impongono, l’unzione con le parole che accompagnano e rendono sacramento il segno. Su questi fondamentali la Chiesa non ha alcun potere, in quanto le sono consegnati dalla rivelazione stessa, ma le modalità celebrative le sono affidate, perché la memoria non sia pura nostalgia e il presente non si rattrappisca in un passato preconfezionato. In secondo luogo la dottrina, che è chiamata a svilupparsi, secondo la feconda indicazione del santo cardinale John Henry Newman.
Uno sviluppo organico ed omogeneo, che, quando non è tale (o non è stato tale) ha prodotto i peggiori mali della Chiesa, ossia l’eresia e lo scisma. In terzo luogo le strutture, chiamate a trasformarsi e modificarsi, nello spirito di quanto disegnato da papa Francesco nel suo ultimo discorso alla Curia romana (21 dicembre 2019). I binari di tale trasformazione sono stati indicati nell’evangelizzazione e nella promozione umana, cardini portanti dell’agire ecclesiale nel presente e nel futuro, su cui devono poggiare e di cui devono nutrirsi le sovrastrutture o impalcature giuridiche e istituzionali.
Il falso mito dei due Papi veniva smascherato dallo stesso Benedetto XVI, quando, in un famoso discorso alla curia romana (22 dicembre 2005), riflettendo sul Concilio Vaticano II, contrapponeva un’ermeneutica della ’discontinuità’, ovvero dell’innovazione per l’innovazione, che avrebbe di fatto offerto il fianco al dualismo, non a quella della ’continuità’, come ci si sarebbe aspettato da un Papa ritenuto conservatore, ma a quella della ’riforma’. Una riforma che non ha nulla a che vedere con la rivoluzione, ma significa sviluppo e vita, apertura al futuro nel necessario e sempre fecondo radicamento nel passato, con attenzione vigile a un presente certamente problematico, ma anche affascinante e provocatorio per la fede.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
LETTERATURA EUROPEA*, IMMAGINARIO PLATONICO, E IMMAGINAZIONE “EDENICA”. Nella speranza, e con l’augurio, che il dono del Sessantotto non risulti esser stato sprecato ...
Note a margine di "Volevamo la Luna" di Andrea Cortellessa (Alfabeta-2, 21 luglio 2019):
SULLA BASE DELLE INDICAZIONI DEL “TELESCOPIO” (DI LEOPARDI) E DEL “PALOMAR” (DI CALVINO), FORSE, E’ MEGLIO RI-DISCENDERE “SOTTO COVERTA DI ALCUN GRAN NAVILIO” E RIPRENDERE LA “NAVIGAZIONE” CON GALILEO ...
«Rinserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti: siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza. (..)
Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia mentre il vascello sta fermo non debbano succedere così: fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur di moto uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti; né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina, o pure sta ferma.» (Galileo Galilei, “Dialogo sopra i due massimi sistemi tolemaico e copernicano”, 1632 - Salviati, giornata II);
.... E CON NOE’ - IL CORVO E LA COLOMBA (“PALOMA”):
“E in capo a quaranta giorni, Noè aprì la finestra che avea fatta nell’arca,
7 e mandò fuori il corvo, il quale uscì, andando e tornando, finché le acque furono asciugate sulla terra.
8 Poi mandò fuori la colomba, per vedere se le acque fossero diminuite sulla superficie della terra.
9 Ma la colomba non trovò dove posar la pianta del suo piede, e tornò a lui nell’arca, perché c’eran delle acque sulla superficie di tutta la terra; ed egli stese la mano, la prese, e la portò con sé dentro l’arca.
10 E aspettò altri sette giorni, poi mandò di nuovo la colomba fuori dell’arca.
11 E la colomba tornò a lui, verso sera; ed ecco, essa aveva nel becco una foglia fresca d’ulivo; onde Noè capì che le acque erano scemate sopra la terra” (“Genesi”: 8, 6-11 );
* ... E CON DANTE ( ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica).
P. S. - LE RADICI DELLA TERRA SONO “COSMICOMICHE”! Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino (cfr. LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI “DUE SOLI”).
Federico La Sala
LA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA O LA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA?! Al di là della Trintà edipica....*
La Trinità
di José Tolentino Mendonça (Avvenire, domenica 16 giugno 2019)
Come si rappresenta il mistero? Noi ci accostiamo a esso a tastoni, consapevoli che i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre immagini vacillano e arrivano appena a intravvederne, poveramente, la realtà. Ma questo nostro tentativo di approssimazione costituisce comunque un importante patrimonio di fede.
Pensiamo ad Andrej Rublëv: siamo nella seconda metà del XV secolo quando egli crea quella che sarà la più celebre icona della Trinità. Il testo biblico soggiacente (Gen 18,1-15) è quello dell’ospitalità che Abramo offre ai tre personaggi celesti che lo visitano. Nella contemplazione di questa stupenda icona della Trinità, l’orante viene condotto al centro del mistero di Dio.
In effetti, ciò che vien lì focalizzato è il Dio unico, un solo Dio con la stessa natura divina in tre persone. I tratti fisionomici coincidono esattamente, come se fosse la medesima figura mostrata per tre volte, anche se in tre posizioni differenti.
I personaggi hanno lo stesso volto, lo stesso atteggiamento del corpo, le stesse ali. Inoltre, tutti hanno in mano uno scettro e posseggono un’aureola per indicare eguali dignità e regalità.
Ciascun personaggio, però, occupa una posizione differente nello spazio e sono diversi i gesti, i colori degli abiti e il gioco degli sguardi.
Il Padre, da cui proviene ogni benedizione, guarda all’umanità attraverso il Figlio. E il Figlio guarda a noi attraverso lo Spirito Santo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
VERSO IL "PARADISO TERRESTRE" (DANTE, 2021):
DALLA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA ALLA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA. Al di là della Trintà edipica....*
Trinità, il mistero che abita dentro noi
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 13 giugno 2019)
Memoria emozionante della Trinità, dove il racconto di Dio diventa racconto dell’uomo. Dio non è in se stesso solitudine: esistere è coesistere, per Dio prima, e poi anche per l’essere umano. Vivere è convivere, nei cieli prima, e poi sulla terra. I dogmi allora fioriscono in un concentrato d’indicazioni vitali, di sapienza del vivere. Quando Gesù ha raccontato il mistero di Dio, ha scelto nomi di casa, di famiglia: abbà, padre... figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito, ruhà, è un termine che avvolge e lega insieme ogni cosa come libero respiro di Dio, e mi assicura che ogni vita prende a respirare bene, allarga le sue ali, vive quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata da altre vite. Abbà, Figlio e Spirito ci consegnano il segreto per ritornare pienamente umani: in principio a tutto c’è un legame, ed è un legame d’amore.
Allora capisco che il grande progetto della Genesi: «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza», significa «facciamolo a immagine della Trinità», a immagine di un legame d’amore, a somiglianza della comunione. La Trinità non è una dottrina esterna, è al di qua, è dentro, non al di là di me. Allora spirituale e reale coincidono, verità ed esistenza corrispondono. E questo mi regala un senso di armoniosa pace, di radice santa che unifica e fa respirare tutto ciò che vive.
In principio c’è la relazione (G. Bachelard). «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà... parlerà... dirà... prenderà... annunzierà». Gesù impiega tutti verbi al futuro, a indicare l’energia di una strada che si apre, orizzonti inesplorati, un trascinamento in avanti della storia. Vi guiderà alla verità tutta intera: la verità è in-finita, «interminati spazi» (Leopardi), l’interezza della vita. E allora su questo sterminato esercito umano di incompiuti, di fragili, di incompresi, di innamorati delusi, di licenziati all’improvviso, di migranti in fuga, di sognatori che siamo noi, di questa immensa carovana, incamminata verso la vita, fa parte Uno che ci guida e che conosce la strada. Conosce anche le ferite interiori, che esistono in tutti e per sempre, e insegna a costruirci sopra anziché a nasconderle, perché possono marcire o fiorire, seppellire la persona o spingerla in avanti.
La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nell’umanità di Gesù, volto del Padre, respiro dello Spirito: una sapienza sulla nascita e sulla morte, sulla vita e sugli affetti, su me e sugli altri, sul dolore e sulla infinita pazienza di ricominciare, che ci viene consegnata come un presente, inciso di fessure, di feritoie di futuro.
(Letture: Proverbi 8,22-31; Salmo 8; Romani 5,1-5; Giovanni 16,12-15)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
“700 - Viva Dante”. Scelto il logo per celebrare i 700 anni dalla morte di Dante Alighieri*
“700 Viva Dante - Ravenna 1321-2021” sarà questo il logo delle prossime celebrazioni dantesche, l’anniversario dei 700 anni dalla morte del Sommo Poeta. Un 7 e il simbolo dell’infinito, “Viva Dante” che in molti hanno letto come “Viva Ravenna”.
È stata quindi l’agenzia di comunicazione Matilde Studio di Cesena a vincere il concorso pubblico indetto dal Comune di Ravenna per trovare l’immagine che rappresenterà la città nel prossimo anno. Un concorso, a dire il vero, che in questi mesi ha ricevuto diverse critiche, dall’opposizione, ma anche dall’Associazione Italiana Design della Comunicazione.
A molti non è piaciuta l’idea di lasciare ai ravennati una scelta così complessa e strategica.
Di convinzione opposta, invece, il Comune, che ora ha il proprio logo sotto il quale racchiudere tutte le prossime celebrazioni dantesche, scelto da una decisione popolare
* https://www.ravennawebtv.it/ 30 Aprile 2019
"Viva Dante": i cittadini hanno scelto il logo per le celebrazioni del 2021
Con il nome scelto “Viva Dante” si è voluto sottolineare come il poeta, ancora oggi, rappresenti un punto di riferimento vivo per la città
di Redazione ("Ravenna Today", 30 aprile 2019)
"Viva Dante": il logo e il naming ideati da Matilde Studio di Cesena per rappresentare il settimo centenario della morte di Dante Alighieri sono quelli che hanno maggiormente convinto il pubblico del teatro Rasi, protagonista lunedì sera della procedura partecipata che ha costituito la fase finale della selezione con la quale l’Amministrazione comunale ha scelto di individuare l’identità visiva che rappresenti il settimo centenario dantesco del 2021 a Ravenna. Per la proposta di Matilde Studio hanno votato 176 persone su 291. Al secondo posto si è classificato il progetto proposto da Social Design srl (Firenze); al terzo quello di Menabò group (Forlì).
Il logo-naming vincitore
"Il logo presentato è composto di tre elementi: marchio, logotipo e payoff - spiegano dallo studio vincitore - Il marchio rappresenta il numero settecento, stilizzato utilizzando un motivo a tessere. La forma è completata dalla silhouette di Dante ripreso dall’iconico ritratto di Botticelli con alcune variazioni relative soprattutto alla corona d’alloro tesa a dare maggior risalto al profilo in monocromia. Come dettaglio ulteriore il marchio contiene, creata dalla sovrapposizione dei due cerchi, la forma dell’infinito, allo scopo di simboleggiare l’eternità divina espressa nel Paradiso e la memoria perpetua celebrata dai Ravennati nel culto del poeta. Lo schema policromo riprende le tonalità utilizzate nei mosaici ravennati che, pare, abbiano ispirato lo stesso Dante nell’elaborazione di alcune immagini letterarie del Paradiso. In generale l’utilizzo di un marchio composito, creato da tante tessere e molteplici colori vuole anche essere il simbolo di una celebrazione formata da tante voci, esperienze, sensibilità particolari che cooperano alla celebrazione. Per quanto riguarda il nome scelto “Viva Dante” si è voluto sottolineare come il poeta, ancora oggi, rappresenti un punto di riferimento vivo per la città sia in termini di valori che di ispirazione artistica. Si è giocato quindi con la contrapposizione tra la celebrazione della morte e la consapevolezza di un’esperienza che vive, eternamente. Il nome, pur essendo in italiano, utilizza parole utilizzate spesso anche in ambito internazionale rendendo, assieme al payoff, il logo perfettamente fruibile anche da un pubblico estero mantenendo un imprescindibile carattere italiano. Il payoff condensa, sempre tenendo conto della fruibilità linguistica, il posizionamento temporale e geografico delle celebrazioni, evidenziando inoltre il ruolo di Ravenna nella vicenda umana di Dante".
I cittadini, nell’ambito della chiamata pubblica organizzata dal Teatro delle Albe - Ravenna Teatro per la rappresentazione del Purgatorio, sono stati invitati a scegliere l’immagine e la frase a loro parere più significativi e capaci di trasmettere l’insieme dei valori, delle attività e degli spazi che concorrono al programma delle celebrazioni dantesche nel 2020 e 2021. La partecipazione era comunque aperta anche ai cittadini non partecipanti alla chiamata pubblica per la rappresentazione del Purgatorio. Nel corso della serata i tre loghi e i relativi naming, precedentemente scelti, tra 29 proposte pervenute, da una giuria di qualità costituita da cinque esperti, sono stati illustrati al pubblico dagli ideatori per meglio far comprendere il messaggio che intendevano legare alla città, a Dante e ai valori universali e plurali della sua opera. Le 29 proposte sono arrivate da diverse parti d’Italia e anche dall’estero: Ravenna, Riccione, Bellaria, Mirandola, Bologna, Firenze, Russi, Lugo, San Giovanni in Marignano, Messina, Milano, Forlì, Rimini, Mosca, Faenza, Slovenia, Cesena, Caltagirone, Roma, Cagliari, Bagnacavallo, Siviglia.
Conclusa la presentazione si è passati alla votazione, presentando un documento di riconoscimento, tramite una scheda da introdurre in un’urna. Il voto si è concluso alle 22 e si è poi svolto lo scrutinio, pubblico, al termine del quale è stato annunciato il vincitore. La proposta vincitrice sarà premiata con un premio di quattromila euro. Il secondo e il terzo classificato riceveranno rispettivamente un premio di duemila euro e di mille. Il Comune di Ravenna affiderà il servizio di ideazione e progettazione di una declinazione esecutiva dell’immagine coordinata all’ideatore del progetto classificato al primo posto. Nella prima fase della selezione la giuria ha esaminato i progetti nel rispetto del loro anonimato, in base ai seguenti criteri: caratteristiche concettuali, estetiche, espressive; efficacia comunicativa e qualità della proposta in ordine alla relazione tra Ravenna e Dante; funzionalità e applicabilità ai diversi utilizzi e contesti istituzionali.
La giuria era così composta: Giulio Ceppi, Giulio Blasi, semiologo, amministratore delegato di Horizons Unlimited, società che gestisce il servizio MLOL in 4.500 biblioteche italiane e straniere, si occupa di editoria multimediale. Marianna Panebarco, general manager Panebarco &c sas, esperta di comunicazione digitale. Presidente CNA Giovani imprenditori Emilia-Romagna. Membro di presidenza Cna Giovani imprenditori nazionale. Membro del Comitato Dantesco Ravennate. Mimmo Berterame, amministratore delegato di Gusto italian design studio che realizza consulenze professionali nella progettazione e nella pianificazione di campagne su scala nazionale ed internazionale, con new e classic media. Maurizio Tarantino, dirigente Unità operativa Politiche e attività culturali, direttore dell’Istituzione Biblioteca Classense e Istituzione Museo d’arte della città.
La polemica
Dure le critiche della capogruppo della Pigna Veronica Verlicchi: "Con la scusa della “partecipazione popolare” la dirigenza e l’assessorato alla cultura continuano a sviare la responsabilità delle scelte che sono chiamati a fare, e per le quali sono ben pagati, scaricandola sul pubblico. Ma é evidente che questo non é un modello applicabile sempre e comunque e che in talune occasioni di particolare rilevanza, come quella delle celebrazioni dantesche, sarebbe più opportuno un intervento tecnico e di qualità. Parola che é palesemente sconosciuta ai componenti della Giunta di Michele de Pascale, che nell’esercitare le proprie deleghe perpetrano scelte scellerate e totalmente contrarie agli interessi dei cittadini. Il risultato: il primo passo dell’organizzazione delle celebrazioni dantesche ravennati é stato un passo falso. Ci si dovrà tristemente ridurre a sperare che Firenze e Verona, le altre città coinvolte nei festeggiamenti, facciano di peggio?".
Accademici e ministri, fissate il giorno del «Dante pride»
È giunto il momento di mettersi d’accordo e fissare d’imperio una Giornata da dedicare al Sommo Poeta: «Vuolsi così colà dove si puote...».
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 23.04.2019)
Lo confesso. Questo è un articolo che ho scritto più volte (inascoltato) da quando siamo a cavallo tra un anniversario dantesco e l’altro: tra il 2015 (750 anni dalla nascita) e il 2021 (700 anni dalla morte). Lo confesso, ma ci sono casi in cui repetita juvant («et secant», scherzava il mio professore di latino). Ieri, 23 aprile, era la Giornata mondiale del libro, istituita il 7 ottobre 1926 per celebrare la nascita del padre del romanzo europeo, lo spagnolo Miguel de Cervantes. Dal 1930 si passò al 23 aprile in omaggio a Shakespeare e a Garcilaso de la Vega, che morirono lo stesso giorno di Cervantes nel 1616. Quel giorno, San Jordi, patrono di Barcellona, i librai catalani regalano una rosa per ogni libro acquistato.
È una festa a cui Inge Feltrinelli ha partecipato tante volte impazzando allegramente per le ramblas con il suo amico Manolo, Manuel Vázquez Montalbán. Ma questa è una semplice variante sul tema. La ripetizione sta nell’insistere perché anche Dante abbia una sua Giornata sul calendario, così come Cervantes, Shakespeare e Joyce, che a Dublino (e nel mondo) dal 1950 viene festeggiato ogni 16 giugno. Santificato San Remo, beatificati i nostri mille festival quotidiani, metabolizzato agevolmente il Black Friday, dopo sette secoli sembra giunto il momento di uno scatto d’orgoglio tutto italiano: per le università, per le accademie (Crusca, Lincei eccetera), per la benemerita Società Dante Alighieri, per la gloriosa Società Dantesca, per i dantisti e i dantologi, per gli infaticabili Istituti di Cultura, per gli illuminati ministri della cultura, dell’interno, degli esteri, della difesa, delle infrastrutture, dei trasporti...
È giunto il momento di mettersi d’accordo e fissare d’imperio una Giornata da dedicare al Sommo Poeta: «Vuolsi così colà dove si puote...». Un Dantedì o se preferite un “Dante Pride” per le strade, nelle piazze, nei teatri, nelle chiese, nelle scuole: ovunque, in Italia, in Europa, nel mondo, e se possibile (sarebbe un segno di eterna gratitudine) anche nell’aldilà. All’anno prossimo.
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
VITA E FILOSOFIA: "NICODEMO O DELLA NASCITA". Sulla strada di Enzo Paci.... *
Idee.
Se il laico Polito, come Nicodemo, vuole risorgere a nuova vita
In un libro il giornalista affronta da non credente l’urgenza personale e sociale di trovare una strada alternativa all’imperante e acritico giovanislimo consumistico trovando una sponda nel Vangelo
di Francesco Ognibene (Avvenire, martedì 30 aprile 2019)
«Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Lo stupore di Nicodemo nel colloquio notturno con Gesù, riferito dal Vangelo di Giovanni, condensa l’eterna incomprensione dell’uomo rispetto alla possibilità di «rinascere dall’alto», di ricominciare a qualunque età come il Signore propone all’inquieto fariseo non più sazio di quel che è e che sa, tanto da interrogarsi su di sé, ma senza darlo a vedere (e infatti va dal Maestro al riparo delle tenebre). Il dialogo sotto la volta stellata propone la ricerca senza fine di chi per esperienza e posizione sociale potrebbe sentirsi a posto e che invece si sente attratto dalla possibilità solo intravista di scoprire, lui già maturo, la possibilità di un nuovo inizio.
La domanda di Nicodemo torna con prepotenza tra le pagine del recente libro del giornalista Antonio Polito Prove tecniche di resurrezione. Come riprendersi la propria vita (Marsilio), che in una premessa e dieci sfide lanciate alla vita quotidiana traccia un laicissimo percorso autobiografico attraverso «il ribaltamento di prospettive che sto vivendo con l’avanzare dell’età», cioè l’inesorabile cernita nel proprio zaino esistenziale quando si veleggia ormai oltre i 60 nella più apparente normalità, ma con una contabilità dell’essenziale e del superfluo in pieno svolgimento nella stiva del cuore. Si tratta di decidere se lasciarla inascoltata fingendosi giovani per sempre oppure cogliere senza patemi quello che Polito definisce «avviso di mortalità», respingendo la pressione dello «spirito del tempo» che con tono suadente «suggerisce che sentirsi invecchiati sia indice di un disagio psichico». Non è «la solita crisi di mezza età», ma una vera e propria «rivelazione» dopo la quale a una coscienza sincera «tutto sembra diverso». E si capisce che serve un gesto forte, una ribellione. O una rinascita.
L’obbligo ingiunto alla fascia più adulta della società (numericamente sempre più rilevante) di vestire abiti di un’altra taglia ha una tale forza cogente che Polito ne parla come di una vera ideologia, il cui assunto centrale è che, «come il sesso nelle teorie del gender, l’età "è quella che uno si sceglie"». Un simile obbligo sociale finisce però col neutralizzare la domanda a occhi sgranati di Nicodemo: davvero posso risorgere in vita? La tensione «insopportabile» tra il sé percepito interiormente e l’immagine sociale a cui adeguarsi è «tra ciò che ormai si sa di essere e ciò che gli altri vorrebbero che si continuasse a fingere di essere». Prendere sul serio il tempo che passa ci pone nelle condizioni di comprendere il segreto di ogni età, le risorse impareggiabili che la connotano, il meglio di sé all’orizzonte e non dietro le spalle. Tattiche autoconsolatorie? Tutt’altro: è la chance di un nuovo inizio, quello che l’ascesi cristiana definisce "cominciare e ricominciare" e che nel libro Polito chiama «possibile resurrezione laica».
Il credente, per mano a Dio, mai dovrebbe pensarsi tramontato, perduto, spacciato, col count down che ticchetta. Ma anche i termini secolari risuonano di questa intuizione cristiana: il problema di chiudersi dietro le spalle la porta della pretesa di eterna giovinezza, annota Polito, «non si risolve provando a tornare ciò che si era prima, da giovane, trasformandosi in un replicante del sé di un tempo. Richiede piuttosto la soluzione opposta: si deve provare a rinascere, a cambiare se stessi, a diventare diversi e possibilmente migliori».
Di educazione cattolica, Polito riconosce che è proprio quell’imprinting a impedirgli oggi di credere nella risurrezione annunciata dai Vangeli: quella dai morti «è competenza dei credenti, e io non lo sono», ma «arrivato a questo punto della mia vita sento ugualmente un impellente e disperato bisogno di risorgere».
Come si fa a volere «una cosa in cui non si crede?». Domanda senza sconti a cui il giornalista risponde riconoscendo che «l’idea di un Dio motore primo dell’universo non è così inconciliabile con la ragione, né con le leggi della natura rivelateci dalla scienza di Darwin e di Einstein». E anche sulla morale di stampo cristiano l’autore afferma che «più mi guardo intorno e meno trovo in giro princìpi etici più moderni e condivisibili di quelli introdotti oltre duemila anni fa dal cristianesimo». Non solo: «L’etica cristiana mi pare oggi l’unica che ci consenta di mantenere un rapporto con la dimensione del "naturale", di fronte alla hybris di un’epoca che crede di potersene far beffe, fino a terminare la vita senza morte o ad affittare uteri per generarla».
Recuperare il senso del limite - sapersi mortali davvero -, con la domanda di Nicodemo nel cuore, libera dalla dittatura dell’efficienza e dello sciocco giovanilismo. Se i cristiani l’hanno perso di vista, è bello farselo ricordare da chi c’è arrivato per un suo diverso e liberissimo percorso. Disponendosi ad accogliere l’intuizione dell’uomo risorto in vita, così espressa poeticamente da papa Francesco: «Sussurratevelo fino a crederci: il vino migliore sta per arrivare».
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
HUSSERL CONTRO L’HOMUNCULUS: LA ’LEZIONE’ DI ENZO PACI AI METAFISICI VISIONARI (ATEI E DEVOTI) DI IERI (E DI OGGI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo.
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 31 agosto 2019)
È nei fatti che si dimostra di essere cristiani, di seguire il Risorto sulle strade del mondo. I due santi ricordati oggi, Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo ce lo ricordano bene: sono ben lungi dall’essere "discepoli perfetti", eppure nel momento estremo, quando la vita raggiunge il suo apice nel sacrificio totale, essi non temono di mostrare la loro fede e si fanno "servitori" di Dio donando una degna sepoltura a suo Figlio.
Secondo i racconti evangelici Giuseppe era un membro del Sinedrio mentre Nicodemo viene descritto come uno dei "capi dei Giudei". Entrambi erano affascinati dal "Maestro", ma si nascondevano per timore, avvicinando Gesù di nascosto o di notte per la loro posizione "in vista". Una posizione che permise loro, però, di chiedere di poter seppellire Gesù e così di fare una piena professione di fede superando ogni paura. Alla fine entrambi avevano capito quello che nel suo dialogo con Gesù Nicodemo non comprendeva: la via per rinascere dall’alto.
Altri santi. Sant’Aristide Marciano, filosofo (II sec.); san Raimondo Nonnato, religioso (1200-1240).
Ambrosiano. Dt 10,12-11,1; Sal 98 (99); Rm 12,9-13; Gv 12,24-26.
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI".... *
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" -Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
Federico La Sala
MITO, FILOSOFIA, E TESSITURA...
LA LUNA (“LA SCIANA”), IL DESIDERIO (“LU SPILU”), E IL FILO DI ARACNE.
Quanti millenari pregiudizi ... *
CONSIDERATO CHE “SCIANA”, sinonimo di “umore”, «è in uso in locuzioni del tipo “osce sto ti sciana” (oggi “sto di umore giusto”, ho voglia di fare) ma anche in unione all’aggettivo che ne definisce esplicitamente il valore positivo (“sto ti bona sciana”) o negativo (“sto ti malesciana”). Il derivato “scianaru” (prevalentemente e, come dirò, non a caso, usato al femminile “scianara”) come sinonimo di “volubile” [...]» (cfr. Armando Polito, “Dialetti salentini: sciàna”, Fondazione Terra d’Otranto, 10.03.2019); E CHE “SCIANA” è «deformazione dell’italiano “Diana”, dea della luna e della prima luce del mattino oltre che della caccia, dal latino “Diàna(m)”, da dius=divino, connesso con dies=giorno e con Iùppiter=Giove [da Iovis=Giove (a sua volta dal greco Zeus/Diòs)+pater=padre]» (cfr. Armando Polito, “Lu spilu e la sciàna”, Fondazione Terra d’Otranto, 16.12.2011).
E’ BENE RICORDARE CHE «Diana, com’è noto era gemella di Apollo, entrambi figli di Zeus e Latona ...» (op. cit.).
MILLENARI PREGIUDIZI. Per non scivolare nel “terreno viscido” e perdersi nell’aria nebulosa di ingegnosi labirinti e, al contempo, riuscire a districarsi tra millenarie “incrostazioni irrazionali” , forse, è opportuno tenere ben aperti gli occhi dinanzi ai bagliori emessi “dalla rete dell’oro” del SOLE dell’OLIMPO (“Dalla rete dell’oro pendono - così epigrammaticamente Salvatore Quasimodo - ragni ripugnanti”). e riguardare con attenzione gli ARAZZI tessuti da Atena, da Aracne, e da Filomela (cfr. Ovidio, “Metamorfosi”: La tela di Aracne apre il libro sesto, la storia di Filomela lo chiude ... Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare).
FORSE solo così si potrà uscire dal labirinto, senza perdere il filo, senza abbandonare Arianna, e tornare ad Atene con le vele bianche - non nere!
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Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli
di Papa Francesco *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero. Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato - un’ipotesi
storica -, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16).
Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
*
PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE -Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2019 (ripresa parziale).
IL "DIO DI AMORE" DI (OVIDIO E) BRUNETTO LATINI E "L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" DI DANTE.... *
Su Brunetto Latini, “Poesie”, a cura di Stefano Carrai
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 20 marzo 2016)
Il Tesoretto di Brunetto Latini non è certamente quel misconosciuto «capolavoro della letteratura allegorica» che diceva Jauss (ma come mai lo abbiamo preso sul serio?), ma è un modo eccellente per avvicinarsi alla poesia dei primi secoli; e questa nuova edizione a cura di Stefano Carrai è un modo eccellente per avvicinarsi al Tesoretto.
Si tratta di un poemetto, 2944 versi in tutto, scritto da Brunetto Latini al principio degli anni Settanta del Duecento. È uno strano ibrido. Comincia come un racconto di viaggio (il poeta-protagonista si trova a Roncisvalle, e qui incontra uno studente bolognese che gli comunica la sconfitta dei guelfi a Montaperti), prosegue come un trattato didascalico (la Natura personificata illustra al poeta l’ordinamento del cielo e della terra), poi come un trattato morale (il poeta incontra in successione le virtù, il dio d’Amore, il poeta Ovidio), e finisce con una bizzarra ‘Penitenza’, circa 500 versi in cui Brunetto riflette sulla caducità delle cose umane ed esorta un amico a cambiare vita come lui l’ha cambiata («che sai che sén tenuti», scrive, «un poco mondanetti»); dopodiché il racconto riprende e il protagonista si trova sul monte Olimpo, dove incontra il grande Tolomeo, «maestro di storlomia». Qui il testo s’interrompe di colpo.
Al di là però del contenuto, né originale né profondo, e al di là dello stile, senza veneri (anche perché imprigionato in una gabbia metrica da filastrocca: coppie di settenari a rima baciata), il Tesoretto è un testo interessantissimo perché è davvero un repertorio di topoi immaginativi, un campione di medievalità: c’è il viaggio nella foresta, c’è un mondo fantastico all’interno del quale il personaggio-poeta può dialogare via via con la Natura, con Ovidio o con Tolomeo, ci sono le ipostasi delle virtù e delle percezioni, che pescano dall’identico immaginario da cui hanno pescato gli sceneggiatori di Inside Out (Desianza=Joy, Paura=Fear): «Desïanza ... sforza malamente / d’aver presentemente / la cosa disïata / ed è sì disvïata / che non cura d’onore / né morte né romore, / se non che la Paura / la tira ciascun’ora, / sì che non osa gire / né solo un motto dire».
Il commento di Carrai è un commento esatto e intelligente. Sembra poco, ma è tantissimo, perché i commenti alla poesia (e soprattutto alla poesia antica) sono spesso un po’ stupidi. Chi ha studiato per anni un autore o un testo non si rassegna facilmente a farsi da parte, cioè a tacere una volta chiarito ciò che nel testo c’è da chiarire, ed eventualmente a far riflettere il lettore su ciò che il testo può dire sul suo autore o sulla mentalità dell’epoca in cui venne scritto: non si rassegna, gli viene, come diceva il dottor Johnson, «la fregola di dire qualcosa anche quando non c’è nulla da dire», o peggio - e la cosa è specialmente frequente nel campo della medievistica - gli viene la fregola di trovare verità nascoste, di sciogliere gli enigmi, il che porta spesso a postulare enigmi là dove non ce ne sono, onde una ridda di ipotesi e contro-ipotesi da stancare un causidico. E poi, a riempire le pagine, valanghe di ‘riscontri intertestuali’, come se importasse qualcosa che il poeta X ha preso quella parola dal poeta Y o dal poeta Z. Carrai invece non scaraventa sul lettore tutto il contenuto delle sue schede, spiega il testo dove occorre, e dove non riesce a spiegare prospetta delle ipotesi d’interpretazione, appoggiandosi - per consentire o per dissentire - a chi del Tesoretto si è occupato prima di lui.
Al Tesoretto Carrai fa seguire, com’è consuetudine, il Favolello, che è un altro breve poemetto in settenari baciati, più pedestre nel contenuto (è uno scialbo trattatello sull’amicizia), ma interessante soprattutto perché cita come amici-destinatari due rimatori contemporanei, Rustico Filippi e Palamidesse di Bellindote. E al Favolello segue, nel volume (che appunto per questo s’intitola Poesie: è l’opera omnia in volgare italiano di Brunetto), l’unica canzone di Brunetto che ci venga tramandata dai manoscritti, S’eo son distretto, strana poesia d’amore e devozione che alcuni hanno interpretato come un documento dell’omosessualità dell’autore (con ovvi riflessi sull’interpretazione di Inferno XV) e altri, direi più plausibilmente, come canto nostalgico per la patria, Firenze, dal quale il guelfo Brunetto viene bandito dopo Montaperti.
Manca, e avrebbe invece dovuto esserci, la canzone responsiva di Bondie Dietaiuti (così, nel Medioevo, si dissolvevano le tenzoni poetiche: gli scribi copiavano i corpora personali degli autori obliterando i testi missivi e responsivi dei loro corrispondenti, che in questo modo si disperdevano; ma in un’edizione moderna non si vede perché le tenzoni non debbano essere date nella loro integrità).
Il discorso sul Tesoretto e sul Favolello non è chiuso. Sono testi facili solo all’apparenza, specie a causa delle contorsioni che il metro e lo schema delle rime impongono all’autore. Di certi hapax resta poco chiaro, nonostante lo sforzo degli interpreti, il significato. Altri termini sono ambigui (per esempio non parafraserei con ‘verità’, con Contini e Carrai, il drittura di Favolello 7 «e fàllati drittura»: ‘giustizia’, che è il senso che drittura ha usualmente, mi pare più aderente al contesto). E certi passi dovranno forse essere riconsiderati in una futura edizione critica. Per esempio, ai vv. 1275-79 tutti gli editori postulano un (credo inattestato altrove) ablativo assoluto: «E vidi ne la corte, / là dentro, fra le porte, / quattro donne reali / che corte principali / tenean ragione ed uso». Dove «corte principali» vorrebbe dire ‘nella prima corte’. Ma dato che le «donne» di cui si parla sono virtù, e che principales è l’aggettivo che nel Medioevo spesso si predica delle virtù, in genere le cardinali, ci si deve domandare se la lezione corretta non sia piuttosto, con minimo emendamento, «come principali», cioè ‘come signore, regine di quella corte di giustizia’ (e sarebbe un altro errore d’archetipo, da aggiungere a quelli registrati da Pozzi e Contini nei Poeti del Duecento).
Forse potremmo chiudere, invece, il discorso sui rapporti tra Brunetto e Dante, salvo che non saltino fuori nuovi testi che permettano di riconsiderare sotto nuova luce la questione. Questione che è nota ad ogni studente liceale: Dante mette Brunetto all’Inferno, tra i sodomiti, ma non dice nulla della sua colpa (il che sorprende fino a un certo punto, dato che non sempre Dante lo fa), né di questa colpa si parla nelle fonti che non dipendono da Dante (il che non sorprende per niente: ci si aspetta che l’omicidio o la simonia lascino traccia nelle cronache, non necessariamente le inclinazioni sessuali).
Sodomia va allora inteso figuratamente, come ‘peccato contro la propria lingua materna’ (perché Brunetto, fiorentino, ha scritto il suo Tresor in francese)? Oppure come peccato politico (perché Brunetto non avrebbe «riconosciuto la sacra autorità dell’Impero»)? Mi sembra che la soluzione proposta da Zanato e ora da Carrai resti la più sensata: dato che Brunetto ci appare in compagnia di «Prisciano, Francesco Accursio e Andrea de’ Mozzi, [cioè] del gruppo di intellettuali, perlopiù pedagoghi ed ecclesiastici, che si sono resi colpevoli di pratiche omosessuali», non c’è ragione di pensare che lui non si sia macchiato dello stesso - non metaforico - peccato.
Non andrei oltre; né speculerei, per le ragioni che ho già accennato, sulla ‘memoria’ della poesia brunettiana nel canto XV. Il poeta Brunetto non aveva niente da insegnare a Dante, perché il peggior Dante (per esempio quello un po’ lezioso di Inferno IV: «Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello...») è migliore del migliore Brunetto. E l’idea che quando Dante mette in scena un altro poeta si serva - attraverso accorte allusioni - delle parole che quel poeta ha adoperato nelle sue opere mi sembra davvero un’idea tutta nostra, un’idea da filologi moderni, che mettiamo a forza nella testa di scrittori molto meno sottili di noi.
E questo vale anche per la testimonianza che molti (anche Carrai) considerano più probante: l’avvio del canto XV, «Ora cen porta l’un de’ duri margini...», nel quale si condenserebbero «gli echi di mosse identiche del Tesoretto, vv. 1183-84 “Or va mastro Burnetto / per un sentiero stretto”, e 2181-82 “Or si ne va il maestro / per lo camino a destro”». Ma direi di no: è una formula di transizione che si trova molte volte nella poesia narrativa francese, per esempio nel Girart de Rossillon («Ere s’en vait Girarz egal solel / per un estreit sender...» (l’identica immagine del sentiero stretto che si trova in Brunetto Latini), nella chanson de toile Gaiete et Oriour («Or s’an vat Oriour stinte et marrie»), nel Macaire franco-veneto, «Ora se voit sor un corant destrer». Langue, insomma, non parole, come nella poesia medievale capita non dico sempre, ma quasi.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA VERA STORIA DEL PRESEPIO .... *
“[...] Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19). Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”.
[...] Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo - Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia. Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino...”
* Cfr. Marco Belpoliti, “La vera storia del presepio”, “Doppiozero”, 24.12.2018 (https://www.doppiozero.com/materiali/la-vera-storia-del-presepio).
“Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia” di Marco Grimaldi
Professor Grimaldi, Lei è autore del libro Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia edito da Castelvecchi: perché leggiamo ancora la Commedia? *
Leggiamo ancora la Commedia prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta. Perché Dante ha creato un mondo fantastico ma del tutto verosimile e coerente nel suo funzionamento. La leggiamo per il suo realismo: perché nella letteratura in volgare prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano sempre standardizzare, sempre uguali. Spesso erano molto efficaci, certo, ma era come se i poeti non guardassero quasi mai dal vivo la realtà. Dante, che è un uomo coltissimo, un intellettuale che conosce tanta letteratura, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo terreno, come è stato chiamato. E tutto questo lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora: perché la sua lingua è ancora la nostra lingua. Queste sono le ragioni - importantissime - che si spiegano a scuola e all’università.
Ma leggiamo la Commedia anche per altri motivi, che sono quelli che ho cercato di spiegare nel libro. La leggiamo ancora perché la Commedia ha un messaggio profondo che ancora ci interessa; perché anche oggi, quando a differenza di quanto accadeva al tempo di Dante la maggior parte di noi non crede né nell’esistenza di Dio né nella possibilità che vi sia un sistema di pene e di ricompense nell’aldilà, tutti noi abbiamo comunque un’idea di che cosa dovrebbe accadere dopo la morte. E ce l’abbiamo perché il nostro mondo morale si fonda su quelli che Kant definiva i postulati della ragion pratica: l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e il libero arbitrio.
La Commedia mette in scena questi stessi postulati: ci racconta che cosa accade dopo la morte ed è uno straordinario elogio del libero arbitrio, della piena responsabilità dell’uomo nella determinazione del proprio destino. E forse la leggiamo anche perché è un’opera scritta per cambiare la vita degli uomini: Dante ce lo dice in maniera molto chiara: il fine del poema è togliere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita e di guidarli alla felicità. Non è arte per l’arte, è arte per la vita.
Quali dei temi affrontati da Dante lo rendono contemporaneo?
Il titolo del mio libro è provocatorio, in quanto nella prima parte spiego in realtà perché Dante a mio parere non è contemporaneo. Non lo è perché crede in tutta una serie di cose che non ci appartengono più: crede che la donna sia naturalmente inferiore all’uomo, che l’omosessualità sia un peccato, che la sete di conoscenza dell’uomo debba avere dei limiti. Per questo non ha senso la prospettiva di certi studi di genere secondo i quali Dante - proprio perché è Dante - avrebbe voluto rivoluzionare il modo di concepire il comportamento della donna.
Certo, Beatrice è il personaggio più importante della Commedia. Ma è anche una donna chiusa nel suo ruolo di genere. Cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti gli uomini del suo tempo, concepiva i rapporti di genere, significa non comprendere che l’esaltazione della donna - che era già tipica della letteratura cortese - era possibile solo all’interno di quei ruoli. Dante non vuole rivoluzionare il modo di concepire i generi sessuali: vuole invece esaltare la virtù, l’umiltà e la bellezza di una donna la cui immagine tende a coincidere con quella della Vergine Maria. E in questo non c’è nulla di contemporaneo. Non ha senso tentare di avvicinare Dante alla nostra concezione dei rapporti tra i generi.
Ma in questa operazione di distanziamento non bisogna esagerare. Qualche tempo fa, a un incontro con degli insegnanti delle scuole superiori, mi è stato chiesto: “come si fa a spiegare agli studenti che l’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è una cosa completamente diversa da quello che si intende oggi?”. Ora, questa prospettiva è molto cauta, ma è giusta solo in parte. L’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è infatti lo stesso amore che intendiamo noi oggi. Lo è perché le nostre emozioni, le nostre sensazioni (il brivido che si prova davanti alla persona che si ama, il desiderio di possesso, la gelosia) sono esattamente le stesse che descrive Dante. Per questo, se si conosce un po’ di italiano antico e un po’ di storia e di filosofia del Medioevo (ed è la funzione della scuola: mettere tutti in condizione di poter leggere Dante), è così facile sentirsi coinvolti dal canto di Paolo e Francesca, che parla del momento in cui ci si innamora e dell’impossibilità di resistere al desiderio. Quello che è completamente diverso è il sistema di idee all’interno del quale Dante inserisce quella cosa che chiamiamo amore. Un sistema che condanna duramente Paolo e Francesca. Ed è questo sistema di idee che dobbiamo cercare di ricostruire noi oggi per capire Dante.
Quali soluzioni offre Dante per i mali del nostro tempo?
Dante non offre soluzioni per i mali del nostro tempo; e se a volte sembra offrirle - se qualcuno crede di poter trovare in Dante delle soluzioni - non sono soluzioni che ci piacciono. Pensiamo alle sue idee politiche, per esempio al suo modo per risolvere il problema della cupidigia. Siamo liberi di considerare Dante un predecessore delle critiche al capitale, all’accumulazione finanziaria, all’Europa delle banche. Ma quando lo facciamo dobbiamo sapere che la sua soluzione era concentrare tutto il potere e tutta la proprietà nelle mani di un imperatore assoluto che proprio perché possiede tutto non desidera nulla e mette in questo modo un freno ai desideri smodati di tutti gli altri governanti, portando così pace e serenità in tutto il mondo. Questa è una soluzione, la soluzione di Dante, ma credo che piacerebbe a pochi. Quello che deve interessarci è però che Dante aveva una soluzione per i mali del suo tempo. E ci interessa perché leggendo Dante veniamo a contatto con una idea di poesia e di letteratura che è abbastanza diversa da quella comune. Basta pensare all’ultimo Nobel per la letteratura, Bob Dylan, che quando gli è stato chiesto che cosa significano le sue canzoni ha risposto: «Non dipingetemi come un uomo con un messaggio [...] Tutto quel che posso sperare di fare è cantare quello che penso».
Dante la vede in maniera completamente diversa: lui è esattamente il contrario di Dylan, è un uomo con un messaggio. Anzi, un poeta con un messaggio. Un poeta che vuole cambiare la realtà, che vuole trasformarla, che ama, odia e si vendica dei nemici scrivendo la Commedia. Dante non canta solo per sé; Dante canta per gli altri.
Per spiegare questo aspetto uso a volte un testo di un cantautore calabrese contemporaneo, Brunori Sas, che si intitola Canzone contro la paura. All’inizio Brunori dà voce alla prima modalità, per capirci quella di Bob Dylan: «Canzoni che parlano d’amore / perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare? / Che se ti guardi intorno non c’è niente da cantare / solamente un grande vuoto che a guardarlo ti fa male / perciò sarò superficiale / ma in mezzo a questo dolore / tutto questo rancore / io canto solo per me». Poi la canzone si accende, cambia di tono (anche musicalmente) e Brunori dà spazio anche all’altra modalità (che per me è simile a quella di Dante) e immagina che cosa pensa un tu: «E invece no tu vuoi canzoni emozionanti, / che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti, / canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare / canzoni belle da restarci male». E poi ancora: «Canzoni che ti salvano la vita, / che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” / che ti danno la forza di ricominciare, / che ti tengono in piedi quando senti di crollare». Ora, è chiaro che sto giocando un po’ con le citazioni, perché ovviamente Brunori Sas non aveva in mente quello che ho in mente io. Però l’opposizione è la stessa: di solito pensiamo alla poesia come a qualcosa che parla d’amore, che parla di un vuoto che abbiamo dentro, di qualcosa che il poeta scrive soltanto per sé. Però ci sono anche poeti che scrivono per un pubblico che vuole delle cose diverse, che vuole poesie che salvano la vita, che danno la forza di ricominciare. Ecco, Dante appartiene a questa seconda categoria.
In cosa consiste la grandezza della Divina Commedia?
La grandezza della Commedia, come dicevo prima, sta nella lingua in cui è scritta (che è ancora la nostra lingua perché Dante è davvero, come abbiamo imparato a scuola, il padre della lingua italiana). La grandezza sta nel mondo possibile che Dante ha creato, un mondo nel quale tutto è fantastico (il viaggio di un uomo nell’aldilà, i suoi incontri con le anime, i diavoli, i mostri, gli angeli e alla fine la visione diretta di Dio) eppure tutto è straordinariamente reale, perché Dante è un poeta della realtà, che ci fa vedere le emozioni, la natura, che ci spiega la storia e le idee. E la grandezza sta anche nella sua idea di poesia, una poesia che cambia la realtà, che cambia gli uomini, che aiuta a vivere meglio.
Ma soprattutto, almeno per me, perché la Commedia è forse in assoluto l’opera letteraria nella quale è più esplicito quel meccanismo per il quale tutti noi tendiamo a riconoscere la nostra storia nelle storie che leggiamo cercando delle risposte, per trovare qualcosa che ci riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente. È un concetto che esprime benissimo Francesco Petrarca, quando racconta che leggendo le Confessioni di Agostino aveva l’impressione di leggere non la storia di altri «ma quella del suo proprio peregrinare». In Dante il meccanismo è più esplicito: quella che sta raccontando è la storia di un singolo uomo che vuole ritrovare sé stesso, che vuole superare il peccato e per farlo deve conoscere ciò che accade nell’aldilà. Ma è anche la storia dell’umanità intera. Dante aveva previsto che sarebbe scattato quel meccanismo di riconoscimento e scrive la Commedia sapendo che tutti i lettori futuri avrebbero ritrovato nel suo viaggio la storia del loro peregrinare, come dice Petrarca.
In una delle più belle poesie di Satura, Montale scrive: «Dicono che la mia / sia una poesia d’inappartenenza. / Ma s’era tua era di qualcuno». Montale risponde a una critica e per spiegare che la sua non è una poesia senza destinatario si rivolge a un tu, alla donna che ha amato, e le dice che proprio per aver parlato a lei la sua poesia appartiene a qualcuno, è una poesia che si spinge all’esterno, che non è ripiegata sull’interiorità del poeta. Ecco, Dante avrebbe potuto rispondere più o meno nello stesso modo - «Ma s’era tua era di qualcuno» - perché uno degli aspetti più straordinari della Commedia è che sia pensata per elogiare una donna che incarna la perfezione cui possono tendere tutti gli uomini e che questa donna occupi un posto centrale in Paradiso. La Commedia appartiene sicuramente a qualcuno perché appartiene a Beatrice. Ma avrebbe potuto rispondere anche in un altro modo, avrebbe potuto dire: «Ma s’era mia era di tutti». Perché la Commedia è la storia di Dante, ma è anche la storia di tutti noi.
* Fonte: Letture.org.
Un umanesimo integrale
Karl Marx. Pubblichiamo un’anticipazione dall’intervento per la giornata di studi del 18 ottobre, dedicata da RomaTre al filosofo di Treviri
di Donatello Santarone (il manifesto, 17.10.2018)
La tensione classica verso il pieno sviluppo della persona umana, presente in Goethe e Schiller, si scontra con la società classista del capitale. Per questo Marx si applica allo studio dell’economia borghese e alla critica della sua presunta naturalità ed eternità. «Tutta questa merda», scriverà ad Engels a proposito dell’economia politica. Comprende lucidamente che solo il superamento del regime della proprietà privata borghese, che determina la miseria materiale e spirituale dei lavoratori, potrà consentire a questi ultimi di riappropriarsi della grande tradizione classica. La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro doveva servire proprio a questo, a restituire ai produttori associati tempo e mente per fruire dei più alti prodotti dello spirito.
L’ALTA CONSIDERAZIONE che Marx aveva nei confronti della letteratura traspare in tanti luoghi della sua produzione. Le opere degli scrittori prediletti si depositano nelle sue pagine e gli offrono tipi, rappresentazioni, analogie, metafore, luoghi, linguaggi che entrano in maniera organica nelle sue analisi economiche, storiche, politiche, filosofiche.
«Marx - ha scritto Franz Mehring nella sua biografia - trovava ristoro e sollievo nella letteratura. Come il suo capolavoro scientifico rispecchia tutta un’epoca, così anche i suoi autori preferiti erano quei grandi poeti mondiali delle cui creazioni si può dire la stessa cosa: da Eschilo e Omero fino a Dante, Shakespeare, Cervantes e Goethe. Ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale; restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che avrebbero voluto togliere agli operai l’interesse per la cultura antica». Le parole di Mehring sono la migliore spiegazione del carattere umanistico della personalità di Marx.
Nel Manifesto del partito comunista troviamo ad esempio, in un famoso e profetico passo sulla globalizzazione del capitale, un esplicito riferimento ad uno dei poeti più amati da Marx, cioè Goethe, e alla sua nozione di letteratura mondiale. «Mi convinco sempre di più - scrive l’autore del Faust - che la poesia è un patrimonio comune dell’umanità e si manifesta, ovunque e in tutti i tempi, in centinaia e centinaia di individui Oggigiorno letteratura nazionale non vuol dir molto, sta arrivando il tempo della letteratura mondiale e ciascuno di noi deve contribuire al suo rapido avvento».
QUESTE PAROLE di Goethe del 1827, nel loro innovativo cosmopolitismo interculturale affermano l’ideale della poesia-mondo. Goethe, infatti, ha sempre avuto una costante frequentazione, oltre che con le letterature francese, inglese e italiana (ricordiamo la sua grande ammirazione per Tasso e Manzoni), anche per le letterature persiana, araba e cinese. Il Divano occidentale-orientale, composto di poesie ispirate a Hafez, un poeta persiano sufi del XIV secolo, ne è l’emblema. Non è un caso se oggi l’Orchestra giovanile di israeliani, palestinesi e musicisti dei paesi arabi voluta da Edward Said e Daniel Barenboim prende il nome dal libro di Goethe.
PER DARE CARNE E SANGUE alle sue analisi Marx ha bisogno della parola letteraria, la quale conferisce ai suoi scritti una forma preziosa e colta, una solidità estetica di tipo classico. Ne era così convinto che decide di terminare la Prefazione alla prima edizione tedesca del Capitale con un verso di Dante, un verso che era «la sua massima favorita»: «Sarà per me benvenuto - scrive Marx - ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!». Dove Marx in verità modifica l’originale di Dante, il quale, nel quinto canto del Purgatorio, scrive: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti».
Sentiva un’affinità profonda con l’autore della Divina Commedia, in particolare per la comune e ingiusta condizione di esuli.
COME PER TUTTI gli scrittori a lui cari, anche nei confronti di Dante l’atteggiamento di Marx non è quello del borioso accademico, ma quello di chi «usa» i classici per leggere il presente e cercare in essi una risposta alle domande del mondo contemporaneo. «Quando ci si pone la questione - ha detto il poeta e saggista Franco Fortini - se Dante conserva o no il suo mondo per noi dobbiamo chiederci l’inverso: in che misura il nostro mondo può essere, per dir così, dantizzato in qualche modo».
UN ESEMPIO di questa «dantizzazione» è nella dura polemica che il filosofo tedesco ingaggia, in un testo del 1853, contro il giornale conservatore Times che in uno dei suoi articoli se la prende con i rifugiati in Inghilterra accusati di essere «individui feroci», «rotti a ogni delitto». Non dimentichiamo che Marx era uno di questi rifugiati a cui l’Inghilterra non concesse mai la cittadinanza dell’Impero britannico, costringendolo per tutta la vita ad una condizione di apolide. In questo articolo contro il Times, esempio della brillante e caustica polemica giornalistica di Marx, un posto di prim’ordine spetta proprio a Dante esiliato da Firenze ma fortunatamente risparmiato da un attacco del Times!
Così Dante Alighieri entrò nel Pantheon di Mao Zedong
La fortuna della "Divina Commedia" a Pechino: parla l’italianista Wen Zheng
Nato a Pechino nel 1974, Wen Zheng è docente di lingua e letteratura italiana all’Università di Studi Internazionali di Pechino (BFSU) e ha tradotto in cinese, fra gli altri, Boccaccio, Calvino ed Eco. A Ravenna interverrà mercoledì 12 settembre
Intervista di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 10.09.2018)
Per la neonata Cina comunista, Dante Alighieri rappresentò un vessillo ideologico e culturale. Formula quest’affermazione, che ai non-esperti richiede un salto acrobatico di prospettive geografiche e temporali, il grande italianista cinese Wen Zheng, il quale esporrà la tesi nel corso di un intervento su «Dante e le sue opere in Cina» dopodomani a Ravenna, in apertura della manifestazione "Dante2021".
Nato a Pechino nel 1974, Wen Zheng è docente di lingua e letteratura italiana all’Università di Studi Internazionali di Pechino e ha tradotto in cinese Boccaccio, Calvino ed Eco. In un libro su Lu Xun (1881-1936), fondatore della lingua cinese moderna, Wen Zheng dimostra come, anche attraverso la diffusione che ne fece Lu Xun, Dante sia entrato nel pensiero cinese d’inizio Novecento. Wen Zheng accetta di anticipare da Pechino i punti-chiave della sua conferenza.
Può spiegare il ruolo di Lu Xun nella letteratura cinese moderna e il suo nesso con Dante?
«Lu Xun è stato un sommo scrittore. Dalla fine dell’Impero al conflitto cino-giapponese e alle guerre civili che portarono alla Repubblica popolare, visse momenti cruciali della nostra storia e seppe trasformarli in vicende allegoriche. Ma soprattutto nel Diario di un pazzo, 1918, usò il cinese volgare detto baihua rigettando per la prima volta la lingua classica, così come a suo tempo Dante abbandonò il latino per la lingua volgare».
Si nutre di quest’analogia la relazione di Lu Xun con l’autore della "Commedia"?
«Sì. Nel saggio Sulla forza della poesia di Mára, Lu Xun esalta i poeti del romanticismo europeo e indica la centralità di Dante nella cultura italiana. Proprio mentre la Cina stava cercando una nuova identità, Lu Xun esprimeva l’idea che la creazione della lingua italiana da parte di Dante avesse costruito l’anima stessa del suo popolo».
È in quest’ottica che Dante condiziona la Cina del primo Novecento?
«Esatto. All’alba del secolo gli intellettuali cinesi cominciano a occuparsi del pensiero politico di Dante e del suo vigoroso spirito riformatore. Oltre a Lu Xun, coglie spunti da Dante lo scrittore Hu Shi (1891-1962), di posizione politica opposta rispetto a Lu Xun (Hu Shi emigrò negli Usa). In Proposte per la riforma della letteratura, del 1917, Hu Shi sostiene che la Cina, imitando l’Italia del quattordicesimo secolo, dovrebbe adottare la lingua volgare e generare un corpus di opere vive contro la letteratura classica ormai morta. Il suo riferimento è l’opera di Dante De vulgari eloquentia ».
Lu Xun fu il solo scrittore legittimo durante la Rivoluzione culturale. Perché?
«Era in linea con le concezioni di Mao Zedong, che in Discorsi su Lu Xun, del 1937, manifestava un pieno apprezzamento nei suoi confronti. La stima di Mao lo rese il grande letterato del proletariato cinese e si diceva che le sue opere fossero "un giavellotto e un pugnale lanciati verso i nemici". Oggi è stato ridimensionato il giudizio su di lui. Un tempo Lu Xun era un antidoto necessario contro le resistenze verso il sistema, ma nella società contemporanea il clima è cambiato e non ce n’è più bisogno».
Dante è conosciuto in Cina?
«Da fine Ottocento si è parlato di lui in libri cinesi ed è entrato nei nostri orizzonti. Sia la rivoluzione borghese del 1898, che portò al crollo della monarchia feudale, sia il "Movimento della nuova cultura del 4 Maggio del 1919", hanno tratto da Dante un supporto fondamentale. Sembra incredibile che un poeta occidentale abbia influito su un remoto Paese orientale cinque o sei secoli dopo essere morto, ma è successo. Tuttavia nel primo quarantennio del Novecento nessun cinese aveva letto La Divina Commedia per intero».
Non circolavano traduzioni complete?
«No. Nel 1921 Qian Daosun (1887-1966) tradusse i primi tre canti dell’Inferno per il Mensile di narrativa e in seguito propose in cinese altri due canti, apparsi nel ’29 insieme ai primi tre sulla rivista Rassegna critica. Usò lo schema metrico dei Canti di Chu di oltre 2200 anni fa, e sebbene la sua traduzione si sia applicata solo su cinque canti è considerata a tutt’oggi la migliore. Due versioni intere uscirono negli anni Quaranta, una in prosa e l’altra in poesia moderna, senza rime. -Con la nascita della Cina comunista (1949), la fama di Dante s’intensificò grazie a Friedrich Engels, che nella prefazione italiana al Manifesto del Partito Comunista lo aveva definito l’ultimo poeta medioevale e il primo della modernità, e questa valutazione è riportata nel manuale di Storia dei nostri licei.
In Cina La Divina Commedia è stata vista come simbolo di abbattimento del feudalesimo ed esaltazione di unità nazionale: Dante riflette gli interessi del popolo e svela i crimini della vecchia macchina statale. Alla fine della Rivoluzione culturale sono riprese le traduzioni e una delle più notevoli è stata quella che della Commedia fece Tian Dewang (1909-2000), che all’impresa votò gli ultimi diciott’anni della sua vita».
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE".
L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al doloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
ANTROPOLOGIA E ANTROPOLOGIA RELIGIOSA.
LA POTENZA DEL DE-SIDER-IO. NOI SIAMO I FIGLI E LE FIGLIE DEL SOLE, I FIGLI E LE FIGLIE DELLE STELLE. ... *
ANTICHI RITORNI
Stelle cadenti? ’Lacrime’ sì... ma non del genere che credete
Perché agli astri è connesso il ’desiderium’. A ben guardare la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’.
di Alba Subrizio *
Mi perdoneranno i nostri lettori se ho deciso di riproporvi un articolo del nostro blog di qualche anno fa, ma la data (il 12 agosto) ’obbliga’ a parlarne. Sono queste, infatti, le sere in cui siamo tutti con il naso all’insù per vedere di cogliere qualche stella cadente; innamorati, scaramantici, speranzosi o scettici che siano semplicemente desiderosi di osservare il fenomeno astrale, tutti sperano di carpire almeno una delle scie luminose che attraversano la volta celeste in queste calde notti estive.
Non è un caso che alla ‘caduta’ di una stella sia connesso l’esprimere un desiderio, se è vero - come è vero - che il concetto di ‘desiderio’, in quanto brama di qualcosa, è intrinsecamente ed etimologicamente connesso agli astri, dal momento che la parola latina “desiderium” deriva dalla preposizione de (indicante movimento dall’alto verso il basso) + sidus, sideris (ossia “stella”, “astro”), ossia il desiderio è propriamente “ciò che viene dalle stelle”.
Si è soliti pertanto, nella cultura odierna, confessare i propri sogni alla volta celeste, sperando che questi presto o tardi possano avverarsi. Si tratta del fenomeno delle Perseidi, lo sciame meteoritico, così chiamato perché gravitante nella costellazione di Perseo, che ogni anno, orbitando intorno al sole dal 10 al 20 agosto (con picco il 12), è visibile dalla Terra. Nella cultura cristiana e popolare tale ‘sciame’ è noto anche come lacrime di San Lorenzo, dal nome del santo martirizzato sulla graticola, che si festeggia in tale data.
A ben guardare però la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’. Ebbene, è da premettere che il mese di Augustus, dedicato appunto all’imperatore Ottaviano Augusto, è uno dei mesi dove si celebravano la maggior parte delle feste legate al mondo agricolo, alla coltivazione dei campi, alle fertilità dunque; feste che spesso erano accompagnate da processioni durante le quali aveva luogo la cosiddetta “fescennina iocatio”, ovvero la ‘facezia fescennina’. I fescennini erano, difatti, dei versi mordaci a sapore volgare ed erotico che alludevano al “fascinum”, termine che nella lingua latina aveva una certa ambivalenza, poiché significava sia “malocchio” (da cui il nostro ‘fascinatura’) sia “membro virile”; non è un caso che ad essere portato in processione era l’enorme fallo del dio Priapo.
Orbene, i nostri antenati romani associavano il fenomeno astrale del passaggio delle Perseidi a ben altro genere di ‘lacrime’, o per meglio dire ‘gocce’: quelle dovute alla eiaculazione del seme del dio della fertilità. E voi, ce l’avete un desiderio irrealizzabile? Provate magari a pregare Priapo e a sperare di vederne il seme.
Alba Subrizio
Biografia: «E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama...». Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico... che fanno bene anche oggi.
* Il Mattino di Foggia, 12/08/2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA.
di Giorgio Agnisola («Avvenire», 24 luglio 2018)
I1 titolo, peraltro suggestivo, dell’ultimo libro di Aldo Masullo, L’Arcisenso, può far supporre una disamina attorno ai disperanti sensi dell’incomunicabilità. In realtà il novantaseienne filosofo italiano declina nella sua opera una differente definizione della solitudine, essendo al centro della sua riflessione i concetti di relazione e intersoggettività, da sempre suoi luoghi di approfondita indagine. Nello specifico il libro raccoglie scritti di epoche differenti opportunamente rivisti, puntando l’autore, in definitiva, a una sintesi del suo pensiero.
In principio Masullo pone il significato di "paticità". Essa muove, secondo il filosofo, ogni atto e sentire umani. «Nulla si compie, nulla avviene nella coscienza se non nel segno del patire». In questo senso gioia e dolore sono facce di una stessa essenza umana; «sicché questo patire, diciamo sentire profondamente implicato col sentirsi, con il sensus sui, è unico e inviolabile. Io posso dire al mio simile ciò che penso, posso spiegarmi e spiegare, posso in sostanza comunicare, ma non posso trasmettere a chi mi ascolta, pur desiderandolo, il mio personale sentire». «Toccare un altro non è toccarlo ma sentirsi mentre lo si tocca».
In sostanza non si esiste, scrive Masullo, se non si sente di esistere, ma il sentire dell’altro mai io posso sentirlo. Il mio sentire resta incomunicabile, ostinatamente e imprescindibilmente legato al mio sé: dunque «Il sentir-si, l’Arcisenso, è l’Intoccabile».
Da qui la solitudine di leopardiana memoria (a Leopardi l’autore dedica un affascinante capitolo), il sentire la solitudine del sentirsi. Che non è dunque solo una condizione dello spirito, ma anche un’esperienza del corpo. L’attitudine morale e lo stesso valore della politica, afferma Masullo, derivano da questo principio. Ora questa solitudine può condurre al male, può corrompersi nell’odio e cedere alla castrante paura dell’intimità. Ma può essere una preziosa chance.
La solitudine infatti, scrive ancora il filosofo, può dirsi in definitiva una condizione positiva della natura umana, giacché dalla solitudine deriva il bisogno di comunicare, di cercare strategie di convivenza, di operare nel sociale, di condividere.
Con questa premessa Masullo rilegge temi fondanti della filosofia contemporanea, come il relativismo, a cui assegna un valore politico. Il relativismo, afferma il filosofo, viene sovente letto in termini negativi. Viceversa «è proprio dalla certezza del relativo che può nascere la volontà, il bisogno di una strategia di adattamento e di mediazione».
Il conclusivo capitolo del libro dal titolo «Nei labirinti della soggettività» ha un valore emblematico. In esso il filosofo recupera la storia della sua ricerca in una prospettiva autobiografica. Sembrerebbe un capitolo eccentrico rispetto al contesto dell’opera. In realtà scorrendolo si comprende che esso fa da legante al testo, in qualche misura ne spiega i nessi, tra tema e tema, e li riassume nel profondo della straordinaria storia umana del maestro.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Questione antropologica
IL PROGRAMMA DI KANT. DIFFERENZA SESSUALE E BISESSUALITA’ PSICHICA: UN NUOVO SOGGETTO, E LA NECESSITA’ DI "UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA".
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
LE ILLUSIONI DEL "CERCHIO INCANTATO" E ... LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") *
Johannes Keplero
Com’è armonico il mondo
Cade quest’anno l’anniversario della scoperta della terza legge dei moti planetari. Ma il senso delle sue opere era proclamare la gloria di Dio studiando la natura
di Franco Giudice (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.07.2018)
I libri, si sa, vanno quasi sempre incontro a un destino che si cura assai poco delle intenzioni di chi li ha scritti. Una volta pubblicati, prendono la loro strada e finiscono irrimediabilmente in balìa dei lettori, che se ne appropriano spesso in modo selettivo. Non stupisce quindi che l’Harmonice mundi (1619) di Johannes Keplero sia oggi ricordata soltanto perché vi si trova esposta la terza legge dei moti planetari, di cui proprio quest’anno ricorre il quarto centenario della sua scoperta, avvenuta il 15 maggio 1618. Esattamente come la sua opera precedente, l’Astronomia nova (1609), è nota per l’enunciazione delle prime due leggi, quelle cioè che stabiliscono che i pianeti si muovono lungo orbite ellittiche e che con i loro raggi condotti verso il Sole descrivono aree uguali in tempi uguali.
Sembra insomma che il senso e il valore delle opere di Keplero siano compendiati nelle tre leggi che portano il suo nome e che tutti abbiamo imparato a scuola. Come se fosse irrilevante che il loro autore le avesse invece originariamente concepite per altre e ben più elevate ragioni: proclamare la gloria di Dio attraverso lo studio della natura.
Un destino un po’ beffardo, non c’è che dire. Ma di cui forse Keplero non si sarebbe rammaricato più di tanto, poiché da buon protestante, che da giovane voleva diventare un pastore luterano, lo avrebbe interpretato come l’esito del disegno imperscrutabile della volontà divina.
Sono tuttavia convinto che una lettura così riduttiva delle sue opere, oltre a essere decisamente anacronistica, ne trascuri l’imprescindibile retroterra spirituale. Ma questo dipende anche, e soprattutto, dal diverso punto di vista che distingue lo storico della scienza dallo scienziato di professione.
Se è vero infatti che Keplero fu uno degli astronomi più dotati che la storia abbia mai conosciuto, lo è altrettanto che a guidare gli sviluppi delle sue ricerche fu sempre una profonda devozione religiosa. Che emerge fin dal Mysterium cosmographicum (1596), la sua prima pubblicazione, dove dimostrava con estrema audacia come la necessità del sistema copernicano scaturisse direttamente da Dio, che aveva creato l’universo attraverso l’armonia dei cinque solidi regolari della geometria euclidea. E che prorompe come un’esigenza insopprimibile anche dalle pagine dell’Harmonice mundi che annunciano la scoperta della terza legge dei moti planetari.
Era appunto il 15 maggio 1618. Un giorno memorabile per Keplero, che stava finendo di scrivere il libro, gran parte del quale era già in corso di stampa. Aveva aspettato questo momento per ben ventidue anni, e ora un’illuminazione improvvisa dissolveva le tenebre dalla sua mente, facendogli perfino temere di essere vittima di un sogno. Ma non c’erano dubbi: «È cosa certissima ed esattissima che il rapporto che esiste tra i tempi periodici di due pianeti qualsiasi è precisamente nel rapporto della potenza 3/2 delle loro distanze medie». Ovvero, nella formulazione più usuale, il rapporto tra i quadrati del periodo di rivoluzione di due pianeti è uguale a quello tra i cubi della loro distanza media dal Sole.
La scoperta della relazione tra le distanze e i periodi dei pianeti si era dunque rivelata a Keplero proprio mentre stava ultimando l’opera che considerava il culmine della sua carriera scientifica. Un fatto che lo aveva letteralmente mandato in estasi, in preda a un «sacro furore», al punto che non gli importava se a leggerla sarebbero stati i suoi contemporanei o i posteri. Poteva benissimo aspettare cent’anni i suoi lettori, «se Dio stesso aveva atteso seimila anni il Suo contemplatore».
Eppure, per quanto strano possa sembrare, soprattutto di fronte ad affermazioni così entusiastiche, questa legge non gioca affatto un ruolo centrale nell’astronomia dell’Harmonice mundi. Per Keplero, quella che noi chiamiamo «terza legge» - ma che lui, al pari delle altre due, non definì mai in tali termini, né tanto meno le diede alcuna numerazione - esprimeva semplicemente uno dei tanti rapporti celesti riscontrabili nell’armonia dell’universo. Un’armonia inoltre che rispecchiava i principi della consonanza musicale, che indicava lo stretto legame tra Dio e la sua creazione, e che si poteva scorgere in ogni parte del cosmo. Un’armonia infine che si trovava impressa come un archetipo negli esseri umani, i quali, essendo plasmati a immagine di Dio, erano quindi in grado di apprezzarla, anche se ignoravano le proporzioni geometriche da cui essa discendeva.
L’idea di scrivere sull’armonia universale risaliva al 1599. A incoraggiare Keplero nell’impresa aveva contribuito anche la recente lettura dell’Armonica dell’astronomo alessandrino Tolomeo, che confermava la sua convinzione che il cosmo fosse governato da un’armonia musicale. Ai suoi occhi, tutto ciò non poteva essere soltanto un caso: se la segreta natura dell’universo si andava rivelando a due uomini separati da una distanza di quindici secoli, voleva dire che «c’era il dito di Dio». Può darsi. Sta di fatto che durante i vent’anni in cui Keplero inseguì il suo progetto, la vita gli aveva fornito ben pochi segni di una divinità armonica e benevola.
Certo, i dieci anni trascorsi a Praga, dove nel 1601 era succeduto al grande astronomo danese Tycho Brahe nel ruolo di matematico dell’imperatore Rodolfo II, furono alquanto sereni e tra i più fecondi della sua attività scientifica, facendogli ottenere importantissimi risultati nel campo dell’astronomia e dell’ottica. Ma prima e dopo, era stato tutto un susseguirsi di incredibili tragedie personali e professionali. Il 1599, proprio l’anno in cui concepì l’idea dell’Harmonice mundi, coincise con la prematura scomparsa della sua secondogenita, che aveva soltanto trentacinque giorni. Nel 1611, quando la situazione politico-religiosa a Praga lo aveva costretto a trasferirsi a Linz, aveva assistito impotente alla morte di un altro suo figlio e della prima moglie Barbara. Tra il 1617 e il 1618, in poco meno di sei mesi, aveva perso i due bambini avuti dalla seconda moglie Susanna. Come se non bastasse, nel 1615 la madre Katharina era stata accusata di stregoneria e Keplero dovette assumerne la difesa legale per i successivi sei anni.
L’Harmonice mundi fu completata il 27 maggio 1618, dodici giorni dopo la scoperta della terza legge. La sua famiglia era stata letteralmente decimata e il mondo che lo circondava stava precipitando nel disordine. Ma da uomo dalla fede incrollabile, Keplero vedeva nell’armonia celeste la più alta manifestazione della saggezza di Dio. E dedicava l’opera a Giacomo I Stuart, nella speranza che il sovrano che aveva riunito le tre corone d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, potesse usare gli esempi della gloriosa armonia di cui Dio aveva dotato la sua creazione per portare altrettanta armonia e pace tra le chiese divise. Si trattava però di una pia illusione: soltanto quattro giorni prima, il 23 maggio 1618, la rivolta boema con la celebre defenestrazione di Praga segnava l’inizio della guerra dei Trent’anni, una delle più lunghe e sanguinose della storia europea.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PIAZZA SAN PIETRO: LA "TEOLOGIA" DELL’ELLISSE (DEI "DUE SOLI") E LE ILLUSIONI DELLA "TEOLOGIA" DEL "CERCHIO INCANTATO" (DELLA SCOLASTICA "CATTOLICA" E DELLA "SAPIENZA" RATZINGERIANA). IL DARSI DELLE COSE: LA LEZIONE DI HUSSERL.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
LA LEZIONE DI DANTE. Nella Commedia i primi principi della Costituzione
... e l’Italia uscì a riveder le stelle
Nella Divina Commedia le indicazioni per la Costituzione nata dalla Resistenza
di Giovanni Maria Flick (La Stampa, 27.05.2018)
Per aprire la mia riflessione sulla Costituzione, nel ricordo e nella celebrazione di Dante, ho preso in prestito dalla Divina Commedia una delle espressioni che più mi hanno affascinato e mi sono rimaste impresse nelle letture liceali di essa. Non saprei trovarne altra più adatta - per ricordare il percorso del nostro Paese dalla guerra perduta a quella civile, alla Resistenza e alla Liberazione, alla Repubblica e alla Costituzione - della descrizione del passaggio anche fisico del poeta dall’emisfero boreale a quello australe.
Lasciare la voragine dell’Inferno pietrificato dall’odio, dalla disperazione, dalla solitudine nella folla, dal frastuono caotico, dal gelo luciferino, dalle tenebre, per giungere alla serenità e alla luce nell’ascesa alla montagna del Purgatorio, ai suoi cieli azzurri preludio alla luminosità del Paradiso, all’erba e ai fiori, al «chiaro mondo» e a «le cose belle», alla solidarietà e all’amicizia, alla pena come strumento per la beatitudine e non come costrizione. Tale è - a differenza delle tradizioni dell’epoca, secondo cui il Purgatorio è un Inferno a termine - l’immagine del Purgatorio che ci propone Dante: una comunità in un paesaggio terrestre ma governato da leggi non terrestri; una realtà che è espressa dal poeta in modo più musicale, meno figurativo dell’Inferno e richiama i ritmi naturali dell’esistenza, il ciclo delle stagioni.
La sequenza dalla dichiarazione stolta della guerra nel 1940 (per sedere con qualche migliaio di morti al tavolo della pace) alla disfatta nel 1943; alla lotta fratricida oltre che contro il nazista invasore; alla Resistenza nel 1943 e alla Liberazione nel 1945; alla scelta repubblicana e alla scrittura della Costituzione con il referendum del 1946; alla ricostruzione delle pietre e dei valori del nostro Paese (dopo lo smarrimento della «diritta via» nella «selva oscura» del Ventennio fascista, culminato nel 1938 con la imitazione servile delle leggi razziali naziste). Forse non sono esattamente la stessa cosa dell’Inferno e del Purgatorio danteschi; ma certo vi si avvicinano molto.
Perciò è giusto rendere omaggio a Dante per questo contributo - profetico e preciso, quanto di necessità inconsapevole - alla ricostruzione di quel particolare periodo del nostro passato e alla riflessione odierna sulla Costituzione italiana, a settant’anni dalla sua nascita e a poca distanza dalla sua riconferma nel 2016, con il No a larga maggioranza in occasione dell’ultima proposta di referendum per una sua riforma radicale.
Beninteso, le indicazioni «costituzionali» che possono trarsi dalla lettura della Divina Commedia sono anche altre, sia di carattere generale sia specifico.
Basta pensare, ad esempio, alla definizione primitiva ma attuale dei beni comuni: «com’esser puote ch’un bene, distribuito in più posseditor, faccia più ricchi di sé, che se da pochi è posseduto?». Se il significato di bene comune è stato colto così bene da Dante nel 1300, «com’esser puote» che incontri difficoltà di comprensione nel 2018 di fronte a una serie sempre più estesa (e sempre più minacciata nella sua esistenza) di beni comuni (destinati cioè alla fruizione da parte di tutti e non solo da parte del loro proprietario pubblico e privato o di chi paga un biglietto?).
Basta pensare alle perle di saggezza - che in realtà racchiudono e sintetizzano interi commentari sull’arte di legiferare, da troppo tempo dimenticata - proposte del poeta: «le leggi son ma chi pon mano ad esse?» (Purgatorio, canto XVI, 97); o ancora, a proposito della dichiarazione di Giustiniano imperatore «per voler del primo amore ch’i sento, d’entro le leggi trassi il troppo e il vano» (Paradiso, canto VI, 12), che dovrebbe costituire l’ambizione e l’impegno di qualsiasi aspirante legislatore sia costituente sia ordinario.
Basta pensare infine alla differenza, sottolineata da Dante, tra la giustizia umana distributiva e quella divina: alla «lagrimetta» di Buonconte da Montefeltro (Purgatorio, canto V, 91-129) grazie alla quale l’angelo di Dio priva il diavolo della sua preda, da lui attesa per i trascorsi di vita del morente, che vengono superati e annullati dal pentimento finale di quest’ultimo.
La molteplicità degli aspetti posti in evidenza da Dante, nel descrivere il suo percorso poetico e umano, non consente ulteriori richiami in questa sede, oltre ai pochi accennati dianzi. Questi ultimi, ma in realtà tutto il resto, suggeriscono un filo rosso e una guida nella lettura della nostra Costituzione, di fronte alla vicenda di un grandissimo personaggio, che propone all’attenzione del giurista e del politico nella Divina Commedia un poema non solo autobiografico (il suo conservatorismo, la sua dignità e la sua rigidità, la sua posizione di protagonista e di vittima in quello scontro tra Guelfi e Ghibellini e tra Bianchi e Neri, che ripropone in miniatura temi tuttora presenti nella quotidianità e lotta politica del nostro paese). È soprattutto un poema civile ed etico.
È un poema di denunzia e di protesta contro l’ingiustizia, la corruzione, la degenerazione del potere che non conosce e rifiuta qualsiasi limite, le deviazioni della finanza e del mercato, l’avidità del guadagno, l’orgoglio e l’ostentazione della ricchezza conquistata, l’ipocrisia; quest’ultima considerata da Dante il peccato più grave, l’espressione della malvagità sotto apparenza di bontà, il parlare in modo reticente.
È emblematica in questo senso l’enciclopedia delle passioni umane descritte attraverso l’elencazione e l’esemplificazione dei sette vizi capitali, nel Purgatorio: la superbia, l’invidia, l’ira, l’accidia, l’avarizia, la gola, la lussuria. V’è ben più di quanto basta per agevolare, seguendo questo filo rosso e questa guida, una riflessione e un bilancio sulla nostra Costituzione nei suoi primi settant’anni di vita.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"DUE SOLI" IN TERRA, E UN SOLO SOLE IN CIELO: "TRE SOLI". GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO, MA ANCHE ... ANTROPOLOGICO!!!
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS". Un invito alla lettura
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
NUOVO REALISMO (E "GAIA SCIENZA"): LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
Due secoli di Marx
Un dio chiamato Capitale
Non è stata l’economia politica il cuore della rivoluzione del grande pensatore. Ma l’Economico come categoria dello spirito. La vera potenza che mette all’opera il mondo
di Massimo Cacciari (l’Espresso, 29.04.2018)
Tacete economisti e sociologi in munere alieno. Marx non è affare vostro, o soltanto di quelli di voi che ne comprendano la grandezza filosofica, anzi: teologico-filosofica. Marx sta tra i pensatori che riflettono sul destino dell’Occidente, tra gli ultimi a osare di affrontarne il senso della storia. In questo è paragonabile forse soltanto a Nietzsche. Ma “Il Capitale”, si dirà? Non è l’economia politica al centro della sua opera? No; è la critica dell’economia politica. Che vuol dire? Che l’Economico vale per Marx come figura dello Spirito, come espressione della nuova potenza che lo incarna nel mondo contemporaneo. L’Economico è per Marx ciò che sarà la Tecnica per Heidegger: l’energia che informa di sé ogni forma di vita, che determina il Sistema complessivo delle relazioni sociali e politiche, che fa nascere un nuovo tipo di uomo. Nessuna struttura cui si aggiungerebbe una sovra-struttura a mo’ di inessenziale complemento - l’Economico è immanente in tutte le forme in cui l’agire e il pensare si determinano; ognuna di esse è parte necessaria dell’intero.
Marx è pensatore del Tutto, perfettamente fedele in questo al suo maestro Hegel. Il Sistema è più delle parti, irriducibile alla loro somma. Chi intende l’Economico come una struttura a sé, autonoma, che determinerebbe meccanicisticamente le altre, non ha capito nulla di Marx. Marx non è pensatore astratto, e cioè non astrae mai l’Economico dall’intero sistema delle relazioni sociali, culturali, politiche.
La sua domanda è: quale potenza oggi governa l’Intero e come concretamente essa si esprime in ogni elemento dell’Intero? L’Economico è infinitamente più che Economico. Esso rappresenta nel contemporaneo la potenza che mette all’opera il mondo.
Il mondo della “morte di Dio”. Ogni opera deve essere valutata sul metro del lavoro produttivo di ricchezza e ogni uomo messo al lavoro per questo fine. Non è concesso “ozio”; nessuno può essere “lasciato in pace”. Il processo stesso di specializzazione del lavoro viene compreso in questo grandioso processo: più avanza la forma specialistica del lavoro, più l’Opera appare complessiva e distende il proprio spirito sull’intero pianeta; più il lavoro appare diviso, più in realtà esso funziona come un unico Sistema, dove ogni membro coopera, ne sia o meno consapevole, al fine universale dell’accumulazione e riproduzione. Fine che si realizza soltanto se al lavoro è posto prioritariamente il cervello umano. La vera forza del lavoro sta infatti nell’intelligenza che scopre, inventa, innova. La differenza tra teoretico e pratico si annulla nella potenza del cervello sociale, Intelletto Agente dell’intero genere, che si articola in lavori speciali soltanto per accrescere sempre più la propria universale potenza.
Per Marx è questo il “nuovo mondo” che il sistema di produzione capitalistico crea, non certo dal nulla, ma certo sconvolgendo dalle radici forme di vita e relazioni sociali, insomma: l’ethos dell’Occidente, la “sede” in cui l’Occidente aveva ino ad allora abitato È il mondo dove il Logos della forma-merce si incarna in ogni aspetto della vita, per diventarne la religione stessa. E Marx ne esalta l’impeto rivoluzionario. È questo impeto che per lui va seguito, al suo interno è necessario collocarsi per comprenderne le contraddizioni e prevederne scientificamente l’aporia, e cioè dove la strada che esso ha aperto è destinata a interrompersi - per il salto a un altro mondo. Qui bisogna intendere bene: la contraddizione non viene da fuori, da qualcosa che sia “straniero” al Sistema.
Contraddittorio in sé è il capitalismo stesso. Il capitalismo è crisi, è fatto di crisi. Funziona per salti, che ogni volta mettono inevitabilmente in discussione gli equilibri raggiunti. Non vi è riproduzione senza innovazione. Questo è noto anche agli economisti.
Ma Marx aggiunge: il capitalismo è crisi perché si costituisce nella lotta tra soggetti antagonisti. Il capitale è la lotta tra capitalisti e classe operaia. In quanto forza-lavoro la classe operaia è elemento essenziale del capitale stesso - ma quell’elemento che ha la possibilità di assumere coscienza di sé e lottare contro la classe che detiene l’egemonia sull’intero processo, che lo governa per il proprio profitto, metro del proprio stesso potere.
È anche e soprattutto in forza di questa intrinseca contraddizione che il capitalismo è innovazione continua, produzione di merci sempre nuove e produzione del loro stesso consumo (la produzione più importante, quest’ultima, dice Marx). Tuttavia, ecco la metamorfosi: proprio diventando cosciente di questa sua funzione la forza-lavoro si fa soggetto autonomo rispetto al capitale, autonomo rispetto al carattere rivoluzionario di quest’ultimo. La lotta di classe di cui parla Marx è lotta tra rivoluzionari. Vera guerra civile.
Questa contraddizione muove tutto. E ognuno è imbarcato in essa. L’idea di poterne giudicare “dall’alto” costituisce per l’appunto quella ideologia, che Marx sottopone a critica in dalle prime opere. Se la realtà dell’epoca è contraddizione inscindibilmente economica e politica, ogni interpretazione che la riduca a fatti naturalisticamente analizzabili la mistifica. Non è possibile cogliere la realtà del Sistema che collocandosi in esso, e dunque collocandosi nella contraddizione. Soltanto in questa prospettiva l’Intero è afferrabile. Non si comprende la realtà del presente se non in prospettiva e perciò a partire da un punto di vista determinato. Impossibile oggi un sapere astrattamente neutrale. La pretesa all’avalutatività è falsamente scientifica; l’epoca costringe a prender-parte, all’aut-aut. A porsi in gioco, alla scommessa anche. Il momento, o il kairòs, della decisione politica viene cosi a far parte della stessa potenza dell’Economico, resta immanente in essa.
È l’ideologia propria del pensiero liberale, per Marx, che cerca di convincere a una visione de-politicizzante dell’Economico, a separare Economico e Politico, conferendo appunto all’Economico l’aspetto di un sistema naturale di relazioni.
Poiché concepisce la storia dell’Occidente come conflitto, e conflitto determinato dal suo carattere di classe, e poiché intende il presente alla luce dell’intrinseca contraddittorietà della stessa potenza rivoluzionaria del Sistema tecnico-economico, Marx pensa di aver posto saldamente sui piedi il pensiero dialettico dell’idealismo. Le epoche della Fenomenologia hegeliana dello Spirito non trovano conclusione in un Sapere assoluto che tutte accoglie e accorda, in una suprema Conciliazione, ma nella insuperabile contraddizione tra la potenza universale del Lavoro produttivo divenuto cosciente di sé e la sua appropriazione capitalistica. Si tratta di ben altro che di calcoli su valore e plusvalore.
L’analisi del meccanismo dello sfruttamento, tanto bombardata dagli economisti e da filosofi dilettanti, sarà pure la parte caduca della grande opera di Marx. Ciò che conta in essa è la questione: il prodotto di questa umanità al lavoro (e questo significa “classe operaia”, altro che semplice “operaismo”!), di questo cervello sociale che inventa e innova, appartiene a chi? Come se ne determina la distribuzione? Chi la comanda? Può la sua potenza rinunciare a esigere potere? E se essa funziona riducendo sempre più il lavoro necessario per unità di prodotto o di prestazione, non si dovrebbe pensare nella prospettiva di una liberazione tout-court da ogni forma di lavoro comandato?
Il comunismo risponde per Marx a queste domande. È l’idea della suprema conciliazione del soggetto col suo prodotto; il compito di superare nella prassi ogni estraneità. Comunismo significa la stessa “missione dell’uomo”. In questo senso, il capitalismo opera per il suo stesso superamento, poiché il suo sistema si fonda su quel cervello sociale-classe operaia che per “natura” è destinato a non sottostare ad alcun comando. Che deve diventare libero. Il comunismo è il Sistema della libertà.
Marx sembra non avvedersi che tale “risoluzione” dell’aporia del capitalismo riproduce esattamente la conclusione della Fenomenologia hegeliana e, forse ancor più, del Sistema della scienza di Fichte. Ed è l’idea di un potere assoluto sulla natura, in cui la “comunità degli Io” sottopone al proprio dominio tutto ciò che le appaia “privo di ragione”.
La quintessenziale volontà di potenza dell’uomo europeo ispira perciò in tutto anche Marx e la sua violenza rivoluzionaria. Marx appartiene all’Europa “rivoluzione permanente”, all’Europa “leone affamato” (Hegel). Il suicidio di questa Europa lungo il tragico Novecento spiega lo spegnersi dell’energia politica scaturita dal marxismo assai più di quelle colossali trasformazioni sociali e economiche che hanno segnato il declino del soggetto “classe operaia”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
B
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
AL DI LA’ DI HEGEL, HEIDEGGER, E RATZINGER. IL PROBLEMA DELL’UNO E LA VIA DEI "TRE SOLI". A scuola di Dante, Bruno, Galilei, e Kant ...
Franco Ricordi: "La grande magia di Dante può essere capita soltanto ascoltandola a viva voce"
Lo scrittore, saggista, attore e regista racconta il tour italiano con cui torna a interpretare la "Commedia". A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della Capitale
di RAFFAELLA DE SANTIS (la Repubblica, 01 luglio 2017)
Dante può essere letto in tanti modi, anche come antidoto al nichilismo contemporaneo. Franco Ricordi, interprete dantesco tra i più raffinati, filosofo e saggista oltre che attore e regista teatrale, propone di leggere la Divina Commedia come fosse una cura alla mancanza di senso dei nostri giorni. Ricordi, ora protagonista della seconda edizione della rassegna Dante per Roma, è impegnato in un articolato progetto dedicato alla Commedia dantesca che prevede una lettura dell’opera in più tappe. Roma prima di tutto, dove lo scorso anno Ricordi ha portato l’Inferno e dove ora arriva con il Purgatorio (mentre nel 2018 sarà la volta del Paradiso).
A partire dal 4 luglio sono previste sette serate, tutte a ingresso libero, ospitate nei siti archeologici più suggestivi della capitale, dalle Terme di Diocleziano all’Arco di Giano al Velabro alle Terme di Caracalla. Ma il progetto è un ampio work in progress itinerante: arriverà a Firenze in autunno e poi a Ravenna, in Germania e in Argentina. Il lavoro teatrale è affiancato da documentari tv. Inoltre Ricordi sta lavorando a un’opera in tre volumi: Dante, filosofia della Commedia.
Qual è il posto di Dante nella cultura occidentale?
"Credo sia il solo autore che tenga testa a Shakespeare. La Commedia è il più grande testo dell’Occidente. Come scrive Harold Bloom è l’epicentro del canone occidentale. Ma può essere compresa pienamente solo oggi ".
Perché?
"Perché è un antidoto al nichilismo dei nostri giorni. In Dante possiamo scorgere il primo filosofo dell’anti-nichilismo".
In che senso?
"Attraverso il concetto di amore, che è il vero sottotesto e sovratesto di tutta la Commedia. Il mio ultimo libro s’intitola L’essere per l’amore, concetto simile e contrario all’"essere per la morte" di Heidegger. Volendo usare uno slogan direi: Dante contro Heidegger".
Però la sua infatuazione dantesca è arrivata tardi.
"In realtà sono rimasto folgorato all’età di quindici anni. Al liceo avevo un insegnante, frate Serafino, appassionato di Dante. È lui ad avermi trasmesso la passione dantesca. Ma Dante è un personaggio che è meglio affrontare dopo i cinquanta anni. Ho lavorato su Shakespeare in teatro fin da ragazzino, poi da regista e protagonista di Amleto, ma a Dante sono arrivato nella piena maturità".
Per quali ragioni?
"Dante quando scrive la Commedia è un uomo maturo. E leggendo si avverte che è un uomo provato. Solo da adulti si riesce a comprendere a fondo il suo personaggio ".
Ma Dante è molto amato dai ragazzi.
"Tutto merito del suo endecasillabo, che arriva in maniera impressionante. Alle mie letture partecipano persone di ogni età. Anche se purtroppo è difficile trovare interpreti che sappiano computare la metrica dantesca nel modo giusto. L’endecasillabo per essere tale deve avere l’ultimo accento sulla decima sillaba. Sbagliare vuol dire non conferire il significato giusto. Non dimentichiamo che ogni cantica è formata da canti: il suono è il veicolo del senso".
La lettura ad alta voce serve a dare corpo alla "Commedia"?
"Va recuperato il testo orale. Prima di me lo hanno fatto Vittorio Gassman, Carmelo Bene, Giorgio Albertazzi. Fino a Vittorio Sermonti, al quale dedico le mie letture del Purgatorio. Grandi maestri, ma anche loro presentavano difetti nella computazione del pentagramma delle figure metriche e nel precisare l’ultimo accento sulla decima".
In cosa differisce la sua Lectura Dantis da questi modelli?
"Per commento e lettura privilegio un approccio più poetico-filosofico che storico-filologico. Come l’Amleto, anche la Commedia arriva in modo immediato".
Di certo l’Inferno ha un’immediatezza anche politica. Crede valga lo stesso per il Purgatorio?
"Nel sesto canto, che interpreterò il 5 luglio all’Arco di Giano, c’è la grande invettiva contro l’Italia, che è già una denuncia di quella che oggi chiamiamo "partitocrazia". La denuncia è chiara: "Ché le città d’Italia tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa / ogne villan che parteggiando viene". In quel "parteggiando" è contenuta una visione quasi ontologica della partitocrazia".
Un’ultima curiosità. Come mai la scelta di iniziare a Roma?
"Se c’è un’ambientazione metastorica e metafisica in assoluto direi che quella è Roma. La Commedia è antica, medioevale, moderna e contemporanea come Roma ".
Il Dante laico un eretico in Paradiso
Collocò i papi all’inferno, separò teologia e politica e le sue opere furono bandite
di Vito Mancuso (la Repubblica, 27 maggio 2017)
Il centro matematico della “Commedia” è una terzina in cui si celebra la libertà in quanto possibilità di libera decisione: «Se così fosse, in voi fora distrutto / libero arbitrio, e non fora giustizia / per ben letizia, e per male aver lutto» (“Purg.” XVI, 70-72). L’intera opera in realtà ruota attorno al concetto di libero arbitrio, come spiega Dante stesso presentando il suo lavoro: «L’uomo, meritando o demeritando nell’esercizio del suo libero arbitrio, è soggetto al giusto premio o alla giusta pena» (“Epistola a Cangrande”, 8).
È per questo che si dà commedia, cioè movimento, trama, creatività, mentre in sua assenza si avrebbe tragedia, come Edipo destinato a uccidere il padre e a giacere con la madre, oppure farsa, mero caos, assenza totale di struttura. Uno dei versi più belli è quello con cui Virgilio, accomiatandosi da Dante, gli conferisce la corona e la mitria attestando che ormai egli è re e papa di se stesso: «Per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Purg. XXVII, 142).
Appare qui l’altissimo senso della libertà della coscienza personale coltivato da Dante, confermato da quanto scrive al signore di Verona: «Coloro che hanno vigore d’intelletto e di ragione sono dotati di una sorta di divina libertà e non sono rigidamente legati a nessuna consuetudine; e ciò non fa meraviglia, perché non essi sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da loro» (Epistola a Cangrande, 2). Tale primato della coscienza ha ben poco a che fare con lo stereotipo del medioevo oscurantista e non a caso si ritroverà nell’umanesimo con la Oratio pro hominis dignitate di Pico della Mirandola del 1486, e nella modernità con lo scritto di Kant del 1784 Risposta alla domanda: Che cos’è l’illuminismo? ...
Da tale considerazione della libertà discende il primato della morale sostenuto da Dante: «Cessando la Morale Filosofia, l’altre scienze sarebbero celate alcuno tempo, e non sarebbe generazione né vita di felicitade, e indarno sarebbero scritte e per antico trovate» (Convivio, II, 14). Si tratta di una tesi «veramente straordinaria nel medioevo» (Gilson), secondo cui la filosofia si compie come etica e la conoscenza come giustizia.
È per questo che in Dante hanno tanto spazio la denuncia e l’invettiva: sono una logica conseguenza dell’aver assunto l’etica quale punto di vista in base a cui guardare il mondo. Uno sguardo informato dalla giustizia intende giudicare, sente cioè la necessità di distinguere il bene dal male e gli onesti dai truffatori.
Dante quindi è un moralista, non però nel senso decaduto della contemporaneità, ma nel senso classico che fa della giustizia la virtù più grande al cui servizio si devono porre la politica, la filosofia e la teologia, perché a questo servono il potere, la conoscenza e la religione: a essere giusti nel proprio intimo e a incrementare il tasso di giustizia nel mondo. Esattamente per perseguire la giustizia sopra ogni cosa Dante non esita a collocare all’inferno ben cinque papi: Niccolò III, Bonifacio VIII, Clemente V, Celestino V, Anastasio IV, oltre ad altri non nominati e a moltissimi esponenti del clero, collocati soprattutto nel girone degli avari e dei sodomiti.
Il pensiero di Dante sul rapporto della teologia con le altre scienze, in particolare con la filosofia, emerge con chiarezza dal Convivio dove viene ripreso un passo biblico secondo cui «sessanta sono le regine... una è la colomba mia e la perfetta mia», con il seguente commento: «Tutte scienze come regine» e la teologia «colomba perché è sanza macula di lite» (Convivio II,14; la citazione biblica è Cantico dei cantici 6,8).
Ora Dante sapeva bene che la condizione effettiva della teologia non era certo quella di essere priva di liti, visto che la rabies theologorum alimentava scomuniche e roghi. Egli si riferiva però alla teologia quale avrebbe dovuto essere idealmente: una scienza non a servizio del potere, e perciò ricolma di invidia e di litigiosità, ma a servizio della vita spirituale, e perciò ricolma di pace e di mitezza.
La teologia amata da Dante ha il vertice non nella dogmatica, ma nella spiritualità e nella mistica: non a caso Beatrice al culmine del Paradiso lo affida non a un teologo dogmatico come Tommaso d’Aquino, ma a san Bernardo, il teologo della mistica unitiva.
A questo proposito un grande esperto quale Gilson ha scritto che la prospettiva dantesca «non solo non contiene la dottrina tomista della subordinazione delle scienze alla teologia, ma manifesta piuttosto l’intenzione di evitarla», e qui occorre ricordare che fu a causa di tale teoria tomista della subordinazione delle scienze alla teologia che in Italia si ebbero eventi come il rogo di Giordano Bruno e l’abiura di Galileo, che tanto hanno contribuito al declino culturale, civile e morale del nostro paese.
Tutto ciò trova conferma nella clamorosa presenza in Paradiso di ben due eretici, già condannati come tali all’epoca in cui Dante scriveva: Gioacchino da Fiore, condannato dal Lateranense IV nel 1215, e Sigieri di Brabante, condannato dall’arcivescovo di Parigi nel 1270 e nel 1277. Dante fa sì che essi vengano presentati da chi in terra era stato loro particolarmente ostile, così fa dire a Bonaventura che Gioacchino da Fiore è «di spirito profetico dotato», un’affermazione che il Bonaventura storico non avrebbe mai potuto compiere perché considerava Gioacchino «come un ignorante condannato a buon diritto».
Quanto a Sigieri, ancora gli esperti non hanno trovato un accordo sul motivo che portò Dante a porre in Paradiso un pensatore tanto scomodo, esponente di quell’aristotelismo radicale, o averroismo, guardato con palese ostilità dal potere ecclesiastico per la piena autonomia della ragione che professava. Ma proprio un personaggio così scomodo viene posto da Dante in Paradiso accanto ai teologi più illustri e fatto presentare dal più illustre di tutti, san Tommaso d’Aquino, con le celebri parole: «Essa è la luce etterna di Sigieri, / che, leggendo nel vico degli strami, / sillogizzò invidiosi veri» (Par. X, 136-138).
Sigieri era un filosofo che professava la più rigorosa distinzione tra teologia e filosofia: collocandolo in Paradiso Dante approva questa impostazione, persino dopo la pubblica condanna ecclesiastica (cui peraltro seguì la morte sospetta di Sigieri nella curia papale per mano del segretario, si disse preso da un raptus di follia).
Perché Dante esalta Sigieri? Perché il suo pensiero si traduceva in politica nella rigorosa distinzione tra papato e impero, e nella conseguente esclusione del papato da ogni gestione del potere politico. È la prospettiva che noi oggi denominiamo laicità. Si spiega così anche l’ostilità di cui fu oggetto il pensiero politico di Dante da parte del potere ecclesiastico, con l’ordine di papa Giovanni XXII nel 1329 di dare alle fiamme il De Monarchia e l’inserimento della stessa opera nel 1559 nella prima edizione del famigerato Index librorum prohibitorum.
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN. *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”.
E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
*
Allegato:
“LIBER PARADISUS” (BOLOGNA, 1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...).
Il mio Dante primo umanista che voleva salvarci tutti
Una lettura della Divina Commedia al di fuori dall’accademia alla ricerca del significato più poetico
di Alberto Asor Rosa (la Repubblica, 27.08.2016)
È apparso qualche tempo fa un libro molto interessante e molto utile, “Il viaggio di Dante” (Carocci), di Emilio Pasquini, uno dei maggiori dantisti attualmente operanti (è autore, con A. Quaglio, di un ottimo commento alla Commedia, Garzanti, 1987). È, in sostanza, la traduzione in prosa, molto circostanziata e precisa, e al tempo stesso sintetica ed essenziale, dell’intera materia della Commedia dantesca, canto per canto.
È molto utile, perché consente facilmente di ricostruire l’intero tragitto dell’esperienza oltremondana di Dante - non è un mistero per nessuno che la Commedia sia oggi assoggettata (anche per motivi oggettivi inconfutabili) a una lettura sempre più frammentaria - episodio per episodio, personaggio per personaggio, seguendo spesso la generalità di giudizi critici talvolta secolari (questo è bello, questo è brutto; questo è riuscito, questo non è riuscito...). Ciò, com’è noto, avviene necessariamente a livello scolastico (fuori dalla scuola, non si sa più cosa avvenga a proposito di Dante...).
Leggere, com’è possibile fare, senza difficoltà alcuna, le pagine di Pasquini, può contribuire a riempire i vuoti fra un “episodio” e l’altro e ad avere almeno un’idea più unitaria del poema (le illustrazioni trecentesche, che fregiano simpaticamente le pagine del libro, sprigionano il potere suggestivo di far rivivere anche di fronte ai nostri occhi l’immaginario dell’epoca).
Ma l’interesse del libro sta soprattutto nel ricordarci che l’esperienza di Dante nell’oltretomba (Inferno, Purgatorio, Paradiso) ha assunto inequivocabilmente, - e anche nel senso più letterale del termine - la forma di un “viaggio”, anzi forse più esattamente, di un “per-corso”, nel quale Dante, oltre a essere testimone (testimone dell’infinità di colpe e di esperienze di salvazione, di cui l’umanità è soggetta e al tempo stesso protagonista), è anche lui al tempo stesso personaggio e protagonista: per giunta, un vero protagonista, non un protagonista fittizio e strumentale.
Naturalmente, quando si parla di Dante, le interpretazioni autentiche possibili (per non parlare di quelle infondate e cervellotiche) sono migliaia: guardarsi, dunque dal seguire pedissequamente la proposta unitaria e autosufficiente, di volta in volta, del singolo interprete.
Quindi, io voglio qui sottolineare semplicemente l’aspetto della sua poesia, che mi sembrerebbe parlare di più alla nostra confusione e ai nostri disagi. E cioè... Dante scende di girone in girone nell’Inferno, fino a scoprire la dimensione mostruosa della colpa umana, dell’irresistibile e invincibile, e irrimediabile (irrimediabile!) inclinazione umana a commettere il male. Poi, arrovesciandosi su se stesso sempre guidato da Virgilio (io attribuisco un significato esemplare a questa metafora fisica del passaggio infernale conclusivo e del ritorno alla luce), raggiunge le sponde della montagna del Purgatorio, che sorge al centro dell’altro emisfero, di cui “ascende” (“ascende”, appunto, come prima era “disceso”) le cornici dei penitenti, soppesando natura e potata di punizioni e di pentimenti, fino ad arrivare alla sua sommità, dove trova il Paradiso terrestre (e dove altrimenti questo avrebbe potuto collocarsi, se non lassù in alto, sul vertice della montagna dove hanno luogo il pentimento e la purificazione?).
Di lì, alla guida poetica e umana di Virgilio, subentra quella di Beatrice, creatura del suo amore, che però l’Amore divino ha fatto a questo punto veicolo privilegiato della sua salvezza. E con lei, di cielo in cielo, arriva infine alla conoscenza ultima, che però, non può esser detta ma solo pensata e, per il lettore, solo indirettamente accennata. Dante chiama Paradiso questa estrema sublimazione del pensiero e dell’esperienza umani.
Se uno rimette insieme i vari passaggi di questo “per-corso”, evitando, come già s’è detto, di frammentizzarne troppo la lettura e l’interpretazione, non sarebbe né illecito né esagerato concludere che ci troviamo di fronte al più gigantesco disegno di una possibile salvazione umana. Il più gigantesco? Sia concesso per una volta all’interprete di dire quello che veramente pensa. Sì, il più gigantesco. Perché nasce da un’esperienza umana ricca come poche. Ma soprattutto perché Dante fa della propria esperienza umana il gradino da cui contemplare da vicino e al tempo stesso dall’alto (ecco, le capacità e l’esperienza del grandissimo poeta!) quella del genere umano considerato in tutte le sue forme.
Effetto di una visione cristiana del mondo? Sì, non c’è dubbio, anzi, è ovvio. Solo che Dante, invece di sublimare l’umano nel divino, - come fanno in genere gli interpreti sacerdotali della dottrina, - infonde il divino nell’umano, e fa perciò di ogni sua storia umana una vicenda esemplare al di là del tempo e dello spazio. È cristiano; ma è anche più che cristiano: è universalmente umano.
La galleria dei suoi personaggi leggendari, dell’antichità e del presente, dell’immaginario e della realtà, - Farinata, Brunetto Latini, Ulisse, Manfredi, Bonconte, da Montefeltro, Pia de’ Tolomei, Sordello, Marco Lombardo, Stazio, Matelda, Piccarda Donati, lo stesso Virgilio, la stessa Beatrice - trae luce dalla predisposizione poetica decisiva del creatore dell’opera: affinché l’uomo conosca fino in fondo il segreto della creazione, bisogna che lui stesso nei crei l’immagine e il disegno.
Quel che talvolta con tono banale si dice, e cioè che con Dante bisogna retrodatare l’inizio del cosiddetto Umanesimo, è più vero (penso) alla luce di quanto finora ho cercato di argomentare.
Dante è il primo umanista, perché per primo, indubitabilmente, colloca l’uomo al centro della storia umana e ne scopre la tendenziale primazia sia storica sia individuale rispetto al resto del mondo, - di tutto il mondo.
Dante, cioè, compie il vero e proprio miracolo di risanare le fratture umane, - quelle da cui oggi siamo così universalmente e profondamente colpiti, - senza ignorarle (tutt’altro), mettendoci di fronte agli occhi un colossale processo di ricomposizione unitaria del mondo: dagli abissi più temibili e terribili, e inevitabili, alle supreme, difficilmente attingibili, ma sempre possibili, sublimità.
Non lo fa per forza ragionativa, ma poetica. O meglio: la sua straordinaria forza ragionativa diviene parte integrante e indissociabile della sua integrale visione poetica. Ossia: quel che il raziocinio non riesce neanche a immaginare, la poesia ce lo fa vedere con la forza inconfutabile del linguaggio umano.
Non sarebbe il caso di trarre tutti, - non solo i pretesi o presunti specialisti, - un impensabile vantaggio, un benefizio senza pari, dalla conoscenza e dall’introiezione di un’esperienza come questa? In fondo ci vuole poco: basta leggere.
La Sibilla cumana accompagna Enea nell’oltretomba come Beatrice conduce Dante in Paradiso
di Emanuela Boccassini *
Nel VI libro dell’“Eneide” di Virgilio e nel XVI libro delle “Metamorfosi” di Ovidio la Sibilla cumana ha il duplice compito di profetessa e di guida. In entrambe le opere latine, Enea si rivolge a lei, dopo aver dato i suoi «crudi ed oscuri responsi», per essere condotto nel regno dei morti.
Sin dalle prime battute la Sibilla mostra un carattere deciso e forte “sfoggiando” intransigenza e ammonendo Enea, che indugia dinanzi ai rilievi delle porte del tempio (VI; 35-41). A breve distanza lo riprende perché tarda a interrogare il dio. Beatrice, ugualmente, nel XXX canto del “Purgatorio”, quando incontra Dante, ancor prima che lui riesca a rivolgerle la parola, lo rimprovera in quanto non lo reputa “degno” di trovarsi sul monte del Paradiso e di godere di una felicità dalla quale si è allontanato. Nel momento in cui la donna si rivolge al poeta lo chiama per nome «in tono di fiero rimprovero».
Beatrice, guida materna ma intransigente
Dante, dapprima emozionato e smarrito per la visione angelica, dopo le sue parole prova vergogna e abbassa la testa. Non è una donna soave che si rivolge con parole amorevoli, ma è «inquisitrice, ammonitrice», sarcastica e minacciosa, paragonata a un ammiraglio che ha l’atteggiamento fiero e imperioso.
Beatrice, che per tutto il percorso svolge il suo incarico di guida e maestra, è, tuttavia, spinta da un affetto che assume un tono impietoso e amaro, quasi materno di sostegno e aiuto nei confronti del “figlio” rimproverato per il proprio bene (vv. 79-81):
«così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba».
La Sibilla, inflessibile custode della legge divina
La Sibilla è inflessibile per adempiere al proprio compito: accompagnare Enea nei campi Elisi e farlo incontrare col padre Anchise. La Sibilla nel canto ovidiano acquisisce un aspetto umano e indulgente per l’avversa sorte toccata all’eroe troiano, lo distrae parlandogli di sé e della ragione della sua lunga vecchiaia, per rendere meno faticoso il cammino. In quello virgiliano sembra essere distaccata e frettolosa, per esempio quando «ammonì brevemente» (v. 538) Enea per il suo dilungarsi con l’amico Deìfobo, - il quale si risente e le dice «Non ti sdegnare» (v. 544). Quando il figlio d’Anchise le pone delle domande, la Sibilla risponde con «succinte parole» (v. 321), non si dilunga in spiegazioni, ma limita le frasi allo stretto necessario. Mentre Beatrice adopera estrema pazienza con Dante, lo comprende e spesso previene i desideri del poeta riuscendo persino a leggergli dentro e a soddisfare le richieste ancor prima che lui parli.
La Sibilla mantiene sino alla fine il suo inflessibile atteggiamento di guida e di custode della legge divina, mostrandosi pronta e inesorabile nell’impedire a Palinuro di entrare insepolto nel regno ultraterreno, così come prende le difese di Enea contro Caronte che ne disturba il transito.
Alla fine dei canti latini, la Sibilla sparisce senza congedarsi e l’eroe riprende il suo cammino senza voltarsi indietro. Beatrice, anche se lascia il posto a San Bernardo, riappare per un attimo a Dante rivolgendogli un “sorriso d’assenso”.
Il mito della Sibilla
Nella religione greca (e romana) Sibilla era il nome di donne, vergini e vecchie, fornite di capacità profetiche e collegate ad Apollo. Lo scrittore latino Varrone ne identificò dieci, la più famosa era proprio quella cumana. Da Virgilio si apprende che la Sibilla cumana è Deifobe, figlia di Glauco - pastore divinatore della Beozia, mutato in dio dopo la morte -, profetessa di Apollo, vigila sul tempio dedicato alla divinità nella città campana.
Nelle “Metamorfosi” (vv. 130-148), la Sibilla narra a Enea la sua storia. Apollo, invaghitosi di lei, le concede di esprimere un desiderio. La giovane e bella donna chiede al dio di vivere tanti anni quanti granelli di sabbia può contenere la sua mano. Però commette l’errore di non chiedere anche la giovinezza. Il nume le accorda la possibilità di variare il suo desiderio se si concede a lui.
«[...]. Disprezzato il dono di Febo,
eccomi qui, ancora nubile. Ma ormai l’età più bella
mi ha voltato le spalle, e a passi incerti avanza un’acida vecchiaia,
[...]. Vedi sette secoli
son già vissuta [...]».
La Sibilla continua a invecchiare sino a quando le sue membra si riducono talmente tanto da lasciare di lei solo la voce. Nel “Satyricon” vi è la conferma di questa leggenda: Petronio sostiene che la Sibilla è oramai ridotta a un essere minuscolo e, confinata in una gabbia, invoca soltanto la morte.
Approfondimenti
Bibliografia
Anthony S. Mercatante, “Dizionario universale dei miti e delle leggende”, Mondadori, 2001.
Publio Virgilio Marone, “Eneide”, a cura di Giuseppe Vergara, 1986.
Dante Alighieri, “La Divina Commedia. Il Purgatorio”, a cura di Umberto Bosco e Giovanni Reggio, 1988.
Dante Alighieri, “La Divina Commedia. Il Purgatorio”, a cura di Ernesto Bignami, 1995.
Ovidio P. Nasone, “Metamorfosi”, 2005.
* "Ripensandoci" (anno II, n. 9, settembre 2009 - Superstizioni, miti, leggende)
Popsophia, da Pitagora a Guerre Stellari
di Adriano Ercolani *
Oggi inizia a Pesaro il festival filosofico Popsophia che ha come tema Il Ritorno della Forza, sulla scia del primo episodio della nuova trilogia di Star Wars. Non è, solo, una scelta per richiamare il grande pubblico, poiché l’opera di George Lucas è un giacimento di spunti filosofici molto interessanti. Star Wars è una grandiosa narrazione epica e archetipica, genialmente portata al livello della fruizione di massa.
Non è certo un mistero che George Lucas si sia ispirato a L’eroe dai mille volti (in Italia edito da Lindau) dell’allievo di Jung, Joseph Campbell, un saggio di mitologia comparata che indicava come in tutte le grandi storie sacre e mitiche ci fosse un evidente filo comune di tematiche ricorrenti. Lucas applicherà metodicamente i risultati degli studi di Campbell nella stesura della sceneggiatura di Star Wars: la saga è un sapiente incastro di motivi archetipici mutuati dalla letteratura di ogni tempo. Per questo, al di là del fascino guerriero delle spade laser, degli imponenti effetti speciali o della riuscita più o meno felice dei singoli episodi, la vicenda dello scontro fra Jedi e Sith conquista da quasi quarant’anni gli spettatori di tutto il mondo: poiché attinge a una sapienza narrativa millenaria, magistralmente tradotta in un linguaggio visivo contemporaneo.
Innumerevoli sono gli elementi culturali che Lucas ha intelligentemente, e consapevolmente, mescolato nella creazione della mitologia di Guerre Stellari, per motivi di spazio ne accenneremo solo alcuni: il viaggio iniziatico dell’eroe (l’intera vicenda di Luke Skywalker); il mito di Apollo e Artemide (il rapporto tra Luke e la Principessa Leia); il rapporto conflittuale con la figura paterna tipico della tragedia greca (Luke Skywalker/Darth Vader); il concetto di Ombra junghiana (la scoperta di Luke durante il periodo di iniziazione Jedi che il nemico Darth Vader nella sua proiezione psichica ha il suo stesso volto); il viaggio di Giasone e degli Argonauti, quello di Ulisse nell’Odissea e le celebri fatiche di Ercole (le peripezie avventurose segnate da diverse tappe di conoscenza di Luke e Han Solo); il mito di Excalibur (la spada laser come appendice e manifestazione di un potere spirituale); la caduta dell’Eletto, da Lucifero nel Cristianesimo a Ravana nell’Induismo (Anakin che diventa Darth Vader); l’attaccamento come fondamento della hybris (la conversione al Male di Anakin nasce da una distorsione dell’amore per Padmé); la lotta tra Bene e Male come metafora del conflitto interiore, come nella Bhagavad Gita (l’intero scontro Jedi/Sith); la figura della Grande Madre identificata con la Natura (Padmé è uno degli appellativi della Dea Lakshmi); la presenza di un maestro che tramanda insegnamenti primordiali (Yoda, che in sanscrito significa guerriero); il ciclo di morte e resurrezione presente in tutte le culture iniziatiche, da Osiride/Horus a Dioniso a, ovviamente, il Cristo ((Obi-Wan e i maestri Jedi, ma anche Han Solo e in una certa misura Darth Vader); la necessità dell’equilibrio interiore come specchio di quello cosmologico tra Luce e Tenebra, come nel Tao e in Eraclito (rappresentato dalla Forza e dal Lato Oscuro).
Tutti questi riferimenti, ripetiamo, non sono nostri peregrini e arbitrari collegamenti, ma dichiarati e consapevoli ambiti di approfondimento dell’opera di Lucas, come da lui dichiarato: il testo di Campbell dopo il successo dei primi film verrà addirittura ristampato con Luke Skywalker in copertina, completamente identificato con l’archetipo dell’Eroe.
Questi aspetti, in particolar modo i legami con la cultura orientale, sono approfonditi nel libro molto interessante di Valentino Bellucci ‘Da Pitagora a Guerre Stellari’ (Editrice Petite Plaisance), ove leggiamo ad esempio: “Un altro aspetto profondo presente in Guerre Stellari è l’idea della Forza, intesa come energia cosciente che sostiene e manifesta ogni realtà; tale idea è simile a quella del Brahman della filosofia vedica, e secondo tale idea l’Assoluto è ogni cosa e ogni cosa è divina”. Un’intuizione presente in tutte le culture, con forme, nomi e sfumature diverse: parliamo di ciò che gli gnostici indicavano come Pneuma o che in alcune tradizioni yogiche viene chiamato Param Chaitanya.
Il grande pregio di Lucas è stato quello di riassumere questa millenaria tradizione sapienziale in un racconto avventuroso dal fascino universale, mostrando ancora una volta la perenne attualità di ciò che è eterno.
* Il FattoQuotidiano.it / BLOG / di Adriano Ercolani, 14.07.2016 (RIPRESA PARZIALE - SENZA NOTE)
Scoperto il più grande pianeta con due soli
Si chiama Kepler-1647 b ed è coetaneo della Terra
di red. Ansa *
Orbita intorno a due stelle, come il pianeta ’Tatooine’ del protagonista di Guerre Stellari, Luke Skywalker, ed è il più grande del genere finora scoperto. Si trova in direzione della costellazione del Cigno ed è stato chiamato Kepler-1647 b, in omaggio al telescopio spaziale Kepler della Nasa che lo ha scoperto e la cui missione è appena stata prolungata di due anni. Il risultato è pubblicato sull’Astrophysical Journal da Veselin Kostov, del Goddard Space Flight Center.
Grazie al telescopio Kepler, gli astronomi hanno colto delle leggere variazioni nella luminosità di una stella simili a quelle provocate dal transito di un pianeta. Tuttavia la scoperta non è stata semplice perchè i pianeti che orbitano intorno a due stelle (chiamati circumbinari) hanno transiti non regolari nel tempo. Per questo motivo, nonostante Kepler-1647 b fosse stato individuato nel 2011, sono stati necessari altri cinque anni di ricrche prima di stabilire che si trattasse effettivamente di un pianeta.
Kepler-1647 b si trova a 3.700 anni luce dalla Terra e ha 4,4 miliardi di anni, più o meno la stessa età della Terra. E come la Terra, si trova nella cosiddetta zona abitabile, ossia a una distanza tale dalle sue stelle da poter avere acqua allo stato liquido e da poter ospitare eventuali forme di vita.
Le sue stelle, di dimensioni diverse, sono simili al nostro Sole. Il pianeta è invece un gigante con una massa e un raggio quasi identici a quelli di Giove, cosa che lo rende il più grande pianeta circumbinario in transito mai scoperto. Impiega ben 3 anni a compiere la sua orbita intorno alle stelle: il tempo più lungo finora osservato in un pianeta esterno al Sistema Solare.
Dante, kolossal del muto
La vita del poeta in una pellicola recuperata del 1921
«Diventò strumento di propaganda per il fascismo»
di Paolo Conti (Corriere della Sera, 25.05.2016)
«Nel primo ventennio del ‘900, il cinema diventa uno strumento di autorappresentazione storica da parte di molte nazioni. Penso alla Russia da poco comunista, per esempio. O a Nascita di una nazione di David Wark Griffith, del 1915. Per l’Italia il film La mirabile visione (1921) ebbe un ruolo importantissimo in Italia perché raccontava la vita di un simbolo nazionale come Dante. Addirittura, dopo il 1926, diventò col fascismo uno “strumento di propaganda spirituale e nazionale”, come scrisse l’allora ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele».
Lo sceneggiatore e regista Stefano Rulli dal 2012 presiede il Centro sperimentale di cinematografia (Csc), suddiviso nella Scuola nazionale di cinema e nella Cineteca nazionale, uno degli archivi audiovisivi più importanti del mondo. Proprio il Csc-Cineteca nazionale è protagonista, con il Cnc-Archives Françaises du Cinema, di un recupero storico-culturale che verrà presentato sabato nell’ambito dell’evento «Dante posticipato» all’università di Pisa ideato da Marco Santagata.
Si tratta del film kolossal del muto La mirabile visione, due ore di grande cinema del tempo, disperso da decenni nella sua integrità. Regia, scene e costumi sono di Caramba, alias Luigi Sapelli, scenografo, costumista e illustratore che dal 1921 al 1936 fu direttore degli allestimenti scenici alla Scala di Milano. La fotografia è di Carlo Montuori (che nel 1948 firmò le immagini di Ladri di biciclette per Vittorio De Sica). La sceneggiatura («iconografia», come si diceva ai tempi) è di Fausto Salvatori, poeta e librettista (suoi i versi de «L’inno a Roma» di Giacomo Puccini). Un gruppo di eccellente livello tecnico e culturale, ben sperimentato: l’anno precedente aveva già firmato un grande successo popolare e di cassetta, I Borgia , del 1920.
La recitazione svela gli influssi stilistici dell’epoca (sicuramente una gestualità legata al melodramma e al teatro di prosa di quel periodo). Ma l’insieme, spiega Rulli, «è di forte impatto narrativo, fascino e modernità. La fotografia è pregevolissima, la composizione dell’immagine è efficace così come innovativo è il modo di muovere gli attori. Gioacchino Volpe, in una sua nota, lodò la cura e la precisione della ricostruzione storica».
Il film è suddiviso in due parti. Una Vita Dantis, con i principali episodi della sua travagliata esistenza (l’attività politica a Firenze, l’esilio, Bonifacio VIII, l’ospitalità di Cangrande della Scala). E poi Visioni di vita e di poesia: rappresentazioni della Vita Nova, gli episodi del Conte Ugolino e di Paolo e Francesca da La Divina Commedia. Il tutto con ricchezza di costumi, di ambientazioni, di massa ben orchestrate.. La ricostruzione della pellicola, girata durante le manifestazioni per il sesto centenario della morte del poeta, è a sua volta una straordinaria storia. Il film è stato restaurato in digitale a cura del Centre National du Cinéma et de l’Image Animée - Parigi / Bois d’Arcy.
Tutto è partito dalla scoperta di due diverse copie d’epoca: una della versione originale italiana, conservata negli archivi della Cineteca Nazionale, e l’altra, legata alla versione francese distribuita da Les Films André Ghilbert, e conservata nel fondo depositato al Cnc da GaumontPathé Archives. Le due copie, entrambe incomplete, sono subito apparse complementari ed ecco la versione italiana che verrà presentata sabato prossimo. Mancava un solo episodio, fortunosamente rintracciato pochi giorni fa. L’avventura ha permesso di approntare l’attuale versione: lo studio e la ricostruzione sono stati possibili anche grazie a un raro libretto d’epoca sul film, un pezzo unico, conservato dalla Biblioteca «Luigi Chiarini» del Csc di Roma, che registra la scansione narrativa e le sequenze fotografiche.
Cosa accadrà della pellicola? Dice Rulli: «Trattandosi di una ricostruzione nata grazie a due Paesi, dovremo studiare gli accordi. Ma spero che questo magnifico pezzo di storia del cinema italiano possa essere distribuito soprattutto nelle scuole come materia di studio dell’arte dei nostri tempi».
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.03.16)
Il 20 gennaio 1320, a 55 anni, Dante Alighieri tenne una lezione pubblica di cosmologia presso la chiesa di Sant’Elena a Verona. Astronomia e astrologia, a quei tempi, erano due artes distinte ma percepite come complementari: le stelle e le intelligenze angeliche si pensava intervenissero nelle vicende terrene infondendo specifiche virtù. Che cosa ne penserebbe la scienza di oggi? Dante e le stelle, edito da Salerno è scritto a quattro mani dall’astrofisico Attilio Ferrari e dallo storico della letteratura Donato Pirovano, è un’affascinante risposta a questa domanda.
Nel Convivio, ma soprattutto nella Divina Commedia, tocchiamo con mano quanto Dante fosse esperto di stelle. Gli eventi cardinali della sua vita - il primo incontro con Beatrice, la morte di lei, l’incontro con la Donna Gentile (allegoria della Filosofia), la crisi spirituale dalla quale si rialzerà attraverso l’allegorico e immaginifico viaggio di salvazione narrato nella Commedia - per Dante assumono un senso possibile solo se vengono raccontati in stretta relazione con le costellazioni, attraverso le quali connette la sua vita con Dio.
Smarrito nella selva oscura - era il 25 marzo o l’8 aprile del 1300 - è confortato dall’intravedere il Sole che sorge accompagnato dalla benaugurante costellazione dell’Ariete, la stessa presente nel cielo al momento della creazione di Adamo. Il pianeta Venere - la “stella” che infonde la virtù d’amore spirituale - brillare sull’orizzonte marino del Purgatorio al punto da offuscare la costellazione dei Pesci. Dante è appena uscito dal buio infernale e ha ormai la certezza che, per intercessione dell’amore di Maria e di Beatrice, la salvezza spirituale e la carità di Dio lo attendono. I riferimenti astronomici, com’è ovvio, si moltiplicano poi nella terza cantica, quando il viaggio ha luogo proprio di tra le sfere del Paradiso.
L’astronomia aristotelico-tolemaica, mutuata da Tommaso d’Aquino, - unita a una teologia della luce e a un emanatismo di stampo neoplatonico - prevede un sistema geogentrico: attorno alla terra, girano sette sfere celesti di materiale incorruttibile, ciascuna governata da una schiera angelica e caratterizzata da una stella o pianeta; seguono il cielo delle Stelle Fisse e quindi il Primo Mobile, la sfera più veloce di tutte perché la più vicina a Dio e anche quella che infonde alle sfere inferiori il movimento. La decima sfera, la più esterna, è l’Empireo: si tratta di una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo, fatta di non-materia, di una sostanza puramente spirituale; è qui che avviene la visione della Rosa dei Beati e quindi di Dio, contemplato come una sorgente luminosissima e ardente d’amore che muove l’intero universo.
Nella descrizione dell’Empireo, però, pare esservi una specie di contraddizione. Se il cosmo è fatto di sfere concentriche sempre più grandi, e se la sede di Dio - l’Empireo - è la sfera più ampia che abbraccia e contiene tutte le altre sottostanti, come mai allora Dante parla di Dio non come di una sfera bensì come di un «punto» luminosissimo? «Un punto vidi che raggiava lume acuto». L’ipotesi sorprendente è che l’intuizione poetica di Dante possa avere ideato non una sfera, ma una ipersfera, al cui centro è Dio, fonte di luce e di calore (empyrios: ardente) da cui si origina tutto l’universo.
Nella visione geometrica e cosmologica contemporanea, inaugurata dalle teorie di Einstein, un’ipersfera è una sfera in uno spazio a più di tre dimensionii, che ammette che vi sia un centro esterno che al contempo è il centro di tutta l’ipersfera stessa: «grazie all’intuizione dantesca, “perno” del mondo è quel punto ineffabile che è il centro del creato e al tempo stesso circonda tutta la creazione in un abbraccio cosmico».
Oggi non osserviamo più il cielo stellato a occhio nudo, né vi immaginiamo le schiere angeliche. «Esistono, però, delle analogie con il cosmo dantesco: anche il nuovo universo si è sprigionato da un “punto”, la sua origine è il risultato di una concentrazione energetica da un punto che si è espanso vertiginosamente con un violento Big-Bang, dando origine allo spazio e al tempo e a tutto il mondo sensibile. (...) Ma che cosa c’è “fuori”, in che cosa si espande l’universo?».
Esiste un equivalente dell’Empireo dantesco? Al momento, «in quanto a comprensione del “tutto”, siamo ancora nella selva oscura. La scienza ci aiuta a vivere, l’arte ci aiuta a sognare e a vedere oltre la realtà, forse fino all’Empireo o iperspazio che dir si voglia», concludono gli autori. Ma non bisogna mai pensare che l’immaginazione sia prerogativa di un solo ambito umano. In Dante è sempre attiva e non fa di queste distinzioni.
Studi danteschi
Cesare, eroe della Commedia
Nel poema la storia di Roma è concepita unitariamente: la fase repubblicana prepara l’impero, completando il disegno divino. -Uno studio di Luciano Canfora sulla biblioteca latina del poeta
di Carlo Ossola (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.01.2016)
«I’ vidi Eletra con molti compagni, / tra ’ quai conobbi Ettòr ed Enea, / Cesare armato con li occhi grifagni» (Inf., IV, 121-123): occhi grifagni poiché - come vuole il Buti e ricorda Luciano Canfora - sono «alla guatatura spaventevole ad altrui». Non tanto dunque occhi «rossi come fuoco» (secondo il Tesoro di Brunetto Latini), ma piuttosto di «aspectus terribilis» (Bambaglioli).
E qui Canfora convoca un altro scenario, non quello del «nobile castello» dei «savi» della classicità, bensì quello manzoniano dei bravi che attendono Renzo sulla soglia dell’osteria: «Quando Renzo e i due compagni giunsero all’osteria, vi trovaron quel tale già piantato in sentinella, che ingombrava mezzo il vano della porta, appoggiata con la schiena a uno stipite, con le braccia incrociate sul petto; e guardava e riguardava, a destra e a sinistra, facendo lampeggiare ora il bianco, ora il nero di due occhi grifagni» (I promessi sposi, cap. VII).
Il ricordo dantesco in Manzoni, ricondotto dallo sguardo del grande stratega al ceffo della plebaglia del malaffare, potrebbe ricalcare l’intento di piegare i potenti tutti - come il Napoleone del Cinque maggio - al «disonor del Golgota»; ma è da notare, come è stato proposto, che allorquando egli deve mettere in scena il fulmineo agire di quel grande («Dall’Alpi alle Piramidi...»), altro non possa fare che ricorrere (e questa volta su un registro ben alto) al Cesare di Dante: «Maria corse con fretta a la montagna; / e Cesare, per soggiogare Ilerda, / punse Marsilia e poi corse in Ispagna» (Purg., XVIII, 100-102).
Ben più di Manzoni, è Dante qui a collocare il modello di Cesare accanto a quello di Maria che s’affretta presso Elisabetta: come se quella “ansia di compimento” fosse propria della salvezza temporale e di quella eterna, congiunte ab origine in uno stesso disegno provvidenziale, secondo il testo del Convivio: «E però che ne la sua venuta nel mondo, non solamente lo cielo, ma la terra convenia essere in ottima disposizione; e la ottima disposizione de la terra sia quando ella è monarchia, cioè tutta ad uno principe, come detto è di sopra; ordinato fu per lo divino provedimento quello popolo e quella cittade che ciò dovea compiere, cioè la gloriosa Roma» (IV, V, 4).
Il mito di Cesare, nella Commedia, è tutt’uno con l’unità armonica della venuta salvifica, che fu al tempo del Cristo e che ora non si può che compiangere: «Vieni a veder la tua Roma che piagne / vedova e sola, e dì e notte chiama: / “Cesare mio, perché non m’accompagne?”» (Purg., VI, 112-114).
L’interrogazione finale ricapitola del resto la visione politica che Dante enuncia nitidamente poche terzine sopra: «Ahi gente che dovresti esser devota, / e lasciar seder Cesare in la sella, / se beni intendi ciò che Dio ti nota» (Purg., VI, 91-93). Qui Dante si riferisce certo a Matteo, 22, 21: «Reddite ergo quae sunt Caesaris, Caesari; et quae sunt Dei, Deo»; ma c’è di più: e cioè che la translatio fidei da Gerusalemme a Roma fu fatta per armonizzare e non per sovrapporre o perché la nuova Gerusalemme dovesse assorbire l’antica Roma.
Ecco perché il modello e il mito di Cesare (eponimo ora di quello dell’Impero) attraversa tutta la Commedia e si suggella nei celebri versi del Paradiso: «Poi, presso al tempo che tutto ’l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno, / Cesare per voler di Roma il tolle» (Par., VI, 55-57). È l’inizio dell’epico prorompere della storia e delle vittorie di Cesare (Par., VI, 55-81), ricapitolazione mirabile di molte imprese e di una vita che ancora sarà modello al Napoleone del Manzoni: «Da indi scese folgorando a Iuba».
Il Buti, nel suo commento, insiste giustamente su quel momento, su quel «redur lo mondo a suo modo sereno»: «ma notantemente dice tutto ’l Cielo: imperò che, a mutare lo reggimento del tutto, conveniano correre tutte le cagioni insieme; e dice: a suo modo sereno, perchè lo cielo è retto e governato da uno signore, e così volse lo cielo redur lo mondo che in tutto ’l mondo fusse uno monarca. Cesari».
Per questo il libro di Luciano Canfora è importante: non tanto e non solo perché restituisce una fonte importante per il mito di Cesare nella Commedia, e cioè quella di Svetonio, ma perché riafferma la «Centralità di Cesare» (penultimo capitolo) nell’economia della visione dantesca, capace di sanare la contraddizione che pure esiste tra il trionfo di Cesare e l’elogio di Catone, pure da questi sconfitto sino a costringerlo, per coerenza di libertà, al suicidio:
«Dante compone questo dissidio in una visione più alta. Nel superamento di questa contraddizione - scrive Canfora - si manifesta e prende corpo quello che potremmo definire il sincretismo storiografico di Dante alle prese con la storia di Roma: una storia da lui concepita unitariamente, in cui la fase repubblicana non solo precede cronologicamente ma prepara l’impero. L’impero è per lui parte essenziale di un disegno divino, e Cesare ne rappresenta il motore principale».
Resta un fascinoso tema che Canfora solleva in poche dense pagine: Se Dante ha letto Tacito. Lo studioso evoca la presenza a Montecassino del manoscritto (oggi alla Laurenziana) che contiene parte delle Historiae di Tacito (I -V), ricorda la perfetta descrizione dei luoghi stessi in Paradiso XXII, e sottolinea come nessuno, prima del Dante del Monarchia avesse ripreso l’attacco delle Historiae tacitiane: «Opus adgredior opimum casibus, ...», così riscritto da Dante: «Arduum quidem opus et ultra vires aggredior...». Come per ogni novità esegetica intorno ai classici, si possono evocare intermediazioni patristiche (e c’è chi, Pieter Smulders, ha suggerito di convocare la prefazione dell’ Opus Historicum di Ilario di Poitiers); ma intanto resta questa conquista e ancora un lungo compito, sollecitato da Canfora: «La “biblioteca latina” di Dante non smette di riservare sorprese». Anche per questa preziosa tessera si conferma la tesi di Ernst Robert Curtius: che Dante sia stato il supremo suggello di tutta la tradizione latina, classica e medievale.
Celebrazione dell’Epifania. Il messaggio di Francesco
«I Magi ci insegnano a cercare il senso delle cose»
Un messaggio a tutta la Chiesa, ma in particolare ai suoi ministri, sacerdoti e vescovi: la vostra è una missione, dice il Papa.
di Carlo Marroni (Il Sole-24 Ore, 07.01.2016)
È la festività dell’Epifania, celebrazione solenne nella basilica vaticana: «Annunciare il Vangelo di Cristo non è una scelta tra le tante che possiamo fare, e non è neppure una professione». Le parole di Francesco sono sul solco di un messaggio che è centrale sin dall’inizio del pontificato, quando mise in guardia il clero da assumere ruoli di “funzionari” di un’organizzazione. E su questo spirito che si innesta l’azione della Chiesa: «Essere missionaria non significa fare proselitismo, per la Chiesa, essere missionaria equivale ad esprimere la sua stessa natura: essere illuminata da Dio e riflettere la sua luce. Non c’è un’altra strada. La missione è la sua vocazione. Quante persone attendono da noi questo impegno missionario, perché hanno bisogno di Cristo, hanno bisogno di conoscere il volto del Padre». No al proselitismo, quindi: un altro tassello della pastorale bergogliana, che rimarca lo spirito profondo dello spirito missionario.
Nell’omelia dell’Epifania il papa ricorda che «l’esperienza dei Magi ci esorta a non accontentarci della mediocrità, a non “vivacchiare”, ma a cercare il senso delle cose, a scrutare con passione il grande mistero della vita. E ci insegna a non scandalizzarci della piccolezza e della povertà, ma a riconoscere la maestà nell’umiltà, e saperci inginocchiare di fronte ad essa». La povertà della Chiesa, sempre al centro, che nella simbologia natalizia trova la sua rappresentazione più plastica, come in qualche modo ha voluto rimarcare nella visita a sorpresa due giorni fa a Greccio, il borgo del reatino dove secondo la tradizione San Francesco istituì il presepe: «È qui, nella semplicità di Betlemme, che trova sintesi la vita della Chiesa». E sempre su questo tema il Papa, parlando a braccio, ha offerto una nuova interpretazione della figura dei pastori, che secondo quanto tramandato sarebbero stati i primi ad arrivare alla mangiatoia: «Nella notte di Natale Gesù si è manifestato ai pastori, uomini umili e disprezzati, alcuni dicono dei briganti. Furono loro i primi a portare un po’ di calore in quella fredda grotta di Betlemme».
Nell’omelia di ieri, semplice nelle parole ma complessa nel suo messaggio, il Pontefice ha voluto ricordare come «la Chiesa non può illudersi di brillare di luce propria. Non può». E ha citato «una bella espressione di sant’Ambrogio, utilizzando la luna come metafora della Chiesa: «Veramente come la luna è la Chiesa: rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo. Cristo - ha spiegato - è la vera luce che rischiara; e nella misura in cui la Chiesa rimane ancorata a Lui, nella misura in cui si lascia illuminare da Lui, riesce a illuminare la vita delle persone e dei popoli. Per questo i santi Padri riconoscevano nella Chiesa il mysterium lunae».
Nel corso dell’Angelus, inoltre, Francesco ha chiesto alla folla di piazza San Pietro - presente un gruppo folkloristico con tre cammelli - un applauso per esprimere, ha detto, «la nostra vicinanza spirituale ai fratelli e alle sorelle dell’Oriente cristiano, cattolici e ortodossi, molti dei quali celebrano domani il Natale del Signore. Ad essi giunga il nostro augurio di pace e di bene».
La conclusione delle festività natalizie segna il ritorno agli impegni anche di carattere istituzionale: il primo è previsto per lunedì prossimo, 11 gennaio, con l’incontro annuale con il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, dove è prevedibile che pronunci un discorso molto forte sui temi della pace, specie in questo inizio del 2016 segnato da nuove gravi tensioni, dalla crisi Iran-Arabia Saudita all’annuncio della Corea del Nord di un esperimento nucleare.
Inoltre il 17 gennaio, come annunciato da tempo, Francesco si recherà in visita alla Sinagoga di Roma. È il terzo Pontefice dopo Giovanni Paolo II e Benedetto XVI a varcare la soglia del Tempio maggiore della capitale. Alle sedici della domenica, su invito del Rabbino Capo, Riccardo di Segni e della Comunità, il Papa stringerà la mano ai cittadini di Roma di fede ebraica. Ad accoglierlo, oltre ai rappresentanti del mondo ebraico italiano religioso e civile, tra cui il presidente dell’Ucei, Renzo Gattegna, e ad un esponente del governo d’Israele, ci sarà soprattutto la gente, i giovani della comunità e anche gli ex deportati.
«Sarà una visita all’insegna del dialogo e della cordialità - ha dichiarato Ruth Dureghello, presidente della Comunità di Roma - È una bella occasione per continuare il percorso di dialogo che prosegue fra alti e bassi ma con la volontà consolidata di andare avanti».
E ieri si è appreso che la storica ebrea Anna Foa sostituisce la giornalista Ritanna Armeni nell’incarico di co-coordinatrice, con Lucetta Scaraffia, dell’inserto dell’Osservatore Romano «Donne Chiesa Mondo», iniziativa editoriale dal 2012 del quotidiano della Santa Sede diretto da Giovanni Maria Vian.
Cultura, il mondo s’inchina al genio di Dante. Via alle celebrazioni per i 750 anni
Da lunedì parte un calendario di 187 manifestazioni in tutto il Paese, ben 173 all’estero. Appuntamenti clou a Firenze, Verona, Roma e Ravenna tra gonfaloni, rievocazioni storiche, seminari su lingua e tradizione del grande fiorentino
di Alex Corlazzoli (Il Fatto, 3 maggio 2015)
Da lunedì tutta l’Italia si inchina davanti al genio di Dante Alighieri. In occasione del 750esimo anniversario della nascita del padre della “Divina Commedia”, andranno in scena 187 manifestazioni in tutto il Paese e ben 173 all’estero. Per alcuni mesi mostre, letture, convegni e conferenze, concerti di musica classica e contemporanea, spettacoli di teatro e danza, video installazioni e proiezioni, lectio magistralis, summer school con i massimi protagonisti della scena culturale nazionale e internazionale e studiosi della letteratura dantesca, faranno parte del ricco calendario che vedrà in prima fila le città più legate al sommo poeta - Firenze, Ravenna, Verona e Roma.
L’evento ha una portata internazionale ed è stato presentato dal ministro dei Beni e delle Attività culturali Dario Franceschini insieme ai sindaci delle città che lo ospiteranno. Lunedì l’apertura delle celebrazioni sarà solenne e coinvolgerà i massimi livelli istituzionali: alle 11 a Palazzo Madama nell’aula del Senato, in diretta Rai, la cerimonia sarà aperta dal Presidente, Pietro Grasso e dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Un omaggio musicale di Nicola Piovani e Rosa Feola e una lectura dantis di Roberto Benigni arricchiranno la giornata che prevede anche nella contigua Sala Garibaldi un’esposizione di importanti documenti della più avanzata ricerca scientifica sull’opera di Dante. La mostra, a cura del Centro Pio Rajna - Centro studi per la ricerca letteraria, linguistica e filologica e della Casa di Dante in Roma, esporrà moderne edizioni di opere e preziose riproduzioni in facsimile di antichi codici miniati e altre testimonianze artistiche, antiche e moderne.
Firenze darà voce a Dante nel Battistero di San Giovanni dove in collaborazione con la Società Dantesca Italiana, martedì 5, Emilio Pasquini con Michele Placido apriranno le manifestazioni; il 12 maggio sarà la volta di una riflessione di Lucia Battaglia Ricci e lettura di Roberto Herlitzka; il 19 maggio prenderà la parola il cardinale Gianfranco Ravasi con le letture di Gioele Dix. L’evento più suggestivo è previsto per il 14 maggio, quando si svolgerà la rievocazione storica della grande sfilata di gonfaloni con cui, al tempo di Firenze capitale, fu inaugurata la statua di Dante dello scultore ravennate Enrico Pazzi (1865), allora al centro di Piazza Santa Croce e adesso a lato della chiesa. Il Comune di Firenze, inoltre, finanzierà una nuova produzione della Compagnia Teatrale Virgilio Sieni dal titolo “Ballo 1265”.
Non sarà da meno Ravenna che dedica al grande poeta un fitto programma di eventi tra cui si prevede l’allestimento, presso il Museo d’Arte della mostra “Divina Commedia. Le visioni di Doré, Scaramuzza e Nattini”. Non poteva mancare l’impegno dell’Accademia della Crusca che attiverà un assegno di ricerca sul “lessico dantesco”. Verrà analizzato il vocabolario dantesco in tutto il suo spessore e contestualizzato nel quadro della cultura del Duecento e del Trecento. Fuori dall’Italia grazie agli 80 Istituti Italiani di Cultura si parlerà di Dante a Berlino, Stoccarda, Colonia, Amburgo, Monaco, Londra, Edimburgo, Parigi, Amsterdam, Bratislava, Zagabria, Helsinki, Madrid, Barcellona, Oslo, Zurigo, Riga e anche in America Latina, negli Stati Uniti, in Libano, Israele, Marocco, Australia e Corea de Sud. A organizzare il tutto è il comitato MiBACT composto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dalla RAI, dai Comuni di Firenze, Ravenna e Verona, dal Centro Pio Rajna, dall’Accademia della Crusca, dalla Società Dantesca Italiana e dalla Società Dante Alighieri.
PERUGINO E FRANCESCO MATURANZIO. NOTE SUL "COLLEGIO DEL CAMBIO" DI PERUGIA:
Collegio del Cambio
Decorazione della Sala dell’Udienza
Eroi, saggi, profeti e sibille: l’impresa decorativa del Collegio del Cambio *
Il collegio del Cambio è la sede dell’arte dei cambiavalute di Perugia. Il 26 gennaio 1496 l’assemblea dei soci si riunì per discutere quale aspetto dare alla sala maggiore, se dovesse essere decorata dappertutto o in parte e se l’eventuale incarico dovesse essere affidato a Pietro Perugino, allora presente in città, o a qualche altro pittore.
All’unanimità fu presa la decisione di far comunque decorare la sala dell’Udienza, con dipinti o in qualsiasi altro modo, purché l’opera riuscisse bellissima, e fu nominata una commissione che provvedesse a fissare le caratteristiche dei lavori da eseguire, scegliesse il pittore e lo pagasse direttamente. Il primo progetto prevedeva la collocazione di una tavola dipinta in mezzo agli arredi lignei già eseguiti, come nella sede del collegio dei Notai, per la cui fattura il 25 febbraio 1498 furono pagati 5 fiorini ad un falegname locale, ma ben presto maturò la decisione di ricoprire interamente le pareti della sala con una decorazione ad affresco, su consiglio dell’umanista perugino Francesco Maturanzio.
Nel febbraio 1499 sono registrati i primi pagamenti a Pietro Perugino, che vi lavorò con continuità per tutto il corso dell’anno, conducendo a termine l’opera nell’anno 1500, data segnata sulla parasta centrale di destra.
Nel pilastro opposto Perugino dipinse il proprio autoritratto, accompagnato da un’iscrizione laudativa:
“PETRUS PERUSINUS EGREGIUS / PICTOR / PERDITA SI FUERAT PINGENDI / HIC RETTULIT ARTEM / SI NUSQUAM INVENTA EST / HACTENUS IPSE DEDIT”.
Pietro perugino, pittore insigne. Se era stata smarrita l’arte della pittura, egli la ritrovò. Se non era ancora stata inventata egli la portò fino a questo punto"
Il programma iconografico delle pareti è ispirato al trionfo delle Virtù, additate a modello da Catone l’Uticense: le quattro Virtù Cardinali - Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza - incarnate da figure esemplari tratte dalla storia greca e romana, e le tre Virtù Teologali - Fede, Carità, Speranza - rappresentate dalla Trasfigurazione di Cristo, dalla Natività e da Profeti e Sibille. Sulla volta è raffigurato il trionfo dei Pianeti, allusivi alla fortuna. Questi affreschi sono il capolavoro della pittura umanistica italiana, superato soltanto dalla decorazione delle Stanze Vaticane di Raffaello.
* A cura di Vittoria Garibaldi e Francesco Federico Mancini (http://www.perugino.it/canale.asp?id=288)
Alighieri e gli antichi, l’idea della monarchia universale
Il destino imperiale della libertà
Catone e Cesare secondo Dante
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 07.01.2015)
In tutta la tradizione antica (archetipo il duello oratorio messo in scena da Sallustio) Catone è l’anti-Cesare. Aggiungiamo che, per il ritratto di Catone, Dante ha fatto capo alla fonte più ostile a Cesare e maggiormente esaltatoria nei confronti di Catone: la Farsaglia di Lucano. Il Catone di Dante è infatti, già nel sembiante fisico, il Catone della Farsaglia (II, 373-375), vecchio (ma in realtà egli era men che cinquantenne quando si suicidò per la sconfitta) e canuto e dotato di una barba imponente.
E non v’è possibilità di equivoco sul tono duramente anti-cesariano di Lucano che si spinge, nel IX libro, a definire Catone «vero pater patriae» (IX, 601), con evidente allusione polemica alla servile proclamazione di Augusto come pater patriae da parte del Senato nel 2 a.C. Che Lucano fosse il cantore della resistenza repubblicana a Cesare era chiaro a qualunque lettore. Si può guardare in proposito anche la sintetica biografia dell’Uticense nell’opuscolo assai diffuso nel Medio Evo De viris illustribus urbis Romae.
Importanti e autorevoli voci quali quelle di Agostino (DeCivitate Dei I, 23-24) e di Tommaso d’Aquino condannavano di Catone anche il gesto finale - il suicidio in nome della libertà - che invece Dante sacralizza. Per Dante, Catone è colui che «vita rifiuta» per la libertà (Purgatorio II, 72-75): ed è proprio quel gesto estremo che lo spinge a conferire a Catone un ruolo primario all’ingresso del regno della luce.
E nondimeno la vittoria di Cesare su Catone, a Tapso, premessa del suicidio eroico dell’irriducibile repubblicano, rappresenta, nel VI del Paradiso, nelle parole di Giustiniano, il culmine della marcia trionfale di Cesare, che a sua volta campeggia al centro del profilo della storia di Roma concepita come marcia trionfale dell’aquila imperiale (versi 55-72, in particolare 70-72: «Da onde scese folgorando a Iuba (...) ove sentía la pompeiana tuba»).
Dante compone questo dissidio in una visione più alta. Nel superamento di questa contraddizione si manifesta e prende corpo quello che potremmo definire il sincretismo storiografico di Dante alle prese con la storia di Roma: una storia da lui concepita unitariamente, in cui la fase repubblicana non solo precede cronologicamente ma prepara l’impero.
L’impero è per lui parte essenziale di un disegno divino, e Cesare ne rappresenta il motore principale. È questo il senso del grande affresco storico che prende le mosse da Enea e Pallante e giunge fino alla storia contemporanea di Firenze (!), tracciato da Giustiniano nel VI canto del Paradiso. E a ragion veduta, e con chiara intenzione, proprio da Giustiniano, cioè dall’imperatore che non soltanto riunifica l’impero riconquistando l’Occidente, ma che incarna nel modo più incisivo il cesaropapismo bizantino, la totale non-subordinazione dell’impero rispetto alla Chiesa.
Quel profilo storico affidato a Giustiniano è il nocciolo della visione dantesca della storia di Roma, è uno degli epicentri ideologici dell’intero poema ed è il corrispettivo poetico del trattato Sulla monarchia incastonato in un punto nevralgico del poema teologico.
Non abbiamo «perso per strada» l’aporia da cui siamo partiti. Catone rifiuta Cesare e si uccide per testimoniare al grado più alto il valore della libertà . La contraddizione rispetto all’asserito ruolo storico dell’opera di Cesare sarebbe lancinante se la chiave non fosse proprio nella nozione di libertà. È la libertà come consapevolezza della necessità , quella che Dante «va cercando», come Virgilio spiega a Catone.
Come la libertà del cristiano - quella che Dante «va cercando» - si pone agli antipodi dell’arbitrario soddisfacimento delle proprie pulsioni e si realizza nella consapevole autodisciplina, così la libertà che ricongiunge il gesto di Catone al compito storico di Cesare e poi del «baiulo seguente», cioè di Augusto, pacificatore universale, è l’accettazione dell’impero come unica possibile e positiva cornice della convivenza umana. Altro destino tocca invece ai pugnalatori Bruto e Cassio, che «latrano» nel punto più profondo dell’ Inferno , in bocca a Lucifero (XXXIV, 65), addirittura insieme con Giuda. Tradire Cristo e tradire Cesare sono sullo stesso piano!
E come armonicamente la vicenda dell’impero di Roma passa dalla fase repubblicana a quella monarchica, altrettanto armonicamente - nella visione dantesca lontanissima dalla battagliera opzione anticlassica di un Agostino - la cultura classica (pagana) confluisce come complementare praeparatio in quella cristiana: da Virgilio a Stazio (figura strategica al centro del poema: XXI e XXII del Purgatorio ), a Dante stesso. Ecco perché il Purgatorio si apre con l’invocazione, che ad un palato ortodosso può apparire blasfema, alle «Sante Muse». Le Muse, la quintessenza della cultura classica pagana, vengono gratificate con l’epiteto della santità.
Orbene, anche questa continuità classico-cristiana, che salva la cultura pagana facendo capo alla salvifica nozione di praeparatio (donde il castello del Limbo, donde il ruolo di Virgilio) converge verso la centralità dell’impero: perché l’impero stesso si è cristianizzato senza cambiare natura, come spiega Giustiniano. Semmai l’errore è stata la «donazione di Costantino», e Dante lo dice in prima persona più volte: Inferno XIX, 115; Purgatorio XXXII, 124; Paradiso VI, significativamente all’inizio del Canto di Giustiniano; e inoltre Monarchia III, 10, 12.
La monarchia universale creata da Roma è dunque, nella sua visione, non solo l’approdo di una lunga storia, ma anche ideale politico attuale e risposta necessaria e urgente al problema politico quale si manifesta nel presente.
Quando il Papa disse
“Riabilitiamo Dante è il sommo poeta cattolico”
In un’enciclica del 1921, Benedetto XV rivendicava la fede della “Commedia”, nonostante le dure critiche alla Chiesa. Anticipando alcune aperture di Bergoglio
Oggi alle 11 alla Casa di Dante (Roma)viene presentata la Comedia di Dante con figure dipinte della Casa di Dante (editrice Salerno)
Presente Gianfranco Ravasi
Domani alle 11 Lectio Dantis e conferenza di Massimo Cacciari
di Lucio Villari (la Repubblica, 08.11.2014)
IL 30 aprile 1921, in un dopoguerra di inquietudini, fu resa nota agli italiani una enciclica dal contenuto inatteso. Era dedicata a un poeta ed era firmata da Benedetto XV, un pontefice di grande intelligenza politica (aveva denunciato «l’inutile strage» della Prima guerra mondiale). Il poeta era Dante, che, dopo secoli di dissenso, la Chiesa intendeva riabilitare. L’enciclica In praeclara summorum è un inedito omaggio alla religiosità cattolica di Dante, ma con allusioni precise alla forza intellettuale della critica dantesca ai poteri della Chiesa, la volontà di potenza dei papi, del clero corrotto.
Era una riappropriazione, forse sperata da tempo in qualche segmento del cattolicesimo, ma rinviata dopo la piena rivendicazione dell’opera teorica e della poesia di Dante, vettori di libertà e verità per la “nazione” italiana, da parte della cultura liberale e democratica e di tutte le strutture ideali del Risorgimento. La nuova libertà d’Italia era modellata anche sul rifiuto di Dante dei tanti poteri fraudolenti della Chiesa, temporale e non.
Benedetto XV non sapeva che otto anni dopo, nel 1929, il suo successore avrebbe firmato cinicamente con lo Stato fascista un patto illiberale. Ma da uomo di cultura Benedetto XV - che per qualche aspetto pare precorrere le aperture di papa Francesco - aveva intuito che un eventuale superamento di quel dissidio non poteva non passare attraverso un dialogo con Dante.
Il papa parla di un uomo che crede in Dio e in una Chiesa degna del suo ruolo universale, ma che apre un varco alla critica storica della Chiesa. Dante lascia nel canto XI del Paradiso il più grande elogio della povertà e della “mirabil vita” di san Francesco e nel XXVII la più veemente invettiva di san Pietro contro le degenerazioni della Chiesa e della figura stessa del papa.
L’enciclica non poteva ignorare tutto questo, ma il testo rivela una certa sofferenza di composizione. “Oltre” l’ideologia c’è, secondo il pontefice, nel solo valore estetico della poesia di Dante il varco aperto verso la dottrina cattolica: «Mentre non è scarso il numero dei grandi poeti cattolici che uniscono l’utile al dilettevole, in Dante è singolare il fatto che, affascinando il lettore con la varietà delle immagini, con la vivezza dei colori, con la grandiosità delle espressioni e dei pensieri, lo trascina all’amore della cristiana sapienza. [...]. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra, e certamente è assai più moderno di certi vati recenti».
In questo tentativo vi erano delle intenzioni precise. Le parole dell’enciclica riguardavano proprio il clima filosofico e politico italiano di quegli anni, contrassegnati non solo dal superstite Modernismo ma dalla sempre più incisiva presenza del pensiero di Benedetto Croce e della progressiva laicizzazione della pubblica istruzione. Il confronto culturale tra la cultura cattolica e quella liberale e laica stava dunque per divenire una sfida ai più alti livelli. Dante poteva perciò essere una prima trincea della dottrina cristiana posta sul terreno fino a quel momento occupato da un Dante laico e risorgimentale.
Bisognava fare della Divina Commedia una testimonianza di fede. Di qui l’affondo operativo: «Poiché sebbene in qualche luogo il “poema sacro” non sia tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri che devono essere più studiati, esso però non suole recare ai giovani quel vitale nutrimento che è destinato a produrre, in quanto essi, per l’indirizzo difettoso degli studi, non sono disposti verso la verità della fede come sarebbe necessario».
Pochi mesi prima della pubblicazione dell’enciclica, nel settembre 1920, Croce dava alle stampe La poesia di Dante. Questo saggio sarà per anni al centro di ampie discussioni critiche, ma quel che contava in quel momento per la Chiesa è che Croce era ministro della Pubblica istruzione e che il metodo crociano apriva prospettive pedagogiche molto diverse da quelle sperate da Benedetto XV. Le istruzioni alla lettura di Dante del ministro Croce erano nette.
L’enciclica avrebbe dovuto essere una prima, immediata risposta a queste istruzioni? C’è da pensarlo. Soprattutto leggendo questo passaggio: «La sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di divina, pur nelle varie finzioni simboliche e nei ricordi della vita dei mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio». Al contrario di quanto si possa immaginare, questo discorso così problematico intorno a Dante è ancora aperto, nella ricerca storica ed estetica e in quella teologica. L’umano e il divino dantesco si fronteggiano sempre e attendono risposte rinnovate.
Dante. Altro che Commedia!
Esce il secondo tomo dei «Meridiani». Le opere politiche e filosofiche delineano un audace progetto culturale
di Gianluca Briguglia (Il Sole, 18.05.2014)
Dante filosofo e pensatore politico è il protagonista del secondo volume delle Opere di Dante, edizione diretta da Marco Santagata, appena uscito per i Meridiani Mondadori. Il corposo volumetto, quasi duemila pagine, propone infatti il Convivio, cioè il grandioso e non concluso esperimento filosofico dantesco in lingua volgare, la Monarchia, con cui Dante, in latino, dimostra la necessità di un governo universale, le Epistole, che testimoniano di un Dante che è anche parte attiva della politica del suo tempo e le Egloghe, unica testimonianza poetica dantesca in latino.
«Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere»: è con la citazione di Aristotele che si apre il Convivio e si annuncia il progetto rivoluzionario di cui è portatore, cioè la possibilità di una vera filosofia in lingua volgare. Dante - che dei quindici trattati previsti per il Convivio ne porta a compimento quattro, con il commento a tre canzoni - vuole mostrare «la gran bontade del volgare del sì», che è capace di esprimere «altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente ed acconciamente». Gianfranco Fioravanti, raffinato studioso della filosofia medievale e curatore di questa edizione del Convivio, nel suo imponente commento mostra come la cultura filosofica di Dante si nutrisse della conoscenza diretta di un buon numero di opere aristoteliche, ma anche del complesso Liber de causis e di testi importanti di Alberto Magno fino alla Summa contra Gentiles di Tommaso d’Aquino.
Il Convivio non è infatti una semplice opera di divulgazione di contenuti filosofici in volgare. Si tratta invece di un progetto di radicale rinnovamento della cultura e della società: gli intellettuali delle università, i chierici e il loro latino, hanno chiuso il sapere in un monopolio linguistico e di ceto che il volgare vuole rompere. Il sapere va trasmesso ai molti, perché solo così si moltiplica per tutti, proprio come il pane evangelico. I destinatari dell’opera sono allora «principi, baroni, cavalieri e molt’altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati».
Il quarto trattato, aperto dalla canzone Le dolci rime d’amor ch’io solìa - che Claudio Giunta, curatore delle tre canzoni del Convivio, ci aiuta a comprendere anche nel quadro dell’evoluzione personale delle scelte linguistiche e tematiche di Dante - è allora un esempio di quaestio filosofica in volgare, ed è un’indagine razionale sulla vera nobiltà, tema essenziale per capire come la società vada intesa e rinnovata. Fioravanti mostra la complessità della risposta dantesca: la vera nobiltà è data da un intreccio di caratteristiche personali, legate alla nascita, alla complessione, alla natura, all’ambiente, alla capacità individuale di coltivare i propri talenti; il «divino seme» cade nei singoli, ma non si esclude la possibilità di una concentrazione di «bene nati» in uno specifico lignaggio. La filosofia, in volgare, è rivolta a tutti loro.
La Monarchia - con cui Dante s’interroga sulla necessità di un governo universale, sulla missione storica del popolo romano, sulla relazione tra impero e papato - ci riconduce al contesto del latino e dell’originalissimo pensiero politico dantesco. Diego Quaglioni, curatore dell’opera e profondo conoscitore del pensiero giuridico medievale e moderno, nel corposo lavoro di commento prende posizione su interpretazioni classiche come l’idea che la Monarchia sia il semplice esercizio di un’«utopia politica» e la inserisce nello sviluppo del diritto pubblico del tardo medioevo, rendendo più chiara anche la specifica posta in gioco giuridica del discorso dantesco.
Quaglioni presenta qui un testo latino basato sull’edizione critica di Prue Shaw, ma che propone in molti punti specifici alcune scelte differenti. Particolarmente interessante è la discussione di Quaglioni su uno specifico manoscritto (l’Additional 6891) conservato alla British Library e non utilizzato dalla Shaw. Si tratta di un manoscritto del XIV secolo, già segnalato, che presenta alcune particolarità. Per esempio il copista, nell’indicare il titolo e l’autore dell’opera, si sente autorizzato a segnalare l’avvenuta morte di Dante («...la cui anima riposi in pace»): c’è dunque memoria di Dante ancora vivo?
Se così fosse il manoscritto potrebbe allora risalire ad anni forse molto vicini alla stesura dell’opera. E questo renderebbe importante un altro particolare, cioè il fatto che, in questo manoscritto, un famoso inciso che rimanda al Paradiso («...come ho già detto nel Paradiso della Commedia»), presente nelle altre copie, si legge diversamente e ha tutt’altro significato. Certo sembra un dettaglio - che qui riportiamo perché fornisce al lettore anche uno scorcio sul complesso lavoro filologico delle interpretazioni storiche -, ma un dettaglio che per Quaglioni elimina uno dei pochi appigli interni sulla misteriosa cronologia dell’opera (gli interpreti infatti non sono in grado di dare una datazione univoca della Monarchia) e mette in questione alcune antiche certezze sul testo e sulla sua ricostruzione.
Le Epistole sono in massima parte indirizzate a personaggi politici di primissimo piano e comprendono anche la famosa e controversa lettera a Cangrande della Scala, in cui Dante spiega i princìpi di lettura e interpretazione della Commedia. Il commento e la cura di Claudia Villa consentono non solo una puntualissima contestualizzazione di temi e vicende, ma hanno il merito di intrecciare la scrittura delle epistole nel tessuto ampio dell’evoluzione di Dante e del suo immaginario politico e letterario.
Sono invece le Egloghe, corrispondenza poetica in quattro carmi in latino tra Dante e Giovanni del Virgilio, a chiudere il volume. Si tratta dell’ultima opera di Dante e della sua unica prova poetica in latino, sollecitata proprio da Giovanni del Virgilio, che apparteneva a quel gruppo di avanguardia classicista umanista di area padana che nel latino vedeva la forma espressiva più alta e dal quale Dante era rimasto significativamente distante.
La bella introduzione di Gabriella Albanese, che cura le Egloghe e ne fornisce un’edizione critica, ci parla di un Dante nel pieno delle sue forze e della sua creatività, che a Ravenna esercita l’arte diplomatica per Guido da Polenta ed è lontano dalla mischia politica: in un contesto tanto favorevole, godendo anche del compimento del suo straordinario lavoro intellettuale, senza presagire la morte improvvisa, Dante stava forse già pensando con questi componimenti a un’altra eccezionale sfida letteraria, quella della poesia in lingua latina.
Una nuova edizione del “Monarchia”
Quando Dante immaginava l’Impero come un Paradiso
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 17.12.2013)
L’edizione del Monarchia di Dante, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni, recentemente pubblicata come IV° volume della nuova edizione commentata delle Opere, coordinata da Enrico Malato, non si segnala soltanto per la ricchezza di note e apparati, per alcuni interventi migliorativi del testo-base, per l’ampia introduzione generale e quelle, essenziali, alle singole parti del volume.
Ma è notevole anche per la presenza di alcuni importantissimi “documenti” riguardanti la fortuna dello scritto dantesco, tra i quali il De reprobatione di Guido Vernani, radicale e filosoficamente nient’affatto sprovveduto attacco al Monarchia da parte del frate domenicano; il Commentarium al Monarchia di Cola di Rienzo, testimonianza della sua passione per la gloria di Roma, di un “culto” che Dante definisce nella sua portata teorica e da lì, anche proprio attraverso Cola, trapassa nell’Umanesimo; infine il “volgarizzamento” del Monarchia, steso dal grande Ficino, alla fine degli anni ’60 del ’400, non solo in funzione anti-repubblicana, ma per rivendicare Dante alla pia philosophiae cioè alla “catena aurea” del platonismo.
Interpretazioni o “fra-intendimenti” diversissimi, che non nascono soltanto dalle posizioni spesso incompatibili dei loro autori, ma proprio dalla novità e complessità dell’opera di Dante, soprattutto se letta insieme alla Commedia (come appare necessario fare, poiché certamente essa viene scritta in anni nei quali Dante è già tutto immerso, mente e cuore, nella stesura del poema).
Della sua novità ,come per le altre sue opere, Dante è “superbamente” consapevole - e così dello scandalo che essa è destinata a suscitare. Malgrado le numerose citazioni da Agostino, riguardanti essenzialmente questioni intorno al metodo dell’esegesi, Dante non poteva non avvertire l’abisso tra la sua concezione della civitas hominis, la sua idea di Roma e di Impero, e quelle dell’intera tradizione patristica e dello stesso “aristotelismo” tomista.
Da remedium o addirittura semplice solacium per l’infermità della nostra natura vulnerata dal peccato, in Dante l’Impero (e cioè la forma provvidenzialmente destinata a unire politicamente il genere umano), la cui idea stessa viene da lui proposta in termini puramente filosofico-scientifici, esclusivamente per philosophica documenta, è chiamato a assicurare autentica felicità terrena, a edificare l’autentico Paradiso terrestre. Da Babilonia, quale era per Agostino, Roma si trasforma in Roma celeste!
Ma nella Commedia questo Fine appare davvero ancora garantito dall’opera del solo Impero, nella razionale autonomia della sua forma? Questo l’enigma, su cui Chiesa e Tabarroni invitano ancora a riflettere. Virgilio, la prima guida di Dante, si arresta alla soglia del Paradiso terrestre, non vi entra e tantomeno potrebbe spiegarne i simboli; stupisce e basta sullo spettacolo che gli si rivela.
È Beatrice a “far entrare” il poeta, e solo dopo che egli ha bevuto tutto l’amaro calice della confessione e del pentimento. L’architettura della Commedia, nei nessi costitutivi rappresentati dalle guide del poeta, segna una profonda discontinuità con quella del Convivio e del Monarchia.
Come spiegarla? Amara delusione e disincanto dopo il fallimento delle ultime speranze, che ancora avrebbero animato l’opera politica? Ma il Monarchia è tutto fuorché uno scritto “militante”; provvidenziale appare a Dante il corso della storia, ed egli vuol esserne il profeta. In questo schema è inserita la gloria di Roma, modello di perfetto potere politico, di Impero. Ma è la forza ideal-eterna di questo disegno che finisce col rendere contraddittorio il famoso simbolo dei due Soli, Chiesa e Impero, perfettamente distinti nei rispettivi domini e nelle rispettive missioni. Se, infatti, il perfetto potere politico è concepibile soltanto in quanto voluto ab origine dal Signore, in quanto provvidenziale nel senso più proprio e più forte, la felicitas che esso promette è necessariamente subordinata a quella ultima, alla beatitudo celeste. E sembra essere questa, alla fine, l’indicazione che emerge dalla Commedia.
Dante rompe definitivamente con la teologia politica patristica e medievale, ma non è affatto anacronisticamente leggibile nel senso di Marsilio da Padova e della filosofia politica moderna successiva. L’Impero di Dante non sono i regna, o ormai potremmo dire gli Stati, che ha in mente Marsilio. Dante segna la grandiosa soglia tra due epoche - quella di un’idea del Politico che, pur nel rivendicare la propria razionale autonomia, lotta per non perdere ogni fondamento sacrale, e quella che ne risolve il significato e la missione nella immanente potenza delle sue leggi, nella positività del suo diritto. Per quest’ultima, che il Giustiniano imperatore di Dante trovi posto, e vera pace, solo in Paradiso diverrà il simbolo di un’epoca per sempre tramontata.
Il sommo poeta e le sue opere
Sono in preparazione otto tomi Un corpus complesso e definitivo
Alighieri pensava alla grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza e della felicità
di Giulio Ferroni (l’Unità, 12.12.2013)
CENTENARI E RICORRENZE DI VARIO GENERE PORTANO ALLA RIBALTA SITUAZIONI DEL PASSATO, capolavori delle arti e della letteratura, che spesso, passate quelle ricorrenze, tornano nellombra: al sistema delle celebrazioni culturali si potrebbe riferire ciò che Leopardi, in una delle prime pagine dello Zibaldone, dice della sensazione data dagli anniversari. Questi danno l’illusione «che quelle tali cose che son morte per sempre né possono più tornare, tuttavia rivivano e sieno presenti come in ombra, cosa che ci consola infinitamente allontanandoci l’idea della distruzione e annullamento che tanto ci ripugna e illudendoci sulla presenza di quelle cose che vorremmo presenti effettivamente».
Davvero sempre più spesso capita che certe ricorrenze offrano una piccola vita provvisoria a forme e modelli culturali sempre più lontane dall’orizzonte pubblico: cultori, eredi, concittadini di questo e di quello si danno un po’ da fare per portare sulla scena come «presenti effettivamente» nomi e opere spesso note solo a pochi specialisti. Lo sa bene chi si occupa di letteratura e nella sua vita ha avuto modo di seguire (anche partecipandovi) centenari, cinquantenari o altro...
Ci sono però pochi autori la cui presenza si impone al di là di ogni spirale celebrativa: per essi i centenari, visti e preparati da lontano, possono suscitare un particolare fervore di iniziative, capaci di dare nuova intensità a una presenza pervicacemente resistente pur nel quadro di un mondo che sembra sempre più allontanarsi dalla letteratura. Così accade per il più grande di tutti, quello che è davvero il «padre» della nostra lingua, Dante: in vista del settimo centenario della morte (2021) sono in atto vari progetti, tra cui si impongono quelli del Centro Pio Rajna, diretto da Enrico Malato, che hanno al centro una nuova edizione commentata delle Opere di Dante, che raccoglie tutto il frutto dell’immenso lavorio del precedenti commenti e offre una fitta serie di apparati, di strumenti di lettura, e anche di testi collaterali a quelli danteschi.
Si tratterà di otto volumi in più tomi (Salerno editrice), il cui insieme ambisce a venire in porto appunto nel 2021 (ma c’è anche una tappa intermedia, con la ricorrenza nel 2015, dei 750 anni dalla nascita di Dante), e che ha già visto nel 2012 l’uscita del volume III (De vulgari eloquentia), del primo tomo del VII (Fiore e Detti d’amore, opere di dubbia attribuzione), e ora del IV, Monarchia, a cura di Paolo Chiesa e Andrea Tabarroni con la collaborazione di Diego Ellero (pp. CLII-594, €.49,00).
PROSA MEDIEVALE
Tra le opere di Dante la Monarchia è quella più direttamente legata ai modelli della prosa scientifica medievale, in cui si esprime nel modo più netto l’affermazione della necessità di una monarchia universale (l’impero), destinata a instaurare la pace e la giustizia, guidando l’umanità verso la felicità terrena: negando ogni subordinazione dell’autorità imperiale a quella del papato, a cui invece spetta il compito di guidare l’umanità verso la vita eterna.
Questa edizione collega a un’introduzione che offre un’ampia sintesi storica, critica, filologica una fittissima annotazione del testo latino (con traduzione italiana a fronte) e una serie di altri materiali di grande interesse: da scritti polemici di parte papale del secolo XIV contro le tesi centrali dell’opera di Dante (del resto nel 1329 il libro fu fatto bruciare a Bologna e nel Cinquecento fu messo nell’Indice dei libri proibiti), al Commentarium che ad essa dedicò con fervida adesione Cola di Rienzo, al volgarizzamento che nel 1468 ne fece Marsilio Ficino.
Pur strettamente iscritta in un orizzonte tutto «medievale», la Monarchia ha alimentato nei secoli una prospettiva di tipo «laico», con la sua determinante separazione tra potere politico e autorità religiosa, nel quadro di una legittima aspirazione umana ad una «felicità» tutta terrena: essa identifica questa felicità secondo una prospettiva aristotelica, come piena attuazione di tutte le possibilità dell’intelletto umano, di una conoscenza capace di tradursi in azione e di realizzare il bene.
La sua argomentazione fa leva su di un profondo senso della responsabilità della scrittura, del suo necessario rivolgersi verso la ricerca di una «verità» rivolta al bene degli esseri umani: in una visione dell’unità del genere umano e della necessità di un potere universale, il solo capace di rendere possibile pace e giustizia. E certo se oggi siamo tanto lontani dal suo orizzonte storico, filosofico, linguistico, questo richiamo ad una grande politica universale, orientata verso la realizzazione della conoscenza, sola garanzia di felicità e di giustizia, resta determinante ancora per noi, di fronte ai pericoli di un mondo che procede ciecamente, che si affida all’esteriorità dell’apparenza e alla violenta indeterminatezza dell’economia finanziaria.
Non si deve dimenticare, d’altra parte, che con la sua poesia Dante mira ad andare «più in là» dello spazio finito dell’esistenza umana: con il suo grande poema guidato da una passione assoluta per una vita giusta e felice e nel contempo teso verso qualcosa che sfugge ad un controllo umano, fino alla visione di Dio in cui culmina il Paradiso.
All’ultimo canto del Paradiso, come parziale «campione» dell’edizione commentata della Commedia prevista per il centenario del 2021, Enrico Malato dedica ora un piccolo prezioso libretto, Dante al cospetto di Dio (Salerno editrice,2013,pp.92,€.7.90), che conduce il lettore entro la sfida dantesca all’indicibile, nella vertigine di quella visione «impossibile». Vi si nota, tra l’altro, l’audacia della scelta di Dante di aggirare «il divieto biblico ed evangelico della visione di Dio», di attribuirsi il privilegio di esservi giunto «addirittura con il proprio corpo», fino a collocarsi alla fine in «coincidenza o sintonia con la ruota dell’universo, mossa dall’amor divino». In questo approdo supremo trova la sua massima manifestazione quella tensione del grande poeta verso un punto di vista “universale”, che si svolge in tutta la sua opera e che, sul più circostanziato piano politico, agisce con spregiudicatezza nella Monarchia.
Quel gesto simbolico di Benedetto XVI il pallio lasciato in omaggio a Celestino V
di Agostino Paravicini Bagliani (la Repubblica, 13 febbraio 2013)
Il prossimo 5 maggio si celebrerà a L’Aquila il 700esimo anniversario della canonizzazione di San Pietro Celestino V (1313), avvenuta diciassette anni dopo la sua morte (19 maggio 1296). In quell’occasione, come ha annunciato lo stesso arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari, il pallio che papa Benedetto XVI lasciò sulla teca contenente le reliquie di Celestino V il 28 aprile 2009, in occasione della sua visita alla basilica di Santa Maria di Collemaggio, tre settimane dopo il tragico sisma, verrà collocato direttamente sulle spalle di San Pietro Celestino, l’unico papa ad avere rinunciato al papato nel Medioevo e l’unico papa medievale ad essere stato canonizzato.
L’arcivescovo ha altresì costituito una commissione deputata alla ricognizione delle reliquie del santo, attualmente esposte nella basilica di Collemaggio, al fine di fermare il processo di degrado delle ossa del santo.
Il pallio, una striscia di stoffa di lana bianca, tessuta con la lana bianca di due agnelli offerti ogni anno al papa nella festa di santa Agnese. Il pallio è il più antico oggetto simbolico destinato a rendere visibile il fatto che il papa è “l’erede” - così fu definito il papa già nel IV-V secolo - o “il successore” di san Pietro, il Principe degli Apostoli. Il pallio è infatti presente già nel VI secolo nella cerimonia di consacrazione del nuovo papa che avveniva generalmente nella basilica di San Pietro in Vaticano.
Dopo l’ultima preghiera recitata dal cardinale vescovo di Ostia (che fin dai primi secoli era colui che, essendo il vescovo della diocesi più vicina a Roma, consacrava il nuovo papa), l’arcidiacono aveva il compito di porre sulle spalle del nuovo papa il pallio che durante tutta la notte precedente era stato posto sulla tomba di San Pietro.
Rivestire la salma di San Pietro Celestino con il pallio donato da un papa, Benedetto XVI, diventa dunque un gesto intriso di un profondo simbolismo apostolico. Ed è un gesto che crea uno straordinario inedito legame simbolico tra i due soli papi che a distanza di sette secoli hanno rinunciato al papato in assoluta piena libertà.
Il pallio era già in uso nella Roma antica. Come la stola e le calzature, il pallio faceva parte del vestiario dei dignitari statali, era quindi un’insegna la cui concessione apparteneva in origine all’imperatore e con la quale veniva riconosciuto un rango statale. Del resto, per molti secoli - ossia fino almeno al VI secolo - il papa dovette chiedere il permesso all’imperatore bizantino per concedere il pallio ad altri vescovi.
Ma progressivamente i papi presero l’abitudine di concedere il pallio ad arcivescovi - ed in qualche caso anche a vescovi - in occasione della loro consacrazione. Concedere il pallio aveva una funzione simbolica precisa, quella di rendere simbolicamente visibile l’unità dei vescovi della cristianità con Roma e quindi la centralità e l’universalità della Chiesa romana.
Il pallio diventa sempre più nel corso del Medioevo il simbolo della funzione pontificia. I cerimoniali del tardo Medioevo lo dicono esplicitamente. Quando il nuovo papa riceve il pallio gli si rivolgono le seguenti parole: «Ricevi il pallio, simbolo della pienezza della funzione del papa, ad onore dei beati apostoli Pietro e Paolo e della santa Romana Chiesa».
Fin dai primi secoli, al papa, quando viene consacrato vescovo di Roma, il pallio veniva posto sulle spalle del pontefice, inserendovi tre spille d’oro, davanti, dietro e a sinistra. Sulla sommità di ciascuna di queste spille era infisso un giacinto. Così ornato il papa procedeva verso l’altare della Confessione di San Pietro e vi celebrava la messa solenne. Ora, le spille d’oro furono sovente interpretate come il simbolo delle “spine” (si giocava sulle parole) che la funzione pontificia necessariamente comporta.
Le difficoltà della funzione sono al centro della dichiarazione che Celestino V lesse ai cardinali riuniti in concistoro. Dopo avere annunciato la sua decisione di volere rinunciare al papato, il papa estrasse dal suo manto una carta di cui dette lettura: «Io, Celestino V papa, considerandomi incapace di questa carica, sia a causa della mia ignoranza, sia perché sono vecchio e debole, sia anche per la vita puramente contemplativa sin qui da me condotta, dichiaro di volere abbandonare questo incarico che io non posso più (rivestire); abbandono la dignità papale, i suoi impegni ed i suoi onori».
Seguì un rituale mai visto, semplice e sobrio, ma al tempo stesso spettacolare: Celestino V discese dal trono, si tolse la tiara dal capo e la posò per terra. Si spogliò quindi di ogni altra insegna pontificale e quindi anche del pallio.
I cardinali, ci dice ancora Bartolomeo di Cotton, assistettero stupefatti all’avvenimento. Celestino V, tornato a essere Pietro del Morrone, si recò poi nella sua camera e si rivestì subito dell’abito grigio della propria congregazione.
Le parole di Celestino V non sono così diverse da quelle pronunciate da Benedetto XVI ieri davanti ai cardinali, e forse sono state preannunciate da quell’inedito e straordinario gesto di deporre sulle reliquie celestiniane il pallio, simbolo della funzione papale, anche in termini di gravità, di difficoltà, di peso.
Il giudice ultraterreno
di Piero Boitani (il Sole-24 Ore, 23 ottobre 2011)
«Chi dà a Dante il diritto di ergersi a giudice del l’umanità?», domandava in pubblico, qualche anno fa, durante un convegno, una mia amica inglese. «Nessuno: se lo prende da solo», le risposi. E lo fa, si deve ora dire con Borsellino, perché ha un senso e un bisogno profondissimi della giustizia, di cosa essa dovrebbe essere. Sulla porta dell’inferno Dante piazza un’iscrizione che lascia noi moderni turbati: «Giustizia mosse il mio alto fattore: / fecemi la divina potestate, / la somma sapienza e ’l primo amore». L’inferno è stato creato da Dio per giustizia: poiché sulla terra essa non è mai perfetta, e lascia spesso impuniti i colpevoli mentre punisce talvolta gli innocenti, Dio ha fatto l’inferno perché racchiuda in maniera definitiva, per tutta l’eternità, il male del mondo.
Dante non ha né atteggiamenti politicamente corretti né inclinazioni teologiche moderne (l’inferno esiste, dicono alcuni teologi oggi, ma è vuoto, perché in Dio, perfettamente giusto, prevale la misericordia). Tuttavia, ha anche dei dubbi tremendi. Quando nel paradiso incontra gli spiriti giusti e questi formano un’aquila luminosa di stelle, si domanda: uno nasce in India, dove non c’è chi gli predichi il Cristianesimo; le sue azioni sono tutte buone secondo ragione, non commette peccato in pensieri, parole, opere, ma muore non battezzato: «Ov’è questa giustizia che ’l condanna? / ov’è la colpa sua, se ei non crede?». Il buono che non sia stato battezzato finisce, nell’ottica di Dante, al Limbo, che è pur sempre una parte dell’inferno. L’aquila si risponde da sola: nessuno è mai salito in paradiso che non abbia creduto in Cristo, ma l’intendimento di Dio non può essere sondato dall’intelletto umano: il giorno del Giudizio, ci saranno degli Etiopi che condanneranno quei Cristiani dell’apparenza i quali si battono il petto invocando Cristo tutto il giorno!
E poi, esiste anche, grandissimo, il problema della giustizia terrena, umana, e di quella poetica in particolare. Il potente, colui che governa (Giustiniano, Carlo Martello), può essere sempre giusto? E che giustizia è quella che condanna, mettiamo, Paolo e Francesca, Ulisse, o addirittura, in prospettiva, Guido Cavalcanti? Insomma, che giudice è Dante?
Nino Borsellino affronta tutti questi problemi in maniera pacata e sapiente nel libro che inaugura una serie di «Saggi e ricerche» pubblicati dalla Fondazione Sapegno (il suo maestro). Tre splendidi capitoli introduttivi esaminano il problema del rapporto tra giustizia e letteratura quale i millenni, ormai, hanno posto, e il passaggio, in questo ambito, dal divino all’umano: dalla Bibbia a Eschilo a Dante, appunto. Quindi, il corpo centrale affronta, con una serie di indagini su singoli temi o episodi, i «teatri delle cantiche»: l’idea stessa di una natura teatrale della Commedia è feconda, ed ecco svolgersi sotto i nostri occhi le scene memorabili delle metamorfosi, del Limbo, di Farinata e Cavalcante, di Malebolge; poi quelle del Purgatorio (tra i capitoli più affascinanti del volume, quelli su Stazio e Forese); infine quelle del del Purgatorio (tra i capitoli più affascinanti del volume, quelli su Stazio e Forese); infine quelle del Paradiso: Giustiniano, Carlo Martello, Cacciaguida. Una lettura per gradi, appassionatamente argomentata.
Nella sua "pietas", Borsellino salva anche Guido Cavalcanti, il cui celebre "disdegno" non sarebbe rivolto a Beatrice, ma soltanto a Virgilio (dunque non alla fede, ma alla ragione), e gli pronostica il purgatorio, «il luogo della penitenza per la salvezza... dove amici e poeti e artisti indugiano col pellegrino che li ha collocati sulla sua strada, quando la memoria delle passioni testimonia ormai di un riscatto». Ho i miei dubbi, ma come si richiede ai giurati prima del verdetto: si deve esser convinti al di là di ogni ragionevole dubbio. Meglio assolvere un colpevole che condannare un innocente.
Nino Borsellino, Il poeta giudice. Dante e il tribunale della Commedia, Nino Aragno, Torino, pagg. 266, € 15,00
La «Divina Commedia» : un’opera biologica e musicale
Il poeta Mandel’stam interpretò il capolavoro di Dante su base scientifica
di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 09.01.2011)
Il grande poeta russo Osip Mandel’-stam scrive il Discorso su Dante nel 1933, cinque anni prima di morire in un gulag presso Vladivostok. Come ogni saggio davvero innovativo, il suo (uscito solo nel ’ 67) non è equilibrato ed ecumenico, ma radicale e arbitrario; anche se l’arbitrio è sostenuto con una logica interna inesorabile. - per Mandel’stam, Dante deve essere anzitutto liberato dalla sua fama. Poeta difficile ma appagante per i suoi contemporanei, è stato poi sopraffatto dalle vaghezze dell’arcano e dall’ossessione esegetica: «Presi dalla grammatica scolastica e dall’ignoranza allegorica, abbiamo perso di vista le danze sperimentali della Commedia» . «Danza» è termine decisivo, che evoca sia la musica sia la fisica (le «danze» degli atomi) e si lega a un altro termine, «onda» , che - ricorda Mandel’stam - «permea tutta la nostra teoria del suono e della luce» .
La Commedia sarebbe così - nella sua essenza profonda - un incontro di musica e scienza, unificate e cadenzate dalla struttura rigorosa e flessibile, esatta e dinamica- dal tessuto «resistentissimo» e «liquido» , come fosse seta - del verso dantesco. La prospettiva musicale serve a mostrare come la narrazione lineare del poema (il «viaggio» col suo portato allegorico psicologico) sia inseparabile dalla sua orchestrazione; come ne sia, anzi, un’emanazione.
E’ così possibile, secondo l’uso romantico, astrarre da quel tessuto la singola «aria» di un personaggio (come fa Mandel’stam stesso nel paragonare la confessione di Ugolino a un lancinante largo per violoncello, fitto di chiaroscuri affettivi), ma non è possibile scorporarla dal suo fondale timbrico e tonale. Non a caso, viene evocato più volte il nome di Bach, come se Dante, al tempo in cui non esisteva l’organo sei-settecentesco - ma solo i suoi «prototipi-embrioni» -, ne impiegasse già la «potenza smisurata» e tutti i registri e colori. Qui- sviluppando Mandel’stam- ci si può spingere oltre. Il legame Dante-Bach non è infatti avvertibile solo nella comune concezione «contrappuntistica» e nell’equivalenza tra la terzina e il «fugato» , ma in una sorprendente omologia tra il Paradiso e l’ultimo Bach delle Variazioni Goldberg, dell’Offerta musicale e soprattutto dell’Arte della fuga.
I due universi condividono nell’insieme la struttura radiale (evidenziata da Glenn Gould nelle Goldberg) e la luce nivea e diafana, la progressiva rarefazione della materia; e nel dettaglio, l’intreccio di riflessi e rifrazioni, con la figura dello specchio di certe fughe bachiane (una il rovescio simmetrico dell’altra) che si ritrova sia nella microstruttura del verso dantesco (vedi il chiasmo sulla Trinità, in XIV, 28-29: «Quell’uno e due e tre che sempre vive/e regna sempre in tre e due e uno» ) sia nella macrostrutttura del montaggio: nell’XI canto il domenicano Tommaso elogia San Francesco, e nel XII il francescano Bonaventura elogia San Domenico.
Strettamente connessa a quella musicale, la prospettiva scientifica permette a Mandel’stam alcune analogie penetranti, come quella «cristallografica» , che equipara la Commedia a un immenso poliedro di 14.000 facce (tante quante i versi), lavorato da migliaia di api in un brulichio cooperativo crescente con la complessità del favo, e in cui ogni ape lavora al particolare senza perdere di vista l’insieme.
E’ una comparazione «dantesca» , un vero omaggio, cui il poeta russo fa seguire un chiarimento sul carattere non solo descrittivo, ma estetico e conoscitivo, delle similitudini nella Commedia. Un pensiero metaforico che ritroveremo a quel grado solo in uno scrittore-scienziato (Robert Musil) che condivide con Dante anche la dialettica tra «anima ed esattezza» e il carattere del suo non-protagonista: il Dante-personaggio spaesato e tormentato descritto da Mandel’-stam sarebbe- senza la protezione della Provvidenza - un antefatto dell’Uomo senza qualità.
Ma anche qui, grazie alla sua esortazione di metodo («Il futuro dell’esegesi dantesca appartiene alle scienze naturali» ), Mandel’stam ci spinge ad andare oltre. A usare le scienze per decifrare non solo la tessitura del verso (l’ «orchestra chimica» ) ma anche la sua dimensione cognitiva: lui stesso cita del resto il canto XXVI del Paradiso, dove risalta il rapporto tra la luce e la fisiologia dell’occhio. Prendiamo, per esempio, due sequenze chiave del Purgatorio.
Nel canto XXV lascia meravigliati la descrizione- per bocca di Stazio e basata su Alberto Magno- degli stadi dell’embrione dopo il concepimento: simile a «spungo marino» (incrocio di spugna e fungo) dispiega tutte le sue membra, ma il passaggio decisivo avviene solo quando si è sviluppato il cervello («l’articular del cerebro è perfetto» ) e l’intervento divino immette l’ «anima intellettiva» , base della consapevolezza (di un essere «che vive e sente e sé in sé rigira» ). Oggi sappiamo quanto sia diversa l’embriogenesi -l’azione concertata della selezione, degli interruttori genetici e della scrematura neurale -; eppure, la descrizione dantesca sembra già contenerla per slancio immaginativo e grazia poetica: per tacere del fatto - casuale, ma non per questo meno emozionante -, che la neurobiologia ha dimostrato come le proteine di connessione dei nostri neuroni (del nostro pensiero) coincidano proprio con quelle di adesione cellulare in certe spugne.
Nel canto XVI - all’esatto centro del poema - Dante chiede invece conto a Marco Lombardo della crudeltà-opacità umane (perché il mondo sia «diserto/ d’ogne virtute» ) e gli viene risposto che la mente infantile è una tabula rasa soggetta -se non educata- a piaceri ingannevoli e pericolosi, e che quei piaceri -diventati nell’adulto infrazioni e crimini - dovrebbero essere contrastati da un diritto purtroppo mal amministrato («Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?» ).
La sintesi è una terzina-invettiva densa come un trattato («Ben puoi veder che la mala condotta/è la cagion che ’ l mondo ha fatto reo/e non natura che n’voi sia corrotta» ) in cui cade ogni alibi per le nostre azioni, per il nostro «libero voler» . Oggi sappiamo che il libero arbitrio e la volontà sono molto più limitati di quanto pensasse Dante (basti ricordare che tante scelte istintive affiorano alla coscienza dopo mezzo secondo) e che non sono così elevate le possibilità di plasmare la natura (i vincoli biologici) con la cultura. Ma questo, anziché ridurle, acuisce le nostre responsabilità, a partire da quelle educative. E poi, se anche la nostra libertà fosse solo un’illusione, la forza di quella sequenza la persuasività visionaria e musicale, ancora una volta, del verso dantesco riuscirebbe a darle la consistenza di una speranza.
Concilio e libertà
di Raniero La Valle
Articolo pubblicato su Rocca *
Sta emergendo, negli osservatori esterni, un sentimento di tenerezza e compassione verso Benedetto XVI a causa della sua profonda afflizione per “il peccato penetrato nella Chiesa” ed esploso con i preti pedofili e qualche incidente di percorso dei suoi maggiori prelati. Da ciò a un giudizio generale sullo stato della Chiesa il passo è breve, e lo ha compiuto da ultimo Pietro Citati, che però usa categorie di giudizio che dimostrano quanto poco il rinnovamento del Concilio abbia modificato il modo in cui la Chiesa viene percepita dal mondo.
Dice infatti Citati che il problema non è il peccato, perché anzi senza l’angoscia del peccato il cristianesimo nemmeno potrebbe esistere; il rischio è invece che la Chiesa cessi di essere quell’“arca” nella quale la coscienza del peccato è compensata dalla gioia della grazia. Il rischio a suo parere è che la Chiesa cessi di essere “un’eccezione” rispetto al mondo che vive la sua avventura moderna. La Chiesa, secondo la visione un po’ giansenista (Pascal) espressa in questo articolo, non deve affatto essere moderna, anzi deve restare un residuo dei tempi antichi, il paradosso che contraddice la ragione, qualcosa di originario e straordinario che ignora le norme della società e della politica; e di conseguenza i suoi preti non devono essere “uomini come gli altri”, quasi fossero pastori protestanti, ma anzi devono riprodurre lo spirito degli antichi eremiti, e fare della castità e del celibato un segno di elezione, il segno della distanza, della differenza, dell’eccezione rispetto “al resto della vita”; cose di cui per fortuna, nonostante tutto, sussisterebbe qualche retaggio anche oggi.
Ora la domanda è: perché il mondo insiste su questa figura di Chiesa? Questa infatti è la figura sublimata della Chiesa professata prima del Concilio, a cui non corrispondeva affatto la Chiesa reale; e proprio Citati altra volta ha dato di quella Chiesa preconciliare una descrizione impietosa. Quello che ha fatto il Concilio non è stato certo di spegnere il paradosso o di togliere al Vangelo la sua forza di scandalo rispetto alle pratiche del mondo. Quello che ha fatto il Concilio è stato però di rimettere la Chiesa nel mondo e di riconoscere che questo paradosso e questo scandalo non vogliono affatto essere “un’eccezione rispetto al resto della vita”, ma vogliono essere precisamente questa vita; non dunque da riservarsi alla Chiesa come a un’arca sottratta alla rovina, ma da destinarsi all’umanità tutta intera oggetto dell’elezione di Dio.
A ben vedere, al di là di tutto il riformismo ecclesiastico (ciò in cui il Concilio non è riuscito), l’aggiornamento (cioè la rivisitazione nelle forme del pensiero “moderno”) promosso da Giovanni XXIII, ha riguardato proprio la riproposizione della fede come comprensione (o “ermeneutica”) del mondo e come possibilità offerta a tutti, e dunque compatibile con la vita reale.
E la prima cosa che ha fatto il Concilio è stata precisamente di liberare l’uomo dall’idea del peccato come destino, quale era percepito dentro le categorie.del peccato originale; e di fare invece della scelta tra il bene e il male un connotato della libertà, identico per l’uomo moderno come per il primo uomo, in quanto la libertà è e resta un “segno privilegiato” dell’immagine di Dio nell’uomo.
Il Concilio non fa alcun riferimento alle conseguenze devastanti che il primo peccato avrebbe avuto sull’intero genere umano, quasi attribuendo all’uomo una seconda e più inferma natura, ma dice che anche dopo la caduta Dio “non lo abbandonò”, non lo privò degli aiuti necessari alla salvezza e per conseguenza non lo scacciò da nessun giardino. E l’incarnazione non è narrata come un’operazione di riscatto per estrarre dall’umanità una porzione di eletti o di salvati intesi come Chiesa, ma come un dono di grazia e una vocazione per gli uomini tutti. Di conseguenza non c’è questa imparagonabilità della Chiesa col mondo, perché è proprio della totalità umana a lui unita nel Figlio, che Dio ha voluto fare il suo popolo. E qui, se vogliamo, sta il vero fondamento della laicità, non irreligiosa, del mondo.
Questo cerco di dire in un libro che uscirà il 16 settembre, intitolato “Paradiso e libertà; l’uomo, quel Dio peccatore”. Vi si racconta come una legge bolognese medioevale che aveva restituito ai servi la libertà fosse chiamata “Libro Paradiso”; il Paradiso è dunque il luogo dove gli uomini vengono a libertà. Ma guai se gli uomini fossero liberi solo in Paradiso, e se il mondo della fede fosse il “totalmente altro” dal resto del mondo. Se il Paradiso è libertà, perché lì abita Dio la cui immagine è la libertà, e se Dio è venuto in questo mondo, ogni volta che sono liberati dei prigionieri, che si chiudono le Inquisizioni, che sono sconfitti i mafiosi, che acquistano diritti gli operai, che escono le donne dalle mani di padri e padroni, e ogni volta che il mondo è amato così, si stabilisce un pezzo di paradiso in terra; e ogni volta che questo accade, si accorciano le distanze tra i due paradisi, e l’uomo, se è divino, può trovarsi a casa sua in ambedue le città.
Raniero La Valle
* Il Dialogo Sabato 17 Luglio,2010 Ore: 18:47
Hegel
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO
Il suo pensiero e’ una spietata macchina da guerra. Due secoli fa, nel marzo del 1807, usciva l’ardua opera del grande filosofo: sgomento’ non pochi lettori. L’editore Goebhardt, spaventato dalla mole e dall’oscurita’ del testo, decise di stamparne solo 750 copie. La leggenda vuole che finisse di scrivere questo saggio il giorno stesso in cui Napoleone entro’ a Jena vincitore
di ANTONIO GNOLI (la Repubblica, 24 marzo 2007) *
Nel marzo del 1807, a trentasette anni, G. W. F. Hegel pubblico la Fenomenologia dello Spirito. L’opera - ardua, oscura, indecifrabile - lascio’ sgomenti i pochi lettori contemporanei messi di fronte a un linguaggio di astrusa profondita’. Quasi un ventennio prima, anche Kant aveva seminato un eguale disorientamento. Tant’e’ che Fichte si spinse a dire che la fortuna del padre della Critica in larga parte si doveva alla sua oscurita’. Ma non era un po’ tutta la filosofia tedesca minacciata dall’incomprensione? Da tempo il suo linguaggio si era spinto nelle dure terre dell’astrazione. Lo stesso Marx, che nasceva da una costola di Hegel, e che pure si era dato uno statuto di scienziato sociale, amava sorprendere con l’estro della enigmaticita’. Anzi, dell’enigma egli fece una prerogativa della merce e della filosofia il suo specchio. Il suo "maestro" dunque non era l’eccezione. Come non lo sara’ un secolo e mezzo dopo Heidegger.
La lingua hegeliana si pose al servizio di un compito immane: ricostruire il tempio della filosofia, utilizzando le stesse architetture che aveva in precedenza demolito. Non c’e’ grande filosofo che non abbia provato a radere al suolo le maestose citta’ del pensiero da altri edificate. Al punto che si puo’ immaginare la filosofia come una macchina da guerra che va alla conquista di territori, scacciandone gli abitanti o sottomettendoli.
Hegel ha solo reso esplicito il carattere bellico del piu’ serafico tra i saperi. Ma per la prima volta il "parricidio" non era commesso contro un nome, un’identita’, una figura, una persona, una scuola, bensi’ nei riguardi di tutto cio’ che il pensiero aveva pensato fino a quel momento. Hegel non e’ solo un filosofo. e’ anche un predatore dello spirito. C’e’ qualcosa di pantagruelico e spietato, di onnivoro e cinico nel suo atteggiamento.
Deplora la stasi, diffida delle leggi (soprattutto quelle scientifiche), teme la forza dell’esperienza. Ma al tempo stesso sa che tutto cio’ che lo deprime o l’ostacola intellettualmente appartiene ancor prima che al cielo delle idee al teatro del mondo. Cio’ che vi accade - con gli uomini che vi si agitano, le storie che vi si narrano, i pensieri che lo ravvivano - e’ solo oggetto di spiegazioni parziali. Buone per giustificare un punto di vista, ma incapaci di restituire la verita’ nel suo splendore. Neanche Dio - per questo pastore luterano mancato - puo’ aspirare a illuminarci. Le nostre vite, i nostri pensieri, le costruzioni a volte fantasiose, altre ancora mirabilmente serrate, sono agli occhi del filosofo destinate a perire. Come puo’ immaginare una civilta’ a prova di decadenza? Fino a dove puo’ spingersi il pensiero senza cadere nel delirio dell’onnipotenza?
Dio deve calarsi nella storia e al tempo stesso la storia farsi in Dio. Sembra un gioco di prestigio, una sottigliezza. In realta’ e’ l’ossessione che Hegel si porta dentro. Ha una conoscenza mostruosa della storia della filosofia. Il suo sguardo abbraccia l’Oriente e l’Occidente. Da giovane si e’ invaghito di Eleusi, ha flirtato con i mistici (Eckart in particolare), ha scoperto la forza di Platone e Agostino. Conosce le virtu’ di Spinoza, ammira Rousseau, ma al tempo stesso ne diffida. Pensa allo spirito e alla politica. Non solo la potenza del pensiero speculativo, ma il disegno divino e i promettenti fasti della citta’ celeste, pavimentano la sua ricerca. Dove e come realizzare un cosi’ poderoso programma? A quale verita’ intende aspirare? In quale abisso terrestre cerca l’eterno? L’ossessione si trasforma in una lenta e magistrale bulimia.
I pochi amici lo descrivono probo, ragionevole, dotato di quella sicurezza che le menti eccelse a volte sviluppano. Sotto quella calma in realta’ batte il cuore di un Calibano. A volte - preso dal furore speculativo - mostrava la voracita’ del cannibale. In quelle circostanze era in grado di inghiottire ogni cosa. Non c’era boccone filosofico che egli non afferrasse per poi portarlo all’altezza del naso. Lo scrutava, lo annusava e in pochi istanti decideva se inghiottirlo o gettarlo come un rifiuto nella spazzatura. Si sentiva il sovrano di una tribu’ immaginaria, quella dello spirito, cosi’ come riconosceva a Napoleone la stessa potenza sul territorio della materia. La leggenda vuole che egli finisse di scrivere la Fenomenologia dello Spirito, il giorno stesso in cui Napoleone entro’ a Jena da vincitore. E annoto’ l’evento in una lettera: "Ho visto l’imperatore, quest’anima del mondo, cavalcare attraverso la citta’ per andare in ricognizione: e’ davvero un sentimento meraviglioso la vista di un tale individuo che, concentrato qui in un punto, seduto su un cavallo, abbraccia il mondo e lo domina".
C’era qualcosa di cinematografico in quella descrizione. A volte Hegel indugiava sulle immagini. Improvvisamente la tetra foresta verbale della sua prosa si incendiava di colori bellissimi. E in fondo, si puo’ anche pensare alla Fenomenologia dello Spirito come a un grande affresco hollywoodiano, una specie di movimentato dramma a lieto fine con protagonisti di alta classe e comprimari affidabili. Dopotutto, quello che i manuali avrebbero chiamato idealismo tedesco, si poteva anche interpretare come il sogno filosofico di una terra, la Germania, che aveva smesso di sognare. Ma in che modo la filosofia avrebbe potuto dire qualcosa di speciale e di definitivo rispetto alla scienza, all’arte, alla religione, alla politica? Quale "Assoluto" sarebbe stato all’altezza di questo compito? Quale "Totalita’" capace di soddisfarne la smisurata ambizione?
Hegel non aveva il deserto alle spalle. Non c’erano dietro di lui nani della filosofia, ma titani che svegliavano il sonno del mondo costruendo grandi macchine del pensiero. Architetture rarefatte, ma pur sempre cattedrali della speculazione che non si potevano ignorare: Kant, Herder, Fichte, Jacobi, Schelling erano sorti come fiori astrusi da quel mondo asfittico e miserabile che era la Germania del Settecento. Un territorio che Marx condannera’ all’inanita’ politica e che il giovane Hegel vedra’ come una promettente occasione di rivalsa. Bastava sconfiggere quei giganti, divorarli con lenta determinazione e accrescere cosi’ la propria forza, per essere non piu’ uno tra loro, ma l’unico. Il solo in grado di scrivere la parola fine. Perche’ era dalla fine che bisognava partire per tornare all’inizio e da qui ripercorrere tutto intero il cammino. Si trattava di uno sforzo intellettuale mostruoso la cui posta in palio era l’Assoluto.
Non il vuoto astratto dei metafisici che lo avevano preceduto, ma quello denso di vita, palpitante di storie, ricco di eventi: un Dio appunto che si faceva storia e la storia che diventava Dio. Un Dio che era in grado di pensare se stesso fuori da se’ e che alla fine, dopo la tormentata fuoriuscita, tornasse in se’, arricchito dall’esperienza del mondo. Ecco l’esercizio acrobatico con il quale Hegel si apprestava ad addomesticare i giganti del passato, introducendoli alla sua corte.
Anni di studi e di soggiorni, a Tubinga, Berna, Francoforte, ne avevano affinato lo spirito dialettico. Poi c’erano stati gli anni decisivi di Jena: il rumore dei cannoni, i bivacchi delle truppe francesi che occupavano la citta’, i fuochi intravisti dalla finestra dello studio, ne eccitavano la fantasia. Un’alba nuova si annunciava. Un’alba che la Fenomenologia, simile a un grande romanzo filosofico dall’andamento faustiano, avrebbe raccontato come la fine del vecchio mondo. Hegel voleva afferrare lo scorrere della vita, catturarne il movimento senza avvilirlo negli attriti dell’esistenza.
Voleva che la vita si fregiasse di quel potere che essa stessa negava: il potere dell’esistenza umana sull’inquietudine, sull’angoscia, sulla finitezza, sulla morte. Puo’ suonare stravagante che un metafisico - quale in fondo egli e’ rimasto - volga lo sguardo al mondo delle cose e degli uomini e alla storia che tutto avvolge. Nulla e’ piu’ infido e piu’ instabile di quel suolo coperto di polvere e sangue, sovrastato dal rumore della battaglia, dagli echi dei passi dei soldati. Non e’ solo Jena. E’ il mondo che si riflette in quello spicchio di vita prussiana.
Differentemente da uno scrittore, un filosofo in genere non testimonia di se’ e della propria vita, espone teorie. E ogni volta che lo fa spera di dimostrare se non in modo definitivo almeno profondo il suo grado di comprensione del mondo. Quella mitica entita’ che e’ l’Essere viene ostentata come lo scopo del suo lavoro, la ragione ultima del suo pensare.
Non e’ necessario osservare che una tale metafisica risultava insoddisfacente per l’incapacita’ a sanare la distanza tra l’Uno e il Molteplice, tra l’Al di la’ e l’Al di qua, tra Dio e Mondo. La Fenomenologia avrebbe dovuto riempire quel vuoto, unire, in qualche modo, cio’ che non era unificabile. Ma come tenere saldamente insieme la realta’ sfuggente, ambigua, contraddittoria del mondo con la perfezione celeste? Come non sporcare l’Assoluto con le bassezze del mondo e al contempo in che modo innalzare quest’ultimo al cielo dell’idea? Lo strumento della dialettica - l’arma letale di cui Hegel si era fornito - avrebbe egregiamente svolto il compito.
Che ne e’ oggi della Fenomenologia dello Spirito? Il lato aneddotico della domanda ci rimanda all’origine della vicenda. L’editore Goebhardt - spaventato dalla mole e dall’oscurita’ - ne stampo’ 750 copie.
Poche settimane prima che l’opera fosse pubblicata Hegel divenne padre. Il 5 febbraio 1807 nasceva Louis, il figlio illegittimo avuto dalla sua portiera.
Questo dramma, per lungo tempo tenuto nascosto ai biografi, tormentera’ il filosofo (al punto che se ne troverebbero tracce nella stessa Fenomenologia). Louis portera’ il cognome della madre. E sebbene si sentisse particolarmente legato al bambino, Hegel ne rifiutera’ la paternita’.
Provera’ a inserirlo nella famiglia che nel frattempo aveva creato con una moglie che gli dara’ due figli. Ma Louis Fischer - che commosse Goethe per la sensibilita’ e l’intelligenza - non riusci’ mai a integrarsi. Ormai ventenne si arruolo’ nell’esercito olandese e mori’ di febbre a Giava il 28 agosto 1831. Due mesi dopo Hegel sarebbe morto per l’epidemia di colera che si era diffusa a Berlino. Prima di morire aveva rimesso le mani sul suo capolavoro. Ma fece in tempo a rivedere solo una trentina di pagine. Mori’ che era un filosofo celebre ed ostico. La Fenomenologia dello Spirito fu un testo poco amato nell’Ottocento. La sua fortuna fiori’ improvvisa nel Novecento, tra le due guerre. In Francia Jean Wahl, Alexandre Koyre’, Jean Hyppolite e soprattutto Alexandre Kojeve contribuirono al suo sdoganamento.
Gyorgy Lukacs e Ernst Bloch ne rilevarono l’importanza. Anche Heidegger forni’ la sua interpretazione. Come mai tanta attenzione? Pensando il mondo, Hegel lo immagina come un teatro: un insieme di scene sfilano sotto il suo sguardo. Da questo punto di vista, lo svolgersi della Fenomenologia avviene attraverso un movimento che dalla coscienza immediata approda al Sapere Assoluto. Il cammino - che ha la forma di un vero e proprio viaggio - e’ cosparso delle esperienze che lo spirito dovra’ fare.
L’intelletto, la coscienza infelice, la lotta tra il servo e il signore e il desiderio del riconoscimento, il farsi della legge, il piacere e la necessita’, il passaggio dal mondo feudale alla monarchia, le anime belle e l’eroismo, l’illuminismo e la superstizione, la liberta’ e il terrore, il misticismo e la religione rivelata, sono alcuni dei tableaux che troviamo nell’opera. Hegel li disegna riducendoli al suo linguaggio. L’oscurita’ che li avvolge e’ la garanzia che qualcosa di ignoto sta venendo alla luce.
Non si puo’ evitare di concludere che cio’ che viene incontro al lettore e’ un abilissimo gioco acrobatico dove arbitrio e necessita’ familiarizzano con le parole, creando un singolare equilibrio tra evento e discorso. Cio’ che accade puo’ essere raccontato. Ma solo perche’ lo si racconta accade realmente. E’ un movimento che due secoli dopo il sistema dei media (non quello dello spirito) avrebbe reso evidente in tutta la sua ovvieta’. Del resto, dopo Jena, Hegel si reco’ a Bamberga dove svolse per un anno e mezzo il lavoro di giornalista. Conobbe l’ansia della notizia, la crudelta’ della censura e la lingua che si corrompeva.
Terminata quell’esperienza torno’ ad essere "Hegel l’oscuro" che riteneva che la parola non fosse semplicemente chiusa nel linguaggio, ma parlasse tra le cose e infine tornasse a se’ arricchita da quell’esperienza. La Fenomenologia si conclude con il trionfo del Sapere Assoluto. Si potrebbe ironizzare sulla consistenza di questa sovranita’ misteriosa che e’ la totalita’ hegeliana. O provare a leggerla nei tanti modi in cui e’ stata letta: fine della storia, nascita di un nuovo sapere, trionfo della civilta’ cristiano-borghese, metafora del totalitarismo o affermazione del piu’ puro ateismo. Ma dopotutto quell’opera ci dice anche qualcosa di essenziale sulla modernita’. Ci dice che un filosofo deve bagnare il proprio pensiero nella tempesta. Ci dice che sono esistiti tantissimi pensatori con l’ombrello aperto, al riparo dalla pioggia, ad aspettare che il cielo rischiarasse.
*
NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 777 del primo aprile 2009.
La commedia del popolo
di Albero Asor Rosa (la Repubblica, 29.12.2008)
In genere si pensa che la storia della letteratura sia un seguito di grandi uomini e di grandi opere, che ci si deve accontentare di ammirare dal di sotto e da lontano, quasi pargoli indigenti di ogni sapienza. Di certo è anche questo (e anche l’ammirazione da lontano va praticata): ma è anche una moltitudine di minuscoli dati intellettuali e materiali, la cui paziente osservazione porta sovente a scoperte magari semplicissime nella sostanza ma estremamente rivelatrici negli effetti.
Questa considerazione mi viene in mente dalla rilettura di una famosa «epistola» di Francesco Petrarca niente di meno che a Giovanni Boccaccio in merito alla produzione letteraria volgare di Dante Alighieri (bella e straordinaria questa adunanza di «spiriti magni», riuniti intorno ad un tavolo ideale, come soggetti e oggetti della conversazione, per discutere della natura e dei compiti della poesia, anzi, della Poesia).
In questo testo è in gioco l’apprezzamento, - positivo o negativo, o meno positivo, o un tantino negativo, - di un’opera come la Commedia, pietra fondativa, architrave, dell’intero «sistema letterario» italiano. E per quanto l’occasione possa apparire limitativa, - in fondo una lettera originariamente privata, sia pure tra due grandi personalità, una «famigliare» fra le tante (XXI, 15), - lì è contenuta l’essenza di una scelta di fondo, che percorre da un capo all’altro l’intera nostra storia letteraria (forse addirittura fino ai giorni nostri, di sicuro fino all’altro ieri), la contrapposizione, cioè, per dirla in termini molto attuali, quasi da tifo calcistico, tra i filo-danteschi e i filo-petrarchisti, tra i seguaci di una nozione della poesia ispirata all’opera e ai precetti teorici di Dante e i seguaci di una nozione della poesia ispirata all’opera e ai precetti teorici di Petrarca.
Naturalmente, date le premesse, si potrebbe ragionare all’infinito sulle motivazioni, molteplici e ricche, di ognuna delle due linee. Per l’occasione fermerò l’attenzione su di un solo punto, che però, a guardar bene, potrebbe costituire il presupposto di tutti gli altri.
Boccaccio, com’è noto, è un filiale sostenitore (ovviamente a modo suo) della linea dantesca. Però, ammiratore al tempo stesso di quel suo fratello maggiore che era Petrarca, si sforzava in tutti i modi di persuaderlo delle buone ragioni della sua ammirazione per Dante (della cui Commedia aveva inviato anni prima una preziosa copia a Petrarca stesso).
Petrarca, contegnoso e, secondo me, anche un poco ipocrita, gli risponde (siamo in anni tardi, intorno al 1360) che lui apprezza e ama Dante ma non può fare a meno di constatare come il suo innegabile ingegno si sia come sporcato e rovinato a causa... A causa di cosa? A causa del fatto che Dante, nelle modalità della sua poesia, nella scelta delle sue tematiche e (soprattutto) nell’uso di una determinata lingua, ha pensato fosse giusto stabilire un rapporto, - un rapporto stretto e per lui molto fecondo, - fra il proprio ruolo di poeta e un pubblico vasto, nel quale avrebbe inevitabilmente assunto un ruolo, superiore a qualsiasi classica misura, l’elemento popolare.
Le parole di Petrarca sono di un’inequivocabile durezza. Egli respinge con sdegno l’insinuazione che potesse «invidiare» Dante per la fama da questi rapidamente acquisita. Come avrebbe potuto invidiarlo, - scrive il poeta classicheggiante e precocemente umanista, - se ad ammirare Dante, con «applauso e strepito sgraziato», si erano distinti in prima fila personaggi come «i tintori», «gli osti», «i lanaioli», ossia i rappresentanti tipici del popolino fiorentino, che fin dalla prima circolazione della Commedia ne avevano imparato i versi a memoria e li salmodiavano o cantavano (testimonianze coeve ce lo confermano) persino in bottega, nell’esercizio delle loro attività artigianali?
Non aver scansato in tutti i modi, - come Petrarca dichiara di aver voluto fare accuratamente per sé e per la propria opera, - questa vera e propria contaminazione fra la propria poesia e quel pubblico indegno aveva provocato come altra intollerabile conseguenza negativa che il suo stile, - lo stile di Dante, volentieri piegato dal suo autore a tale contaminazione, - risultasse «insozzato e coperto di sputo dalle balbettanti lingue di costoro».
Comincia da qui, con la sorprendente chiarezza di cui solo un intelletto come quello di Francesco Petrarca poteva esser capace, il lungo percorso del padre Dante nella storia della letteratura italiana successiva. Mi rendo conto, naturalmente, di schematizzare oltre misura. E però non sarebbe difficile dimostrare che la fortuna di Dante, e in modo particolare della sua poesia (che per scelta sua fu, non dimentichiamolo, quasi tutta volgare), s’alza o s’abbassa, in taluni momenti fin quasi a scomparire, a seconda che i letterati italiani di questo o quel periodo si siano posti oppure no il problema di venire incontro alle aspettative, non solo dei membri della loro medesima corporazione, ma a quelle dei «tintori», degli «osti» e dei «lanaioli» dei loro tempi (con il che, com’è ovvio, intendo riferirmi a quelle situazioni sociali, professionali e intellettuali, che di volta in volta sfuggissero ai modelli precedenti del «sistema»).
A questo possibile diagramma storico della nostra letteratura, che vede la presenza maggiore o minore di Dante come il visibile segnale d’una condizione più aperta e rinnovatrice della ricerca, andrebbe accompagnata la parallela ricostruzione della fortuna di Dante direttamente presso le classi popolari italiane, fino ad un periodo a noi assai vicino.
«Dire» Dante ha sempre significato a quel livello un’affermazione d’identità, che in quelle parole, in quei versi e in quella lingua «si riconosceva» (né può risultare una diminuzione per la Commedia dantesca il fatto che le si affiancassero nella memoria popolare opere come il Guerrin Meschino o la Gerusalemme liberata).
È quello che, con la geniale inventività che lo contraddistingue, ha fatto e continua a fare Roberto Benigni, parente stretto di quei popolani toscani che al Petrarca davano tanto fastidio. Mi preme rilevare che tutto ciò è tutt’altro che casuale.
L’origine ne va cercata infatti nelle scelte stesse di Dante, anche quelle di maggior rilievo e sofisticazione intellettuale. E si può esser sicuri che Dante, se avesse potuto, non si sarebbe lamentato, come Petrarca, d’esser detto o cantato dalle «lingue balbettanti» degli incolti.
Leopardi figlio di Galileo
Un libro di Gaspare Polizzi sul legame tra lo scienziato e il poeta
di Pietro Greco *
C’è un filo rosso che lega la storia della grande letteratura italiana, da Dante a Galileo fino a Giacomo Leopardi. Questo filo rosso - anzi questa «vocazione profonda» - diceva Italo Calvino, è la filosofia naturale. Qui tre grandi - e poi lo stesso Calvino - hanno considerato «l’opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile».
Cosicché tra la grande letteratura e la scienza, in Italia, non c’è mai stata quella separazione denunciata cinquant’anni fa da Charles Percy Snow nel suo famoso libro sulle «due culture». Ma c’è stata una reciproca influenza? Quanto la figura di Dante ha contato per Galileo? E quanto Galileo ha pesato su Leopardi?
Alla prima domanda si può rispondere di sì: chi è venuto dopo si è lasciato influenzare dal grande che lo ha preceduto. Basti ricordare, per quanto riguarda Galileo, che la sua carriera accademica è iniziata virtualmente nel 1588, con le "Due lezioni all’Accademia Fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante", il ventiquattrenne figlio del musicista Vincenzio dimostra di essere sia un valente matematico che un profondo conoscitore del Sommo Poeta.
Per quanto riguarda l’influenza che lo stesso Galileo avrà su Leopardi abbiamo prove meno evidenti. Nelle sue opere il poeta nato a Recanati non cita spesso lo scienziato nato a Pisa. Eppure è possibile dimostrare che «la figura e l’opera di Galileo [hanno un ruolo decisivo] sulla filosofia di Leopardi e sul suo stile». L’affermazione è di Gaspare Polizzi. E gli argomenti, solidi e documentati, a favore della sua impegnativa tesi sono contenuti nel libro, «Galileo in Leopardi» (pagine 220, euro 22,00) che lo storico della scienza in forze all’università di Firenze ha da poco pubblicato presso la casa editrice Le Lettere.
Gaspare Polizzi ha passato in rassegna con grande rigore tutta l’opera di Leopardi alla ricerca di tracce, dirette o indirette, che riconducono a Galileo. Giungendo, a nostro avviso, a tre conclusioni di grande rilievo e a una considerazione che riteniamo di stringente attualità.
La prima conclusione finora niente affatto scontata è che, malgrado il nome dell’"Artista Toscano" (le definizione è del poeta John Milton) ricorra relativamente poco negli scritti di Leopardi - tranne in quelli resi pubblici della "Crestomazia della Prosa" e in quelli inediti dello "Zibaldone" - la presenza di Galileo nel pensiero e persino nello stile del poeta di Recanati non solo c’è, ma è addirittura decisiva.
Leopardi, infatti, non solo ha letto Galileo e le opere su Galileo. Ma lo considera: il più grande fisico di tutti i tempi; un filosofo di primaria importanza nella storia del pensiero umano; e, insieme a Dante, appunto, il più grande rappresentante della letteratura italiana. Galileo è «per la sua magnanimità nel pensare e nello scrivere» un (forse "il") modello per Leopardi.
La seconda conclusione documentata da Gaspare Polizzi è che Giacomo Leopardi, pur conservando, questa sintonia di fondo con Galileo, modifica e aggiorna e affina nel tempo i suoi giudizi sullo scienziato toscano. Gaspare Polizzi è così abile da mostrarci come Leopardi scopre nel tempo Galileo. Quali opere legge. E da quali è particolarmente colpito.
La terza conclusione è che, per quanto grande e addirittura decisiva sia l’influenza che Galileo esercita su Leopardi, l’epistemologia del poeta di Recanati non si esaurisce totalmente in quella dello scienziato pisano. Anzi, vi sono talvolta delle differenze. Entrambi, certo, considerano lo studio della natura, attraverso certe dimostrazioni e sensate esperienze, il nuovo modo, superiore, di filosofare intorno ai fatti del mondo fisico. Ed entrambi credono nella "potenza della ragione", capace di leggere il libro della natura e superare le false credenze degli antichi. Tuttavia Leopardi insiste molto più di Galileo sui limiti della conoscenza umana anche sui fatti della natura e, dunque, sulla relatività delle verità scientifiche. Ha un’attenzione per la matematica e per il suo valore epistemologico molto meno marcata dello scienziato toscano. E, più di Galileo, focalizza la sua attenzione sulla complessità del mondo. Anzi, per dare risalto a questa sua visione molto articolata del mondo fisico - dove piccole cause all’apparenza insignificanti possono produrre grandi effetti - Leopardi non esita a "tirare" fino a distorcere il pensiero di Galileo.
Galileo, dunque, ha una grande influenza su Leopardi. Ma, come sempre accade con i giganti che salgono sulle spalle di giganti, Leopardi ha una lettura critica e personale di Galileo.
C’è, infine, una ultima considerazione che ci propone il libro di Gaspare Polizzi e che ha un qualche riverbero nell’attualità. Nei suoi scritti Leopardi mostra una certa riluttanza a parlare della teoria copernicana e opera delle censure abbastanza sistematiche sul "processo a Galileo". Uno dei motivi, scrive Polizzi, è da attribuire al conflitto a distanza con il padre intorno alla legittimità della proposta galileiana. Ma, probabilmente, c’è anche una certa ritrosia - forse un vero e proprio timore - del giovane di Recanati ad assumere posizioni non conformi alla lettura che la Chiesa cattolica a due secoli di distanza fa del «processo a Galileo».
* l’ Unità, Pubblicato il: 29.04.08, Modificato il: 29.04.08 alle ore 19.49
DANTE NELLE STANZE DEI BOTTONI
Uno studio della Fumagalli Beonio-Brocchieri sulle idee politiche nel Medioevo
di ARTURO COLOMBO (Corriere della Sera, 20 MAGGIO 2000)
Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, "Il pensiero politico medioevale", Laterza, pagine 264, lire 45.000
Altro che "secoli bui", come certe deformazioni scolastiche continuano a dipingere il cosiddetto medio evo! Per smentire questo cliché basta avvicinarci al panorama avvincente, che ne Il pensiero politico medioevale ci offre una specialista come Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, in collaborazione con due suoi allievi, Mario Conetti e Stefano Simonetta. Il vivace racconto serve benissimo a spiegarci come molti dei problemi-chiave che condizionano il dibattito politico contemporaneo trovino le loro origini proprio nelle riflessioni, succedutesi durante l’arco di un millennio, fra il V ed il XIV secolo. Eccone qualche esempio. Quante volte ancora oggi vediamo dei governanti che pretendono di esercitare il potere senza consenso, usurpando i diritti dei cittadini? Ebbene, già nel XII secolo Giovanni di Salisbury chiarisce che in quanto "immagine del male" il tiranno va tolto di mezzo, anzi "dev’essere ucciso", perché calpesta il bene comune della convivenza e la libertà. Non solo: sempre più spesso sentiamo ripetere che ci vorrebbero classi politiche efficienti e oneste? Ebbene, fin dal 1324 Marsilio da Padova insiste perché a governare non siano i politicanti, trafficoni e demagoghi, ma quella che lui chiama la "valentior pars", ossia l’élite dei più validi e capaci di far funzionare la famigerata stanza dei bottoni.
Ancora: da quanto tempo auspichiamo un mondo senza più guerre fra arroganti Stati sovrani? Ecco la coraggiosa "ricetta" di Dante, pronto a spiegarci quanto sia indispensabile impegnarci per dar vita a un unico potere politico sovrannazionale se vogliamo davvero "che tutto il genere umano costituisca una sola comunità" (magari nel segno di quella mirabile testimonianza dantesca: "Mi è patria il mondo, come ai pesci il mare"...).
RAGIONE E FANTASIA. UN SAGGIO DEL FISICO ROBERT EHRLICH SPIEGA PERCHÉ LE GRANDI RIVOLUZIONI CULTURALI NASCONO CONTRO IL SENSO COMUNE
La pazza idea dei due soli. Una teoria scientifica, o quasi
Anche l’ ipotesi eliocentrica di Copernico pareva folle. Esistono buoni criteri per decidere se un enunciato meriti considerazione
di Giorgio Cosmacini *
C’ era una volta la consolidata credenza che le idee scientifiche dovessero modellarsi sul senso comune, di cui venivano considerate una sorta di elaborato prolungamento concettuale. Dal buon senso alla scienza il passo non era lungo. Classico è l’ esempio della concezione tolemaica geocentrica, basata sulla evidenza sensibile che la terra è ferma e il sole sempre in moto, dall’ alba al tramonto. Fu Copernico, nel 1543, a concepire la «strana» idea dell’ eliocentrismo e della terra in continuo movimento rotante. Che cos’ è una idea «strana»?
Se lo chiede Robert Ehrlich, ricercatore nel campo della fisica delle particelle e docente alla George Mason University, all’ inizio del suo libro Il viaggio nel tempo e altre pazzie (Einaudi) che ha per sottotitolo «Nove strane idee al vaglio della scienza». Scrive di sé l’ autore: «Come fisico, ho sempre avuto una certa simpatia per le idee strane. Non è che i fisici siano più strambi degli altri esseri umani. Alcuni di essi sono ragionevolmente sani di mente. Ma la fisica, per la sua stessa natura, sfida di continuo le convenzioni del nostro mondo dominato dal buon senso e svela segreti dell’ universo che spesso appaiono fantastici alla maggior parte della gente».
Quante volte abbiamo pensato e detto che le bizzarrìe inventate ieri dalla fantascienza sono state percorritrici della realtà documentata oggi dagli scienziati? Anche attualmente circolano «strane» idee: che una maggior diffusione di armi ridurrebbe la criminalità; che il virus Hiv non sarebbe il responsabile dell’ Aids; che l’ esposizione ai raggi del sole e addirittura l’ esporsi a basse dosi di radiazioni ionizzanti (atomiche, nucleari) non sarebbe affatto nocivo, anzi farebbe bene; che il sistema solare avrebbe due soli; che i combustibili «fossili» (carbone, petrolio) avrebbero un’ origine inorganica; che esisterebbero particelle (tachioni) più veloci della luce; che infine - prodigio dei prodigi - il viaggio nel tempo sarebbe possibile. Come con la memoria e con i sogni è possibile raggiungere soggettivamente il passato, così alcuni fisici pensano che The Time Machine, «la macchina del tempo» vaticinata nel 1895 dal romanziere Herbert George Wells, sia una metafora del paradosso teorico di un viaggio nel futuro oggettivamente possibile.
Non si tratta, come potrebbe sembrare a prima vista, di un’ opera di cosiddetto «revisionismo scientifico». L’ autore dà i voti in pagella a ciascuna delle «strane» idee sopra enunciate. Lo fa secondo uno schema di valutazione basato su 10 parametri, indicati nell’ introduzione, tra i quali figurano l’ uso delle statistiche in modo corretto e l’ efficace sostegno di riferimenti adeguati. Da professore obiettivo, è giustamente severo: nessuna delle idee esaminate merita più di un 3 e talune addirittura non si sollevano dallo 0. Una stroncatura globale: c’ era bisogno di dedicarvi un libro? Ce n’ era bisogno, eccome!
Molte sono le idee «strane» che oggi trovano udienza nei notiziari, nelle rubriche televisive e sulla carta stampata. Noi siamo sempre più spesso cimentati, assillati, provocati da idee di volta in volta bizzarre, insensate, miracolistiche, folli. Alcune non reggono alle critiche serrate, altre invece sopravvivono, si affermano, talora diventano accreditate teorie, collocandosi al centro di dibattiti scientifici, sottoposte a «congetture e confutazioni» per dirla alla Popper. Tutte rivelano quanto sia accidentato il percorso dell’ impresa scientifica e quali ne sono le regole, le procedure, i controlli. Il libro non è dunque un mero divertissement intellettuale. È invece un libro che esprime un metodo razionale affidabile per decidere con la nostra testa se una teoria meriti considerazione oppure debba essere liquidata magari con un semplice, sommario sorriso.
Il libro di Robert Ehrlich, «Il viaggio nel tempo e altre pazzie. Nove strane idee al vaglio della scienza», Einaudi, pagine XIX - 248, euro 14,00
Cosmacini Giorgio
(Corriere della Sera - Archivio storico, 6 settembre 2002, Pagina 35).
DIVINA COMMEDIA SUPERSTAR
(ANSA) - ROMA, 14 GEN - Il successo delle letture di Benigni la dice lunga. Applaudita in teatro e nelle piazze, la Divina Commedia continua ad emozionare. In Italia, certo. Ma anche all’estero, dove l’Opera del Sommo Poeta conquista il top nella hit del libro italiano più emozionante, che si rileggerebbe più volentieri.
A sottolineare il primato è il sondaggio mensile commissionato dal sito Internet della Società Dante Alighieri www.ladante.it: l’opera di Dante, che in una indagine precedente era già risultata la più significativa per la nostra identità nazionale con il 40% dei voti, prevale in questo caso con il 9% dei voti complessivi, seguita a ruota da altri big della letteratura del belpaese, da Umberto Eco a Manzoni e Tomasi di Lampedusa, Primo Levi. Non solo: perché in Brasile, dove certo non mancano grandi poeti nazionali, La Divina Commedia, secondo il portale Web ’Dominio Pubblico’ (citato dalla Dante Alighieri) è risultato il testo più letto dagli studenti che si stanno preparando per la prova obbligatoria di accesso all’università. Divina commedia superstar, quindi. Sebbene in quest’ultimo sondaggio, fanno notare dalla Società Dante Alighieri, il podio é stato insidiato fino all’ultimo giorno da ’Il nome della rosa’ di Eco, che ha raccolto l’8% delle preferenze. Ma anche da ’I promessi sposi’ di Alessandro Manzoni e ’Il Gattopardo’ di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (7%) e ’Se questo e’ un uomò di Primo Levi (6%). Nettamente distaccato, con il 3%, un altro vecchio classico, ovvero ’Cuore’ di De Amicis, seguito da ’La coscienza di Zeno’ di Italo Svevo (2%), in buona compagnia con ’Le avventure di Pinocchio’ di Collodi, ’Il barone rampante’ di Calvino, ’La storia’ di Elsa Morante e ’Và dove ti porta il cuore’ di Susanna Tamaro. Il maggior numero di contatti, riferiscono dalla Società Dante Alighieri, è arrivato dal continente americano, Argentina e Brasile su tutti. In Europa la palma d’oro va alla Svizzera, seguita da Francia, Spagna, Polonia ed Olanda. La novità assoluta arriva dall’Africa, in particolare il Marocco, con un notevole incremento di contatti rispetto al passato. La graduatoria, ricordano dalla Società è pubblicata sul portale della ’Dante’, dove si possono anche consultare i risultati finali di tutti i sondaggi precedenti. Con il 2008, infine, la Dante Alighieri lancia un nuovo quesito: "Qual è il poeta italiano, contemporaneo o classico, che preferisce?" , la gara è aperta, ognuno dica la sua.
L’ITALIA DI DANTE E GIOTTO IN ’INFERNI E PARADISI’
Roma, 24 ott. - (Adnkronos/Adnkronos Cultura) - La storiografia ufficiale ha sempre riconosciuto nel Rinascimento il periodo di nascita della modernita’. Nel volume "Inferni e paradisi. L’Italia di Dante e Giotto" di E’lisabeth Crouzet-Pavan, edito da Fazi Editore, il docente di storia medievale alla Sorbona, sostiene una tesi differente: nel Duecento, il secolo di Federico II e di Francesco d’Assisi, avviene la prima vera rivoluzione culturale che portera’ alla formazione della coscienza moderna.
E’ in questo periodo, un secolo di lotte intestine e di fazioni opposte, che l’uomo riscopre la dimensione terrena, la vita pubblica, la politica attiva. "Il volume - come spiega l’autrice - vuole essere una riflessione sulla storia dei dispositivi culturali di questa Italia in cui ogni cosa freme".
E la Chiesa inventò il ballottaggio
Le istituzioni religiose modello di quelle laiche
di FILIPPO DI GIACOMO (La Stampa, 17/10/2007 - 8:33)
Il monoteismo ostacola la democrazia? Gli studi storico-giuridici dimostrano che la democrazia moderna ha radici già nel V secolo, quando la Chiesa reintroduce due grandi principi. Il primo, riscoperto da Leone I nel 440, insegna che colui che deve governare su tutti deve essere eletto da tutti. Il secondo, spiega che ciò che interessa tutti come singoli va discusso e approvato da tutti. La decisione di affidare a un’assemblea (che ha la summa potestas) la scelta di colui che guiderà un’abbazia apparve nel VI secolo chiaramente stabilita nel capitolo 64 della regola benedettina; con l’elezione, a chi veniva affidato il comando era anche precisato il fine politico del mandato: adattare il suo governo alle circostanze e ai caratteri dei sudditi.
Il consenso popolare nelle assemblee ecclesiali veniva sottoposto allo scrutinio. Scrutari significa pesare, ponderare, esaminare, penetrare il significato esatto della portata dei voti espressi in un’assemblea. Lo scrutinio permise la nascita del voto segreto e la Chiesa lo accettò nei monasteri già dal V secolo: diventerà prassi comune con il Concilio di Trento. Nei Comuni, voto segreto e scrutinio apparvero per la prima volta negli statuti di Verona del 1225. Tanto per essere casuidici: il Parlamento inglese ammise il voto e lo scrutinio segreto solo nel 1872. La nascita della democrazia parlamentare viene fatta coincidere con l’istituzione del parlamento inglese, la «Magna Charta» del 1215, ma già nel 1115 i cistercensi si erano già dotati di una «Charta Charitatis» con cui ricorrevano a un parliamentum (parola e istituzione, quindi, nascono monastiche) che si riuniva per chiedere l’accordo della comunità prima di impegnarla in azioni e gravarla di imposte.
Per rendere accessibile il voto segreto a coloro che erano analfabeti, la fantasia democratica cristiana del VI secolo ricorse alle ballotte: fave chiare e scure, monete e medaglie di colore diverso: un colore per il «sì», l’altro per il «no». Dalle ballotte derivano infatti la parola ballottaggio e la locuzione parlamentare inglese «to black ball», bocciare una legge. Ai monaci illetterati i moderni parlamentari inglesi devono il loro usuale metodo di votazione: alzarsi in piedi per approvare o respingere. Quando gli ecclesiastici erano colti, lo scrutinio avveniva per schedulas segrete deposte in modo visibile nell’urna. Il voto di fiducia, invece, nacque certosino, a cavallo del Mille: ogni anno l’assemblea si riuniva giudicando l’operato del superiore, in base al quale quest’ultimo veniva confermato o deposto.
Anche la convocazione legale di un’assemblea e il quorum hanno un’impronta ecclesiastica. Nella storia dei Comuni il sistema maggioritario apparve solo nel 1143, nella Chiesa era in uso da otto secoli. Ai Domenicani si deve il bicameralismo, il voto di fiducia, la libera elezione dei rappresentanti alle assemblee elettive e legislative e l’espressione dei tre principi strutturali della democrazia parlamentare: corpo elettivo, collettività deliberante, autorità esecutiva. Ai Predicatori e al loro Definitorio dobbiamo la struttura dei consigli dei ministri; furono loro a conferire alle assemblee legislative il diritto di revocare a metà mandato il superiore eletto, secondo il grado di attuazione del programma espresso nel momento in cui si era candidato al superiorato. I nostri ordinamenti comunali, provinciali e regionali traggono buona parte delle loro istituzioni dalle costituzioni domenicane di Raimondo di Peñafort del 1238-1240 e di Raimondo Bandello del 1254-1256. Il sindaco, ad esempio, era un laico a cui veniva affidata la gestione dei beni di un istituto religioso.
La maggioranza qualificata resuscitò nella Chiesa nel 915, divenendo regola per l’elezione del Papa a partire dal 1179, ma è sulla maggioranza relativa che vale la pena riflettere: non piaceva a nessuno, nel 1205 il Papa la vietò e per tutto il XIII secolo scomparve da ogni istituzione. Ma, dotate di maggiore realismo sulle realtà soggettive e quelle strutturali, le comunità monastiche ignorarono il precetto papale e continuarono a decidere come sempre: maggioranza assoluta nei primi due scrutini, maggioranza semplice a partire dal terzo. Anche il Papa capitolò e nel 1247 Innocenzo IV canonizzò l’intuizione di Benedetto da Norcia che, sei secoli prima, aveva intravisto una presunzione di maggior saggezza nella maggioranza, non nella massa. Non è quindi un caso se oggi le uniche assise elettive sovrannazionali dove il voto di un africano abbia lo stesso valore di quello di un americano sono il conclave moderno. E, a leggere la lista dei Papi che hanno saputo liberamente eleggere, ai cardinali cattolici
Dio non fa venire alcun complesso antidemocratico: hanno sempre scelto personalità capaci di attraversare il loro tempo con la bussola della pace in mano.
Insieme a loro, i credenti nel Dio di Gesù Cristo si stanno educando a riconoscerlo vivo e presente nella diversità dei popoli e delle culture. Invece, la divinità degli idoli ciclicamente proposti in nome della complessità sociale sembra soprattutto dedita a predicare l’omologazione di tutti verso il quasi niente. Stiamo pensando all’Onu e all’Unione europea: siamo proprio sicuri che il potere di veto concesso ai cinque membri permanenti del Palazzo di vetro e l’unanimità imposta al Consiglio dei capi di governo dell’Unione, con gli approssimativi sistemi giuridico-politici che ne conseguono, siano la panacea imprescindibile per organizzare il mondo globalizzato in senso democratico e partecipativo?
Sul tema, da un punto di vista storico-filosofico, nel sito si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI". IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA".
"Deus caritas est": la verità recintata!!!
MAGISTERO ECCLESIASTICO E VANGELO
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
di Elio Rindone *
Che si parli di unioni di fatto o di testamento biologico, la Conferenza episcopale italiana ribadisce senza sosta il diritto e il dovere del magistero di illuminare le coscienze dei fedeli riguardo ai valori fondati sulla natura e quindi sottratti a un lecito pluralismo. Reazioni?
Se qualche critica è stata rivolta all’ingerenza ecclesiastica nella sfera politica, stranamente nessuna voce si è levata per mettere in discussione il ruolo stesso del magistero, quasi si trattasse di una verità contestabile forse da qualche miscredente ma certo indiscutibile per chi vuole essere un buon cattolico.
Il fatto è sorprendente perché invece riempiono ormai intere biblioteche gli scritti degli studiosi cattolici che nel corso degli ultimi decenni, grazie ai margini di libertà di cui era possibile fruire nel periodo del concilio Vaticano II, hanno dimostrato l’infondatezza dell’esegesi biblica e dell’ecclesiologia su cui poggiano le rivendicazioni vaticane.
Per constatare, infatti, quanto il sistema ecclesiastico attuale sia lontano dal messaggio biblico originario basterebbe leggere, per esempio, il volume (che riporta un’ampia bibliografia, consultabile da chi fosse interessato al tema) di Xabier Pikaza, Sistema, libertà, chiesa. Istituzioni del Nuovo Testamento, Borla, Roma 2002, (traduzione di Marco Zappella, che ritocco leggermente).
Basandosi su una rigorosa lettura critica dei testi, l’autore - prima professore di Storia delle religioni e Teodicea presso l’Università pontificia di Salamanca e poi professore di Sacra Scrittura all’Università di Cantabria - dimostra che la Scrittura non attribuisce a Gesù l’intenzione di fondare una struttura ecclesiastica caratterizzata: (a) da un ordine sacerdotale modellato su quello ebraico, (b) da una gerarchia istituita per proseguire le funzioni degli apostoli e (c) da un magistero abilitato a insegnare la verità ai fedeli.
a) Nella storia del popolo ebraico, almeno in alcuni periodi, il sacerdozio ha certo avuto un ruolo notevole, e tuttavia “l’identità della religione ebraica e il suo contributo all’insieme della storia non sono legati ai sacerdoti”(p 95). Anzi, il Gesù dei vangeli non solo é estraneo al mondo sacerdotale ma é un suo avversario: Gesù “fu un laico e non volle purificare l’istituzione sacerdotale (come tentarono alcuni separati di Qumran) ma ne proclamò la rovina: Dio non ha bisogno né di templi né di sacerdoti, ma si rivela in modo immediato, messianico, guarendo i malati, perdonando gli esclusi del sistema. [... Perciò] nella chiesa non deve esserci un ordine sacerdotale distinto, proprio di alcuni eletti, nella linea dei sacerdoti e leviti di Israele”(ivi).
I vangeli, in effetti, descrivendo gli inizi della predicazione di Gesù, lo presentano come l’annunciatore del Regno di Dio, un mondo rinnovato nella giustizia e nella fratellanza al di fuori di ogni schema sacrale: “Gesù e i suoi primi seguaci non hanno voluto creare un’altra religione e una società sacra, ma un movimento carismatico del Regno”(p 257). Stando a Marco 3, 31-35, attorno a Gesù si é riunito un gruppo di uomini e donne che vogliono fare la volontà di Dio in un clima di fraternità, liberi dal peso opprimente delle autorità tradizionali: “I seguaci di Gesù sono una famiglia allargata e condividono vita, speranza e comunione personale: cento madri/figli, fratelli/sorelle”(p 173). Stranamente Marco non parla di ‘padri’, e ciò è sintomatico per una società in cui, come in genere in quelle antiche, l’autorità patriarcale era indiscussa: la chiesa attuale, quando esalta la paternità spirituale dei suoi sacerdoti, non sembra rinnegare quella gioiosa comunità paritaria?
Basta rileggere, in effetti, la bella parabola del seminatore (Marco 4, 13-20) per accorgersi che Gesù ha affidato il suo messaggio non a degli specialisti ma a tutti coloro che vogliono accoglierlo con animo aperto e disponibile. Dunque niente scribi o sacerdoti “che amministrano la Parola dall’alto, perché [questa] é di tutti. [...] La Parola é principio di comunione universale, e tutti possono comprenderla, accoglierla, condividerla in libertà, senza intermediari sacrali”(pp 161-162).
E la comunità a cui é rivolta la parola di Gesù è non solo egualitaria ma anche inclusiva. Accoglie i peccatori e non discrimina le donne, sicché una distinzione di funzioni - la parola é degli uomini, il servizio é delle donne - risulta estranea al vangelo. Affermando l’inferiorità della donna, per secoli la chiesa si è adattata alla mentalità del tempo. Ora finalmente la società è cambiata, ma la chiesa è rimasta vergognosamente indietro: “Oggi, a duemila anni di distanza, una cecità di questo tipo é incomprensibile”(pp 191-192).
Una società che mette radicalmente in discussione le gerarchie costituite, che non si comporta “secondo la tradizione degli antichi”(Marco 7,5), declassata a deposito di dottrine opinabili, che segue Gesù anche quando le sue critiche alle autorità religiose diventano sempre più esplicite è qualcosa di rivoluzionario. La rottura con la religiosità ufficiale è assoluta, tanto che Marco (14, 58) attribuisce a Gesù, giunto alla fine della sua avventura, l’idea che la religione incentrata sul culto del tempio non possa essere riformata ma vada semplicemente distrutta: il “messaggio del Regno implicava il rifiuto dell’autorità sacrale del tempio: la comunità sacrificale, diretta come teocrazia o governo di Dio grazie ai sacerdoti, é arrivata alla sua fine. [...] Per volontà di Dio, affinché la salvezza si apra ai poveri, questo sistema sacrale incentrato sul tempio deve finire [...]: va distrutto (cfr. Mc 11,15)”(pp 216-217). Non c’è dubbio che i vangeli, se letti senza pregiudizi, sono libri terribilmente anticlericali: non suggeriscono forse l’idea che anche oggi, perchè possa venire tra gli uomini il regno di Dio, è necessario battersi contro la ricostituzione di una casta sacerdotale che attribuisce a se stessa il monopolio del vangelo?
Credo che l’autore interpreti davvero il sentire di tanti credenti quando scrive, a proposito di una chiesa di tipo patriarcale, fondata su una gerarchia di maschi celibi, che “molti di noi ritengono che questo sistema ecclesiale sia ormai inutile: si trova vuoto d’acqua, risulta anti-evangelico; ha assolto una funzione, ma ha dato il massimo ed é diventato un fossile; non alimenta più la fede e la contemplazione dei credenti, né serve per animare la vita delle comunità; sopravvivrà per inerzia, per un tempo non molto lungo, e alla fine crollerà da solo, eccetto che cambi e si rinnovi a partire dal vangelo”(p 470, nota 1).
b) Nella comunità primitiva di cui parlano gli Atti degli Apostoli (15, 22-29), poi, le decisioni non sono assunte da una suprema autorità ma scaturiscono dal libero confronto. La chiesa “é un’assemblea partecipativa: Dio parla nel dialogo fraterno. Questo é il modello cristiano di governo, in una chiesa strutturata e in cui sorgono dei problemi. Essa non può risolverli in modo magico, né richiamarsi a un’istanza esteriore (oracolo di Dio, rivelazione privata o decisione particolare di un dignitario). [...] Perciò non può esserci nella chiesa una gerarchia, con poteri particolari”(p 287 e nota 47).
In effetti, secondo Matteo 18, 19-20, Gesù é presente dove due o tre persone sono riunite nel suo nome: “Perciò, il vicario di Cristo non é un’autorità isolata (papa, vescovo, presbitero), ma la stessa comunità riunita, in una sinfonia di preghiera e azione fraterna.”(p 357). Una chiesa in cui la gerarchia, cedendo alla tentazione del potere, si imponesse ai fedeli trasformandoli in ricettori passivi di decisioni che cadono dall’alto sarebbe poco evangelica: anzi, scrive senza mezzi termini Pikaza, una comunità “governata in modo impeccabile da autorità superiori (senza che i suoi membri siano responsabili), diventerebbe satanica”(p 358). Proprio contro questo pericolo mette in guardia Matteo 23, 8-10 esortando i credenti a rifiutare ruoli di potere e titoli onorifici: non è sempre attuale “il rischio di una chiesa che comincia a edificarsi su schemi di autorità gerarchica, perché alcuni all’interno di essa tentano di farsi chiamare padre, rabbino o maestro”(p 359)?
Chi ricorda la dottrina tradizionale, a questo punto farà osservare che la chiesa è fondata sui dodici apostoli e che i vescovi cattolici sono i loro successori. Ora, è vero che Marco 3, 12-14 presenta Gesù che costituisce il gruppo dei Dodici, però questi non sono dignitari ecclesiastici ma uomini del popolo, semplici galilei inviati a predicare il vangelo, mentre “una tradizione posteriore li ha resi garanti del ‘collegio episcopale’, come se fossero stati i primi dodici vescovi della chiesa. Ma essi non lo sono stati, e la loro missione é stata trasmessa non a una gerarchia particolare ma all’insieme della comunità”(p 204).
L’idea di una struttura gerarchica della chiesa fondata sulla successione apostolica non ha una base evangelica ma é una costruzione che comincia ad affermarsi solo alla fine del II secolo: “Al contrario di Ireneo, gli storici attuali sanno che non si può parlare di una successione stretta partendo dagli apostoli (i Dodici) fino ai vescovi propriamente detti [...]: i vescovi monarchici, nel senso posteriore del termine, sono sorti nella chiesa nel corso del secolo II d.C. [...] Nel corso di un intero secolo (a partire dal 50 fino al 150-160 d.C.) Roma non ebbe vescovi (e meno ancora papi) nel senso successivo del termine, mantenendosi e crescendo, tuttavia, come chiesa esemplare, molto ben organizzata, sotto la guida di presbiteri. Essa accettò l’episcopato soltanto due o tre decenni prima di Ireneo”(p 460).
In effetti, è storicamente accertato che le prime comunità cristiane sono state animate da gruppi di anziani o presbiteri, impegnati come Paolo a suscitare e tener viva la fede dei credenti e non a esigere la loro obbedienza. Una visione gerarchica della società non potrebbe richiamarsi a Gesù né a Paolo (cfr. I Cor. 12, 12-27) ma esprimerebbe piuttosto l’impostazione propria della Repubblica platonica o dell’impero romano: sulla scia dell’esperienza di Gesù, “convinto che l’ordine del mondo é stato superato, Paolo espone e difende un anti-ordine di gratuità radicale, dove i più importanti sono i meno onorati [...]. Un mondo al rovescio, questo é sembrato il vangelo ai ‘buoni romani’. [...] Quando la chiesa posteriore si consolida affermando l’unità del corpo a partire da una gerarchia sacra, di tipo episcopale o presbiterale [...] potrà essere platonica o romana, ma non paolina e nemmeno cristiana”(pp 306-307).
Proprio per essere fedeli al vangelo è perciò urgente secondo Pikaza mettere in discussione una struttura ecclesiastica autoritaria: occorre superare “il sistema imperiale (romano), che si é imposto fin dall’antichità e ha trasformato le comunità in una sola chiesa romana, dove tutte le questioni importanti si risolvono a partire da un vertice amministrativo e sacrale che avrebbe ricevuto da Dio il potere adeguato per fare ciò. [...] Quell’impero politico é caduto, ma é stato copiato e ricreato sotto forme sacrali dalla chiesa di Roma [...]. Ebbene, il ciclo di questa chiesa-sistema é terminato e dobbiamo tornare alla verità del vangelo [...]. Osiamo dire che la prassi attuale della chiesa, dove la partecipazione dei credenti é quasi nulla, ci sembra contraria al vangelo e deve finire, oggi meglio che domani”(pp 486-487).
c) Se non é possibile attribuire a Gesù l’istituzione di un ordine sacerdotale e di un’autorità fondata sulla successione apostolica, non ci può essere posto, in una comunità che si richiami a lui, per un magistero che pretenda di insegnare la verità, privando i fedeli del diritto di esprimere le proprie opinioni. La chiesa primitiva conosceva le divergenze di idee e persino Pietro, come ricorda Paolo (Galati 2, 11-14), veniva criticato in pubblico, senza che il dissenso venisse soffocato. Il disaccordo tra Pietro e Paolo mostra che il pluralismo delle scelte é un fatto assolutamente naturale; inaccettabile, al contrario, sarebbe un’uniformità frutto di imposizione autoritaria. Una società viva non può evitare la molteplicità delle esperienze e dei punti di vista, che sono una ricchezza e non un pericolo, e vanno perciò accolti senza spezzare la fraternità.
Per secoli, invece, si é seguita la via opposta: la chiesa romana ha cominciato ad attribuire a se stessa un ruolo magisteriale sempre più invadente e nel 1870 é arrivata a proclamarsi addirittura infallibile. Ma la pretesa, accentuatasi negli ultimi decenni, di dire su ogni questione una parola definitiva e vincolante, pur non contestata esplicitamente, é avvertita con crescente fastidio da molti credenti: “l’immensa maggioranza dei documenti della curia vaticana (a partire da molte encicliche) non é necessaria o é divenuta controproducente, perché dà l’impressione che soltanto quelli della curia sappiano pensare e dire ciò che é cristiano, usurpando un compito che é proprio delle comunità”(p 509).
Nel mondo occidentale, infatti, l’uomo ha oggi acquisito la consapevolezza della propria dignità di persona adulta, responsabile delle proprie idee e delle proprie scelte, mentre la chiesa romana continua a trattare i credenti come eterni minorenni, incapaci di trovare da sé il modo di vivere il vangelo e perciò sempre bisognosi di essere guidati dall’autorità: sembra fidarsi poco “dei suoi fedeli, inclusi i suoi ministri. Essa dovrebbe lasciare da parte le proprie certezze, il proprio desiderio di esprimere un’opinione in ognuno dei campi in discussione, [... invece non fa che imporre leggi a uomini e donne] come se pensasse che essi (soprattutto le donne) sono minorenni e che deve aiutarli, affinché trovino la sicurezza che da sé non troverebbero”(p 477).
Ancora una volta sul modello dello stato platonico, in cui i sapienti guidano gli inferiori, noi cattolici, scrive Pikaza, “abbiamo costruito una religione impositiva, ricordando agli altri quello che devono fare (evidentemente per il loro bene). Il vangelo ha proclamato che amiamo i nemici, cioè i diversi, [...] affinché così possano vivere a modo loro, come diversi [...]. Invece molte volte ci siamo sentiti padroni della verità e abbiamo voluto esigere da loro che siano come noi decidiamo (e non come essi vogliono).”(p 476).
Sarebbe dunque auspicabile un cambiamento di mentalità che, in consonanza con il vangelo, attribuisse alle guide della comunità il compito non di soffocare il pluralismo ma di far convivere le differenze. Solo in questa prospettiva sarebbe accettabile il ministero petrino, se si concepisse cioè “il compito di Pietro (= del papa), come segno di fedeltà e apertura creativa, in dialogo con le diverse tendenze ecclesiali: non un compito di uniformità, né di imposizione sulle chiese, autonome e diverse, ma di comunione e libertà tra tutte queste”(p 539).
Se tale é il senso del ruolo che Matteo 16, 18 assegna a Pietro come fondamento della comunità cristiana, é chiaro che “la chiesa romana come piccolo stato, con il suo potere e la sua pompa, i suoi ambasciatori (nunzi), la sua amministrazione e gerarchia sacrale (dai monsignori ai cardinali), risulta contraria al vangelo”(p 513). Essa si regge ancora per il sostegno che riceve da forze politiche, che a loro volta se ne servono per i loro giochi di potere, ma non è più credibile quando pretende di imporsi col suo centralismo organizzativo e col suo magistero universale ai cattolici sparsi in tutto il mondo
Se l’attuale struttura della chiesa non ha dunque un fondamento evangelico, come si spiega il fatto che, almeno in Italia, sia ancora comunemente accettato il suo ruolo magisteriale? Senza dimenticare il potere che deriva alla Conferenza episcopale italiana dal generoso finanziamento accordato dal sistema dell’8 per mille e dall’alleanza con le forze politiche più reazionarie del nostro Paese, mi pare che la risposta possibile sia una sola: la formazione religiosa degli italiani, praticanti o meno, é spesso ferma alle nozioni apprese alle lezioni di catechismo o alle prediche del parroco. Di conseguenza, non abituati alla libera ricerca teologica, neanche i credenti più impegnati sono di solito in condizione di mettere in dubbio una struttura ecclesiastica che è frutto solo di contingenze storiche!
La Congregazione per la Dottrina della Fede, inoltre, ormai da diversi anni ha ricominciato a lavorare a pieno ritmo per ridurre al silenzio le voci critiche, e i risultati sono innegabili: la fede del popolo cristiano, tornato a una supina obbedienza all’autorità sotto la guida dei ripetitori del verbo vaticano, si nutre ormai solo di devozione a padre Pio, pellegrinaggi ai santuari mariani e megaraduni pontifici. Impedita la divulgazione delle tesi, da tempo acquisite a livello degli specialisti, che mettono in discussione il potere della gerarchia, aumenta ovviamente il conformismo e diminuisce il numero dei credenti che utilizzano i contributi degli studiosi più qualificati per riscoprire l’autentico messaggio evangelico e liberare così la propria fede da incrostazioni plurisecolari. È a motivo dell’autoritarismo vaticano, dunque, che non viene messa in discussione l’idea che spetti al magistero il compito di illuminare il gregge dei fedeli: idea, questa, pericolosa non solo per l’autonomia della politica ma anche per l’autenticità della fede.
L’impegno per liberare il messaggio evangelico dalla gabbia in cui lo rinchiude l’autorità ecclesiastica credo che sia perciò, soprattutto per i credenti, una delle urgenze dell’attuale momento storico. Impegno doppiamente necessario: occorre, infatti, difendere la laicità dello stato e al contempo evitare che il vangelo appaia come un relitto del passato, adatto a un popolo di minorenni. Una radicale riforma della struttura ecclesiastica è ormai inderogabile, e non può certo prodursi, come opportunamente scrive Pikaza, su iniziativa di chi oggi detiene il potere ma solo ad opera di cristiani maturi che vivono liberamente la loro fede senza preoccuparsi dei diktat vaticani: “non m’attendo che i cambiamenti vengano dalla ‘cupola’ clericale, ma dalla radice del vangelo, a partire dal ricordo di Gesù e delle prime comunità cristiane, secondo la fede del popolo”(p 479).
Fonte: ITALIA LAICA, 9-7-2007
Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione
di ADISTA *
Importante iniziativa di Adista che ha tradotto e messo a disposizione gratuitamente il libro "Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione" edito dalla Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo, in risposta alla notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino.
Care lettrici, cari lettori,
segnaliamo un’importante novità sul nostro sito. Si può leggere finalmente anche in italiano, scaricandolo gratuitamente dalla home page di www.adista.it, il libro digitale "Bajar de la cruz a los pobres: cristología de la liberación" ("Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione") della Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo.
La traduzione italiana, curata da Adista, dell’originale spagnolo (che, insieme alla traduzione in inglese, è disponibile agli indirizzi www.eatwot.org/TheologicalCommission e http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales) è presentata dal teologo Carlo Molari e presenta due contributi in più: di Aloysius Pieris e dello stesso Molari (è possibile leggere l’originale )
Il libro della Asett è la risposta di circa 40 teologi della liberazione alla Notificazione vaticana sulle opere di Jon Sobrino (autore dell’epilogo del libro), ma non solo: è una difesa, appassionata e potente, della cristologia della liberazione, quella che Leonardo Boff, nel prologo, definisce "una teologia militante che lotta per ’far scendere dalla croce i poveri’".
È questa voce potente quella che è oggi offerta anche al pubblico italiano, attraverso un nuovo metodo che l’Asett ha voluto sperimentare: quello di un libro digitale, libero e gratuito, che, scrive José María Vigil, coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della Asett/Eatwot, "può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento della "stampa digitale", un metodo che permette di stampare su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20...), a un prezzo praticamente uguale a quello di un libro normale".
Per scaricare il libro, clicca qui
* IL DIALOGO, Mercoledì, 06 giugno 2007
Dal 20 aprile a fine giugno "TuttoDante" nella capitale, già venduti 50 mila biglietti.
"Racconterò anche la Storia, dalla presa del potere di Romano Prodi fino ai giorni nostri"
Arriva a Roma la Commedia di Benigni
"Difendo il mio Paese da chi lo governa"
Lo spettacolo ha già toccato 26 città, con un tripudio di oltre 350 mila spettatori.
"Il Poeta è grande perché ci invita a guardarci in faccia quanto facciamo schifo"
di ALESSANDRA VITALI *
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