INCHIESTA
Ormai non ci sono più le «scuole» di una volta, il pensiero oggi è meno che «debole». Però domina le piazze dei festival: chiacchiera o socratica maieutica per nuovi discepoli ammaestrati sotto l’albero?
Analitici, tragicisti, trascendentali, apofatici e persino copisti. Eccovi la mappa sfiziosa dei nostri «maîtres à penser»
di Francesco Tomatis (Avvenire, 21.09.2008).
Un tempo c’erano le scuole filosofiche. Non mi riferisco a Pitagora e alla scuola che formò attorno a sé a Crotone già nel VI secolo a. C., né all’Accademia fondata da Platone ad Atene nel IV secolo a. C., né alle tante altre diffuse in Grecia ma non solo, prima che in età medievale si formassero le università. Sino a circa trent’anni fa, in Italia, si potevano individuare diverse scuole filosofiche, localizzandone le sedi in svariate università del Paese, con relativi capiscuola, ma soprattutto caratterizzate da tradizioni di pensiero ben consolidate e delineabili.
Oggi non è più così. Non è colpa dei festival filosofici, ultimamente molto alla moda, da quello modenese, ideato dalla Fondazione San Carlo e Remo Bodei, al più recente romano, coordinato da Giacomo Marramao, che effettivamente possono dare al pubblico l’impressione di potersi accostare alle questioni filosofiche in atteggiamento spettacolare, senza troppo studio.
Un po’ per la moltiplicazione dei filosofi, o dei presunti tali, con conseguente impoverimento della riflessione teoretica e prevalere di quella storiografica, un po’ per la naturale tendenza alla ricerca e meditazione individuale, soprattutto per il livellamento delle università italiane, sta di fatto che le diverse tradizioni filosofiche, che arricchivano l’Italia facendone un unicum a livello europeo, un laboratorio sperimentale di pensiero costituito da diverse originali linee di ricerca, esse in quanto scuole, capaci di formare allievi, produrre idee e pubblicazioni, creare progettualità per l’avvenire, sono venute meno.
Va attentamente considerato un motivo di fondo che ha provocato il declino: il livellamento universitario. Del quale certamente sono anche responsabili i docenti e gli stessi studenti, sempre meno motivati e preparati nei precedenti corsi di studio frequentati. Tuttavia la maggiore e gravissima responsabilità sta nella nuova impostazione del sistema universitario, delineatasi sul finire degli anni Ottanta e poi pienamente realizzata un decennio dopo.
Fra i molti, i punti critici sono due: la separazione fra ricerca e insegnamento, apprendimento e ricerca, nonché l’omologazione dei corsi di laurea, cioè delle discipline insegnate nelle diverse università, attraverso una imposizione ministeriale di rigide griglie. Decretare elenchi di materie all’interno delle quali soltanto sia possibile delineare corsi di studio universitari impedisce di fatto un pluralismo fra diverse tradizioni di ricerca e saperi, quando non viola la stessa libertà costituzionale di insegnamento.
Un esempio fra tutti: negli elenchi di discipline inseribili nei corsi di laurea in Filosofia non compaiono le filosofie e le culture orientali (indiane, cinesi...), quando invece campeggiano, ad esempio, la storia della medicina e la chimica. Che sia stato recepito il suggerimento di Nietzsche, di una nuova filosofia come chimica delle idee?
Ma torniamo alle scuole filosofiche e ai veri filosofi, in Italia. Dove si sono ritirati?
Prescindiamo dai decani, ormai purtroppo fuori dalle università - eppure tanto avrebbero ancora da insegnare a noi: penso a Pietro Prini, Armando Rigobello, Vittorio Mathieu, Carlo Arata. Qualche filosofo, ovviamente, frequenta ancora le università; sono tuttavia degli isolati. Facciamo dei nomi.
Vincenzo Vitiello a Salerno, grande sostenitore dello stare accanto di filosofia e teologia, praticato anche personalmente attraverso il continuo confronto con teologi come Bruno Forte e Piero Coda.
Gianni Vattimo a Torino, il più noto e letto e acclamato (persino da Fidel Castro!) dei filosofi italiani all’estero, che propone una propria lettura del tutto particolare del cristianesimo e dell’età postmoderna, nel senso di un pluralismo fondato storicamente, non assolutizzabile.
Carlo Sini a Milano, che coniugando pragmatismo, esistenzialismo e fenomenologia insiste sulla praticità dei saperi, troppo spesso trascurata attraverso false dicotomizzazioni fra teoria e prassi.
Sempre a Milano, ma alla Cattolica, Virgilio Melchiorre, che intreccia la fenomenologia invece con il tomismo, il trascendentalismo con la metafisica.
Sergio Givone a Firenze, argonauta del pensiero tragico cristiano, capace di una versatilità linguistica che dalla saggistica storiografica e aforistica lo ha portato al romanzo, pensante e sentimentale, colorito e sofferto assieme.
Dario Antiseri alla Luiss di Roma, il quale pascalianamente contempla nella propria ricerca ragioni del cuore e della fede nonché scientifiche e razionali.
Un caso del tutto unico, invece, quello di Massimo Cacciari, filosofo-doge veneziano, che è riuscito in un lampo a istituire una facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele, dove ha saputo attrarre filosofi affermati come Emanuele Severino e Giovanni Reale, ma anche più giovani come Massimo Donà. Benché i recenti piani quinquennali del ministero dell’Università mettano a rischio i corsi di laurea con pochi docenti, come spesso accade abbiano le università private, a cui vanno solo le briciole dei finanziamenti statali.
Esistono poi, sempre in ambito universitario, pochissime scuole di eccellenza o dottorati davvero originali, come la Scuola superiore di Studi umanistici di Umberto Eco a Bologna, o il dottorato creato a Salerno da Giulio d’Onofrio, in Filosofia, scienza e cultura dell’età tardo-antica, medievale e umanistica, a cui accorrono studiosi da tutta Italia e non solo, a dimostrazione che la specificità crea l’interesse, la qualità, la produttività della ricerca.
Persino le case editrici, in Italia, seguono scarsamente la saggistica filosofica. Oltre a quelle che tradizionalmente si occupano di filosofia, principalmente con edizioni di classici - Laterza e Utet -, soltanto Morcelliana, Mimesis, Il Melangolo, Bompiani e la piccolissima Il Ramo hanno intere collane dedicate ai filosofi.
Bompiani in particolare ha riconsolidato e allargato la propria originaria vocazione anche filosofica, con collane di classici con testo a fronte, dirette da Giovanni Reale, ma persino con pubblicazioni tascabili di giovani filosofi italiani, quindi secondo una linea innovativa e sperimentale.
È quindi fuori dalle università che abbiamo i veri e propri centri di ricerca filosofici, privati, con scarsissime risorse finanziarie, frutto di intelligenza e generosità di pochi illuminati. Gli unici luoghi frequentabili da parte di chi seriamente voglia farsi una formazione filosofica.
Menziono soltanto due istituzioni, quelle esclusivamente dedite a ricerche filosofiche. Il Centro Studi filosofico-religiosi ’Luigi Pareyson’ di Torino, diretto da Maurizio Pagano, che promuove ricerche, seminari, pubblicazioni nel solco della tradizione ermeneutica cristiana del grande filosofo a cui si ispira.
E l’Istituto italiano per gli Studi filosofici di Napoli, creato dall’avvocato Gerardo Marotta nel 1975, inizialmente con sede in casa propria, che diretto da Antonio Gargano propone centinaia di seminari all’anno, finanziando ricerche di giovani studiosi e pubblicazioni distribuite fra più case editrici, da Guerini e Bibliopolis a Città del Sole, Guida e altre ancora. È questa una istituzione unica in tutto il mondo, che ancora riesce a mettere in luce ciò che è essenziale alla filosofia: la libertà di ricerca, di insegnamento e di pensiero, lo studio lento, lungo e approfondito, la comunione di idee, dialogica e in contatto con la storia e le persone fra cui si viva.
In un paese in cui le biblioteche universitarie, per l’esiguità dei finanziamenti statali alla ricerca, che ci pone fra gli ultimissimi in Europa, non riescono quasi a proseguire nell’acquisto delle edizioni critiche dei principali filosofi, tanto più in quello delle letterature secondarie e delle riviste, lascia ancora una certa speranza sapere che comunque, per merito di pochi singoli, la filosofia eccelle, rispetto a ogni altra parte del mondo, ancora.
VECCHIE E NUOVE... CORRENTI
ANALITICI E PRAGMATISTI Michele Di Francesco Aldo Giorgio Gargani Pier Aldo Rovatti Carlo Sini
SEMIOLOGI E SEMIOTICI Umberto Eco Diego Marconi Mario Perniola Silvano Petrosino
ESISTENZIALISTI CRISTIANI E POST Giovanni Ferretti Salvatore Natoli Pietro Prini Gianni Vattimo
EPISTEMOLOGI E METODOLOGI Evandro Agazzi Dario Antiseri Giulio Giorello Paolo Rossi
METAFISICI E TEORETICI Carlo Arata Massimo Donà Michele Lenoci Emanuele Severino
STORICI, ETERNISTI E ASTORICI Enrico Berti Alessandro Ghisalberti Giulio d’Onofrio Giovanni Reale
PERSONALISTI E ALTEROLOGI Luigi Alici Vittorio Possenti Paola Ricci Sindoni Armando Rigobello
TECNOLOGI ED ETICOPOLITICI Roberto Esposito Adriano Fabris Salvatore Veca Carmelo Vigna
ETICOGIURIDICI E TRASCENDENTALI Francesco Botturi Francesco D’Agostino Vittorio Mathieu Virgilio Melchiorre
TRAGICISTI ED ESTETOLOGI Remo Bodei Sergio Givone Giuseppe Riconda Stefano Zecchi
ESCATOLOGISTI E TEOLOGI Massimo Cacciari Piero Coda Bruno Forte Vincenzo Vitiello
APOCALITTICI E APOFATICI Giorgio Agamben Vito Mancuso Giacomo Marramao Manlio Sgalambro
SENTIMENTALISTI E FENOMENOLOGI Angela Ales Bello Laura Boella Roberta De Monticelli Roberto Mancini
COPISTI E TUTTOLOGI Ermanno Bencivenga Luciano De Crescenzo Maurizio Ferraris Umberto Galimberti
LA FEDE ITALIANA E LA "COMPAGNIA DELLA CHARITA’ dei cortigiani"! Sul tema, cfr. Adriano Prosperi, "Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari", Einaudi, Torino, 1996, tutto il "Capitolo primo. La fede italiana", pp. 16-34.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI "RIFONDAZIONE COMUNISTA" FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: "Forza Italia"!!!
UN CODICE ETICO PER LA TEOLOGIA.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
L’ITALIA DEVASTATA E IL SIGNIFICATO DI "CAMORRA".
RIVELAZIONI SUL FILO DELLA PAROLA.
UNA LEZIONE TEOLOGICO-POLITICA DI BAGET BOZZO SU OGNI PROGETTO DI "RIFONDAZIONE COMUNISTA" FUTURA CHE SI VUOLE COME PARTITO. Avanti o popolo alla riscossa. Il populismo trionferà: "Forza Italia"!!!
Xanti Schawinsky, Sì, 1934 |
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, EDUCAZIONE CIVICA, E PSICOANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA: UNA QUESTION HAMLETICA E UNA DOMANDA AI MATEMATICI E ALLE MATEMATICHE.
La crisi della matematica è un problema politico: un’ipoteca sui cittadini del futuro
di RAFFAELE CARIATI (Domani, editoriale, 27 novembre 2023)
In Francia nel 2019 succede questo: «Emergenza matematica repubblicana», dichiara Emmanuel Macron durante il suo primo quinquennio di presidenza in Francia, riconoscendo il problema dell’esclusione dall’insegnamento-apprendimento della matematica. L’esclusione dall’apprendimento della matematica ha un impatto sulla fiducia in sé stessi, induce senso di inadeguatezza, porta i cittadini a delegare sui ragionamenti complessi e a preferire le semplificazioni e le diffidenze ostacolando la formazione di una cittadinanza consapevole.
Il governo francese di Emmanuel Macron pensa di governare centralmente il problema, di migliorare le sorti dell’apprendimento della matematica e di affidarne la soluzione a uno dei nomi più prestigiosi della matematica, Cedric Villani (medaglia Fields 2010, deputato della Repubblica). Il risultato è il “Rapporto Villani” che propone ventuno “misure”, senza però suscitare grandi entusiasmi: tanti buoni propositi, ma una visione elitaria ha iniziato a farsi strada. Infatti, la riforma dei licei à la carte voluta da Jean-Michel Blanquer, ministro dell’Educazione Nazionale, ha come conseguenza la significativa diminuzione della partecipazione all’insegnamento della matematica.
La matematica non fa più parte delle materie insegnate a tutti gli studenti, può essere scelta solo come materia di indirizzo possedendo certi requisiti di ingresso. Il risultato è l’abbandono dello studio della disciplina, gli studenti dal primo all’ultimo anno del liceo perdono il 20% delle ore di insegnamento della matematica. Le intenzioni di Macron si rovesciano nel loro contrario. ll quotidiano Libération denuncia: «È uno scandalo che non scandalizza nessuno». E Le Monde aggiunge: la riforma ha fatto scendere dal 90% al 59% la percentuale di alunni che seguono un insegnamento di matematica durante l’ultimo anno. Ancora più grave: l’abbandono coinvolge in maniera maggioritaria le studentesse.
Questa breve storia triste si conclude con il riconoscimento da parte di Jean-Michel Blanquer di un errore di calcolo e con il tentativo del suo successore, Pap Ndaye, di invertire la tendenza introducendo un’ora e mezza di matematica nel tronco comune.
Qualcosa di simile avviene anche in Italia. Molti hanno dimenticato che una “emergenza matematica” è stata dichiarata anche nel nostro Paese, e che è si è tentato di gestirla con un metodo molto simile alla strategia Villani. Nel 2007 Giuseppe Fioroni, ministro dell’Istruzione, insedia il Comitato nazionale dei Matematici con il compito di definire le iniziative per contrastare quella che definisce, appunto, “emergenza matematica”. L’opinione pubblica è stata investita da semplificazioni e slogan del tipo «matematica bestia nera degli italiani», «italiani asini in matematica», alimentando le forme più feroci di innatismo, impotenza appresa.
La matematica, dunque, è un problema di tutti. Il Comitato, costituito da trenta esperti e presieduto dall’altissimo profilo di Edoardo Vesentini, rettore della Normale di Pisa, già senatore della Repubblica, studia il problema e indica cosa fare. Ma purtroppo il comitato non va avanti, a causa di un’incapacità collettiva. Resta un’occasione persa insieme alla questione: cosa vuol dire politicamente l’emergenza matematica?
Il tema è stato ben argomentato da Martine Quinio-Benamo nell’articolo “Les mathématiques, c’est politique” apparso su Libération nel febbraio 2022: per fare matematica non si tratta solo di calcolare e ragionare, ma anche di distinguere i punti di vista e di comunicare.
Per esempio: «Dall’inizio del quinquennio di governo Macron il potere di acquisto dei più ricchi è aumentato del 4,1% ed è diminuito dello 0,5% quello dei più poveri. Il potere di acquisto è aumentato in media dell’1,6%». La conclusione sull’aumento medio dell’1,6% è stata ripresa con enfasi dai decisori della comunicazione mass-mediatica, ma si riferisce a una media impossibile da verificare in quanto non riflette l’aumento delle disuguaglianze. Pur supponendo che il potere di acquisto sia aumentato in percentuale (il che è falso per i più poveri), un aumento debole di una o due percentuali si traduce in un incremento salariale bassissimo per le classi medie.
Il tema insomma è l’assenza della formazione a un pensiero-atteggiamento matematico.
I giornali spesso non sono in grado di esaminare i dati numerici avanzati dai politici. E le informazioni che contengono dati numerici corretti possono essere smentite da interlocutori mal formati al ragionamento matematico. Il piano del dibattito diventa «Ci mentono tutti!». Ovviamente, non sono i numeri a mentire, ma una loro interpretazione pigra e decontestualizzata. Secondo la professoressa Quinio-Benamo, si fa strada l’ipotesi per cui «l’incompetenza scientifica prevale sulle cattive intenzioni», e se le decisioni sono assunte anche in nome della realtà e dell’interpretazione dei numeri, allora la matematica è politica e il suo insegnamento-apprendimento è una questione politica.
La matematica è quindi politica nella misura in cui si cerca di rispondere alla domanda: cosa può fare la matematica nella nostra comprensione del mondo? Potrebbe essere “fare politica” gestire l’emergenza matematica non focalizzandosi solo sulle abilità matematiche in chiave professionalizzante, ma anche e soprattutto sul processo educativo che stimoli ad assumere un atteggiamento filosofico che supporti la trasformazione delle informazioni in conoscenze e nella capacità emancipatrice di operare scelte.
In Italia la questione è stata ampiamente affrontata da Bruno D’Amore (professore di Didattica della matematica all’Università di Bologna) che definisce l’educazione matematica come «il sistema sociale complesso ed eterogeneo che, in sinergia con l’epistemologia, la sociologia, la psicologia, la semiotica e la pedagogia include la teoria e lo sviluppo e la pratica relativa all’insegnamento-apprendimento della matematica ed include la didattica della matematica come sottosistema».
L’insegnamento-apprendimento della matematica sembra essere in uno stato di crisi cronica, ma il vero problema non è l’insegnare ad insegnare. All’origine di questo fenomeno ci sono molteplici cause, ma il problema ha a che fare con il ruolo che la matematica recita nella società e la sua influenza sul dibattito pedagogico.
Possiamo allora rovesciare la questione: Guy Brousseau nella Théorie des situations didactiques e la teoria del Contrat didactique analizza cosa determini un mancato apprendimento, studia il fallimento elettivo in matematica determinato dalle abitudini specifiche dell’insegnante attese dall’allievo e i comportamenti dell’allievo attesi dal docente. Queste attese sono dovute a una concezione della scuola percepita come direttiva ed essenzialmente valutativa: anche situazioni didattiche proposte come “libere” vengono elaborate e vissute dall’allievo come un test o come un controllo. Queste attese nascono da concezioni sulla matematica (“in matematica bisogna fare solo calcoli”) e soprattutto alla ripetizione di modalità sociali.
Perdiamo “il corpo umano della matematica”! A causa del “si devono fare i calcoli”, si ritiene che le parole non siano importanti, sia sufficiente usare i dati numerici, anche a caso, per fornire risposte formali. Si perde l’obiettivo culturale della matematica, si smarrisce l’agire matematico che si confonde con le richieste degli insegnanti. Soprattutto: l’unica occasione che hanno gli studenti di entrare in contatto con la matematica è la scuola. Ciò alimenta la credenza diffusa secondo la quale i libri di matematica sono le raccolte stereotipate di esercizi presenti nei libri di testo scolastici.
Secondo Bruno D’Amore, «tutto risale all’ignoranza beota di chi distingue le culture creandone una di serie A e una di serie B, facendosi forza talvolta con lo spirito e le parole di Giovanni Gentile secondo cui l’intrusione delle scienze nel mondo scolastico ha arrecato dannosissimi frutti e la matematica, in particolare, è morta, infeconda, arida come un sasso». Come si può contrastare l’accanimento anti-matematico di matrice gentiliana?
Nel testo Faire l’école, faire la classe, il pedagogista Philippe Meirieu delinea lucidamente un principio su cui istituire la scuola che curi l’educazione matematica: «Per poter costruire uno spazio pubblico orientato alla trasmissione delle conoscenze, la scuola deve sospendere violenza e seduzione, collocando al centro della propria organizzazione le esigenze di esattezza, precisione e verità».
L’UMANITÀ (ANTROPOLOGIA), IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE" (ECONOMIA POLITICA) E IL PERSISTERE DI UN "PREISTORICO" SIMPOSIO ALL’OMBRA DELLA "EU+CARESTIA"!!!
MINIMALISMO ED ESSENZIALISMO: "SÀPERE AUDE" (DECIDERSI A DIVENTARE SAGGIO, AD AS-SAGGIARE, A USCIRE DALLO "STATO DI MINORITÀ" (ORAZIO E KANT). A ben riflettere sulla "essenza del cristianesimo" di Ludwig Feuerbach, e, al contempo, sul problema della "eucharistia", del cibarsi della grazia ("charis") di Dio ("charitas"), forse, si può meglio cominciare a capire la profondità teologico-politica ed economica della sua "banalizzatissima" considerazione che «L’uomo è ciò che mangia»!
IN UN TESTO BRILLANTISSIMO, all’interno di un "presente storico" di secoli, segnato da una grande carestia filologica e logica, così è scritto: "La vita spirituale - di chi «nasce un seconda volta» aderendo a Cristo - poggia sulla preghiera continua e sull’#eucarestia [...]" (cfr. Flavio Piero Cuniberto, "SUL CRISTIANESIMO COME MITO E COME MISTERO). E, proseguendo; si arriva a fare propria la tesi di #RenéGirard: "L’idea che la morte di Cristo sulla croce sia il prezzo del riscatto («redenzione» da «red-imere», «riscattare») non è che una versione cristianizzata della pratica ancestrale del #bouc #émissaire, il #caproespiatorio di Girard. Una versione mitologica del mistero cristiano." (op. cit.).
IL CANTO DEL CAPRO E LA FENOMENOLOGIA DELLA TRAGEDIA: "ECCE HOMO" (PILATO). Accecati dall’astuzia della ragione platonico-hegeliana, invece di fare chiarezza sul "capro espiatorio", si rinnova la confusione e la condanna a morte proprio dell’agnello (dell’#ariete, del montone) che ha portato Ulisse (e Dante) in salvo, fuori dalla caverna e dall’inferno!
Dopo Nietzsche ("Ecce Homo", 1888), che ha denunciato l’imbroglio storico-antropologico del #paolinismo, a partire dalla morte di Dio, e di Gesù ("Ecce Homo"), chi ha mai più visto sulla Terra un cristiano, una cristiana?
Nonostante Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi, Chiara di Assisi, Dante Alighieri, e, addirittura, il lavoro iperstorico ("preistorico" e archeologico) sulle radici "Cosmicomiche" della Terra (Italo Calvino), Diogene di Sinope, definito dalla tradizione "Socrate pazzo", continua ad andare con la sua lanterna accesa, alla luce del sole, per i mercati, a cercare l’uomo ("anthropos") e a sognare il #sorgeredellaterra...
L’ AMLETICA “QUESTION” DI ELISABETTA I (REGINA D’INGHILTERRA E PAPA DELLA CHIESA ANGLICANA), LA LEZIONE SULLA “VISIBILITA” (“VISIBILITY”) DI ITALO CALVINO, E IL PROBLEMA DEL “MODELLO PATRIARCALE”.
A MARGINE E A PROPOSITO DELL’ “USO PERSUASIVO E PROPAGANDISTICO DELLA FAMIGLIA” (DEL “PRESEPE”) E DEGLI ANTROPOMORFISMI MESSI IN LUCE NELLA RIFLESSIONE SUL “BENTORNATO MASCHIO” (Gianfranco Pellegrino, "Le parole e le cose", 26 ottobre 2023), FORSE, non sarebbe male se la sollecitazione a riflettere venisse accolta soprattutto dalle antropologhe, dalle filosofe, dalle psicoanaliste, e dalle teologhe:
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VISTO CHE il “modello patriarcale” come strumento di analisi fa acqua da tutte le parti, almeno dal tempo della “dialettica” di Hegel, e, ancor di più, dopo Freud e la sua indicazione a muoversi ad usare il “modello edipico completo”, è più che augurabile fare qualche passo avanti teorico e pensare a un modello “patriarcale-matriarcale” (padrone-serva e padrona-servo), alla luce delle “Lezioni americane” (non solo la quarta, la “Visibilità”) e del “Castello dei destini incrociati” (in particolare, del capitolo della seconda parte, “La taverna dei destini incrociati”, col titolo “Anch’io cerco di dire la mia”).
Federico La Sala
P. S. - LETTERATURA E PSICOANALISI: “IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI” (ITALO CALVINO). L’INCONTRO CON “SIGISMONDO DI VINDIBONA” [VIENNA] NELLA “TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI”. Una “presentazione” del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi:
“ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie. [...]” (cfr. I. Calvino, “Anch’io cerco di dire la mia”, “Romanzi e racconti” II, Meridiani, Mondadori, 1992, pp. 592-595).
Federico La Sala
P. S. 2 - ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, MATEMATICA, E FILOLOGIA...
“Bentornato maschio”( v. sopra) non è solo una chiamata in causa di intellettuali di ogni genere e di ogni specie, ma anche, e prima di tutto, è un segnavia “storico” per ogni cittadino e ogni cittadina per dare alla amletica “question” teologico-politica posta da Shakespeare, in stretto collegamento alla presenza sul trono d’Inghilterra di Elisabetta I, regina e papessa della Chiesa anglicana, una propria risposta all’altezza dell’attuale “presente storico” - è una chiamata ad uscire dall’epocale “stato di minorità”, personale e politico (Immanuel Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984) !
“DUE SOLI” (DANTE ALIGHIERI). Re-interrogarsi alla Kantorowicz sulla “regalità antropocentrica: Dante”, sui “due corpi del re” e, ovviamente, anche sui “due corpi della regina”, forse, può essere una buona occasione per svegliarsi dal sonno dogmatico e portarsi fuori dalla cosmoteandria, atea e devota! Se non ora, quando?!
QUESTIONE MATEMATICA E ANTROPOLOGICA. Per approfondimenti, volendo accogliere alcune indicazioni sul tema, si potrebbe ricominciare a contare da almeno da due o, meglio da “Quattro”, dal poema di Italo Testa (“Le parole e le cose”, 3 Settembre 2021).
EUROPA, NAVE DEI FOLLI E STORIA DELLA FOLLIA. L’interpretazione dei sogni (S. Freud, 1899) è un’arte e una scienza molto difficile, a quanto pare: dall’orizzonte della tragedia, l’umanità è incapace di uscire? *
Una gita a Clusone e una a Pinzolo non guastano. La danza macabra di Borlone de Buschis di Clusone (1485) e quella di Simone Baschenis di Pinzolo (1539) segnano forse l’inizio e la fine di un periodo di comunità inconfessabile (Blanchot, 1983). Inconfessabile perché composta di trapassati, che, in quanto tali, già sono passati in giudicato, ingiudicabili. In molti accomunano questa comunità a un’altra, che potrebbe essere anche la medesima, chissà. Si tratta della Stultifera Navis. Cos’hanno in comune gli stolti e i morti? Il semplice fatto di non essere confessabili. Gli uni per il regno dei cieli, gli altri per la terra, sono inguaribili. Bosch e le illustrazioni a Brant di Dürer ne danno rappresentazione figurativa. Ecco una figura chiave, il centro del primo capitolo, della prima parte della Storia della follia di Foucault: Sebastian Brant (1458-1521). Vissuto tra l’opera del de Buschis e quella del Baschenis. Nel giugno 1984 Francesco Saba Sardi (1922-2012) ci regalò, in versi endecasillabi, la traduzione di Das Narrenschiff.
Narrenschiff uscì per la prima volta nel 1494, due anni dopo la scoperta dell’America. Prima di Brant abbiamo alcune opere importanti sull’argomento a partire dal 1360. Si immagina una sorta di confraternita delle persone strambe - le sole che possano esservi ammesse. Corporazione non chiusa per via di censo, particolari privilegi o saperi occulti. Bisognava essere, per esempio, un vescovo che aveva ipotecato il reddito per comprare il titolo religioso, un alchimista che aveva sciolto nel crogiolo le sue ricchezze.
La follia è ingiudicabile altrettanto quanto la morte, inguaribile. Questa caratteristica segna una linea di confine comunitaria, la nave è uno dei suoi contenitori. A quel tempo - successivo alla lebbra e alla peste, coevo di una nuova malattia giunta dalle Americhe, la sifilide - i folli venivano allontanati dalle città, imbarcati su navi per essere abbandonati altrove, ma il navigatore spesso le gettava a mare o le sbarcava in qualche landa desolata, dove morivano. Molti annegavano. Non è difficile immaginarlo oggi che abbiamo sotto gli occhi le immagini di uomini e donne morti alla deriva delle coste italiane. Unica differenza: allora giungevano dove nessuno stava, oggi invece si torce il collo altrove.
Gran satira grottesca o poema moralista? L’opera di Sabstian Brant ci lascia ancora nel dubbio. Quando Foucault ci parla della Stultifera Navis, qualunque opera scritta o figurativa ci venga in mente, dà un senso a quell’insieme indistinto di uomini e donne che ci entravano. Foucault distingue questo ammasso indifferenziato dalla follia così come viene identificata a partire dal secolo XVIII. Dal Settecento la follia diventerà regno del dominio medico, verrà diagnosticata e sistematicamente curata.
La nave dei folli non è che l’inizio di un processo che vedrà successive partizioni, da Erasmo fino a Pinel; è un crogiolo umano, un pleroma. Per alcuni Brant si confronta con l’avvento del Nuovo Mondo. La nave dei folli richiama le navi che iniziano a salpare verso le Americhe, fino al Seicento con la Mayflower, carica di puritani. Nave che navigò la luna, secondo i versi di Paul Simon. Anche loro inconfessabili, in quanto protestanti, spirito del capitalismo.
Brant sarebbe il primo progressista dell’epoca moderna, sguardo disincantato verso il futuro imminente e immanente, fiducia nella città come luogo dell’innovazione e, per via dei commerci, luogo d’incontro multiculturale. La città è il centro dove ogni superstizione, credenza, invidia, odio saranno eliminati. Brant progressista. Invero sulla nave - destinata a Narragonia, che si dirige verso Cuccagna - non ci sono solo i folli contemporanei, bensì usurai, giocatori d’azzardo, adulteri, viziosi, prodighi, invidiosi, voluttuosi, ingrati, spergiuri, bestemmiatori. Tutta la follia premoderna raccolta dentro questa nave autorganizzata, autosufficiente, autopoietica. Brant moralista.
A voler ben guardare, la maggioranza del testo elenca, tra l’altro, la cupidigia, le nuove mode, il retto Catechismo, gli istigatori di discordia, le male costumanze, il dispregio delle Scritture, i galanti, la crapula e la gozzoviglia, le ciarle, i desideri superflui, gli studi inutili, le procrastinazioni, l’adulterio, la presunzione, la voluttà, l’ingratitudine, la bestemmia, l’usura.
Come scritto, Albrecht Dürer illustra l’opera di Brant e Bosch crea una sua opera, sempre nel 1494. Nel frattempo altre comunità inconfessabili si muovono per via terrena, gli Ebrei, cacciati da Spagna e Portogallo, i Valdesi perseguitati ed erranti tra le valli montane fino alla Riforma.
Quanto l’opera si adatti all’ultimo ventennio, quanto sia attuale, quanto si stia trasformando nella Nemesi, lo vediamo dal momento in cui l’Europa è essa stessa, oggi, una nave di folli. Ci si aspetta solo un grande evento naturale, il distacco dagli Urali.
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A) - EUROPA (1914-1918): "[...] In occasione della prima guerra mondiale [Groddeck] fu richiamato in servizio nella sua qualità di medico militare. Poiché aveva cercato di dirigere anche l’ospedale da campo come fosse stato quello che spesso chiamava il suo #Satanarium (invece di #sanatorium) si attirò le antipatie di tutti, fino ad essere allontanato dal servizio nonostante l’intervento di autorevoli pazienti di un tempo, quali la stessa sorella del Kaiser e il marito.
Fu nel maggio 1917 che Groddeck scrisse la sua prima lettera a Freud [...]" (cfr. Martin Grotjahn, "Georg Groddeck (1866-1934). L’analista indomito", in AA. VV., "Pionieri della Psicoanalisi", Feltrinelli, Milano 1971).
B) - GEORG GRODDECK, "SATANARIUM" (il Saggiatore, MILANO 1996):
SCHEDA EDITORIALE: "Siamo nel 1918. Il macello della guerra è in pieno corso. Groddek, che da anni dirige una clinica per malattie mentali, il #Sanatorio #Marienhohe, presso #BadenBaden, decide che il ruolo passivo dei suoi ospiti non è più sufficiente. Essi devono gridare ciò che li tormenta e li opprime, devono esprimere i loro desideri, manifestare le loro fantasie e, nel castello in aria del #Sanatorio, dedicarsi alla #ricostruzione dell’#Europa. "Mi propongo di dare all’uomo la possibilità di urlare il proprio tormento liberamente, senza timore né pudore. L’unico luogo in cui ciò è consentito mi pare essere l’#inferno; perciò chiamo questa rivista ’Satanarium’. Ne usciranno 23 numeri, tutti raccolti in questo volume che ricalca anche le caratteristiche grafiche degli originali." (https://www.ibs.it/satanarium-libro-georg.../e/9788842803928).
L’#EUROPA (#GRANADA), #KOENIGSBERG / #KALININGRAD (E #ODESSA), LA "#DEMOCRAZIA" (COME "#STATO DI #MINORITÀ"), E IL PROBLEMA DELLA #TRASPARENZA TEOLOGICO-POLITICA. Alcuni appunti...
Un omaggio alla memoria di Dante Alighieri e William Shakespeare...
LA #TALPA E LA #CIVETTA: LA TRACCIA DI UNA FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO DI "#DUE #IO" (DI #DUESOLI"). Già per #Shakespeare, ai suoi tempi (1600), Amleto e Ofelia (con il metodo della loro #follia) guardano ben oltre la linea dell’orizzonte teologico-politico di #Erasmo di Rotterdam e #TommasoMoro e lottano per portarsi fuori da un’Europa ormai avviatasi nella "marcia" del tramonto (#Nicea 325/2025).
LE PAROLE DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE. Al centro e al fondo della questione posta da #CarloGalli, nel recente "Democrazia, ultimo atto?"(cfr. estratto: https://www.einaudi.it/.../democrazia-ultimo-atto-carlo.../ ), al di là dei suoi contributi e risultati specifici, vi sono "le idee moderne di libertà, di uguaglianza, di trasparenza, che sono esposte alla contingenza (...) e che meritano ancora una volta di essere il centro intorno a cui ruota la politica".
"DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (#FREUD, 1929). Sul tema, nel suo commento, Francesco Fistetti accoglie con riserva la proposta di variazione e scrive: "[...] Al terzo termine del trinomio #libertà / #eguaglianza / #fraternità Galli sostituisce quello di "trasparenza". Trasparenza nell’accezione già di Bobbio che non devono esserci zone oscure e opacità nell’esercizio del potere e nel governo delle istituzioni, ma il sale della critica e del dibattito razionale. Ma in questo modo, cancellando la fraternità, può cassare senza colpo ferire tutta la storia del socialismo e della lotta per il socialismo come organici alla storia della modernità democratica e dello stesso liberalismo (il liberalsocialismo di un Rosselli e tanti altri). Operata questa amputazione "genealogica’ (almeno per la Modernità) resta una pallida e spettrale idea di liberaldemocrazia. Peraltro, quest’ultima viene declinata come l’ideologia e la pratica di quello che l’autore chiama il "secondo Occidente", quello degli Usa e delle istituzioni dell’Onu: un nuovo Occidente "a guida americana", di cui dalla fine della Seconda Guerra Mondiale "fa parte l’Europa" e la cui "espressione è la Nato" [...]"(cfr. https://www.facebook.com/francesco.fistetti.5/posts/10211262489754567).
"LA SOCIETÀ TRASPARENTE" (GIANNI VATTIMO, 1989), A mio parere, sulla trasparenza, un nodo decisivo legato al problema proprio di una "#societàtrasparente" (#GianniVattimo, 1989) , il dibattito è in alto mare ed è ancora tutto da affrontare, al suo livello antropologico-politico fondamentale, dalla radice (#Marx)!
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E CULTURA CRITICA. La questione è "metafisica", ma, a quanto pare, nessuno si ricorda più di #Kant e del suo illumiNATO "sàpere".
#PACEPERPETUA, Se non si rende trasparente il nodo antropologico e teologico-politico, non è possibile (come è stato dimostrato storicamente, almeno fino ad oggi, fino alla "tappa" europea di Granada 1492/2023) alcuna fraternità (libertà e uguaglianza) e la "pace perpetua" (Kant) è definitivamente assicurata.
PASSAGGI STORICI. Otto saggi raccolti da Adriano Prosperi ampliano la sua penetrante lettura dei processi avviati dalla Chiesa in Italia all’epoca della Controriforma: «Una rivoluzione passiva», da Einaudi
Adriano Prosperi, carità, devozione e altre maschere sottili
di Francesco Benigno (il manifesto - Alias, 03 luglio 2022).
Controriforma è parola difficile, che segna la trasformazione di un mondo lontano, ma indica anche un processo decisivo, che ha segnato per secoli l’Italia. A metà del Cinquecento, col concilio di Trento la Chiesa Cattolica, una volta svaniti i tentativi di far rientrare la riforma protestante, faceva partire un processo di riorganizzazione delle proprie strutture, di controllo e di soggezione della popolazione, nonché di rilancio della predicazione su scala mondiale. Nasceva la religione cattolica per come l’abbiamo conosciuta, imperniata sulla messa settimanale, la predica, la confessione, i seminari, i catechismi, le reliquie, le missioni e un utilizzo innovativo delle immagini sacre. Nella penisola italiana questo processo ha avuto effetti poderosi e secondo Benedetto Croce non tutti e non sempre negativi: i rigori della controriforma avrebbero in sostanza fatto risparmiare all’Italia i drammi e i dolori causati dalle divisioni religiose che travagliarono invece per decenni altri paesi europei.
Oltre «Tribunali»
Al racconto di questa spinta, che fu molto più di una reazione difensiva, gli storici italiani hanno fornito negli ultimi tre decenni un contributo di grande livello. Tra loro, Adriano Prosperi ha lungamente lavorato su questo tema, e ne fornisce adesso una lettura penetrante nel suo nuovo libro "Una rivoluzione passiva Chiesa, intellettuali e religione nella storia d’Italia" (Einaudi, pp. 430, € 34,00). Gli otto saggi raccolti vanno letti in controluce a "Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari", quel testo del 1996 divenuto ormai un classico, in cui Prosperi aveva fissato una lettura della controriforma incentrata sulla capacità della Chiesa di radicarsi nella società italiana, plasmandone durevolmente i comportamenti.
Come in quel libro anche in questo si sottolinea l’importanza dei tre aspetti in cui si era articolato quel cruciale riposizionamento: e cioè le pratiche di controllo della cultura attraverso l’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti; la diffusione della confessione come metodo di controllo e di condizionamento dei comportamenti individuali; e infine i nuovi stili della predicazione, quella dei parroci ma poi anche quella operata dai missionari. Soprattutto è presente qui una forte attenzione allo stile culturale e alle pratiche gestionali dei gesuiti, cui Prosperi aveva dedicato nel 2016 un altro libro importante, "La vocazione. Storie di gesuiti tra Cinquecento e Seicento".
Quello che c’è di nuovo qui è la consapevolezza esplicita che ciò che la controriforma ha operato è stata una rivoluzione. Certo, non una rivoluzione dal basso che impone un mutamento violento dell’ordinamento politico, ma una rivoluzione dall’alto, che in modo più sottilmente violento cambia i connotati della vita sociale attraverso un nuovo uso della carità e della devozione, e che perciò va considerata, come indica il titolo, una «rivoluzione passiva». L’espressione, come si sa, è desunta da Antonio Gramsci, che - mutuando una frase di Vincenzo Cuoco - l’aveva utilizzata nei Quaderni dal carcere per parlare della «rivoluzione senza rivoluzione» che caratterizzava l’età tra le due guerre.
Questo rimando a Gramsci, tuttavia, va ben al di là del titolo del libro, perché sottolinea la messa in opera di un influente meccanismo di spiegazione. L’idea cioè che la reazione alla minaccia protestante sia stata ben più di una semplice difesa: qualcosa di diverso da un mero ritorno al passato, un mutamento che integra in modo differente il vecchio e il nuovo.
Prosperi descrive questa rivoluzione come incentrata sui cambiamenti di due gruppi sociali considerati decisivi: le classi subalterne, soprattutto contadine, da un lato e gli intellettuali dall’altro. Rispetto al mondo dei «semplici», il popolo analfabeta, si profila il tentativo della Chiesa di sradicarne la mentalità magica e le tradizioni folkloriche, ma mantenendolo in posizione di assoluta dipendenza; mentre verso gli intellettuali si esercitano forme di blocco della libera riflessione morale e soprattutto religiosa, come ad esempio il divieto dell’uso della bibbia in volgare. Il risultato di questa doppia operazione di direzione delle coscienze e di governo dei costumi sarà la nascita di una nuova società, in cui le masse popolari vengono plasmate dai parroci e in cui gli intellettuali laici, così prevalenti nell’epoca del rinascimento, lasciano il posto a chierici colti, secolari e ordinari, ormai lontani dall’interpretazione esteriore che della religione forniva tradizionalmente un certo mondo fratesco.
Radicamento personale
Ci si può chiedere se questa forbice gramsciana tra mondo contadino e intellettuali non sacrifichi l’analisi di altri gruppi sociali più variegati, incardinati nell’universo urbano, ma Prosperi confessa con grande onestà la sua predilezione per una prospettiva che ha sullo sfondo un radicamento esistenziale di tipo personale, derivato cioè dall’essere cresciuto in una famiglia contadina toscana sul finire dell’epoca fascista, divisa tra la fervente pratica religiosa, della madre, e la cultura comunista, del padre; un’esperienza avvicinabile a quella classica polarizzazione tra parrocchia e casa del popolo che ha ispirato Guareschi e la saga popolare di Don Camillo e Peppone. Un radicamento di vita che non spiega solo il riferimento a Gramsci, ma che ha sostenuto l’orientamento degli studi di Prosperi, una pratica storiografica intensa e impegnata civilmente e che continua ad offrirci risultati di grande spessore.
Dibattito.
Ruini: l’essere umano non è paragonabile ad animali e macchine
Intervento del cardinale Ruini su un libro del filosofo Agazzi: l’uomo è altro rispetto a natura e IA, perché è capace di speranza. La cultura attuale non riesce a coglierne la verità
di Camillo Ruini (Avvenire, martedì 26 settembre 2023
Evandro Agazzi è attualmente uno dei più importanti filosofi italiani e di certo il maggiore filosofo della scienza. A coronamento della sua molto lunga e feconda attività di studioso ha pubblicato alcuni libri, da ultimo La conoscenza dell’invisibile (2021) e Dimostrare l’esistenza dell’uomo (2023), che riassumono in forma unitaria le linee principali della sua riflessione filosofica. Cercherò qui di presentare e valutare brevemente il più recente di questi libri. Il suo titolo, “Dimostrare l’esistenza dell’uomo”, ha un sapore paradossale, perché la nostra esistenza è quanto di più evidente e immediato ci è dato conoscere. In realtà questo titolo allude al fatto che affidandosi unicamente alla scienza e alla tecnologia non si riesce a comprendere e indagare quella decisiva differenza per la quale possiamo affermare che «l’uomo non è né una macchina né un puro e semplice animale». Il libro è quindi un’antropologia filosofica. Il primo problema preso in esame è quello dei rapporti tra l’uomo e la natura: per quanto essi siano profondi non possono comportare la riduzione dell’uomo alla natura, come vorrebbe l’opinione oggi più diffusa. A parere di Agazzi vi si oppone quell’aspetto essenziale della nostra identità che è rappresentato dalla consapevolezza di essere liberi.
Il libro ritorna spesso sulla questione della libertà. Molto importante, in particolare, la distinzione tra libertà di scelta, detta anche libero arbitrio, e libertà d’azione. La prima è la libertà radicale senza la quale non potrebbero esistere né la moralità né la responsabilità. La seconda invece ammette molteplici limitazioni. Il pensiero moderno ha purtroppo identificato la libertà con la libertà d’azione e per questa via limita sempre più la nostra libertà, fino a ridurla a una pia illusione. Esito paradossale perché, proprio mentre riduce progressivamente l’uomo a un semplice essere naturale privo di libertà, la cultura moderna celebra la dignità dell’uomo e proclama un numero crescente di diritti umani. Ma, si chiede giustamente Agazzi, come si possono conciliare questa dignità e questi diritti con l’idea che l’uomo è un semplice animale, o addirittura una macchina? A mio parere questa contraddizione interna va assolutamente superata, se vogliamo aprire al futuro la nostra civiltà.
Un altro argomento molto interessante è quello della persona, più precisamente del rapporto tra uomo e persona. Agazzi ricorda anzitutto che il termine “persona” è divenuto un profondo concetto filosofico grazie all’opera dei Padri della Chiesa che lo hanno impiegato per precisare il significato dei due misteri fondamentali della fede cristiana, quello trinitario (tre Persone in una natura) e quello cristologico (una Persona in due nature). Lo spessore ontologico del concetto di persona si è poi trasferito sul concetto di uomo, fino alle varie dichiarazioni e rivendicazioni dei diritti umani che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli. Nel nostro tempo si è giunti però a teorizzare una separazione tra l’uomo e la persona, nel senso di una differenza tra il concetto di uomo e il concetto di persona, in virtù della quale non ogni uomo, per il fat-to stesso di essere uomo, sarebbe una persona. Per conseguenza la dignità e i diritti riconosciuti alla persona non vengono automaticamente riconosciuti a tutti gli uomini. Agazzi confuta con un’analisi rigorosa la possibilità di separare l’uomo dalla persona e ne deduce alcune conclusioni in ambito bioetico: l’aborto e la soppressione di embrioni umani sono inevitabilmente soppressioni di persone.
Una questione attualmente molto dibattuta è quella della cosiddetta “intelligenza artificiale”. È diffusa l’idea che essa potrebbe emulare e poi superare l’intelligenza naturale dell’uomo. In realtà tra le due esiste una differenza radicale: una proprietà fondamentale dell’intelligenza naturale è infatti l’intenzionalità, che invece non può essere presente nell’intelligenza artificiale, come Agazzi ha compreso e affermato per primo, già molti anni fa. Cosa si intende per “intenzionalità”? Si tratta di un concetto già presente nella filosofia scolastica medioevale e poi ripreso dai filosofi tedeschi Franz Brentano ed Edmund Husserl, il cui significato è essere indirizzato verso un oggetto. Essendo priva di intenzionalità l’intelligenza artificiale non è e non potrà mai essere un’autentica intelligenza. Non ha senso, quindi, chiedersi se essa potrà superare l’intelligenza umana. Ciò non toglie che l’intelligenza artificiale, in concreto i computer la cui potenza di calcolo sta crescendo vertiginosamente, renda a noi possibile risolvere problemi che senza di essa non avremmo potuto in alcuno modo affrontare.
Agazzi dedica grande attenzione e spazio al mondo della cultura. In particolare le molte pagine in cui parla della musica sono una vera ricchezza di questo libro che, occupandosi dell’esistenza dell’uomo, è «inesorabilmente approdato al tema centrale di qualunque antropologia filosofica», cioè al problema del senso della nostra esistenza, che richiede qualche comprensione della morte perché «l’escatologia costituisce il cuore di ogni antropologia». Vengono pertanto analizzati con cura i concetti di morte, vita, esistenza, immortalità, come anche quello di felicità. Da ultimo Agazzi tratta dell’esperienza del sacro, della fede come fiducia in Colui che incontriamo in tale esperienza e della speranza come caratteristica specifica della natura umana: infatti soltanto l’uomo spera. Le ultime righe del libro chiariscono definitivamente il suo significato: «Dimostrare l’esistenza dell’uomo, ossia presentare argomenti di evidenza fenomenologica (come il fatto empirico della risurrezione di Gesù e l’esperienza del sacro) per convalidare l’immagine dell’uomo come viatore (come un essere in cammino) in cui alberga la speranza (ancorata nella fede in Cristo) che dopo il viaggio in questa vita ci sarà l’approdo in una esistenza al di là della morte e del tempo».
DOC. - L’Occidente ha perso la ragione. Giulio Meotti intervista Michel Onfray *
Attraverso la finestra dell’ufficio da cui scrivo, a Caen, vedo l’Abbazia degli uomini. Se vado sul balcone, vedo l’Abbazia delle donne. A poche centinaia di metri, in linea d’aria, si trovano i bastioni del castello in cui si erge ancora un magnifico edificio, la Sala dello Scacchiere. Queste costruzioni, emblematiche dell’arte anglo-normanna, hanno mille anni e furono costruite durante il regno di Guglielmo il Conquistatore: iniziate nel 1062 e nel 1066, furono consacrate nel 1130 e nel 1077. Guardiamo indietro al XIX secolo: l’architetto catalano Gaudí iniziò la costruzione della Sagrada Família a Barcellona nel 1882, l’anno in cui Nietzsche pubblicò ‘La gaia scienza’ che annunciava la morte di Dio. Consacrata da Benedetto XVI il 7 novembre 2010, la chiesa ha atteso centotrentasette anni per la concessione edilizia... Questo Papa, per ragioni molto oscure, si è dimesso, la fine delle opere strutturali è prevista per il 2026 e quella dei lavori per il 2032! Ciò che Guglielmo il Conquistatore costruì in undici anni nell’XI secolo, gli uomini del XIX, XX e XXI secolo non l’hanno ancora finito. Non è un simbolo?”.
Spirito libero e libertario, di sinistra ma antiprogressista, vocazione anarchica alla Proudhon, ateologo più famoso di Francia ascritto dai giornali della gauche fra i “neoreazionari” per il suo frondismo a favore della civiltà giudaico-cristiana, Michel Onfray torna con “Puissance et Décadence”, quasi un seguito di quella “Decadenza” (Ponte alle grazie) che gli ha riscosso un notevole successo di pubblico. “Uno dei segni della decadenza è la sua negazione da parte dei decadenti”, racconta Onfray in questa intervista al Foglio. “Coloro che si sforzano di proclamare che tutto va meglio lo fanno secondo criteri puramente quantitativi. Non viviamo più a lungo? L’aumento dell’età media non è una prova?”. Il ritrovamento di una scatola piena di quaderni di scuola degli anni Cinquanta ha stupito Onfray: “Tra ciò che si insegnava e si imparava allora e la polenta di correttezza politica inghiottita oggi dalle classi primarie dove la priorità non è l’apprendimento della grammatica o dell’ortografia ma quella del catechismo wokista che, ad esempio, invita i bambini a cambiare sesso secondo la loro ‘scelta’ o a smistare la spazzatura in nome del cambiamento climatico che esiste da milioni di anni sul pianeta, è possibile un confronto? La condizione delle donne non è migliorata? Sì, certo, ora possono comprare bambini da donne povere che, in questa o quella parte del pianeta, vendono ovociti e affittano il loro utero. Ora possono scegliere i bambini da catalogo e possono anche approfittare dei saldi per acquistare un neonato a un prezzo d’occasione, come durante il Black Friday presso la clinica ucraina Bio TexCom nel 2021”.
Ma c’è più tolleranza. “Ma la tolleranza non è forse diventata la religione di un’epoca senza religione al punto da non tollerare più nulla al di fuori di questa tolleranza? Il pensiero unico woke è inculcato dall’Educazione Nazionale, dalle università che presenta la loro militanza come scientifica, dalla ricerca cosiddetta ‘scientifica’ che sovvenziona soldatini ideologizzati, dall’industria della cultura di massa, dai media del servizio pubblico, dal mondo della pubblicità e del cinema, dal mondo degli schermi. Tuttavia, in nome della tolleranza, chi sfugge a questa ideologia dominante passa per un uomo di destra, quindi di estrema destra, quindi fascista, quindi per un nazista che fa il gioco della famiglia Le Pen!”. Onfray ne ha anche per il Vaticano. “La chiesa del Vaticano II rinuncia al sacro per trasformarsi in dispensatore di moralità moralizzante. Allo stesso modo in cui Diderot giudicò il crollo del cristianesimo notando che la produzione di ostie era crollata nel suo secolo, si può dedurre che il cristianesimo, che non è più in grado di completare una cattedrale in tre secoli, è in uno stato di morte cerebrale. Nelle sue lezioni di filosofia della storia, Hegel ha messo in luce la dinamica delle civiltà. Tutti conoscono i dipinti sublimi della grotta Chauvet, gli allineamenti preistorici dei megaliti, le piramidi egizie, l’agorà greca, il foro romano, le cattedrali europee. Tutto questo testimonia che le civiltà nascono, crescono, vivono, conoscono un momento di acme, poi iniziano una discesa che si rivela una caduta prima della scomparsa e della sostituzione con un altro momento tra una civiltà che si allontana e un’altra che arriva”. Cosa annuncia la nostra civiltà? Cosa dice di ciò che la seguirà? “Potrebbero esserci ancora degli sconvolgimenti per questo occidente minacciato da altre civiltà: in questa lotta dovremo fare i conti con la Cina confuciana, l’Africa animista, l’India indù o la Turchia musulmana, che stanno sviluppando strategie per la propria cancellazione dell’occidente giudaico-cristiano. Aggiungo che la demografia testimonia nel senso di questa abolizione dell’Europa giudaico-cristiana a favore di un territorio dove l’Islam sarà la religione dominante”. Onfray cita De Gaulle che disse a Malraux: “‘Nessuna civiltà ha posseduto un tale potere e nessuna è stata così estranea ai suoi valori. Perché conquistare la Luna, se è per suicidarsi?’. Malraux e De Gaulle videro che con il maggio ’68 il crollo della nostra civiltà stava precipitando. Entrambi cercarono di reagire”. Quale crisi culturale stiamo vivendo? L’opinione pubblica è consapevole della crisi antropologica? “No e una cosa del tutto normale, come la morte di una regina quasi centenaria, è semplicemente la fine di un mondo perché le civiltà sono mortali, nessuno dovrebbe ignorarlo poiché Paul Valéry ha formulato chiaramente la diagnosi. La nostra civiltà giudaico-cristiana ha duemila anni, si unirà alla civiltà greco-romana nel cimitero delle rovine delle civiltà morte accanto alle civiltà di Assur, Sumer, Babilonia, Egitto, ecc. Dobbiamo far posto a una nuova civiltà che sarà probabilmente quella del transumanesimo inventato sulla costa occidentale degli Stati Uniti”. Secondo Onfray siamo nella profezia ontologica di Michel Foucault ne “Le parole e le cose”: “‘Mettere fine all’uomo’. Questo nuovo Uomo Nuovo è una creatura sintetizzata nell’opera di Sade: senza Dio, senza anima, senza libero arbitrio, senza moralità, senza umanità, è un eroe delle ‘120 giornate di Sodoma’, una specie di macchina del desiderio post-cristiana che non teme né Dio né il diavolo, che non crede né al paradiso né all’inferno, né al bene né al male”. Non ci sono qua e là sacche di resistenza a questa postmodernità ? “Niente resiste alla morte... Quando un uomo muore, è stato reso possibile da una stirpe di cui porta in sé le eredità e lo rende possibile con i suoi discendenti. Il wokismo e la cancel culture che preparano il terreno alla continuazione mantengono dalla civiltà che essa distrugga un grande dispositivo: quello dell’ingranaggio della colpa, della confessione, della resipiscenza, della rigenerazione. E’ l’orizzonte dell’ambientalismo che permea la nostra fine di civiltà”.
Nel libro attacca la maternità surrogata. Che significarto ha? “Nichilismo: quando l’essere umano diventa una cosa trasformata in merce, è perché l’eugenetica governa. Acquistare figli, affittare uteri, commercializzare ovociti e spermatozoi, abortire fino al termine per motivi psicosociali come si è votato in Francia all’Assemblea Nazionale, è istituire una franca eugenetica che ricorda il peggio del XX secolo!”. Qual è l’obiettivo finale della teoria del genere? “Artificializzare la vita e distorcerla, cancellare la natura a beneficio della cultura, in modo che questo artificio possa essere manipolato intellettualmente e venduto commercialmente. Se non c’è più né uomo né donna, né maschile né femminile, ma solo progetti di essere uomo o donna, a seconda dell’ora del giorno e del momento della vita, allora che dire del pene e della vagina, dello sperma e delle uova: Sono solo costrutti culturali? Questo nichilismo della carne si smentisce poiché il cambio di sesso passa attraverso la terapia ormonale, abbinata alla chirurgia, il che dimostra che sono gli ormoni ad aprire la strada, cioè una sostanza naturale, anche quando viene sintetizzata in laboratorio”. Eppure, l’occidente è oggi difeso da molti. “L’occidente è un pianeta, l’Europa giudeo-cristiana e i suoi satelliti: le Americhe, l’Australia, la Nuova Zelanda e tutti coloro che vivono secondo il principio di questa defunta Europa costruita dal cristianesimo. Come un bambino sopravvive alla morte dei suoi genitori sublimandoli, questa Europa morta continua a vivere in California dove, pensando ai boss della Gafam, a Musk, il futuro del pianeta si gioca attraverso il transumanesimo”. Intanto prolifera una nemesi storica della civiltà europea: l’islam... Ma lei scrive che i conquistatori rilevano solo un’area che è già morta. “L’islam fa il lavoro di ripulire l’Europa decadente”, ci dice Onfray. “Spinge e fa cadere un muro già incrinato e pieno di fessure. I musulmani che portano avanti un progetto di sostituzione della civiltà, cioè i dottrinari dell’islamismo, sono meno forti nelle loro stesse forze che nella nostra debolezza. Gli islamisti si accontentano di essere d’accordo con la nostra cricca nichilista: la prendono in parola. ‘Non perdi occasione per dire che sei detestabile, in quanto colonialisti, fascisti, petainisti, vichysti, antisemiti, collaborazionisti? Hai perfettamente ragione, ecco perché ti odiamo’, dicono gli islamisti”.
Ma se, mentre scrivi, la battaglia è persa, perché combatterla? “Quello che accadrà è già scritto in due libri: ‘1984’ di Orwell e ‘Il mondo nuovo’ di Huxley. Non possiamo dire di non essere stati avvisati”. E Putin? “E’ uno choc religioso, se non teologico, intraeuropeo, una sorta di guerra di civiltà dello spazio geografico europeo che si oppone a tre modi di essere cristiani: cattolici, protestanti, ortodossi. L’Europa oggi è di ispirazione protestante, come gli Stati Uniti. Il cattolicesimo protesta visibilmente con Papa Francesco, un gesuita che lavora per il cosmopolitismo, l’immigrazione e il multiculturalismo”. Perché restare in Normandia ? “Mille anni di radicamento... discendo da un vichingo arrivato dal nord, probabilmente la Danimarca, mille anni fa. E’ una regione semplice e umile che non lascerò”. Ricorre all’immagine del Titanic. “La barca si muove a un ritmo che non può prevenire la collisione con l’iceberg. Le percussioni sono inevitabili. Il capitano non può fare nulla per ostacolare il destino della sua nave: spegnere i motori, fare retromarcia, girare il più possibile a sinistra o a dritta, niente aiuterebbe, il Titanic sta per speronare la montagna di ghiaccio alla deriva nel mare. E’ inevitabile. La nostra civiltà si sta dirigendo verso il suo destino che è il naufragio. Ci sono diversi modi per reagire: panico, urla, pianti, lacrime, percosse, la natura umana che prende il sopravvento, l’uomo che mostra, sotto una vernice fragile, di essere davvero un lupo per il suo prossimo. Ciò che sembrava civiltà e cortesia, moralità e cortesia non dura più di cinque minuti di fronte alla catastrofe. Vediamo nascere dal vortice di panico dei falsi profeti che vociferano che bisogna calmarsi: loro hanno la soluzione, loro sono la soluzione. Sono uomini provvidenziali: devi ascoltarli e tutto andrà bene. Ci sono le barche, andiamo con ordine, e finché obbediamo salveranno tutti, salveranno il mondo. Una voce lucida fa notare che le barche a remi non basteranno... L’uomo provvidenziale grida che non si devono ascoltare gli uccelli del malaugurio, che le Cassandre siano gettati in mare come un priorità. Se per caso ci fosse una sola possibilità per salvarsi dal naufragio, sarebbe da scappare. Tuttavia, non ce n’è. Una civiltà non muore per colpa di chi se ne impossessa, ma perché i conquistatori entrano in una zona già morta, intellettualmente corrotta, spiritualmente marcia, culturalmente brulicante di vermi, moralmente decomposta. Nessuno conquista mai altro che rovine. La pulsione di morte ha ucciso la pulsione di vita. Baciamo il cobra sulla bocca”.
E ancora: “La scuola che indottrina fin dalla tenera età, ricerca che non trova altro da fare che adornarsi delle piume della scienza per svolgere l’opera di custode della vera fede. Dobbiamo guardarci dagli inganni. La logica del cavallo di Troia permette agli attori della decadenza di avanzare con la scusa dei buoni sentimenti. L’ecologia urbana, che ignora tutto ciò che riguarda la natura e i suoi legami con il cosmo, si rivela l’ala armata dell’ibridazione, compresa la sessualità, ibridazione e cosmopolitismo, che dissolvono nel loro acido ciò che restava della comunità a vantaggio di una giustapposizione di individualità narcisistiche, egoiste, ignoranti ma, ciò che conta, consumistiche, con la morte”. Il prossimo transatlantico sarà quello del transumanesimo? “Siamo nel mezzo: il Titanic sta affondando, la prossima nave è all’orizzonte. Resta, intanto, l’azione girondina che è la costruzione della resistenza alle metastasi del nichilismo. Cominciare a far sì che la decadenza non ci attraversi sarebbe già molto. La Boétie ci ha insegnato che la nostra servitù è volontaria”.
* Fonte: "informazione corretta (ripresa parziale senza immagini).
IL SOGGETTO, LA MASCHERA, E LA SOCIETÀ TRASPARENTE.
Alcune note su "che cosa ha veramente detto GIANNI VATTIMO". *
AUTOIRONIA, "Auto-chiarificazione (filosofia critica)", e Charitas: queste poche parole, forse, possono essere dei segnavia per non perdersi l’essenziale (e, in qualche modo, per distinguere prima e unire poi, quanto ritenuto accoglibile) nel mare della ricchissima produzione culturale e professionale di Vattimo.
UNA NUOVA "FILOSOFIA DELL’AVVENIRE". "«L’uomo è ciò che mangia, ma soprattutto quel che beve». Così Gianni Vattimo, scomparso il 19 settembre scorso, trasformò il celebre motto di Ludwig #Feuerbach, bevendo un calice di rosso della Sila. Di origini calabresi e fama mondiale, il filosofo torinese era autoironico, alleggeriva i discorsi, amava scherzare e porsi con umiltà." (cfr. Emiliano Antonino Morrone, "La ricerca (infinita) della verità e il pensiero “forte” di Vattimo per la sua San Giovanni in Fiore", Corriere della Calabria, 22.09.2023).
Rimettendo storicamente e antropologicamente accanto all’ironia (della dialettica platonico-socratica), anche l’autoironia di Gianni Vattimo, forse, a omaggio delle sue "AVVENTURE DELLA DIFFERENZA" (1980)", in un mondo dove la lanterna è in mano ai #ciechi, è più che opportuno richiamare alla memoria la figura di Diogene di Sinope.
RIPARTIRE DALLA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA DELL’ATTUALE PRESENTE STORICO. Se nel "processo dell’avvento del valore di scambio come metro di misura totalizzante si nasconde il trionfo dell’homo oeconomicus e della tendenza all’illimitazione del capitalismo", e, ancora, come ricorda Francesco Fistetti, "il recupero del valore d’uso e di un progetto di demercificazione dei mondi vitali va reimpostato a quest’altezza ", come è possibile svegliarsi dal #sonnodogmatico (Kant)?
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Come mi sembra di capire, non è proprio il caso di re-interrogarsi sul tema del "soggetto e della maschera" (Vattimo, 1974) e riprendere la indicazione kantiana del 1784 (riafferrata per i capelli, da #MichelFoucault nel 1984), della questione antropologica e ripartire dal "#sàpereaude!", "dal coraggio di servirsi della propria intelligenza"? All’ordine del giorno, oggi, per ri-"orientarsi nel pensiero" (Kant) e per una seconda rivoluzione copernicana (Th. W. Adorno), è augurabile che venga ripresa la lettura dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno e del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" del Galileo Galilei, senza queste opere l’uscita dal letargo claustrofilico e terrapiattistico è impensabile.
IL MATERIALISMO DIALETTICO. Superato Kant dialettica-mente (con la hegeliana astuzia della ragione "mascherata" - già di Platone e Cartesio, sia atea sia devota, sia idealistica sia materialistica), si è perso anche il senso e il sottotitolo stesso del lavoro di Marx sul "Capitale" e, con esso, ogni possibilità di portare avanti la stessa "critica dell’economia politica": si tenga presente che per John Dewey, la rivoluzione di Kant è "un ritorno a un sistema di tipo ultra-tolemaico").
LA "COSCIENZA #MISTICA", IL "SOGNO DI UNA COSA", E "IL PROBLEMA DELLA LIBERAZIONE". Paradossalmente, e probabilmente, se avessimo letto di più e meglio sia Giambattista Vico sia Kant a questa ora, in occasione della riflessione sul percorso filosofico di Gianni Vattimo, forse, potremmo capire di più la sua reale vicinanza e consonanza con la "Critica dell’idealismo" della "Critica della Ragion Pura" (1787) e il programma giovanile di Marx, il #sognodiunacosa (1843) : "Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro."("Annali franco-tedeschi"). Uno dei più importanti contributi in tale direzione di Gianni Vattimo, a mio parere, è proprio il saggio del 1974: "Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione" (Bompiani, 1974). Negli stessi anni, nelle infinite analisi sul rapporto tra il marxismo ed Hegel, correva il ripescaggio del "sapiente" Bovillus e della sua "rinascimentale" antropologia piramidale.
*
#PIANETATERRA, #RECINZIONI (#ENCLOSURES) E #CIVILTA’:
L’#ABC DELLA #FILOLOGIA, DELLA-#LOGICA, E DELLA FILO-#SOFIA DELLA #DIGNITA’ DELL’#UOMO ("DE HOMINIS DIGNITATE").
"COME FARE COSE CON LE PAROLE". LA "PREMESSA" DI UN "ANTICO" SILLOGISMO.
"Avevo cinque anni. L’insegnante ha scritto sulla lavagna: "Tutti gli uomini sono mortali". -Ho provato un enorme sollievo, una grande gioia.
Quel pomeriggio, quando uscii da scuola, corsi a casa e abbracciai molto strettamente mia madre.
"Che fortuna mamma, tu non morirai mai! "Gli ho detto, rapito.
"Cosa? " chiese mia madre, sorpresa.
Mi sono separato appena da lei e le ho spiegato:
La maestra ha scritto sulla lavagna che gli uomini sono mortali.
E tu sei una donna!. Per fortuna sei una donna, ho detto e l’ho riabbracciata.
Mia madre mi ha teneramente separato dalle sue braccia.
Questa frase, mia cara, include uomini e donne. Tutti e tutte moriremo un giorno.
Mi sono sentita completamente sconvolta e delusa.
Allora perché non l’ha scritto? : "Tutti gli uomini e le donne sono mortali"? Ho chiesto.
Beh - ha detto mia madre, in realtà, per semplificare, noi donne siamo rinchiuse nella parola "uomini".
Chiuse? - Ho chiesto. Perché?
Perché siamo donne - mi rispose mia madre.
La risposta mi ha sconcertato.
E perché ci rinchiudono? Gliel’ho chiesto.
È molto lungo da spiegare, rispose mia madre. Ma accettalo così. Ci sono cose che non sono facili da cambiare.
Ma se dico "tutte le donne sono mortali"? Rinchiude anche gli uomini?
No- rispose mia madre. Questa frase riguarda solo le donne.
Ho avuto una crisi di pianto.
Ho capito all’improvviso molte cose e alcune molto spiacevoli, come che il linguaggio non era la realtà, ma un modo per rinchiudere cose e persone, a seconda del loro genere, anche se sapevo a malapena cosa fosse il genere: oltre a servire a fare gonne, il genere era una forma di prigione. "
* Cristina Peri Rossi - Scrittrice uruguaiana vincitrice 2021 del Premio Cervantes.
#SONNODOGMATICO (#KANT), #PREISTORIA (#MARX) #LETARGO (#Dante2021)! A ONORE E OMAGGIO DELL’ Attacco Poetico di #CristinaPeriRossi ... ALLEGO LA #SINTESI DELLA #TEORIA PLATONICO-ARISTOTELICA DEL "#SAPIENTE" (#BOVILLUS. 1510), #CRITICA-#MENTE AL CENTRO DEL LORO LAVORO DA #STEFANOMANCUSO E #ALESSANDRAVIOLA NEL LIBRO "#VERDEBRILLANTE. SENSIBILITà E INTELLIGENZA DEL MONDO VEGETALE" (Giunti Editore).
ELEUSIS 2023
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA FILOLOGIA E LETTERATURA:
VIRGINIA WOOLF E LA "PUPILLA" ("KORE", "FANCIULLA", "BAMBOLETTA") NELL’OCCHIO E NELLO SGUARDO DI SOCRATE E DI PLATONE. -Alcuni appunti...
A) VIRGINIA WOOLF: "The eyes of others our prisons; their thoughts our cages" ("Short Stories").
B) PLATONE ("Alcibiade primo", 133 e ss.):
"SOCRATE: Rifletti anche tu: se [l’iscrizione delfica] avesse rivolto un consiglio al nostro occhio, come se fosse un uomo, e gli avesse detto: «Guarda te stesso», che supposizione avremmo fatto su ciò a cui ci esortava? Non forse a guardare a quella cosa guardando alla quale l’occhio avrebbe visto se stesso?
ALCIBIADE: è chiaro.
SOCRATE: Riflettiamo: guardando a quale degli oggetti esistenti vediamo quello e contemporaneamente anche noi stessi?
ALCIBIADE: è chiaro, Socrate, che dovremmo guardare a uno specchio o a qualcosa del genere.
SOCRATE: Quel che dici è giusto. Ma nell’occhio col quale guardiamo non c’è qualcosa di questo genere?
ALCIBIADE: Certamente.
SOCRATE: Hai notato dunque che quando guarda nell’occhio il volto si riflette nello sguardo di chi si trova di fronte come in uno specchio, cosa che chiamiamo anche pupilla (72 -> "kore", "còre"), dato che è come un immagine di chi guarda?
ALCIBIADE: Quel che dici è vero.
SOCRATE: Dunque quando un occhio osserva un occhio e guarda in esso ciò che appunto esso ha di più bello, e con cui vede, in tal caso potrebbe vedere se stesso [...]".
C) LA "SORELLA" DI WILLIAM SHAKESPEARE: JUDITH (E LA "INVINCIBILE ARMATA"). Con straordinaria e fulminea eleganza e grande coraggio ("Sàpere aude"), Virginia Woolf prende il nome di Judith ("Una stanza tutta per sé") e taglia definitivamente la testa all’ "Oloferne" della tradizione "mammonica" occidentale e si porta fuori dal tragico e infantile ("stadio dello specchio") dello sguardo socratico-platonico e lacaniano (narcisitico, edipico, golem-antico).
P. S. - QUESTIONE ANTROPOLOGICA E CREATIVITÀ. "Lettere a Virginia Woolf dal XXI secolo". Una raccolta epistolare (a c. di Licia Martella, introduzione di Nadia Fusini) dedicata alla scrittrice:
[LETTERE] Scritte da: Leonetta Bentivoglio, Alessandra Bocchetti, Elisa Bolchi, Maria Grazia Calandrone, Elisa Casseri, Sara De Simone, Viola Di Grado, Donatella Di Pietrantonio, Manuela Fraire, Daniela Gambaro, Cristina Gardumi, Viola Lo Moro, Francesca Mancini, Laura Mazzi, Elena Munafò, Raffaella Musicò, Iolanda Plescia, Galatea Ranzi, Elisabetta Rasy, Maria Serena Sapegno, Carola Susani, Nadia Terranova, Silvia Vegetti Finzi, Sara Ventroni, Maddalena Vianello, Valeria Viganò.
Cordoglio del Presidente Mattarella per la scomparsa di Silvio Berlusconi
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato la seguente dichiarazione: *
«Apprendo con profonda tristezza la notizia della morte di Silvio Berlusconi, fondatore e leader di Forza Italia, protagonista di lunghe stagioni della politica italiana e delle istituzioni repubblicane.
Berlusconi è stato un grande leader politico che ha segnato la storia della nostra Repubblica, incidendo su paradigmi, usi e linguaggi. In una stagione di profondi rivolgimenti, la sua “discesa in campo”, con un partito di nuova fondazione, ottenne consensi così larghi da poter comporre subito una maggioranza e un governo.
La leadership di Berlusconi ha contribuito a plasmare una nuova geografia della politica italiana, consentendogli di assumere per quattro volte la carica di presidente del Consiglio. In queste vesti ha affrontato eventi di portata globale, come la crisi aperta dall’attentato alle Torri Gemelle, la lotta al terrorismo internazionale e gli sconvolgimenti finanziari alla fine del primo decennio del nuovo secolo.
Ha progressivamente integrato il movimento politico da lui fondato nella famiglia popolare europea favorendo continuità nell’indirizzo atlantico ed europeista della nostra Repubblica.
E’ stato una persona dotata di grande umanità e un imprenditore di successo, un innovatore nel suo campo. Ha conquistato posizioni di assoluto rilievo nell’industria televisiva e nel settore dei media, ben prima del proprio impegno diretto nelle istituzioni.
E’ stato artefice di importanti successi nel mondo dello sport italiano.
Desidero esprimere il mio cordoglio e la mia solidarietà ai figli, a tutti i familiari, al suo partito, a coloro che più gli sono stati vicini nella vita e nell’ultima battaglia contro la malattia, combattuta con coraggio ed esemplare ottimismo».
Fonte: Sito della PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
ARTE, FILOLOGIA, "NASCITA DELLA TRAGEDIA" (NIETZSCHE), E
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("ECCE HOMO", 1888):
PLATONE E "NOI", OGGI (11MAGGIO 2023). MESSA A MORTE LA #GIUSTIZIA (#DIKE) DI #PARMENIDE, #PLATONE SALE SULL’ACROPOLI E DICHIARA: "IO, PLATONE, SONO LA [DEA DELLA] VERITÀ". "L’essere che realmente è, senza colore, senza forma, non apparente [...] occupa questo luogo. [...] e [l’anima] contemplando il vero se ne nutre e ne gode" (Fedro 247 c-d).
ELEUSIS_2023. Abbandonata "M_Arianna", interi millenni di labirinto ... nella ’invisibile’ caverna plutonica (ricordando Demetra ed Eleusis).
Dopo #Dante2021, ancora in un profondissimo #letargo (Pd., XXXIII, 94)!
P. S. - Su Platone, oggi, alcuni appunti per una possibile diversa "lettura": nelle Università e nelle Accademie (laiche e devote) si insegna ancora a credere che Aristofane scherzasse su Socrate!
HAMLETICA: FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), LINGUISTICA, E "COSTRUZIONI NELL’ ANALISI" (FREUD). Un omaggio a Shakespeare, alla "question" di Hamlet (Amleto, e a Ferdinand de #Saussure. In #principio era il #Logos, non un #logo...
*
EUROPA, CRISTIANESIMO E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ": IL "CORPO DEL SIGNORE ("CORPUS DOMINI)" E L’ EUCARISTIA (Eu-charis-tia").
Due note:
A) SACRAMENTALISMO. "Il termine #sacramentalismo descrive il sistema concettuale e pratico attraverso il quale in particolare la Chiesa cattolica romana, ma anche il #cristianesimo ortodosso comprende la funzione e l’uso dei #sacramenti come mezzi mediante i quali la #grazia di Dio verrebbe impartita ai fedeli. Esso è strettamente legato alla figura del #sacerdote [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Sacramentalismo);
B) SACRAMENTARISMO. "Si definisce sacramentismo o #sacramentarismo il movimento di opposizione, sviluppatosi nei Paesi Bassi alla fine del Medioevo, alla tradizionale teologia eucaristica e alle relative pratiche devozionali, consistente nel #rifiuto della dottrina della transustanziazione e della messa intesa come ripetizione del #sacrificio di Cristo, dando alla comunione, la cena del #Signore, un carattere simbolico e commemorativo.
A definire sacramentisti o sacramentari i seguaci di tale movimento furono le stesse autorità ecclesiastiche, per le quali sacramentarius era chiunque sostenesse che ogni sacramento era soltanto un #segno, senza che nella cerimonia avvenisse alcuna alterazione della materia sacramentale. Anche Lutero, creatore della teoria della consustanziazione, chiamò sacramentari i suoi avversari nella controversia eucaristica che ebbe con Carlostadio, Ecolampadio, Schwenckfeld e Zwingli, quest’ultimo il più autorevole sostenitore del carattere simbolico della comunione. [...]
Alla crescita del movimento sacramentario fece seguito la reazione dell’Inquisizione. La prima vittima fu Lauken van Moeseken, decapitato nel 1518 a Bruxelles; l’ex-prete Jan de Bakker fu bruciato a L’Aja nel 1525, mentre la prima donna a morire per la sua fede fu Wendelmoet Claesdochter, strangolata e bruciata nel 1527. Negli interrogatori dichiarò che il sacramento dell’altare era « solo pane e farina» e, riferendosi all’estrema unzione, che « l’olio è buono per l’insalata e per lucidare le scarpe». Sul patibolo, rifiutando il crocifisso, dichiarò: «Il mio Dio e Signore non è questo. Il mio Signore è in me e io in lui ».[...]"(https://it.wikipedia.org/wiki/Sacramentarismo).
Federico La Sala
I DUE VERSI DI EMILY DICKINSON
di Beniamino Placido *
Sempre per loro. Perché non si disperino. Cosa non si fa per loro, per quelli che verranno dopo di noi: fra cinquanta, cento, cinquecento anni. Poveretti, cercheranno di capire la nostra storia di oggi e si metterranno le mani nei capelli, ci sembra già di vederli. Come mai vinse quel Berlusconi: che non era un politico, che tre mesi prima non era ancora entrato in politica?
Non siamo egoisti. Diamogli una mano. Aiutiamoli a sgrovigliare nella loro Biblioteca i nostri giornali ingialliti, dove si naviga fra quattro, cinque ipotesi concorrenti. Berlusconi ha vinto perché era (o si presentava) come "nuovo". Il vecchio non andava più di moda. Berlusconi ha vinto perché era o si presentava come uomo "non politico". La politica non andava più di moda. Oppure: perché si presentava come l’ uomo dei "fatti", contrapposto agli uomini delle chiacchiere.
Le chiacchiere circolavano molto ma erano molto chiacchierate, in Italia. O ancora: Berlusconi ha vinto perché si presentava (e certamente era anche) un "vincente". Ce l’ ha fatta? Si è fatto da sé? Ebbene, farà in modo che ce la facciamo anche noi.
Altra ipotesi ancora: ha vinto perché aveva a disposizione tante televisioni, e le usava. Si può fare una previsione sicura, eccola. Sarà questa alla fine l’ ipotesi vincente. Perché la più comoda, la più pittoresca. Ma non necessariamente la più fondata. Se li avessi davanti, questi studiosi di domani (o dopodomani), impegnati a capire le nostre vicende di oggi, farei loro questo discorso. Non date retta. La televisione è potente, ma non onnipotente. Negli Anni Settanta la Democrazia Cristiana - al governo da sempre - aveva a disposizione tutta la Televisione che c’ era (tutta) e tuttavia non riuscì ad impedire che l’ aborrita legge sul divorzio passasse. Negli Anni Ottanta Umberto Bossi riuscì a creare la sua Lega, dal nulla, infischiandosene della Televisione.
Forse c’ entra qualche altra cosa. Forse c’ entra anche quel che si dice in televisione.
Se li avessi davanti, quegli storici di domani (o dopodomani) li costringerei a metter l’occhio su una cronaca da Torino (Massimo Gramellini, La Stampa, venerdì 1 aprile). Siamo a Mirafiori. Ecco un vecchio operaio che spiega come mai ci siano stati tanti voti per la destra. Anche a Mirafiori.
"Alza un braccio e lo punta su un condominio con tante finestre tutte uguali. Poi dice: io abito là. Tremila famiglie; di media in ogni alloggio c’ è un disoccupato e una tv: hanno votato Berlusconi perché lui ha fatto delle promesse, e noi nemmeno quelle".
E’ chiaro: non basta la televisione; ci vuole anche un disoccupato in casa (e c’è per spiegare il risultato elettorale del 27 marzo. A quel disoccupato Berlusconi ha promesso un milione di posti di lavoro. Ce ne sarà qualcuno (forse due) anche per lui, perbacco.
Supponete che quel disoccupato abbia venticinque anni e magari un diploma, o una laurea, in tasca. Segue la pubblicazione dei bandi di concorso sulla Gazzetta Ufficiale. Poi accende il televisore (ecco dove la televisione conta) e vede che per una manciata di posti ci sono centinaia, migliaia di concorrenti. Famelici. E’ un incubo. Sarà sciocco, ma volete che non presti l’ orecchio alla prima promessa che gli viene fatta? Sarà imprudente, ma volete che non ceda al primo sogno che gli viene prospettato ("un nuovo miracolo economico")?
Su questo tema - della Fata Morgana, delle illusorie promesse, delle artificiose illusioni elettorali - si è molto discusso in questi giorni in Italia. C’ è stato anche chi ne ha negato ogni importanza. I sogni ad occhi aperti: ma figuriamoci. Lo ha negato anche Rossana Rossanda (il manifesto, venerdì 8 aprile).
Mi pare strano. Rossana Rossanda non può non saperlo: ci sono due versi della poetessa americana Emily Dickinson che le danno torto. Meglio un sogno che niente. E la Dickinson è una poetessa dura, aspra, essenziale. Fatta di pietra e di quarzo. Non si fa illusioni. Non ne autorizza. Non crede nel paradiso in terra, non le piace ("I don’ t like Paradise").
Eppure è lei l’ autrice di quei due versi dove è detto che quando si è al buio persino un fuoco fatuo è meglio di niente. Meglio della totale assenza di luce "Better an ignis fatuus / Than no illume at all"é. Dove quel latino di "ignis fatuus", dove l’ arcaico di quell’ "illume" vogliono dire che è così, fatalmente. E’ una vecchia storia. Possiamo (dobbiamo anzi) contrastarlo. Non possiamo negarlo.
Mi pare strano che la Rossanda non se ne ricordi. C’ è un vecchio volumetto della Savelli, dove quella poesia (tradotta da Barbara Lanati) figura. La prefazione al volumetto - e che prefazione: acutissima, splendida - era di Rossana Rossanda.
* Fonte: la Repubblica, 10 aprile 1994
Filologia Antropologia Teologia e Pedagogia. "On The Shoulders Of Giants" (OTSOG): "Senza di loro non vedremmo nulla, su di loro vediamo più lontano di questi San Cristoforo" (cfr. U. #Eco, Introduzione all’edizione italiana: "Dicebat Bernardus Carnotensis" del libro di Robert K. #Merton, "Sulle spalle dei giganti", Il Mulino, 1991).
QUALE #IMITAZIONE DEL #MAESTRO DI #GRAMMATICA? QUALE IMITAZIONE DI "SAN CRISTOFORO"? La #via dell’#umiltà (cristoforo-#bambino) o della #superbia (gigante-nano)? :
“NANI SULLE SPALLE DI GIGANTI: "[...] Che cosa significa l’#aforisma? Umberto Eco spiega, nel suo saggio sul #Medioevo di #Federico Motta Editore, qual è il valore di questa espressione. La prima #domanda da porsi è se si tratti di una ammissione di #umiltà oppure di una manifestazione di #superbia. Ma soprattutto, che senso aveva per i medievali paragonare se stessi a dei nani e gli antichi a dei giganti. Un indizio può venire dal contesto in cui è inserita la #massima: Bernardo parlava infatti di #grammatica. In particolare, criticava gli allievi che copiavano pedissequamente gli antichi; al contrario si doveva prenderli a modello, per scrivere altrettanto bene ed essere un domani ammirati al pari loro. È quindi possibile riconoscere un invito all’#autonomia. Come dirà più tardi #Sigieri di #Brabante, rifarsi a un’autorità non basta. Gli antichi erano pur sempre uomini, per cui nulla vieta ai #posteri di dedicarsi anch’essi alla ricerca razionale."
Sul tema, una "vecchia" recensione di #Franco Marcoaldi del lavoro di Robert K. #Merton,"Sulle spalle dei Giganti".
ANCHE IL GIGANTE INCIAMPA
Rispondere a una lettera, magari anche gradita, e fosse pure soltanto con le canoniche "due righe", sembra essere diventato eroico esercizio cui ci si sottopone a malincuore. Con le dovute eccezioni, naturalmente. Robert (Bob) Merton, ad esempio, docente alla Columbia University e stella di prima grandezza della sociologia contemporanea, in risposta alla succinta missiva dell’ amico Bernard (Bud) Baylin, ha inviato non una, ma mille lettere. Che hanno finito per comporre un libro: folle, geniale ed enigmatico, di cui è pressoché impossibile dare un resoconto rapido, e minimamente sensato.
D’ altronde, lo stesso sottotitolo, "poscritto shandiano", indica chiaramente come in omaggio a Vita e opinioni di Tristam Shandy di #Lawrence #Sterne, si intenda procedere qui in modo altrettanto digressivo ed errabondo. Affidandosi alla #serendipity: la capacità di trovare una cosa avendone a lungo cercata un’ altra. Il che non ci consente, comunque, di menare a spasso per altre tre cartelle l’ eventuale acquirente del volume, senza provare a dirgli, almeno a grandi linee, e in modo necessariamente vago, di cosa - in definitiva - il libro tratti. E allora, vediamo di tornare alla letterina che Bud invia all’ amico Bob, chiedendogli informazioni più precise riguardo al celebre aforisma da sempre attribuito a #Newton: "se ho visto più lontano, è perché stavo sulle spalle dei giganti".
Siamo proprio così sicuri, si chiede Bud, che sia stato lui, a inventarlo? Detto e fatto. Bob si mette a tavolino, e affidandosi alla sua prodigiosa erudizione, risponde con una lettera (fantastica) di duecentonovanta pagine, che dà forma a quella sarabanda intellettuale raccolta ora in Sulle #spalle dei #giganti (prefazione di #UmbertoEco, Il Mulino, lire 30.000).
Incredibile a dirsi, ma la semplice ricerca à rebours della genealogia di quella minuscola frasetta, consente a Merton di sollevare una infinita serie di questioni. Di immensa, e infima grandezza. Trattate tutte con eguale rispetto, ed eguale irriverenza. Ma, tanto per cominciare, quando compare per la prima volta il celebre Aforisma? In una lettera che #Newton invia a #Hooke nel bel mezzo di una accesa controversia sulla paternità delle rivoluzionarie scoperte relative all’ ottica e alla meccanica celeste.
Da qui Merton prende le mosse, e da qui comincia a sparare una gragnuola senza fine di domande. Chi ha scoperto, cosa e quando? Come la mettiamo con il problema del plagio, delle influenze consce e inconsce? E con quello del rapporto con la tradizione? Gli uomini, su questo punto, mica l’ hanno pensata sempre allo stesso modo. E ancora, i nani (quelli che vedono più lontano), stanno seduti o in piedi, sulle spalle dei giganti? E come fanno "a mantenersi in equilibrio in quell’ imbarazzante posizione"?
Che accade, infine, nel caso in cui i giganti inciampino o cadano bocconi? Se si aggiunge, che nel frattempo, Merton riesce a discutere pure dei vantaggi di "cercare la verità in un dibattito a quattr’ occhi piuttosto che in una discussione pubblica". A proporci le virtù di tal John Aubrey nel definire le persone a partire da colore e taglio degli occhi. E a scoprire un sorprendente plagio di Sterne ai danni di #Burton, proprio nella pagina in cui il primo si avventa contro questa insana abitudine, beh, si capirà bene che c’ è da perdere la testa. Noi, beninteso. Non Merton, che al contrario tesse le fila del suo folle tappeto con perfetto controllo di sé, conscio dei labilissimi confini che separano, nel mondo dell’ #erudizione, #sanità e #pazzia. Talmente conscio da non perdere l’ occasione per stilare una puntuale tassonomia nosografica delle turbe cui la medesima erudizione conduce: l’ adumbrazionismo denigratorio (nulla di nuovo sotto il sole, tutto è già stato detto nell’ antichità); la correlativa sindrome anatopica (occultamento delle versioni antiche); l’ onesta criptomnesia (far passare per proprie idee scovate altrove); l’ insanabile scribendi cacoethes (quella frenesia del pubblicare da cui ci si può curare solo seguendo il consiglio di Thomas Fuller; riempiendo fogli e fogli di carta unicamente all’ inizio della riga). E così via pazziando. Ma non cadiamo pure noi nelle seduzioni digressive dello stile shandiano. E vediamo di concludere.
Si può, in definitiva, sapere quando e come l’ Aforisma nasce, e magari pure quando muore? Sì, in un certo senso, si può saperlo. Nasce nel dodicesimo secolo, con Bernard de Chartres. E muore con #Freud. Quando quel rompiscatole di #Stekel, allievo mitomane e indesiderato, convinto di aver superato di gran lunga il suo maestro, fa un uso davvero smodato dell’ Aforisma. Tanto che il gigante (Freud) è costretto a rispondere al nano (Stekel): "Questo può anche essere vero, ma un pidocchio sulla testa di un astronomo non può farlo".
Il rebus, dunque, è risolto? Per modo di dire: morte, e soprattutto nascita dell’ Aforisma, restano comunque fittizie, aleatorie. Stabilire che il primo e assoluto ideatore sia stato Bernard significherebbe infatti, rammenta Merton, negare la validità dello stesso Aforisma. Forse che quando lo creò, "non era lui stesso posto sulle spalle dei suoi predecessori?". Insomma, è solo per rispettare il noto detto, "un bel gioco dura poco", che Merton la finisce qui. Se fosse per lui, magicamente afflitto dall’ insanabile desiderio di scrivere, sarebbe ancora lì, a giocare. Con la dovuta serietà, naturalmente. Convinto, con Auden, che "soltanto attraverso la commedia, si può davvero essere seri".
(FRANCO #MARCOALDI, "Anche il gigante inciampa", la Repubblica, 10 dicembre 1991).
* Post precedenti:
A) #ANTROPOLOGIA CULTURALE (Gregory Bateson) #PSICOANALISI (Sigmund Freud) E #FILOLOGIA (#LorenzoValla).
Ulteriori appunti...
Benché sull’amletica #question antropologica ("essere, o non essere?"), #Kant ("#Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’#idealismo materialistico o il #materialismo idealistico ha continuato nel suo cosmo-te-andrico edipico #sogno. #GregoryBateson, "all’#enigma della #Sfinge", ha dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo" (così in una conferenza del 1979), ma non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della #tragedia e dalla città di #Edipo: l’#enigma di (dove poggia il piede) san #Cristoforo (S. #Freud, "#Psicologia delle masse e analisisi dell’io", "4. #Suggestione e #libido") non l’ha sciolto:
B) #PSICOANALISI, #FILOLOGIA, #ANTROPOLOGIA E #STORIOGRAFIA: LA #SUGGESTIONE, L’ #ENIGMA DI SAN #CRISTOFORO, E LA "#PSICOLOGIA DELLE #MASSE E #ANALISI DELL’IO" (S. #FREUD, 1921).
Per meglio comprendere il grande rilievo del contributo di #Stekel, al lavoro e alle "#costruzioni nell’analisi" (1937) di #Freud, molto utile anche la lettura del testo della seduta del 1903, pubblicata come articolo con il titolo "Il ’Piccolo Kohn’" (tradotto e curato dal dr. Michele Lualdi):
MONARCHIA, FASCISMO, E RESISTENZA:
LA DIVINA COMMEDIA E IL 25 APRILE.
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, E #POLITICA. A 702 anni dalla morte di #DanteAlighieri, la società italiana mostra ancora grandi difficoltà al suo interno e non riesce a parlare una #lingua #comune, quella propria dei cittadini-sovrani e delle cittadine-sovrane.
#STORIA, #LETTERATURA E #FILOSOFIA. Prima di #Hegel, a tutti i livelli (antropologici e teologici), a cosa alludeva #Dante con la sua paradigmatica proposta della #Monarchia dei #DueSoli?!
LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI". Se, alla base del "dia-logo" delle due parti in cui l’Italia è divisa (la "destra" e la "sinistra" di "sempre"), non c’è il #Logos (l’accettazione e la condivisione della #Parola della #Legge), ma c’è solo il #Logo di una parte contro e sopra l’altra armata, in una "dialettica" da "#padrone e #servo", dov’è più il #dialogo, dove più la #Costituzione?, dove l’#Italia?!
#EarthDay #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
MONARCHIA, FASCISMO, E RESISTENZA: LA #DIVINACOMMEDIA E IL #25APRILE.
Una nota a margine della #giornatadellaterra 2023 ... #ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, E #POLITICA. A 702 anni dalla morte di #DanteAlighieri, la società italiana mostra ancora grandi difficoltà al suo interno e non riesce a parlare una #lingua #comune, quella propria dei cittadini-sovrani e delle cittadine-sovrane.
#STORIA, #LETTERATURA E #FILOSOFIA. Prima di #Hegel, a tutti i livelli (antropologici e teologici), a cosa alludeva #Dante con la sua paradigmatica proposta della #Monarchia dei #DueSoli?!
LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI". Se, alla base del "dia-logo" delle due parti in cui l’Italia è divisa (la "destra" e la "sinistra" di "sempre"), non c’è il #Logos (l’accettazione e la condivisione della #Parola della #Legge), ma c’è solo il #Logo di una parte contro e sopra l’altra armata, in una "dialettica" da "#padrone e #servo", dov’è più il #dialogo, dove più la #Costituzione?, dove l’#Italia?!
#EarthDay #Koyaanisqatsi #Ubuntu #Earthrise
*
PSICOANALISI, CRISTIANESIMO, ANTROPOLOGIA E LETTERATURA:
"PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’ IO" (S. FREUD, 1921): DANTE ("Io non Enëa, io non Paulo sono": Inf. II, 32) SA "DOVE METTE CRISTOFORO IL PIEDE" (cfr. Wilhelm Stekel, " Il ’Piccolo Kohn’ ", 1903, tradotto e curato da Michele Lualdi).
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS", "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT), E "IDEALE DELL’IO" (S. FREUD). CON GIASONE (OVIDIO) E CON ASTREA (LA "VIRGO" DI VIRGILIO) E MARIA-BEATRICE (LA "VERGINE" DI SAN BERNARDO), DANTE RIPRENDE IL CAMMINO, dall’ INIZIO (dall’Inferno) ma dal PRINCIPIO (Par. XXXIII: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio [...] l’amor che move il sole e l’altre stelle") e racconta come è riuscito a ritrovare "LA DIRITTA VIA" e a capire il senso antropologico di sé: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap., XXII, 13).
Mattarella: "Costituzione, inno e bandiera i riferimenti che ci guidano"
Il Presidente nel messaggio per l’Unità d’Italia: "La Carta garantisce risorse per sfide complesse"
di Redazione ANSA (17 marzo 2023->https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/03/17/mattarella-costituzione-inno-e-bandiera-i-riferimenti-che-ci-guidano_c7b81537-523c-4aee-9fa1-81087ae76988.html])
ROMA. "Viviamo oggi, con il conflitto scatenato dalla Federazione Russa in territorio ucraino, un’aperta minaccia che ci impone una ferma risposta unitaria in seno alla comune identità europea e atlantica, affinché venga posta fine ai combattimenti e si raggiunga un duraturo accordo di pace".
Lo afferma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio in occasione dell’anniversario dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera.
Con lui - tra gli altri - il presidente del Senato, Ignazio La Russa, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli e la presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra. Il capo dello Stato ha deposto una corona d’alloro sulla tomba del Milite Ignoto.
"La Repubblica, in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. Gli stessi che, ispirando la nostra società, garantiscono le risorse morali necessarie a fronteggiare le sfide complesse che la contemporaneità ci mette innanzi", afferma Mattarella nel messaggio.
"La Repubblica, in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. La Costituzione, l’Inno degli italiani e la Bandiera sono i riferimenti che ci guidano nell’impegno comune di consolidare un’Italia fondata su pace, libertà e diritti umani" prosegue il capo dello Stato.
"Celebriamo oggi - prosegue il Capo dello Stato - l’anniversario dell’Unità d’Italia, che è "Giornata dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera". 162 anni fa, sotto il Tricolore, con i plebisciti popolari si espressero la sovranità e la volontà che, attraverso l’opera risorgimentale, avevano portato alla costituzione dello Stato italiano. Il primo pensiero va alle generazioni che hanno accompagnato questo traguardo, a quanti, con il loro operato, hanno contribuito alla nascita e alla crescita del nostro Paese, promuovendo quei valori di civile convivenza, quegli ideali di libertà e democrazia, di pace e di partecipazione allo Stato di diritto e alla comunità internazionale, che hanno trovato consacrazione nella nostra Costituzione. Viviamo oggi, con il conflitto scatenato dalla Federazione Russa in territorio ucraino, un’aperta minaccia a questi valori che ci impone una ferma risposta unitaria in seno alla comune identità europea e atlantica, affinché venga posta fine ai combattimenti e si raggiunga un duraturo accordo di pace". "La Repubblica - conclude Mattarella - in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. Gli stessi che, ispirando la nostra società, garantiscono le risorse morali necessarie a fronteggiare le sfide complesse che la contemporaneità ci mette innanzi. La Costituzione, l’Inno degli italiani e la Bandiera sono i riferimenti che ci guidano nell’impegno comune di consolidare un’Italia fondata su pace, libertà e diritti umani".
"Oggi l’Italia celebra la Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera, le fondamenta robuste sulle quali la nostra comunità si erge e dalle quali essa prende ispirazione". Lo afferma in una nota la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. "Il 17 marzo di 162 anni fa iniziava il cammino dell’Italia come Stato unitario e si realizzava l’auspicio di un giovane genovese, visionario e ribelle, come Goffredo Mameli: poter vedere gli italiani non più "calpesti e derisi" e "divisi", bensì raccolti in "un’unica bandiera". Il 17 marzo è la solennità nazionale più unificante che abbiamo e nel corso della quale quale siamo chiamati a ricordare le ragioni del nostro stare insieme. Perché, come ha spiegato Ernest Renan, la Nazione è una "grande solidarietà, un plebiscito che si rinnova ogni giorno e che si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti e di quelli che ancora siamo disposti a compiere". Questa è la sfida che abbiamo davanti, è l’impegno che dobbiamo onorare ogni giorno: riannodare i fili di ciò che ci unisce e riscoprirci una comunità. Solo così possiamo liberare le migliori energie della Nazione e dimostrare che nessuna meta è preclusa all’Italia. Buon 17 marzo a tutti gli italiani!"
AGENZIA ANSA
FdI: speriamo di festeggiare l’unità d’Italia già il 17 marzo 2024 - Politica
Con la proposta di legge che chiede di istituire il 17 marzo come festa nazionale dell’unità d’Italia, Fratelli d’Italia spera che il 17 marzo del 2024 si possa già festeggiare. (ANSA)
QUESTIONE ANTROPOLOGICA (KANT, 1800), "ECCE HOMO" (NIETZSCHE, 1888), E INFERNO EPISTEMOLOGICO.
IMMAGINARE, STORIOGRAFICAMENTE (E FILOSOFICAMENTE) CHE "la galileiana matematizzazione della natura" sia innanzitutto un’operazione contro Galileo, così come lo strutturalismo linguistico alla Lacan sia soprattutto una saussuriana matematizzazione del linguaggio" contro Saussure, è un bell’esempio di permanenza nel letargo (Par. XXXIII, 94) dell’inferno epistemologico della tragedia - contro la commedia e contro Dante.
Enrico Redaelli, nel suo libro "Judith Butler. Il sesso e la legge", "un attraversamento delle opere e del pensiero della femminista, attivista Lgbtq+, intellettuale militante e filosofa statunitense", nello sforzo di offrire un contributo critico alla discussione, scrive:
SE è VERO, come è vero CHE "La questione è più complessa e non priva di paradossi", non per questo è necessario costringere nelle vecchie botti della cosmoteandria platonico-heideggeriana l’acquisizione della relatività galileiana-einsteiniana, della consapevolezza antropologica dell’io che "non è padrone nemmeno in casa sua" e che le sue spiegazioni non sono interpretazioni di sogni, ma, a tutti i livelli, "costruzioni nell’analisi", sia in fisica sia in metafisica - criticamente, con Kant, Freud, e Franca Ongaro Basaglia.
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #Koyaanisqatsi #Ubuntu
Straparlando
GIANNI VATTIMO. Che fatica trovarsi a un millimetro dalle parole.
di Antonio Gnoli (la Repubblica, Robinson, 25 febbraio 2023, pp. 38-39).
La vecchiaia di un celebre filosofo, come tutte le vecchiaie verrebbe da aggiungere, andrebbe protetta dalle bagarre mediatiche. Quelle che da alcuni anni hanno visto coinvolto Gianni Vattimo. Era da un po’ che con Gianni non ci si vedeva e quando gli ho telefonato l’ho sentito disponibile all’idea che sarei andato a trovarlo. Ci siamo visti per pranzare nella sua grande e accogliente casa di via Po. Dove tutto è come l’ultima volta.
Tranne il gatto fulvo che non c’è più. Ci sono i libri, la grande televisione dove il professore segue a volume piuttosto alto un telegiornale. Le immagini corrono davanti a una specie di indifferenza dello sguardo. Mi riceve Simone Caminada. Presenza per molti ingombrante, per alcuni necessaria. Il giorno dopo la visita, una sentenza giudiziaria lo condanna a due anni di carcere per circonvenzione. In pratica avrebbe approfittato della fragilità del filosofo per mettere le mani sul suo patrimonio. Non entro nella questione che è stata già ampiamente trattata dai giornali. Mi limito a osservare la padronanza con cui Caminada - un adulto di 40 anni di Salvador Bahia - gestisce il rapporto con Vattimo.
Perché sono qui? Perché al Circolo dei lettori di Torino, su iniziativa del centro studi Pareyson, Lopera completa di Vattimo (edita dalla Nave di Teseo) ed era appunto un’occasione vederlo qualche ora prima, parlargli, intervistarlo fuori da ogni clamore giudiziaario. Poche settimane fa Gianni ha compiuto 87 aqnni. E’ smagrito. Guardo i suoi occhi di una fissità vaga e ascolto i suoi prolungati silenzi. Non so bene da dove iniziare. Forse dal fatto che l’antico allievo Maurizio Ferraris si sia rappacificato con il maestro.
Ho letto l’articolo che Ferraris ha scritto su di te.
«Non credo di averlo capito bene quell’articolo».
Cosa hai pensato?
«A una mozione di affetti, e che alla fine si torna un po’ bambini. Senza più l’obbligo di dover capire tutto».
Che vuoi dire?
«Non lo so, mi sento un po’ bambino. Sono accudito come un bambino. Lo vedi, di mio faccio poco».
Perché non puoi o non vuoi?
«Non posso, è chiaro. Parlo a fatica, a volte sono a un millimetro dalle parole».
Dalle parole per esprimerti e spiegarti?
«Avverto il suono e il senso di quelle altrui. Le mie escono strane».
Strane come?
«Come se la mia voce fosse cambiata. si strozzano in gola, poi escono come un sospiro pesante».
Vorrei tornare all’articolo di Ferraris.
«Ti ho detto, quell’articolo uscito sul Corriere della sera, non l’ho ben capito».
Dice che sei un cattolico, ma io ti vedo poco come cattolico.
«No, no. Lo sono».
Sei dentro il cristianesimo.
«Sono cattolico apostolico romano».
Non te l’ho mai sentito dire in modo così netto.
«Per me il cristianesimo è il cattolicesimo romano».
Il cristianesimo è molto di più.
«Ma sono nato qui. Fossi nato altrove sarei probabilmente un’altra cosa».
La Chiesa è tutt’altro che salda.
«Principi e la gerarchia non mi interessano».
E cosa ti interessa?
«Vivere la mia condizione periferica».
Di Ratzinger che cosa pensi?
«Mi pare sia morto».
Sì ma che giudizio ne dai?
«Negativo. La sua rinuncia, per quel che si è scritto, è stato un gesto bello. Ma troppa teologia impositiva».
Faceva il suo mestiere.
«Fin dall’inizio mi è parso respingente».
E di Papa Francesco cosa dici?
«Una grande figura. È la sola che mi interessa. So che ha letto alcuni miei libri. Prima della pandemia ci sentimmo telefonicamente».
Cosa vi diceste?
«Non lo ricordo».
Posso dirtelo io. Gli era piaciuto il tuo “Essere e dintorni”.
«Un libro che non chiude la mia opera, la lascia aperta».
L’opera aperta mi fa pensare al tuo amico Umberto Eco.
«Come me veniva dal mondo cattolico».
Vi ha condizionati questa educazione?
«Penso di sì. Un’educazione è una forma di disciplina. Ne restano tracce difficilmente cancellabili. Si sarebbe laureato su San Tommaso o avrebbe scritto Il nome della rosa senza quella educazione?».
Quanto a te?
«Ho sostenuto un cristianesimo senza verità».
Un cristianesimo debole, intendi dire?
«Debole, certo. Al punto che dovendo scegliere tra Gesù e la verità sceglierei lui. Era una strepitosa battuta di Dostoevskij».
Ma non si dice che Gesù sia la verità?
«Certo, ma quale? Non la verità che abbiamo ereditato dalla tradizione filosofica. Gesù ci ha liberati da quella verità. Ci ha chiesto di aderire al suo messaggio. Che è anche un messaggio profondamente politico».
Hai scritto molto di politica.
«È così».
Così come?
«La mia ermeneutica - il modo di interpretare i testi, gli eventi, la vita - si serviva dello sguardo politico. Non puoi limitarti a interpretare il mondo, devi provare a cambiarlo».
Pensi di esserci riuscito?
«Ho i miei dubbi. Anzi la certezza di avere fallito».
E’ il destino degli intellettuali, dei filosofi. Da Platone in poi. Vogliono dare la linea. «Ma non volevo servire i politici. Che sono per lo più penosi. Volevo muovermi nell’ordine di un mondo fatto in parte di esclusi».
Segui ancora la politica?
«Guardo i telegiornali. La politica non mi interessa più. Non saprei da che parte collocarmi. Sapevo stare dal lato dei più deboli. Ma chi sono i deboli oggi?».
Beh, sfruttati, emarginati, poveri non mancano, il discorso sulle disuguaglianze è più che mai attuale.
«Si sono riempite biblioteche di testi, io stesso vi ho contribuito. Ho spinto perché la sinistra, oltre che ai vecchi diritti pensasse anche ai nuovi. È una sinistra senza contenuti. Dovrebbe occuparsi degli ultimi».
Gli ultimi del messaggio evangelico? «Chi se no? ».
De André, in una canzone, scritta con De Gregori, parlava di un francescanesimo a puntate.
«Che vuol dire?».
Una carità automatica, seriale, esibita, con il tornaconto.
«Va bene, sono contro la carità pelosa».
A favore di cosa?
«Dei diritti, di tutti i diritti. Ricordo che contro l’inquinamento acustico nelle città, anni fa proposi alla sinistra di farsi sostenitrice del diritto del silenzio».
Forse c’è anche molto rumore mediatico.
«Assordante, non c’è dubbio».
Tu come lo hai vissuto, come lo vivi?
«Con fastidio. Si sono dette troppe cose. E il processo che mi ha riguardato è sembrata una cosa arbitraria».
C’era chi temeva per il tuo patrimonio.
«Dei miei soldi faccio quello che voglio. Si sono create troppe aspettative attorno a me. Non è giusto finire sui giornali per fatti che riguardano la mia vita privata».
Ti ha tolto serenità?
«Un po’ sì, ma neanche tanto. Vorrei essere più autonomo, più libero. Ma sono in queste condizioni di semi immobilità. Ho bisogno di aiuto. E Simone svolge il compito egregiamente».
È qualcosa di più di un assistente?
«Lo considero il mio compagno».
Simone mi ha detto che il tuo Parkinson è una balla. Un’invenzione.
«Ti ha detto questo? Non lo so. So che mi muovo a fatica e che debbo usare la carrozzina per spostarmi».
Ha aggiunto che se mai ci sia stato è regredito.
«Forse un po’ è regredito, chi lo sa».
Sono anche regredite le polemiche sulla tua filosofia.
«Non so se considerarlo un bene, Mi divertivano quelle accese discussioni. Credo di aver rotto le scatole a tanti conclamati filosofi».
Ormai sei considerato quasi un classico.
«Toglierei il quasi. Lo sono. È il solo diritto di cittadinanza che mi riconosco».
Le polemiche sul postmoderno e il pensiero debole sono ormai tramontate.
«Restano i libri, i miei, quelli di Rorty e di Lyotard».
A quale dei tuoi scritti ti senti più legato?
«Ai primi, in particolare a Il soggetto e la maschera. E’ quello in cui mi riconosco. Il più organico nella visione».
Uscì a metà anni Settanta. Il pamplet sul Pensiero debole, scritto con Pier Aldo Rovatti, nel 1983.
«I detrattori pensavano che debole volesse dire arrendevole, superficiale, stolto. Pensavano che la nostra filosofia fosse adatta ai gagà e ai bellimbusti».
E invece?
«Fu un modo per togliere il peso opprimente ai concetti, dar loro quella leggerezza necessaria dopo la deflagrazione concettuale della metafisica. Quella roba lì, che da Platone in poi era stata predicata, non funzionava più».
Ricordi il tuo esordio in pubblico?
«Credo di averne avuti più d’uno».
Mi riferisco a te poco più che venticinquenne mentre tieni una lezione all’università di Torino.
«Sinceramente non ricordo, dammi qualche indizio».
Era il novembre del 1960 e tu parlavi per la prima volta davanti a una schiera di autorevoli professori torinesi.
«Chi c’era?».
Tra gli altri c’erano Guzzo, Abbagnano, Chiodi, Bobbio e il tuo maestro Pareyson.
«Ero fresco della lettura dei seminari di Heidegger su Nietzsche che erano usciti quell’anno. Allora ero un dirigente dell’Azione cattolica e parlare di Nietzsche e Heidegger poteva sembrare una stravaganza».
Quale dei due è stato più importante per te?
«Oggi ti risponderei Heidegger. Nietzsche ha svolto il ruolo di accompagnatore. Ha funzionato da melodia».
Come vivi questa fase finale?
«Provo a non pensarci, le conseguenze sono pesanti».
Hai fatto testamento biologico?
«No c’ho pensato. Ne dedurrai che sono un ottimista».
E lo sei?
«Lo ero, qualcosa è rimasto di quell’ottimismo».
Forse la gentilezza e il saper accogliere gli altri.
«La chiamerei predisposizione cristiana».
Com’è una tua giornata?
«Mi alzo tardi, faccio fisioterapia, la colazione, leggo i giornali e poi l’attesa del pranzo. Guardo le notizie in televisione leggo qualche libro. Sono molto noioso».
Che libri leggi?
«Narrativa poliziesca, non vado molto più in là».
Ti manca il non poter scrivere come vorresti?
«Moltissimo. Avrei voglia di scrivere, di continuare a lavorare alle mie cose. Ma non ce la faccio».
Ti rassegni?
«A volte mi dispero, ma so che è inutile. E mi rassegno».
Oltre alla scrittura cos’altro ti manca?
«I compagni che non ci sono più, i miei».
Intendi i tuoi genitori?
«Mio padre praticamente non l’ho conosciuto. Mi manca mia madre. Una figura importante per me».
Una volta mi raccontasti del suo lavoro da sarta e che ti insegnò a cucire.
«È vero. Ero un bambino cresciuto con le conseguenze della guerra. La fame e le bombe. Un misto di paura e precarietà. L’aiutavo a confezionare abiti».
Hai detto all’inizio di questo nostro incontro che si torna quasi sempre bambini.
«La magia è avere dentro di sé il bambino che eri».
Pensi di averlo conservato in te?
«Penso che quello che sono diventato lo devo a quello che fui. E se lo so è perché è ancora dentro di me».
NOTA: MESSAGGIO EVANGELICO E INFANZIA: COME SI RI-NASCE?! Se si dimentica l’essere stati bambini ("ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi") e di essere stati al-levati, dell’essere ri-nato grazie a tutta la comunità, come è più possibile vivere?!
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LE "TRE #METAMORFOSI" DELLO #ZARATHUSTRA DI #NIETZSCHE E IL #SAPEREAUDE! DELL’ILLUMINISMO DI #KANT. Appunti... [...] *
PSICOLOGIA E FILOSOFIA. Carl Gustav #Jung ha fatto un brillantissimo lavoro su «Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39», ma alla fine la sua stessa ombra gli ha impedito di giungere a fondo e a capo dell’enigma di #Edipo, della domanda (la "question") di #Amleto, della "#visione e l’#enigma di Zarathustra e, infine, di accogliere il #bambino nato dalla metamorfosi del cammello e del leone (cfr. Federico La Sala, "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991).
ANTROPOLOGIA E RINASCIMENTO, OGGI (26 FEBBRAIO 2023):
ESSERE, O NON ESSERE? LA DOMANDA DI AMLETO E "LA LEZIONE DI "ABO" (Achille Bonito Oliva).
Una nota a margine ... *
"L’ARTE DA SOLA NON ESISTE. Senza un sistema composto da media, collezionisti, mercato, musei, pubblico, le opere in sé non avrebbero valore". Con questo titolo, di forte tonalità hegeliana e marxista, Achille Bonito Oliva, sul "Robinson" ("la Repubblica" del 18 febbraio 2023), sollecita in qualche modo lodevolmente a ripensare "tutto".
SOCIALITÀ CRITICA. A onore di Bonito Oliva, per non lasciar cadere l’ago nel pagliaio e rischiare di non ritrovarlo, tenendo presente che né la "religione" né la "filosofia", come l’arte, esiste da sola, forse, è opportuno allargare l’area della coscienza del tempo presente e riprendere a cercare di capire meglio la situazione storica attuale, a tutti i livelli.
NAPOLI E "LA MADONNA DEL PESCE" DI RAFFAELLO. Considerato che «il Pesce puzza dalla testa» (soprattutto se si continua a confondere inconsapevolmente ICTUS con IXTHUS, "I.X.TH.U.S."), a mio parere, solleciterei una urgentissima riflessione antropologica sulla millenaria e moribonda tradizione del “Pensare l’artista come un demiurgo, produttore isolato d’immagini"!
COSMOTEANDRIA. Continuare così, come precisa Achille Bonito Oliva, "vuol dire non riuscire a comprendere l’esistenza di una condizione filosofica dell’arte e dell’artista" e, al di là delle allusioni e delle illusioni dello stesso "ABO" (relative alla "teoria della catastrofe" e allo "spostamento che raccoglie l’esigenza di una struttura edipica uccidendo il padre, ovvero il movimento precedente"), vuol dire interrogarsi radicalmente sulla figura dell’artista e sull’arte stessa, in quanto "produzione linguistica, e dunque, operatività e pratica culturale", al di fuori della logica cosmoteandrica del mondo attuale, che anche il sistema dell’arte ha contribuito a costruire.
NOTA: FILOLOGIA E ITTICA. "Ichthỳs. Antico simbolo cristiano di Cristo; le lettere greche (ΙΧΘΥΣ) che compongono la parola, formano l’acrostico ᾿Ιησοὸς Χριστὸς Θεοῦ υἱὸς Σωτήρ «Gesù Cristo, figlio di Dio, Salvatore». (Treccani).
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Eleusis2023 #Roma2024
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POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA... *
Sul mentitore che non sa di mentire
di Giorgio Agamben, 22 febbraio 2023
«Stalin e i suoi sottoposti mentono sempre, in ogni istante, in ogni circostanza; e poiché mentono sempre, non sanno nemmeno più di mentire. E quando ognuno mente, nessuno più mente mentendo». Vorrei riflettere su questa frase di Boris Souvarine del suo libro su Stalin, perché ci riguarda da vicino. ------
Menzogne da parte dei governi e dei loro media e collaboratori ci sono sempre state, ma decisiva mi pare la considerazione che Souvarine aggiunge alla sua diagnosi: la menzogna può raggiungere un grado così estremo, che i mentitori non sanno più di mentire e, pur continuando a mentire, nessuno più mente.
È questo che abbiamo vissuto e stiamo ancora vivendo negli ultimi tre anni ed è questo che rende la situazione presente in Italia non soltanto grave e oppressiva, ma tale che è possibile che sfugga a ogni controllo e finisca in un disastro senza precedenti. Nulla è infatti più pericoloso di un mentitore che non sa di mentire, perché le sue azioni perdono ogni contatto con la realtà. Verità e menzogna, buona fede e mala fede si confondono nella sua mente fino a diventare indiscernibili.
Così negli anni del Covid, i ministri, i medici e gli esperti che mentivano hanno finito col credere a tal punto alle loro menzogne che, smarrendo ogni coscienza della verità, hanno potuto calpestare senza alcuno scrupolo i principi più elementari dell’umanità. Una società che perde ogni coscienza della soglia che separa il vero dal falso diventa letteralmente capace di tutto, anche di distruggersi. È quanto sta avvenendo per la guerra in Ucraina, rispetto alla quale vengono diffuse soltanto notizie false. Il rischio è qui che governi che mentono non sapendo più di mentire possono scatenare una guerra atomica che credevano di non volere, ma che le loro stesse menzogne li obbligano ora a credere di volere.
22 febbraio 2023
Giorgio Agamben
* STORIA D’ITALIA (1994-2010): IL GIOCO ISTITUZIONALIZZATO DEL "MENTITORE" DI UN PARTITO E IL SILENZIO DEL COLLE, DELLA CORTE COSTITUZIONALE, E DEGLI INTELLETTUALI. Un Paese sull’orlo del Baratro...
CHE LE ISTITUZIONI DEL NOSTRO PAESE ABBIANO PERMESSO UN PARTITO CON IL NOME DI "FORZA ITALIA" PRIMA, E CON IL "POPOLO DELLA LIBERTA’" POI, SIGNIFICA CHE E’ GIA MORTO!!!
Un Paese sull’orlo del Baratro - di Nadia Urbinati
Federico La Sala
EARTHRISE. IL SORGERE DELLA TERRA: "FILOSOFIA OLTRE I CONFINI" E OLTRE LE "RECINZIONI".
UNA "TRACCIA" DI PENSIERI PER IL CONGRESSO MONDIALE DI FILOSOFIA (ROMA, 2024). *
A) STORIA, PREISTORIA, E STORIOGRAFIA. "Il primo che, recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassini, quante miserie ed orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: Guardatevi dall’ascoltare quest’impostore; siete perduti, se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno." (J.-J. Rousseau, "Discorso sull’origine della diseguaglianza", 1755).
B) ERACLITO, MESSAGGIO EVANGELICO, E QUESTIONE ANTROPOLOGICA:"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS":
Freud e "L’infelicità nella civiltà ("Das Ungluck in der Kultur"):"[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà ["Das Unbehagen in der Kultur"], 1929).
C) UNA "CADUTA" BIBLICA: CAINO E LE RECINZIONI (MATERIALI E SPIRITUALI). I due "pensieri" (di Rousseau e Freud), coniugati insieme, portano a una sola e chiara conclusione: "Il capitalismo è un sistema di dipendenze: dall’interno verso l’esterno, dall’esterno verso l’interno, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto. Tutto è dipendente, tutto è concatenato. Il capitalismo è uno stato del mondo e dell’anima". (Franz Kafka, 1920).
D) EARTHRISE (ELEUSIS2023): CRISTIANESIMO, PSICOANALISI, E PSICHIATRIA. COME DA CONSAPEVOLEZZA E INDICAZIONE DI FRANCA ONGARO BASAGLIA, ("COSI’ PARLO’ EDIPO A CUERNAVACA", «pM» - "Panorama mese", Arnoldo Mondadori, novembre 1982), NON E’ MAI TROPPO TARDI PER PORTARSI FUORI DALLA "COSMOTEANDRIA" PLATONICA E PAOLINA, A TUTTI I LIVELLI, E AMMIRARE LA BELLEZZA DELLA CASA COMUNE DELL’INTERA UMANITA’, IL PIANETA TERRA.
PSICOANALISI, FILOLOGIA, E "DIVINA COMMEDIA": INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899) E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (SIGMUND FREUD, 1937).
CHIARISSIMA International Psychoanalytical Association (IPA), SULLE ALI DEL VENTO, UNA BRILLANTE "CONSONANZA" PRIMAVERILE CON LA LONDRA DI MARESFIELD ("Freud Museum London") E DINTORNI, IL SUO POST SU BELLA FREUD.
DIVINA COMMEDIA. Avendo richiamato da poco alla memoria il nome della madre di Dante Alighieri - Gabriella (Monna Bella) degli Abati, meglio nota come Donna Bella degli Abati - e, da tempo (almeno dal 2007), fatta l’ipotesi che la ragione per cui la figlia di Dante, Maria Antonia, abbia scelto il nome di Beatrice quando entrò in convento e divenne suora, stia proprio nel fatto che Bella era il nome della nonna, quella donna 🌞"bella e beata"🌞(Inf. II, 54), che sollecita Virgilio ad aiutare Dante, oggi☀️(15.02.2023), ho trovato molto significativa la coincidenza con il fatto che la pronipote di Freud sia (e per davvero), già solo per il #nome e #cognome, legata alla figura di Freud e, al contempo, di Virgilio e Dante. 🌞🙏
N.B. - Dopo i maestri del sospetto (Marx Nietzsche e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare all’altezza dI DANTE2021 che il Sommo Poeta tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice?
"L’Interpretazione dei Sogni" (1899) ha il suo legame con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante.
EUROPA, FILOSOFIA, ED ELEUSIS 2023:
METAPHYSICS ANTHROPOLOGY PSYCHOANALYS: APRIRE GLI OCCHI SUL SOCRATICO AMORE "CONVIVIALE" (EROS = CUPIDO), SUL DESIDERIO CIECO E VIOLENTO, E PORTARSI CON FREUD, FUORI DAL DISAGIO NELLA CIVILTA’, OLTRE LO STADIO DELLO SPECCHIO DEL TRAGICO PLATONISMO E PAOLINISMO ...
"SAPERE AUDE!". RICORDANDO, CON IL VENOSINO ORAZIO, LE INDICAZIONI DI KANT sul "coraggio di servirsi della propria intelligenza" e sulla necessità di reinterrogarsi sull’intero sapere, ripartendo dalla antropologia, dalla questione antropologica, forse, è il tempo opportuno uscire dal profondissimo letargo (Dante contava XXV secoli di sonno dogmatico) e re-interrogarsi non solo su "come nascono i sogni" e su "come nascono le idee", ma anche, e innanzitutto, come nascono i bambini, e soprattutto non continuare a ripetere vecchi e tragici ritornelli sull’amore di Platone: è una questione di filologia e di teologia-politica (Lorenzo Valla, "La falsa Donazione di Costantino", 1440).
"IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI" (NIETZSCHE). LA ’RISPOSTA’ DI DIOTIMA A SOCRATE: "Caro Socrate, tu sei come Eros - figlio di Ingegno (a sua voìta figlio di Metis. I’intelligenza astuta) e di Povertà - un perfetto #filosofo, perché non sei sapiente come gli dèi né del tutto ignorante come i comuni mortali: sei solo consapevole della tua ignoranza, ma tu sei cieco, cieco e brutto come un ... ciclope. Tu sai che non sai amare e vai in cerca di chi sa amare. Ma tu, caro Socrate. non capisci proprio nulla, né degli uornini, né delle donne. e neppure degli dei: tu sei solo cupìdo (un cieco saettante, avido e vioÌento). Come la rìsposta della Pizia, così la risposta di Diotima: eglì non capisce e va avanti ... a costringere chi ’solo il dio sa’ deve partorire. [...]" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Roma 1991, p. 184).
CADUTA NELLA CAVERNA PLATONICA E COSMOTEANDRIA. Se non ci si sveglia e si continua a contrabbandare l’andrologia tragica di Socrate e Platone per antropologia e, dall’alto della "dotta ignoranza" (Niccolò Cusano,1440) dell’anatomia e della medicina, si spaccia #Vir per #Homo, dove si pensa di andare, se non all’inferno?!
ANATOMIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA. Se si vuole ricominciare umana-mente e riprendere il cammino della rivoluzione copernicana e scientifica, bisogna ripartire quantomeno dalla sapienza di Michelangelo (riprendere il cammIno dei profeti e delle sibille del #TondoDoni, rilanciato alla grande nella narrazione della Volta della Cappella Sistina) e, poi, proseguire seguendo le lezioni di anatomia e di medicina di Realdo Colombo e, infine, leggendo il capitolo 15 del Libro III dell’ Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della Donna” (p. 91).
FILOLOGIA FILOSOFIA STORIA E DIVINA COMMEDIA (DANTE 2021):
QUANTE "NUVOLE" NEL CIELO DELLA "REPUBBLICA"!
UN LETARGO TEOLOGICO-POLITICO ANTROPOLOGICO E COSTITUZIONALE PROFONDO ha mandato in collasso tutte le istituzioni culturali e politiche di tutte le #Città.
Nelle #Università e nelle #Accademie laiche e devote si insegna ancora a credere che #Aristofane (https://it.wikipedia.org/wiki/Aristofane ) scherzasse su #Socrate! #Nietzsche ("#Crepuscolo degli #idoli") aveva ragione: la #filosofia del suo allievo #Platone contiene il segreto sul come rendere forte il discorso debole e debole il discorso forte, e sul come realizzare il #sogno del #sofista #re: egli ha truccato le "regole del gioco" dell’#Occidente e ha insegnato a una "parte" della intera umanità a come mettersi al di sopra di tutte le "parti", a un "partito" come mettersi al di sopra di tutti i "partiti", e a come imporre le proprie "olimpiche" demiurgiche "#Leggi" su tutta la #Fattoria! Un colpodistato più che millenario - al capolinea... #Giornatadellamemoria, #27gennaio 2023.
COSMOTEANDRIA (ATEA E DEVOTA), QUESTIONE ANTROPOLOGICA, E FILOLOGIA.
IL MACROANTROPO. "Alla chiusa della mia esposizione possono trovare il loro posto alcune considerazioni sulla mia #filosofia stessa. [...] che l’interno essere di tutte le cose sia assolutamente uno e medesimo, lo aveva già visto e compreso il mio tempo, dopo che gli elatici, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza l’avevano estesamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina. Ma che cosa sia quest’Uno e come esso giunga a rappresentarsi come Molto, è un problema, di cui la soluzione si trova per la prima volta presso di me. - Parimenti si era, fin dai tempi più antichi, riconosciuto l’uomo come microcosmo.
Io ho rovesciato il principio e dimostrato il mondo come #macroantropo, in quanto volontà e rappresentazione esauriscono l’essere dell’uno e dell’altro. Evidentemente però è più giusto, imparare a comprendere il mondo dall’uomo, che l’uomo dal mondo, perché si ha da spiegare ciò che è dato mediatamente ossia il dato dell’intuizione esterna, da quel che è dato immediatamente, ossia dal lato dell’autocoscienza, non viceversa."
(ARTHUR SCHOPENHAUER, Supplementi al "Mondo", II, Editori Laterza, Bari 1986).
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COSMOLOGIA E #ANDROCENTRISMO: "CONOSCENZA E RESPONSABILITÀ. [...] Il contrasto forte fra il progresso scientifico e l’arretratezza di alcune scelte di gestione e sfruttamento dell’#ambiente ci racconta di quanto sia difficile per alcuni di noi fare tesoro della conoscenza ed assumere responsabilità rispetto a se stessi e al mondo esterno. Si pensi ancora ad esempio a quanto #oggi si sa del mondo vegetale che possiede una sua “intelligenza” (#StefanoMancuso e #AlessandraViola, Verdebrillante - Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Giunti Editore, Firenze 2013). Questa intelligenza viene ignorata dai più, anche grazie a #Linneo, il padre della nomenclatura (ancora in auge nei libri scolastici) per la classificazione scientifica degli organismi viventi. Dal diciottesimo secolo, i vegetali sono posti sul gradino più basso in una #scala “naturale” degli esseri viventi. Essi, in realtà, non sono solo una risorsa del pianeta che l’uomo può utilizzare a suo piacimento per motivi estetici, alimentari o terapeutici; hanno una vita autonoma, ricchissima e degna di rispetto, e spesso hanno trovato, attraverso geniali forme di adattamento ed anche di comunicazione, innumerevoli strategie di convivenza, fra loro e con gli altri esseri viventi. [...]" (cfr. Rosanna Bologna, Insula Europea, 18 gennaio 2023
STORIA, STORIOGRAFIA, E FILOSOFIA:
PONZIOPILATO, CHRISTINEDEPIZAN, E LA FILOLOGIA AL SERVIZIO DELLA COSMOTEANDRIA TERRESTRE.
Alcune note in #memoria di #Franca Ongaro Basaglia. *
A) LA DIGNITÀ DELL’UOMO: «ECCE HOMO». PONZIO PILATO «disse loro: "Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa". Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato disse loro: "«Ecco l’uomo» (gr. ««ἰδοὺ ὁ ἄνθρωπος - idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)". Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro inservienti gridarono: "Crocifiggi! Crocifiggi!" Disse loro Pilato: "Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui colpa". Gli risposero gli Ebrei: "Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio"» (Gv. 19, 4-7).
B) UNA QUESTIONE DI #LANA "CAPRINA" (NON DI "#AGNELLO", NON DI "#ARIETE"). ALLA LUCE DELL’ATTENZIONE ALLE PAROLE DI PONZIO PILATO, si comprende meglio anche il significato delle parole di CHRISTINE DE PIZAN, l’autrice della “Città delle dame”: «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “#metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “#metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “#HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, Dalla parte del torto, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
C) MATEMATICA E #ANTROPOLOGIA: "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia, #Donna, in Enciclopedia, 5, Torino, Einaudi editore, 1978, p. 89).
N. B. - RENE’ GIRARD , L’#AGNELLO DI #DIO, E L’#INTERPRETAZIONEDEISOGNI (S. #FREUD, 1899): la"Menzogna romantica e verità romanzesca" (1961), il "Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo" (1978), e "Il capro espiatorio" ( "Le bouc émissaire", 1982).
Parola di Girard: "Qualche lettore potrà obiettare che il Nuovo Testamento non ricorre mai all’espressione «capro espiatorio» per indicare Gesù come la vittima innocente di una frenesia mimetica collettiva; questo è vero, ma ciò avviene solo perché le Scritture cristiane dispongono di un’espressione equivalente, e anzi superiore a «capro espiatorio», vale a dire #agnello di #Dio. Questa immagine elimina gli attributi negativi e sgradevoli del capro, e pertanto corrisponde meglio all’idea della vittima innocente ingiustamente sacrificata" (cfr. René Girard, "Vedo cadere Satana come la folgore". Adelphi, Milano 2001, p. 203).
Girard accoglie la tradizionale interpretazione del messaggio evangelico e non tiene conto né di Marx, né di Nietzsche, né di Freud. Sulla lunga durata della tradizione #critica dimentica quanto ha scritto Freud nel #Disagiodellaciviltà (1929) sulla #fondazione del cattolicesimo da parte di san Paolo e, infine, fa dell’agnello un bel #caproespiatorio!
*
ANTROPOLOGIA ("UOMO")
E
"DISAGIO DELLACIVILTÀ" (S. FREUD, 1929):
The Stages of Man (1510), by Charles de Bouelles (c. 1470-1553).
USCIRE DAL LABIRINTO O DALLA CAVERNA,
E
NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI
“DIO”
CONCEPITO
SECONDO IL TRAGICO ALGORITMO DELL’
ANDROCENTRISMO
COME “UOMO SUPREMO”, "SUPERUOMO"
ANTROPOLOGIA, STORIA, E FILOSOFIA: IL PAOLINISMO (ATEO E DEVOTO).
Alcuni appunti per riflettere sull’attuale presente storico. In memoria di Paolo di Tarso, di Antonio Gramsci, e di Ernesto De Martino ...
A) AL DI LA’ DELLA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
B) MARX e LENIN, CRISTO e SAN PAOLO. A. GRAMSCI, "POSIZIONE DEL PROBLEMA: [...] Marx inizia intellettualmente un’età storica che durerà probabilmente dei secoli, cioè fino alla sparizione della Società politica e all’avvento della Società regolata. Solo allora la sua concezione del mondo sarà superata (concezione della necessità, 〈superata〉 da concezione della libertà). Fare un parallelo tra Marx e Ilici per giungere a una gerarchia è stolto e ozioso: esprimono due fasi: scienza-azione, che 〈sono〉 omogenee ed eterogenee nello stesso tempo. Così, storicamente, sarebbe assurdo un parallelo tra Cristo e S. Paolo: Cristo-Weltanschauung, S. Paolo organizzazione, azione, espansione della Weltanschauung: essi sono ambedue necessarii nella stessa misura e però sono della stessa statura storica. Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta (solo la credenza nella divinità di Cristo ha impedito un caso di questo genere, ma questa credenza è anch’essa solo un elemento storico, non teorico)." (A. Gramsci, "Quaderno 7 (VII), § 33).
C) IL PAOLINISMO ANTROPOLOGICO. ERNESTO DE MARTINO: “Essere comunista vuol dire essere umano, rinnovare in termini moderni l’esperienza paolina: “sono diventato tutto con tutti per tutti fare salvi”. Essere comunista vuol dire volgersi al mondo dei poveri e dei semplici, e quella parte dell’umanità che gli uomini cercano di mantenere fuori della storia e che vive orfana nella nostalgia di una cultura che sta come un al di là vago e misterioso. Essere comunista significa sentire la vergogna, anzi la colpa, di tutto lo spirito che potrebbe essere e che non è, di tutta la bellezza deviata, di tutta la verità rimasta a bella strada, di tutta la vita morale soffocata, di tutta l’umanità e la cultura insidiate a cagione del modo di esistere e della società” (Cfr. "Compagni e amici Lettere di Ernesto de Martino e Pietro Secchia", a c. di Riccardo Di Donato - “Un contributo su de Martino politico” - La Nuova Italia, 1993, p. II).
D) "CRITICA DELLA RAGION PURA" E ILLUMINISMO (1784): "IN OGNI MODO OCCORRE STUDIARE KANT E RIVEDERE I SUOI CONCETTI ESATTAMENTE" (Antonio Gramsci, "Quaderni del carcere", 10 (XXXIII), § 40).
FILOLOGIA E STORIOGRAFIA DELLA STORIA D’ITALIA E "LA GENTE DALLA DOPPIA TESTA" (PARMENIDE).
DI COSA PARLANO GLI STORICI E LE STORICHE DELL’ITALIA QUANDO PARLANO E SCRIVONO DI STORIA D’ITALIA?
Parlano di "Dio" o di Dio, di "Patria" o di Patria, di "Famiglia" o di Famiglia? Siamo fratelli tutti, ma di quale famiglia, di quale patria e di quale Dio - quello di Italia o di "Italia"?
Archeologia, Antropologia, Giustizia, e Costituzione: "Homo pontifex" (MichelSerres). Per uscire dall’orizzonte del mentitore, forse, è opportuno ritornare a Elea e rivisitare la città di Parmenide e Zenone: la cosiddetta "Porta Rosa" non è affatto una "porta", ma è un viadotto, un ponte...
FILOLOGIA E COSTITUZIONE:
RICORDANDO IL "SAUSSURE" DI TULLIO DE MAURO, UN URLO E UN AUGURIO DI "LUNGA VITA ALL’ITALIA".
Una nota di commento su un "appunto" di Franco Lo Piparo ... *
STORIA LINGUISTICA DELL’ITALIA UNITA (Tullio De Mauro, 1963). "Lingua, intellettuali ed egemonia in Gramsci" (Franco Lo Piparo, 1979): "A scanso di equivoci, io non ho votato nessuno dei partiti che hanno vinto le elezioni" (Franco Lo Piparo, "Fascismo: parola da usare con misura, 16 ottobre 2022): forza_Italia! "Lunga vita all’Italia": "Restituitemi il mio urlo" (Huang Jianxiang, "La Gazzetta dello Sport" del 17 luglio 2006:).
"Checché ne dica Umberto Eco" (F. Lo Piparo, cit.), in onore della vertiginosa saggezza umana e politica della senatrice Liliana Segre, forse, è meglio ricominciare a riflettere da capo, proprio dal "CAPO" (questo il titolo di un articolo di Antonio Gramsci , del 1° marzo1924), sul "principio del Fuhrer" (Führerprinzip), e portare avanti i lavori sulla "storia linguistica dell’Italia unita". Da ricordare, inoltre, che il lavoro sulla "Psicologia delle masse e analisi dell’io" di Sigmund Freud è del 1921.
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UNA QUESTIONE DI PRINCIPIO (LOGOS): IL PROBLEMA JEAN-JACQUES ROUSSEAU (JEAN STAROBINSKI) *
[Intervista]
GHISLAIN WATERLOT.
Rousseau fra Cristo e i Lumi
di Daniele Zappalà (Avvenire, martedì 31 gennaio 2012)
«Jean-Jacques Rousseau resta attuale perché ci ricorda che la dimensione religiosa dell’esistenza è propriamente umana. Non si può accantonarla così facilmente. E quando lo si fa, si compie un gesto violentissimo e dogmatico». Parola del noto studioso francese Ghislain Waterlot, che dal proprio osservatorio privilegiato svizzero all’Università di Ginevra ha scandagliato in profondità l’opera affascinante e controversa del celebre filosofo settecentesco. Moltissimo è stato scritto sul Rousseau padre degli ideali di uguaglianza e tolleranza, riconosciuto non a caso dopo la morte (2 luglio 1778) come uno dei maggiori ispiratori della Rivoluzione francese. Ma l’autentica novità delle commemorazioni di quest’anno, per il tricentenario della nascita (a Ginevra, il 28 giugno 1712), pare l’intensa riscoperta della riflessione religiosa del filosofo. «Essa non parte da Dio, ma dall’uomo, nel quale Rousseau scorge una dimensione d’attesa. Ciò interroga ancora perfettamente la nostra sensibilità», s’infervora Waterlot, che ha già pubblicato fra l’altro in Francia l’importante saggio Rousseau. Religion et politique (Presses Universitaires de France) e darà alle stampe quest’anno una nuova monografia sul pensiero religioso del filosofo.
«C’è innanzitutto una ragione politica. Oggi, la laicità torna in discussione e Rousseau è fra i pensatori che hanno giudicato necessaria una religione civile per lo Stato. Non si riferisce alle religioni storiche esistenti, verso le quali resta diffidente o critico. Ma pensa ad una religione per la polis, una religione in cui è presente ciò che egli chiama la religione naturale, a cui aggiunge l’idea di valorizzare la patria. Egli riconosce un Dio per tutti gli uomini che chiede giustizia e pace, ma aggiunge poi che le leggi della comunità politica debbono ritenersi sante. La religione civile rafforza la società, ne preserva l’unità, ma evitando un’eccessiva aggressività verso le nazioni vicine. Al contempo, nella sua concezione della religione naturale, egli si distingue per la grande attenzione riservata a Gesù. Rousseau è un cristiano molto particolare, che non crede nell’Incarnazione e nella Resurrezione. Ma che non cessa di ripetere: “sono cristiano, un cristiano autentico e sincero”».
«Gesù è al di sopra di tutti gli uomini mai esistiti. Confrontando Gesù e Socrate, egli scrive nell’Emilio: “Se la vita e la morte di Socrate sono di un saggio, la vita e la morte di Gesù sono di un Dio”. Egli non dice “di Dio”, ma “di un Dio”. Altri hanno spesso considerato Gesù e Socrate sullo stesso piano, ma non Rousseau. Gesù corrisponde a un’umanità non corrotta dalla realtà sociale e dalla storia umana. Gesù è l’uomo perfetto, per questo particolarmente amato da Dio».
«La percezione di Dio è legata a un “istinto divino” che si trova in ciascuno di noi. È un aspetto essenziale. Sentiamo Dio. In proposito, non si deve sottovalutare che Rousseau ha sempre preso cura di una certa vita spirituale, come mostra in particolare Giulia o la nuova Eloisa. Il personaggio di Giulia prova il bisogno di rivolgersi al Grande Essere. In lei, Rousseau valorizza la preghiera, ma quest’ultima non deve mai divorare la vita. La vita deve restare in primo piano, anche se la preghiera permette di porre l’individuo davanti al Creatore, facendogli ritrovare la pace».
«Il Vangelo occupa un posto speciale. Egli lo legge e rilegge. È la guida per chi vuol vivere secondo giustizia e come Dio ha voluto. Egli scrive che è il più bel libro che abbia mai letto. Che se dovesse averne uno solo, sarebbe il prescelto. Ma aggiunge che il Vangelo resta un libro e che non può sostituire la voce della coscienza. È una visione particolare. Inoltre, Rousseau è molto critico verso i miracoli, sostenendo che Gesù non volle farne e che furono i suoi interlocutori a vederne dappertutto. In questo, prende Pascal in contropiede, ritenendo che si può avere la fede solo togliendo i miracoli».
«Penso di sì. Del resto, talora lo confessa quasi. In certe lettere, scrive: “Nella nostra epoca, non c’è più un solo cristiano sulla terra”, probabilmente vedendosi un po’ come l’ultimo, come il vero discepolo di Cristo del tempo. Rousseau nasce nel protestantesimo, poi a 16 passa al cattolicesimo, a Torino. Quindi, nel 1754, torna a Ginevra e alla confessione riformata. Ma i pastori e la città di Ginevra lo respingono dopo la pubblicazione del Contratto sociale e dell’Emilio. Per Rousseau, Dio è creatore e occorre riconoscerlo come centrale, ma non è trinitario. Nella vita, l’essenziale è avere una buona condotta morale, mentre le condotte dogmatiche della Chiesa sono deboli. Egli si posiziona al di là delle confessioni».
«Egli rifiuta l’ateo, innanzitutto, considerandolo alla stregua di un indifferente. In fondo, per Rousseau, è ateo chi ragionando trova argomenti contro l’esistenza di Dio. Al riguardo, Rousseau non nega che tali argomenti esistano, accanto a quelli che tendono a provare l’esistenza di Dio. Ma in fondo, gli atei sono talmente assorbiti dai loro ragionamenti da soffocare la voce della coscienza. Vi è poi una seconda critica, più sociale. L’ateismo è una convinzione dei benestanti, di coloro che snobbano la miseria altrui. Essi dimenticano che il cristianesimo è innanzitutto attento a chi soffre, un punto che per Rousseau è fondamentale».
NOTA:
AL DI LÀ DELLA "DOTTA IGNORANZA": IL PROBLEMA DELLA CARITÀ ("CHARITAS").
Un problema di filologia ed eco-nomia (teologia e antropologia)!
Federico La Sala
“Capatrici di pace”
Un’analisi dei teologi Scarafoni e Rizzo: «Recuperare l’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo»
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo*
Sta per finire l’anno accademico e rimettendo in ordine la nostra biblioteca di casa, ci è capitato fra le mani il bel libro del 2017 «Le donne nel cantiere di San Pietro in Vaticano» curato da Assunta Di Sante e Simona Turriziani. Tratta delle artiste, artigiane e imprenditrici che lavorarono «all’ombra del Cupolone contribuendo ad accrescere la bellezza della Basilica Vaticana», svolgendo un ruolo importante nella Fabbrica di San Pietro.
Scrive Paola Torniai: «Nel 1673 Clemente X Altieri commissiona al mosaicista Orazio Manenti il restauro della Navicella, raffigurante Gesù che salva dalla tempesta la nave degli apostoli, realizzata da Giotto per il Cardinale Jacopo Stefaneschi, in occasione del primo giubileo indetto da Bonifacio VIII. Manenti deve risarcire l’opera, originariamente collocata nell’atrio della primitiva San Pietro e danneggiata durante i lavori di ampliamento sotto Paolo V Borghese. ... Manenti recupera ogni più minuta pietruccola, avvalendosi di maestranze femminili». Le «capatrici dell’immondezze de smalti». Esse a mani nude frugavano a terra tra i calcinacci per recuperare smalti vecchi che sarebbero stati rifusi in smalti nuovi. Lavoravano tra «la polvere che inaridisce la pelle e soffoca il respiro, il disagio di prostrarsi per ore alla ricerca di tessere musive, la difficoltà di scavare a mani nude, abrase e ferite, tra calcinacci e materiali ammassati. ... Le capatrici della Navicella ... sono state mani provvidenziali».
Questa storia suggestiva di donne, ci ha fatto riflettere sulle devastazioni che stiamo vivendo in questo momento, e che confermano i moniti di Papa Francesco che da tempo metteva in guardia contro i «venti di guerra». Anche la Chiesa di Cristo, specialmente nelle relazioni ecumeniche e nella riflessione teologica, ha subito forti scossoni come la Navicella di Giotto. Sono cadute tante tessere: fino a pochi mesi fa l’auspicio di molte chiese era che i cristiani tutti insieme fossero parte viva e coraggiosa della società civile, promotori di giustizia, di pace e misericordia per l’umanità. Quell’intreccio ecumenico di sguardi fraterni in Cristo sembra essere crollato in un attimo tra le macerie che le bombe e i missili producono nei territori di guerra.
C’è bisogno di «capatrici di pace». Un lavoro paziente di recupero, in mezzo a quelle rovine, che può essere fatto bene dalle donne, ancora troppo poche nei dialoghi e nelle trattative fra le parti, di fatto assenti ai tavoli dove si decide la guerra. La pace si costruisce recuperando proprio quegli intenti così belli ispirati dallo Spirito santo, come lo scintillio delle tessere musive «capate» che allude «allo splendore della sostanza divina e all’incorrotta chiesa primitiva».
Anche nella riflessione teologica è essenziale valorizzare il contributo delle donne. Abbiamo avuto modo di scrivere già da vari anni che è necessario sviluppare studi sugli «attributi di Dio», specialmente sull’onnipotenza divina, con una maggiore sensibilità nei confronti dei risvolti antropologici. «Lo sforzo della teologia attuale deve essere quello di vincere ogni riferimento individualistico ed egoistico nella presentazione di Dio di fronte alle creature, che possa giustificare una persistenza dell’egoismo e dell’individualismo nelle creature stesse». Dio non è potente al modo umano: «il concetto di potenza è ambiguo perché spesso ha un forte legame con l’egoismo». Nel Vangelo «l’onnipotente che opera con il suo braccio pieno di misericordia e bontà è contrapposto ai potenti, ai ricchi e ai superbi che opprimono i deboli, i poveri e gli umili».
Le bombe mettono in evidenza un Dio egoista e prepotente invocato dai duri di cuore, dai superegoisti privilegiati, per «occupare spazi» e legittimare «strutture di peccato» che fanno sembrare normale ed inevitabile il male inflitto agli ultimi e ai poveri. Disprezzano un Dio debole incapace di difendere le «vittime innocenti».
I teologi devono essere coraggiosi proprio per negare esplicitamente l’egoismo in Dio. «Dire che Dio è buono, benché sia tutt’altro che scontato, non è lo stesso che dire che Dio non è cattivo. Dire che Dio è amore, benché ripete il cuore stesso della rivelazione (cfr. 1Gv 4,8; Gv 3,16), non è lo stesso che negare in Dio l’egoismo». I battezzati che si consacrano a Dio e rinunciano al diavolo, in realtà «come un fiume carsico» nelle difficoltà e nelle prove o per giustificare interessi politici ed economici, sono tentati di affidarsi ad un Dio immaginato come un guerriero, che a suo piacimento riprende l’arco deposto nel cielo, quando ha stabilito l’alleanza della pace.
Se l’uomo non cambia idea su Dio è perché forse non vuole cambiare lui, rimanendo chiuso nel suo egoismo, che giustifica con il meccanismo di proiezione; un gioco sottile e menzognero (al quale si presta talvolta la teologia) di un uomo che sostituisce il Dio vero dell’amore e della libertà con il Dio della guerra. In tal modo rivela come il suo cuore sia chiuso in una autoreferenzialità così insuperabile da crearsi e raccontare per vero un Dio «a sua immagine».
* Don Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo insegnano insieme teologia in Italia e in Africa, ad Addis Abeba. Sono autori di libri e articoli di teologia.
KANT E LA DOMANDA ANTROPO-LOGICA: CHI SONO "IO"? *
La corona della pace
Dall’Antico Testamento ai nostri giorni
di Piero Stefani (Il Regno/Attualità, 6/2022, 15/03/2022)
Nel rito preconciliare della messa in latino, non di rado il Vangelo iniziava con questa formula: «In illo tempore Iesus dixit...». Anche ora, quando non si è nelle condizioni di riportare l’ambientazione precisa dell’episodio, si ricorre a: «In quel tempo Gesù disse...». È una clausola che riguarda il passato. Di contro, nei profeti d’Israele l’espressione «in quel giorno (ba-yom ha-hu)» si proietta verso l’avvenire (cf. Zc 14,20); lo stesso vale per «Ecco, verranno giorni» (Ger 31,31). Vi è però una formula ancor più radicale: «Alla fine dei giorni (be‘aharit ha-yamin)», ed è proprio quest’ultima a contraddistinguere l’oracolo di pace presente, in termini identici, in due diversi profeti: Isaia e Michea.
Soltanto alla fine dei giorni un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo; solo allora si smetterà di fare guerra (cf. Is 2,2-4; Mi 4,1-3). La filologia si impegna a precisare il senso dell’espressione; resta fuor di dubbio che essa riguarda il futuro. La fine dei giorni non può essere mai declinata al presente. Dunque, finché ci sono i nostri giorni, non è dato sperare nella venuta di «quei giorni»?
Sperare comporta guardare in avanti; a volte conviene però voltarsi anche indietro per comprendere i modi in cui si è concepita questa porta dischiusa verso il futuro. Per pensare bisogna avere fiducia nella ragione, per farlo in modo maturo occorre individuarne i limiti. Questo procedere si definisce critico. Esso, a fine Settecento, raggiunse il proprio vertice con Kant, il filosofo vissuto a Königsberg, l’attuale Kaliningrad, enclave russa tra Lituania e Polonia.
Per Kant le questioni fondamentali di tutta la nostra esistenza si riducono a tre: che cosa posso sapere, che cosa debbo fare, in che cosa ho il diritto di sperare. Le domande, formulate in modo semplice, ricevono tutte e tre un trattamento filosofico molto articolato; tuttavia tra esse la questione più complessa è quella relativa alla speranza. La prima domanda infatti è solo teorica e speculativa, la seconda solo pratica, mentre la terza si collega a entrambe le componenti.
Per sperare non basta sapere semplicemente come vanno le cose, né è sufficiente impegnarsi nell’agire in modo giusto: è necessario trovare il punto di tangenza tra essere e dover essere. Secondo Kant, mentre il sapere giunge alla conclusione che qualcosa è poiché qualcosa accade, la speranza conclude che qualcosa sia poiché qualcosa deve accadere.
La speranza non può appoggiarsi solo sulla descrizione della realtà e non si limita neppure a prospettare il dovere: essa è indirizzata verso un dover essere chiamato a diventare reale in virtù di una forza non totalmente sottoposta al nostro controllo. Anche se la si pensa come un progetto, la speranza non è paragonabile ai programmi la cui realizzazione dipende dall’azione di chi ora li sta mettendo in pratica. Il farsi della speranza non è paragonabile al processo che porta la materia prima a diventare manufatto. La clausola in base alla quale qualcosa sarà perché qualcosa deve accadere sta a indicare la presenza di questo salto qualitativo.
Il progetto è, ovviamente, sulla carta e non ancora nella realtà. Il passaggio dal virtuale al reale è intrinsecamente esposto a rischi; tuttavia, il più delle volte, esso è connesso a quanto si fa e non già a quel che deve accadere. La speranza ha invece bisogno di appoggiarsi a una realtà - piccola o grande che sia - posta al di là della sfera del nostro agire.
La speranza si situa nello spazio posto tra l’agire e la meta che l’opera si prefigge di conseguire. Quando questo salto è molto grande il fine può apparire utopico. Non ci è dato di controllare la forza in grado di garantire che quanto deve essere effettivamente sia. Per questa ragione la pace messianica, allorché, secondo le parole di Isaia e Michea, le armi saranno convertite negli strumenti del buon operare umano, è apparsa ai più un’utopia. La storia parla il linguaggio della guerra o al più delle tregue, non quello di una pace che non conosce tramonto.
L’ideale della pace perpetua
Nel 1795, quando l’Europa era scossa dai sussulti della Rivoluzione francese, mentre Russia, Impero asburgico e Prussia si spartivano la Polonia ed erano in incubazione le grandi guerre del periodo napoleonico, Immanuel Kant scrisse l’opuscolo Progetto per una pace perpetua. Quelle pagine non si limitano a individuare le modalità per conseguire tregue prolungate in grado di garantire una tranquilla convivenza tra gli stati; esse prospettano un esito più alto in cui la pace sarà condizione normale e permanente per tutta l’umanità.
Il libretto assume la veste di progetto fornendo regole per fondare un diritto cosmopolitico (noi diremmo internazionale) in grado di garantire a tutti una pacifica convivenza. Nelle ultime righe dell’opera si legge: «Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico,1 anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino a ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota. Ed anzi sarà un compito che, assolto per gradi, si avvicinerà sempre più velocemente al suo adempimento (perché è sperabile che i periodi di tempo in cui avverranno tali progressi si faranno sempre più brevi)».
Dovere e fondata speranza assumono l’aspetto di tangenza all’infinito: non li si raggiungerà mai, ma ci si può avvicinare sempre. La vera meta diviene così un continuo camminare. In termini consoni agli addetti ai lavori, si dovrebbe parlare di uso noumenico regolativo dell’idea di pace. L’aver definito «progetto» il trattato conferma il carattere laico del pensare di Kant. In questo ambito concettuale non si spera nell’irruzione dall’esterno di un evento messianico. L’operare umano non può andare al di là di un’approssimazione all’infinito. La pace perpetua conserverà sempre l’aspetto di un ideale ancora da realizzare. Non si arriverà mai a una pace definitiva; tuttavia la tensione per giungervi avvicinerà sempre più gli armistizi a veri e propri trattati di pace.
Come stanno le cose ai nostri giorni? Le attuali guerre hanno perso le connotazioni giuridiche un tempo a esse consuete. Oggi, in pratica, non è più dato pensare a trattati che pongano fine a guerre dichiarate perché queste ultime non esistono più.
Semplicemente si fanno guerre senza prendersi la briga di dichiararle. Per alludere a Ugo Grozio e al suo capolavoro De jure belli ac pacis, è arduo stabilire le regole della pace là dove non ci sono più le regole della guerra. La guerra civile sembra essere diventata il modello di ogni tipo di scontro bellico. Nei nostri giorni, quando le armi perdono di virulenza, a prolungarsi a tempo indeterminato sono, spesso, guerre condotte «a bassa intensità» (il Donbass ha molti, crudeli parenti in giro per il mondo).
La pace messianica
Se è lecito avere nostalgia, oltre che dei grandi ideali kantiani, anche delle regole della guerra e della pace, che dire della pace messianica di cui parlò il filosofo neo-kantiano Hermann Cohen? Egli, mentre l’Europa era sconvolta dalla Prima guerra mondiale, ripensò, alla fine della sua vita, alla propria origine ebraica e scrisse un’opera - uscita postuma nel 1918 - dal titolo che evoca a un tempo sia Kant (cf. La religione nei limiti della semplice ragione) sia l’antica sapienza d’Israele: La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo.
Essa si conclude parlando di pace; lo fa però in termini messianici e non già noumenici. La pace è il fine assoluto che non può essere mai reso puro mezzo: «La pace in quanto fine dell’uomo è il Messia, che libera gli uomini e i popoli da ogni dissidio, che appiana il dissidio nell’uomo stesso e produce infine per l’uomo la riconciliazione con il suo Dio. (...) Il messianismo è e rimane la forza fondamentale della coscienza ebraica. E il Messia è il principe della pace (...) Qual è il compendio della vita umana nello spirito della Bibbia? È la pace. Tutto il senso, tutto il valore della vita risiede nella pace. Essa è l’unità di tutte le forze vitali, il loro equilibrio, è l’appianamento di tutti i contrasti. La pace è la corona della vita».2
«Corona della vita», l’espressione ebraica shalom ‘alekhem (al pari della sua forma sorella araba) resa alla lettera significa «pace su di voi». La pace è una realtà che scende dall’alto e si posa sul capo.
Il libro di Hermann Cohen termina con queste parole: «La pace è l’emblema dell’eternità, è la parola d’ordine della vita umana, tanto nel suo comportamento individuale quanto nell’eternità della sua missione storica. In questa eternità storica si compie la missione di pace dell’umanità messianica».3 In un mondo irredento solo la speranza in una pace messianica, di cui nei momenti felici è dato gustare già qualche anticipazione (la tradizione ebraica parla del sabato come di un sessantesimo del mondo avvenire), può, forse, reggere di fronte alla catastrofe.
In un mondo lacerato dalle guerre, la sfida lanciata dalla speranza messianica ebraica al Messia cristiano definito anch’esso «principe della pace» continua, questa volta senza alcun «forse», a stagliarsi all’orizzonte. Sta alla comunità dei credenti in Gesù Cristo cercare i modi per rispondervi.
1 Vale a dire l’esistenza di un effettivo diritto internazionale.
2 H. Cohen, La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 636-638.
3 Ivi, 640.
*
NOTA:
ANTROPOLOGIA E CRISTOLOGIA ("ECCE HOMO").
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Questo è il problema...
Federico La Sala
Religioni e civiltà.
Il silenzio degli agnelli
L’autore dedicò le sue ultime riflessioni all’animale che rappresenta la potenza del sacrificio di Cristo. Spiegato attraverso il contrasto con i temi e i toni dell’Apocalisse
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 14 Aprile 2022)
Il libro Sotto gli occhi dell’Agnello di Roberto Calasso (Adelphi, pagg. 107, euro 13)
Nelle ultime settimane che gli restavano Roberto Calasso rilesse l’Apocalisse. Quel testo, chiuso tra catastrofe e rivelazione, gli si rivelò in una forma inaspettata. Lesse quelle pagine, spesso oscure, immaginifiche, terrificanti avendo negli occhi l’immagine nitida e folgorante del Polittico di Gand, un dipinto, oggi diremmo hollywoodiano, di scene sacre di Jan van Eyck (con la collaborazione del fratello Hubert). Al centro vi è la figura dell’agnello, l’animale più mite e misterioso che l’iconografia religiosa ci abbia consegnato. Tanto da suggerire a Calasso il titolo del nuovo libro: Sotto gli occhi dell’Agnello.
Cosa intercetta l’autore in quello sguardo che improvvisamente diviene imprescindibile per la storia che sta per raccontare? La prima cosa che mi è venuta in mente è La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Non perché la relazione sia immediata, ma perché, molti anni prima, dedicando alcune pagine al film di Hitchcock e ai Veda, Calasso rimarcava la centralità dell’occhio del fotografo, interpretato da James Stewart. Con questa differenza: l’occhio dell’Agnello mistico, cioè del Cristo, sembra osservarci con sovrana e remota indifferenza, indotta da un cristianesimo che ha tradito le aspettative e si è ridotto a uno stanco rituale liturgico. Mentre lo sguardo "immobile" del fotografo inviterebbe (nella lettura di Calasso) a uscire dal cristianesimo, per incrociare quel mondo vedico le cui dottrine aprono varchi interessanti nell’Occidente ampiamente secolarizzato.
Ad alcuni potrà risultare arbitrario il passaggio fulmineo dalla dottrina vedantica a Hitchcock. Ma nel ridisegnare - con la sua opera - il grande affresco delle civiltà, e le relative religioni che lo sostengono, Calasso forza i confini spazio-temporali e rigetta la concezione lineare della storia. Credo che una tale impostazione valga anche per la lettura dell’Apocalisse, per il modo diretto e spiazzante con cui interviene sulle cesure e le articolazioni del testo. Fino a farne la chiave (o almeno una delle chiavi) per comprendere il nostro debole e rinunciatario rapporto con il sacro. Niente di quello che i numerosi commenti hanno offerto, tra l’allegorico e il liturgico, si ritrova qui. Volutamente si ignora la tenace fortuna che il testo avrà nei secoli, fino a imporsi come il "Libro" al quale ricorrere ogni qualvolta un mondo, una civiltà, una storia sembrano destinati al dissolvimento e alla distruzione (quanto cinema e quanta letteratura si sono nutriti dei suoi effetti speciali e terrificanti!).
Movimenti millenaristici di ogni epoca e latitudine hanno interpretato l’Apocalisse come se quei fatti che vi sono raccontati fossero veri. Come se davvero Dio abbia stabilito un inizio traumatico (la caduta) e una fine contraddistinta dal trionfo e dalla salvezza dei giusti.
La lettura di Calasso si discosta dalla visione escatologica e rigetta l’idea che il testo di Giovanni (o più probabilmente di qualche allievo) sia la prosecuzione e il compimento dei Vangeli. Al contrario, come già sospettava Lutero, ne rappresenta la rottura. Il messaggio che l’Apocalisse diffonde sarebbe dunque il tentativo del cristianesimo di autodistruggersi. Ma perché mai una religione ancora giovane, erede della tensione giudaica e già proiettata a riscriverne la visione, compirebbe un gesto così autolesionistico? Cosa nasconde e poi rivela quel testo che sembra scritto da un dinamitardo?
Nell’Apocalisse cristiana - diversamente da quella giudaica - il Messia è giunto. La sua presenza nel mondo, descritta dalla dolcezza dei Vangeli, non ha tuttavia prodotto i risultati sperati. Egli ha fallito il compito di far coincidere il cambiamento annunciato con il trionfo della salvezza. Precarietà e delusione circolano nelle prime comunità cristiane. Gesù stesso è consapevole che il nuovo che comincia a farsi imperiosamente strada sta prendendo una direzione sbagliata. Invoca un successore, un altro messia, un "consolatore" in grado di rimettere l’umanità sulla retta via.
Ma dov’è un successore che sappia portare a termine il compito escatologico? Dal ruggito dell’Apocalisse si può dedurre solo che un essere molto potente in grado di domare il nuovo stia arrivando: "Quel demone del nuovo che usualmente viene attribuito al mondo secolare e alla scienza che lo innerva ha un’origine cristiana o più precisamente paolina".
Paolo prepara il futuro al culto della novità, ne sposa i segni della rivoluzione più che della rivelazione. È il depositario di una sapere antico e di un ordine nuovo. Fornito di un pensiero militante, si pone alla testa di una rivoluzione che nel nome della novitas liquida l’intero mondo antico: "Nessun Lenin del futuro avrebbe saputo parlare (e agire) con altrettanta concisione e vigore", commenta con lieve sarcasmo l’autore. Il nuovo che avanza travolgente non ha più bisogno del cosmo e delle sue storie. E se, per avventura, fa appello a qualcosa di remoto, tende a sfigurarlo e a tradirne la legittimità.
Sotto gli occhi dell’Agnello prende spunto da un’immagine potente dove la distanza dello sguardo animale sembra ignorare che qualcuno l’ha trafitto e che una lunga storia sacra - cominciata prima di Abele e giunta fino a Gesù - lo riguarda. Davanti a quella immagine si può solo constatare che senza quel sacrificio la potente macchina del mondo non si sarebbe più messa in moto. Ma le scritture non dicono a quale folle velocità essa è lanciata. Niente prefigura davvero cosa accade dopo che "l’innominabile attuale", sotto il cui segno il nuovo agisce, ha preso il sopravvento.
Sotto gli occhi dell’Agnello non appartiene all’oggi, ma al passato che convive col domani. Alcuni versi dell’Apocalisse sigillano il finale, ma l’autore li fa precedere da un preciso richiamo al senso intimo, starei per dire sacro, del leggere: quasi un’identificazione genetica tra chi scrive e l’idea stessa del libro: "Leggere è qualcosa che si misura con le potenze del mondo".
Cosa c’è di più commovente e rischioso di questa frase? Che cosa può frenare il dissolversi dell’esperienza artistica e religiosa se non il libro? Per tutta la vita Roberto Calasso ha cercato di dare un nome, o meglio ancora un libro, all’innominabile attuale. Quel libro - dove poter ammassare, avrebbe detto Baudelaire, le proprie collere - non è il mondo, così come l’Apocalisse non ne è la fine. È una grande finestra spalancata sul fluire della vita e sulle decisioni da prendere anche quando è giunto il tempo di congedarsi. Un tempo non già scandito dalla rassegnazione ma dallo scegliere da che parte stare, perché le battaglie celesti non finiscono mai.
Tra presente e passato: l’appello della Conferenza russa dei Rettori
di Stefano Rapisarda ("Insula Europea", 24 Marzo 2022)
Ha trovato una qualche eco sulla stampa italiana l’appello con cui 664 uomini di scienza di nazionalità russa chiedono a Putin di interrompere il conflitto (cito solo il Foglio del 2 e dell’11 marzo 2022, a firma Enrico Bucci). Un’elementare conoscenza della storia della gestione bellica da parte delle istituzioni accademiche dalla Prima guerra mondiale in poi (mi permetto di citare il mio libro Filologi in guerra e in pace, Rubbettino 2020) mi ha subito fatto venire in mente la seguente domanda: è mai possibile che in un contesto come quello russo attuale non siano stati prodotti appelli di uomini di scienza e professori universitari in favore della guerra, sul modello del famigerato “Manifesto dei professori tedeschi” del 1914?
Com’è noto, il 4 ottobre del 1914, a due mesi esatti dall’inizio della Prima guerra mondiale, sul quotidiano «Berliner Tageblatt» venne divulgato l’Aufruf an die Kulturwelt!, il manifesto firmato da novantatre uomini di scienza tedeschi che segnò una svolta epocale nel rapporto tra università, Stato e cultura nel senso più ampio6.
Le firme includevano il Gotha della cultura mondiale nei più svariati ambiti disciplinari, dalla medicina (Emil Adolf von Behring, Nobel 1901; Paul Ehrlich, Nobel 1908), alla fisica (Wilhelm Röntgen, Nobel 1901; Max Planck, futuro Nobel 1918), alla chimica (Emil Fischer, Nobel 1902; Adolf von Baeyer, Nobel 1905), alla storia delle religioni (Adolf von Harnack), alla filologia classica (Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff ), alla letteratura (Gerhart Hauptmann, Nobel 1912). I novantatre grandi nomi della cultura accademica tedesca respingevano le accuse di atrocità sulle popolazioni civili compiute dall’esercito nell’invasione del Belgio e vigorosamente ribadivano «al mondo della cultura» l’indissolubile unità di intenti che univa i diversi corpi dello Stato tedesco: la classe accademica, il ceto militare, il popolo e la dinastia imperiale. A esso fece seguito dopo dodici giorni un altro appello, l’Erklärung der Hochschullehrer des Deutschen Reiches, che recava i nomi di oltre quattromila firmatari, sostanzialmente tutto il corpo accademico delle Università di Germania.
L’Aufruf, il cui testo originale si può leggere in Aufrufe und Reden deutscher Professoren im Ersten Weltkrieg, Reclam, Stuttgart [2ª ediz. con Postfazione di H. Wunderer].Böhme, pp. 47-50, venne ristampato da tutti i principali quotidiani di Germania, tradotto in dieci lingue e inviato in migliaia di lettere private ai corrispondenti residenti in nazioni neutrali. Immediatamente letto, commentato, criticato in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, paesi scandinavi, è uno dei documenti più controversi nella storia della cultura del XX secolo. Questo corpo titolatissimo di scienziati, indubbiamente i migliori del mondo, prende la parola per affermare come la patria, la Germania, fosse oggetto di una campagna di aggressione fondata su pregiudizi e false notizie, e proclama ad alta voce la sua fedeltà alla nazione, al popolo, all’esercito e naturalmente all’imperatore.
L’inizio del testo recitava: “In qualità di rappresentanti della scienza e dell’arte tedesca (Wir als Vertreter deutscher Wissenschaft und Kultur), noi solleviamo dinanzi all’intero mondo della cultura la nostra protesta contro le menzogne e le calunnie con cui i nostri nemici si sforzano di macchiare la purezza della causa della Germania nella grave lotta per l’esistenza che le è stata forzatamente imposta. La bronzea voce degli eventi ha smentito le false voci circolanti di sconfitte tedesche. Di conseguenza, si moltiplicano gli ansiosi tentativi di produrre false dichiarazioni e sospetti. Alziamo la nostra voce contro di essi. Sarà l’araldo della verità. Non è vero che la Germania è colpevole di aver causato questa guerra. Né il popolo, né il governo, né l’imperatore la volevano. Le misure più estreme sono state adottate da parte tedesca per impedirlo. [...] Non è vero che la battaglia contro il nostro cosiddetto militarismo non è una battaglia contro la nostra cultura, come sostengono ipocritamente i nostri nemici. Se non fosse stato per il militarismo tedesco, la cultura tedesca sarebbe stata da tempo spazzata via dalla faccia della terra. Il militarismo emanava da questa cultura per proteggerla in una terra che per secoli è stata devastata da incursioni predatorie come nessun’altra. L’esercito tedesco e il popolo tedesco sono uno. Oggi questa consapevolezza unisce 70 milioni di tedeschi come fratelli al di là delle distinzioni di istruzione, classe e appartenenza di partito (Deutsches Heer und deutsches Volk sind eins. Dieses Bewußtsein verbrüdert heute 70 Millionen Deutsche ohne Unterschied der Bildung, des Standes und der Partei).”
Questa “discesa in campo” senza precedenti determinò appassionate adesioni e furibonde reazioni, svelando così l’inconsistenza di un’illusione che aveva accompagnato la figura dell’uomo di scienza dall’Illuminismo in avanti: che questi fosse un tipo d’uomo votato a un fine superiore, la ricerca della verità “universale”, e non di una verità “nazionale”; e che lo scienziato lavorasse per l’umanità, non per il suo governo e una parte di umanità a lui vicina e con la quale egli condivideva la lingua, il suolo e, come presumeva l’antropologia contemporanea, il sangue.
È da questo momento in poi che comincia a manifestarsi un fenomeno nuovo nella storia della cultura, e anche della politica. Uomini di studio, accademici, scienziati, professori d’università, scendono nell’agone della militanza, si danno alla politica. O meglio, ostentano il loro servizio allo Stato, con adesione totalizzante ai fini specifici e particolari dello Stato di cui essi sono emanazione.
Torniamo al presente e rispondiamo alla domanda posta in apertura. Ebbene, ecco che il 3 marzo 2022, tramite il notiziario di informazione universitaria del quotidiano tedesco “Die Zeit”, salta fuori puntualmente l’omologo contemporaneo del “Manifesto dei 93”. La risonanza sulla stampa internazionale è stata debole; su quella italiana, se non m’inganno, inesistente. Credo sia utile riportarlo qui nella sua interezza dal sito della Conferenza dei Rettori delle Università di Russia, da me tradotto attraverso il tedesco e verificato sull’originale russo da Francesca Tuscano, che cordialmente ringrazio:
Seguono 229 firme di rettori e presidenti o vicepresidenti in rappresentanza di altrettante istituzioni, da Viktor Antonovich Sadovnichy, Presidente dell’Unione Russa dei Rettori, Rettore dell’Università Statale Lomonosov di Mosca, a Yastrebov Oleg Aleksandrovich, Rettore dell’Università dell’Amicizia dei Popoli della Russia, tutti di nomina governativa come erano d’altronde i professori tedeschi dell’Aufruf del 1914.
A un’analisi del discorso, il testo dell’“Obraščenie Rossijskogo Sojuza Rektorov” del 4 marzo 2020 ha risonanze che vanno persino al di là della retorica bellicista tedesca del Secondo Reich. L’Aufruf di Wilamovitz-Mõllendorff si indirizzava agli uomini di scienza del mondo, e dei paesi neutrali in particolare; era comunque, rivolto all’esterno; era un appello internazionale, cosmopolita, Auf die Kulturwelt! senza limitazioni di nazionalità, per quanto ovviamente cercasse di agire sull’opinione pubblica dei neutrali, e soprattutto degli (ancora non belligeranti) Stati Uniti d’America. L’”Obraščenie Rossijskogo Sojuza Rektorov” è invece tutto interno, come se sapesse in partenza di non avere argomenti utilizzabili in una comunità essenzialmente internazionale come quella della ricerca.
Insomma per chi conosce le vicende della cosiddetta ‘guerra dei professori’ che accompagnò la Prima Guerra Mondiale, si tratta di un triste dejà vu che proietta indietro di 100 anni la cooperazione scientifica internazionale, e i cui esiti sono tutto sommato prevedibili per chi conosce la storia: sospensione talvolta definitiva di collaborazioni intellettuali, cessazione di antichi sodalizi, espulsioni da organismi internazionali e nazionali, ritiro di riconoscimenti, affiliazioni, omaggi e premi, e alla fine delle ostilità, in caso di sconfitta, dichiarazioni di: “non sapevo esattamente ciò che firmavo”, “ho dato l’adesione in fiducia senza aver letto il testo”, “non potevo farne a meno data la mia posizione”, pentimento nel caso dei migliori.
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA E FILOLOGIA.
LA SCOMPARSA DELLA "FANCIULLA STRANIERA" (F. Schiller, 1796) E DELL’AMORE (K. Marx, 1844) E IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ (S. Freud, 1929: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità [...]").
Una nota a margine di una memoria dell’antica commedia greca ...
"HOMO HOMINI LUPUS" (Freud, 1929). Formidabile questa riflessione di Andreas Katsouris sulla frase di Menandro! A ben riflettere sulle parole (e, in particolare, sul legame tra la "grazia" ("charis") del χαρίεν ("charien") e "l’anthropos), si dovrebbe tentare di capire su come e quando è stata persa la memoria delle Grazie (greco: Χάριτες - Charites) ed è stata persa anche la traccia di ogni umanità e l’orizzonte culturale dell’Europa (e del Pianeta Terra) è diventato sempre più cosmoteandrico, edipicamente, con la stessa connivenza della filosofia, della filologia, e della psicoanalisi!
CRITICA DELLA VIOLENZA: J.-J. ROUSSEAU, K. MARX, W. BENJAMIN. Una prima traccia della "caduta" è nell’atto logico-storico ("primordiale", che prima di essere materiale è linguistico) della recinzione: "Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il fondatore della società civile"("Discorso sull’origine della disuguaglianza", 1754"); la seconda è nella denuncia marxiana (nella "Sacra Famiglia") dell’inversione soggetto-predicato (il problema della mele, delle pere, e delle fragole... del Mentitore) e della "fanciulla straniera e la civetta hegeliana" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 190-197)"!
A quando il sorgere della Terra?
DISUGUAGLIANZA, INTOLLERANZA, E PACE PERPETUA...
FINE DELLA STORIA: NON COMPRESA LA LEZIONE DI DANTE ALIGHIERI SUI DUE SOLI E DI GIORDANO BRUNO (17 febbraio1600) SULLE TRE CORONE, DUE CORONE IN TERRA E UNA IN CIELO (“Ultima coelo manet)”, SI VA ANCORA AVANTI CON LE REGOLE DEL GIOCO DELLE TRE CARTE (questa è quella che vince, questa quella che perde, ecc...) e l’espulsione (lo spaccio) dal campo da gioco della BESTIA TRIONFANTE continua ad essere rinviata... USCIRE DAL LETARGO. La Regola, il Logos, non è un "Logo"!
CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA COSMOTEANDRIA. Non sapendo affrontare e non volendo risolvere il problema di Jean Jacques Rousseau (Discorso sull’origine della disuguaglianza: "Il primo uomo che, avendo recinto un terreno, ebbe l’idea di proclamare questo è mio, e trovò altri cosí ingenui da credergli, costui è stato il vero fondatore della società civile") come quello di Sigmund Freud (Il disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comuni tà critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori"), non ci resta che lavorare ... "PER LA PACEPERPETUA" (KANT, 1795)!!!
FLS
USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA E DELLA COSMOTEANDRIA: DUE SOLI (DANTE 2021)
Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria! *
I paradigmi rimossi.
La maternità fonda il mondo (amore, non solo rispetto)
di Francesco d’Agostino (Avvenire, mercoledì 2 febbraio 2022)
Il rifiuto della maternità, che sta diventando uno dei tratti più caratteristici di questi anni (o, se così si preferisce dire, del ’postmoderno’) sta inevitabilmente alterando la stessa autocomprensione dell’umano. Non c’è infatti dimensione di vita che non si intrecci non solo con la generatività, ma in particolare con quella dimensione della generatività che è affidata alla donna, con la maternità.
Lo spazio di vita che la ’natura’ assegna agli uomini e alle donne viene psicologicamente violentato dalla rimozione di tre paradigmi, di cui le donne sono protagoniste: quello della mortalità, assimilata a una sventura soprattutto se tragica, precoce, collegata a una nascita; quello della vecchiaia (con le sue inevitabili fragilità ed esigenze di assistenza) e sempre più arbitrariamente ritenuta un indebito peso che egoisticamente ogni generazione scarica sulle generazioni successive; e quello della malattia, percepita ormai come uno scandalo intollerabile in una società che ha fatto della ’salute’ il suo vero e proprio mito dominante. L’esito di queste dinamiche, che si intrecciano, creando vincoli che nessuno sembra ormai in grado di sciogliere, fa della società contemporanea un contesto freddo e conturbante, al quale tutte le donne vorrebbero sottrarsi, senza però assolutamente sapere in che modo.
Non è questo il luogo per formulare proposte o avanzare suggerimenti. Ma può essere il luogo per esortare tutti (uomini e donne) a riflettere sul primato dell’identità femminile su quella maschile, che la cultura postmoderna ci impone di riconoscere. Un primato sociologico-culturale, innanzitutto, come ho cercato di delineare nelle righe precedenti. Ma soprattutto un primato antropologico.
Dio ha affidato alla donna la cura e la formazione dell’identità umana, in modo così deciso e irrevocabile che difficilmente, davanti a un’icona o a un’immagine che rappresentano una madre che tiene sulle ginocchia il proprio figlio, non percepiamo una sorta di misteriosa emozione o commozione. Quella donna rappresentata da un artista, indipendentemente dal valore estetico della rappresentazione, è un’immagine di nostra madre e quel bambino che essa tiene in grembo è una nostra immagine.
Per rappresentare l’umanità in una straordinaria sintesi bastano solo queste due figure: la Madonna e il Figlio (ed ogni donna è di principio una ’Madonna’ e ogni bambino è di principio un ’Bambino Gesù’). Aggiungiamo pure, e dobbiamo farlo, la tenerissima immagine di san Giuseppe, ma sappiamo tutti benissimo che la sua santa e necessaria paternità è di mero supporto alla maternità di Maria.
Bisogna tornare a insegnare alle bambine, a tutte le bambine, che devono amare i piccoli, i fratellini, e in generale i ’maschi’, perché l’amore, quel poco di preziosissimo amore che sopravvive nel mondo, è affidato alla loro custodia e resterà tale per tutto l’arco della loro vita. E dobbiamo tornare a insegnare ai bambini che non basta un sincero e doveroso rispetto per le bambine, per tutte le donne, per il ’femminile’: non il ’rispetto’, ma l’amore è ciò che deve guidare il mondo ed è la donna, e la donna soltanto, che apre e dona al mondo la via dell’amore.
Se e quando intenzionalmente e consapevolmente la donna rifiuta la maternità è come se rifiutasse la dimensione più autentica della propria identità, cioè proprio quello - ci piaccia o no riconoscerlo - che sta a fondamento del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITÀ, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA".
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
L’Intelligenza Artificiale può crescere un feto. L’esperimento cinese
Secondo gli scienziati dell’Istituto di ingegneria e tecnologia biomedica di Suzhou, la gestazione artificiale sarà più efficiente e sana di quella umana. I limiti non saranno tecnologici, ma etici, e si incrociano con crisi demografica ed emancipazione femminile. Non mancano le applicazioni “buone”, come nel trattamento dei bimbi nati prematuri
di Otto Lanzavecchia (f! formiche, 08/02/2022)
Si è concretizzato un altro sviluppo scientifico finora relegato ai domini della fantascienza. Un gruppo di scienziati cinesi ha creato un sistema di gestazione, un vero e proprio grembo artificiale in grado di far crescere un feto in sicurezza, sotto la gestione di un’intelligenza artificiale (IA) che monitora e accudisce il nascituro con un livello di efficienza irraggiungibile dall’essere umano, sostengono i creatori.
La “mamma IA” è stata sviluppata dai ricercatori dell’Istituto di ingegneria e tecnologia biomedica di Suzhou, nella provincia orientale del Jiangsu, che hanno descritto il sistema in un articolo della versione locale del Journal of Biomedical Engineering. Ora sta gestendo grandi quantità di embrioni animali, spiega l’articolo, ma la tecnologia alla base potrebbe, in futuro, eliminare la necessità per una donna di crescere in grembo il proprio bambino, “permettendo un’ evoluzione del feto più sicura ed efficiente fuori dal suo corpo”.
Il grembo artificiale dell’Istituto è composto da diversi contenitori in grado di ospitare un embrione a mollo in una miscela sterile di nutrienti. È stato sviluppato per permettere di espandere le sperimentazioni senza che i tecnici debbano seguire e documentare manualmente le condizioni di ogni embrione, cosa che avrebbe reso impossibile aumentare la scala della ricerca.
Il nuovo sistema è in grado di monitorare gli embrioni continuamente, attraverso immagini ad altissima risoluzione e sensori, e regolare in tempo reale la temperatura, il rifornimento d’aria e l’acqua e l’apporto di nutrienti. Può anche classificare gli embrioni in base alla salute e al potenziale di sviluppo, e indicare ai tecnici quali embrioni sviluppano delle deformazioni o muoiono, affinché vengano rimossi dal sistema.
Un orizzonte etico
Al momento gli scienziati dell’Istituto di Suzhou stanno studiando lo sviluppo e il processo di gestazione utilizzando embrioni di topo. Ci sono limiti legali, prima ancora che etici, per la sperimentazione su quelli umani: la legge vieta di condurvi esperimenti oltre le due settimane di sviluppo. Ma secondo il caposquadra degli scienziati di Suzhou, Sun Haixuan, le fasi successive racchiudono risposte da scoprire.
“Ci sono ancora molti misteri irrisolti sulla fisiologia del tipico sviluppo embrionale umano”, ha detto lo scienziato al Journal of Biomedical Engineering, aggiungendo che questa tecnologia “non solo aiuterebbe a comprendere ulteriormente l’origine della vita e lo sviluppo embrionale degli esseri umani, ma anche a fornire una base teorica per risolvere i difetti di nascita e altri importanti problemi di salute riproduttiva”.
Gestazione e nascita prematura
La gestazione artificiale non è una novità, anche se gli ultimi anni hanno segnato diversi sviluppi importanti. Non è ancora chiaro se questa tecnologia permette di portare a termine un periodo di gestazione, ma alcuni scienziati israeliani sono riusciti ad arrivare a metà strada, sempre utilizzando embrioni di topo. È successo anche per i primati: nel 2019 ricercatori pechinesi hanno portato l’ovulo fertilizzato di una scimmia allo stadio in cui si formano gli organi.
Nello stesso anno un gruppo di scienziati olandesi ha detto alla BBC che avrebbero costruito nel giro di un decennio un grembo artificiale in grado di salvare i bambini nati prematuramente. E proprio questo è lo sviluppo più immediato e accettabile di tale tecnologia: la gestazione artificiale dei nati prematuri in un incubatore 2.0 che simuli il grembo materno.
Nei Paesi dotati di buoni ospedali, scriveva Jenny Kleeman, c’è il 24% di possibilità di tenere in vita un nato a 23 settimane. La nascita pretermine è la più grande causa di morte e disabilità tra i bambini sotto i cinque anni nel mondo sviluppato: l’87% di quelli che ce la fanno “saranno soggetti a gravi complicazioni, come malattie polmonari, problemi intestinali, danni cerebrali e cecità”. Un grembo artificiale potrebbe dare ai bambini nati troppo presto una maggiore possibilità di sopravvivenza, e salute, rispetto al passato.
Tra demografia e distopia, le domande per il futuro
Spingendo lo sguardo più in là, andranno esaminate le pesanti implicazioni della gestazione artificiale di un essere vivente. A partire dalla possibilità di poter crescere in laboratorio degli organi (anche animali) in grado di salvare delle persone. Sviluppare la tecnologia adatta per far nascere degli umani in vitro (ectogenesi) non sarà un problema, ha detto un ricercatore anonimo al South China Morning Post, che per primo ha rilanciato i contenuti dell’articolo del Journal of Biomedical Engineering. I problemi saranno di carattere etico.
La testata di Hong Kong ha subito correlato la tecnologia alla base della “mamma IA” alla crisi demografica cinese. Dal 2016 il numero di neonati in Cina si è quasi dimezzato, anche per via delle giovani cinesi, sempre più emancipate, che scelgono di rifiutare matrimonio e figli per perseguire i propri obiettivi - una tendenza anche occidentale. Intanto un nuovo studio avverte che la popolazione cinese potrebbe dimezzarsi nei prossimi 45 anni.
In Cina, come anche altrove, la maternità surrogata è proibita. Ma non è vietato (nemmeno sulla rete locale) discutere delle possibili implicazioni della gestazione artificiale. In futuro un ospedale potrebbe diventare anche un laboratorio di gestazione; sulle chat si legge che la tecnologia potrebbe liberare le donne dalla gravosità della gravidanza e favorire l’equità sociale, potrebbe aprire nuove frontiere per chi non è in grado di far nascere un figlio in maniera naturale, potrebbe permettere alla lunga mano delle autorità di sottrarre ai genitori naturali un feto, perché ritenuti inadeguati, o creare dei “figli dello Stato”. Starà alle società anticipare lo sviluppo tecnologico.
“Filosofia della violenza” di Lorenzo Magnani
Prof. Lorenzo Magnani, Lei è autore del libro Filosofia della violenza edito da Mimesis: la violenza può essere trasformata in un oggetto autonomo di riflessione filosofica?
Questa seconda edizione italiana, pubblicata da Mimesis, del libro intitolato Filosofia della violenza è la traduzione di Understanding Violence. The Intertwining of Morality, Religion, and Violence: A Philosophical Stance, pubblicato da Springer, Heidelberg/Berlin, 2011. La seconda edizione italiana è pubblicata nella collana “Centro Internazionale Insubrico ‘Carlo Cattaneo’ e ‘Giulio Preti’ per la Filosofia, l’Epistemologia, le Scienze Cognitive e la Storia della Scienza e delle Tecniche” dell’Università degli Studi dell’Insubria, direttore professor Fabio Minazzi
Una tipica tendenza della modernità conduce a evitare di analizzare la violenza (specie quella visibile, forte, sanguinaria), liquidandola attraverso una sorta di facile “psichiatrizzazione”: i violenti sono persone che “non stanno bene”, dei pazzi. Nella maggior parte dei casi però la psichiatria non c’entra nulla. Ricordo un episodio avvenuto nel 2013, poco dopo la pubblicazione della prima edizione italiana del libro. L’attentatore Luigi Preiti, che aveva sparato a due carabinieri, era stato subito classificato dai mass media e dall’opinione pubblica come uno squilibrato, un pazzo. Erano state così oscurate le cause nascoste di quell’accesso di tremenda violenza approfittando di una specie di medicalizzazione/psichiatrizzazione. Questo comune modo di reagire finisce per attenuare e mettere in secondo piano la violenza perpetrata, classificandola come il frutto di un qualcosa di “malato”. Si sfugge così al compito di dire di più intorno alle radici di gran parte della violenza. L’attentatore aveva però subito dichiarato che voleva “colpire” (e quindi “punire”) i politici, individuati come colpevoli della sua situazione disperata di disoccupato e di separato, vissuta come iniqua. Si può dunque dare una lettura del suo comportamento in termini morali: ogni regola morale che si adotta prevede la potenziale punizione dei trasgressori. -Trasformare la violenza in oggetto autonomo di riflessione significa evitare di parlare della violenza secondo scorciatoie come quella appena indicata della psichiatrizzazione e, adottando nel mio caso un approccio naturalistico, vederne le varie sfaccettature, tenendo presente i risultati di varie discipline, enucleando l’intreccio indissolubile tra moralità e violenza fra evoluzionismo, scienze cognitive, teoria matematica delle catastrofi, teoria delle nicchie cognitive, logica e logica informale, psicologia, psicoanalisi, semiofisica. Ogni cooperazione umana, fin dalla preistoria, è basata sulla condivisione di regole morali (o protomorali) (anche quelle incorporate nelle leggi a partire da un certo momento del processo di civilizzazione), ma l’infrangere le regole morali comporta possibili punizioni più o meno violente (o meglio che vengono vissute come tali dai soggetti colpiti). Non soltanto: il contatto con persone e collettività che condividono diversi orizzonti morali genera anch’esso conflitti che possono dar luogo a esiti anche molto violenti (si pensi alle guerre - o ai terrorismi - di religione, dove la conflittualità provocata dalle regole morali incorporate nei framework religiosi è potente).
Tutti assistono a violenze di ogni tipo quotidianamente e tutti ne parlano nei mass media e a casa loro, ma l’ignoranza sociale intorno a cosa sia la violenza è grande e anche presso gli studiosi e i filosofi le cose non vanno meglio. Come già osservavo, si sente infatti spesso porre l’accento sulla violenza fisica come unica violenza degna di nota, nel mentre viene passato sotto silenzio e non rubricato come violento, per esempio, certo “teppismo parlamentare”, quando c’è scambio di voti e favori. Siamo in una società che aspirava a diventare una “knowledge-society” e invece è diventata una “ignorance society”, dove tutti sono legittimati a dire la loro opinione, che troppo spesso è quella ignorante di narcisi individualistici che non “sanno” nulla o sanno pochissimo, sia che si tratti di ministri, giornalisti, casalinghe o scienziati. E infatti anche gli studiosi e gli intellettuali non brillano di “open-mindedness” perché di solito conoscono solo ambiti specialistici; se invece possiedono una cultura di più ampio respiro e si esprimono, allora vengono aggrediti con la violenza verbale che oramai da decenni li classifica come astratti e inutili in vari media e “social” ignoranti e beceri. Una “ignorance society” (troppo orgogliosa di essere tale) che a mio giudizio è il frutto amaro di un trentennio di violento e ottuso neoliberismo cocciuto, che sta intaccando alle basi la civiltà che per molti aspetti abbiamo ereditato dall’antica Grecia (sotto questo punto di vista avere visto la catastrofe economica greca è apparso come un simbolo nefasto). Per fortuna la filosofia da più di venti secoli ci aiuta a interpretare il mondo e oggi vuole capire anche la violenza: il mio volume, che appare unico anche nell’attuale panorama della ricerca “filosofica” internazionale, mira a questo, a produrre una intelligibilità della violenza che solo la filosofia può donare. Ho cercato dunque di intraprendere una seria indagine sulla violenza con coraggio e sincerità: come esseri umani qualsiasi possiamo ignorare la nostra propria violenza, grazie a quel “embubblement” che è illustrato nel libro (per così dire la violenza non è mai la mia ma è sempre quella degli altri perché io dissimulo la violenza che compio non ritenendola mai tale - più sotto introduco appunto il concetto collegato di “bolla morale”), ma come filosofo, sostengo, non posso ignorarla: passo dopo passo questo impegno intellettuale è diventato per me sempre più specifico e teoretico, tanto da rendere la violenza un soggetto autonomo di riflessione filosofica.
Per anni mi sono dedicato allo studio della violenza e ho osservato, nel comportamento degli esseri umani violenti, come già accennavo sopra, che la violenza è fondamentalmente perpetrata sulla base di convinzioni morali, in modi più o meno coscienti e come effetto multiforme di ragioni, emozioni e azioni di vario tipo. La moralità, e quindi anche la religione - che, prima fra tutte le creazioni culturali dell’umanità, ha svolto il ruolo di “veicolo di moralità”- e la violenza sono fortemente intrecciate. Sembrerebbe un paradosso, visto che gli esseri umani si sono dotati della moralità proprio per difendersi dal male e dalla violenza e per favorire la cooperazione. Ma paradosso non è: 1) ogni moralità confligge potenzialmente in modo violento con altre moralità; 2) ogni moralità comporta la punizione più o meno violenta dei trasgressori.
Credo che occorre prima di tutto avere “rispetto” della violenza e attribuirle una volta per tutte la “dignità morale” di diventare un argomento filosofico/conoscitivo, estraendola dal circuito ristretto delle futili chiacchiere quotidiane, delle statistiche fornite dalle scienze umane e da una facile psichiatrizzazione. I filosofi hanno sempre affrontato temi importanti come la razionalità, la scienza, la conoscenza, l’etica e così via, che sono pensati un po’ da tutti come dotati di una dignità intellettuale in sé. Hanno invece sempre pensato che la violenza, proprio perché è tale, si mostra come qualcosa di banale, cattivo, intollerabile, confuso, ineluttabile e marginale, non sufficientemente interessante per loro. La violenza è stata dunque considerata più adatta ad essere studiata come dato di fatto: storia, sociologia, psicologia, criminologia, antropologia, solo per citare alcune discipline, sono sempre sembrate più appropriate per analizzarla e per fornire dati, spiegazioni e cause.
Il libro Filosofia della violenza muove dunque dalla convinzione che, almeno nel nostro tempo, proprio la filosofia possiede lo stile di intelligenza e di intelligibilità adatto per una nuova, impertinente e profonda comprensione di un tema così intellettualmente trascurato e mal rispettato. Quando si tratta di violenza, la filosofia, pur rimanendo ancora una disciplina astratta come la conosciamo, paradossalmente acquisisce il marchio di una sorta di “scienza applicata” indispensabile e insostituibile. Il libro vuole attribuire più dignità filosofica alla violenza, perché essa è estremamente importante nella vita degli esseri umani, lo si voglia accettare o meno. Ci sono una filosofia della scienza e una filosofia della moralità, una filosofia della biologia, una filosofia delle arti e così via: ora dobbiamo cercare di elaborare una filosofia della violenza come campo autonomo di speculazione, che può estrarre la violenza dalla prigione di modesti, frammentari e spesso esoterici pensieri filosofici o di freddi risultati scientifici.
Il libro aiuta a riconoscere che siamo tutti intrinsecamente “esseri violenti”: tale consapevolezza, anche se non terapeutica, potrebbe migliorare la nostra possibilità di essere almeno dei “violenti responsabili”, cioè capaci di riconoscere la violenza che deriva proprio da noi e dalle nostre azioni, direttamente o indirettamente, e non solo quella degli altri. Con questo intendo dire che avere più conoscenza della violenza potrebbe forse suggerirci inaspettati metodi di monitoraggio delle nostre reazioni emotive e razionali, al fine di ridurre la possibilità (inevitabile) di errori e accrescere invece la nostra aspirazione a un maggior “possesso” del nostro destino, sia per quanto riguarda la vita quotidiana sia per quanto riguarda quella degli stati nel nostro mondo globalizzato. Riconoscere la nostra condizione di “creature violente” e aumentare la conoscenza circa la nostra capacità di nuocere, vuol dire accettare la nostra responsabilità e sperare di individuare quei “firewall” cognitivi che possono aiutarci a prevenire la violenza. Considerare la violenza dal punto di vista della “moralità” dei colpevoli - dove la violenza appare chiaramente come giustificata da “valori” - può aiutare a coglierla e capirla come un evento quasi ineluttabile e comune, che non può essere ignorato.
La violenza è dunque di solito generata da ragioni morali: il conflitto morale è alla base del conflitto violento. Persone a prima vista del tutto decenti (come già osservava Hannah Arendt a proposito dei buoni padri di famiglia che erano nel contempo anche criminali nazisti), sono capaci di atti violenti anche sanguinari in nome della loro morale, da essi considerata come sicura e certa. Se si agisce con violenza per ragioni morali, per difendere sé stessi e preservare il proprio punto di vista morale o per punire chi ha infranto le regoli morali del gruppo a cui si aderisce, come è possibile pensare di essere stati violenti? Ci si dice per esempio: “Sono un seguace della legge dell’onore, che considero giusta e morale, quindi la vendetta è ‘giustizia’ anche quando ha come conseguenza la violenza estrema dell’omicidio”. Ho chiamato questo tipo di impossibilità di riconoscere la violenza possibile derivante da nostre convinzioni morali “bolla morale”.
“Filosofia della violenza” di Lorenzo Magnani *
Prof. Lorenzo Magnani, Lei è autore del libro Filosofia della violenza edito da Mimesis: la violenza può essere trasformata in un oggetto autonomo di riflessione filosofica?
Perché si può affermare che nel linguaggio è insita una natura violenta?
La violenza non è solo quella palese (per esempio quella fisica o sanguinaria), ma è anche nelle cose, nelle strutture e nel “linguaggio”, che spesso, con fallacie, finzioni, inganno, distribuisce violenza, dissimulandola e dicendo “sono solo parole”. Lo squadrismo verbale può essere a sua volta foriero di altre violenze: lo si vede nel mobbing, nel bullismo, ma anche negli esiti sanguinari del linguaggio provocatorio dei politici. Si parla spesso della cultura dell’odio che è veicolata dal linguaggio e talora gli stessi esseri umani che parlano della necessità di evitare il linguaggio dell’odio lo fanno, senza accorgersene, proprio con il linguaggio dell’odio.
Come si distribuisce la violenza attraverso le fallacie?
Come dicevo la violenza non è solo fisica ma è nelle cose, nelle strutture e nel “linguaggio”, che spesso, con fallacie, dissimulazione, inganno, e con quello che in inglese si chiama efficacemente “bulshitting” (così diffuso nei media e presso i politici nonché presso i cosiddetti esperti, ecc.), distribuisce violenze a destra e manca, dissimulandole come cose non violente, solo parole. Lo squadrismo violento verbale è, come dicevo, a sua volta foriero di altre violenze, come si vede nell’esempio banale del passaggio dal mobbing verbale “gossiparo” al suo possibile esito omicida. Le fallacie sono errori di ragionamento, e come tali sono particolarmente esposte ad essere usate in quella che il matematico René Thom chiama intelligenza militare al fine di organizzare convincenti (anche se erronee) tematizzazioni morali che “giustificano” punizioni varie di coloro che disobbediscono o non si adeguano e che quindi mettono in pericolo quelle stesse regole morali e in ultima analisi la cooperazione che da esse è garantita.
Quale ruolo possono svolgere i mediatori morali nello scatenarsi della violenza strutturale?
Il potenziale violento che è parte costitutiva integrante di quelli che alcuni biologi evoluzionisti contemporanei chiamano nicchia cognitiva mostra anche la dimensione sottostante di violenza strutturale e simbolica, ovvero della violenza diffusa potenzialmente generabile e spesso generata da quelli che chiamo mediatori morali. La violenza strutturale è considerata come moralmente legittimata poiché esercita una funzione cruciale nelle attività di mantenimento della nicchia: un esempio semplice di mediatore è il crocefisso, per esempio in una nicchia cognitiva come una chiesa cristiana. Come mediatore morale rimanda alla dimensione etica della religione cristiana e quindi per esempio alla regola morale ama il prossimo tuo come te stesso, e come tale sostanzia e stabilizza la nicchia cognitiva in cui si trova. Tuttavia, se una persona lo indossa e viene visto in una circostanza sfavorevole da un terrorista che professa e difende un’altra religione, quello stesso oggetto diventa un potenziale mediatore di violenza, in quanto chi lo porta può essere ferito o addirittura ucciso.
Dobbiamo ricordare che quando genitori, poliziotti, insegnanti e altri agenti infliggono ed esercitano violenza, fisica o non visibile, “per ragioni morali e/o legali”, queste ragioni non eliminano il fatto che è stata perpetrata della “violenza”, e che essa non deve essere condonata oppure sottovalutata solo perché non è sempre percepita come tale (bolla morale) ed è invece vista come “qualcosa d’altro”, cioè come derivante da gesti morali. D’altra parte deve essere osservato che nel caso della violenza strutturale quegli agenti perpetranti violenza non agiscono certo quasi mai per conto proprio , ma per conto di più vaste istituzioni, siano esse politiche, sociali (come per esempio la famiglia), industriali, economiche o religiose: per l’appunto in quanto mediatori morali/violenti. -Tali istituzioni sostanziano la violenza strutturale non grazie ad agenti umani ma grazie a per l’appunto a “mediatori morali/violenti” di vario tipo (che nel caso estremo possono coincidere con esseri umani che hanno trasformato se stessi in quelli che potremmo definire artefatti socio-culturali mediatori di violenza, come nel caso del ruolo assunto dall’“agente di polizia” all’interno della violenza strutturale). La dimensione regolatrice della violenza strutturale è spesso diluita nella forma pervasiva della narrazione: le fiabe che sono raccontate ai bambini, i romanzi, le commedie, le opere teatrali e i film, sono tutte forme coinvolte nella diffusione di insegnamenti morali, economici o spirituali che comportano esemplificazioni di punizioni e violenze.
In che modo moralità “individuali multiple” possono scatenare violenze?
Gli individui agiscono spesso in base a quelle che chiamerei “morali multiple” e variabili: al mattino di fronte a una certa situazione si segue la morale religiosa e si agisce di conseguenza (per esempio punendo con violenza la figlia musulmana che non si è coperta il volto o ha il fidanzato cristiano); al pomeriggio invece di fronte a un’altra situazione si segue la morale civile che punisce con la violenza legittima della legge; alla sera di fronte a un’ulteriore nuova situazione si segue la morale dell’onore (che contrasta con le prime due, delle quali non ci si ricorda però minimamente), che comporta invece, per esempio, la violenza della vendetta privata. A ogni livello di questa variabile moralità individuale (che pure si informa a moralità collettive riconosciute e condivise da molti), l’esercizio della stessa protegge dal rendersi conto della violenza delle conseguenze: è una condizione cognitiva che io definisco “bolla morale”, concetto che ho già citato in passaggi precedenti.
Che nesso esiste tra religione, moralità e violenza?
La religione, nel mentre spinge, come tutti sanno, verso il “meglio” grazie al suo profondo portato morale, può ahimè pervertirsi, diventando agente di punizioni e violenze contro i membri del proprio gruppo che trasgrediscono le regole o contro i seguaci di altre religioni. Ho detto prima che la moralità e la violenza sono fortemente intrecciate. Questo aspetto è identicamente presente nel caso della religione: religione e violenza sono molto intrecciate. La religione infatti, trovandosi a svolgere, prima fra tutte le creazioni culturali dell’umanità, il ruolo di “vettore di moralità”, e quindi di “promotore di moralità”, come tale è caratterizzata dalla presenza della “punizione” (più o meno violenta) e del “conflitto (più o meno violento) con moralità avverse”.
Desidero anche aggiungere che anche una struttura complessa insieme astratta e concreta come la democrazia è oggetto di possibile violenza, per esempio ad opera del neoliberismo (e della sua devastazione di ogni equilibrio prezioso del capitalismo economico). Questo tema è nel libro collegato all’analisi del presente drammatico tendenziale passaggio dalla democrazia all’oclocrazia, già descritto da Polibio, dove osceni carismatici di turno che ingannano demagogicamente il popolo, coltivando e diffondendo tutte le debolezze e miserabilità del popolo stesso (e trascurandone invece le virtù), generano un impoverimento di tutti, e quindi anche dello stesso “oclos”: è proprio quello che stiamo vedendo ogni giorno.
Per concludere, il libro vuole incoraggiare ad aumentare la nostra “conoscenza” sulla violenza, come tema sia filosofico che cognitivo. Data l’importanza della violenza nel comportamento umano, lo studio di questo argomento aiuta a mantenere un focus intellettuale sugli impegni morali e sulle loro conseguenze, sperabilmente anche al di là della comunità strettamente intellettuale e accademica. Violenza, danni e aggressioni sono così pervasivi della vita di tutti i giorni, che non è facile immaginare di vivere senza incappare in essi. Gli attacchi violenti che sferriamo verso gli altri esseri umani, gli animali e la natura dipendono da complicati meccanismi biologici e cognitivi, che fondamentalmente si intrecciano con il ruolo della moralità. Le persone dunque possono fare uso di diverse “morali” come armi violente, sia per azioni difensive che aggressive.
Come già dicevo, riconoscere la nostra “condizione” di “creature violente” e aumentare la conoscenza circa la nostra capacità di nuocere, vuol dire accettare la nostra responsabilità e sperare di riuscire ad individuare quei “firewall” cognitivi che possono aiutarci a prevenire la violenza. Nikolaj Gogol era già perfettamente consapevole che la nostra conoscenza, la nostra inclinazione e la nostra sensibilità verso il bene sono sempre indissolubilmente legate alla conoscenza, inclinazione e sensibilità verso il male. Capire la violenza grazie alla filosofia non significa perdonarla o giustificarla, e - forse - può essere di aiuto, ad esempio, ad evitare di cadere in una situazione violenta.
Come dicevo, considerare il male violento dal punto di vista della “moralità” dei colpevoli - dove la violenza appare chiaramente come giustificata
da “valori” - può aiutare a cogliere la violenza come un evento quasi ineluttabile e comune, che non può essere ignorato. Devo segnalare al lettore che per tentare di capire la violenza da un punto di vista filosofico hp dovuto cercare di sopprimere i suoi miei giudizi morali, guadagnando così una nuova consapevolezza metamorale circa la condizione umana. Lo spettacolo della violenza umana mi ha insegnato (e spero insegni a tutti) qualcosa di più sul come conviverci e come monitorarla, grazie all’attività del “conoscerla” meglio nella sua struttura e nelle sue funzioni.
Lorenzo Magnani, filosofo, epistemologo e scienziato cognitivo, è professore ordinario di Filosofia della scienza presso l’Università di Pavia e direttore del Computational Philosophy Laboratory del Dipartimento di Studi Umanistici. Ha lavorato in USA, Cina e altri paesi EU, e realizzato più di 400 pubblicazioni nel campo della filosofia, della logica e delle scienze cognitive. Dirige la collana Studies in Applied Philosophy, Epistemology and Rational Ethics (SAPERE), dell’editore Springer. È membro dell’International Academy for the Philosophy of the Sciences (AIPS).
* Fonte: Letture.org
CINEMA, FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA
IL SORGERE DELLA TERRA E "IL GRANDE PASSO" DELL’UmaNITÀ.
Una lezione della regista Cristina Comencini ... *
Quirinale, l’ironico appello di Cristina Comencini: "Noi donne cediamo il passo: ora un uomo alla presidenza della Repubblica"
La provocazione della regista sulla prossime elezione del nuovo capo dello Stato: "Bisogna dire che siamo state generose e abbiamo già ceduto a qualche singolo rappresentante del genere maschile delle responsabilità ma ora è il momento di fare il grande passo"
di Cristina Comencini (la Republica, 16 Gennaio 2022)
"Le donne italiane chiedono a gran voce finalmente un presidente della Repubblica uomo. Dall’alto della loro secolare esperienza al potere le donne dicono che è l’ora di cedere il passo agli uomini almeno per un tentativo, per una prima volta. Se l’esperienza deluderà, li si escluderà ancora per qualche decennio dalla carica, finché si saranno dimostrati pronti a esercitare con soddisfazione la più alta responsabilità dello Stato. Bisogna dire che siamo state generose e abbiamo già ceduto a qualche singolo rappresentante del genere maschile delle responsabilità ma ora è il momento di fare il grande passo. Ma non abbiate paura, non diamo loro una fiducia cieca, un mandato senza condizioni. Poniamo invece delle caratteristiche e dei valori precisi che non siamo ancora certe siano caratteristiche del loro genere".
"Prima di tutto una grande e estesa cultura, avere esperienza della politica ma anche competenze giuridiche e costituzionali, avere conquistato una stima e un apprezzamento ampio ben oltre i confini di un’area politica, essere in una rete di relazioni pubbliche ma anche nella società civile, avere capacità di mediazione e di pacatezza. Insomma saranno considerati solo i molto meritevoli e non saranno accettati perché uomini ma perché avranno dimostrato di essere eccellenti. D’altronde non cediamo volentieri il potere esercitato per tanto tempo a chiunque, ma siamo obbligate almeno a proporlo, è un fatto di civiltà, non si può aspettare ancora. Siamo d’accordo, in via di principio, che un uomo prenda il posto di una donna, ma intendiamoci non è obbligatorio. Noi siamo talmente forti ed esperte che sarà difficile trovare un uomo all’altezza. Siamo legate una all’altra in un patto d’acciaio consolidato nei secoli. Ma intanto nessuno potrà rimproverarci di non averlo dichiarato, di non essere al passo con i tempi. Allora diciamolo senza paura, tanto non succederà: un uomo alla presidenza della Repubblica. Bisogna guardare il rovescio per capire il dritto".
* IL SORGERE DELLA TERRA E "IL GRANDE PASSO" DELL’UmaNITÀ. Una lezione della regista Cristina Comencini...
Brillante sollecitazione ...
BENE, BENE! “Bisogna guardare il #rovescio per capire il #dritto" - e il DIRITTO. La COSTITUZIONE e l’antropologia, non l’andrologia!
...UN FATTO DI CIVILTÀ. Che si cominci: si tratta di riequilibrare antropo-logica-mente la bilancia stessa dell’esistenza e uscire dall’orizzonte tragico della cosmoteandria - come da indicazioni di Dante 2021 (e da Virgilio-Freud: dall’ Acheronta Movebo, fin nel più alto dei cieli).
EARTHRISE (24 dicembre 1968). Che si sappia e si abbia, finalmente, la visione del Sorgere della Terra...
Che l’Italia viva!
CRONACHE MARZIANE.
Ma come sono intelligenti (questi esseri umani terrestri d’Italia): non sanno proprio nulla della fattoria né di Platone né di Orwell. Hanno approvato una Legge che dice:tutti i partiti sono uguali, ma un partito è più uguale degli altri! E si apprestano a nominare Presidente della loro Repubblica, il presidente (o chi per lui) di questo partito. Il giogo e il gioco è già in atto da più di un ventennio!
Sono proprio intelligenti e sportivi questi terrestri italiani: con il loro nuovo presidente, tutti e tutte gridano e agitano le bandiere del partito: "forza italia". Tutto il loro mondo è diventato uno stadio e, finalmente, il loro Presidente è l’Arbitro di tutti i partiti e di tutte le partite!!!
Federico La Sala
ARCHEOLOGIA, FILOSOFIA, LOGICA PSICOANALISI E COSTITUZIONE: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS" (non il Logo di una fattoria).
DIO E LE LETTERE DELL’ALFABETO. Questa storiella dello Zohar "nasconde" una grande lezione di logica e matematica, antropologia e teologia (e, a mio parere, offre la chiave per meglio capire il senso stesso del riferimento di Baruch Spinoza al detto Homo Homini Deus Est e il messaggio dell’ impresa di Dante Alighieri).
Quando si comincia a contare, da dove bisogna cominciare, per iniziare bene ed essere gà a metà dell’opera?! Chi è che conta e da dove inizia. Perché (come qui, nella storiella dello Zohar) dalla Bet?
Premesso che le lettere dell’alfabeto ebraico sono anche numeri e, quindi, hanno un valore numerico, è opportuno ricordare che alef vale zero (= 0) e che bet vale uno (= 1); e, quando si comincia a contare, si comincia a contare da uno (= 1), appunto, da bet.
Per non perdere la #bussola e, ancor di più, per non lasciarsi sopraffare dalla narcisismica terremotante tentazione di truccare le carte e il conto, però, occorre tenere ben presente che al "Dio" che conta, in un altro testo decisivo della tradizione biblica (Apocalisse di Giovanni), è attribuita la seguente importantissima frase: "Io sono l’alfa e l’omega" (greco koinè: "ἐγὼ τὸ Α καὶ τὸ Ω"). La precisazione è decisiva...
Amore è più forte di Morte (Ct., 8.6). A ben riflettere sull’apocalittica frase, si apre la porta di una chiara #comprensione sul Chi (= X) lega e sa legare "il principio e la fine" (Apocalisse 21:6, 22:13) e, al contempo, sul buon messaggio stesso della "Divina Commedia": "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145).
L’alfa (il principio) e l’omega (la fine), e la bet ("la prima lettera dell’alfabeto), la lettera che indica ""il verso giusto del cammino"!
Bet, la lettera di Benedizione ....
LA PIETRA FONDAMENTALE E LA PIETRA ANGOLARE: "ECCE HOMO". Ogni Uno (=1), Ognuno (ogni Eva e ogni Adamo, ogni Maria e ogni Giuseppe), Ogni Essere umano (Everyman, così Dante Alighieri per Ezra Pound), è antropologicamente e linguistica-mente la lettera dell’alfabeto, la Bet, la lettera di Benedizione e Bereshìt, la Parola che sta "Nel Principio": "Nel Principio era il Logos". L’amor che move il sole e le altre stelle....
L’OMELIA PERFETTA DI NICCOLÒ CUSANO
L’INCARNAZIONE COMPLETA LA CREAZIONE
di PIERO STEFANI (Corriere della Sera, La Lettura, 19 Dec 2021)
Il rito cattolico romano prescrive, per il giorno di Natale, tre diverse messe: quella della notte, quella dell’aurora e quella del giorno. Ognuna prevede un Vangelo diverso. A mezzanotte si legge Luca (2,114): è la scena della nascita di Gesù a Betlemme, degli angeli e dell’annuncio ai pastori, un quadro che è quasi inevitabile associare al presepe. Al primo mattino i pochi presenti ascoltano i versi successivi (Luca 2,15-20) nei quali si descrive la stupita visita dei pastori a Maria, a Giuseppe e al bambino adagiato sulla mangiatoia. Quando il sole è già alto, il brano evangelico accantona la componente narrativa e si immerge nelle profondità del cosiddetto Prologo di Giovanni (1,1-18): una sequenza di versetti che culmina là dove si afferma che la Parola (termine spesso reso con Verbo, il greco ha logos) si fece carne.
Il senso del Natale è sospeso tra due estremi: da un lato vi è il richiamo alla nascita che accomuna tutti i viventi, dall’altro l’annuncio che il Figlio, la seconda persona della Trinità, si è fatto uomo. A differenza della prima, questa seconda convinzione è fatta propria solo da una parte minoritaria dell’umanità.
Come festa legata alla nascita, il Natale ha la potenzialità di accomunare tutti. Ognuno, se vi dedica qualche riflessione, comprende che la tenerezza suscitata da un neonato è un riflesso della legge, priva di eccezioni, secondo la quale tutti nasciamo non autosufficienti e bisognosi di aiuto. Il semplice fatto di essere vivi attesta che qualcuno si è preso cura di noi. Il senso di solidarietà avvertito a Natale trae alimento da queste remote radici. Dietro la banalità del detto «a Natale si è tutti più buoni» si celano profondità esistenziali.
Le visioni di fede sono di frequente paradossali. I credenti sanno di essere una minoranza ma nello stesso tempo devono essere certi che le loro convinzioni riguardano tutti, anzi concernono il tutto. Si tratta di una sproporzione avvertita anche quando la maggioranza della società era cristiana.
Nel Natale del 1440, lo stesso anno in cui scrisse De docta ignorantia, il suo libro più celebre, Niccolò Cusano tenne ad Augusta, in Germania, una lunga predica nella quale la dottrina superò l’ignoranza. Alcuni passaggi sono rivelatori della sua filosofia. Dio è infinito, il mondo è invece finito. Tra infinito e finito non c’è proporzione. Tuttavia il mondo non può esistere senza un rapporto con il suo Principio che infinitamente lo trascende.
Come fa dunque l’universo a esserci? Vi è un’unica risposta possibile: ciò avviene a motivo dell’Incarnazione, «infatti se Dio non avesse assunto la natura umana - la quale compendia in sé tutti gli altri esseri come loro centro unificante - l’universo nella sua totalità non sarebbe compiuto e perfetto, anzi non sarebbe affatto un universo». La convinzione umanistica che giudica l’uomo un «microcosmo» è chiamata in causa per dare ragione dell’esistenza di tutte le cose. Dio si incarna non a motivo del peccato umano ma perché il creato sia e sussista.
Nessuno esige dai presbiteri che predicheranno nella notte e nel giorno di Natale di misurarsi con le abissali prospettive cusaniane. La richiesta è più contenuta, sarebbe infatti sufficiente che gli immancabili appelli al bambinello e alla solidarietà fossero davvero capaci di misurarsi con la serietà dell’esistenza.
Il caso.
Filosofi senza fondi per la ricerca. Fanno discutere gli ultimi finanziamenti
Diffusa la classifica dei progetti Prin sostenuti dal Miur con 11 milioni. Nell’area che comprende quasi tutta la filosofia bocciato ogni progetto legato alla disciplina
di Andrea Lavazza (Avvenire, sabato 27 novembre 2021)
La filosofia ha ritrovato qualche visibilità pubblica nel dibattito (acceso) sulla legittimità di alcune misure di prevenzione della pandemia e cerca di ritagliarsi quel ruolo civile e politico che le compete, tra tante voci scomposte, incoerenti e senza capacità di analisi. Ma in filosofia la proiezione pubblica del pensiero viene dallo studio, dall’approfondimento e dal confronto che si fanno nell’università. Senza quel retroterra, la disciplina langue e i suoi esponenti saranno di basso profilo.
Per questo ha suscitato sorpresa e rimostranze in molti ambienti accademici la recentissima pubblicazione delle graduatorie per l’assegnazione dei fondi Prin. Si tratta dei finanziamenti che il Miur mette a bando per i migliori progetti di ricerca universitari, divisi per macroaree. Nella cosiddetta SH5, che raggruppa la maggior parte delle materie filosofiche insieme alla letteratura, gli studi classici e comparatistici, la storia delle arti, dell’architettura e della musica, tra i 24 progetti premiati con oltre 11 milioni di euro complessivi non ve n’è nemmeno uno promosso da filosofi. A memoria di tutti i docenti interpellati non era mai successo. Non si parla ovviamente di ordinare i settori disciplinari per importanza, a essere valutati erano le singole proposte di attività di ricerca, secondo oggetto e modalità di svolgimento. Ma colpisce che la filosofia, con il 10% dei 253 progetti presentati, non abbia raccolto nulla.
Sottovalutati i temi dell’etica
Qualche maligno attribuisce il risultato negativo a qualche isolato e presenzialista “avversario del Green pass” e all’avversione che può avere suscitato verso la disciplina, ma la comunità filosofia ha reagito con tempestività e con contributi di valore, mostrando al contrario di quanto bisogno vi sia di buone elaborazioni concettuali anche di fronte a un’emergenza sanitaria.
“C’è da chiedersi se la politica culturale italiana voglia ancora promuovere le humanities e la riflessione etica in particolare, proprio in un momento in cui di etica si parla tanto e di buona etica c’è grande necessità”, riflette Adriano Fabris, docente ordinario a Pisa, presidente della Società italiana di filosofia morale e visiting professor in molte università internazionali. “Sembra siano in gioco trasparenza e competenza. Trasparenza perché non è ben chiaro quali criteri utilizzi il Comitato dei Garanti che al ministero dell’Università e della Ricerca nomina i revisori, italiani e internazionali (questi giustamente anonimi). Competenza, perché molti giudizi paiono opachi, non adeguatamente motivati, a differenza di ciò che accade nella valutazione qualitativa della ricerca (Vqr), e mostrano anche notevole approssimazione e scarsa conoscenza della discussione internazionale”.
Sulla stessa linea Pasquale Porro, dell’università di Torino, tra i massimi medievisti, già alla Sorbona, vincitore di numerosi progetti e direttore di riviste e collane internazionali: “Credo con convinzione nella cultura dei bandi competitivi, e ritengo (come nel caso dell’ERC) che faccia parte di questa cultura accettare i risultati delle valutazioni, qualunque essi siano. L’importante però è che la competizione sia davvero tale, e non squilibrata: è un’evidente anomalia statistica che nessuno dei progetti filosofici afferenti al settore SH5 sia stato ammesso al finanziamento, mentre siano stati premiati soprattutto i progetti relativi a un altro ambito disciplinare appartenente allo stesso settore”.
Troppe asimmetrie di giudizio
Aggiunge Mario De Caro, professore a Roma Tre, già a Harvard e MIT e vicepresidente della Consulta nazionale di filosofia: "Al di là delle questioni di merito su parecchie valutazioni francamente inadeguate, nei processi valutativi qualche stortura è inevitabile, e ormai ciò che è fatto è fatto. Per il futuro, però, sarebbe bene che il Ministero normalizzasse i risultati delle valutazioni delle diverse aree: se in una determinata area ci sono tanti progetti che ottengono il massimo dei punteggi e in un’altra non ve n’è nessuno, siamo di fronte un evidente problema di asimmetria dei criteri di giudizio. Un problema, questo, che per la VQR è stato risolto, appunto, con la normalizzazione. Sarebbe molto auspicabile che si facesse altrettanto per il prossimo Prin".
Andrea Staiti, già Professore al Boston College, rientrato in Italia con il programma "Levi Montalcini" per il ritorno dei cervelli e professore associato di filosofia morale all’Università di Parma, esemplifica così con il suo progetto: “Il voto, tra i tre ricevuti, assegnato da un collega internazionale è stato quello più alto, rispetto a quelli dei colleghi italiani. Inoltre, viene dato ‘appena sufficiente’, senza addurre motivazioni ulteriori, alla voce Sfide che la ricerca affronta sotto il profilo dell’incidenza sull’innovazione tecnologica, sulle applicazioni industriali, sulla crescita economica ovvero sulla soluzione di problemi sociali, sulla protezione dell’eredità culturale o dell’ambiente anche con approcci interdisciplinari. Questa però è una valutazione della filosofia come disciplina, non del progetto particolare. Viene anche sostenuto che il tentativo di produrre una teoria filosofica della responsabilità ‘non è molto originale’. Varrebbe la pena sollevare una domanda su cosa il valutatore intenda con ‘originalità’ in filosofia (è necessariamente non originale occuparsi del libero arbitrio o dell’idea di giustizia?) e notare che il valutatore internazionale ha espresso parere opposto”.
La ricerca filosofica esclusa dai fondi del Pnrr?
Commenta Beatrice Centi, docente a Parma, già alla Normale di Pisa, e attuale presidente della Consulta nazionale di filosofia: "Valutare dal punto di vista applicativo i progetti di ricerca filosofici appare spesso molto problematico ed è questa una voce che può rendere inefficaci valutazioni anche molto positive di altri aspetti dei progetti".
“Il punto più critico - conclude Fabris - è che di fatto si svaluta la filosofia nelle sue declinazioni - teoretica, morale, politica - a favore di una discipline tecnico-applicative che sono importantissime ma non possono occupare tutto lo spazio della ricerca. Tra i ‘bocciati’ ci sono infatti figure autorevoli a livello internazionale. Soprattutto, preoccupa adesso che cosa accadrà con i fondi del Pnrr. Si parla di 7 miliardi per l’università e di 760 milioni per il prossimo programma di Prin a partire dal 2022. Dobbiamo forse prendere atto che la filosofia non è degna di ricevere sostegno per la ricerca? Se è così, ci venga detto apertamente”.
La perdita dell’etica pubblica senza una fede laica nel bene comune
Sinistra. Scomparso l’antagonista storico del capitalismo, regrediti i ceti medi e la classe operaia avanzata, è emersa una nebulosa rancorosa, un magma sociale senza morale. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». (Giacomo Leopardi)
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 20.11.2021)
In un Paese nel quale due uomini come Silvio Berlusconi e Matteo Renzi son potuti assurgere al ruolo di presidenti del Consiglio, e il primo ambisce alla Presidenza della Repubblica, con ogni evidenza è accaduto qualcosa di grave nei fondamenti della sua vita civile. Quanto è avvenuto segnala un guasto profondo nell’etica pubblica, un decadimento di vasta portata della moralità collettiva.
Occorre ricordare che i processi di degrado dell’etica pubblica, in atto in Italia, ingigantiscono in virtù dei singolari caratteri originali del nostro Paese, un fenomeno di per sé universale: lo svuotamento ideale e il decadimento della politica quale arte moderna del governo delle società, pratica della sua trasformazione progressiva o rivoluzionaria. Si tratta di questioni note: il tracollo delle ideologie del ‘900, la dissoluzione dei partiti popolari e la loro riduzione a comitati elettorali, la corruzione dilagante, ecc. Questa analisi coglie però una parte della realtà.
La scomparsa dell’antagonista storico del capitalismo (comunismo e in parte socialdemocrazia) ha favorito, insieme ai processi materiali della globalizzazione, la marginalizzazione dei ceti medi e della classe operaia avanzata, che avevano costituito per decenni la base più estesa di consenso e partecipazione pubblica nelle società industriali. Erano questi ceti che garantivano la moralità progressista della politica. La loro regressione sociale, anche per effetto della riduzione del welfare, ha allontanato masse estese dalla militanza politica, dalla partecipazione elettorale, da ogni interesse per la cosa pubblica.
Al loro posto è emersa una nebulosa indistinta di gruppi e individui priva di connotazioni politiche coerenti, che sostituisce rivendicazioni e prospettive di riforma dell’esistente con espressioni rancorose di risentimento, confuse pretese risarcitorie, ostilità contro l’”altro”. Mancando la direzione dell’intelletuale collettivo che erano i partiti, la scena pubblica viene occupata così da un magma sociale a cui politologi e commentatori, in mancanza di meglio, hanno dato il nome di popolo. Un lemma vecchio per una realtà del tutto inedita.
Se un dato distingue le società industriali questa è la loro ricchissima stratificazione sociale. Il popolo è un concetto dell’800 per l’800. Ma l’analisi politologica non ha ancora colto l’essenziale. Dietro la decadenza della politica si erge gigantesco un fantasma che rimane nascosto agli sguardi superficiali: il nichilismo. Quanto profetizzato da Nietzsche, la morte di Dio e la perdita di fondamenti di ogni morale, è ormai senso comune e investe la politica alle radici. Col dissolvimento della religione, la scomparsa, per lo meno in Occidente, delle fedi delle varie confessioni, veicolo pur sempre di valori morali, anche la politica tracolla.
Se la scienza politica, a partire da Machiavelli, fa a meno della religione, la politica corrente muore se nessuna “religione” la sostiene, neppure la fede laica nel bene comune e nella possibilità di cambiare il mondo. E non è senza significato che ad anticipare questi anni sia stato il nostro Leopardi, il quale diversi decenni prima di Nietzsche aveva intravisto «questa universale dissoluzione dei principi sociali, questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in grande forse circa il futuro destino delle società civili». Si rilegge oggi con brividi di emozione e stupore il Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani (1824), per la potenza disvelatrice di uno sguardo che non lascia ombre alla situazione desolante del nostro tempo.
Dunque, il quadro generale è quello di una grave involuzione antropologica delle società umane, ma entro il quale, l’Italia è, per ragioni che Leopardi esamina in maniera impeccabile, il Paese in più gravi condizioni: «L’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun altra nazione europea e civile». Sembra scritto in questi giorni: «Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». L’egoismo, il narcisismo, l’invidia, l’odio per l’altro erano allora la norma, prima che gli ideali del risorgimento investissero lo spirito pubblico.
Naturalmente all’analisi di Leopardi manca il ruolo dei media, i quali amplificano, rendono popolare, materia di spettacolo l’immoralità crescente del ceto politico e della cosiddetta società civile.
So per certo, per parafrasare Leopardi, che se le leggi l’avessero consentito, non pochi giornalisti avrebbero invitato Totò Riina ai loro programmi televisivi. Costoro sono incarnazioni perenni del tipo italiano dell’analisi leopardiana. Ebbene, è dalla profondità di tale catastrofe culturale e spirituale che la sinistra e le forze democratiche dovrebbero oggi prendere le mosse, perché la dissoluzione della società non abbia quale rimedio al caos un governo autoritario.
CULTURA
"Ridicolo il cicaleccio dei filosofi sulla libertà che staremmo perdendo"
Colloquio con Franco Ferrarotti su Covid e vaccino: "È sciocco prendere questo tema e farne motivo di una contesa inutile"
di Davide D’Alessandro (L’HuffPost, 20/11/2021)
Mentre saluto Franco Ferrarotti sulla soglia dello studio di Corso Trieste, ho appena finito di leggere “Osservazioni su La Voce di Giuseppe Prezzolini”, edito da Solfanelli, l’ultima gemma del professore emerito di Sociologia, vincitore del primo concorso della disciplina bandito in Italia. Da quella cattedra è sempre evaso, andando in giro per il mondo a cogliere quanto di nuovo il mondo offrisse, vivendo per scriverlo, per raccontarlo, dopo averlo osservato a fondo, come solo un gigante del pensiero sa fare.
Oggi, a 95 anni, molto vicino ai 100 di Prezzolini, osserva l’intellettuale italiano e lo vede in disarmo: “Eh, cosa vuole che le dica, caro D’Alessandro! Quando il filosofo va a caccia del contenuto, perde la propria essenza e si trasforma in un soggetto ridicolo. La filosofia non è contenuto, ma contemplazione. Ascoltare il cicaleccio di filosofi che si accapigliano sulla presunta libertà che staremmo perdendo, sulla democrazia in pericolo, sullo Stato di eccezione o di emergenza, è una colossale perdita di tempo e io di tempo non ne ho da perdere. Ho scritto su Prezzolini, persona versatile e multiforme, e sulla sua ‘Voce’, anche per riflettere sulla figura dell’intellettuale italiano, nel quale ha sempre luogo un’aoristica contrazione di tutta la storia nella sua biografia”.
È reduce dalla terza dose di vaccino, il professore, ma non si sente affatto un eroe: “Guardi, dobbiamo capire che non c’è altro da fare. È come soffiarsi il naso. C’è poco da stare a discutere. Lungi da me il pensare che si sia trovata la soluzione. Sono tentativi. Non è la prima volta nella storia dell’uomo e non sarà l’ultima. Si tenta, ma di tentativo in tentativo si arriverà a risolvere il problema. È sciocco prendere il tema Covid e farne motivo di una contesa inutile. Quando i filosofi erano impegnati a contemplare, a pensare, venivano fuori grandi libri e grandi idee. Quando si calano sulla cronaca spicciola e credono di potersi inventare chissà quali battaglie, scadono nel ridicolo e, ciò che conta, smettono di produrre opere di senso”.
Ferrarotti, pur non lesinando critiche alle Riviste e ai pensatori di un tempo, soffre per l’evidente cambiamento qualitativo: “La vita delle idee muta registro. C’è un deperimento della funzione ideativa, in una società iper-tecnicizzata, irretita e portata più alla ripetizione che all’invenzione. L’innovazione tecnica può dare l’illusione di grandi novità, ma troppo facilmente si ignora che la tecnica è un valore strumentale e una perfezione priva di scopo, paga di controllare l’esattezza funzionale delle sue operazioni interne”.
In un contesto così fragile e disarticolato, c’è il rischio che tanti esseri umani, come pappagalli, si mettano al seguito, via social o meno, alimentando notizie false, soffiando sul malcontento generale, di chi vorrebbe organizzarli per denunciare qualcosa che non esiste. Al mattino abbiamo davanti a noi i giornali, dove si delinea la farsa quotidiana sul vaccino e sul green pass. Al pomeriggio è possibile far visita a chi i giornali continua a leggerli, sapendo discernere la fuffa dalla polpa. Ritirato nel suo studio, ma non ritirato dal mondo, il pensatore conviene che non vi sia in giro alcun Giordano Bruno. L’eresia, il dissenso, la capacità di dire no, restano per Ferrarotti le coordinate irrinunciabili di un libero pensatore, ma eresia, dissenso e capacità di dire no impongono un prezzo da pagare, non da riscuotere. Nella società della conoscenza e della comunicazione manca la voce di Prezzolini, ma altre voci, fingendo di pensare altrimenti, bombardano i nostri giorni così complicati. Dalla qualità alla quantità.
È davvero questo il destino della filosofia? Il professore accenna un sorriso amaro. È ora di andare a pranzo. C’è da pensare a un altro libro, a un libro altro.
DESIDERIO DI CONOSCERE E DIVIETO DI SAPERE ∗
di Paul C. Racamier∗∗
Qualche disturbo di voce mi impedisce purtroppo di presentare direttamente il mio breve lavoro. Mi dispiace anche perché apprezzo molto queste Giornate di Studio. Tuttavia abbiamo la fortuna di ascoltare il mio contributo letto da una voce amica che sarà così gentile da utilizzare la sua voce per ringraziarvi dell’attenzione.
D’altra parte ho solo alcune annotazioni da presentarvi che spero non saranno troppo dispersive. Non stupitevi che questi appunti siano l’eco delle mie preoccupazioni attuali.
Sappiamo bene che il desiderio della conoscenza si alimenta ad una sorgente essenziale, cioè al desiderio di conoscere i segreti della sessualità, partendo da quella dei genitori. Tornerò alla fine sulla questione dei segreti.
Questa curiosità essenziale si origina quindi nella camera dei genitori. Tuttavia la fonte non basta. Essa necessita anche - permettetemi una o due immagini alla mia maniera - di uno spazio e di un letto. Lo spazio consiste in un’area di discrezione che avvolge l’attività sessuale dei genitori in maniera da svolgere una funzione di "para-eccitazione". Senza questa area di discrezione - che é quasi un’area di transizione - non ci sarebbe spazio nel bambino per fabbricare il fantasma e tesserlo; senza questa area di para-eccitazione la sessualità dei genitori sarebbe davvero solo una seduzione invadente, un’effrazione traumatica, come venne descritta da Freud e come la si può incontrare ancora oggi nella pratica clinica.
In tal caso la psiche del bambino viene portata, direi perfino trascinata nel temibile ambito dove il sessuale non psichizzato rimane allo stato grezzo; un ambito dove non rimane spazio per il lavoro dello psichico sul sessuale; un ambito la cui espressione ultima è costituita secondo me dall’incesto e in modo più ampio dall’incestualità, cioé dal corto-circuito e dall’esclusione di qualsiasi elaborazione lipidica, dato che l’incestuale non é altro che il colmo dell’anti-libidinale.
Non anticipiamo troppo. Ma vale la pena di porsi da adesso una domanda: se il desiderio di sapere é per l’uomo un’estensione del desiderio di conoscere i segreti del sesso, bisogna chiedersi a quale condizione tale estensione sia possibile. Come mai questa curiosità si estende ad altri tipi di sapere? Perché ciò avvenga è indispensabile che le sia lasciato lo spazio. Bisogna che quell’area di elaborazione a cui accennavo sia preservata. Ora, l’effrazione genitoriale, se avviene, è traumatica nel senso che invade o distrugge quest’area di discrezione. Perché si sviluppi la voglia di sapere, bisogna prima che il sapere non sia stato piantato come un chiodo nella testa e nel corpo del bambino. Il sapere, per crescere, ha bisogno di essere avvolto da un materasso di silenzio.
Una fonte, dicevo. A questa fonte serve un letto. Questo letto è quello che io chiamo il pensiero delle origini. Mi sembra che questo pensiero giochi una parte essenziale nello sviluppo armonico della vita psichica. Non si limita affatto alla conoscenza o al fantasma delle nostre origini; non consiste nella ricerca delle cause. Rappresenta un’intera modalità del funzionamento psichico e sono tentato di situarla al di sotto dei processi primario e secondario del pensiero senza i quali niente si può apprendere né sapere.
Con "pensiero delle origini" intendo la capacità fondamentale e indelebile di provare, fantasticare, concepire e pensare che ogni cosa, ogni conoscenza, ogni persona, abbiano delle origini che a loro volta hanno altre origini, e così di seguito. L’origine è quello che precede: è a monte. Non ci sono limiti alle origini ma il pensiero delle origini non corrisponde all’onnipotenza perché è riuscito a passare attraverso la strettoia del lutto originario che inaugura la rinuncia all’onnipotenza. E’ lì che inizia il filo della vita e questo filo sarà vissuto come una creazione personale, o piuttosto, secondo il mio vecchio amico Antœdipo, come una coproduzione dei genitori e di se stesso.
Perdonatemi questa escursione in concetti che sembreranno complessi, a meno che vi siano familiari. Tuttavia questa deviazione ci porta a due affermazioni molto semplici.
1. Il bambino o l’adulto che non è riuscito a confezionarsi un pensiero delle origini, che quindi non ha rinunciato alla conoscenza assoluta e alla padronanza onnipotente delle proprie origini e della propria vita, probabilmente non avrà né la voglia di sapere né la disponibilità interiore, area di silenzio di cui bisogna disporre nel proprio mondo interno, necessaria per investire in nuove conoscenze. Tale è il caso dei soggetti con patologia narcisistica grave. Non sopportano di imparare perché in ogni conoscenza nuova vedono meno quello che avrebbero da guadagnare di quello che, essendogli sconosciuto, gli fa difetto e ferisce il loro irresistibile fantasma di onnipotenza e onniscienza. Accettando di imparare sembrerebbe loro di derogare a questo fantasma; tant’è che per imparare bisogna prima ignorare. Ora l’ignoranza non è altro che una vergognosa debolezza quando la si guarda dall’alto di un narcisismo intollerante. I narcisisti più "accesi" hanno una vera anti-voglia di imparare.
2. L’altro punto è più temerario. Non mi sembra azzardato ritenere che l’imparare e il sapere
costituiscano già un atto di creazione. Atto modesto, certo, ma fondamentalmente della stessa
natura della creazione vera e propria, e che presenta alcune delle sue caratteristiche principali.
Se non è una creazione vera e propria, fa parte almeno della stessa famiglia. Ogni cosa appresa
ha infatti questo carattere sia personale che universale che nella sua ambiguità, è propria di ogni
cosa creata.
Come ogni creazione nuova, ogni sapere nuovo provoca un ampliamento ed
un’estensione dell’io. Non da ultimo, l’acquisizione del sapere e anche la sua trasmissione, è
creativa nel senso che è il frutto di una coproduzione. Per imparare bisogna prendere e offrire;
non per caso il verbo apprendere (in francese apprendre) può intendersi secondo due modi
diversi: si può insegnare a qualcuno e apprendere da qualcuno; due correnti pulsionali avverse e
complementari che si completano strettamente in questa attività.
Vediamo qui come le strade si incrociano. Se é vero che l’esistenza di ciascuno di noi è il frutto di una coproduzione, dato che la vita ci è stata data ma non cessa di sgorgare in noi stessi, se quindi questo fantasma di fondazione è il perno delle origini; e se questo pensiero delle origini è realmente il letto del desiderio e della capacità di apprendere; se infine l’atto di apprendere è in se stesso una sorta di creazione, allora si vede bene che i nostri concetti si raggiungono nel sapere.
Se mi dite che la conoscenza di se stesso attraverso la relazione psicoanalitica è in se stessa il frutto di una coproduzione, ne converrò sicuramente. Se dite che all’origine dei disturbi del sapere e, più in generale, all’origine delle occlusioni gravi della vita psichica c’è uno sbarramento di vecchia data sul pensiero delle origini, ne converrò anche.
Ma basta con queste grandi idee. Volevo parlarvi del piacere. E per quello vorrei parlarvi dei segreti. Esistono due tipi di segreti. Vi sono i segreti libidici, come i segreti dell’alcova e i segreti di corridoio, che parlano sempre del piacere e che presentano il felice paradosso di circolare tra le generazioni rimanendo nell’ambito del privato: quei segreti sono dei serbatoi di fantasmi, delle macchine per pensare e degli stimoli del sapere. Il culto della verità naviga nelle stesse acque di quello del sapere. Li sospetto entrambi di trarre una forza considerevole dall’auto-erotismo: è proprio quando la verità, che non si incontra comunemente per strada, diventa un oggetto di piacere che l’io le corre dietro: non è vero tra l’altro che la verità viene descritta solitamente come una signora che, quando esce, va in giro svestita?
Al contrario esistono dei segreti anti-libidici. Essi impediscono l’accesso alla conoscenza, alla comprensione, allo scambio e al pensiero così come alla parola. Sono dei segreti inibitori. Di generazione in generazione esercitano i loro effetti paralizzanti. Li incontrerete dappertutto dove regna l’impero incestuale. Ciò significa che li incontrerete spesso. Il regno del segreto esercita un’influenza della peggiore specie. Si tratta di un divieto molto crudele e molto primitivo che ostacola ogni sapere per impedire la scoperta di alcuni saperi. Questo divieto di dire, questo divieto di sapere, questo divieto di pensare si esercita non tramite l’Io ma direttamente sull’Io, nel cuore stesso dell’Io. Perciò penso che sia molto diverso dal Super Io edipico.
Si potrebbe dire che il Super Io edipico prende l’io da parte e gli ingiunge: "Tu, Io, dirai ai tuoi amichetti, i fantasmi erotici, di tenersi tranquilli e di non fare troppo baccano in fondo alla classe". E l’Io obbedisce più o meno. Ecco come si comporta un Super Io di buona compagnia.
In un regime incestuale e sotto l’impero di un narcisismo abusivo e perforante, come quello che abbiamo visto trasgredire le aeree di transizione e di para-eccitazione di cui l’Io ha bisogno per svilupparsi, succede tutt’altro; sembra che una forza pressante prema l’Io da tutte le parti, gli prenda la testa, gli tappi gli occhi e le orecchie e gli imponga gradualmente un divieto assoluto di imparare, e perfino di pensare. "Se sai, dice, se vuoi sapere, se pensi, allora mi fai morire e muori".
Il Super Io edipico vieta l’incesto ma ne lascia passare il desiderio e il fantasma; lascia anche passare il desiderio di sapere e il piacere di desiderare; all’opposto l’oppressione appena descritta e che chiamerei volentieri, usando un neologismo, un super-anti-io, questa oppressione crudele permette l’incesto ma non lascia spazio al desiderio nonché al sapere, alla conoscenza e al pensiero.
Così viene confermato dal suo contrario quello che sappiamo da sempre: che la conoscenza e il piacere sono legati tra di loro e con la vita. La mia lettrice ed io vi ringraziamo per l’attenzione.
∗ Desiderio di conoscere e divieto di sapere di Paul C. Racamier Gennaio - Giugno 2002. Ringraziamo la Sig.ra Racamier per la gentile concessione alla pubblicazione di questo lavoro e l’Editore del “Bulletin de l’ACIRP” che ha pubblicato gli Atti del Convegno “Envie de savoir, envie d’apprendre”, Besançon, 23 marzo 1996.
∗∗ Traduzione in italiano a cura di Josiane Lots.
Fonte: Quaderno di Psicoterapia del Bambino e dell’Adolescente (2002) Vol. 15, pp. 11-15. 2
Sulla lettera dei filosofi contro Agamben
di Luca Illetterati (Le parole e le cose, 19 ottobre 2021)
Il difetto principale dei filosofi, diceva Hegel - che un po’ se ne intendeva - è la pretesa che essi hanno di insegnare al mondo come il mondo dovrebbe essere. Come se il mondo fosse ogni giorno lì ad aspettare che arrivasse il pensatore di turno a dirgli che vestito indossare al sorgere del sole. Questa malefica tentazione sembra diventata tanto più evidente all’interno del periodo di crisi pandemica che stiamo vivendo. E non si sta qui parlando solo delle posizioni oramai notissime di Giorgio Agamben contro le quali chi scrive ha anche aspramente e pubblicamente polemizzato ritenendole posizioni che rischiano di sfociare in forme di complottismo populistico, o che comunque dimostrano quanto gli occhiali ideologici dei dispositivi che si sono elaborati per leggere il mondo rischino di deformare radicalmente ciò che il mondo mostra di sé.
A leggere infatti la lettera ‘contro Agamben’ firmata da un numero considerevole di filosofi italiani e pubblicata il giorno 16 ottobre sul “Fatto quotidiano” viene davvero da pensare che questi oppositori filosofici delle posizioni agambeniane siano forniti di occhiali perlomeno altrettanto deformanti e, verrebbe da dire, anche un po’ più dozzinali di quelli di cui vorrebbero mostrare la debolezza e gli effetti distorcenti. La lettera muove da un tono scandalizzato per il fatto che Giorgio Agamben è stato audito in una commissione al Senato sulla questione Green Pass.
Scandalo, evidentemente, del tutto immotivato. Agamben non è stato invitato in quanto rappresentante di una comunità filosofica che andrebbe perciò difesa dal rischio di essere confusa con le posizioni assai controverse di un singolo filosofo, ma in quanto persona autorevole - piaccia o meno, rientri o meno nelle pagelline che pretendono di dare patenti di filosoficità, è il filosofo italiano più noto al mondo - che ha una posizione molto discutibile (e forse anche per questo interessante) sulla questione del Green Pass. Una posizione che taluni pensano sia un bene che chi legifera abbia presente. Non necessariamente per accoglierla, ma ad esempio anche solo per capire se offra argomenti che possono essere tenuti presente per fare poi, con maggiore consapevolezza, magari il contrario di quello che Agamben vorrebbe. Dopo di che la lettera entra nel merito di ciò che Agamben ha sostenuto in quella audizione (e in generale in questi mesi).
In primis, dicono i filosofi che sembrano certi di abitare dalla parte giusta del mondo e della storia, è falso sostenere, come ha fatto Agamben nell’audizione, che i vaccini anti-covid19 siano in una fase sperimentale. Giusto. I vaccini sono stati infatti testati. Ribadendolo, però, forse non sarebbe fuori luogo dire che è altrettanto vero che la somministrazione dei vaccini è iniziata - a mio parere giustamente e per un atto di responsabilità politica che andrebbe esplicitamente rivendicato e non nascosto - prima che tutti gli step cui solitamente viene sottoposto un farmaco fossero conclusi.
Come noto, infatti, solo nell’agosto del 2021 (quando cioè il vaccino era già in uso) la Food and Drug Administration americana ha fatto uscire il vaccino Pfizer-Biontech da quella che non a caso viene chiamata - con un termine che fa evidentemente gioco ad Agamben - emergency use authorization, ovvero approvazione emergenziale. E infatti solo da quel momento un governo che si volesse assumere quella responsabilità potrebbe introdurre l’obbligo vaccinale. Per l’Agenzia Europea del Farmaco, invece, i vaccini sono ancora sottomessi a CMA (Conditional Marketing Authorisation), ovvero ad autorizzazione al commercio condizionata, la quale è lo strumento utilizzato per accelerare l’approvazione dei medicinali durante un’emergenza sanitaria pubblica o per affrontare esigenze mediche non soddisfatte. Non dire queste cose e far credere che la somministrazione del vaccino abbia seguito una prassi standard vuol dire o non voler riconoscere l’eccezionalità decisionale che la situazione ha richiesto o voler far credere qualcosa che non corrisponde al vero.
Il secondo punto su cui si sofferma la lettera dei filosofi che non vogliono essere confusi con Agamben è che sarebbe improprio sostenere che ci troviamo in un’epoca in cui l’eccezionalità è diventata la regola al fine di esercitare da parte dello Stato un controllo sulla cittadinanza, sul modello di quanto fatto da forme di dispotismo come quello sovietico. Le analogie sono sempre pericolose, tanto più quando mettono di mezzo la storia e il dolore che la attraversa. E Agamben su questo è spesso fastidiosamente e gravemente fuori luogo. Tuttavia, non riconoscere che c’è una parte importante della riflessione filosofico-politica contemporanea che insiste sulla giustificazione sempre più emergenziale delle forme del potere politico, vuol dire aver deciso a priori che c’è in tutto il mondo una discussione che non dovrebbe trovare in realtà ospitalità nel mondo. Il che o rientra nella patologia denunziata da Hegel, o è una posizione frutto di ignoranza, o, più probabilmente, è, ancora una volta, una posizione banalmente ideologica.
Il terzo e il quarto punto della lettera sono forse i più delicati. Contro quanto sostenuto da Agamben, i filosofi che si vogliono corretti e informati sostengono che l’adozione del Green Pass non induce nessuna discriminazione tra classi di cittadini e non è, di conseguenza, in alcun modo una forma di repressione delle libertà individuali. Sostenere il contrario - dicono - sarebbe come sostenere che l’istituzione della patente di guida, fatta per limitare il più possibile il numero e l’entità degli incidenti stradali, determini una distinzione tra cittadini di serie A e cittadini di serie B, ovvero che l’obbligo della patente sia anch’esso una forma di lesione delle libertà dell’individuo. L’argomento della patente, come è noto, è uno degli argomenti preferiti sui social media, in particolare su Facebook, e francamente da una così prestigiosa comunità scientifica ci si poteva forse attendere qualcosa di più. In realtà è ovvio che il Green Pass produce una forma - niente affatto banale - di discriminazione. A cittadini che non stanno trasgredendo nessuna legge (perché non vaccinarsi è legale e legittimo) è di fatto impedita una forma di vita sociale minima degna di questo nome: essi, infatti, se non muniti di Green Pass non possono entrare in un’aula universitaria, in una biblioteca, in un teatro, nel luogo di lavoro, su un treno ad alta velocità, a una riunione di partito, a un’assemblea condominiale, in un locale pubblico. E tutto questo non sarebbe discriminatorio? Certo che lo è! All’argomento di Agamben che denunzia le implicazioni discriminatorie del Green Pass non si dovrebbe rispondere negando l’evidenza, ovvero, detto altrimenti, contrapponendo ideologia a ideologia. Una risposta forse un po’ più seria dovrebbe dire: sì, il Green Pass è una norma discriminatoria della quale dobbiamo farci carico, è una forma di ‘ingiustizia’ della quale una società degna di questo nome in certi momenti è chiamata a farsi problematicamente carico, sapendo e dicendo che sta facendo una cosa del tutto fuori dalla norma. Una società responsabile è una società che riconosce esplicitamente le situazioni di deviazione che la sua sopravvivenza richiede. Si chiama - verrebbe da dire - politica, ossia capacità di assumere decisioni non garantite circa il loro esito, di intraprendere azioni che escono dagli automatismi di ciò che è già deciso. Dire ad Agamben, come dicono i tanti filosofi che hanno firmato la lettera, che non è vero che c’è discriminazione, significa, di fatto, dare ragione ad Agamben, fornire cioè argomenti ancora più forti alla sua narrazione.
Il filosofo - è sempre Hegel che lo dice - è colui che è chiamato a problematizzare l’ovvio, a mostrare le implicazioni che abitano in esso, a evidenziare le conseguenze che la sua mera assunzione produce. Forse è questo quello che ci si attende dalla filosofia nel momento in cui entra nel dibattito pubblico. Non che ci dica, cioè, quali sono gli occhiali buoni per vedere “davvero” il mondo; ma che ci aiuti invece a capire cosa un certo tipo di occhiali o un altro ci impediscono di fatto di vedere.
DANTE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
SE è VERO CHE "Il difetto principale dei filosofi, diceva Hegel - che un po’ se ne intendeva - è la pretesa che essi hanno di insegnare al mondo come il mondo dovrebbe essere" E AL CONTEMPO che " [....] Il filosofo - è sempre Hegel che lo dice - è colui che è chiamato a problematizzare l’ovvio, a mostrare le implicazioni che abitano in esso, a evidenziare le conseguenze che la sua mera assunzione produce" (Luca Illetterati, "Sulla lettera dei filosofi contro Agamben", cit.. - sopra),
forse, è bene in via preliminare chiedersi
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA
rimeditare sul "concetto di gusto" e ripensare al "mitolegma di Eros" e all’ intelletto d’amore (cfr. Giorgio Agamben, "Gusto", Enciclopedia Einaudi, 6, Torino 1979, p. 1036),
e
decidersi se si vuole proseguire sonnambulicamente sulla strada di Hegel o svegliarsi e riprendere il cammino di Dante (cfr. Note per una riflessione storiografica).
La crisi è epocale ed è antropologica.
Kant alla fine del suo percorso l’ha ben chriarito. Urgente e necessario rispondere alla "domanda" e mettere in moto un processo di ristrutturazione planetaria.
Federico La Sala
"ECCE HOMO": MESSAGGIO EVANGELICO E FIGLIO DELL’UOMO ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]! - "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo?»"(Gv. 12,34).
A SCUOLA DI "ANDROLOGIA" DI PAOLO DI TARSO: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
FLS
UNA VISIONE ANDROLOGICA DI DIO, "UNA GRANDE VICENDA COSMOTEANDRICA", E LA FILOSOFIA... *
Inedito.
Pareyson, la ricerca della verità smonta il relativismo
Mentre continua l’edizione dell’opera completa del grande pensatore italiano, nell’ultimo volume una riflessione che smonta le teorie del relativismo postmodernista
di Luigi Pareyson (Avvenire, sabato 9 ottobre 2021)
Fui tra gli introduttori dell’esistenzialismo in Italia nella seconda metà degli anni 30. Un mio articolo del ’38 per la prima volta in Italia accostava Heidegger e Jaspers. Il mio libro del ’40 su Jaspers era in realtà uno sguardo d’insieme su tutto l’esistenzialismo. Entravo nel vivo dell’attualità, non solo perché allora l’esistenzialismo era l’ultima voce della filosofia, ma anche perché alla fine della guerra, dopo la liberazione, entrava nella nostra cultura il marxismo, di cui l’esistenzialismo è l’alternativa naturale, storica. Infatti, esistenzialismo e marxismo sono le due possibilità tipiche della dissoluzione dell’hegelismo, che si erano presentate in alternativa cento anni prima sulla scena europea: da un lato la linea Feuerbach-Marx, dall’altro la linea Kierkegaard. Queste due possibilità riemergono a distanza di duecento anni sulla scena filosofica europea: entrambe legate alla filosofia hegeliana di cui erano la dissoluzione, e legate fra di loro in antitesi. La problematica era comune, le soluzioni erano opposte. Sì che ogni antitesi al marxismo doveva assumere necessariamente in qualche modo un aspetto esistenzialistico; e il marxismo rinasceva (neomarxismo) come necessariamente antiesistenzialista. E ciò sebbene, ripeto, la loro problematica fosse comune.
Ora, se l’attualità era contenuta nella dissoluzione dell’hegelismo, ciò attesta la centralità della filosofia hegeliana da centocinquanta anni ad oggi. Hegel è il culmine della filosofia moderna e come tale è da un secolo e mezzo un punto di riferimento obbligato. E se attuale e interessante era studiarne la dissoluzione, altrettanto interessante e attuale era studiarne la genesi nella filosofia europea, cioè studiare nei suoi predecessori quelle critiche ante litteram che dovevano poi agire come germi di dissolvimento. È dunque per una ragione squisitamente teoretica, speculativa, che ho studiato sia Fichte che Schelling, che prefigurano quella polemica antihegeliana ch’è ancor oggi il colmo dell’attualità, anche perché certe forme di neomarxismo si possono considerare in fondo come un recupero dell’hegelismo [...].
Ho detto che il marxismo è una forma di storicismo assoluto, e in ciò rientra o perlomeno s’incontra con un movimento più ampio, che interessa larghi strati della nostra cultura, che, educata dall’idealismo allo storicismo, lo ha poi proseguito in una forma di totale relativismo, che sopprime totalmente il concetto di verità. Tutti sono d’accordo oggi (meno forse i metafisici vecchio stile, che non hanno fatto la differenza tra metafisica e ontologia) nel ritenere che non c’è formulazione definitiva della verità, che il dovere morale è annunciato in maniera diversa a seconda dei tempi, che ogni epoca ha la sua concezione della bellezza, che ogni popolo ha una suaWelt-Anschauung, e così via. Da questa giusta constatazione il relativismo deriva la conclusione che non c’è nulla di fisso e di stabile, che i valori sono relativi al loro tempo e non contengono nulla di assoluto, che insomma le idee non sono se non espressione del tempo, e che la verità non esiste.
Ora questa conclusione, francamente, prova troppo: va molto oltre le premesse. Si formula un’antitesi che anche formalmente è falsa: o esiste una verità assoluta e definitiva, o non c’è nulla di vero perché tutto è relativo. Il fatto è che è ben vero che non c’è formulazione definitiva, assoluta, universale, della verità, ma ciò non toglie che ciascuno debba cercare la verità e possa trovarla a suo modo e considerarla come assoluta, beninteso assoluta per me che l’ho cercata e che ne sono convinto e magari tento di convincerne gli altri, ma sempre rispettando essi stessi e la loro verità, ed esponendo alla discussione e alla contestazione altrui pronto ad abbandonarla se me ne dimostrano l’insufficienza, ma a difenderla se ne sono in buona fede convinto.
Insomma esiste una verità assoluta, ch’io debbo cercare con tutte le mie forze e tentare di formulare a modo mio. Certo, il cammino è accidentatissimo: la verità bisogna cercarla, ed ecco qui tutto il rischio della ricerca, il costante pericolo del fallimento, la serie continua degli insuccessi; poi bisogna trovarla, e darne una formulazione, ma anche qui il rischio è grandissimo, perché c’è il pericolo non solo di non saperla formulare, ma lasciarla nel vano e nell’indistinto, ma anche di irrigidire e assolutizzare per sempre, il che è non solo impossibile, ma anche illusorio ed erroneo e falsificante.
Tutto ciò io soglio esporlo dicendo che verità e persona sono inseparabili, che la formulazione della verità è sempre storica e personale, che la verità è unica ma la formulazione che se ne dà, cioè l’interpretazione che se ne propone, è sempre molteplice, e che l’unità cioè l’orizzonte del vero è il dialogo che attraverso il consenso o la discussione polemica si instaura fra queste molteplici e diverse interpretazioni della verità, che la verità non si offre se non all’interno dell’interpretazione che se ne dà, che l’interpretazione che si dà sempre singolarmente della verità non è una semplice approssimazione alla verità, non è un possesso della verità, anzi la verità stessa come personalmente posseduta, che il pensiero è sempre storico, personale, molteplice, mutevole, cioè espressivo, ma oltre a questo pensiero ch’è soltanto storico ed espressivo (che è quello che il relativismo considera come unico, cioè assolutizza) c’è anche un pensiero che, al tempo stesso ch’è storico, personale, espressivo, è anche rivelativo della verità (sempre da un angolo personale) che il relativismo non considera, ingannato dall’aspetto ch’è comune a entrambi, cioè la storicità, la mutevolezza, l’aspetto espressivo.
Il relativismo, sopprimendo la verità, è il padre di quello che si chiama crisi dei valori, dello scetticismo d’una parte della gioventù d’oggi e dell’irrazionalismo a cui per contraccolpo un’altra parte di essa si aggrappa, della totale incertezza della distinzione fra bene e male, anzi dell’indifferenza verso questa distinzione, con la conseguenza che tutto è egualmente lecito, donde lassismo, permissivismo, e, in fondo, disperazione e peggio. Ciò voleva dire Dostoevskij quando sosteneva: Se Dio non esiste, tutto è permesso. E soggiungeva: anche l’antropofagia. E infatti, se non c’è distinzione fra bene e male, perché escludere come male l’antropofagia? Per via consequenziale, ne potrebbe derivare, alla Jonathan Swift, una "modesta proposta": introduciamo l’antropofagia, che potrebbe essere la soluzione dei preoccupanti problemi della sovrappopolazione del globo e delle decrescenti risorse della terra.
La meditazione che ho così condotto mi ha portato ad affrontare il problema del male e della sofferenza, che con tanta intensità affliggono il genere umano, come s’è abbondantemente potuto constatare proprio in questo secolo. È a questo problema che mi sono dedicato negli ultimi anni e nel quale sono attualmente impegnato.
Qui si presenta una constatazione preliminare, ed è che la filosofia si è dimostrata generalmente incapace di affrontare validamente questo problema. È solo da Kant, attraverso Schelling, in parte Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, l’esistenzialismo, che si è cominciato ad approfondire questo problema. Esso si trova invece egregiamente affrontato in quello che si può chiamare mito, nel senso più intenso del termine, cioè nell’arte, specialmente nella tragedia, sia antica come quella greca sia moderna come Dostoevskij, e nella religione, specialmente nella religione biblica e cristiana.
Anche i filosofi che meglio hanno trattato il problema vi sono riusciti più come cristiani che come filosofi: alludo, ad esempio, a S. Agostino e Pascal. Dostoevskij non è stato un filosofo, ma la filosofia ha molto da imparare da lui, perché nessuno scrittore ha meditato con tanta profondità come lui sulla tragica condizione dell’uomo, così inesauribile nel fare e subire il male e così facile preda della sofferenza.
E nessuna religione come la cristiana ha saputo interpretare l’uomo alla purissima luce del male e del dolore, al punto da coinvolgervi la stessa divinità. Già Hegel aveva messo la tragica vicenda del Dio sofferente e redentore al centro della stessa filosofia, ma per un paradossale capovolgimento ne era risultato un sistema che giustifica e quindi nega sia la sofferenza che il male.
L’idea profonda della presenza del male e del dolore in Dio stesso, cioè al centro della realtà, come una grande vicenda cosmoteandrica, sta al centro dell’esperienza religiosa cristiana: saper penetrare con la riflessione filosofica in quel mistero, e renderlo parlante per tutti gli uomini, credenti o non credenti, può essere il compito e l’ambizione d’una filosofia che sappia imparare dall’esperienza religiosa senza pretendere di tradurla in termini filosofici e senza asservirsi ad essa, ma parlando il proprio linguaggio e mantenendo la sua rigorosa autonomia.
NOTE:
Federico La Sala
Un modello di lavoro intellettuale: in ricordo di Salvatore Veca
di Gianfranco Pellegrino (Le parole e le cose, 8 ottobre 2021)
Nel 2006, ricordando il suo ‘dispatrio’ in Gran Bretagna, Luigi Meneghello diceva: «Nell’immediato dopoguerra, il partito che incarnava la mia idea di politica è andato a farsi benedire fin dal primo congresso. Il nuovo partito perfetto avrebbe dovuto essere il Partito d’Azione. Purtroppo, nessuno votava per noi, neanche le nostre fidanzate, mi sa, perché i voti che prendevamo erano uguali al numero degli iscritti (...). Dopo i primi due anni del dopoguerra, mi sono accorto che le cose andavano male, che il Paese aveva scelto diversamente, si era diviso in due campi, e ho pensato: in questo mondo non ho più niente di utile da fare»[1]. Per molto tempo, il nostro paese è rimasto diviso in due campi, in politica come nella cultura, e chi non si riconosceva in quei due campi era destinato alla marginalità. Uno dei meriti di Salvatore Veca (scomparso nella notte fra mercoledì 6 e giovedì 7 ottobre, era nato nel 1943) è stato di avere contribuito moltissimo a fare della cultura italiana - e soprattutto della cultura filosofica del nostro paese - un luogo più plurale, meno diviso, più aperto alla discussione internazionale.
Se molti studiosi italiani discutono con colleghi di tutto il mondo, sia in Italia sia all’estero, se certi temi sono ormai di casa nelle nostre università e molti nostri connazionali insegnano all’estero è anche grazie ad alcune operazioni culturali intraprese e portate a termine con successo da Veca. Il contributo di figure come la sua alla sprovincializzazione di una certa cultura italiana è stato enorme. Ma si badi: il fatto non è solo che Veca ha introdotto nella discussione certi metodi - i metodi della filosofia politica analitica di lingua inglese -, certi autori - Rawls, principalmente, ma anche Walzer, Nozick, Williams e Nagel -, certi temi - la teoria etica normativa -, né conta solo il lavoro culturale e intellettuale in senso più ampio da lui compiuto - in istituzioni culturali come la Casa della cultura e la Fondazione Feltrinelli di Milano, ma anche in case editrici e nell’università di Pavia e nella politica militante della sinistra italiana, dove Veca ha partecipato all’evoluzione riformista di parte del PCI. Ci sono aspetti della figura e del modello di lavoro intellettuale di Veca che sono forse meno evidenti di questi, ma su cui varrebbe la pena riflettere, ora che chi li incarnava ci ha lasciati. E su questi mi vorrei soffermare, per dare un ricordo da lontano, per così dire - il ricordo di chi proviene da una generazione diversa e posteriore e ha osservato da una certa distanza il lavoro di Veca, pur venendone in parte influenzato.
Figure come quella di Veca hanno costruito un modello di lavoro intellettuale preciso e inedito - inedito nel nostro paese, ma forse anche in altri contesti. Si tratta di un modello di lavoro intellettuale più sfuggente e meno estremo di quanto si potrebbe pensare a uno sguardo superficiale, e che ha messo a frutto il meglio di mondi diversi. Veca non è stato un filosofo analitico nel senso tradizionale (e talvolta caricaturale) del termine - concentrato esclusivamente su questioni tecniche, poco interessato alla storia del pensiero, esitante nella costruzione di grandi sintesi o affreschi. Nonostante una grande abilità tecnica, egli ha sempre mirato a costruire un orizzonte complessivo, con l’obiettivo di incidere sulla realtà politica e sociale. In un certo senso, Veca ha abbandonato l’orizzonte teorico del marxismo italiano tradizionale, e soprattutto la filosofia della storia di Marx (o almeno una certa interpretazione di essa) senza per questo rinunciare a una certa idea di militanza tipica del marxismo e a un’ambizione di egemonia culturale. Veca non ha mai rinunciato all’aspirazione di cambiare il mondo, un’aspirazione che gli derivava anche e soprattutto da una tradizione illuminista che ereditava da autori come Norberto Bobbio e Uberto Scarpelli.
Ma allo stesso tempo Veca ha abbandonato, e reso piuttosto ridicoli, tutti gli stilemi tipici di certa filosofia tradizionale italiana del suo tempo (un modo di procedere sopravvissuto in alcuni casi anche adesso) - una filosofia tutta ortodossia e conformismo, tutta erudizione fine a se stessa, di andamento oracolare e con ambizioni spesso tiranniche di politica culturale. Al contrario di molti, Veca è riuscito nel raro tentativo di esercitare influenza, di prendere posizione, partendo però dall’idea che le società siano necessariamente pluraliste e il consenso sia da costruire, non da imporre.
Veca ha messo insieme il meglio di molte tradizioni e ha perseguito una via media tra modelli estremi in una maniera inimitabile. Ha prestato attenzione alle grandi figure della storia della filosofia politica e dell’etica, facendone spesso tesoro. Ma ha volto la sua attenzione a scopi militanti, per così dire. Come amava dire, ha saccheggiato i templi del passato: tutte le sue letture servivano a edificare un paradigma complessivo e gli strumenti che usava derivavano dalle frontiere della ricerca filosofica contemporanea. Non ha mai rispettato steccati, spaziando dall’epistemologia alla teoria etica normativa, alla politica normativa, alle etiche applicate. Anche in questo caso, si tratta di un modo di procedere che trova paragoni in alcuni grandi figure della filosofia di lingua inglese - Nagel, Williams e Parfit, ma non Rawls, per esempio, che è stato molto meno ampio e più monomaniaco, per così dire.
Ma la cosa più rilevante, a mio parere, è il modello di filosofia pubblica che Veca ha tentato di realizzare. Come ho detto, Veca non ha mai esitato a intervenire nella discussione pubblica, a tutti i livelli. Anzi, per molto tempo, si è impegnato, come dicevo sopra, nella politica militante, facendo scelte molto controverse e subendone le conseguenze. Eppure, in tutto questo non ha mai fatto tre mosse che sono invece diventate tipiche del modello oggi preponderante di intellettuale pubblico. In primo luogo, Veca non ha mai assunto, né cercato pose da divo: non ha evitato le apparizioni, ma non le ha mai cercate. Le ha sfruttate, non le ha subite. Veca non ha mai avuto una gestione social della sua figura: non ha cercato di alimentare continue esposizioni, non ha costruito un marchio, non ha inseguito nessun pubblico. Non ha costruito dal nulla un pubblico di clienti. Ha educato un pubblico di pari. In secondo luogo, Veca ha creduto profondamente nella funzione dell’università: per lui la filosofia (anche la filosofia pubblica) è sempre stata la filosofia che si fa nelle università, con certi strumenti, e a partire da una certa expertise. L’impegno di Veca non si è mai trasformato in anti-accademismo. Anche in questo caso, Veca ha conservato la fiducia nelle istituzioni, anzi il gusto di vivere e costruire istituzioni, tipico della sinistra tradizionale del nostro paese. Infine, l’estrema chiarezza del suo linguaggio, la ricerca, talvolta, anche di uno stile cordiale ed elegante non hanno mai significato per lui semplificazione, banalizzazione o corrività. Questa è forse l’eredità migliore della filosofia analitica che Veca ha trasmesso, insieme ad altri, a parte della cultura italiana: se si legge bene, se si parte dalle definizioni, se si seguono con pazienza tutti i passaggi, le pagine di Veca possono essere lette da chiunque. Non perché siano una semplificazione, non perché siano divulgazione condiscendente, o filosofia pop. Ma perché sono una forma democratica di scrittura, che non presuppone nulla, né si avvale di allusioni e vaghezze, ma si assume il carico di portare tutti allo stesso livello e di procedere insieme - autore e lettore.
Questo modello di lavoro intellettuale è il lascito più autentico e prezioso di figure come quella di Veca, che in questo riprendeva la tradizione neoilluminista di Bobbio. Eppure, è un lascito che ha attecchito pochissimo nella nostra cultura e ha avuto un successo molto minore rispetto ad altri aspetti della sua attività. Viviamo in tempi in cui la filosofia pubblica si divide fra presunti grandi maestri oracolari e vaticinanti, spesso intenti a distillare vaghezze allusive e al fondo banali, a terrorizzare i seguaci e a inseguire scandali quotidiani e presunti critici dell’accademia e araldi di una filosofia popolare, che le stesse banalità e vaghezze dei primi spacciano con linguaggio sciatto e intenti meramente autopromozionali. Entrambe le tipologie seguono in realtà le leggi del mercato: piazzano un prodotto, occupano una nicchia merceologica, coltivano un segmento dell’ampia platea dei consumatori. Nonostante non fosse per nulla un nemico del mercato, anche se ne teorizzava limiti stretti, Veca non si è mai piegato alle logiche del mercato culturale ed editoriale. Questa è la sua eredità migliore, e più rara.
[1] Mazzacurati C., Paolini M. (2006), Luigi Meneghello. Dialoghi, Fandango Libri, Roma.
L’OPPIO DEI POPOLI E LO SPIRITO CRITICO.
JEAN-LUC NANCY, IL SOFFIO RIVOLUZIONARIO, E I PALLONI IN ARIA...
JEAN-LUC NANCY, in un suo ultimo intervento ad un convegno del maggio scorso, dice: "[...] Quando Marx dichiara che la religione è «l’oppio dei popoli, lo spirito di un mondo senza spirito» [Nella sua "Critica della filosofia del diritto di Hegel"] intende dire da un lato che la religione è un povero surrogato dell’oppio con cui i ricchi si stordiscono, ma anche e allo stesso tempo che c’è da qualche parte uno “spirito” riservato a coloro che ne hanno i mezzi. Beninteso, per lui, tutti gli uomini ne hanno i mezzi, tutti possono partecipare al vero Spirito, a condizione d’essere liberi dall’alienazione. Poiché l’alienazione non consiste essenzialmente nell’estorsione del plusvalore - che ne è piuttosto il segno. L’alienazione consiste nel non essere propriamente sé stessi, tanto in quanto individui concreti che in quanto comunità non meno concrete".
E CONTINUA: "Questo spirito soffia come tutti gli spiriti. Marx usa spesso la parola “soffio” (Atem, respirazione). Ci accontenteremo di un esempio: «Il governo prussiano è infastidito dalla resistenza passiva che incontra ovunque. Attraverso l’apparente apatia, percepisce il soffio rivoluzionario»[...]"(Jean-Luc Nancy, "Essere, Soffio / Être soufflé", Le parole e le cose", 4.10.2021).
IL MESSAGGIO EVANGELICO E IL "FIGLIO DELL’UOMO". "Allora la folla gli [a Gesù] rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. CHI è questo Figlio dell’Uomo, CHI il "Gesù Cristo" degli Evangelisti? COME è detto nell’Evangelo di Giovanni di "Gesù Cristo"? Ponzio Pilato disse: "«Ecco l’uomo» (gr. «idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)" (Gv. 19, 4).
QUALE SPIRITO? COME è detto nella Prima Lettera dell’Evangelista Giovanni?: "Carissimi, non prestate fede ad ogni spirito, ma mettete alla prova gli spiriti, per saggiare se provengono veramente da Dio [...] Dio è amore." (1 Gv. 4, 1-8).
IL PROBLEMA DEL MENTITORE: CHI È IL "GESÙ CRISTO" DI PAOLO DI TARSO?!: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
PSICOANALISI E CRISTOLOGIA: "OEDIPUS AT VERSAILLES" ED "EDIPO A CUERNAVACA". CHE FARE? Rileggere il testo di "Un frammento inedito di Freud del 1931" e dell’articolo di Franca Ongaro Basaglia ("PM", novembre 1982). SapereAude!
IL VENTO SOFFIA DOVE VUOLE (Gv. 3.8). QUANTI PALLONI IN ARIA ...
Federico La Sala
L’ORDINE SIMBOLICO DI MAMMASANTISSIMA: LA LUNGA MARCIA DI UNA CATASTROFE ANTROPOLOGICA IN CORSO.
Senza riandare indietro nel tempo, cosa che ha già fatto una grande tradizione critica (e da cui poco è stato appreso), ipnotizzati da concetti-specchio come patriarcato e matriarcato, ancora non è stato capito che cosa significa Edipo (Freud), tragedia (Dante, Nietzsche), e rapporto sociale di produzione (Marx). C’è solo da accogliere il film “L’événement” (Audrey Diwan, Leone d’oro, Venezia 2021) come una buona sollecitazione a ripensare questi problemi legati a mammane, mammona, cucchiai d’oro e moloch vari e riprendere il filo da quanto successo (in Europa) almeno (non solo a Granada nel 1492, ma anche) su "quel ramo del lago di Como" nel 1628 in un altro modo e in un’altra direzione. E così, possibilmente, buttare via l’acqua sporca e salvare la memoria di chi ha lottato da sempre per non restare all’inferno e vuole ri-nascere. O no?
DANTE 2021: LA DOMANDA ANTROPOLOGICA DI KANT (""Che cos’è l’uomo?": "Logica", 1800), IL "FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE DI PAROLA (LOGOS, NON LOGO!).
"Ecce Homo" (gr. «idou ho #anthropos»): "Allora la folla gli rispose: «Noi abbiamo appreso dalla Legge che il Cristo rimane in eterno; come dunque tu dici che il Figlio dell’uomo deve essere elevato? Chi è questo Figlio dell’uomo ["Filius hominis", "ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου]?»"(Gv. 12,34).
MESSAGGIO EVANGELICO E "DUE CRISTIANESIMI": "SEGUITEMI, VI FARO’ #PESCATORI DI UOMINI [piscatores hominun, ἁλιεῖς ἀνθρώπων] come da parola di Gesù (Mt. 4,19) o come da sollecitazione di Paolo di Tarso:"Diventate miei imitatori come io lo sono di Cristo... sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [lat. vir, gr. ἀνήρ]"(1 Cor. 11, 1-3)?!
11 SETTEMBRE 2011/2021, STORIA, E FILOLOGIA: "ECCE HOMO". Sempre a ripetere le famose parole dell’Ulisse di Dante (Inf. XXVI, 118-120: "Considerate la vostra semenza: /fatti non foste a viver come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza"), ma ancora oggi (2021), dopo Dante e dopo Kant, tutta l’Europa e l’intero Pianeta è immerso in un letargo profondissimo! Alla questione antropologica ("Che cos’è l’uomo?": Kant,1800), si continua a rispondere truccando la Parola (il Logos) e a scambiarla (e a esportarla) come un Logo di un’azienda, proprietà di quegli uomini "più uguali degli altri" della orwelliana "Fattoria degli Animali"!
PREISTORIA (DI "VIRTUS" E "VIRUS"). La parola uomo (gr. anthropos, homo) vale solo come uomo-maschio (gr. anér/andròs, lat. vir/viri) e l’antropologia si coniuga solo al maschile, come andrologia: a tutti i livelli, immersi nel regno dell’Homo cosmo-te-andricus - nella "realtà" di una teologia ("Dio"), di una cosmologia ("Mondo") e di una antropologia "andrologica" ("Uomo"), la cosmoteandria del Pianeta Terra...
METANOIA: CAMBIARE MENTE! A che gioco giochiamo? Non è meglio uscire dall’orizzonte della cosmoteandria e dall’inferno (Inf. XXXIV, 90) e riprendere la navigazione nell’oceano celeste (Keplero a Galilei, 1611)?! O che?!
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, MESSAGGIO EVANGELICO, COSTITUZIONE, E SIMBOLI.... *
I simboli e i singoli, laicità e buon senso.
Ma la libertà non è negativa
di Giuseppe Anzani (Avvenire, venerdì 10 settembre 2021)
Il crocifisso torna davanti ai giudici. È toccato alla Corte suprema di Cassazione a Sezioni unite dire se quel simbolo può stare appeso o no alle pareti di un’aula scolastica. Regolamenti, leggi, sentenze? L’orizzonte si apre a temi più grandi, irrompono parole come libertà religiosa, laicità dello Stato, cultura e tradizione e comune sentire e individuale dissentire; e infine sullo sfondo, volere o no, resta quel mistero immenso che due millenni fa ha spaccato in due la storia del mondo.
E dire che l’origine del caso è un episodio in apparenza banale: l’assemblea di classe degli studenti delibera l’esposizione del crocifisso nell’aula, un docente non lo vuole e lo stacca fisicamente durante le sue ore di lezione; riceve una sanzione disciplinare, la impugna. La causa percorre tutti i gradi e approda alle Sezioni unite, che decidono sostanzialmente così: l’aula può accogliere il crocifisso, quando la comunità scolastica decide in autonomia di esporlo; ciò non comporta discriminazione; il docente dissenziente non ha nessun potere di veto; deve tuttavia cercarsi una soluzione che rispetti la sua «libertà negativa di religione». Come a dire, in sottinteso, da ultimo: usate il buon senso.
L’avversione al crocifisso scoppia episodicamente per iniziativa solitaria di individui dei quali è difficile capire se soffrano di allergia al senso religioso altrui o perseguano un disegno demolitore. Sono casi rari, ma eclatanti.
Quello dello scrutatore elettorale, quello del giudice che rifiutava di tenere udienza, quello della donna atea che per far togliere il crocifisso dalla scuola portò il caso fino alla Corte europea dei Diritti umani (2011); e ne ebbe sentenza che l’esposizione del crocifisso «non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e a ostacolare l’esercizio della funzione docente».
Bisognerà dunque riflettere sulla autenticità di simili dichiarate ’allergie’; la legge fondamentale sulla scuola (decreto legislativo n. 297/1994) garantisce ai docenti «autonomia didattica e libera espressione culturale», ma nel «rispetto della coscienza civile e morale degli alunni». Sono gli alunni, infatti, il corpo vivo della comunità scolastica; è in funzione di loro che si fanno cattedre, e non viceversa. Il gesto di togliere a forza, da sé, il crocifisso voluto dagli alunni non pare esattamente un atto educativo.
Libertà? Colpisce la frase «libertà negativa» usata dalla Corte. Se ne intuisce l’intento protettivo, ma il rispetto del ’negativo’ può imporre di azzerare ogni positivo? La libertà del no può annientare la libertà altrui del sì? Libertà è essenzialmente una dimensione positiva della persona umana, è un «agere licere».
La libertà è espressione, non compressione. Se ha un limite, esso è dato dalle contigue libertà, e il suo traguardo è l’armonia. Così la libertà religiosa trova presidio in un concetto di laicità che è tutto il contrario di una asfaltatura dei simboli religiosi per non turbare gli irreligiosi. Chi non s’intona al canto è libero di non cantare, ma non può pretendere di zittire il coro. Una laicità castrante non è nella nostra civiltà, non è nella nostra legge, non è nella nostra libertà. Ma infine, per chi ha fede, il nocciolo non è neppure il crocifisso-arredo. È il Crocifisso, il Vivente, e nessuno può toglierlo dal mondo, e nessuno ce lo stacca dal cuore.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
GENERE UMANO: I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE!!! AL DI LA’ DELLA COSMOTEANDRIA E DELLA TRAGEDIA.... *
Curi, straniero. La necessità del due
di Cristina Morga (Bene Comune, 1 aprile 2019)
Il breve saggio intitolato Straniero è un’interessante riflessione sulla figura dello straniero, sul suo ruolo ambivalente di minaccia e di dono, sulla sua ineluttabilità per la definizione della nostra identità.
Il filosofo Umberto Curi non è interessato a sostenere la tesi di quelli a favore dell’accoglienza o di quelli che auspicano la chiusura delle frontiere. Piuttosto, attraverso un’analisi linguistica, filosofica e della letteratura, partendo da molto lontano e arrivando ai nostri giorni, ci invita a confrontarci sull’irriducibile duplicità di quella presenza che è sempre esistita - lo straniero, appunto - ma che oggi ci deve più che mai interrogare per le proporzioni che la mobilità umana sta assumendo.
L’autore dunque non esprime giudizi, ma offre molti spunti per ragionare sul profondo significato del concetto di straniero che oggi, pur in una società globalizzata, sempre più spaventa e sempre meno attrae. Ecco perché un approfondimento culturale sul tema sembra quanto mai urgente.
Curi lo fa a partire dal significato che gli antichi hanno attribuito alla figura dello straniero, elaborando nei secoli molti termini con significati diversi e/o plurimi, a seconda del periodo e del peculiare aspetto che si intendeva sottolineare. E’ proprio analizzando le singole parole della civiltà greca (xenos, barbaros, ecc.) e latina (hostis, ingenuus, perduellis, hospes, ecc.) che ci rendiamo conto delle infinite sfumature e accezioni semantiche che la figura dello straniero acquisiscono nel tempo: straniero come persona estranea, strana; straniero come forestiero, nemico e molto altro ancora. Tuttavia ci sono due elementi che sono onnipresenti: il fatto che si faccia sempre riferimento a una figura altra da noi e il fatto che questa abbia contemporaneamente un rapporto con noi, da cui non possiamo prescindere.
In questo volume tuttavia Curi non si ferma solo all’analisi lessicale che pure sarebbe sufficiente a far comprendere la complessità del tema. Egli si sofferma altresì sul concetto di accoglienza dello straniero, così come è stato interpretato da diversi filosofi, da Platone, a Kant a Freud.
Secondo Platone “non è possibile dire la verità, se non attraverso il confronto con il discorso di chi sia estraneo alla comunità e con essa entri in comunicazione”, mentre Kant sostiene il diritto dello straniero a non essere trattato come un nemico per garantire la pace perpetua. E poi l’autore analizza il pensiero di Freud, a partire dal concetto di unheimlich (malamente tradotto in italiano con il termine di perturbante), che definisce non soltanto l’inquietante, ma anche la scoperta di una duplicità di qualcosa con cui veniamo a contatto, la scoperta che l’ “Io non è unico, ma doppio, scisso in una dualità non ricomponibile, uguale e insieme irriducibilmente diversa rispetto all’immagine riflessa nello specchio, al sosia, all’ombra. Perturbante è la presa di coscienza di una insuperabile ambivalenza, di una unità che non è, non può mai essere, semplice, ma sempre inesorabilmente duplice” (p. 42). Quell’ineffabile e forte sentimento espresso attraverso la parola unheimlisches nasce dal reperimento del due nell’uno e quindi dalla rinuncia a qualsiasi immagine semplificata o rappresentazione univoca.
Infine, Curi, citando diverse opere letterarie, si sofferma sul racconto di Camus, l’Ospite, per sottolineare, fra le altre cose, l’importanza della dualità, che non implica soltanto insolubilità di un problema, ma movimento e mutamento, cioè vita. “Senza il due, la ben rotonda verità dell’uno appare incapace di rendere ragione di ciò che caratterizza l’esperienza degli esseri umani. Il concetto stesso di rappresentazione, in quanto presuppone la distinzione fra due livelli di realtà, rinvia alla molteplicità del due e a tutto ciò che con essa è connessa” (pag. 128).
Insomma, in questo ricco percorso linguistico, letterario e filosofico proposto da Curi, l’ambiguità dello straniero è sempre presente. Tuttavia, la sua natura ambivalente, un nemico da cui proteggersi ma anche un soggetto di cui abbiamo bisogno per definire noi stessi, rappresenta uno stimolo eccezionale per superarci e migliorarci. Nelle antiche carte geografiche, leggiamo nell’introduzione, le terre ignote ed inesplorate dell’Africa e dell’Asia erano descritte con la dicitura “hic sunt leones”, come a dire che quelle terre, per il semplice motivo di essere estranee e sconosciute, rappresentavano una minaccia. “Ma l’attrazione per le risorse e i tesori presenti in quelle zone del mondo indusse a non piegarsi alla paura, intraprendendo i viaggi che avrebbero condotto alla conoscenza dell’ignoto, e dunque alla cancellazione dalle carte di quella iscrizione. Si scoprì così che i doni connessi allo svelamento del mistero, ancorché indissolubili alla minaccia, erano talmente preziosi da risultare irrinunciabili” (p.19).
Forse è giunto il momento storico adatto a nuovi viaggi, allo svelamento di un nuovo mistero. Ritrovare la curiosità di chi ci ha preceduto, superando la paura, ci aiuterà nella comprensione di nuovi doni irrinunciabili? Oltre il confine, dove stanno i leoni, scopriremo forse la necessità del nostro due.
“Lo straniero è ambivalente - è l’ambivalenza. In quanto è thauma, non posso vivere la sua presenza, il suo arrivo, se non come una minaccia. Ma insieme avverto, nel cuore stesso del pathos che è inseparabile dal contatto con lui, che quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur inconsapevolmente, attendevo da tempo e di cui non potrei fare a meno. Posso respingerlo - certamente - in quanto è minaccia. Ma contestualmente, se mi accingo a questo, percepisco anche un mio profondo e irrimediabile depauperamento. Alla sua duplicità dovrei saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne l’arrivo, a spalancargli le porte della mia casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a respingerlo con la massima fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se si trattasse di una benedizione” (p. 12).
“Rinunciare al dono per allontanare la minaccia, o affrontare il pericolo per acquisire il dono? Un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero cede ogni possibile linguaggio dell’unicità [...] La rassicurante e familiare logica dell’aut-aut deve essere soppiantata da una modalità di ragionamento basata sul ben più impegnativo et-et” (p.13).
“Dell’hostis non possiamo fare a meno - non possiamo “scegliere” se accoglierlo o respingerlo, non più di quanto possiamo scegliere di essere quello che siamo. Egli è legato alla nostra identità non solo perché la fa essere, ma anche perché la fa - potenzialmente - non essere; non solo perché la determina, ma anche perché la minaccia dall’interno” (p.18).
“Unheimlich è quel moto dell’animo che avvertiamo quando ci rendiamo conto che non si dà alcuna possibilità di ricondurre a termini univoci, e a distinzioni nette e irreversibili, la nostra esperienza. Quando scopriamo che la stessa cosa che sembrava poterci rassicurare, proprio quella soprattutto ci inquieta. Quando ci avvediamo - davvero con “timore” e “tremore” - che non si dà alcuna “casa” come luogo privilegiato in cui viga l’assoluta univocità dei significati, degli atti, dei comportamenti e degli eventi, ma che nel cuore stesso di essa si annida la sua negazione, che nell’intimo dello Heim, e non fuori o contro, o comunque distinto rispetto a esso, vi sia l’un-Heim” (p.51).
“Dunque, in origine hostis è una figura alla quale mi lega un rapporto che non è di ostilità, ma di compensazione, nel senso che sono verso di lui in obbligo di contraccambiarlo per qualcosa che ho ricevuto. Mediante il ricambio, all’hostis viene riconosciuta quella piena parità alla quale egli ha diritto” (p.59).
“Il termine xenos compare sia per indicare colui che, provenendo dall’ ‘esterno’, viene ospitato presso la propria casa, sia colui presso la cui casa si riceve ospitalità” (p.63).
“Alla figura dello xenos, che è al centro delle relazioni di reciprocità tra le città che costituiscono il mondo ellenico, si oppone quella di barbaros. I barbari non erano soltanto stranieri, ma erano anche rozzi, crudeli, codardi, ecc. [...]. La natura mostruosa del barbaro fa sì che, propriamente parlando, non si tratti di stranieri, ma di una specie differente di uomini: essi non vengono da un’altra città, come visitatori o residenti, ma da un altro mondo, con cui non c’è possibilità di confronto né di scambio. E’ la loro diversa natura che li pone al di là della cultura ovvero delle possibilità di relazione, intreccio, mescolanza che la costituiscono. Di qui la guerra come modalità naturale di condursi nei confronti di una categoria di uomini con cui non è possibile rapporto, per cui non si possono stabilire quei legami di mutua accoglienza che costituiscono, viceversa, un obbligo sacro nei confronti dello straniero. [...] Il barbaros rappresenta in un certo senso il rovesciamento o la negazione di ciò che - pur nelle differenze - rende simili tutti gli uomini. Ed è solo questo limite, soltanto nei confronti di figure intrinsecamente antiumane, quali sono i barbaroi, che non solo è consentito sottrarsi alle regole dell’ospitalità, ma è addirittura necessario ricorrere alla violenza estrema del polemos” (p.79).
“Se qualcuno è ‘straniero’, è anche, necessariamente, ‘ospite’, non come effetto di una mia scelta facoltativa, per la quale io posso arbitrariamente trattare l’altro come ospite o lasciarlo semplicemente come straniero, ma perché egli si dà a me come figura che mi obbliga all’ospitalità. Né l’ospitalità dà luogo ad alcun processo assimilativo. Lo xenos è sacro proprio nella sua identità e individualità, altra e irriducibile rispetto a quella di chi lo accoglie” (p.80).
“Platone indica che il nostro essere attuale coincide dunque letteralmente con un frammento della tessera hospitalitatis, con una delle due “parti”, la quale esige di essere completata mediante l’incontro con colui che detiene l’altra parte della tessera stessa. Se non vogliamo restare soltanto porzioni di essere, se intendiamo riconquistare la pienezza originaria, se non ci accontentiamo di un’esistenza puramente simbolica, ma aneliamo all’autenticità della plenitudine, dobbiamo ricomporre la nostra metà con colui che è portatore della parte mancante” (p.95).
“Per riuscire a disattivare la guerra non basta, insomma, che la costituzione civile sia conforme allo ius civitatis e allo ius gentium, poiché occorre anche che essa corrisponda allo ius cosmopoliticum, vale a dire a quel diritto che, pur non essendo facilmente traducibile in un apparato di norme positive, riconosce le condizioni dell’ospitalità universale. Con la precisazione davvero fondamentale, introdotta da Kant quasi per rispondere preventivamente a possibili obiezioni e insieme per fugare possibili equivoci, che ‘qui non è in discussione la filantropia, ma il diritto, sicché l’ospitalità coincide con il ‘il diritto di uno straniero a non essere trattato come un nemico’ ” (p. 115).
“Per tornare a Kant [...] il filosofo sottolinea che “fino a quando lo straniero sta pacificamente al suo posto non si deve agire contro di lui in senso ostile perché egli può rivendicare quel diritto di visita che spetta a tutti gli uomini. Ciò perché originariamente nessuno ha più diritto di un altro ad abitare una località della terra” (p. 117).
“Nel racconto di Camus [l’Ospite] il due compare in maniera insistente, quasi ossessiva, per sottolineare, anche attraverso la reiterazione, la centralità di questo tema nell’intera narrazione. Già nell’esordio Daru scorge in lontananza il profilo dei due uomini che si dirigono verso la sua casa - il gendarme e il prigioniero. La corda con cui Balducci tiene l’arabo mostra fino a che punto essi formino una unità che si regge specificamente sulle loro differenze. L’identità di ciascuno di loro non è concepibile senza il riferimento all’altro. Anche lo status dell’uno si spiega soltanto in rapporto alla condizione dell’altro. Se non fosse prigioniero di Balducci, l’arabo semplicemente non avrebbe alcuna presenza nel racconto. Lo stesso vale per il gendarme, la cui ragion sufficiente sta tutta nell’essere il custode del prigioniero” (p. 129).
“Perturbante è ciò che scaturisce - e costantemente si alimenta - dall’inquietudine legata a questo vacillamento dei confini, alla loro mobilità e porosità, attraverso cui l’altro, l’esterno, ma anche lo spettro e la morte penetrano continuamente, intaccando ogni forma di identità a sé: dell’io, delle sue rappresentazioni, dei suoi saperi” (p.149).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS".
FLS
#MATEMATICA
E
#COSTITUZIONE
.Se gli esseri umani sono
"fatti della stessa natura del tempo",
e il #tempo avesse l
a forma del coperchio,
la #paura del cielo
direbbe solo del
rifiuto
di uscire dalla
#selva oscura
e
#nascere!
#Fleur Jaeggy!
#QUESTIONE ANTROPOLOGICA
#FILOLOGICA
E
#ARCHEOLOGICA.
#IMPERATIVO CATEGORICO
E
#SONNO DOGMATICO:
E
#GATTUNGSWESEN.
#DIVINA COMMEDIA:
I #TRADITIONIS CUSTODES,
IL #LATINO,
#CARITAS (#KAPITAS)
O DELLA
#CHARITAS (#XAPITAS)?
***
#QUESTIONE ANTROPOLOGICA
#FILOLOGICA
E
#ARCHEOLOGICA:
#EUROPA.
#DIVINA COMMEDIA (#DANTE2021)
E #SONNO DOGMATICO:
IL PROBLEMA DEL #LATINO
E
I #CUSTODI DELLLA #TRADIZIONE CATTOLICO-ROMANA
(#TRADITIONIS CUSTODES),
QUELLA DELLA
#CARITAS (#KAPITAS)
O DELLA
#CHARITAS (#XAPITAS)?
#EDUCAZIONE CIVICA
#EDUCAZIONE SESSUALE.
#Memoria della
#Legge di #Apollo
(#Eschilo):
«non è la madre la #generatrice di quello che è chiamato suo figlio;
ella è la nutrice del germe in lei inseminato.
Il #generatore è colui che la feconda».
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
#BIBBIA CIVILE
E
#MAGISTERO ANTROPOLOGICO:
#COME NASCONO I BAMBINI?
#Divina Commedia:
#Dante2021.
se #Maria è #madre e #maestra.. #Giuseppe non è #padre e #maestro?!
Per un’altra #fenomenologiadellospirito:
IO, dall’#AMORE di #Due IO.
FILOSOFIA E ANTROPOLOGIA. COME NASCONO I BAMBINI...*
È la nostra nascita il miracolo che salva il mondo
Quella postilla di Hannah Arendt che illumina i dati Istat sulla natalità
di Sergio Belardinelli (il Foglio, 24 apr 2021)
L’Istat ci ha comunicato di recente che, complice anche il Covid, in Italia nel 2020 i morti sono stati 746 mila e i nuovi nati 404 mila. Un dato agghiacciante nel suo significato sociale e culturale che a me, come una sorta di riflesso condizionato, richiama alla mente uno dei brani filosofici più intensi che abbia mai letto: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘un bambino è nato per noi’”.
Con queste parole Hannah Arendt conclude il capitolo di Vita Activa dedicato all’azione. Si tratta di un brano che cito e commento ormai da quarant’anni, nel quale viene messo a tema un nesso, quello tra la libertà e la natalità, tra la libertà e la vita, col quale, che io sappia, soltanto la Arendt ha avuto l’acutezza e il coraggio di cimentarsi e che, a prima vista, può apparire persino paradossale. La vita infatti, almeno immediatamente, sembra richiamare non tanto la libertà, quanto piuttosto il gigantesco, immutabile ripetersi dei cicli naturali, l’ambito di quelli che il grande biologo Adolf Portmann, autore peraltro assai caro alla Arendt, definirebbe i “rapporti preordinati” - il contrario, quindi, di ciò che in genere intendiamo allorché parliamo di libertà. Quanto poi alla vita specificamente umana, essa, è certo impastata di libertà, ma è anche qualcosa che, a diversi livelli, non dipende da noi, qualcosa di cui, nonostante le tecnologie della riproduzione, non possiamo avere il completo controllo: la riceviamo semplicemente; non scegliamo i nostri genitori, né il luogo dove venire al mondo; dobbiamo fare continuamente i conti con gli altri, con le nostre passioni, i nostri istinti, le nostre inclinazioni, con quel coacervo di natura, ragione, sentimenti, usi e costumi che vanno a costituire appunto il “gran mare” della vita. La vita insomma pone una serie di condizioni e condizionamenti alla libertà che possono renderla persino impossibile. Eppure, rompendo in un certo senso questa grande catena, è proprio la libertà che dà sapore e specificità alla vita umana; solo la libertà impedisce che il mondo si riduca spinozianamente a “sostanza”, a qualcosa di omogeneo, a qualcosa come un continuo fluire; solo la libertà è capace di introdurre nel mondo un elemento di novità, qualcosa di imprevisto.
Pensieri non nuovi, si potrebbe dire. Ma proprio qui si inserisce la fondamentale postilla arendtiana, preziosa per leggere in una chiave forse inusuale ma certo illuminante anche i dati Istat sulla natalità in Italia da cui siamo partiti: è la stessa vita umana, il nostro venire al mondo, la nascita unica e irripetibile di ciascuno di noi, a rappresentare la prima e più immediata forma di novità, il primo scompaginamento, se così si può dire, della routine della vita.
La facoltà dell’azione, dice la Arendt, “è ontologicamente radicata” nel “fatto della natalità”. In entrambe le dimensioni - la libertà e la natalità - ritroviamo non a caso una costitutiva “novità”, un costitutivo essere insieme agli altri (non si nasce, né si agisce da soli), qualcosa che implica l’accettazione della realtà nella quale siamo e insieme fiducia nel futuro. In questo senso ogni bambino che nasce è un segno di speranza nel mondo; è l’irruzione nel mondo di una “novità”, la cui memoria, è il caso di dire, ritroviamo da adulti nell’esercizio della nostra libertà, nella nostra capacità di incominciare qualcosa che senza di noi non incomincerebbe mai.
Novità, pluralità (gli uomini, non l’uomo abitano la terra, ripete spesso Hannah Arendt) e speranza: questo ci schiude direttamente e in modo straordinario il discorso arendtiano sulla libertà radicata nella natalità. Ma indirettamente, specialmente oggi, tale discorso ci schiude molto di più. Ci fa capire, ad esempio, quale tragedia, anche simbolica, si consuma nel momento in cui un paese come l’Italia registra in un anno un saldo passivo tra morti e nuovi nati di 342 mila unità. È un po’ come se il mondo e la nostra libertà perdessero la speranza, ossia ciò che dà loro sapore, ciò che è insieme accettazione della realtà nella quale viviamo e fiducia nel futuro.
È vero, tutto passa. La vita non è altro che un eterno dissolversi nel gigantesco circolo della natura dove, propriamente, non esiste inizio né fine e dove tutte le cose e gli eventi si svolgono in un’immutabile ripetizione: la mors immortalis di cui parlava Lucrezio. Ma la Arendt non accetta questa mestizia, poiché a suo avviso “la nascita e la morte di esseri umani non sono semplici eventi naturali”; avvengono in un mondo dove vivono altri uomini; un mondo che acquista significato grazie alle loro azioni e ai loro discorsi; un mondo che per questo è sempre aperto alla novità.
Con la creazione dell’uomo, dice la Arendt, “il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo”. Di nuovo l’inizio, dunque, diciamo pure, la natalità.
È proprio perché, in quanto uomini, siamo initium, nuovi venuti, iniziatori, per virtù di nascita che secondo la Arendt, siamo indotti ad agire. La definizione che più si addice agli uomini non è quella di “mortali”, ma piuttosto quella di “coloro che nascono”. In questo modo, quasi per una sottile ironia della sorte, la categoria della natalità diventa fondamentale proprio nel pensiero di un’allieva (e anche qualcosa di più) di Martin Heidegger, l’inventore dell’essere per la morte. Non che la Arendt ovviamente trascuri che la morte rappresenta l’ineluttabile fine di ogni vita umana, solo che, a suo avviso, gli uomini, anche se debbono morire, non nascono per questo, bensì per incominciare. E siamo di nuovo al passo da cui siamo partiti: “Il miracolo che salva il mondo....”.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
Federico La Sala
In onore di Francesco e Chiara d’Assisi, dei Francescani (Dante Alighieri, compreso!) ... e di Leonard Boff
IGNOTI A SE’ STESSI ...ED ESPORTATORI DI ’CRISTIANESIMO’ E DI ’DEMOCRAZIA’!!!
La ’lezione’ (di Nietzsche e) di un aborigeno canadese ai ’registi’ della politica ’cattolica’ (e ’laica’).
di Federico La Sala (ildialogo.org, 22 novembre 2005)
Credo che ormai siamo proprio e davvero al capolinea - nella totale ignoranza di sé stessi i componenti della Gerarchia della Chiesa ’cattolica’ si agitano ... alla ’grande’!!! Non hanno proprio più nulla da dire, evidentemente! Sono scesi in campo ... ma contro Chi?!, contro che cosa?! Contro lo spirito francescano!!!
In segno di solidarietà, qui ed ora - 2005 dopo Cristo, con i francescani in carne ed ossa, oggetto di un richiamo, con un Motu Proprio, da parte dell’ex- prefetto ’kantiano’ Ratzinger, il papa Benedetto sedicesimo, forse non è inutile un breve commento a margine... per cercare di stare svegli e di svegliarci, possibilmente - tutti e tutte!
Dennis McPherson, un aborigeno (che ormai ’ci’ conosce bene, evidentemente!) canadese, ecco cosa (sapientemente e sorprendentemente - per noi, occidentali!!!), alla domanda - “qual è l’essenza dell’essere umano? E’ una creatura speciale con una missione speciale?” - di un’antropologa-intervistatrice, ha risposto:
Se teniamo presente le famose parole “De nobis ipsis silemus [...]”(di Francesco Bacone), messe da Kant sopra (come una pietra tombale) e prima di iniziare il suo discorso della e nella Critica della ragion pura, si può dire che il ’nostro’ aborigeno ha capito e visto più che bene - e meglio di tutti i filosofi e teologi dell’Occide[re]nte!!! E ’ce’ lo ha detto in faccia - ’papale’, ’papale’: basta!!!
Noi che non conosciamo ancora noi stessi (Nietzsche) .... e che navighiamo nel più grande “oscurantismo” - quello (più importante!!!) relativo a noi stessi, vogliamo pure dare lezioni ed esportare ’cristianesimo’ e ’democrazia’ in tutto il mondo!? “Mi”!?, e “Mah”!!!?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana"
FLS
Pensare oltre le frontiere. Al via l’organizzazione del 25° Congresso Mondiale di Filosofia che si terrà nel 2024 alla Sapienza
Lunedì 26 aprile l’International Federation of Philosophical Societies, la Società Filosofica Italiana e Sapienza hanno firmato l’accordo che dà ufficialmente avvio all’organizzazione del 25° Congresso Mondiale di Filosofia (WCP), dedicato al tema “Pensare oltre le frontiere"
Dopo Bologna nel 1911, Napoli nel 1924 e Venezia nel 1958, sarà Roma a ospitare nel luglio 2024 la fase finale del Congresso mondiale di filosofia, nei prossimi anni sarà preceduto da una serie di incontri, seminari ed eventi preparatori che proietteranno le forze culturali e accademiche del nostro paese al centro del dibattito filosofico (e non solo) internazionale.
Si tratta di un risultato importante per l’Italia, per la Società filosofica italiana - tra le più antiche istituzioni filosofiche italiane, fondata nel 1906 proprio per promuove il dibattito filosofico e difendere l’insegnamento della filosofia - e per la Sapienza, che ancora una volta si conferma luogo privilegiato in cui custodire e alimentare la riflessione intellettuale e il pensiero critico, a partire dallo studio della tradizione classica come conferma il primato recentemente conquistato nell’area umanistica nel QS Ranking 2021, dove si è collocata al 1° posto in Classics & Ancient History.
Il Congresso mondiale di filosofia costituisce il principale momento di incontro tra le comunità accademiche e intellettuali del mondo intero, che si riuniscono ogni cinque anni in un paese diverso per rafforzare le relazioni professionali, promuovere l’educazione filosofica e offrire un contributo rispetto alle grandi questioni e sfide del proprio tempo. Per queste ragioni l’aspettativa che suscita su scala internazionale è straordinaria: la partecipazione agli ultimi Congressi (Atene 2013 e Pechino 2018) ha superato i 4,000 iscritti provenienti da oltre 120 paesi.
Dal primo congresso del 1900 che si tenne a Parigi in occasione dell’Esposizione universale, è la prima volta, in 125 anni, che il Congresso si svolge a Roma - la quarta volta per il nostro Paese, caso unico al mondo - segno evidente del riconoscimento da parte della comunità filosofica internazionale dell’importanza del contributo che l’Italia ha dato e può dare all’interno del dibattito filosofico globale. All’origine di quest’impegno è l’esigenza di avviare una riflessione pubblica sull’avvenire delle nostre società, particolarmente urgente in questo momento, confrontandosi allo stesso tempo con gli sviluppi più recenti delle ricerche filosofiche condotte nelle diverse aree del pianeta.
In quest’ottica, a luglio 2024, per un’intera settimana, sotto l’ambito generale “Pensare oltre le frontiere”, si affronteranno temi legati alle relazioni interculturali, alle questioni di genere, alle forme di organizzazione politica e alle diseguaglianze sociali, ai temi ambientali e bioetici, ai diritti, all’Agenda ONU 2030 e alle modalità di sviluppo sostenibile.
Il Congresso rappresenta un formidabile volano di ripresa e di costruttivo confronto intellettuale, di valorizzazione del patrimonio culturale materiale e immateriale, non che di sviluppo economico. La sua capacità di attrazione offre all’Italia la possibilità di rafforzare la propria presenza accademica e scientifica internazionale, collocandosi al centro di una riflessione globale sulle prospettive culturali, sociali ed economiche del mondo contemporaneo.
In occasione del Congresso, migliaia di intellettuali e accademici del mondo intero si riuniranno a Roma. Si tratterà quindi di un grande momento pubblico di riflessione, elaborazione e proposte sulle prospettive presenti e future delle nostre società.
Nelle sue fasi preparatorie, esso permetterà di aggregare l’insieme delle forze intellettuali, scientifiche, accademiche del nostro paese, a cui si uniranno voci e figure del mondo dell’economia, dell’informazione, delle imprese e delle istituzioni, in un processo di avvicinamento al Congresso che vuol essere al servizio dell’esigenza, complessa ma sempre più avvertita, di “ricostruzione intellettuale” delle nostre società.
La partecipazione di studentesse e studenti, giovani ricercatrici e ricercatori del mondo intero sarà una priorità. A loro sarà riservata un’intera sezione del Congresso. Per le giovani generazioni sarà infatti un’occasione per aprirsi al confronto con altre idee, linguaggi, culture e sensibilità e rappresenterà un’opportunità formativa e di valorizzazione dei propri studi particolarmente significativa.
Manifesto per la nuova Scuola
“La scuola deve tornare a essere principalmente un luogo di conoscenza e relazione umana”. Pubblichiamo un documento redatto da un gruppo di docenti per sostenere una nuova idea di scuola. Tra i firmatari: Gustavo Zagrebelsky, Luciano Canfora, Salvatore Settis, Adriano Prosperi, Alessandro Barbero, Tomaso Montanari.
di Autori vari (MicroMega, 16 Giugno 2021)
1) La scuola come luogo della relazione umana e del rapporto intergenerazionale
La scuola si occupa delle persone in crescita, non di entità astratte scomponibili e riducibili a una serie di “competenze”. L’insegnamento e l’apprendimento toccano infatti tutte le dimensioni dell’essere umano - intellettuale, razionale, affettiva, emotiva, relazionale, corporea - tra loro interconnesse e inscindibili; bisogna sempre ricordare, in tal senso, che quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un rapporto umano.
L’idea che la scuola possa essere incentrata sulla semplice acquisizione di “competenze” è profondamente sbagliata, sia perché applica a un ambito, quello scolastico, categorie nate in tutt’altro ambito, quello cioè dell’azienda e della produttività lavorativa, sia perché esclude appunto la dimensione integralmente umana, centrale nella scuola e nei processi lunghi e non lineari dell’apprendimento e della crescita.
2) Per una scuola della conoscenza
Per svolgere il compito che le è affidata dalla Costituzione, la scuola pubblica deve essere incentrata sulla conoscenza e sulla trasmissione del sapere, oltre che sul rispetto delle esigenze psico-fisiche di crescita dei giovanissimi. Solo attraverso il confronto con i contenuti culturali, la loro elaborazione e acquisizione - a partire da un’approfondita e reale alfabetizzazione - gli studenti potranno diventare cittadini liberi e consapevoli, in grado di contribuire a un autentico progresso della società. Senza l’istruzione delle nuove generazioni, la stessa democrazia è svuotata di sostanza.
3) Un giusto rapporto tra mezzi e fini
Se è vero che la scuola deve essere fondata sulla conoscenza, sul sapere, sullo studio, tutti gli strumenti e i metodi dell’insegnamento, compresi quelli legati all’uso delle tecnologie digitali, devono rimanere o ritornare a essere dei semplici mezzi, da utilizzare non a prescindere ma se e quando le necessità della condivisione dei contenuti culturali (che è continua attività dell’intelligenza, attualizzazione e rielaborazione critica delle conoscenze guidata dall’insegnante) lo richiedano. Vanno cioè evitati i deleteri rovesciamenti e le frequenti inversioni di priorità tra mezzi e fini che hanno caratterizzato il “didattichese” degli ultimi decenni - al punto che alcuni sembrano pensare che i mezzi siano essi stessi il contenuto della didattica - e va restituito il giusto posto alla libertà di insegnamento (spesso schiacciata e conculcata dall’imposizione di mode di scarsissimo valore didattico e culturale), nel segno di un’istruzione il più possibile ricca e plurale e della responsabilità educativa degli insegnanti. Bisogna ricordare come gli insegnanti siano degli intellettuali e dei professionisti, il cui compito non è quello di applicare burocraticamente e passivamente delle decisioni prese altrove, ma quello di trovare di volta in volta i mezzi più adatti per l’insegnamento. D’altra parte, non si capisce in che modo un insegnante ridotto a burocrate e certificatore potrebbe aiutare gli studenti ad acquisire un indispensabile senso critico di fronte alla realtà e ai contenuti culturali di cui via via essi si appropriano.
In qualunque ragionamento sui mezzi, non va poi dimenticato come l’uso sempre più pervasivo della tecnologia digitale - che il ricorso alla “didattica a distanza” ha reso preponderante anche a scuola, a discapito di ogni esigenza didattica ed educativa che richiedesse strumenti diversi - sia collegato ai disturbi da iperconnessione che colpiscono i giovanissimi, ai rischi del ritiro sociale, al senso di insicurezza, alla dipendenza dagli strumenti tecnologici, fino agli attacchi di panico, fenomeni che insorgono anche in conseguenza della mancanza di rapporti che è possibile vivere solo in presenza e della negazione della dimensione fisico-corporea, la cui messa in gioco è fondamentale per le persone in crescita. In questo contesto andrebbe sempre ricordato che la relazione, le parole, i gesti e tutto ciò che passa nella comunicazione verbale e non verbale sono i primissimi strumenti degli insegnanti, gli unici davvero indispensabili.
4) Il mancato coinvolgimento degli insegnanti nelle “riforme” degli ultimi vent’anni
Poiché la scuola pubblica ha come finalità l’istruzione e la formazione umana e culturale delle persone in crescita, i decisori politici, prima di ipotizzare qualunque “riforma”, dovrebbero interloquire con gli esperti della trasmissione culturale e quelli dell’età evolutiva - insegnanti, psicoanalisti, intellettuali, educatori - e non con i rappresentanti di associazioni private - Fondazione Agnelli, Treelle, Anp - che rappresentano e perseguono appunto interessi privati.
5) Il reclutamento e la formazione degli insegnanti
La formazione e il reclutamento degli insegnanti devono avere al centro la preparazione culturale, la conoscenza approfondita e di prima mano dei contenuti disciplinari, - solo degli autentici esperti possono infatti trasmettere agli studenti la passione per il sapere e per le singole discipline - la motivazione e la propensione all’insegnamento, alla condivisione culturale e alla relazione con le persone in crescita. Per quanto riguarda l’aspetto relazionale, gli insegnanti devono poter avere un confronto con esperti dell’età evolutiva di comprovata esperienza ed elevata professionalità, anche attraverso lo strumento dello sportello d’ascolto o di gruppi dedicati, per esaminare le dinamiche su cui si fonda il rapporto educativo e per poter sciogliere, dove occorra, eventuali nodi relazionali.
6) Restituire centralità all’ora di lezione
Autorevoli esponenti politici hanno chiesto che gli apprendimenti non acquisiti in “didattica a distanza” vengano recuperati attraverso un prolungamento dell’anno scolastico. Questa proposta, purtroppo, appare niente più di una boutade demagogica: chiunque conosca il mondo della scuola e le dinamiche dell’insegnamento/apprendimento - e non pensi che consistano in una rapida verniciatura di “competenze” - sa benissimo che in due o tre settimane, alla fine di un periodo terribile, non è possibile recuperare nulla di ciò che si è perso in un anno di mancata scuola in presenza. Dopo vent’anni di devastanti “riforme”, occorrerebbero invece interventi precisi e profondi, per rilanciare la funzione della scuola, e cioè, prima di tutto, restituire centralità all’ora di lezione disciplinare, un’ora squalificata e messa ai margini da una serie di attività che ne snaturano la funzione e la rendono un’attività residuale. Se davvero si vuole recuperare il tempo perduto, occorre eliminare ciò che non è apprendimento e insegnamento:
via gli inutili percorsi di “alternanza scuola-lavoro” (ora PCTO), da sostituire semmai con stage sensati e non obbligatori, se e quando ne valga la pena, fuori dall’orario scolastico e su decisione dei consigli di classe;
via i test INVALSI, che sottraggono settimane di tempo all’attività scolastica senza che se ne siano mai chiariti il senso, la funzione e l’utilità;
via i progetti non indispensabili (ad eccezione ad esempio della mediazione linguistica e culturale per gli studenti stranieri e dello sportello d’ascolto psicologico, attività che andrebbero potenziate e affidate a seri professionisti attraverso degli albi nazionali e non alla casualità di progetti improvvisati), funzionali soltanto ad alimentare un’assurda concorrenza tra istituti, che fanno dimenticare da decenni che l’unico vero, utile, indispensabile progetto che la scuola offre è l’ora di lezione. Va rovesciata la prospettiva: non è la scuola ad essere un progettificio a prescindere, è che singoli progetti particolarmente validi possono essere accolti da una scuola che però di base fa altro;
via il RAV, le programmazioni ipertrofiche e standardizzate e tutti quei documenti in cui la descrizione astratta e burocratica dell’insegnamento prende il posto dell’insegnamento stesso, in una continua e paradossale certificazione del nulla;
via i PTOF cervellotici che prendono a pretesto presunte esigenze dei “territori”. Ciò che davvero offre qualunque scuola pubblica è l’insegnamento dell’italiano, della matematica, delle lingue, delle scienze, delle arti, delle tecnologie, della letteratura, della storia, della geografia, della storia delle idee, del diritto, la conoscenza di sé e del proprio corpo anche attraverso l’attività fisica e la socialità scolastica...non basta? Quelli che dicono che non basta vogliono in realtà togliere di mezzo proprio ciò che di prezioso la scuola offre;
via insomma tutte le attività burocratiche inutili che sottraggono tempo, attenzione ed energie agli insegnanti, che devono dedicarsi esclusivamente all’insegnamento. Perché questa rivoluzione sia possibile occorre però:
7) Rivedere l’intero impianto fallimentare dell’ “autonomia scolastica”
L’ “autonomia scolastica”, introdotta al tempo del ministro Berlinguer, da oltre vent’anni a questa parte ha trasformato la Scuola pubblica nazionale, - “organo costituzionale della democrazia”, nelle parole di Calamandrei - in una serie di para-aziende in assurda concorrenza tra loro per la conquista della clientela, in inutili progettifici, in centri di potere e di proliferazione burocratica fine a se stessa, nei quali l’ambigua figura del dirigente-manager subordina quasi inevitabilmente le finalità didattiche ed educative della scuola, le uniche che la fanno esistere e le danno senso, a esigenze burocratico-gestionali ed amministrative. È indispensabile dunque restituire alla scuola l’orizzonte pubblico, democratico e nazionale che le è proprio, in modo che nessuna finalità estranea possa interferire con l’unica attività che la scuola è chiamata a compiere, quella cioè di istruire ed educare.
8) Un diverso rapporto numerico tra studenti e insegnanti
Infine, occorre fare ciò che tutti annunciano e nessuno realizza: diminuire nettamente il numero di studenti per classe, in modo che gli insegnanti possano davvero dedicare tempo e attenzione alle esigenze di ogni studente, operazione oggi più fattibile grazie ai previsti finanziamenti europei. Occorre mettere fine al paradosso per il quale si chiede agli insegnanti di attuare una didattica personalizzata - richiesta che si risolve in realtà nella proliferazione burocratica e nella richiesta di “certificazioni” di ogni tipo - e contemporaneamente gli si impedisce di farlo, imponendo loro di lavorare in classi sovraffollate in cui sono presenti fino a trenta/trentacinque studenti. Non è un caso che il numero dei partecipanti a un gruppo di discussione, secondo la psicologia dei gruppi, vada limitato a un massimo di quindici, pena l’impossibilità dell’aggregazione e del funzionamento del gruppo stesso; per la scuola, bisogna ribadire almeno che in nessun caso possano essere formate classi con un numero di studenti superiore ai venti.
C’è inoltre da smontare subito quella che, nel migliore dei casi, può essere considerata un’ingenua illusione, l’idea cioè che gli strumenti digitali permettano agli insegnanti di seguire un numero ancora maggiore di studenti, magari attraverso la produzione di video da mostrare in lezione asincrona. È vero esattamente il contrario: la “didattica a distanza”, largamente inefficace con le persone in crescita, visto che per bambini e adolescenti non esiste apprendimento che non passi per la relazione e per continui feedback verbali e non verbali, richiederebbe semmai un rapporto uno a uno tra studenti e insegnanti, per poter avere una sia pur limitatissima validità.
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Hanno sottoscritto il manifesto anche:
Alessandro Barbero
Mauro Biani
Riccardo Bocca
Luciano Canfora
Chiara Frugoni
Carlo Ginzburg
Vito Mancuso
Dacia Maraini
Donata Meneghelli
Ana Maria Millan Gasca
Tomaso Montanari
Filippomaria Pontani
Adriano Prosperi
Massimo Recalcati
Maria Michela Sassi
Salvatore Settis
Gustavo Zagrebelsky
Intervista - "Letture" *
“Bibbia e Corano, un confronto” di Piero Stefani
Prof. Piero Stefani, Lei è autore del libro Bibbia e Corano, un confronto edito da Carocci: quanto sono simili i due testi sacri?
Comincio da una precisazione rilevante: i testi sacri sono in realtà tre. Occorre infatti distinguere tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana. Uno stereotipo ancora abbastanza diffuso parla di Bibbia e Vangelo. In realtà, esistono la Bibbia ebraica, e la Bibbia cristiana formata da Antico e Nuovo Testamento. I libri dell’Antico Testamento, salvo alcuni casi particolari, coincidono con quelli della Bibbia ebraica; tuttavia in questo caso si è trattato non di aggiungere alcuni libri a quelli precedenti bensì di creare un insieme da leggere e interpretare in maniera diversa.
La somiglianza più profonda è che Bibbia e Corano sono sacri soltanto a motivo dell’esistenza di tre comunità che li considerano tali, in quanto li ricevono, li leggono nella liturgia, li commentano e li trasmettono. Tutte e tre le comunità religiose condividono la convinzione che, nel corso della storia, Dio abbia fatto giungere agli esseri umani parole destinate in seguito ad assumere una forma scritta. Ciò è avvenuto grazie a specifici mediatori che hanno trascritto nella “lingua degli uomini” la volontà di Dio. Per ricorrere alla classificazione consueta, ebraismo, cristianesimo e islam sono «religioni rivelate». Tra esse ci sono molte e non lievi differenze, ma tutte emergono a partire da questo terreno comune. Le si può paragonare a un bosco in cui ci sono alberi molto differenti tra loro, anzi a volte uno di essi fa ombra a un altro, tutti però condividono lo stesso suolo.
Quali sono i più significativi punti comuni tra Bibbia e Corano?
Il primo, irrinunciabile punto in comune è che Dio è definito creatore. Ciò significa che la realtà nel suo insieme ha avuto inizio a causa di un atto libero di Dio. Per tutte e tre non si tratta di dimostrare l’esistenza di Dio a partire da quanto sperimentiamo in noi e attorno a noi; quanto affermato dalle tre religioni è che in noi e attorno a noi ci sono segni dell’opera creatrice di Dio. Per così dire, il Cantico delle creature di Francesco di Assisi esprime un convincimento comune a ebrei, cristiani e musulmani. Per tutte e tre le tradizioni religiose, specie di età moderna, nasce poi il problema di sapere come confrontarsi con la visione del cosmo e della natura proposta dalla ricerca scientifica. Qui le strategie sono in parte diverse.
Altro punto accomunante è che Dio abbia comunicato agli esseri umani delle leggi (per limitarci a un solo esempio, si pensi ai “Dieci comandamenti”) volte a regolare sia i rapporti interni alle singole comunità religiose sia quelli con le altre persone e società. In questo caso ci si deve confrontare con il problema di quale rapporto esista tra queste leggi credute di origine divina e i tempi storici in cui sono sorte. Nasce poi anche l’interrogativo di quale sia la relazione tra le leggi di natura divina e quelle, fondate su altri principi, che regolano la società civile. La questione è accomunante, le risposte sono invece molteplici e spesso non concordi. Sono tali non soltanto tra ebraismo, cristianesimo ed islam, ma anche tra i vari gruppi o membri interni alle singole comunità religiose.
Le tre grandi religioni monoteiste fondano sulla rivelazione divina la propria dottrina, tanto da meritare l’appellativo di ‘popolo del libro’: come definiscono, i due testi sacri, la comunità dei credenti?
Come accennato in precedenza è vero che tutte e tre le comunità hanno testi sacri, tutt’altro che certo è invece che le si possa chiamare concordemente «popolo del libro». Per limitarmi a un solo esempio, per il cristianesimo la fonte prima della rivelazione è Gesù stesso, di cui i Vangeli sono memoria e testimonianza. Si può affermare che tanto l’ebraismo quanto il cristianesimo definiscono i loro rispettivi testi sacri in modo gerarchizzato.
La Bibbia ebraica è costituita da tre parti: Torah (Legge, con parola derivata dal greco, detta Pentateuco), Neviim (Profeti) e Ketuvim (Scritti). Il ruolo decisivo è svolto della prima parte; nell’armadio sacro presente in ogni sinagoga è contenuta, non a caso, solo una copia manoscritta della Torah, l’unica che fonda i precetti osservati dagli ebrei.
Per il cristianesimo il vertice è invece costituito dai quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi). Essi sono incentrati sulla vita pubblica, morte e resurrezione di Gesù. I Vangeli sono colti come una specie di chiave interpretativa per leggere in modo unitario un libro, la Bibbia, composto da un vasto insieme di testi molto vari per origine e provenienza, sorti in un arco di tempo di parecchi secoli.
Il Corano ha avuto invece un processo redazionale molto più breve misurabile in qualche decennio. La sua scansione interna è tra sure (capitoli) “fatte scendere” (cioè rivelate) a Mecca e quelle, cosiddette medinesi, risalenti a un periodo successivo all’egira (622 d.C.). I contenuti del Corano si suddividono in annunci, narrazioni e leggi; queste ultime, che incidono maggiormente sulla vita della comunità, risalgono al periodo finale della vita di Muhammad, quando il Profeta esercitava già una forma di governo.
L’espressione «comunità dei credenti» calza bene per cristiani e musulmani in quanto l’appartenenza alla Chiesa e all’ Umma (comunità musulmana) presuppone la fede, meno agli ebrei che costituiscono un popolo vero e proprio, non a caso si è ebrei innanzitutto per nascita (secondo una discendenza matrilineare).
Come descrivono Bibbia e Corano l’origine del male?
Vi è una dimensione accomunante che individua l’origine del male nella trasgressione. Come ben compreso da Paolo nella Lettera ai Romani, perché ci sia una trasgressione bisogna che prima ci sia una legge o un comando. Occorre quindi trovare miti fondativi che si muovano in questa direzione; il più noto è quello della proibizione di mangiare l’albero della conoscenza del bene e del male. Non è difficile comprendere il suo valore simbolico incentrato propria sulla connessione tra divieto e violazione. Al pari di prospettive presenti nell’apocalittica tanto giudaica quanto cristiana, il Corano pensa a una violazione antecedente a quella compiuta dalle creature umane. Ecco allora irrompere il peccato angelico, nell’islam connesso alla figura di Iblis, angelo superbo e disobbediente. D’altra parte conviene riflettere sul fatto che una trasgressione c’è eppure non ci dovrebbe essere; in questo senso si vede chiaramente la sua connessione con il male, altra realtà che c’è ma non dovrebbe esserci. Individuare la radice del male nella trasgressione porta con sé però altri problemi: chi spinge a trasgredire? Ecco allora che si “personalizza” il peccato, presentandolo come una forza che induce a compiere atti brutali. Sia per la Bibbia sia per il Corano la storia di Caino rappresenta il simbolo più conosciuto di tutto ciò: quando uccise il fratello, il primo fra i nati da donna non aveva ricevuto il comando di non uccidere.
Aumentare a dismisura la forza del peccato o della tentazione come causa del male rischia però di fa scivolare la visione di insieme verso una forma troppo prossima al dualismo, vale a dire di prospettare l’esistenza di un Dio del male; ecco allora che in alcuni passi sia biblici sia coranici si legge che Dio crea il male (Isaia 45,7). Affermazione che non va assolutizzata ma neppure del tutto accantonata. La presenza del male rappresenta per tutti uno scoglio complesso.
In che modo Bibbia e Corano affrontano il tema della resurrezione dei morti?
Il tema è presentato in maniera per così dire defilata nella Bibbia ebraica, infatti lo si trova con chiarezza solo nel tardo e apocalittico libro di Daniele (che nella Bibbia ebraica non è annoverato neppure tra i libri profetici). La resurrezione dei morti svolge invece un ruolo centrale nel Nuovo Testamento; il motivo è evidente: il kerygma - cioè l’annuncio originario e fondamentale della fede - ha il proprio centro nella «buona novella» di Gesù Cristo morto e risorto. Come stabilito in modo definitivo da Paolo, per la fede cristiana vi è un legame inscindibile tra la risurrezione di Gesù Cristo e quella dei salvati. Anche per questo motivo nel cristianesimo, per quanto sia stato affermato più volte e venga attestato anche da alcuni passi neotestamentari, suscita sempre sconcerto la prospettiva secondo la quale ci sono dei risorti destinati alla dannazione eterna. Nel Corano la resurrezione dei morti è affermata in maniera forte e inequivocabile. Per trovarne il fondamento basta rifarsi alla perenne attività del Dio creatore: Allah, che ha plasmato l’uomo dalla polvere, è ben capace di dare nuova vita a ossa disseccate. La resurrezione è però intrinsecamente legata al giudizio in virtù del quale si è o beati o dannati; una prospettiva tanto presente nell’islam da essere anticipata da una specie di interrogatorio che avviene dentro le tombe.
Piero Stefani, di formazione filosofica, insegna “Bibbia e cultura” presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e “Diritto ebraico” all’Istituto internazionale di Diritto Canonico e Diritto comparato delle religioni dell’Università della Svizzera Italiana. È segretario generale di Biblia, associazione laica di cultura biblica. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano Il grande racconto della Bibbia, il Mulino 2017 e per Carocci I volti della misericordia (2015).
* Fonte: Letture.org
Nota:
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - ma le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Federico La Sala
Cristoforetti prima donna in Europa a guidare una stazione spaziale *
Nel 2022 Samantha sarà lanciata verso la "base" dalla Florida: "E’ un onore, coordinerò una squadra eccezionale"
L’astronauta Samantha Cristoforetti sarà la prima donna europea al comando della Stazione spaziale internazionale (ISS). E la terza al mondo dopo due americane: accadrà nel corso della Expedition 68 che la vedrà in orbita nel 2022. Lo annuncia l’Agenzia Spaziale Europea (ESA).
AstroSamantha si dice "onorata" della nomina. "Ritornare sulla Stazione spaziale internazionale per rappresentare l’Europa è un onore di per sé", afferma l’astronauta. "Sono onorata della mia nomina alla posizione di comandante e non vedo l’ora di attingere all’esperienza che ho acquisito nello spazio e sulla Terra per guidare una squadra molto competente in orbita".
Come membro dell’equipaggio "Crew-4" insieme agli astronauti NASA Kjell Lindgren e Bob Hines, nel 2022 Samantha sarà lanciata verso la Stazione Spaziale dalla Florida, USA, su un veicolo spaziale Crew Dragon di SpaceX. Questa sarà la seconda missione spaziale di Samantha. L’esperienza maturata in questi anni le sarà sicuramente utile per il suo nuovo ruolo.
Il Direttore Generale dell’ESA Josef Aschbacher ha spiegato che "la nomina di Samantha al ruolo di comandante della ISS è un’ispirazione per un’intera generazione che sta concorrendo per entrare nel corpo astronauti dell’ESA. Non vedo l’ora di incontrare i candidati finali e colgo l’occasione per incoraggiare ancora una volta le donne a farsi avanti".
* Fonte: la Repubblica, 28 Maggio 2021
Idee.
Nancy: perché è così difficile essere-in-comune
La libertà supera la soggettività perché essa è proprio ciò che viene al soggetto, da più lontano di se stessi e che prevale altrove, al di là di se stessi
di Jean-Luc Nancy (Avvenire, giovedì 20 maggio 2021)
Perché l’essere-in-comune non è riconosciuto come essenza della società? Perché questo «in comune» non è fatto di un semplice accordo, ma al contrario implica il disaccordo. Secondo Kant, la nostra socialità procede da una «insocievole socievolezza». Il comune è un concetto che si presta a un’ambiguità: o si pensa a ciò che è comune a una pluralità, oppure si pensa all’essere insieme di una pluralità. Nella prima accezione, il comune è un bene condiviso (come i cosiddetti beni comuni di cui si parla molto oggi), nella seconda designa una modalità dell’essere. Questa modalità implica una pluralità, che implica diversità, la quale a sua volta implica la possibilità di divergenze o addirittura opposizioni di interessi, di aspettative, di ricettività.
L’essere-in-comune è una condizione complessa e difficile. In un certo senso implica la comunicazione come dimensione essenziale (ecco perché il linguaggio ne è inseparabile; si potrebbe anche dire che sia il linguaggio ad aprire l’in-comune; ma ci sono fin dall’inizio pluralità di lingue e diversità di significato) - e in altro modo implica la mutua estraneità degli individui e un’incomunicabilità essenziale (ad esempio, la traduzione tra lingue ne rivela la complessità). Ciò che si chiama «società» designa la necessità di fabbricare un modo di funzionamento che risponda all’«insocievole socievolezza». La società cerca di rispondere alla propria deiscenza interna. Tutte le società hanno tentato di farlo generando un’istanza di identificazione (dio, re, popolo, patria, clan, ecc.). Solo la società democratica moderna si è assunta il compito di identificarsi con la propria complessità. È un po’ come voler creare una lingua che contenga la diversità delle lingue (ma non esiste un meta-linguaggio).
Ecco perché è una sfida che non cessa di porre problemi e che dopo aver tentato di compiersi come «comunismo» (che sarebbe stata una sorta di meta-socialità) si converte al contrario in una crescente disparità di condizioni e nell’esplosione di egoismi e di ripiegamenti identitari. In un certo senso, forse gli uomini non sono mai stati così poco liberi come oggi: sono assoggettati alle loro estraneità, ai loro sfruttamenti ed esclusioni e alla limitata ristrettezza degli interessi. Invece, pensare alla società come un’associazione di uomini liberi significherebbe pensarla come lo spazio in cui ciascuno e tutti potrebbero accogliere - e condividere con gli altri - uno slancio che porti via le esistenze al di là di loro stesse, staccandole dalle loro necessità per condurle in uno spazio dove possano riconoscersi in una storia o in un destino, in una “destinerrance” come dice Derrida che le eccede tutte e così conferisce loro un senso.
Ma questo implica qualcosa di più dell’organizzazione socio-politica. Ciò implica un’eccedenza rispetto a ogni organizzazione, una an-archia testimoniata dalla non socialità o dalla asocialità dell’amore, dell’arte, ma forse anche, inevitabilmente, del crimine o della dissoluzione del legame sociale. La libertà supera la soggettività perché essa, d’altronde, è proprio ciò che viene al soggetto (sempre che si voglia utilizzare questo concetto), da più lontano di se stessi e che prevale altrove, al di là di se stessi. Essa è ciò che mi permette di non essere né causa né conseguenza in una relazione, ma semplicemente quell’inizio puntuale che nei termini di Kant inaugura una nuova serie di fenomeni ma che non vale per questa serie: che vale come inizio, origine immemorabile e insituabile.
Tale è la libertà di un gesto gratuito, di una linea gettata su un foglio o di un insieme di note suonate sulla tastiera, di una dichiarazione d’amore o di amicizia - dichiarazione non necessariamente verbale ma in atto - o di ogni sorta di decisioni di esistenza attraverso le quali incontri, scontri, situazioni mi portano dove non avrei mai pensato di andare, poiché in realtà non esisteva prima dell’incontro. Quello di cui sono il subjectum perché mi sta succedendo, ma non il soggetto che l’avrebbe fatto accadere. Essenzialmente la libertà ci libera dal soggetto, dall’assoggettamento al se-stesso e dai suoi limiti per esporci al sé-altro: non un altro sé ma l’alterità in me, tu in me o il cosmo in me o l’animale o il colore, il ritmo, l’aria che attraversa il flauto, l’impensabile e tutte le figure della libertà.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
FLS
INSEGNAMENTO E COSTITUZIONE: BASTA CON LA "MEZZA-FORMAZIONE" ("HALB-BILDUNG")! PER UN NUOVO CNR (E PER UN NUOVO "POLITECNICO": “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”.... *
La cultura politecnica che forma “ingegneri filosofi”.
Università, le sfide del Piano Draghi
di Antonio Calabrò (HuffingtonPost, 26.04.2021)
Giornalista, scrittore e vicepresidente di Assolombarda
“Ripartire dalla conoscenza”, sostiene Ferruccio Resta, per passare “dalle aule svuotate dal virus alla nuova centralità dell’Università”. Resta è rettore del Politecnico di Milano e attuale presidente della Crui, la Conferenza dei rettori delle università italiane. È un ingegnere, professore di Meccanica applicata alle Macchine (l’espressione “civiltà delle macchine” gli si adatta bene). E nelle pagine del nuovo libro, costruito attraverso un dialogo con Ferruccio de Bortoli e pubblicato da Bollati Boringhieri, ragiona non solo sulla necessità di investire massicciamente sulla formazione, per rendere l’Italia più competitiva, nella stagione del predominio della “economia della conoscenza”, ma anche sui contenuti della formazione, tenendo insieme, in modo originale, tecnologia e bellezza, saperi umanistici e conoscenze scientifiche, matematica e letteratura, ingegneria e filosofia, come peraltro proprio la migliore storia culturale ed economica italiana ci insegna.
Serve una “cultura politecnica”, con la straordinaria attualità di un “umanesimo industriale” che oggi, in tempi di digital economy e di Intelligenza Artificiale, va declinato anche come “umanesimo digitale” (tutti temi, peraltro, più volte affrontati in questo blog). Il Pnrr (la sigla difficilmente pronunciabile che sta per “Piano nazionale di ripresa e resilienza”) e cioè la versione italiana del Recovery Plan della Ue, stanzia 31,9 miliardi per Istruzione e Ricerca, per rafforzare, cioè, “il sistema educativo, le competenze digitali e tecnico-scientifiche, la ricerca e il trasferimento tecnologico”, come spiega Palazzo Chigi in un comunicato. In dettaglio, “il Piano investe negli asili nido, nelle scuole materne, nei servizi di educazione e cura per l’infanzia; crea 152.000 posti per i bambini fino a 3 anni e 76.000 per i bambini tra i 3 e i 6 anni”.
Si investe nel risanamento strutturale degli edifici scolastici, con l’obiettivo di ristrutturare una superficie complessiva di 2.400.000 metri quadri. E, per quel che riguarda i contenuti, si prevede una riforma dell’orientamento, dei programmi di dottorato e dei corsi di laurea, per esempio con l’aggiornamento della disciplina dei dottorati e un loro aumento di circa 3.000 unità.
Sempre un comunicato di Palazzo Chigi spiega che “si sviluppa l’istruzione professionalizzante e si rafforza la filiera della ricerca e del trasferimento tecnologico”. Con un’attenzione particolare per gli Its, gli Istituti tecnici superiori, per incrementare gli studenti iscritti, rafforzare i laboratori con tecnologie 4.0, formare i docenti e adattare i programmi formativi secondo le esigenze delle imprese in cerca di capitale umano qualificato, sviluppare una piattaforma nazionale per fare incontrare offerta e domanda di lavoro.
Siamo insomma di fronte a risorse di un certo livello, progetti ambiziosi, da realizzare in tempi brevi (il 2026, come scadenza massima). Il governo Draghi, insomma, s’è mosso. La Ue ritrova anche in questo capitolo il senso di fondo della sua strategia del Recovery Plan, in coerenza con l’orientamento di fondo indicato fin dal nome, “Next Generation”. L’impegno, adesso, è passare tempestivamente dalle pagine del Piano ai cantieri delle opere, alle scelte dei programmi didattici e alle realizzazioni.
Il libro di Resta e de Bortoli offre indicazioni preziose, su come usare bene i soldi finalmente a disposizione e dunque fare funzionare meglio università e ricerca, su come rafforzare il dialogo tra università, comunità sui territori e imprese. E su come progettare una formazione superiore che tenga conto del rapido sviluppo delle nuove conoscenze e dunque sull’usura altrettanto intensa di quello che oggi si sa.
Bisogna insegnare a imparare. E tenere testa a una seconda sfida, proprio di fronte all’impetuoso cambiamento delle tecnologie: quella di capire il senso delle cose che si fanno, indagare sui valori di riferimento, sulle conseguenze umane ed etiche dei progressi tecnologici. Non solo, dunque, saper scrivere efficacemente gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale, ma comprenderne, controllarne e governarne gli effetti. Per evitare manipolazioni occulte (il monito etico di Luciano Floridi, professore a Oxford di Filosofia dell’Informazione) e cercare di conciliare sviluppo hi tech, libertà, responsabilità. Come devono saper fare degli ingegneri filosofi, dei tecnologi poeti, appunto.
Le discipline universitarie, suggerisce Resta, non vanno più inquadrate in “gabbie rigide”. E, proprio pensando ai Politecnici, insiste: “Un ingegnere oggi non è più il tecnico che deve rispondere al singolo problema, ma deve dare risposte a sfide sociali e problemi complessi che sempre più spesso coinvolgono anche la sfera etica delle tecnologie”. Proprio le indicazioni di fondo del Recovery Plan della Ue, ambiente e innovazione, sostenibilità ed economia digitale, hanno bisogno di persone, di figure professionali formate in modo multi-disciplinare, adatta a fare sintesi originali di saperi in continua mutazione.
Il nostro Paese, insomma, ha urgente bisogno di investire su conoscenza e formazione, ricerca e innovazione. Risorse finanziarie e riforme del Recovery Plan ne sono finalmente strumento adeguato. Per costruire cultura del futuro, competenze, produttività e competitività. Abbiamo la necessità di superare il gap dei 13 milioni di persone che hanno solo un titolo di studio di scuola media inferiore formazione e il limite del basso numero di laureati, soprattutto nelle materie scientifiche. E dobbiamo dunque costruire una formazione migliore, non solo nei cicli scolastici, ma nelle relazioni lunghe tra scuola e lavoro, quella che tecnicamente si chiama long life learning, un’attitudine a imparare che ci accompagni per tutta la vita. Anche da questo punto di vista le università colte, aperte, efficaci nei processi formativi sono, come dice Resta, “centrali”. La conoscenza è il nostro migliore futuro.
*Sul tema, in rete, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! --- 8 MARZO 2021. Draghi: c’è tanto da fare per parità di genere a livelli Ue
PER UN NUOVO CNR! ALL’INSEGNA DI ERMES: “IO VORREI PENSARE CON IL CERVELLO INTERO”. IN MEMORIA DI ENRICO FILIPPINI E DI MICHEL SERRES
Federico La Sala
#FILOLOGIA #Storiografia #critica.
Un #lapsus e un #refuso di #lungadurata: "Le Fonti. Le lettere di #PaolodiTarso [...] 1 Cor 11, 23-26 (sull’#eucarestia: Mc 14, 22-25/Mt 26, 26-29/Lc 22, 14-20) [...]" (Fernando Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth, Torino 2021, p. 21)! #Eucaristia, eu-#carestia, e #latinorum. Uscire dal #letargo. O no?!
#CHARIDAD, #EUCARISTIA (EU-#CHARIS-TIA), #PoncioPilato (#PonzioPilato).La #invencion de #JesusdeNazaret. #Historia #ficción #historiografia (#FernandoBermejoRubio): https://www.amazon.it/invenci%C3%B3n-jes%C3%BAs-Nazaret-Fernando-Bermejo/dp/8432319201?asin=B07KSXYNPR&revisionId=e46a8f88&format=1&depth=1
Federico La Sala
«Il Mose è lo scandalo mondiale sulle opere pubbliche più grande della nostra storia recente»
Disastro annunciato: hanno pagato, si fa per dire, i corrotti. Ma gli incompetenti non saranno chiamati a risponderne
di Massimo Cacciari (L’Espresso, 05 Aprile 2021) 05 Aprile 2021
Occorre purtroppo continuare a parlare del Mose poiché si tratta del più grande scandalo mondiale in tema di lavori pubblici nell’intera storia del secondo dopoguerra. E di una vergognosa devastazione di risorse del nostro Paese che dura ormai da un trentennio. La parte destinata a corruzione e tangenti, passata quasi in giudicato, è quella quantitativamente meno rilevante. Sono le deficienze complessive del progetto, sotto tutti i profili, che sono costate miliardi di euro e continueranno a costarli, se si vuole in qualche modo «salvare» l’opera, almeno nel senso che di quando in quando le paratoie possano sollevarsi. Di tutto potrei stupirmi fuorché della denuncia della dottoressa Ramundo e del professor Paolucci.
Loro illustri colleghi avevano già ricordato cose analoghe fin da quando il progetto delle dighe mobili venne approvato. Che dico approvato! Esaltato, magnificato, sostenuto contro ogni evidenza da tutti i governi e tutti i ministri dei Lavori Pubblici succedutisi nel Bel Paese tra anni ’90 e nuovo millennio. Con la complicità della totalità o quasi dei media nazionali. E contro le posizioni, i documenti, le analisi, gli studi promossi dalle Amministrazioni comunali che ho diretto, 1993-2000, 2005-2010. Chi è interessato, può facilmente rintracciare tutta la documentazione, presentata a Comitati tecnici, Consigli superiori dei Lavori Pubblici, Corte dei Conti, provveditori e ministri di ogni colore. Tutti sapevano, o sarebbero stati tenuti a sapere.
Votai contro, unico, in Comitato inter-ministeriale per la salvaguardia di Venezia, mettendo agli atti le ragioni del mio radicale dissenso, e mi arresi. Il fronte era invincibile, dal Governo alla Regione, Galan e Zaia, dalle Associazioni di categoria tutte, alla Confindustria, alla stragrande maggioranza di tecnici impiegati dal Consorzio, a tv e giornali (con la lodevole eccezione della Nuova Venezia),e via cantando. Capitolo ben triste della storia civile patria.
Il problema della corrosione, drammatico come si evince dalle parole di Ramundo e Paolucci, è uno dei tanti irrisolti. Vi è quello del traffico portuale. Vi è quello del soggetto che dovrebbe gestire il sistema e decidere del suo funzionamento in condizioni critiche. Vi è quello straordinario della manutenzione in generale.
Quando il sottoscritto chiedeva disperatamente ne venisse esplicitato il costo, si parlava di 30-40 milioni all’anno, ora questa cifra dovrà essere almeno raddoppiata. Chi scoverà queste risorse per i prossimi anni, nella situazione in cui si trova il Paese? E senza manutenzione il Mose semplicemente si disfa, come risulta chiaro dalle lettere di dimissioni dei due ex consulenti. Chi dovrà pagare per questo annunciato disastro? Finora hanno pagato, si fa per dire, soltanto corrotti e corruttori. Ma incompetenti lautamente remunerati e compagnia bella non devono pagare? Chi ha fatto il collaudo non si è accorto della qualità dei materiali utilizzati? Chi doveva dirigere il tutto non ha avuto notizia della mancata manutenzione? Come salvare il salvabile?
Un’unica via: trovare i soldi necessari per fare tutto quello che Ramundo e Paolucci direttamente e indirettamente richiedono e affidare a loro o a gente seria come loro, che non deve obbedire a nient’altro che alla propria coscienza, il lavoro da fare e la gestione dell’opera.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
MARX, IL "LAVORO - IN GENERALE", E IL "RAPPORTO SOCIALE DI PRODUZIONE - IN GENERALE".... *
"CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" , "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (E MEMORIA DI DANTE ALIGHIERI - ANNO 2021) . Alla luce del fatto che si è persa ogni cognizione dello "stato di cose presente", forse, è opportuno - come voleva Marx - riprendere il filo dalla indicazione delle note "Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione"): "La teoria è capace di impadronirsi delle masse non appena dimostra ad hominem, ed essa dimostra ad hominem non appena diviene radicale. Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso".
Si dice:
CONCORDO. Ma per ripartire bisogna riprendere il filo dalla "Logica" di Kant (non di Hegel, come si recita ancora oggi: http://www.leparoleelecose.it/?p=41116#comment-439785), dalla sua "quarta" (e prima!) domanda: "che cosa è l’uomo?", dalla sua "Critica della ragion pratica", e dal suo "imperativo categorico" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5635)! La questione è antropologica (non andrologica né ginecologica)! O no?!
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. la "Lettera da ‘Johannesburg’ a Primo Moroni (in memoriam)": "CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4198); su COME NASCONO I BAMBINI? E COME ‘NASCONO’ I GENITORI?!, rileggere la lettera di Sigmund Freud (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923).
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Controparola/
Donne al futuro
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 20 marzo 2021)
Da quando ho scoperto che nella grammatica esistono termini marcati e termini non marcati - me li ha spiegati un illustre linguista amico di tastiera - non dico che non dormo di notte ma quasi. I termini non marcati, se ho capito bene, sono dominanti e includenti: per esempio il termine «giorno», che comprende il giorno e la notte; notte invece è un termine marcato, giacché designa soltanto il tempo dell’oscurità. Non marcato è uomo (ci avviciniamo al tema) in quanto comprende se stesso e anche la donna, la quale invece, guardacaso, è marcata quale «soltanto» donna.
Dovevo ripensare a questa disparità grammaticale nel leggere Donne al futuro, raccolta di saggi di donne che parlano «soltanto» di altre donne, uscito per il Mulino a cura delle amiche di Controparola. Si tratta di un gruppo di scrittrici e giornaliste, nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini, che ha pubblicato diversi libri sulle donne tra i quali Donne del Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, nella Repubblica, nel Sessantotto e ora al futuro. Sono Paola Cioni, Eliana Di Caro, Paola Gaglianone, Dina Lauricella, Lia Levi, Dacia Maraini, Cristiana Palazzoni, Maria Serena Palieri, Valeria Papitto, Linda Laura Sabbadini, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Mirella Serri, cui si deve Donne al futuro (il Mulino, Bologna 2021). Sempre e soltanto donne. O donne sole, si potrebbe anche dire, che è un’espressione un po’ deprimente ma anche molto divertente, a leggerla con ironia, e con la quale si intendono donne in compagnia di altre donne ma non di uomini. Mentre la dicitura per soli uomini sta per luoghi e/o attività in cui le donne non possono entrare e a cui non devono partecipare (e così è intitolata l’eccellente analisi statistica Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, appena pubblicata da Codice Edizioni e condotta dalla giornalista Emanuela Griglié e del collega Guido Romeo).
Le donne al futuro di questo libro, soltanto donne marcate nella loro donnità, sono di fatto figure straordinarie, proiettate, come dice il titolo, al futuro o declinate al futuro, visto che siamo partiti dalla grammatica (che innocentemente mi costringe qui a scrivere al maschile benché io sia donna che scrive di donne che scrivono di donne. La lingua sarà anche colpevole ma non nel modo semplificato e a tratti oltraggioso che le attribuiscono le interpretazioni corrive, come spiega puntualmente l’amico linguista il cui nome adesso svelo, Nunzio La Fauci, ma la dice lunga). Donne giovani che lavorano per fabbricare il futuro con l’arte e la musica, l’architettura e l’astrofisica; con l’impegno civile e umanitario (donnitario?), con la ricerca medica, l’economia, la pratica sportiva e l’insegnamento.
Le elenco qui tutte in fila in ordine alfabetico: Alice Pasquini (AliCè), Paola Antonelli, Marica Branchesi, Francesca Bria, Ilaria Capua, Silvia Colasanti, Ilaria Cucchi, Emma Dante, Sara Gama, Rita Giaretta, Giuseppina Multari, Eliana La Ferrara, Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini, Barbara Riccardi, Fulvia Signani e le altre, Beatrice Vio. Un ricordo è dedicato alla cittadina del mondo Agitu Ideo Gudeta, uccisa nel dicembre scorso in Trentino, dove si era trasferita e portava avanti la sua attività di imprenditrice.
Non potendo parlare di tutte ho scelto di citarne una sola, l’unica tra l’altro che mi era del tutto ignota, lo confesso e chiedo venia: Sara Gama. Sara Gama, classe 1989, madre triestina e padre congolese, capitana della Nazionale azzurra femminile di calcio nonché vicepresidente dell’Assocalciatori (termine non marcato che comprende anche le calciatrici mentre le calciatrici, marcate dall’essere soltanto donne, non comprendono i calciatori).
Sara Gama, ho scoperto, non soltanto gioca al calcio femminile da quando era una bambinetta ma rivendica anche, per quel calcio di donne, assicurazione sanitaria, previdenze, stipendio e soprattutto dignità. Studentessa liceale, studentessa universitaria - sulla storia del calcio femminile in Europa ha anche scritto la tesi - Sara Gama, che nell’immagine di copertina sembra, coi suoi bei capelli ricci, l’Italia turrita, nel discorso del 4 luglio 2019 al Quirinale, di fronte al presidente Mattarella, ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che sancisce la dignità di tutti i cittadini «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E questo grazie alle donne della Costituzione, le madri costituient, che contro l’opinione di alcuni padri della costituzione insistettero affinché nell’art. 3 venisse inserita la specificazione «di sesso», perché senza quella la conquista della parità sarebbe stata ancor più difficile di quanto già lo sia.
MATEMATICA, ANATOMIA, E BAMBINI E BAMBINE. UNA QUESTIONE DI CIVILTÀ..
Parlare dell’embrione per dimenticare il mondo
risponde Luigi Cancrini (l’Unità, 28.02.2005, p. 27)
«Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo».
Così inizia il capitolo 15 dell’Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato «De Testicoli delle donne» (p. 91). Dopo queste timide e tuttavia coraggiose ammissioni, ci vorranno altri secoli di ricerche e di lotte: «(...) fino al 1906, data in cui l’insegnamento adotta la tesi della fecondazione dell’ovulo con un solo spermatozoo e della collaborazione di entrambi i sessi alla riproduzione e la Facoltà di Parigi proclama questa verità ex cathedra, i medici si dividevano ancora in due partiti, quelli che credevano, come Claude Bernard, che solo la donna detenesse il principio della vita, proprio come i nostri avi delle società prepatriarcali (teoria ovista), e quelli che ritenevano (...) che l’uomo emettesse con l’eiaculazione un minuscolo omuncolo perfettamente formato che il ventre della donna accoglieva, nutriva e sviluppava come l’humus fa crescere il seme» (Françoise D’Eaubonne). Oggi, all’inizio del terzo millennio dopo Cristo, nello scompaginamento della procreazione, favorito dalle biotecnologie, corriamo il rischio di ricadere nel pieno di una nuova preistoria: «l’esistenza autonoma dell’embrione, indipendente dall’uomo e dalla donna che hanno messo a disposizione i gameti e dalla donna che può portarne a termine lo sviluppo» spinge lo Stato (con la Chiesa cattolico-romana - e il Mercato, in una vecchia e diabolica alleanza) ad avanzare la pretesa di padre surrogato che si garantisce il controllo sui figli a venire. Se tuttavia le donne e gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni residui dichiarassero quale destino pare loro preferibile, se un’improbabile adozione, la distruzione o la donazione alla ricerca scientifica, con la clausola che in nessun modo siano scambiati per denaro o ne derivi un profitto, la vita tornerebbe rivendicata alle relazioni umane piuttosto che al controllo delle leggi, ne avrebbe slancio la presa di coscienza dei vincoli che le tecnologie riproduttive impongono e più consenso la difesa della “libertà” di generare.
Federico La Sala
Ho molto apprezzato la citazione di Valverde soprattutto per un motivo: perché dimostra, con grande chiarezza il modo timido e spaventato con cui da sempre gli uomini di scienza si sono accostati al tema della procreazione. Il problema di quello che era un tempo “l’anima” dell’essere umano, la sua parte più preziosa e più peculiare, quella cui le religioni affidavano il senso della memoria e dell’immortalità è stata sempre monopolio, infatti, dei filosofi e dei teologi che hanno difeso accanitamente le loro teorie (i loro “pregiudizi”: nel senso letterale del termine, di giudizi dati prima, cioè, del momento in cui si sa come stanno le cose) dalle conquiste della scienza. Arrendendosi solo nel momento in cui le verità scientifiche erano troppo evidenti per essere ancora negate e dimenticando in fretta, terribilmente in fretta, i giudizi morali e gli anatemi lanciati fino ad un momento prima della loro resa. Proponendo uno spaccato estremamente interessante del modo in cui il bisogno di credere in una certa verità può spingere, per un certo tempo, a non vedere i fatti che la contraddicono. Come per primo ha dimostrato, scientificamente, Freud.
Ragionevolmente tutto questo si applica, mi pare, alle teorie fra il filosofico e il teologico (come origine: i filosofi e teologi “seri” non entrano in polemiche di questo livello) per cui l’essere umano è tale, e tale compiutamente, dal momento del concepimento. Parlando di diritti dell’embrione tutta una catena ormai di personaggi più o meno qualificati per farlo (da Buttiglione a Schifani, da Ruini a La Russa) si riempiono ormai la bocca di proclami (sulla loro, esibita, profonda, celestiale moralità) e di anatemi (nei confronti dei materialistici biechi di una sinistra senza Dio e senza anima).
In nome dell’embrione sentito come una creatura umana, la cui vita va tutelata, con costi non trascurabili, anche se nessuno accetterà mai di impiantarli in un utero. Mentre milioni di bambini continuano amorire nel mondo e intorno a loro senza destare nessun tipo di preoccupazione in chi, come loro, dovendo predisporre e votare leggi di bilancio, si preoccupa di diminuire la spesa sociale del proprio paese (condannando all’indigenza e alla mancanza di cure i bambini poveri che nascono e/o vivono in Italia) e le spese di sostegno ai piani dell’Onu (mantenendo, con freddezza e cinismo, le posizioni che la destra ha avuto da sempre sui problemi del terzo mondo e dei bambini che in esso hanno la fortuna di nascere).
Si apprende a non stupirsi di nulla, in effetti, facendo il mestiere che faccio io. Quando un paziente di quelli che si lavano continuamente e compulsivamente le mani fino a rovinarle, per esempio, ci dice (e ci dimostra con i suoi vestiti e con i suoi odori) che lava il resto del suo corpo solo quando vi è costretto da cause di forza maggiore, ci si potrebbe stupire, se non si è psichiatri, di questa evidente contraddizione. Quello che capita di capire essendolo, tuttavia, è che i due sintomi obbediscono ad una stessa logica (che è insieme aggressiva e autopunitiva) e che il primo serve di facciata, di schermo all’altro che è il più grave e il più serio. E accade a me di pensare, sentendo Buttiglione e La Russa che parlano di diritti dell’embrione e ignorando nei fatti quelli di tanti bambini già nati, che il problema sia, in fondo, lo stesso. Quello di un sintomo che ne copre un altro. Aiutando a evitare il confronto con la realtà e con i sensi di colpa. All’interno di ragionamenti che dovrebbero essere portati e discussi sul lettino dell’analista, non nelle aule parlamentari.
Così va, tuttavia, il mondo in cui viviamo. Perché quello che accomuna la Chiesa di ieri e tanta destra di oggi, in effetti, è la capacità di far germogliare il potere proprio dalle radici confuse della superficialità e del pregiudizio. Perché essere riconosciuti importanti ed essere votati, spesso, è il risultato di uno sforzo, anch’esso a suo modo assai faticoso, “di volare basso”, di accarezzare le tendenze più povere, le emozioni e i pensieri più confusi di chi non ama pensare. Parlando della necessità di uno Stato che pensi per lui, che decida al suo posto quello che è giusto e quello che non lo è. Liberandolo dal peso della ragione e del libero arbitrio. Come insegnava a Gesù, nella favola immaginata da Dostojevskji, il Grande Inquisitore quando Gesù aveva avuto l’ardire di tornare in terra per dire di nuovo agli uomini che erano uguali e liberi e rischiava di mettere in crisi, facendolo, l’autorità di una Chiesa che per 16 secoli aveva lavorato per lui e agito nel suo nome.
Del tutto inimmaginabile, sulla base di queste riflessioni, mi sembra l’idea che Buttiglione e Ruini, Schifani e La Russa possano accettare oggi l’idea da te riproposta nell’ultima parte della tua lettera per cui «le donne, gli uomini e le coppie che si sentono responsabili degli embrioni» potrebbero/ dovrebbero essere loro a decidere quale destino pare loro preferibile.
Ragionando sui fatti con persone scelte liberamente da loro perché sentite come capaci di dare loro gli elementi necessari per la decisione più corretta. Affermando l’idea per cui gli uomini, le donne e le coppie possono e debbono essere i veri protagonisti di quella procreazione responsabile che è il passaggio più alto, più difficile, più esaltante e più faticoso della vita di tutti gli esseri umani. Quella che più fa paura a tanta parte della Chiesa e della destra, in fondo, è soprattutto la libertà della coscienza critica. Per ragioni, io torno qui sul mio ragionamento iniziale, che andrebbero discusse sul lettino dell’analista, però, non nelle aule parlamentari, sui manifesti o sulle pagine di un giornale.
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#STORIA #STORIOGRAFIA E #DRAGHI: USCIRE DAL #LETARGO (#DANTE2021). #Tracce per una #svolta_antropologica e una #transizione_ecologica. #Dante, la #crisi culturale e #politica dell’#Europa e "l’#antropologia d’#ancien régime" (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908).
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Un altro deus ex machina sul piano inclinato della crisi
Draghi e non solo. La via tecnocratica, costruita con sofisticata ingegneria istituzionale, per ricondurre a «ordine» l’anomalia del voto del 2018, ridisegnando il sistema di governo
di Marco Revelli (il manifesto, 16.02.2021)
La Banca sopra la Politica, il Nord sopra il Sud, i maschi sopra le donne. Questa appare, ridotta all’essenziale, la struttura architettonica del nuovo governo: una fotografia perfetta dello stato di cose esistente e delle sue inamovibili gerarchie.
Non può sfuggire a nessuno, intanto, che l’ex governatore di Bankitalia e della Bce ha riservato a sé e ai propri fedelissimi il controllo della cassaforte, in primis del «tesorone» in arrivo dall’Europa, perché la gestissero con l’unica logica che gli uomini di banca conoscono: quella del denaro che rispetta solo se stesso (e che va dove già ce n’è).
E che poi abbia affidato per così dire «d’ufficio» un certo numero di ministeri chiave a quella che può essere considerata un’élite del sapere tecnico. Quasi volesse «mettere in sicurezza» il «cuore dello stato», o del sistema, da una politica malata, per certi versi comatosa, che nelle convulsioni dell’ultimo bimestre ha mostrato a nudo la propria incapacità di venire a capo della crisi che essa stessa aveva scatenato, riservandole un parterre tanto ampio quanto poco qualificato.
Uno spazio di tutti (e del contrario di tutti) da popolare secondo i dettami del manuale Cencelli, in cui le scarse competenze e l’esuberante litigiosità potessero in qualche misura offrire un simulacro di «copertura politica» senza rischiare di danneggiare i gangli vitali del sistema (più che commissariamento, «confinamento» si potrebbe dire).
Questo deve essere stato il pensiero congiunto di Draghi e Mattarella: la via tecnocratica, costruita con sofisticata ingegneria istituzionale, attraverso cui ricondurre a «ordine» l’anomalia selvaggia inaugurata col voto del 2018, ridisegnando il sistema di governo sulla mappa gerarchica del potere reale rispettandone con certosina attenzione le isobare.
Ed è esattamente quel criterio che ha portato a premiare il Nord (18 ministri) a scapito del Sud (appena 4), tanto che verrebbe da dire che, parafrasando la Moratti, i «posti» sono stati assegnati territorialmente in base al Pil: ben 9 ministri vengono dalla Lombardia, 4 dal Veneto, nessuno dalle isole...
Mentre per le donne - 8 su 24 - non è cosa nuova, è l’antropologia d’ancien régime che ha parlato.
Funzionerà? Si può davvero pensare di venire a capo di una grave «crisi di sistema» - quale quella che effettivamente l’Italia vive - con espedienti ingegneristici o con la logica del deus ex machina?
È per lo meno la terza volta che si tenta questa via - la prima con Ciampi, la seconda con Monti, ora con Draghi, peraltro figure assai simili per competenze e profilo tecnico-culturale - e ogni volta se ne è usciti con uno scatto in avanti sul piano inclinato della crisi istituzionale e sociale.
Il governo Ciampi, non dimentichiamolo, fu l’ultimo della Prima Repubblica. Dopo la sua fine dilagò il berlusconismo, espressione di una metamorfosi regressiva dell’elettorato nel suo complesso. Quindici anni più tardi, dopo diciassette mesi di governo Monti emerse il corpaccione grillino al centro di un sistema politico terremotato e sulla superficie di un corpo sociale martoriato, diventato addirittura nel 2018 maggioranza relativa, con una percentuale simile alla vecchia Dc.
Un altro terremoto che sconvolse vecchi e nuovi poteri, istituzionali ed economici, che infatti si misero subito all’opera per ricuperare centralità e controllo. E che oggi festeggiano il ritorno alla casella di partenza in questo gioco dell’oca che già ha percorso due giri a vuoto, nella speranza di fare, finalmente, l’en plein, e di poter sovrapporre al disordine di quel voto «obsoleto» un nuovo ordine venuto dall’alto di un’Europa non più matrigna.
È un’impresa arrischiata. Anche per poteri abituati da sempre a vincere. E nella sua sostanza opaca. Non perché violi, in qualche modo, la lettera della Costituzione: tutto è avvenuto entro i canoni degli articoli 92 e 94 (peraltro molto sobri). Ma perché sfida la «costituzione materiale» di una democrazia rappresentativa nella quale la volontà di rottura di continuità espressa, sia pur in modo convulso e contraddittorio, nell’ultima elezione generale viene neutralizzata (le convulsioni dei 5Stelle, ma anche il triplo salto mortale della Lega, lo testimoniano), per essere infine piegata a una deriva iper-continuista (che difficilmente, pur collocandosi in un’Europa diversa, e pur disponendo degli euro del Recovery, sanerà le ferite sociali e il malessere che produssero la rivolta nelle urne del ’18).
E poi perché crea un governo ibrido, in cui l’élite tecnica siede su un tappeto di macerie costituite da un sistema dei partiti profondamente lesionato dove ogni forza politica si presenta negando una parte di se stessa e ogni cultura politica appare dissolta, rendendo assai improbabile l’efficacia del confinamento.
Un governo che, come tutti i governi omnibus, ospita una pletora di partecipanti, ognuno dei quali non rinuncerà a usare il »posto a tavola» ottenuto come megafono per regolare i conti col proprio vicino: i «polli di Renzo», anzi di Renzi potremmo dire, di cui già Salvini e compagni offrono un bell’esempio usando il podio che l’altro Matteo gli ha offerto per aprire una campagna elettorale permanente.
Fin dall’inizio dei miei studi in Scienza politica ho dovuto imparare che per il buon funzionamento di una democrazia moderna, è necessario che tra il livello della Società e quello delle Istituzioni esista una solida Società Politica, a svolgere il ruolo di canale di comunicazione e di fattore di legittimazione. Se questa avvizzisce o muore, avvizzisce e muore la democrazia.
In questo senso il «miracoloso» governo di Mario Draghi rischia di sfidare le leggi fisiche della politica, con esiti potenzialmente infausti.
La frase con cui Giovanni Agnelli commentò il governo Ciampi - «dopo il governatore, c’è solo un generale, o un cardinale» - potrebbe ritornare di attualità non se Draghi fallisse ma se, completato il mandato, la politica si presentasse ancora nuda alle elezioni del ‘23.
La crisi di sistema
IL FALLIMENTO DEGLI UOMINI NUOVI
DI GUIDO CRAINZ (L’Espresso, 07 febbraio 2021)
Neppure il pessimismo più cupo poteva immagi-nare un’implosione così radicale, un crollo cosìprivo di dignità, una abdicazione così totale del"sistema dei partiti" (odi quel che ne resta). Eppure è difficile stupirsi: quante volte abbiamo dovuto interrogarci sulla crisi sempre più grave della politica e dei suoi attori, dei suoi contenutie del suo modo di essere? E quando abbiamo iniziato ad avvertire le derive?
Solleviamo per un attimo lo sguardo dalle misere e drammatiche dinamiche dei giorni scorsi, vi è sul lontano sfondo qualcosa di profondo: uno spartiacque d’epoca avvertito sin dagli anni 80. Iniziano ad emergere allora le trasformazioni destinate ad erodere gli scenari del Novecento: con la crisi delle ideologie e il progressivo incrinarsi dei partiti dimassa fondati sulla militanza e l’appartenenza. Con il modificarsi dei soggetti sociali: si pensi al progressivo uscir di scena della "classe operaia", fulcro della realtà e dell’immaginario della sinistra. E con radicali trasformazioni delle forme della politica, nel delinearsi dei "partiti personali" e della "democrazia del pubblico".
Con la trasformazione cioè della comunità dei cittadini in una platea di telespettatori, in rapporto diretto con il leader: si erode anche per questa via l’insediamento sociale dei partiti e si delineano progressivamente, per dirla con Ilvo Diamanti, leader senza partiti e partiti senza società. Si rivedano le intense immagini dei funerali di Enrico Berlinguer, nel 1984: fotografano un punto alto e al tempo stesso l’inizio del declino del "popolo comunista". E oggi ci appaiono anche un inconsapevole e commosso addio ai grandi partiti del Novecento, già incrinati nei loro tratti ideologici e nel loro radicamento territoriale.
Pochi mesi prima il leader comunista erastato fischiato al Congresso di Verona del Psi che aveva riconfermato Craxi per acclamazione: «la più radicaleantitesi dell’elezione democratica», annotava Nor-berto Bobbio. Il primo annuncio dei "partiti perso-nali", e nelle scenografie dei congressi socialisti di allora è facile intravedere anche l’avanzare della"politica-spettacolo".
Naturalmente non è solo italiana la crisi delle forme novecentesche della politica. Per certi versi, ha osservato Sabino Cassese, l’indebolimento del partito-organizzazione può essere anche «un passo avanti perla democrazia - consente di rompere le fortificazioni erette intorno ad essa - ma produce un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente al quale bisogna porre rimedio». In quel vuoto aumentò invece nei nostri anni 80 la deformazione di partiti di governo portati a surrogare il calo dei consensi con l’uso dissennato del denaro pubblico, sempre più intrecciato a fenomeni corruttivi. E a trasformarsi così in «federazioni di correnti, di camarille, ciascunacon un boss e dei sotto-boss»: era parsa estrema, nel 1981, la denuncia di Berlinguer.
Dieci anni dopo Edmondo Berselli annotava che quel ceto politico sembrava attraversato e scosso, ormai, «da due spinte esattamente opposte: l’istinto di conservazione e una oscura volontà di autoannientamento». E in quella "immobilità parossistica" cresceva una «perfida combinazione di crisi economica conclamata e di marasma politico pericolosamente vicino al collasso del sistema».
II collasso verrà presto e travolgerà i partiti di governo ben oltre la bufera di Tangentopoli, ma non trionferà una sinistra ex comunista che era rimasta in larga parte estranea ai processi corruttivi ma non era stata capace di ripensarsi realmente. E veniva identificata così con il vecchio sistema politico.
Ebbe gioco facile, allora, il populismo di un "uomo nuovo" cresciuto neimedia, nelle culture e nelle deformazioni degli anni Ottanta. Intriso di insofferenza alle regole e di antistatalismo, di sostanziale disprezzo per le istituzioni e di illusionismo («un nuovo, straordinario miracolo italiano»). E i peggiori umori sedimentati nel decennio precedente troveranno larga rappresentanza nelle fila di Forza Italia e della Lega di Bossi (sono eloquenti le cronache parlamentari di allora).
Sembrò declinare dopo pochi mesi la stagione berlusconiana, ma poté prolungarsi poi per un ventennio grazie alla incapacità della sinistra di rifondarsi: eppure forme di "buona politica" erano pur emerse allora, dall’elezione diretta dei sindaci alle "primarie". Non trovarono vero ascolto però le istanze ad aprirsi più profondamente alla società civile: l’esigenza di una «politica restituita ai cittadini» è «un mito estremista» tuonò Massimo D’Alema, e chiuse il discorso. Riemersero così vecchi vizi e il centrosinistra vedrà progressivamente isterilirsi il proprio ceto politico, le proprie rappresentanze e le proprie dinamiche interne.
Vedrà moltiplicarsi microbaronie locali, e sarà sempre più po-vero di ideali e idee. Maturò così la rivincita berlusconiana del 2001, nonostante i risultati positivi rilievo pur conseguiti dal centrosinistra. E di lì a poco la spinta al rinnovamento dei "girotondi" non trovò ascolto in un ceto politico sempre più chiuso in se stesso. Sempre più "casta", come denunciava un libro di enorme successo del 2007: e in quello stesso anno Beppe Grillo occupò la scena con il primo Vaffa.
Esplodeva in quel torno di tempo una crisi finanziaria internazionale destinata a lasciare segni profondissimi. A rendere sempre meno credibile l’illusionismo berlusconiano e a rendere ineludibili nodi irti. Le ferite della globalizzazione avrebbero imposto, ad esempio, un ripensamento profondo del welfare, già incrinato dai mutati rapporti fra ceti e generazioni, ma quel ripensamento non vi fu.
Un’altra prova fallita dalla politica, mentre l’insicurezza era alimentata dal crescere impetuoso dell’immigrazione (e dall’incapacità di dare ad essa risposte reali) e dal comparire all’orizzonte del terrorismo islamico. Affondava in quello scenario il ventennio berlusconiano, lasciando inaspriti e sperduti milioni di italiani che in quell’illusionismo avevano pur creduto. Esposti ora al disincanto e al rancore.
Ben poco sapeva parlare ad essi la retorica bersaniana dell’"usato sicuro", inevitabilmente travolta dall’antipolitica urlata di Beppe Grillo: e in Parlamento irruppero nuove, improbabili schiere di "uomini nuovi" (si rileggano anche in questo caso le cronache dì allora).
Iniziò in quello scenario la breve stagione di Matteo Renzi, e iniziò con un impegno importante: «cambiare la politica e cambiare il Pd». Mai impegno fu più disatteso (eppure era desolante lo "stato del partito" fotografato allora da Fabrizio Barca), e lo stesso appuntamento alla Leopolda diventò la caricatura di un rinnovamento programmatico.
Prendeva corpo inoltre, grazie anche ad altri attori, una "democrazia del leader" segnata non dallo strapotere del capo ma dalla sua fragilità, come ha osservato Mauro Calise: dal suo essere «esposto alla spirale delleaspettative crescenti, dei sondaggi incombenti e delle decisioni impellenti. Con un circuito di legittimazione costantemente sull’orlo di una crisi di nervi».
Crollò così anche la stagionedi Renzi, ridotto ora alla irresponsabile caricatura di se stesso: sarebbe stato (ed è) necessario affrontare radicalmente i nodi che ne avevano provocato al tempo stesso l’ascesa e la caduta.
Sarebbe stato (ed è) necessario avviare, almeno, un ripensamento radicale sulle modalità di formazione del ceto politico,e dare corpo a cantieri reali di riflessione e di proposta suigrandi temi che incombono (dall’Europa al Mezzogiorno, dall’istruzione al lavoro e al welfare). Sarebbe necessaria e urgente, insomma, una vera stagione congressuale, impegno pur preso - a parole - dal segretario attuale del Pd. A parole,appunto, come aveva fatto Matteo Renzi.
AL DI LA’ DELL’ORIZZONTE DI "PERICLE IL POPULISTA" E DI PLATONE...
PER NON CADERE (di nuovo e ancora, dopo millenni) NELLA TRAPPOLA DELLA TRACOTANZA E DELLA MALAFEDE DI "PERICLE", E NON DIMENTICARE CHE LA SUA LINEA POLITICA SEGNA L’INIZIO DELLA FINE DELLA GLORIA E DEL PROGETTO POLITICO DI ATENE, forse, è opportuno - ricordando la messa al bando di Omero e dei "poeti" dalla "Repubblica" di Platone - riprendere e rivedere (non solo i lavori di Eric A. Havelock, ma anche) la brillante analisi del cosiddetto "Elogio di Atene" da parte di Umberto Eco nella sua nota sul "Pericle il populista" di ieri e di oggi (la Repubblica, 14 gennaio 2012):
e, al contempo, volendo, rimeditare la storica lezione di Giambattista Vico sulla questione "Omero" e riflettere sulla sua proposta di una "Scienza Nuova", al di là dell’imbalsamazione crociana.
Federico La Sala
La riflessione.
La comunicazione politica dentro la crisi: rispettateci anche a parole
di Mauro Magatti (Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Nel passato, la parola data era sacra e, col suggello di una stretta di mano, stabiliva impegni vincolanti. Un retaggio che filtra fin nelle democrazie moderne che fanno del "parlamento" il palazzo dove i diversi interessi e i differenti punti di vista "si parlano", si confrontano, si accordano. Anche i sistemi politici più avanzati poggiano su quella fragile e delicata facoltà della vita umana che è la parola.
Sappiamo tutti quanto è difficile intendersi. Equivoci, fraintendimenti, ipocrisie, menzogne. Non certo solo in Parlamento. Ma al lavoro, in famiglia. Non sempre si dice quello che si pensa. Né si fa quello che si dice. Più spesso le parole vengono usate strategicamente per i propri obiettivi. Ingannando gli altri, violentando la realtà. Da qui si scatenano tensioni, litigi, lotte, sfiducia. Tutti ingredienti tristi della nostra vita.
Nulla di cui sorprendersi o scandalizzarsi dunque. La comunicazione umana, quando ha successo, ha qualcosa di miracoloso. E proprio poiché ne conosciamo la fragilità, col tempo si è affermata la tendenza a sostituirla con contratti scritti, procedure rigide, algoritmi. Col rischio di diventare una società di autistici. Ci sono situazioni, però, in cui la verità delle cose si impone con forza. In cui il bene che condividiamo è così necessario e forte da non ammettere furbizie o manipolazioni.
Così dopo quasi 11 mesi di pandemia, con ormai più di 80mila morti, con le scuole chiuse da quasi un anno, con interi settori economici distrutti, con ansia e preoccupazione in aumento nella popolazione, l’uso palesemente strumentale delle parole che abbiano ancora una volta visto nel ’teatrino della politica’ suona particolarmente stucchevole. L’Italia non meritava e non merita un tale spettacolo.
Un gruppo di governanti che pensa al bene comune, di fronte a delle legittime divergenze, si chiude in una stanza discute tutto il tempo necessario per arrivare a un accordo o a un disaccordo. E poi parla chiaro, e agisce alla luce del sole. E invece sono settimane (se non mesi) che il Paese è inchiodato in una pantomima dove tutti hanno un pezzo di ragione ma nessuno riconosce i propri torti. Renzi che critica (giustamente) certo immobilismo e verticismo di Conte, facendo però capire che il suo scopo non è semplicemente quello di dare buoni consigli al premier ma di rimandarlo a casa.
Conte che interviene con toni sempre rassicuranti su tutte le questioni facendo però finta di non sapere che il nostro (anziano) Paese è uno dei peggiori al mondo per numero assoluto di morti e di riduzione del Pil. I 5stelle che si dichiarano contrari al Mes (quando la nostra sanità avrebbe bisogno di ogni ulteriore risorsa) senza mai proporre una qualche ragione comprensibile, ma per pura affermazione identitaria e ideologica.
Il Pd che cerca di barcamenarsi in una coalizione traballante, ma non riconosce che, al di là delle speranza del primo momento, la coalizione di governo di fatto non riesce a prendere forma e consistenza. E intanto i leader dell’opposizione non perdono occasione per dire tutto quello che si sarebbe dovuto fare e che il governo non ha fatto elencando, senza vincolo di realtà, un numero più o meno infinito di decisioni che meravigliosamente ci avrebbero potuto portare fuori dalla crisi. Ma non fanno mai cenno dei fallimenti clamorosi registrati nelle Regioni in cui governano.
Con tutta la buona volontà, si tratta di uno spettacolo deprimente per il cittadino che cerca di farcela in mezzo a mille difficoltà. L’abuso della parola provoca un grave danno alla democrazia. Quando nessuno crede più a nessuno e si perde la fiducia nella possibilità di intendersi, il Parlamento diventa una ’torre di babele’ di cui qualcuno comincia a pensare di fare a meno. E questo è pericoloso. La parola comunicazione viene dal latino com-munis che rimanda all’idea di dono ’obbligatorio’.
Un’espressione che noi non riusciamo più nemmeno a cogliere. Come è possibile un dono obbligatorio? In realtà questa idea nasce dal presupposto che le relazioni (e quindi la comunicazione) siano rette su una obbligazione e che, proprio per questo, il comportamento individuale, pur libero, non possa prescindere da una serie di condizioni.
Che nel caso della comunicazione hanno a che fare con la ricerca della verità, la franchezza, l’onestà, la parresia. Senza obbligazione, la democrazia si riduce a puro scontro di potere, delegittimandosi di fronte al popolo. Soprattutto quando la verità dei fatti si impone per la sua gravità, non si possono usare le parole in modo solo strategico.
Serve un’ecologia della parola. Adesso.
Memoria /memorie
Lettera a Emanuele Severino
Intorno a una - eterna - lezione
di Roberta De Monticelli (Il Mulino, 24 gennaio 2020)
Caro professore,
se l’essere nella Gioia, come spero, le consente di ricevere qualche lettera senza che la Gioia sia interrotta dalla noia di leggerla, lasci pure che questa mia si depositi come foglia, soffio, ombra, umana illusione, fiato di voce o scintillio d’inchiostro là dove i più fra noi, tardi di mente e innamorati del visibile, stoltamente dimorano: nel Cerchio dell’Apparenza.Non turberà l’eternità dell’esser suo, caro professore, questo cicaleccìo di una collega invisibile, sì, proprio quella dell’aula accanto, quella del giovedì. O forse era martedì? Che cosa conta, e chissà mai perché poi avevamo quest’abitudine di onorare gli orari di lezione, questa conformistica, veramente illogica acquiescenza alla misurazione di ciò che non esiste, il tempo. Lei poi arrivava puntualissimo, molto più di me. Ben me ne accorgevo ogni volta che la folla dei suoi allievi in festosa attesa faceva barriera davanti a tutte le porte dello stretto corridoio su cui si aprivano le nostre aule, e i quattro gatti della mia classe e io restavamo bloccati per un pezzo, prima di entrare, con loro e mio rimpianto, nell’auletta degli esercizi di fenomenologia, piena di controversie e dubbi, invece che nella luce dell’incontrovertibile. Dove per due ore quelle menti giovinette e incerte, anzi certamente scosse da ogni sorta di amore e di terrore, si sarebbero spalancate alla ben rotonda verità dell’Essere, indefettibile e immobile: che sarebbe fluita senza interruzione alcuna dalle sue labbra, nel più religioso silenzio.
Lei cominciava col ben disporle, le menti, al saldissimo fondamento dell’epi-steme - diceva così, mi arrivava il suono della sua voce che inesorabilmente spezzava la parola greca, sapientemente appoggiando, con la pausa, la voce alla solidità di ciò che sta. Il sapere che sta, e non importa dove e come. Di là dalla parete, sentivo l’ombra di Socrate, smarrita, emergere come un fantasma da quella lineetta, da quella pausa che spezzava la parola, e come in un grido afono, beckettiano articolare con la bocca muta parole simili a sospiri: conoscenza... opinione vera e... giustificata... le ragioni, vi prego, le ragioni... Le ragioni per dirlo. L’evidenza per riconoscere che è vero - fino a prova contraria. Altro che stare. Quelli che stavano lì, immobili, ierocratici, erano i dignitari immensi della statuaria babilonese; a me veniva in mente ogni volta la stazione centrale di Milano, e certo subito ne arrossivo. In Grecia erano mobilissimi anche gli dei, invece, pieni di bizze e voglie, di splendori e di furia e di grazia, come i ragazzi e le ragazze che lei sapeva affascinare e render muti - come in un’estasi iniziatica.
Così, una volta che la mia lezione cominciava più tardi, l’ardente desiderio mi prese - chissà, l’invidia - di carpire il segreto di quel fascino. E assistetti alla mirabile dimostrazione “parmenidea” dell’impossibilità di far domande, con cui quel giorno si apriva il suo corso. E fremetti anche io dall’ammirazione, caro professore. Con quella voce così musicale, e insieme ieratica, quella sì, come se non si svolgesse affatto nel tempo: «Chi domanda è evidentemente nella non-verità. Ma dall’essere nella non-verità non c’è via all’essere nella verità. [Pausa]. Non c’è via. Per la contraddizione, che non la consente». Come invidiai questo modo così suadente di trasformare in un silenziatore il paradosso platonico della conoscenza, quello che introdusse nella nostra mente e nella nostra storia l’idea della ricerca, l’idea più sconvolgente e più controvertibile! Anzi controversa, al punto che bisognò morire, con Socrate, e mica una volta sola, perché l’idea vivesse, e la ricerca pure, e da questo sfacciato parricidio, da questa insolente perplessità che obietta alla ben rotonda verità dell’Essere, nascessero, come in una cosmogonia esiodea, la Disputa e l’Argomentazione, il Dubbio e la Scoperta, il disprezzo del sentito dire e la gioia del vedere, e la veglia e la critica, e il demone giocoso eppure serissimo della ragione.
Che non è affatto una dea barricadiera e neppure una prosopopea della storia, ma solo l’irriguardosa, umile, ridente e dolente giovinezza dell’età adulta, quando ancora ha freschezza e speranza per dire, ad esempio: “No, a nessun prezzo mi si imporrà questo, piuttosto morire”; oppure “E perché no? Perché mai le cose non dovrebbero avvenire così, anche se non le vedo ancora? Perché mai, contro la tesi di un famoso professore italiano del Novecento, il possibile non dovrebbe essere tale, cioè forse vero, anche se non lo vedo?”. La filosofia, mi dicevo, non è che questo doppio ricciolo interrogativo, l’essere disposti a chiedere e dare ragione di ciò che si dice e di ciò che si fa, o di ciò che ci viene detto o imposto: e la Ragione non è affatto soltanto nostra natura, anzi! È una disponibilità, non una disposizione: si risveglia soltanto con la libertà. E ancor meno somiglia, la Ragione, a quella sorta di indomabile potenza della storia che lei, professore, e il suo predecessore tedesco chiamavate “la Tecnica”. Per carità, quel suo predecessore sì che era pericoloso: il suo, di Essere, odorava lontano un miglio di Blut und Boden.
Della tecnica invece continuavamo a servirci ogni volta che dovevamo compilare i registri elettronici, e meno male, con tutti gli allievi che aveva. Per non parlare poi del sollievo di evitare i denti strappati dalle gengive deste e sanguinanti... (mi perdoni, la natura femminea si distrae sovente in pensieri banali). Che poi, se anche sostituissimo a questo nome, “la Tecnica” (preferito nei suoi elzeviri), uno degli altri e numerosi nomi divini di quella potenza assoluta che ci destina a questo e quell’altro (il Destino dell’Occidente, il Capitalismo, il Potere, il Denaro), cambierebbe poco. Sospetto che quello che le Sue parole inducevano nell’anima dei suoi ascoltatori e lettori fosse una specie di rilassamento - in tedesco mistico si dice Gelassenheit - o meglio un gesto di virtuale auto-destituzione del soggetto morale in noi, un abbandono della responsabilità. Un gesto ben nascosto dietro l’ombra della macchinazione universale che di tutto ha colpa, e libera da ogni responsabilità nell’uso delle parole noi intellettuali, giornalisti, politici, professori, studenti, pensionati... Tutti noi operai del linguaggio.
Insomma, a pensarci bene, anche questa destituzione in noi dell’agente razionale e morale, sensibile e responsabile, era un atto di libertà - peccato, però, che fosse nella direzione della più perfetta sottomissione. Sarà per questo che i suoi ragazzi amavano tanto anche Spinoza? Libertà come inchino alla necessità? Curioso equivoco, a leggere l’autore del Trattato teologico-politico e il teorico della democrazia! Ma non divaghiamo.
Perché la ragione, appunto, o meglio il suo esercizio, è una libera disposizione, cui si può spavaldamente rifiutarsi o che pavidamente si può lasciar sopire: e fatica comunque a liberarsi come il ragazzo fatica a diventare adulto. Così che molti, nei tempi antichi e in quelli moderni, negli imperi dispotici e nelle comunità tribali, consigli di facoltà compresi, nelle città ierocratiche e in quelle demagogiche, responsabili di sé e di fronte al vero non lo diventano mai, e vivono di fake news e di costumi consortili.
Per questo, caro professore, è un vero peccato zittire Socrate in culla, e farlo rimangiare da Parmenide, come da un Crono divoratore dei propri figli: perché proprio da quella fessura nella ben rotonda compattezza dell’Essere, dalla possibilità del non essere, è nata la fragile bellezza della nostra mente, la sua umiltà di fronte all’inesauribile vero e la sua fierezza di consentire - o no - alla legge. Per quella fessura è passato il doppio palpito della civiltà, il cuore pratico e quello teorico del nostro domandare ragione, cioè, infine, l’etica e la logica, la democrazia e la scienza. Che passando da quella fessura si sono lentamente fatte largo, in mezzo alle tragedie dei millenni.
Perdoni, professore, sento che la sua eterna essenza oppone un cortese ma fermo diniego all’opinione che Socrate per la dolente e felice fessura del parricidio, perché di lì passasse il possibile senso e valore della vita umana, morì proprio. Come morirono molti e molti altri suoi discendenti. Quella volta, finita la lezione, lei, con la sua grande e signorile cortesia, e dopo un baciamano galante che mi spense subito in gola ogni obiezione e mi accese un sorriso di gratitudine, mi accompagnò nel corridoio, fra due ali di giovinetti plaudenti, e c’era anche qualche dame à chapeau che mi lanciò un’occhiata di invidia. Che vuole, il suo fascino ammutolì anche me, e così mi rimangiai questa lunga obiezione che per tutta la lezione avevo rimuginato. E so che non è affatto troppo tardi per rivolgerla ora alla sua essenza eterna, dal di qua al di là del cerchio delle apparenze. Poco importa, su questo sono d’accordo con lei. Continuerà, col suo sorriso (tout just un peu compatissant, comme c’est le cas avec une dame) a lasciarmi disputare con lei, con parole sempre più affannate - come ho fatto tutta la vita.
Trump sospeso dai social, Cacciari: "E’ pazzesco"
di Redazione Adnkronos *
"C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump. E’ inaudito che imprenditori privati possano controllare e decidere loro chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump". E’ l’opinione di Massimo Cacciari, filosofo, professore ed ex sindaco di Venezia, che interviene con l’Adnkronos sulle polemiche che ha suscitato l’eliminazione dei post di Trump da parte di Twitter e la sospensione dell’account da parte di Facebook, Instagram e altri social in seguito all’assalto al Congresso.
"Che sia l’imprenditore a farlo, che è il padrone di queste reti, è una cosa semplicemente pazzesca. E’ uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie. Non c’è dubbio alcuno. Perché come oggi è Trump, domani potrebbe essere chiunque altro, e lo decide Zuckerberg. E’ una cosa semplicemente pazzesca", incalza Cacciari.
Che spiega meglio nel merito: "Dovrebbe esserci una forma di autorità politica che decide. Esattamente così come c’è l’Autorità per concorrenza, per la privacy, che decide ’questi messaggi in rete sono razzisti, sono sessisti, incitano alla violenza’ e cosi via. E tu, Zuckerberg, li devi cancellare. Cioè deve essere l’autorità che dice a Zuckerberg cosa cancellare, invece qui è lui che decide. E’ una cosa dell’altro mondo".
* Fonte: Adnkronos, 08/01/2021 10:31 (ripresa parziale).
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS". LOGICA E REALTÀ .... *
Quando la logica va in vacanza
di Edoardo Camassa **
Il termine “fallacia” può essere inteso in almeno due modi. In senso lato designa una qualsiasi idea, opinione o credenza sbagliata; per esempio che le donne non sappiano guidare o che rompere uno specchio porti sette anni di disgrazie. Come si vede, stando a questa prima accezione del termine, le fallacie si fondano sugli stereotipi, sulla superstizione o comunque su detti e proverbi popolari, e perciò non ambiscono in nessun modo a risultare convincenti. Ma le cose cambiano se ci spostiamo dal linguaggio comune al linguaggio filosofico-scientifico.
In senso stretto, infatti, “fallacia” indica un’argomentazione o un ragionamento che sono logicamente viziati ma psicologicamente persuasivi; ciò può avvenire in modo consapevole e deliberato, quando vengono prodotti con l’intenzione di ingannare, e allora parleremo di sofismi, o inconsapevolmente, quando vengono prodotti senza volontà di inganno, e allora parleremo di paralogismi. In estrema sintesi, nella prospettiva della logica dell’argomentazione la fallacia è un ragionamento che ricorda un qualche tipo d’inferenza, ma che se sottoposto a un esame rigoroso si rivela scorretto[1].
Tra gli innumerevoli esempi possibili di fallacie intese in questa seconda accezione ce n’è uno su cui vale la pena di soffermarsi, se non altro perché compare in quello che è in assoluto il primo trattato sistematico sui ragionamenti viziati - il De sophisticis elenchis di Aristotele - e ha il pregio di essere estremamente chiaro[2]. Si tratta della fallacia d’accidente converso, un tipo di generalizzazione indebita che nasce dal considerare ciò che vale sotto un determinato aspetto (παρὰ τὸ πῄ, traducibile nei termini della logica medievale con secundum quid) come se valesse in assoluto, in sé e per sé (ἁπλῶς, corrispondente al latino simpliciter). In base a questo indebito procedimento generalizzante, dal fatto che un indiano è nero ma ha i denti bianchi si passa a concludere, erroneamente, che questo indiano è al contempo bianco e nero (Soph. el., 167a 7-9)[3]. Nel presente lavoro mi occuperò di fallacie intendendole in questo secondo senso, ossia nell’accezione ristretta; mi occuperò cioè di “fallacie logiche”. Più nel dettaglio, mi concentrerò su una particolare classe di ragionamenti scorretti: quella delle argomentazioni viziate che realizzano il loro potenziale comico.
[...]
Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, occorre però aggiungere subito che qui mi soffermerò sulle fallacie comiche per come appaiono nella letteratura.
[...]
Per provare a esplicitare gli scopi delle fallacie comiche nella letteratura conviene rifarsi ancora una volta a Freud, e nello specifico all’analisi di ciò che egli chiama «storielle con una facciata logica» (o «motti concettuali sofistici»). Secondo Freud, se questo tipo di barzellette mostra una parvenza logica così robusta da rivelarsi come tale solo in seguito a un esame più attento è appunto perché lo scherzo tradisce qualcosa di serio, cela una logica ancor più profonda[4]. Orlando, che dal libro freudiano sul Witz ha tentato di estrapolare una teoria generale del comico letterario, scrive a ragione che i motti con una facciata logica sono «di una logica sofistica, esagerata, che dissimula anziché ostentarla l’erroneità dei propri ragionamenti secondo il livello della coscienza, e con ciò stesso ostenta fingendo di dissimularla la validità dei ragionamenti stessi secondo un’altra logica di fondo»[5].
È proprio questa dialettica di erroneità e validità, di illogicità e logicità che caratterizza le fallacie comiche rinvenibili nelle opere letterarie. Vale perciò la pena di approfondirne l’esame e di articolarne i momenti costitutivi. In prima battuta il lettore (mi riferisco al lettore modello) prende per buono il ragionamento incongruo; in altre parole si lascia persuadere dalla sua coerenza apparente. Il pensiero critico e la valutazione razionale subentrano in lui solo in un secondo momento, così da rendergli la fallacia palese, riconoscibile, e con ciò stesso da muoverlo al riso. Ma non è tutto: il lettore è infine portato a riconsiderare l’argomentazione comica e a intuire che quel che gli pareva erroneo così erroneo non è, dal momento che fa luce su verità paradossali ma profonde a cui la logica ordinaria non può né vuole accedere[6]. Da questa angolatura, assurdo non è più tanto e solo il ragionamento fallace, ma anche e soprattutto qualcos’altro di più generale. Se si vuole, il sistema di pensiero corrente e le sue leggi ritenute inattaccabili.
Un esempio chiarirà meglio cosa intendo: «L’unico modo per liberarsi di una tentazione è quello di cedervi»[7]. Tra tutte le massime che in The Picture of Dorian Gray (1890) Wilde mette in bocca a Lord Henry Wotton, irresistibile campione di freddure, questa è forse la più celebre. Essa di primo acchito sembra sensata, convincente. Tuttavia, a un esame più approfondito, l’aforisma rivela tutta la sua inconsistenza argomentativa. A rigor di logica, oltre a quella suggerita da Lord Wotton, vi sarebbe infatti un’altra e ben più valida soluzione per liberarsi di una tentazione: quella di metterla a tacere, di ignorarla e in definitiva di reprimerla. Come si vede, ci troviamo qui a ridere di una fallacia facilmente individuabile, che è nota come evidenza soppressa (o unilateralità) e che consiste nel dimenticare per strada alcune informazioni in grado di invalidare la tesi proposta. Benché tutto questo sia esatto, va pur detto che la massima sopra citata non si esaurisce nell’errore logico e nel comico puro. Nonostante l’incongruenza, e anzi proprio in virtù di questa, Wilde mira a farci intravedere qualcosa di serio: che tutto sommato non c’è davvero altro modo per liberarsi di una tentazione se non quello di cedervi. Per convincersene, basta leggere come il discorso di Lord Wotton continua: «Resistetele, e la vostra anima si ammalerà di bramosia per le cose che si è proibite da sola, di desiderio per ciò che le sue leggi mostruose (monstrous laws) hanno reso mostruoso e illegittimo (monstrous and unlawful)»[8]. Qui Wilde vagamente anticipa una idea che da lì a poco la psicanalisi cercherà di fondare su basi scientifiche. Per quanto proviamo a domarlo, il desiderio - mostruoso e proibito, sì, ma solo nell’ottica della ragione dispiegata - non si lascerà mai ammansire e combatterà con tutte le proprie forze per emergere. Con buona pace della mentalità borghese-puritana, additata come il “vero” bersaglio comico del ragionamento.
Quanto detto può essere riformulato e arricchito combinando la terminologia di Freud con quella del suo erede cileno Matte Blanco: le fallacie comiche della letteratura sono - un po’ come i sogni, i lapsus e i sintomi psiconevrotici, benché calcolate e coscienti - «formazioni intermedie e di compromesso»[9], frutti di un «sistema logico-antilogico»[10]. Esse ci spingono da un lato a ridere con superiore distacco di assurdità che a tutta prima paiono il risultato di una disattenzione, di un disimpegno mentale, e dall’altro a sentire in modo partecipe che il pensiero consueto in fondo non è altro che uno tra i molti tipi di pensiero possibili e immaginabili. Credo che D’Angeli e Paduano vogliano suggerire qualcosa del genere quando scrivono che nel riso diretto ai danni di chi pronuncia ragionamenti aberranti si maschera il timore che la sua logica altrettanto strutturata e resistente costituisca un grave rischio per la presunta inattaccabilità del sistema di pensiero corrente: le sue leggi, date senza verifica per completamente affidabili, se messe sotto la lente di un simile sguardo straniante, si rivelano discutibili e quindi incerte, e coinvolgono nel dubbio l’intero sistema logico[11].
Ricapitolando, le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni. Da ciò si ricava che nella finzione letteraria i ragionamenti ridicoli si presentano come un salvacondotto grazie a cui formidabili deviazioni dalla logica e dal pensiero razionale riescono a trapelare in modo socialmente fruibile. Lo scopo di questo lavoro è appunto mettere in luce, attraverso un congruo numero di esempi, in quali modi la letteratura può trasgredire la logica consueta e dare risalto alle verità paradossali e profonde che emergono proprio in virtù del sovvertimento della logica.
** Fonte: Le parole e le cose, 3 dicembre 2020 (ripresa parziale - senza note)
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NOTA
LOGICA E REALTÀ: LE FALLACIE “COMICHE” NELLA LETTERATURA DELLA TRAGEDIA.
E le fallacie tragiche nella letteratura della “Commedia” e della “Monarchia” di Dante Alighieri...
SE “le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni [....]”, alla fin fine, confermano il sentimento tragico della vita in cui si collocano. O no?
Se è così, non è meglio capovolgere il senso del cammino e mettere in luce le fallacie “tragiche” nella “Commedia”, e nella “Monarchia”, come da lezione di Dante?! O no?!
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
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Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
Storia e Filosofia
UNA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" ITALICO-ROMANO. L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma: *
A) Mussolini, Discorso dell’anno IX - Roma, 27 ottobre 1930: "Oggi io affermo che il Fascismo in quanto idea, dottrina, realizzazione, è universale; italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito, né potrebbe essere altrimenti. -Lo spirito è universale per la sua stessa natura. Si può quindi prevedere una Europa fascista, unì Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica del Fascismo. Una Europa cioè che risolva, in senso fascista, il problema dello Stato moderno, dello Stato del XX secolo, ben diverso dagli Stati che esistevano prima del 1789 o che si formarono dopo.
Il Fascismo oggi risponde ad esigenze di carattere universale. Esso risolve infatti il triplice problema dei rapporti fra Stato e individuo, fra Stato e gruppi, fra gruppi e gruppi organizzati. Per questo noi sorridiamo quando dei profeti funerei contano i nostri giorni. Di questi profeti non si troverà più non solo la polvere, ma nemmeno il ricordo, e il Fascismo sarà vivo ancora. Del resto ci occorre del tempo, moltissimo tempo, per compiere l’opera nostra. Non parlo di quella materiale, ma di quella morale. Noi dobbiamo scrostare e polverizzare, nel carattere e nella mentalità degli italiani, i sedimenti depostivi da quei terribili secoli di decadenza politica, militare, morale, che vanno dal 1600 al sorgere di Napoleone. È una fatica grandiosa.
Il Risorgimento non è stato che l’inizio, poiché fu opera di troppo esigue minoranze; la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare, giorno per giorno, in questa opera di rifacimento del carattere degli italiani [...]"(Messaggio per l’Anno Nono - Roma, 27 ottobre 1930, in B. Mussolini, Opera Omnia, vol. XXIV, p. 283).
B) Mussolini - Milano, Piazza Duomo, 25 ottobre 1932: "Oggi, con piena tranquillità di coscienza, dico a voi, moltitudine immensa, che questo secolo decimoventesimo darà il secolo del Fascismo. Sarà il secolo della potenza italiana. Sarà il secolo durante il quale l’Italia tornerà per la terza volta ad essere direttrice della civiltà umana. Perché fuori dai nostri principi, e soprattutto in tempi di crisi, non c’è salvezza né per gli individui e tanto meno per i popoli.
Fra dieci anni - lo si può dire. Senza fare i profeti - l’Europa sarà cambiata. Non da ora si sono commesse delle ingiustizie, anche contro di noi, soprattutto contro di noi. E niente di più triste il compito che vi spetta di dover difendere quello che è stato il sacrificio magnifico di sangue di tutto il popolo italiano. [...] Tra un decennio l’Europa sarà fascista o fascistizzata!
L’antitesi Mosca e Nuova York non si supera che in un modo, con la dottrina e con la prassi di Roma [...]" (B. Mussolini, Opera Omnia, XXV, pp. 147-148).
* Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
STORIA E STORIOGRAFIA DEL FASCISMO, "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (A. GRAMSCI, 1924). IL MITO DELLA ROMANITÀ, LA MONARCHIA, E IL FASCISMO : MARGHERITA SARFATTI E RENZO DE FELICE.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
RIVOLUZIONE COPERNICANA, IN ASTRONOMIA E IN FILOSOFIA, E "IL PENSIERO DEBOLE" E TRISTE, ANCORA ALLA RICERCA DI SE STESSO. Lasciamoci guidare da un’etica "minima"....
RICORDANDO LA LEZIONE DI ENZO PACI E RIPERCORRENDO CON LA MENTE LA SUA "PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE ITALIANA" ("Milano, 16 settembre 1968") ALL’OPERA DI EDMUND HUSSERL, "LA CRISI DELLE SCIENZE EUROPEE E LA FENOMENOLOGIA TRASCENDENTALE", come in parte sollecita a fare Pier Aldo Rovatti (cfr. A. Gnoli, "Lasciamoci guidare da un’etica minima", "Straparlando", Robinson/la Repubblica, 24.10.2020, pp. 42-43), forse, per meglio comprendere il percorso fatto (dal "mitico" ’68) da molta parte della "filosofia" (italiana ed europea) è utile - oltre che storiograficamente significativo, esemplare - riprendere un "passaggio" della sua intervista:
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
AL DI LA’ DEL ’FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO’, UN ESERCIZIO DI PARRHESIA EVANGELICA : PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
"Kant, Freud, e la banalità del male. Note per una rilettura (2010)"
Federico La Sala
Straparlando
Gianni Vattimo
Ho rottamato il pensiero forte
di Antonio Gnoli (“Robinson - la Repubblica”, 28.12.2019) *
Ora che da un po’ ha superato gli ottant’ anni dice che non se li aspettava così. Dice che essendo stato un giovane brillante - per alcuni perfino un enfant prodige - che ha smosso le acque provinciali in cui di solito navighiamo, forse è un modo di pagare un conticino. A chi? Boh. Non lo sa. Dio e gli uomini hanno un modo strano di esercitare la giustizia: tu fai una cosa bella e ricevi un premio. Ne fai una brutta e paghi pegno.
Questo almeno in teoria. Ma quando sei vecchio, quando, diversamente da altri vecchi, senti il peso della materia che si disgrega, allora ti chiedi perché proprio a me? «Sai, ho fatto un sogno l’ altra notte», dice Gianni Vattimo. «Ho sognato che stavo giocando con la mia vecchiaia e che mi sentivo leggero. E bello come un tempo. Poi quando mi sono svegliato ho pensato: ma ero io quello? Ero proprio io? E se ero io che cazzo mi significava quel sogno?».
Partiamo se vuoi da questo interrogativo chi sei oggi?
«Non lo so, vorrei saperlo. Ci sono vari strati di me. Vari dolori. Alcuni lontani, altri recenti. I dolori raccontano la tua storia, la circoscrivono, a volte. Oppure l’ amplificano. E poi, ci sono i dolori della memoria e quelli del corpo».
Quali prevalgono in questo momento?
«Mi vedi, no? Faccio fatica a camminare. Quattro o cinque anni fa mi hanno diagnosticato un Parkinson. Allora che faccio? Provo a convivere con il signor Parkinson. Gli dico, beh vediamo di non farci troppo male. Io non dò fastidio a te e tu non ne dai a me. Poi scopro che quel signore lì è molto esigente. Paziente ma insidioso. Ti giuro che se fosse stato per me non l’ avrei mai invitato. Si è presentato senza neanche farsi annunciare, senza un biglietto da visita, senza un mazzo di fiori. Capisci?»
Capisco. Però siamo qui, nella tua casa, mentre parliamo e mangiamo quello che è stato apparecchiato a tavola. E non mi sembri così malandato.
«Non lo sono, è vero. Ti piace il risotto?».
Mi piace il risotto. Ma mi piacciono anche altre cose di te.
«Cosa ti piace? Scusa la curiosità».
Beh alcune cose che hai scritto sono state importanti per questo paese. Hai sdoganato Heidegger, ti sei inventato il "pensiero debole", e non hai mai tromboneggiato da accademico.
«Sai è stata la scuola di Luigi Pareyson da cui provengo a formarmi. Rigorosa ma anche molto appartata. Lo scelsi perché era il professore più giovane della facoltà. Esistenzialista e cattolico.
Amico di Karl Jaspers. Io, allora, ero sedotto da Adorno. Dai tedeschi che erano usciti dalla guerra.
Ma se lei vuole studiarli veramente si dedichi a Nietzsche, mi disse Pareyson. Era un personaggio complicato. Bisogna farsi le ossa con i maestri e poi lasciarli andare. Se non lo fai finisci nella gabbia».
Eri molto brillante?
«Credo di sì. Provengo da una famiglia dignitosa ma povera. Padre carabiniere. Madre sartina. Ho frequentato l’ Azione Cattolica. Posso dire che all’ università ero decisamente brillante».
Il tuo cattolicesimo ha conosciuto alti e bassi. Ora dove si colloca?
«Non lo so, onestamente non saprei collocarlo. Adoro questo papa che mi pare sia rimasto il solo anticapitalista in circolazione. Qualche tempo fa gli ho fatto avere il mio ultimo libro Essere e dintorni nella speranza che lo leggesse. Ci sono, infatti, diverse considerazioni sul cristianesimo».
E Francesco l’ ha letto?
«Letto non lo so, certo lo ha sfogliato. Tramite un amico comune, un argentino, Luis Liberman, gli è arrivato il libro. Mi ha telefonato per ringraziarmi del dono. E io gli ho spiegato che era un libro su Heidegger».
La tua ossessione.
«Bisogna pur vivere di qualche passione intellettuale. E poi come lui ha detto: soltanto un Dio ci può salvare».
Ma questo Dio dove lo andiamo a cercare?
«Certo non nelle costruzioni metafisiche e neppure in quelle mitologiche. Dio non può essere ispirato da ragioni teoretiche».
Tu hai scritto che "Essere e Tempo" - l’ opera più importante del primo Heidegger - rispondeva a una domanda storica e non a una esigenza astratta e universale. A questo pensi?
«L’ essere di cui parla Heidegger non è quello di cui discute la metafisica. È l’ evento. Dire evento significa che qualcosa accade. Dove? Nel linguaggio, nella storia, nel mondo. Dell’ evento non puoi dare una spiegazione scientifica, oggettiva. La nascita di Gesù non è dimostrabile. Eppure è un evento che accade nella storia ed è all’ origine della cristianità. Io mi sento tanto cristiano quanto heideggeriano. E tutto questo non ha niente a che vedere con la verità oggettiva. Per cui l’ unica ragione che mi consente di chiamarmi cristiano è perché non credo nell’ oggettività delle cose, non credo, come non crede Heidegger, nella metafisica».
Secondo te papa Francesco ha chiaro in testa questo tuo ragionamento?
«Non lo so e non lo pretendo. Però so che lui ha rimesso la Chiesa al centro di una discussione profonda. Mica facile, perché un corpaccione bimillenario non lo sposti facilmente. Le resistenze che il suo magistero incontra sono pazzesche».
È in corso un forte scontro religioso in seno allo stesso cristianesimo.
«C’ è una posta in gioco altissima. Né la scienza né la filosofia tout court sono in grado di vincere il piatto. Penso che Heidegger fosse consapevole di questo quando nella meditazione degli ultimi anni in maniera drammatica non vedeva soluzione umana al problema della desertificazione del mondo».
E affidava la salvezza a un Dio?
«Proprio così, nella direzione indicata da Lutero, e prima ancora da Paolo, per cui non sono le nostre opere che ci salveranno ma la grazia di Dio».
In questo modo viene meno la responsabilità dell’ atto umano. Puoi essere nazista o decidere di bruciare l’ Amazzonia tanto non dipende dalle tue opere la salvezza.
«Ma è proprio perché ti salvi che le tue opere avranno un senso tutt’ altro che nichilista. Siamo irresponsabili nella misura in cui saremo costretti a restare inautentici. E inautentico è il nostro mondo dominato dalla metafisica, dall’ oggettivazione, dal calcolo, dall’ utilitarismo, dalla tecnologia che tutto divora. Ci sarà un nuovo inizio? È ciò che Heidegger spera, ma non dipenderà dalla decisione dell’ uomo. Del resto, cose in parte analoghe le pensava Wittgenstein, almeno il Wittgenstein che si ribella a Russell e al pensiero anglosassone».
Ci sono due Heidegger come pure due Wittgenstein.
«Mi sono occupato della "svolta" di entrambi. Però Ludwig era certamente più tormentato. La frequentazione dei suoi amici analitici non lo aiutava. Era credente, frocio e pieno di sensi di colpa. Quando cede tutti i suoi beni alle sorelle lo fa anche perché ribolle di turbe mentali».
Tu hai mai avuto sensi di colpa?
«Ma sì, ogni volta che ti scompare una persona che ti è cara ti chiedi cosa hai fatto per essa. E perché gli sopravvivi».
Pensi a qualcuno in particolare?
«Penso ai miei due compagni di vita. Giampiero morto tragicamente di Aids e Sergio per un cancro ai polmoni. Sono stati rapporti bellissimi, importanti. Sergio morì in volo, tornavamo dagli Stati Uniti, aveva espresso il desiderio di vedere il museo di San Francisco. Spirò tra New York e Francoforte. È buffo andarsene mentre sei su un aereo e ho pensato che il cielo in quel caso era la via più breve per il paradiso. Mi chiedevi dei sensi di colpa».
Sì.
«Ho paura di essere diventato un po’ cinico. Se mi raccontano una sciagura il primo impulso è di pensare sì vabbè ma allora io, io che ne ho viste e passate di molto peggio che dovrei dire?».
Ti infastidisce la gente che si lamenta?
«Ma no, la sto ad ascoltare. Però loro che ne sanno della mia stanchezza, della mia vecchiaia che mi ha sorpreso come un ladro nella notte».
Ti viene mai il dubbio che come filosofo avresti potuto dare di più?
«Credo di aver smantellato, decostruito, rottamato buona parte del pensiero forte. Sulla scorta di Nietzsche e di Heidegger mi sono preso la briga di porre un freno alla filosofia come etica del dominio».
Eppure proprio Nietzsche con il superuomo e Heidegger con l’ adesione al nazismo hanno facilitato quel dominio.
«Ma il superuomo di Nietzsche non è volontà di potenza è l’ oltreuomo che libera se stesso e l’ Heidegger nazista si riduce a qualche frase di adesione allo spirito del tempo».
Non sei un po’ riduttivo?
«La giro in un altro modo: se li vuoi trattare come due fanatici sanguinari allora brucia pure le loro opere. Ma è questo che vogliamo? Ho trascorso dei lunghi periodi in Germania, lavorato con Gadamer, penso che la filosofia sia un’ esperienza ermeneutica. Non c’ è verità che non sia interpretazione».
Cosa vuoi dire?
«Che la verità è legata al linguaggio. E che non ci sono fatti ma solo interpretazioni».
Prima accennavi a Pareyson e alla sua scuola.
«Fui fortunato. Venimmo da lì io e Umberto Eco e poco dopo si aggiunsero Mario Perniola e Sergio Givone».
Però ognuno per la sua strada.
«Avevamo la libertà di scegliere. Con Umberto siamo restati amici. Facemmo insieme il concorso in Rai. Ci siamo frequentati fino all’ ultimo. Non so però se l’ ho davvero conosciuto. Per certi versi era imperscrutabile. Io non gli avevo mai rivelato le mie tendenze sessuali. Però una volta ebbi l’ impressione che mi prendesse in giro. Siccome ero con un amico mi disse, forse scherzando, ma allora ti sei deciso. Fu l’ unica volta che sfiorò l’ argomento. Dietro la sua grande estroversione c’ era molto riserbo».
Dovuto a cosa?
«Aveva orrore di dover parlare di sé. Credo che tutta la sua verve barzellettistica discendesse da questa cesura: il comico che uccide o rimuove una parte della vita. Del resto si può leggere perfino Il nome della rosa in questa chiave».
Hai mai avuto la tentazione del romanzo.
«Mi piace leggerli non scriverli».
Meglio la filosofia?
«Chi può dirlo? Se lo chiedi a uno scrittore ti ride dietro».
E tu?
«Non ho messo la mia vita nelle mani della filosofia. Semmai ho messo un po’ di filosofia nella mia vita. Sono obliquo come il volo degli uccelli».
Dove ti vorresti posare con il pensiero?
«Mi piacerebbe scrivere su cristianesimo e heideggerismo. Ho pensato di cominciare con una frase: se non fossi heideggeriano non sarei cristiano, e se non fossi stato cristiano non sarei stato heideggeriano. Ma ogni tanto mi vengono dei dubbi sull’ utilità di un discorso del genere».
Perché?
«A parte il peso o la fatica dell’ argomentazione, a chi interesserebbe? A volte mi metto davanti al computer e sto lì fisso, come un babbeo. La mia vita è fatta ormai di pause. Un sogno ce l’ ho».
Quale?
«Che la mia opera, per quel tanto o poco che vale, non vada dispersa».
Se il miglior interprete dei diritti non è la Corte ma il papa
Diritti. La pronuncia dei giudici costituzionali è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro legislatore
di Massimo Villone (il manifesto, 23.10.2020)
È davvero uno scherzo della storia leggere nello stesso giorno di Papa Francesco e della Corte costituzionale. Il Papa apre alle coppie gay, e chiede una legge sulle unioni civili. Non sembra dubbio che, senza toccare il sacramento del matrimonio, dalle sue parole derivi un riconoscimento con pienezza di diritti, inclusa la filiazione. Mentre la Corte quei diritti li amputa.
Il fatto. A una coppia di donne, unita civilmente, nasce in Italia un figlio a seguito di fecondazione eterologa all’estero. La registrazione allo stato civile viene rifiutata. Nel giudizio conseguente viene sollevata dal Tribunale di Venezia una questione di legittimità costituzionale della legge sulle unioni civili e del decreto sugli atti dello stato civile. Il diritto.
La Corte si orienta per l’inammissibilità delle questioni sollevate. Il riconoscimento dello status di genitore alla cd madre intenzionale “non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale”. E dunque il diritto non esiste.
Le secche parole del comunicato chiudono la strada anche a interpretazioni secundum Constitutionem.
Al momento abbiamo solo il comunicato, e vedremo poi in dettaglio le motivazioni. Intanto possiamo dire che la Corte sembra aver sviluppato una allergia per i temi eticamente sensibili, con eccezioni per la fecondazione assistita. Cappato insegna, e certo la Corte sa bene che il rinvio al legislatore può tradursi nell’inerzia del medesimo.
Dobbiamo poi cogliere che oggi la Corte va oltre.
Al rinvio al legislatore si aggiunge la contestuale negazione di un diritto costituzionalmente protetto. Sul tema la Corte ha già balbettato in passato. Nella sentenza 138/2010 lesse nel matrimonio di cui all’articolo 29 della Costituzione la disciplina del codice civile del 1942, che ovviamente conosceva soltanto la coppia formata da due persone di sesso diverso. Ben si poteva invece dare una lettura evolutiva, che tenesse conto del nuovo.
Un recupero parziale è venuto poi dalla sent. 170/2014, sul cosiddetto divorzio automatico o imposto nel caso di cambio di sesso di uno dei coniugi. La Corte ha rinviato al legislatore, dichiarando però la incostituzionalità e affermando il diritto a una piena tutela giuridica della coppia del medesimo sesso.
Quella pronuncia ha avuto poi riscontro nella tormentata legge sulle unioni civili. Ma la Corte tiene oggi a precisare che la coppia omosessuale, pur riconosciuta dalla legge nella forma dell’unione civile, non ha gli stessi diritti della coppia eterosessuale unita in matrimonio. La Costituzione non garantisce che li abbia.
Si faccia una ipotesi di scuola. Una legge che limitasse forzosamente il numero dei figli consentiti nel matrimonio sarebbe incostituzionale. Mentre una legge che ponesse lo stesso limite a una coppia omosessuale unita civilmente potrebbe non esserlo.
Che ne è del nucleo incomprimibile dei diritti, di cui tanto abbiamo letto nella giurisprudenza costituzionale? E della razionalità, intesa come tutela contro distinzioni discriminatorie? Il presidio costituzionale diventa evanescente. Forse la stessa legge sulle unioni civili sarebbe in principio reversibile, se “l’interprete del sentire della comunità nazionale”, e cioè il legislatore maggioritario, maturasse un umore avverso.
L’odierna pronuncia della Corte, magari al di là delle intenzioni, è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro il legislatore. E che dunque l’area della political question sottratta al suo scrutinio deve essere il più possibile ristretta.
“Il sentire della collettività” è sempre il pericolo più grande per i diritti e per le libertà, che sono appunto un argine contro quel sentire tradotto in potere politico e legislativo. Bisogna essere estremamente cauti nell’affermare che questa o quella fattispecie sfugge alla protezione costituzionale.
Non è un paese felice quello in cui ci si sente garantiti da un capo religioso piuttosto che dal massimo organo di giustizia costituzionale.
Ma potremmo suggerire che Papa Francesco tenga per i giudici della Corte un seminario di formazione, dal momento che più e meglio di loro si mostra consapevole del senso vero della Costituzione.
#COSTITUZIONE ED #EVANGELO: #DUESOLI. #PapaFrancesco apre la strada a #Dante2021: pagare il tributo a #Cesare «è un #dovere»; ma la #CorteCostituzionale con poco #spirito di #Salomone (di fronte a #due cittadine, unite civilmente, con bambino) fa "per viltade il #granrifiuto".
TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA: GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA! O NO?!
Il punto.
Coppie omosessuali, sì alla tutela civile ma niente confusione col matrimonio
Tante reazioni alle parole del Papa nel docufilm “Francesco”. Parla Fernández arcivescovo argentino: Sin da quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio ha distinto i due piani
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 23 ottobre 2020)
«Ciò che dobbiamo fare è una legge sulla convivenza civile, hanno diritto a una forma di tutela legale. L’ho già sostenuto». Al di là delle forzature mediatiche, l’opinione di Jorge Mario Bergoglio sulle coppie omosessuali non è cambiata negli ultimi dieci anni.
La frase riportata nel documentario di Evgeny Afineevsky ricalca quanto già espresso nel 2010 quando, come arcivescovo di Buenos Aires, si trovò ad affrontare l’infuocato dibattito sulle nozze gay, legge fortemente voluta dal governo dell’allora presidenta Cristina Fernández de Kirchner. A ricordarlo non sono solo accreditate fonti giornalistiche di quell’epoca, tra cui il biografo ufficiale Sergio Rubín.
Ieri, in un messaggio su Facebook, monsignor Victor Manuel Fernández, arcivescovo di La Plata, teologo e profondo conoscitore del pensiero bergogliano, ricostruisce la vicenda, sottolineando come per papa Francesco, prima e dopo l’elezione al soglio pontificio, si devono distinguere due piani.
Da una parte c’è il «matrimonio», termine con un significato preciso, applicabile solo a un’unione stabile tra una donna e un uomo, aperta alla vita. «Questa unione è unica, perché implica la differenza tra l’uomo e la donna, uniti da un rapporto di reciprocità e arricchiti da questa differenza, naturalmente capace di generare vita», spiega monsignor Fernández. Qualunque altra unione simile richiede, dunque, una denominazione differente.
Unioni o convivenza civile, appunto. «Jorge Mario Bergoglio ha sempre riconosciuto, pur senza necessità di definirli matrimonio, l’esistenza di legami molto stretti fra persone dello stesso sesso, che vanno al di là del mero piano sessuale, ma sono alleanze intense e stabili. Le persone si conoscono a fondo, condividono lo stesso tetto per molto tempo, si prendono cura e si sacrificano l’uno per l’altro», afferma l’arcivescovo di La Plata. In caso di malattia grave o morte, uno dei due può desiderare i suoi beni all’altro o che sia quest’ultimo ad essere consultato invece di un familiare. «Tutto ciò può essere contemplato da una legge» sulle «unioni civili o normativa di convivenza civile, non matrimonio».
A tal proposito, monsignor Fernández conferma quanto già riportato dai media dieci anni fa. Ovvero che, durante il dibattito sul cosiddetto matrimonio igualitario in Argentina, il cardinal Bergoglio sostenne tale posizione durante un incontro ad hoc con l’episcopato: la maggioranza, però, si oppose. La questione era già emersa subito il conclave del 2013. Da allora, il successore di Pietro ha sempre mostrato sensibilità e attenzione pastorale nei confronti delle persone omosessuali. Certo, nel docu-film di Afineevsky, Francesco torna espressamente sulla questione delle unioni civili e ripropone, da Papa, quanto già affermato dieci anni fa. Nemmeno questo, però, è un inedito assoluto.
Nel libro che raccoglie le conversazioni con il sociologo Dominique Wolton, pubblicato in Francia nel 2017 e in Italia l’anno successivo, c’è già un accenno al riguardo. «Matrimonio è un termine che ha una storia. Da sempre, nella storia dell’umanità e non solo della Chiesa, viene celebrato tra un uomo e una donna», afferma Francesco in Dio è un poeta, edito nel nostro Paese da Rizzoli. E aggiunge: «È una cosa che non si può cambiare. È la natura delle cose, è così. Chiamiamole unioni civili. Non scherziamo con la verità» .
Il documentario Francesco, insignito ieri, nei giardini vaticani, del premio Kinéo, non contiene, dunque, verità sconvolgenti.
Del resto non era questo l’obiettivo dell’autore, ebreo non praticante di origini russe. Attraverso la raccolta di testimonianze e immagini, il regista cerca di narrare le ferite del mondo: le guerre, l’esodo infinito a cui sono costrette migliaia di persone, i muri vecchi e nuovi, fisici e mentali che separano gli uni dagli altri. Il racconto segue il Papa nei suoi viaggi, da Lampedusa a Manila, da Ciudad Juárez a Santiago.
Il racconto su Francesco, spiega Afineevsky, però, piano piano, si è trasformato in un film «sull’umanità che commette errori, fatta di peccatori...». La chiave è contenuta in una frase di Oscar Wilde cara al Papa e riportata nel filmato: «Ogni santo ha un passato e ogni peccatore ha un futuro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA !!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
Se la grande storia che racconta la Tv è sempre quella delle élite
Siamo a un ritorno indietro di un secolo, in coerenza con l’involuzione generale di questa fase della storia del mondo. Un modo di fare storia definito «évenémentielle»
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 20.10.2020)
La Grande storia è un fortunato programma televisivo che dal 1997 porta nelle case degli italiani frammenti visivi e anche puntuali commenti di alcune delle pagine più drammatiche del ‘900. Grazie a documentari, foto d’epoca, testimonianze originali e spesso di prima mano, momenti salienti del nostro passato si fanno spettacolo per la fruizione del grande pubblico.
Le trincee della prima guerra mondiale, ma soprattutto la marcia su Roma, Mussolini, il re Vittorio Emanuele III, i gerarchi fascisti, l’ascesa del nazismo, Hitler, le sue donne, i suoi compagni e i suoi generali, la guerra e le varie campagne militari, i bombardamenti delle città, la Shoa e i campi di sterminio, lo sbarco degli americani in Europa, la sconfitta del nazifascismo, il dopoguerra, la ricostruzione,ecc. Grazie alla drammatica spettacolarità delle immagini, la storia si fa vicenda epica che affascina ed emoziona, mentre certamente contribuisce a gettare qualche luce sul nostro recente passato e a tenerne desta la memoria.
E tuttavia, questo modo di rappresentare la storia, diventato con gli anni sempre più insistito ed esclusivo, reca con sé un pesante carico di ideologia. A partire dal titolo della trasmissione: Grande storia. Perché a guidarla sono i grandi uomini, dittatori, generali, capi di stato, gerarchi, uomini politici di vario rango? È vero che c’è posto anche per le grandi masse, ma sempre come soggetto passivo, vittime, oggetto di comando o persecuzione. Non ci sono dubbi che la guerra sia un grande evento storico, ma i popoli, i cittadini, gli uomini comuni, sono solo la massa dannata che subisce i comandi di un pugno di capi.
Sul piano storiografico siamo di fronte a un ritorno indietro di poco meno di un secolo, in coerenza con l’involuzione generale di questa fase della storia del mondo e del grave scadimento culturale che segna in particolare la vicenda italiana degli ultimi decenni. Ricordo che questo modo di fare storia venne definita évenémentielle, cioé un racconto di eventi, dagli storici delle Annales, fondata nel 1929 da due storici eminenti: Marc Bloch e Lucien Febvre. Quella definizione svalutativa, riferita al fatto che sino ad allora gli storici avevano generalmente raccontato solo vicende politiche, eventi diplomatici e militari, cronache di re e capi di stato, venne accompagnata e seguita da una massa spettacolare di studi e ricerche, dei due fondatori e di altri storici, destinata a rivoluzionare per sempre la disciplina.
Entravano allora sulla scena, per la prima volta, titolari di storia a tutti gli effetti e non più masse anonime manovrate dall’alto, i contadini con le loro condizioni di vita, lavoro, mentalità. Tutta la multiforme stoffa della vita umana, l’alimentazione, la vita sessuale, le pratiche di lavoro, i modi dell’abitare, divennero ben presto materia di storia. Sicché tutti coloro che non avevano nome né cognome, sterminate masse prima senza storia, ne divennero i protagonisti. Si è trattato di una gigantesca democratizzazione della storia, sino ad allora narrazione privilegiata delle élites.
Bloch e Febvre anticipavano il grande processo di emancipazione politica e culturale che sarebbe seguita alla guerra mondiale. Ma un altro fondamentale apporto venne da quella svolta, uno dei contributi più alti del sapere storico alla cultura del ‘900: l’ingresso dello spazio nella vicenda storica e una nuova dimensione del tempo.
Fernand Braudel ha dato forse il più alto saggio, con la sua Méditerranée, della possibilità che la geografia, i monti, i fiumi, le pianure diventino soggetti di storia in cooperazione con le popolazioni. Mentre ha mostrato che il tempo storico non è solo quello degli eventi, ma soprattutto quello della lunga durata, dei vasti processi sotterranei e strutturali in cui le società sono immerse e in cui le masse sono protagoniste.
Allora diciamo che il ritorno insistito della storia politica ed événementielle in Tv non giova alla cultura nazionale. Insinua la vecchia idea che la storia la fanno i capi e indirettamente rivaluta vecchie ideologie autoritarie. Ma soprattutto perpetua una millenaria rimozione, la cancellazione che da sempre la storia ha operato della natura.
In questa narrazione di eventi e grandi uomini i protagonisti vivono come angeli o demoni, staccati dal suolo. Ma proprio noi italiani non possiamo dar credito a una ricostruzione del passato che cancella le vicende del nostro territorio e il lavoro del nostro popolo. Siamo diventati un grande paese moderno, grazie a una gigantesca opera di risanamento e rimodellamento del nostro habitat.
Ancora nel 1865 una inchiesta governativa accertava la presenza di oltre 1 milone di ettari di acquitrini nella Penisola, dove imperversava la malaria. Tecnici e contadini, ingegneri e grandi masse, sono stati i protagonisti di questa epopea, così come della diffusione della nostra agricoltura, dell’edificazione delle nostre città, di canali e ferrovie, della ricostruzione degli abitati dopo i tanti terremoti, di tutte le opere di pace che costituiscono la stoffa di quella che è la nostra Grande storia.
PLATONE, KANT, E I SOGNI DI UN VISIONARIO....
Il Bene e il conveniente sono ciò che lega e tiene insieme l’universo. Platone (Tweet Filosofici)
Ma perché questa #idea, questa #novella (il "#Bene...tiene insieme l’#universo") possa essere e intendersi come una novella-buona, è necessario #verificare se non è una #FakeNews: se no, la #buona-novella (εὐ-αγγέλιον) può #velare il contrario, che #Tutto "Va-(i)n-gelo"! O no?! (Federico La Sala)
fls
Matematica e virtù civili: una recensione di “La matematica è politica” di Chiara Valerio
di Marco Verani (MaddMaths! Matematica Divulgazione, Didattica - 12 Settembre 2020)
“La matematica è politica” di Chiara Valerio ci parla di virtù civili, così importanti e così dimenticate, e del ruolo che la Matematica ha nel forgiarle.
Diverse sono le virtù civili che affiorano, come fari, tra le pagine di Chiara Valerio.
Amore per la verità. Verità che deve essere conosciuta, ricercata, detta anche quando e’ scomoda. Mai imposta, mai subita.
Perseveranza. La matematica è palestra per allenare la perseveranza, per coltivare l’attenzione.
Bello ricordare e affiancare a questo punto le parole indimenticabili sull’attenzione di Simone Weil e Cristina Campo.
Umiltà. Fare matematica è ripartire dai propri errori, spesso riconoscere la propria incapacità, confrontarsi con il limite, il non-possibile. Smantellare l’idea del tutto è possibile sempre, subito.
Cura del bene comune. Tra i beni comuni più preziosi che abbiamo vi è la democrazia. Fare matematica è difesa ed esercizio di democrazia.
Chiara Valerio usa una bella espressione: ci dice che la matematica è una “disciplina di manutenzione”, manutenzione della democrazia, del con-vivere nel rispetto e nella solidarietà. Bellissima parola “manutenzione” che richiama il gesto paziente, lento e accudente delle mani. Sì, e’ vero: la matematica è politica.
*
Istruzione
I 150 anni della Montessori ci ricordano che è ora di un dibattito serio sulla scuola
Il tema della qualità della scuola e dei suoi contenuti registra un agghiacciante silenzio, e l’emergenza coronavirus non c’entra
di Lucio d’Alessandro *
Ricorrono il 31 agosto i 150 anni dalla nascita di una delle donne italiane di maggior fama internazionale. Scuole ispirate al metodo di Maria Montessori (1870-1952) sono, ancora oggi, presenti in molti Paesi del mondo, così come molti furono gli Stati che, dopo la sua rottura con il fascismo con il quale inizialmente aveva collaborato, l’accolsero trionfalmente, dagli Usa all’India ai Paesi Bassi, fino al Ghana che, appena dopo l’approvazione della sua Costituzione (1951) e in vista della definitiva indipendenza, le chiese di organizzare la Scuola della nascente Repubblica: ormai ultraottantenne ma indomita, la Montessori accettò. La morte la colse poco dopo a Noordwijk, in Olanda, dove visse gli ultimi anni.
L’anniversario coincide con l’anno nel quale il tema della scuola domina il dibattito pubblico come mai prima nell’intera storia repubblicana, fino al punto che un Governo rivelatosi finora immarcescibile sembra sospeso alle sorti della riapertura, in condizioni di migliore o peggiore agibilità, dell’anno scolastico ormai alle porte. Tuttavia, nessuno si inganni: si tratta di una mera coincidenza. Non solo perché, notoriamente, la pedagogia montessoriana si basava sulla libertà di “movimento” anche in aula degli studenti, mentre sotto le attuali lune pandemiche i vari comitati consigliano piuttosto di tenerli legati ai banchi, sia pure, in qualche caso, con comodo di rotelle.
Invero, l’ispirazione post-risorgimentale e sociale della Montessori, come quella di De Amicis o quella risorgimentale e femminile di Adelaide Pignatelli, fondatrice dell’Università Suor Orsola in Napoli e, ancora, l’azione ministeriale di Francesco De Sanctis, Benedetto Croce e Giovanni Gentile erano ben consapevoli che solo una bildung che mettesse assieme educazione e istruzione, privilegiando in definitiva i valori della cultura, avrebbe potuto dare all’Italia quei cittadini e quella classe dirigente di cui quella fase di costituzione del Paese mostrava la necessità.
Credo che si possa dire, in parziale consonanza con le tesi di un libro (urticante e bello) di Galli della Loggia dal titolo rivelatosi, a distanza di un anno, singolarmente profetico (“L’aula vuota”), che la triade scuola-istruzione-cultura abbia giocato un ruolo strategico nella storia d’Italia dall’unificazione fino ad oltre la metà del ’900, consentendo a uno “Stato misero” di divenire una delle prime dieci economie del mondo. Ritengo sia anche vero che l’azione dei docenti italiani, in quella temperie culturale, sia stata decisiva e che una triade di ministri meridionali (De Sanctis, Croce e Gentile) di grande cultura ed ispirazione idealistica o neo-idealistica abbia dato all’Italia una scuola capace di consentire un’istruzione generalizzata dei suoi cittadini e una classe dirigente all’altezza di un grande Paese europeo.
Solo l’avidità mussoliniana di ascrivere a sé tutto ciò che vi era di buono in Italia, e poi la miopia della sinistra marxista di considerare negativamente tutto ciò che sapesse di merito e selezione, hanno fatto sì che la riforma Gentile che felicemente concluse quel processo culturale ed istituzionale passasse per la “più fascista delle riforme”. Come se proprio i fautori del fronte marxista della pedagogia italiana, concentrati nella redazione della bellissima rivista “La Riforma della scuola”, non fossero anch’essi figli di quella cultura classica voluta da Gentile, a cominciare dallo stesso direttore e fondatore Lucio Lombardo Radice, figlio di quel Giuseppe che era stato il maggiore collaboratore di Gentile negli anni ministeriali. La verità è che quella, pur con i suoi difetti era davvero una “buona scuola” e, perciò, anche una forma di educazione alla libertà ed alla elaborazione dello spirito critico.
Di quella scuola neo-idealista, così criticata nei contenuti e nei metodi, non vi è quasi più traccia nella scuola italiana di oggi e, specie in questi momenti, non è un buon segno, se è vero che essa fu capace di far progredire il Paese. Neppure un buon segno è il fatto che lo spazio del pensiero sulla scuola sia circoscritto alla riflessione didattico-pedagogica degli addetti ai lavori, senza uno sforzo di inclusione nel più generale dibattito sul Paese e sul concetto di cittadinanza.
Il campo lasciato vuoto dagli intellettuali è occupato piuttosto da un pensiero sindacale che, per sua stessa natura, si colloca in una sfera meramente quantitativa.
Il tema della qualità della scuola e dei suoi contenuti registra dunque un agghiacciante silenzio, e sembra che neppure le famiglie, a cominciare da quelle che potrebbero permettersi significativi investimenti, se ne mostrino consapevoli. Il rarefarsi, in molte città quasi lo scomparire, delle scuole non statali di qualità ne è un segno evidente. A ciò si è aggiunto il più recente fenomeno per cui ai diplomifici a pagamento, già presenti nell’arco formativo scolastico, si sono aggiunte realtà non dissimili perfino nel campo universitario. -Non meraviglia dunque se l’attuale dibattito risulta tutto concentrato sulla scuola come spazio nel quale tenere, o detenere, il tempo dei giovani per consentire alle famiglie e al Paese di riprendere, in condizione di relativa sicurezza, le proprie attività.
Di questa miseria culturale ormai antica non si può certo dare colpa all’attuale ministra, né invero appare generosa la critica verso di lei di una ex ministra, peraltro appartenente all’attuale maggioranza, che non ha lasciato in Viale Trastevere particolare memoria di sé, se si prescinde dal colore fiammeggiante delle sue chiome.
La situazione sul terreno è davvero difficile e credo sia giusto considerare con qualche generosità gli sforzi, certo un po’ errabondi, di un ministero che si trova, nella sostanziale incertezza dell’andamento della pandemia, ad affrontare il problema forse più difficile che la scuola italiana si sia trovato di fronte. In ogni caso il possibile viene fatto e molto, moltissimo, dovranno fare, come sempre i docenti e i dirigenti, nelle trincee delle singole scuole.
A quando dunque una seria ripresa del dibattito sul senso della scuola in Italia? Qualche settimana fa uno degli italiani attualmente più conosciuti e stimati sul piano internazionale, Mario Draghi, ha sottolineato l’importanza della scuola e dell’istruzione per gestire il futuro, invocando un forte investimento a favore dei giovani. È appena il caso di dire che tutti gli hanno dato ragione: cattivo segno, per il momento non se ne farà niente.Ma tra poco più di un anno occorrerà scegliere un nuovo Presidente della Repubblica, e nelle piazze e nelle case d’Italia, molto più che nelle cosiddette segrete stanze, il nome di Mario Draghi circola fortemente... -Nel frattempo, il 14 settembre una nuova leva di studentesse e studenti entrerà nella scuola italiana, mentre appena qualche giorno dopo nelle aule universitarie verrà selezionata una nuova leva di maestre e maestri. Credo si debba dir loro che affronteranno probabilmente un anno difficile ma anche che il percorso degli studi è una delle fasi più belle e costruttive della vita che conserveranno nel tempo come straordinario ricordo e formidabile patrimonio di vita: forza ragazze, forza ragazzi!
* Rettore Università Suor Orsola Benincasa di Napoli
* Fonte: Il Sole-24 Ore, 31 agosto 2020 (ripresa parziale).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA SCUOLA PUBBLICA COME ORGANO COSTITUZIONALE DELLA DEMOCRAZIA. Una nuova edizione del libro di Piero Calamandrei, "Per la scuola".
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora !) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
COSTITUZIONE (META-REGOLE), POLITICA (REGOLE), E RICORDI DI SCUOLA SULLA CRITICA DELLA “RAGIONE PURA” (“SOFISTICA”)!. Una nota*
SE E’ VERO CHE, “Per coloro che, come chi scrive, percorrono da molti anni i corridoi delle aule giudiziarie e degli altri palazzi del potere conoscendo le dinamiche sottese alle scelte della “politica giudiziaria”, diventa particolarmente fastidioso leggere e sentir raccontare autentiche favole metropolitane su quel che potrebbe ora accadere o sarebbe mai accaduto nelle proverbiali stanze dei bottoni”, NON E’ ALTRETTANTO VERO CHE, “Salvo cataclismi naturali e a dispetto dei clamori che fomentano il popolo con cronache enfatizzanti sul futuro panorama delle collusioni tra politica e giustizia, non accadrà assolutamente nulla, se non la futura giusta punizione a carico di coloro che non hanno rispettato le regole di appartenenza alle proprie aree di influenza del potere” (Laura Vasselli, "La giustizia, la politica e le relazioni pericolose", "InLibertà", 2 luglio 2020).
AD EVITARE eccessi di pericolose semplificazioni e produzioni di “nuvolose” illusioni, per contestualizzare meglio il problema, NON SOLO rileggerei l’ottimo “riassunto” di una questione complessa come quella affrontata nell’articolo in “#iorestoacasa, Forza Italia!” (di Italo Mastrolia, “InLibertà”, 16 aprile 2020), MA rivisiterei ANCHE i luoghi della memoria degli anni di scuola e riguarderei con maggiore attenzione la grande lezione di Aristofane (cfr. “Le nuvole”) su un “Socrate” che non è mai giunto a “conoscere sé stesso” e tuttavia viene “venduto” e “contrabbandato” (pubblicità-progresso!) come un grande saggio, non solo ieri (ad Atene) ma anche oggi (nel “villaggio globale”) - dopo Marshall McLuhan?! O no?!
Le nuvole (Aristofane) *
Le nuvole (in greco antico Νεφέλαι, Nephèlai) è una commedia di Aristofane, andata in scena per la prima volta ad Atene, alle Grandi Dionisie del 423 a.C. [...]
Trama
Il contadino Strepsìade è perseguitato dai creditori a causa dei soldi che suo figlio Fidippide ha dilapidato alle corse dei cavalli; pensa allora di mandare il figlio alla scuola di Socrate, filosofo che, aggrappandosi ad ogni sofisma, insegna come prevalere negli scontri dialettici, anche se in posizione di evidente torto. In questo modo, pensa Strepsiade, il figlio sarà in grado di vincere qualsiasi causa che i creditori gli intenteranno.
In un primo momento Fidippide non vuole andare al Pensatoio (phrontistérion) del filosofo e così il padre, disperato e perseguitato dagli strozzini, decide di recarvisi lui stesso, seppur vecchio. Appena giunto, incontra un discepolo che gli dà un assaggio delle cose su cui si ragiona in quel luogo: una nuova unità di misura per calcolare la lunghezza del salto di una pulce, oppure la scoperta del modo in cui le zanzare emettono il loro suono. In seguito, finalmente Strepsiade vede Socrate sedere su una cesta sospesa a mezz’aria, in modo da studiare più da vicino i fenomeni celesti.
Il filosofo, dopo un breve dialogo, decide di impegnarsi ad istruirlo: gli mette indosso un mantello e una corona ed invoca l’arrivo delle Nuvole, le divinità da lui adorate, che si presentano puntuali sulla scena. Strepsiade però non riesce a capire nulla dei discorsi pseudo-filosofici che gli vengono fatti (parodia della filosofia socratica e sofistica) e viene quindi cacciato. Fidippide, incuriosito dai racconti del padre, decide infine di andare a visitare il pensatoio e quando arriva assiste al dibattito tra il Discorso Migliore e il Discorso Peggiore.
Nonostante i buoni propositi e i sani valori proposti dal Discorso Migliore (personificazione delle virtù della tradizione), alla fine prevale il Discorso Peggiore (personificazione delle nuove filosofie) attraverso ragionamenti cavillosi. Fidippide impara la lezione ed insieme al padre Strepsiade riesce a mandare via due creditori; il padre è contento, ma la situazione gli sfugge subito di mano: Fidippide comincia infatti a picchiarlo, e di fronte alle sue proteste il figlio gli dimostra di avere tutto il diritto di farlo. Esasperato e furioso, Strepsiade dà allora alle fiamme il Pensatoio di Socrate, tra le grida spaventate dei discepoli.
[...]
* LE NUVOLE: Wikipedia - ripresa parziale; testo completo, su filosofico.net.
RIPRENDERE IL LAVORO DI FREUD. IL MALE, L’AVVENIRE DI UN’ILLUSIONE ....
Nota a margine di "Il male, un’illusione ? Intervento al Convegno Internazionale UNESCO” *
PRIMA DI FARE DICHIARAZIONI STORIOGRAFICHE DI GRANDE IMPEGNO A SOSTEGNO DELLE PROPRIE ARGOMENTAZIONI:
E PARLARE DI “divinizzazione retroattiva del marchese de Sade” è bene ricordare che l’associazione indebita di “Kant e Sade”, fatta da Lacan, nasce sulla base di una interpretazione edipico-hegeliana e di un vera e propria distruzione della kantiana “critica dell’idealismo”.
E, ancora, quando Freud richiama all’inizio del suo lavoro sulla “Interpretazione dei sogni” le parole di Giunone “flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo” (Eneide, VII, 312), sa già (“sibillina-mente”) di che cosa sta parlando e di cosa c’è in gioco e, come Giunone (“Non mi sarà dato, ahimé, di impedirgli di regnare sui Latini e Lavinia, immutabile, resta sua sposa in forza del destino, ma ho il potere di tirare per il lungo, di imporre dei ritardi a eventi così grandi ...” : Eneide, VII, 312- 315 ), va avanti e ricordando-si di Napoli comincia capire cosa c’è dietro la questione “Didone” (Eneide, IV, 625 ) e la sua infatuazione per Annibale, per il vendicatore: la vittoria di Roma, dell’Amore sulla Morte. Fiducioso, continua il suo lavoro!
La “Horrenda Virgo” (Eneide XI, v. 507) , la “ragazza terribilmente bella”, come Giunone (e Freud), lo sa: deve cedere il passo ad un’altra “Virgo”, ad Astrea, alla Giustizia: «Già viene l’ultima era dell’oracolo di Cuma, / nasce di nuovo il grande ordine dei secoli. / Già ritorna la Vergine, ritornano i regni di Saturno, /già una nuova stirpe scende dall’alto del cielo. » (Ecloga IV, 4-7). La “Horrenda SYbilla” (Eneide VI, 11), ispirata da Apollo, il profeta di Delo, ha rivelato ad Enea tutto il futuro (Eneide VI, 11-12).
PERCHE’ HANNAH ARENDT, nella sua “Vita della mente” (alla luce di un inedito dialogo con Kant) richiama ancora e di nuovo Virgilio e Dante, e dal “Libro del malumore” di Goethe cita: “Chi di tremila anni / Non sa darsi conto, / Rimane all’oscuro inesperto, /Vuol vivere così di giorno in giorno” ? Boh e bah ?!
*
La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale
di Laura Vasselli (InLibertà, 10 Giugno 2020)
Chi non ha avuto modo di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati?
Il gossip che si scatenato su di lei per questo autentico guazzabuglio di notizie, sulla cui veridicità si sono scatenati dibattiti televisivi di ogni livello, ha lasciato spazio ad una specie di “giallo informativo”, nel quale si sono aggrovigliati elementi di falso recitativo misti ad esternazioni di reale innamoramento con scenari rosei di vita futura con esclamazioni pubbliche di gioia del tipo “...sarò moglie e mamma!...e altre simili esternazioni.
Ma è meglio procedere con ordine.
Nei fatti reali, diversi mesi fa, Pamela Prati annunciò il suo matrimonio con questo tale Mark Caltagirone che, dal racconto della “promessa sposa”, era un imprenditore italiano che l’aveva portata con sé in molti viaggi di lavoro in giro per il mondo; la showgirl parlava di lui offrendo dati concreti e dichiarando che si trattasse di un personaggio noto nel suo ambiente ed apprezzato come professionista.
Tuttavia, nessun rilievo venne attribuito all’indizio della totale assenza di fotografie di lui, che giustificava con esigenze di riserbo sulla propria vita privata, anche in ragione della presenza dei suoi due bambini che sarebbero stati adottati dalla fidanzata, una volta che sarebbe diventata sua moglie.
Ma la data dell’8 maggio 2019 che era stata annunciata per le nozze, venne rinviata e - a seguito di verifiche, riscontri incrociati e indagini di vario tipo - si accertò che Mark Caltagirone non è mai esistito e che è stato un personaggio completamente inventato.
Dal racconto felice al disagio totale, Pamela Prati - che come ospite aveva raccontato in varie trasmissioni televisive la sua storia d’amore miseramente fallita - è stata costretta suo malgrado ad ammettere di essere stata plagiata, con tanto di conseguenze sul piano giudiziario in danno a chi l’aveva tratta in inganno, salvi poi ulteriori retroscena che non riguardano questo argomento.
Insomma, questo episodio di cronaca rosa ha reso conoscibile l’esistenza di preoccupante fenomeno in diffusione che è proprio quello definito “truffa amorosa” realizzata attraverso un sistema di manipolazione mentale costruita attraverso raffinate tattiche persuasive, elogi esagerati, false prospettive di “vita insieme per sempre” per far seguito a vissuti problematici più o meno verosimili per tutti i truffatori sentimentali in danno a persone desiderose di poter finalmente realizzare qualcosa che - a quanto pare - non passerà mai di moda: il “sogno d’amore”.
Queste vere e proprie condotte criminali penalmente perseguibili, attuate con gli inganni, gli artifizi e i raggiri che connotano il reato di truffa come disciplinata dall’art. 640 del codice penale, risultano essere incrementate nell’ultimo periodo perché favorite dall’isolamento imposto dalla protezione pandemica che ha reso più fragili le persone che vivono in solitudine, così esponendole in maniera così subdola al rischio di essere vittime di questo terribile reato, lesivo della buona fede e della dignità di chi auspica un’esistenza migliore attraverso la ricerca della felicità in coppia.
Attraverso l’uso della rete e dei social networks, i malcapitati destinatari di questo reato vengono portati a legarsi sentimentalmente con il truffatore che agisce fino ad ottenere vantaggi economici e di altra natura con trappole particolarmente sofisticate
Col sistema tipico della tela del ragno, l’autore della truffa comincia col reperire lentamente ogni utile informazione sulla vita privata della sua futura vittima, magari studiando i suoi interessi e le sue abitudini fino all’approccio diretto azionato con la creazione di un falso profilo dotato di apposito nickname.
Spesso la vittima resta malamente intrappolata nella rete perché viene prima sedotta e poi illusa attraverso sapienti approcci con forte carica psicologica persuasiva; questi autentici delinquenti sono infatti sempre pronti a intervenire sulle fragilità e sui i punti deboli della vittima che sono riusciti a scovare mediante questa tattica di attento e incalzante corteggiamento.
Scattano quindi i meccanismi di intimità, fiducia e comprensione tipici dell’innamoramento virtuale con questo partner apparentemente ideale che portano a credere in uno scambio sentimentale vero e proprio e che si realizza mediante attenzioni e pensieri quotidiani a sostegno dell’interesse dell’uno verso la vita dell’altro (compresi i diffusissimi messaggini del buongiorno e della buonanotte a cui viene ancora attribuita una valenza affettiva esageratamente elevata).
Una volta catturata la vittima, colui o colei che pone in essere la truffa, parte con l’azione vera e propria: inizia la filza delle lamentele su problematiche debitorie (tipo: devo restituire denaro a un caro amico che mi ha aiutato nel momento del bisogno!), su danni alla salute (tipo: devo subire un urgente intervento chirurgico!), su emergenze economiche (tipo: ho perso il bancomat!), su progetti in comune (tipo: dobbiamo arredare la nostra futura casa!), ma anche su depressioni causative di disagio che richiedono fondi a vario titolo economico e simili, fino alla diretta richiesta di danaro, di utilità e vantaggi di qualsiasi natura che induce all’offerta di aiuto economico spontaneo vero e proprio da parte della vittima che non riesce a vincere il senso di colpa in caso di diniego a pagare.
Nei casi più gravi, la vittima arriva anche ad indebitarsi e addirittura ad esaurire i risparmi per non deludere la falsa persona amata; non di rado si trova anche isolata per aver il truffatore escogitato anche il piano di allontanamento dagli affetti per rafforzare il suo potere facendogli perdere la lucidità e il senso di realtà.
Ma quel che stupisce maggiormente è che per la “coppia” non c’è, non ci sarà mai neanche alcun incontro personale; normalmente lontani per ragioni lavorative, truffatore e vittima fissano appuntamenti che vengono puntualmente disdettati con scuse o contrattempi di vario genere.
Raramente, infatti, si registrano casi di incontri a scopo sessuale perché il truffatore dovrebbe utilizzare all’esterno la sua falsa identità che costituisce un ulteriore tipo di reato a sé stante.
La suggestione della vittima è quindi talmente forzata da far credere che la finzione si confonda con la realtà; ecco perché occorre sempre - in ogni caso - verificare l’identità degli interlocutori virtuali e segnalare le anomalìe per la tutela di tutti.
Fingere dunque di provare sentimenti verso una persona al solo fine di trarre un ingiusto profitto è reato pieno; chi avesse voglia di approfondire il tema, può leggere la motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa
“non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“
Nota:
IL DESIDERIO, IL “SOGNO D’AMORE”, E LA TRAPPOLA DELLA “TRUFFA ROMANTICA”. *
PER CHI HA AVUTO L’OPPORTUNITA’ O IL MODO “di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati”, CONSIGLIO UNA LETTURA ATTENTA DELL’ARTICOLO “La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale” (Laura Vasselli, "InLibertà", 10.06.2020), TOCCA UNA QUESTIONE FONDAMENTALE DELLA STESSA VITA DI OGNI PERSONA, NON SOLO SUL PIANO DEI RAPPORTI PRIVATI MA ANCHE DEI RAPPORTI PUBBLICI: “[...] credere che la finzione si confonda con la realtà , [...] perdere la lucidità e il senso di realtà”!
QUANTO TALE “PROBLEMA” SIA DEGNO DI ESSERE PENSATO A FONDO (E A TUTTI I LIVELLI) è chiaramente detto - come scrive l’autrice - nella motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa “non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“ (cit.).
CHE DIRE?! E’ UNA SOLLECITAZIONE A SAPERSI CONDURRE CON SENNO SIA NELLE QUESTIONI PRIVATE SIA NELLE QUESTIONI PUBBLICHE E UN INVITO A NON PERDERE IL SENSO DELLA REALTA’ (sul tema, non sembri strano né casuale, si cfr. l’articolo di Italo Mastrolia, su “#iorestoacasa, Forza Italia”). NE VA DELLA NOSTRA STESSA VITA : E’ UN PROBLEMA DI SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, A TUTTI I LIVELLI.
#iorestoacasa, Forza Italia!
di Italo Mastrolia (Linkedin, 9 aprile 2020)
Storia di un marchio pubblico
In questi giorni di forzata permanenza in casa sto imparando a prestare attenzione alle cose; specialmente a quelle che, nella vita “ordinaria”, avrebbero meritato maggiore considerazione e tutela, ma che - nella distrazione generale - abbiamo tutti accettato e “subìto” nel tempo senza alcuna resistenza. Mi è capitato di leggere un commento su FB; si trattava di una considerazione relativa ad un programma televisivo: «Ma è proprio necessario che lo spot di Rai Sport finisca con “Forza Italia”»? L’interrogativo, che voleva essere soltanto ironico, è di un eccellente e famoso giornalista, il quale sollecitava una sorta di ’par condicio’, auspicando una analoga versione della sigla televisiva utilizzando la denominazione “Italia Viva”.
Ho ripensato a quando, in gioventù, lo slogan più diffuso (condiviso ed universale - specialmente nello sport -) era appunto “Forza Italia”: era il grido di tutti gli italiani che sostenevano le nostre squadre nelle competizioni internazionali (specialmente la nazionale di calcio); e ho pensato che, da quando è stato fondato quel partito politico che ha assunto proprio questa esatta denominazione, non abbiamo più potuto gridare o scrivere questa “esclamazione” in modo spontaneo . Ovviamente nessuno ce lo avrebbe impedito, ma ... insomma, abbiamo tutti avvertito un senso di imbarazzo (o addirittura di contrarietà); oppure - più semplicemente - abbiamo preferito non correre il rischio di essere fraintesi.
Insomma, all’improvviso quello storico ed universale slogan non è stato più utilizzato, ed è scomparso dal vocabolario della tifoseria sportivo. Nulla era più come prima.
Ho svolto una rapida ricerca: il nome si ispirava allo slogan Forza Italia! utilizzato nella campagna elettorale della Democrazia Cristiana del 1987, curata dal pubblicitario e accademico Marco Mignani. Ma il nuovo partito pensò di registrare il marchio presso l’Ufficio Marchi e Brevetti: i primi due depositi risalgono al 24 giugno 1993 - attraverso una società di Milano -; assicuravano la tutela dei marchio d’impresa per ben 13 classi di merci e servizi. Sono seguiti ulteriori 11 depositi integrativi, fino al 2008, attraverso i quali le classi merceologiche sono arrivate fino a 21.
Mi sono chiesto se la registrazione di quel marchio con l’indicazione geografica (Italia) potesse essere vietata (secondo l’art. 13 Codice Proprietà Industriale). Niente da fare; non sarebbe stato possibile impedirlo: tale divieto, infatti, non è assoluto. È consentito registrare un nome geografico che, in relazione al servizio o al prodotto, non si presenti come indicazione di provenienza, ma come nome di fantasia. Quindi, sulla base di questa disposizione normativa, “Forza Italia” (con il quale il partito non intendeva indicare la provenienza geografica dei proprio “prodotti”) venne considerato come denominazione di fantasia, e - in quanto tale - legittimo ed utilizzabile.
Però (ho obiettato) quelle due parole costituiscono uno “slogan” collettivo, un modo di dire, una locuzione condivisa da tutto il popolo... niente da fare un’altra volta: secondo la giurisprudenza dell’Unione Europea il ‘marchio-slogan’ è sempre registrabile purché abbia carattere distintivo: a prescindere dal suo significato promozionale, infatti, deve avere qualcosa che permetta al pubblico di percepirlo come indicatore dell’origine commerciale dei prodotti o dei servizi che lo stesso contraddistingue. In effetti, l’articolo 4 del Regolamento sul marchio UE prevede che “Possono costituire marchi UE tutti i segni, come le parole, compresi i nomi di persone o i disegni, le lettere, le cifre, i colori, la forma dei prodotti o del loro imballaggio e i suoni”.
Quindi nulla vieta di registrare come marchio uno slogan pubblicitario.
Insomma, sembra proprio che la registrazione del marchio-slogan “Forza Italia” sia stata del tutto legittima, frutto di un’abile e geniale operazione giuridica con la quale, profittando del rigore formale della normativa vigente, si è trovato il modo (legittimo) per sottrarre alla collettività una frase appartenente a tutti, e attribuirla ad un partito politico per contraddistinguere i propri beni e servizi su cui poter ‘apporre’ il marchio (ripeto ... per ben 21 classi merceologiche!).
Però è innegabile che quelle due parole messe insieme hanno sempre costituito uno slogan collettivo, una storica esortazione popolare che - richiamando la nostra nazione - può essere ricondotta al concetto di res publica e - senza esagerare - a quello di patrimonio culturale immateriale. La questione merita un ben diverso approfondimento.
Nonostante tutto questo, è bello vedere che le persone - attraverso varie forme espressive - iniziano spontaneamente a “riappropriarsi” di quella storica esortazione sportiva; c’è un ritrovato orgoglio nazionale che, facendo vincere gli imbarazzi, mostra una tardiva reazione di sdegno a quella (seppur legittima) “sottrazione” del nostro grido più amato. A partire dal quella sigla del programma RAI, fino al web e agli striscioni sui balconi, finalmente ricompare senza imbarazzi la scritta “Forza Italia”!
A nessuno viene in mente, però, di usare la frase “Italia Viva”. In sincerità, la scelta di assegnare ad un partito questa locuzione è stata molto meno astuta e del tutto ’innocua’ per la collettività; vedremo se la registrazione di quel marchio verrà autorizzata dall’Ufficio Marchi e Brevetti (la domanda è stata depositata il 26.9.2019 ed è ancora in fase di esame).
IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO....
Addio al giurista e polemista. Franco Cordero, il più scomodo di tutti gli eclettici
A 91 anni scomparso il giurista e polemista, capace di spaziare dal diritto al romanzo, con forte inclinazione anticlericale
di Francesco D’Agostino (Avvenire, domenica 10 maggio 2020)
Personalità fuori dal comune, quella di Franco Cordero (scomparso due giorni fa a Roma a 91 anni): uomo poliedrico, capace di spaziare con sicurezza dalla giurisprudenza alla storia, dalla filosofia alla teologia, dall’antropologia alla politica; polemista memorabile, romanziere di notevole originalità, anche se di ardua leggibilità, inventore di stilemi linguistici suggestivi. Se su queste sue doti non c’è da dubitare, su altre probabilmente è difficile che si trovi un accordo tra i suoi colleghi, i suoi studiosi ed i suoi lettori.
È stato davvero, come alcuni sostengono, uno dei massimi giuristi italiani del Novecento? Sicuramente è stato un giurista fuori dal comune, che ha nobilitato la sua disciplina (il diritto processuale penale) oltre ogni aspettativa. Ma è stato anche vittima della sua intelligenza labirintica, della sua rigidità ideologica, della sua carenza di flessibilità. Ordinario da anni nell’Università Cattolica di Milano, entrò in tensione con il paradigma culturale che la governava e di cui egli aveva perfetta consapevolezza: non ebbe il buon senso (di cui ad esempio diede prova il filosofo Emanuele Severino) di chiedere il trasferimento ad altro Ateneo, che pure avrebbe immediatamente ottenuto; privato tra mille polemiche del necessario nulla-osta all’insegnamento, attivò un duro braccio di ferro con le autorità accademiche, che volle portare fino al giudizio della Corte Costituzionale.
Era ovviamente un suo diritto ricorrere alle vie legali, ma fu molto sgradevole vedere come il suo ricorso si saldasse con un anticlericalismo sempre più aspro, polemico e in definitiva sterile, che egli cercò faticosamente di nobilitare arrivando perfino a scrivere un fitto commento all’Epistola ai Romani di San Paolo.
È difficile dire se il suo anticlericalismo giunse infine a trasformarsi in un vero e proprio anticattolicesimo; è certo però che alla fine logorò anche la pubblica opinione, al punto che, per mantenere comunque un contatto col “suo” pubblico, Cordero trovò uno sfogo cominciando a scrivere numerosi romanzi, dedicando a Savonarola una sterminata biografia, e insinuandosi abilmente nel dibattito politico del tempo (fu lui a forgiare il soprannome di “caimano” per Berlusconi , soprannome che ebbe un certo successo, anche perché ripreso da Nanni Moretti in un suo film omonimo).
Gira la notizia che una nuova e brillante casa editrice starebbe per pubblicare un suo ultimo romanzo e che sarebbe anche in progettazione una nuova edizione di un suo importante testo di molti decenni fa, Gli Osservanti, del 1967, l’opera con la quale Cordero intendeva radicare definitivamente il suo pensiero nella filosofia del diritto. Gli Osservanti è un libro, pieno di riferimenti, provocazioni, citazioni, allusioni, polemiche; un libro col quale l’Autore voleva presentare ai suoi lettori nuovi e rivoluzionari paradigmi dottrinali. Ma si trattava anche di un libro troppo difficile e troppo costoso per divenire popolare tra gli studenti sessantottini e contestatori e troppo farraginoso per conquistare la platea dei giuristi di professione. Se esso, nella sua nuova edizione, avrà successo, ne sarò lieto, perché è pieno di intelligenza. Ma non si tratta di intelligenza né giuridica, né filosofica, ma di intelligenza polemica: ammirevole, ma sterile.
Morto Franco Cordero, il giurista che inventò il "Caimano"
Raffinato uomo di legge, anticlericale, intellettuale militante si è spento a 92 anni. Indimenticabili le sue polemiche contro Berlusconi al quale dedicò il soprannome
di ROBERTO ESPOSITO (la Repubblica, 08 maggio 2020)
Con Franco Cordero scompare una delle figure più raffinate e poliedriche della cultura italiana contemporanea. Ma anche un intellettuale militante, impegnato in battaglie civili contro il lato oscuro del potere politico ed ecclesiastico italiano. Nato a Cuneo nel 1928, ha attraversato l’ultimo secolo, lasciando una traccia indelebile non solo nel campo del diritto di cui è stato riconosciuto maestro, ma anche in quelli della riflessione filosofica, teologica, antropologica. E infine nella letteratura con una serie di romanzi - tra i quali Opus, Bellum civile, L’armatura - di lettura non semplice, ma scritti con uno stile personalissimo che gli assegna un ruolo non secondario nella letteratura degli ultimi decenni.
Allievo di Giuseppe Greco, ha insegnato in diverse Università italiane, tra cui Trieste, Torino, Roma, dove ha chiuso nel 2002 la propria brillante carriera accademica. Ma certamente l’esperienza che più lo ha segnato, diffondendo il suo nome anche all’estero, è stato l’insegnamento alla Cattolica di Milano, allora diretta da Agostino Gemelli, iniziato nel 1960. Entrato in conflitto per la sua posizione di intransigente polemica nei confronti della parte più retriva della gerarchia ecclesiastica, è stato espulso dalla Cattolica, scatenando quello che, sulle pagine dei quotidiani italiani e stranieri, ha assunto il nome di "caso Cordero". L’occasione dello scontro, non cercato ma neanche evitato da Cordero, è stata la pubblicazione del testo intitolato Gli osservanti (1967) ma soprattutto il successivo romanzo Genus che nel 1969 gli costerà l’allontanamento dalla cattedra. Accusato di eterodossia e attaccato frontalmente dalla destra cattolica, Cordero ha risposto con altrettanta nettezza, scatenando una polemica arrivata perfino alla Corte Costituzionale.
Da allora la sua persona è diventata occasione di continue controversie. Attaccato dagli ambienti confessionali, è diventato per altri una bandiera di indipendenza e di libero pensiero. I suoi scritti, alcuni memorabili, vanno dalla tecnica giuridica - il suo manuale di procedura penale, ristampato più volte, costituisce ancora riferimento essenziale per gli studi di diritto - alla filosofia, alla teologia, all’antropologia. Ciò che di essi colpisce è la straordinaria miscela di erudizione e originalità, di filologia e di spregiudicatezza ermeneutica.
Se la sua monumentale biografia di Savonarola in quattro volumi contiene ancora una miniera di informazioni per gli studiosi, il suo Commento alla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso continua a sorprenderci per la radicalità della sua interpretazione, allo stesso tempo fedele ed estrema. Oggi, in una cultura accademica sempre più proclive a uno specialismo senza nerbo, la vastità e la poliedricità del suo sapere restano una sorta di unicum con cui è difficile stabilire confronti.
Ma questa molteplicità di interessi e di linguaggi non sfocia mai in una sorta di vacuo eclettismo, tanto meno in divulgazione. Al contrario il suo stile di scrittura, a volte denso fino all’ermetismo, costituisce per il lettore una sfida che non può lasciare indifferenti. Si può anzi dire che, nonostante l’ampiezza di orizzonti della sua cultura, tutti i suoi testi sembrano convergere verso un fuoco centrale, al contempo teoretico ed etico-politico.
La forza - nel senso pieno del termine - di Cordero stava nel rifiutare ogni compromesso, ogni risposta troppo facile a questioni complesse, come quella del rapporto tra sacro e profano, teologia e politica, eternità e tempo. Tra di essi, per Cordero, non c’è possibilità di sintesi dialettica. Ma continua tensione tra poli irriducibili, necessari l’uno ad illuminare l’altro non per analogia, ma per contrasto. Egli c’insegna che le grandi contraddizioni, nella vita e nel pensiero, non hanno mai soluzioni facili.
Il suo - potremmo dire - è un pensiero teologico-politico consapevole del rischio di ogni sovrapposizione tra teologia e politica. Come è impossibile fondare razionalmente il sacro, così va evitato ogni sacralizzazione del potere. Che anzi è ciò che Cordero ha combattuto per tutta la vita.
Alla fine dell’insegnamento universitario Cordero ha potenziato il proprio impegno politico attraverso una serie di interventi, articoli, polemiche rimaste insuperate per la loro radicalità e anche fantasia semantica. Come dimenticare le vere e proprie invenzioni lessicali, come quelle indirizzate contro Berlusconi, identificato ora con il "Caimano", ora con un Mackie Messer contemporaneo? Le sue polemiche nei confronti del collasso della cultura politica italiana dei due ultimi decenni hanno avuto un tono aspro e duro, come era il suo carattere.
Oggi forse non sono più di moda. Ma basta rileggere alcuni suoi titoli - da Nere lune d’Italia a Morbo italico - per accorgersi che quei libri parlano ancora di noi. La sua etica, lucida e disperata, è una luce della quale c’è ancora bisogno. Il suo discorso, leopardiano, sopra lo stato presente dei costumi italiani non ha smesso di interpellarci. Esso attende ancora una risposta e una promessa di riscatto all’altezza delle sue domande
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI")
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI ?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA" !!!
Federico La Sala
CONCILIO DI NICEA I e il CONCILIO DI NICEA - 2025. Materiali sul tema:
2 MAGGIO 2020. Il santo del giorno
Atanasio. Discepolo di sant’Antonio, difensore dell’ortodossia
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 2 maggio 2019)
Sant’Atanasio fu come un ponte per la Chiesa antica: sulle spalle, infatti, portò il “peso” della retta dottrina, dell’ortodossia, traghettandola attraverso un periodo difficile, nel quale sembrava che l’eresia dovesse trionfare.
Era nato ad Alessandria nel 295 e nel 325 era al Concilio di Nicea come diacono del vescovo Alessandro. Lì si stabilì che il Figlio era della stessa sostanza del Padre, Cristo non era “come” Dio, ma era Dio.
Una verità che gli ariani tentavano di negare, mettendo in campo una lotta aspra, spesso fatta di calunnie e strategie politiche.
Nel 328 la gente volle Atanasio come nuovo vescovo di Alessandria e lui, nei suoi 46 anni di episcopato, si dimostrò un saldo difensore della verità. Ma dovette subire attacchi personali e anche esili prima di essere riabilitato. Ebbe come maestro sant’Antonio abate di cui scrisse una Vita. Morì nel 373.
Altri santi. San Felice di Siviglia, martire (IV sec.); sant’Antonino Pierozzi (di Firenze), vescovo (1389-1459).
Letture. At 5,27-33; Sal 33; Gv 3,31-36.
Ambrosiano. At 4,32-37; Sal 92; Gv 3,7b-15.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
EPIDEMIA, POLITICA, E TEOLOGIA: IL PROBLEMA JEAN-JACQUES ROUSSEAU E L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO...
L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO: "[...] Rousseau cerca in tutti i modi di impostare bene il "trattato le cui condizioni siano eque" (Virgilio, Eneide, XI), ma perde il filo e, alla fine, si ritrova a riproporre la religione dei romani - la "religione civile", contro la "religione romana", cattolica ! Senza volerlo, prepara la strada "cattolico-romana" a Fichte, a Hegel, a Marx, a Gentile e a Lenin.
Kant reimposta il problema e riparte, bene : "tutto proviene dall’esperienza, ma non tutto si risolve nell’esperienza" o, diversamente, tutto viene dalla natura ma non tutto si risolve nella natura ; alla fine egli non riesce a sciogliere il nodo e resta in trappola. Al di là del mare di nebbia non può andare e - per non distruggere i risultati della sua esplorazione - si accampa lì dove è riuscito ad arrivare e decide: Io voglio che Dio esista.
Per Kant, Rousseau e Newton, come Locke, non sono stati affatto cattive guide per il suo viaggio. Il suo cammino è stato lungo, fruttuoso e coraggioso : la Legge morale dentro di me, il Cielo stellato sopra di me ! E, onestamente, rilancia di nuovo la domanda antropologica, quella fondamentale: "Che cosa è l’uomo?". Teniamone conto.
Ciò che essi cercavano di capire e quindi di sciogliere era proprio il nodo che lega il problema "religioso", il legame "sociale", il problema di "Dio", il problema della Legge, non quello o quella dei Faraoni e quella di una Terra concepita come un "campo recintato" o assoggettata alla "Moira" di Orfeo e alla Necessità.
Filosoficamente, è il problema dell’inizio ... e, con esso, dell’origine e dei fondamenti della disuguaglianza tra gli esseri umani. Il problema J.J. Rousseau, dunque: No King, no Bishop! Il problema della Legge - e della Lingua: il problema stesso del principio di ogni parola, la Langue, Essai sur l’origine des langues! Da dove il Logos e la Legge?! E, con queste domande, siamo già all’oggi, agli inizi del ’900 : Ferdinand de Saussure ! Ma ritorniamo al problema politico, della Legge della Polis o, come scrive Rousseau, della Citè. La questione è decisiva ed epocale: ed è al contempo questione antropologica, politica, e "teologica". In generale è la questione del rapporto Uno-Molti - una questione lasciata in eredità da Platone, e riproposta da Rousseau, nei termini del rapporto volontà generale - volontà di tutti o del cosiddetto "uno frazionario", e risolta ancor oggi nell’orizzonte moderno (cartesiano) - dopo Cristo, come dopo Dante, Rousseau e Kant - in modo greco, platonico-aristotelico. Una tragedia, e non solo quella di Nietzsche. In tutti i sensi.
Se continuiamo a truccare le carte e confondiamo l’Uno al numeratore con un "uno" degli "uno" o delle "uno" al denominatore finiremo per cadere sempre nella trappola della dittatura, e nel dominio del "grande fratello". E non riusciremo mai a distinguere tra "Dio" Amore [Charitas], e "Dio" Mammona [Caritas] - tra la "volontà generale" dell’Uno e la "volontà generale" di "uno", camuffato da "Uno". Liberare il cielo, pensare l’ "edipo completo" - come da progetto di Freud.
Vedere solo i molti (gli individui, meglio gli uomini e donne in carne ed ossa, le persone) che agiscono, discutono e lottano, e non vedere l’Uno, che è il Rapporto e il Fondamento di tutti e il Rapporto dell’Uno stesso con tutti i vari sotto-rapporti (economici, politici, religiosi, giuridici, pedagogici, familiari, e, persino, di amicizia) dei molti e tra i molti ... non porta da nessuna parte, se non alla guerra e alla morte. In tale orizzonte (relativistico, scettico e nichilistico), chi vuole guidare chi, che cosa può fare, che cosa può insegnare, che cosa può produrre ... se non il suo stesso "uno" - allo specchio ? Un narcisismo personale e istituzionale, imperialistico e ... desertificante !
È elementare, ma è così - come scriveva l’oscuro di Efeso, Eraclito : "bisogna seguire ciò che è comune : e ciò che è comune è il Logos" - la Costituzione, prima di ogni calcolo, per ragionare bene. La Costituzione è il fondamento, il principio, e la bilancia!!! Questo è il problema : la cima dell’iceberg davanti ai nostri occhi, e il punto più profondo sotto i nostri stessi piedi !!! E se non vogliamo permanere nella "preistoria" e, anzi, vogliamo uscirne, dobbiamo stare attenti e attente e ripensare tutto da capo, dalla radice (Kant, Marx), dalle radici: gli uomini e le donne, i molti, e il Rapporto-Fondamento che li collega e li porta - al di là della natura - nella società, e li fa essere ed esseri umani - dopo il lavoro in generale, il rapporto sociale di produzione in generale è la questione all’ordine del giorno nostro, oggi. [....]" . (Cfr.L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana").
DECRETO-LEGGE 30 aprile 2019, n. 34 :
Capo III
Tutela del made in Italy
Art. 31
Marchi storici
1. Al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 sono apportate le seguenti modificazioni:
L’impero romano tra cambiamenti climatici e pestilenze
In un libro dello storico statunitense Kyle Harper
di Gabriele Nicolò (L’Osservatore Romano, 15 aprile 2020)
Si racconta che uno storico tedesco abbia addotto duecentodieci motivi per spiegare il crollo dell’impero romano. Molto più parco è lo storico statunitense Kyle Harper che nel libro Il destino di Roma. Clima, epidemie e la fine di un impero (Torino, Einaudi, 2019, pagine 520, euro 34) di cause - a parte quelle “istituzionali” legate sia alle farraginose dinamiche della ormai fatiscente struttura governativa che al logorio dell’esercito e delle forze di combattimento in generale - ne individua due: i cambiamenti climatici e le pestilenze. Vale a dire, due cause che rivestono, evidentemente, un valore di attualità sorprendente e disarmante.
È vero che Giulio Cesare si vantava che i suoi soldati erano così vigorosi nel fisico che potevano resistere sia ai rigori dell’inverno che ai torridi raggi del sole d’estate, ma è altrettanto vero - rileva lo storico statunitense in un’intervista al settimanale francese «Nouvelle Observateur» - che i bruschi cambiamenti del clima, attestati tra l’altro da numerosi documenti d’epoca, con graduale e non arginata pressione finirono per incidere profondamente sulla popolazione dell’impero, e in particolare sulla psiche dei soldati, resi più vulnerabili dalle continue privazioni, inevitabile prezzo da pagare in una vita spesa sui campi di battaglia. E a dare il colpo di grazia al già fatiscente impero - sottolinea Harper - furono le pestilenze, la cui propagazione fu alimentata dalla vertiginosa crescita del numero della popolazione, non solo a Roma, ma anche nelle zone limitrofe, ovvero nelle campagne che, col declinare dell’impero, non vennero più adeguatamente bonificate come invece accadeva nei giorni di gloria.
In particolare - sostiene lo storico - a sbaragliare ogni forma di resistenza fu lo Yersinia pestis, che corrisponde alla moderna accezione di peste bubbonica. Un inquietante intreccio di morbi e di germi invase vaste regioni dell’impero mietendo, senza pietà, lutti e devastazione. I romani - ricorda Kyle Harper - avevano saputo come sconfiggere i nemici, anche perché aveva saputo imparare dalle lezioni derivanti dalle sconfitte subite. Ma non avevano le conoscenze e i mezzi adeguati per fronteggiare le ricorrenti pestilenze che certo potevano “approfittare”, per attecchire e poi infuriare, anche della mancanza di social distancing, misura certo non praticabile visto che i romani solevano vivere in ambienti molto ristretti e in accampamenti sovraffollati.
NOTA:
L’Impero romano e la ragione nascosta della sua caduta: una questione "filologica", epocale! L’ "In principio era il logos" (e sulla testa di tutti e di tutte, c’era la corona-virtus) diventa piano-piano l’ "In principio era il Logo" (e sul capo c’era il coronavirus)!!!
Federico La Sala
L’ADDIO A KANT, LA RIMOZIONE DELL’OMBELICO, E LA "FILOSOFIA" DEL "DOLORE DEGLI ALTRI" ... *
Pandemia
La filosofia e il dolore degli altri
di Alessandro Dal Lago ("Aut Aut", 10 aprile 2020)
In diversi luoghi della sua immane produzione, Shakespeare fa pronunciare ai suoi celebri personaggi parole scettiche nei confronti della filosofia: così Amleto (“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne immagini la tua filosofia”) e Romeo (“Alla forca la filosofia! Se non può darmi Giulietta, farmi prendere una città, annullare la sentenza di un principe, non mi serve e non conta”). È quasi superfluo aggiungere che il più filosofico dei drammaturghi di ogni tempo (in buona compagnia con Dante, Calderón de la Barca ecc.) non respingeva la filosofia in generale, ma quella cattiva, che - mi si perdoni l’espressione triviale - contempla il proprio ombelico, invece di proiettare chiarezza sul cielo e sulla terra, sulle passioni, sul destino e sul potere.
Tutto ciò mi è venuto in mente scorrendo una raccolta online di riflessioni “filosofiche” di alcuni pensatori contemporanei sulla pandemia del Covid-19: La sopa de Wuhan. Piensamiento contemporáneo en tiempos de pandemias (“La zuppa di Wuhan ecc.”).[1] Si tratta di un’operazione furbetta grazie a cui sono tradotti in castigliano e proposti un po’ alla rinfusa autori notissimi o alla moda (Žižek, Agamben, Nancy, Butler, Harvey, Badiou, Preciado) e altri di lingua spagnola e meno noti da noi, ma che il curatore, un certo Pablo Amadeo, ha ritenuto utili alla comprensione dell’impatto globale del virus sul nostro mondo. Complessivamente, ne ho tratto un’impressione desolante. Va bene che si tratta di interventi per lo più ad hoc, occasionali e sbrigativi, pubblicati tra fine febbraio e fine marzo 2020. È vero che qua e là si trovano anche idee interessanti. Ma se questo è il livello della filosofia contemporanea, non possiamo che essere d’accordo con lo sfortunato Romeo.
A parte gli interventi di Agamben, discutibili quanto si vuole, ma almeno coerenti, il brevissimo testo di Nancy, una garbata e non troppo amichevole risposta all’“amico” Giorgio Agamben, e i testi di Judith Butler e David Harvey, che dicono cose sensate, anche se condizionate dalla campagna per le presidenziali Usa, quasi tutti gli altri si segnalano per banalità o stramberie. Il platonico Badiou vuole una politica che si affidi ai sapienti, come se già i politici non si facessero guidare dalle molteplici e rissose tribù scientifiche. López Petit vede in corso una guerra tra la vita oscura (forse le moltitudini?) e quella algoritmica imposta dal Capitale. Altri, a onta della globalità del virus da tutti proclamata, non vanno al di là dell’orticello di casa propria, come via Mascarella per il bolognese Franco Berardi detto Bifo.
Quanto a Markus Gabriel, seguace germanico del “nuovo realismo”, ha in mente una soluzione “realistica”, che illustro con le sue parole:
Anche Paul B. Preciado, dopo considerazioni condivisibili sul confinamento, la paura e così via, si tuffa nell’irrealtà, proponendo che anche noi, come il maledetto virus, accettiamo di mutare (benché nei due casi il mutamento non sia proprio lo stesso).
Come cosmopolitismo e/o cooperazione strutturale planetaria siano possibili in un mondo che sembra andare trionfalmente in direzione contraria (Trump, Bolsonaro, Orbán, neo-nazionalismi, dissoluzione potenziale di aggregazione di stati come l’Ue, emergere di nuovi poteri a dir poco voraci, per esempio la Cina) non ci viene spiegato. Ma, si sa, questo è compito di ontologie regionali come l’analisi politica o le relazioni internazionali. Quando invece qualcuno si spinge verso una valutazione empirica del presente conquista di colpo la palma dell’insensatezza. Come il leninista lacaniano Slavoj Žižek che vede “il comunismo germogliare dal virus” e assegna a Trump il merito di aver compreso che nell’epoca del Covid-19 è necessario un reddito minimo di base. Farei leggere a chiunque il testo del geniale psicoanalista-filosofo-tuttologo sloveno per illustrare il famoso motto di Wittgenstein “Ciò di cui non si può parlare si deve [o dovrebbe] tacere”.
***
La mia impressione desolante nasce soprattutto da quello di cui nessuno parla nella Sopa de Wuhan, e che invece mi sembra decisivo in una riflessione sulla pandemia: la sofferenza, il dolore delle decine migliaia di morti, dei loro parenti e dei loro amici, la solitudine di esseri, soprattutto anziani, che lasciano la vita intubati e con la testa chiusa in uno scafandro da cui hanno potuto inalare un po’ di ossigeno prima della fine.
Qui non vale l’obiezione, che ho pescato in un testo del libro in questione, secondo la quale noi ci commuoviamo solo per le vittime di questa pandemia “dei ricchi”, che ha colpito cioè solo i paesi sviluppati. A parte il fatto che ne sono vittime anche i poveri, solo Dio sa se e quando la pandemia colpirà l’Africa, in cui si concentra gran parte della povertà del pianeta. Il fatto è, comunque, che il pensiero occidentale sembra per lo più incapace di comprendere la povertà, la desolazione, il dolore in cui vive una quota rilevante di umanità - come chiamarla: i nostri simili, i nostri fratelli, il Mitmensch globale?
E non parlo di empatia, perché dubito che noi umani siamo capaci di provare vera empatia per chi non ricade sotto il nostro sguardo miope. Parlo di comprensione, di vicinanza concettuale, di condivisione se non altro teoretica di un destino comune. Altro che cooperazione strutturale planetaria. Un po’ di compassione, avrebbero detto Karl Kraus e Rosa Luxemburg. Esempio di questa incapacità è un libretto[2] in cui il già citato Žižek, turbato dall’erompere di nazionalismi e sciovinismi, propone di militarizzare i migranti, non si capisce se rinchiudendoli in qualche neo-lager oppure gettandoli a mare (nella versione Salvini) o chiudendo i porti e lasciandoli alla deriva per il loro bene (versione del governo in carica mentre scrivo).[3]
Georg Simmel ha notato una volta quanto poco del dolore degli uomini sia entrato nella loro filosofia. Il libretto da cui ho preso le mosse è una dimostrazione evidente del suo acume. In questi giorni, tante voci si levano per denunciare le misure profilattiche che ci costringono a qualcosa di simile agli arresti domiciliari (nel nostro caso di occidentali, abbastanza confortevoli). Ho letto invece pochi interventi filosofici originali, a più di 35 anni dalla morte di Foucault, sugli effetti della pandemia e delle restrizioni della libertà sui marginali, i deboli, i carcerati, gli invisibili, i vecchi abbandonati, gli homeless e tutte le minoranze che il virus e la prossima crisi economica trasformeranno probabilmente in maggioranze.
(10 aprile 2020)
[1] ^ Si può scaricare il testo all’indirizzo https://www.elextremosur.com/nota/23685-sopa-de-wuhan-el-libro-completo-y-gratis-para-leer-sobre-el-coronavirus.
[2] ^ S. Žižek, La nuova lotta di classe, Ponte alle Grazie, Firenze 2016. Leggere per credere.
[3] ^ Mi riferisco a un decreto dell’inizio di aprile del 2020 con cui il governo italiano, con il placido assenso di quasi tutte le forze politiche, chiude i porti alle navi delle Ong e alle navi da crociera.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"NUOVO REALISMO", IN FILOSOFIA. DATO L’ADDIO A KANT, MAURIZIO FERRARIS SI PROPONE COME IL SUPERFILOSOFO DELLA CONOSCENZA (QUELLA SENZA PIU’ FACOLTA’ DI GIUDIZIO).
GUARDIAMO IL NOSTRO OMBELICO: DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
Editoriale
Le menzogne, il censore e il premier
James Bond. Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia
di Norma Rangeri (il manifesto, 12.04.2020).
Qualche domanda: quante volte il premier Conte è stato attaccato in diretta tv, e sul circuito mediatico delle opposizioni, sul piano personale? E senza alcun contraddittorio? La leader che guida Fratelli d’Italia non ha forse accusato Conte di essere addirittura un “criminale”, con nessun conduttore o direttore di tg che replicasse “no, questo non si può dire in diretta tv”?
Quando mai Mentana si è indignato per le parole pesanti indirizzate al premier? E non è da censori affermare - come lui ha detto - che non avrebbe mandato in onda le accuse di Conte a Salvini e Meloni se avesse saputo?
Nemmeno gli fosse arrivata una cassetta registrata di Berlusconi come ai vecchi tempi, quando l’appello al popolo, via Vhs, veniva trasmesso da Arcore ai prediletti tg di famiglia e naturalmente a quelli della Rai plaudente. La famosa Rainvest a reti unificate.
Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia. Il diritto e il dovere di rispondere alle sonore bugie che abbeverano l’opinione pubblica grazie a una informazione molto lacunosa, se non subalterna e connivente. Il dovere di ricordare che il Mes non lo riguarda.
E infatti la Ue ha fatto presente erga omnes che l’accordo sul salva-stati passò nel 2011 durante il governo Berlusconi IV, con Meloni giovane ministra. La stessa persona che oggi vuol giocare il ruolo della vittima insieme a Salvini, proprio lui che ha usato e abusato del ruolo istituzionale di ministro dell’interno e che ora, senza pudore, si appella addirittura al Capo dello Stato, dopo aver inondato di fango e fake news Conte e il suo governo.
Le opposizioni d’altronde, giocano le loro carte. Noi che conosciamo bene il ruolo dell’opposizione, e lo teniamo in gran conto, non abbiamo mai usato le menzogne, gli insulti personali. Le destre di oggi ne fanno invece pratica quotidiana. E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi.
E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi. Oltretutto quello che sta emergendo nelle Regioni sotto la loro guida conferma responsabilità e colpevoli incapacità nell’emergenza della lotta alla pandemia.
Alzano il tiro perché ogni giorno che passa si solleva il velo su una condotta al centro di accertamenti giudiziari. Il direttore del Pio Albergo Trivulzio, indagato per epidemia e omicidio colposo, dipende dal governo di destra lombardo. E gettare la palla fuori campo serve a distrarre gli italiani dalla tragedia che stanno vivendo migliaia di famiglie per aver perso i loro cari a causa di scelte sanitarie molto pericolose per la vita dei malati.
Al contrario, chi appoggia direttamente o indirettamente questo governo, dovrebbe apprezzare un presidente del Consiglio che parla in modo chiaro, diretto, che non nasconde la realtà ai cittadini, che non si piega alle pressioni confindustriali, che non fa da sponda alle forze politiche che lo sostengono, che soprattutto non propala bufale. Forse avrebbe dovuto ricostruire meglio il caso Mes, perché non tutti sanno, anzi, ma una risposta agli italiani era necessaria.
La critica che invece va mossa riguarda proprio la coalizione di governo. Perché appare chiaro che la tragicità della situazione che attraversa ogni cellula della vita sociale, non può essere cancellata da un “vogliamoci bene”, che continua a nascondere la polvere sotto il tappeto. Tra Pd e M5S riaffiorano rivalità, visioni diverse, contrapposizioni capaci di minare il fragile terreno sul quale poggia la coalizione.
Rivedendo Conte in tv emergeva un certo nervosismo, solo in parte dovuto allo stress del momento. Nato contro i pieni poteri reclamati dalle destre, costruito in difesa di un clima democratico messo in crisi dall’odio, dal razzismo, dalla xenofobia, sempre di più questa maggioranza deve dimostrare di essere all’altezza di una proposta politica in grado di avviare la ricostruzione del paese, sgovernato da un sistema che ne ha fatto il regno europeo delle diseguaglianze.
Perché quel cambiamento verso uno stato sociale e di diritto (per i lavoratori come per gli immigrati e per i carcerati), dentro una battaglia europea cruciale e inimmaginabile senza la micidiale opera distruttrice del virus, non ammette rinvii, né concederà repliche
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI. Un invito e un appello a fare luce, a fare giorno
FLS
La realtà e i cowboy. A proposito del più grande evento mediatico della storia
di Pierangelo Di Vittorio ("Aut Aut", 07.04.2020)
Al contrario di altri scenari possibili - nei quali la catastrofe, provocando un blackout tecnologico, consegna la sopravvivenza a vecchie risorse “analogiche” - l’attuale pandemia, costringendoci a un confinamento domestico, ha invece esaltato l’uso delle tecnologie digitali. Collegarsi al computer o allo smartphone è diventata, non solo una necessità, per studiare, lavorare, comunicare, ma anche un’occasione per conservare o magari riscoprire le relazioni sociali. Chi in questi giorni non ha provato almeno una volta il piacere di ritrovarsi a chiacchierare con un gruppo di amici o di colleghi in una videochiamata collettiva? Questo potrebbe essere quindi il momento meno adatto per mettersi a fare le pulci al digitale.
Credo tuttavia che una delle poche riflessioni davvero urgenti in questo periodo riguardi, non tanto il digitale in sé, quanto alcuni effetti legati alla sua capacità di industrializzare e massificare alcune tendenze di più lungo periodo. Mi riferisco in particolare alla mediatizzazione o alla messa in spettacolo della vita quotidiana (che va beninteso di pari passo con la riduzione della realtà a merce-spettacolo). La cosiddetta rivoluzione digitale ha sicuramente introdotto delle novità rispetto all’epoca televisiva. In primo luogo, l’alta tecnologia è diventata “personale” (pc, tablet, smartphone); in secondo luogo, grazie all’accessibilità di tale tecnologia personale e di tutto quello che essa consente di fare, forse per la prima volta nella storia moderna è venuta meno la tradizionale distinzione tra proprietari dei mezzi di produzione e operai, tra produttori e consumatori, tra attori e spettatori. Si tratta quindi di una novità che introduce una discontinuità fondamentale, ma che può essere vista al tempo stesso come un ulteriore giro di vite nel lungo processo di “democratizzazione” delle nostre società, il cui esito, troppo spesso trascurato, è che l’uomo comune si ritrova al centro del sistema come una specie di divinità paradossale - essendo ciò che, per principio, si oppone a ogni forma di unicità, di eccezionalità, di trascendenza.
Ora, forse non ce ne siamo accorti, le priorità sono ben altre, ma quello che stiamo vivendo, anche per le ragioni che dicevo prima, è il più gigantesco evento mediatico della storia dell’umanità. Penso ai comunicati radio e ai cinegiornali durante la Seconda guerra mondiale; al processo contro Adolf Eichmann a Gerusalemme nel 1961; all’allunaggio di Armstrong e compagni nel 1969; alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e agli eventi sportivi di rilevanza mondiale: la pandemia li ha surclassati tutti. Perché?
Per la sua globalità, certo. Per la sua durata, anche. Per la sua gravità, indubbiamente. Ma c’è dell’altro. Credo - e qui veniamo alla novità introdotta dal digitale - che la ragione stia soprattutto nel fatto che tutti, in tutto il mondo, tutti i giorni e per molti giorni, abbiamo contribuito alla “messa in scena” della realtà della catastrofe: dal papa che usa piazza San Pietro deserta come set di un thriller apocalittico alla Dan Brown; ai grandi filosofi che usano il virus come paesaggio su cui stagliare le loro più o meno logore o inopportune teorie; alle autorità governative e sanitarie che tengono messa ogni sera; ai sindaci che se vanno in giro nelle città deserte a fare i giustizieri stile Charles Bronson; all’esercito di politici, esperti, opinionisti, giornalisti che remano come schiavi dietro una prima pagina che non cambia mai; agli uomini e le donne del mondo della cultura, dell’arte e dello spettacolo che si autopromuovono con la scusa di #iorestoacasa; a ciascuno di noi, e siamo la maggior parte, persone comuni che, oltre a riverberare all’infinito le agenzie di cui sopra, offrendo al mondo le nostre quotidiane pillole di saggezza religiosa, filosofica, scientifica, politica ecc., celebriamo noi stessi attraverso l’auto(docu)fiction, i vari diari intimi della pandemia, gli improvvisati spettacolini firmati #iorestoacasa e #celafaremo, le continue valanghe di news e fake news, video, meme e altri contenuti “umoristici” che invadono i social network, saturano le chat di whatsapp ecc.
Sì, celebriamo noi stessi, perché l’uomo comune, non dimentichiamolo, è il centro del sistema, mentre la catastrofe fa da sfondo, come il Colosseo o la Tour Eiffel in tempi “normali”, anche se questo sfondo è fondamentale, trattandosi di “capitale mediatico”, anzi, in questo momento, della soglia mediatica che dà accesso a una condizione di “esistenza” (mediatica e tout court: si può esistere oggi senza passare dalla pandemia, senza parlare del virus, senza mostrarsi con il poster della catastrofe alle spalle?). Il selfie con il virus è diventato lo sport più praticato sul pianeta. Sarà salutare? In ogni caso sembra di assistere al più grande (auto)sciacallaggio mediatico della realtà che sia mai stato compiuto nella storia dell’umanità. Sarà giusto parlarne? O saremo tacciati di disfattismo, di terrorismo? Correremo il rischio. Però chi, in questi giorni, almeno una volta, non ha pensato che la viralità mediatica della pandemia fosse almeno pari a quella biologica del virus stesso? In fondo si tratta di questo. Poi ci sono le priorità. Certo.
A dire il vero, non abbiamo dovuto aspettare la pandemia per assistere all’affermarsi di tale fenomeno: da tempo l’uomo comune è diventato il protagonista del film ininterrotto (e autoprodotto: self-cinema, come si parla di self-publishing ecc.) della propria vita quotidiana. Un film nel quale la realtà stessa è l’unica scenografia, al punto da rendere difficile distinguere dove finisca il primo e dove inizi la seconda. Un film che è solo la mediatizzazione o la messa in spettacolo della realtà più immediata, banale o triviale. Un film che è il reality show della nostra vita quotidiana.
Sarà pure legittimo chiedersi che effetti produce tutto questo sulla nostra relazione con la realtà? E quindi sulla possibilità stessa di costruire delle relazioni - con noi stessi, con gli altri, con il mondo che ci circonda? Perché, attenzione: non si tratta di sostenere, ingenuamente, che la realtà è solo “quella cosa lì” che possiamo toccare, la realtà fisica, materiale, mentre tutto il resto, ossia ciò che chiamiamo genericamente “immateriale”, appartiene al mondo della fantasia. Nulla di tutto questo.
Si tratta invece di considerare la realtà come il piano delle relazioni “possibili” (in senso kantiano), materiali o immateriali che siano. E le relazioni sono possibili nella misura in cui c’è sempre qualcosa che ci sfugge, nel senso che in esse si apre una dimensione che non ci fa mai essere del tutto a casa nostra, che entra in gioco qualcosa che ha a che fare con l’“altro”.
La relazione di realtà è quel nesso che ci connette con e attraverso una forma di alterità (a cominciare dal rapporto con noi stessi), e che ci espone quindi a qualcosa che non “padroneggiamo” mai del tutto. La realtà è il non-padroneggiabile e la relazione di realtà è ciò che ci mette in contatto con l’altro, “alterandoci” in questo stesso contatto.
Intuiamo forse quanto la ricchezza, l’ipertrofia della nostra connessione sul piano mediatico (che tende a trasformare l’eterogeneo in omogeneo, l’estraneo in familiare) vada di pari passo con una profonda, galoppante miseria della nostra connessione sul piano della realtà. Il film continuo della nostra vita quotidiana, la sua trasformazione in reality ci dissocia in modo “sistematico”, e perciò drammatico, dalla realtà stessa; ci priva di quella rete di relazioni, rischiose ma creative, che ci fanno entrare in contatto con l’alterità, che ci fanno esperire la realtà stessa come e nella sua alterità; e che attraverso il gioco dei conflitti e delle alleanze, rendono possibile la trasformazione di quello che è in qualcos’altro.
Che cosa accade invece quando la realtà diventa la scenografia della nostra vita domestica? Quando è “addomesticata” in un dispositivo mediatico del quale siamo noi stessi gli artefici e i protagonisti? Gli eterni e immutabili padroni di casa? -Succede che la vertigine dell’alterità viene meno. E questo vuol dire che ci disconnettiamo dalla realtà come piano delle relazioni possibili, e cominciamo a coltivare l’idea che la realtà stessa sia come il giardino di casa: la pericolosa illusione che, qualsiasi cosa accada, noi siamo sempre in sella e teniamo saldamente le briglie. Che si tratti di migrazioni o di cambiamenti climatici, di crack finanziari o di epidemie, ci proiettiamo e ci vediamo come gagliardi cowboy che scorrazzano nella realtà. Il che, me lo concederete, più che infantile, è idiota.
L’idiozia del tizio che fa una rapina e poi si spara un selfie con il bottino in mano all’uscita della banca pubblicandolo immediatamente su facebook - è solo un esempio di fantasia, per ridere, cioè per non piangere citando il caso, realmente accaduto, di quei ragazzi di Manduria che per anni hanno vessato e picchiato un anziano, fino a causarne la morte, e che hanno continuato a filmare e diffondere in rete le loro belle gesta. Effettivamente, in questi casi, la dissociazione - dal rapporto con la realtà e dalle connessioni che il piano della realtà rende possibili - si nota con una certa evidenza. Ma sono casi singoli, si dirà. Eccezioni. Derive. D’accordo. Ma che dire allora del film apocalittico di massa, realizzato in tempo reale e intitolato vox populi “Ai tempi del coronavirus” (circa 1.400.000.000 risultati in 0,41 secondi, appena ho lanciato la ricerca, in italiano, di questa frase su Google: oggi 6 aprile 2020)?
Fare presa sul piano di realtà è sempre importante ma, potremmo chiederci, non diventa addirittura decisivo se la realtà ha un aspetto “catastrofico” - nel senso di un evento che, sottraendoci brutalmente alla nostra routine, ci obbliga a porci almeno il “problema” di come sopravvivere? Nel momento in cui la realtà è più altra e alterante del solito, quando la padroneggiamo meno del solito, o magari non la padroneggiamo affatto, non diventa primordiale costruire una serie di relazioni possibili - come per il naufrago diventa primordiale costruire una zattera con quel poco che ha a disposizione - invece di continuare a fare i cowboy?
Forse passeremo alla storia come i passeggeri di un nuovo Titanic, occupati a farci dei selfie mentre l’iceberg, a fauci spalancate, si avvicinava alle nostre spalle.
SCIENZA, STORIA E MEMORIA. PORTARSI DOPO DEWEY ....
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ALLA LUCE DEL GRANDE “SUCCESSO” NELLA CAPACITA’ DI ANALISI DELLA DIFFUSIONE DEL CORONAVIRUS mostrato dal CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (“Coronavirus. Rischio basso, capire condizioni vittime”, 22/02/2020), e della condivisione dei suoi “risultati” da parte di Giorgio AGAMBEN (”Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”, il manifesto, 26/02/2020) , CONDIVIDENDO l’urgenza di accogliere “La sfida del Covid-19 alle scienze umane”, mi sia lecito rinviare ad alcune note dell’anno scorso (2019) proprio sul tema del “processo di apprendimento nelle due culture”. Forse, è proprio ora di uscire dal letargo e riprendere la navigazione “sotto coverta” e “il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” con Galileo Galilei. O no?!
LA SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL “VIRUS”, LA “PACE PERPETUA”, E LA RISATA DI KANT. Nota ... *
* Nota:
LA SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL “VIRUS”, LA “PACE PERPETUA”, E LA RISATA DI KANT...
CONSIDERATO, PURTROPPO, CHE ” Le riflessioni” di Agamben non riguardano l’epidemia del CORONAVIRUS, “ma ciò che possiamo capire dalle reazioni degli uomini ad essa”, ACCOLTA “L’ipotesi [...] che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già [...]”
E CONDIVISA L’IDEA CHE BISOGNA RIFLETTERE SUL “[...] bisogno di religione che la situazione fa apparire. Ne è indizio, nel discorso martellante dei media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto sulla stampa americana, alla parola «apocalisse» e evoca, spesso esplicitamente, la fine del mondo [...]”
E, ANCORA, CHE “come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure. [....] sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata” (cf. G. Agamben, “Riflessioni...” : https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste),
PER NON PERDERE IL “FILO” DI “SOFIA” E, CON ESSA, ANCHE LA VITA E LA “SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL SUO “SAPERE AUDE!”, IO RIPRENDEREI IL DISCORSO dalla citazione evangelica, utilizzata anche dallo stesso Agamben in “Pilato e Gesù” (nottetempo 2013), relativa al problema dell’ ECCE HOMO (cfr. RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO ... http://www.leparoleelecose.it/?p=37854#comment-426632) e dalla LEZIONE DI KANT sull’UOMO SUPREMO DI EMANUEL SWEDENBORG (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028) E SULLA “fine di tutte le cose” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5026). O no?! Boh e bah?!
Federico La Sala
ExtraTerrestre
«Ho scoperto con delusione che Benetton non è il progressista che viene raccontato»
di Riccardo Bottazzo (il manifesto, 19.03.2020)
Se ne è andato sbattendo la porta, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo, uno dei massimi pensatori moderni sul tema del paesaggio, già professore ordinario di Filosofia Morale ed Estetica in tante università italiane. I suoi ex colleghi della Fondazione Benetton, racconta, «si sono molto arrabbiati con me e mi ritengono impazzito» ma lui non rimpiange la sue scelta e ora lavora per far conoscere al mondo la storia del popolo mapuche. Una storia esemplare di tante che hanno afflitto i popoli originari del Sudamerica, «veri difensori della natura senza i falsi miti sullo sviluppo sostenibile neoliberista», spiega. «Distruggendoli, come sta avvenendo anche in Amazzonia, non facciamo altro che annientare noi stessi con il pianeta in cui viviamo».
Nel 1994 lei ha iniziato una collaborazione con la Fondazione Benetton, facendo anche parte, dal 2008, della giuria del premio Carlo Scarpa. Cosa l’ha spinta a chiudere questa collaborazione?
Aver scoperto con grande delusione che Benetton non è l’imprenditore progressista dell’immagine antirazzista costruita nel nostro paese e pubblicizzata da parte della stampa nazionale con cospicue pubblicità. Non potevo più collegare per le ragioni etiche, esposte nella mia lettera di dimissioni, il mio nome all’azienda, sia pur nell’autonomia della Fondazione.
In una lettera a Luciano Benetton lei scrive «Un luogo non è una merce, ha la sua storia e, anche se acquistato col denaro, appartiene a chi lo abita nel tempo e nello spazio e non può essere sottratto con il suo commercio agli abitanti secolari, come è avvenuto». Ha mai avuto una risposta?
Sì, ho avuto una risposta tramite la compagna e a.d. di Fabrica Laura Pollini che in un incontro cordiale, seguito poi da un carteggio, ha difeso l’operato dell’azienda ed ha tentato di farmi desistere dalle dimissioni. Ma la questione è culturale ed etica: non rendersi conto di aver acquistato una terra che apparteneva a un popolo ancora vivo, al quale era stata tolta in precedenza con la violenza: una storia conosciuta che da noi passa sotto silenzio anche se ora ci sono spiragli di conoscenza grazie al lavoro di voi giornalisti indipendenti.
La Fondazione si propone come l’anima candida della Benetton, ma è eticamente sostenibile distinguere i due aspetti di una stessa azienda?
No, non è eticamente sostenibile e per questo mi sono dimesso. Molti miei ex colleghi nascondono la testa come gli struzzi e non vogliono guardare oltre il proprio naso. Ma la Fondazione ha un passato e un nome prestigiosi che da lustro a tutti i membri del comitato scientifico. Alcuni non sarebbero conosciuti se non come tali.
In Italia sono pochissime le persone informate sulla questione mapuche. E’ una questione legata al poco spazio che i nostri media notoriamente concedono alle questioni internazionali oppure c’è una politica di invisibilizzazione del problema costruita anche con la complicità della Fondazione?
Se ne parla poco e sulla questione c’è un assordante silenzio. La famiglia Benetton è molto potente in Italia ed inattaccabile. Con le autostrade ha incominciato a sgretolarsi. La Patagonia rimane lontana e, in un certo senso, blindata. Ha avuto l’appoggio del governo Macrì nella battaglia contro i mapuche che solo ora cominciano a trovare giudici onesti ed a vincere qualche causa. Pian piano il caso esce dal suo silenzio. Non posso parlare tout court di complicità della Fondazione per l’invisibilizzazione del problema perché la maggior parte dei membri e dei frequentatori non lo conoscono, non sono informati o non informano. Luciano Benetton è risentito con me perché farei apparire il comitato scientifico come connivente di uno sfruttatore di indigeni. Quindi può immaginare come in realtà tenga al buon nome della Fondazione che eviterebbe d’indagare a fondo i loro affari proprio con il proprio operato.
I mapuche denunciano l’impossibilità di avere anche un semplice confronto con l’azienda. Alcune comunità troverebbero grande giovamento anche da piccole azioni come l’apertura invernale di un cancello per far passare il bestiame. Non crede che Benetton abbia sposato per principio la linea dura e consideri tutti i mapuche come un fastidio di cui liberarsi il prima possibile?
È proprio questo il problema. Imputo a Benetton di non aver fatto passi sostanziali verso i mapuche, forse per non riconoscerli come popolo. L’ho invitato più volte a sedersi a un tavolo con i mapuche con la mediazione dei colleghi antropologi e indigenisti dell’Uba, Università di Buenos Aires, uno spazio neutro scientifico per un incontro comune, per trovare una soluzione che non sia la repressione, cioè riconoscerli come entità umana e giuridica. Una popolazione storicamente sfrattata non è un fastidio. Parliamo di una popolazione che ha una cultura e una cosmologia straordinaria. Su di loro sono stati scritti libri. Sono i Benetton a non avere alle spalle una cultura solida!
L’articolo 17 della Costituzione argentina è dedicato alla salvaguardare dei popoli originari. Le sembra che siano stati fatti passi avanti in questo senso?
No. La cosa importante in questa questione infatti, è battersi per il riconoscimento giuridico del popolo mapuche dando loro una riconoscibilità chiara e definita come popolo. Per questo dobbiamo batterci in Italia, nel mondo e in Argentina per affermare e realizzare questo principio costituzionale che permetterebbe ai mapuche di tornare al possesso comunitario delle loro terre per vivere come popolo e aiutarci a difendere l’ambiente perché, ricordiamoci, solo l’interculturalità potrà salvarci frenando il rovinoso neoliberismo. Luciano Benetton non avrebbe più scuse. Se volesse davvero restituire territori, potrebbe interessarsi alla causa del riconoscimento giuridico di queste comunità e sedersi a un tavolo comune della pace e restituzione che sarebbe un evento mondiale di grande risonanza e un nobile precedente straordinario in cui spero ancora. Credo che questo per lui possa valere di più di altri profitti fini e se stessi: un nome da consegnare alla pace e non alla violenza.
Tu quis es?
Intellettuali
di Ivano Dionigi (Avvenire, martedì 17 marzo 2020)
Dove sono finiti gli intellettuali, figure che mettano il loro sapere a confronto col potere e a frutto del bene comune ? Per i quali la virtù sia per se ipsa praemium ? Che abbiano nel sangue il senso del destino delle persone ? Missing, scomparsi. Sostituiti da intrattenitori, giornalisti, velinari, rappresentanti politici, tecnici delle singole discipline. Dovunque ti giri, stesso spettacolo : loquaces, muti sunt, « blaterano, ma sono muti », direbbe Agostino.
Tra le diverse cause di questa scomparsa, direi anzitutto il primato indiscusso della comunicazione, questo rinnovato impero della retorica, che impone messaggi semplice e semplificati, e che ai pensieri lunghi preferisce gli slogan.
E poi loro, gli intellettuali, i quali, non si fanno scrupolo di scodinzolare attorno al principe o principino di turno e di asservirsi al potere, tradendo quella “convinzione” e quella “responsabilità” che dovrebbero caratterizzarli.
Infine i partiti, che, tra miopia e istinto di sopravvivenza, hanno ridotto la politica a pratica amministrativa oppure a pura spartizione di potere, estranea al pensiero e al progetto.
Fanno riflettere le parole di Socrate, lontano dalle cariche pubbliche e condannato dalle leggi della città : «Io credo di essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti » (Gorgia 521 d).
L’ “8 SETTEMBRE”, LA “CORONA-VIRUS”, E UNA “PACE PERPETUA”. Ora il “capro espiatorio” siamo noi, l’intero genere umano ...
ALLA LUCE DEL FATTO che i “vescovi fiorentini hanno vietato di scambiarsi il segno della pace durante il rito della messa”, che a “Lourdes hanno chiuso l’accesso alle acque miracolose”, “per CARITA’, UN LAICO ILLUMINISTA” (cfr. Mario Pezzella, “Sarà un 8 settembre?, "Le parole e le cose”, 11 marzo 2020) può pure compiacersi di “quanto la fede religiosa sia diventata un gadget turistico, che non regge di fronte a uno stato di necessità”, MA NON PUO’ CONTINUARE A “DORMIRE”, A PENSARE COME SE FOSSE TUTTO COME “PRIMA” E RIPROPORRE LA STESSA “MINESTRA”:
SE NON SAPPIAMO ANCORA che cosa significa “pensare dentro l’emergenza”, forse, è bene CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO”, E CERCARE DI CAPIRE COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA SUA LEZIONE.
A DISTANZA DI SECOLI, e dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Lacan e dopo Foucault (il Foucault di “Che cosa è l’Illuminismo?”, 1983/1984), continuiamo a non capire che il “capro espiatorio” non è un caprone (cfr. “La crisi dell’Europa. Note per una riflessione storiografica”), ma un montone, un ariete, venuto a portarci in salvo (cfr.: “Guarire la nostra Terra. Necessità di “pensare un altro Abramo”), non a “sacrificarsi” per noi!!! Al contrario, oggi, l’intero genere umano, “noi stessi” ci apprestiamo a fare da “capro espiatorio” - e, pronti per la “pace perpetua” (cfr. Fine della Storia o della “Preistoria”?), abbiamo già messo sulla “nostra” testa la “corona” del sacrificio! O no?!
Federico La Sala
Il capro espiatorio
di Pier Aldo Rovatti (*)
La nostra storia ha prodotto ininterrottamente capri espiatori. Minoranze, intere popolazioni, gruppi sociali e comportamenti sono stati stigmatizzati. La storia recente e contemporanea conosce vicende quasi impensabili come la persecuzione e l’eliminazione di milioni di ebrei durante il regime nazista, ma poi c’è un intero tessuto che continua a innervare il presente, anche là dove l’evoluzione sociale e il progresso materiale avrebbero dovuto cancellarlo, dallo stigma che ancora pesa sui folli o che non ha cessato di discriminare gli omosessuali e perfino le donne.
Oggi l’esempio più clamoroso è costituito dai migranti, sui quali riversiamo le nostre ansie considerandoli spesso alla stregua di orde barbariche che invadono la civile società in cui crediamo di vivere. Ma gli esempi possono moltiplicarsi, dalla paura che ormai ovunque possa celarsi un terrorista al semplice disagio con cui sperimentiamo la prossimità di chi ci appare diverso da noi e dunque capace di disturbare la nostra presunta identità.
Capri espiatori possono dunque essere intere popolazioni o anche singoli atteggiamenti, drammatici fenomeni sociali che si esprimono con un clamore generale oppure insidiosi fenomeni individuali che possiamo verificare nell’ambito ristretto e quotidiano delle nostre vite. Parlo di “capri espiatori” perché questa espressione, che ci arriva dalla notte dei tempi, non solo mantiene un senso fruibile nella sua esplicita chiarezza, ma anche perché, se ci fermiamo un momento a riflettere sulla sua provenienza e le sue implicazioni, ci può aiutare a orientarci dentro i nostri stessi problemi. La festività pasquale ci ha appena ricordato un indizio collegato al mondo cristiano e precisamente alla figura di Gesù Cristo che si sacrifica perché attraverso di lui i credenti rimettano le loro colpe. Al posto di un ispido caprone abbiamo in questo caso un grazioso ma altrettanto innocente agnellino a esercitare la funzione di animale simbolico.
L’ispido caprone o capro appare molto prima nelle parole della Bibbia intitolate al “Levitico”, cioè nel fondo della cultura ebraica e della sua mitologia. Se andiamo a leggere queste parole, scopriamo che in origine i capri sono due, uno il cui sacrificio ha una funzione espiatoria e un altro che svolge il ruolo di “emissario” e viene mandato a perdersi nel deserto, come se non bastasse la cerimonia dell’espiazione dei peccati o delle colpe degli uomini e occorressero quindi un supplemento e uno sdoppiamento, un prolungamento dell’espiazione affidata appunto a un emissario che porti con sé e disperda nello spazio e nel tempo queste colpe.
Ricordando l’origine dell’espressione, balza agli occhi che il significato che oggi le attribuiamo è molto distante, quasi antitetico. È sparita ogni pratica positiva di espiazione attraverso un tramite simbolico e al suo posto troviamo invece l’attribuzione della colpa a un altro soggetto che automaticamente diventa il colpevole. Costui viene caricato di ogni colpa grazie a un’identificazione abnorme. Il capro non era un soggetto o un insieme di soggetti da degradare, era invece un animale simbolico completamente innocente dotato di un formidabile potere espiatorio: esso era supposto possedere un’efficacia reale sullo sviluppo della presa di coscienza di se stessi. Oggi, il cosiddetto capro espiatorio è la vittima prescelta, il colpevole che sta al posto nostro, il nemico sul quale possiamo proiettare ogni male.
Rimando chi volesse entrare nella complessità della questione a un saggio che è ormai diventato un “classico” in proposito, Il capro espiatorio (titolo originale Le bouc émissaire) di René Girard, pubblicato nel 1982 (e tradotto da Adelphi nel 1999). A questo libro si è anche ispirato lo scrittore Daniel Pennac: “Malaussène”, il personaggio da lui inventato per costruirci attorno una serie di romanzi, comici e al tempo stesso seri, ambientati in un quartiere popolare di Parigi, è un capro espiatorio di professione. Pennac arriva anche a immaginare che in un ipermercato vi sia un ufficio dove la clientela possa liberamente esternare le sue lamentele a un funzionario (appunto Malaussène) che è lì proprio per dar ragione a tutti e assumersi ogni colpa. È un contrappasso letterario e sorridente di quanto accade nella dura realtà dei giorni nostri. Tra l’altro, dopo un lungo silenzio, Pennac riprende la sua saga con Il caso Malaussène, annunciato ora da Feltrinelli.
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AUT AUT - IL SAGGIATORE (uscito su "Il Piccolo", 21 aprile 2017 - ripresa parziale).
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
PSICOANALISI, POLITICA, E SOCIETA’. "PADRI", "FIGLI", E QUESTIONE ANTROPOLOGICA - "EDIPICA"...*
I giovani infelici
di Pier Paolo Pasolini ("primi giorni del 1975")*
Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri.
Non importa se i figli sono buoni, innocenti, pii: se i loro padri hanno peccato, essi devono essere puniti.
È il coro - un coro democratico - che si dichiara depositario di tale verità: e la enuncia senza introdurla e senza illustrarla, tanto gli pare naturale.
Confesso che questo tema del teatro greco io l’ho sempre accettato come qualcosa di estraneo al mio sapere, accaduto «altrove» e in un «altro tempo». Non senza una certa ingenuità scolastica, ho sempre considerato tale tema come assurdo e, a sua volta, ingenuo, «antropologicamente» ingenuo.
Ma poi è arrivato il momento della mia vita in cui ho dovuto ammettere di appartenere senza scampo alla generazione dei padri. Senza scampo, perché i figli non solo sono nati, non solo sono cresciuti, ma sono giunti all’età della ragione e il loro destino, quindi, comincia a essere ineluttabilmente quello che deve essere, rendendoli adulti.
Ho osservato a lungo in questi ultimi anni, questi figli. Alla fine, il mio giudizio, per quanto esso sembri anche a me stesso ingiusto e impietoso, è di condanna. Ho cercato molto di capire, di fingere di non capire, di contare sulle eccezioni, di sperare in qualche cambiamento, di considerare storicamente, cioè fuori dai soggettivi giudizi di male e di bene, la loro realtà. Ma è stato inutile. Il mio sentimento è di condanna. I sentimenti non si possono cambiare. Sono essi che sono storici. È ciò che si prova, che è reale (malgrado tutte le insincerità che possiamo avere con noi stessi). Alla fine - cioè oggi, primi giorni del ’75 - il mio sentimento è, ripeto, di condanna. Ma poiché, forse, condanna è una parola sbagliata (dettata, forse, dal riferimento iniziale al contesto linguistico del teatro greco), dovrò precisarla: più che una condanna, infatti il mio sentimento è una «cessazione di amore»: cessazione di amore, che, appunto, non da luogo a «odio» ma a «condanna».
Io ho qualcosa di generale, di immenso, di oscuro da rimproverare ai figli. Qualcosa che resta al di qua del verbale: manifestandosi irrazionalmente, nell’esistere, nel «provare sentimenti». Ora, poiché io - padre ideale - padre storico - condanno i figli, è naturale che, di conseguenza, accetti, in qualche modo l’idea della loro punizione.
Per la prima volta in vita mia, riesco così a liberare nella mia coscienza, attraverso un meccanismo intimo e personale, quella terribile, astratta fatalità del coro ateniese che ribadisce come naturale la «punizione dei figli».
Solo che il coro, dotato di tanta immemore, e profonda saggezza, aggiungeva che ciò di cui i figli erano puniti era la «colpa dei padri».
Ebbene, non esito neanche un momento ad ammetterlo; ad accettare cioè personalmente tale colpa. Se io condanno i figli (a causa di una cessazione di amore verso di essi) e quindi presuppongo una loro punizione, non ho il minimo dubbio che tutto ciò accada per colpa mia. In quanto padre. In quanto uno dei padri. Uno dei padri che si son resi responsabili, prima, del fascismo, poi di un regime clerico-fascista, fintamente democratico, e, infine, hanno accettato la nuova forma del potere, il potere dei consumi, ultima delle rovine, rovina delle rovine.
La colpa dei padri che i figli devono pagare è dunque il «fascismo», sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove - nuove senza equivalenti possibili nel passato?
Mi è difficile ammettere che la «colpa» sia questa. Forse anche per ragioni private e soggettive. Io, personalmente, sono sempre stato antifascista, e non ho accettato mai neanche il nuovo potere di cui in realtà parlava Marx, profeticamente, nel Manifesto, credendo di parlare del capitalismo del suo tempo. Mi sembra che ci sia qualcosa di conformistico e troppo logico - cioè di non-storico - nell’identificare in questo la colpa.
Sento ormai intorno a me lo «scandalo dei pedanti» - seguito dal loro ricatto - a quanto sto per dire. Sento già i loro argomenti: è retrivo, reazionario, nemico del popolo chi non sa capire gli elementi sia pur drammatici di novità che ci sono nei figli, chi non sa capire che essi comunque sono vita. Ebbene, io penso, intanto, che anch’io ho diritto alla vita - perché, pur essendo padre, non per questo cesso di essere figlio. Inoltre per me la vita si può manifestare egregiamente, per esempio, nel coraggio di svelare ai nuovi figli, ciò che io veramente sento verso di loro. La vita consiste prima di tutto nell’imperterrito esercizio della ragione: non certo nei partiti presi, e tanto meno nel partito preso della vita, che è puro qualunquismo. Meglio essere nemici del popolo che nemici della realtà.
I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà.
Dopo aver elevato verso i padri barriere tendenti a relegare i padri nel ghetto, si son trovati essi stessi chiusi nel ghetto opposto. Nei casi migliori, essi stanno aggrappati ai fili spinati di quel ghetto, guardando verso noi, tuttavia uomini, come disperati mendicanti, che chiedono qualcosa solo con lo sguardo, perché non hanno coraggio, ne forse capacità di parlare. Nei casi né migliori né peggiori (sono milioni) essi non hanno espressione alcuna: sono l’ambiguità fatta carne. I loro occhi sfuggono, il loro pensiero è perpetuamente altrove, hanno troppo rispetto o troppo disprezzo insieme, troppa pazienza o troppa impazienza. Hanno imparato qualcosa di più in confronto al loro coetanei di dieci o vent’anni prima, ma non abbastanza. L’integrazione non è un problema morale, la rivolta si e codificata. Nei casi peggiori, sono dei veri e propri criminali. Quanti sono questi criminali? In realtà, potrebbero esserlo quasi tutti. Non c’è gruppo di ragazzi, incontrato per strada, che non potrebbe essere un gruppo di criminali. Essi non hanno nessuna luce negli occhi: i lineamenti sono lineamente contraffatti di automi, senza che niente di personale li caratterizzi da dentro. La stereotipia li rende infidi. Il loro silenzio può precedere una trepida domanda di aiuto (che aiuto?) o può precedere una coltellata. Essi non hanno più la padronanza dei loro atti, si direbbe dei loro muscoli. Non sanno bene qual è la distanza tra causa ed effetto. Sono regrediti - sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita - a una rozzezza primitiva. Se da una parte parlano meglio, ossia hanno assimilato il degradante italiano medio - dall’altra sono quasi afasici: parlano vecchi dialetti incomprensibili, o addirittura tacciono, lanciando ogni tanto urli gutturali e interiezioni tutte di carattere osceno. Non sanno sorridere o ridere. Sanno solo ghignare o sghignazzare. In questa enorme massa (tipica, soprattutto, ancora una volta!, dell’inerme Centro-Sud) ci sono delle nobili élites, a cui naturalmente appartengono i figli dei miei lettori. Ma questi miei lettori non vorranno sostenere che i loro figli sono dei ragazzi felici (disinibiti o indipendenti, come credono e ripetono certi giornalisti imbecilli, comportandosi come inviati fascisti in un lager). La falsa tolleranza ha reso significative, in mezzo alla massa dei maschi, anche le ragazze. Esse sono in genere, personalmente, migliori: vivono infatti un momento di tensione, di liberazione, di conquista (anche se in modo illusorio). Ma nel quadro generale la loro funzione finisce con l’essere regressiva. Una libertà «regalata», infatti, non può vincere in esse, naturalmente, le secolari abitudini alla codificazione.
Certo: i gruppi di giovani colti (del resto assai più numerosi di un tempo) sono adorabili perché strazianti. Essi, a causa di circostanze che per le grandi masse sono finora solo negative, e atrocemente negative, sono più avanzati, sottili, informati, dei gruppi analoghi di dieci o vent’anni fa. Ma che cosa possono farsene della loro finezza e della loro cultura?
Dunque, i figli che noi vediamo intorno a noi sono figli «puniti»: «puniti», intanto, dalla loro infelicità, e poi, in futuro, chissà da che cosa, da quali ecatombi (questo è il nostro sentimento, insopprimibile).
Ma sono figli «puniti» per le nostre colpe, cioè per le colpe dei padri. È giusto? Era questa, in realtà, per un lettore moderno, la domanda, senza risposta, del motivo dominante del teatro greco.
Ebbene sì, è giusto. Il lettore moderno ha vissuto infatti un’esperienza che gli rende finalmente, e tragicamente, comprensibile l’affermazione - che pareva cosi ciecamente irrazionale e crudele - del coro democratico dell’antica Atene: che i figli cioè devono pagare le colpe dei padri. Infatti i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità. Sarebbe troppo facile e, in senso storico e politico, immorale, che i figli fossero giustificati - in ciò che c’è in loro di brutto, repellente, disumano - dal fatto che i padri hanno sbagliato. L’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, ma dell’altra metà sono responsabili loro stessi. Non ci sono figli innocenti. Tieste è colpevole, ma anche i suoi figli lo sono. Ed è giusto che siano puniti anche per quella metà di colpa altrui di cui non sono stati capaci di liberarsi.
Resta sempre tuttavia il problema di quale sia in realtà, tale «colpa» dei padri.
È questo che sostanzialmente, alla fine, qui importa. E tanto più importa in quanto, avendo provocato una cosi atroce condizione nei figli, e una conseguente così atroce punizione, si deve trattare di una colpa gravissima. Forse la colpa più grave commessa dai padri in tutta la storia umana. E questi padri siamo noi. Cosa che ci sembra incredibile.
Come ho già accennato, intanto, dobbiamo liberarci dall’idea che tale colpa si identifichi col fascismo vecchio e nuovo, cioè coll’effettivo potere capitalistico. I figli che vengono oggi cosi crudelmente puniti dal loro modo di essere (e in futuro, certo, da qualcosa di più oggettivo e di più terribile), sono anche figli di antifascisti e di comunisti.
Dunque fascisti e antifascisti, padroni e rivoluzionari, hanno una colpa in comune. Tutti quanti noi, infatti, fino oggi, con inconscio razzismo, quando abbiamo parlato specificamente di padri e di figli, abbiamo sempre inteso parlare di padri e di figli borghesi.
La storia era la loro storia.
Il popolo, secondo noi, aveva una sua storia a parte, arcaica, in cui i figli, semplicemente, come insegna l’antropologia delle vecchie culture, reincarnavano e ripetevano i padri.
Oggi tutto è cambiato: quando parliamo di padri e di figli, se per padri continuiamo sempre a intendere i padri borghesi, per figli intendiamo sia i figli borghesi che i figli proletari. Il quadro apocalittico, che io ho abbozzato qui sopra, dei figli, comprende borghesia e popolo.
Le due storie si sono dunque unite: ed è la prima volta che ciò succede nella storia dell’uomo.
Tale unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello «sviluppo». Non si può dire che gli antifascisti in genere e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario - per la prima volta veramente totalitario - anche se la sua repressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività).
La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di non antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberarti della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti «i nostri fratelli cretini», come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione - tanto più colpevole quanto più inconsapevole - della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo.
Perché tale complicità col vecchio fascismo e perché tale accettazione del nuovo fascismo?
Perché c’è - ed eccoci al punto - un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.
In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
* Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane. Roma 1991, 5-12.
*SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
FACHINELLI, PASOLINI E IL LORO DIALOGO IN-INTERROTTO ... (Alfabeta 2, 28.06.2018)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
UN NUOVO UMANESIMO?! Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Coronavirus, il fatto «sociale totale» nel quale specchiarsi
di Filippo Barbera (il manifesto, 04.03.2020)
Un fatto sociale totale - nella definizione del grande antropologo Marcel Mauss - è qualcosa in grado di influenzare e determinare un insieme di fenomeni coinvolgendo la gran parte dei meccanismi di funzionamento della comunità di riferimento. Per Mauss il fatto sociale totale per antonomasia era il dono, in quanto capace di unire le pratiche e le cornici di senso riferibili ad aspetti mitopoietici, economici, politici, espressivi e religiosi. Il fatto sociale totale permetterebbe così di interpretare «pezzi» apparentemente lontani e diversi della stessa società.
Mani pulite, in questo senso, è stato un fatto sociale totale: ha scosso le diverse fondamenta della società italiana e ne ha messo in luce i tratti e le dinamiche politiche, culturali, economiche e simboliche. Oggi, il coronavirus svolge la stessa funzione. Ogni misura sanitaria e di igiene pubblica è intimamente politica, tanto nelle sue cause che nelle sue conseguenze, si intende. Ma le misure decise in occasione della comparsa del coronavirus rivelano - come un reagente chimico - qualcosa di profondo e «totale» sulla società e politica italiane, nonché sulle sue credenze diffuse, modelli culturali e struttura economica. Il coronavirus mostra con ogni possibile forza come la vita politica italiana sia intrappolata - non da oggi - in un’arena hobbesiana, dove la divisione fra amici e nemici si sovrappone ai confini fra gruppi in competizione per il potere e l’influenza. Dove è assente un contesto condiviso (la Costituzione, la Nazione, la Patria, la Repubblica, etc.) che permette a questi gruppi di competere correndo dei rischi politici.
Nelle arene hobbesiane il rischio politico è accuratamente evitato dai gruppi in competizione che utilizzano la logica amico/nemico. La strategia razionale in un contesto come questo è - di fronte a un evento improvviso e in assenza di esperienza pregressa - quella di minimizzare il rischio politico delle decisioni prese. Non poter essere accusati di non «aver fatto tutto il possibile» per le persone contagiate o per bloccare il contagio (a prescindere dalle sue conseguenze), non dover essere obbligati a rifiutare ricoveri in terapia intensiva ad anziani con febbre e polmonite, non diventare oggetto di attacchi e accuse stigmatizzanti.
Consideriamo le misure sanitarie. Quelle previste dal ministero con le tre classi di rischio e misure proporzionate sono intese a contenere i focolai in modo che si esauriscano all’interno e non si allarghino alle aree ancora indenni. Il tutto basato sull’assunzione che il danno di una epidemia diffusa o addirittura di una pandemia sia più alto dei danni sociali ed economici attesi. Questa assunzione sembra eccessiva, dato che per quanto se ne sa finora, la severità delle conseguenze di questa influenza un po’ più grave non sarebbe così alta, soprattutto in una stagione invernale con una influenza vera molto mite.
Ciò che giustifica le assunzioni alla base delle misure prese è la minimizzazione del rischio politico, il non volersi esporre alle accuse che certamente pioverebbero da nemici e falsi ex amici, anche in assenza di una giustificazione basata sul calcolo costi-benefici. La minimizzazione del rischio politico è una metrica ipertrofica che si «mangia» tutte le altre, riducendole a semplici giustificazioni ex post. Dall’assalto ai supermercati, alla speculazione sui prezzi delle mascherine, alle dichiarazioni dei politici, alla crisi dell’export, del polo della logistica e del turismo, il coronavirus è il nostro miglior specchio. Dovremmo avere il coraggio di guardarlo senza abbassare lo sguardo.
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA (COME DEGLI U.S.A.). LE "ALLEGRE" CONSEGUENZE DEL "DIMENTICARE KANT!" DI GUSTAVO BONTADINI ... *
Ricordando Bontadini nel giorno della sua nascita
Intervista raccolta da padre Aldo Bergamaschi
Domanda: Prof. Bontadini, se un oscuro ma assiduo frequentatoredel Perípatos avesse avuto l’opportunità di intervistare Aristotele con una macchina da presa, che cosa, secondo Lei, avrebbe dovuto chiedergli? Risposta: Beh, certo poteva chiedergli tante cose, presentargli tutto l’elenco delle cose che non sono accettabili nei suoi scritti, perché ce ne sono; ma se fossi stato io quell’oscuro frequentatore gli avrei chiesto - immagino di trovarlo ormai vecchio e quindi solo come sono tutti i vecchi, abbandonato: eh, ti sembra di essere stato giusto, equo col tuo maestro Platone, non senti qualche rimorsodi coscienza per averlo trattato come l’hai trattato? Intendo teoreticamente.
D: D’accordo, sicché Lei si sarebbe rivolto ad Aristotele teoretico e non certamente all’Aristotele empirico. Bene, io mi trovo nei medesimi panni, cioè io sono quest’oscuro intervistatore, però un assiduo frequentatore del Perípatos, diciamo, milanese. Le domando, anzitutto, quali sono i traguardi che Lei ha programmato e quali sono invece stati esplorati con successo?
R: Beh, i traguardi erano immensi, perché quando si è giovani non si pongono limiti alle proprie possibilità; poi, quelli che invece ho realizzato, sono pochissimi. Anzi, si riducono, si sono andati riducendo sempre di più; si riducono a quello che io e i miei amici chiamiamo volentieri il discorso breve, cioè l’essenzializzazione della metafisica dell’essere. Questo è un traguardo che ritengo ormai di avere sufficientemente conseguito: questa rigorizzazione del discorso metafisico.
D: D’accordo, ma prima di arrivare, appunto, alla discussione su questa rigorizzazione, io Le vorrei chiedere il risultato delle sue ricerche sullo gnoseologismo moderno. Può dirci, in breve, in che cosa consistono queste ricerche? R: Sì, la discussione dello gnoseologismo moderno è stata una delle tappe che ho dovuto percorrere per arrivare a quel risultato che ho detto prima, cioè per difendere e per fondare la metafisica e fare i conti col pensiero moderno, che è essenzialmente antimetafisico.
D: D’accordo.
R: E allora le analisi di struttura degli autori, dei grandi autori moderni, mi hanno, per dirlo naturalmente in modo sintetico, in brevi parole (perché il discorso qui sarebbe lunghissimo), mi hanno messo dinanzi questa situazione: la filosofia moderna è un ciclo di pensiero che fa dimenticare se stessa, perché la sua conclusione toglie il suo punto di partenza. Il suo punto di partenza è quello che io chiamo (e molti altri amici sono d’accordo nel chiamare) il presupposto realistico o il presupposto naturalistico: l’ammissione dogmatica della dualità di essere e di pensiero. La tematica, l’indagine dei filosofi moderni si svolge soprattutto su questo presupposto, traendone le conseguenze. La principale conseguenza è la concezione fenomenistica. Cioè: se l’essere è altro dal pensiero, ciò che noi conosciamo non è l’essere, ma è il fenomeno, ciò che appare. L’ulteriore passo della filosofia moderna può essere rappresentato (parlo sempre brevemente e sinteticamente, in forma molto approssimativa) dall’idealismo, il quale trae questa ulteriore conseguenza: se noi abbiamo a che fare soltanto col fenomeno, non possiamo neanche affermare l’esistenza del noumeno, e quindi il pensiero si chiude in qualche maniera in se stesso.
D: Scusi se La interrompo, ma se uno studente liceale Le dovesse chiedere una lezione breve sull’errore di Cartesio, Lei come strutturerebbe questa lezione breve?
R: Ecco, quello di Cartesio non è un errore; è anzi la presa di coscienza di una situazione speculativa in cui si trovava la sua epoca. Questa situazione speculativa Cartesio la eredita dalla tarda scolastica, dal tardo medioevo, come ha messo molto bene in luce Gilson, specialmente nel commento, nell’amplissimo commento fatto al Discours de la méthode, per mostrare quanti elementi medievali della tarda scolastica sono ancora presenti nella problematica cartesiana. Non è un errore. Anzi, il suo merito è quello di avere tratto le conseguenze di questo presupposto (e in metafisica, in buona dottrina, ogni presupposto deve essere eliminato e deve essere scartato); Cartesio ha indicato per quale via noi eravamo costretti a camminare sotto la pressione, sotto la spinta di questo presupposto, il quale ha portato poi alle varie tappe della filosofia moderna. In questo senso, Cartesio è stato veramente il padre della filosofia moderna.
D: Quindi Lei lo ritiene padre, ma c’è al fondo un errore? O non c’è? Ad esempio, lo smarrimento dell’essere?
R: C’è lo smarrimento dell’essere, e questo è un errore, ma non è di Cartesio, è del suo tempo; è di tutti. È un’eredità. È anche una condizione partecipe del senso comune che l’essere è qualche cosa di altro dal conoscere, no? È il cosiddetto realismo, al quale la filosofia moderna ha sostituito, dapprima il fenomenismo, e poi, addirittura, l’idealismo. Il significato speculativo dell’idealismo, con cui in qualche maniera si conclude il ciclo moderno, è il semplice toglimento del presupposto naturalistico - formalmente in quanto presupposto.
D: Ecco, abbia la cortesia di spiegarci in cosa consiste questo presupposto realistico.
R: È semplicissimo: è l’assunto che l’essere è altro dal pensiero. Io potrei dare - siamo nel secondo centenario della Critica della ragion pura, che fu pubblicata nel 1781 - ad uno studente di liceo, ma più che ad uno studente di liceo, anche a un contadino che incontrassi per la strada e mi chiedesse qualcosa di quest’opera, potrei dare, ecco, il più breve riassunto che si può fare di quest’opera (che consta di molte centinaia di pagine), ed è questo: dato che l’essere è altro dal pensiero, la scienza dell’essere, cioè la metafisica, non è possibile. Questo è il riassunto più sintetico della Critica della ragion pura. Poi c’è tutta quest’opera meravigliosa (da visitare), una delle opere più geniali che siano mai state scritte nella storia della filosofia. Vi si intrecciano una quantità di motivi che riguardano la possibilità della matematica come scienza, della fisica come scienza, poi l’esame di quelli che Kant riteneva fossero gli argomenti portati a sostegno della metafisica tradizionale. E allora qui, naturalmente, viene fatto subito di deliberare, da parte mia o da parte nostra, che la metafisica che Kant confutava non era assolutamente la metafisica classica: era strutturalmente diversa da quella che noi presentiamo come metafisica classica.
D: D’accordo. Adesso vorrei che, a conclusione di questo discorso sul dualismo gnoseologistico, come Lei lo chiama, ci risolvesse alcune perplessità dei cultori di scienze filmiche. Per esempio i cultori del linguaggio filmico sembrano accettare il dualismo gnoseologistico. Dicono: altra è la realtà, altro la sua immagine: l’evento non si identifica con la sua rappresentazione, quindi l’immagine di questo tavolo non è il tavolo. Ecco, io Le domando, filmicamente parlando, siamo o non siamo sull’essere?
R: Dunque, io sono ignorante in sede di filmologia; però direi che, dal punto di vista metafisico, è ente, cioè non nulla, sia l’immagine sia la realtà che il linguaggio filmico contrappone all’immagine stessa: sono tutte due realtà e vengono sia l’una che l’altra intenzionate dalla conoscenza. Il termine ‘intenzionare’ è importante, perché l’intenzionalità è proprio la figura che conclude tutta la vicenda del pensiero moderno e dà la possibilità di entrare in una nuova epoca.
D: D’accordo. Allora io tento di fare una verifica ulteriore. Noi conosciamo direttamente il tavolo o la immagine del tavolo?
R: Senz’altro il tavolo.
D: Conosciamo il tavolo, anche pur sapendo che il discorso filmico mi presenta una immagine del tavolo?
R: Sì, perché il dualismo filmico è un dualismo che è interno al non-dualismo della conoscenza umana. È un dualismo interno; cioè: dall’interno del globo della conoscenza umana si elevano questi due ordini, l’ordine filmico e l’ordine di quella verità che viene contrapposta a quella filmica.
D: Vediamo se riesco a identificare il senso di questo discorso: la realtà trascende la rappresentazione empirica, ma non trascende il pensiero. Dunque, il pensiero sarebbe comunque sulla realtà?
R: Certo, in ogni caso non si trascende il pensiero: è questa la verità.
D: Abbia la cortesia di spiegare il significato di questa frase.
R: Ecco: l’intrascendibilità del pensiero è la formula un po’ banalizzata dell’idealismo. Vero: fuori del pensiero non si salta, perchè se io dico che c’è una realtà che trascende il pensiero, per ciò stesso l’ho già pensata e quindi ricondotta dentro il pensiero.
D: D’accordo.
R: Ma, anche stando nella semplice orbita dell’Unità dell’Esperienza, o se vogliamo dire dell’esperienza, della percezione...
D: Scusi se La interrompo, Professore: questa ‘Unità dell’Esperienza’ è un’espressione che Lei ha introdotto cinquant’anni fa. Adesso direi che ha l’onere di spiegarla a chi la udisse per la prima volta.
R: Sì. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose che sono presenti e che vengono affermate in base al loro esser presenti.
D: Per esempio?
R: Tutto ciò che io constato, tutto ciò di cui io posso dire ‘consta’. Tutti quei giudizi che possono essere giustificati, fondati con questa formula: ‘perché consta’. Ad esempio: questo tavolo è di colore amaranto. Perché? Perché mi consta che sia di colore amaranto, perché è sperimentalmente dato, empiricamente dato che è tale. In questo momento è giorno, perché constato che in questo momento è giorno. Perché consta. Quindi l’Unità dell’Esperienza è l’unità dei dati, come tale.
D: Quindi, successivamente, noi cosa dovremmo scoprire? Che il dato è là e io sono?...
R: No. Io sono un dato. l’Unità dell’Esperienza include l’io, perché anche l’io nella forma dell’autocoscienza è dato. L’io è un dato. È un dato che l’esperienza è polare, cioè che ha la polarità del soggetto e dell’oggetto; io che ho presente questo tavolo, questo tavolo che è presente a me.
D: Quindi sarebbe la compresenza.
R: Nell’Unità dell’Esperienza è presente che le cose sono presenti a me. Questo è un rilievo fondamentale in ordine alla determinazione della struttura dell’Unità dell’Esperienza. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose presenti, ma c’è una caratteristica di queste cose presenti: anzitutto è quella di essere presenti, ma poi - determinatamente - di essere presenti a; in questo caso all’io, a me, a un soggetto.
D: D’accordo, adesso Le faccio una domanda che implica un riferimento storico. A Suo parere san Tommaso era immerso nell’errore gnoseologistico, cioè nel dualismo gnoseologistico, oppure aveva guadagnato questa Unità dell’Esperienza come punto di partenza?
R: Beh, che avesse proprio guadagnato l’Unità dell’Esperienza come punto di partenza, forse no; perché, altrimenti, io non avrei avuto niente da fare, se l’avesse guadagnata lui - va bene? Però, se san Tommaso fosse o non fosse libero dal presupposto gnoseologistico, questo è un argomento di esegesi storica molto interessante. San Tommaso era un aristotelico e un grande commentato-re di Aristotele. Ora, Aristotele era certamente immune dal presupposto dualistico.
D: Era immune?
R: Era immune, perchè era un suo teorema fondamentale che il ‘conoscente in atto’ e il ‘conosciuto in atto’ si identificano, e questa è già l’eliminazione del presupposto dualistico. Aristotele poi aggiunge che il ‘conoscente in potenza’ e il ‘conosciuto in potenza’ si distinguono, ma di questo essere distinti in potenza egli dà una fondazione; e in quanto dà una fondazione, riscatta il presupposto come presupposto: la fondazione è metafisica.
D: Probabilmente ci siamo avvicinati... ma io sto pensando a un ipotetico liceista, ecco... che...
R: Beh, ma forse se Lei mi farà altre domande che riguardino questi problemi fondamentali, potremmo dare una risposta esauriente anche per il liceista... di primo anno!
: Quindi, torniamo brevemente al discorso dell’inganno dei sensi, no? L’errore dei sensi...
R: No, ma il senso non inganna dice san Tommaso. Le ricordo che san Tommaso dice ‘il senso non inganna’, vero?
D: Quando io vedo il legno spezzato nell’acqua, in che cosa consisterebbe l’errore?
R: L’errore consisterebbe nel ritenere che, se io andassi a toccare il legno, lo troverei spezzato, mentre invece non lo trovo spezzato. Questo è un giudizio. La vista non mi inganna, perché è empiricamente dato che il legno si presenta come spezzato. È un giudizio ulteriore quando dico, io che vedo una torre in lontananza che mi sembra circolare, mentre è quadrata, che allora c’è un’illusione. Ma l’illusione in cosa consiste? La torre appare circolare, e, nella misura in cui appare, essa è tale. Poi, se usciamo anche da questo paragone della torre, e pensiamo al sogno, io sogno che accadono certe cose. Nella misura in cui quelle cose sono sognate, sono reali. Quindi non c’è nessun inganno. L’inganno consisterebbe nel giudizio che volesse riferire ad una realtà ulteriore al sogno, quella che si rivela nel sogno.
D: D’accordo, credo che questi esempi siano abbastanza chiari. Adesso dalla gnoseologia passiamo alla metafisica. Anzitutto Le domando: è davvero impossibile la metafisica dopo Kant oppure Lei ritiene che sia invece possibile?
R: Beh, dopo cinquant’anni di meditazione, ritengo che sia possibile, perché... ab esse ad posse valet illatio; perché la metafisica si costruisce! Quando io ero studente c’era lo slogan del dopo Kant: certe cose dopo Kant non si possono più sostenere, e quindi dopo Kant non si poteva più sostenere che fosse possibile la metafisica. Ma una attenta considerazione di quella metafisica che Kant criticava ci rende subito edotti che la struttura di tale metafisica ha poco a che vedere con la struttura di quella che noi chiamiamo la metafisica classica e che è quella che noi intendiamo difendere e sostenere. La metafisica classica è fuori dalla portata della critica kantiana; e, naturalmente, il discorso per mostrare questo dovrebbe essere abbastanza complesso, ma è un discorso che ormai in qualche maniera abbiamo messo al sicuro. Ritengo di averlo messo al sicuro.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO". Alcune sue pagine da "La ricerca della certezza" del 1929, con alcune note
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
Federico La Sala
Semplicità insormontabili
La macchina dell’esperienza
di Roberto Casati e Achille Varzi *
Lui (in vacanza, seduto in riva al mare, con fare filosofico). Che bella cosa, la felicità!
Lei. Non ti facevo così saggio.
Lui. Non scherzare. La felicità è una bella cosa e non c’è niente di male nel ripetercelo, di tanto in tanto. E ti dirò di più: gli edonisti avevano perfettamente ragione. Non è forse massimizzando il piacere che si può essere felici? Il piacere provoca felicità, quindi, più si prova piacere, più si è felici.
Lei. Addio saggezza. Guarda che il nesso tra piacere e felicità è ben più spurio di quanto pensassero gli edonisti.
Lui. A me non sembra proprio. Per me è un piacere essere qui, ed è proprio perché sto provando questo piacere che sono felice.
Lei. C’è un argomento di Robert Nozick che dimostrerebbe il contrario. Mai sentito parlare della "macchina dell’esperienza"?
Lui. Sentiamo.
Lei. La macchina dell’esperienza è un vero e proprio prodigio tecnologico. Funziona così: tu entri nella macchina, e quella è in grado di procurarti qualunque esperienza tu possa desiderare. C’è un casco, con degli elettrodi, e se lo indossi ecco che il tuo cervello viene stimolato in modo, appunto, da farti provare le sensazioni che vuoi. Desideri sperimentare che cosa si prova a scrivere una bella poesia, vincere un premio, innamorarsi di una persona, sentirsi ricambiati del proprio amore? Indossa il casco e voilà: proverai esattamente quelle sensazioni in modo assolutamente realistico.
Lui. Ma un conto è provarle davvero, quelle sensazioni; altro conto provarle dentro una macchina del genere.
Lei. Funziona in modo tale che mentre le provi non hai alcuna consapevolezza del fatto di essere all’interno della macchina.
Lui. E se io non desidero niente in particolare?
Lei. Gli ingegneri che hanno progettato la macchina si sono ben documentati e hanno fatto in modo che la macchina disponga, per così dire, di un menù veramente ricco di possibilità. Quindi, se vuoi, puoi davvero provare ogni tipo di esperienza, non solo quelle che ti vengono in mente. E naturalmente il menù è richissimo di esperienze piacevoli, ovvero esperienze di piacere.
Lui. Quindi, se voglio, posso entrare nella macchina e starci dentro tutta la vita, pre-programmando le cose in modo tale da provare piacere per tutti i giorni che mi restano da vivere?
Lei. Esattamente. Il punto è: lo faresti? Entreresti in una macchina così con la garanzia di provare piacere per il resto della tua vita?
Lui. Ovvio!
Lei. Secondo Nozick, no. Non solo non ci entrerebbe lui, ma pensa che nemmeno noi ci entreremmo.
Lui. E perché mai?
Lei. Per tre motivi. Primo: generalmente vogliamo fare certe cose, non solo provare l’esperienza di farle. Anzi, è proprio perché le vogliamo fare che ci sottoponiamo all’esperienza di farle. Invece la macchina fa il contrario. Secondo, vogliamo essere felici di ciò che siamo. Cioè vogliamo essere delle persone felici. Ma che persone saremmo, se ci chiudessimo nella macchina per il resto della nostra vita?
Lui. Beh, per la felicità si può anche rinunciare a essere delle persone...
Lei. Terzo, nella macchina non avremmo alcuna esperienza della realtà: proveremmo esperienze realistiche, ma sarebbero comunque esperienze di una realtà del tutto artificiale, virtuale. Un po’ come i cervelli nella vasca ipotizzati da Putnam, o i personaggi del film Matrix, mentre "combattono" contro l’agente Smith stando sdraiati nelle loro poltrone in laboratorio.
Lui. Vieni al punto.
Lei. Il punto è che provare piacere non basta. Anche ammesso che sia un importante ingrediente in una ricetta per la felicità, bisogna provarlo nel modo giusto.
Lui. Sarà come dici. Però questi esperimenti mentali lasciano un po’ il tempo che trovano.
Lei. A me non pare affatto un esperimento mentale. Non ti sembra che questo nostro mondo si stia trasformando in una grande macchina dell’esperienza, non molto diversa da quella ipotizzata da Nozick?
* Il Sole-24 Ore, 24.11. 2013.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA.
Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo,
Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco,
Laureando: GANDELLINI Francesco
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione. Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovvero careo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello», kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino” 1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE DELLA "H".... "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia" (di Antonio Rainone).
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Editoriale
PER LA CRITICA DELLA RAGIONE "OLIMPICA" .... *
Il discorso di Greta Thunberg alle Nazioni unite
di Greta Thunberg (il manifesto, 27.9.2019)
New York. E’ tutto sbagliato. Io non dovrei essere qui di fronte a voi. Dovrei essere a scuola dall’altra parte dell’oceano. Eppure venite tutti da me per avere speranza? Ma come osate! Voi avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre vuote parole. Eppure io sono una persona fortunata.
Le persone soffrono. Le persone stanno morendo. Interi ecosistemi stanno crollando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui riuscite a parlare sono i soldi e le favole della crescita economica infinita. Come osate!
Per più di 30 anni la scienza è stata di una chiarezza cristallina. Con che coraggio osate continuare a girarvi dall’altra parte e venire qui assicurando che state facendo abbastanza, quando la politica e le soluzioni necessarie non sono ancora nemmeno all’orizzonte.
Dite che “ci ascoltate” e che comprendete l’urgenza. Ma non importa quanto io sia triste e arrabbiata, non voglio crederci. Perché se comprendeste davvero la situazione e continuaste a non agire, allora sareste malvagi. E mi rifiuto di crederci.
L’idea più diffusa sul dimezzare le nostre emissioni in 10 anni ci dà solo il 50% di probabilità di rimanere al di sotto di 1,5 ° C e disinnescare così reazioni a catena irreversibili al di fuori del controllo umano.
Forse il 50% di probabilità è accettabile per voi. Ma questi numeri non includono i punti di non ritorno, la maggior parte dei circuiti di feedback, il riscaldamento aggiuntivo nascosto dall’inquinamento atmosferico tossico o gli aspetti di giustizia e di equità. Fanno anche affidamento sull’ipotesi che la mia generazione e quella dei miei figli riuscirà a risucchiare centinaia di miliardi di tonnellate di CO2 dall’atmosfera con tecnologie che oggi esistono a malapena.
Quindi un rischio del 50% non è semplicemente accettabile per noi - noi che dobbiamo convivere con le conseguenze.
Per avere una probabilità del 67% di rimanere al di sotto di un aumento della temperatura globale di 1,5 ° C - le migliori probabilità stimate dal Pannello intergovernativo sui cambiamenti climatici - il 1 ° gennaio 2018 il mondo aveva solo 420 gigatonnellate di anidride carbonica da poter rilasciare nell’atmosfera.
Oggi questa cifra è già sotto le 350 gigatonnellate. Come osate far finta che questo problema possa essere risolto con le solite soluzioni economiche e tecniche. Con i livelli di emissione odierni, la quantità di CO2 a disposizione sarà completamente sparita in meno di otto anni e mezzo.
Non ci saranno soluzioni o piani presentati secondo i dati di oggi. Perché questi numeri sono troppo scomodi. E voi non siete ancora abbastanza maturi per dire le cose come stanno.
Ci state deludendo e tradendo. Ma i giovani stanno iniziando a capire il vostro tradimento. Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi. E se sceglierete di fallire, vi dico che non vi perdoneremo mai.
Non vi lasceremo andare via come se nulla fosse. Proprio qui, proprio adesso, è dove tracciamo la linea. Il mondo si sta svegliando. E il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.
* Testo del discorso all’Assemblea generale delle Nazioni unite di New York del 23 settembre 2019 (traduzione dall’inglese a cura di Matteo Bartocci).
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE (LA LEZIONE DI NELSON MANDELA).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Libera scelta, competizione, classifiche: le tante facce delle diseguaglianze di classe nella scuola italiana
Il classismo in classe
di Marco Romito (Il Mulino, 27 gennaio 2020)
È trascorsa circa una settimana da quando i media nazionali hanno rilanciato la notizia di una scuola romana che, presentandosi sul suo sito internet, avrebbe caratterizzato le sue tre sedi in termini classisti. Come in altre occasioni, quando la scuola entra nel faro d’attenzione del dibattito pubblico, prevalgono il tono scandalizzato e una scarsa capacità di contestualizzare ciò che si sta riportando.
La gran parte della stampa nazionale ha trattato la notizia lasciando intendere che la scuola di via Trionfale mettesse in atto un’esplicita politica classista separando gli alunni nei suoi tre plessi in base al censo: “Ecco la scuola che divide gli alunni in base alla classe sociale”.
Si è poi compreso che il riferimento alla condizione socioeconomica degli studenti era ripreso da un rapporto di autovalutazione (Rav) compilato seguendo le indicazioni del ministero. Le scuole sono accompagnate nella compilazione del Rav da alcune domande guida, alcune delle quali fanno riferimento al background familiare degli studenti. In questo non c’è nulla di scandaloso poiché si tratta di informazioni di cui occorre tenere conto per attuare politiche scolastiche inclusive.
Il problema, però, è che da qualche anno si è fatta largo l’idea che le scuole debbano essere trasparenti, che debbano dar conto di ciò che sono, di ciò che fanno, dei risultati raggiunti e così via. E così i Rav, assieme a molti altri indicatori, sono visibili sulla piattaforma governativa “Scuola in chiaro”. Questo è in linea con un approccio di impronta neoliberale, teso cioè a fare del sistema scolastico un mercato che si regola attraverso le scelte informate delle famiglie. I sostenitori di questo approccio ritengono che in questo modo le scuole saranno portate a migliorarsi per attrarre studenti. Tuttavia, come mostra la vicenda di via Trionfale, alcune informazioni possono fornire un’indicazione alle famiglie perché scelgano la scuola più conforme al proprio status.
Così, al coro dell’indignazione, hanno preso parte anche il sottosegretario all’istruzione De Cristoforo e la neoministra Azzolina, che hanno sostenuto sia un errore fornire informazioni sul background socioeconomico degli studenti. La descrizione, in ultimo, è stata rimossa. Ma si ha l’impressione che si sia alzato un gran polverone che nasconde ciò che dice di voler mettere in luce dietro una coltre di facili semplificazioni e dietro la colpevolizzazione dell’operato di una singola scuola. Si ha l’impressione, soprattutto, che la scuola italiana possa continuare a essere classista purché non nomini la classe.
Una scuola che nasconde i riferimenti alle condizioni socioeconomiche dei propri studenti non è meno classista di una che li rende pubblici. Le informazioni sulla qualità “sociale” di una scuola circolano informalmente nelle reti dei genitori e queste informazioni orientano le scelte in modi che rafforzano la segregazione scolastica. Non possiamo nasconderci che molti dei giornali che usano toni scandalizzati per descrivere la vicenda di via Trionfale rilanciano ogni anno la classifica sulla qualità formativa delle scuole pubblicata dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Questa classifica, pur utilizzando il concetto di qualità formativa, non è molto più di una classifica dello status socioeconomico delle scuole. Ecco, si può essere classisti, pur senza nominare la classe.
Può allora essere utile prendere questa vicenda come un’opportunità per mettere in fila qualche breve ragionamento a mente fredda. Senza farci distrarre dal dito che indica la luna, chiediamoci: in che modo la scuola italiana è classista?
Propongo un elenco, certamente non esaustivo, di pratiche e meccanismi che, lontano dai moti episodici di indignazione pubblica, riproducono il classismo nel banale scorrere della quotidianità scolastica. Ma una premessa è doverosa. Il classismo della scuola non è solo imputabile alla scuola, ma è l’esito di una complessa articolazione di problemi che riguardano più dimensioni. Per rimanere al caso della scuola di via Trionfale è evidente che il tema della segregazione scolastica è inscindibile da quello della segregazione abitativa. Così come è evidente che le disuguaglianze economiche, crescenti, non possono non accrescere il divario tra chi può permettersi un’istruzione di elevata qualità e chi no.
Nell’elenco che segue faccio però riferimento solo a ciò su cui può intervenire una politica strettamente scolastica, mi soffermo sugli aspetti che mi sembrano meno presenti nel dibattito pubblico e solo su ciò che è supportato dalla ricerca empirica.
Che la vicenda della scuola di via Trionfale ci aiuti allora a impostare il discorso nei giusti termini. Se non si vuole che la scuola sia classista, allora la classe occorre nominarla. E occorre nominarla ogni volta che in modi più o meno plateali si insinua nella vita scolastica creando separazioni e gerarchie.
Occorre nominare la classe per smantellare tutti i meccanismi attraverso cui produce disuguaglianza. Per farlo, occorre aprire un tavolo di discussione che chiami a raccolta tutte quelle realtà, associazioni, docenti, movimenti, che provano a praticare ogni giorno una scuola anti-classista. Queste realtà sono innumerevoli e si muovono nel contesto di una politica governativa che (finora?) si è caratterizzata per aver largamente ignorato il problema: o meglio, che negli ultimi decenni ha attuato riforme che sembrano aver esacerbato processi presenti da sempre.
Che si ricominci a parlare di classismo a scuola allora. Ma non per gridare al declino, allo scandalo, ma per avere coscienza della complessità e interconnessione tra le diverse dimensioni attraverso cui il classismo si produce e si impone.
Per la sua capacità di favorire gli studenti privilegiati, il nostro Paese spicca nei confronti internazionali. Questo può generare rabbia, al peggio sconforto, ma se la politica e la scuola italiana raccoglieranno la sfida potremmo avere innumerevoli spazi per agire, per iniziare ad applicare il dettato costituzionale e per fare della scuola una vera palestra di democrazia.
GIORNO DELLA MEMORIA, PERCHÉ GLI EBREI?
Il dovere morale di preservare i valori moderni
di Francesco Bellusci (Casa della cultura, 24.01.2020)
“Perché gli ebrei?”. È questa la domanda che spesso giunge dal pubblico in coda alle manifestazioni del Giorno della Memoria, a scuola o in altri contesti, oppure rimane taciuta nel retro-pensiero, difficile da esternare, come se la sua imbarazzante e sconcertante semplicità, più che ad appagare una sete di conoscenza, sia diretta a placare l’angoscia che accompagna l’inevitabile senso di “colpa metafisica”, come l’avrebbe chiamata Karl Jaspers[1], cioè la colpa di essere “sopravvissuti” a loro, di avere goduto il privilegio della vita, ingiustamente e violentemente negata ai nostri simili, pur essendo, noi, lontani ed estranei ai soggetti direttamente imputabili della colpa politica o giuridica o morale di quel crimine spaventoso. Perché gli ebrei e non un’altra minoranza etnica o religiosa, allora? Perché la scelta del comodo capro espiatorio su cui polarizzare il risentimento e le frustrazioni di un popolo sconfitto in guerra e sconvolto dalla crisi economica è caduta sugli ebrei? Perché le ideologie del fascismo e del nazismo hanno fatto leva sull’antisemitismo e sulle leggi razziali contro gli ebrei per la loro cinica propaganda?
Hitler o Mussolini non hanno inventato il male, tantomeno l’antisemitismo. Certamente, però, in Germania, un’impressionante e contingente reazione favorita da enzimi ideologici (nazionalismo, darwinismo sociale, scientismo, xenofobia, razzismo), politici (la competizione accesa per il consenso in democrazie “giovani”, con istituzioni nascenti o fragili messe da subito a dura prova dalle conseguenze sociali ed economiche della Grande Guerra e, poi, dalle ripercussioni mondiali del primo “crac” della nuova potenza economica globale: gli Stati Uniti) e materiali e tecnologici (la disponibilità di burocrazie più efficienti, la sperimentazione di nuove armi letali) fece sì che dall’odio, dal disprezzo, dalla discriminazione nei confronti dell’ebreo si arrivasse, per la prima volta, al progetto efferato di un genocidio, concepito come un assassinio industrializzato di massa. E ha portato altri regimi fascisti come l’Italia o la Repubblica di Vichy a collaborarvi. Ma con la fine del nazifascismo, Hiroshima annunciava che l’irrazionale, la psicosi del potere, non si erano affatto ritirati dal mondo, subito piombato nella corsa agli armamenti e sempre sull’orlo dell’apocalisse nucleare. Un mondo dove la macchinazione tanatocratica di governi, laboratori scientifici e industria militare, in sinergia tra loro, sembravano preparare stavolta l’olocausto dell’umanità, al punto da far dire, provocatoriamente, al filosofo e storico della scienza Michel Serres, in un memorabile pamphlet:
La fine del mondo bipolare, con la disintegrazione dell’Unione Sovietica, ha per fortuna allontanato la minaccia di un olocausto della specie umana, ma se, come ricordava Serres nel suo saggio, la paranoia di Hitler era storica, e non individuale, rimane da chiedersi ancora perché le vittime di quella paranoia, e dell’unico olocausto sinora avvenuto, siano state proprio gli ebrei. -Diventa interessante farlo tanto più che la risposta a questa domanda ci costringe a risalire a un periodo storico, l’ultimo quarto di secolo dell’Ottocento, con il quale secondo il politologo David Runciman[3], il momento storico attuale con il suo strisciante rigetto diffuso della democrazia liberale, del cosmopolitismo, della multietnicità, intrattiene più analogie.
Allora si consumò, infatti, il più pericoloso cortocircuito culturale della modernità, con il rischio di un inabissamento della civiltà europea stessa, e coincise con il periodo d’incubazione dell’ideologia fascista, che, solo nelle circostanze critiche del dopoguerra, si sarebbe poi trasformata in un movimento politico di estrema destra organizzato e combattivo. Questa pista ci viene acutamente suggerita dagli importanti studi storici di Zeev Sternhell[4]. In quel periodo, infatti, germina e cresce rapidamente un rifiuto dell’Illuminismo, espresso da vari rivoli della cultura europea, che si declina come rifiuto del principio di uguaglianza naturale degli uomini, dell’universalismo, del razionalismo, dell’idea di progresso e che culmina nella scomunica di “materialismo”, indirizzata indistintamente a democrazia, liberalismo, socialismo, con le loro dottrine egualitarie e utilitaristiche, concepito come la malattia europea che era necessario sradicare, quella che più di altre minava l’“organismo vivo” della nazione. Il fascismo e il nazismo, pertanto, non sono tanto figli della reazione al bolscevismo e al comunismo, quanto l’emergenza più vistosa, aggressiva e radicale di quel rifiuto. Il che ne spiega l’appeal che esercitò sia sulle masse sia sull’élite intellettuale.
Si comprende allora la scelta del capro espiatorio ebraico. La “questione ebraica”, ovvero il tema della tolleranza e dell’emancipazione della minoranza ebraica da secoli discriminata o ghettizzata, si era affermata proprio con l’Illuminismo e gli illuministi l’avevano imposta già nell’agenda politica dei “sovrani illuminati”, per essere riconfermata nelle rivoluzioni liberali della prima metà dell’Ottocento (non a caso, La questione ebraica è il titolo di un libro fondamentale nella produzione di Marx, del 1843, dove ai sostenitori dell’emancipazione politica attraverso l’estensione universale dei diritti civili, anche agli ebrei, Marx replica denunciando i limiti intrinseci dell’emancipazione politica, a fronte dello scarto tra gli eguali diritti proclamati in astratto e le concrete condizioni di diseguaglianza presenti nella società).
Questo tema sarà ricorrente per tutto il XIX secolo in Europa, anche se maggiormente in Francia e in Germania rispetto ad altri Paesi europei, e, quindi, uno dei modi migliori per dichiarare morte ai valori dell’Illuminismo sarebbe stato proprio scagliarsi contro gli ebrei e archiviare, con il tema dell’emancipazione degli ebrei, il simbolo essenziale dell’Illuminismo. La presenza nella coscienza collettiva e nel dibattito intellettuale del nesso tra illuminismo e questione ebraica trova peraltro conferma in un articolo[5] di Hannah Arendt, pubblicato sulla Zeitschrift für Geschichte der Juden in Deutschland, alcuni mesi prima della nomina a cancelliere della Repubblica federale di Adolf Hitler, in cui la giovane filosofa ripercorreva il modo in cui gli stessi intellettuali ebrei (Lessing, Mendelssohn, Dohm) si collocavano nella tradizione illuminista, oscillando tra l’invito a mantenere la religione ebraica come “religione della ragione” o a rinunciarvi per una piena “naturalizzazione” e assimilazione nella società tedesca e europea. E certamente, come ci ricorda André Glucksmann, nel suo controverso libro-manifesto dei nouveaux philosophes[6], giocò nella scelta degli ebrei anche l’immagine di “nemico interno” costruita filosoficamente dagli idealisti tedeschi, che vi videro i rappresentanti o di uno “Stato nello Stato” (Fichte), nutrito e compattato dall’ostilità per il resto del genere umano, o peggio ancora, di un “anti-Stato” (Hegel), esempio aberrante di comunità che scardina l’equazione tra popolo, nazione, Stato e, quindi, ancora più inquietante agli occhi un movimento culturale politico come quello fascista e nazista, esplicitamente nazionalista, illiberale e razzista.
Bisogna aggiungere che, in questo attacco all’Illuminismo, che venne quasi naturalmente a combinarsi con l’attacco agli ebrei, il nazismo, rispetto al fascismo, con il suo dogma del Blut und Boden, si spinse oltre, fino a colpire la concezione dell’uomo ereditata dalla tradizione giudaico-cristiana, come aveva intuito Emmanuel Lévinas, in un articolo pubblicato nel 1934 sulla rivista Esprit: “L’essenza dell’uomo non è più nella libertà, ma in una sorta di incatenamento. Essere veramente se stessi, non significa risollevarsi al di sopra delle contingenze, sempre estranee alla libertà dell’Io: ma, al contrario, prendere coscienza dell’incatenamento originale, ineluttabile, unico al nostro corpo, significa soprattutto accettare questo incatenamento (...) Da questa concretizzazione dello spirito deriva immediatamente una società a base consanguinea (...) Incatenato al suo corpo, l’uomo si vede rifiutare il potere di sfuggire a se stesso”[7]. Un attacco, quindi, non solo all’Illuminismo e ai suoi valori (l’autonomia, la finalità umana delle nostre azioni, l’universalità morale e giuridica, senza distinzioni di razza, di ceto, di religione), ma anche alle radici spiritualiste da cui quei valori scaturivano nella loro distillazione secolarizzata.
E per avere la sensazione di quale potesse essere la condizione psicologica di un ebreo nel clima plumbeo e “anti-illuminista” in cui la crisi di civiltà europea era precipitata, basterà rileggere il passo di una delle lettere, scritte tra il 1920 e il 1923, di Franz Kafka a Milena Jesenská, che morirà nel 1944 nel campo di concentramento di Ravensbrück: “Per me tutto avviene all’incirca come per qualcuno che, ogni volta che uscisse, dovesse non soltanto lavarsi, pettinarsi ecc. - il che è già abbastanza faticoso - ma venendogli a mancare tutto una volta di più, ogni volta, dovesse anche cucirsi un vestito, fabbricarsi delle scarpe, confezionarsi un cappello, tagliarsi un bastone ecc. Naturalmente non tutto gli riuscirebbe bene, le cose reggerebbero per una strada o due (...) Alla fine, in via del Ferro, si imbatterebbe in una folla che sta dando la caccia agli ebrei”. Ecco, il Giorno della Memoria deve servire anche a ricordarci il dovere morale di preservare i valori moderni che permettono di costruire una società in cui nessuno si senta manchevole per essere uomo, come i suoi simili, e in cui nessuno venga considerato mai un “uomo di troppo”.
[1] Vedi: U. Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, cap. 25
[2] M. Serres, Trahison: la thanatocratie (1972), in: M. Serres, Hermès III. La traduction, Le Minuit, Paris 1974, p. 74
[3] D. Runciman, Così finisce la democrazia. Paradossi, presente e futuro di un’istituzione imperfetta, Bollati Boringhieri, Torino 2019.
[4] Storico israeliano di origine polacca, professore di Scienza politica presso la Hebrew University di Gerusalemme, autore di numerosi saggi, tra cui: Nascita dell’ideologia fascista, Baldini & Castoldi, Milano 1993; La destra rivoluzionaria, Corbaccio, Milano 1997; Né destra, né sinistra, Baldini & Castoldi, Milano 1997.
[5] H. Arendt, Illuminismo e questione ebraica, Cronopio, Napoli 2007
[6] A. Glucksmann, I padroni del pensiero, Garzanti, Milano 1977
[7] E. Lévinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata 2005, pp. 32, 34
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
Federico La Sala
FILOSOFIA E FILOLOGIA. IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS: CHARITAS....
Tesi di Laurea
IL PRINCIPIO DI CARITÀ [2016]
Definizione e analisi critica tra ermeneutica e logica
a cura di Francesco Gandellini **
SOMMARIO Introduzione .................................................................................................................
1 Sezione 1: il versante ermeneutico ....................................................................... 5
1.1 La genesi agostiniana del principio .................................................................... 7
1.2 L’illuminismo tedesco e il nesso linguaggio-mondo ................................. 23
1.2.1 Wilhelm von Humboldt: “Sprachansicht als Weltansicht” ................................................................... 27 -APPENDICE Georg Friedrich Meier e il “Versuch einer allgemeinen Auslegungkunst” .................................. 43
1.3 La linea ontologica dell’ermeneutica contemporanea .............................. 53
1.3.1 Martin Heidegger e l’analitica esistenziale di “Sein und Zeit” ................................................ 55
1.3.2 Hans-Georg Gadamer e l’ermeneutica ontologica di “Warheit und Methode“ ........................ 69
Sezione 2: la riflessione logica .............................................................................. 85
2.1 Fondamenti teorici della carità in logica ....................................................... 87
α ) La riflessione filosofica di Ludwig Wittgenstein ......................................... 89
β) L’ipotesi della relatività linguistica............................................................ 100
2.2 Willard van Orman Quine e l’argomento di “traduzione radicale” ............................................................... 113
2.3 Donald Davidson e l’interpretazione radicale ..................................................................................... 137
Conclusione .............................................................................................................. 157
Bibliografia ............................................................................................................... 161 -Sitografia................................................................................................................... 163
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INTRODUZIONE
Il termine “carità” deriva etimologicamente dal latino caritas (acc. caritatem, «benevolenza», «amore», questo da
carus, «caro», «costoso», «diletto», «amato»), e a sua volta dal greco χάρις, «grazia». Dal punto di vista dell’etimo, la parola cattura l’idea dell’amore disinteressato ma prezioso verso qualcuno, della benevolenza gratuitamente concessa al destinatario, senza riserve rispetto alla sua condizione.
Gli etimologisti latini derivavano il lemma carus
dalla prima persona singolare del presente del verbo carēre, ovverocareo, «manco», «sono privo di», e ritenevano di giustificare il valore di una cosa sul metro della mancanza della cosa stessa, in modo tale che tanto più se ne avverte l’assenza, tanto più essa acquista valore e pregio.
Passando per il greco χάρις e dal verbo χαίρω, «rallegrarsi», «provare piacere», si arriva alla radice sanscrita ka = ca (sscr. ka, kan, kam), presente in parole quali kâma, «amore», kamana, «desiderabile», «bello»,kamara, «amoroso», kam-e, «desiderò», «amò». Si possono, inoltre, trovare affinità nel lettone kahrs, «cupido», nel gotico hors, da cui il tedesco Hure, «meretrice», ma che si riallaccia al latino quaero, «cercare», «ricercare», «bramare» ciò che è desiderato. Il termine “carità” afferisce, dunque, anche alla sfera dell’amore desiderato, del richiesto perché bramosamente bello e capace di dare piacere e rallegrare.
Il principio di carità rappresenta un criterio prezioso, disinteressato ma richiesto nella logica del dialogo. Esso fornisce una norma fondante, sebbene implicita, per la costruzione di un confronto fecondo e esente da appropriazioni o strumentalizzazioni di qualunque sorta. Il valore apportato dal principio di carità consiste, forse banalmente, nel rendersi disponibile all’ascolto dell’altro e nell’attribuire pregnanza di senso alle sue parole, almeno fino a un evidente punto di non ritorno.
La scelta di trattare il principio di carità come argomento di tesi va incontro alla necessità di indagare l’implicito, il sottinteso, il banale che sovente viene trascurato e passato sotto silenzio, col rischio di dimenticarne la validità e l’utilità concreta e portante nell’ambito dell’umano. Si tratta, perciò, di far riermegere agli occhi della coscienza i fondamenti troppo spesso dati per scontato e, proprio per questo, dimenticati, abbandonati e relegati a relitti a margine dell’edificio del sapere.
È compito primario della filosofia conferire dignità conoscitiva a quanto viene accolto come evidente, ovvio, lapalissiano perché in ciò, e nel suo oblio, si possono rinvenire “proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino”1, ossia quegli interrogativi umani centrali in cui ne va della quotidianità tanto quanto dell’esistenza intera, oltre che di una convivenza pacifica. Spingendo la riflessione in direzione di ciò che pare assodato e fuori di dubbio ai fini della riflessione stessa, si giunge a capire e a rendere ragione di una complessità nuova, nella quale si gioca qualcosa come la comprensione o il fraintendimento tra gli individui.
Il principio di carità è una guida rimasta finora col capo coperto. Esso ha condotto e conduce gli uomini nei meandri tortuosi della comunicazione, del rapporto dialogante e dell’interpretazione reciproca. Può pregiudicare il buon andamento di una discussione, rimanendo nell’anonimato e nell’ombra. Determina e garantisce lo spazio minimo per l’intesa e l’accordo, ma può anche sancirne il definitivo naufragio.
Lo scopo della presente trattazione è di portarne alla luce, in un percorso storico e tematico, le caratteristiche principali, in modo da scoprirne il capo e segnalarne i lineamenti distintivi. La filosofia, nel suo decorso storico, si è raramente rivolta in modo esplicito al principio di carità. Fatta eccezione per Agostino, per il caso isolato dell’illuminista tedesco Georg Meier (che lo chiama principio di equità ermeneutica) e per la riflessione dei logici contemporanei (Wilson, Quine, Davidson), esso non viene pressoché mai menzionato o, almeno, non con questo appellativo con cui, soprattutto recentemente, è tornato alla ribalta.
Si tratta, quindi, e questo è l’intento del lavoro, di rimarcarne gli aspetti costituivi, laddove il criterio sia stato suggerito dagli autori, oppure di ricercare ed enucleare possibili edizioni, implicitamente consegnate dai filosofi alla riflessione sul principio in questione. Per questo la tesi potrebbe soffrire di discontinuità più o meno consistenti, dettate appunto dall’esigenza di scandagliare le profondità del pensiero filosofico, anche mediante salti temporali e concettuali rilevanti, in quei punti ritenuti significativi per una trattazione ampia e pregnante, ma filtrata sempre nel setaccio della carità ermeneutica e logica.
1 E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Milano, il Saggiatore 2008, pag. 35
** UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRENTO
Dipartimento Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in FILOSOFIA. Supervisore: Prof. Varzi Achille Carlo, Co-Supervisore: Prof. Ghia Francesco, Laureando: GANDELLINI Francesco.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SANT’AGOSTINO, DOTTORE DELLA GRAZIA ("CHARIS"): "ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS").
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
STORIA E STORIOGRAFIA: MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! *
UNA BOLLA SPECULATIVA. “[...] Perché parlare di un libro pubblicato nel 1954? [...] Credo che la domanda e la risposta che Lukács scrive all’inizio del lungo volume parli ancora di noi. La domanda era “Perché a un certo punto la gnoseologia, la teoria della conoscenza, diventa la forma filosofica dominante?” La risposta (circa 800 pagine) aveva appunto a che fare con l’intento ideologico della borghesia di soggettivizzare la Storia al fine di immobilizzarla [...] Per Lukács l’irrazionalismo, che ha “come intento principale [...] la radicale soggettivizzazione della storia”, trova piena espressione fra gli ultimi anni dell’800 e i primi del ‘900 attraverso “la riduzione della gnoseologia kantiana alla gnoseologia di Berkeley”, così come prima sviluppata nell’ambito dell’epistemologia scientifica da autori quali Mach e Avenarius. La pretesa inconoscibilità della realtà oggettiva trasferisce l’oggettività medesima all’interno della soggettività, e questa è presentata dalla gnoseologia come soggetta alle oscillazioni della psicologia, le quali necessariamente inficiano (la psicologia di un soggetto è ovviamente mobile) ogni possibile e stabile approdo conoscitivo: “il cancellare i confini fra gnoseologica e psicologia fa parte delle caratteristiche essenziali dell’irrazionalismo moderno” [...] (M. Cangiano, “Il libro insostenibile: breve difesa di La distruzione della ragione”, Le parole e le cose, 14.01.2019).
* NOTE:
A) HEGEL, HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI .
B) KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
FACHINELLI E FREUD NELLA “NAVE” DI GALILEI. Al di là del "paradosso della ripetizione" ... *
TROVO MOLTO INTERESSANTE l’indicazione di FRANCESCA (vedi - sopra) di mettere i piedi a Terra e guardare la Luna. Al di là dei limiti del percorso di Fachinelli, mia opinione, di ciò che resta fondamentale del suo lavoro è la decisiva messa in evidenza di quanto - antropologicamente - sta al fondamento della rivoluzione (e pratica!) psicoanalitica: "La mente estatica" (1989)! Si possono chiudere porte e finestre all’infinito, ma ora non solo dalla caverna platonica ma anche dall’isola di Creta ("Sulla spiaggia", 1985) si può uscire (cfr. Fachinelli e Freud nella "nave" di Galilei), riprendere la navigazione e guardare dall’Oceano, terrestre e celeste, la Terra ...
IL "GIARDINO" DEVASTATO E LE PIANTE. "Lo sciovinismo antropologico/antropocentrico (e più generalmente zoo-logico/zoo-centrico) che impera su gran parte della filosofia morale e politica dall’antichità ai giorni nostri non ammette un valore delle piante in quanto tali. Per gli esseri umani è molto più facile identificarsi con gli animali che con le piante, la cui fisiologia risulta difficile da comprendere (l’antropomorfismo e lo zoomorfismo vanno facilmente insieme). L’apparente immobilità delle piante, la loro apparente mancanza di differenziazione, il loro essere apparentemente inermi e inette, rendono le piante poco salienti per i sensi degli esseri umani - facilitando così anche la scomparsa della vita vegetale dall’orizzonte dell’etica e della politica.
Quest’oblio è ingiustificato in sé e costituisce anche un problema urgente per l’etica dell’ambiente. Se non si dà valore alle piante, perché le si ritiene prive delle caratteristiche necessarie a generare valore (come l’autocoscienza, l’intelligenza, la capacità di provare sensazioni ed emozioni, di agire, di esercitare la volontà), allora non si potrà dare valore alla natura inanimata, cioè agli ecosistemi e al mondo naturale nel suo complesso, dichiarando così il fallimento di ogni tipo di etica dell’ambiente non fondamentalmente antropo- o zoo-centrica.
Nella pratica, alcuni degli atteggiamenti più rapaci e noncuranti nei confronti della natura potrebbero ben derivare proprio dal nostro rifiuto o incapacità di aprirci alle piante e al loro valore, e addirittura alla stessa ipotesi che abbiano valore. Una buona quota della attuale crisi ecologica, possibilmente la più subdola e insidiosa, potrebbe risultare riconducibile a questa incapacità o rifiuto, e spiegabile attraverso il prisma delle nostre relazioni irrisolte con le piante.
Se si dà valore alle piante si è sulla buona strada per dare valore alla natura tutta, inclusa tutta quella inanimata; e non solo come un insieme indistinto, ma come un ricettacolo di diversità e di specificità e particolarità inesauribile. Una visione del genere terrà conto, per esempio, del fatto che gran parte della natura è roccia, acqua, e piante: la vita animale si attesta, in proporzione, solo al quarto posto - la “nazione delle piante”, come la battezza Stefano Mancuso, è di gran lunga la più popolosa [...]"(dal volume "Etica e politica delle piante", di Gianfranco Pellegrino e Marcello Di Paola, e con contributi di Simone Pollo e Alessandra Viola).
*
PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE.... *
Dante, l’appello di Franceschini alle imprese
"Poste finanzia, altri li seguano". La Rai rilanci all’estero
(ANSA) - ROMA, 10 GEN - "Grazie a Poste Italiane, che hanno offerto il loro sostegno per le celebrazioni, nel 2021, dei 700 anni dalla morte di Dante", ma "vorrei che quello di Poste fosse un esempio per le altre imprese italiane che non si possono sottrarre a fare qualcosa per Dante". Il ministro di Cultura e Turismo Dario Franceschini presenta a Roma, insieme con il presidente del Comitato per i 700 anni dalla morte di Dante, Carlo Ossola e con la presidente Maria Bianca Farina e l’ad Matteo Del Fante di Poste Italiane un progetto di valorizzazione che coinvolgerà decine di comuni italiani (70 al momento ma potrebbero diventare di più) e approfitta per lanciare un appello al mondo delle imprese: "Dante è di tutti - dice - tutte le nostre imprese quando vanno all’estero hanno dietro il supporto dell’Italia e Dante per noi italiani è identitario.
Tutti dovrebbero fare qualcosa". E aggiunge: "Vorrei vedere Dante sui treni, sui voli Alitalia, dappertutto". Non solo: "Vorrei che la Rai , so che ci sono ragionamenti aperti in questo senso, producesse cose da far circolare non solo in Italia ma nel mondo". Un appello, quello del ministro Pd, rivolto in ultima analisi al Paese a tutto tondo: "Dante è di tutti, è identitario, coinvolge, è stato anche uno dei primi ad aver parlato di Europa. - sottolinea il capo delegazione Pd al governo - Celebrare i 700 anni dalla sua morte è lavorare per l’unità e il nostro Paese ha molto bisogno di unità. E’ anche orgoglio e il Paese ha bisogno di orgoglio". (ANSA).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE ("charitas"). Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia"
Federico La Sala
"ECCE HOMO": (ANTROPOLOGIA, NON "ANDROPOLOGIA" O "GINECO-LOGIA")!!! USCIRE DALL’ORIZZONTE COSMOTEANDRICO DA "SACRO ROMANO IMPERO"... *
La parola può tutto
di Ivano Dionigi (Avvenire, venerdì 3 gennaio 2020)
«Chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». In questa sentenza fulminante di don Lorenzo Milani (Lettera a Ettore Bernabei 1956), ispirata a un deciso afflato di giustizia sociale, trovo il più bel commento al passo in cui Aristotele (Politica 1253 a) riconosce nella parola (logos) la marca che caratterizza l’uomo e lo distingue dagli animali, che ne sono privi (tà zóa á-loga). La parola: il bene più prezioso, la qualità più nobile, il sigillo più intimo. A una persona, a un gruppo, a un popolo puoi togliere averi, lavoro, affetti: ma non la parola. Un divario economico si ripiana, un’occupazione si rimedia, una ferita affettiva si rimargina, ma la mancanza o l’uso ridotto della parola nega l’identità, esclude dalla comunità, confina alla solitudine e quindi riduce allo stato animale. «La parola - continuava il profetico prete di Barbiana - è la chiave fatata che apre ogni porta»; tutto può, come già insegnava la saggezza classica: «spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione» (Gorgia, Elogio di Elena 8). Ma essa è di duplice segno, nella vita privata come in quella pubblica: con i cittadini onesti e i governanti illuminati si fa simbolica (syn-bállein), e quindi unisce, consola, salva; confiscata dai cittadini corrotti e dai demagoghi si fa diabolica (dia-bállein), e quindi divide, affanna, uccide.
“DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” (COSMOLOGIA, TEOLOGIA, E ANTROPOLOGIA!) DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA... *
CARDINALE CASTRILLON HOYOS: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio”(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
PAPA FRANCESCO: “«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana! [...]” (LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE, Omelia di papa Francesco, Basilica Vaticana, Mercoledì, 1° gennaio 2020).
*
A) - La costruzione del ’presepe’ cattolico-romano .... e la ’risata’ di Giuseppe!!!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. “VA’, RIPARA LA MIA CASA”!!!;
B) Il magistero della Legge dei nostri Padri e delle nostre Madri Costituenti non è quello di “Mammona” (“Deus caritas est”, 2006)! EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA “NON CLASSIFICATA”!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907.
C) GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di “pensare un altro Abramo”.
Federico La Sala
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
«Perché la storia continui». Appello per una Costituzione della Terra
Proposte. Appello per un nuovo costituzionalismo globale, una bussola etica e politica per salvare il mondo e i suoi abitanti dalla distruzione.
di Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, Raffaele Nogaro, Paolo Maddalena, Mariarosaria Guglielmi, Riccardo Petrella (il manifesto, 26.12.2019)
Nel pieno della crisi globale, nel 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana, Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, il vescovo Nogaro, Riccardo Petrella e molti altri lanciano il progetto politico di una Costituzione per la Terra e promuovono una Scuola, «Costituente Terra», che ne elabori il pensiero e prefiguri una nuova soggettività politica del popolo della Terra, «perché la storia continui». Pubblichiamo le parti essenziali del documento che esce domani, in data 27 dicembre 2019.
L’Amazzonia brucia e anche l’Africa, e non solo di fuoco, la democrazia è a pezzi, le armi crescono, il diritto è rotto in tutto il mondo. «Terra! Terra!» è il grido dei naufraghi all’avvistare la sponda, ma spesso la terra li respinge, dice loro: «i porti sono chiusi, avete voluto prendere il mare, fatene la vostra tomba, oppure tornate ai vostri inferni». Ma «Terra» è anche la parola oggi più amata e perduta dai popoli che ne sono scacciati in forza di un possesso non condiviso; dai profughi in fuga per la temperatura che aumenta e il deserto che avanza; dalle città e dalle isole destinate ad essere sommerse al rompersi del chiavistello delle acque, quando la Groenlandia si scioglie, i mari son previsti salire di sette metri sull’asciutto, e a Venezia già lo fanno di un metro e ottantasette. «Che si salvi la Terra» dicono le donne e gli uomini tutti che assistono spaventati e impotenti alla morte annunciata dell’ambiente che da millenni ne ospita la vita.
Ci sono per fortuna pensieri e azioni alternative, si diffonde una coscienza ambientale, il venerdì si manifesta per il futuro, donne coraggiose da Greta Thunberg a Carola Rackete fanno risuonare milioni di voci, anche le sardine prendono la parola, ma questo non basta. Se nei prossimi anni non ci sarà un’iniziativa politica di massa per cambiare il corso delle cose, se le si lascerà in balia del mercato della tecnologia o del destino, se in Italia, in Europa e nelle Case Bianche di tutti i continenti il fascismo occulto che vi serpeggia verrà alla luce e al potere, perderemo il controllo del clima e della società e si affacceranno scenari da fine del mondo, non quella raccontata nelle Apocalissi, ma quella prevista e monitorata dagli scienziati.
Il cambiamento è possibile
L’inversione del corso delle cose è possibile. Essa ha un nome: Costituzione della terra. Il costituzionalismo statuale che ha dato una regola al potere, ha garantito i diritti, affermato l’eguaglianza e assicurato la vita degli Stati non basta più, occorre passare a un costituzionalismo mondiale della stessa autorità ed estensione dei poteri e del denaro che dominano la Terra.
La Costituzione del mondo non è il governo del mondo, ma la regola d’ingaggio e la bussola di ogni governo per il buongoverno del mondo. Nasce dalla storia, ma deve essere prodotta dalla politica, ad opera di un soggetto politico che si faccia potere costituente. Il soggetto costituente di una Costituzione della Terra è il popolo della Terra, non un nuovo Leviatano, ma l’unità umana che giunga ad esistenza politica, stabilisca le forme e i limiti della sua sovranità e la eserciti ai fini di far continuare la storia e salvare la Terra.
Salvare la Terra non vuol dire solo mantenere in vita «questa bella d’erbe famiglia e d’animali», cantata dai nostri poeti, ma anche rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno sviluppo di tutte le persone umane.
Il diritto internazionale è già dotato di una Costituzione embrionale del mondo, prodotta in quella straordinaria stagione costituente che fece seguito alla notte della seconda guerra mondiale e alla liberazione dal fascismo e dal nazismo: la Carta dell’Onu del 1945, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, i due Patti internazionali del 1966 e le tante Carte regionali dei diritti, che promettono pace, sicurezza, garanzia delle libertà fondamentali e dei diritti sociali per tutti gli esseri umani. Ma non sono mai state introdotte le norme di attuazione di queste Carte, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati. Non è stato affatto costituito il nuovo ordine mondiale da esse disegnato. È come se un ordinamento statale fosse dotato della sola Costituzione e non anche di leggi attuative, cioè di codici penali, di tribunali, di scuole e di ospedali che «di fatto la realizzino».
È chiaro che in queste condizioni i diritti proclamati sono rimasti sulla carta, come promesse non mantenute. Riprendere oggi il processo politico per una Costituzione della Terra vuol dire tornare a prendere sul serio il progetto costituzionale formulato settant’anni fa e i diritti in esso stabiliti. E poiché quei diritti appartengono al diritto internazionale vigente, la loro tutela e attuazione non è soltanto un’urgente opzione politica, ma anche un obbligo giuridico in capo alla comunità internazionale e a tutti noi che ne facciamo parte.
Qui c’è un’obiezione formulata a partire dalla tesi di vecchi giuristi secondo la quale una Costituzione è l’espressione dell’«unità politica di un popolo»; niente popolo, niente Costituzione. E giustamente si dice che un popolo della Terra non c’è; infatti non c’era ieri e fino ad ora non c’è.
La novità è che adesso può esserci, può essere istituito; lo reclama la scena del mondo, dove lo stato di natura delle sovranità in lotta tra loro non solo toglie la «buona vita», ma non permette più neanche la nuda vita; lo reclama l’oceano di sofferenza in cui tutti siamo immersi; lo rende possibile oggi la vetta ermeneutica raggiunta da papa Francesco e da altre religioni con lui, grazie alla quale non può esserci più un dio a pretesto della divisione tra i popoli: «Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno» - hanno detto ad Abu Dhabi - non vuole essere causa di terrore per nessuno, mentre lo stesso «pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina con cui Dio ha creato gli esseri umani»; non c’è più un Dio geloso e la Terra stessa non è una sfera, ma un poliedro di differenze armoniose.
Per molti motivi perciò è realistico oggi porsi l’obiettivo di mettere in campo una Costituente della Terra, prima ideale e poi anche reale, di cui tutte le persone del pianeta siano i Padri e le Madri costituenti.
Una politica dalla parte della Terra
Di per sé l’istanza di una Costituzione della Terra dovrebbe essere perseguita da quello strumento privilegiato dell’azione politica che, almeno nelle democrazie, è il partito - nazionale o transnazionale che sia - ossia un artefice collettivo che, pur sotto nomi diversi, agisca nella forma partito. Oggi questo nome è in agonia perché evoca non sempre felici ricordi, ma soprattutto perché i grandi poteri che si arrogano il dominio del mondo non vogliono essere intralciati dal controllo e dalla critica dei popoli, e quindi cercano di disarmarli spingendoli a estirpare le radici della politica e dei partiti fin nel loro cuore. È infatti per la disaffezione nei confronti della politica a cui l’intera società è stata persuasa che si scende in piazza senza colori; ma la politica non si sospende, e ciò a cui comunque oggi siamo chiamati è a prendere partito, a prendere partito non per una Nazione, non per una classe, non “prima per noi”, ma a prendere partito per la Terra, dalla parte della Terra.
Ma ancor più che la riluttanza all’uso di strumenti già noti, ciò che impedisce l’avvio di questo processo costituente, è la mancanza di un pensiero politico comune che ne faccia emergere l’esigenza e ne ispiri modalità e contenuti.
Non manca certamente l’elaborazione teorica di un costituzionalismo globale che vada oltre il modello dello Stato nazionale, il solo nel quale finora è stata concepita e attuata la democrazia, né mancano grandi maestri che lo propugnino; ma non è diventato patrimonio comune, non è entrato nelle vene del popolo un pensiero che pensi e promuova una Costituzione della Terra, una unità politica dell’intera comunità umana, il passaggio a una nuova e rassicurante fase della storia degli esseri umani sulla Terra.
Eppure le cose vanno così: il pensiero dà forma alla realtà, ma è la sfida della realtà che causa il pensiero. Una “politica interna del mondo” non può nascere senza una scuola di pensiero che la elabori, e un pensiero non può attivare una politica per il mondo senza che dei soggetti politici ne facciano oggetto della loro lotta. Però la cosa è tale che non può darsi prima la politica e poi la scuola, né prima la scuola e poi la politica. Devono nascere insieme, perciò quello che proponiamo è di dar vita a una Scuola che produca un nuovo pensiero della Terra e fermenti causando nuove soggettività politiche per un costituzionalismo della Terra. Perciò questa Scuola si chiamerà «Costituente Terra».
«Costituente Terra»: una Scuola per un nuovo pensiero
Certamente questa Scuola non può essere pensata al modo delle Accademie o dei consueti Istituti scolastici, ma come una Scuola disseminata e diffusa, telematica e stanziale, una rete di scuole con aule reali e virtuali. Se il suo scopo è di indurre a una mentalità nuova e a un nuovo senso comune, ogni casa dovrebbe diventare una scuola e ognuno in essa sarebbe docente e discente. Il suo fine potrebbe perfino spingersi oltre il traguardo indicato dai profeti che volevano cambiare le lance in falci e le spade in aratri e si aspettavano che i popoli non avrebbero più imparato l’arte della guerra. Ciò voleva dire che la guerra non era in natura: per farla, bisognava prima impararla. Senonché noi l’abbiamo imparata così bene che per prima cosa dovremmo disimpararla, e a questo la scuola dovrebbe addestrarci, a disimparare l’arte della guerra, per imparare invece l’arte di custodire il mondo e fare la pace.
Molte sarebbero in tale scuola le aree tematiche da perlustrare:
1) le nuove frontiere del diritto, il nuovo costituzionalismo e la rifondazione del potere;
2) il neo-liberismo e la crescente minaccia dell’anomia;
3) la critica delle culture ricevute e i nuovi nomi da dare a eventi e fasi della storia passata;
4) il lavoro e il Sabato, un lavoro non ridotto a merce, non oggetto di dominio e alienato dal tempo della vita;
5) la «Laudato sì» e l’ecologia integrale;
6) il principio femminile, come categoria rigeneratrice del diritto, dal mito di Antigone alla coesistenza dei volti di Levinas, al legame tra donna e natura fino alla metafora della madre-terra;
7) l’Intelligenza artificiale (il Führer artificiale?) e l’ultimo uomo;
8) come passare dalle culture di dominio e di guerra alle culture della liberazione e della pace;
9) come uscire dalla dialettica degli opposti, dalla contraddizione servo-signore e amico-nemico per assumere invece la logica dell’ et-et, della condivisione, dell’armonia delle differenze, dell’ «essere per l’altro», dell’ «essere l’altro»;
10) il congedo del cristianesimo dal regime costantiniano, nel suo arco «da Costantino ad Hitler», e la riapertura nella modernità della questione di Dio;
11) il «caso Bergoglio», preannuncio di una nuova fase della storia religiosa e secolare del mondo.
Naturalmente molti altri temi potranno essere affrontati, nell’ottica di una cultura per la Terra alla quale nulla è estraneo d’umano. Tutto ciò però come ricerca non impassibile e fuori del tempo, ma situata tra due kairòs, tra New Delhi ed Abu Dhabi, due opportunità, una non trattenuta e non colta, la proposta di Gorbaciov e Rajiv Gandhi del novembre 1986 per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, e l’altra che ora si presenta di una nuova fraternità umana per la convivenza comune e la salvezza della Terra, preconizzata nel documento islamo-cristiano del 4 febbraio 2019 e nel successivo Comitato di attuazione integrato anche dagli Ebrei, entrato ora in rapporto con l’ONU per organizzare un Summit mondiale della Fratellanza umana e fare del 4 febbraio la Giornata mondiale che la celebri.
Partecipare al processo costituente iscriversi al Comitato promotore
Pertanto i firmatari di questo appello propongono di istituire una Scuola denominata «Costituente Terra» che prenda partito per la Terra, e a questo scopo hanno costituito un’associazione denominata «Comitato promotore partito della Terra». Si chiama così perché in via di principio non era stata esclusa all’inizio l’idea di un partito, e in futuro chissà. Il compito è oggi di dare inizio a una Scuola, «dalla parte della Terra», alle sue attività e ai suoi siti web, e insieme con la Scuola ad ogni azione utile al fine «che la storia continui»; e ciò senza dimenticare gli obiettivi più urgenti, il risanamento del territorio, la rifondazione del lavoro, l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, la firma anche da parte dell’Italia del Trattato dell’ONU per l’interdizione delle armi nucleari e così via.
I firmatari propongono che persone di buona volontà e di non perdute speranze, che esponenti di associazioni, aggregazioni o istituzioni già impegnate per l’ecologia e i diritti, si uniscano a questa impresa e, se ne condividono in linea generale l’ispirazione, si iscrivano al Comitato promotore di tale iniziativa all’indirizzo progettopartitodellaterra@gmail.com versando la relativa quota sul conto BNL intestato a “Comitato promotore del partito della Terra”, IBAN IT94X0100503206000000002788 (dall’estero BIC BNLIITRR).
La quota annua di iscrizione, al Comitato e alla Scuola stessa, è libera, e sarà comunque gradita. Per i meno poveri, per quanti convengano di essere tra i promotori che contribuiscono a finanziare la Scuola, eventuali borse di studio e il processo costituente, la quota è stata fissata dal Comitato stesso nella misura significativa di 100 euro, con l’intenzione di sottolineare che la politica, sia a pensarla che a farla, è cosa tanto degna da meritare da chi vi si impegna che ne sostenga i costi, contro ogni tornaconto e corruzione, ciò che per molti del resto è giunto fino all’offerta della vita. Naturalmente però si è inteso che ognuno, a cominciare dai giovani, sia libero di pagare la quota che crede, minore o maggiore che sia, con modalità diverse, secondo le possibilità e le decisioni di ciascuno.
Nel caso che l’iniziativa non riuscisse, le risorse finanziarie mancassero e il processo avviato non andasse a buon fine, l’associazione sarà sciolta e i fondi eventualmente residui saranno devoluti alle ONG che si occupano dei salvataggi dei fuggiaschi e dei naufraghi nel Mediterraneo.
Un’assemblea degli iscritti al Comitato sarà convocata non appena sarà raggiunto un congruo numero di soci, per l’approvazione dello Statuto dell’associazione, la formazione ed elezione degli organi statutari e l’impostazione dei programmi e dell’attività della Scuola.
Roma, 27 dicembre 2019, 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana.
PROPONENTI E PRIMI ISCRITTI. Raniero La Valle, giornalista (Roma), Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto (Roma), Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale, Raffaele Nogaro, ex vescovo di Caserta, Paolo Maddalena, già vicepresidente della Corte Costituzionale, Mariarosaria Guglielmi, Segretaria generale di Magistratura Democratica, Riccardo Petrella, ecologo, promotore del Manifesto dell’acqua e dell’identità di “Abitante della Terra”, Domenico Gallo, magistrato, Francesco Carchedi, sociologo (Roma), Francesco Di Matteo, Comitati Dossetti per la Costituzione, Anna Falcone. avvocata, Roma, Pippo Civati, Politico, Piero Basso (Milano), Gianpietro Losapio, cooperatore sociale, direttore del Consorzio NOVA, Giacomo Pollastri, studente in Legge (Roma), Francesco Comina, giornalista (Bolzano), Roberto Mancini, filosofo (Macerata), Francesca Landini, informatica (Roma), Giancarlo Piccinni e la Fondazione don Tonino Bello (Alessano), Grazia Tuzi, antropologa, autrice di “Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della comunità del porcellino” (Roma), Guido Innocenzo Gargano osb cam., monaco (Roma), Felice Scalia, s. J, (Messina), Marina Graziosi, docente (Roma), Agata Cancelliere, insegnante, (Roma), Raul Mordenti, storico della critica letteraria, Politico (Roma), Salvatore Maira, scrittore (Roma), Marco Malagola, francescano, missionario, (Torino), Norma Lupi (Roma), Andrea Cantaluppi, sindacalista (Roma), Enrico Peyretti (Torino), Nino Mantineo, università di Catanzaro, Giacoma Cannizzo, già sindaca di Partinico, Filippo Grillo, artista (Palermo), Nicola Colaianni, già magistrato e docente all’Università di Bari, Stefania Limiti, giornalista (Roma), Domenico Basile (Merate, Lecco), Maria Chiara Zoffoli (Merate), Luigi Gallo (Bolzano), Antonio Vermigli, giornalista (Quarrata, Pistoia), Renata Finocchiaro, ingegnere (Catania), Liana D’Alessio (Roma), Lia Fava, ordinaria di letteratura (Roma), Paolo Pollastri, musicista (Roma), Fiorella Coppola, sociologa (Napoli), Dario Cimaglia, editore, (Roma), Luigi Spina, insegnante, ricercatore (Biella), Marco Campedelli, Boris Ulianich, storico, Università Federico II, Napoli, Gustavo Gagliardi, Roma, Paolo Scandaletti, scrittore di storia, Roma, Pierluigi Sorti, economista, Roma, Vittorio Bellavite, coordinatore di “Noi siamo Chiesa”, Agnés Deshormes, cooperatrice internazionale, Parigi, Anna Sabatini Scalmati, psicoterapeuta, Roma, Francesco Piva, Roma, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Tina Palmisano, Il Giardino Terapeutico sullo Stretto, Messina, Luisa Marchini, segretaria di “Salviamo la Costituzione”, Bologna, Maurizio Chierici, giornalista. Angelo Cifatte, formatore, Genova, Marco Tiberi, sceneggiatore, Roma, Achille Rossi e l’altrapagina, Città di Castello, Antonio Pileggi, ex Provveditore agli studi e dir. gen. INVALSI, Giovanni Palombarini, magistrato, Vezio Ruggieri, psicofisiologo (Roma) Bernardetta Forcella (insegnante (Roma), Luigi Narducci (Roma), Laura Nanni (Albano), Giuseppe Salmè, magistrato, Giovanni Bianco, giurista, Roma.
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W.
V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia
del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni
fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non
di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si
tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni
o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti
“mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o,
ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente
da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione
nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a
un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con
la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori
sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione
a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object
(1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione
più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali»
del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come
una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al
nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto
il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in
fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word
and Object3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i
nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung)
del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento
sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica
di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio
schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una
necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe
soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche
correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili
traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati
andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni,
quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui
base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di
«catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici
» (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione
del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative
bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili
sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa
a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i
nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare
i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo") .. *
Neonazismo e libertà accademica
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 09 dicembre 2019)
Ha suscitato scalpore il caso di Emanuele Castrucci, professore ordinario di Filosofia del diritto all’Università di Siena che per anni ha sostenuto tramite i suoi profili social posizioni esplicitamente neonaziste, razziste, antisemite e negazioniste della Shoah . Il rettore senese e gli organi rappresentativi dei suoi colleghi, spinti dal montare della polemica mediatica, hanno preso le distanze da lui e stanno promuovendo provvedimenti che possono preludere a un licenziamento, aperti da una denuncia alla Procura.
A fronte di questi sviluppi, alcuni studiosi e accademici hanno sollevato dubbi sull’opportunità e sulla legittimità di un atteggiamento repressivo verso il docente da parte dell’ateneo di appartenenza. In particolare Biagio De Giovanni, pur condannando fermamente l’opinione del collega, ha rigettato l’ipotesi di un licenziamento richiamando la qualità della sua attività intellettuale e l’illegittimità di provvedimenti di totale ostracismo in un ambiente, quello della ricerca universitaria, che si fonda sul libero confronto e dibattito e sulla battaglia delle idee, non sulla loro repressione. È stato del resto proprio Castrucci a difendersi facendo rientrare le sue esternazioni nell’ambito della piena libertà di parola e di espressione che caratterizzano il libero confronto.
Il tema è interessante e merita di essere affrontato fino in fondo, anche per trarre da un caso singolo alcune linee di comportamento generali. Iniziamo facendo chiarezza: la libertà di esprimersi accordata a un professore universitario è molto più solida e strutturata della semplice libertà di parola riconosciuta a tutte e a tutti nelle democrazie liberali: si tratta infatti di libertà accademica. Essa consiste, a dirla brutalmente, nella possibilità di essere pagati e accedere alle fondamentali strutture professionali dell’insegnamento e della ricerca anche per sostenere posizioni ritenute sbagliate, pericolose, potenzialmente catastrofiche se diffuse e messe in pratica nella società. Non è un caso se, nel senso comune così come negli aspetti più noti della legislazione in materia, la libertà accademica quasi si identifica col mantenimento della posizione lavorativa e stipendiale dello studioso. È così di fronte alla sostanziale inamovibilità maturata per i docenti nei Paesi in cui la “corporazione” universitaria è stata più largamente inglobata nell’impiego pubblico, e nell’ambito della tenure riconosciuta in sistemi contrattuali come quello statunitense.
Molto spesso però si dimentica un altro elemento nell’attribuzione di quello che è, a tutti gli effetti, un privilegio professionale strettamente legato alla funzione culturale e sociale di docenti e ricercatori universitari. Ai ruoli a cui viene riconosciuta la libertà accademica si accede dopo che la comunità degli studiosi ha potuto prendere in esame per un congruo periodo di tempo l’attività scientifica dell’aspirante docente, riscontrandovi un adeguato livello di competenza disciplinare e la maturazione di un’adeguata etica professionale. Questo passaggio è esplicito nelle norme che, ad esempio negli Stati Uniti, regolano il tenure track, e in fondo si ritrova alle radici della formazione stessa delle istituzioni universitarie nell’Europa medievale, quando appunto la licentia ubique docendi costituiva un fondamentale accesso alla possibilità di insegnare rilasciata dopo attento esame da parte di alcuni tra i massimi esperti della disciplina.
Una volta chiarito questo quadro generale, quali conclusioni possiamo trarre sul caso Castrucci? In primo luogo, se coi suoi tweet antisemiti e filohitleriani il docente ha esercitato il proprio inalienabile diritto alla libertà di espressione o ne ha abusato violando la legislazione sull’apologia del nazismo e del fascismo e quella (a mio parere, e anche secondo l’opinione della principale associazione culturale italiana di storici contemporaneisti, piuttosto scivolosa e non del tutto condivisibile) sul negazionismo, spetta alla magistratura e non all’università.
Detto questo, occorre chiedersi se le sue prese di posizione sono difese dalla libertà accademica, che quindi lo mette al riparo da provvedimenti sul piano professionale. Ed è questo il punto a mio parere interessante. Se infatti, come abbiamo visto in precedenza, l’attribuzione del privilegio della libertà accademica si regge sulla dimostrazione di aver acquisito e di mantenere competenza disciplinare ed etica professionale, bisogna ammettere che chi esprime pubblicamente le opinioni che ha espresso convintamente Castrucci forse non possiede più, se mai effettivamente è giunto ad averle, né l’una né l’altra.
Da un lato, le idee sul “complotto ebraico”, sulla politica monetaria “sovranista” di Hitler e Mussolini e sulla veridicità dei Protocolli dei Savi di Sion, prima di essere aberranti, sono fondate su dati falsi e ampiamente smentiti, e possono essere credute solo da una persona ignorante della storia, sciatta nell’analisi critica delle sue fonti, priva dei filtri culturali alla propaganda più trita che ci si aspetterebbe da un uomo di cultura, per di più specializzato nella storia delle idee e del pensiero. Dall’altro, è doveroso chiedersi se chi esprime così apertamente il disprezzo per interi gruppi umani ha poi dato seguito alle parole con comportamenti più o meno velatamente discriminatori e ostruzionistici nei confronti di studentesse e studenti, colleghe e colleghi, in un mondo universitario in cui tra molte difficoltà si affacciano minoranze di cui andrebbero tutelate le pari opportunità.
Dunque, alla luce di un comportamento così evidentemente lesivo di qualsiasi codice etico di condotta fondato sulla convinzione che un professionista intellettuale non smette le sue funzioni professionali alla fine dell’orario d’ufficio e che la comunicazione pubblica del personale universitario è parte integrante della “terza missione” di divulgazione e public engagement, avrebbe senso se l’ateneo senese indagasse da vicino sui comportamenti tenuti da Castrucci nelle proprie relazioni di lavoro, ponendosi il problema del perché finora non è emerso nulla dai canali di tutela e di valutazione degli studenti o da rimostranze di colleghi, e se ripercorresse con attenzione le tappe di carriera del docente e le sue valutazioni successive per individuare come e perché nella lettura critica della sua produzione da parte di commissari ed esperti valutatori non siano emersi gli elementi di sciatteria, pressapochismo e vero e proprio errore metodologico che non possono non caratterizzare, almeno da un certo punto in poi, gli scritti di chi sostiene in coscienza posizioni come le sue. Questa indagine retrospettiva, oltre a mettere in discussione il posto di professore ordinario di Castrucci, potrebbe e dovrebbe chiamare in causa i responsabili della sua carriera, e far loro rendere conto di procedure di selezione e conferma chiaramente inadeguate.
In questo modo si otterrebbe il risultato di non fare di Castrucci un autoproclamato “martire” del libero pensiero con una sanzione esclusivamente individuale; si darebbero radici eminentemente professionali alle sanzioni conseguenti ai suoi gesti; si farebbe luce sul sistema di collusioni e di silenzi che ha permesso a una figura così inadeguata di restare in cattedra per anni, chiarendo che le responsabilità non sono soltanto sue.
Più in generale, poi, riflettere sui caratteri fondamentali della professione accademica e sulla necessità di una verifica continua della loro soddisfazione potrebbe far bene al sistema universitario nel suo complesso. Se i meccanismi di valutazione dell’idoneità professionale e della qualità della ricerca e della didattica si concentrassero, piuttosto che su astratti livelli di “eccellenza” spesso concepiti in senso puramente quantitativo, su come individuare più prontamente casi di palese inadeguatezza come questo, si sarebbe fatto un passo avanti per offrire un ambiente universitario più vivibile. Allo stesso modo, se i codici etici delle università venissero concepiti non tanto come manuali di buone maniere per non offendere il potente di turno e non mettere in cattiva luce i propri vertici impegnati nella competizione per i finanziamenti ministeriali, quanto per tracciare un insieme di comportamenti da cui risultino le qualità professionali richieste ai docenti per la loro funzione, le possibilità di produttiva interazione tra alta cultura e società sarebbero decisamente più significative.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020", "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
Idee.
Povera filosofia ridotta a ricetta terapeutica
Due libri pescano da Aristotele e in generale dal pensiero greco per insegnare, come dei manuali, a raggiungere la felicità
di Roberto Mussapi (Avvenire, martedì 3 dicembre 2019)
Aristotele fu il primo filosofo a chiedersi che cosa sia la felicità, e come possiamo conseguirla. Da questa affermazione nasce un saggio che indica, nell’opera del maestro, una guida ancora attuale per la ricerca delle felicità. Per Edith Hall, nel suo Il metodo Aristotele (Einaudi, 288 pagine, euro 19,50), il pensatore greco è essenzialmente una guida a tale scopo, secondo il sottotitolo, “Come la saggezza degli antichi può cambiare la vita”: un mondo di formule, un ricettario, secondo le necessità e le richieste del nostro tempo. Un Aristotele un po’ diverso da come lo vedeva Dante, o secoli di pensiero. Certo, il padre della filosofia razionale guida anche alla ricerca della felicità, ma non necessariamente alla scoperta del suo elisir.
Aristotele non è un guaritore, personal trainer di anima e corpo, custode del segreto della felicità. Segreto che per ogni filosofo, o non esiste, o resta sempre segreto, mistero, che anima sempre alla nuova ricerca. Giusto distinguere il suo pensiero da quello cupo degli stoici, o da quello catartico e fondamentalista dei cinici. E quando Aristotele, per citare un esempio dal libro, afferma che sesso, cibo e vino, senza eccessi, contribuiscono alla felicità individuale e della persona amata, manifesta rispetto per la vita fisica, ma non sta indicando una ricetta. Il saggio di Edith Hall esplora il pensiero del filosofo, e lo orienta sulla ricerca di una felicità di fatto mondana, temporanea, ametafisica.
Certo è lapalissiano sottolineare come rispetto al maestro Platone, Aristotele non consideri fallace la vita terrena, illusoria al confronto con il mondo delle Idee. Ma è riduttivo farne un pensatore privo di senso del tragico. Il tema della felicità, e della filosofia che sarebbe nata per consentire a tutti di conseguirla, anima un altro libro, dal titolo esplicito: Lezioni di felicità (Einaudi, pagine 148, euro 13,00) di Ilaria Gasparri, seguito da un sottotitolo ancora più appetibile e promozionale: “Esercizi filosofici per il buon uso della vita”.
L’autrice parte da una domanda retorica: che cosa succederebbe se di punto in bianco decidessimo di conoscere noi stessi al modo degli antichi Greci? Risposta al quiz: risolveremmo problemi, ansie, dilemmi diversamente annebbianti, e nefasti. Che ogni problema del presente non possa essere affrontato solo nella dimensione del presente stesso, ma richieda una prospettiva più ampia, che riguarda il passato la tradizione, è constatazione sacrosanta e difficilmente contestabile. Ma l’affermazione che una parte del passato e della nostra tradizione contengano le soluzioni pronte a risolvere problemi di oggi, rivela atteggiamento semplificativo, quale quello della Hall rispetto ad Aristotele. Il mondo della filosofia greca sarebbe un formidabile ricettario di formule e verità utili a risolvere la ricerca della felicità, una volta per sempre. Di nuovo la filosofia usata come tesoro di ricette. In sintesi, non va trascurata, perché è utile.
Rispetto alla Hall Ilaria Gasparri ha il merito di scegliere, per le settimane terapeutiche in cui orchestra il libro, scuole filosofiche in sé già limitate da una prospettiva in parte utilitaria: cinque delle sei settimane sono immersioni nel pensiero eleatico, scettico, stoico, epicureo e cinico: da nessuna di queste scuole filosofiche nasce vertigine. Non si riferisce, l’autrice, e giustamente, al Socrate che non cerca la felicità ma il bene assoluto, e beve la cicuta pronto a volare come un bianco uccello nell’immortalità. Non c’é Platone, con l’ascesi del pensiero misticamente ardente allo spazio iperuranio, e le visioni estatiche delle Muse e delle Sirene, non c’è Plotino con il mistero dell’Anima e delle singole sue manifestazioni.
Ma la prima scuola, quella pitagorica, non nasce affatto come filosofia pronta per l’uso, quale possono essere intese, seppur semplificando, stoicismo e cinismo: è alle origini del mistero del numero, del mito e rito in cui l’Oriente passa metamorfosandosi misteriosamente in Occidente.
In linea di massima questo approccio semplificante e edificante al pensiero filosofico potrà condurre qualcuno alla felicità, ma a patto che egli si estranei, si alieni dalla complessità, dall’Ombra, dal mondo di Calipso, di Dante, di Shakespeare. Dalla zona di buio e passione in cui hanno origine poesia e filosofia.
Antichi Ritorni
Cenis/Ceneo, quando uno stupro cancella l’identità
Oltraggiata dal dio Poseidone la fanciulla chiede di diventare uomo
di Alba Subrizio (il Mattino di Puglia e Basilicata, 10/09/2017)
La prima trasformazione female-to-male ma soprattutto il rinnegamento della propria sessualità in virtù di una violenza subita. Ovidio con questa storia spiega come lo stupro ferisca non solo fisicamente ma anche mentalmente, al punto che la ragazza sente il bisogno di cancellare per sempre quella femminilità oltraggiata; nulla potrà mai essere come prima. Per cancellare quel dol