KANT E LA “STRADA MAESTRA” DELLA “CRITICA". Note per una rilettura di "I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica"
di Federico La Sala
Con l’interpretazione de “i sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” (1766), Kant traccia le linee epistemologiche del suo programma di ricerca: egli ha trovato la sua “bilancia” e, come già il Galilei del “Saggiatore”, comincia a usarla! Non a caso, l’atmosfera che traspare - nel breve testo (un vero e proprio ‘discorso sul metodo’ del lavoro critico da portare avanti) - è quello delle grandi occasioni storiche. Fin dall’inizio (“Parte prima dogmatica. Capitolo 1. Un intricato nodo metafisico che si può a piacere sciogliere o tagliare”), egli mostra di essere ben consapevole di quale sia la posta in gioco, a quali reazioni va incontro (considerate le idee dominanti dell’epoca - sul piano metafisico, teologico-politico, e scientifico), e di quanto dura e lunga sarà la lotta.
L’attacco ai “grandi sapienti” è fortissimo e richiama la lezione di Galilei e del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (quarta giornata): “Le chiacchiere metodiche delle alte scuole sono spesso soltanto un accordo per sfuggire con parole ambigue ad una domanda difficile a risolversi, perché il comodo e il più delle volte ragionevole “non so” non si ode facilmente nelle accademie” (I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, p. 102). Quasi a dire, leggere bene - con attenzione: qui la questione non è più e solo astronomica, è metafisica in senso stretto e i due sistemi del mondo di cui si parla non sono più il “tolemaico” e il “copernicano”, ma il materialismo e il dogmatismo (l’idealismo e lo spiritualismo).
La mossa di Kant spiazza tutti, anche “i giudici più benevoli, meglio intenzionati, come per esempio il Mendelssohn” (E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, La Nuova Italia, Firenze 1977, p. 93). Moses Meldelssohn, lettore assai autorevole e amico di Kant, che in quell’anno preparava “uno scritto, il Phaedon (1767), tre dialoghi intesi a sostenere una volta di più la tesi dell’immortalità dell’anima contro le vedute materialistiche del Lamettrie, del d’Holbach, dell’Helvetius, e degli altri enciclopedisti”, trova “il libretto di Kant sconcertante e ambiguo” e non riesce a capire se Kant sostiene “l’immortalità dell’anima o il suo contrario” (Guido Morburgo-Tagliabue, Introduzione, cfr. I. Kant, I sogni..., cit., pp. 43-44). La sua reazione è molto simile a quella di moltissimi “grandi sapienti” alla pubblicazione dell’opera di Pietro Pomponazzi, “De immortalite animae” (1516). Non comprende (né ora, né dopo la pubblicazione della “Critica della ragion pura”, 1781) che non è più una questione di “doppia verità” e al contempo non è si è più all’interno del naturalismo (antico o moderno), che Kant pensa dopo Galilei, con Newton e Rousseau, e che egli si è inoltrato su un sentiero, nuovo e tuttavia ben solido - né materialistico, né idealistico! - che ormai offre elementi certi per ben distinguere come va il mondo, “come va il cielo”, da “come si va in cielo”!
Kant confida troppo nei suoi lettori, non lo dice espressamente, ma il suo punto di vista e il suo modo di filosofare è chiaramente di ispirazione aristotelica e galileiana insieme, dell’Aristotele - ignoto ai “severi difensori di ogni minuzia peripatetica” - riscoperto da Galilei (cfr. “Dialogo sopra i due massimi sistemi”), ed è consonante con lo stesso atteggiamento (teoretico e psicologico) di Galilei nei confronti di Aristotele (o Chi per lui): «Aristotele fu un uomo, vedde con gli occhi, ascoltò con gli orecchi, discorse col cervello. Io sono un uomo veggo con gli occhi, e assai più che non vedde lui: quanto al discorrere, credo che discorresse intorno a più cose di me; ma se più o meglio di me, intorno a quelle che abbiamo discorso ambedue, lo mostreranno le nostre ragioni, e non le nostre autorità» (G. Galilei).
Kant, contrariamente ai “grandi sapienti”, non fa finta di sapere e non parla per sentito dire, sulla base dell’altrui autorità. Dichiara la sua ignoranza e si mette alla ricerca, in prima persona: “Io non so” - così egli scrive all’avvio del discorso - “se vi siano spiriti, anzi ciò che so che è più ancora, non so neppure che cosa significhi la parola spirito. Giacché tuttavia io stesso me ne sono servito od ho udito altri servirsene, si deve pur intendere qualcosa con essa, sia questo qualche cosa chimera o realtà. Per rendere esplicito questo significato recondito metto il mio malinteso concetto di fronte alle applicazioni più diverse e in quanto io rilevo a quali conviene e a quali no, spero di volgerne il senso nascosto” (I sogni... cit., p. 103). E poco oltre, acquisita attraverso una breve analisi la conclusione che “si può dunque ammettere la possibilità di esseri immateriali senza timore di essere confutati, ma anche senza speranza di poter dimostrare questa possibilità per via di principi razionali” (op. cit., p. 106), inizia il suo attacco alla millenaria tradizione (platonica prima e cattolica dopo) che ha preteso di aver sciolto l’enigma, di aver trovato nell’anima l’essenza dell’uomo e, con l’anima, l’accesso definitivo alla “pianura della verità”.
Con ironia e determinazione, come già Galilei (“chi vuol por termine agli umani ingegni? Chi vorrà asserire, già essersi veduto e saputo tutto quello che è al mondo di scibile”: Lettera a Castelli - 1612, Lettera a Cristina di Lorena - 1615), Kant concede, provoca, e fornisce le ‘credenziali’ della sua concezione antropologica e della sua logica della ricerca scientifica:
“Supposto ora che si fosse dimostrato essere l’anima dell’uomo uno spirito (sebbene da quanto precede si debba vedere che una simile dimostrazione non è mai stata data), la prima domanda che si potrebbe fare sarebbe questa: Dov’è la sede di quest’anima umana nel mondo corporeo? Ed io risponderei: questo corpo i cui cambiamenti sono cambiamenti miei, questo corpo è il mio corpo e il suo luogo è nel tempo stesso il mio luogo. Supponete che si chieda ancora: Dov’è la sede tua (dell’anima) in questo corpo? Io sospetterei qualcosa di capzioso in questa domanda. Infatti si rivela facilmente che vi si presuppone già ciò che non è conosciuto mediante I’esperienza, ma riposa forse su pretese conclusioni: cioè che il mio Io pensante sia in un luogo, che sarebbe distinto dai luoghi di altre parti di questo medesimo corpo che appartiene a me” (I. Kant, I sogni... cit., p. 108).
Ora, poiché nessuno - continua Kant - “ha coscienza immediata di un particolare luogo nel suo corpo, bensì di quello che egli occupa come uomo in relazione col mondo”, Io mi atterrei dunque alla esperienza comune e provvisoriamente direi: Io sono dove sento: sono altrettanto immediatamente nella punta delle dita come nella testa; sono la stessa persona che soffre ai calcagni e in cui il cuore batte nella passione. Quando la gotta mi tormenta io sento l’impressione dolorosa non in un nervo cerebrale, ma all’estremità delle dita. Nessuna esperienza mi insegna a considerare lontane da atre alcune parti della mia sensazione e di rinserrare il mio io immediato in un angolo del cervello, dal quale esso metterebbe in movimento la leva della mia macchina corporea o ne sarebbe affetto. Io chiederei quindi una prova rigorosa per trovare assurdo ciò che dicevano i filosofi delle scuole” ( p. 108).
E infine, tirando le somme del suo ragionamento, così prosegue, conclude, e commenta: “La mia anima è tutta nell’intiero corpo e tutta in ogni sua parte. La sana intelligenza coglie spesso la verità prima di vedere le ragioni pe mezza delle quali può esser dimostrata o spiegata. Non mi turberebbe neppure l’obbiezione che in questo modo io concepirei l’anima estesa e sparsa per tutto il corpo, press’a poco come viene rappresentata ai bambini nel Mondo figurato, poiché toglierei di mezzo questa difficoltà col notare come la presenza immediata in tutto uno spazio provi soltanto una sfera della azione esteriore, ma non una molteplicità di parti interiori e perciò neppure una estensione o figura come quelle che hanno luogo soltanto quando in un essere posto per sé solo c’è uno spazio, cioè si riscontrano parti che si trovano le une fuori delle altre. Infine o io so questo poco della proprietà spirituale della mia anima o, se non si acconsente, mi accontento anche di non saperne nulla” (op. cit., pp. 108-109 - senza le note).
Ovviamente, qui e ora - nei Sogni , il discorso è ancora magmatico e non tutto è già chiaro, ma Kant è ben consapevole di quanto ha acquisito. E, allineato il suo punto di vista alla linea della ricerca aristotelica ("anima e corpo come un tutto unico”), precisa la sua posizione: “Ma quale necessità faccia sì che uno spirito e un corpo costituiscano insieme un tutto e quali cause annullino, in certe alterazioni, questa unità, sono questioni che, come diverse altre, trascendono di molto la mia intelligenza: per quanto poco audace io sia nel misurare la mia capacità intellettiva coi misteri della ragione, sono tuttavia abbastanza sicuro di me da non temere un avversario sia pure terribilmente armato (posto che io avessi disposizioni alla lotta)”(p. 113).
E tuttavia, sicuro di sé, alla fine del lavoro dichiara: “io avevo in realtà davanti agli occhi uno scopo, che mi pare più importante di quello che mettevo innanzi e questo credo di averlo raggiunto”. E continua, chiarendo: “La metafisica di cui la sorte ha voluto che mi innamorassi [...] presenta due vantaggi. Il primo è di appagare le questioni sollevate dallo spirito investigatore, quando ricerca con la ragione le proprietà recondite delle cose. Ma qui il risultato inganna troppo spesso la speranza e anche questa volta è sfuggito dalle nostre avide mani. [...] L’altro vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e consiste nel vedere se il problema si riferisca a quello che possiamo sapere e quale rapporto abbia la questione coi concetti dell’esperienza, sui quali deve sempre fondarsi ogni nostro giudizio. Sotto questo aspetto la metafisica è la scienza dei limiti della ragione umana e, siccome un piccolo paese ha sempre molti confini e in generale gli preme di più in questo caso conoscere e fissare bene i suoi possessi che non andar fuori ciecamente in cerca di conquiste, così questa utilità della predetta scienza è la più sconosciuta come la più importante e viene raggiunta soltanto piuttosto tardi e dopo lunga esperienza” ( pp. 158-159).
A dire il vero - Kant continua e precisa - “io non ho qui fissato con precisione bene questi limiti, ma li ho abbastanza chiaramente indicati perché il lettore trovi con un po’ di riflessione che egli può dispensarsi da ogni vana ricerca riguardo ad un problema i cui dati sono in un mondo che ò tutt’altro da quello in cui sente [...] ho dissipato l’errore e la vuota scienza che gonfia l’intelletto e usurpa nel suo campo limitato il posto che dovrebbero occupare gli insegnamenti della saggezza e della istruzione utile” (p. 159).
Alla fine Kant conclude con le parole che Voltaire fa dire al suo onesto Candido, dopo molte discussioni inutili: “Pensiamo ai nostri affari, andiamo in giardino e lavoriamo” (op. cit., p. 165), ma in verità egli pensa soprattutto a Rousseau, e (già) all’uscita dallo stato di minorità - sia sul piano personale sia sul piano teologico-politico e sociale! La vera sapienza - aveva scritto poco prima - "è compagna della semplicità e siccome in essa il cuore comanda all’intelletto, così essa rende ordinariamente superfluo il grande apparato di dottrina e i suoi fini non hanno bisogno di altri mezzi che non possano essere a disposizione di tutti. Come? Non è bene esser virtuoso se non per il fatto che vi è un altro mondo, o non è vero piuttosto che le azioni saranno un giorno compensate perché erano per se stesse buone e virtuose? Il cuore dell’uomo non contiene dei precetti morali immediati, e si deve, per condurlo conformemente al suo destino, far leva sulla rappresentazione di un altro mondo?” (op. cit., p. 164). Non è che l’inizio. La rivoluzione copernicana è già cominciata!
Ormai egli è ben certo che il sentiero da lui imboccato - con l’aiuto della bilancia e del metodo della parallasse - ha la possibilità (come dirà e ripeterà a conclusione del lavoro della “Critica della ragion pura”) di diventare “una strada maestra” per l’intera umanità e, finalmente, “recare piena soddisfazione alla ragione umana, rispetto a ciò che ha sempre dato incentivo, ma sinora vanamente, al suo desiderio di sapere”.
Federico La Sala (16.07.2010)
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
NATURA, TECNICA, CIVILTÀ: QUALE “SUGGERIMENTO E’ FECONDO”? La mossa di Kant spiazza tutti... *
A). NO GARDEN: “[...] per usare le parole di Donna Haraway, there is no garden and never has been. Il discorso sulla natura è un discorso avvelenato, e, per sua stessa “natura”, un nostro discorso. Invocare la natura, oltre che terribilmente insidioso, rischia di suonare ingenuo, quando non reazionario. Statuire delle nette dicotomie a partire da ciò che è “naturale” ancor peggio [...] Cultura e natura, soggetti e oggetti, persone e cose: noi immaginiamo un mondo di binarismi che non esistono. Ciò che rimane profondamente impensato è la relazione, l’ibrido, che il diritto non riesce a cogliere, fondato com’è sull’individuale. Su questo si sofferma Michele Spanò, curatore del testo e autore del prezioso saggio che tira le fila dei due che lo precedono, proponendo una innovativa terzietà: le azioni. Le procedure, le azioni collettive, sono il terreno di intersezione fra diritti e interessi, banco di prova per diritti soggettivi, del tutto inservibili alla causa della natura, e potenziale terreno fertile per assemblaggi di cose e persone, diretti destinatari entrambi dei danni ecologici. Il suggerimento è fecondo: al posto della vetusta soggettività, implicita nei “diritti della natura”, non dovremmo, forse, ripartire dalla tecnica?” ( cfr. Xenia Chiaramonte, “Fare la natura con le parole del diritto. Note su “L’istituzione della natura” di Y. Thomas e J. Chiffoleau” - Le parole e le cose, 1 Agosto 2020);
B). NO PARTY (“STERMINATOR VESEVO”): “[...] I più grandi pensatori pessimisti sono spesso portatori di una speranza utopica. È così per Leopardi (e per Machiavelli). Farla finita con la retorica dell’“usciremo migliori”, del “tutto andrà a finire bene” (che sembra presa di peso da un film americano di avventure), considerare che la tendenza all’egoismo e alla violenza fa parte della natura animale dell’uomo e nello stesso tempo impegnarsi perché quella alla solidarietà (insita, insieme alla spinta alla sopraffazione, in alcune specie animali, compresa quella umana) prevalga sulle pulsioni di morte, questo ci insegna Leopardi. Quando il fondamento della civiltà è in discussione, è il momento di tornare alle ragioni del patto sociale e al “pensiero” di cui La Ginestra ci parla ” (cfr. Romano Luperini, “Natura e civiltà: Leopardi e il corona virus “, La letteratura e noi, 27 luglio 2020);
C). “GENIO MALIGNO”, “RAGION PURA”, E “RIVOLUZIONE COPERNICANA”: “Con l’interpretazione de “i sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” (1766), Kant traccia le linee epistemologiche del suo programma di ricerca: egli ha trovato la sua “bilancia” e, come già il Galilei del “Saggiatore”, comincia a usarla ! Non a caso, l’atmosfera che traspare - nel breve testo (un vero e proprio ‘discorso sul metodo’ del lavoro critico da portare avanti) - è quello delle grandi occasioni storiche. Fin dall’inizio (“Parte prima dogmatica. Capitolo 1. Un intricato nodo metafisico che si può a piacere sciogliere o tagliare”), egli mostra di essere ben consapevole di quale sia la posta in gioco, a quali reazioni va incontro (considerate le idee dominanti dell’epoca - sul piano metafisico, teologico-politico, e scientifico), e di quanto dura e lunga sarà la lotta. L’attacco ai “grandi sapienti” è fortissimo e richiama la lezione di Galilei e del “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (quarta giornata) : “Le chiacchiere metodiche delle alte scuole sono spesso soltanto un accordo per sfuggire con parole ambigue ad una domanda difficile a risolversi, perché il comodo e il più delle volte ragionevole “non so” non si ode facilmente nelle accademie” (I. Kant, I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica, Rizzoli, Milano 1982, p. 102). Quasi a dire, leggere bene - con attenzione : qui la questione non è più e solo astronomica, è metafisica in senso stretto e i due sistemi del mondo di cui si parla non sono più il “tolemaico” e il “copernicano”, ma il materialismo e il dogmatismo (l’idealismo e lo spiritualismo). La mossa di Kant spiazza tutti [...]” (cfr. Note per una rilettura di “I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica”).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr.: Federico La Sala, “Kant, Freud, e la banalità del male” (Academia-edu, 2010).
Conoscenza. Il saggio di Edoardo Boncinelli
E la scienza divenne sperimentale
L’approccio soltanto speculativo ha grossi limiti che molti filosofi non riconoscono
La ricostruzione dello scienziato nel saggio «La farfalla e la crisalide» (Raffaello Cortina)
di Stefano Gattei (Corriere della Sera, 26.10.2018)
Che cos’è la scienza? E che cosa la distingue dalle altre discipline? La domanda ha impegnato i filosofi per secoli. Se la pone ora, nel libro La farfalla e la crisalide (Raffaello Cortina), un grande scienziato, Edoardo Boncinelli, autore di importanti scoperte in campo genetico.
Il saggio ripercorre per importanti snodi concettuali la storia della scienza, dalla sua nascita nella Grecia di 2.500 anni fa, quando l’indagine della realtà era ancora difficilmente distinguibile dalla riflessione filosofica, al presente, nel quale scienza e filosofia appaiono del tutto separate, incommensurabili per capacità di analisi e significatività dei risultati. La farfalla - questa la metafora scelta dall’autore - è la scienza così come la conosciamo oggi: nasce dalla crisalide della filosofia, un intreccio di modi di pensare spesso in competizione fra loro, ma capaci di influenzare profondamente la nostra vita. Poco più di quattro secoli fa, la scienza si svincola dal ruolo ancillare nei confronti della filosofia, sviluppandosi autonomamente e ramificandosi gradualmente in una serie di discipline che, dalla fisica alla biologia all’intelligenza artificiale, hanno sostituito la filosofia come strumento di conoscenza del mondo. Con Galileo, tra scienza e filosofia si apre un baratro che oggi forse non vale neppure la pena di provare a colmare.
All’inizio, con i Presocratici, la filosofia avanza ipotesi sul mondo. Nasce libera, svincolata da ogni verità rivelata. La messa a morte di Socrate, «corruttore» dei giovani ateniesi con la critica implacabile della religiosità che la società si attende da loro, inaugura paradossalmente la grande stagione del pensiero greco. Consapevole dell’importanza della tecnica, la riflessione classica accompagna l’osservazione del mondo (culminata nei trattati naturalistici di Aristotele) all’indagine ipotetico-deduttiva, che si sviluppa senza bisogno di conferme sperimentali. Gli enormi successi della geometria euclidea e dell’astronomia matematica convincono però i filosofi che la verità sia raggiungibile per via puramente speculativa. Così, pur rimanendo sostanzialmente indistinguibili, scienza e filosofia iniziano a perdere contatto. Un ruolo non secondario nella separazione è svolto da Platone, sostenitore di una teoria della conoscenza «innatista» dall’indiscutibile sapore biologico, che Boncinelli apprezza, ma che inchioda l’uomo alla sterile fissità di un mondo delle idee sempre uguale a sé stesso. Se però Platone non poteva conoscere l’evoluzione, non così i molti filosofi che oggi a lui direttamente si rifanno, e che ignorano l’impatto rivoluzionario del cambiamento che si impone di continuo in biologia.
Una discussione serrata e tranchant, che non risparmia neppure Cartesio, porta il lettore al Seicento, quando dalla crisalide della filosofia occidentale si libera finalmente la farfalla della scienza sperimentale. Se, fino ad allora, scienziati e filosofi si erano limitati a porsi domande e a tentare di dare risposte attraverso l’osservazione, con la possibilità e l’opportunità di condurre esperimenti, lo scienziato «costringe» la natura a rispondere a domande specifiche. Mentre l’osservazione si limita a registrare ciò che accade, lo sperimentatore svolge un ruolo attivo, preparando le condizioni per portare la natura stessa su un terreno a noi favorevole. L’adozione del metodo sperimentale, spesso accompagnato da un’analisi quantitativa, è per Boncinelli un rivoluzionario atto di umiltà: segna il riconoscimento che per certi problemi l’approccio speculativo non è sufficiente - riconoscimento, questo, che l’autore non manca di contestare come estraneo a molti filosofi di ieri e di oggi.
Con l’Accademia del Cimento e il suo motto, «provando e riprovando», inizia la stagione della grande scienza, che giunge fino a noi. Ma non si chiude la stagione della filosofia, che pure arriva fino a noi, ignorando però (o fingendo di ignorare) l’abisso che la separa dalla scienza. Né, forse, può essere altrimenti: la crisalide è fondamentale per la nascita della farfalla, ma appena questa nasce le due strutture biologiche si devono separare una volta per tutte, perché la presenza della crisalide si rivelerebbe ora tossica per l’insetto alato. Fuor di metafora, la filosofia è stata fondamentale per la nascita del pensiero scientifico, ma col passare del tempo ha avuto un’influenza sempre più negativa, come una sorta di a priori indiscusso che ha finito per ostacolare il progresso scientifico.
L’analisi di Boncinelli è spietata. E senza dubbio corretta, anche se a volte scivola in qualche semplificazione eccessiva. Ma questo nulla toglie alla tesi generale di La farfalla e la crisalide, che interroga e sfida gli studiosi: un libro utile agli scienziati, che dalla riflessione dell’autore possono trarre spunti per meditare sul significato e sulla portata della propria disciplina, e necessario ai filosofi, per considerare i limiti della propria attività e i modi per ripensarla.
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
IL “CIMENTO” DELL’ACCADEMIA GALILEIANA E LA “PIETRA” DEI FILOSOFI: “PROVANDO E RIPROVANDO”!
FILOSOFIA E FILOLOGIA. Etimologie ...
IL “CIMENTO” DELL’ACCADEMIA GALILEIANA E LA “PIETRA” DEI FILOSOFI: “PROVANDO E RIPROVANDO”!
Una nota sui “rapporti tra cemento, cimento e cimentare” *
A riorganizzare le idee, a sollecitare ulteriori riflessioni e approfondimenti sugli importanti e vitali “rapporti tra cemento, cimento e cimentare” (“Ggimentu, gimmientu e ggimintare”), e a non cadere nel delirio di onnipotenza della preghiera nient’affatto evangelica e nientaffatto infantile, troppo “infantile” (“Cristo lo voglio io per Padre/ la Madonna la voglio per Madre/ S. Giuseppe lo voglio per fratello,/ I Santi tutti li voglio per parenti / Affinché mi scampino da tutti i cimenti”) - vale a dire, i "serpenti"-parenti, tenendo conto delle precisazioni etimologiche del prof. Polito e delle mie “vecchie” note relative al suo articolo “Serpente? Presente”,
RICORDO
che il motto della ACCADEMIA DEL CIMENTO (“Accademia dell’esperimento”), nel solco del “Saggiatore” di Galileo Galilei, è
“PROVANDO E RIPROVANDO”.
Solo su questa strada, valendosi “del proprio intelletto senza la guida di un altro”, con l’uso della propria “bilancetta”, è possibile trovare all’interno dalla caverna la “pietra da costruzione” (“lapis philosophorum”), “l’uscita dallo Stato di minorità” (Kant) e, al contempo, la facoltà di saper distinguere “come va il cielo” e “come si va in cielo” (Galileo Galilei).
*
ICONE DELLA LEGGE - DELLA COSTITUZIONE. Icone. Pensare per immagini...
Resurrezione: mito o mistero?
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 28.05.2018)
Nel dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio Salita al Calvario del 1564, si scorge a fatica, al centro di una scena super affollata, Gesù salire al Calvario nell’indifferenza generale. Si fatica a vedere la sua piccola figura e la grande croce che trascina con sé. Tutt’intorno a lui brulica una folla indifferente, affaccendata nelle proprie attività. Il clima è festoso, non sembra profilarsi alcuna tragedia all’orizzonte. In primo piano, tre donne piangono, consolate da un giovane che sappiamo essere Giovanni, l’apostolo. Ma le quattro figure sembrano fuori posto, quasi fossero dovute perché non si dà la Passione senza le donne piangenti e Giovanni.
Inizia da qui l’itinerario che Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa percorrono nel loro ultimo libro, Croce e Resurrezione (il Mulino), pubblicato nella collana ’Icone. Pensare per immagini’ diretta da Massimo Cacciari. -Come suggerisce il titolo, il libro è diviso in due parti. Nella prima, dedicata alla passione e crocefissione di Cristo, Maurizio Ciampa commenta la Salita al Calvario accostandola anche a diverse altre raffigurazioni dello stesso soggetto: da Hieronymus Bosch, col suo Cristo portacroce del 1515 - in cui il volto di Gesù sembra l’unico umano, schiacciato e soffocato da facce grottesche e demoniache -, a James Ensor, con L’entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889, in cui la parodia dell’ingresso a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua, è un carnevale. Da Matthias Grunewald con il crocifisso dell’Altare di Isenheim, quasi inguardabile nell’atrocità del suo dolore, a I disastri della guerra, di Francisco Goya, 1808-1810, e altri ancora.
La seconda parte del libro è dedicata alla risurrezione di Cristo, evento inimmaginabile accaduto senza testimoni. Com’è possibile, allora, rappresentarlo? In che modo dipingere un uomo che abbia attraversato il confine della morte e abbia trovato, al di là, vita nuova? Di quale strana materia dovrebbe essere fatto, per rimanere attingibile ai sensi?
Gabriella Caramore sceglie di parlarne commentando La cena di Emmaus dipinta da Rembrandt nel 1629, in cui il risorto è un profilo d’ombra che risalta sulla luce proiettata sul muro alle sue spalle, che il suo stesso corpo emana. Ed è una buona scelta, perché non esiste in tutta la storia dell’arte un volto di Cristo risorto all’altezza dell’evento, neppure quello che forse è il più bello di tutti, ritratto da Piero della Francesca nel dipinto Resurrezione del 1460.
È un libro bello e intenso, traboccante di domande che tutti si fanno davanti ai due pilastri della fede cristiana, la morte in croce di Gesù e il suo ingresso in una nuova vita. Due sono le più dure e drammatiche: interessano ancora a qualcuno la sua storia e la sua tragica fine? Com’è possibile oggi credere alla resurrezione? La risposta, più lasciata intuire che detta esplicitamente, sembra essere ’no’. Forse, suggeriscono gli autori, dovremmo leggere tutta la vicenda in un modo diverso che, allontanandola dalla “leggenda”, ci permettesse di trovarne un senso accettabile oggi per noi.
Nella Salita al Calvario, osserva Ciampa, per la prima volta la passione di Cristo è trasformata in spettacolo, infatti la sua figura quasi scompare tra le tante che affollano la scena, per lo più allegre e ridanciane, prese dai loro vari commerci. Il luogo in cui il condannato sarà crocifisso è lontano e marginale. Come lo sono anche Giovanni e le donne, raffigurati in primo piano sul lato destro del dipinto, e sembrano del tutto estranei rispetto alla folla. Non sono vicini né a Gesù né al luogo del patibolo.
Maurizio Ciampa si chiede se ce la farà ad arrivare al Golgota questo povero Cristo “trafitto dall’indifferenza” e acutamente osserva: “Possiamo leggere la Salita al Calvario come un triste presentimento di ciò che accadrà, una sorta di presagio della Storia che verrà, una sua sintesi anticipata. La croce nascosta, il Cristo accantonato, la Passione alterata in ‘festa’”.
Una festa paesana che James Ensor porterà a termine, trasformandola in carnevale, dopo che Cristo avrà attraversato il male raffigurato nei volti ghignanti di Hieronymus Bosch, quasi a suggerire che egli non può - non ha potuto né potrà - vincere il male sulla Terra. “In Bruegel resiste ancora, nascosto, un residuo di croce” - afferma Ciampa - “in Bosch la croce sembra soccombere, Cristo resta comunque l’ultima traccia dell’umano; in Ensor, gli "uomini vuoti", distratti, confusi, sembrano non averne più memoria.” La passione diventata intrattenimento e un Cristo fragile e svuotato sembrano dichiarare che la sofferenza dell’uomo non troverà mai senso e che il “simbolo cristiano” ha perso efficacia per l’uomo di oggi. Il mondo ha messo Cristo da parte, la sua storia non interessa più, non è più ispiratrice né può dirsi in alcun modo diversa da quella dei tanti uomini e donne buoni e di valore che la Storia ha fatto a pezzi. Non c’è più altro da dire.
A questo punto, però, nella visione cristiana fondata sulla testimonianza della gente del tempo, entra in scena la libertà di Dio. Perché è questo il significato della resurrezione di Gesù: nella loro libertà i potenti nemici di Gesù ne hanno decretata la morte; nella sua libertà, Gesù non vi si è sottratto; ma nella sua libertà, Dio è intervenuto quando la sua azione non avrebbe più forzato e ridotto la libertà degli altri attori in gioco. Con la resurrezione di Gesù ha dichiarato, davanti agli uomini e alla Storia, che quell’uomo diceva la verità, su di loro e su Dio stesso. È possibile crederlo?
Gli autori sembrano, di nuovo, propendere per una risposta negativa quando si domandano: “Quale narrazione di quell’evento può aiutarci a darne una lettura che non strida con l’esigenza contemporanea di uscire dal linguaggio del mito?”. E più avanti, verso la conclusione del libro, Gabriella Caramore, invitando a non smettere di cercare “per capire se sia possibile estrarne una umile, esile forza su cui far leva per potere stare al mondo”, si chiede se non sia “proprio in questa eclissi di una trascendenza mitologica (corsivo mio) che può condensarsi il senso della ’resurrezione’: qualcosa è stato e ha lasciato un segno sulla terra ... rimane, per chi resta, la possibilità di ridestarsi alla luce, di rialzarsi alla vita. Non è, questo, un segno molto più potente che non attendere il ritorno nella carne, nella materia, o nella leggenda (corsivo mio) di chi ha lasciato quell’incolmabile vuoto?” E riferendosi all’evangelista Luca e alla sua insistenza a dichiarare Gesù il vivente anche dopo la morte, afferma: “In fondo quell’insistenza ... appare come un invito ad allontanarsi dalla visione di un cadavere che torna a rivisitare i vivi, per spalancare invece la possibilità di trovare forza e consolazione in ciò che rimane di una vita trascorsa”.
Se la resurrezione è un mito, non credo ci possa dare alcuna forza, né esile e umile, né d’altro genere; non consola nessuno né cambia alcunché della nostra personale sofferenza. Se non è un mito, è uno sconvolgimento, una forza potente, una rivoluzione dell’interpretazione che ognuno può dare alla propria vita, una direzione totalmente nuova verso cui sentirsi tutti in cammino. La resurrezione di Gesù non è il ritorno a questa vita di un cadavere, ma la rivelazione di un destino sorprendente, di uno stadio successivo alla vita che aspetta ogni essere umano (e non soltanto). È la possibilità di sperare con intelligenza, e non sulla base di favole e miti rassicuranti, che la morte non sia la fine del viaggio. E questa fiducia non si basa su un’adesione emotiva, non è stata conservata nei secoli da cuori fragili incapaci di accettare la morte, ma da spiriti forti e intelligenze acute che vi hanno riflettuto con tutte le proprie forze. È impossibile riassumere qua questo lungo cammino, mai concluso, ma chi volesse può ascoltare, per farsi un’idea della questione, una conferenza molto chiara e interessante dell’astrofisico e teologo Giuseppe Tanzella-Nitti, dal titolo: La visione del cristianesimo tra vita biologica ed immortalità, reperibile su youtube.
L’evento della resurrezione non ha avuto testimoni, per questo non si può definirlo storicamente certo (se lo fosse, probabilmente saremmo tutti cristiani). I fatti storicamente accertati riguardano, invece, quello che i discepoli fecero dopo gli incontri con Gesù successivi alla sua morte, e l’improvviso cambiamento avvenuto nella loro attitudine, nel loro stesso carattere.
La resurrezione è, ad ogni modo, un mistero che non si può liquidare facilmente né alla leggera, perché la fede cristiana non si fonda sul messaggio di Gesù allo stesso modo in cui, per esempio, il buddismo si fonda sull’insegnamento straordinario del Buddha, ma sulla sua persona e sul mistero che egli rappresenta per l’umanità tutta. A quel mistero appartiene, come elemento non secondario ma fondamentale, che sia risuscitato dalla morte rivelando qualcosa di sostanziale in merito al destino di tutti gli esseri umani.
Credere nella resurrezione di Gesù e in una vita piena dell’intera persona umana, al di là di come questo sia possibile e di quale materia sarà il nostro corpo, fa la differenza tra il cristianesimo e le altre concezioni. È ancora vero quello che ha detto san Paolo: “...se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede ... se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini.” (1Cor 15).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT ALL’ATTACCO DEI DELIRI E DEGLI INGANNI DEI "GRANDI SAPIENTI": ANNO DI GRAZIA, 1766.
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
L’illusione della conoscenza
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 24.04.2018)
Il primo marzo del 1954, gli Stati Uniti sganciarono sull’atollo di Bikini, nelle isole Marshall, una bomba a fusione termonucleare trecento volte più potente di quella sganciata su Hiroshima nel 1945. L’operazione, chiamata in codice Castle Bravo, si risolse nel più grave incidente nucleare mai accaduto prima, perché la potenza della bomba risultò non di trecento, ma di mille volte superiore a quella di Hiroshima. Uno dei suoi principali componenti, il litio-7, di cui evidentemente gli scienziati non conoscevano a sufficienza le proprietà, innescò una serie di reazioni che ne triplicarono l’energia. Nel giro di pochi minuti, il fungo atomico raggiunse un’altezza di 40 km, per cui la nube fu soggetta a venti di una forza e direzione del tutto impreviste dagli esperti che ne dovevano calcolare lo spostamento. Il fallout radioattivo colpì due atolli abitati da 67.000 persone che non si riuscì a far evacuare in tempo, mentre l’equipaggio di un peschereccio giapponese, che era in acque considerate sicure, fu colto in pieno dalle radiazioni. Lo stesso accadde all’equipaggio di un aereo militare che doveva osservare la zona del lancio da un’altezza considerata sicura, se tutto fosse andato secondo i piani. Ma niente andò secondo i piani.
Steven Sloman, cognitivista canadese docente alla Brown University e Philip Fernbach, già suo allievo e professore di Marketing alla Leeds School of Business della University of Colorado, aprono il loro saggio, L’illusione della conoscenza (Raffaello Cortina Editore), con il racconto di questa tragedia, esempio tragicamente perfetto per introdurre l’argomento del libro: siamo molto più ignoranti di quanto crediamo e la combinazione della nostra presunzione con la potenza della nostra tecnologia è molto pericolosa. Con lo stile scorrevole e divulgativo tipico della saggistica anglo-sassone, gli autori accompagnano il lettore in un percorso che si snoda tra psicologia, informatica, robotica, teoria evolutiva e scienze politiche. Il mondo in cui viviamo, avvertono, è molto complesso e una tecnologia sofisticata domina sempre più quasi ogni aspetto della vita quotidiana: è davvero difficile capire come funzionano gli strumenti che usiamo, mentre usarli è sempre più facile. Allo stesso modo, la tecnologia permette in poco tempo di creare movimenti d’opinione e certezze condivise, non necessariamente fondate su contenuti di verità. Questo rende molto grande la responsabilità dei cittadini, chiamati a esprimere opinioni e giudizi su temi talvolta molto difficili, determinando con le proprie scelte il futuro della collettività. Ma a tendenza naturale delle persone è di prendere posizione seguendo impulsi istintivi, con motivazioni superficiali, senza adeguata informazione, influenzandosi reciprocamente in direzione del rafforzamento delle proprie convinzioni, spesso sfuggendo o rifiutando il confronto con chi la pensa diversamente. Ragioniamo, affermano gli autori, secondo «una mentalità da branco», in cui prese di posizione molto forti non si fondano su una altrettanto forte conoscenza dell’argomento. «Portata alle estreme conseguenze - proseguono - l’impossibilità di renderci conto di quanto poco comprendiamo, combinata con il sostegno della comunità, può innescare meccanismi sociali veramente pericolosi».
Sottrarsi all’illusione della conoscenza, molto più dannosa dell’ignoranza stessa, è necessario per il bene di tutti.
L’ignoranza, in un mondo complesso che ha alle spalle migliaia di anni di accumulo di conoscenze, è in qualche misura inevitabile. Il vero problema, perciò, non è tanto l’ignoranza ma piuttosto il fatto di credere di sapere molto più di quanto effettivamente sappiamo. Valutare quanto effettivamente sappiamo riguardo a una qualsiasi cosa che diremmo di conoscere bene, avvertono gli autori, è semplice: basta provare a spiegarla a voce alta. Prendete ad esempio lo sciacquone del bagno. Se qualcuno ci chiedesse: sai come funziona? tutti risponderemmo istintivamente di sì. Ma tentando di dire come, ci accorgeremmo molto probabilmente che in realtà, oltre al fatto di dovere spingere un bottone o muovere una manovella, alla fine potremmo dire poco più del numero di telefono dell’idraulico. Infatti, è lui la persona che sa davvero come funziona lo sciacquone, non noi! La risposta affermativa data istintivamente rispecchia una conoscenza di tipo particolare, risultante dalla combinazione di diversi elementi: quello - poco - che è effettivamente nella nostra mente, più quello che è nella mente dell’idraulico, più il numero di telefono e gli orari dell’idraulico stesso. Insomma, la nostra presunta conoscenza risiede in gran parte fuori di noi, in quella che gli autori definiscono la comunità della conoscenza cui ciascuno appartiene.
La mente, dunque, usa il cervello, ma va oltre e comprende «il corpo, l’ambiente e le altre persone», e tutte le fonti d’informazione accessibili. È questa l’origine dell’illusione della conoscenza: noi, infatti, confondiamo quello che sappiamo davvero ed è nella nostra mente, con quello che crediamo di sapere perché si tratta d’informazioni cui abbiamo facile accesso.
La complessità del mondo, come abbiamo detto, giustifica almeno in parte la nostra ignoranza. Tuttavia, quello che sappiamo è davvero poco e Sloman e Fernbach ci spiegano perché. A questo punto permettetemi un accenno personale. Io tendo a dimenticare i dettagli - nomi, indirizzi, numeri etc. - e spesso me ne sono fatta una colpa, pensando che denotasse leggerezza o poca attenzione per gli altri o peggio. Confesso di avere provato un senso di vero sollievo leggendo che la nostra mente non è fatta per i dettagli (il mio orizzonte si rasserena...!) e che li dimentichiamo semplicemente perché non abbiamo bisogno di ricordarli. Infatti, «il pensiero è un maestro nell’arte di selezionare solo ciò che gli serve rimuovendo tutto il resto», a noi basta sapere dove cercarli al bisogno (il mio orizzonte si rabbuia di nuovo: dove ho scritto il numero dell’idraulico!?!). Dimentichiamo molte cose non per qualche difetto dell’intelletto o del cuore, ma banalmente perché le cose sono veramente tante e davvero complicate e saperle tutte rappresenterebbe per la mente un fardello inutile. Infatti, contrariamente a quanto si pensava agli albori delle scienze cognitivistiche, negli anni Cinquanta, la mente umana non assomiglia a un computer e non è progettata per accumulare dati.
La qual cosa ci porta alla seconda causa delle nostre dimenticanze, ossia la natura della mente - ciò a cui ci serve - e la funzione per la quale si è evoluta: l’azione. Per agire nel modo migliore al fine di raggiungere un determinato obiettivo, è necessaria quella caratteristica esclusivamente umana che è la capacità di astrarre, per «riconoscere come una situazione nuova assomigli a situazioni passate» e agire efficacemente di conseguenza. Ricordare ogni dettaglio, bloccando la mente sul particolare, renderebbe del tutto impossibile l’astrazione e la generalizzazione.
Il saggio di Sloman e Fernbach si basa sulle ricerche di molti studiosi, tra i quali Michael Tomasello, autore di un saggio importante, Storia naturale della morale umana, da noi recensito qualche tempo fa su queste pagine. In particolare di Tomasello condividono la tesi che la caratteristica vincente della nostra specie, sia stata la capacità di condividere l’intenzionalità. Collaborare e lavorare in sintonia sono stati - e sono ancora - i fattori determinanti per la sopravvivenza e lo sviluppo dell’umanità. Mettersi insieme, dividersi i compiti e agire coordinatamente per un obiettivo comune - qualunque esso sia, dalla caccia al mammut allo sbarco sulla Luna - ci permette di non essere sopraffatti dalla complessità del mondo, nonostante i nostri limiti. Noi - la più fragile delle scimmie, dalla testa troppo grande per venire al mondo con la stessa facilità degli altri animali - siamo sopravvissuti e abbiamo prosperato non solo, e non tanto, per l’intelligenza individuale, ma perché abbiamo saputo costituire delle «comunità di cervelli» in grado d’agire insieme. Abbiamo costruito così delle «comunità della conoscenza» in cui, più della conoscenza individuale, è vitale l’accesso alle informazioni. Condividere l’intenzionalità è qualcosa che le macchine non potranno mai fare, il che ci libera, secondo Sloman e Fernbach, dalla paura che nel prossimo futuro una super-intelligenza prodotta dalla tecnologia prenda il sopravvento sugli umani. Sarebbe possibile soltanto se riuscissimo a costruire delle macchine coscienti, capaci di darsi un obiettivo comune ma, ancor prima, dovremmo capire cos’è la coscienza e la questione è tutt’altro che risolta, come spiega bene il saggio di Joseph LeDoux, Ansia.
Qualche timore, tuttavia, è prudente conservarlo, perché una forma di super-intelligenza esiste già, composta dall’enorme quantità di persone in grado di connettersi in un attimo e da ogni parte del mondo. Esse costituiscono una comunità globale della conoscenza - cervelli in contatto e informazioni che circolano praticamente in tempo reale - che rappresenta, allo stesso tempo, una garanzia e un pericolo per le società democratiche. L’inclinazione alla mentalità da branco, di cui abbiamo detto, unita all’inconsapevolezza della propria ignoranza possono «innescare meccanismi sociali veramente pericolosi... le società possono diventare dei calderoni nel tentativo di creare un’ideologia uniforme, facendo evaporare pensiero indipendente e opposizione politica per mezzo della propaganda e del terrore». Allora ripartire dal socratico so di non sapere potrebbe essere un buon inizio per evitare qualche sciocchezza di cui, poi, sarebbe inutile pentirsi.
Hoffmann, il romantico che batte Freud sui sogni
di Giuseppe O. Longo (Avvenire, 15.06.2016)
Due secoli fa, nel 1816, uscivano i Racconti notturni di Ernesto Teodoro Amedeo Hoffmann, esponente geniale e bizzarro del romanticismo, scrittore, compositore, pittore e giurista, noto soprattutto per la sua narrativa, il cui tratto più originale è l’introduzione nelle normali situazioni quotidiane di elementi fantastici e soprannaturali: sdoppiamento della coscienza, telepatia, follia, magia e occultismo.
Nei primi decenni dell’Ottocento questi temi esoterici e inquietanti erano largamente coltivati: non dimentichiamo che proprio nel 1816 Mary Shelley concepisce il suo Frankenstein, ovvero il moderno Prometeo e John Polidori il suo Vampiro. Nei Racconti notturni si assiste all’angosciosa disgregazione della realtà, che trapassa in un mondo assurdo e grottesco. Come dice Ladislao Mittner, in Hoffmann «il rapporto tra l’entusiasmo e la follia, fra il sogno e la smorfia, più che poetico, cioè spontaneo, è deliberatamente provocato; provocato con grandissima abilità. L’alternarsi capriccioso, rapidissimo, spesso quasi inavvertibile, del sogno e della realtà distrugge questa e quello; conseguenza ne è il vuoto, unico vero esito artistico dell’opera hoffmanniana». I Racconti notturni furono preceduti e seguiti da molte altre opere, in cui l’autore diede libero sfogo alla sua fervida e tumultuosa fantasia, che tuttavia era ancorata a profonde intuizioni psicologiche.
Italo Calvino scrisse che la scoperta dell’inconscio avvenne «nella letteratura romantica fantastica, quasi cent’anni prima che ne fosse data una definizione teorica». A Hoffmann si ispirarono molti scrittori, da Stevenson a Poe, da Dostoevskij a Gogol. Anche la musica, passione straripante del nostro, gli deve molto: non solo per le sue composizioni, ma anche per l’influenza esercitata su altri musicisti, in particolare su Jacques Offenbach.
Hoffmann nacque nel 1776 a Königsberg, nella Prussia orientale, e morì ancora piuttosto giovane a Berlino nel 1822. Aveva ereditato dal padre, pastore luterano e giurista, una forte attitudine artistica e dalla madre, ipersensibile e soggetta a depressioni, un carattere incline al fantastico e al visionario. Dopo la precoce separazione dei genitori, visse con la soffocante famiglia materna, in un clima cupo e bigotto che lascerà nel bambino un’impronta indelebile. Conseguita la laurea in legge, intraprese una carriera di funzionario in Germania e poi a Varsavia. Irrequieto e sognatore, fervido lettore, s’interessò di disegno e di medicina, e, in modo professionale, di musica.
Nel 1809 pubblicò il suo primo racconto fantastico (Il cavalier Gluck), seguito da molti altri in cui si riflettono i traumi psichici della sua infanzia (Racconti fantastici alla maniera di Callot) e il suo interesse per l’occultismo e l’ipnotismo (Gli elisir del diavolo).
Perseguitato dal timore di diventare pazzo, Hoffmann approfondì l’argomento della follia studiando i ricoverati nel manicomio di Bamberga e le persone che incontrava grazie al suo lavoro di consigliere giudiziario a Berlino.
Sempre sull’orlo dello squilibrio, in lui si dissolveva di continuo il confine tra sogno e realtà: tipico in questo senso è L’uomo della sabbia, il più famoso dei Racconti notturni, nel quale il giovane Nataniele, anch’egli come lo scrittore segnato precocemente da incubi e terrori infantili, s’innamora perdutamente di Olimpia. Ma Olimpia è una bambola meccanica di cui Nataniele non riesce a scorgere la vera natura, nonostante le tante prove che agli occhi degli altri sono evidenti. Fin dalle prime righe si respira un’atmosfera orrorifica, fomentata dagli aggettivi (spaventoso, orribile, minaccioso) disposti in un crescendo magistrale che allude alla pazzia, alla magia, agli spettri e che prelude alla tragedia: quando scopre la verità, Nataniele si ammala e poi, in una crisi di follia, si precipita da una torre. Già questi pochi cenni possono spiegare il grande interesse che L’uomo della sabbia suscitò in due studiosi vissuti cent’anni dopo.
Nel 1906 lo psichiatra tedesco Ernst Jentsch (1867-1919) pubblicò il saggio Sulla psicologia del perturbante, in cui afferma che il minaccioso, l’angoscioso, il perturbante (Unheimlich), scaturisce dall’incertezza che si prova di fronte a certe entità o in certe situazioni. Secondo Jentsch, tra tutte le incertezze che possono generare un senso di perturbante, ve n’è una in grado di produrre «un effetto regolare, potente e generale, cioè il dubbio se un essere apparentemente vivo sia davvero animato e, viceversa, il dubbio se un oggetto che sembra privo di vita possa in realtà essere animato».
Jentsch indica in Hoffmann un narratore che ha impiegato questo artificio psicologico con notevole abilità, in particolare nell’Uomo della sabbia, dove il lettore viene tenuto sapientemente in uno stato di indecisione sulla vera natura dell’automa Olimpia.
Anche il fondatore della psicoanalisi, Sigmund Freud (1856-1939), s’interessò a questo racconto. Nel saggio del 1919 Das Unheimliche, Freud si richiama esplicitamente al lavoro di Jentsch, ma trova limitata la sua interpretazione del perturbante fondata sull’incertezza, e preferisce la definizione del filosofo Friedrich Schelling (1775-1854): si dice heimlich ciò che dovrebbe restar nascosto e che invece è affiorato. C’è dunque un chiaro legame tra il perturbante, il sinistro, l’angoscioso e il meccanismo psicoanalitico della rimozione.
Il perturbante si manifesta quando il confine tra fantasia e realtà si intorbida e quando ciò che era considerato fantastico si presenta nella realtà: ciò accade nelle pratiche magiche, ma anche in quell’oscuro reame della meccanica onirica in cui vivevano gli automi descritti da Hoffmann, automi a quell’epoca realmente costruiti da abilissimi artigiani e che, già molto prima dell’avvento dei robot moderni, incarnavano, con esiti goffi e vagamente minacciosi, l’antico sogno di costruire l’uomo artificiale, tentando di imitare l’opera creatrice di Dio.
L’eterno ritorno del cesarismo
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 18/7/2010)
Chi è il «Cesare» che compare nei discorsi dei faccendieri, degli affaristi e degli altri personaggi dell’ultimo scandalo politico? Secondo una prima dichiarazione dei carabinieri, si tratterebbe di Berlusconi. Quest’attribuzione è sembrata subito verosimile perché il nome di Cesare, con la sua reminiscenza di scuola, può esprimere anche una ingenua adulazione o una deferente ironia. Ora invece si dice che si riferisce a Previti. Ma trovo maldestro, anche da parte di dilettanti, mettere in circolazione un nome di persona reale. Poco importa. Quello che gli interessati non sospettano è che il riferimento a Cesare e il sostantivo che gli viene associato - cesarismo - hanno una lunga storia nell’interpretare un fenomeno politico che è antico ma che ritorna sempre. La domanda importante oggi quindi non è chi è il «Cesare» di cui si parla, ma se è in atto una forma di cesarismo politico e quali sono i suoi tratti caratterizzanti.
Il Giulio Cesare storico in questa storia conta, ma relativamente. Ciò che è davvero importante è il modello di comportamento che gli viene attribuito e che attraversa i secoli. Sinteticamente è il modello del «dittatore democratico». Cesare era amato dal popolo e affossatore di fatto, in suo nome, della antica repubblica che diceva di volere salvare. Ma i due termini «dittatore democratico» sono chiari soltanto in apparenza. Cambiano infatti profondamente di senso quando sono applicati al tempo della repubblica romana in via di transizione verso l’impero. O quando vengono ripresi sistematicamente nell’Ottocento in riferimento a Napoleone III, a Bismarck e persino, di riflesso, al nostro Cavour.
Nessuno di questi politici è stato propriamente un dittatore. Neppure l’imperatore dei francesi, che a metà dell’Ottocento è stato oggetto di una letteratura politica sterminata che ha rilanciato alla grande il tema del cesarismo (nel suo caso interscambiabile con bonapartismo). I tre nomi citati sono di uomini politici di grande statura. Hanno subito naturalmente stroncature feroci - come quella di «Cesare il piccolo» affibbiata al Bonaparte da Victor Hugo. Ma di Cesari grandi e piccoli ce ne sono stati tanti. Anche al tempo delle dittature novecentesche: basti ricordare i busti di Mussolini fisiognomicamente confusi con il profilo idealizzato di Cesare. In realtà però ha poco senso parlare di cesarismo fascista, perché in esso si perde l’elemento essenziale: il riferimento alla democrazia, che Mussolini certamente non voleva.
Questo è il punto: il cesarismo è uno stile di governo (non un regime) che, insediato in un sistema democratico preesistente, tende a forzare o a rifunzionalizzare le istituzioni esistenti in senso autoritario ma senza negarle, anzi volendo creare la «vera democrazia». Lo strumento centrale è un rapporto nuovo e diretto con il «popolo». Non a caso il concetto associato al fenomeno cesaristico è anche populismo.
Nei primi due decenni del Novecento Max Weber, facendo un bilancio della fine della democrazia liberale e spingendo lo sguardo in avanti, parlava di «tendenza cesaristica della democrazia di massa». Cesarismo e democrazia di massa sono dunque strettamente legati. Poi Weber ha insistito (forse troppo) sugli aspetti personali carismatici eccezionali della leadership cesaristica. Noi oggi più realisticamente riteniamo che il cesarismo del nostro tempo conti di più sulla potenza della comunicazione di massa e dei mezzi mass-mediatici che non sulle (presunte) doti carismatiche personali del leader. Si tratta di un mutamento di prospettiva decisivo.
Rimane essenziale il rapporto con il popolo. Ma chi è il popolo del Cesare storico? È la plebs acclamante ma anche un gruppo consistente di amici, collaboratori, mediatori, clientes e senatores del regime precedente. Il popolo del Cesare contemporaneo è il popolo-degli-elettori che lo votano, è il popolo mediatico monitorato con strumenti demoscopici. Ma anche una solida rete di «amici di Cesare», insediati non solo nella politica ma soprattutto nella «società civile». In questo senso il cesarismo è davvero popolare.
«Gli amici di Cesare» (compresi i leader di altri partiti che gli sono «amici» prima ancora che «alleati») surrogano di fatto il partito tradizionale. Il «partito del popolo» infatti ha la funzione esclusiva di mettergli a disposizione consenso e risorse. Offre personale esecutore, realizzatore, implementatore delle idee del leader. Non deve sollevare problemi, tanto meno competizioni o alternative interne. Il partito del leader cesaristico è, o meglio deve essere, assolutamente unitario. Deve attendere e sostenere le soluzioni dei problemi ipotizzate dal leader. Se queste non si realizzano la colpa è delle opposizioni che le ostacolano o degli ambiziosi disturbatori interni al partito che non sono più «amici». Ma soprattutto la colpa è del sistema istituzionale - in particolare giudiziario - che frena e boicotta. Da qui l’inderogabile necessità della riforma delle istituzioni che non si presenta come sovversiva (anche se retoricamente si sente «rivoluzionaria») ma come loro sistematica forzatura sempre al limite della legalità costituzionale.
Mentre scriviamo questo sistema sta entrando in una fase di turbolenza inedita. C’è chi da mesi ne prevede la fine. Personalmente - come analista - sarei cauto
Chi è il «Cesare» Pontefice Massimo: che compare nei discorsi dei faccendieri, degli affaristi e degli altri personaggi dell’ultimo scandalo politico?
Cognome romano divenuto un titolo. Nel 46 a.E.V. Gaio Giulio Cesare fu acclamato dittatore di Roma, carica che avrebbe ricoperto per dieci anni, se nel 44 a.E.V. non fosse stato assassinato dai suoi oppositori.
Si dice che Giulio Cesare riuscisse a camuffare i messaggi che trasmetteva sul campo di battaglia per mezzo di un cifrario che si basava su un sistema di sostituzione semplice: ogni lettera veniva sostituita con quella collocata tre posizioni più avanti nell’alfabeto. Per esempio la a diventava d, la b diventava e, e così via.
Rendete dunque a Cesare le cose di Cesare!!!
Sulla scena internazionale Roma raggiunse l’apice della gloria sotto i Cesari!!! Il primo di questi!!! fu Giulio Cesare, acclamato dittatore per un decennio nel 46 a.E.V., ma assassinato da cospiratori nel 44.
Giulio Cesare fu assassinato da sospettosi e invidiosi nobili. La sua morte provocò ulteriori guerre di rivalità.
Spostandoci al I secolo avanti l’era volgare, troviamo un drammatico dispaccio sulla morte di Giulio Cesare, datato Roma, 15 marzo 44 a.C. “Giulio Cesare è stato assassinato. Oggi, Idi di marzo, è stato pugnalato da un gruppo di cospiratori, fra cui alcuni dei suoi amici più fidati, mentre presiedeva una seduta in Senato”.
Nei secoli successivi le cattive notizie continuarono a susseguirsi. Scioccante è quella del 1487 dal Messico: “Nella più spettacolare manifestazione sacrificale mai vista nella capitale azteca, Tenochtitlán, il cuore di 20.000 persone è stato offerto a Huitzilopochtli, dio della guerra”.
Laicità. Carlo Bernardini: così l’etica della Chiesa sta uccidendo il progresso
di Pietro Greco (l’Unità, 17 luglio 2010)
Certo, è anche un grido lacerante di ribellione, quello che Carlo Bernardini, fisico, professore emerito dell’università La Sapienza di Roma, collaboratore storico dell’Unità, ha affidato al libro Incubi diurni, appena pubblicato con Laterza (pagg. 145, euro 14,00) perché gli sia concesso di essere «scienziato e laico, nonostante tutto».
Certo, è anche l’invettiva veemente di un ricercatore che si sente fuori dal coro, come recita la quarta di copertina, che lancia i suoi strali - nitidi, forti - contro le forze di cui si sente oppresso: il Vaticano e la sua invadente dottrina che vogliono mettere le braghe alla sua libertà di ricerca, ma anche contro quel «trogloditismo politico», arraffone e incompetente, che cerca di marginalizzarlo perché interessato a soddisfare i propri interessi immediati (spesso volgarmente materiali) a scapito di quelli delle generazioni future.
Ma è, soprattutto, un manifesto alla Bertrand Russell. Un programma laico per una società libera, pacifica e fondata sulla ragione che riprende quello per cui si è battuto il logico e filosofo inglese autore, nel 1957, di Perché non sono cristiano. Il richiamo a Russell non è casuale. Non solo perché Carlo Bernardini lo cita spesso. Ma perché ne riprende per intero e aggiorna la griglia di lettura dei rapporti tra religioni monoteistiche e società. Le grandi religioni monoteistiche, sosteneva Russell, hanno tre caratteri comuni: una Chiesa, una fede e un codice di etica individuale.
La fede è certo la fonte di contrasto intellettuale tra religione e scienza, sostiene Russell. E Bernardini analizza a fondo e senza sconto alcuno i motivi di questo contrasto. Che non gli impedisce, tuttavia, di chiudere la sua invettiva /manifesto riconoscendo i valori comuni che possono esistere tra un laico che non crede, quale egli è, e un laico che crede, come suora Cécile Renouard, che con un gruppo di confratelli ha di recente pubblicato con Flammarion «Venti proposte per riformare il capitalismo» e che si pone, con maggiore lucidità di molti politici anche di sinistra, il problema delle regole che servono per dare a chiunque l’accesso ai beni essenziali.
Ma, sostiene ancora Russell, l’asprezza dello scontro tra religione e scienza non è determinato dalla fede - ognuno è libero di credere in ciò che vuole - bensì dall’organizzazione ecclesiale e dai codici etici. Lo scontro diventa duro e persino insopportabile - tanto da indurre a un sano moto di ribellione - quando l’organizzazione ecclesiale pretende di imporre all’intera società la sua visione del mondo e la sua morale, escludendo che fuori da quell’organizzazione sia possibile l’esistenza stessa di un’etica.
L’etica degli scienziati. È questo il cuore del libro di Carlo Bernardini. È questo il motivo principale per leggerlo. È questo l’aspetto che più sorprende. Andate a pagina 32 e scoprirete subito perché. La Chiesa che pretende di imporre il proprio codice etico accredita l’idea che, in virtù del loro sapere, gli scienziati abbiano un’etica diversa da quella del resto dell’umanità. Un’etica propria e abnorme. Che per questo deve essere validata da un’etica più generale, quella religiosa. Occorre sfuggire a questa trappola, sostiene Carlo Bernardini. Non si deve contrapporre l’etica della scienza all’etica della religione. Non esiste un’etica degli scienziati fondata sul loro sapere. Gli scienziati sono uomini e hanno un’etica del tutto «indistinguibile da quella del resto dell’umanità, nella sua eterogenea composizione». Quello che non si può in alcun modo pretendere è che gli scienziati, come tutti gli uomini, «adottino necessariamente ciò che il clero intende per etica, specie se questo può entrare in contrasto con esigenze difendibili della ricerca e dello sviluppo delle conoscenze».
Perché è questo che sta succedendo in Italia, anche per colpa di una classe dirigente che, sostiene Bernardini richiamando De Gasperi, è costituita da politici che guardano all’oggi e non da statisti che guardano alle generazioni future. Perché il futuro che immagina Bernardini, proprio come il futuro che immaginava Bertrand Russell, è nelle mani dei laici (non importa se credenti o no). Solo se riusciremo a costruire una democrazia razionale che fonde libertà, tolleranza e competenza avremo un futuro desiderabile. Altrimenti il futuro si trasformerà, a appunto, in un incubo.
Con l’interpretazione de “i sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica” (1766), Kant traccia le linee epistemologiche del suo programma di ricerca: egli ha trovato la sua “bilancia” e, come già il Galilei del “Saggiatore”, comincia a usarla!
egli mostra di essere ben consapevole di quale sia la posta in gioco, a quali reazioni va incontro (considerate le idee dominanti dell’epoca - sul piano metafisico, teologico-politico, e scientifico), e di quanto dura e lunga sarà la lotta.
L’attacco ai “grandi sapienti” è fortissimo qui la questione non è più e solo astronomica, è metafisica in senso stretto e i due sistemi del mondo di cui si parla non sono più il “tolemaico” e il “copernicano”, ma il materialismo e il dogmatismo (l’idealismo e lo spiritualismo).
E poco oltre, acquisita attraverso una breve analisi la conclusione che “ si può dunque ammettere la possibilità di esseri immateriali senza timore di essere confutati, ma anche senza speranza di poter dimostrare questa possibilità per via di principi razionali” Supposto ora che si fosse dimostrato essere I’anima dell’uomo uno spirito Dov’è la sede di quest’anima umana nel mondo corporeo? Ed io risponderei: questo corpo i cui cambiamenti sono cambiamenti miei, questo corpo è il mio corpo e il suo luogo è nel tempo stesso il mio luogo.
il discorso è ancora magmatico e non tutto è già chiaro, ma Kant è ben consapevole di quanto ha acquisito (anima e corpo come un tutto unico”) per quanto poco audace io sia nel misurare la mia capacità intellettiva coi misteri della ragione, sono tuttavia abbastanza sicuro di me da non temere un avversario sia pure terribilmente armato (posto che io avessi disposizioni alla lotta”
“La metafisica di cui la sorte ha voluto che mi innamorassi [...] presenta due vantaggi. Il primo è di appagare le questioni sollevate dallo spirito investigatore, quando ricerca con la ragione le proprietà recondite delle cose.
L’altro vantaggio è più conforme alla natura dell’intelletto umano e consiste nel vedere se il problema si riferisca a quello che possiamo sapere e quale rapporto abbia la questione coi concetti dell’esperienza, sui quali deve sempre fondarsi ogni nostro giudizio. “io non ho qui fissato con precisione bene questi limiti, ma li ho abbastanza chiaramente indicati perché il lettore trovi con un po’ di riflessione che egli può dispensarsi da ogni vana ricerca riguardo ad un problema i cui dati sono in un mondo che ò tutt’altro da quello in cui sente “Critica della ragion pura”) di diventare “una strada maestra”per l’intera umanità e, finalmente, “recare piena soddisfazione alla ragione umana, rispetto a ciò che ha sempre dato incentivo, ma sinora vanamente, al suo desiderio di sapere”.
La scienza non ha rapporti con la verità, perché ciò che essa produce sono solo proposizioni "esatte", cioè "ottenute da (ex actu)" le premesse che sono state anticipate in via ipotetica. Che poi l’ipotesi sia confermata dall’esperimento dice solo che noi conosciamo la validità operativa di quell’ipotesi, non la natura della cosa indagata con quell’ipotesi, perché, interrogata, la cosa non mostra il suo volto, ma semplicemente risponde all’ipotesi anticipata.
La fede, a sua volta, non ha a che fare con la verità perché, lo dice Tommaso d’Aquino commentando Paolo di Tarso, la fede, a differenza della scientia espressa dalla ragione umana, conduce in captivitatem omnem intellectum, cioè rende l’intelletto prigioniero di un contenuto che non è evidente, e che quindi gli è estraneo (alienus), sicché l’intelletto è inquieto (nondum est quietatus) di fronte alla fede, nei cui riguardi si sente in infirmitate et timore et tremore multo. La fede, inoltre "crede" proprio perché non "sa".
Io non credo che due più due faccia quattro perché lo so. Posso invece credere nell’immortalità!!! dell’anima, proprio perché non lo so. E allora tra scienza e fede non c’è conflitto, perché la scienza risponde all’esigenza di una "spiegazione" del mondo, mentre la fede risponde all’esigenza di reperire un "senso" alla nostra vita e al nostro essere nel mondo.
La fede infatti, ce lo ricorda Pascal, non saprebbe cosa farsene di un Dio raggiungibile con gli strumenti della sola ragione, perché ciò di cui va alla ricerca è, nella versione della fede cristiana, "il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe". Quindi un Dio che parla al cuore umano nei termini di uno sguardo accogliente, di una protezione che ci rassicuri nella precarietà dell’esistenza, nella speranza di sopravvivenza e di salvezza. Di tutto questo la scienza non si occupa, perché il suo scopo non è quello di reperire un senso per la nostra esistenza, ma di pervenire alla conoscenza sempre più approfondita del mondo.
Se i riferimenti della fede e della scienza sono così diversi e tra loro distanti, non c’è un piano su cui possono confliggere, se non per coloro che vogliono affidare all’una o all’altra entrambi i compiti: quello di spiegare il mondo e di reperire un senso. Questa pretesa, nel caso della scienza, si chiama, come scrive Jaspers, "superstizione scientifica" e nel caso della fede "negazione della ragione".
(Solo ad una piccola percentuale...indeterminata; ma piccola...e questa e’ un’altra prova che nessuno lo sa).
Le chiese: Dove sono dirette? COSA sta succedendo alle chiese “cristiane”? Dalle vostre parti sono in declino o stanno prosperando? Forse avete sentito parlare di un risveglio spirituale, e di tanto in tanto da Africa, Europa orientale e Stati Uniti giungono notizie di congregazioni religiose che si espandono. Ma in altre parti del mondo, soprattutto nell’Europa occidentale, le notizie parlano di chiese che chiudono i battenti, di fedeli in diminuzione e di diffusa apatia nei confronti della religione. Di fronte al calo delle presenze, molte chiese hanno cambiato stile. Alcune dicono di non voler giudicare o criticare il comportamento della gente, lasciando così intendere che Dio accetti qualunque tipo di condotta. Sempre più spesso anziché impartire istruzione basata sulla Parola di Dio le chiese offrono intrattenimento e attività ricreative, nonché attrazioni che nulla hanno di religioso. Anche se alcuni praticanti considerano questi cambiamenti un necessario adattamento alla realtà del mondo attuale, molte persone sincere si chiedono se le chiese non stiano deviando dalla missione affidata loro da Gesù. Esaminiamo le tendenze che hanno caratterizzato le chiese negli ultimi decenni. “Gli uomini hanno scoperto che è molto più conveniente adulterare la verità che raffinare se stessi”. Charles Caleb Colton, ecclesiastico inglese del XIX secolo
Kalina Christoff della University of British Columbia sostiene che si alternano ai comandi il nostro "cervello esecutivo", disciplinato e mono-tematico, e una sorta di "cervello di scorta" più sciolto, disinibito, imprevedibile. Il primo tende a riportarci con tutta l’attenzione su ciò che stiamo facendo. Il secondo è il migliore alleato degli inventori, degli artisti, degli spiriti originali. "Per la creatività - dice Jonathan Schooler della Ucsb - è essenziale che la mente possa andare a zonzo, prendersi tanta libertà. Poi però bisogna essere pronti a capire quando è arrivata l’intuizione geniale, e concentrarsi su quella". Se Archimede fosse rimasto a trastullarsi nella sua vasca da bagno, il principio dei corpi immersi nei liquidi oggi non porterebbe il suo nome.
Una profonda, intensa riflessione! Ogni tanto e’ buona e fa’ bene! ( Se viene fatta con tutta sincerita’ e ne applichiamo I buoni risultati ....ci puo’ recare benessere e pace mentale insieme ad una buona riuscita di risolvere problemi piccoli e grandi. Durante questo auto esaminarsi o addirittura ! Pensare che ci confessiamo con Dio stesso...si dovrebbe pensare seriamente a esperienze passate, o si ponderano e si passano in rassegna questioni attuali o si considerano attentamente possibili eventi futuri.