NASCITA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. UNA NOTA *
(...) non equivochiamo! Qui non siamo sulla via di Damasco, nel senso e nella direzione di Paolo di Tarso, del Papa, e della Gerarchia Cattolico-Romana: “[... ] noi non siamo più sotto un pedagogo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Galati: 3, 25-28).
Nella presa di distanza, nel porsi sopra tutti e tutte, e nell’arrogarsi il potere di tutoraggio da parte di Paolo, in questo passaggio dal NOI siamo al VOI siete, l’inizio di una storia di sterminate conseguenze, che ha toccato tutti e tutte. Il persecutore accanito dei cristiani, “conquistato da Gesù Cristo”, si pente - a modo suo - e si mette a “correre per conquistarlo” (Filippesi: 3, 12): come Platone (con tutto il carico di positivo e di negativo storico dell’operazione, come ho detto), afferra l’anima della vita evangelica degli apostoli, delle cristiane e dei cristiani, approfittando delle incertezze e dei tentennamenti di Pietro, si fa apostolo (la ‘donazione’ di Pietro) dei pagani e, da cittadino romano, la porta e consegna nelle mani di Roma.
Nasce la Chiesa ... dell’Impero Romano d’Occidente (la ‘donazione’ di Costantino). La persecuzione dei cristiani, prima e degli stessi ebrei dopo deve essere portata fino ai confini della terra e fino alla fine del mondo: tutti e tutte, nella polvere, nel deserto, sotto l’occhio del Paolo di Tarso che ha conquistato l’anima di Gesù Cristo, e la sventola contro il vento come segno della sua vittoria... Tutti e tutte sulla romana croce della morte.
Egli, il vicario di Gesù Cristo, ha vinto: è Cristo stesso, è Dio, è il Dio del deserto... Un cristo-foro dell’imbroglio e della vergogna - con la ‘croce’ in pugno (e non piantata nella roccia del proprio cuore, come indicava Gesù) - comincia a portare la pace cattolico-romana nel mondo. Iniziano le Crociate e la Conquista. Il Dio lo vuole: tutti i popoli della Terra vanno portati nel gelo eterno - questo è il comando dei Papi e dei Concili, cioè delle massime espressioni dell’intelligenza astuta (quella del Dio di Ulisse e della vergine Atena, non del Dio di Giuseppe e di Maria) del Magistero della Chiesa, alle proprie forze armate... fino a Giovanni Paolo II, al suo cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e alla Commissione teologica internazionale, che ha preparato il documento “Memoria e riconciliazione: la Chiesa e le colpe del passato”.
Uno spirito e un proposito lontano mille miglia, e mille anni prima di Cristo, da quello della “Commissione per la verità e la riconciliazione”, istituita in Sudafrica nel 1995 da Nelson Mandela, per curare e guarire le ferite del suo popolo. Il motto della Commissione bello, coraggioso, e significativo è stato ed è: “Guariamo la nostra terra”!
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PER LEGGERE L’INTERO TESTO, DA CUI E’ PRESA LA CITAZIONE, VEDI le pp. 23-25 di ->:Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide, Ripostes, Roma-Salerno 2001.
NOTE SUL TEMA:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala (29.01.2013)
NOTA
AL DI SOPRA DI TUTTO LA LEGGE, LA COSTITUZIONE, O "L’UOMO SUPREMO"?! LA "CHARITAS" O LA "CARITAS"?!
LA PAROLA DEL VESCOVO (Mauro Russotto): "[...] In questa prima mia riflessione desidero soffermarmi sul motto episcopale del Vescovo Giovanni [Jacono],
con il quale abbiamo voluto titolare il bollettino:
Super omnia charitas. Si tratta delle parole che
San Paolo scrive nella Lettera ai Colossesi: «al di
sopra di tutto vi sia la carità» (Col 3,14). La ca-
rità è la dimensione e la virtù che sopravvive alla
stessa fede e alla speranza. Perché la carità è Dio,
è il nome nuovo di Dio... Deus charitas est [1 Gv. 4.8, giovanneo - non paolino, fls]. E
dunque Super omnia charitas è la nuova paolina formulazione del primo comandamento del decalogo di Mosè: Dio è l’Unico ed è sopra e al di
sopra di tutto!"
(Cfr.
SVPER OMNIA CHARITAS - N. 1 •GIUGNO 2009,PERIODICO DELLA POSTULAZIONE DELLA CAUSA DI CANONIZZAZIONE DEL SERVO DI DIO MONS. GIOVANNI JACONO).
FLS
P. S.:
LA "LUCE DELLA FEDE" CATTOLICO-ROMANA, I MIGRANTI, E LA CHIESA COME "SACRA FAMIGLIA"... *
Nella "Prefazione", il card. Angelo Scola così scrive: -"Nella storia della Chiesa ambrosiana e dell’assistenza l’Istituto Sacra Famiglia possiede un valore centrale [...] La «charitas» paolina del motto dell’istituto e del titolo di questo libro non è, a Cesano Boscone, un titolo ad effetto, ma pratica concreta e quotidiana, che vede nel volto degli ospiti il volto di Cristo. La Sacra Famiglia, infatti, è un luogo di instancabile testimonianza ed educazione a quella gratuità che anzitutto ci precede: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi» (1 Gv 4, 10). In questo luogo si saldano la cura dell’anima e la cura del corpo, la fedeltà a una tradizione assistenziale e la continua ricerca del progresso e dell’innovazione.E’ in fondo questa l’immagine dell’articolata e viva eredità che il Concilio Vaticano II ha lasciato a una Chiesa che, attingendo al deposito della sua storia, cerca di rinnovarsi per proporre il messaggio evangelico al mondo contemporaneo. Così la Sacra Famiglia adegua continuamente alla realtà in cui il Padre ci chiama a vivere i "poveri" a cui mons. Pogliani ha voluto consacrare la sua vita e il suo ospizio: ieri gli inabili al lavoro e i figli della guerra, oggi le persone affette da patologie gravi, ma anche gli anziani, che nella società dell’efficienza e della velocità sono tagicamente emarginati, e i migranti, il «dono» - come li ha definiti papa Francesco - che Dio ha fatto alle società ricche, perché riscoprano, nella strutturale condizione di indigenza di ogni persona,il tratto più prezioso della loro comune umanità. Milano 25 aprile 2016 + Angelo Scola Arcivescovo di Milano".
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SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Recensione
Finiamola con il sistema clericale
di Andrea Lebra *
È un libro che in Francia sta riscuotendo notevole successo. Esso affronta di petto e in modo meticoloso e documentato una delle questioni che stanno particolarmente a cuore a papa Francesco: come prevenire, contrastare e superare nella Chiesa quel «brutto male che ha radici antiche» (meditazione mattutina del 13 dicembre 2016) costituito dal clericalismo, «modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa» e «atteggiamento che non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale» posta dallo Spirito Santo nel loro cuore (Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018).
Il saggio (Edizioni du Seuil, aprile 2020) è intitolato En finir avec le cléricalisme. Lo ha scritto Loïc de Kerimel, padre di quattro figli e nonno di sei nipoti, fratello del vescovo di Grenoble-Vienne, Guy de Kerimel, apprezzato docente di filosofia per quasi trent’anni in un liceo di Le Mans, acuto teologo, assiduo lettore delle opere di uno dei più autorevoli teologi francesi, il gesuita Joseph Moingt deceduto ultracentenario il 28 luglio 2020.
Cofondatore dell’associazione Chrétiens en marche per una presenza attiva e responsabile del laicato nella Chiesa, particolarmente impegnato nell’ambito della Conférence Catholique des Baptisé-e-s Francophones per una riforma profonda della Chiesa, Loïc de Kerimel ha anche un ruolo particolarmente attivo nell’Amitié judéo-chrétienne de France, associazione che ha come obiettivo quello di favorire il dialogo tra cristiani ed ebrei.
Radici culturali del clericalismo
Preceduto da una bella prefazione di Jean-Louis Schlegel, redattore di Esprit, la rivista fondata nel 1932 da Emmanuel Mounier, En finir avec le cléricalisme ha il merito di andare alle radici teoriche e culturali del clericalismo, una malattia cronica di cui soffre il cristianesimo dalla fine del secondo secolo dell’era cristiana. Pubblicato nell’aprile 2020, poco dopo la morte prematura dell’autore, può essere considerato come un suo testamento spirituale.
Intento di Loïc de Kerimel non è tanto quello di stigmatizzare le forme devianti del clericalismo nella Chiesa sfociate - come ha affermato papa Francesco nella Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018 - negli abusi sessuali, di potere e di coscienza, quanto piuttosto quello di evidenziarne il carattere sistemico.
Quest’ultimo è individuato dall’autore nel fatto che si siano introdotte e reiterate in seno al “popolo di Dio” le categorie della separazione (clero/laici, uomini/donne, puro/impuro), della gerarchizzazione (vescovi/presbiteri/diaconi/religiosi/fedeli), dell’emarginazione della donna e della sacralizzazione di una persona mediante l’imposizione delle mani che crea le condizioni per sentirsi parte di una casta (quella “sacerdotale”) detentrice di competenze e di attribuzioni esclusive ed escludenti.
Il carattere sistemico di quello che papa Francesco denuncia come «un modo non evangelico» di concepire il ruolo ecclesiale del presbitero (discorso del 6 ottobre 2018 ai pellegrini della Chiesa greco-cattolica slovacca) o come «una caricatura e una perversione del ministero» del vescovo (discorso del 24 gennaio 2019 ai vescovi centroamericani), ovvero ancora come «un pericolo dal quale devono guardarsi anche i diaconi» (discorso del 25 marzo 2017 ai preti e ai consacrati in occasione della visita apostolica a Milano), viene sviscerato percorrendo dapprima la storia dei primi secoli della Chiesa.
Configurazione gerarchico-sacrificale del sistema clericale
Secondo Loïc de Kerimel, all’origine del clericalismo vi è un processo di sacralizzazione della funzione del presbiterato che, a partire dalla fine del terzo secolo, la Chiesa nascente ha mutuato dalle strutture centralizzatrici della tribù giudaica dei Leviti. Il ceto sacerdotale costituirebbe una casta depositaria di poteri divini implicante una differenza non solo di grado, ma di natura tra il clero e i laici. Rispetto alla generalità delle persone battezzate, il clero sarebbe depositario di una superiorità religiosa derivante dal sacramento dell’ordine.
Paradossalmente, mentre la religione ebraica, con la sostituzione del tempio con la sinagoga, del rabbinato con il sacerdozio e del sistema sacrificale con lo studio della Torà, si trova di fatto, dopo la distruzione del Tempio nell’anno 70 d.C., desacralizzata e desacerdotalizzata, la Chiesa si struttura secondo categorie levitiche, come l’istituzione del sommo sacerdote (cioè del vescovo), la distinzione sacerdoti/laici, l’esclusione delle donne, la concezione sacrificale del culto e la reintroduzione dello “spazio sacro” interamente ad esso dedicato e accessibile solo al clero.
L’autore, al riguardo, cita la formula lapidaria usata da Joseph Moingt nella sua opera Esprit, Église et monde - De la foi critique à la foi qui agit, Éditions Gallimard, Paris 2016, p. 216: l’Antico Testamento fondato sulla legge ha sopraffatto il Nuovo fondato sull’amore vicendevole (p. 29).
All’inizio non era così
Quindici i capitoli del libro distribuiti in tre parti. La prima (capitoli da 1 a 6) prende in esame la nascita del «sistema clericale», in contrasto con l’insegnamento di Gesù e con la vita delle prime comunità cristiane. L’elemento più problematico del processo che lungo la storia ha subìto il ministero ordinato - vissuto oggi concretamente nei distinti ruoli del vescovo, del presbitero e del diacono - è l’assunzione di un forte carattere sacrale e sacerdotale, che all’inizio gli era completamente estraneo.
Significativo che gli scritti neotestamentari, compresi gli apocrifi, concordino nell’attribuire a Gesù una discendenza genealogica che non ha nulla a che fare con la tribù di Levi, escludendolo così in radice dall’appartenenza al ceto sacerdotale.
A proposito di Gesù - e dei suoi apostoli - i Vangeli non parlano mai di sacerdozio. Tanti i titoli a lui attribuiti (Maestro, Profeta, Figlio di Davide, Figlio dell’uomo, Messia, Signore, Figlio di Dio), ma mai quello di Sacerdote o di Sommo sacerdote (p. 45).
«Leggendo i testi delle origini cristiane, ci si può rendere conto che nessun apostolo e nessun’altra persona si separa dalla comunità in virtù di un carattere sacro, o si comporta in quanto ministro di un culto nuovo o compie atti specificamente rituali. Si può osservare che non c’è alcuna distinzione tra persone consacrate e non consacrate... Non ci sono spazi occupati da un’istituzione sacerdotale». Lo scrive Joseph Moingt (in: Dieu qui vient à l’homme, t. 2/2, Les Éditions du Cerf, Paris 2008, p. 842), il teologo spesso richiamato da Loïc de Kerimel.
Ad essere indelebile nell’ambito del «santo popolo fedele di Dio» - scrive l’autore - è la condizione comune dei battezzati e delle battezzate alla quale tutto, compreso l’esercizio dell’autorità, è subordinato (p. 41).
È quanto emerge dalle Scritture ed è ciò che il concilio Vaticano II ha affermato in modo autorevole: prima del ministero ordinato, prima cioè del «sacerdozio ministeriale» del vescovo, del presbitero e del diacono, vi è la condizione comune di tutti i credenti in virtù del battesimo, significativamente definita «sacerdozio comune». Ed è ciò che, purtroppo, a livello pratico e diffuso, per il momento non pare essere stato recepito dalla Chiesa, anche se fa ben sperare l’insistenza di papa Francesco nel rimettere al centro il battesimo come base ineludibile della vita cristiana.
Detto in altri termini con riferimento al presbiterato, è dal battesimo che si origina non il “potere” su una comunità di credenti, ma il “servizio” ad essa. Il sacramento dell’ordine non sacralizza la persona sulla quale vengono imposte le mani, ma ne radicalizza piuttosto la vocazione battesimale.
Il clericalismo: un problema la cui soluzione non è dietro l’angolo
Nella seconda parte del suo saggio (capitoli da 7 a 11), l’autore si sofferma sull’evoluzione e sul rafforzamento del sistema clericale nel corso della storia della Chiesa.
Stigmatizzando i legami tra la violenza e il sacro a partire dagli studi di René Girard (p. 143), egli rilegge la Riforma di Lutero e il Concilio di Trento che ha accentuato la dimensione sacrificale dell’eucaristia e della sacralità della figura del prete, mettendo decisamente in ombra la centralità del fondamento battesimale che accomuna tutti i credenti.
Per quanto riguarda i nostri tempi, non nasconde la sua delusione in presenza del fenomeno della riclericalizzazione galoppante presente in alcuni ambiti ecclesiali e che sembra interessare soprattutto i «preti della generazione Giovanni Paolo II» che nutrono la nostalgia «di un sacro inglobante che esonera il singolo individuo dalla responsabilità di vivere e di pensare» (p. 197).
Il che lo induce a prendere atto che il sistema clericale sembra avere ancora un futuro decisamente roseo, anche perché a volere preti clericali sono numerose e potenti famiglie di affiliati appartenenti per lo più a categorie socioprofessionali elevate (p. 198). Presbiteri, non sacerdoti!
Nella terza parte (capitoli da 12 a 15) Loïc de Kerimel cerca di rispondere alla domanda se oggi sia possibile, da parte della Chiesa, uscire dal clericalismo concretizzando l’ideale cristico (p. 64) dell’uguaglianza di tutte le persone battezzate in ragione della medesima dignità cristiana proclamata certamente dal concilio Vaticano II, ma in modo non del tutto privo di equivoci.
L’autore cita al riguardo Gilles Routhier, uno dei più autorevoli storici del concilio Vaticano II, il quale ritiene che, a cinquant’anni dal Vaticano II, la prospettiva decisamente rivoluzionaria di considerare il tema del «popolo di Dio» prioritario rispetto alla costituzione gerarchica della Chiesa è rimasta a livello di pio desiderio.
In particolare, quanto all’immagine del ministro ordinato, il docente canadese di ecclesiologia ritiene che il Concilio si sia trovato davanti due prospettive: l’una, tradizionale, che parte dallo nozione di sacerdote - sul modello del “sacrificatore” delle religioni tradizionali, del greco hiéreus e dell’ebraico cohen -; l’altra, attestata nel Nuovo Testamento, basata sull’idea di presbiterato - lo statuto dell’anziano, dell’uomo (o della donna?) che, per esperienza maturata, è in grado di esercitare l’arte del discernimento e di contribuire a risolvere conflitti, dimostrando così di avere titolo per prendersi cura della comunità affidatagli, per dare il proprio contributo alla vita dei credenti in un servizio generoso e appassionato, per presiedere il culto.
Secondo Gilles Routhier, il Concilio ha scelto la seconda prospettiva e, conseguentemente, utilizza il termine presbitero là dove il concilio di Trento usa quello di sacerdote.
Citando, poi, Yves Congar, Routhier aggiunge che non solo il termine sacerdote non è biblico, ma che esso privilegia indebitamente, tra le tre funzioni attribuite a Cristo (sacerdotale, profetica, regale), quella sacerdotale a detrimento delle altre due.
Trattandosi di presbiteri, il loro ministero sacerdotale, cioè la celebrazione dell’eucaristia e dei sacramenti, non è che una delle dimensioni del loro ministero presbiterale. Quest’ultimo è in primo luogo ministero dell’evangelizzazione e del governo. La celebrazione dell’eucaristia non monopolizza la definizione di chi è e cosa fa il prete (p. 204).
Nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa
Il riconoscimento - quanto a nazionalità, condizione sociale o sesso - della «eguale dignità in Cristo e nella Chiesa» (Lumen gentium 32 a commento di Gal 3,28) delle persone battezzate e la conseguente fine del «dominio maschile» costituiscono la condizione sine qua non sia della possibilità di uscita dalla crisi che attanaglia la Chiesa dopo gli scandali in tema di abusi sessuali, di potere e di coscienza, sia più semplicemente della fedeltà all’Evangelo (p. 229).
La radicale uguaglianza di tutti i membri del «popolo di Dio» senza discriminazioni di nazione, di condizione sociale o di sesso non annulla le differenze di funzioni, ma fa sì che l’esercizio di queste ultime non generi scissioni nel corpo ecclesiale, allontani ogni forma deviante di autoritarismo e, nello stesso tempo, valorizzi diversità e complementarietà dei carismi (cf. 1Cor 12) a servizio del bene comune (p. 257).
Soprattutto, «si potrà parlare - afferma l’autore - di uscita dal sistema clericale solo il giorno in cui a nessuna donna sarà impedito di esercitare le funzioni di governo, di insegnamento e di culto» riservate oggi ai maschi. Ma aggiunge anche che, prima di pensare di aprire alle donne la possibilità di accedere al ministero presbiterale, è necessario desacralizzarlo e desacerdotalizzarlo, evitando di strutturarlo secondo un rigido e discriminante ordine gerarchico (p. 241).
Mettere fine all’esclusione delle donne dovuta al sistema clericale dimostrerebbe davvero che, con Gesù di Nazaret, si è passati dal sacro al santo, da una concezione elitaria di salvezza alla convinzione che Dio si dona immediatamente a tutti e a tutte senza escludere nessuno (p. 244).
* Fonte: Settimana News, 23 novembre 2020 (ripresa parziale).
#FILOLOGIA #Storiografia #critica.
Un #lapsus e un #refuso di #lungadurata: "Le Fonti. Le lettere di #PaolodiTarso [...] 1 Cor 11, 23-26 (sull’#eucarestia: Mc 14, 22-25/Mt 26, 26-29/Lc 22, 14-20) [...]" (Fernando Bermejo-Rubio, L’invenzione di Gesù di Nazareth, Torino 2021, p. 21)! #Eucaristia, eu-#carestia, e #latinorum. Uscire dal #letargo. O no?!
#CHARIDAD, #EUCARISTIA (EU-#CHARIS-TIA), #PoncioPilato (#PonzioPilato).La #invencion de #JesusdeNazaret. #Historia #ficción #historiografia (#FernandoBermejoRubio): https://www.amazon.it/invenci%C3%B3n-jes%C3%BAs-Nazaret-Fernando-Bermejo/dp/8432319201?asin=B07KSXYNPR&revisionId=e46a8f88&format=1&depth=1
Federico La Sala
Santo del giorno
Solennità di Cristo Re
Ricorrenza: 22 novembre *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
« Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re.
Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire.
In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo.
Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo «ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ».
Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: «Il mio regno non è di questo mondo».
L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Santo del giorno, 22 novembre (ripresa parziale e senza immagine).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano
"La nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano del 26 novembre 2000, in sostituzione della precedente - la prima - emanata il 7 giugno 1929 dal Papa Pio XI di v.m., è entrata in vigore il 22 febbraio 2001, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo.
Come ben illustrato nell’introduzione della nuova Legge, il Sommo Pontefice ha "preso atto della necessità di dare forma sistematica ed organica ai mutamenti introdotti in fasi successive nell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano". Allo scopo, pertanto, di "renderlo sempre meglio rispondente alle finalità istituzionali dello stesso, che esiste a conveniente garanzia della libertà della Sede Apostolica e come mezzo per assicurare l’indipendenza reale e visibile del Romano Pontefice nell’esercizio della Sua missione nel mondo", di Suo Motu Proprio e certa scienza, con la pienezza della Sua sovrana autorità, ha promulgato la seguente Legge:
Art. 1
1. Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. [...] (Acta Apostolicae Sedis, Supplemento, 01.02.2001)
FLS
CONVERSIONE ECOLOGICA (ED EGOLOGICA). SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
***
UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! *Federico La Sala
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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LA TERRA, IL "PADRE NOSTRO", E IL SINODO DEI VESCOVI SUL MEDITERRANEO ...*
Mediterraneo, frontiera di pace. Le cose da sapere sull’incontro di Bari
Dal 19 al 23 febbraio l’evento per la pace. Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati
di Giacomo Gambassi, inviato a Bari (Avvenire, mercoledì 12 febbraio 2020)
Cinque giornate di dialogo. Cinquantotto fra cardinali, patriarchi e vescovi che arriveranno in Puglia. Venti i Paesi rappresentati. Tre i continenti che idealmente si abbracceranno: Europa, Asia e Africa. Ecco in numeri l’Incontro “Mediterraneo, frontiera di pace”, il grande forum ecclesiale voluto dalla Cei che per la prima volta riunisce i vescovi degli Stati affacciati sul grande mare e che sarà concluso da papa Francesco. -Le cifre non dicono tutto, ma raccontano la scommessa di un’iniziativa che si terrà dal 19 al 23 febbraio e che avrà come cornice Bari, la città “ponte” fra Oriente e Occidente come testimonia «la venerazione senza confini del suo patrono san Nicola» o la scelta del Pontefice di tenere nel luglio 2018 all’ombra del Castello svevo l’incontro per la pace in Medio Oriente con i capi delle comunità cristiane della regione, spiega l’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Carucci.
Adesso lo sguardo si allarga all’intero Mediterraneo chiamando a un supplemento d’anima le Chiese. È l’urgenza della pace l’orizzonte di un evento che invita a una nuova responsabilità il mondo cattolico. Non un convegno o un seminario accademico ma un «incontro di fraternità dallo stile sinodale che vuole aiutare le comunità ecclesiali a camminare sempre più insieme», spiega il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, durante la conferenza stampa di presentazione a Roma moderata dal direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali, Vincenzo Corrado.
Nel 2018 era stato proprio Bassetti a lanciare l’idea dell’evento «rileggendo i Colloqui mediterranei promossi da Giorgio La Pira circa sessant’anni fa», racconta il cardinale le cui radici affondano nella Firenze del sindaco “santo”.
«Se La Pira aveva coinvolto l’ambito politico - dice Bassetti - io mi sono chiesto: perché anche i vescovi non possono mobilitarsi di fronte ai drammi delle proprie genti? Del resto la Chiesa non ha altro scopo che servire l’uomo. E ciò implica anche affrontare i problemi che le nostre comunità vivono». Tutto l’episcopato italiano ha sposato il percorso: ecco perché i pastori della Penisola saranno a Bari nelle ultime due giornate.
Due i temi di cui discuteranno i vescovi del bacino: l’annuncio del Vangelo, a cominciare dai giovani; e il dialogo fra Chiese e società. «Di fatto come pastori ci siamo posti una domanda: che cosa Dio vuole oggi dal Mediterraneo? E l’incontro sarà un’occasione di discernimento», chiarisce il vescovo di Acireale, Antonino Raspanti, vice-presidente della Cei e coordinatore del comitato organizzatore.
A fare da sfondo al confronto le guerre che ancora insanguinano l’area (dal conflitto israelo-palestinese a quelli in Siria, Iraq o Libia); le nuove tensioni che scuotono la regione; le ferite ancora aperte delle guerre che dai Balcani al Libano hanno segnato gli ultimi decenni; la povertà; le disuguaglianze fra la sponda nord e quella sud; le politiche di sfruttamento da parte dei grandi del pianeta; la complessa convivenza fra le fedi; le persecuzioni delle minoranze religiose, soprattutto cristiane; il dramma delle migrazioni.
«La questione della pace - dice Raspanti - non è disgiunta dagli squilibri sociali che qui si registrano. E anche lo stesso tema delle migrazioni sarà visto secondo prospettive diverse. Penso al grido che alcuni vescovi delegati hanno già lanciato chiedendo di aiutare i loro Paesi a non lasciare fuggire i cristiani».
Lo stile dell’incontro è mutuato dal Sinodo dei vescovi. Non solo nei due anni di preparazione sono stati coinvolti gli episcopati del Mediterraneo che hanno contribuito a elaborare una bozza di lavoro, ma soprattutto le giornate di Bari saranno nel segno dell’ascolto e del dialogo fra i vescovi.
«Ore e ore di discussione», annuncia Raspanti. Dal confronto scaturirà il documento che sarà approvato dai presuli e che domenica mattina verrà consegnato al Pontefice durante il suo incontro con i vescovi nella Basilica di San Nicola.
«Il Papa che condivide a pieno il nostro incontro - dice Bassetti - ci ha chiesto proposte concrete che vadano oltre le lamentele».
Il dialogo fra il Pontefice e i pastori della regione rappresenterà l’appuntamento centrale di Bari, che verrà aperto dal saluto di Bassetti e dalle testimonianze del cardinale Vinko Puljic, arcivescovo di Sarajevo e presidente della Conferenza episcopale di Bosnia ed Erzegovina, e dell’arcivescovo Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del patriarcato latino di Gerusalemme, e che si chiuderà con l’intervento dell’arcivescovo di Algeri, il gesuita Paul Desfarges, presidente della Conferenza episcopale regionale del Nord Africa. Momento concluso dell’evento sarà la Messa presieduta da Francesco alle 10.45 nel cuore di Bari.
L’incontro dei vescovi si porterà dietro anche un segno concreto di attenzione a tutto il Mediterraneo.
«Si tratterà di borse di studio per giovani delle diverse sponde con lo scopo di formare una nuova classe dirigente», annuncia Bassetti. Il progetto avrà come guida la Caritas italiana e vedrà il coinvolgimento di Rondine-Cittadella della pace, il laboratorio della riconciliazione alle porte di Arezzo che fa studiare i giovani provenienti dai Paesi in guerra fianco a fianco con il loro "nemico".
I lavori “sinodali” dei vescovi saranno a porte chiuse ma ogni giorno è previsto un briefing con la stampa. Guai comunque a pensare che le giornate siano blindate.
Sono previste infatti Messe e momenti di preghiera aperti a tutti; venerdì sera ogni pastore delegato sarà ospite di una parrocchia; poi sabato pomeriggio, a partire dalle 15.30, al teatro Petruzzelli si terrà l’incontro di testimonianze con voci e volti da tutto il Mediterraneo e gli interventi dei vescovi e di esperti di geopolitica.
Intanto si immagina già il “dopo Bari”. «Non ritengo che tutto si possa concludere in Puglia - avverte il presidente della
Cei -. È possibile che si creino tavoli di lavoro tematici che permetteranno ai vescovi di incontrarsi di nuovo. Del resto la sfida è far riscoprire la vocazione propria del nostro grande mare: una vocazione alla pace e all’incontro».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DI COSTANTINO, L’AMORE ("CHARITAS") E LA NASCITA DELLA DEMOCRAZIA DEI MODERNI. LA "CHARTA CHARITATIS" (1115), LA "MAGNA CHARTA" (1215) E LA FALSA "CARTA" DELLA "DEUS CARITAS EST" (2006).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MEMORIA E STORIA / STORIA E MEMORIA.... *
il santo del giorno
Conversione di san Paolo.
La luce improvvisa, la caduta, la voce di Cristo La fede è apertura all’inaspettato infinito
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 25 gennaio 2020)
Il cambio di rotta, la strada nuova, la svolta imprevista: la fede è apertura all’inaspettato, alla novità che trasforma la vita, all’infinita luce che entra dentro il buio dei nostri errori. Ecco perché la Chiesa oggi celebra la Conversione di san Paolo, ricordando a tutti, così, che Dio ci chiama sempre, continuamente, che nessuno è "spacciato".
"All’improvviso lo avvolse una luce dal cielo - si legge negli Atti degli Apostoli - e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?". Era l’inizio di una nuova esistenza per Paolo, che sarebbe diventato uno dei pilastri della comunità dei credenti, l’apostolo che fece del Vangelo un messaggio davvero "cattolico", cioè offerto a ogni popolo e a ogni nazione della Terra.
Dopo l’incontro con Cristo sulla via di Damasco, Paolo rimase accecato e dopo aver recuperato la vista fu battezzato: l’immersione nella vita di Dio è il dono di uno sguardo diverso sul mondo.
Altri santi. Sant’Anania di Damasco, martire (I sec.); beata Arcangela Girlani, vergine (1460-1494).
Letture. At 22,3-16; Sal 116; Mc 16,15-18.
Ambrosiano. At 9,1-18; Sal 116 (117); 1Tm 1,12-17; Mt 19,27-29.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
VERSO "BARI 2020" E "NICEA 2025": MESSAGGIO EVANGELICO, FILOLOGIA, ED ECUMENISMO. Quale "carità" (Kapitas o Xapitas, caritas o charitas)?! *
Nicola. Protettore del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 6 dicembre 2018)
La carità è il "miracolo" più grande che nasce dalla fede: prendersi cura degli ultimi, del prossimo in genere, oggi è il messaggio più profetico e rivoluzionario che ci lascia san Nicola. Nato tra il 250 e il 260 a Patara, nella Licia, divenne vescovo di Mira in un tempo di persecuzione e dovette affrontare anche la prigionia: si salvò grazie alla libertà di culto concessa dall’Editto di Costantino nel 313.
Difensore dell’ortodossia, forse partecipò al Concilio di Nicea nel 325. La tradizione gli attribuisce un’attenzione particolare nei confronti dei bisognosi, come le due giovani ragazze che poterono sposarsi solo grazie al dono da parte del vescovo di una dote. Morto attorno all’anno 335, nel 1087 le sue reliquie arrivarono a Bari, dove è venerato come patrono e considerato un protettore anche del ponte di dialogo che unisce Occidente e Oriente.
Altri santi. Santa Asella di Roma, vergine (IV sec.); san Pietro Pascasio, vescovo e martire (1227-1300).
Letture. Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27.
Ambrosiano. Ger 7,1-11; Sal 106; Zc 8,10-17; Mt 16,1-12.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Commenti a Presicce, il suo patrono Sant’Andrea e la tela del suo martirio, opera del Catalano (Fondazione Terra d’Otranto).
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL.
Federico La Sala
IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.... *
Botta e riposta.
Cristo ci rivela che l’espiazione non è prezzo, ma sinonimo di perdono
La croce del Figlio è il ’luogo’ dove Dio Padre dà risposta d’amore all’amore fedele estremo. E io resto convinto che una lettura della Passione come prezzo della salvezza rischia di allontanarci ...
di Luigino Bruni (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Cara signora Maria Carla, a proposito della teologia dell’espiazione ho scritto più volte in questi anni su “Avvenire”. In sintesi: nel Nuovo Testamento, compreso Paolo, si usa l’immagine del sangue e del riscatto pagato dal figlio, ma è solo un’immagine e sempre presa in prestito dall’Antico Testamento.
Se guardiamo il messaggio generale che emerge nei Vangeli sulla Passione di Cristo, non abbiamo elementi per pensare che il Padre abbia voluto la morte del Figlio come prezzo della salvezza.
Ormai la maggior parte degli esegeti, soprattutto dopo il Vaticano II è concorde nel leggere la Passione come fedeltà estrema del Figlio al suo compito che lo ha portato a una morte cruenta, non voluta né dal Padre né da Lui, ma accettata come conseguenza dell’incarnazione e della cattiveria degli uomini.
Poi una certa teologia, soprattutto medioevale, e anche alcuni Padri hanno voluto leggere il sacrificio del Cristo (sulla base di testi Neotestamentari, tra cui la lettera agli Ebrei), con le categorie arcaiche del sacrificio del nuovo Agnello etc. Anche la lettera ai Colossesi (che, come saprà, secondo gran parte degli studiosi non sarebbe di Paolo, ma di un suo discepolo) si muove nel passaggio che lei cita in questa stessa tradizione. Anche le preghiere liturgiche, soprattutto quelle della Settimana Santa, risentono di queste letture dell’espiazione, nella versione che ne ha dato Anselmo d’Aosta, la cosiddetta “Satisfactio”: il Padre era così adirato con gli uomini che solo il sangue del Figlio lo poteva soddisfare.
Inoltre, per la parola espiazione, bisogna stare attenti al significato. Quello normale è essere punito per riparare un male e placare l’ira divina. Ma nella Bibbia, quasi sempre il soggetto del verbo espiare è Dio, non il peccatore; ed espiare è praticamente sinonimo di perdonare. È Dio che espia, non l’uomo. Vedi per esempio Rm 3,25: Dio non ha esposto Gesù per espiare cioè punirlo al nostro posto e così placare la sua ira o ricevere soddisfazione, ma Dio è il soggetto che procura espiazione mediante la morte di Gesù, cioè concede il perdono; la Croce è vista come il “luogo” dove Dio dà il perdono, come risposta d’amore all’amore fedele estremo.
Resto convinto che una lettura della Passione come prezzo ci allontana dalla novità del Cristianesimo, ci dà una idea di Dio molto più vicina a Mardok e a Baal che al Dio Amore di Gesù o al Padre Misericordioso delle Parabole e fino a tempi recenti ci ha impedito di comprendere le pagine più belle della Bibbia e dei Vangeli. Grazie a lei per la sua lettera.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Mercoledì, 9 ottobre 2019
Catechesi sugli Atti degli Apostoli - 11. «Lo strumento che ho scelto per me» (At 9,15). Saulo, da persecutore ad evangelizzatore.
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
A partire dall’episodio della lapidazione di Stefano, compare una figura che, accanto a quella di Pietro, è la più presente ed incisiva negli Atti degli Apostoli: quella di «un giovane, chiamato Saulo» (At 7,58). È descritto all’inizio come uno che approva la morte di Stefano e vuole distruggere la Chiesa (cfr At 8,3); ma poi diventerà lo strumento scelto da Dio per annunciare il Vangelo alle genti (cfr At 9,15; 22,21; 26,17).
Con l’autorizzazione del sommo sacerdote, Saulo dà la caccia ai cristiani e li cattura. Voi, che venite da alcuni popoli che sono stati perseguitati dalle dittature, voi capite bene cosa significa dare la caccia alla gente e catturarla. Così faceva Saulo. E questo lo fa pensando di servire la Legge del Signore. Dice Luca che Saulo “spirava” «minacce e stragi contro i discepoli del Signore» (At 9,1): in lui c’è un soffio che sa di morte, non di vita.
Il giovane Saulo è ritratto come un intransigente, cioè uno che manifesta intolleranza verso chi la pensa diversamente da sé, assolutizza la propria identità politica o religiosa e riduce l’altro a potenziale nemico da combattere. Un ideologo. In Saulo la religione si era trasformata in ideologia: ideologia religiosa, ideologia sociale, ideologia politica. Solo dopo essere stato trasformato da Cristo, allora insegnerà che la vera battaglia «non è contro la carne e il sangue, ma contro [...] i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male» (Ef 6,12). Insegnerà che non si devono combattere le persone, ma il male che ispira le loro azioni.
La condizione rabbiosa - perché Saulo era rabbioso - e conflittuale di Saulo invita ciascuno a interrogarsi: come vivo la mia vita di fede? Vado incontro agli altri oppure sono contro gli altri? Appartengo alla Chiesa universale (buoni e cattivi, tutti) oppure ho una ideologia selettiva? Adoro Dio o adoro le formulazioni dogmatiche? Com’è la mia vita religiosa? La fede in Dio che professo mi rende amichevole oppure ostile verso chi è diverso da me?
Luca racconta che, mentre Saulo è tutto intento ad estirpare la comunità cristiana, il Signore è sulle sue tracce per toccargli il cuore e convertirlo a sé. È il metodo del Signore: tocca il cuore. Il Risorto prende l’iniziativa e si manifesta a Saulo sulla via di Damasco, evento che viene narrato per ben tre volte nel Libro degli Atti (cfr. At 9,3-19; 22,3-21; 26,4-23). Attraverso il binomio «luce» e «voce», tipico delle teofanie, il Risorto appare a Saulo e gli chiede conto della sua furia fratricida: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4). Qui il Risorto manifesta il suo essere una cosa sola con quanti credono in Lui: colpire un membro della Chiesa è colpire Cristo stesso! Anche coloro che sono ideologi perché vogliono la “purità” - tra virgolette - della Chiesa, colpiscono Cristo.
La voce di Gesù dice a Saulo: «Alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare» (At 9,6). Una volta in piedi, però, Saulo non vede più nulla, è diventato cieco, e da uomo forte, autorevole e indipendente diventa debole, bisognoso e dipendente dagli altri, perché non vede. La luce di Cristo lo ha abbagliato e reso cieco: «Appare così anche esteriormente ciò che era la sua realtà interiore, la sua cecità nei confronti della verità, della luce che è Cristo» (Benedetto XVI, Udienza generale, 3 settembre 2008).
Da questo “corpo a corpo” tra Saulo e il Risorto prende il via una trasformazione che mostra la “pasqua personale” di Saulo, il suo passaggio dalla morte alla vita: ciò che prima era gloria diventa «spazzatura» da rigettare per acquistare il vero guadagno che è Cristo e la vita in Lui (cfr Fil 3,7-8).
Paolo riceve il Battesimo. Il Battesimo segna così per Saulo, come per ciascuno di noi, l’inizio di una vita nuova, ed è accompagnato da uno sguardo nuovo su Dio, su sé stesso e sugli altri, che da nemici diventano ormai fratelli in Cristo.
Chiediamo al Padre che faccia sperimentare anche a noi, come a Saulo, l’impatto con il suo amore che solo può fare di un cuore di pietra un cuore di carne (cfr Ez 11,15), capace di accogliere in sé «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5).
[...]
Rivolgo un cordiale benvenuto ai fedeli di lingua italiana.
Sono lieto di accogliere la Commissione del Pellegrinaggio Militare Internazionale; i Fratelli di San Gabriele; le Religiose dell’Unione Superiore Maggiori d’Italia; e i membri dell’Istituto delle Figlie di Gesù, dalla Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla; e dell’Istituto dei Figli della Provvidenza, dalla Diocesi di Milano.
Saluto i Cresimati della Diocesi di Faenza-Modigliana, con il Vescovo, Mons. Mario Toso; le Parrocchie, in particolare quelle di Bosto e di Andria. Saluto inoltre i partecipanti agli Open d’Italia di Golf; i Militari della Brigata “Julia”; e la Delegazione del Comune di Cervia.
Un pensiero particolare rivolgo ai giovani, agli anziani, agli ammalati e agli sposi novelli. Questi che fanno rumore sono gli sposi novelli ... Io li chiamo “i coraggiosi”, perché ci vuole coraggio per sposarsi oggi. Sono bravi! In questo mese mariano, imitate lo zelo e lo slancio missionario della Madonna, fatevi annunciatori di Cristo in ogni vostro ambiente di vita.
* UDIENZA GENERALE - MERCOLEDI’, 09.10.2019 (RIPRESA PARZIALE).
IL PRIMOGENITO TRA MOLTI FRATELLI E LA COSTITUZIONE DOGMATICA DEL SOLE DI ORIENTE E DI OCCIDENTE...*
1. La gioia della verità (Veritatis gaudium) esprime il desiderio struggente che rende inquieto il cuore di ogni uomo fin quando non incontra, non abita e non condivide con tutti la Luce di Dio[1]. La verità, infatti, non è un’idea astratta, ma è Gesù, il Verbo di Dio in cui è la Vita che è la Luce degli uomini (cfr. Gv 1,4), il Figlio di Dio che è insieme il Figlio dell’uomo. Egli soltanto, «rivelando il mistero del Padre e del suo amore, rivela l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione»[2].
Nell’incontro con Lui, il Vivente (cfr Ap 1,18) e il Primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29), il cuore dell’uomo sperimenta già sin d’ora, nel chiaroscuro della storia, la luce e la festa senza più tramonto dell’unione con Dio e dell’unità coi fratelli e le sorelle nella casa comune del creato di cui godrà senza fine nella piena comunione con Dio. Nella preghiera di Gesù al Padre: «perché tutti siano uno, come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi» (Gv 17,21) è racchiuso il segreto della gioia che Gesù ci vuole comunicare in pienezza (cfr 15,11) da parte del Padre col dono dello Spirito Santo: Spirito di verità e di amore, di libertà, di giustizia e di unità. [:::] "(Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco circa le Università e le Facoltà ecclesiastiche, 29.01.2018. Proemio)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sugli Atti degli Apostoli: 3. «Lingue come di fuoco» (At 2,3). La Pentecoste e la dynamis dello Spirito che infiamma la parola umana e la rende Vangelo *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Cinquanta giorni dopo la Pasqua, in quel cenacolo che è ormai la loro casa e dove la presenza di Maria, madre del Signore, è l’elemento di coesione, gli Apostoli vivono un evento che supera le loro aspettative. Riuniti in preghiera - la preghiera è il “polmone” che dà respiro ai discepoli di tutti i tempi; senza preghiera non si può essere discepolo di Gesù; senza preghiera noi non possiamo essere cristiani! È l’aria, è il polmone della vita cristiana -, vengono sorpresi dall’irruzione di Dio. Si tratta di un’irruzione che non tollera il chiuso: spalanca le porte attraverso la forza di un vento che ricorda la ruah, il soffio primordiale, e compie la promessa della “forza” fatta dal Risorto prima del suo congedo (cfr At 1,8). Giunge all’improvviso, dall’alto, «un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano» (At 2,2).
Al vento poi si aggiunge il fuoco che richiama il roveto ardente e il Sinai col dono delle dieci parole (cfr Es 19,16-19). Nella tradizione biblica il fuoco accompagna la manifestazione di Dio. Nel fuoco Dio consegna la sua parola viva ed energica (cfr Eb 4,12) che apre al futuro; il fuoco esprime simbolicamente la sua opera di scaldare, illuminare e saggiare i cuori, la sua cura nel provare la resistenza delle opere umane, nel purificarle e rivitalizzarle. Mentre al Sinai si ode la voce di Dio, a Gerusalemme, nella festa di Pentecoste, a parlare è Pietro, la roccia su cui Cristo ha scelto di edificare la sua Chiesa. La sua parola, debole e capace persino di rinnegare il Signore, attraversata dal fuoco dello Spirito acquista forza, diventa capace di trafiggere i cuori e di muovere alla conversione. Dio infatti sceglie ciò che nel mondo è debole per confondere i forti (cfr 1Cor 1,27).
La Chiesa nasce quindi dal fuoco dell’amore e da un “incendio” che divampa a Pentecoste e che manifesta la forza della Parola del Risorto intrisa di Spirito Santo. L’Alleanza nuova e definitiva è fondata non più su una legge scritta su tavole di pietra, ma sull’azione dello Spirito di Dio che fa nuove tutte le cose e si incide in cuori di carne.
La parola degli Apostoli si impregna dello Spirito del Risorto e diventa una parola nuova, diversa, che però si può comprendere, quasi fosse tradotta simultaneamente in tutte le lingue: infatti «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2,6). Si tratta del linguaggio della verità e dell’amore, che è la lingua universale: anche gli analfabeti possono capirla. Il linguaggio della verità e dell’amore lo capiscono tutti. Se tu vai con la verità del tuo cuore, con la sincerità, e vai con amore, tutti ti capiranno. Anche se non puoi parlare, ma con una carezza, che sia veritiera e amorevole.
Lo Spirito Santo non solo si manifesta mediante una sinfonia di suoni che unisce e compone armonicamente le diversità ma si presenta come il direttore d’orchestra che fa suonare le partiture delle lodi per le «grandi opere» di Dio. Lo Spirito santo è l’artefice della comunione, è l’artista della riconciliazione che sa rimuovere le barriere tra giudei e greci, tra schiavi e liberi, per farne un solo corpo. Egli edifica la comunità dei credenti armonizzando l’unità del corpo e la molteplicità delle membra. Fa crescere la Chiesa aiutandola ad andare al di là dei limiti umani, dei peccati e di qualsiasi scandalo.
La meraviglia è tanta, e qualcuno si chiede se quegli uomini siano ubriachi. Allora Pietro interviene a nome di tutti gli Apostoli e rilegge quell’evento alla luce di Gioele 3, dove si annuncia una nuova effusione dello Spirito Santo. I seguaci di Gesù non sono ubriachi, ma vivono quella che Sant’Ambrogio definisce «la sobria ebbrezza dello Spirito», che accende in mezzo al popolo di Dio la profezia attraverso sogni e visioni. Questo dono profetico non è riservato solo ad alcuni, ma a tutti coloro che invocano il nome del Signore.
D’ora innanzi, da quel momento, lo Spirito di Dio muove i cuori ad accogliere la salvezza che passa attraverso una Persona, Gesù Cristo, Colui che gli uomini hanno inchiodato al legno della croce e che Dio ha risuscitato dai morti «liberandolo dai dolori della morte (At 2,24). È Lui che ha effuso quello Spirito che orchestra la polifonia di lodi e che tutti possono ascoltare. Come diceva Benedetto XVI, «la Pentecoste è questo: Gesù, e mediante Lui Dio stesso, viene a noi e ci attira dentro di sé» (Omelia, 3 giugno 2006). Lo Spirito opera l’attrazione divina: Dio ci seduce con il suo Amore e così ci coinvolge, per muovere la storia e avviare processi attraverso i quali filtra la vita nuova. Solo lo Spirito di Dio infatti ha il potere di umanizzare e fraternizzare ogni contesto, a partire da coloro che lo accolgono.
Chiediamo al Signore di farci sperimentare una nuova Pentecoste, che dilati i nostri cuori e sintonizzi i nostri sentimenti con quelli di Cristo, così che annunciamo senza vergogna la sua parola trasformante e testimoniamo la potenza dell’amore che richiama alla vita tutto ciò che incontra.
* PAPA FRANCESCO
UDIENZA GENERALE
Piazza San Pietro
Mercoledì, 19 giugno 2019 (ripresa parziale).
DALLA FIABA, UNA LEZIONE DI PENSIERO COSTITUZIONALE ... *
I seduttori e i maestri: due voci ben diverse
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 9 maggio 2019)
IV Domenica di Pasqua
Anno C
Le mie pecore ascoltano la mia voce. Non i comandi, la voce. Quella che attraversa le distanze, inconfondibile; che racconta una relazione, rivela una intimità, fa emergere una presenza in te. La voce giunge all’orecchio del cuore prima delle cose che dice. È l’esperienza con cui il bambino piccolo, quando sente la voce della madre, la riconosce, si emoziona, tende le braccia e il cuore verso di lei, ed è già felice ben prima di arrivare a comprendere il significato delle parole.
La voce è il canto amoroso dell’essere: «Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline» (Ct 2,8). E prima ancora di giungere, l’amato chiede a sua volta il canto della voce dell’amata: «La tua voce fammi sentire» (Ct 2,14)... Quando Maria, entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta, la sua voce fa danzare il grembo: «Ecco appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (Lc 1,44). Tra la voce del pastore buono e i suoi agnelli corre questa relazione fidente, amorevole, feconda. Infatti perché le pecore dovrebbero ascoltare la sua voce?
Due generi di persone si disputano il nostro ascolto: i seduttori, quelli che promettono piaceri, e i maestri veri, quelli che danno ali e fecondità alla vita. Gesù risponde offrendo la più grande delle motivazioni: perché io do loro la vita eterna. Ascolterò la sua voce non per ossequio od obbedienza, non per seduzione o paura, ma perché come una madre, lui mi fa vivere. Io do loro la vita.
Il pastore buono mette al centro della religione non quello che io faccio per lui, ma quello che lui fa per me. Al cuore del cristianesimo non è posto il mio comportamento o la mia etica, ma l’azione di Dio. La vita cristiana non si fonda sul dovere, ma sul dono: vita autentica, vita per sempre, vita di Dio riversata dentro di me, prima ancora che io faccia niente. Prima ancora che io dica sì, lui ha seminato germi vitali, semi di luce che possono guidare me, disorientato nella vita, al paese della vita. La mia fede cristiana è incremento, accrescimento, intensificazione d’umano e di cose che meritano di non morire.
Gesù lo dice con una immagine di lotta, di combattiva tenerezza: Nessuno le strapperà dalla mia mano. Una parola assoluta: nessuno. Subito raddoppiata, come se avessimo dei dubbi: nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io sono vita indissolubile dalle mani di Dio. Legame che non si strappa, nodo che non si scioglie. L’eternità è un posto fra le mani di Dio. Siamo passeri che hanno il nido nelle sue mani. E nella sua voce, che scalda il freddo della solitudine.
(Letture: Atti 13,14.43-52; Salmo 99; Apocalisse 7,9.14-17; Giovanni 10,27-30)
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ASTUZIA DEL LUPO E I SETTE CAPRETTI. "APRITE, APRITE": SONO IL VOSTRO "PAPI"!!! LA PAROLA "ITALIA", LA "PASSWORD", CONSEGNATA A UN PARTITO (1994-2011).
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli
di Papa Francesco *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero. Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato - un’ipotesi
storica -, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16).
Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
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PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE -Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2019 (ripresa parziale).
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
COME IL BUON-GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").... *
Messaggio.
Il Papa: ecco la Rete che vogliamo. Per liberare, non intrappolare
Oggi, memoria di san Francesco di Sales, pubblicato il Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali che sarà celebrata il 2 giugno
di Gianni Cardinale (Avvenire, giovedì 24 gennaio 2019)
Internet «rappresenta una possibilità straordinaria di accesso al sapere», ma è anche «uno dei luoghi più esposti alla disinformazione e alla distorsione consapevole e mirata dei fatti e delle relazioni interpersonali, che spesso assumono la forma del discredito». La rete poi «è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri», ma «può anche potenziare il nostro autoisolamento, come una ragnatela capace di intrappolare». Ecco quindi che il web deve essere fatto non «per intrappolare, ma per liberare».
Lo scrive papa Francesco nel Messaggio, diffuso oggi, per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che quest’anno si celebra, in molti Paesi, domenica 2 giugno, Solennità dell’Ascensione del Signore.
Il Messaggio del Pontefice è pubblicato come da tradizione nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria liturgica di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Ed ha come titolo «’Siamo membra gli uni degli altri’ (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana» (IL TESTO INTEGRALE).
Nel testo il Pontefice denuncia l’uso dei social per fomentare "spirali di odio" e "ogni tipo di pregiudizio", nonché i rischi del cyberbullismo, del narcisismo e dell’autoisolamento che porta al fenomeno degli "eremiti sociali". Papa Francesco inoltre ribadisce che la rete deve fondarsi "sulla verità" e non "sui like".
Per Papa Francesco «le reti sociali, se per un verso servono a collegarci di più, a farci ritrovare e aiutare gli uni gli altri, per l’altro si prestano anche ad un uso manipolatorio dei dati personali, finalizzato a ottenere vantaggi sul piano politico o economico, senza il dovuto rispetto della persona e dei suoi diritti». Senza contare che «tra i più giovani le statistiche rivelano che un ragazzo su quattro è coinvolto in episodi di cyberbullismo».
Usando la metafora della rete come comunità, il Pontefice osserva come «nello scenario attuale, la social network community non sia automaticamente sinonimo di comunità». Infatti «nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli».
Come ritrovare allora «la vera identità comunitaria nella consapevolezza della responsabilità che abbiamo gli universo gli altri anche nella rete online?».
Una possibile risposta, scrive papa Francesco, «può essere abbozzata» a partire da un’altra metafora, quella del corpo e delle membra, che san Paolo usa nella Lettera agli Efesini «per parlare della relazione di reciprocità tra le persone, fondata in un organismo che le unisce». Infatti «l’essere membra gli uni degli altri è la motivazione profonda, con la quale l’Apostolo esorta a deporre la menzogna e a dire la verità: l’obbligo a custodire la verità nasce dall’esigenza di non smentire la reciproca relazione di comunione».
Per il Pontefice «l’immagine del corpo e delle membra ci ricorda che l’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro». Così quando «la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione». Quando «una famiglia usa la rete per essere più collegata, per poi incontrarsi a tavola e guardarsi negli occhi, allora è una risorsa». Quando «una comunità ecclesiale coordina la propria attività attraverso la rete, per poi celebrare l’Eucaristia insieme, allora è una risorsa». Quando “la rete è occasione per avvicinarmi a storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza fisicamente lontane da me, per pregare insieme e insieme cercare il bene nella riscoperta di ciò che ci unisce, allora è una risorsa”.
La «rete che vogliamo» conclude papa Francesco è «la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza...». Una rete insomma «non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere». E la Chiesa stessa «è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui ‘like’, ma sulla verità, sull’’amen’, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».
Il Messaggio del Pontefice ha raccolto il plauso di Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione della Stampa: "È un’esortazione e un invito alla riflessione".
Vedi anche: Ecco la nuova App Cei per restare informati sulla vita della Chiesa e non solo
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
Federico La Sala
Il cielo si apre
Siamo tutti figli di Dio nel Figlio
di Ermes Ronchi ( Avvenire, giovedì 10 gennaio 2019)
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il Battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
«Viene dopo di me colui che è più forte di
me". In che cosa consiste la forza di Gesù? Lui è il più forte perché parla al cuore. Tutte le altre sono voci che vengono da fuori, la sua è l’unica che suona in mezzo all’anima. E parla parole di vita.
«Lui vi battezzerà...»
La sua forza è battezzare, che significa immergere l’uomo nell’oceano dell’Assoluto, e che sia imbevuto di Dio, intriso del suo respiro, e diventi figlio: a quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12). La sua è una forza generatrice («sono venuto perché abbiano la vita in pienezza», Gv 10,10), forza liberante e creativa, come un vento che gonfia le vele, un fuoco che dona un calore impensato. «Vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Il respiro vitale e il fuoco di Dio entrano dentro di me, a poco a poco mi modellano, trasformano pensieri, affetti, progetti, speranze, secondo la legge dolce, esigente e rasserenante del vero amore. E poi mi incalzano a passare nel mondo portando a mia volta vento e fuoco, portando libertà e calore, energia e luce. Gesù stava in preghiera ed ecco, il cielo si aprì. La bellezza di questo particolare: il cielo che si apre. La bellezza della speranza! E noi che pensiamo e agiamo come se i cieli si fossero rinchiusi di nuovo sulla nostra terra. Ma i cieli sono aperti, e possiamo comunicare con Dio: alzi gli occhi e puoi ascoltare, parli e sei ascoltato.
E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». La voce annuncia tre cose, dette per Gesù e per ciascuno di noi: “Figlio” è la prima parola: Dio è forza di generazione, che come ogni seme genera secondo la propria specie. Siamo tutti figli di Dio nel Figlio, frammenti di Dio nel mondo, specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro.
“Amato” è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ogni giorno ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è “amato”. Immeritato amore, incondizionato, unilaterale, asimmetrico. Amore che anticipa e che prescinde da tutto.
“Mio compiacimento” è la terza parola. Che nella sua radice contiene l’idea di una gioia, un piacere che Dio riceve dai suoi figli. Come se dicesse a ognuno: figlio mio, ti guardo e sono felice. Se ogni mattina potessi immaginare di nuovo questa scena: il cielo che si apre sopra di me come un abbraccio, un soffio di vita e un calore che mi raggiungono, il Padre che mi dice con tenerezza e forza: figlio, amore mio, mia gioia, sarei molto più sereno, sarei sicuro che la mia vita è al sicuro nelle sue mani, mi sentirei davvero figlio prezioso, che vive della stessa vita indistruttibile e generante.
(Letture: Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 103; Tito 2,11-14;3,4-7; Luca 3, 15-16.21-22).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il mio regno non è di qui
di Piero Stefani ("Il Regno", 22/11/2018)
«Universo» è parola sconosciuta alla Bibbia. Per dire «il tutto», il primo versetto della Scrittura impiega l’espressione «il cielo e la terra» (Gen 1,1; cf. Ef 1,10). Il posto privilegiato che questo modo di dire riserva a ciò che noi definiamo «nostro pianeta» indica una distanza incolmabile tra l’immagine biblica del cosmo e quella attuale. Non ha senso logico definire un campo come fosse costituito da 100 ettari di terreno e da un granello di polvere. I tentativi di intrecciare teologicamente tra loro la visione cosmica biblica con quella odierna non portano da nessuna parte.
Meglio domandarsi allora perché il Nuovo Testamento, e in particolare Giovanni, precludono l’eventualità di qualificare la solennità odierna ricorrendo all’espressione «re del mondo».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: «Il mio regno non è di qui (enteuthen)» (Gv 18,36). Le due espressioni kosmos («mondo») ed enteuthen («qui») gravitano dalla stessa parte.
Kosmos è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27). Il mondo è amato da Dio (cf. Gv 1,29; 4,42) eppure odia Gesù, «perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14).
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna...); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine (cf. Gv 2,16; 7,3; 14,31).
Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che «il mio regno non è di qui» perché è «altrove», come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: «Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra (enteuthen kai enteuthen, una specie di «uno di qui e uno di qua»), e Gesù in mezzo» (Gv 19,18).
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto (cf. Gv 18,36); il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: «“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re» (Gv 18,37). Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22) è una specie di definitivo sigillo posto al «Tu lo dici» (Gv 18,37) rivolto da Gesù a Pilato. È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA ...
iL "PADRE NOSTRO"?! Alcune pagine dalla "Querela pacis" (1517)
di Erasmo *
Pochi anni fa, quando il mondo era travolto a prendere le armi da non so quale peste esiziale, alcuni araldi del Vangelo, frati Minori e Predicatori, dal sacro pulpito davano fiato ai corni di guerra e ancor piú infervoravano chi già propendeva per quella follia. In Inghilterra aizzavano contro i Francesi, in Francia animavano contro gli Inglesi, ovunque spronavano alla guerra. Alla pace non incitava nessuno tranne uno o due, a cui costò quasi la vita l’aver soltanto pronunciato il mio nome.
Prelati consacrati scorrazzavano un po’ dovunque dimentichi della loro dignità e dei loro voti, e inasprivano con la loro opera il morbo universale, istigando ora il pontefice romano Giulio, ora i monarchi ad affrettare la guerra, quasi che non fossero già abbastanza folli per conto loro. Eppure questa patente pazzia noi l’avvolgemmo in splendidi titoli.
A tal fine sono da noi distorte con somma impudenza - dovrei dire con sacrilegio - le leggi dei padri, gli scritti di uomini santi, le parole della Sacra Scrittura. Le cose sono giunte a tal punto che risulta sciocco e sacrilego pronunciarsi contro la guerra ed elogiare l’unica cosa elogiata dalla bocca di Cristo. Appare poco sollecito del bene del popolo e tiepido sostenitore del sovrano chi consiglia il massimo dei benefici e scoraggia dalla massima delle pestilenze.
Ormai i sacerdoti seguono perfino le armate, i vescovi le comandano, abbandonando le loro chiese per occuparsi degli affari di Bellona. Ormai la guerra produce addirittura sacerdoti, prelati, cardinali ai quali il titolo di legato al campo sembra onorifico e degno dei successori degli Apostoli. Per cui non fa meraviglia se hanno spirito marziale coloro che Marte ha generato. Per rendere poi il male insanabile, coprono un tale sacrilegio col sacro nome della religione. Sugli stendardi sventola la croce.
Armigeri spietati e ingaggiati per poche monete a compiere macelli spaventosi innalzano l’insegna della croce, e simboleggia la guerra il solo simbolo che dalla guerra poteva dissuadere.
Che hai a che fare con la croce, scellerato armigero? I tuoi sentimenti, i tuoi misfatti convenivano ai draghi, alle tigri, ai lupi. -Quel simbolo appartiene a Colui che non combattendo ma morendo colse la vittoria, salvò e non distrusse; da lí soprattutto potevi imparare quali sono i tuoi nemici, se appena sei cristiano, e con quale tattica devi vincere.
Tu innalzi l’insegna della salvezza mentre corri alla perdizione del fratello, e fai perire con la croce chi dalla croce fu salvato?
Ma che! Dai sacri e adorabili misteri trascinati anch’essi per gli accampamenti, da queste somme raffigurazioni della concordia cristiana si corre alla mischia, si avventa il ferro spietato nelle viscere del fratello e sotto gli occhi di Cristo si dà spettacolo della piú scellerata delle azioni, la piú gradita ai cuori empi: se pure Cristo si degni di essere là. Colmo poi dell’assurdo, in entrambe le armate, in entrambi gli schieramenti brilla il segno della croce, in entrambe si celebra il sacrificio. -Quale mostruosità è questa? La croce in conflitto con la croce, Cristo in guerra con Cristo. È un simbolo fatto per atterrire i nemici della cristianità: perché adesso combattono quello che adorano? Uomini degni non di quest’unica croce, ma della croce patibolare.
Ditemi, come il soldato può recitare il “Padre nostro” durante queste messe? Bocca insensibile, osi invocare il Padre mentre miri alla gola del tuo fratello? “Sia santificato il tuo nome”: come si potrebbe sfregiare il nome di Dio piú che con queste vostre risse? “Venga il tuo regno”: cosí preghi tu che su tanto sangue erigi la tua tirannide? “Sia fatta la tua volontà, come in cielo, cosí anche in terra”: Egli vuole la pace, tu prepari la guerra.
“Il pane quotidiano” chiedi al Padre comune mentre abbruci le messi del fratello e preferisci che vadano perse anche per te piuttosto che giovare a lui?
Infine come puoi pronunciare con la lingua le parole “e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” mentre ti lanci a un fratricidio? Scongiuri il rischio della tentazione mentre con tuo rischio getti nel rischio il fratello. “Dal male” chiedi di essere liberato mentre ti proponi di causare il massimo male al fratello?
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Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Einaudi, Torino, 1990, pagg. 51-55.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E "LATINORUM" ...
Assemblea dei vescovi.
La Cei approva la nuova traduzione di Padre nostro e Gloria
Il documento finale dell’Assemblea generale straordinaria. Lotta alla pedofilia, nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 15 novembre 2018)
L’Assemblea generale della Cei ha approvato la traduzione italiana della terza edizione del Messale Romano, a conclusione di un percorso durato oltre 16 anni. In tale arco di tempo, si legge nel comunicato finale dell’Assemblea generale straordinaria della Cei (12-15 novembre), vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della Presentazione del Messale, che aiuterà non solo a una sua proficua recezione, ma anche a sostenere la pastorale liturgica nel suo insieme.
Il testo della nuova edizione sarà ora sottoposto alla Santa Sede per i provvedimenti di competenza, ottenuti i quali andrà in vigore anche la nuova versione del Padre nostro («non abbandonarci alla tentazione») e dell’inizio del Gloria («pace in terra agli uomini, amati dal Signore»).
Riconsegnare ai fedeli il Messale Romano con un sussidio
Nell’intento dei vescovi, la pubblicazione della nuova edizione costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica. Di qui la sottolineatura, emersa nei lavori assembleari, relativa alla necessità di un grande impegno formativo. In quest’ottica «si coglie la stonatura di ogni protagonismo individuale, di una creatività che sconfina nell’improvvisazione, come pure di un freddo ritualismo, improntato a un estetismo fine a se stesso». La liturgia, hanno evidenziato i vescovi, coinvolge l’intera assemblea nell’atto di rivolgersi al Signore: «Richiede un’arte celebrativa capace di far emergere il valore sacramentale della Parola di Dio, attingere e alimentare il senso della comunità, promuovendo anche la realtà dei ministeri. Tutta la vita, con i suoi linguaggi, è coinvolta nell’incontro con il Mistero: in modo particolare, si suggerisce di curare la qualità del canto e della musica per le liturgie». Per dare sostanza a questi temi, si è evidenziata l’opportunità di preparare una sorta di «riconsegna al popolo di Dio del Messale Romano» con un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
Nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
Riguardo alla lotta alla pedofilia, dall’Assemblea generale emerge che le Linee guida che la Commissione della Cei per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili sta formulando «chiederanno di rafforzare la promozione della trasparenza e anche una comunicazione attenta a rispondere alle legittime domande di informazioni». La Commissione - che sottoporrà il risultato del suo lavoro alla valutazione della Commissione per la Tutela dei minori della Santa Sede e soprattutto della Congregazione per la dottrina della fede - ha l’impegno di portare le Linee guida all’approvazione del Consiglio permanente, per arrivare a presentarle alla prossima Assemblea generale.
Si intende, quindi, portarle sul territorio, anche negli incontri delle Conferenze episcopali regionali per facilitare un’assimilazione diffusa di una mentalità nuova, nonché di un pensiero e una prassi comuni.
I vescovi hanno approvato due proposte, che consentono di dare concretezza al cammino. È stata condivisa, innanzitutto, la creazione presso la Cei di un Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, con un proprio Statuto, un regolamento e una segreteria stabile, in cui laiche e laici, presbiteri e religiosi esperti saranno a disposizione dei vescovi diocesani. Il Servizio sosterrà nel compito di avviare i percorsi e le realtà diocesani - o inter-diocesani o regionali - di formazione e prevenzione. Inoltre, «potrà offrire consulenza alle diocesi, supportandole nei procedimenti processuali canonici e civili, secondo lo spirito delle norme e degli orientamenti che saranno contenuti nelle nuove Linee guida».
La seconda proposta approvata riguarda le Conferenze episcopali regionali. Si tratta di individuare, diocesi per diocesi, uno o più referenti, da avviare a un percorso di formazione specifica a livello regionale o interregionale, con l’aiuto del Centro per la tutela dei minori dell’Università Gregoriana.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO.
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
Ottobre.
Il Papa: preghiamo con il rosario per la Chiesa attaccata dal demonio
Papa Francesco chiede a tutti i fedeli di recitare quotidianamente il Rosario nel mese mariano di ottobre. E di concludere con due invocazioni
Papa Francesco ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Madonna e a san Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi. Lo rende noto un comunicato della Santa Sede.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici - ricorda la Santa Sede - il Papa ha incontrato padre Fréderic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa, e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione Sub Tuum Praesidium, e con la preghiera a san Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera, aveva osservato il Pontefice l’11 settembre in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe, è l’arma contro il Grande accusatore che «gira per il mondo cercando come accusare». Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione recita così:
Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Papa chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Madonna ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
La preghiera a san Michele Arcangelo
Il Papa ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII, che recita così:
Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].
* Avvenire, 29.09.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
“Siamo sotto attacco di Satana”
L’appello del Papa
di Andrea Tornielli (La Stampa, 30.09.2018)
Con un appello che non ha precedenti Papa Francesco chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare il rosario nel mese di ottobre per «proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Lo fa rimettendo in auge due antiche preghiere, una alla Madonna e una allo stesso San Michele.
È un’iniziativa che indica quanta sia la preoccupazione del Vescovo di Roma per la piaga degli abusi sui minori, ma anche per l’innalzarsi del livello degli attacchi contro lo stesso Papa e i vescovi, usando in modo strumentale lo scandalo pedofilia per combattere battaglie di potere nella Chiesa e mettere in stato d’accusa il Pontefice, come ha fatto un mese fa, con la sua clamorosa richiesta delle dimissioni papali, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti.
«Il Santo Padre - ha scritto la Sala Stampa vaticana in un comunicato diffuso a mezzogiorno di ieri - ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi».
Papa Francesco invita tutti i fedeli «a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione “Sub Tuum Praesidium”, e con la preghiera a San Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male». La preghiera - aveva affermato Bergoglio lo scorso 11 settembre, in un’omelia a Santa Marta - «è l’arma contro il Grande accusatore che gira per il mondo cercando come accusare».
«Con questa richiesta di intercessione - spiega ancora la Sala Stampa - il Santo Padre chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Santa Madre di Dio, ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga». Il Papa ha chiesto anche che la recita del rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII: «San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio».
Lo scandalo degli ipocriti
· Messa a Santa Marta · *
«Nelle letture di oggi ci sono tre gruppi di persone: Gesù e i suoi discepoli; la donna e Paolo; e i dottori della legge». Riferendosi al passo evangelico di Luca (7, 36-50) «Gesù è invitato ma ricevuto senza tante cortesie - le cortesie abituali del suo tempo - ma lui fa finta di non accorgersene e va avanti. E appare questa donna. Il Vangelo dice una “peccatrice” - così la qualificavano - una di quelle il cui destino era o essere visitate di nascosto, anche da questi, i farisei, o essere lapidate». Ma «questa donna - ha fatto presente il Pontefice - si fa vedere con amore, con tanto amore verso Gesù, e non nasconde l’essere peccatrice, perché tutti la conoscevano, anche tanti lì a tavola l’avevano visitata».
Accennando poi al brano della prima lettera ai Corinzi (15, 1-11), il Papa ha fatto notare che «Paolo dopo aver parlato di tante cose, anche dei carismi, della Chiesa, va al nocciolo della salvezza: “A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri peccati [...] Io infatti sono il più piccolo tra gli apostoli e non sono degno di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio”».
Dunque, ha rilanciato Francesco, «ambedue cercavano Dio con amore, ma amore “a metà”». Paolo «perché pensava che l’amore fosse una legge e aveva il cuore chiuso alla rivelazione di Gesù Cristo: perseguitava i cristiani, ma per lo zelo della legge, per questo amore non maturo». E «questa donna - ha proseguito il Papa - cercava l’amore, come quell’altra, la samaritana: poverina, tanti mariti e non trovava l’amore, e lo cercava. Il piccolo amore. E Gesù dice: “A questa le è stato perdonato tanto perché ha amato molto”».
«Ma come amare? Queste non sanno amare. Cercano l’amore» ha affermato il Pontefice. E «Gesù, parlando di queste, dice - una volta ha detto - che saranno davanti a noi nel regno dei cieli. “Ma quale scandalo...” - i farisei - “ma questa gente!”». Invece «Gesù guarda il piccolo gesto di amore, il piccolo gesto di buona volontà, e lo prende e lo porta avanti. Questa è la misericordia di Gesù: sempre perdona, sempre riceve».
«Un altro gruppo» ha spiegato Francesco riferendosi al brano odierno del Vangelo, è quello composto da «dottori della legge che guardavano Gesù per vedere se potevano trovarlo in errore tendendogli un tranello». Queste persone, ha aggiunto, «hanno un atteggiamento che soltanto gli ipocriti usano spesso: si scandalizzano. “Ma guarda, quale scandalo! Non si può vivere così! Abbiamo perduto i valori... Adesso tutti hanno il diritto di entrare in chiesa, anche i divorziati, tutti. Ma dove stiamo?”». E questo è «lo scandalo degli ipocriti».
«Questo è il dialogo - ha insistito il Pontefice - tra l’amore grande che perdona tutto, di Gesù, l’amore “a metà” di Paolo e di questa signora, e anche il nostro, che è un amore incompleto perché nessuno di noi è santo canonizzato. Diciamo la verità». E «l’ipocrisia: l’ipocrisia dei “giusti”, dei “puri”, di coloro che si credono salvati per i propri meriti esterni». Ma «Gesù a loro dice - agli ipocriti - “sepolcri imbiancati”. Tutto bello, cimiteri belli, ma dentro putredine e un marciume». Proprio «così è l’anima degli ipocriti».
«La Chiesa, quando cammina nella storia, è perseguitata dagli ipocriti: ipocriti da dentro e da fuori» ha affermato il Papa. «Il diavolo non ha niente da fare con i peccatori pentiti, perché guardano Dio e dicono: “Signore sono peccatore, aiutami”». E se «il diavolo è impotente» con i peccatori pentiti, «è forte con gli ipocriti. È forte, e li usa per distruggere, distruggere la gente, distruggere la società, distruggere la Chiesa». E «il cavallo di battaglia del diavolo è l’ipocrisia, perché lui è un bugiardo: si fa vedere come principe potente, bellissimo, e da dietro è un assassino».
La liturgia, dunque, oggi propone questi «tre gruppi di persone» ha riaffermato Francesco: «Gesù, che perdona, riceve, che è misericordioso, parola tante volte dimenticata quando sparliamo degli altri. Pensate a questo: dobbiamo essere misericordiosi, come Gesù, e non condannare gli altri. Gesù al centro». Poi ci sono «Paolo, peccatore, persecutore, ma con un amore “a metà”» e «questa signora, peccatrice, anch’essa con un amore “incompleto”». Ma «Gesù perdona tutti e due. E incontrano il vero amore: Gesù». Infine ci sono «gli ipocriti, che sono incapaci di incontrare l’amore perché hanno il cuore chiuso, nelle proprie idee, nelle proprie dottrine, nella propria legalità».
«Chiediamo a Gesù - è l’invito di Francesco a conclusione dell’omelia - che protegga sempre la nostra Chiesa, che come madre è santa ma piena di figli peccatori come noi. E che la protegga con la sua misericordia e il suo perdono ognuno di noi».
MISTICISMO E POLITICA: IL CAPO, IL CORPO MISTICO, E IL POPULISMO LAICO E DEVOTO. La lezione di Simone Weil ... *
Il percorso speculativo di Simone Weil dentro la fucina del Novecento
Novecento francese. In Leggere Simone Weil (Quodlibet) Giancarlo Gaeta rivisita la vicenda biografica dell’intellettuale francese, mettendo ordine in un pensiero ora mistico, ora filosofico, ora operaio
di Pasquale Di Palmo (il manifesto, 02.09.2018)
«La critica alla modernità in effetti non si risolve nel suo caso in una presa di posizione intellettuale che ne farebbe un’antimoderna; deriva piuttosto da un senso di estraneità verso saperi e modalità espressive che avvertiva impermeabili alle questioni reali della propria epoca e perciò agli effettivi bisogni fisici e morali degli individui». Questo emblematico passaggio è tratto da Leggere Simone Weil (Quodlibet, pp. 320, € 22,00), che raccoglie e ordina una serie di interventi critici sulla pensatrice francese composti da Giancarlo Gaeta, uno dei suoi più raffinati esegeti italiani, curatore di parecchi lavori di traduzione, nonché dell’edizione integrale dei Quaderni, suddivisa in quattro volumi usciti tra 1982 e 1993 per Adelphi.
Gaeta, saggista e studioso di storia del cristianesimo antico, ripercorre le vicende biografiche della Weil, associandole alla sua opera variegata. Ne è scaturito un libro di indubbio fascino, elegante e rigoroso, che tenta di sistematizzare un processo speculativo che ha attraversato come una meteora le grandi crisi, non solo ideologiche, che hanno investito il «secolo breve», nonostante si tratti di «un pensiero estraneo per forma, contenuti e comprensività alle correnti dominanti nella cultura del Novecento». Il continuo richiamo al retaggio dei Greci si configura come una sorta di riscatto dalla dimensione solipsistica e angosciante in cui è irretito il modernismo, nel tentativo di recuperare, oltre a una comunicatività di taglio primigenio, anche «un senso in rapporto alla felicità per la quale l’uomo è fatto e di cui è privato dalle dure costrizioni di questo mondo», come scrisse la stessa Weil.
Gaeta privilegia l’aspetto filosofico, relegando in secondo piano quello letterario, anche se spesso è difficile discernere tra motivi che sono quasi complementari, considerato che per Simone Weil il compito primario della riflessione speculativa non può che essere «comunicazione indiretta della verità», «filosofia esclusivamente in atto e pratica». Tale dimensione «etica» erompe soprattutto dalla lezione di quella straordinaria fucina di impressioni e pensieri costituita dai Cahiers, a proposito dei quali osserva: «Scrivere per frammenti fu dunque per lei, in un passaggio decisivo della sua ricerca intellettuale, una necessità inerente alla specificità del suo pensiero filosofico, che le ha imposto di disporre gli oggetti della riflessione su piani molteplici legati tra loro per analogia, e di leggere ciascuno di essi da più punti di vista, senza nascondersi le contraddizioni, ritenute essenziali al pensiero umano».
Non si poteva non partire dal sodalizio con Simone Pétrement, amica e biografa della filosofa, all’epoca dell’insegnamento di Alain, indiscusso assertore del concetto di libertà che, accomunato a quello di verità, diverrà uno dei capisaldi della ricerca umana e filosofica dell’autrice di La Pesanteur et la grâce. Dall’insegnamento nei licei al sindacalismo passando attraverso un impegno ideologico di indiscussa matrice eretica, si arriverà alla fondamentale decisione, avversata da amici e conoscenti, di lavorare in fabbrica, al fine di capire (e carpire) la reale portata della Condition ouvrière, titolo fortemente voluto da Camus per contrassegnare la raccolta di scritti postumi pubblicata nel 1951 nella collana «Espoir», da lui diretta per Gallimard. -Il libro fu tradotto l’anno successivo da Fortini per le Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti che contribuiranno in maniera decisiva alla conoscenza nel nostro paese di un pensiero tra i più originali e articolati della modernità, stampando altri tre titoli dell’intellettuale francese.
Nonostante la condizione dell’operaio sia paragonata a quella di uno schiavo, per la Weil diventa un privilegio poter misurarsi con il lavoro manuale, benché fosse maldestra e di costituzione gracile, afflitta oltretutto da spaventose emicranie. Si consideri all’uopo l’aneddoto riguardante il fatto che volesse a tutti i costi un fucile in dotazione durante la sua permanenza nella colonna Durruti in cui confluivano le formazioni militari non regolamentari composte da anarchici e comunisti nella guerra civile spagnola. Intimoriti dal fatto che, alla forte miopia, si aggiungesse un’accentuata incapacità manuale, i suoi compagni, dopo mille discussioni, riuscirono a dissuaderla dall’imbracciare un’arma, convinti di aver salvato in tal modo qualche innocente.
Molto interessante è il capitolo che ricostruisce le vicissitudini editoriali di un’opera perlopiù pubblicata in forma postuma e frammentaria. La stessa autrice, poco prima di morire, aveva lasciato al domenicano Joseph-Marie Perrin e al filosofo di estrazione cattolica Gustave Thibon alcuni importanti quaderni mentre la famiglia si adoperò per pubblicare altri testi inediti e poco conosciuti, affidandoli a quell’estimatore d’eccezione che fu il summenzionato Camus. Il primo titolo fu L’Enracinement (1949), seguito da La Connaissance surnaturelle (’50), dalla citata Condition ouvrière (’51) e da Oppression et liberté (’55). Ma, sebbene questi lavori abbiano contribuito in modo determinante a rendere noto il pensiero della Weil, si tratta di testi che non hanno alcun presupposto scientifico, privi come sono di qualsiasi apparato critico o filologico.
Alla stessa stregua vanno considerati i Cahiers editi da Plon tra 1951 e 1956 che, insieme alla Connaissance surnaturelle, in cui confluirono i «Quaderni d’America» e il «Taccuino di Londra», rappresentano per Gaeta edizioni «assai lacunose».
Il fatto che sia Perrin sia Thibon preferissero pubblicare autonomamente gli scritti loro affidati, in cui molto forte è la riflessione sul versante mistico e religioso (si pensi anche al concetto di decreazione che investe «l’annullamento in Dio che dà alla creatura annullata la pienezza dell’essere»), non contribuì in maniera adeguata alla conoscenza globale di un’opera complessa e stratificata. In parte, è riuscita in questa impresa la pubblicazione da Gallimard, ancora in corso, delle Œuvres complètes: intrapresa nel 1988, è arrivata nel 2012 al VII tomo, per un totale di undici volumi.
Ma, al di là delle considerazioni di carattere bibliografico, che tuttavia hanno un rilievo basilare nell’opera della Weil, Gaeta si districa agevolmente nei meandri di un pensiero che cercò «fino ai suoi tentativi estremi di prefigurare un nuovo assetto sociale e politico per l’Europa del dopoguerra» (si veda la critica acerrima dei sistemi totalitari o l’attualissimo «Manifesto per la soppressione dei partiti politici»). Il rigore, l’intransigenza con cui vennero vissute tali istanze sul piano intellettuale, associati a una mancanza di dogmatismo e a un’umiltà davvero ragguardevoli, costituiscono un unicum nella storia del pensiero novecentesco, soprattutto per l’autonomia di giudizio che li sottende.
Si arriva così al travagliato periodo finale: l’avvicinamento a un cattolicesimo sui generis (il «punto al limitare della Chiesa» di cui parla la stessa Weil) che diede vita alle splendide pagine di Attente de Dieu e Lettre à un religieux, la fuga per sottrarsi alle leggi razziali con la famiglia, lo sbarco a New York e il successivo approdo a Londra.
Si lascerà morire di inedia in un ospedale di Ashford, nel Kent, il 22 agosto 1943, all’età di 34 anni. Aveva scritto in una delle sue ultime lettere: «A parte ciò che mi può essere accordato di fare per il bene di altri esseri umani, per me personalmente la vita non ha altro senso, e in fondo non ha mai avuto altro senso, che il conseguimento della verità».
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
IL CAPO, IL CORPO MISTICO, E IL POPULISMO. La critica di Simone Weil in un’acuta precisazione di Alessandro Leogrande ("Orwell", 2012):
«[...] Simone Weil criticava aspramente il partito giacobino-staliniano (e il modellarsi su quella forma anche dei partiti nati in un solco culturale e politico diverso). Criticava l’asservimento dei singoli militanti al volere del Capo, il sacrificare la capacità di discernimento di ogni singolo eletto sull’altare di quella che è invece la volontà che discende dall’alto dei gruppi parlamentari o del comitato centrale o del sommo leader. Il pensare “partitico”, nel momento in cui sostituisce a ogni criterio di Giustizia e Verità, cioè di pensiero autonomo e disinteressato, quello del successo del partito medesimo (contro tutti gli altri partiti) conduce in un vicolo cieco. E produce disastri. Simone Weil ci va giù pesante: “Si tratta di una lebbra che ha avuto origine negli ambienti politici, e si è espansa, attraverso tutto il Paese, alla quasi totalità del pensiero”.
Andando al cuore di questo Manifesto [per la soppressione dei partiti politici, riedito da Castelvecchi] apparentemente antipolitico, si coglie in maniera lampante un dettaglio: la cosa che Simone Weil più temeva (ancora più dell’organizzazione “militare” della lotta politica) è il fuoco della demagogia, cioè la capacità di alcune forze politiche (soprattutto di quelle che vogliano abbattere tutto, per poi edificare una nuova era) di essere straordinari moltiplicatori di torbide passioni collettive. Come? Con un uso sapiente della propaganda e della persuasione, che sono diametralmente opposte alla comunicazione reale tra persone, al discernimento dei problemi concreti. [...]» (Cfr. Alessandro Leogrande, Su Grillo e Simone Weil..., minima-at-moralia).
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE. Materiali sul tema
Federico La Sala
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.... *
Lettera.
Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche d--a tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
CdB - Comunità Cristiana di Base Viottoli
15 luglio - 15^ Domenica del T.O.
Un tirocinio di vita nuova
E’ un brano difficile, a mio parere. Non tanto per la radicalità del messaggio di Gesù, che i Vangeli ci testimoniano a ogni pagina e alla quale siamo ormai abituati, direi serenamente indifferenti, al di là forse dell’ammirazione estetica per la coerenza del profeta.
E’ difficile, secondo me, perché, a differenza della dottrina cattolica che vede nei discepoli di Gesù il nucleo originario del clero e della gerarchia, io ci vedo invece un invito preciso a ogni discepolo e a ogni discepola, a ogni uomo e a ogni donna che professino di voler vivere da cristiano e da cristiana.
Una pratica decisiva
Dice Marco (come anche Matteo 10,9-15 e Luca 9,1-6) che Gesù li mandava a predicare e a guarire, ad annunciare la buona notizia del Regno e a invitare la gente a fare penitenza, come segno tangibile del cambiamento di vita scelto.
Li mandava “a due a due” (solo Marco lo sottolinea), così si sostenevano nel compito e, andando, si scambiavano emozioni e parole, aiutandosi a vicenda ad approfondire e radicare le motivazioni del loro andare.
Mi sembra l’avvio di una pratica decisiva: un “passaparola” che, a poco a poco, coinvolgerà altri e altre e li/le motiverà a mettere a disposizione le proprie case, i propri averi, le proprie intelligenze, dando così vita alle piccole comunità domestiche di cui troviamo testimonianza nel libro degli Atti e nelle Lettere, non solo quelle di Paolo.
Solo uomini malati di potere, di ricchezza e di dominio, hanno potuto inventarsi e imporre il “sacramento dell’ordine”, addebitando a Gesù un progetto gerarchico che gli era completamente estraneo e che solo il mercimonio con l’imperatore di Roma ha reso possibile e duraturo nel tempo. E’ ora di smascherarlo e di abbatterlo, come la statua di Nabucodonosor nel sogno di Daniele...
Un tirocinio di vita
Torniamo al Vangelo, chiudendo con convinzione i testi di dogmatica e di catechismo. I “dodici” non erano preti e mai lo sono diventati. Erano discepoli, tra i quali solo il linguaggio maschile-neutro della cultura patriarcale nasconde e rende invisibili le donne, che accompagnavano Gesù e qua e là sono nominate.
A loro, ai discepoli e alle discepole che lo seguono con più convinzione ed entusiasmo, Gesù fa scuola: insegna, offre loro il proprio modello di vita, li/le invita a mettersi in gioco in prima persona, esercitandosi a fare quello che fa lui. E’ un tirocinio di vita nuova, quello a cui li/le invita: a imparare a mettere al centro le relazioni e a viverle con semplicità, coerenza, pazienza.
Semplicità. Niente cinque per mille né oboli di S. Pietro né concordati ed esenzioni ICI: solo “un bastone, sandali e una tunica”; e accettare con gioia l’ospitalità di chi mette a disposizione del cibo e un letto per il riposo.
Questa diventerà la casa di riferimento per altri e altre di quel villaggio: luogo di scambio, di ascolto della buona notizia del Regno, di relazioni che guariscono e consolano, raddrizzano altre schiene curve, cancellano depressioni, cecità, sordità, zoppìe di ogni tipo...
Marco dice che tutto ciò è il contenuto del “potere” che diede loro Gesù e che, a loro volta, hanno trasmesso ad altri e ad altre. Proprio com’è possibile che succeda a noi, ogni giorno che incontriamo uomini e donne con cui riusciamo ad entrare in relazione profonda di vita e di scambio.
E’ un “buon contagio” che si diffonde: ci accorgiamo che anche a lui, anche a lei, accade il bello e il buono che è già accaduto a noi e che si rinnova quotidianamente. La solitudine, la depressione, l’angoscia... e le mille somatizzazioni di una vita vuota di luce e di senso, lasciano il posto alla felicità, al desiderio di non tornare indietro, di vita piena... e di comunicarlo ad altri, ad altre.
Questa è la “conversione” a cui mi sento chiamato da Gesù; questo è il senso della “penitenza” a cui il messaggio evangelico ci chiede di aderire con coerenza.
E con pazienza: se qualcuno “rifiuta di accogliervi e di ascoltarvi, andatevene”. E continuate a camminare, di villaggio in villaggio, proprio come faceva Gesù, fermandovi nella casa che vi accoglie “finché non ve ne andiate”.
Sembra proprio che a Gesù non sia neppure passato per la mente di istituire parroci e pastori con compiti di permanenza territoriale. Troppo alto è il rischio di finire come i sacerdoti, gli scribi e i farisei di Israele, che impongono se stessi e pesi insopportabili.
Bisogna camminare, viaggiare, spostarsi... stimolando conversioni e cambiamenti di vita attraverso lo scambio nelle relazioni e accettando ogni rifiuto, che appartiene alla libertà di scelta di ogni uomo e di ogni donna.
A chi sceglie di vivere da suo discepolo, da sua discepola, compete il compito di predicare la buona notizia e di viverla con coerenza. Fare altrettanto è responsabilità di ciascuno e ciascuna.
Un modello copiabile
Ma non finisce lì! Nei versetti 30 e 31 vediamo Gesù che si prende cura dei suoi che tornano stanchi e li invita a riposare un po’. Ma la gente li segue, li assedia... e Gesù decide di prendersi cura di tutti e tutte e insegna come fare altrettanto sempre.
E’ semplice: basta condividere quel poco che ognuno/a ha: la parola e il gesto che guarisce, sostiene, conforta... e il cibo, la vicinanza sull’erba, la condivisione di un’esperienza di ascolto, di scambio, di ricerca.
Chi fa vita di comunità e di gruppo sa per esperienza quanto tutto ciò sia vero, sia semplice, sia “modello copiabile”. Non come il Gesù “personaggio”, di cui nessuno riesce a credere che sia proprio quell’umile artigiano di Nazareth che si è messo a fere il profeta.
Se “vivere da profeta” è e resta vocazione/professione di pochi, questi pochi restano lontani, imprigionati dal pregiudizio nel folclore, nel devozionismo, nel ritualismo vuoto e superficiale.
Sono modelli “non copiabili”, lontani dalla portata dei comuni mortali, che non si sentono dunque interpellati in prima persona. Non invitano all’ascolto e al cambiamento di vita, ma suscitano stupore e scandalo, come succede a Gesù nel brano iniziale del capitolo.
Se non c’è relazione il miracolo non avviene; se non ci sono consapevolezza e ascolto, fiducia e disponibilità, “fede da bambino”... il miracolo non si può fare.
Perché il miracolo del cambiamento non si impone da uno all’altro: può avvenire solo in chi ascolta l’esperienza altrui, accoglie la proposta e sceglie di farla propria.
Questo non accade “in patria”, nella casa del padre, dove impariamo a voler essere “padroni in casa nostra”, ma nel mondo, che è la “casa della madre”, delle relazioni d’amore libere, senza muri, senza respingimenti, senza confini, dove c’è responsabilità, riconoscimento reciproco e riconoscenza.
Tutto ciò è difficile, come dicevo all’inizio. Ma è fattibile, copiabile, possibile a ciascun uomo e a ciascuna donna. Non è “roba da preti”, missione per pochi...
Il Regno di Dio, dell’amore e della giustizia, ci è vicino e “viene” nella misura in cui ciascuno e ciascuna vi si dedica con semplicità, coerenza e pazienza. Se lo deleghiamo ai gerarchi, schiavi della loro sete di ricchezza e di dominio, resterà un’impresa impossibile. E’ parola di Gesù.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Jesus. Chi era costui? Antropologia filologia archeologia filosofia teologia cristologia pedagogia ...
IL "CIMENTO" DELL’ACCADEMIA GALILEIANA E LA "PIETRA” DEI FILOSOFI: "PROVANDO E RIPROVANDO"!
A riorganizzare le idee, a sollecitare ulteriori riflessioni e approfondimenti sugli importanti e vitali "rapporti tra cemento, cimento e cimentare" ("Ggimentu, gimmientu e ggimintare"), e a non cadere nel delirio di onnipotenza della preghiera nient’affatto evangelica e nient’affatto infantile, troppo “infantile” (“Cristo lo voglio io per Padre/ la Madonna la voglio per Madre/ S. Giuseppe lo voglio per fratello,/ I Santi tutti li voglio per parenti / Affinché mi scampino da tutti i cimenti” - vale a dire, i serpenti-parenti), tenendo conto delle precisazioni del prof. Polito e delle mie "vecchie" note relative al suo articolo "Serpente? Presente",
RICORDO
che il motto della ACCADEMIA DEL CIMENTO ("Accademia dell’esperimento"), nel solco del "Saggiatore" di Galileo Galilei, è
"PROVANDO E RIPROVANDO".
Solo su questa strada, valendosi "del proprio intelletto senza la guida di un altro", con l’uso della propria "bilancetta", è possibile trovare all’interno dalla caverna la "pietra da costruzione" ("lapis philosophorum") e al contempo l’uscita dallo Stato di minorità (Kant).
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Canfora, la filologia è libertà
Il volume curato da Rosa Otranto e Massimo Pinto (Edizioni di Storia e Letteratura)
di Livia Capponi (Corriere della Sera, 29.06.2018)
Come lavoravano gli autori greci e latini? Nel suo lungo e intenso magistero, Luciano Canfora, a cui gli allievi Rosa Otranto e Massimo Pinto dedicano il volume collettivo Storie di testi e tradizione classica, ha insegnato ad affrontare ogni testo a partire dalla sua storia, reinventando la filologia come disciplina in grado di leggere non solo i testi giunti fino a noi, ma anche le cicatrici, i tagli, i contorni invisibili di ciò che è stato modellato da un censore, da un copista, dal gusto di un’epoca.
Diversamente da Isocrate, famoso per la sua lentezza nel comporre, e da Pitagora, che preferiva depositare la sua dottrina nei libri più sicuri, cioè nella memoria degli alunni, Canfora, la cui bibliografia conta 843 opere, è più simile a Demostene, che cesellava ogni rigo o a Fozio, patriarca bizantino che salvò il patrimonio letterario antico, aiutato da un’affezionata cerchia di studenti.
Nei contributi qui raccolti, l’erudizione è messa al servizio di una coinvolgente ricerca della verità, intesa come integrità testuale, storica ed etica. Sono toccati i temi prediletti, come l’analisi critica della democrazia, la storia della tolleranza e della libertà di parola, la schiavitù e i perseguitati politici e religiosi da Atene ai giorni nostri, attraverso lo studio di storiografia, archivi, biblioteche e pubblicistica d’ogni epoca. Il tutto condito da empatia e indipendenza di giudizio, in grado di far rivivere gli antichi con grande vivacità: Cesare è ritratto mentre elabora il primo sistema crittografico per l’intelligence romana; Fozio nell’atto di divorare romanzi d’amore greci (per poi censurarli). Coerentemente con la lezione canforiana, lo studio dei classici diventa motivo di apertura mentale perché aiuta a capire il presente e noi stessi.
Filologia e “verità”
di Daniele Ruini (Nazione Indiana, 01 marzo 2009)
Quale importanza abbia avuto, nella storia dell’umanità, la parola scritta è un fatto difficilmente sottostimabile. Per quanto riguarda, più in particolare, la storia delle religioni, ciò è chiaramente evidente in tutti quei culti che riconoscono autorità sacra a uno o più testi, ritenuti frutto della diretta ispirazione divina, ovvero “parola di Dio”. Dato lo speciale statuto assegnato a tali scritture, ogni operazione volta a definirne con esattezza il dettato testuale acquista un valore particolare; se, da un lato, avvicinarsi il più possibile allo stadio originario di un Testo Sacro significa ridurre la distanza che separa dalla supposta Verità in esso contenuta, dall’altro lato, rimettere ogni volta in discussione la lezione di un’opera di tal fatta non può non avere conseguenze delicate per la comunità religiosa che di essa ha fatto il proprio testo di riferimento. Il rapporto tra Sacre Scritture e filologia (la disciplina finalizzata a ricostruire la veste originaria di un testo attraverso lo studio delle varie fasi della sua trasmissione) è infatti necessariamente contraddittorio: il carattere dogmatico della “parola di Dio” può sopportare il libero esercizio critico della filologia? E soprattutto: fino a che punto saranno disposti ad accettarlo i rappresentanti delle gerarchie ecclesiastiche?
È questo il tema al centro di Filologia e Libertà di Luciano Canfora (Mondadori 2008), nel quale si ripercorre la storia delle resistenze del Vaticano dinnanzi all’applicazione della critica testuale alla Bibbia, dando risalto alle figure dei pochi studiosi che quei divieti tentarono di infrangere. Come sottolinea Canfora, riannodare le fila di questo racconto equivale a narrare la storia «della libertà di pensiero attraverso il faticoso e contrastato dispiegarsi della libertà di critica sui testi che l’autorità e la tradizione hanno preservato».
Benché sia sempre esistita una filologia biblica, le cui origini affondano nel giudaismo ellenistico, la Chiesa Cattolica è venuta progressivamente irrigidendosi, assumendo, di fronte alle possibilità di studiare le Sacre Scritture secondo i principi della critica testuale, un atteggiamento di totale chiusura, cui si accompagnò un’azione di repressione nei confronti dei disobbedienti. Tale fu la posizione espressa nelle disposizioni del Concilio di Trento (1545-1563), colle quali fu sancito il primato della Vulgata, ovvero della versione latina della Bibbia tradotta da San Gerolamo nel IV secolo d.C.
In maniera del tutto illogica e fondandosi sulla supposta ispirazione divina del traduttore, veniva riconosciuta la superiorità di una traduzione rispetto al testo originale (ebraico per l’Antico Testamento, greco per il Nuovo). Si trattava di una risposta alle iniziative dei luterani, che rivendicavano invece l’originale biblico e che quello traducevano per la massa dei fedeli. Tali norme rimasero valide fino al Concilio Vaticano II (1965), quando fu finalmente ammessa, anche da parte cattolica, la possibilità di tradurre le Sacre Scritture nelle lingue moderne, favorendone l’accesso al popolo dei credenti.
E nondimeno, la filologia moderna, sviluppatasi storicamente nel XIX secolo sui classici greci e latini, ebbe le sue prime applicazioni proprio in ambito biblico e, più in particolare, neotestamentario. Alla netta chiusura della Chiesa Cattolica - ma atteggiamento non dissimile ebbero le Chiese riformate - si contrappose l’attività di singoli eruditi che, raccogliendo l’eredità di Erasmo da Rotterdam (1466-1536), si prodigarono nello studio della formazione dell’Antico e del Nuovo Testamento, subendo spesso l’ostracismo delle comunità religiose di appartenenza.
Tra le figure ricordate da Canfora vi sono l’ebreo Baruch Spinoza (1632-1677), il giansenista Richard Simon (1627-1704), i protestanti Pierre Bayle (1647-1706), Johann Jacob Wetstein (1694-1745) e Jean Leclerc (1657-1736). Il loro lavoro fu la principale fonte d’ispirazione della critica illuministica delle religioni, della cui efficacia ed attualità rende conto il fatto che «la condanna dell’illuminismo si replica, di papa in papa, di enciclica in enciclica, fino alla recentissima Spe salvi (par. 19) dell’attuale pontefice».
Le infrazioni ai divieti cattolici in materia di filologia biblica proseguirono nel XIX secolo per merito di alcuni esponenti dell’Institut Catholique di Parigi, ai quali il Vaticano affibbiò l’etichetta di “modernisti”. Tra di essi, Ernest Renan (1823-1892) - autore di una celebre Vita di Gesù in cui si negava la divinità del Cristo -, Louis Duchesne (1843-1922) e Alfred Loisy (1857-1940), cui si devono due volumi sulla Storia del canone dell’Antico e del Nuovo Testamento.
La durissima presa di posizione del cattolicesimo romano fu affidata alle encicliche Providentissum Deus di papa Leone XIII (1893) e Pascendi dominici gregis di papa Pio X (1907). In quest’ultima, in particolare, il pontefice espresse in termini retrogradi l’allarme risentito verso la critica testuale, il cui carattere eversivo risalirebbe alla pretesa di introdurre nell’ambito dei Testi Sacri il concetto di “evoluzione”, «quasi che la stessa religione fosse opera non di Dio ma degli uomini o un qualche ritrovato filosofico che con mezzi umani possa essere perfezionato» (sic).
Nessuna posizione ufficiale venne più espressa fino al 1943, quando papa Pio XII compì una svolta inaspettata, ammettendo la legittimità della critica testuale in ambito biblico (enciclica Divino afflante spiritu). Non si trattava, tuttavia, di una netta presa di distanza dalle chiusure del passato; l’enciclica pretende anzi di stabilire una continuità colle dichiarazioni dei pontefici precedenti, disegnando una prospettiva distorta secondo cui la Chiesa avrebbe sempre favorito e appoggiato la critica testuale, ed affermando che il riconoscimento della legittimità dell’indagine filologica sui testi sacri non è in contraddizione coi deliberati tridentini.
L’apertura di papa Pacelli era in realtà la conseguenza della presa d’atto che alcune significative esperienze filologiche recenti avevano reso del tutto obsoleta e non più sostenibile la condanna vaticana verso la critica testuale; capolavori come l’edizione critica dell’Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea realizzata da Eduard Schwartz (1905-1909), o quella della Bibbia dei Settanta prodotta nel 1935 in ambiente protestante, costituivano una smentita concreta delle preclusioni cattoliche nei confronti della filologia. D’altra parte, pur nella sua apertura di fondo, Pio XII si appella alla cautela degli studiosi; l’enciclica contiene infatti l’invito a produrre nuove edizioni scientifiche del Testo Sacro pur mantenendo nei suoi confronti «somma riverenza».
Si tratta, come evidenzia Canfora, di una posizione assurda e insensata, dacché inconciliabile colla pur invocata «rigorosa osservanza di tutte le leggi della critica». Ciò equivarrebbe infatti ad ammettere che “un testo affidabile di Platone possano darlo soltanto dei platonici puri e graniticamente fedeli al “verbo” del maestro (ammesso comunque che tale verbo esista già preconfezionato, prima del necessario, lunghissimo, imprevedibile, lavorio critico)”.
Questo non-senso nasce dalla convinzione, mai messa in discussione, che i testi inclusi nel canone cattolico - e solo quelli - contengano la verità, una verità «precostituita e testualmente compiuta prima della ricostruzione del testo». L’apparente apertura rivoluzionaria del Vaticano tradisce, quindi, un certo conservatorismo, nell’incapacità di accettare fino in fondo l’idea che «il testo della Scrittura va letto (e criticato) per quello che letteralmente dice, mentre la sua difesa di principio può condursi solo sul piano della “fede”».
Il volume di Canfora costituisce, in conclusione, un elogio della filologia, considerata come un antidoto al dogmatismo e all’oscurantismo e come fondamento della libertà di pensiero.
Per materiali sul tema, nel sito, si cfr.:
LA SAPIENZA E IL MESSAGGIO EVANGELICO. FRANCESCO BACONE E SAN PAOLO PRENDONO LE DISTANZE DALLE ENCICLICHE DI PAPA BENEDETTO XVI. Una "preghiera comune" firmata da Bacone
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE: L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO.... *
L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO
di don Paolo Farinella (la Repubblica, 10 giugno 2018)
«Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo (anche) le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo» . Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu.
Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran 1203 - 1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, « Adamo » non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa « Umanità - Genere Umano » , senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale. L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di « civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
Due giorni fa, di mattina presto, un’amica mi ha inviato due video ripresi nei pressi della Regione Liguria dove dormivano persone per terra, « figlie di Adamo » , carne e sangue « della sua essenza » . Mi sono chiesto se la nostra civiltà non stia regredendo verso la preistoria, verso il nulla.
Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova sarà restaurata la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz. Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti.
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
ICONE DELLA LEGGE - DELLA COSTITUZIONE. Icone. Pensare per immagini... *
Resurrezione: mito o mistero?
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 28.05.2018)
Nel dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio Salita al Calvario del 1564, si scorge a fatica, al centro di una scena super affollata, Gesù salire al Calvario nell’indifferenza generale. Si fatica a vedere la sua piccola figura e la grande croce che trascina con sé. Tutt’intorno a lui brulica una folla indifferente, affaccendata nelle proprie attività. Il clima è festoso, non sembra profilarsi alcuna tragedia all’orizzonte. In primo piano, tre donne piangono, consolate da un giovane che sappiamo essere Giovanni, l’apostolo. Ma le quattro figure sembrano fuori posto, quasi fossero dovute perché non si dà la Passione senza le donne piangenti e Giovanni.
Inizia da qui l’itinerario che Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa percorrono nel loro ultimo libro, Croce e Resurrezione (il Mulino), pubblicato nella collana ’Icone. Pensare per immagini’ diretta da Massimo Cacciari. -Come suggerisce il titolo, il libro è diviso in due parti. Nella prima, dedicata alla passione e crocefissione di Cristo, Maurizio Ciampa commenta la Salita al Calvario accostandola anche a diverse altre raffigurazioni dello stesso soggetto: da Hieronymus Bosch, col suo Cristo portacroce del 1515 - in cui il volto di Gesù sembra l’unico umano, schiacciato e soffocato da facce grottesche e demoniache -, a James Ensor, con L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, in cui la parodia dell’ingresso a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua, è un carnevale. Da Matthias Grunewald con il crocifisso dell’Altare di Isenheim, quasi inguardabile nell’atrocità del suo dolore, a I disastri della guerra, di Francisco Goya, 1808-1810, e altri ancora.
La seconda parte del libro è dedicata alla risurrezione di Cristo, evento inimmaginabile accaduto senza testimoni. Com’è possibile, allora, rappresentarlo? In che modo dipingere un uomo che abbia attraversato il confine della morte e abbia trovato, al di là, vita nuova? Di quale strana materia dovrebbe essere fatto, per rimanere attingibile ai sensi?
Gabriella Caramore sceglie di parlarne commentando La cena di Emmaus dipinta da Rembrandt nel 1629, in cui il risorto è un profilo d’ombra che risalta sulla luce proiettata sul muro alle sue spalle, che il suo stesso corpo emana. Ed è una buona scelta, perché non esiste in tutta la storia dell’arte un volto di Cristo risorto all’altezza dell’evento, neppure quello che forse è il più bello di tutti, ritratto da Piero della Francesca nel dipinto Resurrezione del 1460.
È un libro bello e intenso, traboccante di domande che tutti si fanno davanti ai due pilastri della fede cristiana, la morte in croce di Gesù e il suo ingresso in una nuova vita. Due sono le più dure e drammatiche: interessano ancora a qualcuno la sua storia e la sua tragica fine? Com’è possibile oggi credere alla resurrezione? La risposta, più lasciata intuire che detta esplicitamente, sembra essere ’no’. Forse, suggeriscono gli autori, dovremmo leggere tutta la vicenda in un modo diverso che, allontanandola dalla “leggenda”, ci permettesse di trovarne un senso accettabile oggi per noi.
Nella Salita al Calvario, osserva Ciampa, per la prima volta la passione di Cristo è trasformata in spettacolo, infatti la sua figura quasi scompare tra le tante che affollano la scena, per lo più allegre e ridanciane, prese dai loro vari commerci. Il luogo in cui il condannato sarà crocifisso è lontano e marginale. Come lo sono anche Giovanni e le donne, raffigurati in primo piano sul lato destro del dipinto, e sembrano del tutto estranei rispetto alla folla. Non sono vicini né a Gesù né al luogo del patibolo.
Maurizio Ciampa si chiede se ce la farà ad arrivare al Golgota questo povero Cristo “trafitto dall’indifferenza” e acutamente osserva: “Possiamo leggere la Salita al Calvario come un triste presentimento di ciò che accadrà, una sorta di presagio della Storia che verrà, una sua sintesi anticipata. La croce nascosta, il Cristo accantonato, la Passione alterata in ‘festa’”.
Una festa paesana che James Ensor porterà a termine, trasformandola in carnevale, dopo che Cristo avrà attraversato il male raffigurato nei volti ghignanti di Hieronymus Bosch, quasi a suggerire che egli non può - non ha potuto né potrà - vincere il male sulla Terra. “In Bruegel resiste ancora, nascosto, un residuo di croce” - afferma Ciampa - “in Bosch la croce sembra soccombere, Cristo resta comunque l’ultima traccia dell’umano; in Ensor, gli "uomini vuoti", distratti, confusi, sembrano non averne più memoria.” La passione diventata intrattenimento e un Cristo fragile e svuotato sembrano dichiarare che la sofferenza dell’uomo non troverà mai senso e che il “simbolo cristiano” ha perso efficacia per l’uomo di oggi. Il mondo ha messo Cristo da parte, la sua storia non interessa più, non è più ispiratrice né può dirsi in alcun modo diversa da quella dei tanti uomini e donne buoni e di valore che la Storia ha fatto a pezzi. Non c’è più altro da dire.
A questo punto, però, nella visione cristiana fondata sulla testimonianza della gente del tempo, entra in scena la libertà di Dio. Perché è questo il significato della resurrezione di Gesù: nella loro libertà i potenti nemici di Gesù ne hanno decretata la morte; nella sua libertà, Gesù non vi si è sottratto; ma nella sua libertà, Dio è intervenuto quando la sua azione non avrebbe più forzato e ridotto la libertà degli altri attori in gioco. Con la resurrezione di Gesù ha dichiarato, davanti agli uomini e alla Storia, che quell’uomo diceva la verità, su di loro e su Dio stesso. È possibile crederlo?
Gli autori sembrano, di nuovo, propendere per una risposta negativa quando si domandano: “Quale narrazione di quell’evento può aiutarci a darne una lettura che non strida con l’esigenza contemporanea di uscire dal linguaggio del mito?”. E più avanti, verso la conclusione del libro, Gabriella Caramore, invitando a non smettere di cercare “per capire se sia possibile estrarne una umile, esile forza su cui far leva per potere stare al mondo”, si chiede se non sia “proprio in questa eclissi di una trascendenza mitologica (corsivo mio) che può condensarsi il senso della ’resurrezione’: qualcosa è stato e ha lasciato un segno sulla terra ... rimane, per chi resta, la possibilità di ridestarsi alla luce, di rialzarsi alla vita. Non è, questo, un segno molto più potente che non attendere il ritorno nella carne, nella materia, o nella leggenda (corsivo mio) di chi ha lasciato quell’incolmabile vuoto?” E riferendosi all’evangelista Luca e alla sua insistenza a dichiarare Gesù il vivente anche dopo la morte, afferma: “In fondo quell’insistenza ... appare come un invito ad allontanarsi dalla visione di un cadavere che torna a rivisitare i vivi, per spalancare invece la possibilità di trovare forza e consolazione in ciò che rimane di una vita trascorsa”.
Se la resurrezione è un mito, non credo ci possa dare alcuna forza, né esile e umile, né d’altro genere; non consola nessuno né cambia alcunché della nostra personale sofferenza. Se non è un mito, è uno sconvolgimento, una forza potente, una rivoluzione dell’interpretazione che ognuno può dare alla propria vita, una direzione totalmente nuova verso cui sentirsi tutti in cammino. La resurrezione di Gesù non è il ritorno a questa vita di un cadavere, ma la rivelazione di un destino sorprendente, di uno stadio successivo alla vita che aspetta ogni essere umano (e non soltanto). È la possibilità di sperare con intelligenza, e non sulla base di favole e miti rassicuranti, che la morte non sia la fine del viaggio. E questa fiducia non si basa su un’adesione emotiva, non è stata conservata nei secoli da cuori fragili incapaci di accettare la morte, ma da spiriti forti e intelligenze acute che vi hanno riflettuto con tutte le proprie forze. È impossibile riassumere qua questo lungo cammino, mai concluso, ma chi volesse può ascoltare, per farsi un’idea della questione, una conferenza molto chiara e interessante dell’astrofisico e teologo Giuseppe Tanzella-Nitti, dal titolo: La visione del cristianesimo tra vita biologica ed immortalità, reperibile su youtube.
L’evento della resurrezione non ha avuto testimoni, per questo non si può definirlo storicamente certo (se lo fosse, probabilmente saremmo tutti cristiani). I fatti storicamente accertati riguardano, invece, quello che i discepoli fecero dopo gli incontri con Gesù successivi alla sua morte, e l’improvviso cambiamento avvenuto nella loro attitudine, nel loro stesso carattere.
La resurrezione è, ad ogni modo, un mistero che non si può liquidare facilmente né alla leggera, perché la fede cristiana non si fonda sul messaggio di Gesù allo stesso modo in cui, per esempio, il buddismo si fonda sull’insegnamento straordinario del Buddha, ma sulla sua persona e sul mistero che egli rappresenta per l’umanità tutta. A quel mistero appartiene, come elemento non secondario ma fondamentale, che sia risuscitato dalla morte rivelando qualcosa di sostanziale in merito al destino di tutti gli esseri umani.
Credere nella resurrezione di Gesù e in una vita piena dell’intera persona umana, al di là di come questo sia possibile e di quale materia sarà il nostro corpo, fa la differenza tra il cristianesimo e le altre concezioni. È ancora vero quello che ha detto san Paolo: “...se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede ... se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.” (1Cor 15).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT ALL’ATTACCO DEI DELIRI E DEGLI INGANNI DEI "GRANDI SAPIENTI": ANNO DI GRAZIA, 1766.
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Ipazia, maestra di libertà. In ricordo di Margherita Hack
di ALESSANDRO ESPOSITO *
Circa tre anni fa uscì nelle sale cinematografiche italiane il film Agorà, del regista ispano-cileno Alejandro Amenábar: la pellicola racconta la storia, in verità poco nota, di una filosofa, matematica ed astronoma di nome Ipazia, che viveva in Alessandria d’Egitto tra la fine del quarto e l’inizio del quinto secolo dell’era volgare.
Da tutti stimata per la sua profonda erudizione e per la sua statura morale, Ipazia si trovò a vivere in un’epoca di delicata transizione: dalla cultura ellenistica alla progressiva affermazione nel bacino mediterraneo del cristianesimo niceno e teodosiano. Alla scuola del pensiero greco Ipazia si era formata, ereditandone l’estrema libertà per tutto ciò che riguardava lo studio delle scienze e dei fenomeni naturali.
Era una ricercatrice, Ipazia: curiosa, intelligente, mai sazia. Si interrogava, dubitava, stilava ipotesi che poi valutava e che, a seconda dei casi, comprovava o confutava. Così le era stato insegnato: il pensiero non conosce limiti nel suo libero esercizio. Va allenato, nutrito, coltivato.
È però consapevole, il pensiero, della sua fallibilità, della necessità di subire trasformazioni costanti alla luce dell’esperienza e delle riflessioni che essa suscita: chi ha imparato la difficile fatica del pensare sa rimettere in discussione convinzioni ed acquisizioni, sa tornare su un ragionamento e verificare dove esso, eventualmente, scricchiola, è disposto a riformulare ipotesi e a ridefinire presunte e sempre provvisorie conclusioni.
Questo è il mondo dal quale proviene Ipazia. Intorno a lei, frattanto, si sviluppa un movimento che, seppur presente già da secoli nella sua città, adesso è in forte ascesa. Li chiamano «cristiani» e vengono da una costola di quell’ebraismo che in Alessandria vanta una tradizione millenaria. Qualcuno di loro è anche suo allievo e segue con diligenza le lezioni di matematica, geometria e astronomia: la convivenza tra cristiani, ebrei e pagani è pacifica, lo studio delle discipline scientifiche è un qualcosa che li accomuna, al di là delle legittime e niente affatto problematiche differenze di credo. Ma qualcosa di nuovo sta accadendo: più in particolare, due cose.
A livello imperiale, la religione cristiana, dapprima perseguitata, è stata in un primo momento tollerata con l’editto di Costantino del 313 e poi, persino, dichiarata «religione ufficiale dell’impero», con l’editto di Teodosio del 380: aveva, insomma, trovato il suo accomodamento con il potere, divenendo, in tal modo, elemento chiave per il controllo sociale e per la repressione del dissenso. Soltanto adesso, infatti, vengono convocati i primi concili ecumenici (Nicea, nel 325 e.v. e Costantinopoli, nel 381), che hanno lo scopo di uniformare la dottrina e di individuare chi se ne discosta, catalogandolo come «eretico».
A livello locale, si afferma in Alessandria un’interpretazione settaria e fondamentalista del cristianesimo, portata avanti da una corrente detta dei «parabolani», del cui appoggio si servirà il vescovo Cirillo per consolidare la sua posizione di potere. Cirillo, in seguito proclamato santo, nonché «padre e dottore della chiesa» (sic!), si distinse per la sua radicale intolleranza: scacciò da Alessandria gli ebrei che vi risiedevano da secoli e combatté ostinatamente ogni manifestazione del libero pensiero.
Pensare in modo indipendente, si sa, rappresenta un rischio agli occhi di chiunque intenda esercitare il potere senza contraddittorio; motivo per cui Cirillo, come attestato in più di una fonte tardo-antica[1], decise di eliminare Ipazia: classico espediente a cui ricorre chi è a corto di argomenti. Ipazia fu dunque vittima di un fanatismo cristiano niente affatto estintosi: ancora oggi sono tutt’altro che inconsueti gli anatemi lanciati contro l’esercizio libero e creativo del pensiero in ambito di fede.
Chi crede, secondo alcuni (ma, ahimè, temo di dover dire: secondo i più), deve anestetizzare la riflessione, bandire la ricerca e reprimere la fantasia: il suo solo compito è quello di obbedire, senza porsi troppi interrogativi, i quali hanno il solo scopo di farci tergiversare e vacillare, e senza lasciarsi attraversare dal dubbio, che dalla fede, a giudizio di costoro, allontana irrimediabilmente. Peccato, però, che chi non dubita e non si interroga non pensi; e questo sembrano volere alcuni: una fede estranea, quando non addirittura contraria, al pensiero Una fede che si traduca in obbedienza cieca e ottusa, in pedissequa ripetizione di quanto non deve in alcun modo essere messo in discussione.
Ipazia non volle ripetere: osò la novità, come l’esito delle sue inesauste ricerche la spingeva a fare, irrimediabilmente e liberamente. Intuì, a quanto sembra, quello che la scienza arrivò a scoprire soltanto mille e duecento anni dopo, con gli studi di Keplero: che fosse la terra a girare intorno al sole e non viceversa, come invece tutta l’astronomia del tempo sosteneva, ritenendola un’acquisizione incontrovertibile. Eppure Ipazia ebbe il coraggio di sfidare quell’evidenza che tanti, accontentandosi, adducevano come prova inconfutabile a sostegno di convinzioni radicatesi nelle menti e nei cuori a suon di ripetizioni e di tesi inculcate.
Per fedeltà all’inviolabilità del libero pensiero fondato sulla ricerca, Ipazia morì, vittima di un fanatismo che propose, come ricetta utile soltanto alla schiavitù delle coscienze, la comodità dell’abitudine, che mette al riparo dalla fatica della riflessione. Per questo non dobbiamo dimenticare: e ti portiamo viva nei cuori, Ipazia, maestra di libertà, prezioso antidoto contro il fanatismo che, ancora, percorre la terra e gli uomini, alimentando quell’ignoranza che tu hai combattuto, consapevole del fatto che essa genera soltanto ottusità e violenza.
A Margherita Hack, maestra di indomita libertà
Alessandro Esposito - pastore valdese
(2 luglio 2013)
NOTE
[1] Rimarcano la responsabilità del vescovo Cirillo nell’omicidio di Ipazia Socrate Scolastico (Historia Ecclesiastica) e Damascio (Vita Isidori). Per un’accurata nota bibliografica rimando al bel volume curato da Silvia Ronchey: Ipazia. La vera storia, Milano, Rizzoli, 2010 ; nonché al volume curato da Adriano Petta e Antonino Colavito : Ipazia. Vita e sogni di una scienziata del IV secolo, La Lepre edizioni, Firenze, 2009 (prefazione a cura di Margherita Hack)
* Dal blog di Micromega
Soluzione monarchica o via comunitaria?
di Franco Cardini (il manifesto, 1 marzo 2013)
Fu il pescatore del lago di Tiberiade Simone detto Cefa, «la Pietra» - forse perché indole forte e ostinata, forse perché duro di comprendonio -, che Gesù pose secondo l’esegesi cattolica del Vangelo a capo della comunità dei suoi seguaci destinata a divenire la Chiesa universale. Un epiteto glorioso e difficile da portare: «Pietra scartata dai costruttori, ma divenuta pietra angolare», sostegno e fondamento di un edificio spirituale destinato a durare nei millenni, è nella tradizione ecclesiale il Cristo stesso.
E fu probabilmente non senza una qualche implicita polemica nei confronti della Pietra dei fedeli che il suo tardo condiscepolo e quindi fratello-rivale, il fariseo Saul di Efeso di professione tessitore di tende e fiero di essere - a differenza del pescatore galileo - cittadino romano, latinizzò il suo nome ebraico scegliendone uno romano che foneticamente gli somigliava, Paulus, che etimologicamente significa «il Piccolo», «colui che vale poco».
Con una certa ostentata umiltà, l’efesino sottolineava così il suo gracile aspetto fisico e alludeva a una sua scarsa portata spirituale e culturale in cui era in realtà il primo a non credere. Prima della conversione (la celebre caduta «sulla via di Damasco») il rabbino Saul, allievo del grande Gamaliele, aveva a lungo perseguitato quei blasfemi eretici suoi correligionari i quali sostenevano che Gesù di Nazareth fosse l’atteso Messia: e sembra si debba a lui l’iniziativa di far uccidere a colpi di pietra uno di loro, il diacono Stefano, che la Chiesa venera come «Protomartire», primo dei martiri.
Pietro e Paolo, dioscuri cristiani, subirono entrambi il martirio in Roma durante la persecuzione neroniana: Pietro, custode della chiave d’oro che apre le porte del cielo e di quella d’argento che le chiude, morì su una croce che però, nel suo caso, i carnefici piantarono rovesciata; Paolo ebbe in quanto cittadino romano l’onore di passare sotto la scure del littore, anche se in seguito l’iconografia cristiana, poco familiare con gli usi giuridici romani, immaginò che lo strumento del suo martirio fosse una lunga spada, quella che di solito si usava nel medioevo per le decapitazioni. Ed entrambi vegliano, chiavi e spada rispettivamente alla mano, ai lati degli altari e degli stipiti dei portali di tanti chiese cattoliche.
A giudicare dagli Atti degli Apostoli, non è che si conoscessero, s’intendessero e si amassero granché: sembra che Pietro difendesse a lungo la tesi che la Rivelazione del Messia fosse destinata esclusivamente al popolo ebraico, secondo l’adempimento delle sue Scritture, e non riguardasse i goim, i «gentili» (cioè quelli che appartenevano alle gentes, i pagani), mentre da parte sua l’ebreo ma cittadino romano Paolo militasse convinto a favore della grandiosa visione profetica d’un credo universale in un Salvatore venuto per tutti i popoli.
Nonostante il permanere a lungo, in Palestina, di comunità esclusivamente «giudaico-cristiane», la visione ecumenica di Paolo prevalse: e fu lui «l’Apostolo delle Genti». Eppure, l’onore di divenire capo della comunità dei credenti romani (quindi primo «vescovo di Roma») non spettò al colto tessitore di Efeso che parlava e probabilmente scriveva correntemente greco - nonché, con buone probabilità, un po’ anche latino -, bensì al meno raffinato pescatore nativo del villaggio di Cafarnao sulla sponda occidentale del «mare di Galilea», dove ancora si mostrano i resti archeologici della sua modesta dimora a lungo e con amore studiati da un archeologo italiano, il francescano Virginio Corbo che colà è sepolto. A pochi metri dalla casupola di Pietro e dalla tomba di padre Corbo si erge, mirabilmente restaurata, una sinagoga ebraica in stile romano-ellenistico del I-II secolo d.C., un’autentica indimenticabile meraviglia archeologica.
La storia iniziata allora, oltre duemila anni or sono, tra lago di Tiberiade, Gerusalemme, Efeso e Roma, potrebbe secondo alcuni concludersi tra non troppi anni.
Secondo la corrente e tutt’altro che sicura interpretazione di un oscuro inquietante testo profetico redatto a quel che sembra nel XII secolo dal vescovo irlandese Malachia, vicino all’ordine cisterciense e amico di Bernardo di Clairvaux, Benedetto XVI sarebbe il penultimo dei «papi», termine corrente di origine siriaca con il quale almeno dal IV secolo si indicano abitualmente i vescovi di Roma; dopo di lui ve ne sarebbe ancora un altro, destinato a scomparire in una feroce persecuzione che segnerebbe la fine della Chiesa e del mondo.
La «profezia di Malachia» (in realtà forse un falso del Cinquecento) mette in fila non dei nomi, ma una serie di motti latini, ciascuno designante un papa futuro: a colui che gli esegeti ritengono Benedetto XVI spetta l’epiteto di De gloria olivae; colui che uscirà dal prossimo conclave, e che secondo il controverso testo poetico sarebbe l’ultimo, vi è designato come Petrus Romanus. Naturalmente, gli esegeti alla Dan Brown si sono scatenati e sono da tempo in frenetica attività: è ovvio che, essendo l’olivo il simbolo della pace, esso si addica a papa Ratzinger che avrebbe rinunziato al soglio pontificio nell’interesse della pacificazione all’interno della Chiesa; quanto a Petrus Romanus, si sta cercando nel collegio cardinalizio qualcuno che potrebbe portare tale epiteto e qualcuno fa notare che il cardinal Tarcisio Bertone si chiama Pietro come secondo nome di battesimo ed è nativo del paese di Romano in Piemonte. Se non è vera, è ben pensata.
Fin qui storia, esegesi, fantastoria e profezia. Ma quali scenari concreti si aprono adesso sul futuro della comunità cattolica?
Non c’è dubbio che la rinunzia di Benedetto XVI sia un segno di crisi e di sofferenza: non tanto e non solo di un singolo personaggio anziano, desideroso di riposo e di solitudine, che ha per questo deciso - e senza dubbio dopo un periodo forse lungo di tormentata meditazione - di compiere un gesto che nella Chiesa di Roma resta unico (gli spesso citati paragoni con Celestino V e con Gregorio XII non reggono). Il punto centrale da comprendere correttamente sarebbe se e fino a che punto Joseph Ratzinger si sia ritirato in quanto convinto che siano davvero soltanto le sue personali forze fisiche, psichiche e spirituali inferiori alle necessità attuali di un’istituzione profondamente scossa da gravi eventi (la questione dello Ior, i Vatileaks, i problemi connessi con i diffusi episodi di pedofilia, le polemiche sul ruolo del concilio vaticano II che lo vide giovane ma autorevole teologo e che più di recente lo ha visto critico piuttosto severo) e minacciata da ancor più gravi questioni strutturali, come la crisi delle vocazioni sacerdotali, la discordia e l’indisciplina di molti prelati, l’urgere di temi che dal celibato dei preti e dal sacerdozio femminile arrivano fino all’eutanasia e alla bioetica, il distacco dal cattolicesimo di milioni di fedeli che ad esempio in America latina stanno ormai passando in massa alle Chiese e alle sètte protestanti sostenute da forti rimesse in danaro e da un formidabile apparato propagandistico d’origine statunitense.
È così, siamo dinanzi a un’umanamente comprensibilissima ammissione di stanchezza, d’inadeguatezza, magari perfino di sfiducia? Se così fosse, inutili e ingenerose sarebbero le critiche, inopportuni polemiche e schiamazzi. Non resterebbe che rispettare la volontà di questo anziano e schivo studioso che così potentemente ha contribuito alla vita e al governo della Chiesa almeno per un buon mezzo secolo e che ora, dopo otto anni di pontificato intenso e difficile, chiede di restar solo al cospetto del suo Dio: quel Signore che - sono accorate parole della sua ultima pubblica allocuzione - negli ultimi tempi troppo a lungo «è sembrato tacere». Il «silenzio di Dio» è l’estremo, insondabile problema di tanti teologi, di tanti mistici, di tanti credenti.
Ma forse c’è di più. Se davvero il papa si è ritirato costatando quanto sia ardua la gestione autocratica di un organismo gerarchicamente ordinato, il vertice che è oggi profondamente diviso al suo interno, e si sente inoltre drammaticamente lontano dinanzi a una base disorientata, a sua volta discorde e indecisa tra desiderio di nuova coesione, insofferenza della disciplina gerarchica, insoddisfazione per la lontananza tra fede, pratica ecclesiale, bisogni e desideri concreti dei fedeli - specie degli «Ultimi» - e apostasia (sono i problemi tante volte agitati da Andrea Gallo, la sensibilità del quale è condivisa da un numero crescente di sacerdoti e di laici), allora riemerge potente la questione già affrontata nel XV secolo e quindi esorcizzata con la Controriforma e messa a tacere dal concilio di Trento.
Può la Chiesa procedere sulla via della soluzione «monarchica» pontificia, o è più consigliabile riprendere il cammino dei primi tempi della sua storia, quello poi di nuovo scelto nelle comunità ecclesiali ortodosse e orientali e ripreso poi, in circostanze differenti, sia dalla Chiesa anglicana a partire dal Cinquecento, sia da quella episcopale statunitense dalla fine del Settecento? Il cammino cioè della gestione comunitaria attraverso un supremo organo collegiale di tutti i vescovi, il concilio?
Era la situazione viva nei concili del IV secolo, gestiti - è vero - sotto la suprema autorità imperiale, e di nuovo prospettata già fino dal 1414-17 nel concilio di Costanza. Quella situazione messa da parte e considerata inadeguata e desueta dal Quattro-Cinquecento in poi, può adesso venir considerata idonea a gestire la nuova fase della vita della Chiesa cattolica nel mondo del III millennio, caratterizzato da quella che Zygmunt Bauman definisce «la Modernità liquida» e che assisterà forse all’eclisse delle fedi religiose, ma forse al contrario a un loro rinnovarsi su basi adatte ad affrontare i problemi odierni?
È questa la domanda ch’è lecito porsi: in attesa che dal prossimo conclave, tra non molti giorni, esca un papa - forse non europeo, magari perfino di pelle non proprio chiara - in grado di superare con energia la crisi attuale o provvisto del mandato affidatogli dai confratelli di convocare, mezzo secolo dopo il vaticano II, un nuovo concilio di rifondazione ecclesiastica.
Tutto il potere nelle mani di un pescatore
di Vito Mancuso (la Repubblica, 6 febbraio 2013)
Un paradosso incombe su Pietro, sia come personaggio storico sia come figura teologica. A livello storico il paradosso riguarda il fatto che egli è passato alla storia non con il suo nome effettivo (l’ebraico Shimeon, grecizzato nei Vangeli in Simone) ma con il soprannome datogli da Gesù che lo chiamava “roccia”, forse anche un po’ nel senso ironico di “testa dura” come si può dedurre da alcuni episodi evangelici. Ma Gesù parlava aramaico, quindi lo chiamava Kefa, così che è stato solo il greco degli evangelisti a fare di lui “Pietro”.
Abbiamo quindi che un uomo che si chiamava Shimeon è passato alla storia con la versione greca del suo soprannome aramaico. Quanto al personaggio effettivo, sappiamo dai Vangeli che era sposato (Gesù ne guarì la suocera), faceva il pescatore, rivestiva un ruolo speciale tra i discepoli, fu uno dei testimoni della risurrezione.
Dai testi emerge un carattere composito: focoso, perché aggredì con la spada un servo del sommo sacerdote tagliandogli l’orecchio; pavido, perché negò tre volte di conoscere Gesù; sincero, perché subito si vergognò di sé piangendo amaramente. Nell’insieme un emotivo, sanguigno, poco incline alle sfumature.
Dal libro degli Atti apprendiamo che aveva un ruolo di guida nella prima comunità e che non esercitava tale funzione con potere assoluto, perché altrimenti non si capirebbe il concilio tenutosi a Gerusalemme verso il 50 e l’aperta opposizione di Paolo verso di lui ad Antiochia.
Il Nuovo Testamento non fa menzione del suo viaggio a Roma, ma la tradizione parla del suo martirio sotto Nerone verso il 64 sul colle Vaticano, una testimonianza resa ancora più sicura dal fatto che nessun’altra chiesa ha mai rivendicato per sé di essere la sede del martirio di Pietro. Vi sono fondamenti storici per ritenere che la tomba nell’attuale basilica di San Pietro sia autentica, mentre molto meno certe sono le vicende legate al suo soggiorno romano, compresa la scena del Quo vadis? e la crocifissione a testa in giù.
Il paradosso di Pietro in quanto figura teologica consiste nel fatto che egli venne prescelto da Gesù quale fondamento su cui costruire la Chiesa (Matteo16,18: «Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa»), e però lungo la storia le più acute divisioni della Chiesa si ebbero proprio in ordine a Pietro e al suo potere.
Si pensi anzitutto a quelle avvenute nella Chiesa cattolica, per secoli spesso divisa tra papi e antipapi, fino a giungere al cosiddetto scisma di occidente (1378 1417) con ben tre papi regnanti contemporaneamente. Gli antipapi sono stati una quarantina, il primo dei quali, per accrescere il paradosso, è stato anche dichiarato santo (Sant’Ippolito).
Ma le divisioni più dolorose, perché tuttora persistenti, sono quelle che portarono alla lacerazione della cristianità: nel 1054 tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa, nel 1517 tra Chiesa cattolica e Chiese protestanti.
Ebbene, se si va a vedere il motivo principale di queste divisioni, si scopre che esso consiste nell’esercizio del potere papale, e il risultato non cambia se si va a vedere che cosa impedisce oggi la riunificazione delle Chiese, soprattutto tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa. Quindi quel Pietro che secondo Gesù doveva tenere unita la sua Chiesa, in realtà spesso l’ha divisa e la divide.
Una cosa infatti deve essere chiara: fino a quando il papa successore di Pietro godrà del potere assoluto di cui gode oggi, non vi sarà nessuna possibilità di riunificazione dei cristiani. Ha scritto il gesuita americano John McKenzie, celebre biblista: «Lo sviluppo del potere posseduto dalla Chiesa e da Pietro in una forma di tipo monarchico è estranea alla teologia biblica». Il futuro della cristianità dipenderà da quanto Pietro vorrà tornare a essere fedele a Kefa.
Del "Deus charitas est" (1 Gv., 4.8) o del "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)?!: "Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio, e di quale Dio parlano quando parlano di Dio? La domanda è cruciale. Infatti non è per niente chiaro, non è sempre lo stesso, e sovente non è un Dio innocuo" (Raniero La Valle, "Se questo è un Dio", pag. 9)
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
MESSAGGIO PER LA QUARESIMA
Credere nella carità suscita carità
di Benedetto XVI (Avvenire, 1 febbraio 2013)
Cari fratelli e sorelle,la celebrazione della Quaresima, nel contesto dell’Anno della fede, ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri.
1. La fede come risposta all’amore di Dio.
Già nella mia prima Enciclica ho offerto qualche elemento per cogliere lo stretto legame tra queste due virtù teologali, la fede e la carità. Partendo dalla fondamentale affermazione dell’apostolo Giovanni: «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16), ricordavo che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva... Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un ”comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est, 1). La fede costituisce quella personale adesione - che include tutte le nostre facoltà - alla rivelazione dell’amore gratuito e «appassionato» che Dio ha per noi e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo.
L’incontro con Dio Amore che chiama in causa non solo il cuore, ma anche l’intelletto: «Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l’amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai “concluso” e completato» (ibid., 17). Da qui deriva per tutti i cristiani e, in particolare, per gli «operatori della carità», la necessità della fede, di quell’«incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore» (ibid., 31a). Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore - «caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14) -, è aperto in modo profondo e concreto all’amore per il prossimo (cfr ibid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.
«La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! ... La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce - in fondo l’unica - che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (ibid., 39). Tutto ciò ci fa capire come il principale atteggiamento distintivo dei cristiani sia proprio «l’amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (ibid., 7).
2. La carità come vita nella fede
Tutta la vita cristiana è un rispondere all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20). Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12).
La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfr Mt 25,14-30).
3. L’indissolubile intreccio tra fede e carità
Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non possiamo mai separare o, addirittura, opporre fede e carità. Queste due virtù teologali sono intimamente unite ed è fuorviante vedere tra di esse un contrasto o una «dialettica». Da un lato, infatti, è limitante l’atteggiamento di chi mette in modo così forte l’accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo. Dall’altro, però, è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede. Per una sana vita spirituale è necessario rifuggire sia dal fideismo che dall’attivismo moralista.
L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio. Nella Sacra Scrittura vediamo come lo zelo degli Apostoli per l’annuncio del Vangelo che suscita la fede è strettamente legato alla premura caritatevole riguardo al servizio verso i poveri (cfr At 6,1-4). Nella Chiesa, contemplazione e azione, simboleggiate in certo qual modo dalle figure evangeliche delle sorelle Maria e Marta, devono coesistere e integrarsi (cfr Lc 10,38-42). La priorità spetta sempre al rapporto con Dio e la vera condivisione evangelica deve radicarsi nella fede (cfr Catechesi all’Udienza generale del 25 aprile 2012). Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine «carità» alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario.
E’ importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, è l’annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8).
In sostanza, tutto parte dall’Amore e tende all’Amore. L’amore gratuito di Dio ci è reso noto mediante l’annuncio del Vangelo. Se lo accogliamo con fede, riceviamo quel primo ed indispensabile contatto col divino capace di farci «innamorare dell’Amore», per poi dimorare e crescere in questo Amore e comunicarlo con gioia agli altri. A proposito del rapporto tra fede e opere di carità, un’espressione della Lettera di san Paolo agli Efesini riassume forse nel modo migliore la loro correlazione: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (2, 8-10).
Si percepisce qui che tutta l’iniziativa salvifica viene da Dio, dalla sua Grazia, dal suo perdono accolto nella fede; ma questa iniziativa, lungi dal limitare la nostra libertà e la nostra responsabilità, piuttosto le rende autentiche e le orienta verso le opere della carità. Queste non sono frutto principalmente dello sforzo umano, da cui trarre vanto, ma nascono dalla stessa fede, sgorgano dalla Grazia che Dio offre in abbondanza. Una fede senza opere è come un albero senza frutti: queste due virtù si implicano reciprocamente.
La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina.
4. Priorità della fede, primato della carità
Come ogni dono di Dio, fede e carità riconducono all’azione dell’unico e medesimo Spirito Santo (cfr 1 Cor 13), quello Spirito che in noi grida «Abbà! Padre» (Gal 4,6), e che ci fa dire: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3) e «Maranatha!» (1 Cor 16,22; Ap 22,20).
La fede, dono e risposta, ci fa conoscere la verità di Cristo come Amore incarnato e crocifisso, piena e perfetta adesione alla volontà del Padre e infinita misericordia divina verso il prossimo; la fede radica nel cuore e nella mente la ferma convinzione che proprio questo Amore è l’unica realtà vittoriosa sul male e sulla morte. La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza, nell’attesa fiduciosa che la vittoria dell’amore di Cristo giunga alla sua pienezza. Da parte sua, la carità ci fa entrare nell’amore di Dio manifestato in Cristo, ci fa aderire in modo personale ed esistenziale al donarsi totale e senza riserve di Gesù al Padre e ai fratelli. Infondendo in noi la carità, lo Spirito Santo ci rende partecipi della dedizione propria di Gesù: filiale verso Dio e fraterna verso ogni uomo (cfr Rm 5,5).
Il rapporto che esiste tra queste due virtù è analogo a quello tra due Sacramenti fondamentali della Chiesa: il Battesimo e l’Eucaristia. Il Battesimo (sacramentum fidei) precede l’Eucaristia (sacramentum caritatis), ma è orientato ad essa, che costituisce la pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa. Tutto parte dall’umile accoglienza della fede («il sapersi amati da Dio»), ma deve giungere alla verità della carità («il saper amare Dio e il prossimo»), che rimane per sempre, come compimento di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13).
Carissimi fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima, in cui ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella che incontriamo nella nostra vita. Per questo elevo la mia preghiera a Dio, mentre invoco su ciascuno e su ogni comunità la Benedizione del Signore!
La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio
di Giordano Frosini
in “Settimana” n. 5 del 6 febbraio 2013
Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante per due avvenimenti che hanno avuto un influsso notevole e prolungato nella vita della Chiesa sia italiana che universale.
Nel mese di settembre si tenne il secondo convegno delle chiese italiane a Loreto e, solo pochi giorni più tardi, dal 24 novembre all’8 dicembre, si celebrò a Roma il sinodo straordinario a vent’anni dalla fine del concilio Vaticano II. Se si vuole riflettere in profondità oggi, a cinquant’anni dall’inizio dello stesso concilio, sulla storia della ricezione della grande assise ecumenica, non è possibile prescindere né dall’uno né dall’altro avvenimento, almeno in lontananza uniti insieme dallo stesso spirito e da una comune ispirazione.
Del convegno di Loreto si è parlato a sufficienza nel passato, soprattutto per mettere in risalto il cambio di marcia della Chiesa italiana, che conserva ancora, a distanza di quasi quarant’anni, conseguenze ben visibili, tutt’altro che positive, a giudizio di chi scrive. Vogliamo ora mettere in luce quanto avvenne nel sinodo straordinario che, per il suo influsso, va naturalmente ben al di là dei confini e dei problemi della Chiesa italiana e ha suscitato una discussione sulla quale è opportuno ritornare.
Le tre fasi post-conciliari
Normalmente, nella divisione della ricezione post-conciliare in tre tempi, il sinodo viene considerato come la fine del primo periodo e l’inizio del secondo. Il terzo si fa poi cominciare col giubileo del 2000 e si estende fino ai nostri giorni. Di esso si è parlato soprattutto, ma non soltanto, per la vicenda riguardante il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”. Da allora (si veda, per esempio, l’esortazione post-sinodale Christifideles laici), per esprimere l’ecclesiologia del Vaticano II, si parlerà comunemente di Chiesa-mistero, di Chiesa-comunione e di Chiesa-missione: la Chiesa-popolo di Dio praticamente sparisce dal vocabolario usuale anche dei teologi.
Eppure il termine appare addirittura nello stesso titolo del capitolo secondo della costituzione Lumen gentium, in seguito a una scelta ben ponderata dagli attenti padri conciliari, in diretto collegamento col capitolo primo dedicato al mistero della Chiesa. Come dire: il mistero, che nasconde in sé l’intima natura della Chiesa, si realizza concretamente in un popolo, con tutte le caratteristiche che il termine si porta con sé. La scelta proveniva da un uso molto lontano e frequentissimo sia del Primo che del Secondo Testamento, oltre che della liturgia. Un conteggio preciso, compresi connessi e derivati, sarebbe praticamente impossibile. Il sinodo straordinario terminò con una relazione che sostituiva l’ormai consueta esortazione post-sinodale del pontefice, e un messaggio - si direbbe: ironia della sorte - «al popolo di Dio».
Il teologo Walter Kasper, chiamato per l’occasione a fare da segretario, rilasciò quasi immediatamente i suoi ricordi e il suo commento in una piccola pubblicazione, che ci può aiutare molto a ricomporre il dibattito, svoltosi purtroppo in un tempo abbastanza ristretto: Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985 (Queriniana, Brescia 1986).
Suscita un po’ di meraviglia il fatto che la critica e la sostituzione del concetto di popolo siano state fatte proprie e approvate anche da lui, che pure ha dimostrato più tardi di essere capace di grande originalità e di altrettanto coraggio.
La cosa fu mal digerita in un primo tempo, poi però la contestazione lentamente si organizzò dando vita, specialmente nel Sudamerica, ad una reazione di cui dobbiamo prendere pienamente atto.
Questa sostituzione non è per caso un atto indebito su un testo conciliare, nato non proprio immotivatamente e senza adeguata preparazione da parte della grande assemblea?
Per la verità, la lettura del documento finale destava già in principio una certa sorpresa, perché si affermava che «il fine per cui è stato convocato questo sinodo è stato la celebrazione, la verifica e la promozione del concilio Vaticano II», con una precisazione ulteriore: «Unanimemente e con gioia abbiamo verificato anche che il concilio è una legittima e valida espressione e interpretazione del deposito della fede, come si trova nella sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa» (n. 2). Un sinodo può parlare così di un concilio ecumenico, la massima espressione del magistero della Chiesa? Con questo stesso spirito, chiaramente sopra le righe, si sostituisce una delle espressioni centrali del documento conciliare: quella di “popolo di Dio”.
Lo riconosce W. Kasper nel testo prima citato, quando afferma che la relazione introduttiva «denuncia certi arbitri e soggettivismi nel modo di organizzare la liturgia e un modo d’intendere troppo esteriore la partecipazione attiva in campo liturgico, nel senso cioè di una mera cooperazione esterna, invece di un coinvolgimento nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Constata poi anche un distacco dall’interpretazione scritturistica della tradizione viva e del magistero della Chiesa, anzi una notevole incomprensione della verità oggettivamente data, soprattutto nella sfera della dottrina morale, e anche un certo “cristianesimo di selezione”. Il cuore della crisi è stato individuato nel modo d’intendere la Chiesa.
La qualifica della Chiesa come “popolo di Dio” spesso è stata mal interpretata: la si è isolata dal contesto storico-salvifico della Scrittura e spiegata a partire dal senso naturale, o politico di “popolo di Dio”. Talvolta anche il dibattito sulla democratizzazione della Chiesa ha subito l’ipoteca di tale malinteso». Così, la relazione finale poteva affermare: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio». Una frase certamente accettabile, ma in altro contesto, quello direttamente inteso dai padri conciliari. Era proprio necessario, per evitare i malintesi e le erronee interpretazioni del post-concilio, mettere in disparte il concetto di popolo? Non si potevano evitare gli inconvenienti denunciati purificando l’acqua sporca senza buttare via insieme anche il bambino? La questione è così posta nel suo significato fondamentale e il dibattito che ne seguì di conseguenza, all’interno e all’esterno del sinodo, è colto alla sua radice.
La rivolta dei teologi
I teologi che non vorranno accettare il cambiamento sinodale avranno buon gioco a mostrare i danni che da questo possono derivare e di fatto, almeno alcuni tutt’altro che secondari, sono derivati nella concezione e nella vita della Chiesa. Una constatazione che rende ancora più discutibile, in certo modo anche più grave, l’operazione condotta dai padri sinodali, già in questione per avere indebitamente corretto in un punto importante il pensiero del concilio sottoposto alla loro analisi. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito teorico e pratico, per il quale è necessario non rassegnarsi. I vantaggi derivanti dalla dottrina conciliare erano stati ben individuati anche dai primi commentatori della costituzione Lumen gentium, come G. Philips, O. Semmelroth, Y. Congar.
Sostanzialmente tutto nasce dalla considerazione della Chiesa come soggetto storico, «l’ultima fase definitiva dell’alleanza bilaterale, che Dio ha stretto col popolo da lui salvato», la comunità escatologica che «peregrina nella storia come un giorno il popolo eletto peregrinò nel deserto avviandosi verso la terra promessa», l’incarnazione storica del mistero provvidenzialmente messo al centro della stesura del primo capitolo.
Aspetti certamente non del tutto ignoti anche prima della celebrazione del concilio. «Questa presentazione teologica - aggiungeva Semmelroth - non vuole affatto sostituire la dottrina della Chiesa quale corpo mistico del Signore con quella di popolo di Dio. Intende piuttosto integrarla, perché l’essenza della Chiesa è così complessa da non poter essere esaurita né da una definizione logica né da un’unica immagine».
Anzi, la priorità del concetto di popolo rispetto all’immagine del corpo sottolinea ancora meglio uno dei motivi principali, se non il principale, della scelta dei padri conciliari, che è quello dell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale fra tutti i membri della Chiesa, il motivo che aveva già consigliato lo spostamento del capitolo dedicato alla gerarchia dal secondo al terzo posto.
Anche nella triade privilegiata fra le diverse immagini della Chiesa (popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo), precede il concetto di popolo, non soltanto per un motivo di carattere trinitario, ma anche perché il corpo mette in luce la diversità delle membra, della quale si parla soltanto dopo aver assicurato la sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati: la diversità dei carismi e dei ministeri non deve ostacolare quel concetto che il n. 32 della Lumen gentium esprimerà con icastica solennità con le note parole: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». L’aggiunta dell’aggettivo, di per sé non necessario, dà all’espressione una forza e un rilievo singolari.
Certo, fra le caratteristiche del popolo di Dio non andrà mai dimenticata la comunione, che lega essenzialmente la Chiesa al suo fondatore e Signore e, di conseguenza e nella stessa maniera, tutti i membri componenti fra di loro.
Comunione però non è una sostanza, non indica un soggetto; in termini aristotelici, dovrebbe essere catalogata fra gli accidenti. Dunque, più un aggettivo che un sostantivo. Oltretutto, fra le caratteristiche del popolo tutto quanto sacerdotale, il testo conciliare enumera anche la potenziale capacità di raccogliere «tutti gli uomini» di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ogni uomo è ordinato al popolo di Dio e ogni nazione è parte potenziale del regno universale di Cristo. Anzi, di più, «questo carattere di universalità che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità dello Spirito di lui» (LG 13). Una potenzialità che incipientemente e misteriosamente prende forma e attualità già nei giorni della storia.
Sulla stessa linea Congar, per il quale il concetto di popolo di Dio mette «in risalto alcuni valori biblici fondamentali e l’orientamento globale verso il servizio missionario del mondo, cosa che risalta già dalle prime parole della costituzione dogmatica Lumen gentium: 1) una prospettiva di storia della salvezza, cioè una prospettiva escatologica; 2) l’idea di un popolo in cammino, in condizioni di itineranza; 3) l’affermazione di una relazione con tutta l’umanità, essa stessa in via di unificazione, e alla ricerca, tra mille difficoltà, di una maggiore giustizia e pace».
Può il concetto di comunione conservare e mettere in evidenza tutte le caratteristiche che il concetto di popolo si porta con sé? Esso possiede una vera ricchezza di significati difficilmente reperibili altrove ed esprimibili diversamente. Popolo come soggetto eminentemente attivo su tutto il fronte dell’attività della Chiesa: un popolo sacerdotale, quindi, profetico e regale. Un ottimo schema di lavoro, di riflessione teologica, di catechesi.
La critica più aspra e decisa, come abbiamo già detto, proviene dal Sudamerica. Ad essa ha dato voce sistematica il teologo belga-brasiliano Joseph Comblin in un libro tradotto anche in italiano, dal titolo originale O povo de Deus (Il popolo di Dio, Servitium/Città aperta, Troina - Enna - 2007), pubblicato nel 2002, «in previsione del nuovo pontificato», come afferma lo stesso autore nelle prime parole dell’introduzione.
«Le critiche al Vaticano II - afferma l’autore - condussero il sinodo del 1985 semplicemente a eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o no». Una categoria troppo sociologica? Ma «la sociologia praticamente non usa mai il concetto di popolo e teme di usarlo».
Perché allora questo timore? Naturalmente la critica di Comblin è condotta secondo gli schemi e il linguaggio della teologia della liberazione e raggiunge il suo vertice con l’affermazione che la scelta del termine comunione potrebbe facilmente far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo felicemente fuori dalla porta, imponendo in pratica la comunione come ubbidienza al volere e al pensiero della gerarchia, eliminando o rendendo comunque difficile il contributo da parte del rimanente popolo di Dio. Comunque «il tema della comunione non esclude il tema del popolo di Dio né deve prendergli il posto. Il concetto di comunione è molto più ristretto che il concetto di popolo. Il popolo è una forma di comunione, ma include molti più elementi che il concetto di comunione». Parole, queste ultime, sulle quali non è difficile trovarsi d’accordo.
Il pensiero di Pino Colombo
È questo il pensiero di non pochi altri teologi, fra cui merita di essere ricordato S. Dianich, che in vario modo e da diversi punti di vista hanno sottoposto a motivata critica il cambiamento del testo conciliare.
Ma vorremmo ricordare in particolare il teologo milanese recentemente scomparso Giuseppe Colombo, insospettato sulla base del suo pensiero teologico e meticoloso al massimo nel ricostruire e discutere le diverse concezioni prese in esame.
Ci riferiamo in questo momento soprattutto a un suo contributo pubblicato di recente negli studi in onore di S. Dianich (Ecclesiam intelligere, Dehoniane, Bologna 2012), da considerarsi l’ultimo suo intervento sul nostro problema, aggiornato anche ad una successiva presa di posizione del card. Kasper.
Ricostruita con precisione la vicenda in questione, dopo aver ricordato che «sulla sostituzione di “comunione” a “popolo di Dio”, la Relazione non dice una parola», rimane a noi il diritto di domandarci «perché il sinodo abbia ignorato completamente la nozione di “popolo di Dio”, liberandosi così del dovere di fornire una qualsiasi spiegazione». Anche se, come si afferma, la nozione in questione è stata corrotta, politicizzata, socializzata fino a perdere ogni riferimento alla Chiesa, «la domanda è se la reazione debba spingersi a espungere totalmente dai testi del magistero la nozione di “popolo di Dio”», finendo col porre in questo modo, oltre che un problema storico (perché abbandonare la scelta dei padri conciliari?), un problema teorico di notevole importanza.
Secondo il pensiero dell’autore, mentre «“popolo di Dio” indicherebbe la svolta dell’ecclesiologia del Vaticano II», il concetto di comunione è visto in funzione della collegialità, cioè del rapporto papa-vescovi. «Non è possibile vedere, “oltre” la collegialità e (estendendo la nozione) “oltre” la comunione, il “popolo di Dio” conservandolo nella sua nozione propria, invece di rifiutarlo come una nozione inaccettabile? Di fatto sembra che al sinodo esso sia stato considerato come un’alternativa.
È quindi da chiedersi se, rispetto al “popolo di Dio”, la nozione di “comunione” non stacchi la Chiesa dal mondo, ritraendola in se stessa, sui suoi problemi interni (collegialità, conferenze episcopali, problemi dei laici, vocazione universale alla santità). Nessuno può contestare l’importanza e l’urgenza di questi problemi, ma l’insistente ed esclusivo richiamo ad essi sembrano costituire una penalizzazione evidente rispetto all’apertura al mondo del “popolo di Dio”». Di nuovo, e per altro verso, un ritorno al passato, questa volta per motivi esterni piuttosto che interni, ma sempre fondamentali nella mente dei padri conciliari e nei documenti ai quali essi dettero vita.
Su questo sfondo - continua il teologo milanese - c’è anche da considerare che ai paesi del terzo mondo e dei cosiddetti paesi emergenti va riconosciuto il diritto di elaborare una teologia autoctona, senza imporre loro le linee della teologia occidentale. «In ogni caso, la Chiesa come “comunione” è l’ecclesiologia del sinodo straordinario 1985, non è l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che - salvo meliori iudicio - è quella del “popolo di Dio”». Per questo è meglio tenere distinti il concilio e il sinodo, anche dopo i più recenti tentativi di mantenerli uniti di Kasper e Pottmeyer.
Un necessario recupero
Dopo avere ascoltato le diverse opinioni, una scelta si impone anche per noi. Omnibus perpensis, sembra giusto rispettare la scelta conciliare, a cui i padri arrivarono dopo una riflessione serena e matura durante le sedute assembleari e in non pochi casi anche in precedenza. Essa fa corpo con la scelta fondamentale di evidenziare, prima delle specificazioni, l’elemento unificante di tutte le componenti della Chiesa. Non si perde niente di quanto porta con sé il concetto di comunione e l’incombente immagine di corpo mistico, ma non si può negare che l’intenzione del concilio sia quella di chiamare a raccolta l’intero popolo cristiano e di fare appello al suo comune senso di responsabilità. È bene che questa vocazione risuoni e risplenda chiaramente nel termine stesso scelto avvedutamente dal concilio.
A norma di logica ecclesiale, nessuno ha diritto di cambiare il pensiero e i termini destinati a veicolarlo di un concilio ecumenico, che rimane l’espressione massima dell’insegnamento della Chiesa. Se il concetto di popolo è stato deteriorato da immissioni d’altro genere, si può sempre ricorrere a una sua purificazione, senza metterlo totalmente o quasi in disparte. C’è piuttosto da pensare, in questa fase di stanca della ricezione conciliare, a un suo richiamo perentorio perché la comunità cristiana partecipi attivamente e responsabilmente ai compiti che un concilio coraggioso e innovatore ha ad essa consegnato.
Sul primato di Pietro
intervista a Fulvio Ferrario,
a cura di Paola Cavallari e Lucia Scrivanti
in “Esodo” n° 4, dell’ottobre-dicembre 2010
La prima questione che ti poniamo è un commento al passo di Matteo 16,18 ("E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa") - un commento da te, pastore valdese e affermato professore di teologia.
La teologia protestante e quella cattolica hanno da tempo acquisito che la figura di Pietro, già prima, e sicuramente dopo la morte di Gesù, ha svolto un ruolo preminente all’interno del gruppo più stretto intorno al Signore. Prima della Pasqua, troviamo nella tradizione sinottica il fatto che Pietro è il portavoce del gruppo dei dodici, e che comunque svolge un ruolo di preminenza. Dopo la Pasqua, Pietro è il primo nelle liste delle apparizioni, e tutto lascia pensare che l’iniziativa di ricostituire il gruppo dei discepoli dopo la morte di Gesù risalga a Pietro.
Un consenso trasversale tra protestanti e cattolici? Non sussistono problemi di interpretazione?
Sì. Questo consenso non conosce al suo interno delle differenziazioni confessionali, perché da tempo l’esegesi a livello scientifico si è emancipata dalle ipoteche confessionali. Ma qui finisce il piano della constatazione storica.
I problemi dei protestanti non sono con Pietro, sono con il pontefice romano Benedetto XVI. Cominciano con l’idea di successione. La domanda è se la figura di Pietro come tale, e il ruolo che Pietro ha avuto possano ammettere l’idea di una successione; se il ruolo di Pietro non si sia esaurito con Pietro.
Il passo che lega a Pietro l’idea della custodia di una tradizione relativa a Gesù: "Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa", certamente, dal punto di vista di chi l’ha scritto, non prevede che altre persone esercitino lo stesso ruolo dopo Pietro. Quello che si vuol dire, invece, è che la tradizione su Gesù è legata al nome di questo testimone.
Prova ne sia che il passo di Matteo è riferito al vescovo di Roma solo a partire dal III secolo. Per 250 anni a nessuno è venuto in mente di legare il passo di Matteo su Pietro alla figura del vescovo di Roma. In una prima fase, a Roma non c’è stato un monoepiscopato; nel I secolo a Roma la chiesa era una rete di gruppi governata da un collegio di presbiteri. Il monoepiscopato, l’idea cioè di un vescovo unico in una chiesa locale, si stabilisce a Roma relativamente tardi.
Poi, dopo la morte di Ignazio di Antiochia - che è colui che dall’oriente importa in occidente l’idea dell’episcopato unico - a Roma vediamo apparire il vescovo.
Passano ancora cent’anni circa e, a questo punto, la sede romana rivendica una sorta di primato tra le chiese. È questa la fase in cui si passa dal greco al latino, come lingua ufficiale della chiesa, ed è anche la fase in cui il vescovo di Roma si comprende come successore di Pietro. Egli inizia a citare il passo petrino come testimonianza di una particolare autorità del vescovo di Roma.
La chiesa di Roma, prima d’allora, era comunemente definita la chiesa di Pietro e di Paolo, con riferimento al fatto che entrambi erano morti martiri a Roma. Nel III secolo essa inizia a essere chiamata la chiesa di Pietro - non più di Pietro e Paolo. Si osserva un’esigenza di legare un mito di fondazione alla funzione di accentramento della figura dirigente. Questo è il quadro.
Il testo di Matteo non ha nulla a che vedere con la questione confessionale relativa al papato come funzione primaziale del vescovo di Roma. Stupisce che - dopo tutto quello che l’esegesi ci ha spiegato - in alcuni testi ancora oggi - penso, ad esempio, all’enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II - la rivendicazione del primato del vescovo di Roma venga motivata con riferimento al passo petrino.
Se capiamo bene, allora, l’esegesi scientifica, sia cattolica, sia protestante, attesta che, dopo la morte di Pietro come guida nel primo periodo - guida motivata dalle stesse parole di Gesù - ci sia stata una sorta di eclisse del modello monocratico, che riemergerà dopo secoli nel monoepiscopato...
È tutto diverso. L’evangelo di Matteo fa un discorso sulla persona di Pietro. La persona di Pietro muore a Roma verosimilmente sotto Nerone. Il Nuovo Testamento non è in alcun modo nemmeno sfiorato dall’idea che esista qualcosa come una successione a Pietro in una funzione. Questo può essere letto solo in lavori che non hanno un carattere scientifico. Negli altri, invece, si sostiene che il Nuovo Testamento non ha alcuna idea di una successione alla figura di Pietro. O, più spesso, non si affronta nemmeno il tema.
A Roma non c’era un vescovo - una persona singola - ma un collegio. L’idea che una successione a Pietro godrebbe delle prerogative e delle promesse associate al passo matteano di Gesù è, lo ripeto, del III secolo. Cioè nasce ed è documentata per la prima volta in una fase tardiva, nella quale la chiesa di Roma rivendica un primato rispetto alle altre chiese.
Quale sarebbe stata allora l’esigenza per cui Gesù avrebbe pronunciato la famosa frase del passo matteano, creando così il "primato" di Pietro?
Non possiamo più risalire all’intenzione del Gesù della storia. Quello che possiamo dire è che Matteo, nel momento in cui scrive il vangelo, cioè più o meno 50 anni dopo la morte di Gesù, intende affermare che le tradizioni relative a Gesù che si richiamano a Pietro - cioè che sarebbero state tramandate da Pietro e dai suoi seguaci - dispongono di una particolare autorevolezza. È verosimile, in base a criteri di critica storica, che Pietro abbia svolto una funzione particolare nel gruppo di persone più vicine a Gesù.
Ci può essere qualche legame con il conflitto Pietro/Paolo nel cosiddetto concilio di Gerusalemme?
La questione non era tanto tra Pietro e Paolo, i quali si sono scontrati in un’altra disputa ad Antiochia, relativa alla partecipazione dei non cristiani di origine ebraica alla cena. Il conflitto era tra Paolo e i giudei cristiani, cioè tra Paolo e i cristiani di origine ebraica/palestinese di Gerusalemme. Paolo era uno dei cristiani ebrei di lingua greca: si trattava dei cosiddetti ellenisti, come li chiama il libro degli Atti. I cristiani palestinesi (di lingua greca) erano i "progressisti", per così dire, invece i cristiani di lingua aramaica erano il partito conservatore; essi pensavano che, siccome Gesù era nato ebreo ed era ebreo, per diventare cristiani occorresse diventare ebrei, cioè farsi circoncidere; Paolo li chiama anche giudaizzanti. Questo era lo scontro.
Paolo si reca a Gerusalemme, Pietro assume, per quel che noi ne possiamo sapere soprattutto da quanto possiamo dedurre dalle epistole di Paolo - infatti il libro degli Atti è assai successivo alla fonte -, il ruolo di mediazione tra il partito giudeo palestinese duro, che viene identificato sempre col nome di Giacomo - Paolo lo chiama il fratello del Signore - e Paolo stesso.
In mezzo c’è Pietro, che in qualche modo cerca di mediare. Ma il ruolo primaziale nella comunità di Gerusalemme, se mai ce n’è stato uno, non era di Pietro ma di Giacomo, per quel che noi possiamo capire in base alla testimonianza di Paolo.
Tutta la discussione relativa al primato di Pietro non si situa nel contesto di Gerusalemme, ma già dopo il trasferimento di Pietro a Roma. La questione Pietro/Paolo non è la più lacerante. Appare invece evidente una dicotomia Paolo/Giacomo. Ad un certo punto, Pietro si schiera, in una discussione ad Antiochia - sempre secondo Paolo - troppo dalla parte di quelli di Giacomo, e questo crea uno scontro tra i due.
Ma allora sorge una domanda: non avrebbe dovuto essere Pietro questo “capo” della comunità, secondo quanto abbiamo detto prima?
Non è questo il punto, perché la tradizione che pone in luce Matteo si sviluppa altrove. Non bisogna pensare a Gerusalemme come ad un centro da cui tutto si dipana. Il conflitto tra Giacomo e Paolo si verifica prima che venga scritto l’Evangelo di Matteo. Non solo, ma l’Evangelo di Matteo non si sa dove sia stato scritto, pensiamo alla Siria; quindi da un’altra parte.
La tradizione relativa al primato di Pietro - tradizione che si consolida nell’Evangelo di Matteo, e il riferimento c’è solo in Matteo - non gioca alcun ruolo nella disputa tra Paolo e Giacomo. Paolo non ne sa nulla. Non c’è nessun passo nelle lettere di Paolo, da cui noi apprendiamo che Pietro sia stato investito di una particolare responsabilità da parte di Gesù.
C’è un errore di prospettiva nella domanda, che deriva da questo presupposto: all’origine c’è il passo petrino, che è precedente a tutto, poi viene il resto...
In un certo senso ci troveremmo di fronte ad un presupposto vero perché, se l’avesse detto Gesù - ma non possiamo ricostruire se storicamente sia così - l’avrebbe detto prima. Però quello che noi conosciamo è una tradizione filtrata dalla teologia di Matteo. E il Vangelo di Matteo è stato scritto ben dopo le dispute tra Paolo e Giacomo. Ben dopo l’invio o l’andata di Pietro a Roma, ben dopo la morte di Pietro.
Ora vorremo sapere un tuo parere sul dogma dell’infallibilità papale.
Il dogma dell’infallibilità papale viene definito nel 1870, in un momento in cui Roma sta per essere attaccata dall’esercito italiano. Il Concilio Vaticano I° viene interrotto a motivo della presa di Roma da parte dei bersaglieri dell’esercito italiano. Rappresenta il culmine di un processo iniziato con la controriforma, ma che ha avuto una accelerazione nell’800 col papato di Pio IX. Roma vuol accentuare il peso della tradizione, contrapponendosi al Sola scriptura dei protestanti. Roma si richiama così ad una tradizione orale che sarebbe antecedente alla Scrittura. Col tempo questa tradizione viene identificata col magistero ecclesiastico: esso sarebbe il custode della tradizione, e il magistero ecclesiastico viene poi identificato col papato.
Il dogma del 1870 è un frutto del cosiddetto ultramontanismo, di quel movimento centrato sulla autorità del papa, che pretende di resistere all’illuminismo, al liberalismo, insomma alla modernità. I dogmi del Vaticano I sono due: l’infallibilità dottrinale del papa quando parla ex cathedra, e il primato di giurisdizione del pontefice romano. Quindi un’estrema personalizzazione e accentramento del ministero, dell’autorità in ambito dottrinale e morale.
E un commento protestante?
Il fenomeno rappresenta il punto di vertice di un processo di lievitazione incontrollata dalla funzione del vescovo di Roma. È un lungo percorso, le cui tappe sono, ad esempio, prima Leone Magno, poi Gregorio VII, quindi Innocenzo III, la Controriforma, eccetera. Ma certamente il papato della Riforma, quello con cui polemizza Lutero, dal punto di vista dottrinale e dogmatico, è molto più leggero del papato di Pio IX. Ad esempio, nel dibattito ecumenico attuale, se la dottrina romana relativa al papato fosse quella del XVI sec., per molti protestanti oggi - e certamente per molti ortodossi - non ci sarebbero ostacoli decisivi.
Paolo Ricca parla di carismi differenti, a proposito delle diverse confessioni cristiane. Esiste, a tuo parere, un qualche carisma anche nella figura dell’autorità papale in sé, a prescindere dalle "degenerazioni" storiche che si sono create nel tempo?
No, io non credo. Può darsi che esistano dei protestanti che rispondano affermativamente. Io credo
che storicamente il papato abbia svolto un ruolo pernicioso per l’unità cristiana. Il papato ha favorito
sia la divisione tra l’Oriente e l’Occidente, sia quella, all’interno dell’Occidente, tra le chiese della
Riforma e la chiesa che non ha accolto la Riforma. Poi, all’interno del cattolicesimo romano, ha
favorito lo scisma dei vecchi cattolici - quelli che non hanno accettato il dogma dell’infallibilità; e,
sempre dentro la chiesa romana, ha favorito tutti gli scontri successivi - ad esempio, il modernismo
sulla libertà. Ha favorito un accentramento del quale la chiesa romana ha incredibilmente sofferto.
Se in altre condizioni il vescovo di Roma potrebbe o potrà svolgere un ministero diverso, è una questione che allo stato attuale non è dato di dirimere. Sono molto drastico: l’idea che spesso si dà del ministero papale come un ministero di unità è ideologica. Di fatto il papa ha svolto e svolge una funzione di divisione.
Ma non si potrebbe pensare, in qualche modo, ad una funzione di utilità, all’interno di una chiesa ecumenica, nella figura di un primate?
Bisogna distinguere due questioni. Quello che afferma il dogma del primato - più che quello dell’infallibilità - è che il vescovo di Roma esercita un primato di giurisdizione sulla chiesa universale per diritto divino, perché tale primato corrisponde alla volontà di Dio nella sua rivelazione in Gesù Cristo. Questo viene rifiutato dagli evangelici. Una questione diversa è se, dal punto di vista della praticità - e non dal punto di vista del diritto divino -, sia o meno utile che un vescovo eserciti una questione presidenziale in una ipotetica chiesa ecumenica, cattolica, una sorta di coordinatore, di portavoce, di presidente. Spesso si discute di questo, ma è una discussione campata per aria, perché in realtà quello che esiste de facto è un papato romano, il quale si fa forte di un apparato dogmatico, cioè di due dogmi della fede che lo riguardano.
Per quanto riguarda le altre forme di esercizio del papato, diverse da quelle attuali, che a suo tempo Giovanni Paolo II ha ipotizzato, bisogna dire che il problema non riguarda l’esercizio, bensì la concezione che il papato ha di se stesso. Solo che queste forme di esercizio più collegiale del primato non le ha mai viste nessuno. Quali sono? Sarebbe interessante - ma non risolutivo - vedere queste nuove forme più collegiali all’opera all’interno della chiesa romana. Ma qui, invece, continua ad operare un forte centralismo papale, per nulla collegiale. Anzi, le prerogative dei singoli vescovi e del collegio episcopale sembrano oggi notevolmente ridotte rispetto al primo decennio successivo al Concilio Vaticano II.