"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1 Gv., 4.1-8)
"Carissimi, non prestate fede a ogni spirito (...) Dio è Amore pieno di grazia" (1 Gv., 4, 1-8)
“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto...” (Gv 17,25).
*** * ***
O AMORE ("Charitas"),
SPIRITO SANTO,
PADRE NOSTRO,
CHE SEI NEI CIELI,
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME,
VENGA IL TUO REGNO,
SIA FATTA LA TUA VOLONTA’
COME IN CIELO COSI’ IN TERRA.
TU CI DAI OGGI IL NOSTRO PANE PIU’ SOSTANZIOSO,
E RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI
COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.
TU NON CI INDUCI IN TENTAZIONE
MA CI LIBERI DAL MALE.
COSI E’: COSI SIA.
AMEN.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
BUONA NOTIZIA: BUON NATALE!!! ECCO COME AVVENNE LA NASCITA DI GESU’ CRISTO.
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
Se la feroce religione del denaro divora il futuro
di Giorgio Agamben (la Repubblica, 16.02.2012)
Per capire che cosa significa la parola "futuro", bisogna prima capire che cosa significa un’altra parola, che non siamo più abituati a usare se non nella sfera religiosa: la parola "fede". Senza fede o fiducia, non è possibile futuro, c’è futuro solo se possiamo sperare o credere in qualcosa.
Già, ma che cos’è la fede? David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni - esiste anche una disciplina con questo strano nome - stava appunto lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per "fede". Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco "banco di credito".
Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, " fede" è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che "la fede è sostanza di cose sperate": essa è ciò che dà realtà a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. Qualcosa come un futuro esiste nella misura in cui la nostra fede riesce a dare sostanza, cioè realtà alle nostre speranze.
Ma la nostra, si sa, è un’epoca di scarsa fede o, come diceva Nicola Chiaromonte, di malafede, cioè di fede mantenuta a forza e senza convinzione. Quindi un’epoca senza futuro e senza speranze - o di futuri vuoti e di false speranze. Ma, in quest’epoca troppo vecchia per credere veramente in qualcosa e troppo furba per essere veramente disperata, che ne è del nostro credito, che ne è del nostro futuro?
Perché, a ben guardare, c’è ancora una sfera che gira tutta intorno al perno del credito, una sfera in cui è andata a finire tutta la nostra pistis, tutta la nostra fede. Questa sfera è il denaro e la banca - la trapeza tes pisteos - è il suo tempio. Il denaro non è che un credito e su molte banconote (sulla sterlina, sul dollaro, anche se non - chissà perché, forse questo avrebbe dovuto insospettirci - sull’euro), c’è ancora scritto che la banca centrale promette di garantire in qualche modo quel credito.
La cosiddetta "crisi" che stiamo attraversando - ma ciò che si chiama "crisi", questo è ormai chiaro, non è che il modo normale in cui funziona il capitalismo del nostro tempo - è cominciata con una serie sconsiderata di operazioni sul credito, su crediti che venivano scontati e rivenduti decine di volte prima di poter essere realizzati. Ciò significa, in altre parole, che il capitalismo finanziario - e le banche che ne sono l’organo principale - funziona giocando sul credito - cioè sulla fede - degli uomini.
Ma ciò significa, anche, che l’ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla lettera. La Banca - coi suoi grigi funzionari ed esperti - ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede - la scarsa, incerta fiducia - che il nostro tempo ha ancora in se stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il credito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità).
In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.
Finché dura questa situazione, finché la nostra società che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudosacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating.
E forse la prima cosa da fare è di smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è avvenuto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L’archeologia - non la futurologia - è la sola via di accesso al presente.
Quel regno vicino
di Paolo Ricca
in “Oreundici” del febbraio 2012
Tutta la predicazione di Gesù, secondo i tre vangeli sinottici, riguarda il regno di Dio, o regno dei cieli, come preferiva dire Gesù essendo ebreo. Regno dei cieli non indica uno spazio sopra il firmamento nel quale entrano i pii quando muoiono. Regno dei cieli vuol dire regno di Colui che è nei cieli, Colui che è altro rispetto a tutto ciò che possiamo sperimentare, capire, intuire, sentire, avvertire, conoscere sulla terra.
I cieli rappresentano la faccia invisibile della realtà. Il regno di Dio così inteso non è stato soltanto il centro, ma il tutto della predicazione di Gesù. La novità non è che Gesù parli del regno, perché anche Giovanni Battista aveva lo stesso identico messaggio.
L’attesa del Regno accompagna la comunità ebraica dal momento della crisi della monarchia, con la fine del regno terreno, e diventa tanto più viva quanto meno si vedeva realizzata nell’esperienza quotidiana del popolo ebraico. La novità è l’annuncio della vicinanza. Questo nessuno l’aveva detto. Avevano detto verrà, chissà quando. Neanche Gesù sa quando, ma sa che è vicino. Non solo. Immaginate la rivoluzione spirituale che Gesù chiede al suo popolo nel momento in cui dice non soltanto che questo regno atteso ma indefinibile, improbabile è vicino, se ne sente il rumore come di una persona che si avvicina alla porta per bussare, ma è in mezzo, circola, è dentro. Anche qui vicinanza, presenza, intimità... nello stesso tempo Gesù dice che questo regno è una eredità. Il discorso di Gesù è dialettico, da un lato annuncia presenza, incombenza, immanenza, interiorità, dall’altra dice che è un’eredità, cioè un regalo, è per te, è in mano tua ma non è tuo. Dio non è mai un possesso, è sempre una grazia, qualcosa di gratuito che ti viene offerto ma se tu vuoi mettere le mani sopra allora lo perdi. Guardate che profondità, il possesso come perdita anziché guadagno.
Quali sono i tratti salienti di questo regno annunciato da Gesù? Ne indico cinque.
Il primo tratto caratteristico è l’espressione stessa regno “di Dio” che possiamo legittimamente considerare esclusiva, cioè dicendo di Dio Gesù esclude che sia il regno di Davide, il regno di Israele, la restaurazione della monarchia davidica la quale era la realizzazione di quello che noi chiamiamo oggi l’ideale teocratico, secondo cui il re è l’unto del Signore, il vicario del Signore.
Noi sappiamo quanto l’ideologia teocratica abbia funzionato all’interno della comunità cristiana, se noi pensiamo a papi come Innocenzo III o Bonifacio VIII essi hanno affermato l’ideale teocratico, per cui l’imperatore era sottoposto al potere del vicario di Cristo. La famosa Europa cristiana tanto invocata è tutta dominata dall’ideale teocratico. Ma quando Gesù dice regno di Dio dice no alla teocrazia.
In secondo luogo dicendo regno di Dio esclude che sia il regno di Cesare, l’impero romano. L’imperatore romano si chiamava salvatore, e quanti salvatori abbiamo dovuto subire nella storia del nostro occidente!
Tanti salvatori che non salvavano neanche loro stessi. Abbiamo quella pagina straordinaria del vangelo di Giovanni quando Gesù si trova davanti a Pilato e lo rassicura dicendogli il mio regno non è di questo mondo. Non ti faccio concorrenza, non avere paura. Rispetto al tuo regno ne porto uno diverso, se tu sapessi quale regno porto in mezzo al tuo. Il regno di Dio non corrisponde a nessun regno di nessun Cesare. Di nessun tipo, di nessun colore. Il secondo tratto saliente è questo: il regno di Dio non è di questo mondo, ma in questo mondo, per questo mondo. Non è di questo mondo nel senso che i criteri di giudizio che lo informano, le regole che lo governano, le priorità che in esso valgono non sono le regole, le priorità, i criteri di giudizio che valgono per i regni di questo mondo. La mia corona non è fatta di diamanti ma di spine, non sono seduto su un trono ma inchiodato su una croce: non si era mai visto un re così.
Questo è il re Gesù di Nazaret. Naturalmente Pilato non capisce, non può neanche concepire un regno di questo genere, che è quasi una sfida ai regni di questo mondo, ai potenti della terra come segno efficace che Dio regna altrimenti e diversamente dai re di questo mondo.
Terzo tratto saliente è che questo regno di Dio non ha nulla di religioso, nulla di ecclesiastico. Il teatro del regno, il luogo in cui si svolge e manifesta la sua presenza, è la quotidianità. Il regno è nel quotidiano più ordinario e più profano. Il regno di Dio è laico. Di tutte le parabole del regno non ce n’è una che si svolga in ambito religioso: il regno è paragonabile a una donna che mette il lievito nella farina, a un contadino che esce a seminare, a un mercante in cerca di belle perle, e così via. Che cosa vuol dire? Che lo spazio del regno non è l’ambito religioso, è l’ambito profano. Non è la Chiesa, è il mondo. È nel mondo che si gioca la partita!
Quarto tratto saliente, veramente impressionante, è che il regno di Dio è nascosto, non viene in modo da attirare gli sguardi. Sia nel senso che non è appariscente, non si mette in mostra, non è spettacolo e non fa spettacolo, sia nel senso che non è apparente, come non lo è il lievito nella pasta, il seme nella terra, la perla nella conchiglia. Vuol dire che il regno di Dio non sta sulla superficie delle cose, della storia, sta nel fondo delle cose, nel fondo della storia. Ecco perché Gesù parla del mistero del regno, a voi è dato di conoscere il mistero del regno. Questo carattere nascosto è una sfida alla società dell’immagine, dove ci sei se appari. Se non appari non ci sei. Il regno è tutto il contrario, non è appariscente, non è apparente, non è evidente, è dentro, è nel fondo.
Quinto e ultimo tratto saliente è che questo regno è presente e futuro. Gesù dice il regno è giunto fino a voi, e nello stesso tempo ci ha insegnato a pregare venga il tuo regno. C’è una compresenza di presente e futuro in questo messaggio del regno di Dio. Come si può spiegare? Vi dò due chiavi possibili per aprire questo enigma. Presente e futuro possono significare transizione dal carattere nascosto a quello manifesto del regno. Un’altra chiave è che presenza del regno è presenza di Dio, ma Dio è eterno, non può essere rinchiuso in un presente che è la nostra categoria di presente, un tempo che spezza i confini e si dilata sia nella direzione del passato che del futuro. Il futuro è il modo in cui si manifesta la presenza di Dio. La presenza del regno è gravida di futuro perché Dio porta con sé tutti i tempi nostri.
la città di dio secondo Agostino
Questo messaggio di Gesù viene completamente trasformato da Agostino. Tra Gesù e Agostino c’è Costantino, il cristianesimo da religione perseguitata è diventata l’unica religione autorizzata e questo ne cambia la natura stessa. Qual è la modifica sostanziale che Agostino nella Città di Dio, libro XX, capitolo 9 ha introdotto? È molto semplice: la Chiesa è diventata il regno di Cristo. Agostino ha scritto queste cose quando Roma era ridotta a macerie perché Alarico con il suo esercito dei goti aveva messo a ferro e fuoco la capitale del mondo. Agostino riflette sulla civitas terrena, ora ridotta a un cumulo di macerie, considera quanto sia fragile questa città dell’uomo. Allora per contrasto Agostino parla della città di Dio come della città eterna: due amori edificarono due città. L’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé ha costruito la città celeste, quella trova la gloria in se stessa, questa nel Signore, quella cerca la gloria tra gli uomini, per questa la gloria più grande è Dio nella gloria celeste, la prima nei suoi uomini di potere ama la propria forza, la seconda dice al suo Dio ti amo Signore mia forza
Questa contrapposizione delle due città si materializza, nel pensiero di Agostino, nella contrapposizione tra Chiesa e mondo. Storicamente questa contrapposizione tra civitas dei e civitas terrena, si concretizza nella contrapposizione tra Chiesa e Stato, tra Chiesa e impero. Questa assimilazione è diventata una costante della teologia, in particolare della teologia cattolica, ed è durata fino al Vaticano II. Ha provocato un doppio allontanamento dalla predicazione di Gesù: da un lato il regno è stato respinto in una lontananza infinita, dall’altra la dimensione quotidiana, concreta del regno è stata identificata con l’ambito della Chiesa. Lo stato della Chiesa è durato quasi mille anni e non è ancora superato, l’idea che il regno di Dio si materializzi nella storia della Chiesa è ancora esistente. La Bibbia parla altrimenti della città dell’uomo, secondo l’apostolo Paolo il magistrato (il funzionario della cosa pubblica) è ministro di Dio. La città dell’uomo è l’umanità che si costituisce come comunità nelle varie forme in cui questo è possibile, e realizza qualcosa che corrisponde alla volontà di Dio. L’esistenza dello stato non è semplicemente, nella visione biblica, un contratto tra noi, la comunità umana organizzata politicamente corrisponde a un ordinamento divino. Un sinodo della chiesa evangelica confessante tedesca nel 1954 ha scritto: La scrittura c dice che lo stato, per divina disposizione, nel mondo non ancora redento nel quale anche la chiesa si trova, ha il compito, secondo la misura dell’umano discernimento e delle possibilità umane, ricorrendo se necessario anche alla minaccia e all’uso della forza, di provvedere al diritto e alla pace. Lo stato è disposizione divina per questo scopo. La chiesa con gratitudine e timore verso Dio riconosce il beneficio di questa disposizione divina.
Se pensiamo che la città dell’uomo ha prodotto la dichiarazione universale dei diritti umani, noi intuiamo che c’è qualcosa del regno di Dio. La città dell’uomo è per disposizione divina lo strumento attraverso il quale si affermano il diritto e la pace.
Se è vera la centralità del regno nella predicazione di Gesù e il suo carattere laico, il discorso cristiano in generale, abbracciando tutta la cristianità, soffre di una ipertrofia della chiesa a scapito del regno di Dio.
Se le chiese cominciassero a parlare meno di loro stesse e più del regno di Dio, se obbedissero alla parola cercate prima il regno di Dio, tutto il resto vi sarà dato in abbondanza, se trovassero il coraggio di dire quello che Gesù ha detto, che il regno di Dio è vicino, è alle porte, bussa anche alla porta della tua città, se le chiese trovassero il coraggio di dire che il regno di Dio è laico, e non religioso, che è nascosto e non evidente, che è di Dio e non nostro, cambierebbe profondamente il rapporto tra chiesa e mondo, tra chiesa e stato, tra chiesa e società. la città dell’uomo secondo Gesù Infine, che cos’è questa città dell’uomo? Qual è la sua vocazione? La città dell’uomo esiste per diventare parabola del regno di Dio, qualcosa che assomiglia, che richiama, che è paragonabile al regno di Dio.
Quali sono i contenuti del regno di Dio? Indico cinque contenuti principali di cui la città dell’uomo dovrebbe e potrebbe essere parabola.
Primo: le guarigioni, cioè la cura. Il servizio sanitario nazionale è un pezzo di regno perché servizio sanitario nazionale vuol dire che la tua malattia è anche mia, è un problema comunitario, me ne faccio carico come città dell’uomo. Questa è una cosa straordinaria, meravigliosa, che nell’antichità non esisteva.
Secondo: il rovesciamento delle gerarchie. Molti primi saranno ultimi, molti ultimi saranno primi. Questa è la logica del regno di Dio. Ma allora il regno rovescia il mondo per rifare il vecchio mondo? Mantiene la gerarchia, anche se la capovolge? No, la logica di Gesù è un’altra, si tratta di abolire le gerarchie per principio di uguaglianza, nessuna parola è tanto odiata dai potenti come questa! La città dell’uomo è la città che punta l’attenzione verso un principio di uguaglianza.
Terzo: l’inclusività. Se conoscete l’evangelo avete notato che Gesù include gli esclusi: Le donne, i bambini, i pubblicani. Gesù lavorava in una comunità in cui ci sono i confini, egli sposta i confini sempre più in là. L’inclusività è la regola di Dio, perché Dio è inclusivo. La città dell’uomo include.
Quarto: la liberazione da quelli che il nuovo testamento chiama gli spiriti immondi o impuri. Cosa sono? Sono le catene invisibili. La vera liberazione è spirituale. La liberazione politica, sociale sono sacrosante, ma la vera liberazione è la cacciata degli spiriti immondi, delle catene del male che legano l’anima, lo spirito, la mentalità, la coscienza. Chi libera da quelle catene invisibili? Non bastano le rivoluzioni, ci vuole la parola di Dio. La città dell’uomo è la città della liberazione dagli spiriti immondi, annidati nelle coscienze. Un lavoro immenso, splendido. Ultimo contenuto è il perdono. Quasi non si osa dirlo, perché siamo così lontani dalla giustizia che parlare di perdono rischia di scavalcare la giustizia.
Tuttavia la misura di Dio è il perdono, la compassione, non ti dò quello che meriti, ti dò qualcos’altro che non meriti. Dio non è il notaio che fa il conto della spesa e ti retribuisce come fa il datore di lavoro, Dio è quello che dà al lavoratore dell’ultima ora la stessa paga del lavoratore della prima. Questo è un orizzonte che non possiamo dimenticare quando parliamo del regno di Dio, ma dobbiamo essere prudenti nel senso che questa dimensione fondamentale, costitutiva del regno di Dio, e di una città dell’uomo che voglia esserne parabola, non deve ignorare la dimensione del perdono, deve fare un passo oltre la giustizia.
(elaborazione redazionale non rivista dall’autore a cura di S.P.)
Quando Martini parlò di accidia politica
di Aldo Maria Valli (Vino Nuovo: http://www.vinonuovo.it/, del 5 marzo 2011)
La vicenda Rubygate e dintorni quale sfida comporta per chi partecipa alla politica secondo un’ispirazione cristiana? Ho pensato di poter dare un contributo rifacendomi a una pagina del cardinale Carlo Maria Martini che risale al 1999. Era la vigilia della festa di sant’Ambrogio e quel giorno, nel tradizionale discorso alla città di Milano (intitolato Coraggio, sono io, non abbiate paura!) l’arcivescovo parlò dell’accidia politica, o pubblica accidia, definendola come l’esatto contrario di quella che la tradizione classica greca e il Nuovo testamento chiamano parresìa, ovvero la libertà di chiamare le cose con il loro nome. "Si tratta - disse il cardinale - di una neutralità appiattita, della paura di valutare oggettivamente le proposte secondo criteri etici, che ha quale conseguenza un decadimento della sapienzialità politica".
Ecco qua spiegato, in poche righe, un fenomeno al quale abbiamo assistito con grande dolore in questi anni. Da parte di molti, di troppi, dentro la Chiesa c’è stata una mancanza di parresìa. Chierici e laici, politici e intellettuali troppo spesso, pur fregiandosi con ostentazione dell’etichetta di cattolici, sono caduti nell’accidia politica, arrivando a coprire, giustificare, relativizzare. L’espressione più clamorosa sta nello sciagurato commento di monsignor Fisichella alla bestemmia pronunciata da Berlusconi, quando l’alto esponente vaticano invitò a "contestualizzare". Su questa strada si perde tutto: credibilità, profezia, testimonianza.
"Normalmente - diceva il cardinale Martini in quel discorso di dodici anni fa - lo scadimento etico della politica, in un corpo sano, dovrebbe essere rilevato e punito da un calo di consenso". Già: normalmente. Se da noi questo non è avvenuto vuol dire che il corpo non era, e non è, sano. Aristotele diceva che il male è destinato a distruggersi da sé, ma oggi non sembra più così. Perché? E’ questo il terreno sul quale i credenti (preferisco usare questa espressione rispetto a quella, troppo abusata e strumentalizzata, di "cattolici") devono interrogarsi seriamente.
Martini già nel 1999 dava una risposta. Sosteneva che se il degrado etico della politica non viene chiamato con il suo nome e "punito consequenzialmente" (diceva proprio così: punito) ciò avviene a causa della mancanza di un’opinione pubblica degna di questo nome. Laddove questa opinione, questa capacità di elaborazione critica dei dati politici, è debole o non esiste quasi più, la politica è svincolata da ogni limite. Se al posto di una sana opinione pubblica, capace di esprimere una "resistenza condivisa e critica", la politica trova davanti a sé solo individui, ognuno mosso da interessi particolari, il gioco è fatto: il male può dilagare.
Ecco l’operazione tentata dal berlusconismo: far morire l’opinione pubblica riducendola a massa formata da individui ispirati soltanto da un tornaconto personale. Ed ecco perché il berlusconismo non può tollerare le manifestazioni come quella del 13 febbraio: quel mare di donne, ma anche di uomini, è per il berlusconismo il pericolo mortale, la dimostrazione che, per quanto ci abbia provato a lungo e tenacemente, il mondo di plastica del Silvio’s show non ha ancora soppresso e sostituito del tutto il mondo vero.
Martini diceva che il livello d’allarme lo si raggiunge quando "lo scadimento etico della politica non è neppure più percepito come dannoso per la polis". Diciamo che il berlusconismo è arrivato a un soffio (stavo per dire un pelo, absit iniuria verbis) da questo traguardo: riuscire a non far percepire più il male come tale. Non c’è riuscito, c’è ancora un margine di manovra, ed è su questo che occorre lavorare.
Cito ancora Martini, veramente profetico: "Non dovremmo più aspettare decadenze dolorose peraprire gli occhi". Ma i credenti dove sono? Che cosa fanno? Come reagiscono? Il cardinale invitava a invocare lo Spirito (che per i credenti è l’aiuto, il difensore, l’avvocato, il rappresentante della giustizia). Bisogna invocarlo "perché guidi a mettere le ragioni del consenso al di sopra dell’ansia del consenso", è perché, là dove lo scoraggiamento si fa strada "scatti un sussulto di profezia pieno di speranza, che faccia aprire gli occhi a quella visione di futuro che in linguaggio filosofico si può chiamare utopia". E’ un vero parlare da pastore che guida il suo gregge. E trovo bellissimo il riferimento all’utopia, la meta che va considerata non come irraggiungibile ma come stimolo continuo.
Ma state a sentire che cosa aggiungeva il cardinale. I cattolici, diceva, vanno spesso incontro a un grande rischio, quello di lasciarsi adulare. Lo spiegava già sant’Ambrogio: "Dobbiamo stare attenti a non prestare ascolto a chi ci vuole adulare, perché lasciarsi snervare dall’adulazione non solo non è prova di fortezza, ma anzi di ignavia". Non è formidabile? Noi sappiamo come Dante sistemò gli ignavi. Poiché in vita non agirono mai in base al principio di bene e di male, limitandosi ad adeguarsi alle convenienze, il poeta li piazza nell’antinferno, una specie di non luogo che non è paradiso, non è purgatorio e non è nemmeno inferno, qualcosa di neutro e incolore, come neutri e incolori furono loro in vita, incapaci di parlare chiaramente e di prendere posizione. Ecco, dice Martini, quando ci viene detto che la posizione dei cattolici in politica deve essere ispirata alla moderazione, io sento puzza di ignavia. E’ vero, c’è certamente una moderazione buona, che si esprime nel rispetto dell’avversario, ma (sentite bene!) "l’elogio della moderazione cattolica, se connesso con la pretesa che essa costituisca solo e sempre la gamba moderata degli schieramenti, diventa una delle adulazioni di cui parlava Ambrogio, mediante la quale coloro che sono interessati all’accidia e ignavia di un gruppo, lo spingono al sonno".
Mi sembra che ce ne sia a sufficienza per riflettere e discutere. Ma non prima di aver aggiunto che Martini, in quello scritto, esortava i credenti a essere non moderati, ma audaci. Rappresentanti di "una socialità avanzata che non scollega mai la libertà dalla responsabilità verso l’altro". Meditate gente, meditate!
di Claudio Magris (Corriere della sera, 24.12. 2010)
Il Natale - quella nascita e quella notte che tagliano la Storia e fanno balenare la promessa o almeno l’esigenza che questa possa essere anche Storia della salvezza - non è cosa da family day. Quel neonato concepito fuori del matrimonio è irregolare, illegittimo secondo le regole del mondo. Proprio per questo è un figlio per eccellenza, accettato e voluto nonostante le difficoltà, anziché casualmente subito come talora accade pure nelle migliori famiglie. Il suo diritto alla vita, calpestato nelle forme più varie sotto tutti i cieli - negato dalla fame, dalla guerra, dalle malattie e dalla stessa debolezza dell’individuo, che nelle fasi iniziali della sua esistenza gli impedisce di rivendicarlo esplicitamente - è stato garantito dal coraggio della donna che lo sta allattando.
Quando Maria riceve l’annuncio della sua maternità, non sa ancora quale sarà l’atteggiamento di Giuseppe ed è decisa ad affrontare tutte le conseguenze della sua accettazione, anche il disonore e la vergogna che marchiano una ragazza madre; è pronta ad assumere sulle sue spalle l’infame peso della colpa e dell’emarginazione iniquamente messo in carico soltanto alla donna. Maria, che nella sua solitudine dice sì, è una donna, non quell’idolo di gesso o quel fantasma in cui più tardi una superstizione idolatrica degraderà spesso la sua immagine. Il suo compagno si comporterà come un vero uomo, virile e libero da tutte le prepotenze, convenzioni e insicurezze maschili; anche per questo si attirerà le pacchiane barzellette di tanti cretini, così frequenti fra i narratori di barzellette.
In quella capanna di Betlemme ci sono un figlio, una madre e un padre. Non c’è, per loro fortuna - è giusto che il figlio di Dio si sia concesso almeno questo privilegio- la consueta torma di suocere, zii, terzi cugini, suoceri di cognate, un clan talora caldamente protettivo ma spesso asfissiante e invadente, quelle tante donne Prassede, di cui esistono altrettante e altrettanto micidiali versioni maschili, che in nome della Provvidenza- di cui si considerano gli unici interpreti autorizzati - guastano la festa al loro prossimo in generale e soprattutto a chi hanno sottomano.
A quella capanna, a festeggiare il neonato, non arriva alcun parentado, arrivano alcuni pastori. Sono loro, in quel momento, la famiglia di quel bambino. Anche da adulto egli ribadirà, pure con durezza, il primato dei legami nati da libera scelta e affinità spirituali su quelli di sangue, dicendo che i suoi fratelli e le sue sorelle sono coloro che ascoltano e condividono la sua parola e chiedendo perfino bruscamente alla madre, dinanzi a una sua interferenza, cosa vi sia fra loro due. Dopo i pastori arriveranno, secondo la tradizione, i Magi, seguaci e maestri di un’alta religione- quella di Zoroastro, la prima a proclamare l’immortalità dell’anima individuale. Quella capanna è un tempio di tre grandi religioni mondiali; la quarta, che arriverà secoli dopo, l’Islam, si richiamerà ad esse e soprattutto alla prima, quella ebraica.
Pastori e più tardi Magi restano davanti alla capanna; dentro ci sono, a riscaldare il bambino col loro fiato, un bue e un asino, a testimoniare che anche per gli animali, per questi nostri oscuri cugini, dovrebbe esserci salvezza, come ben sa quel personaggio di un racconto di Singer che recita il Kaddish, la preghiera ebraica per i defunti, per una farfalla morta e come sapeva, nel poema sacro indiano Mahabharata, il re Iudistira che rifiuta di accedere al paradiso abbandonando il fedele cane all’inferno.
Quel bambino non è venuto a fondare una nuova religione, di cui non c’era bisogno perché ce n’erano già forse troppe. È venuto a cambiare la vita, cosa ben più importante di ogni Chiesa. Indubbiamente la promessa di pace, annunciata in quella notte, è stata e continua ad essere clamorosamente smentita. È difficile dire se, in questo senso, quel neonato abbia finora vinto o perso la sua partita. Ma è indubbio che egli abbia posto per sempre, nel nostro cuore, nella nostra mente e nelle nostre vene, l’esigenza insopprimibile di quella salvezza.
L’albero di Natale col suo verde scuro di foresta, le sue candele e i suoi globi colorati (sul mio ce n’è ancora uno proveniente dalle favolose vetrerie di Norimberga, che adornava quello di mia madre quando era bambina) non dice un’idillica quiete domestica, ma una speranza sinora delusa. Ma proprio perché nel mondo c’è tanta sofferenza e ingiustizia e il male così spesso trionfa, ammoniva Kant, è necessaria l’accanita e lucida speranza, che vede quanto sciaguratamente vanno le cose ma si rifiuta di credere che non possano andare altrimenti.
Pure quel bambino di Betlemme è nato per morire. Morirà anzi presto e fra angoscia e tormento, che la resurrezione non cancella in alcun facile lieto fine. Gesù ha scelto la morte perché, pur amando la vita, sapeva che essa non è il bene supremo e che talora si può essere chiamati a perderla per amore degli altri. Ama il prossimo tuo come te stesso, sta scritto. Dunque il nostro prossimo sono gli altri ma siamo anche noi ed è lecito, anzi doveroso amare noi stessi e lenire le nostre sofferenze insieme a quelle altrui. Ogni compiaciuta mortificazione viene dal Maligno.
C’è un diritto di nascere, di cui si parla poco, e c’è un diritto di morire, di cui si parla molto. Per quel che mi riguarda, faccio mia la dichiarazione congiunta della conferenza delle Chiese cattolica e protestante tedesche sul diritto- rivendicato però dall’interessato e soltanto da lui - di sospendere, in determinate condizioni inaccettabili, cure a quel punto inutilmente accanite. Un uomo che ha fede, ha scritto il teologo Wiener Thiede, non artiglia spasmodicamente quel pezzetto di vita che gli è stato assegnato; le sue mani, non contratte dall’ansia, possono aprirsi e lasciare la presa.
È la libertà - del cristianesimo, ma anche della grande classicità pagana, serenamente inserita nel ciclo della natura- che fa dell’uomo un viandante, un nomade senza fissa dimora e non un sedentario nella vita. Ma spesso si sente dire - con un’espressione infelice e involontariamente rivelatrice - non che l’uomo è libero, ma che è il proprietario della sua vita, declassando così il sacro diritto di morire ad una delle tante e sempre più frequenti leggine ad personam, in difesa dell’uno o dell’altro monopolio di cui si vuol godere. Si può essere proprietari soltanto di cose, di cui si può disporre a piacimento. Non si può essere proprietari di persone, perché in tal caso si è padroni di schiavi e dunque pure schiavi, giacché ogni padrone di uomini perde ogni rapporto con la libertà: «Mi me credevo - Un omo lìbero /E sento nascere - in mi el paron» , dice un verso del grande Noventa. Poco importa se lo schiavo di cui siamo proprietari reca il nostro nome: in questo caso trattiamo noi stessi da schiavi, cosa forse ancor più umiliante.
Il proprietario dispone delle cose che possiede; posseggo un’automobile e posso venderla o demolirla a mio arbitrio, essa è in mio potere. Ma il mio io - i miei pensieri, sentimenti, sogni, timori - è in mio potere, come la mia automobile? Posso ordinarmi di innamorarmi, di credere in Dio, di cambiare fede politica, di capire la meccanica quantistica? Ogni io è tutt’al più un condominio, costituito come tutti i condomîni da vicini litigiosi; forse ogni io non è neanche questo, bensì piuttosto un agglomerato di inquilini provvisori che nemmeno posseggono le due camere e cucina e il riscaldamento centrale per cui litigano.
Quando ci innamoriamo, votiamo, preghiamo, lavoriamo, ci divertiamo, possiamo e dobbiamo cercare di essere liberi nel nostro agire, ma senza alcuna presunzione di essere proprietari della vita, neanche della nostra, perché in quel caso saremmo come quei padroni delle commedie, cui i servi rubano tutto sotto il naso. Anche il diritto di morire può affidarsi solo alla libertà e al senso del sacro, non all’arroganza di un inesistente padronato di se stessi.
La vita è sempre sacra, quando la si riceve e quando la si restituisce. Anche quando la si toglie, come tragicamente può accadere - ad esempio in guerre in cui può sciaguratamente ma inevitabilmente capitare di trovarsi, in una Stalingrado o in una Normandia in cui non si è potuto fare a meno di sparare per impedire che il mondo diventasse Auschwitz.
Sotto l’albero di Natale ci si aspetta di trovare dei doni, ogni anno sempre più mestamente aggiornati alla nostra età e meno fantasiosi dei giocattoli d’infanzia, che un mio zio inventava e fabbricava con le sue mani. È possibile fare una lista di regali desiderati, come si usa per quelli di nozze? In questo caso, cosa chiedere, dato che comunque sarebbe svergognato chiedere di essere felici, come se due sposi chiedessero non un servizio di bicchieri o una lavatrice, ma una grande villa con parco? Forse è presuntuoso chiedere l’amore, anche se è per questo che è venuto quel bambino. Se ci guardiamo in giro e allo specchio, gli orrori la mediocrità l’aridità e la viltà che vediamo scoraggia dal pretendere l’amore che ci manca. Pretendere di renderci capaci di amare è come pretendere di renderci capaci di comporre la musica di Mozart.
Se l’amore è una grazia troppo alta possiamo chiedere almeno un’altra virtù fondamentale, il rispetto, che per Kant è la premessa di ogni altra virtù e che sembra sempre più latitante. Se non possiamo amare la folla oscura come noi che entra nella metropolitana, possiamo sentireconcretamente che ognuno di quelli sconosciuti ha gli stessi nostri diritti e la stessa nostra povera dignità. Rispetto per ognuno, anche per l’avversario e per il nemico, anche per chi crediamo di dover combattere duramente, anche per chi va giustamente e pure pesantemente punito per un reato commesso. È questo rispetto, nient’affatto incompatibile con la severità, che manca sempre più, ovunque: nella lotta politica, nella violazione di ogni intimità, nell’arrogante negazione dell’altro.
Non chiediamo di essere perfetti, ma almeno di non essere crudeli e indecenti; di vivere in un mondo in cui si perseguono inesorabilmente i crimini ma si riconosce anche nel volto del criminale giustamente punito senza indulgenza il volto del Cristo o più semplicemente dell’uomo; in cui nessun colpevole- terrorista, pedofilo, mafioso, stupratore, assassino - venga trattato ignominiosamente come ad esempio quel sacerdote, verosimilmente pedofilo e dunque da punire, che si è gettato sotto il treno dopo essere stato insidiato da un falso penitente- inviato da una petulante trasmissione televisiva pretesamente spiritosa- che, in confessione, si è finto tentato dall’omosessualità per adescarlo e scoprirlo, colpendolo in un punto colpevole, debole e tormentato della sua personalità.
Vorremmo chiedere, quale dono di Natale, che persone come quel sacerdote finiscano in carcere, se viene appurato un loro crimine, ma non sotto un treno. Una trasmissione televisiva non può diventare un plotone d’esecuzione. Sotto l’albero di Natale, davanti al Presepe ci sono anche innumerevoli storie terribili, perché quel bambino è venuto a redimere il mondo ed è ovvio che abbia a che fare soprattutto con le sue brutture. Lava ciò che è sordido, piega ciò che è rigido, dice uno dei più grandi inni cristiani.
UN’OFFESA PROFONDA AL MESSAGGIO EVANGELICO E AL MESSAGGIO COSTITUZIONALE. AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est": 2006) E AL GOVERNO DELL’ **ITALIA** UN PRESIDENTE DI UN PARTITO (che si camuffa da "Presidente della Repubblica") e canta "Forza Italia", con il suo "Popolo della libertà" (1994-2010)
NATALE IN VATICANO, SOTTO IL SEGNO DELLE LENTICCHIE: LA CHIESA DI ESAU’. Un testo di Piero Stefani
(...) Il nostro è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma la nostra Chiesa appare sempre di più quella di Esaù. Il paradosso è che è divenuta tale proprio mentre dichiara di voler conservare e difendere i preziosi valori del passato (...)
Il consumismo offende il senso del Natale. No a ipocrisie e false promesse di felicità
di Carlo Maria Martini (Corriere della Sera, 23.12.2010)
Eminenza sono qui a domandarle una riflessione sul significato del Natale, oggi: che valore ha
oggi questa scelta di fronte alle stortura della politica, alla crisi economica, alle violenze
quotidiane, fisiche e psicologiche che i giornali rilanciano in un clima di complessiva angoscia. Le
chiedo una parola di speranza, per i nostri figli soprattutto.
Paolo Verdi, Roma
Vorrei chiederle un messaggio di speranza per questo Natale, per me e per tutte le persone che, pur
frequentando attivamente la Chiesa, si confrontano quotidianamente con la malattia delle persone
care che ci vivono accanto (malate seppur giovani!).
Barbara Niccoli, Roma
Ho come una remora a parlare con Lei del Natale, eminenza carissima: sono credente, ho passato una lunga parte della mia vita in chiesa, sono stato anche volontario. Ho vissuto per mia moglie e per i miei figli, che ora ripagano e mi sono a loro volta vicini. La mia esistenza è un esempio di osservanza, anche altalenante, ma assidua: i peccati ci sono stati, come no, così come gli errori, anche grossolani e i momenti di cedimento. Nel complesso però non mi sento una persona malvagia. Il Natale è il momento più autentico in cui mi viene più facile riflettere, insieme alla mia famiglia, sui mali che mi hanno accompagnato e sui mali del mondo. Mi aiuti. Andrea Filippazzi, Roma
Oggi il Natale ha quasi perduto il suo senso originario. Lo «celebrano» anche uomini di altre religioni. Perfino parecchi non credenti vivono in questo giorno una qualche forma di liturgia profana. Non v’è alcuno che rifiuti per Natale qualche dono o almeno una buona cena. Per questo non parlo volentieri del Natale. Da quando ho conosciuto un po’ meglio la Sacra Scrittura, è la Pasqua che mi attrae e mi pone dinnanzi a un preciso programma di vita.
Benché il Natale sia una splendida manifestazione della gloria di Dio in Cristo e del suo amore per noi, i discorsi che si fanno a partire dal Natale sanno spesso di buonismo e di speranza a buon mercato. Essi sono un segno di poca lealtà con se stessi e con gli altri. Infatti diciamo delle cose che non sono vere e a cui nessuno crede. Ci auguriamo a vicenda lunga vita, felicità, successo, ci facciamo doni che vogliono dire l’affetto che ci portiamo, ma per lo più sappiamo che non è così.
La prima lettera espone bene questo stato di cose. Il Natale fa emergere le storture della politica, la gravissima crisi economica che stiamo attraversando, le violenze quotidiane fisiche e psicologiche. E si potrebbero aggiungere tante altre cose ancora.
Molti uomini e donne attendono in questo giorno qualcosa, un evento o magari una persona che li tiri su, che restituisca loro l’ottimismo ingenuo che hanno irrevocabilmente perduto; qualcosa di nuovo e di grande, che potrebbe farli tornare indietro. Ma questa speranza è fallace, perché si basa solo sulle nostre forze e dimentica lo Spirito di Dio, il solo capace di aiutarci in maniera efficace. Dopo i giorni delle feste tutto ritorna più o meno come prima. È come un dirsi reciprocamente «ce la faremo», pur sapendo tutti che non è vero.
Per vivere bene il Natale e ricavarne quel conforto che è giusto attendersi da questa festa, è necessario sforzarsi di capire ciò che viene detto nei Vangeli. In essi, soprattutto nel Vangelo secondo Luca, emerge un progetto di uomo che vive il dono di Dio nella meraviglia, nella gratitudine e nel distacco. Questo uomo nuovo può essere o un semplice come i pastori o uno studioso come i Magi.
Tutti sono chiamati a partecipare all’esperienza dei pastori a cui fu detto: «Vi annunzio una grande gioia» (Lc 2,10). Chi partecipa di questa gioia, si difenderà da quel pericolo che è il Natale del consumismo, che ci impone di non sfigurare davanti ad amici e parenti concostosi regali. Pur avendo la coscienza che molte famiglie fanno fatica a far quadrare il bilancio del mese, si continua a spendere denaro pubblico e privato nella maniera più folle.
Si tratta di una gioia semplice, intima, che può convivere anche con momenti di sofferenza e di strazio. Il bambino Gesù è l’immagine di questa fiducia e abbandono alla Provvidenza. Qui va ricordata la parola di Gesù: «chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15). Se noi riusciamo ad affidarci alla Provvidenza di Dio, accettiamo ogni cosa con fiducia, perché fa parte del disegno del Padre.
Il Natale guarda alla Pasqua e il presepio contiene allusioni alla morte e risurrezione di Gesù. Esse erano presenti nella riflessione dei Padri. Così, ad esempio, il tema del legno della croce veniva ricordato dalla culla di legno in cui giace Gesù. Le pecore offerte dai pastori ricordano l’agnello immolato. Anche la Madre che si curva sul Figlio ci richiama alla pietà di Maria che tiene tra le braccia il Figlio morto.
La liturgia ambrosiana si esprime così: «L’Altissimo viene tra i piccoli, si china sui poveri e salva». Dunque, il senso del Natale ci riporta al centro della nostra redenzione e ci procura una gioia che non avrà mai fine. Un simile atteggiamento positivo può convivere anche con grandi dolori e penosi distacchi. So bene che questi sentimenti di dolore sono i segni di grandi ferite, che si riaprono soprattutto in questi giorni. Quando si vede a tavola un posto vuoto, riemerge il mistero del Crocefisso con le sue piaghe.
Ci sarebbe ancora da trattare di come il presepio può essere contemplato anche da non credenti e da atei. Io penso che questo fascino derivi dall’atmosfera profondamente umana che in esso si respira. Una umanità che sa guardare anche al lato invisibile della realtà e si compendia nella preghiera «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini che egli ama» . Buon Natale a tutti!
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI.
Il teologo Vito Mancuso era intervenuto nei giorni scorsi sul tema della questione morale.
Quella che segue è la risposta-riflessione della filosofa Roberta De Monticelli
- di Roberta De Monticelli (l’Unità, 17 dicembre 2010)
Caro Vito, in questi giorni in cui il disprezzo per le istituzioni repubblicane, l’etica e perfino la politica ha toccato il suo zenit, vorrei che cominciassero a riaprirsi le finestre almeno al vento fresco del pensiero. Prendo spunto dalla tua riflessione sulla questione morale (la Repubblica, 11 dicembre), e tento di tradurre in atto lo spirito di libertà, di ricerca e di critica che spero continuerà ad animare la nostra Università, anche con la tua presenza e il tuo aiuto. Nonostante l’ombra che la minaccia: il sospetto che brillanti centri di ricerca come il nostro siano accomunati con un imbroglio come l’università-Cepu, agli occhi del pubblico, dal fatto che attingano anche a risorse pubbliche.
Questo, io credo, tutti i docenti dovrebbero chiedere a gran voce, che fino all’ultimo centesimo l’erogazione di risorse pubbliche sia, in perfetta trasparenza, giustificata in proporzione al merito: ma l’abbiamo fatto? No, non l’abbiamo fatto, o non abbastanza fermamente e chiaramente, tutti, a una sola voce. E perché non l’abbiamo fatto? Per scetticismo. È solo un esempio, quello da cui riparto. Il saggio da cui ha preso spunto la tua riflessione cerca di identificare le radici dello scetticismo pratico che divora la vita civile del nostro Paese.
Lo scetticismo, cioè, che corrode non solo l’etica pubblica, ma ha invaso tutte le sfere dove il nostro agire è guidato dai nostri giudizi di valore. E soprattutto blocca ogni tentativo di ricostruire quella che ho chiamato l’unità della ragione pratica, vale a dire una fondazione nuova, e se possibile feconda di nuove scoperte, dei nessi fra etica, diritto e politica. Intese fra l’altro tutte come sfere aperte anche alla ricerca di conoscenza, cioè in ultima analisi di verità. So di trovarti su questo ultimo punto in sintonia con il mio tentativo.
Ma vorrei che si aprisse una discussione su quello che a me sembra continui a gravare, irrisolto equivoco, su questo tipo di ricerca. Perché da una parte le viene detto: l’etica è l’etica, la politica è la politica, e cercare il nesso fra le due già significa “criminalizzare l’avversario”, preparare lo Stato etico, Robespierre, la virtù e il terrore (interpreto così, magari nobilitandole un po’, le recenti obiezioni di Marcello Veneziani, il Giornale, 27 novembre e 4 dicembre). In altre parole, non c’è possibile radicalità etica, ma solo radicalismo politico, tanto più pericoloso in quanto giustizialista e moralista. Ma dall’altra parte le viene detto: c’è un enigma del male, cui è la politica che è chiamata a far fronte, e a volerlo combattere risvegliando le coscienze alla serietà dell’esperienza morale “si entra in monastero, non nel Parlamento italiano”.
Tu dici giusto: ma “serietà” è in primo luogo una proprietà che si riconosce all’esperienza morale, se la si considera vera esperienza del bene e del male, capace di nutrire vera conoscenza: e se non ricominciamo da qui, se non la prendiamo sul serio neppure noi filosofi, chi mai potrà farlo? A lasciar la mano ai cosiddetti realisti politici non si sta finendo per dire, ancora una volta, che nelle Città e nelle Istituzioni - tutte, comprese quelle del sapere e della ricerca, le nostre università, pubbliche e private, ferite ma anche colpevoli - che la ricerca di ragione e giustificazione là dove impera la forza è cosa da “anime belle”? Ma non è così che nel secolo scorso i filosofi hanno tradito il loro compito, e lasciato la civiltà in mano ai demagoghi?
Ecco: nell’insegnarci a chiedere “perché?” a noi stessi e agli altri, in ogni punto e in ogni momento del nostro dire, ma anche del nostro fare, è il cuore sempre pulsante della ragione e della filosofia. Socrate insegna a Eutifrone che non la tradizione, la religione o il mito sono risorsa normativa, ma lo è il fatto che vediamo il male. Dimenticarlo è una grande parte dell’equivoco, caro Vito: non hanno rimproverato anche a te una sorta di intellettualismo, di ignoranza del male di cui l’uomo è capace, contro il quale appunto nascono etica, diritto, politica? Come se Socrate, come se la filosofia o la ragione ignorassero il dato, il dato stesso che le risveglia: il male, appunto, che sappiamo fare.
Torti, ineguaglianze, illibertà, ingiustizie e altre cose che gridano vendetta.Perché li ha visti, e non perché li ignora, la nostra ragione è in grado di spiegare a ciascuno il perché di una norma che questi torti impedisce, o limita. Lungo la via di Socrate è cresciuto, nell’anima d’Europa, quasi tutto ciò per cui vale la pena di vivere: la libera ricerca nelle scienze e nelle arti. Ma per molto tempo ancora l’etica, il diritto e la politica sono rimasti fuori da questa via. Non sarebbe ora di riprenderla, tutti insieme?
Una festa non ha mai fatto male a nessuno
di Miriam Mafai (la Repubblica, 16.12.2010)
In molte scuole materne italiane si usa, da tempo, celebrare il Natale, preparando assieme ai bambini un presepe o addobbando un piccolo abete per invitare poi le famiglie in classe a scambiarsi auguri, dolci e doni. Ho partecipato spesso a festicciole di questo tipo. Ma come festeggiare il Natale in una scuola materna nella quale giocano e crescono insieme bambini dai 3 ai 6 anni di diversa religione e nazionalità, e dunque non tutti cattolici? Le insegnanti di una scuola materna comunale di Milano che hanno deciso di annullare la tradizionale festa natalizia con la presenza delle famiglie e il rituale scambio di auguri e di doni lo hanno fatto senza dubbio con le migliori intenzioni del mondo (per non offendere o isolare i bambini non cattolici) ma non credo che abbiano preso la decisione giusta.
Il Natale infatti può essere tranquillamente celebrato insieme come una festa comune, con scambio di auguri e regali, senza che ciò rappresenti una offesa, una discriminazione o una minaccia di cancellazione delle diverse identità dei piccoli, cattolici gli uni mussulmani gli altri. Per i primi infatti si celebrerà, con il Natale la nascita di Gesù, figlio di Dio, per gli altri si celebrerà, con il Natale, la nascita di un profeta («su di lui scenda la pace di Allah» recita il Corano).
Il Natale insomma può essere, anche al di là di questi riferimenti al Vangelo e al Corano, una occasione di incontro e di festa per i bambini e le rispettive famiglie di diversa cultura e religione, destinate a vivere crescere e lavorare insieme nel nostro paese nei prossimi anni. È proprio nella scuola materna e in quella elementare che può, deve cominciare una serena convivenza tra bambini di diversa nazionalità, lingua, religione e cultura. Questo processo è già in corso in centinaia di scuole materne ed elementari del nostro paese, dove la presenza di bambini stranieri è in costante crescita, ormai da molti anni.
Secondo dati del ministero non del tutto aggiornati (si riferiscono all ’anno scolastico 2007/08) i ragazzi stranieri che studiano nelle nostre scuole sono 575.000. Di questi 200.000 sono nati in Italia: sono coloro che si definiscono la "seconda generazione", bambini e ragazzi che vivono generalmente nel Nord del nostro paese e nelle aree più dinamiche del Centro, bambini e bambine destinati a crescere nel nostro paese, con i nostri figli e nipoti con i loro stessi gusti e abitudini, che si sentono italiani anche se non professano la religione cattolica.
Torniamo dunque a parlare della scuola materna di Milano, delle insegnanti che hanno creduto di cancellare quella differenza di religione e di cultura cancellando una festicciola a scuola con le famiglie, con qualche recita di poesie e uno scambio di auguri e di regali.
L’intenzione delle insegnanti era, probabilmente, lodevole. Ma non si impara, fin da bambini, a stare insieme cancellando il Natale o le rispettive identità. Al contrario. Si può imparare a stare insieme solo conoscendo e rispettando le diversità e affermando la propria. Se, insomma, fin dai primi anni della scuola, i bambini impareranno che ci sono altre religioni, altre feste, altre abitudini, altri cibi altre lingue. Nelle nostre scuole è giusto ricordare celebrare festeggiare il Natale (e va bene per questo il presepe o l’albero a seconda delle preferenze e delle abitudini). Ma insieme, è bene spiegare ai nostri bambini che esistono altre religioni ed altre feste. Ed è persino possibile celebrarle insieme.
In una società che appare purtroppo sempre più divisa e rissosa, può essere di buon augurio per il nostro futuro che ci siano delle scuole dove i bambini tra i 3 i 6 anni, cattolici e musulmani, festeggino insieme il Natale con le loro famiglie. (In attesa e nella speranza che presto a quei bambini nati in Italia venga riconosciuta la cittadinanza italiana)