PROLUSIONE
Allargare gli spazi della razionalità proponendo «un dialogo, anzi un nuovo incontro della fede cristiana con il nostro tempo». L’analisi del presidente della Cei
Ruini e la ragione rivelata a se stessa
Il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona e la proposta del filosofo Habermas: due «ipotesi» per un’alleanza tra filosofia e religioni, ma molto diverse. La prima vuol liberarsi della metafisica con la scienza; la seconda invece rinuncia all’idea di dominio «La Bibbia riconcilia due dimensioni prima separate, cioè il Dio eterno di cui parlavano i pensatori e il bisogno di salvezza che l’uomo porta dentro di sé. Il Creatore cristiano è il Dio della metafisica, ma anche della storia, entra cioè nel più intimo rapporto con noi»
di Camillo Ruini (Avvenire/Agorà, 03.03.2007).
Nel Progetto culturale si esprime in veste laicale la «missionarietà dell’intero popolo di Dio». Un vero e proprio «apostolato o diaconia delle coscienze esercitati esplicitando le ragioni della propria fede e traducendo in comportamenti effettivi e visibili la propria coscienza cristianamente formata». Così il cardinale Camillo Ruini, presidente della Cei, ha aperto ieri i lavori dell’ottavo Forum del Servizio nazionale per il Progetto culturale, il primo che si svolge dopo il Convegno nazionale di Verona. I lavori, che si concludono nella mattinata di oggi, vertono sul tema «La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà». Oltre a toccare la questione centrale del rapporto tra fede e ragione - come esemplificato dal Papa nel discorso di Ratisbona e analizzato con una serrata critica alle posizioni del filosofo tedesco Jürgen Habermas (pubblichiamo in questa pagina ampi stralci dei passaggi della prolusione dedicati a tale tema) - il porporato ha fatto una sorta di bilancio sul metodo utilizzato nell’appuntamento scaligero. Con i cinque ambiti (affettività, lavoro e festa, tradizione, fragilità, cittadinanza) è stata portata - ha detto Ruini - una novità che «non solo "adatta" la pastorale all’attuale contesto socio-culturale, ma corrisponde all’indole profonda dell’esperienza cristiana, caratterizzata da un’attenzione primaria alla persona e alla sua concreta situazione di vita».
Prima del Convegno di Verona c’era stato il discorso di Ratisbona, con le successive polemiche sull’islam e sui suoi rapporti con la ragione e con la violenza, oltre che con il cristianesimo. Molto meno si è discusso del vero tema di quel discorso, che è incentrato sull’affermazione che «non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio» e sfocia nel programma di allargare gli spazi della razionalità, proponendo così un dialogo, anzi un nuovo incontro della fede cristiana con la ragione del nostro tempo. Pochi giorni fa Jürgen Habermas, ultimo dei grandi rappresenta nti della scuola di Francoforte ed autorevole interlocutore dell’allora cardinale Ratzinger nel dibattito avvenuto il 19 gennaio 2004 a Monaco di Baviera ed edito anche in italiano dalla Morcelliana, ha rilanciato (in un articolo pubblicato parzialmente su Il Sole 24 Ore del 18 febbraio con il titolo «Alleati contro i disfattisti», che uscirà integralmente nel prossimo numero della rivista Teoria politica) la proposta di un’alleanza tra la ragione illuminata, ossia «la coscienza rischiarata della modernità» e «la coscienza teologica delle religioni mondiali», al fine di «mobilitare la ragione moderna contro il disfattismo che le cova dentro» e che si manifesta «sia nella declinazione post moderna della "dialettica dell’illuminismo" sia nello scientismo positivistico». Secondo Habermas, la ragione moderna può facilmente venire a capo di questo disfattismo sul piano strettamente teorico, ma, nella situazione concreta, non su quello della ragione pratica: essendo venuta meno la garanzia della filosofia della storia, essa comincia infatti a «dubitare della forza motivazionale delle sue buone ragioni».
Qual è però il tipo di alleanza che Habermas propone? Non «ambigui compromessi tra ciò che resta inconciliabile», ossia tra la prospettiva antropocentrica della ragione moderna e quella derivante dal pensiero geocentrico e cosmocentrico. Se le due ragioni o coscienze vogliono davvero parlare l’una con l’altra (e non solo l’una dell’altra), le religioni devono riconoscere l’autorità della ragione "naturale" (le virgolette sono di Habermas), vale a dire i fallibili risultati delle scienze nonché i principi universalistici dell’egualitarismo giuridico, mentre la ragione secolare non deve impancarsi a giudice delle verità religiose, anche se resta vero che essa, «da ultimo, accetta per "ragionevole" soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi», che devono essere, almeno idealmente, accessibili a tutti. In concreto si tratta di una ragione c he la scienza moderna ha costretto a sbarazzarsi per sempre della metafisica, limitando la filosofia «alle sole competenze generali dei soggetti di conoscenza, linguaggio e azione». È stata spezzata pertanto, secondo Habermas, la sintesi di fede e ragione costruita a partire da sant’Agostino fino a san Tommaso. La filosofia moderna ha saputo così appropriarsi criticamente dell’eredità del pensiero greco (cioè appunto anzitutto della metafisica), ma ha drasticamente respinto da sé il sapere giudaico-cristiano della salvezza, ossia la rivelazione e la religione. Non si tratta di incollare adesso questo strappo, ma di capire che la ragione secolare supererebbe l’attuale opacità del proprio rapporto con la religione se prendesse sul serio quell’origine comune di filosofia e religione che rinvia alla rivoluzione dell’immagine del mondo che accadde a metà del primo millennio avanti Cristo. Solo comprendendo entrambe le tradizioni che risalgono ad Atene e a Gerusalemme come facenti sostanzialmente parte della propria genesi storica, la ragione secolare potrà comprendere pienamente se stessa e i suoi figli (Habermas intende sia i credenti sia i non credenti) potranno accordarsi circa la loro identità e posizione nel mondo.
Su queste basi, nell’ultima parte del suo articolo, Habermas critica il discorso di Ratisbona, con il quale Benedetto XVI avrebbe dato una piega sorprendentemente antimoderna al dibattito su ellenizzazione o deellenizzazione del cristianesimo, e in tal modo una risposta negativa alla domanda se i teologi cristiani debbano sforzarsi di venire a capo delle sfide suscitate da una ragione moderna e dunque postmetafisica. Richiamandosi alla sintesi di metafisica greca e fede biblica elaborata a partire da Agostino fino a Tommaso, Benedetto XVI negherebbe la bontà delle ragioni che hanno prodotto nell’Europa moderna una polarizzazione tra fede e sapere. Per quanto egli affermi di non voler «tornare dietro l’illuminismo e congedarsi dalle scienze moderne», mostra tuttavia «di voler respingere la forza degli argomenti contro cui quella sintesi metafisica ha finito per infrangersi». Habermas conclude che non gli sembra vantaggioso «mettere tra parentesi - escludendole dalla genealogia di una "ragione comune" di credenti, non credenti e altrimenti credenti - quelle tre spinte di deellenizzazione (cfr. il discorso di Regensburg) che hanno contribuito a far nascere l’idea moderna della ragione secolare».
Mi sono soffermato a lungo su questo intervento di Habermas perché esso ci permette di cogliere con precisione i veri nodi del dialogo-confronto-nuovo incontro tra fede cristiana e razionalità contemporanea, sui quali Joseph Ratzinger-Benedetto XVI si è cimentato da ultimo nel discorso di Ratisbona ma fin dalla sua prolusione del 1959 all’Università di Bonn, dedicata al Dio della fede e al Dio dei filosofi, che sta finalmente per uscire in italiano presso la Marcianum Press, e poi attraverso tutto il suo lavoro teologico, da Introduzione al cristianesimo fino a Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo e a L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, ed ora nei suoi interventi come Pontefice.
È impossibile non rilevare nel discorso di Habermas un paio di "precomprensioni" abbastanza datate e oserei dire anacronistiche, che mostrano come anche un pensatore di alto livello e proteso alla ricerca di un’alleanza con il pensiero cristiano rimanga tuttora condizionato nel suo approccio ad esso. La prima è il ricondurre la fede e la teologia cristiana alle prospettive derivanti dal pensiero geocentrico e cosmocentrico. Basterebbe ricordare in proposito l’enciclica Dives in misericordia, n.1, dove Giovanni Paolo II affermava invece che la prospettiva del cristianesimo è simultaneamente e inseparabilmente antropocentrica e teocentrica, formulando questa precisa diagnosi: «Mentre le varie correnti del pensiero umano nel passato e nel presente sono state e continuano ad essere propense a dividere e perfino a contrapporre il teocentrismo e l’antropocentrismo, la Chiesa invece, seguendo il Cristo, cerca di congiungerli nella storia dell’uomo in maniera organica e profonda. E questo è anche uno dei principi fondamentali, e forse il più importante, del Magistero dell’ultimo Concilio».
La seconda precomprensione di Habermas sta nel ritenere che la sintesi tra metafisica greca e fede biblica sia stata elaborata a partire da Agostino per arrivare a Tommaso. Proprio nel discorso di Ratisbona Benedetto XVI ci ha detto che con l’affermazione «In principio era il lógos» l’evangelista Giovanni «ci ha donato la parola conclusiva sul concetto biblico di Dio», nella quale «tutte le vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro meta, trovano la loro sintesi», e pertanto l’incontro tra il messaggio biblico e il pensiero greco «non era un semplice caso», ma aveva invece una sua «necessità intrinseca». A Ratisbona il Papa presenta con brevi parole le fasi di sviluppo di questo processo, a partire dall’«Io sono» con cui Dio si rivela a Mosé nel roveto ardente, ma ad illustrare e fondare tutto ciò Ratzinger ha dedicato a più riprese molte pagine, nei libri che ho già ricordato. In virtù di questa sintesi già il primo Concilio ecumenico, quello dell’anno 325 a Nicea, assai prima che Agostino nascesse, poteva affermare solennemente che il Figlio è «consustanziale» (omooúsios) al Padre, come professione di fede vincolante per tutti i credenti in Cristo. Ho formulato un piccolo riassunto di questi punti del lavoro teologico di Ratzinger - dando anche i riferimenti bibliografici - nella relazione che ho tenuto ai sacerdoti di Roma il 14 dicembre scorso e che sarà pubblicata a brevissimo termine presso le edizioni Cantagalli, in un libretto dal titolo Verità di Dio e verità dell’uomo.
Qui mi preme piuttosto chiarire un interrogativo, avanzato anzitutto in ambito cattolico, su come si concili l’affermazione secondo la quale «In principio era il lógos» è «la parola conclusiva del concetto biblico di Dio« con l’altra, posta a titolo dell’enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est, che Dio è agápe (1 Gv 4,8.16) e in concreto che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Deus caritas est, 1). Certo, si può e si deve anzitutto precisare che in Dio lógos e agápe, ragione-parola e amore, si identificano, ma Ratzinger-Benedetto XVI non si limita a questo. Per lui il legame intrinseco tra la fede biblica e l’interrogarsi greco è soltanto una metà del discorso: l’altra metà è costituita dalla novità radicale e dalla diversità profonda della rivelazione biblica rispetto alla razionalità greca, anzitutto riguardo al tema centrale della religione che è Dio. Il Dio della Bibbia supera infatti radicalmente ciò che i filosofi avevano pensato di Lui, non soltanto perché Egli, in quanto Creatore sommamente libero, è distinto dalla natura in un modo ben più decisivo di quel che poteva avvenire nella filosofia greca, ma soprattutto perché questo Dio non è una realtà a noi inaccessibile, che noi non possiamo incontrare e a cui sarebbe inutile rivolgersi nella preghiera, come ritenevano i filosofi. Al contrario, il Dio biblico ama l’uomo e per questo entra nella nostra storia, dà vita ad un’autentica storia d’amore con Israele, suo popolo, e poi, in Gesù Cristo, non solo dilata questa storia di amore e di salvezza all’intera umanità ma la conduce all’estremo, al punto cioè di «rivolgersi contro se stesso», nella croce del proprio Figlio, per rialzare l’uomo e salvarlo, anzi per chiamarlo ad un’intima unione di amore con Lui. È questo il senso in cui il Dio biblico è agápe, amore che si dona gratuitamente, ed è anche eros, amore che vuole unire intimamente l’uomo a sé (cfr. Deus caritas est, 9-15). Così la fede biblica riconcilia tra loro quelle due dimensioni della religione che prima erano separate l’una dall’altra, cioè il Dio eterno di cui parlavano i filosofi e il bisogno di salvezza che l’uomo porta dentro di sé e che le religioni pagane tentavano in qualche modo di soddisfare. Il Dio della fede cristiana è dunque sì il Dio della metafisica, ma è anche, e identicamente, il Dio della storia, il Dio cioè che entra nella storia e nel più intimo rapporto con noi. È questa, secondo Ratzinger, l’unica risposta adeguata alla questione del Dio della fede e del Dio dei filosofi.
Torniamo ora all’articolo di Habermas, per affrontare il punto centrale del suo dissenso dal discorso di Ratisbona e più ampiamente dall’impostazione di fondo del pensiero e dell’insegnamento di Benedetto XVI. Habermas persegue con sincerità personale e intellettuale un’alleanza tra ragione secolarizzata e "illuminata" e ragione teologica, ma in realtà concepisce questa alleanza su basi nettamente diseguali. Infatti, mentre la ragione teologica dovrebbe accettare l’autorità della ragione secolare postmetafisica, quest’ultima, pur non impancandosi a giudice delle verità religiose, «da ultimo» accetta come «ragionevole» soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi, quindi, alla fine, non le stesse verità religiose nel loro principio trascendente (il Dio che si rivela) e nel loro contenuto sostanziale e decisivo. Nella stessa linea "Gerusalemme" è accolta come facente parte, accanto ad "Atene", della genesi storica della ragione secolare, ma non come attualmente ragionevole. In ultima analisi Habermas non esce da quella "chiusura" su se stessa in cui Ratzinger vede il limite della ragione soltanto empirica e calcolatrice.
Ben diversamente aperta è invece la prospettiva dello stesso Ratzinger-Benedetto XVI. Egli infatti, a Ratisbona e più ampiamente in altri testi che ho già richiamato, sostiene sì con decisione che all’origine dell’universo vi è il Lógos creatore, sulla base dell’esame delle strutture e dei presupposti della conoscenza scientifica, e in particolare della corrispondenza che non può non sussistere tra la matematica - che è una creazione della nostra intelligenza - e le strutture reali dell’universo, dato che, se questa corrispondenza non ci fosse, le nostre previsioni matematiche e le nostre tecnologie non potrebbero funzionare: tale corrispondenza implica però che l’universo stesso sia strutturato in maniera razionale e pone la grande domanda se non debba esservi un’intelligenza originaria, fonte comune di questa realtà "razionale" e della nostra razionalità.
Anche con altre motivazioni Ratzinger mostra che la razionalità non può essere spiegata con l’irrazionale e che il soggetto umano non può essere ricondotto ad un oggetto né conosciuto adeguatamente attraverso i modi e i metodi con cui si conoscono gli oggetti. Egli è però pienamente consapevole non solo che questo genere di considerazioni e argomentazioni vanno al di là dell’ambito della conoscenza scientifica e si pongono al livello dell’indagine filosofica, ma anche che sullo stesso piano filosofico il Lógos creatore non è l’oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane «l’ipotesi migliore», un’ipotesi che esige da parte dell’uomo e della sua ragione «di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile». In concreto, specialmente nell’attuale clima culturale, l’uomo con le sue sole forze non riesce a fare completamente propria questa «ipotesi migliore»: egli rimane infatti prigioniero di una «strana penombra» e delle spinte a vivere secondo i propri interessi, prescindendo da Dio e dall’etica. Soltanto la rivelazione, l’iniziativa di Dio che in Cristo si manifesta all’uomo e lo chiama ad accostarsi a Lui, ci rende davvero capaci di superare questa penombra (cfr. L’Europa di Benedetto, pp. 59-60; 115-124).
Proprio la percezione di una tale «strana penombra» fa sì che l’atteg giamento più diffuso tra i non credenti oggi non sia propriamente l’ateismo - avvertito come qualcosa che supera i limiti della nostra ragione non meno della fede in Dio - ma l’agnosticismo, che sospende il giudizio riguardo a Dio in quanto razionalmente non conoscibile. La risposta che Ratzinger dà a questo problema ci riporta verso la realtà della vita: a suo giudizio infatti l’agnosticismo non è concretamente vivibile, è un programma non realizzabile per la vita umana. Il motivo è che la questione di Dio non è soltanto teorica ma eminentemente pratica, ha conseguenze cioè in tutti gli ambiti della vita. Nella pratica sono infatti costretto a scegliere tra due alternative, già individuate da Pascal: o vivere come se Dio non esistesse, oppure vivere come se Dio esistesse e fosse la realtà decisiva della mia esistenza. Ciò perché Dio, se esiste, non può essere un’appendice da togliere o aggiungere senza che nulla cambi, ma è invece l’origine, il senso e il fine dell’universo, e dell’uomo in esso. Se agisco secondo la prima alternativa adotto di fatto una posizione atea e non soltanto agnostica; se mi decido per la seconda alternativa adotto una posizione credente: la questione di Dio è dunque ineludibile (cfr. L’Europa di Benedetto, pp. 103-114). È interessante notare la profonda analogia che esiste, sotto questo profilo, tra questione dell’uomo e questione di Dio: entrambe, per la loro somma importanza, vanno affrontate con tutto il rigore e l’impegno della nostra intelligenza, ma entrambe sono sempre anche questioni eminentemente pratiche, inevitabilmente connesse con le nostre concrete scelte di vita.
Proprio nel considerare la prospettiva credente come un’ipotesi, sia pure quella migliore, che come tale implica una libera opzione e non esclude la possibilità razionale di ipotesi diverse, Ratzinger-Benedetto XVI si mostra sostanzialmente più aperto di Habermas e della «ragione secolare» di cui Habermas si pone come interprete: essa accetta infatti co me «ragionevole» soltanto ciò che si mostra traducibile nei suoi discorsi. In questa "assolutizzazione" della ragione secolare abbiamo in qualche modo il corrispettivo, a livello teoretico, di quella "dittatura" o assolutizzazione del relativismo che si verifica quanto la libertà individuale, per la quale tutto è finalmente relativo al soggetto, viene eretta a criterio ultimo al quale ogni altra posizione deve subordinarsi (vedi la mia prolusione al Forum del 2 dicembre 2005).
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il forum (Avvenire, 02.03.2007)
Da oggi a Roma l’ottavo incontro del Progetto culturale
Si apre oggi con una prolusione del cardinale Camillo Ruini, al Centro Villa Aurelia a Roma, l’ottavo forum del «Progetto culturale». Questa edizione (che si concluderà domani) raduna 150 intellettuali intorno al rapporto tra «La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà», riprendendo la traccia indicata da Benedetto XVI al Convegno ecclesiale di Verona, nel settembre scorso: «Proprio la riflessione sullo sviluppo delle scienze - disse il Papa - ci riporta verso il Logos creatore». Sono previsti anche gli interventi del teologo Pietro Coda, del matematico Giandomenico Boffi e dello storico Andrea Riccardi.
DIBATTITO La postmodernità ha posto l’esigenza di riportare la fede nel discorso pubblico Come ha dimostrato l’ultima discussione tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger. I due concordano sulla necessità di scommettere sulla religione perché nelle attuali società secolarizzate essa può far crescere coscienza normativa e solidarietà civile
Processo all’Illuminismo
Ma sul futuro pesa la «razionalità plurale» espressa da Rorty e Vattimo e simbolizzata dal labirinto (Eco e Borges) e dal rizoma
di Rosino Gibellini (Avvenire, 12.07.2007)
Alle origini della postmodernità vi è l’annuncio della «morte di Dio» di Nietzsche, che toglie il fondamento ultimo alla realtà; i «sentieri interrotti» di Heidegger nei confronti di una teoria generale dell’essere; e la svolta verso il pluralismo del linguaggio di Wittgenstein. La concettualità della postmodernità è stata introdotta in filosofia dal filosofo francese Jean-François Lyotard con La condizione postmoderna (1979), caratterizzata come fine dei grands récits, dei megaracconti del progresso e delle mete finali del divenire storico; e ha inoltre i suoi filosofi in Jacques Derrida con il «decostruzionismo» e con il pensiero della «differenza»; in Gianni Vattimo con il «pensiero debole»; in Richard Rorty con il «neopragmatismo». La postmodernità come ricerca di una razionalità plurale ha i suoi simboli nel rizoma (Deleuze e Guattari), nel labirinto (Borges e Eco), e nella rete senza centro.
Un esempio illuminante di questo percorso è il dibattito, avvenuto in Europa in anni recenti, sul futuro dell’illuminismo. Subito dopo il secondo conflitto mondiale Adorno e Horkheimer pubblicavano la Dialettica dell’illuminismo (1947), nella quale i due filosofi francofortesi mostravano come il processo storico dell’illuminismo si era mutato nel suo contrario, in una universale alienazione in quanto la ragione storica si è fatta ratio del dominio sull’uomo e sulla natura.
A quarant’anni (1947-1987) dalla pubblicazione di quell’opera, che poneva in termini nuovi il dibattito sull’illuminismo e sulla sua storia degli effetti, un gruppo di eminenti studiosi ha voluto ripercorrere la «dialettica dell’illuminismo» nell’opera Il futuro dell’illuminismo (1988). Per Habermas, si tratta di individuare il «nucleo razionale» dell’illuminismo, al di là delle ambiguità storiche: questo nucleo razionale è un lascito da conservare e da sviluppare per affrontare in nuovi problemi, «che, semmai, possono esser risolti solo alla luce del sole, solo con la cooperazione, solo con le ultime gocce di una solidarietà pressoché dissanguata». Nell’ambito di questa revisione critica hanno portato il loro contributo anche i teologi Metz e Moltmann, i principali rappresentanti della teologia politica europea. Per Moltmann, la cultura dell’illuminismo «non è minacciata dall’esterno, ad esempio, dalla "sindrome conservatrice", o dalle "controrivoluzioni religiose", o dalle profezie della "fine dell’epoca moderna", o dal "postmoderno", o dalla New Age, bensì dalle contraddizioni dello stesso illuminismo».
Le «tre grandi contraddizioni» sono: a) il contrasto strutturale tra il progresso del Primo Mondo e la miseria e povertà del Terzo Mondo: «O riesce alla cultura dell’illuminismo di portare i popoli del Terzo Mondo alla libertà politica, alla giustizia sociale e all’autonomia culturale, oppure essa distrugge i due terzi dell’umanità. Per questo essa deve per così dire saltare se stessa, ossia la sua forma europea»; b) il sistema del terrore nucleare, per cui l’epoca moderna, minaccia di capovolgersi in in epoca della fine; c) la crisi ecologica, in cui è andata a sbattere la civiltà tecnico-scientifica dell’illuminismo, che rischia di portare al collasso della natura. Scrive Moltmann: «La cultura dell’illuminismo potrà conservare i suoi ideali e adempiere alle sue promesse in alleanza con il cristianesimo».
Si va dunque delineando un nuovo rapporto tra ragione e fede e può essere emblematica la discussione intervenuta tra il teologo Joseph Ratzinger e il filosofo Jürgen Habermas nel gennaio 2004, che ha avuto vasta eco internazionale, soprattutto dopo l’elezione del cardinal Ratzinger a Papa con il nome di Benedetto XVI. Nel suo discorso di Monaco di Baviera, e nella sua analisi, Habermas ripropone la questione già posta dal filosofo Böckenförde, che in un saggio del 1967 constatava che lo Stato liberale e secolarizzato si nutre di premesse normative che esso, da solo, non può garantire.
Habermas riprende questo tema, che ora, in filosofia della politica, va sotto il nome di «teorema Böckenförde». È una previsione che aveva, in altra forma, già espresso Romano Guardini in La fine dell’epoca moderna (1950): «Il non-credente deve uscire dalle nebbie della laicizzazione. Deve rinunciare all’"usufrutto" che, pur negando la Rivelazione, si appropria dei valori e delle forze che essa ha elaborato». Secondo Habermas, una società democratica per mantenersi ha bisogno della solidarietà del cittadino, ma tale solidarietà potrebbe esaurirsi «a causa di una secolarizzazione destabilizzante della società». Sorge allora la questione, evocata da Böckenförde: dove può attingere la società democratica secolare, che fonda autonomamente se stessa da se stessa, ispirazione e forza per mantenere questo indispensabile tessuto connettivo?
C’è un fatto visibile, che si impone all’attenzione: la religione persiste; e per Habermas, essa deve essere assunta come una «sfida cognitiva». Non si tratta solo, da parte della filosofia politica, di prendere atto del fatto di questa persistenza, ma di assumerlo positivamente come «sfida cognitiva», in quanto la religione e le religioni hanno la capacità di «alimentare la coscienza normativa e la solidarietà dei cittadini». Ma è necessaria un’operazione di traduzione dei «contenuti di significato» della religione in termini universalmente comprensibili e recepibili nel discorso pubblico, per incorporarli nel discorso pubblico al servizio della società.
La società democratica è secolare, e rimane tale, ma può attingere linfa dalla religione; non subordina a sè la religione, non la passa in eredità (come nel caso di Bloch), la rispetta nella sua alterità di sapere rilevato, ma attinge da essa ciò che è traducibile in linguaggio pubblico, uninversalmente comprensibile. Un esempio di questa traducibilità è l’affermazione biblica secondo la quale l’uomo è stato creato a immagine di Dio, che Kant ha tradotto nel linguaggio filosof ico a tutti comprensibile, della dignità dell’essere umano, da considerare sempre come fine e mai come mezzo.
Habermas, come si era espresso nel grande discorso di Francoforte 2001, dal titolo di risonanze hegeliane, Fede e sapere, all’indomani dell’abbattimento delle Twin Towers, è preoccupato per una «secolarizzazione distruttiva»; per una «secolarizzazione che deraglia»; per «l’entropia delle scarse risorse» concettuali e spirituali; e, insieme, per le previsioni di «scontro di civiltà» come esito del confronto nel pluralismo di culture e religioni. E avanza questa proposta nell’intento di mediare tra la tesi del fondamentalismo e dell’integralismo, che nega la società secolare; e la tesi del secolarismo (Blumenberg, Löwith), che, nella tolleranza, relega la religione nella sfera del privato.
La proposta di Habermas riconosce alla religione una funzione pubblica: «La frontiera di quello che la religione può portare nella vita sociale del nostro tempo è una frontiera da esplorare nel dialogo a due».
Il cardinale Ratzinger, nel suo discorso di Monaco di Baviera (2004), manifesta un «forte accordo con quanto ha esposto Habermas su una società «post-secolare», sulla disponibilità ad apprendere e sull’autolimitazione da entrambi i lati, e avanza la proposta di «una necessaria correlatività tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l’una dell’altra e devono riconoscersi l’una l’altra».
La proposta di Ratzinger, certo, va oltre la proposta di Habermas della «sfida cognitiva». Ma entrambe le proposte convergono nella valorizzazione della religione per la sfera pubblica nel nuovo contesto della società post-secolare.
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Teologia
La riflessione su Dio nel XX secolo
Pubblichiamo in questa pagina ampi stralci della nuova Appendice, «Il passo del Duemila in teologia», in margine al volume di Rosino Gibellini «La teologia del XX secolo» (Queriniana, pagine 752, euro 39,00). Quest’opera propone una ricostruzione globale della storia del pensiero cristiano del Novecento nei suoi momenti più significativi, nelle sue tematiche più impegnative, nei testi essenziali che ne scandiscono il percorso. Rosino Gibellini (nella foto), teologo e filosofo, è fondatore e direttore della Biblioteca di teologia contemporanea dell’Editrice Queriniana.
Dopo Habermas, Ratzinger, Ruini sale in cattedra un altro filosofo: Vittorio Possenti *
Nella sua ultima uscita pubblica come presidente della conferenza episcopale italiana, il 2 e 3 marzo, il cardinale Camillo Ruini ha discusso uno scritto del filosofo francofortese Jürgen Habermas, che a sua volta entrava in dialogo con la lezione di Ratisbona di Benedetto XVI.
Di tutto ciò trovi documentazione nel servizio di www.chiesa: “Habermas scrive a Ratzinger, Ruini risponde. Alleati contro il disfattismo della ragione moderna”.
L’occasione era l’VIII Forum del progetto culturale della Chiesa italiana. Ad ascoltare Ruini c’erano più di duecento scienziati e intellettuali cattolici, che sono poi intervenuti nella discussione.
Tra questi il filosofo Vittorio Possenti, docente di filosofia politica all’Università di Venezia. Possenti era arrivato al Forum preparatissimo. Aveva pronta nella cartella una sua agguerrita confutazione delle posizioni di Habermas. Con vari riferimenti anche a Kant, al quale Ruini - guarda caso - ha dedicato l’ultima parte della sua relazione.
L’8 marzo il quotidiano della CEI, “Avvenire” ha pubblicato una sintesi della nota di Possenti. Ma è interessante leggerla nella sua stesura integrale.
Possenti contesta che l’alleanza proposta da Habermas tra la fede e la ragione postmetafisica possa sconfiggere il “disfattismo” che la modernità si cova dentro. La ragione postmetafisica è troppo debole per riuscirci. Autolimita la sua capacità ai fallibili risultati delle scienze, allontanando da sé come impossibile la conoscenza dell’essere, e quindi del fine e del perché delle cose. È come la “ragion pura” di Kant, incapace di operare seguendo le sue stesse istruzioni: “Se nell’aldilà vi sarà una casa di salute o un ospedale per la ragione, non è improbabile che vi si troverà ricoverata la ragion pura che pretende di funzionare come descritto da Kant”.
Ecco il link al testo di Possenti: “Metafisica o postmetafisica? A proposito del dialogo tra ragione secolare e ragione religiosa”.
* SETTIMO CIELO - BLOG DI SANDRO MAGISTER (Postato in General il 8 Marzo, 2007)
LE RELAZIONI. LA STESSA MODERNITÀ VISTA DA TRE SFACCETTATURE DIVERSE: I POTERI (E ANCHE I RISCHI) DELLA SCIENZA, IL RITORNO DEL SACRO,LE EMERGENZE DEL PIANETA. UN CONTRIBUTO PER RIDISEGNARE L’ATLANTE DI UN’URGENTE «QUESTIONE ANTROPOLOGICA»
Ieri e oggi i lavori del Progetto culturale
Una nuova civiltà per domani
Da Roma Gianni Santamaria;Da Roma Mimmo Muolo (Avvenire/Agorà, 03.03.2007)
il matematico
Boffi: «La razionalità non è soltanto tecnica»
Da un lato c’è il «pericolo d’una visione puramente strumentale delle scienze», al quale è connesso il rischio che la ricerca non sia libera, perché legata a interessi particolari, come quelli economici. Dall’altro vanno faticosamente ricercati «criteri di indirizzo» per le questioni delicate che la scienza va a toccare. Si è mossa tra questi due poli, uno teorico, l’altro etico, la relazione di Giandomenico Boffi, ordinario di Algebra all’Università di Chieti-Pescara, all’ottavo Forum del progetto culturale. Ogni modello scientifico, basato sulla «razionalità sperimentale e calcolatrice - ha esordito lo studioso - per quanto sia sofisticato e accuratamente validato» rappresenta sempre e comunque solo «un tentativo di comprensione» suscettibile di variazioni. Allora anche se «le applicazioni di tipo tecnico delle nostre scienze "funzionano", non solo non è detto che le teorie scientifiche arrivino a dare una descrizione del cosmo come esso intimamente è, ma non è nemmeno ovvio che vadano progressivamente avvicinandosi a tale obiettivo». La conoscibilità dell’uomo e del mondo resta molto al di là e si aprono spazi per «ulteriori dimensioni della razionalità». Andrebbe, però, prima di tutto sgombrato il campo da una visione strumentale delle scienze. Ne va della libertà di ricerca che sarebbe «svilita».
Ricerca libera, ha però precisato lo scienziato, «è cosa ben diversa dalla facoltà di sperimentazione senza vincoli talvolta reclamata, per lo più in riferimento alle scienze biomediche». Va considerato, poi, che la ricerca non nasce nel vuoto, ma «risponde a problemi aperti nella comunità scientifica, oppure a stimoli provenienti da altre discipline o dalla società». Esiste, insomma, una dimensione organizzativa e pragmatica della scienza che - visti i risvolti di carattere etico - chiama in causa un «sereno dialogo tra comunità scientifica e società circostante», il cui obiettivo deve essere «op erare un difficile discernimento tra quello che non attiene all’esclusiva competenza degli addetti ai lavori e quello invece che gli attiene e che va sottratto agli incompetenti, ai demagoghi, ai propagandisti di affascinanti estrapolazioni ideologiche».
Infine, sulla scorta delle parole di Benedetto XVI sul rapporto tra matematica e verità sul cosmo pronunciate al convegno di Verona, lo scienziato dei numeri ha ricordato come nel corso del Novecento è emersa la consapevolezza che «la matematica non è riducibile al mero calcolo». Tale considerazione, però, non viene pienamente colta da due correnti di pensiero: evoluzionisti e cognitivisti, i quali «sembrano dare alle proprie teorie un valore di verità assoluta che non riconosciamo a nessuno schema scientifico».
il teologo
Coda: «La Pasqua ha mutato la cultura»
La fede cristiana non è nemica dell’intelligenza. Al contrario essa «può persuasivamente e con stile invitante esibire oggi la sua nativa amicizia nei confronti dell’intelligenza e della libertà». Dunque un nuovo incontro tra fede e logos è possibile. Anzi auspicabile. Don Piero Coda immette nel dibattito dell’VIII Forum del Progetto culturale la prospettiva teologica. Ma anche per questa via arriva alle stesse conclusioni degli altri relatori della mattinata. «La nube della non conoscenza è squarciata definitivamente: com’è avvenuto per il velo del tempio di Gerusalemme nell’atto stesso del morire sulla croce del Logos fatto carne». E quindi «il nostro tempo - fa notare il sacerdote - esige il coraggio delle grandi visioni che si alimentano dell’attualità sempre viva del Vangelo e che, proprio per questo, sanno intercettare le istanze che vengono dai segni dei tempi».
Don Coda sviluppa il suo ragionamento a partire dall’evento centrale del cristianesimo: la Pasqua, definita da Benedetto XVI a Verona come «la più grande mutazione mai accaduta, il salto decisivo verso una dimensione di vita profondamente nuova, l’ingresso in un ordine de cisamente diverso». Non si tratta solo di una «bella declamazione spirituale», fa notare il relatore, ma di «un processo culturale che con l’apparire sullo scenario della storia della fede in Gesù chiede sempre di nuovo l’indispensabile e creativo contributo del nostro pensare e agire».
Su questo terreno, dunque, può avvenire l’incontro. «La razionalità scientifica moderna - prosegue Coda - ritaglia per sé uno sguardo sulla realtà e un metodo di osservazione della stessa che non può pretendere all’assolutezza e alla totalità». Essa invoca piuttosto «l’inserzione di quella razionalità "più ampia" che sa disincagliarsi da un’astratta separazione contrappositiva tra sapere della fede e sapere delle scienze». E in questo senso si può alimentare «un autentico dialogo e una libera cooperazione tra le discipline», che tali sono perché «illuminate da quel Logos da cui scaturisce e verso cui tende ogni autentica ricerca della verità».
Questa posizione dialogante costituisce oltre tutto, a parere di don Coda, non certo «un passo indietro rispetto al Vaticano II», ma è anzi «un coerente e necessario passo in avanti». Se, infatti, il Concilio «ha orientato la Chiesa cattolica a imboccare la strada del dia-logos, l’invito del Papa ci orienta a tirare le estreme conseguenze della strategia conciliare». Una strategia di cui le dinamiche culturali sempre più complesse «rendono evidente l’ineludibilità».
lo storico
Riccardi: «La vera sfida? È coniugare i saperi»
Prendete un grande planisfero. Mettete al posto dei colori che indicano nazioni, confini o deserti e montagne, il modo con cui ogni continente o Stato guarda al suo futuro e otterrete un nuovo tipo di atlante geopolitico. Quello della speranza presente o mancante.
È l’operazione che ieri mattina lo storico Andrea Riccardi ha compiuto con la sua relazione all’VIII Forum del Progetto culturale. «Per l’India e la Cina - ha detto il fondatore di Sant’Egidio - il futuro vuol dire l’espansione economica e pol itica su un modello abbastanza classico». Gli Stati Uniti «si sono lanciati in un confronto geopolitico e militare». Per il mondo islamico, invece, «il futuro è discusso tra la prospettiva bellicosa e fondamentalista e quella di un’occidentalizzazione delle società». E ancora: «Futuro per il mondo latinoamericano vuol dire tante democrazie che trovano figure carismatiche per rappresentare la voglia del domani di larghi strati della popolazione». Infine tra i più poveri (leggi l’Africa), «dove il futuro manca c’è l’emigrazione». Ma la negazione del futuro, «in un mondo globalizzato dove tutto si vede e tanti si collegano in rete tra loro, è un terreno pericoloso, la cui carica esplosiva non siamo in grado di individuare, ma solo di segnalare».
E l’Europa? E l’Italia? In questo ipotetico atlante dell’investimento sul futuro quale posto occupano? Secondo Riccardi «si avverte in tutta Europa la mancanza di una proiezione sul futuro che sia investimento, orientamento delle energie migliori, conquista del domani. La sconfitta della Carta costituzionale europea è stata non tanto della Chiesa, quanto di un’Europa che si propone senza pathos e senza radici». Ma un ruolo importante, per lo studioso, lo può svolgere il cattolicesimo occidentale coniugando tradizione e futuro, «i due fronti della battaglia per il domani». Un’operazione cominciata con Giovanni Paolo II e che prosegue con Benedetto XVI.
Il cattolicesimo italiano, ha aggiunto Riccardi, «mi sembra che abbia lavorato (è la storia del progetto culturale) sul filo di una riflessione sulla cultura che mette insieme i diversi saperi», ma che fa i conti con «la realtà di una fede di popolo». Cultura, ha concluso lo storico, «vuol dire coraggio di discutere a fronte dell’innovazione». E in definitiva è questo il contributo più importante che viene dal mondo cattolico italiano. «Pensare il futuro non in un mondo dalle civiltà appiattite, ma come una civiltà del vivere insieme, dell’integrazione tra la tradizione e le sf ide del domani». Insomma ridisegnare quel famoso atlante.
INTERVISTA
«Benedetto XVI con la sua enciclica ha inteso correggere la sconnessione che spesso viene operata fra i due termini». Parla il teologo Giuseppe Angelini, autore di un saggio sull’argomento
Eros e agape, oltre l’alternativa
Da Milano Paolo Lambruschi (Avvenire, 13.03.2007)
La prima enciclica di papa Ratzinger Deus caritas est ha avuto grande successo. Il teologo morale Giuseppe Angelini, docente della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, torna con il volume Eros e Agape. Oltre l’alternativa, edito da Glossa sui temi antropologici del testo, quelli che segnano l’esperienza quotidiana dell’amore.
Monsignor Angelini, partiamo dall’alternativa del titolo. Benedetto XVI nell’enciclica la respinge: l’amore di Dio per l’uomo è anche eros. Qual è la portata di questa innovazione in campo teologico?
«L’alternativa è stata formulata in termini perentori nel 1930 da Anders Nygren, in un’opera di grande e immeritato successo; Nygren era teologo luterano; nella sua ottica l’opposizione tra eros e agape assumeva la figura di rinnovata affermazione del teorema che oppone la fede alle opere, il divino all’umano. L’eros inteso quale desiderio umano, addirittura costitutivo dell’identità dell’umano, sarebbe senza proporzione con agape, l’amore che Dio rivolge in maniera incondizionata a ogni sua creatura. Di questo secondo amore l’uomo si approprierebbe mediante la sola fede, indipendentemente dalle opere. La correlazione positiva e dinamica tra eros e agape affermata da Benedetto XVI assume in tal senso anzitutto il valore di una rinnovata affermazione dell’originaria alleanza tra Dio e l’uomo, creato a immagine del suo Verbo. Pur senza usare il lessico di eros e agape, la sconnessione tra amor concupiscentiae e amor benevolentiae attraversa però largamente la stessa tradizione cattolica. Essa sancisce la separazione tra le forme psicologiche del desiderio spontaneo dell’uomo e le forme solo spirituali della caritas. Appunto tale sconnessione Benedetto XVI intende correggere, introducendo l’affermazione sorprendente che Dio stesso ha un desiderio nei confronti della sua creatura».
Perché si è creata nella nostra morale questa alternativa tra amore spirituale e passione?
«Effettivamente l’uomo è esposto alla tentazione di ridurre il bene alla figura passiva della saturazione del proprio desiderio. Non è solo una tentazione, ma è la forma radicale del peccato universale. Realizzato in questa forma, l’eros diventa in effetti alternativo all’agape. Illusoria è però l’idea che alla tentazione si possa porre rimedio semplicemente separando amore spirituale e passione; al contrario, soltanto attraverso le originarie forme passive, o affettive, dell’esperienza l’uomo può accedere alla verità della promessa, che sola apre il cammino della sua vita».
E nel campo della morale quotidiana, cosa significa proporre all’uomo contemporaneo questo amore divino?
«Per proporre all’uomo contemporaneo la figura dell’amore divino, manifestato attraverso la passione di Gesù Cristo, occorre mostrare come la vicenda di Gesù effettivamente manifesti la verità da sempre nascosta in ogni forma umana dell’amore, ma rimossa. Occorre in tal senso passare dalle forme correnti del discorso cattolico - oscillante tra le formule scolastiche del catechismo e la semplice citazione delle parole evangeliche e bibliche in genere - a un’attenta fenomenologia delle relazioni umane tutte, a procedere da quelle elementari, dalla relazione tra uomo e donna e tra genitori e figli. Soltanto sulla base di tale attenzione al concreto sarebbe possibile mostrare come la rivelazione di Dio nella storia interpreti e insieme giudichi le forme dell’amore raccomandate dalla tradizione della cultura».
Come l’enciclica rinsalda il valore dell’amore matrimoniale?
«È troppo poco dire che essa rinsalda; essa porta alla luce il valore originario che l’eros sponsale assume in ordine alla comprensione del desiderio di Dio nei confronti degli umani, e quindi anche della sua "vulnerabilità", resa manifesta dalla croce. Non si tratta solo di rinsaldare, ma di configurare un eros che, nelle forme in cui esso è vissuto e celebrato, appare come una filastrocca banale. Per suggerire solo un’applicazione più concreta, occorre correggere l’immagine romantica dell’amore, che ha costituito la forma dominante nell’epopea civile moderna; quella forma ha fatto dell’amore quasi una nuova religione (vedi L’allegoria dell’amore dello scrittore Clive Staples Lewis), e certo una diversa da quella evangelica».
Lei parla a lungo del commiato della modernità dalla religione ecclesiastica. L’amore elaborato dall’individualismo e dalla laicità in cosa si differenzia dall’amore cristiano?
«La responsabilità della concezione moderna dell’amore, quella romantica, nasce da un sistema civile, quello secolare della modernità. Esso condanna la coscienza individuale alla clandestinità; su questo sfondo trova terreno propizio di cultura la figura immaginaria e sognante dell’amore. Essa si affida a immagini esoteriche, remote dalle forme effettive della pratica quotidiana di vita. La figura di amore che ne risulta fugge dalla responsabilità, dalla memoria e dalla promessa; cancella il nesso, obiettivo e innegabile, tra amore e generazione; sequestra il rapporto tra uomo e donna dal rapporto di generazione, quindi anche dal compito dell’educazione. Questa è ridotta alla figura irreale di una puericultura».
Un tema delicato nella seconda parte dell’enciclica, quella cosiddetta politica, è la "caritas". Lei sostiene che la compassione e l’amore per gli ultimi sono la forma in cui è stato ridotto l’amore cristiano dalla società post ideologica. Mentre addirittura nel Vangelo di Giovanni non v’è accenno alla compassione di Gesù per i poveri e gli ultimi. Qual è oggi il senso del comandamento dell’amore? Chi è il prossimo da amare?
«Ricordo anzitutto che alla domanda "Chi è il mio prossimo?" Gesù stesso risponde raccontando una storia, quella del buon samaritano; essa è una parabola che dice dell’amore di Gesù stesso; non si può dire chi è il prossimo se non raccontando la storia che me lo rende tale. Preciso poi che l’amore comandato da Gesù ha sempre la figura della ripresa di una prossimità, che in prima battuta si realizza a monte rispetto alla consapevolezza e alla scelta dell’uomo. In tal senso, concorrono a disegnare la figura dell’amore cristiano anzitutto l’amore tra uomo e donna, e poi quello tra genitori e figli. A procedere da queste forme occorre intendere le stesse forme tipiche dell’agape del nuovo testamento: il perdono dei nemici, il servizio degli amici e certo anche la compassione per chi è nel bisogno».
E’ ancora attuale la frase di Paolo VI: la politica è la più alta forma di carità?
«Certo. Chiede, però, che sia pensata la figura della politica, correggendo le concezioni moderne, che la riducono a discorso sulle forme dell’uso legittimo del potere. Occorre ripensare la politica come forma della alleanza umana e non solo come esercizio del potere».
il dibattito
Razionalità e nuovi orizzonti *
Il filosofo Habermas aveva visto nel discorso di Ratisbona una svolta verso posizioni antimoderne e il rischio di una nuova ellenizzazione della teologia cristiana. In questo intervento monsignor Giuseppe Betori, segretario della Cei (foto accanto), sottolinea come il Vangelo di Giovanni non sia frutto esclusivamente del tracciato semitico del pensiero biblico, ma anzi l’esempio fondamentale di un parallelo pensiero ellenistico che innerva il tracciato biblico con una idea della sapienza che, su basi anche razionali, consente il dialogo e una più profonda comprensione teologica.
INTERVENTO
Il tentativo di depurare l’annuncio cristiano delle sue radici elleniche rischia di negare una componente essenziale, almeno tanto quanto le radici semitiche del pensiero biblico
Chi vuole sottrarre al Logos la ragione?
di Giuseppe Betori *
Nel dibattito che si è sviluppato attorno alla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona non è mancato chi ha voluto rimproverargli un uso indebito del concetto di Logos, in quanto il Logos giovanneo non potrebbe essere connesso alla dimensione della razionalità.
Il rimprovero, per lo più in forma implicita, si ripropone anche in genere con riferimento all’appello del Santo Padre all’ampliamento degli spazi della ragione, accusando in ciò una forma riduzionista della rivelazione biblica, che si modulerebbe piuttosto sul registro della dialogicità. Un’accusa peraltro respinta da Benedetto XVI fin dall’inizio della sua prima enciclica, quando caratterizza il fatto cristiano non come una conoscenza ma come un incontro, un incontro con un avvenimento e più precisamente con una persona, quella di Cristo (cfr. Deus caritas est, 1). Ciò però, per il Santo Padre non solo non esclude ma al contrario esalta la dimensione razionale nella esperienza della fede.
Di qui l’importanza di fare chiarezza attorno al concetto di Logos giovanneo. Non mancano infatti esponenti del mondo degli studi biblici per i quali il retroterra del Logos neotestamentario non sarebbe il mondo della razionalità greca, ma puramente quello del pensiero semitico e in specie il concetto di dabar ebraico, nella sua duplice fondamentale accezione di parola ed evento. Ma facendo questo ci si dimentica che il Logos giovanneo sta al termine di un cammino di elaborazione concettuale ben più complesso della semplice trasposizione dabar-logos, in cui il contatto con il mondo ellenico costituisce un passaggio non secondario del percorso, in particolare nello snodo della riflessione sulla sapienza, in cui per l’appunto nella realtà della sophia il dabar ebraico incontra il logos greco e se ne arricchisce. Come acutamente rileva R. Schnackenbur nel suo commentario al vangelo di Giovanni (Pa ideia, vol. I, p. 364), l’identificazione della parola-sapienza divina con il Logos serve a "realizzare un’"apertura" verso il mondo ellenistico". Più compiutamente si può quindi affermare che nel Logos giovanneo vengono a confluire un insieme di dimensioni che hanno radici sia nel pensiero biblico semitico sia in quello biblico ellenistico, e che possono essere così riassunte: rivelazione, parola, legge, ragione, dialogo ed evento.
Non a caso parlo di pensiero biblico ellenistico, in quanto al di là della risposta che si vuole dare alla questione della ispirazione della traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta, non si può negare il dato storico letterario della presenza fattuale e più ampiamente dell’influsso culturale della Settanta nel Nuovo Testamento, a livello della sua elaborazione e nel suo stesso dettato. Il problema della ellenizzazione del cristianesimo non è un problema esterno alla fase biblica neotestamentaria, ma interno ad essa. A ciò si aggiunga che una corretta teoria dell’interpretazione dei testi non può prescindere dalla storia dei suoi effetti, che per la Bibbia cristiana comincia per l’appunto con il suo collocarsi all’interno del mondo ellenistico e, illuminato da questo, continua a produrre frutti indiscussi per secoli. Prescindere dal rapporto con il mondo ellenico ed ellenistico significherebbe stabilire una cesura immotivata tra il testo biblico e l’inizio della sua comprensione, che diverrebbe invece accettabile solo a partire dall’inizio della fase cosiddetta critica dell’esegesi nel secolo XVIII. Una soluzione di continuità immotivata, o meglio motivata solo ideologicamente.
Ma tornando al significato da attribuire al Logos, non va neppure dimenticato che nel prologo del vangelo di Giovanni il concetto di Logos riceve una sua ulteriore determinazione dalla connessione che gli si riconosce con la sarx, vale a dire con quella carne che ne d etermina la forma personale nella storia.
Considerando pertanto l’intero tragitto culturale è errato opporre il Logos giovanneo al concetto di ragione, facendo parte quest’ultima dei suoi inalienabili caratteri costitutivi. Il Logos giovanneo assume e arricchisce di significato il logos-ragione ellenico, connettendo indissolubilmente ragione e relazione, verità e fedeltà/libertà, ma non rinuncia alla dimensione razionale che ne determina il significato originario. Così che non si può dare dia-logos senza logos, vale a dire che non si può dare incontro di salvezza senza acquisizione e riconoscimento della sua ragionevolezza.
* Avvenire, 21.03.2007
Il Papa parla Conferenza degli alti prelati del continente, denunciando i rischi della globalizzazione e rilegittimando "l’opzione preferenziale per i poveri"
Benedetto XVI ai vescovi latinoamericani
"Falliti Marx e capitalismo, serve Gesù" *
APARECIDA - Da più di cinque secoli il cristianesimo, integrandosi con le etnie indigene, ha creato in America latina "una grande sintonia pur nella diversità di culture e lingue". E oggi, anche se "l’identità cattolica" del continente è minacciata, il cristianesimo resta decisivo per la dignità e lo sviluppo integrale di uomini e donne. E questo tanto più davanti al fallimento di marxismo e capitalismo, con la loro promessa di creare strutture sociali "giuste" che avrebbero automaticamente "promosso la moralità comune".
E’ il messaggio di Benedetto XVI ai vescovi latinoamericani, riuniti nel santuario di Aparecida per la loro quinta Conferenza generale. Il Papa dichiara la "continuità" tra questa e le precedenti riunioni, parla di situazione cambiata in questi anni, a causa dei risvolti negativi della globalizzazione, e denuncia il "rischio" che i grandi monopoli trasformino "il lucro in valore supremo". Rilegittima inoltre la "opzione preferenziale per i poveri", cara alla Teologia della liberazione, dichiarandola "implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi".
Davanti a 266 vescovi - 162 membri effettivi, 81 invitati, 8 osservatori e 15 periti - che da domani e fino al 31 maggio si interrogheranno su come costruire il futuro della Chiesa, insidiata da secolarizzazione e sette, nel più grande continente cattolico del mondo - Benedetto XVI si pone in una prospettiva diversa rispetto a Giovanni Paolo II, che parlò di luci e ombre dell’introduzione del cristianesimo in America latina, riconoscendo che alcuni cristiani portarono la fede, ma anche forme di crudele colonizzazione. Il cristianesimo, sottolinea invece il papa-teologo, si è integrato nelle etnie, ha creato unità e non è estraneo a nessuna cultura e persona.
Non hanno dunque senso certe tendenze indigeniste: "L’utopia di tornare a dare vita alle religioni precolombiane, separandole da Cristo e dalla Chiesa universale, non sarebbe un progresso, bensì un regresso, una involuzione". Il cristianesimo sa invece affermare che "i popoli latinoamericani e dei Caraibi hanno diritto a una vita piena", "con alcune condizioni più umane", senza "fame e ogni forma di violenza".
Benedetto Xvi spiega inoltre che "la Chiesa non fa proselitismo. Si sviluppa per attrazione": probabilmente, un modo per sottolineare in maniera indiretta le differenze, rispetto alle sette pentecostali molto presenti in America Latina.
E con la presenza ad Aparecida, il viaggio in Brasile del Pontefice volge alla fine. Nella notte italiana, è previsto il volo di ritorno, verso il Vaticano.
* la Repubblica, 13 maggio 2007
IDEE
Il filosofo Spaemann mette in guardia da chi accusa le religioni di fomentare l’odio e il terrore: all’origine dei tre monoteismi vi è una divinità che si rivolge all’uomo attraverso il «logos». La ragione, dunque, appartiene al credente in quanto relazione con l’altro. Chi rifiuta questa dimensione dialogica apre la strada alla conflittualità
Ma Dio non è violenza
«Troppo spesso ancora nel mondo musulmano vince la via sanguinaria. Anche l’islam deve intraprendere la strada del dialogo comune»
di Robert Spaemann (Avvenire, 18.07.2007)
Non è un caso che il discorso di Regensburg abbia aperto un controverso dialogo con l’Islam. Senza il colpo di avvertimento costituito dalla citazione di un imperatore bizantino, più di trenta famosi professori islamici forse non avrebbero mai pensato di accettare l’invito al dialogo, di prenderlo sul serio, di rispondere gentilmente e di cominciare subito ad avanzare delle critiche invece dei soliti scambi di cortesie. Che altri musulmani abbiano reagito con un atto di violenza sanguinaria conferma che la questione del rapporto fra fede e violenza resta per l’Islam un problema aperto. Il Papa ha facilitato l’apertura di un dialogo serio ammettendo senza infingimenti apologetici che anche la cristianità ha avuto questo problema per tanto tempo e che spera che l’Islam compia lo stesso processo di apprendimento che ha compiuto la Chiesa. Oggetto di tale dialogo sarà verificare se il Corano favorisca un tale processo allo stesso modo del Nuovo Testamento. Metterlo inizialmente in dubbio fa parte di un onesto inizio di dialogo.
Ci si potrebbe chiedere perché bisogna discuterne e forse scontrarsi. Se i musulmani avessero un altro Dio rispetto ai cristiani un tale scontro sarebbe privo di senso. I cristiani potrebbero solo ribadire che non credono all’esistenza di quel Dio. In effetti tanti cristiani ritengono che Allah sia un altro Dio rispetto a quello dei cristiani. Se fosse così non avrebbe alcun senso scontrarsi rispettosamente su come si debba pensare e parlare correttamente di Dio. Ma in conformità col suo grande predecessore medievale Gregorio VII e col Concilio Vaticano II, Benedetto XVI parte dal presupposto che gli ebrei, i cristiani e i musulmani pregano lo stesso Dio uno e unico.
La lezione magistrale di Regensburg parla soprattutto della differenza che nel mondo di oggi salta agli occhi. Essa riguarda il tema «Dio e violenza». Ricollegandosi alle riflessioni di un imperatore bizantino, il Papa collega questo all’altro tema: «Dio e ragio ne». La ragione è quello step beyond ourselves la cui possibilità la modernità nega. Ho cercato, riferendomi a Nietzsche, di mostrare che questa possibilità dipende dall’esistenza di Dio e proprio di un Dio che nella sua essenza è luce. La ragione dunque non è uno strumento di sopravvivenza dell’homo sapiens, ma partecipazione alla luce divina e un vedere il mondo in questa «luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9). Questa luce, come dice Platone, fa vedere il bene come il koinon, «ciò che è comune a tutti» (cfr. Platone, Fedone). Non a caso Eraclito parla a questo riguardo del logos, e logos significa anche «parola».
Soltanto attraverso la parola, soltanto attraverso la lingua, attraverso il parlare con gli altri, noi ragioniamo. La violenza però è l’esatto contrario del parlare con gli altri. Lo scopo del discorso è l’intesa tramite la comune sottomissione al criterio del vero, lo scopo della violenza è la sottomissione dell’altro alla volontà di colui che si dimostra fisicamente più forte. Michel Foucault, che nega l’intelligibilità del mondo, deve di conseguenza minimizzare la differenza tra dialogo e violenza. Siccome non esiste un qualcosa che sia verità, anche nel dialogo può trattarsi solo di misurare le forze nella lotta per il potere. Così già pensavano d’altronde i sofisti con i quali si scontrò Socrate. Soltanto quando si dà verità come koinon si dà un’alternativa alla violenza. Il criterio della forza fisica non ha nulla a che fare con quello della verità. E la vittoria nello scontro violento solo per caso può anche essere la vittoria del migliore. C’è la forza legittima dello Stato, la cui ragione risiede nell’impedire la violenza tra gli individui, c’è la forza legittima del potere statale per la difesa contro la violenza di un’ingiusta aggressione. Ma lo scatenarsi della violenza, la trasformazione del dialogo in violenza è semp re il fallimento della ragione, e la probabilità che una situazione violenta possa essere migliorata con la violenza è scarsa.
Ma è soprattutto la violenza nel nome di Dio che è condannata inequivocabilmente da Benedetto XVI. Dio come Signore della storia agisce attraverso tutto ciò che succede e anche la violenza dei violenti alla fine dovrà servire al Suo scopo. Ma lo serve solo come tutto ciò che è malvagio. La Sua volontà è fatta sempre e dappertutto. Non deve chiedere il permesso. Ma non dappertutto sulla terra succede come in cielo, e cioè attraverso il conformarsi della volontà degli angeli e degli uomini alla volontà di Dio. Mefistofele, nel Faust di Goethe, confessa di essere parte «di quella Forza che sempre vuole il male e sempre il bene crea». Noi preghiamo affinché la volontà di Dio non sia fatta sulla terra così, ma «come in cielo», e questo significa anche: non tramite la violenza. Anche il popolo di Israele, a questo riguardo, ha compiuto un processo di apprendimento che si conclude soltanto con Gesù. E nonostante questa conclusione, la cristianità nel Medioevo ha creduto ancora di dover punire con pene temporali fino alla condanna a morte almeno l’apostasia e l’eresia: un punto di vista che vige ancora oggi nei Paesi islamici.
Ma non si può costringere a rimanere nella luce con i mezzi delle tenebre. Laddove dei cristiani vengono perseguitati in quanto cristiani, essi, seguendo il loro Signore, rinunciano a restituire la violenza. Dove dei cristiani, d’altronde, difendono legittimamente la civitas terrena in qualità di cittadini di essa, sanno che il processo della violenza, nei suoi esiti, è indifferente alla giustizia e all’ingiustizia. Non si presenteranno dunque in nome di Dio e in nome del bene per punire i cattivi e terranno l’odio che avvelena l’anima fuori dallo scontro. Dove vige la violenza, la ragione tace e l’unica forma della sua perdurante presenza può essere soltanto quel rispetto dei nemici che anticipa già la riconciliazione.
Non sempre possiamo decidere se avere o no nemici. A volte può essere giusto smitizzare l’idea del nemico, a volte no. Dobbiamo verificare l’idea che abbiamo del nemico confrontandola con la realtà. Ma ciò che invece possiamo decidere è di chiedere la forza di amare i nemici. Tale forza trasforma lo status della violenza che si oppone a Dio ed è il suo modo supremo con cui la luce può illuminare le tenebre, la luce della ragione e dell’amore, il cui massimo testimone è nel nostro tempo Papa Benedetto XVI.
IL DIBATTITO
Dopo Ratisbona, quale dialogo tra le fedi?
Il richiamo alla ragione che Benedetto XVI ha fatto nel discorso di Ratisbona ha suscitato un dibattito molteplice e anche incomprensioni forzate, sebbene il discorso del Papa fosse incentrato sulla necessità di un dialogo che abbia come riferimento il criterio della verità. Su questo ora prendono la parola cinque intellettuali nel volume «Dio salvi la ragione», edito da Cantagalli, che, oltre al testo di Benedetto XVI, presenta gli interventi di Wael Farouq, André Glucksmann, Sari Nusseibeh, Robert Spaemann e Joseph H.H. Weiler. Dal volume, pubblichiamo alcuni stralci del saggio del filosofo Robert Spaemann (nella foto), incentrati sulla questione del presunto rapporto fra religione e violenza.