Un’ipotesi di ri-lettura della DIVINA COMMEDIA, e un omaggio a Ennio Flaiano e a Italo Calvino
di Federico La Sala
“L’amor che muove il sole e le altre stelle. Ecco un verso di Dante che vede oltre il telescopio di Galilei”, così scriveva Ennio Flaiano nella sua “Autobiografia del Blu di Prussia”. Una forte e bella illuminante idea! Ma, se è così, allora è altrettanto bello pensare che, quando dietro “il telescopio di Galilei”, c’era Galilei, lo sguardo era sempre lo sguardo di Dante ... e di Leopardi (e tantissimi altri e tantissime altre), a proiettarsi oltre: un oltre-uomo, un oltre-mondo, un oltre-dio conosciuto - con Nietzsche. Una sfida e una scommessa: oggi, forse, possiamo ancora riprendere questo ‘sguardo’ carico d’amore... e ri-guardare oltre, oltre la nostra ‘carta’ dell’Uomo, della Terra, e del Dio del passato!!!
L’ipotesi di ricerca e l’idea-guida, semplicemente, è questa: BEATRICE è Bella, la madre di Dante; LUCIA è Gemma, la sposa di Dante; e MARIA è la madre di Gesù. E, come Giuseppe è il padre di Gesù, così BERNARDO (il nuovo Virgilio, il fedele di Maria), è Alighiero II (il fedele di Beatrice) - il padre di Dante! E tutti e tutte, figli e figlie di "Dio", l’AMORE, il "Padre Nostro".
VIRGILIO - pur essendo un romano (“savio gentile che tutto seppe, mar di tutto il senno, virtù somma, sol che sani ogni vista”), è tuttavia come Giovanni Battista - è colui che accompagna Dante dalla “selva oscura” (senza negare l’intervento decisivo di Lucia per giungere in Purgatorio: "I’ son Lucia;/lasciatemi pigliar costui che dorme;/sì l’agevolerò per la sua via") alla “divina foresta spessa e viva” - alla soglia del “paradiso terrestre” e ... al Battistero della nuova città del Fiore, del nuovo e ver-giglio - Firenze (sulla connessione “paradiso terrestre” e Firenze, si cfr. Federico La Sala, “Dante. Alle origini del moderno”).
Con Virgilio, Dante - come Ulisse - è giunto ai limiti delle sue possibilità e del suo orizzonte: è stato un grande discepolo, è diventato un “dio”, il sovrano di se stesso!!!
Dante, con acutezza incredibile e sorprendente, fa di Virgilio ciò che Marx farà - nella sua tesi di laurea - di Epicuro: il maestro della "scienza naturale dell’autocoscienza"!
E, così, Virgilio non può che assegnargli le meritate chiavi del potere temporale (corona) e del potere spirituale (mitria) della sua ‘casa’ (“libero, dritto e sano è tuo arbitrio, e fallo fora non fare più a suo senno: per ch’io sovra te corono e mitrio”) e, nello stesso tempo, ri-affidarlo a Beatrice e salutarlo ... La divinità di se stesso è condizione necessaria, ma non sufficiente. Per conoscere se stessi, bisogna andare oltre, oltre se stessi... Oltre Kant, oltre Hegel, oltre Marx, oltre Nietzsche - oltre l’alleanza edipica (Freud)!!!
L’incontro con Matelda e la conseguente ri-nascita portano finalmente il neo-nato Dante alla vista dei “due luminari”, dei “due Soli” - il ‘padre’ e la ‘madre’ , al nuovo-incontro con BEATRICE, la ri-trovata madre Bella - e, poi, con san BERNARDO (il nuovo Virgilio) , il ri-trovato padre Alighiero II, che - con le ali e la vista di aquila, date dalla preghiera e dalla contemplazione della giustizia - lo innalza e lo guida fino alla conoscenza diretta di “Dio” - “ L’Amore che muove il Sole e le altre stelle” - da cui acquista virtù e conoscenza - nuove ..... che fanno di Dante - sulla scia Gesù, come di Francesco e di Chiara di Assisi - un Figlio di “Dio” e, così (come già era avvenuto per Francesco) un cristiano i-n-a-u-d-i-t-o - che ri-trova e ri-attiva (oltre la “corona” e il “mitrio” di Virgilio) l’incompreso e negato “ordine di Melchisedech” (sul tema, cfr. la nota - in occasione del FESTIVAL DI FILOSOFIA - su MELCHISEDECH A SAN GIOVANNI IN FIORE, TRA I LARICI “PISANI”).
Per chi è diventato come Cristo, un nuovo re di giustizia e un nuovo sacerdote, non resta che denunciare tutta la falsità (con CATONE, "Cristo" del Logos antico - oltre: non della donazione, ma) delle fondamenta stesse dell’intera costruzione teologico-politica della Chiesa di Costantino - e ri-indicare la direzione eu-angélica a tutti gli esseri umani, a tutta l’umanità!!!
Per sé e per tutti gli esseri umani, Dante ha ri-trovato la strada: ha saputo valicare Scilla e Cariddi, andare oltre le colonne d’Ercole ... e non restare all’inferno! La memoria del mondo (Calvino) è stata ri-conquistata! In principio era il Logos - identità e differenza: ha ri-capito il cerchio della vita e delle generazioni e ha ri-trovato tutto e tutti, e Lucìa - Gemma. Maria Antonia, la figlia di Dante e Gemma, diviene suora: prende il nome di BEATRICE ...
E’ il tempo di Giovanni XXII, e del Cardinale Del Poggetto. Firenze ha condannato Dante all’esilio perpetuo, la Chiesa lo condanna a morte per eresia - si brucia la “Monarchia”, si vogliono bruciare le sue ossa ... Ma la memoria non si perde e il filo non si interrompe: “Amore è più forte di Morte” (Cantico dei cantici: 8.6 - trad. di G. Garbini)!!! Manzoni aveva intuito e, forse, sapeva; e - come Dante - si rimette in cammino e cerca di ritrovare la strada: Renzo e Lucia - I Promessi Sposi!!!
Anche il cardinale Roncalli sicuramente ricordava: divenuto papa, prenderà il nome di Giovanni XXIII ... e cercherà di correre ai ripari. Una nuova Chiesa, per credenti e non-credenti, che sappia essere finalmente, “Mater et Magistra” ... come la Maria di Gesù e la Beatrice di Dante! “Pacem in terris”: un nuovo Concilio, subito!!!
Tuttavia, dentro la Chiesa, si capisce e non si capisce, si vuole e non si vuole camminare sulla diritta via!!! Le tentazioni sono molte: ma “Maria - Beatrice” rimprovera e sollecita. Il cuore di Wojtyla risponde - Assisi, 1986!!! - ma subito la sua testa viene ‘imprigionata’ da tutta la gerarchia del ‘sacro romano impero’!. Tuttavia, dall’inizio alla fine ha lottato, come un leone. Basta: “lasciatemi andare”!!! Egli sapeva dell’ Italia - il giardino dell’ Impero, della “Monarchia” di Dante. Non a caso, grande è stata la sua amicizia con Carlo Azeglio Ciampi, il nostro Presidente della Repubblica - egli sapeva che la Costituzione della Repubblica Italiana era ed è la nostra “Bibbia civile”. Pater et Magister!
W O ITALY ... Dopo di lui, in Vaticano, è tornata la confusione, la paura, e la volontà di potenza e di dominio. Un delirio grande, al di qua e al di là del Tevere, ma La Legge dei nostri ‘Padri’ e delle nostre ‘Madri’ Costituenti è sana e robusta ... Dante è riascoltato a Firenze, come in tutta Italia - e nel mondo. Anche nel Pakistan - memori del “Poema Celeste” (Mohammed Iqbal) - la Commedia non è stata dimenticata!!!
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Questa è la proposta di lavoro - una indicazione ’comica’: un ‘piccolo’ lavoro di spostamento delle relazioni dei ‘pezzi’ - e l’intero mosaico dell’opera, forse, porterà alla luce significati sorprendenti. Una Vita Nuova, per l’Italia e per la Terra? Boh?!
Nel frattempo, e già, non possiamo che cominciare a pensarci e a ri-prendere la ‘relazione’ del viaggio dantesco, per ri-considerare di nuovo e meglio le nostre amorose radici ... cosmicomiche - non cosmitragiche! Italo Calvino aveva perfettamente ragione, contro tutti i fondamentalismi terrestri - e celesti!!! Via, ri-prendiamo: ri-iniziamo ... Oh! La Commedia, finalmente! (12.09.2006).
Federico La Sala
Sul tema, in modo più ampio, si cfr. il "quaderno":
Lupi, pecore, pastori?! Un NO per il REFERENDUM. 25 GIUGNO:
SALVIAMO LA COSTITUZIONE E LA REPUBBLICA CHE E’ IN NOI
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Nel 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza ...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)? O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” e “Mammona” o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ... e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemblea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
Su COSA SIGNIFICA ESSERE ITALIANI ED ITALIANE, nel sito, si cfr.
LA LEZIONE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI - di PIERO CALAMANDREI.
LA COSTITUZIONE, LA NOSTRA "BIBBIA CIVILE"
Federico La Sala
TEATRO (STORIA) E METATEATRO (METASTORIA).
Psicoanalisi della società contemporanea e "Disagio della civiltà" (1929): un segnavia per oltrepassare "Scilla e Cariddi", le colonne d’Ercole, e non naufragare (Ulisse).
ARCHEOLOGIA E LETTERATURA: UNA "BIBLICA" TRAGEDIA. Edipo (Mosè e Gesù) e il problema dell’#identificazione con il #Padre (#Re). Se esiste un "complesso di Edipo", dovremmo avere anche un "complesso di Laio" (Paul Adrian Fried, cit.) ... certamente! Si cfr. "Il complesso di Laio. I rapporti famigliari nei disegni dei ragazzi" di Tilde Giani Gallino, Einaudi, 1977).
AL DI LA’ DEL "MATRIARCATO" E DEL "PATRIARCATO" (J. BACHOFEN, 1861): OLTRE LA COSMOTEANDRIA. Tuttavia, a mio parere, senza la comprensione antropologica della "scena primaria" (#Otto Rank, 1915) della hamletica #Mousetrap (III.2) non è possibile comprendere tutta l’importanza del programma di "Amleto" ed "#Ofelia" (e dello stesso "sogno" di Freud) di portarsi al di là delle #ombre del "padre" (re) e della "madre" (regina) e di divenire ed essere cittadino-sovrano e cittadina-sovrana dello "stato di Danimarca".
QUALE "PRESEPE"?! "THAT IS THE #QUESTION": UNA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA, E TEOLOGICO-POLITICA, DI ESSERE O NON ESSERE, NON SOLO DI PSICOLOGIA O SOCIOLOGIA, ALL’ORDINE DEL GIORNO DEL #PIANETA TERRA.
Natività della Vergine Maria.
Dalla nascita la nostra vita è un progetto di santità
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 8 settembre 2024).
Celebrare la nascita di Maria significa fondamentalmente ricordarci che la nostra vita nasce da un progetto e la cui meta è solo la santità. Realizzare ciò per cui siamo venuti al mondo, e quindi testimoniare la radice della nostra esistenza, significa diventare santi. È questa verità fondamentale che la devozione popolare ha sempre colto nella storia di Maria, il cui cammino è un itinerario di santità, di un’umanità realizzata. Questa ricorrenza, nata in Oriente e introdotta in Occidente nel VII secolo da papa Sergio I, è come l’aurora che preannuncia l’arrivo della luce solare: non a caso, infatti, solo di Maria e di san Giovanni Battista - oltre che di Gesù - si ricorda la nascita. -In una sorta di “pedagogia liturgica” radicata nel comune sentire della fede popolare, la festa di oggi ci ricorda che la nostra vita ha un inizio che ci è stato dato in dono e una fine, l’abbraccio nell’amore infinito di Dio, che dobbiamo “conquistare” ogni giorno con le nostre scelte ma soprattutto con il nostro “sì” a Dio sull’esempio di Maria.
Anche per questo motivo la ricorrenza odierna viene presa come portale d’introduzione all’anno pastorale: in questo modo si ricorda che l’attività della Chiesa altro non è che frutto dell’impegno a portare Cristo nel mondo ogni giorno.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853). Letture. Romano. Is 35,4-7; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37. Ambrosiano. Is 63,7-17; Sal 79 (80); Eb 3,1-6; Gv 5,37-47. Bizantino. Gal 6,11-18; Gv 3,13-17.
STORIA #ANTROPOLOGIA #FILOLOGIA E #TEOLOGIA DELLA CHIESA: ALBINO #LUCIANI, PAPA #GIOVANNI PAOLO I , E IL PRIMATO DELLA CARITA’ ("CHARITAS") SUL GIURIDISMO. In memoria di #Simone Weil ...
"ANNIVERSARIO. Beato Giovanni Paolo I, oggi prima #memoria liturgica:
NOTE:
VITA E FILOSOFIA, STORIOGRAFIA, #FILOLOGIA, E "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO): IN #PRINCIPIO ERA LA VITA, NON LA MORTE.
FISICA E #METAFISICA. CON #KANT (#DANTE #MARX E #HUSSERL), RICORDANDO LA LEZIONE DI #EPICURO:
"[...] Abítuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere piú. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il piú terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono piú. Ma i piú, nei confronti della morte, ora la fuggono come il piú grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i piú abbondanti, ma i migliori, cosí del tempo non il piú durevole, ma il piú dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c’è nella vita, ma perché uno solo è l’esercizio a ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice: “bello non esser nato, / ma, nato, passare al piú presto le soglie dell’Ade”. [...]" (Epicuro, "Opere", "Epistola a Meneceo", Einaudi, Torino, 1970, pp. 62-63).
NOTE:
"BILDUNGSROMAN" E VIDEOGIOCHI: PERCHE’ "DANTE VS. RENZO TRAMAGLINO" STRAVINCE?!
UNA CARTINA DI TORNASOLE PER UNA QUESTIONE DI "ARCHEOLOGIA" LETTERARIA E FILOLOGIA DANTESCA E MANZONIANA.
IN UN BRILLANTE INTERVENTO, apparso su "Insula Europea", il 25 Luglio 2022, CON IL TITOLO «Salvare la “principessa” nei videogiochi: Dante vs. Renzo Tramaglino», l’autrice, Teresa Agovino così scrive:
CON DECISIONE E CHIAREZZA, L’AUTRICE HA FATTO LE DOMANDE GIUSTE, MA LA RISPOSTA NON RISOLVE E NON HA RISOLTO IL PROBLEMA: LA LINGUA CONTINUA A BATTERE DOVE IL DENTE DUOLE. CONTRARIAMENTE A QUANTO SI INSISTE A PENSARE DA 700 ANNI E PIU’, DANTE ALIGHIERI è GIA’ SPOSATO (SUA MOGLIE E’ GEMMA DONATI: nella "Commedia" la "persona" di "LUCIA"; e SUA MADRE, #BELLA, è la "persona" di "BEATRICE", la donna "beata", che va a sollecitare la "persona" di "Virgilio" a correre in aiuto del figlio); RENZO TRAMAGLINO, invece, e LUCIA MONDELLA sono "i promessi sposi", appunto.
SE QUESTA E’ LA "SITUAZIONE", QUI E ORA ("OGGI", E NON FRA MILLE ANNI), NON "SAREBBE, dunque, interessante - come scrive sempre l’autrice - aprire una prospettiva di condivisione tra il mondo accademico dei manzonisti e quello videoludico dei produttori/giocatori (come già ha in parte ben tentato di fare Toniolo) in favore di una nuova idea di gaming legata" (cit.) a una nuova prospettiva storiografica di lettura dell’una come dell’altra opera - e quella di "Dante" e quella di "Renzo Tramaglino"?!
STORIA E STORIOGRAFIA. E’ MAI POSSIBILE, che dopo più di 700 anni, si continui a pensare che Dante, nel mezzo del cammino della sua vita, perseveri nel suo sognare "Beatrice" come la sua "principessa"; e, ancora, che la figura della "Lucia" di Renzo non abbia alcun legame manzoniano con la "Lucia" di Dante?! Forse non è meglio svegliarsi dal sonno dogmatico filologico e cominciare a "mettere nuove carte in tavola" e fornire nuove coordinate storiografiche ai costruttori di videogiochi per far meglio "giocare" i ragazzi e le ragazze del tempestoso tempo presente sia nello spirito critico della "Divina Commedia" sia dei "Promessi Sposi"?! Così sia (per non arrossire)!
NOTA:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO, E LA FILOSOFIA. UNA NOTA PER NON PERDERE DEFINITIVAMENTE LA BUSSOLA TRA I VARI CATTOLICISMI (ATEI E DEVOTI) E PER "ORIENTARSI NEL PENSIERO", SULLA #HAMLETICA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA (#KANT, 1800).
IN VIAGGIO CON #ULISSE: "CONSIDERATE LA VOSTRA SEMENZA" (INF. XXVI, 118), "COME NASCONO I BAMBINI"?
L’ALLEANZA DI #FUOCO, L’AMORE, E LA "DIVINA COMMEDIA": UN SEGNAVIA PER USCIRE DALLA "PREISTORIA"! UNA NUOVA #ANTROPOLOGIA E UNA NUOVA TEOLOGIA-POLITICA: "#MARIA" E "#GIUSEPPE" UGUALI DAVANTI A "DIO" (#AGAPE, #CHARITAS).
RIPARTIRE DAL "#PRESEPE" (#FRANCESCO DI #ASSISI, 1223).
L’AMORE DI "#DUE SOLI" (#DANTEALIGHIERI) E IL
BAMBINO: "ECCE #HOMO" (#CRISTOLOGIA).
NOTE:
"SHAKESPEARE GLOBE", ELIOCENTRISMO, E "RIVOLUZIONE COPERNICANA" (KANT): FILOSOFIA (GIUSTIZIA - LOGOS), CRISTIANESIMO (AMORE - "AGAPE"), E CATTOLICESIMO (NICEA 325 -2025). Con (Parmenide ed Eraclito e) Aristotele, oltre: "In principio era il Logos" (Gv. I.1) - non un Logo.
PREMESSO CHE la #question #hamletica è storica e storiografica e che, per comprendere il lavoro di Shakespeare, forse, è opportuno pensare il rapporto tra "Shakespeare, Christianity, and Aristotele’s Poetics" all’interno di un contesto europeo segnato dalla Riforma Protestante, dalla Riforma Anglicana, e dell’attacco cattolico-spagnolo all’Inghilterra della Regina e Papessa, Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, e dalla Rivoluzione astronomica e scientifica, aperta dall’opera di Copernico, e rilanciata alla grande da Tommaso Campanella e da Giordano Bruno, condannato come eretico e bruciato sul rogo (17 febbraio 1600).
CONSIDERANDO IL CONTRIBUTO (ASSOLUTAMENTE "MODERNO", COME HA SCRITTO UNA VOLTA LO STORICO DELLA FILOSOFIA GILSON) DEL COSIDDETTO #MEDIOEVO DELLA "PRIMA #RINASCITA" (GRAZIE A FRANCESCO D’ASSISI, GIOACCHINO DA FIORE, E DANTE ALIGHIERI) E IL RAPPORTO DI DANTE CON "IL #MAESTRO DI COLOR CHE SANNO" (Inf. IV, 131), c’è da dire e da pensare che tra Aristotele e Shakespeare (come con lo stesso Dante) c’è molta amicizia, nello spirito dell’antico e nuovo Logos (e non del #Logo di una azienda personale).
NEL PORRE AL CENTRO DELL’#AMLETO la questione antropologica (e cristologica), Shakespeare pone "aristotelicamente" un problema di #legalità e di #giustizia e di #verità: la #critica al "nuovo" Re e Padre, che è un impostore, un mentitore, e un assassino, e l’introduzione nell’opera teatrale moderna (lo stesso "Hamlet") di un’opera teatrale "aristotelica", "The Mousetrap" ("La trappola per topi"). La Rivoluzione inglese è già iniziata...
SCIOLTO QUESTO NODO E, DANDO A SHAKESPEARE CIO’ CHE DI SHAKESPEARE E DI ARISTOTELE CIO’ CHE E DI ARISTOTELE, e, ancora, chiarito che il principe "Amleto" è figlio del "Re Amleto" e della "Regina Gertrude", si può senz’altro condividere l’opinione che "[...] for Aristotle, tragedy is amoral: it’s like the process of legal discovery that occurs in a court of law." (Patrick Grey).
NOTA:
PER UNA PENTECOSTE IN UN PIANETA TERRA IN FIORE: COME NASCONO I BAMBINI (20MAGGIO2024).
ARTE IMMAGINAZIONE ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA...
"DIVINA COMMEDIA" (#DANTE2021). Flavio Piero Cuniberto, in una nota di commento all’opera di "Andrea Orcagna (e Jacopo di Cione), Pentecoste, 1362-1365; Firenze, Gallerie dell’Accademia" intitolata "La pentecoste fiorentina", scrive e sollecita a pensare:
Ma, una domanda (una "question" hamletica) sorge "spontanea", come mai nella tradizione iconografica dell’altro "Vas d’elezione" (dell’altro «strumento della scelta»), lo sposo di Maria ( la stessa Madre di Gesù e della Chiesa della intera "umanità", la nuova #Eva) quello con l’altro ramo del #giglio, quello "offerto dall’Arcangelo" proprio di colui che è il "Vero_giglio", il "Vir_gilio", l’Uomo ("Vir") con il ramo altrettanto fiorito, il #padre di #Gesù, quel "#Giuseppe", della "casa di Davide" ("de domo David"), e si parla solo del "Vas" paolino (Atti ap., IX, 15)?!
A che edipico gioco giochiamo? Non ha forse ragione #Dante Alighieri ("io non Enea, io non Paulo sono ") con la sua "Monarchia" dei #DueSoli, Shakespeare con il suo "Amleto, #Nietzsche con il suo "Zarathustra"?! E #Freud con la sua "Interpretazione dei sogni?! Jakob #Böhme, cosa pensava del tempo in cui allo #sposo sarà possibile finalmente incoronare la #sposa, non pensava a un nuovo "mondo #possibile", a un #sorgeredellaTerra (#Earthrise), e a #Gioacchino da Fiore - per "caso", per "#charitas"?
NOTE:
"DUE SOLI", A #GLORIA E A #MEMORIA DI #DANTE, UN "#ALBERO" SEMPRE VERDE DEL #PIANETATERRA:
#ENIGMISTICA #CRUCIVERBA, #FILOLOGIA E #ANTROPOLOGIA #POLITICA.
Una breve nota alla parte iniziale del primo capoverso del Libro Primo del capitolo I della #Monarchia di #Dante Alighieri:
RILEGGENDO #OGGI QUESTE CHIARISSIME PAROLE DI AVVIO DEL "DISCORSO" E, CONTEMPORANEAMENTE, GUARDANDO DAL #TEMPO IN CUI è stata scritta l’Opera, appunto, la #Monarchia, non c’è che da riferire allo stesso Autore , cioè #DanteAlighieri, la "visione profetica" incorporata nella citazione dei versi ripresi dal testo biblico: "Sarà come albero piantato lungo corsi d’acqua, /che darà frutto a suo tempo /e le sue foglie non cadranno mai; / riusciranno tutte le sue opere" (Salmi, 1.3); RINGRAZIARLO E, POSSIBILMENTE, CERCARE DI CAPIRE MEGLIO LA SUA PROPOSTA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA, SINTETIZZABILE NELLA #FORMULA PARADIGMATICA DEI "#DUE SOLI".
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"DUE SOLI" IN #TERRA, E UN SOLO #SOLE IN CIELO: "#TRE SOLI". #GENERE UMANO: "I SOGGETTI SONO DUE, E TUTTO E’ DA RIPENSARE"! NON SOLO SUL PIANO TEOLOGICO-POLITICO .
ARTE #FILOLOGIA E #ICONOLOGIA (#25MARZO 2024):
DANTE ALIGHIERI, IL #PONTE DELLA #TRINITA’ (#HOLIDAY), LE "#TREMARIE" (#MARIA: LA MADRE DI #GESU’; MARIA #BEATRICE: #BELLA, LA #MADRE DI #DANTE; E MARIA #LUCIA: #GEMMA DONATI, LA #MOGLIE DI DANTE), E "#VIRGILIO" (LA #FIGURA DEL "#PADRE" DI DANTE).
"VERITA’ E #INTERPRETAZIONE". "Dante incontra Beatrice al ponte Santa #Trinita": l’opera del pittore preraffaellita #HenryHoliday, alla luce delle parole di #Virgilio e di una #ipotesi generale di "ri-lettura" della #DIVINACOMMEDIA:
LA "STORIA" DEL "CAPRO ESPIATORIO" (RENE’ GIRARD): COME UN ARIETE, UN MONTONE, DIVENNE UN "CAPRONE".
PRIMAVERA2024, #21MARZO: UNA "NOTA" SULLE "COSE NASCOSTE SIN DALL’ORIGINE DELLA FONDAZIONE DEL MONDO" (Mt. 13, 35).
Ariete ♈️: #25marzo (#Dantedì). Considerando (e accogliendo) astrologicamente che da #oggi "il segno dell’Ariete, simbolo per eccellenza dell’#Equinozio di Primavera", è il #segno "che ci accompagnerà fino al 20 aprile, e che la sua "figura mitologica si collega al Dio primaverile che nelle varie culture poteva rappresentare colui che apre l’anno, colui che abita il bosco sacro, il guardiano del Ponte #Arcobaleno, colui che si sacrifica, ecc." e, ancora, che l’ Ariete "è un segno cardinale di fuoco, governato da #Marte e opposto al segno della #Bilancia" (#LeaCimino, "#Calendariopagano"), forse, è opportuno ricordare che l’Ariete ė una delle figure centrali della storia dell’immaginario occidentale, decisiva per la comprensione stessa non solo dell’importanza dell’ impresa di #Giasone alla ricerca del "Vello d’Oro", come della fuga di #Ulisse dall’antro di #Polifemo, ma anche e soprattutto della "Divina #Commedia" di #DanteAlighieri (e della stessa possibilità di uscita dall’orizzonte della tragedia e dall’inferno, a tutti i livelli).
ARCHEOLOGIA FILOLOGICA A E ANTROPOLOGICA. BENCHE’ SULLA IMPORTANZA DELLA FIGURA DELL’ARIETE SI SIA IN UNA CONFUSIONE "BESTIALE", E SI FACCIA FINTA DI NULLA, FORSE, VALE LA PENA PRENDERE ATTO DI UNA ELOQUENTE "RISPOSTA" DELL’ANTROPOLOGO RENE’ GIRARD.
Per Girard (ma così per tutte le storiche Accademie della tradizione culturale europea), un capro, un "capro espiatorio», non è altro che l’«#agnello di Dio», il #Figlio del "Padre Nostro":
"DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929). René Girard confonde ’ciecamente’ i livelli e nega l’immortale acquisizione di Sigmund Freud. L’ "edipo completo" permette di capire la rivalità dei #fratelli (e delle #sorelle) e lo stesso messaggio evangelico, non viceversa. L’incomprensione della lezione di Freud spinge ad una cieca apologia del cattolicesimo costantiniano (#Nicea 325 - 2025): il #cristianesimo non è un cattolicismo... e in #Principio non c’era un #Logo (altrimenti, si cade e si ricade sempre e ancora tra le "braccia" del ’tragico’ #caprone)!
ARTE RELIGIONE STORIA ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA DEL RINASCIMENTO:
LORENZO LOTTO (1480-1556).
A MIO PARERE, LORENZO LOTTO MERITA ATTENZIONE CULTURALE E STORIOGRAFICA: LA LUNGA ONDA DELL’#INTERPRETAZIONE UMANISTICO-RINASCIMENTALE DEL MESSAGGIO EVANGELICO, COME DI UN #CAMMINO #PARALLELO DI #PROFETI E #SIBILLE, CHE ARRIVA MAGISTRALMENTE CON [MICHELANGELO BUONARROTI FINO IN CIMA ALLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA, E, CON LORENZO LOTTO, GIUNGE CON I PROFETI E LE SIBILLE DELLA "CAPPELLA SUARDI", NELLE OPERE DEL "CICLO LAURETANO", ALLA SANTA CASA DI LORETO, ALLA CASA DI MARIA E GIUSEPPE, E ALLA "ADORAZIONE DEL BAMBINO".
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STORIA E LETTERATURA ANTROPOLOGIA E "SAPERE AUDE!" (#KANT2024): CON #DANTE ALIGHIERI, OLTRE I "#BUCHI NERI" E I "BUCHI BIANCHI".
DIVINA COMMEDIA: "ULISSE", SEGUENDO LA LINEA DELLA CADUTA DI LUCIFERO, ESCE FUORI DALL’IMBUTO DELL’ INFERNO TERRESTRE E RIPRENDE LA NAVIGAZIONE NELL’OCEANO CELESTE. Alcuni appunti sul tema...
COLLOCANDOSI "Dentro l’orizzonte" di Carlo Rovelli, contrariamente a quanto egli pensa, a ben interpretare il suo convincimento relativo al fatto che, "Dopo aver salito la montagna del Purgatorio Dante perde Virgilio [la paterna guida], ma in quello stesso momento, travolto dall’emozione, vede apparire Beatrice - conosco i segni de l’antica fiamma!" (C. Rovelli, "Buchi bianchi", Adelphi 2023, pp. 74-75 ), forse, è opportuno e precisare (dopo secoli) che "conosco i segni dell’antica fiamma!" (Pg. XXX, 48) sono parole di un figlio, Dante, rivolte alla sua paterna guida (vv. 50-52: "Virgilio, dolcissimo patre, /Virgilio a cui per mia salute die’mi; né quantunque perdeo l’antica matre"), nel momento stesso in cui riconosce la "#bella e #beata" (Inf. II, 53), #Beatrice, la guida materna, e "vola al di là dello spazio e del tempo" (C. Rovelli, cit., p. 75).
A questo punto, al di là di quanto generalmente si è pensato e si pensa ancora, è bene riconoscere che "i segni della fiamma antica" non rimandano affatto a una #Didone-Beatrice, ma, più precisamente, a "#Ulisse", "Lo maggior corno della fiamma antica" (Inf. XXVI, 1), che in questo caso, accompagnato dal padre, riconosce e ritrova "la antica matre" (Eva) e la nuova #madre, la giovane #Maria-Beatrice, e... Sé stesso, divenuto un #altro #Cristo - antropologicamente e cristianamente (al di là della teandrica logica di #BonifacioVIII)!
DANTE ALIGHIERI, Purgatorio, XXX, 55--57, 73-84:
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;
ché pianger ti conven per altra spada».
[...]
«Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice.
Come degnasti d’accedere al monte?
non sapei tu che qui è l’uom felice?».
Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte;
ma veggendomi in esso, i trassi a l’erba,
tanta vergogna mi gravò la fronte.
Così la madre al figlio par superba,
com’ella parve a me; perché d’amaro
sente il sapor de la pietade acerba.
Ella si tacque; e li angeli cantaro
di subito ‘In te, Domine, speravi’;
ma oltre ‘Pedes meos’ non passaro.
(Dante Alighieri, Purg. XXX, vv. 55-57, 73-84)
L’ #ODISSEA DI DANTE ALIGHIERI. Nella loro indagine scientifica e antropologica, "Il #Mulino d’#Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo" (Adelphi 1983 e 2003), Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend, hanno già detto parole fondamentali sull’inaudito legame "cosmoteandrico" (antropologico, cosmologico, e teologico) nella visione e nella "scelta esistenziale dell’uomo Alighieri. I poeti non sanno custodire la loro verità. Ulisse che si mette in viaggio verso sud-ovest in un ultimo, disperato tentativo predestinato dall’ordine delle cose al fallimento, che cerca di raggiungere «il mondo sanza gente» e viene inghiottito dal gorgo in vista della meta: eccolo il simbolo. Ed è rivelato non dal pensiero cosciente del poeta, ma dalla potenza degli stessi versi, così incomparabilmente remoti, come luce proveniente da un «oggetto quasistellare». [...] egli fu colui che volle fino all’ultimo, anche contro Dio, acquistare esperienza e conoscenza. La sua nobiltà luciferina rimane nella nostra memoria più della suprema armonia dei cori celesti" (op. cit.).
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B) - NUOVI ORIZZONTI LETTERARI. Né realismo né fantasie. Allo scrittore piace farlo strano: "[...] Sperduti nella selva. Il ‘900 si apre con la confessione di Kafka a Milena. Questi vorrebbe solo posare la guancia nel conforto luminoso e rasserenante, ordinario offerto della mano dell’innamorata, eppure egli avverte anche il continuo oscuro richiamo alla “selva, a questa origine, a questa vera patria”. Impossibile per un lettore italiano e non solo evitare la suggestione dell’avvio immaginativo di un altro padre fondatore della letteratura moderna, 600 anni prima. Anche Dante aveva preso le mosse dalla “selva”, luogo del traviamento, dell’informe, declinazione continentale del mare oscuro per generazioni di europei, passaggio di tutte le “incertezze della ioventude”, nelle sue stesse parole, ma anche luogo iniziatico delle avventure cavalleresche, dei loro bivi e sentieri ambigui. E, ovviamente, incipit di innumerevoli fiabe.
L’intera “Commedia” è una sorta di potatura, che per giungere alla purezza della Candida Rosa deve passare da un Giardino dell’Eden laddove Dante capisce che in fondo la selva era lui stesso (Purg. XXX, 118-20). Ma il carattere di sperimentazione e ibridazione permangono fino all’ultimo verso, nella sua perenne fusione di realismo, fantastico, teologia della storia, “quest” eroica, memoir proustiano e itinerario mistico-visionario. Un’operazione sperimentale, spiazzante persino a quei tempi. In essa è possibile ravvisare semi e fermenti che poi, al pari delle sentenze della Sibilla, si sparpagliano al vento, e ognuno afferra quel che riesce.
Per C. S. Lewis la scalata di Lucifero e l’inversione dei poli al centro della terra costituiva la prima grande scena di fantascienza dell’era moderna, secoli prima di Jules Verne. Col senno di poi, la foresta attorta e sanguinante dei suicidi di Inferno XII ove le Arpie “versi fanno in su li alberi strani”, con tutta l’ambiguità di quello “strano” che sembra riferirsi tanto alle strida che ai rami, pare davvero condensare tutte le bizzarrie biologiche dell’Area X del lovecraftiano Jeff Vandermeer. Petrarca non solo rifiuterà un simile coacervo di sperimentazioni e fusioni ma compirà un’opzione, urlare i suoi gabbiani dei circoli polari con voce sinistra, umana. “Tekeli-lì, Tekeli-lì.” E sarà proprio quel grido a essere ripreso dal suo erede H. P. Lovecraft per tratteggiare la propria mitologia d’orrore cosmico su “Weird Tales”.
[...]
La guerra tra fantastico e realistico è finita, o è cambiata. Siamo tornati nella Selva, tra rami spezzati, fruscii, minacce, fantasmi soccorritori che ci tengono forse la mano e propongono “un altro viaggio”. E molti sentono che per raccontarlo occorre non essere semplicemente ciechi e per questo poeti, come già il gran padre Omero, ma pure “uomo e donna” come Tiresia il veggente, abbattere così ogni steccato, rifiutare persino la dialettica feconda tra opposizioni, giacché “ogni vera conoscenza è sempre un sacrilegio”. È così che Nietzsche descrisse la dolorosa vocazione di Prometeo ed Edipo." (EDOARDO #RIALTI, "Il Foglio", 02 mag. 2023).
COSMOLOGIA #ARTE #ANTROPOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: MEMORIA DELLO "SPOSALIZIO DI GIUSEPPE E MARIA" (#23GENNAIO) E UN "VECCHIO" INVITO AD ACCOGLIERE IL "MORMORIO SOTTILE" DELL’OPERA DI DANTE ALIGHIERI.
STORIA E LETTERATURA: #RICAPITOLAZIONE E #POESIA. Dopo le sollecitazioni "#cosmicomiche" (#ItaloCalvino) di #DanteAlighieri a uscire dal "#letargo" (Par. XXXIII, 94), forse, è proprio il tempo di riaprire la #Commedia e non rinchiuderla per sempre nell’orizzonte del "#Boccaccio" e del "#Petrarca"; e, togliendo le virgolette al "Perché non possiamo non dirci «cristiani»"(Benedetto Croce, 1942), comprendere antropologicamente, che, come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO": e, riprendere proprio quel filo perduto (quel "#paradigma perduto") che collega benevolmente e cosmologicamente il passato e il presente, l’alto e il basso, il sopra e il sotto, e #cielo e la #terra: in principio era il #Logos...
#FILOLOGIA E #AMORE (#CHARITAS), NON #MAMMONA (#CARITAS)! Dante non "cantò i #mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore "che muove il Sole e le altre stelle".
NOTE:
MITO, ANTROPOLOGIA, STORIA, LETTERATURA, E STORIOGRAFIA: IL POMO DELLA DISCORDIA...
LA TERRA, L’AMORE COSMOGONICO DI DANTE ALIGHIERI, IL "CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI" DI ITALO CALVINO, E LA "FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO" DEI "DUE SOLI".
UNA QUESTIONE "COSMICOMICA", A QUANTO PARE, SEGNATA DALLA "PAURA" (E DALLA CONSEGUENTE "CADUTA" in una "SELVA OSCURA", in uno"stato di minorità" ) E’ DIVENTATA "BIBLICAMENTE" COSMOTRAGICA: ""Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto" (Gn "3, 8").
Probabilmente, aveva ragione #GiordanoBruno nell’avanzare la teoria che si trattava di un tempo "fuori dai cardini", che era un problema di ordine cosmico, di riforma cosmologica ("Lo spaccio della bestia trionfante") e dopo, al contempo, #Lessing, nel porre all’ordine del giorno la questione di #educazione del genere umano.
Kant, da parte sua, riprendendo il discorso e riannodando insieme il "cielo stellato" e la "legge morale", dice che è soprattutto una questione di maturità, e a chi non vuole sentire ragioni, risponde con determinazione, con e come #Orazio: "#sàpere aude!" (risolviti ad assaggiare"), esci dal tuo personale "stato di minorità", e fà un buon uso della tua propria facoltà di giudizio, senza avere di nuovo e ancora paura: "Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra. Ecco ciò che è tuo!".(Mt. 24-25).
FORSE "LA TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI" (CALVINO) E I "DUE SERPENTI" DEL CADUCEO (DI ERMES/MERCURIO), con i DUE SOLI di Dante Alighieri, ripensati con "IL #MULINO DI AMLETO" (di Giorgio Diaz de Santillana e Hertha von Dechend), e, non ultimo, con lo stesso "AMLETO" (di William #Shakespeare), possono aiutare a focalizzare meglio l’orizzonte spazio-temporale cosmico e le "regole del gioco" entro cui si danno "le disavventure di Eros".
DA considerare e non dimenticare che la memoria di #Demetra - Cerere (Eleusi) è più viva che mai (se pure in gran pericolo) e che le sue "disavventure" sono iniziate proprio da un intervento voluto da #Afrodite-#Venere e da #Eros - #Cupìdo che, come ha ben visto Dante, ha un suo orrizzonte cosmicomico: "è l’amore che muove il sole e le altre stelle".
NOTA
#Eleusis2023 #Buon2024...
ALL’ORIGINE DELLA "GUERRA DI TROIA", LA STESSA "STORIA" DEL "GIOCASTOLAIO" EDIPO:
MATEMATICA, ANTROPOLOGIA, E ARCHEOLOGIA FILOLOGICA E FILOSOFICA: 1+1=1.....
DA UNA ENCICLOPEDICA "VOCE " DI "DONNA": "[...] Un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1979),
UNA #HAMLET-ICA #DOMANDA. CHI HA SCRITTO il "#Discorso sull’origine e i fondamenti dell’#ineguaglianza tra gli uomini" ("Discours sur l’origine et les fondements de l’#inégalité parmi les hommes")?
NON è il "caso" di ripensare il "Problema Jean-Jacques #Rousseau" e interrogarsi di nuovo e ancora su "#comenasconoibambini" (come da sollecitazione di un protagonista della "#ScuoladiMilano", #EnzoPaci, che ben conosceva l’opera del napoletano #GiambattistaVico) e dare il via a una "#ScienzaNuova"?
NASCERE E RINASCERE: "NATO DA DONNA, SOTTO LA LEGGE", MA DI QUALE LEGGE?!
Ancora quella della tradizione tragica e del paolinismo?
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA PREISTORIA, E PSICOANALISI: USCIRE DAL LETARGO E DALL’INFERNO (Dante, Par. XXXIII, 94).
COME NASCONO I BAMBINI, COME NASCONO I GENITORI - OGGI?! Una nota a margine dell’anno dell’Incarnazione del Natale 2023 - e del Presepe di Greccio di Francesco di Assisi dell’anno 1223.
TRAGEDIA. La difficoltà di "aprire gli occhi" (Freud) sul fatto antropologico (Kant) e sociologico (Marx) che ogni essere umano nasce ed è nato da un essere umano donna ("nato da donna, sotto la Legge"), dice solo della profondità "oceanica" della follia planetaria e della più che millenaria caduta "cosmologica" nell’orizzonte tragico della ragione e religione della cosmoteandria atea (platonico-aristotelica) e devota (paolina)!
COMMEDIA. Non è il caso di rimeditare il significato dell’art. 3 della sana e robusta Costituzione della Repubblica italiana e riprendere il cammino alla luce del Sole e dei "due Soli" (Dante Alighieri)?
TIMEO IN PARADISO. METAFORE E BELLEZZA DA PLATONE A DANTE
di Donato Pirovano (Treccani, 29 novembre 2023
Su uno sfondo a finto mosaico dorato una donna, bionda e bellissima, si protende in avanti e pone la sua mano destra sul cosmo; accanto a lei si muovono simmetricamente due putti nudi e alati con libri sottobraccio. Questa figura femminile è stata variamente interpretata, ma risulta convincente la didascalia che Piero Boitani ha scelto per l’immagine della sovraccoperta del suo nuovo libro:
Sophia crea l’universo in veste di Motore Primo o Demiurgo.
È il geniale affresco incipitario che Raffaello dipinse nel 1508 nella camera di papa Giulio II della Rovere, che poi divenne Stanza della Segnatura. In uno spazio pittorico destinato a ospitare il trionfo delle categorie neoplatoniche del Vero, del Bene e del Bello non poteva esserci esordio più idoneo. Sophia tocca il cosmo e vi imprime il movimento, la vita e la bellezza. L’atto primigenio è un soffio della potenza di Dio - come dice il Libro della Sapienza, 7 25 -, e fin da questo primo istante «quando [Dio] dispose la volta sulla superficie dell’abisso» (Prov., 8 27) la Sapienza già esisteva e giocava davanti a Dio tutto il tempo della Creazione.
Verità razionale (La scuola di Atene) e rivelata (La disputa del sacramento), bellezza (Il Parnaso) e giustizia (L’approvazione delle Decretali da parte di Gregorio IX e La consegna delle Pandette a Giustiniano) si dispiegano lungo le pareti, mentre le icone della Teologia, della Filosofia, della Giustizia e della Poesia, cui sono aggiunte sezioni rettangolari con episodi simbolici (per esempio il Peccato originale e il Giudizio di Salomone) campeggiano nelle volte: idealmente è come se tutti gli affreschi prendessero forma, colore e vita da Sophia che tutto crea e contempla.
Al centro della Scuola di Atene, vicino al punto di fuga, si ergono in piedi uno accanto all’altro Platone e Aristotele, il primo con l’indice destro alto verso il cielo e il secondo con la mano destra aperta verso il terreno, gesti che riassumono il DNA della loro filosofia. Il «maestro di color che sanno» (Inf., iv 131) tiene con la sinistra la sua Etica, mentre Platone, raffigurato con le fattezze del genio contemporaneo Leonardo da Vinci, ha sotto il braccio il Timeo.
Ai tempi di Raffaello, grazie soprattutto a Marsilio Ficino, il corpus platonico era ampiamente noto e aveva affascinato il pensiero umanistico, ma il Timeo è stato l’unico dialogo «conosciuto in Occidente per mille anni» (p. IX). Mettendolo in mano al suo Platone il grande pittore sente ancora il fascino di quello scritto «che, sostituendosi ai miti di Esiodo e ai dialoghi di Parmenide, immagina la creazione del cosmo, la sua struttura, la sua anima e il suo corpo, la generazione dell’uomo» (p. 5). Più che dialogo, monologo, perché, dopo le pagine d’esordio Socrate e i suoi ospiti restano silenti e lasciano la parola al lungo discorso di Timeo di Locri, che racconta le origini del cosmo e dell’uomo e incanta con la potenza dell’argomentazione logica e con l’icasticità del suo linguaggio metaforico.
La storia della ricezione del Timeo fino a Dante e oltre si squaderna nelle pagine di questo ricco, denso e bellissimo libro di Piero Boitani che si autodefinisce «un non-filosofo e un non-teologo» (p. IX), ma che prende per mano il lettore e lo guida in questa mirabile avventura intellettuale, mosso dall’impulso primitivo e fondante di ogni ricerca, la meraviglia.
Per accompagnare il lettore nell’albero frondoso che trae linfa dal Timeo, Boitani divide opportunamente l’argomentazione in 34 piccoli capitoli, preceduti da una Prefazione e chiusi da un Epilogo che varca la soglia dantesca annunciata dal sottotitolo e si spinge con rapidi tocchi magistrali fino a Heisenberg e a Whitehead.
In Appendice viene pubblicato il Timeo nella traduzione italiana di Federico Maria Petrucci.
Nella Prefazione (p. VII), Boitani confessa che la «sua meraviglia» ha suscitato il desiderio di percorrere i sentieri del linguaggio figurato che da Platone portano a Dante, e l’endecasillabo «quel che Timeo de le anime argomenta» (Par., iv 49) è stato a lungo il titolo dell’opera, poi sostituito dal non meno accattivante Timeo in Paradiso. A Dante sono, infatti, dedicati 17 capitoli (dal XVIII al XXXIV), dunque metà dell’opera. E non poteva essere diversamente perché nella Commedia in più punti il sommo poeta tange il fulcro dell’opera platonica: la bellezza della creazione.
Boitani ripercorre con quadri limpidi la fortuna antica e medievale del Timeo - che ha affascinato i più grandi pensatori, da Cicerone all’Anonimo Del Sublime, da Plotino a Proclo, da Agostino a Dionigi pseudo-Areopagita, da Boezio alla Scuola di Chartres, da Alberto Magno a Tommaso d’Aquino -, e dedica alcuni capitoli anche alla Bibbia concentrandosi sulla creazione, sulla Sapienza e soprattutto sulla bellezza, incarnata in figure femminili come Sara, Rebecca, Rachele («la fanciulla più affascinante di tutta la Bibbia», p. 33), Ester e la sposa del Cantico dei Cantici.
Del resto - sostiene Boitani - «leggere la Scrittura con Platone si può, ma occorre trovare i modi giusti» (p. VII). A differenza della cosmologia aristotelica che si fonda sull’eternità dell’universo, per Platone, così come per la Bibbia, c’è un atto creativo di un ποιητὴν καὶ πατέρα τοῦδε τοῦ παντὸς ‘produttore e padre di questo universo’. Infatti, come spiega Tommaso commentatore dei Nomi divini di Dionigi pseudo-Areopagita dal momento che c’è stata una creazione quando si discorre di immortalità si può parlare non di «sostanze eterne», ma «sempiterne», non perché sono sempre esistite, ma perché, dal momento che hanno iniziato a esistere, non cessano più di essere e quindi, in questo senso, sono partecipi dell’eternità (Tommaso d’Aquino, Commento ai nomi divini, cap. V, lezione 2 659).
Ne parla anche Dante rispondendo a san Giovanni sulla carità: «Tal vero a l’intelletto mïo sterne / colui che mi dimostra il primo amore / di tutte le sustanze sempiterne», ‘Questa verità spiega alla mia mente colui che mi dimostra qual è il primo oggetto d’amore di tutti gli esseri immortali’ (Par., XXVI 37-39). Il «colui», variamente interpretato dai commentatori, è l’Aristotele della Metafisica, che Dante legge nella spiegazione di Tommaso (cfr. Commento alla Metafisica, libro xii, lezione 7 2529). Le sustanze sempiterne si muovono, pertanto, per amore del sommo bene che è il primo motore immobile. Quando Dante scrive «tutte le sustanze sempiterne» pensa certamente ai cieli, che sono in grado di amare perché mossi dalle intelligenze angeliche e dunque in possesso di una vita psichica, senza la quale non si può amare, ma anche agli angeli e agli uomini, perché amare Dio è la perfezione somma della creatura ragionevole. Aristotele sì, dunque, ma con uno sguardo, indirizzato dal Doctor Angelicus, all’atto creativo primigenio della Bibbia, ma anche del Timeo platonico.
E se Beatrice spiega a Dante che le anime dei beati non ritornano al cielo come Platone sembra dichiarare nel Timeo (con riferimento a 41d-42b), poi precisa così: «e forse sua sentenza è d’altra guisa / che la voce non suona, ed esser puote / con intenzion da non esser derisa», ‘ma forse la sua vera opinione è diversa da come suonano le parole e può avere un senso non risibile’ (Par., IV 55-57). A Platone «è opportuno concedere il beneficio d’inventario!» (p. 126). E, infatti, se Dante non prescinde teologicamente e poeticamente dalla splendida raffigurazione di tutte le anime nella candida rosa dell’Empireo, tuttavia, grazie a una lettura non letterale del Timeo, ha usato le influenze celesti per costruire la narrazione del suo viaggio celeste e chiudere in perfetta simmetria i tre cammini oltremondani, tanto più che le tre cantiche si chiudono con la medesima parola «stelle».
PSICOANALISI ARTE E INTERPRETAZIONE DEI SOGNI (1899):
IL PROGRAMMA (PERSONALE E POLITICO) DI FREUD DI RIPENSARE L’EDIPO COMPLETO E LA DIFFICOLTA’ PRINCIPALE AFFRONTATA NEL SUO "MOSAICO" PERCORSO ...
"SUL ’VOLTO CORNUTO’ DI MOSÈ". Nel commentare il "Mosè" (1513-1515) di Michelangelo (Roma, San Pietro in Vincoli), Flavio Piero Cuniberto, dati alcuni lodevoli chiarimenti filologici sugli equivoci di una "lunga tradizione figurativa", indotti da problemi di traduzione dall’ebraico al latino, "sul ’volto cornuto’ di Mosè", così conclude: "Ma ancora più incomprensibile è che Sigmund Freud, nel suo ampio saggio sul Mosè di Michelangelo ([1913] in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, 2 voll., Boringhieri 1969, vol.1, pp.183-213) concentri tutta la sua radiografica attenzione sulla postura contratta della mano che stringe nervosa le tavole della Legge, fino a sfiorare la barba, e sull’espressione del volto, ignorando completamente il motivo della «facies cornuta»: proprio lui, vittima forse di un lapsus freudiano tra i più perfidi." (Flavio Piero Cuniberto). *
"SAPERE AUDE!" (KANT (1784): IL PROBLEMA DEL RINASCERE E DELL’APRIRE GLI OCCHI DINANZI A "DIO" ("AMORE"). RICORDANDO CHE FREUD ha iniziato la sua discesa regno di Ade, agli inferi (nel mondo dei "sogni"), con Virgilio (e l’Eneide) e, in particolare, in sintonia (non con lo spirito di #Afrodite/Venere e di #Eros/Cupìdo ma) con lo spirito di Era/Giunone - l’aiuto della Madre, di cui richiama le parole, polemiche contro lo stesso Zeus /Giove - lo spirito del Padre: "Flectere si nequeo Superos", Acheronta movebo"), forse, è bene richiamare l’attenzione su uno dei primi fondamentali passi "edipici" del giovane "Freud-Mosè" sulla strada della conoscenza e dell’uscita dallo "stato di minorità" (Kant, 1784):
"La notte prima del funerale di mio padre sognai una tabella a stampa, un manifesto o un affisso - pressappoco come i cartelli:
"Vietato fumare" nelle sale d’aspetto delle ferrovie - su cui si leggeva:
Si prega di chiudere gli occhi
oppure
Si prega di chiudere un occhio,
alternativa che sono abituato a raffigurare nella forma seguente:
gli
Si prega di chiudere occhi(o).
un
Ciascuna delle due versioni ha un suo significato particolare e nell’interpretazione del sogno conduce a vie particolari. Avevo scelto il cerimoniale più semplice, perché sapevo che cosa pensasse il morto di tali manifestazioni; ma altri membri della famiglia non erano d’accordo; ritenevano che saremmo stati costretti a vergognarci di fronte agli intervenuti alla cerimonia. Perciò una versione del sogno chiede di "chiudere un occhio" vale a dire di usare indulgenza. " (S. Freud, "L’Interpretazione dei sogni", cap. 6, pf. C).
ONORARE IL PADRE E LA MADRE. Sul "Si prega di chiudere gli occhi", nella lettera a Fliess del 2 novembre 1896, Freud scrive che la formulazione della frase è "a doppio senso e significa in ambedue i casi: bisogna adempiere al proprio dovere verso i morti", in particolare, il dovere chiudere gli occhi al defunto. Nella "Interpretazione dei sogni", tuttavia, Freud "tace": guardare negli occhi il proprio padre Jacob (morto) e, addirittura, chiuderglieli, per l’ Edipo re, evidentemente, è una missione "impossibile".
USCIRE DALL’ INFERNO E APRIRE GLI OCCHI. L’ anno «prima di morire, il 12 maggio 1938, mentre fuggiva da Vienna a Londra per evitare i nazisti, scrisse al figlio Ernst: "Talvolta mi paragono a Giacobbe [così si chiamava il padre] che i suoi figli, quando era già vecchio, portarono in Egitto» (J. J. Spector, "L’estetica di Freud", Mursia, Milano 1972).
LONDRA. Sigmund Freud muore il 23 settembre 1939: "L’uomo Mosè e la religione monoteistica" è stato pubblicato ad Amsterdam l’anno prima, nell’autunno del 1938 (con la data: 1939).
Federico La Sala
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"SUL ’VOLTO CORNUTO’ DI MOSÈ:
(Ringraziando Consuela Ionitoae per la magnifica fotografia)
Michelangelo, Mosé, 1513-1515; Roma, San Pietro in Vincoli.
Così la Vulgata traduce il passo dell’Esodo su Mosé, che scende dal Sinai non sapendo «quod cornuta esset facies sua» («khi qaran ‘or panaw» [Es 34,30], «che il suo volto [emanava] un raggio di luce»); e di qui, dalla Vulgata presa alla lettera, la tradizione figurativa di un Mosé cornuto e anzi «bicornis» (perché in genere gli animali dotati di corna ne hanno due; -> nei commenti).
E’ difficile pensare a una svista da parte di Girolamo, profondo conoscitore dell’ebraico: del resto, l’aggettivo «cornutus» (di cui è misterioso il capovolgimento semantico nel linguaggio popolare) non suggerisce affatto che le «corna» siano due, né esclude che Girolamo fosse consapevole di alludere a un «corno di luce».
In effetti, il testo ebraico usa un termine (*QRN), che può significare «corno» o anche «raggio», tenendo presente che i due significati possono convergere nel senso di un raggio-protuberanza-luminosa: in forma di «corno» luminoso che «cresce» sulla testa di Mosé.
(Tra l’altro, è molto notevole l’affinità tra questo «corno luminoso» e la protuberanza cranica detta usnisa, presente nelle raffigurazioni del Buddha e segno di «illuminazione»: -> nei commenti).
Questa valenza del «corno» come segno fisico di uno stato spirituale «elevato» o illuminato è attestatissima nelle Scritture: nei Salmi ad esempio (Ps 92, 11: «et elevasti sicut unicornis cornu meum», al singolare ovviamente), fino al Cantico di Zaccaria nel primo capitolo di Luca («et erexit cornu salutis nobis» [Lc 1,69]).
Per vie che non è possibile esplorare qui, anche la semantica latina di CORNU (*CRN) risulta non lontana dall’ebraico (*QRN): il «corno» essendo indiscutibilmente «ciò che cresce» sulla testa dell’animale e che nell’animale giovane «spunta» (come si dice dei primi raggi di sole, che «spuntano» a Oriente, o dei «cornini» di una lumaca, o di un germoglio che «spunta» sul ramo di un albero). *CR è la radice, non a caso, della «cr-escita», come anche di «cr-e-o/cr-e-are», nelle lingue neolatine e anche germaniche, dove il tedesco Korn [*KR] è il «grano» o il «chicco di grano» destinato alla crescita; e così il greco *KR, come in KRonos, dio delle messi e dell’abbondanza, come nel «corno dell’abbondanza» o «cornucopia», che è però termine latino.
Tornando allora a San Pietro in Vincoli: Michelangelo si attiene qui alla lunga tradizione figurativa, che ancora Gustave Doré riprenderà, adottando la soluzione «ecumenica» del doppio raggio di luce (-> nei commenti). Tradizione che nella materialità del marmo risulta decisamente letterale o letteralizzata.
Ma ancora più incomprensibile è che Sigmund Freud, nel suo ampio saggio sul Mosé di Michelangelo ([1913] in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, 2 voll., Boringhieri 1969, vol.1, pp.183-213) concentri tutta la sua radiografica attenzione sulla postura contratta della mano che stringe nervosa le tavole della Legge, fino a sfiorare la barba, e sull’espressione del volto, ignorando completamente il motivo della «facies cornuta»: proprio lui, vittima forse di un lapsus freudiano tra i più perfidi.
Flavio Piero Cuniberto (Facebook)
DANTE ALIGHIERI, L’HAMLETICA “QUESTION” CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA), E LA FILOLOGIA.
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#ANTROPOLOGIA, #LETTERATURA, E #DIVINACOMMEDIA: #LETARGO (Pd. XXXIII, 94) E #SONNODOGMATICO (#Kant).
LA #FEDE DI #DANTE, E DI SAN PIETRO, E LA FEDE DI SAN PAOLO.
A 750 ANNI E OLTRE DALLA [NASCITA E A 700 ANNI E OLTRE DALLA] MORTE DI DANTE ALIGHIERI, UNA “PREMESSA” A UNA ”VECCHIA’ NOTA DI ENNIO ABATE A COMMENTO DI UN ‘VECCHIO’ ARTICOLO DI CLAUDIO GIUNTA (“[Dante dopo l’Apocalisse”, Le parole e le cose, 21 maggio 2015->https://www.leparoleelecose.it/?p=19052]):
DANTE ALIGHIERI, L’HAMLETICA “QUESTION” CRISTOLOGICA (ANTROPOLOGICA), E LA#FILOLOGIA:
(LA MADRE, MARIA-) #BEATRICE (Pd. XXIV, 34) chiede al “gran viro”(San Pietro) di verificare se Dante ha capito la differenza tra la fede in “Nostro Signore” Gesù (Ponzio Pilato: Ecce Homo, gr. «idou ho #anthropos») oppure nel “Nostro Signore” (secondo la ‘precisazione’ androcentrica e mammonica) di San Paolo, l’Uomo (#Vir): “sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio” (1 Cor. 11, 1-3).
“DANTE DOPO L’ APOCALISSE” - OGGI (15 settembre 2023):
STORIA E LETARGO STORIOGRAFICO: NON SCAMBIARE DANTE ALIGHIERI CON GIOVANNI BOCCACCIO. Se il “diciottenne” Dante racconta - come scrive Alessandro Barbero ( https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858141649) - il sogno e la visione di Beatrice nuda “[...] con un tocco così leggero che di solito gli esegeti non lo commentano”, non è meglio interrogarsi su questa dantesca “lezione americana” (alla Italo Calvino) di leggerezza e pensare meglio che Dante abbia ri-visto in sogno la madre “beata e Bella”?!
Non è ancora ora di cambiare registro , e, cominciare a pensare semplicemente che la figlia di Gemma Donati e Dante Alighieri, (Maria-) Antonia, diventata suora, abbia voluto rendere omaggio a Bella, alla sua nonna paterna, e ricordare per tutta la sua vita proprio (Maria-) Beatrice?!
UN #LETARGO DI #XXVSECOLI (Par. XXXIII, 94-95). LA #MEMORIA OMERICA DELL’#USCITA DAL POLIFEMICO #INFERNO E LA #RIPRESA DEL VIAGGIO DI #ULISSE E DI #GIASONE:
COME #DANTE VIENE PORTATO DA #VIRGILIO FUORI DALLA "#CAVERNA" DI #LUCIFERO: "Com’a lui piacque, il collo li avvinghiai;/ed el prese di tempo e loco poste,/e quando l’ali fuoro aperte assai,//appigliò sé a le vellute coste;/di vello in vello giù discese poscia/tra ’l folto pelo e le gelate croste" (Inf. XXXIV, 70-75).
Conoscere, la libertà di Ulisse
Il filosofo Mauro Bonazzi rilegge per Einaudi l’episodio del «folle volo» di Odisseo nella «Divina Commedia» di Dante e i suoi rimandi storici. E arriva fino all’oggi
di LUCIANO CANFORA *
Che si possa affrontare un tema ben conosciuto in modi innovativi e al tempo stesso anche letterariamente attraenti, è provato dal recentissimo saggio di Mauro Bonazzi, Il naufragio di Ulisse. Un viaggio nella nostra crisi (Einaudi). Come si sa, Ulisse che narra il suo «ultimo viaggio», finito tragicamente ancorché suscitato dalla sua altissima ansia di conoscenza, è protagonista, monumentale e ammirato, del XXVI canto dell’Inferno dantesco. La sua cifra è: non foste «fatti a viver come bruti», il fine stesso dell’esistenza è la «canoscenza». Il fatto che un cenno, non certo marginale, al «volo», cioè al viaggio audace di Ulisse, appaia anche in un punto assai rilevante del Paradiso (XXVII, 82-83) sta a significare la centralità della vicenda di Ulisse, reinventata da Dante, nell’economia strutturale e concettuale del poema.
Bonazzi approda a una sintesi efficace: i due «viaggi» - quello di Ulisse che, nonostante le nobili premesse, sfocia nella sconfitta, e quello di Dante, che approda alla presa d’atto che la conoscenza dovrà subordinarsi alla fede (è la lezione di Virgilio già nel II del Purgatorio e poi di Beatrice) - sono due viaggi paralleli, dall’esito opposto. A sua volta questa presentazione di uno dei fili conduttori del poema serve a Bonazzi come metafora problematica dell’oggi. Non è un invito a ripiegamenti fideistici, è, piuttosto una domanda che investe l’efficacia, o solo parziale efficacia, o addirittura impotenza della «conoscenza» al cospetto dei problemi civili e politici del nostro tempo (ma forse si dovrebbe dire: di ogni tempo). La scena fantascientifica con cui il libro si conclude - il gigantesco computer nel quale sono raccolte tutte le conoscenze umane e che, interrogato, si autodefinisce «dio» mentre viene fulminato lo scienziato che vorrebbe spegnerlo - costituisce una conclusione aporetica (una intenzionale non-conclusione) che, giustamente, prospetta al lettore la pari dignità dei due viaggi: quello di Ulisse e quello di Dante.
Ma tale pari dignità è all’interno dello stesso poema: con buona pace di chi si limita, diversamente da Bonazzi, alla superficie, e perciò si appaga della banale conclusione secondo cui Dante «condanna» Ulisse. Se tutto fosse così semplice, il poema sarebbe poco più che un super-catechismo per adulti. Ma Dante non è un qualunque Escrivá. Dante compie l’atto geniale di far pronunciare, proprio da Tommaso d’Aquino, l’elogio fulminante di Sigieri di Brabante («luce etterna»!) e del suo insegnamento parigino (Paradiso X, 136) incentrato su Aristotele. Sull’Aristotele dell’Etica Nicomachea: libro eticamente insuperato perché afferma e argomenta - come ben spiega Bonazzi - che la felicità si raggiunge qua in terra attraverso la «conoscenza» e assecondando la pulsione verso di essa. Concetto che è racchiuso anche nel primo rigo della Metafisica di Aristotele: «Tutti gli esseri umani per natura desiderano conoscere». Dove quel «per natura» è l’antecedente concettuale del «fatti per seguir virtute e canoscenza» della «orazion picciola» dell’Ulisse dantesco. Dante è quel gigante con cui interloquiamo ancora (e seguiteremo) perché scolpisce, nel Paradiso, la grandezza di Sigieri e rende un omaggio imperituro all’ansia di conoscenza di Ulisse (e di tutti gli Ulissidi della storia del pensiero) pur nel momento in cui si lascia ammonire da un dolente maestro come Virgilio e da una insegnante esigente come Beatrice. Ma non esita e definire Aristotele - cioè il pensatore anticreazionista per eccellenza e assertore dell’eternità del mondo e forse anche della mortalità dell’anima, ispiratore profondo di Sigieri - come «maestro di color che sanno».
Ha cercato una sintesi? Certamente. Ma forse non nell’appagamento contemplativo della superiorità della fede, quanto piuttosto in una matura e ardua concezione della «libertà». Infatti, di lui Virgilio spiega a Catone (Purgatorio I, 71) che «libertà va cercando»; di Beatrice, Dante stesso dirà poi che lo ha «tratto a libertade»; e Virgilio quando si congeda da Dante nel XXVII del Purgatorio dirà con giusta fierezza di avergli - nel corso del cammino intrapreso a partire dalla remota «selva oscura» - insegnato l’intrinsechezza dei due concetti apparentemente antitetici di «libertà» e «necessità»: «libero, dritto, sano è tuo arbitrio» e perciò - prosegue - «io te sovra te corono e mitrio» (versi 140-142). È la libertà che, così intesa, avvicina conoscenza e fede.
Con grande competenza Bonazzi descrive la lotta dell’ortodossia cattolica, in particolare della facoltà di teologia di Parigi, contro l’irruzione di Aristotele nella seconda metà del XIII secolo: finalmente accessibile in latino. E la reazione fu di proclamare, nel nome dell’oltranzismo agostiniano (Sermone 36), che la volontà di conoscenza, declassata a curiositas (modello remoto il rogo paolino dei libri a Efeso), è «scandalosa». La cristianità era già stata scossa da analoga contrapposizione quando il patriarca Fozio, avversato dal papa di Roma, era stato condannato dall’VIII Concilio ecumenico (869/870) con l’accusa, tra l’altro, di aver voluto impartire, a una cerchia di adepti, la conoscenza della scienza profana «che invece è stata resa stolta da Dio» (IX canone di quel Concilio).
Nel secolo seguente toccò a Silvestro II, il «papa dell’anno Mille», di essere sospettato di magia per le stesse ragioni per cui era stato condannato Fozio e per cui, forse - come Bonazzi ben rileva - Sigieri morì di morte «sospetta». È da questa lunga storia conflittuale che nasce la Commedia . Non sarà certo un caso che una delle due lettere del papa Clemente romano fosse sospettata di eresia proprio perché asseriva esservi terre (e vita) oltre le colonne d’Ercole.
* Corriere della Sera, 14 giugno 2023 (modifica il 14 giugno 2023 | 17:18)
La festa della mamma secondo Dante
di Pierluigi Colognesi (Il Sussidiario, 05.05.2014
Come contributo alla Festa della mamma di domenica prossima vorrei offrire una breve analisi dell’uso che di “mamma” fa Dante nella Divina commedia.
In tutto il poema la parola ricorre quattro volte, con una pregnanza di significato che va in crescendo. Nell’Inferno si trova quasi di passaggio - è l’unica volta che la parola non è in rima - quando Dante sta per entrare nell’ultimo cerchio, quello dei traditori in cui l’umanità è al suo massimo degrado. Per descrivere tale suprema abiezione il poeta dice di non avere parole sufficienti; del resto l’impresa è difficile e non basta la lingua di un bambino che sia in grado di dire soltanto “mamma o babbo” (XXXII, 9).
Qui la parola non ha nessuna implicazione affettiva - forse perché l’inferno non ne è degno -, serve solo a descrivere il linguaggio puerile. Più coinvolto è il primo utilizzo nel Purgatorio. Il poeta latino Stazio sta rispondendo a Dante, che è in compagnia di Virgilio, e gli dichiara che tutta la sua arte è debitrice dell’Eneide, “la qual mamma / fummi, e fummi nutrice poetando” (XXI, 97-98). La «mamma» è dunque la generatrice a cui siamo riconoscenti perché ci ha fatti essere quello che siamo; e infatti nel canto successivo Stazio dirà che Virgilio non solo lo ha generato alla poesia, ma gli ha anche aperto la strada della fede, che pure egli non aveva (come uno che di notte porti una lampada sulla schiena, illuminando chi sta dietro ma non se stesso). Infatti quando Dante e la sua guida raggiugono il Paradiso terrestre, per Virgilio è il momento di andarsene, il suo compito è terminato e, non avendo la fede, non potrà salire al Paradiso celeste.
La scena è altamente drammatica: al termine di un lungo corteo simbolico, arriva un carro sul quale c’è una donna velata; Dante sente subito che si tratta di Beatrice, ne è commosso e turbato e si volta verso Virgilio per chiedere conforto con lo sguardo fiducioso “col quale il fantolin corre a la mamma” (XXX, 44); ma Virgilio è scomparso e Dante piange. Ora il rapporto con la mamma è presentato nella sua essenza intima: è quello in cui ricerchiamo il conforto nei momenti di smarrimento, come bambini impauriti; conforto necessario ma fragile. Nel Paradiso ritroviamo sia il “fantolin” che la “mamma”.
Di fronte a Dante, ora guidato da Beatrice, sono comparsi tutti i beati del cielo in forma di luci; la più luminosa è Maria - la mamma celeste - che a un certo punto risale verso il cielo empireo dove i beati hanno sede. Mentre lei si allontana in alto gli altri santi - per manifestarle il loro affetto - protendono come fiamme la cima verso di lei e Dante li paragona al “fantolin che ‘nver la mamma / tende le braccia, poi che il latte prese” (XXIII, 121-122). Non si tratta più solo di un legame naturale, quindi caduco, ma eterno, stabile. È singolare che Dante immagini i beati del Paradiso che si comportano come bambini, ma è proprio questa semplicità di abbandono amoroso che fa l’essenza della vita cristiana; di qui e nell’aldilà. Non posso terminare senza citare un ultimo passo. Qui la nostra parola è al plurale, unica ricorrenza nel poema.
Il saggio Salomone sta spiegando come i beati, alla fine del mondo, riprenderanno i loro corpi, riacquistando l’integralità della propria persona. Finito il serrato discorso, gli altri beati confermano la spiegazione con un coro di giubilo. E lo fanno - spiega Dante - per manifestare il desiderio di riavere i loro propri corpi. Ma non solo per questo; lo fanno anche perché potranno riabbracciare nella carne coloro che nella carne hanno amato: “per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari” (Paradiso XIV, 64-65). Il cristianesimo è veramente il contrario di ogni dualismo spirito/carne.
OFFICINA DEL PENSIERO
Gli appartien quanto Giosepp’a Cristo
La figura di Giuseppe e il tema della paternità nella Divina Commedia, soprattutto laddove si ricorda il giusto di Nazareth...
di MAURIZIO SIGNORILE (Vino nuovo, 18 marzo 2021
La figura di Giuseppe è quasi assente nell’opera di Dante, ma nella Divina Commedia il tema della paternità torna insistentemente in alcuni luoghi che sembrano scaturiti proprio da un passo che ricorda il giusto di Nazareth.
L’unica volta che Dante parla esplicitamente di Giuseppe è nel sonetto “Bicci novel, figliuol di non so cui”, quando rivolgendosi all’amico Forese Donati rileva satiricamente che, essendo il padre di quello putativo, «gli appartien quanto Giosepp’a Cristo» (v. 11), cioè intercorre tra loro lo stesso rapporto di Gesù e Giuseppe.
È questo uno dei quattro casi di rime ‘blasfeme’ nelle opere giovanili dantesche, nelle quali il Poeta fa rimare il nome di Cristo con parole più o meno irriverenti (Antecristo, ipocristo, malacquisto): è stato notato che a questi quattro brani ne corrispondono altrettanti in Paradiso dove invece, a mo’ di ammenda, il nome di Cristo rima per quattro volte solo con se stesso; una serie di rime identiche che nella Divina Commedia non ha eguali, esclusa proprio la parola “ammenda” in Purgatorio XX.
Da parte nostra notiamo come in questi stessi canti ci sia sempre un riferimento alla genitorialità.
In Paradiso XII 70-75 Dante racconta la storia di San Domenico, «l’agricola che Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo» e ricorda i nomi dei suoi genitori: «Oh padre suo veramente Felice! / oh madre sua veramente Giovanna» (vv. 79-80).
In Paradiso XIV 103-108, mentre primeggia il Segno della Croce e si esalta «chi prende sua croce e segue Cristo», i beati acclamano alle parole sulla resurrezione dei corpi, non per se stessi ma «per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari» (vv. 64-65).
In Paradiso XIX 103-108 appena prima di spiegare a Dante che in cielo «non salì mai chi non credette ‘n Cristo» e ciononostante molti cristiani saranno meno vicini a lui «che tal che non conosce Cristo», l’Aquila era stata descritta come una cicogna «c’ha pasciuti... i figli» ed egli «come quel ch’è pasto la rimira» (vv. 92-93), come il figlio sazio grato per quel pasto.
Infine in Paradiso XXXII 82-87 Dante parla dei bambini «sanza battesmo perfetto di Cristo» salvati per merito altrui, perché basta «solamente la fede d’i parenti» (v. 78), solo la fede dei loro genitori.
In questi quattro brani Dante fa ammenda di quelle rime ‘blasfeme’, soprattutto di quella in cui aveva canzonato l’amico Forese, da poco incontrato in Purgatorio, e il padre di quello con il riferimento a Giuseppe, ed è interessante che lo faccia sempre in un contesto di riscoperta dell’importanza della paternità.
Trattando di questioni teologiche e stando attento a far rimare solo con se stesso il nome di Cristo, “che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,9), il Poeta ritorna a semplici immagini paterne e genitoriali: egli esalta la felicità di un padre per la santità del figlio, il desiderio di un figlio di rivedere il padre in cielo, la gratitudine per il nutrimento mai mancato sulla tavola e l’importanza di una fede trasmessa già dalla più tenera età.
Tutti tratti che possiamo riconoscere nella paternità di Giuseppe per Gesù e che traspaiono nell’unico luogo della Commedia in cui vi si allude: nella terza cornice degli iracondi, fra gli esempi di mansuetudine, le parole di Maria che cercava Gesù nel Tempio, «Figliuol mio, / perché hai tu così verso noi fatto? / Ecco, dolenti, lo tuo padre e io / ti cercavamo» (Pg XV 89-92; cfr. Luca 2,48-52), includono anche un Giuseppe in pena, felice di ritrovare nel Tempio quel figlio che, certamente anche per merito suo, “cresceva in sapienza, età e grazia”. Tratti di una paternità che ognuno può ritrovare e riconoscere nel proprio padre, il quale, potrebbe ora scrivere un Dante ormai ravveduto, «gli appartien quanto Giosepp’a Cristo».
FILOLOGIA, LETTERATURA E STORIOGRAFIA. OGGI (11 FEBBRAIO 2023).
EUROPA 2023. Nella ricorrenza della giornata della firma dei PATTI LATERANENSI (11 Febbraio 1929), brillante la ripresa da parte del Centro documentazione Piero Delfino Pesce di questo articolo di Luca Mazzocchetti, dedicato a "Quella volta che Leopardi decise di arrabbiarsi ..." ("Terza web", 24 Novembre 2016).
DANTE 2021 E LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI". Al di là della polemica "personale" e "momentanea", nell’epigramma contro Niccolò #Tommaseo dell’agosto del 1836, ("poi però non reso pubblico" e poco conosciuto), nel richiamo al dantesco "Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre...", emerge con forza tutta la tempra eroica di Giacomo Leopardi e la sua consonanza con lo #spirito di #DanteAlighieri critico del potere temporale dei Papi e, anche e ancora, la sua #indignazione contro tutta la sudditanza della intera cultura italiana alla lettura storiografica tradizionale.
Giacomo Leopardi studioso di Dante Alighieri
Tra le pagine dello «Zibaldone» poesia filologica e fraterno incanto
di RITA ITALIANO (La Stampa, 22 Gennaio 2021)
In occasione del suo celebrato anniversario si può anche cercare e trovare Dante in uno scrigno tra i più preziosi che il pensiero umano abbia mai offerto, lo «Zibaldone» di Giacomo Leopardi. Basta scorrere le occorrenze del nome di Dante Alighieri in quelle pagine accurate ed emozionanti, per schiudere le porte di un magico regno nel quale il rigore dell’analisi critica viaggia alle altitudini del genio. La lettura data da Giacomo Leopardi si fa poesia filologica, fraterno incanto.
Originalissimo esame che della produzione di Dante registra il carattere, lo stile, la lingua, l’interesse per la filosofia, giungendo sino a cogliere le qualità peculiari de «La Divina Commedia». Scegliendo di soffermarsi attento soprattutto sulla rivoluzione linguistica che in questa è evidente. E illustrando le motivazioni che animarono il suo autore: «ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il che si fa manifesto sì dal poema sacro, ch’egli considerava, non come trastullo, ma come impresa di gran momento».
Da tale svolta si avvia la possibilità di definire Dante «quasi il primo scrittore italiano». È infatti proprio il modo del tutto nuovo che egli ha dato al suo operare che ha avuto per conseguenza non dappoco d’essere «propriamente, com’è stato sempre considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua italiana». Inoltre, la disamina di Leopardi giudica che nel lavoro di Dante anche lo stile sia assai meritevole di ammirazione. A questo nodo dedica uno spazio di rilievo.
Con righe illuminanti. Si chiede: «Perché lo stile di Dante è il più forte che mai si possa concepire, e per questa parte il più bello e dilettevole possibile?» La risposta spiega con semplicità: «perché ogni parola presso lui è un’immagine». A Ovidio «bisogna una pagina per farci veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina». E se «Ovidio descrive» e «Virgilio dipinge», è solo Dante che «non solo dipinge da maestro in due colpi, e vi fa una figura con un tratto di pennello; non solo dipinge senza descrivere [...] ma intaglia e scolpisce dinanzi agli occhi del lettore le proprie idee, concetti, immagini, sentimenti».
Leopardi si sente forse prossimo a Dante Alighieri, ch’era autore e uomo dal temperamento «grave, passionato, ordinariamente (ai nostri tempi) malinconico, profondo nel sentimento e nelle passioni, e tutto proprio a soffrir grandemente della vita». Una sensibilità difficile e rara, in grado di infondere lo spirito della Storia nel mistero della dottrina. Infatti «il suo poema non è epico, ed è misto di narrativo e di dottrinale, morale». È sapere che diventa sapienza.
Leopardi annota: «Omero e Dante per l’età loro seppero moltissime cose, e più di quelle che sappiano la massima parte degli uomini colti d’oggidì». Ma non basta. È chiaro che per la propria espressione poetica, tessuta alle vette più alte dell’arte compositiva, occorrevano a Dante, combinate e inestricabili, la rivoluzione dello stile e quella della lingua. Di quest’ultima Leopardi attesta l’enorme valore. Perché «Dante fra gli altri antichi aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il coraggio, ed anche l’ardire de’ composti» e aveva fatto «espressa professione di non voler restringere la lingua a veruna o città o provincia d’Italia, e per lingua cortigiana l’Alighieri, dichiarandosi di adottarla, intese una lingua altrettanto varia, quante erano le corti e le repubbliche e governi d’Italia in que’ tempi». La scrittura di Dante è ricca, screziata. La conoscenza che Leopardi ne ha, gli consente di parlarne senza esitazioni. «Dante è pieno di barbarismi, cioè di maniere e voci tolte non solo dal latino, ma dall’altre lingue o dialetti ch’avevano una tal qual dimestichezza o commercio colla nostra nazione».
Leopardi spazia e approfondisce. Riconosce a Dante meriti che vivono nella letteratura e ne superano i confini, entrando nella Storia. Ricorda «quanto debbano a Dante, non pur la lingua italiana, come si suol predicare, ma la nazione istessa, e l’Europa tutta e lo spirito umano». Da qui l’attribuzione che a Dante spetta del serto d’alloro di un vero primato: «ardì concepire e scrisse un’opera classica e di letteratura in lingua volgare e moderna». Impresa temeraria e suprema che eleva «una lingua moderna al grado di lingua illustre» a dispetto dell’opinione corrente che sino a quel momento aveva ritenuto la lingua latina «unica capace di tal grado».
Leopardi indaga la natura della «Commedia», vera pietra miliare della letteratura, e afferma che «non fu solo poetica, ma come i poemi d’Omero, abbracciò espressamente tutto il sapere di quella età, in teologia, filosofia, politica, storia, mitologia ecc». Classica da subito e per sempre: «non rispetto solamente a quel tempo, ma a tutti i tempi, e tra le primarie; né solo rispetto all’Italia ma a tutte le nazioni e letterature». Il passo di Dante in questo senso è stato dunque quello di un pioniere. La sua è stata la marcia risoluta di un apripista. In sostanza, «Dante diede l’esempio, aprì e spianò la strada, mostrò lo scopo, fece coraggio e col suo ardire e colla sua riuscita agl’italiani: l’Italia alle altre nazioni. Questo è incontrastabile».
Nel prosieguo, lo studio condotto da Leopardi giunge a rimarcare quanta applicazione e quanta ponderazione stessero dietro al rivolgimento dantesco, «né il fatto di Dante fu casuale e non derivato da ragione e riflessione, e profonda riflessione. Egli volle espressamente sostituire una lingua moderna illustre alla lingua latina». Sentiva che i tempi erano ormai maturi, e che anzi esigevano la radicalità di un cambiamento di questa portata. Perciò «volle espressamente bandita la lingua latina dall’uso de’ letterati, de’ dotti, de’ legislatori, notari, ecc., come non più convenevole ai tempi». Un atto di grande perspicacia e ponderazione dal quale venne lo splendido frutto che nelle sue terzine custodisce, tra l’altro, la prova d’eccellenza della risolutezza encomiabile con la quale il poeta Dante Alighieri derivò i propri principi di stile «da proposito e istituto, e mirò ad uno scopo; e il proposito, l’istituto e lo scopo» furono quelli di un «acutissimo, profondissimo e sapientissimo filosofo».
DANTE E LA TEORIA DEI "TRE SOLI":
"OCEANO CELESTE" (KEPLERO, 1611). Per non buttare il #bambino (Dante Alighieri) con l’acqua sporca ("Dante è di destra"), un invito storiografico a riprendere la navigazione nella #nave di Galileo (quella del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano", 1632) e rileggere Giordano Bruno:
FILOLOGIA E FILOSOFIA. Da ricordare che la ’casa’ di Dante Alighieri (la sua opera, la "Monarchia") era la "Casa dei Due soli", e ogni "potere" era non l’accoppiata "platonica" di un servo e di un signore, ma "due in uno" (al contempo, re e sacerdote) alla #luce del Sole - non di un solo Sole (come pretendeva Tommaso Campanella con la sua "Città del Sole" e le varie "monarchie" cosmoteandriche). Dante, a mio parere, è in sintonia con lo spirito di Giordano Bruno e le "TRE CORONE" dello "Spaccio de la Bestia trionfante" e con Keplero che a Galileo Galilei, e al suo "Sidereus Nuncius" (1610). da Praga (1611) quasi grida: "VICISTI, GALILAEE" ("HAI VINTO GALILEO")!
PSICOANALISI E LETTERATURA. IPOTESI DI UN POSSIBILE PROGRAMMA DI RICERCA.
Appunti...
"L’ INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (FREUD , 1899), L’ IDENTIFICAZIONE CON CRISTO (FREUD, 1931), E LA DIVINA COMMEDIA.
A) DANTE (Inf. II, 32: "Io non Enea, io non Paulo sono") E LE "TRE MARIE": MARIA, (MARIA) BEATRICE , E (MARIA) LUCIA:
INTERPRETAZIONE DEL SOGNO: ARGO, LA NAVE DI GIASONE DOPO VENTINQUE SECOLI DALL’IMPRESA, E’ GIUNTA CON DANTE A DESTINAZIONE E HA RITROVATO IL SUO "VELLO D’ORO", L’ARIETE, L’AGNELLO (CHE PORTAVA IN SALVO E NON ALL’INFERNO E ALLA MORTE):
B) LA DIVINA COMMEDIA E SANTA LUCIA: UNA GEMMA (DONATI) IN PARADISO. Ipotesi per una rilettura... *
* Sul tema "Gemma Donati in Paradiso", mi sia lecito, si cfr. Federico LA Sala , La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia” (IL DIALOGO/Quaderni di teologia, Martedì, 24 luglio 2007).
Federico La Sala
La tradizione monastica per rileggere Dante
A 700 anni dalla morte di Dante Alighieri, una nuova prospettiva di approccio alla lettura della Divina Commedia. Ad offrirla è il libro di Giulio d’Onofrio “Per questa selva oscura”, edito da Città Nuova. Una ricerca durata circa dieci anni conduce lo studioso a dimostrare il forte influsso esercitato dalla cultura alto-medievale, patristica e monastica, nell’opera del Divino Poeta.
di Paolo Ondarza *
Città del Vaticano. Un’invocazione nascosta in un antico commento al Pentateuco redatto dal monaco alto-medievale, Bruno di Segni, che fu vescovo della città di Asti ed entrò in contatto con personaggi chiave della cultura dell’XI secolo avrebbe ispirato l’incipit della Divina Commedia. “Ma ora io rendo grazie a Dio onnipotente, che fino a qui mi ha guidato sulla via dritta, come credo, per questa selva oscura assai fitta”, scrive il religioso al termine della faticosa stesura del commento al libro dell’Esodo. Impossibile non riconoscere in queste poche righe una forte analogia con l’incipit della Divina Commedia. Un’assonanza che poche righe più giù ritorna ancora in Bruno di Segni quando definisce la selva “aspra” e “amara”.
La scoperta destinata ad accendere il dibattito culturale è il frutto del lungo ed articolato studio condotto da Giulio d’Onofrio, docente di storia della filosofia medievale all’Università di Salerno, nel libro “Per questa selva oscura”, appena pubblicato da Città Nuova.
“É la testimonianza - spiega l’autore a Vatican News - che Dante utilizza e conosce le fonti che costituivano la base della tradizione monastica”. Una simile premessa, “apre alla possibilità di leggere Dante non come classicamente si fa, ovvero come un aristotelico, dipendente per lo più da Tommaso d’Aquino e Alberto Magno. Senza negare l’influenza di questi autori del XIII secolo, si può quindi affermare che la cultura alto-medievale, patristica e monastica, abbia fortemente influenzato la concezione dantesca in relazione ad un tema molto forte nella Divina Commedia come la purificazione dell’uomo dal male e l’attuazione delle virtù, intesa come realizzazione del progetto che Dio ha pensato quando ha creato l’uomo”.
In estrema sintesi si comprende meglio la missione di Dante: “portare la verità del Vangelo agli uomini che l’hanno dimenticata e mostrare che per tutti c’è la possibilità di essere felici”. La mentalità monastica infatti era tutta “finalizzata alla realizzazione dell’uomo perfetto che attua in sé, ciò che Dio vuole per lui fin dai tempi della creazione”. Questa visione della vita ricalca quella della filosofia antica secondo cui l’uomo è felice quando realizza la propria perfezione dell’anima, entelechia, le capacità e le virtù che ha in sé”.
La conoscenza da parte di Dante di queste idee apre a nuove interpretazioni della sua opera: “É una concezione di tipo platonizzante - prosegue d’Onofrio - che implica la presenza di archetipi, di idee eterne nella mente di Dio. In questo modo possiamo leggere in modo nuovo famosi testi come il sonetto dantesco Tanto gentile e tanto onesta pare: da sempre studiato come ispirato all’amore cortese e all’ideale della donna angelo, se riletto alla luce delle fonti monastiche si comprende che l’ideale di bellezza incarnato da Beatrice è quello dei filosofi greci antichi: perfezione dell’idealità dell’essere umano che realizza in modo perfetto la volontà divina. Beatrice in questo sonetto è infatti anticipazione delle virtù di Maria descritte da Dante nell’ultimo canto del Paradiso”.
“Nella terza cantica inoltre - prosegue d’Onofrio - Il luogo dove sono i santi è la mente di Dio. Dante viene accolto nella mente di Dio per poter raccontare agli uomini come purificarsi dagli errori e raggiungere la beatitudine. É nella mente di Dio che le creature diventano come Dio, perché desiderano ciò che Dio desidera.
Lo studio di D’Onofrio è una testimonianza della fecondità e della ricchezza, ancora da penetrare a fondo, dell’opera di Dante Alighieri, il cui messaggio, a quasi settecento anni dalla morte, è “immensamente attuale”. “Le prospettive aperte da questo studio - aggiunge l’autore - non sono state finora considerate abbastanza. Se ad esempio leggiamo la parola virtute la traduciamo automaticamente come “virtù, perfezionamento etico”, ma nel linguaggio alto medievale essa indica la potenzialità, l’attuarsi di ciò che è nelle capacità dell’uomo e che con una conversione al bene si può attuare”.
“Allo stesso modo va compresa la parola salute: Dante si innamora di Beatrice quando gli concede il saluto. Lei, è mediatrice tra umano e divino, venuta da cielo in terra a miracol mostrare, salutando si fa portatrice di salvezza”.
Per intendere pienamente il pensiero di Dante quindi occorre penetrare ciò che lui ha studiato e comprendere il contesto nel quale si è formato e dal quale ha preso le mosse per compiere l’alta missione, teoretica ed etica, di elevazione e rieducazione dell’umanità, dispersa in una selva oscura.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 04 gennaio 2021
NOTA:
DANTE E BEATRICE (BELLA DEGLI ABATI, LA MADRE)
Dopo i maestri del sospetto (Marx Nietzsche e Freud), come è possibile (Kant) continuare a pensare all’altezza del #Dantedi2021 che il Sommo Poeta tradisca spiritualmente la sua sposa Gemma Donati e i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor Beatrice? Sogno o son desto?
SANTI E BEATI.
Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Corpus Domini)
di P. Giovanni Lauriola ofm *
La festa del Corpus Domini è la festa del Corpo del Signore, è la festa dell’Eucaristia. Per la presenza reale di Cristo, l’Eucaristia richiama direttamente alla memoria il mistero dell’Incarnazione, che costituisce l’asse portante e centrale della sua stessa realtà sia nella concezione teologica che pastorale. Poiché con il mistero dell’Incarnazione, l’uomo è stato come “divinizzato”, Cristo per assicurare nel tempo questa delicata e speciale identità all’uomo, si è costituito “pane” per alimentarlo spiritualmente lungo l’arco del tempo. L’Eucaristia, pertanto, è fundamentum et forma o fons et culmen della Chiesa, che, così, diventa la “continuazione storica dell’Incarnazione”, con il compito specifico di amministra tutti i beni della Redenzione, operata liberamente dallo stesso Cristo, e consegnato specialmente nel settenario sacramentale.
Pensiero magistralmente espresso e confermato modernamente dal concilio Vaticano II in diversi documenti. I principali. Attraverso questo settenario, i credenti “si uniscono in modo arcano e reale a Cristo sofferente e glorioso... [E specialmente] nella frazione del pane eucaristico, partecipando noi realmente nel Corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con Lui e tra di noi... Così noi tutti diventiamo membri di quel Corpo... [di cui] il capo è Cristo... l’immagine dell’invisibile Dio, e in Lui tutto è stato creato” (LG 7). L’“Eucaristia, come centro vertice della storia della salvezza, rende presente quel Cristo, che della salvezza è l’autore” (AG 9). “Nell’Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo...che, mediante la sua Carne... dà vita agli uomini”, confermando “nel suo Sangue la Nuova Alleanza” (PO 5. 4). Per mezzo dell’Eucaristia “i fedeli hanno accesso al Padre per il Figlio, Verbo Incarnato, che ha sofferto ed è stato glorificato, nell’effusione dello Spirito santo, ed arrivano alla comunione con la santissima Trinità” (UR 15); “con il sacramento del pane eucaristico viene rappresentata e realizzata l’unità dei fedeli che costituiscono un solo corpo in Cristo” (LG 3).
Storia
L’origine storica della festa del Corpus Domini risale al 1247, in Belgio, per contrastare le conseguenze della tesi di vescovo Berengario di Tours, che, nel 1047, aveva affermato essere la presenza di Cristo nell’Eucaristia solo simbolica e non reale. La questione, però, rivela un diverso modo di considerare l’Eucaristia. Difatti, prima del XI secolo, l’attenzione era rivolta non tanto sul fatto dell’Eucaristia in sé stessa, quanto di essere offerta per nutrire e santificare l’uomo. Si riconosceva il fine dell’Eucaristia, ossia la presenza reale del Corpo e del Sangue di Cristo, solo indirettamente attraverso gli effetti santificanti nell’uomo che si comunicava. A partire dal XI secolo, invece, l’attenzione si concentra principalmente sul realismo eucaristico, per cui la presenza reale di Cristo diviene il fine principale.
A questa diversa visione di considerare l’Eucaristia, si accompagnò anche una diversa manifestazione della devozione, imperniata direttamente sull’Ostia, per adorarla. Spesso, questo modo devozionale ha portato anche a delle esagerazioni: i fedeli, a volte, andavano da una chiesa all’altra per contemplare l’Ostia, e il sacerdote doveva tenerla in ostensione più del solito, per favorire la devozione; e la stessa contemplazione sostituì, a dirittura, la stessa Comunione eucaristica, tanto da indurre la Chiesa a porre l’obbligo al fedele a ricevere l’Eucaristia almeno una volta all’anno. Precetto valido ancora oggi (Codice di Diritto Canonico, can. 920). Urgeva, quindi, una presa di posizione ufficiale dell’autorità della Chiesa.
Due le occasioni che favorirono l’intervento del Papa. Una, di carattere teologico, venne dalla tesi di Berengario, che, negando la possibilità di separare gli accidenti visibili dalla sostanza, senza negare la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, rifiutava la tesi della conversione di sostanza del pane e del vino nel corpo e sangue del Cristo. Dopo varie condanne contro Berengario (concilio di Parigi 1051, di Tours 1055, di Roma 1059, Poitiers 1075, di Saint Maixeut 1076 e nuovamente a Roma nel 1078), dove, in un concilio convocato in Laterano (1079) dall’amico Ildebrando, diventato nel frattempo Papa Gregorio VII, Berengario firmò un atto di fede, in cui ritrattava completamente le sue concezioni e affermava di credere alla presenza reale di Cristo nell’Eucaristia. Verità definita, poi, nel 1215, dal concilio Laterano IV, come dogma di fede. L’altra occasione, di carattere devozionale, è dovuta alle visioni di suora benedettina Giuliana di Cornillon (1191-1258), che, tra gli anni 1207-1227, raccontò di avere visto una luna splendente, simbolo della Chiesa, turbata da una macchia opaca. Il segno venne interpretato, dagli esperti dell’epoca, come una richiesta di istituzione di una festa liturgica in onore dell’Eucaristia. E, il vescovo di Liegi, Roberto di Thourotte, nel 1246 istituì la festa del Corpus Domini nella sua diocesi; il suo esempio fu imitato da altri vescovi nelle rispettive diocesi.
A questo movimento devozionale, è da aggiungere anche il miracolo di Bolsena nel 1263. Urbano IV, che si trovava a Orvieto, mandò sul luogo il Vescovo di Orvieto, Giacomo, per verificare il fatto. Questi, in compagnia dei teologi Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio, oltre a constatare il miracolo, portò le stesse reliquie al Papa, che le espose in cattedrale alla venerazione del popolo di Orvieto. E così, Urbano IV, l’11 agosto 1264, estese la festa del Corpus Domini alla Chiesa universale con la bolla Transiturus de hoc mundo: (“Quando stava per passare da questo mondo”), in cui dava anche la motivazione: “Sebbene l’Eucaristia ogni giorno venga solennemente celebrata riteniamo giusto che, almeno una volta l’anno, se ne faccia più onorata e solenne memoria. Le altre cose, infatti, di cui facciamo memoria, noi le afferriamo con lo spirito e con la mente, ma non otteniamo per questo la loro reale presenza. Invece, in questa sacramentale commemorazione del Cristo, anche se sotto altra forma, Gesù Cristo è presente con noi nella propria sostanza. Mentre stava, infatti, per ascendere al cielo disse: ‘Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo’“ (Mt 28, 20).
[...]
L’Eucaristia come fons del culto a Dio
L’Eucaristia è il sacramento per eccellenza, perché contiene ciò che realmente significa, il Verbo Incarnato, il Cristo, il Christus totus. Mentre gli altri sacramenti significano la grazia accidentale conferita a colui che li riceve; l’Eucaristia, invece, significa e realmente contiene la grazia essenziale, cioè lo stesso Cristo, che è la fonte d’ogni grazia, “caput omnis gratiae”.
Poiché Cristo ha voluto restare tra noi in modo permanente, ha scelto anche il segno sacramentale di permanenza nell’Eucaristia. La sua presenza reale aiuta molto il credente a sviluppare la giusta devozione verso di Lui e amarlo in modo degno. Tanto è vero che ogni azione di culto nella Chiesa ha fondamento e perfezione solo in relazione all’Eucaristia. Lo si nota specialmente sia nel sacerdote che celebra con più diligenza i sacramenti, e sia il popolo che assiste con più devozione alla santa Messa. Si potrebbe anche pensare, per assurdo, se nell’Eucaristia non ci fosse la presenza reale di Cristo, tutti altri sacramenti perderebbero di importanza, e sparirebbe, forse, ogni devozione nella Chiesa, e non si potrebbe offrire il culto di adorazione o latria a Dio; dal momento che solo all’Eucaristia è dovuto il culto di latria come a Dio. Le stesse chiese non sarebbero che un luogo freddo e gelido, come un corpo senz’anima, senza cuore e senza sangue, un semplice ammasso ordinato di pietre.
L’Eucaristia e la Chiesa
Il rapporto tra Eucaristia e Chiesa è molto stretto e intenso. E questo specialmente in ordine al sacramento dell’Ordine che produce l’Eucaristia, e l’Eucarestia a sua volta realizza e alimenta la Chiesa, intesa principalmente come Corpo Mistico di Cristo. Scopo preminente del Corpo Mistico di Cristo è l’unità più profonda di tutto il genere umano nella carità più perfetta e nella consumazione dell’unità. Per quanto riguarda la struttura sacramentaria della Chiesa, fondata dallo stesso Cristo per stimolare e sviluppare la crescita spirituale della stessa realtà ecclesiale del Corpo Mistico, un posto privilegiato occupa certamente il “sacerdozio”. Onde la grande cura con cui bisogna trattare l’ordine sacerdotale, che attraverso il suo ministero unisce i fedeli allo stesso capo, che è Cristo. La dignità e la grandezza del sacerdote proviene direttamente dalla sua relazione con l’Eucaristia, nella cui offerta egli agisce sempre in nome di tutta la Chiesa. Per questo si può chiamare coi nomi più belli e di grande spessore teologico: “mediatore tra Dio e la Chiesa”, “ambasciatore della sposa allo sposo”, “vicario di Cristo”.
Culto
L’Eucaristia, come il continuo “presente” storico di Cristo, costituisce veramente il cuore della Chiesa, il culmine e il vertice del culto latreutico a Dio, come Cristo stesso dice: “Che siano tutti una cosa sola, come tu sei in me, o Padre, ed io in te; che essi siano una cosa sola in noi, affinché il mondo creda che tu mi hai mandato. E la gloria che tu mi desti, io l’ho data loro, perché siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola, io in essi e tu in me, affinché siano perfetti nell’unità” (Gv 17, 21-23).
La festa del Corpus Domini, essendo una delle più popolari della cristianità, viene festeggiata con imponenti processioni. A Roma, la processione è presieduta dallo stesso Papa.
L’uso della processione nella festa del Corpus Domini è stata introdotta da Giovanni XXII, nel 1316.
Normalmente la celebrazione del Corpus Domini si festeggia sessanta giorni dopo la Pasqua, ossia il giovedì dopo la festa della SS. Trinità, nei paesi dove è festa di precetto; dove, invece, non è festa di precetto, si posticipa alla domenica successiva, come in Italia dal 1977.
* Fonte: Santi e Beati (ripresa parziale).
Riletture.
La processione della Bibbia nella "Commedia"
Fra i commentatori cresce l’interesse per la Sacra Scrittura nella Commedia. Più che “processione mistica”, il canto XXIX è la processione della Bibbia
di Antonio Pitta (Avvenire, domenica 24 aprile 2022)
«Ch’al collo d’un grifon tirato venne». Il passo del Purgatorio (XXIX, 108) è il fulcro dell’ermeneutica biblica per Dante. Senza sottovalutare il debito per la letteratura, fra i commentatori cresce l’interesse per la Sacra Scrittura nella Commedia. Più che “processione mistica”, il canto XXIX è la processione della Bibbia. Si è nello snodo tra il Purgatorio e il Paradiso e Matilde invita Dante a guardare oltre «l’affetto de le vive luci». La processione inizia le “sette liste” dello Spirito Santo menzionate nell’Apocalisse (Ap 1,13-20. La prima parte del corteo vede «ventiquattro seniori»: secondo la tradizione latina ventiquattro sono i libri dell’Antico Testamento, il codice imprescindibile per il Nuovo Testamento. Al centro sono posti i simboli dei quattro evangelisti: Marco (il leone), l’uomo (Matteo), il bue (Luca), e l’aquila (Giovanni). I vangeli circondano «un carro... triunfale». La Chiesa è il carro che occupa la parte centrale della processione: avvolta dalla Scrittura, la Chiesa trova in essa il suo spazio vitale.
Il centro della processione è occupato dal grifone che conduce il carro. Con le due nature - umana (il leone) e divina (l’aquila) - il grifone è Gesù Cristo che, da Risorto, guida la Chiesa e conferisce senso alla Scrittura. Segue la sosta sul tipo di processione: è trionfale come quella di Scipione e di Cesare Augusto. Così è evocato l’incontro finale con il Risorto nella parusia (1Ts 4,17).
Nella seconda parte, il corteo riprende con tre donne: l’amore (il rosso), la speranza (lo smeraldo) e la fede (la neve), citate in 1Ts 1,3. A sua volta, l’amore genera le quattro virtù cardinali (la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza) ereditate dallo stoicismo. La processione avanza lenta verso l’epilogo con Luca, autore anche degli Atti degli apostoli, e Paolo: «due vecchi in abito dispari». Paolo è rappresentato con «la spada lucida e aguta, / tal che di qua dal rio mi fé paura». Pur trovandosi all’altra riva del Lete, il poeta è spaventato dalla spada della parola di Dio. La visione termina con «quattro in umile paruta»: Pietro, Giovanni, Giacomo e Giuda, gli autori delle lettere minori. «Un vecchio solo / venir, dormendo» chiude la processione della Bibbia: è l’autore dell’Apocalisse. A questo punto la processione si ferma davanti a Dante «con le prime insegne».
La processione della Bibbia esprime alcuni contenuti d’inestimabile attualità. Paragonata alla «gran foresta», la Bibbia è riconosciuta per la sua natura letteraria che veicola la sua ispirazione: «La Scrittura condescende / a vostra facultate, e piedi e mano / attribuisce a Dio e altro intende» ( Paradiso, IV, 43-45). Il motivo della condiscendenza rinvia alla concezione patristica della Scrittura e anticipa «l’ammirabile condiscendenza dell’eterna Sapienza» (cfr. la costituzione del Concilio Vaticano II Dei Verbum, 13).
Spesso l’ermeneutica biblica ha visto una scissione nociva con la letteratura, come se l’ispirazione biblica potesse prescindere dall’ispirazione artistica e viceversa. Contro tale frattura, all’inizio del canto XXIX Dante chiede il soccorso delle muse affinché l’aiutino a mettere in versi «forti cose». Quanto più la Bibbia è letta secondo le dinamiche dell’ispirazione artistica, tanto più veicola significati sempre più profondi. L’unità della Scrittura con i quattro sensi caratterizza la processione del carro con il grifone: il senso letterale da cui fluiscono il senso allegorico (la fede), morale (l’amore) e anagogico (la speranza). Tra senso letterale e spirituale c’è un diuturno travaso: il senso letterale senza quello spirituale cade nel letteralismo; il senso spirituale senza il letterale naufraga nello spiritualismo. Soltanto lo Spirito genera il “trascendimento” (cfr. l’esortazione apostolica di Benedetto XVI Verbum Domini, 38) dalla lettera agli altri sensi della Scrittura: è la “trasfigurazione” della Parola (cfr. il motu di Francesco Aperuit illis, 14).
La Chiesa (il carro) e Gesù Cristo (il grifone) catalizzano la processione della Bibbia. Senza la Sacra Scrittura, la Chiesa è un carro impantanato. Soltanto Cristo, morto e risorto, conduce la Chiesa dove, quando e come vuole nella storia umana. Una mirabile inclusione apre e chiude la processione della Bibbia nella Commedia: a «vidi le fiammelle andar davante» corrisponde il carro che si ferma di fronte a Dante con «le prime insegne». Scriveva bene L. Alonso Schöckel: «La Bibbia non è stata scritta per i biblisti, né il Don Chisciotte per gli studiosi di Cervantes, né la Divina Commedia per gli esperti di Dante».
UNA QUESTIONE DI LANA CAPRINA E E IL "SOGNO" DELLA "DIVINA COMMEDIA" ...
Scambiare un montone, un ariete, con un caprone, e identificare capro espiatorio e agnello di Dio (René Girard, "Vedo Satana cadere come la folgore", Milano 2001), come è stato possibile? Accolta l’interpretazione del messaggio evangelico prodotta da Paolo di Tarso e, coerentemente, cancellata la differenza ta capro e agnello, pur con qualche diabolicità, Girard va avanti: "Satana fa del cattivo mimetismo, ciò che spero di non fare io stesso" (op. cit., 199). E, contro ogni speranza, la "caduta" nella profondità della Terra continua! Solo Dante, con Virgilio, riesce a vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) e, al contempo, a riandare alla sorgente del suo stesso essere, all’amor "che move il sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145), nel cerchio della vita.
ARIETE E CAPRICORNO: COSMOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E "PARADISIO TERRESTRE"...
La brillantezza del lavoro di René Girard ha al proprio interno un nodo epocale da sciogliere, quello simbolizzato dal rapporto "Caino e Abele" (Bibbia) e "Romolo e Remo" (Roma): ha tentato di pensare un altro cristianesimo (al di là del sacrificio): è rimasto impigliato nella tradizione paolina e costantiniana (vale a dire, nell’orizzonte di Edipo) e, infine, a non avere alcuna cognizione "della Monarchia Universale [temporalis Monarchie]" di Dante, del suo progetto antropologico-teologico di costruzione di un nuovo "paradiso terrestre" e di una nuova Città, sì da essere "cive / di quella Roma onde Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102).
Federico La Sala
USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA E DELLA COSMOTEANDRIA: DUE SOLI (DANTE 2021)
Dare a Giuseppe ciò che è di Giuseppe e a Maria ciò che è di Maria! *
I paradigmi rimossi.
La maternità fonda il mondo (amore, non solo rispetto)
di Francesco d’Agostino (Avvenire, mercoledì 2 febbraio 2022)
Il rifiuto della maternità, che sta diventando uno dei tratti più caratteristici di questi anni (o, se così si preferisce dire, del ’postmoderno’) sta inevitabilmente alterando la stessa autocomprensione dell’umano. Non c’è infatti dimensione di vita che non si intrecci non solo con la generatività, ma in particolare con quella dimensione della generatività che è affidata alla donna, con la maternità.
Lo spazio di vita che la ’natura’ assegna agli uomini e alle donne viene psicologicamente violentato dalla rimozione di tre paradigmi, di cui le donne sono protagoniste: quello della mortalità, assimilata a una sventura soprattutto se tragica, precoce, collegata a una nascita; quello della vecchiaia (con le sue inevitabili fragilità ed esigenze di assistenza) e sempre più arbitrariamente ritenuta un indebito peso che egoisticamente ogni generazione scarica sulle generazioni successive; e quello della malattia, percepita ormai come uno scandalo intollerabile in una società che ha fatto della ’salute’ il suo vero e proprio mito dominante. L’esito di queste dinamiche, che si intrecciano, creando vincoli che nessuno sembra ormai in grado di sciogliere, fa della società contemporanea un contesto freddo e conturbante, al quale tutte le donne vorrebbero sottrarsi, senza però assolutamente sapere in che modo.
Non è questo il luogo per formulare proposte o avanzare suggerimenti. Ma può essere il luogo per esortare tutti (uomini e donne) a riflettere sul primato dell’identità femminile su quella maschile, che la cultura postmoderna ci impone di riconoscere. Un primato sociologico-culturale, innanzitutto, come ho cercato di delineare nelle righe precedenti. Ma soprattutto un primato antropologico.
Dio ha affidato alla donna la cura e la formazione dell’identità umana, in modo così deciso e irrevocabile che difficilmente, davanti a un’icona o a un’immagine che rappresentano una madre che tiene sulle ginocchia il proprio figlio, non percepiamo una sorta di misteriosa emozione o commozione. Quella donna rappresentata da un artista, indipendentemente dal valore estetico della rappresentazione, è un’immagine di nostra madre e quel bambino che essa tiene in grembo è una nostra immagine.
Per rappresentare l’umanità in una straordinaria sintesi bastano solo queste due figure: la Madonna e il Figlio (ed ogni donna è di principio una ’Madonna’ e ogni bambino è di principio un ’Bambino Gesù’). Aggiungiamo pure, e dobbiamo farlo, la tenerissima immagine di san Giuseppe, ma sappiamo tutti benissimo che la sua santa e necessaria paternità è di mero supporto alla maternità di Maria.
Bisogna tornare a insegnare alle bambine, a tutte le bambine, che devono amare i piccoli, i fratellini, e in generale i ’maschi’, perché l’amore, quel poco di preziosissimo amore che sopravvive nel mondo, è affidato alla loro custodia e resterà tale per tutto l’arco della loro vita. E dobbiamo tornare a insegnare ai bambini che non basta un sincero e doveroso rispetto per le bambine, per tutte le donne, per il ’femminile’: non il ’rispetto’, ma l’amore è ciò che deve guidare il mondo ed è la donna, e la donna soltanto, che apre e dona al mondo la via dell’amore.
Se e quando intenzionalmente e consapevolmente la donna rifiuta la maternità è come se rifiutasse la dimensione più autentica della propria identità, cioè proprio quello - ci piaccia o no riconoscerlo - che sta a fondamento del mondo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITÀ, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA".
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
DANTE2021
LA MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE E IL MESSAGGIO SEGRETO DELLA DIVINA COMMEDIA, DEL MUSICO DI LEONARDO, DELLA PRATICA DELLA MUSICA DI GAFFURIO, E DELLA GAIA SCIENZA DI NIETZSCHE...
A) IL MUSICO. "Il messaggio segreto nel quadro di Leonardo: Un messaggio nascosto, per di più in chiave musicale, all’interno di un quadro: “Il Ritratto di Musico” di Leonardo da Vinci. Lo ha svelato lo storico d’arte e ricercatore siciliano Giuseppe Petix alla Fordham University di New York. [...] Petix ci racconta anche: «Il rebus all’interno del cartiglio è stato trovato grazie alle conoscenze musicali che abbiamo del periodo di Leonardo. Un rebus che se decifrato forma il versetto o meglio il rondò “Oh Re fammi lagnar: Sol l’amore mi fa sollazzar”, che in versione prosaica potrebbe essere visto così “Oh dio, permettermi di lamentarmi, concedimi un lamento da uomo, solo l’amore mi rende felice”». Un inno, quindi, una preghiera, una richiesta di aiuto [...] Questa frase ricorda le lamentazioni presenti nei salmi della bibbia, e di preciso il "dio" del quale si parla potrebbe rappresentare l’anima del Davide Biblico [...]" (Laura Pace , i.Italy, November 25, 2019)
C) LA GAIA SCIENZA (IV, fr. 334). "Si deve #imparare anche l’amore. Si deve imparare ad amare. Ecco quel che ci accade nella musica: si deve prima imparare a udire una sequenza e una melodia in genere, a enuclearla nell’ascolto e a distinguerla isolandola e delimitandola come se avesse una vita propria; quindi bisogna sforzarci e impiegare la nostra buona volontà per sopportarla, malgrado la sua estraneità, bisogna fare un esercizio di pazienza di fronte al suo sguardo e alla sua espressione, considerare con benevolenza quel che c’è di inusitato in essa - finalmente arriva un momento in cui ne abbiamo preso l’abitudine, in cui l’attendiamo, [...] finché non si sia diventati i suoi umili ed estasiati amanti, per cui non v’è più niente di meglio da chiedere al mondo se non la melodia e ancora la #melodia.
Questo ci accade però non soltanto con la #musica: proprio in questo modo abbiamo imparato ad amare tutte le cose che oggi amiamo. In definitiva, siamo sempre ricompensati per la nostra buona volontà, per la nostra pazienza, equità, mitezza d’animo verso una realtà a noi estranea, quando lentamente essa depone il suo velo e si manifesta come una nuova inenarrabile bellezza: è questo il suo ringraziamento per la nostra ospitalità. Anche chi ama se stesso, lo avrà appreso per questa strada: non ce ne sono altre. Si deve imparare anche l’amore. (F. Nietzsche).
D) COSMOLOGIA DANTESCA. "L’amor che move il sole e le altre stelle" (Par., XXXIII, 145).
E) DANTE LEONARDO E GAFFURIO: LE TRACCE DI UN PROGRAMMA E DI UNA STRATEGIA CULTURALE CON RADICI PROBABILMENTE GIOACHIMITE E FRANCESCANE...
Il messaggio segreto del Musico di Leonardo e il legame stretto con la Musica delle Sfere ("Theorica Musicae", (1492; "Practica Musicae", 1496) di Franchino Gaffurio (con Apollo, le Grazie, le Muse, il Cielo delle Stelle Fisse e dei Pianeti, e il Serpente) rende possibile una interpretazione e connesione con il viaggio della Divina Commedia: il cammino nel regno dell’Apollo de-caduto (dopo la venuta del nuovo Re, di Cristo), cioè di Lucifero, è finito ed è "ora" che Dante con Virgilio si liberino della loro stessa pelle di serpente e, lasciato Lucifero con" le gambe in sù" (Inf. XXXIV, 90) alle loro spalle, ... mettano i piedi a terra! La strada per il paradiso terrestre e celeste è libera.... sotto il cielo stellato, inizia la "vita nuova"!
F) LA MUSICA DELLE SFERE, LA DIVINA COMMEDIA, E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Nella sua "Mitologia creativa" (Milano 1992), Joseph Campbell, dopo aver premesso che "anche Dante invocò le Muse - all’inizio dell’inferno, nel Canto II - e fu guidato sia attraverso l’Inferno sia sulla cima paradisiaca del Monte del Purgatorio dal pagano Virgilio" (p. 128) e aver analizzato in dettaglio la Figura di «la Musica delle Sfere», "trattada un’opera neoplatonica del quindicesimo secolo, la Pratica musicae di Franchino Gaffurio, pubblicata a Milano nel 1496", scrive che "[...] l’intera Divina Commedia di Dante esprime questa visione pagana di una dimensione spirituale dell’universo", e, al contempo, lo "imbottiglia" (senza resti) nella tradizione cattolico-romana: "[...] Il fatto che, in Dante, il potere di guida dei pagani termini alla sommità del Purgatorio, nel Paradiso Terrestre, si accorda con la formula di san Tommaso secondo cui la ragione può condurre, come fece con gli antichi, fino al vertice delle virtù terrene, ma solo la fede e la grazia soprannaturale (personificata da Beatrice) possono portare oltre la ragione, fino alla sede di Dio". Pur, se con incertezze e difficoltà, continua e finisce paradossalmente col riportare Dante nell’orizzonte della tragedia e dell’antico patto edipico (di "mammasantissima", altro che patriarcale): "Tuttavia, analizzando questo Dio Trinitario che, nella dottrina cristiana delle tre persone divine in un’unica sostanza divina, abbiamo una trasposizione delle tre Grazie e dell’Apollo Iperboreo in un ordine mitologico di maschere escusivamente maschili di Dio, il che si accorda bene con lo spirito patriarcale dell’Antico Testamento, ma sbilancia radicalmente le connotazioni simboliche, e quindi spirituali, non solo del sesso e dei sessi, ma anche dell’intera natura".
Federico La Sala
L’OMELIA PERFETTA DI NICCOLÒ CUSANO
L’INCARNAZIONE COMPLETA LA CREAZIONE
di PIERO STEFANI (Corriere della Sera, La Lettura, 19 Dec 2021)
Il rito cattolico romano prescrive, per il giorno di Natale, tre diverse messe: quella della notte, quella dell’aurora e quella del giorno. Ognuna prevede un Vangelo diverso. A mezzanotte si legge Luca (2,114): è la scena della nascita di Gesù a Betlemme, degli angeli e dell’annuncio ai pastori, un quadro che è quasi inevitabile associare al presepe. Al primo mattino i pochi presenti ascoltano i versi successivi (Luca 2,15-20) nei quali si descrive la stupita visita dei pastori a Maria, a Giuseppe e al bambino adagiato sulla mangiatoia. Quando il sole è già alto, il brano evangelico accantona la componente narrativa e si immerge nelle profondità del cosiddetto Prologo di Giovanni (1,1-18): una sequenza di versetti che culmina là dove si afferma che la Parola (termine spesso reso con Verbo, il greco ha logos) si fece carne.
Il senso del Natale è sospeso tra due estremi: da un lato vi è il richiamo alla nascita che accomuna tutti i viventi, dall’altro l’annuncio che il Figlio, la seconda persona della Trinità, si è fatto uomo. A differenza della prima, questa seconda convinzione è fatta propria solo da una parte minoritaria dell’umanità.
Come festa legata alla nascita, il Natale ha la potenzialità di accomunare tutti. Ognuno, se vi dedica qualche riflessione, comprende che la tenerezza suscitata da un neonato è un riflesso della legge, priva di eccezioni, secondo la quale tutti nasciamo non autosufficienti e bisognosi di aiuto. Il semplice fatto di essere vivi attesta che qualcuno si è preso cura di noi. Il senso di solidarietà avvertito a Natale trae alimento da queste remote radici. Dietro la banalità del detto «a Natale si è tutti più buoni» si celano profondità esistenziali.
Le visioni di fede sono di frequente paradossali. I credenti sanno di essere una minoranza ma nello stesso tempo devono essere certi che le loro convinzioni riguardano tutti, anzi concernono il tutto. Si tratta di una sproporzione avvertita anche quando la maggioranza della società era cristiana.
Nel Natale del 1440, lo stesso anno in cui scrisse De docta ignorantia, il suo libro più celebre, Niccolò Cusano tenne ad Augusta, in Germania, una lunga predica nella quale la dottrina superò l’ignoranza. Alcuni passaggi sono rivelatori della sua filosofia. Dio è infinito, il mondo è invece finito. Tra infinito e finito non c’è proporzione. Tuttavia il mondo non può esistere senza un rapporto con il suo Principio che infinitamente lo trascende.
Come fa dunque l’universo a esserci? Vi è un’unica risposta possibile: ciò avviene a motivo dell’Incarnazione, «infatti se Dio non avesse assunto la natura umana - la quale compendia in sé tutti gli altri esseri come loro centro unificante - l’universo nella sua totalità non sarebbe compiuto e perfetto, anzi non sarebbe affatto un universo». La convinzione umanistica che giudica l’uomo un «microcosmo» è chiamata in causa per dare ragione dell’esistenza di tutte le cose. Dio si incarna non a motivo del peccato umano ma perché il creato sia e sussista.
Nessuno esige dai presbiteri che predicheranno nella notte e nel giorno di Natale di misurarsi con le abissali prospettive cusaniane. La richiesta è più contenuta, sarebbe infatti sufficiente che gli immancabili appelli al bambinello e alla solidarietà fossero davvero capaci di misurarsi con la serietà dell’esistenza.
ARTE, RELIGIONE, E ANTROPOLOGIA. SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO...
Quel padre nell’ombra
Il più bel dipinto su san Giuseppe rimasto per secoli ignoto
di Claudio Strinati (L’Osservatore Romano, 04 dicembre 2021)
Uomo probo e riservato, padre maturo, amorevole, sollecito. Questo è il san Giuseppe dipinto nella bellissima pala d’ altare della chiesa di Santa Maria Assunta nel piccolo remoto borgo di Serrone, oggi depositata presso il museo capitolare diocesano di Foligno. Un’ opera d’ arte tanto importante in un luogo così appartato! Un grande dipinto ad olio su tela, alto quasi tre metri per due, rimasto ignoto per secoli fino a che, una quarantina d’ anni fa, fu visto e studiato da un manipolo di esperti guidati da Bruno Toscano, uno dei maggiori storici dell’arte del nostro tempo.
Ne rimasero incantati ma si accorsero che non c’erano testimonianze o documenti antichi che parlassero dell’autore. E non c’erano firme sull’opera tranne una lettera G segnata sulla pialla dietro alla figura del tenero Bambino Gesù in piedi. Lettera che può far individuare l’autore in un artista misterioso e pressoché dimenticato, Giovanni Demostene Ensio, aristocratico pittore attivo in area romana per committenti provenzali tra fine Cinquecento e inizio Seicento, aggregato all’ Accademia di San Luca e noto solo per lusinghiere testimonianze documentarie.
Risultò, infatti, evidente, oltre alla meravigliosa bellezza, la mirabile composizione dei colori fatti di materiali preziosi di origine soprattutto minerale, di cui si sa che il maestro Giovanni Demostene Ensio fosse tra i pochissimi in quel tempo a utilizzare, confermando l’ ipotesi di Toscano che aveva immaginato un ignoto pittore di origine francese o fiamminga, operoso in Italia nei primi anni del diciassettesimo secolo.
Il quadro rappresenta la bottega di san Giuseppe che non è qui un semplice artigiano ma un tecnico di primo livello che lavora il legno anche per l’edilizia. Il pittore descrive infatti con cura scientifica, veramente fiamminga, tutti gli strumenti di lavoro, le assi e i piani su cui il maestro ebanista sta lavorando, nonché la poderosa porta di ingresso al laboratorio fabbricata da Giuseppe stesso, appena aperta per far entrare la morbida luce del mattino. Questa rischiara il sorriso sul volto del Bambino Gesù che, sotto gli occhi seri, attenti e scrupolosi del padre sta legando un pezzetto del filo bianco proveniente dal gomitolo utilizzato dalla mamma nel cucito, per fabbricare un giocattolino a forma di croce, chiara premonizione della sua Passione futura. Con amorevole evangelica umiltà, il pittore rappresenta una miriade di cose sparse per il laboratorio, dai trucioli per terra, alla scatola di lavoro della Vergine agli zoccoli abbandonati al suolo. Tutto forgiato da quell’uomo saggio e avveduto. È lui che ha progettato, costruito e attrezzato il grande ambiente compresa la magnifica finestra bifora che si vede in fondo facendolo sembrare una cattedrale piuttosto che un laboratorio. Ed è lui che ha plasmato il clima familiare e morale che genera sia la composta quiete espressa dalla giovane moglie assorta nei suoi pensieri, sia la crescente consapevolezza del divino fanciullo colto nel momento magico della prima scoperta della famiglia intorno a noi e del mondo che si aprirà di fronte.
Il volto di Giuseppe immerso nell’ombra è nitidamente percepibile. E in questo modo rifulge il padre putativo della tradizione che significa la funzione paterna svincolata dal fattore biologico primario che compete esclusivamente alla madre.
Quasi che il pittore volesse farci vedere, attraverso tale umanissima rappresentazione di san Giuseppe, come questo principio, insondabile e apparentemente discriminante, non valga solo per lui, ma valga in realtà per tutti gli esseri umani anche se i nostri figli non sono figli di Dio.
Ma il pittore ci dice che invece è proprio così. Tutti, maschi o femmine o quant’altro, siamo, in quanto embrioni, feti e persone, figli di Dio perché il corpo generato dalla madre funziona a seguito dell’esito della fecondazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo ma la vita in sé che possiamo chiamare l’ anima scaturisce da qualcos’ altro che possiamo chiamare il divino.
di Claudio Strinati
Segretario Generale dell’ Accademia Nazionale di san Luca
NOTA:
ARTE, RELIGIONE,E ANTROPOLOGIA.
SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
"[...] è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo.
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe.
Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva.
È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe” [...]" (Antonio Faita, "Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli", Fondazione Terra d’Otranto, 19.03.2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 10.11.2019).
Federico La Sala
La perdita dell’etica pubblica senza una fede laica nel bene comune
Sinistra. Scomparso l’antagonista storico del capitalismo, regrediti i ceti medi e la classe operaia avanzata, è emersa una nebulosa rancorosa, un magma sociale senza morale. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». (Giacomo Leopardi)
di Piero Bevilacqua (il manifesto, 20.11.2021)
In un Paese nel quale due uomini come Silvio Berlusconi e Matteo Renzi son potuti assurgere al ruolo di presidenti del Consiglio, e il primo ambisce alla Presidenza della Repubblica, con ogni evidenza è accaduto qualcosa di grave nei fondamenti della sua vita civile. Quanto è avvenuto segnala un guasto profondo nell’etica pubblica, un decadimento di vasta portata della moralità collettiva.
Occorre ricordare che i processi di degrado dell’etica pubblica, in atto in Italia, ingigantiscono in virtù dei singolari caratteri originali del nostro Paese, un fenomeno di per sé universale: lo svuotamento ideale e il decadimento della politica quale arte moderna del governo delle società, pratica della sua trasformazione progressiva o rivoluzionaria. Si tratta di questioni note: il tracollo delle ideologie del ‘900, la dissoluzione dei partiti popolari e la loro riduzione a comitati elettorali, la corruzione dilagante, ecc. Questa analisi coglie però una parte della realtà.
La scomparsa dell’antagonista storico del capitalismo (comunismo e in parte socialdemocrazia) ha favorito, insieme ai processi materiali della globalizzazione, la marginalizzazione dei ceti medi e della classe operaia avanzata, che avevano costituito per decenni la base più estesa di consenso e partecipazione pubblica nelle società industriali. Erano questi ceti che garantivano la moralità progressista della politica. La loro regressione sociale, anche per effetto della riduzione del welfare, ha allontanato masse estese dalla militanza politica, dalla partecipazione elettorale, da ogni interesse per la cosa pubblica.
Al loro posto è emersa una nebulosa indistinta di gruppi e individui priva di connotazioni politiche coerenti, che sostituisce rivendicazioni e prospettive di riforma dell’esistente con espressioni rancorose di risentimento, confuse pretese risarcitorie, ostilità contro l’”altro”. Mancando la direzione dell’intelletuale collettivo che erano i partiti, la scena pubblica viene occupata così da un magma sociale a cui politologi e commentatori, in mancanza di meglio, hanno dato il nome di popolo. Un lemma vecchio per una realtà del tutto inedita.
Se un dato distingue le società industriali questa è la loro ricchissima stratificazione sociale. Il popolo è un concetto dell’800 per l’800. Ma l’analisi politologica non ha ancora colto l’essenziale. Dietro la decadenza della politica si erge gigantesco un fantasma che rimane nascosto agli sguardi superficiali: il nichilismo. Quanto profetizzato da Nietzsche, la morte di Dio e la perdita di fondamenti di ogni morale, è ormai senso comune e investe la politica alle radici. Col dissolvimento della religione, la scomparsa, per lo meno in Occidente, delle fedi delle varie confessioni, veicolo pur sempre di valori morali, anche la politica tracolla.
Se la scienza politica, a partire da Machiavelli, fa a meno della religione, la politica corrente muore se nessuna “religione” la sostiene, neppure la fede laica nel bene comune e nella possibilità di cambiare il mondo. E non è senza significato che ad anticipare questi anni sia stato il nostro Leopardi, il quale diversi decenni prima di Nietzsche aveva intravisto «questa universale dissoluzione dei principi sociali, questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in grande forse circa il futuro destino delle società civili». Si rilegge oggi con brividi di emozione e stupore il Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani(1824), per la potenza disvelatrice di uno sguardo che non lascia ombre alla situazione desolante del nostro tempo.
Dunque, il quadro generale è quello di una grave involuzione antropologica delle società umane, ma entro il quale, l’Italia è, per ragioni che Leopardi esamina in maniera impeccabile, il Paese in più gravi condizioni: «L’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun altra nazione europea e civile». Sembra scritto in questi giorni: «Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci». L’egoismo, il narcisismo, l’invidia, l’odio per l’altro erano allora la norma, prima che gli ideali del risorgimento investissero lo spirito pubblico.
Naturalmente all’analisi di Leopardi manca il ruolo dei media, i quali amplificano, rendono popolare, materia di spettacolo l’immoralità crescente del ceto politico e della cosiddetta società civile.
So per certo, per parafrasare Leopardi, che se le leggi l’avessero consentito, non pochi giornalisti avrebbero invitato Totò Riina ai loro programmi televisivi. Costoro sono incarnazioni perenni del tipo italiano dell’analisi leopardiana. Ebbene, è dalla profondità di tale catastrofe culturale e spirituale che la sinistra e le forze democratiche dovrebbero oggi prendere le mosse, perché la dissoluzione della società non abbia quale rimedio al caos un governo autoritario.
DANTE2021: ANTROPOLOGIA, DIVINACOMMEDIA, E MUSICOTERAPIA... *
La vita è una Commedia
di Alessandro D’Avenia (Corriere della Sera, 13 settembr 2021).
Vi manca il respiro? Vi sentite in esilio? Leggete Dante ad alta voce. Nella mia scuola ideale la Commedia si legge integralmente ogni anno. È il regalo che vorrei fare a Dante per i 700 anni (martedì) dalla sua «presunta» morte, lui che è più vivo di me tanto da poter dire che non sono io a leggere lui ma lui a leggere me, perché dopo sette secoli continua a dirmi che il cuore dell’uomo è inferno, purgatorio e paradiso, che poi significa che all’inferno, in purgatorio o in paradiso non ci si va, ma ci si è.
Chi non ascolta Dante ha meno occasione di esser felice, perché, come lui stesso scrive della Commedia: «Il fine generale dell’opera è distogliere coloro che vivono in questa vita da uno stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità». In «questa» vita, dice.
Ecco allora la mia proposta. Un anno scolastico (ma vale anche per chi a scuola non va) dura 200 giorni, i canti sono 100. Basta leggerne uno ogni due giorni alla prima ora, qualunque sia l’insegnante coinvolto (in media un canto è lungo 140 versi e richiede 10 minuti di lettura ad alta voce): 10 minuti ogni due giorni per ascoltare Dante (15 ore).
Non vi preoccupate delle note a pie’ di pagina ma di quelle musicali: Dante ha scritto «canti» che ci guariscono dai nostri «disincanti». La poesia prima di essere capita va respirata, perché tocca, come la musica, l’emisfero del cervello che accoglie le emozioni che permettono alla mente di accendersi e svilupparsi mentre apprende: «Nutre la mente soltanto ciò che la rallegra», scriveva Agostino, anticipando di secoli le scoperte della neuroscienza.
La Commedia va ascoltata prima che capita, come il Requiem di Mozart o Yesterday: li viviamo prima di capire le parole, perché dicono una verità carnale, che abbraccia (comprendere in latino significava abbracciare) tutto l’essere, non solo la mente.
I nostri bisnonni sapevano a memoria la Commedia anche se analfabeti: la comprendevano anche senza note a pie’ di pagina. Se ne lasciavano impregnare (comprendere significava anche rimanere incinta) come da una musica che dava senso a caos e fatica. Perché? È scritta in endecasillabi, il verso cardine della poesia italiana grazie ai suoi accenti musicali. Nel mezzo del cammin di nostra vita: tutti lo sanno a memoria (potere del ritmo).
L’endecasillabo ha reso l’italiano una lingua elegante con una vocazione al canto e alla musica (come la precisione del tedesco ha per vocazione la filosofia). Dobbiamo restituire all’endecasillabo il suo potere magico, la capacità di «reincantare» il quotidiano. E di endecasillabi è piena la vita di tutti i giorni: dai proverbi («Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare») ai divieti («È vietato parlare al conducente») passando per i titoli di giornale («Che cosa abbiamo perso con la Dad?»).
Questo dna musicale dà a noi italiani la respirazione giusta, perché l’endecasillabo asseconda perfettamente il ritmo naturale della respirazione (come fosse una forma di meditazione). Provate a leggere con calma (e magari imparare a memoria) i versi di Dante, anche senza capirli, ma seguendone il ritmo: non proverete affaticamento, anzi a poco a poco vi rilasserete. Sono i benefici di una respirazione accurata, liberata dalle tensioni continue della prosa quotidiana, come avviene in una preghiera.
Se leggete Dante così, dopo qualche canto, anche se ancora non «capite», dentro di voi «comprendete»: «accadono» suoni, parole, pensieri, sentimenti... come avviene con la musica che Dante stesso, nel Paradiso, definisce un «rapimento» che precede il capire le parole: «E come giga e arpa, in tempra tesa/ di molte corde, fa dolce tintinno/ a tal da cui la nota non è intesa,/ così da’ lumi che lì m’apparinno/ s’accogliea per la croce una melode/ che mi rapiva, sanza intender l’inno». Vi sentirete rapiti e pacificati, anche se non sapete ancora chi è Manfredi o che cosa rappresenta la lupa. Queste domande le soddisferete dopo (per questo con Franco Nembrini e Gabriele Dell’Otto abbiamo da poco pubblicato una Commedia che mira a far «vivere» Dante).
Leggere la Commedia a voce alta (o ascoltarla: io lo faccio andando in giro) è un esercizio di gioia per l’ospitalità che la nostra lingua madre ha da offrire. Dante, che era disperato, scelse di mettere il volgare in musica, perché tutti, con lui, trovassimo casa in una lingua in cui poteva (vorrei fosse ancora possibile) inventare verbi come «intuarsi» per indicare l’unione con l’amata. Ingiustamente esiliato cominciò a scrivere i suoi «canti» dopo aver perso tutto: famiglia, averi, città e dignità... Dovette elemosinare riparo, e intanto «cantava» per ritrovare il respiro e la pace. Era un morto in vita ma, in 100 canti, riebbe la vita in vita (e dopo anche in morte). E lo fa anche in noi: ci apre una via al paradiso proprio quando siamo smarriti. Respirate, cantate - ripete - la vita è una Commedia.
*
NOTA:
DANTE2021: ANTROPOLOGIA, DIVINACOMMEDIA, E MUSICOTERAPIA.
"Chi non ascolta Dante ha meno occasione di esser felice, perché, come lui stesso scrive della #Commedia: «Il fine generale dell’opera è distogliere coloro che vivono in questa vita da uno stato di miseria e condurli ad uno stato di felicità»" (Alessandro D’Avenia,"La vita è una Commedia", Corriere della Sera, 13 sett. 2021).
Questa indicazione, a mio parere , è da intendere dalle stalle alle stelle, e dalle stelle alle stalle: il fine generale dell’opera "è allontanare i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità" (Ep. XIII, 15) è un progetto teologico-politico e antropologico, carico di Messaggio Evangelico e Costituzione, è quello di aprire le porte del manicomio, uscire dall’inferno (vedere Lucifero "con le gambe in sù": Inf. XXXIV, 90), dall’orizzonte della tragedia e rendere praticabile a tutti e a tutte (individuare e individuazione) la via al purgatorio, al paradiso terrestre, e al paradiso celeste. O no?!
Federico La Sala
FILOLOGIA E METANOIA....*
Logica carismatica / 4.
È la reciprocità che converte
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 11 settembre 2021)
Continuiamo l’analogia tra i primi tempi del cristianesimo e le nostre comunità carismatiche o movimenti spirituali di oggi - due espressioni che uso come sinonime, in quanto realtà collettive nate e alimentate da un carisma e quindi da uno o più fondatori, che sono i primi portatori e la prima immagine di quel carisma. Analogia dunque che, come ci insegna la filosofia scolastica, è un parallelismo tra due realtà dove le somiglianze convivono con le dissomiglianze, e le seconde sono in genere maggiori delle prime. Il metodo analogico, soprattutto in storia, va preso sempre con molte precauzioni, ma come ogni metodo può essere una strada per iniziare un cammino in un territorio da esplorare. L’analogia è generativa se il termine di paragone è ricco e fecondo: la Bibbia e le prime comunità cristiane lo sono senz’altro. L’analogia suggerisce, accenna, indica, sempre sottovoce e con mitezza; è aurora di discorso, sempre fragile e vulnerabile. E quindi conosce le tipiche virtù della vulnerabilità.
Come si sviluppò la prima comunità attorno a Gesù? Marco ce la descrive così: «Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando. Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: "Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro". Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano» (6,6-13).
In Giovanni i primi discepoli arrivano dal movimento del Battista; per Marco e i sinottici Gesù li chiama lungo il mare di Galilea. Una volta tornato dalla Giudea, al termine della sua esperienza col Battista, il suo primo gesto è una chiamata di discepoli, di compagni, di amici, a dirci che questa storia straordinaria è storia collettiva, comunitaria, sociale, è la storia del "due o più", una storia da subito ecclesiale. Gesù inizia immediatamente la sua missione associando il suo nome ad altri nomi: Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni. Il primo nome dei "cristiani" è nome plurale. Elia, molto presente in queste storie di Marco, chiama Eliseo alla fine della sua missione, Gesù li chiama all’inizio; li chiama a coppie, a coppie di fratelli. «Guai ai soli», cantava pochi secoli prima il saggio Qoelet, e se la fraternità nello spirito non è quella del sangue, questo inizio ci dice che qualche volta possono incontrarsi. Marco racconta che i primi discepoli vengono chiamati da Gesù mentre stanno lavorando, nel loro gesto di pescatori. Pescatori, quindi lavoratori addestrati all’azione collettiva - la pesca di mare o lago è lavoro necessariamente del "due o più".
All’inizio della comunità di Gesù c’è il lavoro. E c’è in continuità con una nota costante della Bibbia, che in questo si mostra umanesimo del lavoro. Nella Bibbia, alcune chiamate decisive avvengono mentre le persone stanno lavorando. Amos, Gedeone, Giuditta, Davide, ricevono la loro vocazione mentre lavoravano.
Gesù chiama i suoi amici e li chiama a diventare "pescatori di uomini". Quella abilità tecnica che avevano appreso imparando il difficile mestiere di pescatori di pesci ora Gesù chiede loro di usarla per un altro compito, per un altro mestiere. Annunciare il Regno è una vocazione, non è una professione, ma assomiglia a un mestiere, perché ha bisogno di una competenza, di una abilità, di un impegno, di un apprendistato. Non si diventa professionisti della vocazione, ma competenti sì; e senza persone che sanno "pescare uomini" almeno come sanno pescare i pesci non nasce nessun movimento, nessuna avventura come quella cristiana.
Gli apostoli saranno visti, di tanto in tanto, dai Vangeli mentre pescano anche negli anni che vivono accanto a Gesù (si pensi alla pesca miracolosa); a dire che lasciare le reti dei pesci per maneggiare quelle degli uomini non significa necessariamente lasciare definitivamente e materialmente le prime barche per la barca della Chiesa. Nella storia della Chiesa alcuni apostoli hanno lasciato, anche materialmente, le prime barche e le prime reti, e non le hanno riprese più; altri apostoli le hanno lasciate solo con lo spirito, e hanno continuato a maneggiare le stesse barche di prima e hanno raccolto pesci e uomini, spesso con le stesse reti, quando il lavoro è rimasto lo stesso dopo la vocazione. Ci sono sempre stati molti modi di essere apostoli. Così nelle nostre comunità e movimenti: i loro membri non sono professionisti dello spirito, né tantomeno dipendenti di un’azienda; ma sono competenti, qualche volta anche nel lavoro, e la competenza laica del lavoro nutre e sostiene l’altra competenza apostolica. Il rischio da scongiurare è che l’invito a lasciare le reti faccia perdere la vecchia competenza e non ne generi nessuna nuova.
Perché Gesù ordina ai suoi apostoli di non prendere per il viaggio «né pane, né sacca, né denaro...»? Gesù sta creando un nuovo tipo di uomo e quindi di comunità. Qui capiamo perché i cristiani all’inizio erano chiamati "quelli della via", quelli che camminavano. La comunità di Gesù era una comunità mobile, una sequela, un camminare dietro, un ritornare "arameo errante". Tenda, accampamento, precarietà, non-stanzialità. E così rimasero per decenni le comunità cristiane, i decenni che hanno cambiato la storia.
Quando si cammina molto, la scelta dell’abbigliamento e dell’equipaggiamento è decisiva. Come sappiamo anche noi quando dobbiamo iniziare un lungo viaggio o un pellegrinaggio: è bene portare solo l’essenziale; e più il viaggio è lungo più essenziali bisogna diventare. Perché un lungo viaggio sia sostenibile occorre portare solo ciò che serve davvero, non il superfluo, ed è quindi fondamentale saper individuare l’essenziale e distinguerlo dal superfluo. Il viaggio degli apostoli era qualcosa di simile: l’essenziale che portavano era l’annuncio di una Parola diversa, l’avvento di un altro Regno. Non partivano, come i mercanti, per vendere e comprare, non erano soldati, non erano lavoratori stagionali, né rappresentanti di una ditta pagati a provvigione. L’essenziale era dunque una sola tunica, non la seconda. Non portavano il pane perché il Dio biblico provvede al pane quotidiano, come aveva fatto nel deserto, e come continua a fare con i suoi "operai" che hanno diritto al loro salario. Forte l’imperativo a non portare neanche denaro, che è alla base del carisma di san Francesco, che per imitare questa dimensione dell’apostolato proibì ai suoi frati di portare denaro nel loro mendicare.
Queste richieste dell’apostolato creano una condizione di dipendenza dagli altri, che è forse il messaggio più importante. Se non hai casa, se non hai con te né pane né soldi, allora per vivere hai bisogno dell’ospitalità di qualcuno che ti accoglie e ti sfama. Il messaggio cristiano è allora essenzialmente un’esperienza di reciprocità fin dall’inizio: gli apostoli portano l’annuncio del Vangelo, il vero tesoro, e ricevono un giaciglio e un tozzo di pane. Questa reciprocità di beni materiali è parte dell’esperienza dell’apostolo, e se manca non può, né deve, annunciare il Vangelo.
Ecco perché quando non c’è questa reciprocità «andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi». Perché se chi deve ricevere l’annuncio del Vangelo non si pone da subito in un atteggiamento di accoglienza e di dono non può capire quel Vangelo annunciato. Il Vangelo dell’amore si apre a chi è già nell’amore. E il comandamento nuovo, quello dell’amore scambievole, lo si vive già dall’annuncio: il discepolo ha bisogno della reciprocità di chi ascolta, che lo ama ancora prima di convertirsi, semplicemente ascoltando e accogliendo. E se non lo fa, si passa oltre. Altrimenti è un tesoro buttato via.
Tale reciprocità, è essenziale quasi come il messaggio. Chi ascolta il Vangelo deve prima dare. Chi annuncia il Vangelo sa che il primo dono che può fare a chi ascolta è donargli la possibilità di donare, per poter ricevere e poi, forse, capire. Chi annuncia il Vangelo sa di essere un mendicante di questa reciprocità. -Nella oikonomia del Vangelo il donatore ha un bisogno essenziale del donatario. Abilità grande di ogni annuncio è mettere le persone alle quali si vuole donare una buona novella in atteggiamento di donazione.
Queste indicazioni missionarie appartengono alle fonti di Marco, risalenti probabilmente all’insegnamento primitivo di Gesù. E ci dicono una cosa importante per le nostre comunità. Il primo Vangelo si viveva soprattutto con i piedi. Era un partire, un essere mandati. La sequela non va infatti troppo enfatizzata: appena gli apostoli iniziavano a seguire Gesù, questi li inviava "due a due", e loro cominciavano a fare con altri esattamente quello che stava facendo lui. La prima comunità cresceva per gemmazione, plurale, biodiversificata; tanto che subito dopo la morte di Gesù, arrivata pochissimi anni dopo l’inizio della sua vita pubblica, le varie comunità si ritrovano già diverse, con caratteristiche e "teologie" specifiche, dove gli apostoli e i discepoli lasciano l’impronta della loro personalità. La prima Chiesa non nasce monolitica e compatta perché Gesù mandava i suoi discepoli in giro, li rendeva nomadi e non-residenziali, come era lui stesso.
La comunità, questa comunità, non è una corte messianica, non è una comunità esoterica, ma una comunità missionaria e nomade, che si ritrova ogni tanto insieme, ma per subito ripartire. È comunità di annunciatori, e sono il messaggio e la stessa esperienza a fondare la comunità, non la coabitazione né l’insistere nello stesso terreno. Non stavano insieme per cercare il calore della casa, preferivano il freddo della strada e non la comfort zone della casa. E su quella via nuda e povera i discepoli, inviati due a due, evangelizzavano e guarivano.
Non partivano sognando il ritorno a Itaca, la loro Itaca era la strada: ecco perché c’è molto dell’umanesimo cristiano nell’Ulisse di Dante, anche se lo mette nell’Inferno, perché tutta la Divina Commedia è paradiso grazie allo sguardo di pietas di Dante.
Solo così poteva nascere una Chiesa capace di arrivare presto in tutti gli angoli della Terra, perché le sue colonne erano state formate all’arte della strada. Le comunità spirituali, certamente quelle più autentiche e sane, nascono sulla strada. Però nel corso del tempo è quasi inevitabile che il calore della casa vinca sul freddo della strada, e così poco alla volta da comunità fatte di annunciatori diventano comunità di consumatori di beni spirituali, e qualche volta questo consumo interno diventa così importante da non sentire più il freddo di coloro che stanno lungo la strada. È così che le comunità muoiono, ma possono risorgere se un giorno reimparano la disciplina della strada.
Quando la comunità diventa un labirinto dell’anima, o spicchiamo il volo come Icaro (assumendoci tutti i rischi del volo) oppure cerchiamo dentro il carisma una Arianna che ha lasciato un filo di salvezza per noi.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITÀ, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA".
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: AL DI LÀ DELLA COSMOTEANDRIA
RINASCERE. Beatrice chiede al "gran viro" San Pietro di esaminare Dante (suo figlio!) sulla fede (Par. XXIV, 34-45: " Ed ella: «O luce etterna del gran viro /a cui Nostro Segnor lasciò le chiavi, /ch’ei portò giù, di questo gaudio miro, /tenta costui di punti lievi e gravi, / come ti piace, intorno de la fede,/ per la qual tu su per lo mare andavi. // S’elli ama bene e bene spera e crede, /non t’è occulto, perché ‘l viso hai quivi /dov’ogne cosa dipinta si vede;/ ma perché questo regno ha fatto civi /per la verace fede, a gloriarla, /di lei parlare è ben ch’a lui arrivi»").
San Pietro chiede: «Di’, buon Cristiano, fatti manifesto: /fede che è?» (52-53). Dante , illuminato dalla Grazia (58: «La Grazia che mi dà ch’io mi confessi»), accetta le parole di San Paolo, risponde: "«Come ’l verace stilo/ ne scrisse, padre, del tuo caro frate/ che mise teco Roma nel buon filo, /fede è sustanza di cose sperate /e argomento de le non parventi; /e questa pare a me sua quiditate»" (61-66), e va oltre!
Con la luce della Grazia (Amore), egli ha ben chiaro che la sua sua strada non è quella né di Enea né di San Paolo, che dell’ "Ecce Homo", della figura di Cristo ha fatto un "vir-o", anzi un superuomo ("Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio": 1 Cor. 11, 1-3), e prosegue!!!
Il viaggio continua, fino a capire che è "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145): "La gloria di Colui che tutto move/ per l’universo penetra, e risplende/ in una parte più e meno altrove. /Nel ciel che più della sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire /né sa né può chi di là sù discende: / perché appressando sé al suo Disire, / nostro intelletto si profonda tanto/ che dietro la memoria non può ire" (Par. I, 1-9). E a ri-nascere: aggrappato al "vello" di Lucifero (e... dello stesso San Paolo), con l’aiuto di Virgilio (e Maria e Beatrice e Lucia, Dante ce l’ha fatta! Il suo cammino non sì è interrotto! Dopo 700 anni, come direbbe Raffaella Carrà (in memoria), egli è qui! O no?!
Dante2021: Dante Alighieri non "cantò i mosaici" dei "faraoni" ...
Federico La Sala
In cammino con Dante/19.
Beatrice, a te la lode "col core in mano"
Appare per la prima volta nella “Vita nova” e i biografi l’associano alla figlia di Folco Portinari, Bice; ma assumerà anche altre fattezze, come «schermo de la veritade» e volto stesso di Amore
Carlo Ossola (Avvenire, domenica 25 luglio 2021)
Il nome stesso “Beatrice” è allegorico sin dal suo primo apparire nella Vita nova: «Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice, li quali non sapeano che si chiamare» (II). I primi esegeti e biografi di Dante associano quel nome a Bice di Folco Portinari (1266 circa - 1290); il Boccaccio nelle sue Esposizioni sopra la Commedia così la ricorda: «Fu adunque questa donna, secondo la relazione di fededegna persona, [...] figliuola di un valente uomo chiamato Folco Portinari, antico cittadino di Firenze; e come che l’autore sempre la nomini Beatrice dal suo primitivo, ella fu chiamata Bice, ed egli aconciamente il testimonia nel Paradiso, là dove dice: ’Ma quella reverenza che s’indonna / di tutto me, pur per ’be’ e per “ice”» ( Par., VII, 13-15).
A essa, e per celebrare «tutti li fedeli d’Amore », il poeta rivolge il primo sonetto della Vita nova, nel quale tuttavia la visione che si presenta risale al topos - da Guilhem de Cabestanh al Decameron di Boccaccio (IV, 9) -, di registro tragico, del «cuore mangiato»: «quando m’apparve Amor subitamente / cui essenza membrar mi dà orrore. / Allegro mi sembrava Amor tenendo / meo core in mano, e ne le braccia avea / madonna involta in un drappo dormendo. / Poi la svegliava, e d’esto core ardendo / lei paventosa umilmente pascea: / appresso gir lo ne vedea piangendo» (“A ciascun’alma presa, e gentil core”).
Un giorno, a una funzione mariana in chiesa, lo sguardo di Dante, diretto a Beatrice, incrocia quello di una «gentil donna di molto piacevole aspecto» che si interpone. Interpretando a sé diretto quello sguardo, essa diverrà la «donna dello schermo», o «schermo de la veritade»; dovendosi essa allontanare da Firenze, Dante le dedica uno dei sonetti più ispirati “O voi che per la via d’Amor passate” (ispirato alle Lamentazioni di Geremia), che giungerà sino al sonetto proemiale del Canzoniere di Petrarca. Apparendo a Dante, Amore stesso consiglia una nuova «donna dello schermo», il cui ruolo Dante interpreta in maniera così zelante che la «gentilissima» Beatrice gli nega «lo suo dolcissimo salutare».
Una nuova apparizione d’Amore suggerisce a Dante, turbato e «in amorosa erranza», di lasciare i «simulacri». Indi Beatrice, che si palesa nel corso di un banchetto nuziale, è definita da Dante - sempre più in termini sacri - quale «nova transfiguratione », in nome della quale il poeta passa alla «loda» diretta di Beatrice. La decisione ha effetto quasi di divino afflato («Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per sé stessa mossa») che detta “Donne ch’avete intellecto d’amore”, uno dei centri compositivi della poetica di Dante (ritornerà due volte nel De vulgari e in Purgatorio XXIV). Dopo aver esposto la teoria d’Amore e illustrato il trionfo di Beatrice («quando passava per via, le persone correvano per vedere lei [...] “Questa non è femina, anzi è de’ bellissimi angeli del cielo”») che culmina nei celebri sonetti: «Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand’ella altrui saluta e Vede perfectamente ogne salute / chi la mia donna tra le donne vede»; subitamente il paragrafo 19 [XXVIII] annuncia con le parole delle Lamentationes di Geremia la morte di Beatrice.
Da quel momento il poeta a sé confessa che lungo sarà il cammino per ritrovare, e degnamente celebrare, il nome di Beatrice e si assimila a quei pellegrini che pensosi vede attraversare la sua città per scendere a Roma in cerca del volto di Cristo in «quella ymagine benedecta » impressa nel sudario della Veronica: Deh, peregrini, che pensosi andate. Il chiudersi della Vita Nova anticipa così e prefigura il finale stesso del Paradiso ove il ritrarsi di Beatrice «a l’etterna fontana » («...sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi», Par. XXXI, 91-93) è nuovamante figurato nella comparazione dei pellegrini del santo Volto: «Qual è colui che forse di Croazia / viene a veder la Veronica nostra, / che per l’antica fame non sen sazia» ( Par., XXXI, 103105).
La Vita Nova promette infine un compimento («Apresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, nella quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedecta infino a tanto che io potessi più degnamente tractare di lei», 31 [XLII] ) che si annuncia come un nuovo cammino: «E quasi peregrin che si ricrea / nel tempio del suo voto riguardando, / e spera già ridir com’ello stea, / su per la viva luce passeggiando, / menava ïo li occhi per li gradi, mo su, mo giù e mo recirculando » ( Par., XXXI, 43-48).
Sarà, questo, il «viaggio a Beatrice» (Charles Singleton) proposto dalla Commedia, che si svolge in una cornice assai diversa da quella, «maravigliosa», della Vita nova: intanto Beatrice più non domina, idolo del pensiero; altra guida la precede, Virgilio, ed altra la seguirà, san Bernardo. Appare, come in un trionfo imperiale, al centro del Paradiso terrestre: «Tutti dicean: “Benedictus qui venis!”, / e fior gittando e di sopra e dintorno, / “Manibus, oh, date lilïa plenis!”» (Purg., XXX, 19-21); e tuttavia i colori che la rivestono, bianco, verde, rosso, rappresentano le tre virtù teologali: fede, speranza, carità, sì che la “nuova” Beatrice sembra, essa stessa, allegoria teologica. Non è più ne «la sua giovanissima etade », bensì appare «quasi ammiraglio che in poppa e in prora / viene a veder la gente che ministra » (XXX, 5859); “regalmente ne l’atto ancor proterva” (v. 70), pare a Dante “superba” («Così la madre al figlio par superba, /com’ella parve a me [...]», vv. 79-80).
La requisitoria alla quale sottopone il pellegrino è così severa che i beati intorno intervengono per lenire la pena dell’accusato: «Donna, perché sì lo stempre? » (v.96), e tuttavia il tono non muta e si fa anzi più amaro: «Quando di carne a spirto era salita, / e bellezza e virtù cresciuta m’era, / fu’ io a lui men cara e men gradita; // e volse i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false » (vv. 127-131). E se prima (canto XXX) la sua rampogna aveva ferito, ora trapassa diritta e cruda: «volgendo suo parlare a me per punta, / che pur per taglio m’era paruto acro» (XXXI, 2-3).
Quella dissimmetria rimane, anche nell’ascesa al Paradiso, sin dal I canto: «Ond’ella, appresso d’un pio sospiro, / li occhi drizzò ver’ me con quel sembiante / che madre fa sovra figlio deliro» (I, 100-102); è dunque comprensibile che ai “fedeli d’amore” più congruo appaia il mito di Paolo e Francesca che non la signoria di Beatrice. E tuttavia il ritratto di entrambe le donne attinge ad una stessa fonte, al Lancelot du Lac: e se il ricorso è esibito nel canto V dell’Inferno («Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse», vv. 12 7-128), è non meno presente in un ’a parte’ di Beatrice che discretamente interviene nel dialogo di Cacciaguida e Dante: «onde Beatrice, ch’era un poco scevra, ridendo parve quella che tossio / al primo fallo scritto di Ginevra» ( Par., XVI, 13 15), esattamente come la dama di Malehaut in un passo contiguo a quello letto da Paolo e Francesca nello stesso Lancelot. Così i due grandi miti femminili della Commedia si ricongiungono in un lontano sogno d’amore, come vide Borges ( Inferno, V, 129; cfr. qui il ritratto di Francesca) e ha suggellato, con pietas poetica, Giovanni Giudici: «Beatrice che si spezza / per troppo di tenerezza » ( O beatrice, dalla raccolta eponima, 1972).
In cammino con Dante/20.
Raab e Cunizza, due donne generose nell’amore
Il IX canto del Paradiso ha come protagoniste la prostituta biblica che salvò Giosuè e la sorella di Ezzelino nota al suo tempo per i mariti e gli amanti: e Dante anticipa lo stupore di trovarle lassù
di Carlo Ossola ( Avvenire, domenica 1 agosto 2021)
Si direbbe che Dante, nella Commedia, abbia scelto di attestare il canone biblico femminile ricordato da Adam Scoto: «Eva, Sara, Rebecca, Lia, Rachel, Bala, Zelpha, Thamar, Raab, Debbora, Ruth, Anna, Bethsabee, Esther, Iudith, Elisabeth» (De tripartito tabernaculo, pars II, cap. VI, in PL, 198, 693B). Esse sono quasi tutte menzionate, spesso in Paradiso (o nel Paradiso Terrestre) e con ruoli eminenti: Lia e Rachele su tutte; nell’Empireo, al più alto grado, seggono Eva la progenitrice e Maria la rigeneratrice; e subito sotto, elette a far corona a Beatrice: «Ne l’ordine che fanno i terzi sedi, / siede Rachel di sotto da costei [Eva] / con Bëatrice, sì come tu vedi. / Sarra e Rebecca, Iudit e colei [Ruth] / che fu bisava al cantor che per doglia / del fallo disse: “Miserere mei”» (Par XXXII, 7-12).
Un rilievo speciale è dato, nel cielo di Venere, a Raab, la prostituta che diede ospitalità agli inviati di Giosuè, li nascose e li salvò dai nemici: «In seguito Giosuè, figlio di Nun, di nascosto inviò da Sittim due spie, ingiungendo: “Andate, osservate il territorio e Gerico”. Essi andarono ed entrarono in casa di una donna, una prostituta chiamata Raab, dove passarono la notte. Ma fu riferito al re di Gerico: “Ecco alcuni degli Israeliti sono venuti qui questa notte per esplorare il paese”. Allora il re di Gerico mandò a dire a Raab: “Fa’ uscire gli uomini che sono venuti da te e sono entrati in casa tua, perché sono venuti per esplorare tutto il paese”. Allora la donna prese i due uomini e, dopo averli nascosti, rispose: “Sì, sono venuti da me quegli uomini, ma non sapevo di dove fossero. Ma quando stava per chiudersi la porta della città al cader della notte, essi uscirono e non so dove siano andati. Inseguiteli subito e li raggiungerete”. Essa invece li aveva fatti salire sulla terrazza e li aveva nascosti fra gli steli di lino che vi aveva accatastato» (Giosuè, 2, 1-6).
In un Breviarium in Psalmos (attribuito a sant’Agostino e a san Girolamo; cfr. PL, 26, 1085A) si legge addirittura - tanta è la forza dell’exemplum biblico: «Ergo anima nostra illa Raab, illa meretrix, potest concipere, et parere Salvatorem» (Psalmus LXXXVI). Anche la nostra anima, prostituta essa stessa, avvinghiata al peccato, può dar ricetto e generare il Salvatore! È certamente questo il caso più evidente dell’efficacia delle opere, la sollecitudine dell’accoglienza già ricordata nel Vangelo (Mt 25, 34-40) e ribadita da san Paolo nella lettera agli Ebrei: «Per fede Raab, la prostituta, non perì con gl’increduli, avendo accolto con benevolenza gli esploratori» (11, 31); e ripetuta da Beda e da molti altri: «Denique Raab meretrix, nonne ex operibus iustificata est, suscipiens nuntios?» (“E infine Raab, la prostituta, non fu forse giustificata e salva per le sue opere, lei che accolse gli esploratori?”; Allegorica expositio in Samuelem, in PL, 91, 650C): secondo, del resto, il detto evangelico: «Non chiunque dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli » (Mt 7, 21). E Beatrice stessa per Dante non è forse nel poema - con splendida definizione - «opra di fede»? (Purg XVIII, 48).
Dopo tanti affanni, e desolazioni, e cautele e astuzie, finalmente Raab «si tranquilla» in Paradiso: il termine, accostato a “scintilla”, è una delle rime più affascinanti di tutta la Commedia, come ben vide il Tommaseo: «E non a caso, credo io, dice che la donna di Gerico in quel pianeta alla fine si tranquilla scintillando come raggio di sole in acqua limpida [113-115], si tranquilla dall’irrequieto dibattere delle fiamme e degli amori suoi vaghi» (DDP, ad locum). Non diversa è la storia - che precede nel canto IX del Paradiso - di Cunizza da Romano, figlia di Ezzelino II, morta a Firenze dopo il 1279, donna dai molti amori e di tanti pentimenti, della quale può valere il ritratto in versi che ci lascia Ezra Pound: «e sesta figlia Madonna Cunizza / dapprima sposa a Riccardo di San Bonifacio / e poi da Sordello sottratta al marito. / E con lui giacque in Treviso / finché lui non ne venne cacciato. / E lei scappò con Bonio che era un soldato / pazza d’amore / e andò da un posto all’altro / spassandosela assai / spendendo e spandendo / finché Bonio fu ucciso una domenica / e lei passò a un signore di Braganza / e infine mise su casa in Verona» (I Cantos, XXIX, trad., per questo passo, di Giovanni Giudici).
Più volte presente nei Cantos (VI, LXXIV, LXXVI, LXXVIII), Cunizza è, per Pound, l’esempio stesso di una gratuità totalmente spesa nell’amore, un amore così pieno che non lascia - nella letizia - traccia di rimorso: «Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume d’esta stella; / ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia; / che parria forse forte al vostro volgo» (Par IX, 3236). Quell’«indulgere a sé» è davvero “forte” ma risponde, osserva nel suo commento Benvenuto da Imola, a un impulso naturale: «essa dice bene, dacché gli ignoranti si sorprendono che una famosa prostituta sia beata, non considerando che questo vizio è naturale, e comune e quasi necessario nei giovani». Egli fa eco, qui, a Boccaccio, che negli stessi termini si era espresso, nelle sue Esposizioni, quanto agli amori di Paolo e Francesca: «Sono adunque dannati in questo cerchio, come assai fu dichiarato leggendo la lettera, i lussuriosi; intorno al vizio de’ quali è da sapere che la lussuria è vizio naturale, al quale la natura incita ciascuno animale» (commento al canto V dell’Inferno). E con più profonda verità di fede il Tommaseo: «indulgo: perdono a me il mio fallire che mi fu perdonato».
Così infine Giovanni Giudici, che da Pound eredita, volle intitolare la sua “satura drammatica” del Paradiso Perché mi vinse il lume d’esta stella (1991), aggiungendo, ai versi di questi, il proprio toccante e sommesso congedo: «Perché di tanta pena / L’amore sia narrato / La quasi santità / Del nostro unico peccato».
Non fu Beatrice la donna più importante di Dante
“La moglie di Dante” di Marina Marazza è un omaggio a Gemma Donati, colei che per 7 secoli se ne è stata nelle retrovie in uno stato di invisibilità ed apatia
di Marilu Oliva (HUFFPOST, 10.07.2021)
Tutti parlano del Sommo, in questo Settecentenario carico di atmosfera e ossequi, ma prima che lo facesse la scrittrice storica Marina Marazza, nessuno aveva mai puntato i riflettori sulla moglie in maniera così accurata. La negletta, la grande silenziosa, la quasi trasparente Gemma Donati. Invece Gemma fu connotata da una grande personalità, come dimostrano le cronache del tempo, e ricoprì un ruolo di rilievo nella complessa esistenza del più grande poeta di tutti i tempi.
“La moglie di Dante” di Marina Marazza (Solferino) è un omaggio a colei che per 7 secoli se ne è stata nelle retrovie in uno stato di invisibilità ed apatia, quando - nella vita quotidiana - fu invece donna di grande coraggioso e intraprendenza, in grado di adattarsi a situazioni difficili e reclamare i propri diritti, in un’epoca - ricordiamolo - in cui alle donne si dava sempre poco ascolto.
La ricostruzione dell’autrice alterna il dato storico - acquisito durante mesi e mesi di studio matto e disperatissimo negli archivi ma anche su testi autorevoli - con la componente romanzesca, laddove è stato necessario sopperire ai buchi neri, e lo fa con mano sapiente, ricordandoci quanto già era stata brava nei romanzi precedenti (cito “Io sono la strega” (Solferino), ma date un’occhiata alla sua corposa produzione).
Il lettore resterà incantato da questo affresco magistrale sulla Firenze medievale (e non solo Firenze, verso il finale lo scenario si allarga, per forza di eventi dovuti all’esilio di Dante), una città densa di intrighi, agguati, faide, dove però i poeti facevano dissing a suon di tenzoni e sonetti, dove la vanità femminile veniva repressa tramite le moralizzatrici leggi suntuarie (e per fortuna c’era chi le infrangeva), dove le famiglie vendicavano le onte subite anche con decenni di ritardo, dove per ammogliare una donna si controllavano le ricchezze del marito e lo stato di salute di lei, che fosse sana e adatta a figliare.
Incontrerete personaggi memorabili che forse ricordate dai libri di scuola. Guido Cavalcanti, Giotto, la malinconica e sfortunata Piccarda (cugina e amica di Gemma), il bellissimo e tremendo Corso Donati, Bicci, persino Beatrice che, secondo alcune ricostruzioni critiche elette dall’autrice, morì prima del matrimonio di Dante, quindi fu più metafora e costruzione poetica che non altro.
La bella scrittura di Marina Marazza ci altalena tra una storia che trasuda attualità (pensiamo ai voltafaccia politici, ai tradimenti, alla precarietà di certe situazioni di oggi, ma anche alla forza delle donne che ogni giorno devono combattere per inseguire una parità non ancora pienamente ottenuta) e un’epoca intrisa di fascino, mistero, magia, dove le bisce, cotte nell’olio e fatte unguento, venivano usate per curare le setole dei cavalli di puledro, ad esempio, e dove la Chiesa aveva un’ingerenza impressionante. Si tratta di una scrittura accurata, scorrevole, magnetica, con inserti dal sapore medievale ed espressioni dall’eco lontano (“mettere in saccoccia”, ad esempio) sempre perfettamente incastrati nei dialoghi o nella narrazione.
E Dante? Scoprirete tanti dettagli anche su di lui, probabilmente non tutti sanno che soffriva di mal caduco o epilessia. Ma come ne esce? Non certo santo né perfetto. Un po’ pedante, maschilista come era nella prassi del tempo, autoreferenziale, si risentiva facilmente e ogni tanto era affetto da quello che oggi chiamiamo narcisismo. Però era un uomo speciale e non solo per la sua incredibile cultura, per il motto sagace e per quel fascino che colpiva tutti. Ma anche per ciò che umanamente lo contraddistingueva: coraggioso, onesto, a volte eccessivamente idealista. Perfino fisicamente è molto distante da come lo dipinge l’immaginario collettivo:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».. *
Sulla questione del ddl Zan.
Laici perché cristiani non privilegi ma libertà
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, venerdì 25 giugno 2021)
Perché ribadire l’ovvio in situazioni critiche? Forse per il fatto che lo dimentichiamo, come tralasciamo il buon senso e il radicamento nelle istituzioni. Il premier ieri non ha detto nulla di nuovo, ma, come dice Qoelet, non è mai superfluo rammentare che «non c’è nulla di nuovo sotto il sole!» (1, 9). In tal senso ribadisco quanto già espresso in diversi interventi.
Una sana laicità è la nostra bussola. E la laicità l’Occidente la deve al messaggio evangelico: «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mc 12,17). Un loghion pronunciato da Gesù stesso, che mi piace interpretare nel senso di restituire a Cesare quel che è suo per dare a Dio ciò che gli appartiene, cioè tutto. Si tratta di «restituire» e qui entra in gioco la categoria giuridica del «risentimento», questione centrale nella ’Filosofia del diritto’ del beato Antonio Rosmini, il cui soggetto è la persona, «diritto sussistente».
E qui trova ampio spazio la legittimità di voler vedere riconosciuti i propri diritti da parte di minoranze per lungo tempo oppresse ed emarginate, spesso violentate. Poiché da cittadino italiano ritengo che sia la ’persona’ il principio architettonico della nostra Costituzione, non posso non scorgere in essa e nelle istituzioni che ha generato gli anticorpi più idonei per allontanare ogni possibile lesione dei diritti fondamentali. Nel nostro caso si tratta della libertà di pensiero e di educazione, il cui soggetto fondamentale non è lo Stato, ma la famiglia, al cui servizio vanno poste le istituzioni statali. E anche qui è in gioco qualcosa di decisivo. Gli anticorpi della nostra democrazia nei confronti di possibili devianze li avevo già messi in campo nella lettera al direttore di ’Avvenire’, pubblicata mercoledì 23 giugno: il Parlamento prima e poi, eventualmente, la Corte costituzionale verificheranno e si pronunzieranno circa la costituzionalità, come garanzia di libertà, della legge ancora in progetto sull’omotransfobia e per questo l’impegno dei laici è fondamentale. Né in questo processo si può cedere al ricatto della fretta, che non è mai buona consigliera e fa sì che la gatta generi dei gattini ciechi. Il campanello di allarme suonato dalla Chiesa cattolica, per mezzo del Vaticano, all’interlocutore italiano, se lo si legge senza paraocchi ideologici, significa una sola cosa: «Cesare non è Dio», e ne siamo felici... quindi si evocano l’umano e la persona come soggetto fondamentale del diritto.
Una riflessione che ha bisogno di tempo, di spazi e di libertà interiore, piuttosto che di strategici giochi elettoralistici. Nel suo discorso al Senato, ieri il premier ha ribadito la laicità dello Stato, ovviamente non confessionale, ma è tale proprio perché non è istituzione divina. Egli ha anche orientato verso il rispetto degli accordi internazionali, fra cui il Concordato. Illuminante ed estremamente lucido, a tal proposito, l’intervento del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin: «Ho apprezzato il richiamo fatto dal presidente del Consiglio al rispetto dei princìpi costituzionali e agli impegni internazionali. In questo ambito vige un principio fondamentale, quello per cui pacta sunt servanda. È su questo sfondo che con la Nota Verbale ci siamo limitati a richiamare il testo delle disposizioni principali dell’Accordo con lo Stato italiano, che potrebbero essere intaccate. Lo abbiamo fatto in un rapporto di leale collaborazione e oserei dire di amicizia che ha caratterizzato e caratterizza le nostre relazioni. Faccio anche notare che fino ad ora il tema concordatario non era stato considerato in modo esplicito nel dibattito sulla legge. La Nota Verbale ha voluto richiamare l’attenzione su questo punto, che non può essere dimenticato».
Né può sfuggire il fatto che Draghi, al pari di Parolin, abbia posto l’accento su una «laicità» che non significa ’neutralità’ o ’indifferenza’ nei confronti dell’esperienza religiosa e credente. E abbia insistito sull’attenzione alla plura-lità, attraverso cui tale vissuto si esprime in un Paese come il nostro, che è per tradizione ospitale e inclusivo di differenti culture e appartenenze, fra le quali, oltre quella tradizionalmente cattolica, si rendono sempre più consistenti quella islamica e quella del cristianesimo orientale. Anche in questo sta la nostra mediterraneità. E di tutto questo lo «Stato laico», di cui ha parlato il premier, non potrà non tener conto. Infatti, richiamando la sentenza della Corte costituzionale 203/1989, ha ribadito, come se ne fossimo ignoranti, o peggio lo fossero i parlamentari presenti, che laicità non significa «indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».
Il Governo sta giustamente alla finestra, mentre il Parlamento (ora il Senato) sta valutando e ci auguriamo che sia illuminato anche dalla profezia ecclesiale cattolica, nel frattempo noi pensiamo all’uomo, al suo ruolo nel cosmo e nella storia e al suo destino ultimo, che non può non interpellare anche il presente. In questo senso, come ancora il beato Rosmini insegna, la Chiesa non chiede privilegi, ma «libertà» e le sue piaghe provengono dall’aver in altre situazioni troppo ceduto a compromessi dettati da scelte di potere, che non possono appartenere a chi vuole seguire Gesù di Nazareth.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Per una nuova laicità, un nuovo cristianesimo!!! Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Federico La Sala
In cammino con Dante/11.
La noia di Satana, capace solo di essere una parodia del bene
Dante descrive «lo ’mperador del doloroso regno» come il negativo della Trinità. Dalla sua tristezza glaciale molti autori sapranno trarre spunto per i loro inferni
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 30 maggio 2021)
«Vexilla regis prodeunt inferni»: l’inizio del canto XXXIV e ultimo dell’Inferno è solenne e araldico: «Avanzano i vessilli del re dell’inferno», rovesciamento in eco parodica di un inno di Venanzio Fortunato, cantato il venerdì santo sulla croce del sacrificio: «Vexilla regis prodeunt,/ fulget crucis mysterium,/ quo carne carnis conditor/ suspensus est patibulo» [«Avanzano i vessilli regali / rifulge il mistero della croce, / al cui patibolo il creatore della carne / con la propria carne fu elevato»].
È un incipit memorabile, di grande forza teologica: il male non sa essere che la parodia degradante del bene; e di profonda iconicità metaforica. Nessuno meglio che Ignazio di Loyola seppe riscriverlo, nei propri Esercizi spirituali: «Quarto giorno. Meditazione su due bandiere, l’una di Cristo, nostro sommo capitano e Signore, l’altra di Lucifero, nemico mortale della nostra natura umana. [...] Il secondo preludio è la composizione vedendo il luogo: qui sarà vedere un grande campo nella regione di Gerusalemme, dove Cristo nostro Signore è il capo supremo dei buoni, e un altro campo nella regione di Babilonia, dove Lucifero è il capo degli avversari. [...] Immagino nel vasto campo di Babilonia il capo degli avversari, che siede su un grande seggio di fuoco e di fumo, orribile e spaventoso nell’aspetto». Un «seggio di fuoco e di fumo»: come non pensare al dantesco: «Come quando una grossa nebbia spira» (XXXIV, 4)?
Sebbene Lucifero sia precipitato, la sua metamorfosi abietta, Satana, è sempre in campo: Dante lo ricorda, sulla scia del Pater noster: «et ne nos inducas in temptationem»: "non sottoporci alla prova", al cimento col Maligno, «cioè non permettere che noi commettiamo una colpa tale per cui si debba meritatamente precipitare in inferno» (Onorio d’Autun, Speculum ecclesiale, PL, 172, 822C). Nella figurazione di Dante balugina, per un sol verso, il ricordo della figura angelica che fu Lucifero: «la creatura ch’ebbe il bel sembiante» (v. 18); la fulminea trasformazione di quell’istante fatale è per il poeta acuto tormento: «S’el fu sì bel com’elli è ora brutto, / e contra ’l suo fattore alzò le ciglia, / ben dee da lui procedere ogne lutto» (vv. 34-36).
L’apparire del signore di Dite lascia Dante come in uno stato di paralisi: «Com’io divenni allor gelato e fioco / nol domandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo, / [...] / Io non mori’ e non rimasi vivo» (vv. 22-25), non dissimile dallo svenimento che coglie Dante di fronte al dramma di Paolo e Francesca: l’estremo amore e l’estrema abiezione dell’umano. Solo nel poemetto drammatico di Vladimir Holan (Praga 1905-1980), Una notte con Amleto, il dilemma torna con pari intensità: «riceve la luce, eppur non brilla».
Contraffazione della plenitudine della Trinità, l’ormai Satana, stretto nella morsa del ghiaccio, ha «tre facce a la sua testa», sotto le quali da ciascuna «uscivan due grand’ali, / [...] / Non avean penne, ma di vispistrello / era lor modo; e quelle svolazzava, / sì che tre venti si muovean da ello: / quindi Cocito tutto s’aggelava» (vv. 46-52). L’enorme cieco pipistrello del male muove quelle ali / pale che perennemente alimentano e consolidano il ghiaccio di cui è prigioniero: primo Héautontimorouménos (Baudelaire) di se stesso e dell’umanità: «Sono la piaga e il coltello! / Sono lo schiaffo e la guancia! / Sono le membra e la ruota, / la vittima e il carnefice! / Sono il vampiro del mio cuore».
Come la Trinità amandosi s’effonde per tutto il creato, colmandolo della propria pace: «Ciò che vedesti fu perché non scuse / d’aprir lo core a l’acque de la pace / che da l’etterno fonte son diffuse» (Purg XV, 130-132), così - in simmetrico contrapposto - «Lo ’mperador del doloroso regno» (XXXIV, 28) a sé porta e divora i corpi che ha soggiogato: «Da ogne bocca dirompea co’ denti / un peccatore, a guisa di maciulla, / sì che tre ne facea così dolenti» (vv. 55-57).
Lo schema dantesco tornerà nelle più memorabili rappresentazioni infere, come nel libro X del Paradiso perduto di Milton: «intorno ai muri / di Pandemonio, città e reggia / di Lucifero, così per abbaglio chiamato, / dal fulgi d’astro cui Satana fu paragonato. / Là in armi stavano le legioni...» (X, 423-427), o nelle Visioni di William Blake, proprio dal suo Milton (1804-1808): «Gli Occhi nel timore che le salde ossa non si facessero crosta di ghiaccio su tutto, guardarono l’Abisso» e ancora, dal Matrimonio del Cielo e dell’Inferno: «Una parte dell’essere è il Prolifico, l’altra il Divorante. Al divoratore può sembrare di tenere il produttore nelle sue catene, ma non è affatto così; egli afferra solo brani di esistenza, e gli pare il tutto» (entrambi i passi nella traduzione di Giuseppe Ungaretti, dalle Visioni di William Blake).
L’antinomia manichea del Bene e del Male, che perdura da Dante sino a Blake, sarà ancora confermata da Baudelaire: «Ci sono in ogni uomo, in ogni istante, due aneliti simultanei, l’uno verso Dio, l’altro verso Satana. L’invocazione a Dio, o spiritualità, è un desiderio di elevarsi; quella a Satana, o animalità, è il compiacimento di abbassarsi » (Mon coeur mis à nu, XI); ma le Fleurs du Mal hanno tuttavia sancito la coscienza tragica dell’incedere del male: «Ogni giorno verso l’Inferno scendiamo d’un passo / Senza orrore, attraversando fetide tenebre» (dedica Al lettore).
Di quel secolo, la meditazione più acuta è forse quella che ci ha lasciato Michail Jur’evic Lermontov (1814-1841) nel suo poemetto Il Demone, ove contempla, per tutti noi, la nausea di Satana nel non avere qui avversari, l’invincibile noia di uno squallido trionfo: «Sulla nostra terra meschina / Il Demone esercita le sue arti. / Ovunque il suo spirito predomini / si estende il male... ma da nessuna parte / avendo trovato resistenza, / è tedio la sua potenza» (Il Demone, 183841, parte I, II). E tuttavia non c’è in Dante che un istante di ribrezzo per il «vermo reo» (v. 108), poi il viaggio continua, verso la luce - infine!: «salimmo su, el primo e io secondo, / tanto ch’i’ vidi de le cose belle / che porta ’l ciel, per un pertugio tondo. / E quindi uscimmo a riveder le stelle» (vv. 136-139).
A #Dante ("se la mente tua ben sé riguarda"), #PiccardaDonati #ricorda il suo legame ("non mi ti celerà l’esser più #bella") non solo con Corso e #ForeseDonati ma soprattutto con #GemmaDonati (#Lucia) e con #Beatrice ("#beata sono in la spera più tarda"):
Federico La Sala
#filologia «(gr. «idou ho #anthropos»)
e
#principiodicarità:
#Ascensione «per uno», «per molti» o «per tutti»?!
#DanteAlighieri non narra come stato è possibile uscire dall’#inferno
e
#giungere in #purgatorio e in #paradiso?!
#DANTE2021 #DivinaCommedia, #oggi. Nel #Cielo di #Marte, #Dante in #Paradiso (Pd XIV-XV): problemi di #genealogia e di #rinascita - la visione della #croce (#albero di Jesse) e l’incontro con #Cacciaguida:
Albero di Jesse *
L’albero di Jesse (o Iesse) è un motivo frequente nell’arte cristiana tra l’XI e il XV secolo: rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Origine
Il tema iconografico trae spunto da un famoso annuncio messianico contenuto nel capitolo 11 del libro del profeta Isaia (11,1.10) [1] da cui ha origine il suo nome greco [2]. Gli artisti combinarono la frase con la genealogia di Gesù come appare nel vangelo secondo Matteo [3] o secondo il Vangelo di Luca (3, 23-38)[4], genealogie che tuttavia presentano vistose differenze.
La più antica rappresentazione conosciuta dell’albero di Jesse è datata 1086, e compare nel Codice Vissegradesi, vangelo dell’incoronazione di Vratislao II di Boemia[5].
Iconografia
Jesse viene solitamente rappresentato coricato, semi-coricato o nell’iconografia meno antica seduto[6][7]. Nell’arte romanica, solitamente, egli è rappresentato coricato all’aperto mentre in quella gotica appare più spesso dentro ad un letto riccamente adornato, come nelle vetrate della chiesa di Saint-Étienne a Beauvais che datano al 1520.
Spesso Jesse appare addormentato, la testa appoggiata su una mano. Questa posizione è, a volte, associata ad un sogno profetico concernente la discendenza del dormiente. Dal suo fianco o dal suo ventre o anche dal dorso[7] o più raramente dalla sua bocca, s’innalza un albero i cui rami sorreggono gli antenati di Gesù, in particolare Davide riconoscibile per la sua arpa, fino a Maria. Le vetrate della cattedrale di Chartres rappresentano, dal basso in alto Davide, Salomone, Roboamo, Abias ed infine Maria. Ogni artista, a seconda del testo che ha utilizzato, del proprio gusto e dello spazio che ha a disposizione, aggiunge altri personaggi dell’Antico Testamento, spesso i profeti che gli esegeti del Medioevo pensavano avessero annunciato la venuta di Cristo (sono quattordici sulle vetrate di Chartres). Alla sommità si trova Gesù, a volte in croce, a volte bambino, sulle ginocchia della madre.
Nel XIII secolo, l’albero si sviluppa verticalmente, ed è solo nel XV che comincia a ramificarsi lateralmente[6]. Ancora presente nell’iconografia cristiana del XV sec., il motivo declina nel XVI per scomparire con la Controriforma[6].
Esistono naturalmente anche altre forme di rappresentazione della genealogia di Gesù, che non utilizzano l’albero di Jesse, il più famoso è quello dipinto nelle lunette della Cappella Sistina da Michelangelo tratto dal Vangelo secondo Matteo[8].
I supporti
L’albero di Jesse è stato un motivo popolare in tutte le arti: si trovano esempi nei manoscritti miniati, le stampe, le vetrate, la scultura monumentale, gli affreschi, le tappezzerie o nei ricami[6].
Manoscritti
Il motivo appare in parecchie bibbie romane, ad esempio nella Bibbia di Lambeth, sotto forma di una B maiuscola decorata all’inizio del Libro di Isaia o del vangelo di Matteo. La bibbia di San Benigno, del XII secolo, una delle più antiche che ci sono pervenute, mostra Jesse e le sette colombe rappresentanti i sette doni dello Spirito Santo[9]. La bibbia dei Cappuccini (ultimo quarto del XII sec.) conservata nella Bibliothèque nationale de France ne è un altro esempio, l’albero di Jessi decora la L maiuscula del Liber generationis nel vangelo di Matteo[10].
Poiché il re Davide era considerato l’autore dei Salmi, i salteri erano sovente illustrati con un albero di Jesse, soprattutto i manoscritti inglesi, dove l’albero di Jesse s’arrotola attorno alla B maiuscola del testo latino Beatus Vir all’inizio del primo salmo. Uno dei primi esempi è il salterio di Huntingfield, della fine del XII secolo. La British Library possiede un bellissimo salterio del XIV sec., detto di Gorleston. In questi due esemplari Jesse è allungato ai piedi della lettera B. Si potrebbero citare ancora il salterio di Macclesfield (Fitzmuseum, Cambridge) ed il Salterio e le Ore del duca di Bedford [11].
Alcuni manoscritti consacrano una pagina intera al motivo, aggiungendovi personaggi, per esempio la sacerdotessa di Apollo Sibilla Cumana del salterio d’Ingeburg (inizio del XII sec.). Presso Colonia, in un lezionario di prima del 1164 si descrive un Jesse insolito, morto in una tomba o bara, da cui l’albero cresce[12].
Una prestigiosa rappresentazione dell’Albero di Jesse si trova nella cappella Roano (voluta dall’Arcivescovo Giovanni Roano), detta cappella del Crocifisso, sita all’interno del Duomo di Monreale in Sicilia.
Evoluzione
L’albero di Jesse, contaminato dalla popolarità del tema della parentela santa si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il modello da cui deriveranno le successive rappresentazioni degli alberi genealogici[13] e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali[14].
Per Tilde Giani Gallino l’albero di Jesse dell’abbazia di Saint-Denis rappresenta, dissimulato, un fallo di dimensioni sproporzionate. Questa rappresentazione è risultato dell’inconscia compensazione del suo ideatore, l’abate Sugerio, che - sfavorito dalla natura, causa imbecille corpusculum - proiettò, tramite quello che per lui era simbolo di forza e autorità, la sua «volontà di potenza».[15][16]
L’immagine dell’albero che nasce direttamente dal fianco di Jesse, affermatasi nei secoli XI-XII, ha una sconcertante analogia con la scena in cui si vede Brahmā seduto su un loto che esce dal ventre di Viṣṇu, secondo i testi sacri Veda. Nell’arte romanica i personaggi sono collocati direttamente sui rami e non nei calici dei fiori come avverrà dopo un paio di secoli, analogamente a quanto rappresentato nelle sculture buddhiste in Birmania, Cambogia, Cina ed altre parti dell’Estremo Oriente. Queste immagini si ritrovano a Worms, Issoudun (cappella dell’Ospedale), Rouen (cattedrale), Sens (cattedrale).[17]
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale, senza immagini e senza note).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI"... DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura.
FLS
LA LINGUA D’AMORE E LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI"... *
Divina Commedia. La singolare «invidia» di Dante per Paolo e Francesca
La popolarità del Canto V dell’Inferno si deve anche a come Alighieri si rapporta ai due amanti fedifraghi, quasi ne invidiasse la sorte: uniti per sempre, seppure nella dannazione
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 18 aprile 2021)
Il canto V dell’Inferno è il più celebre e più commentato di tutta la Commedia: il solo Boccaccio vi dedica (tra Esposizione litterale ed Esposizione allegorica) ben 64 pagine del suo commento (le pp. 280-344 dell’edizione Padoan citata qui a fianco). L’Inferno come luogo di dannazione stenta, per arte e per amore, a impossessarsi del poema. Nel canto IV campeggia il «nobile castello» degli «spiriti magni»: Elettra, Ettore, Enea, Camilla, Marzia, Socrate, Platone, Diogene, Anassagora, Talete, Eraclito, Dioscoride, Orfeo, Tolomeo, Ippocrate, Avicenna, Galeno, Averroè «che ’l gran comento feo»; e soprattutto la «bella scola» dei grandi poeti con i quali Dante s’accompagna, «sesto tra cotanto senno»: Omero, «poeta sovrano», Orazio, Ovidio, Lucano e lo stesso Virgilio. Siamo ancora nei chiarori della fama che si prolungano anche nel V canto, ove l’episodio d’amore di Paolo e Francesca è comprensibile solo come imitazione del modello di Ginevra e Lancillotto nel Lancelot du Lac (romanzo francese del ciclo della Tavola Rotonda): «Noi leggiavamo un giorno per diletto /di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto», in una sorta di contemplazione dell’idolo che comporta l’imitazione ad litteram.
È un peccare non per mancanza, ma per eccesso d’amore, che però è all’umana creatura naturale: «Né creator né creatura mai / - cominciò el - figliuol, fu sanza amore » (Purg., XVII, 91-92); solo si pecca «o per troppo o per poco di vigore » (ivi, v. 96). E tali saranno poi le conclusioni del Boccaccio: «dico che, per ciò che il peccato della carne è naturale, quantunque abominevole e dannevole sia e cagione di molti mali, nondimeno, per la oportunità di quello e perché pur talvolta se n’aumenta la generazione umana, pare che meno che gli altri tutti offenda Idio; e per questo nel secondo cerchio dello ’nferno, il quale è più dal centro della terra che alcuno altro rimoto e più vicino a Dio, vuole l’autore questo peccato esser punito».
In effetti, il loro amore sembra appartenere all’ordo naturae: il canto sviluppa infatti un affascinante parallelismo: leggiamo al v. 4o: «E come li stornei ne portan l’ali », incipit di una triplice comparazione ornitologica (seguono: «E come i gru van cantando lor lai», v. 46, e «Quali colombe dal disio chiamate», v. 82) che viene a formare una perfetta simmetria con la triplice invocazione d’amore che ritma la confessione di Francesca: «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende», v. 100; «Amor ch’a nullo amato amar perdona», v.103; «Amor condusse noi ad una morte», v. 106).
Borges, in modo analogo, coglie l’estraneità di Francesca all’ordo damnationis: unica, tra le anime infere, a dichiarar a Dante il proprio anelito a pregar per lui, se le fosse concesso: «Lì ci sono [...] uomini illustri. Dante ne vede due che non conosce, meno illustri e che appartengono al mondo contemporaneo: Paolo e Francesca. Sa come sono morti i due adulteri, li chiama ed essi accorrono. Dante ci dice: ’Quali colombe dal disio chiamate’. Siamo di fronte a due reprobi, e Dante li paragona a due colombe chiamate dal desiderio, perché la sensualità deve essere la parte essenziale della scena. Si avvicinano a lui e Francesca, che è l’unica a parlare [...], lo ringrazia di averli chiamati e dice queste patetiche parole: ’Se fosse amico il re de l’universo, [dice ’re de l’universo’ non potendo dire Dio essendo questo nome interdetto all’Inferno e in Purgatorio] / noi pregheremmo lui per la tua pace / poi c’hai pietà del nostro mal perverso’ (vv. 91-93).
Francesca racconta la sua storia e lo fa due volte. La prima, la racconta con discrezione, pur sottolineando di essere ancora innamorata di Paolo. Il pentimento è vietato all’Inferno, sa di aver peccato e segue fedele il suo peccato, dal che le viene una grandezza eroica» (La Divina Commedia, in Sette notti, cit., p. 21).
Ma Borges che suggerisce, altrove, paradossalmente, che la Commedia sia stata scritta solo perché Dante possa ritrovare in sogno colei, Beatrice, che in vita non poté mai stringere a sé ( El encuentro en un sueño, da Nueve ensayos dantescos, 1982), insinua anche una ragione supplementare a quel finale venir meno di Dante di fronte ai due amanti: «C’è dell’altro che Dante non dice, e che aleggia in tutto l’episodio e forse ne costituisce la forza. Con infinita pietà, Dante ci rivela il destino dei due amanti, e sentiamo che egli invidia questo destino. Paolo e Francesca sono all’Inferno, egli si salverà, ma loro si sono amati ed egli non è riuscito ad avere l’amore della donna che ama, Beatrice. [...] Invece questi due reprobi sono uniti, non possono parlarsi, girano nell’ ’aere perso’ [v.89] senza speranza alcuna, senza neppure, ci dice Dante, la speranza che le loro sofferenze cessino, ma restano uniti. Francesca dice noi: parla per tutti e due, un altro modo, questo, di stare uniti. Sono uniti per l’eternità, condividono l’Inferno e ciò agli occhi di Dante deve essere stato una specie di Paradiso. L’emozione, sappiamo, sopraffà Dante, che cade come un corpo morto. Ognuno si definisce per sempre in un solo istante della sua vita, il momento in cui l’uomo si incontra per sempre con se stesso» ( La Divina Commedia). E non sarà forse così, e proprio nel «fiore / di tanta plenitudine volante » ( Paradiso, XXXI, 19-20), che Dante, ancora una volta, perderà la sua Beatrice?: «Uno intendëa, e altro mi rispuose: / credea veder Beatrice e vidi un sene / vestito con le genti glorïose. / [...] / E ’Ov’è ella?’ sùbito diss’io. / Ond’elli: ’A terminar lo tuo disiro / mosse Beatrice me del loco mio’» ( Paradiso, XXXI, 58-66). A terminar lo tuo disiro!: nella più pura lontananza, e prima ancora del compimento: «Così orai; e quella, sì lontana / come parea, sorrise e riguardommi; / poi si tornò a l’etterna fontana» ( Paradiso, XXXI, 91-93; e cfr. Borges, La última sonrisa de Beatriz, in Nueve ensayos dantescos, cit.). E qui invece, e per sempre: «questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò tutto tremante » (vv. 135-136). In fondo, sì, tutta la Commedia potrebbe essere pensata come un’infinita palinodia di quel solo verso, nella vita di Dante incompiuto: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona » (v. 103).
Bene lo intese, ancora una volta, Jorge Luis Borges che ha riscritto quell’incontro in una delle più belle liriche del mito di Francesca e di tutto il XX secolo: «Lasciano in un canto il libro, perché sanno / che sono i personaggi di quel libro. / (Lo saranno di un altro, il più grande, / ma non se ne curano). / Sono, adesso, Paolo e Francesca, / e non due amici che condividono / il sapore d’una favola. / Si guardano meravigliati, senza crederlo. / Le loro mani non si sfiorano. / Hanno trovato l’unico tesoro, / hanno scoperto l’altro. / Non stanno tradendo Malatesta, / poiché il tradire suppone un terzo / ma essi, ora, sono unici al mondo. / Sono Paolo e Francesca / e insieme la regina e il suo amante / e tutti gli amanti che sono vissuti / dopo il primo Adamo e la sua Eva / nei pascoli del Paradiso. / Un libro, un sogno loro rivela / ch’essi sono le forme di un sogno che fu sognato / in terra di Bretagna. / Un altro libro concederà agli uomini, / sogni anch’essi, / di sognarli» ( J.L. Borges, Inferno, V, 29, da La cifra, 1981).
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO (2007).
FLS
"Esodo", il libro del servizio e della democrazia
di Jean-Louis Ska (Avvenire, 15.04.2021).
Dalla servitù al servizio: è così che Georges Auzou intitolava il suo breve commento al libro dell’Esodo, pubblicato in francese nel 1961 con le edizioni Orante. Ë difficile trovare un titolo più adatto a questo libro fondamentale per la fede d’Israele e per quella dei cristiani, il secondo libro del Pentateuco dopo quello della Genesi. In effetti, questo titolo ha l’enorme vantaggio di descrivere il passaggio da una situazione dolorosa, ossia dalla schiavitù, a una situazione più soddisfacente, cioè al servizio. In secondo luogo, questo titolo gioca sulla stessa radice linguistica, poiché «servitù» e «servizio» sono due parole correlate, due modi cli «servire».
Ora, anche il libro dell’Esodo gioca su tutte le sfumature di uno stesso verbo, il verbo «servire». Che in ebraico può significare «essere schiavi», «essere al servizio di», «lavorare» e finalmente «rendere un culto». Anche il sostantivo «servizio» possiede tutte queste sfumature: «servitù», «schiavitù», «servizio», «lavoro», «fatica», «culto»`e «liturgia».
Infine, il titolo scelto da Georges Auzou fissa in due parole l’essenziale di quello che avviene nel libro dell’Esodo: nel deserto, il popolo di Israele passa dalla servitù in Egitto al servizio del suo Dio, il Signore. Occorre notare che Israele non passa solo dalla servitù alla libertà, ma anche che questa libertà si traduce immediatamente in un «servizio», che gli dona il suo senso e il suo scopo. La libertà di Israele è una libertà «per». Uno dei messaggi del libro è inoltre quello che Israele sarà libero solo se è fedele a quel Dio che gli ha donato la sua libertä [...]
Il libro dell’Esodo è quindi un libro fondatore. Infatti, il popolo di Israele vi trova gli elementi essenziali della sua identità e della sua esistenza, l’equivalente di un territorio e di una monarchia o di un potere organizzatore. Il suo Dio sarà certamente il suo solo e vero sovrano, il solo degno di esserlo. Israele ne farà l’esperienza, talora anche a sue spese. La presenza di questo Signore si manifesta in realtà concrete: la Legge dï Mosè e il santuario. La Legge di Mosè definisce le vere frontiere del popolo, quelle del suo comportamento, poiché determina subito chi può far parte o deve essere escluso dal popolo di Dio. Come dice molto bene il poeta tedesco di origine ebraica Heinrich Heine, la Legge (in ebraico: la Torah) è per Israele una «patria portatile». Il santuario e le istituzioni del culto sono presenti per ricordare a Israele chi è il suo unico e vero sovrano, il solo che merita di essere onorato, perché Israele deve a lui la propria esistenza di popolo libero. Esodo, legge, alleanza e culto risalgono tutti a un personaggio, Mosè, unico mediatore tra Dio e il popolo. È a lui che il popolo d’Israele fa risalire tutte le istituzioni che considera indispensabili per la propria identità e sopravvivenza [..] Tutto ciò dovrebbe convincerci dell’attualità di questo libro che stabilisce un legame indissolubile tra l’esperienza di Dio e quella della libertà.
San Paolo lo ribadirà: ‹Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1).
Il libro dell’Esodo stabilisce un legame indissolubile anche tra l’esperienza della libertà e le esigenze del diritto. Quando Israele esce dall’Egitto, non sostituisce la tirannia del faraone con un’altra e ancora meno conl’anarchia. Israele si libera dalla tirannia imboccando la via del diritto e della Legge, che, stando al racconto dell’Esodo, è il vero mezzo per preservare e promuovere la libertà.
Citiamo nuovamente san Paolo «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13).
Dio libera il suo popolo per il servizio, un servizio libero e generoso, un servizio vicendevole che significa anche la costruzione di una società giusta ed equa, fondata sul rispetto del diritto. Anche le nostre democrazie attuali, talora senza saperlo, hanno ereditato questa esperienza. Come, infatti, fa notare il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677), Mosè non prende il posto del faraone, ma lo sostituisce con la Legge, «come in una democrazia».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SOVRANITÀ E OBBEDIENZA. "DICO": DI CHI, DI QUALE LEGGE - A CHI, A QUALE LEGGE OBBEDIRE?!! ... Al Faraone e alla sua legge o a Mosè e alla Legge che egli stesso segue?! Abramo, chi ascoltò: Baal, il dio dei sacrifici e della morte, o Amore, il dio dei viventi?! Un’analisi di Giovanni Filoramo
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
In cammino con Dante/3.
Modello, mito, padre: chi è davvero Virgilio per Dante?
Non è solo Maestro ma anche “dolce padre”, consolazione e sprone, modello e mito per il Sommo Poeta: è l’“auctor”, colui che fa crescere il personaggio e ne è propriamente il “nutritore”
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 4 aprile 2021)
Delle guide che accompagnano e illuminano Dante nel viaggio di conoscenza e di salvezza, Virgilio ha il ruolo più esteso: è scorta di Dante per due cantiche sino alla cima del Purgatorio ove, nel Paradiso Terrestre, si rivela Beatrice. Non è solo Maestro ma anche “dolce padre”, consolazione e sprone, modello e mito. Appare sin dal canto I dell’Inferno, come uscito da un millenario silenzio: «dinanzi a li occhi mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco» (vv. 62-63), lieto a sua volta di acquistare voce e vita di fronte a un uomo che «rovinava in basso loco ». La sua autopresentazione è solenne, e subito intessuta dei caratteri che saranno proprii di tutta la Commedia, la naturalezza del latino, la coscienza dell’unità profonda della penisola italiana nell’eredità di Roma: «[...] li parenti miei furon lombardi, / mantovani per patria ambedui. / Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi, / e vissi a Roma sotto ’l buono Augusto / nel tempo de li dei falsi e bugiardi» (vv.68-72). Dante lo elegge come magister, al posto di Aristotele, come era uso nella tradizione medievale, e Dante dichiarava ad apertura del suo Convivio; nell’Eneide infatti viene cantato il destino provvidenziale della fondazione di Roma, «di quella Roma onde Cristo è romano» (Purg., XXXII, 102), poiché la Roma di Pietro, e non più Gerusalemme, è la sede della cristianità.
L’Eneide è dunque pensata come annuncio e preparazione della “nuova Roma” della fede: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne di Troia»: Virgilio si presenta come cantore di “quel giusto”, poiché giustizia è - dal Convivio al De Monarchia alla Commedia - il fondamento di ogni degno ordinamento terreno. Lo conferma, in uno dei passi più belli sul pensiero di Dante, il filosofo Étienne Gilson: «Se esiste una visione unificante della sua opera, essa non si identifica né in una qualche filosofia né in una causa politica, neppure in una teo- logia. La si troverà piuttosto nella coscienza, così personale, ch’egli ebbe della virtù della giustizia e delle fedeltà che essa impone» ( Dante e la filosofia). Il poeta si presenta, a sua volta, come discepolo fedele: «O dei li altri poeti onore e lume, / vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore / che m’ha fatto cercar lo tuo volume. / Tu’ se’ lo mio maestro e ’l mio autore» (I, 82-85).
Il termine “autore” non significa soltanto il modello del «bello stilo che m’ha fatto onore» (sì che Dante si presenta a sua volta come autore di un poema epico), ma è anche auctor, colui che nutre e fa crescere il personaggio: ne è propriamente “il nutritore”. Dante si pone come “creato” di Virgilio, nuovo “pius Aeneas”, del quale nel Convivio aveva tracciato l’alta missione: «Per che Virgilio, d’Enea parlando, in sua maggiore loda pietoso lo chiama. E non è pietade quella che crede la volgar gente, cioè dolersi de l’altrui male, anzi è questo uno suo speziale effetto, che si chiama misericordia ed è passione; ma pietade non è passione, anzi è una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni» (lib. II, X, 5-6). E non è solo magnanimità umana, ma grandezza del destino di una Roma eterna: «Onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione. E in ciò s’accorda Virgilio nel primo de lo Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: “A costoro - cioè a li Romani - né termine di cose né di tempo pongo; a loro ho dato imperio sanza fine”» (lib. IV, IV, 11).
Di questa Roma eterna, perché cristiana ormai, Dante si farà cantore. Sebbene quella del “famoso saggio” (I, 89) sia la funzione principale, e Virgilio additi a Dante, giunti al Limbo, la “bella scola” di cui fa parte: Omero, Orazio, Ovidio, Lucano, sì che - aggiunge con orgoglio Dante - «io fui sesto tra cotanto senno» (IV, 102); nel poema tuttavia Virgilio è davvero “compagno” maggiore di Dante, in tutto: con prontezza raccoglie una manata di terra e la butta in gola all’avido Cerbero: «E ’l duca mio distese le sue spanne, / prese la terra, e con piene le pugna / la gittò dentro a le bramose canne» ( VI, 25-27). Giunti nella palude che circonda la città di Dite (Inf., canto IX), Virgilio mette energicamente le proprie mani sopra quelle di Dante, per chiudergli gli occhi, affinché non abbia ad esser accecato dallo sguardo della Gorgone; esorta e sprona, difende Dante e lo punge, gli indica persino le anime con cui il viator deve parlare, e delle quali non s’era accorto: «Ed el mi disse: “Volgiti! Che fai? / Vedi là Farinata che s’è dritto: /da la cintola in su tutto ’l vedrai”» (X, 31-33).
Più cresce la gravità delle colpe e delle pene, più la dolente tristezza dei due viandanti li pareggia in un’unica angoscia: «Passo passo andavam sanza sermone, / guardando e ascoltando li ammalati, / che non potean levar le lor persone» (XXIX, 7072). Di fronte ai giganti posti a guardia del pozzo ultimo della Caina, Virgilio prende per mano Dante (XXXI, 28); stringe Dante a sé, alla presa di Anteo: «poi fece sì ch’un fascio era elli e io» (XXXI, 135), come prima l’aveva avvinto con le braccia, per scendere in groppa a Gerione a Malebolge (XVII, 1-27 e 91-111).
Ma il Virgilio più autentico è quello che, in Purgatorio, dispiega tutta la pietas e tutta la nobiltà della ragione, di cui è emblema: non solo deterge la caligine infernale (“sudiciume”) dal volto di Dante, ma via via si fa il suo araldo: da quando dice solennemente a Catone: «libertà va cercando, ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta» (I, 71-72) a quando coronerà Dante, libero ormai dalla colpa, e pronto a vedere Beatrice: «Non aspettar mio dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio / [...] / per ch’io te sovra te corono e mitrio » (XXVII, 139-140).
Dante cresce, ma Virgilio non scema: l’incontro con il conterraneo mantovano Sordello, al canto VI, e soprattutto con Stazio al canto XXI, sono tra i momenti più alti del poema, qui paragonata la scena addirittura all’incontro di Cristo con i discepoli di Emmaus: «Ed ecco, sì come ne scrive Luca / che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, / giù surto fuor de la sepulcral buca, / ci apparve un’ombra, e dietro noi venìa» (vv. 7-10).
Ed è proprio Stazio a tessere il più alto, malinconico e inobliabile, elogio di Virgilio: «Facesti come quei che va di notte, / che porta il lume dietro e sé non giova» (XXII, 67 68). Egli è stato il lanternarius, il lampadoforo del nuovo Annuncio: «quando dicesti: “Secol si rinova; / torna giustizia e primo tempo umano”» (vv. 70-71). E allo svelarsi di Beatrice, Virgilio è come “mamma” alla quale corre il “fantolin” impaurito da tanta apparizione: Virgilio, madre e padre del pellegrino, così come, per i secoli cristiani sin da Agostino, era stato il sommo sapiente: «Quanto sia importante questo problema lo dichiara il nobilissimo verso di Virgilio: Fortunato chi è riuscito a conoscere le ragioni delle cose [ Georg., II, 489]» ( La Città di Dio, lib. VII, 9).
Lector in fabula: in cammino con Dante... *
In cammino con Dante/2.
Quell’ansia del Poeta per noi lettori
Fin dal primo verso del grande poema ci considera coinvolti in un pellegrinaggio verso la felicità e la grazia. Così di volta in volta diventiamo suoi discepoli, accompagnatori e testimoni
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 28 marzo 2021)
Può mai essere un lettore, uno di noi, personaggio della Divina Commedia? Possiamo mai trovarci nel poema a dialogare con Dante? È ben vero che Ezra Pound ha osservato che: «In un senso ulteriore [la Commedia] è il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare ’Ognuno’ [Everyman], cioè ’Umanità’, per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (Dante, in Lo spirito romanzo, 1910); ma è altrettanto vero che Dante ha scelto gelosamente le sue guide, tutte di alta responsabilità (il poeta Virgilio, l’amata Beatrice, il campione della Vergine, san Bernardo).
Ove mai potrà esserci posto per noi nel poema? Eppure c’è, e sin dal primo verso: «Nel mezzo del cammin di nostra vita »: quel ’nostra’ è la vita di Dante e di ognuno di noi, pellegrini con lui nella selva della tentazione, nel cammino di redenzione.
Da quel primo verso del poema il lettore non è più spettatore ma parte del dramma che viene messo in scena. Gli indirizzi, le apostrofi, i richiami al lettore sono molteplici (sedici in tutta la Commedia: 5 nell’Inferno, 7 nel Purgatorio, 4 nel Paradiso), e toccano tutti e quattro i gradi della ’lettura’, così com’era concepita dalla tradizione medievale: lectio, meditatio, oratio, contemplatio. Il patto di lettura, prima di tutto, e i limiti che l’autore detta: «Nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo» (Inf., XXXIV, 23); la medita- zione, poi, continua, che la lettera del testo richiede: «Pensa, lettor, se io mi sconfortai» (Inf., VIII, 94), «Pensa, lettor, s’io mi maravigliava» (Purg., XXXI, 124), «Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia / non procedesse...» (Par., V, 109-110); l’orazione attenta che è richiesta - e l’intercessione necessaria - per accedere alla conoscenza del vero: «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista...» (Par., X, 7-8), «Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto / di tua lezione...» (Inf., XX, 19-20); la contemplazione infine, che è frutto e dono di quel lungo esercizio: «Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero» (Purg., VIII, 19).
Come Dante è discipulus che ha costante bisogno di guide: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti del poema; così il lettore deve apprendere come scolaro: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba, / s’esser vuoi lieto assai prima che stanco» (Par., X, 22-24), nella stessa attitudine che Dante per sé adotta: «come discente ch’a dottor seconda » (Par., XXV, 64).
Nello stesso tempo, divenire lettore della Divina Commedia è esercizio che richiede pazienza e almeno quattro letture che permettano di cogliere i quattro sensi del poema, che Dante trae dalla tradizione esegetica biblica e che spiega nella Epistola a Cangrande della Scala, suo protettore, spiegandogli i sensi crescenti del versetto: «In exitu Israel de Aegypto».
Il senso letterale è vero nella sua storicità (noi sappiamo che il popolo eletto uscì dall’Egitto sotto la guida di Mosè); così va inteso, egualmente, quello allegorico: la nostra emancipazione dal peccato per la Redenzione elargita dal sacrificio di Cristo; e non meno quello tropologico (la conversione di ogni anima credente dal lutto e miseria del peccato allo stato di grazia); e infine quello anagogico: l’uscita finale di ogni credente e di tutta la Chiesa dalla «servitù di questa terrena corruzione alla libertà dell’eterna grazia » (Ep. XIII, 21).
Dante segue qui la celebre Scala Paradisi: «Cercate leggendo e troverete meditando. Bussate pregando e vi sarà aperto contemplando. La lettura porge come un cibo sostanzioso alla bocca; la meditazione lo sminuzza e lo mastica; l’orazione gli dà sapore; la contemplazione è quella dolcezza che allieta e sazia». Ma Dante è personaggio complice con il suo lettore; lo chiama spesso a testimone di esperienze che considera comuni: «Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe / ti colse nebbia per la qual vedessi / non altrimenti che per pelle talpe».
È l’imperioso incipit del canto XVII del Purgatorio, e Dante vuole il lettore vicino quasi per fargli constatare qualcosa che questi può aver vissuto: la nebbia che avvolge d’improvviso chi salga verso una cima. Francesco Torraca osserva, a proposito di questo celebre paragone: «Ricorditi, lettor: entra speditamente in materia il poeta, supponendo che il lettore possa aver, qualche volta, osservato un fatto capitato a lui, forse più d’una volta, nell’alpe, ne’ monti, che separano la Toscana dalla Romagna (Inf., XIV, 30 n.) o in quelli della Lunigiana (Inf., XXXII, 29 n.)».
Ecco, il lettore non può stare indietro: l’apostrofe di Dante è quasi intimata proprio per accertarsi che il lettore lo segua, che stia al passo della propria ansia di salire e di raggiungere la vetta: Osip Mandel’štam nel suo saggio Conversazione su Dante, 1933, ha osservato che Dante è sempre in marcia, sempre in ascesa, e che anche la sosta è appena un movimento sospeso. Il lettore ugualmente non può concedersi tregua: è ’in cordata’ con Dante e non può cedere.
Più ancora, il poeta prende talvolta il lettore a testimone, arriva a sfogarsi e a giurare davanti a lui: «ma qui tacer nol posso; e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, /...» (Inf., XVI, 127-128). Dante giura sul proprio poema per avvalorare ciò che vide («venir notando una figura in suso »).
Su questo verso l’Ottimo Commento, XIV secolo, ci propone una chiosa acuta: è davanti al proprio lettore che Dante, per la prima volta, pronuncia il nome del proprio poema, Comedia: «Considera qui, lettore, che l’Autore fa suo giuro per li versi di questa Commedia, ove sono da notare due cose: l’una, il nome di questo libro, lo quale qui l’Autore medesimo impone; l’altra, che l’Autore desidera, che questa sua opera sia gradita infra le genti per lungo tempo». La teoria moderna del Lettore come teste e garanzia del libro trova in Dante il suo primo e saldo fondamento: davvero Lector in fabula.
Terzine eponime
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
FLS
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, E STORIA. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" (2007) *
Beatrice, Lucia, Maria: il senso materno di Dio
Sono una triade che conduce a Dio e che Lo avvicina anche a noi lettori, facendoci notare l’aspetto più familiare, e in un certo senso materno, del Divino
di Bianca Garavelli (Avvenire, venerdì 26 marzo 2021)
Le tre donne che mandano Virgilio in missione, per così dire, rappresentano un filo verticale che dal Cielo arriva alla Terra, e sono perciò la parte più spirituale delle presenze femminili della Commedia. Maria ne è il culmine, perché è a lei che san Bernardo invita Dante a rivolgere lo sguardo, come all’essere creato che più somiglia a Dio, nel canto XXXII del Paradiso, poco prima della famosa preghiera. Perciò è una triade che conduce a Dio e che Lo avvicina anche a noi lettori, facendoci notare l’aspetto più familiare, e in un certo senso materno, del Divino.
C’è un’altra triade femminile che segue invece un percorso in apparenza orizzontale, perché procede attraverso le tre cantiche: un trio femminile più rasente alla Terra, ma che a sua volta illumina un percorso di salvezza, da un’angolazione del tutto umana e anche in gran parte autobiografica.
È il terzetto che inizia con Francesca da Rimini nel V canto dell’Inferno, prosegue con Pia da Siena in modo perfettamente simmetrico, nel V del Purgatorio e culmina nel canto III del Paradiso, con Piccarda Donati. Solo due fra le tre donne raggiungono la salvezza, nessuna di loro è un esempio perfetto di virtù, tuttavia sono tre personaggi perfetti per far vivere il grande messaggio di amore del poeta, che abbracci l’umanità intera.
Se la staffetta fra Maria, Lucia e Beatrice diventa nel poema la cordata verso la salvezza per Dante, Francesca, Pia e Piccarda si fanno ambasciatrici per tutti i lettori dei modi per arrivare all’eterna felicità del Paradiso. Il loro è un messaggio di pace, è l’esortazione suadente a superare i conflitti politici, di cui tutte e tre sono state vittime, attraverso l’esecrabile abitudine dei matrimoni politici, della necessità angosciosa a volte, altre volte avida, di ottenere alleanze, garantite da parentele forzate.
Francesca, che non ha fatto in tempo a pentirsi, è condannata per l’eternità; Pia da Siena, che forse è stata uccisa dal marito, a sua volta ha subito una morte violenta; Piccarda non ci dice, per delicata reticenza che l’autore trasferisce in lei, come è davvero morta. Ma anche per lei la causa indiretta è la politica, cioè la spietata prepotenza del fratello Corso, che la strappa al convento di clarisse in cui aveva scelto di vivere in armonia con la sua fede, costringendola a sposare un suo sodale.
Anche se non conosceva di persona tutte e tre, nella sua vita Dante aveva visto come la mancanza di scrupoli in politica potesse generare odio e violenza. Aveva personalmente combattuto in alcune battaglie delle guerre fra Guelfi e Ghibellini, tra cui Campaldino. E Pia ne è certamente una vittima, come testimonia la sua posizione nel canto, tragica conclusione, o tragico risultato, delle gravi tensioni fra i Guelfi, testimoniati da Iacopo del Cassero, e Ghibellini, rappresentati da Bonconte da Montefeltro. Tensioni che portarono allo scoppio delle ostilità fra Arezzo e la lega ghibellina e Firenze e la lega guelfa.
Con le tre donne Dante ci mostra il lato oscuro della storia del suo tempo, dominato dalla violenza maschile, e apre una finestra su un futuro possibile di pace. Le rende messaggere di tale pace, esempi di come il mancato rispetto dell’amore possa portare all’eterna rovina, come nel caso di Francesca, oppure a un infelice destino terreno, come nel caso di Pia e Piccarda. Anche loro perciò ci fanno puntare lo sguardo verso il Cielo, ma dall’angolazione della cronaca per Dante e della storia per noi, guidandoci nel centro della commedia umana. -Beatrice ne diventa la sintesi: in lei, perfetta messaggera di Dio, il poeta riconosce fin dall’infanzia lo stesso volto che più somiglia a Lui che rivedrà in Paradiso, la prima forma terrena dell’unico Amore, il primo volto umano dell’«amor che move il sole e l’altre stelle».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo.
Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
FLS
In cammino con Dante/1.
Così Dante porta sé stesso in Commedia
Inizia il cammino dell’italianista Carlo Ossola attraverso i personaggi delle tre cantiche che ci accompagnerà in questo anno del 700° dantesco. Partendo dall’autore, certo non mero scriba
di Carlo Ossola *
«Conosciamo Dante profondamente grazie a un fatto rilevato da Paul Groussac [ Tolosa, 1848 Buenos Aires, 1929]: che la Commedia è scritta in prima persona. [...] Bisogna ricordare che, prima di Dante, sant’Agostino aveva scritto le Confessioni. Ma queste confessioni, appunto in virtù della splendida retorica, non sono così vicine a noi come lo è Dante, poiché la retorica splendida dello scrittore africano si interpone tra quello che egli vuole dire e quello che noi percepiamo’ ( J.L. Borges, Sette Notti, I: La Divina Commedia).
L’osservazione di Borges è acuta: il viaggio di Dante è così possente che lo pensiamo autore soltanto, come se l’io del viator fosse solo l’ombra dello scriba; non occupa dei propri tormenti le pagine come il Rousseau delle Confessioni; anzi, il poema si legge come se Dante avesse fatto passare le Confessioni di sant’Agostino attraverso il vaglio d’eternità della Città di Dio.
Egli visita infatti le città di Dio (Inferno, Purgatorio, Paradiso terrestre, Paradiso) e ad esse si commisura, fragile e smarrito nella selva della tentazione. Egli si rivela poco a poco nel poema: conosciamo dapprima la sua paura di fronte alle fiere; sviene al racconto del dramma d’amore di Paolo e Francesca («E caddi come corpo morto cade», Inf., V, 142); gli salgono le lacrime al vedere la pena che flagella Ciacco (Inf., VI), la «sozza mistura / de l’ombre e de la pioggia»; da quel dialogo apprendiamo che Dante è originario di una città toscana, come conferma l’apostrofe, poco dopo, di Farinata degli Uberti: «“O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto”» (Inf., X, 22-23).
Al canto XV, si dichiara ch’egli è stato allievo di Brunetto Latini il quale gli raccomanda il suo Tesoro (v. 119). Ad ogni conversazione, Dante autore lascia trapelare un tratto dell’identità del personaggio, e specialmente nel Purgatorio negli incontri che più lo rivelano, nella sua quotidianità - di sorriso e di malinconia - come nel dialogo con Belacqua (canto IV), o nella complicità poetica con Casella, che gli intona la prima citazione dall’opera di Dante, Amor che ne la mente mi ragiona, canzone che apre il III libro del Convivio (II, 112 ss.).
Solo al culmine della montagna, purificato dai peccati, ma non ancora deterso da essi, nel Paradiso terrestre è rivelato da Beatrice il suo nome; l’incontro tanto agognato diviene, nell’apostrofe di Beatrice, severo discorso di dura condanna: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57).
Dal punto di vista dell’autore (e anche del lettore) è facile allegorizzare: il viator è appena stato assolto dalla ragione, promosso nella sua pienezza umana, come gli assicura Virgilio: «libero, dritto e sano è tuo arbitrio / [...] per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Purg., XXVII, 140142); ed ora è messo a prova dalla teologia, alla quale deve ascendere.
Ma Dante personaggio patisce: coronato e, subito dopo, condannato; ha forse ragione Borges quando osserva: «Infinitamente ebbe vita Beatrice per Dante. E Dante assai poco, o nulla, per Beatrice. Noi tutti tendiamo, per pietà, per venerazione, a dimenticare questa disdicevole discordanza, inobliabile per Dante» (Nove saggi danteschi)?
In effetti, in più luoghi del poema Dante autore giudica del viaggio di Dante personaggio, non meno di quante il personaggio confessi, di fronte all’ardua prova, il proprio limite: «Ma io, perché venirvi? O chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / ma degno a ciò né io né altri ’l crede. / Per che, se del venire io m’abbandono, / temo che la venuta non sia folle» ( Inf., II, 3135). Varcate le «gelate croste» di Lucifero e dell’Inferno, giunti i viatores di fronte alla montagna del Purgatorio, la voce dell’autore a sua volta esclama: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purg., III, 34-36).
Tra la «venuta ... folle» e il «Matto è chi spera» c’è stato il «folle volo» di Ulisse, definizione di una frontiera invarcabile del conoscere; per questo Dante conclude: «State contenti, umana gente, al quia» (Purg., III, 37); giudizio che Dante, personaggio ancora e non meno autore, ribadirà al sommo del Paradiso: «sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse» (Par., XXVII, 82-83).
Dante pur tuttavia cresce - ascendendo di cielo in cielo - nella consapevolezza dell’infinità dei mondi e del mistero che lo attende e lo assorbe: la sua consacrazione più alta avrà luogo nell’incontro con Adamo ove, se seguiamo parte dei codici più antichi, quelli esemplati dal Boccaccio (in particolare il Chigiano L VI 213) nonché le stesse Esposizioni del Boccaccio alla Commedia, e infine la maggior parte degli incunaboli, il nome di Dante viene nuovamente pronunciato, dal primo padre dell’umanità, che autorizza il nuovo testimone della discendenza redenta: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: “Dante, la voglia tua discerno meglio”» (Boccaccio, Esposizioni, Accessus).
Questo crescere è un modellarsi all’umiltà: intanto quella del discipulus che, per tutto il viaggio, si affida a una guida: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti; ma è altresì un ridivenire “fantolin”, “fantin” (Par., XXX, 82-87), perché soltanto chi si fa piccolo può - come conclude il paragone dantesco - “immegliarsi”, secondo il detto evangelico: «nisi [...] efficiamini sicut parvuli non intrabitis in regnum cælorum» (Matth., 18, 3).
Il crescere di Dante personaggio, ben oltre i limiti del viaggio di Ulisse, non è un affrancarsi che potenzia, un esercizio superoministico; ma un accogliere più luce e più mistero, un rimpicciolire perché la Gloria meglio “penetri e risplenda” (Par., I,2); è il divino splendore che deve crescere in noi, del quale il poema non sarà che favilla: «e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente» (Par., XXXIII, 70-72). Qui finalmente Dante personaggio e Dante autore vengono a coincidere: «povertà [di vita] e sapere e poesia, quale alleanza assicuratrice di giustizia!» (G. Ungaretti, Tra feltro e feltro, 1965).
* Fonte: Avvenire, domenica 21 marzo 2021 (ripresa parziale).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo [2007].
LETTERA APOSTOLICA
CANDOR LUCIS AETERNAE
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
NEL VII CENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE ALIGHIERI *
Splendore della Luce eterna, il Verbo di Dio prese carne dalla Vergine Maria quando Ella rispose “eccomi” all’annuncio dell’Angelo (cfr Lc 1,38). Il giorno in cui la Liturgia celebra questo ineffabile Mistero è anche particolarmente significativo per la vicenda storica e letteraria del sommo poeta Dante Alighieri, profeta di speranza e testimone della sete di infinito insita nel cuore dell’uomo. In questa ricorrenza, pertanto, desidero unirmi anch’io al numeroso coro di quanti vogliono onorare la sua memoria nel VII Centenario della morte.
Il 25 marzo, infatti, a Firenze iniziava l’anno secondo il computo ab Incarnatione. Tale data, vicina all’equinozio di primavera e nella prospettiva pasquale, era associata sia alla creazione del mondo sia alla redenzione operata da Cristo sulla croce, inizio della nuova creazione. Essa, pertanto, nella luce del Verbo incarnato, invita a contemplare il disegno d’amore che è il cuore stesso e la fonte ispiratrice dell’opera più celebre del Poeta, la Divina Commedia, nella cui ultima cantica l’evento dell’Incarnazione viene ricordato da San Bernardo con questi celebri versi: «Nel ventre tuo si raccese l’amore, / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore» (Par. XXXIII, 7-9).*
Già nel Purgatorio Dante rappresentava, scolpita su una balza rocciosa, la scena dell’Annunciazione (X, 34-37.40-45).
Non può dunque mancare, in questa circostanza, la voce della Chiesa che si associa all’unanime commemorazione dell’uomo e del poeta Dante Alighieri. Molto meglio di tanti altri, egli ha saputo esprimere, con la bellezza della poesia, la profondità del mistero di Dio e dell’amore. Il suo poema, altissima espressione del genio umano, è frutto di un’ispirazione nuova e profonda, di cui il Poeta è consapevole quando ne parla come del «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2).
Con questa Lettera Apostolica desidero unire la mia voce a quelle dei miei Predecessori che hanno onorato e celebrato il Poeta, particolarmente in occasione degli anniversari della nascita o della morte, così da proporlo nuovamente all’attenzione della Chiesa, all’universalità dei fedeli, agli studiosi di letteratura, ai teologi, agli artisti. Ricorderò brevemente questi interventi, focalizzando l’attenzione sui Pontefici dell’ultimo secolo e sui loro documenti di maggior rilievo. [...]
In questo particolare momento storico, segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l’umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro, la figura di Dante, profeta di speranza e testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere, finché il nostro cuore non avrà trovato la vera pace e la vera gioia, finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, «l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par. XXXIII, 145).
Dal Vaticano, 25 marzo, Solennità dell’Annunciazione del Signore, dell’anno 2021, nono del mio pontificato.
Francesco
* PER IL TESTO INTEGRALE, CFR. -> VATICAN.VA.
Dante Alighieri: uno scrittore medioevale del Novecento
La storia della fortuna critica della Commedia è la dimostrazione che si può considerare Dante uno scrittore essenzialmente “moderno”, forse l’unico capace di penetrare il senso profondo delle tragedie del nostro Novecento.
di Corrado Bologna (La ricerca, 27 Giugno 2012)
Una ferita, una sola, la mia amata maestra mi inflisse, alle scuole elementari: e il modo ancor m’offende (anche se più tardi capii che si trattava di una ferita iniziatica, dal valore terapeutico). Avrò avuto nove o dieci anni, incominciavo a cibarmi e a dissetarmi con i libri; e un bel giorno entrai in classe felice, entusiasta, sventolando un libretto dalla copertina rigida color crema, di cui ricordo il titolo (Dante, mistico pellegrino), ma non l’autore. Si trattava della parafrasi della Commedia, scoperta negli scaffali di casa, per me ben presto troppo magri, e bevuta con passione trascinante. Non sapevo nulla di Dante, ovviamente, e neppure della Commedia, che per me non era ancora “divina”.
Però, in maniera confusa, intuivo che quel libro antico e difficile, aspro, strano, doveva contenere messaggi grandi e profondi. La storia di quel viaggio all’altro mondo mi sembrava complicata, anche assurda, con la sua marea di personaggi, di luoghi, di figure, d’idee; ma ero affascinato dall’altezza d’ingegno dello scrittore, dalla sua invenzione sconfinata e dal rigore di diamante che scandiva il cammino del testo. Incredibilmente la maestra, dalla quale mi aspettavo approvazione, s’infuriò: non ammetteva che io avessi letto e ora esaltassi il mio innocente, ma per lei trasgressivo e blasfemo, Dante in prosa.
Non capii, allora, le ragioni e il senso della contestazione, e rimasi malissimo. Anni più tardi, leggendo infine Dante in poesia, incominciai a rendermi conto della difficoltà e del fascino sconfinato di quelle rime, di quei ritmi, di quelle strutture complesse, necessarie, non eliminabili, non parafrasabili. Intuii a poco a poco che quel che contava e non poteva ridursi a “racconto”, a “parafrasi”, appunto, erano proprio le forme, la forma del contenuto pulsante nell’intreccio ininterrotto dell’energia prosodica e di quella semantica fluenti nella versificazione.
Capii, leggendo e rileggendo, che l’alterità di Dante, la sua assoluta inattualità, sono rappresentate perfettamente dalle straordinarie strutture formali del suo capolavoro, gotiche e scolastiche, cattedrali di parole e di ritmi. Anni dopo mi imbattei nel saggio di Croce su Dante, che negando il valore “poetico” della “struttura” (la terzina, le tre cantiche di trentatrè canti più uno introduttivo, la perfezione centenaria, gli innumerevoli richiami interni da magnifica mnemotecnica spirituale) cancellava il senso di quell’immenso esercizio di passione e d’intelligenza struttiva. Lo rifiutai con fermezza, da adolescente che s’innamora delle avventure intellettuali sublimi e respinge la tentazione di razionalizzare secondo categorie astratte, preferendo lo sciame allo schema.
D’altra parte erano gli anni dello strutturalismo e della semiologia, e la Commedia sembrava fatta apposta per svolgere sofisticati esercizi di lettura su quello stupefacente poliedro di parole e d’immagini dagli equilibri cristallini, imperniati su richiami a distanza, su un tappeto significativo d’intertestualità e d’intratestualità, dal profondo valore ideologico e poetologico. Poi furono i maestri della filologia e della storia a riprendere per me, con me, in direzione construens, il lavoro avviato dalla mia maestra sul piano destruens. A sedurmi fu allora la forza, la profondità, l’innovatività della presenza di Dante nel Novecento.
Studiando la tradizione e la fortuna dei classici vidi con chiarezza che, dopo le Prose della volgar lingua di Bembo, già intorno alla metà del Cinquecento, il sole dantesco si eclissa, scompare dall’orizzonte culturale. La gloriosa, vivida presenza che riverberandosi in infiniti echi di memoria poetica nel Canzoniere petrarchesco, nel Decameron, nell’Orlando Furioso, aveva dominato la cultura e la lingua dei grandi libri italiani ed europei, d’improvviso diventava tenebra, vuoto.
La scoperta per me fu progressiva, ma tremenda. Non mi davo ragione che il Seicento e il Settecento fossero stati “secoli senza Dante”: come avevano potuto sopravvivere, quelle età, senza la Commedia? Nella sua edizione critica Giorgio Petrocchi non ricordava neppure una stampa del poema nel secolo di Caravaggio e di Borromini, e solo quattro in quello di Parini e di Voltaire (l’ultima, nel 1795, era stata impressa a Parma dal grandissimo Bodoni). A fronte di decine e decine di edizioni dei Rerum vulgarium fragmenta, che per secoli impressero un segno radicale alla lirica, l’uscita di scena della Commedia costituisce una perdita immensa: un intero universo figurale si dissolve, quasi irreparabilmente.
Certo, i grandi non dimenticheranno mai Dante, anche in questo lunghissimo periodo caliginoso. Le angosce notturne di Renzo fuggitivo da Milano nella foresta che costeggia l’Adda, nel capitolo XVII dei Promessi Sposi, nell’“orrore indefinito” di quel gelo che lascia balenare fra gli alberi “figure strane, deformi, mostruose”, deriva certo dalla viva memoria del XIII canto dell’Inferno, con il suo “bosco” ombroso (“di color fosco”) e atrocemente metamorfico (“Uomini fummo, e or siam fatti sterpi”). L’ispirazione dell’Infinito leopardiano s’intreccia senza dubbio con la meditazione sul Paradiso dantesco, fino al riverbero figurale del “gran mare dell’essere” (Par., I 113 ), “quel mare al qual tutto si move” (Par., III 86), nel “naufragar m’è dolce in questo mare”. E come trascurare il riflesso sonoro, cromatico, nel Passero solitario, di uno fra gli incipit più geniali e commoventi della Commedia, quello dell’VIII canto del Purgatorio (“...e ’ntenerisce il core” / “...sì ch’a mirarla intenerisce il core”).
Però il Dante dell’Ottocento è tutto legato alle immaginette infernali di Francesco De Sanctis, al suo teatrino di personaggi, di luoghi, di emozioni. E la critica dantesca di tutto il secolo romantico alternerà questo artificioso sentimentalismo al più secco accertamento di dettagli, in un pulviscolo aneddotico senza punti di vista complessivi. A ripensarla per intero, con poche eccezioni, la critica dantesca del XIX secolo è impressionistica, positivistica, lontana dal centro ideale e ideologico del poema, dalla sua smisurata esattezza e complessità.
Dante, di fatto, è uno scrittore medioevale del Novecento. La natura autentica della Commedia, che è insieme il Libro dell’Universo e la ricapitolazione e riscrittura di una civiltà millenaria, dopo tanto silenzio la scoprono i poeti e gli artisti, ancor prima e più a fondo dei filologi: anche se accanto agli artisti fioriscono presto i grandi critici, l’edizione di Giorgio Petrocchi, le Rime di Gianfranco Contini e poi di Domenico De Robertis, le ricerche filosofiche di Bruno Nardi, i grandi commenti scolastici che “hanno fatto gli italiani” (e non solo loro), Sapegno, Bosco, Singleton, Chiavacci Leonardi, il mio amatissimo Attilio Momigliano.
I primi due poeti ermeneuti di Dante sono distanti nello spazio e nelle posizioni di poetica e di estetica: Giovanni Pascoli ed Ezra Pound. Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1902) di Pascoli e The Spirit of Romance di Pound (1910) rivelano lo spessore e la profondità dell’allegorismo dantesco, riconoscendone l’origine medioevale, soprattutto teologica e filosofica.
A poco a poco il “naturalismo” di tanti paragoni, la “spontaneità realistica” di tante immagini, lasciano tralucere, appunto “sotto il velame”, la severa ricchezza allegoristica in linea con quella di Ugo e soprattutto di Riccardo di san Vittore, che brillano, prima impensati, insieme con i più evidenti Tommaso, Bonaventura, Bernardo, nei saggi sulla Commedia di Pascoli e di Pound. E con loro appaiono sulla superficie il “pensiero poetante” di Cavalcanti, l’agostinismo capace di attenuare le posizioni rigidamente aristoteliche che Dante assunse dal tomismo, ma soprattutto la mirabile potenza creatrice della metafora nell’ispirazione della Commedia. La densità dei saggi danteschi di Pound e di Eliot, inventores della poesia novecentesca, matura e si deposita in una riflessione profonda, radicale, sulla tradizione dello “spirito romanzo”, che essi avrebbero fatto riecheggiare nella sperimentazione di tanta avanguardia, fino al Gruppo ’63 di Giuliani e Sanguineti, sapienti rielaboratori della letteratura medioevale.
Né a caso Giuliani aprì l’antologia I Novissimi con l’evocazione del sovvertitore Pound ma anche, insieme con lui, dei rigorosi filologi e linguisti romanzi Väänänen e Norberg. Quanti trovatori provenzali, quanto Cavalcanti, quanto Dante nelle avanguardie del Novecento! Mi conquistò il cuore e la mente la meraviglia metaforica da moderno allegorista (il passo di danza, l’alveare, la fiamma e il cristallo dalle 13.000 facce-versi) con cui la bellissima Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam, amico dei formalisti e dei futuristi, coglieva, negli anni Trenta, la formidabile e inattuale modernità del poema, offrendone una delle immagini più strazianti del nostro tempo. Ma fu anche, a conquistarmi alla forza di Dante poeta moderno, lo splendido sorriso metaletterario dei Nueve ensayos dantescos di Borges, con quell’idea geniale che la Commedia Dante l’abbia scritta per propiziare un nuovo “incontro in un sogno”, in Paradiso, con la perduta Beatrice, dunque per riconquistare l’ala svettante di un suo sorriso.
“Dante si può leggere solo al futuro”, scriveva Mandel’štam: è il futuro presente, la latitudine di un meridiano ideale che segna un “Nord del futuro”, e che si riverbera nella poesia di Paul Celan.
È vero, Dante va coniugato al futuro. Siamo noi quel futuro. Il nostro presente è in qualche misura il futuro che il suo pensiero contiene, e attraverso Dante possiamo riconoscere nelle migliori realtà del tempo che viviamo quello che parafrasando un magnifico titolo di Carlo Ossola chiamerò “l’avvenire delle nostre origini”. Nella lingua del pappo e del dindi si stratifica e si sublima l’intera tradizione antica, che si fa germe di speranza, seme di pensiero e di emozione: Omero che si nutre al seno delle Muse; Virgilio che Stazio riconosce come “mamma” e “nutrice”; ma anche Leopardi che torna alla poesia con il Risorgimento e A Silvia, uscendo da un periodo di aridità d’ispirazione proprio attraverso lostudio di Dante; e l’immagine bellissima di Andrea Zanzotto, il quale nella prosa con cui conclude la raccolta delle liriche di Filò, scritte per il Casanova di Fellini, nel 1976, della lingua poetica dichiara che noi “non sap[piamo] di dove venga”, perché arriva da sola, come un’epifania materna, arcaica: “Viene, monta come il latte”; “à inte ’l [s]o saór / un s’cip del lat de la Eva”, “nel suo sapore sapiente c’è un gocciolo del latte di Eva”. Il poema dantesco, dice Osip Mandel’štam,
Così, nel Discorso su Dante (1933), forse il saggio dantesco più profondo e originale di tutto il Novecento, Mandel’štam volge in straordinarie immagini metaforiche, che Dante avrebbe amato, la struttura cosmica della Commedia. In faccia alla morte, nel gulag di Stalin, questo poeta-glossatore di genio traduceva in russo per i suoi compagni di sventura Dante, Petrarca e l’Ariosto: per leggerli aveva imparato l’italiano, “la più dadaistica delle lingue romanze”, innamorandosi, attraverso la Commedia, della “puerilità della fonetica italiana”, del suo “bellissimo infantilismo”, della sua “affinità con un melodico balbettio, con un dadaismo originario”.
Lo stesso gesto straziato e ineludibile, anacronistico e umano, compirà pochi anni più tardi, ad Auschwitz, l’ebreo italiano Primo Levi, mentre in fila per la zuppa di cavolo nero si preoccuperà non di far sopravvivere grazie a quel miserabile cibo il suo povero corpo già spossato, ma di riscattare l’umanità della vita con l’atto umanistico di riportare alla luce dalla memoria profonda della mente brandelli del canto di Ulisse, il XXVI dell’Inferno, per tradurlo in francese a Pikolo, balbettando a una a una le sillabe strappate all’oblio con fatica e dolore:
“Nella squallida attesa del niente”, là dove l’essere dell’individuo è ridotto al puro stato di sopravvivenza biologica, la soglia dell’umanità è degradata perché sono degradate e svilite sia la vita, sia la morte. Su quella soglia rimane unicamente (sono parole di Giorgio Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone) “la larva che la nostra memoria non riesce a seppellire, l’incongedabile col quale dobbiamo deciderci a fare i conti”. Il senso profondo di Se questo è un uomo è che “il nome uomo si applica innanzi tutto al nonuomo”, e che “testimone integrale dell’uomo è colui la cui umanità è stata integralmente distrutta”: “L’uomo è colui che può sopravvivere all’uomo”.
Questa soglia ultima del Lager, ma talvolta anche della vita nelle sue fasi più dolorose e disperate, è un dispositivo di disumanizzazione, “una gran macchina per ridurci a bestie”: e “noi bestie non dobbiamo diventare”. Nel luogo fisico e mentale in cui la soglia dell’esistenza è esilissima, “per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l’impalcatura, la forma della civiltà” (a parlare è ancora Primo Levi). La Commedia sembra porsi come il baluardo di questa soglia, come il teatro della memoria che contiene, ripensa, ricanta in poesia altissima, l’intero universo, tutta la storia umana, tutti i libri scritti e letti, tutti i personaggi che hanno meritato di essere ricordati o invece di essere dimenticati, tutte le utopie e le speranze dell’umanità.
Dante Alighieri: uno scrittore medioevale del Novecento
La storia della fortuna critica della Commedia è la dimostrazione che si può considerare Dante uno scrittore essenzialmente “moderno”, forse l’unico capace di penetrare il senso profondo delle tragedie del nostro Novecento.
di Corrado Bologna (La ricerca, 27 Giugno 2012)
In quel luogo estremo l’umanità riconosce la propria finitudine, la propria irreparabile debolezza. Dante è stato il più acuto interprete di questa frale natura.
Nel XXX canto del Purgatorio, nell’istante in cui incontra nuovamente Beatrice dopo una siderale assenza (dalla metà della Vita nova in poi è assente nell’opera dantesca), Dante perde Virgilio, che è già ammutolito dall’ultimo verso del canto XXVII, in cui ha incoronato la nuova maturità umana e poetica dell’allievo. Lo svanire di Virgilio è la scomparsa della madre per il bimbo spaventato (“volsimi a la sinistra col respitto / col quale il fantolin corre a la mamma / quando ha paura o quando elli è afflitto”: Purg., XXX 37-45).
In tutta la Commedia Dante ha paura, trema, cerca una mamma. Non ha alcun pudore di dirci: come voi, ho paura; però seguìtemi, e ci riscatteremo insieme.
In vetta al Paradiso, nel momento in cui sta rappresentando le più alte, difficili, ineffabili verità, Dante torna ad essere un bambino piccolissimo, allattato al seno materno: “Omai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancor la lingua a la mammella” (Par., XXXIII 106-108). Mandel’štam, da poeta, per primo ha sentito che in questo cadere, in questo esser vinto dalla paura (“...esta selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!”), risiede la natura più umana di Dante, la sua forza, il suo coraggio di condividere con tutti gli uomini il più fragile degli affetti, e io credo anche il più moderno: la tenerezza, limite emozionale della vita.
L’infante e il balbuziente, chi inciampa nelle parole e chi non sa ancora trovarle, sono per Mandel’štam, e per noi tutti dietro a lui, l’emblema di una ricerca che non si appaga nell’illusione del sublime e della sua conquista, ma accetta le difficoltà e i rischi, la perdita e l’annientamento:
La memoria, la scrittura, così come la cura di un oblio che aiuti a ricostruire senza dimenticare, una difficile quanto necessaria ars oblivionis che selezioni e orienti “l’uomo a sopravvivere all’uomo”, divengono una necessità della vita, le restituiscono il dinamismo e la forza fluttuante che strappa dall’oblio e dalla stasi. “La cultura, memoria iniziatrice, che restituisce iniziativa e movimento”: così Ernst Robert Curtius concludeva, citando il poeta Vjačeslav Ivanov vissuto in Russia ai tempi di Mandel’štam e morto in Italia, nell’Epilogo di Letteratura europea e Medio Evo latino, dopo un grande capitolo su Dante.
“Nella odierna situazione spirituale”, scriveva Curtius nel 1948 (ma credo che potremo ribadire l’idea anche nella situazione spirituale dei nostri giorni), “non v’è alcuna esigenza che appaia tanto imperiosa come quella di ristabilire la “memoria”. [...] Il dimenticare è, in taluni casi, altrettanto necessario del ricordare. Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale”.
Si può dimenticare tutto, ma non Dante. La domanda fondamentale, di fronte al gesto di Mandel’štam e di Levi, che con la rete slabbrata della memoria, per sospendere nell’oblio il presente assurdo del campo di concentramento, combattono per richiamare alla vita i versi della Commedia, è dunque: come e perché questo libro immenso e di altissimo ingegno, in cui forma e contenuto si rispecchiano in una perfezione di struttura e d’idea, sembra naturalmente instaurare, più di qualsiasi altro, soprattutto una relazione diretta con la vita e con la morte, con le loro radici affondate nel destino umano, nel punto più profondo della nostra esistenza?
La Commedia, ora che ne abbiamo scoperto e accettato l’inattualità di libro medioevale, ci appare il più moderno dei libri, il più novecentesco. Ci sembra che abbia immagazzinato e metabolizzato tutti i libri che lo hanno preceduto, tutta la tradizione, per offrircela rinnovata. E soprattutto ci pare che contenga, più di qualsiasi altro libro, un’idea di perfezione esatta e dinamica, di compiutezza logica e di geometrica quadratura delle passioni, ma anche di salvezza e di felicità per l’uomo: per ogni singolo uomo e per tutta l’umanità.
Ormai possiamo leggere la Commedia come il cielo stellato in cui proiettiamo i nostri sogni. Fatichiamo a decrittare i disegni che noi stessi vi abbiamo riconosciuto e deposto, ma come bambini a bocca aperta leggiamo questo libro pieno di stelle, che al modo dei sogni si manifestano chiedendo comprensione, invitandoci a capirli al nostro risveglio. Quei sogni, quelle stelle, quel libro, sono stati creati per risvegliarci.
Corrado Bologna. Professore Ordinario di Letterature romanze medioevali e moderne presso la Scuola Normale Superiore di Pisa..
Per Dante non ci fu solo Beatrice. Tana, Gemma e le altre donne
di PAOLO DI STEFANO (Corriere della Sera, 31 gennaio 2021)
È vero che quando pensiamo alle donne di Dante, il primo nome che viene in mente è quello di Beatrice, ovvero Bice Portinari. Ma si rimane un po’ frastornati leggendo, nell’ultimo libro di Marco Santagata, che le figure femminili che hanno contato di più nella vita travagliata di Dante, non del poeta ma dell’uomo Dante, sono state Tana e Gemma. Perché sono state loro, la sorella maggiore e la moglie, con le rispettive famiglie, a soccorrerlo nei momenti più difficili. Non è questa la sola considerazione che sorprende avvicinandosi a Le donne di Dante (il Mulino), il saggio che ha occupato gli ultimi mesi dello studioso, filologo, critico e scrittore, scomparso nello scorso novembre dopo aver dedicato lunghi anni a Petrarca, Leopardi, Boiardo, Boccaccio e ovviamente a Dante.
Il suo contributo dantesco è stato su tre piani: in primo luogo quello dello storico ed esegeta (con la direzione delle opere nei Meridiani), poi quello del notevole divulgatore (per esempio con una guida del poema e con una vita di Dante), infine quello del narratore che ha aggiunto agli elementi documentari una dimensione di ipotesi e immaginazione. Ne venne fuori, nel 2015, Come donna innamorata (Guanda), un romanzo sui tormenti d’amore per Bice, che morirà venticinquenne nel 1290, segnando il destino del poeta (e della nostra letteratura).
Il libro di Santagata (magnificamente illustrato con immagini che vanno dalle miniature trecentesche fino alle opere novecentesche di Dalì e oltre) si dispone cronologicamente in tre macronuclei tematici: una prima parte sulle donne di famiglia (famiglia d’origine e famiglia acquisita con il matrimonio, ovvero quella dei Donati); una seconda sulle donne amate (Bice su tutte, ma anche le donne schermo, la Pietosa, Pietra e la Donna Gentile); una terza parte dove campeggiano le figure-personaggi della Commedia, a cominciare da Francesca e da Pia.
Dunque, una vita di Dante alla luce delle donne. Considerando che di quasi tutte si sa ben poco, ma questa è l’ombra che oscura l’intera biografia dantesca, così piena di zone misteriose. A partire dalla madre Bella, forse discendente della famiglia ghibellina degli Abati e forse figlia del giudice Durante, per finire con la figlia Antonia, divenuta suor Beatrice (in omaggio al padre), monaca a Ravenna. Di «forse» è tempestata l’infanzia del poeta, ma si sa almeno che con la morte precoce di Bella il padre si sposa con Lapa, da cui avrà Francesco, unico fratellastro che si aggiunge a Tana, al terzogenito Dante e a una secondogenita di cui non si sa nulla, se non che ebbe un figlio, Andrea, molto somigliante allo zio sin dalla postura ingobbita.
Si diceva di Tana (Gaetana), il cui matrimonio con Lapo Riccomanni, ricco mercante e ottimo partito, gioverà a Dante, prima e dopo l’esilio, quale rete protettiva, esattamente come la famiglia Donati di Gemma: il cui contributo sarà finanziario (allo scopo di assecondare la sua malcelata ambizione di vivere di rendita), ma anche morale per la gestione dei beni e la custodia delle carte in assenza forzata del detentore (tra l’altro la conservazione dei canti della Commedia avviati a Firenze prima dell’esilio). Il racconto di Santagata è quello che abbiamo sempre ammirato: una narrazione pacata e forte, capace di selezionare e di gerarchizzare i dati valorizzando i dettagli che contano anche a vantaggio della curiosità del lettore. Per esempio, laddove si spiegano, con lieve ironia, le dinamiche amorose e familiari duecentesche, comprese le questioni di interesse politico-patrimoniale che prevalgono nettamente sulle esigenze affettive. Oppure nel confronto tra la Firenze del trisavolo Cacciaguida e quella di Dante, la cui serenità sociale e il cui equilibrio familiare, secondo il poeta, erano stati irrimediabilmente sconvolti dal commercio e dalla finanza crescente.
Insomma, si imparano un sacco di cose. Un altro esempio è la malattia. Quella di Dante è la «dolorosa infermitade» di cui parla nella Vita nova e che lo porta allo smarrimento e alla farneticazione, come gli accadde il giorno della nascita di Beatrice e il giorno della morte della stessa, e come accadrà più volte al pellegrino nell’aldilà («e caddi come corpo morto cade»). La malattia ci riconduce ancora una volta al ruolo centrale di Tana, la sorella maggiore, che sarebbe la «donna pietosa e di novella etate» della famosa canzone, il cui pianto (e spavento) richiama un nugolo di donne al capezzale del bambino in delirio. Santagata fa notare come la presenza di un familiare in poesia, tanto più in posizione iniziale, rappresenti una novità assoluta che risponde a diverse strategie. Se più che lecito vedere in quelle crisi manifestazioni epilettiche, lo studioso tiene a precisare che gli episodi psicosomatici, vieppiù legati all’apparizione dell’amata, sono tutt’altra cosa rispetto alla convinzione scientifica, diffusa allora, dell’amore come patologia, e sono altresì estranei alla tradizionale dinamica passione-malattia presente nella poesia. Questa «oppilazione» veniva considerata nel Medioevo una forma di possessione demoniaca: si trattava di un eccesso di umori capace di provocare l’ostruzione dei ventricoli del cervello (di fronte alla donna amata Dante si sente come un condannato davanti al patibolo). Come tale era sì il marchio di una condanna, ma d’altra parte il male si presenta a Dante (e Dante lo presenta) soprattutto come il segno capovolto di una predestinazione: quasi un dono dall’alto. In coincidenza con le figure femminili, si rivelano alcuni punti sensibili e innovativi (quando non eterodossi e scandalosi) della poetica dantesca e di una visione ad ampio raggio tutt’altro che limitata all’area amorosa. Il più vistoso e ricorrente è il colore politico di cui spesso Dante riveste le «sue» donne più o meno esplicitamente. Il caso estremo è Cunizza da Romano - la sorella di Ezzelino signore di Treviso ed esponente della più famosa famiglia ghibellina veneta - scelta strumentalmente per farne una paladina di Cangrande, «astro nascente» del ghibellinismo: collocata nel cielo di Venere, con il discorrere politico di Cunizza diventa per il poeta un’autodichiarazione di fede partitica. Vengono anche ricordate le motivazioni ideologiche che sottostanno ad altre figure di donne: Piccarda Donati, la Pia e la stessa Francesca da Rimini, il cui racconto cela tra le righe chiare componenti anti-malatestiane. E se il limite di Cunizza-personaggio, come ammette Santagata, è di essere eletta dal poeta a sua portavoce, le altre donne, pur con le loro coloriture ideologiche, mantengono ugualmente un notevole spessore evocativo. Le pagine dedicate a Francesca da Rimini sono una finissima interpretazione dei valori cortesi, degli intrecci ambivalenti tra amore e lussuria, tra buona fede e malizia (per esempio nella lettura del famoso libro «galeotto»), della confusione tra nobiltà d’animo e ambizione di status sociale, tra corteggiamento e seduzione, con l’irradiazione della micidiale triade adulterio-omicidio-incesto.
Altre donne amplificano la loro qualità poetica nella sottrazione o evanescenza misteriosa se non indecifrabile (sono i casi di Matelda e di Gentucca). A ben guardare, la stessa Beatrice che compare in quell’autobiografia poetica e sentimentale che è la Vita nova (autobiografia fittizia, una sorta di autofiction) è preliminarmente più assenza che autentica presenza, se è vero che i componimenti scritti per lei prima della morte sono non più di quattro o cinque, pari per numero a quelli dedicati alla rivale, la cosiddetta Donna Pietosa.
Destinata a diventare la Gentile (filosofia) del Convivio, la Donna Pietosa si configura, dopo la morte di Beatrice, come l’oggetto di una doppia verità. L’innamoramento si compie tramite l’inconsueto gioco di sguardi compassionevoli che la donna lancia da una finestra al poeta in preda al lutto: e verrà reso pubblico in città grazie alla circolazione delle poesie che lo celebreranno. Durerà finché Beatrice fanciulla appare in visione a Dante inducendolo al pentimento per averla tradita. Restano labili tracce, comunque, le tracce poetiche di Beatrice in vita, che non le assegnano una netta preminenza neanche rispetto a semplici dedicatarie come Fioretta, Lisetta, Violetta. Il riscatto non tarderà e Beatrice diventerà mito con la glorificazione gratuita post mortem, sconvolgente novità tutta dantesca.
Il petrarchista Santagata non manca di tracciare un conturbante parallelo tra il «manichino senza corpo» che è Beatrice (della quale si descrivono solo i vestiti) e Laura, «personaggio pieno, sfaccettato»: dotato com’è di capelli, trecce, occhi belli, bel fianco, mani belle, denti avorio, angelico seno, persino bel piede. Fisicità parcellizzata, ma fisicità a tutti gli effetti. C’è anche Laura nel corredo iconografico del libro. Ma le immagini permettono al lettore di intraprendere il proprio personale viaggio visivo nel paesaggio umano (reale e fantastico) dantesco, scegliendo i propri incontri con le figure che l’hanno più affascinato nel racconto di Santagata, lasciandosi sorprendere dai volti, dalle espressioni, dai gesti e dalle fisionomie. Ed è un gran bel viaggiare.
MARCO SANTAGATA
Dante in love: «Beatrice fu il vero amore, sesso solo con Gemma» *
di Redazione*
È un Dante intimo quello che esce da Come donna innamorata (Guanda, 175 pagine, 16,50 euro), romanzo di Marco Santagata in gara al Premio Strega, su presentazione di Umberto Eco e Angelo Guglielmi. Romanzo, ma ben documentato: l’autore, nato a Zocca (Modena) nel 1947, è uno studioso del sommo poeta. Ha curato il Meridiano Mondadori sulle opere dell’Alighieri e ha già esordito nel racconto divulgativo con Dante. Il romanzo della sua vita, premio Comisso 2013.
Perché, dopo tanto studio, un’opera di fantasia dedicata a Dante?
Credo di essermi tanto affezionato a Dante al punto di volermi immedesimare in lui. Gli studi di critico e di storico portano in direzione della biografia. Ma ho voluto compiere un ulteriore salto: la ricostruzione fantastica, basata ovviamente sui relativamente pochi dati storici di cui disponiamo. Ho la presunzione che tutto ciò possa illuminarne di luce nuova l’opera.
Si sa poco sul sommo poeta, ma per Beatrice ci troviamo davanti a veri e propri vuoti: come li ha riempiti?
La mia Bice Portinari è una giovane donna non bellissima, dagli affascinanti occhi verdi. Ho dovuto immaginare molto perché Dante non ne fa mai nei suoi scritti un ritratto a tutto tondo. Si sa che fu data in sposa a un membro di una facoltosa famiglia, Simone dei Bardi, che il matrimonio non fu fecondo e che lei morì precocemente. Io le ho immaginato una vita non felice, di sposa ignorata dal marito appunto perché sterile, ma capace di dispensare a tutti il suo sorriso. Un personaggio quasi francescano. Forse quello di Dante per lei era un amore letterario. Più che la donna, Dante amava se stesso e la sua poesia. I poeti medioevali non potevano cantare lo splendore di un’innamorata defunta. Per cui quando l’amata muore Dante, profondamente turbato, si domanda se potrà continuare con quella poesia, che l’ha elevato anche socialmente. È allora che avviene nella sua mente, più che nel suo cuore, uno scatto: Beatrice è un dono di Dio, qualcosa di immensamente grande, che ha predestinato la sua vita. Ancora incerto di sè, colui che diventerà un gigante si convince di avere il ruolo di profeta. Ma è questa ambivalenza tra amore e non amore, sentimento metafisico o egoistico e interessato, che mi ha coinvolto profondamente. Perché mi ha portato a intuire quel momento estatico in cui si generano le idee, l’ispirazione, se vogliamo, e con essa la felicità.
Quando Dante incontrò Beatrice?
La vide per la prima volta bambino mentre giocava con Manetto, il primogenito di Folco Portinari. La liquidò subito come una mocciosa. Ma l’incontro che lasciò il segno fu nel Calendimaggio del 1274 quando la rivide fanciulla, già promessa, vestita di rosso con una cintura d’oro. Il suo occhio di poeta rifulse di quei bagliori.
Nel suo romanzo lei allude alla malattia di Dante: aveva l’epilessia?
Non è una mia invenzione: è un’ipotesi suffragata da molte ipotesi, anche dagli scritti del poeta. Le crisi paiono scatenarsi - e in effetti l’emotività sembra avere un ruolo nel provocare le crisi epilettiche - quando vede la donna amata. Fa quasi tenerezza il modo in cui lui cercava di combatterle. Dai suoi scritti, però, si sa che non la riteneva una possessione del demonio, secondo l’idea peregrina del suo tempo. Piuttosto, come già gli antichi, vedeva nell’epilessia quasi un segno del suo essere speciale, un marchio della predestinazione divina.
Lei racconta il saluto tra Dante e Beatrice, da cui l’innamoramento. Capitò proprio così?
Sì, uno scambio augurale ci fu, Dante lo canta ne La vita nova. Un fatto importante, perché a quell’epoca le donne, sposate e no, non rispondevano a un saluto così facilmente. Io ci aggiungo di mio che Beatrice pronunci timidamente il nome di lui: «Buongiorno, Dante». Un’ulteriore segno di stima e confidenza. Lo scambio di saluti avviene nove anni dopo l’incontro del Calendimaggio. È da allora che Dante comincia a meditare sul numero nove e sul suo significato?
L’importanza del numero nove non me la sono proprio inventata io: Dante vi insiste ne La vita nova, arrivando a spiegare che il nove è Beatrice stessa. Tre per tre, tre volte la trinità. Comprende allora che, dato il loro legame costellato di segni, Beatrice gli è predestinata e comincia a pensare e costruire il suo futuro.
C’è un’altra donna cui lei rende omaggio, la moglie di Dante, Gemma Donati, di solito trascurata. Com’era?
Sembra la moglie silenziosa, analfabeta, che nella prima parte del romanzo viene effettivamente messa in ombra dalle opere gloriose dedicate a Beatrice. Appare gelosa mentre intima a Dante, che scrive sul tavolo della cucina, di sgombrare con le sue carte. Nella seconda parte del libro Gemma prende in mano, invece, le redini del destino del marito. Io ho voluto dotare il sommo poeta di una famiglia. Non è un’invenzione: ce l’aveva! Un rapporto affettivo non trascurabile, se due dei quattro figli diventano studiosi del padre. La femmina, Antonia, si monaca con il nome di suor Beatrice. E l’unico rapporto sessuale del romanzo l’ho voluto con Gemma: un atto d’amore coniugale, prima che il marito parta per l’esilio.
Come troviamo Dante alla fine del suo romanzo?
Qui sì che è un uomo solo! Tutti i suoi ideali politici sono falliti con l’imperatore Enrico VII e lui non può che aggrapparsi alla Commedia nella fredda Lunigiana dove attende, ma chissà se verrà, la famiglia. Sta scrivendo del Paradiso terrestre di Beatrice e torna con la poesia agli anni felici della giovinezza.
Fonte: (L’Arena, 27 aprile 2015)
Dispute teologiche intorno alla nascita
AVVENTO. Il parto verginale di Maria. Tra esaltazione della maternità e rimozione. Per secoli il dibattito si è snodato intorno al modo in cui la ragazza di Nazareth ha «dato alla luce» Gesù. L’ostilità verso la materialità del corpo ha pesato sul vissuto femminile fino alla presa di parola del movimento delle donne
di Nadia Maria Filippini (il manifesto, 23.12.2020)
Durante il periodo dell’Avvento, in vari luoghi dell’Occidente cristiano, tra Medioevo ed età moderna, si celebrava una festa particolare, successivamente scomparsa dal calendario liturgico: quella dell’attesa del parto di Maria, Expectatio partus Beatae Mariae Virginis. Il X Concilio di Toledo nel 656 l’aveva fissata nel giorno 18 dicembre, a pochi giorni dal Natale. Una vasta produzione artistica di statue e dipinti fissava questo momento dell’attesa, rappresentando Maria nella pienezza della sua gravidanza, spesso con in mano un libro (simbolo delle Sacre Scritture), o con la mano posata sul ventre, in una postura comune a tutte le donne incinte.
Ma in che modo la Madonna aveva messo al mondo Gesù? In che modo egli era uscito alla luce? Queste domande erano state al centro di un intenso dibattito teologico che si era snodato per secoli, ed avevano una rilevanza tutt’altro che secondaria, in quanto incrociavano frontalmente la questione della natura di Cristo: solo uomo (come sostenevano gli ariani) o solo Dio (come sostenevano i Nestestoriani)? Il Concilio di Efeso (431) aveva infine proclamato la sua duplice natura umana e divina, definendo di conseguenza Maria Theotòkos e Deipara (madre di Dio); il che rendeva ancor più complessa la questione del parto e della nascita: un inghippo esegetico intorno al quale continuarono ad arrovellarsi molti teologi, non senza dispute e conflitti.
IN QUANTO VERO UOMO egli avrebbe dovuto seguire le leggi della natura e venire al mondo attraverso le vie naturali, come sosteneva, ad esempio, Tertulliano. A far da ostacolo a questa ipotesi stavano però poderosi contenuti di natura sia culturale che religiosa. Innanzitutto il peso della religione ebraica che coniugava la punizione divina per il peccato originale proprio al parto, caricando l’evento di un’aurea che sanzionava con Eva tutte le sue discendenti. Vero è che la Vergine non era stata contaminata dal «seme immondo» della concupiscenza e in quanto Immacolata Concezione, cioè priva di peccato originale fin dal suo concepimento, era esonerata dalle sofferenze del travaglio; ma nei primi secoli della Chiesa, questa era solo un’ipotesi teologica controversa tra diverse correnti degli «immacolisti» e «macolisti»; non ancora una verità di fede, che verrà proclamata come dogma solo nel 1854.
A creare problema era soprattutto una rappresentazione del parto carica di valenze negative che il Cristianesimo ereditava dal mondo antico. Il nascere nel sangue era visto dalla cultura classica e da quella ebraica come causa di impurità; al sangue impuro dei lochi era attribuito pure un potere malefico e corrosivo, analogo a quello mestruale, secondo un parere condiviso per secoli pure dalla medicina.
AGLI DEI E AGLI EROI del mito classico erano attribuite infatti altre vie per la nascita, extra-ordinariae: ora dal fianco, come Asclepio o Dioniso, ora dalla testa, come Atena. Perfino il grande Giulio Cesare, secondo una falsa tradizione medioevale, era nato da taglio cesareo (da cui il nome). Questo sguardo disgustato sulla materialità della nascita si intrecciava, nei primi secoli del Cristianesimo, con il tema degli effetti della caduta del genere umano, di cui proprio le modalità del parto e della nascita (intra foeces et urinam) diventavano quasi simbolo, non solo nell’elaborazione degli gnostici o dei manichei, ma anche di molti teologi medioevali come Gregorio Magno e Lotario di Segni (papa Innocenzo III).
Come avrebbe potuto il figlio di Dio nascere nel sangue senza risultarne in qualche modo contaminato? Ed inoltre il suo stesso passaggio dalle vie naturali non comportava di per sé un’apertio vulvae, interrompendo la verginità di Maria, come appunto Tertulliano e altri sostenevano, ipotizzando una verginità della Madonna nel momento del concepimento, ma non durante o dopo il parto?
Sul parto della Madonna i Vangeli erano piuttosto vaghi: dicevano soltanto che mentre si trovava a Betlemme aveva «dato alla luce il suo figlio», avvolgendolo in fasce e ponendolo in una mangiatoria, perché non c’era posto per loro nell’albergo (Luca, 2,1). Solo due vangeli apocrifi, quello dello pseudo-Matteo e di Giacomo, rifacendosi al profeta Isaia, parlano esplicitamente del parto verginale di Maria, introducendo nel racconto la figura di una levatrice, Zelomi, chiamata da Giuseppe, che, arrivata troppo tardi quando il bambino era già nato, aveva avuto modo di verificare con la sua visita la verginità della Madonna, attestando l’evento miracoloso: Gesù «non aveva sofferto alcuna contaminazione di sangue»; la partoriente nessun dolore; essa, che aveva concepito vergine, aveva partorito vergine ed era rimasta tale.
FU PROPRIO questa versione dei vangeli apocrifi ad essere ripresa dalla Chiesa. Si ricorse a un’idea della verginità nel parto speculare a quella della fecondazione, che confermava l’evento della nascita di Cristo dal corpo della madre, ma modificava al contempo miracolosamente le leggi fisiologiche che normalmente lo regolano. Egli infatti «non era stato concepito dal piacere carnale, né era uscito alla luce attraverso i dolori» (come scriveva Gregorio di Nissa): era venuto al mondo lasciando intatto il sigillum; aveva attraversato il corpo della madre come un raggio di sole attraversa il vetro, con un’efficace immagine costantemente ripresa. In questo modo la nascita risultava assimilata con una specularità emblematica alla ri-nascita, all’uscita dal sepolcro che lasciava intatti i sigilli, come spiegava sant’Agostino nell’Enchiridion. Ne risultava rimarcata e arricchita di nuovi attributi anche la contrapposizione tra le due donne: Eva (origine e causa della morte) e Maria (origine e madre della vita).
Questa interpretazione divenne progressivamente maggioritaria a partire dal V secolo, sostenuta da autorevoli teologi come Efren Siro, il «poeta della Madonna», Zeno di Verona, Ambrogio, fino ad esser sancita da vari concili: quello di Calcedonia (451), di Costantinopoli II (553) e quello Lateranense (649). Maria venne dichiarata Aeiparthenos («sempre vergine») e questo appellativo fu inserito nella professione di fede del Concilio Lateranense IV (1215), ripreso poi anche da Paolo IV (1555) nella costituzione Cum quorundam, dove si riaffermava appunto che Maria era vergine «prima, durante e per sempre dopo il parto».
CI SI PUÒ CHIEDERE a questo punto quali conseguenze abbia avuto questa costruzione teologica sul piano del vissuto femminile, nella percezione del corpo, della gravidanza e del parto, per donne cristiane abituate a guardare alla figura della Madonna come modello assoluto. Non c’è dubbio che abbia introdotto elementi di profonda contraddizione nel vissuto della maternità, scindendone gli aspetti e attribuendovi significati e contenuti simbolici opposti. Se da un lato infatti, con il mistero dell’incarnazione, la nascita acquistava un rilievo speciale a livello simbolico; se la maternità risultava valorizzata sul piano spirituale e della relazione madre- figlio, con una rottura rispetto al mondo antico di cui è impossibile non cogliere la rilevanza; d’altro canto però il parto rimaneva confinato nel novero delle espressioni corporee indicibili e indegne della madre di Dio.
Questa svalorizzazione della maternità corporea era destinata ad accentuarsi ancor di più dopo il Concilio di Trento, quando le severe disposizioni controriformistiche in materia di raffigurazione delle immagini sacre portarono alla progressiva scomparsa di tutte quelle rappresentazioni artistiche che mettevano in mostra i segni della maternità corporea di Maria: le Madonne del parto andarono via via sparendo; nella rappresentazione della Natività la postura della Madonna puerpera fu abbandonata, a vantaggio di quella genuflessa, in adorazione del bambino (come più spesso si vede nei presepi) ed anche le mammelle di tante Madonne del latte rientrarono pudicamente nelle vesti.
QUESTA CANCELLAZIONE dei tratti corporei dal modello ideale di Madre e i contenuti teologici sottesi erano destinati a pesare non poco nell’autorappresentazione e nell’identità femminile, connotando l’esperienza materna di aspetti ambivalenti. Il tabù del parto, l’impurità della puerpera, che escludeva la madre perfino dal battesimo del figlio, non furono scalfiti dalla «rivoluzione cristiana», pesando, fino ad un passato molto prossimo, come un’ombra nera sul suo corpo fecondo.
In questo modo la forza, il coraggio e la capacità delle donne di mettere al mondo restavano avvolti in un alone di vergogna e impurità che solo in tempi recenti ha cominciato a esser rivisto, grazie al movimento delle donne.
Il gesto.
Il Papa indice l’Anno di San Giuseppe: "Il mondo ha bisogno di padri"
Nella ricorrenza dei 150 anni della proclamazione a patrono della Chiesa. Fino all’8 dicembre 2021 sarà concessa l’indulgenza plenaria ai fedeli che pregano il Santo, sposo di Maria
di Redazione Internet *
Il Papa ha indetto un Anno speciale di San Giuseppe, nel giorno in cui ricorrono i 150 anni del Decreto Quemadmodum Deus, con il quale il Beato Pio IX dichiarò San Giuseppe Patrono della Chiesa Cattolica. "Al fine di perpetuare l’affidamento di tutta la Chiesa al potentissimo patrocinio del Custode di Gesù, Papa Francesco - si legge nel decreto del Vaticano pubblicato oggi - ha stabilito che, dalla data odierna, anniversario del Decreto di proclamazione nonché giorno sacro alla Beata Vergine Immacolata e Sposa del castissimo Giuseppe, fino all’8 dicembre 2021, sia celebrato uno speciale Anno di San Giuseppe".
Per questa occasione è concessa l’Indulgenza plenaria ai fedeli che reciteranno "qualsivoglia orazione legittimamente approvata o atto di pietà in onore di San Giuseppe, specialmente nelle ricorrenze del 19 marzo e del 1° maggio, nella Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, nella Domenica di San Giuseppe (secondo la tradizione bizantina), il 19 di ogni mese e ogni mercoledì, giorno dedicato alla memoria del Santo secondo la tradizione latina".(QUI IL TESTO)
Accanto al decreto di indizione dell’Anno speciale dedicato a San Giuseppe, il Papa ha pubblicato la Lettera apostolica "Patris corde - Con cuore di Padre", in cui come sfondo c’è la pandemia da Covid19 che - scrive Francesco - ci ha fatto comprendere l’importanza delle persone comuni, quelle che, lontane dalla ribalta, esercitano ogni giorno pazienza e infondono speranza, seminando corresponsabilità. Proprio come San Giuseppe, "l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta". Eppure, il suo è "un protagonismo senza pari nella storia della salvezza".
San Giuseppe ha espresso concretamente la sua paternità "nell’aver fatto della sua vita un’oblazione di sé nell’amore posto a servizio del Messia". E per questo suo ruolo di "cerniera che unisce l’Antico e Nuovo Testamento", egli "è sempre stato molto amato dal popolo cristiano" . In lui, "Gesù ha visto la tenerezza di Dio", quella che "ci fa accogliere la nostra debolezza", perché "è attraverso e nonostante la nostra debolezza" che si realizza la maggior parte dei disegni divini.
"Solo la tenerezza ci salverà dall’opera" del Maligno, sottolinea il Pontefice, ed è incontrando la misericordia di Dio soprattutto nel Sacramento della Riconciliazione che possiamo fare "un’esperienza di verità e tenerezza", perché "Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene e ci perdona". Giuseppe è padre anche nell’obbedienza a Dio: con il suo ’fiat’ salva Maria e Gesù ed insegna a suo Figlio a "fare la volontà del Padre". Chiamato da Dio a servire la missione di Gesù, egli "coopera al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro di salvezza".
La lettera del Papa evidenzia, poi, "il coraggio creativo" di San Giuseppe, quello che emerge soprattutto nelle difficoltà e che fa nascere nell’uomo risorse inaspettate. "Il carpentiere di Nazaret - spiega il Pontefice - sa trasformare un problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza".
Egli affronta "i problemi concreti" della sua Famiglia, esattamente come fanno tutte le altre famiglie del mondo, in particolare quelle dei migranti. In questo senso, San Giuseppe è "davvero uno speciale patrono" di coloro che, "costretti dalle sventure e dalla fame", devono lasciare la patria a causa di "guerre, odio, persecuzione, miseria". Custode di Gesù e di Maria, Giuseppe "non può non essere custode della Chiesa", della sua maternità e del Corpo di Cristo: ogni bisognoso, povero, sofferente, moribondo, forestiero, carcerato, malato, è "il Bambino" che Giuseppe custodisce e da lui bisogna imparare ad "amare la Chiesa e i poveri".
"Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione". Nella Lettera Apostolica papa Francesco sottolinea che "ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto questo tipo di maturità".
"La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli - sottolinea ancora il Pontefice - spalanca sempre spazi all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso ’inutile’, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita".
Papa Francesco mette in evidenza la natura di santo della porta accanto, o meglio del quotidiano, di San Giuseppe. Una notazione che egli lega anche all’emergenza Covid, ricordando che si stratta di una "straordinaria figura, tanto vicina alla condizione umana di ciascuno di noi. Tale desiderio è cresciuto durante questi mesi di pandemia, in cui possiamo sperimentare, in mezzo alla crisi che ci sta colpendo, che «le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni - solitamente dimenticate - che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti».
Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine".
Francesco definisce San Giuseppe "padre amato" (a motivo della grande voCAzione popolare nei suoi confronti), padre nella tenerezza" (capace di far posto a Dio anche attraverso le proprie paure e debolezze) e "padre nell’obbedienza" (perché ascolta la voce di Dio che gli si manifesta in sogno attraverso l’angelo).
SAN GIUSEPPE E IL LAVORO
Al tema il Papa dedica un intero paragrafo. "Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento? La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’ creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità. Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire: nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!".
LE CONDIZIONI PER CONSEGUIRE L’INDULGENZA PLENARIA
L’Indulgenza plenaria viene concessa "alle consuete condizioni (confessione sacramentale, comunione eucaristica e preghiera secondo le intenzioni del Santo Padre) ai fedeli che, con l’animo distaccato da qualsiasi peccato, parteciperanno all’Anno di San Giuseppe".
"Si concede l’Indulgenza plenaria - si legge nel decreto - a quanti mediteranno per almeno 30 minuti la preghiera del Padre Nostro, oppure prenderanno parte a un ritiro spirituale di almeno una giornata che preveda una meditazione su San Giuseppe";
a "coloro i quali, sull’esempio di San Giuseppe, compiranno un’opera di misericordia corporale o spirituale, potranno ugualmente conseguire il dono dell’Indulgenza plenaria";
"si concede l’Indulgenza plenaria per la recita del Santo Rosario nelle famiglie e tra fidanzati".
Potrà conseguire l’Indulgenza plenaria
"chiunque affiderà quotidianamente la propria attività alla protezione di San Giuseppe e ogni fedele che invocherà con preghiere l’intercessione dell’artigiano di Nazareth, affinché chi è in cerca di lavoro possa trovare un’occupazione e il lavoro di tutti sia più dignitoso";
"ai fedeli che reciteranno le Litanie a San Giuseppe (per la tradizione latina), oppure l’Akathistos a San Giuseppe, per intero o almeno qualche sua parte (per la tradizione bizantina), oppure qualche altra preghiera a San Giuseppe, propria alle altre tradizioni liturgiche, a favore della Chiesa perseguitata ad intra e ad extra e per il sollievo di tutti i cristiani che patiscono ogni forma di persecuzione"
"ai fedeli che reciteranno qualsivoglia orazione legittimamente approvata o atto di pietà in onore di San Giuseppe, per esempio ’A te, o Beato Giuseppe’, specialmente nelle ricorrenze del 19 marzo e del 1° maggio, nella Festa della Santa famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, nella domenica di San Giuseppe (secondo la tradizione bizantina), il 19 di ogni mese e ogni mercoledì, giorno dedicato alla memoria del Santo secondo la tradizione latina".
Nell’attuale contesto di emergenza sanitaria, il dono dell’Indulgenza plenaria "è particolarmente esteso agli anziani, ai malati, agli agonizzanti e a tutti quelli che per legittimi motivi siano impossibilitati ad uscire di casa, i quali con l’animo distaccato da qualsiasi peccato e con l’intenzione di adempiere, non appena possibile, le tre solite condizioni, nella propria casa o là dove l’impedimento li trattiene, reciteranno un atto di pietà in onore di San Giuseppe, conforto dei malati e Patrono della buona morte, offrendo con fiducia a Dio i dolori e i disagi della propria vita".
LA DEVOZIONE DEL PAPA A SAN GIUSEPPE
E’ nota la predilezione di papa Francesco per la figura dello sposo di Maria. Durante il viaggio a Manila raccontò della sua abitudine di riporre sotto la statuetta del “Giuseppe dormiente”, tenuta nel suo studio a Santa Marta, un foglietto con su scritte le proprie preoccupazioni.
Non solo: in una breve nota a metà della Lettera Patris corde, il Papa ricorda la sua “sfida”, rilanciata ogni giorno da 40 anni: dopo la recita delle Lodi segue quella di una vecchia preghiera trovata in un libro di devozioni francese dell’Ottocento. Il destinatario di quella “certa sfida” quotidiana è San Giuseppe perché, dopo avergli affidato tutto, “situazioni gravi e difficoltà”, quella vecchia orazione termina così: “Che non si dica che ti abbia invocato invano”.
* Fonte: Avvenire, martedì 8 dicembre 2020 (ripresa parziale, e senza immagini).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!! Benedetto XVI ha ricordato la conversione di Francesco : « l’ex play boy convertito dalla voce di Dio »... ma ha "dimenticato" la denuncia sul "ritardo dei lavori", fatta da Pirandello già a Benedetto XV. Che disastro !!!
FLS
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS". LOGICA E REALTÀ .... *
Quando la logica va in vacanza
di Edoardo Camassa **
Il termine “fallacia” può essere inteso in almeno due modi. In senso lato designa una qualsiasi idea, opinione o credenza sbagliata; per esempio che le donne non sappiano guidare o che rompere uno specchio porti sette anni di disgrazie. Come si vede, stando a questa prima accezione del termine, le fallacie si fondano sugli stereotipi, sulla superstizione o comunque su detti e proverbi popolari, e perciò non ambiscono in nessun modo a risultare convincenti. Ma le cose cambiano se ci spostiamo dal linguaggio comune al linguaggio filosofico-scientifico.
In senso stretto, infatti, “fallacia” indica un’argomentazione o un ragionamento che sono logicamente viziati ma psicologicamente persuasivi; ciò può avvenire in modo consapevole e deliberato, quando vengono prodotti con l’intenzione di ingannare, e allora parleremo di sofismi, o inconsapevolmente, quando vengono prodotti senza volontà di inganno, e allora parleremo di paralogismi. In estrema sintesi, nella prospettiva della logica dell’argomentazione la fallacia è un ragionamento che ricorda un qualche tipo d’inferenza, ma che se sottoposto a un esame rigoroso si rivela scorretto[1].
Tra gli innumerevoli esempi possibili di fallacie intese in questa seconda accezione ce n’è uno su cui vale la pena di soffermarsi, se non altro perché compare in quello che è in assoluto il primo trattato sistematico sui ragionamenti viziati - il De sophisticis elenchis di Aristotele - e ha il pregio di essere estremamente chiaro[2]. Si tratta della fallacia d’accidente converso, un tipo di generalizzazione indebita che nasce dal considerare ciò che vale sotto un determinato aspetto (παρὰ τὸ πῄ, traducibile nei termini della logica medievale con secundum quid) come se valesse in assoluto, in sé e per sé (ἁπλῶς, corrispondente al latino simpliciter). In base a questo indebito procedimento generalizzante, dal fatto che un indiano è nero ma ha i denti bianchi si passa a concludere, erroneamente, che questo indiano è al contempo bianco e nero (Soph. el., 167a 7-9)[3]. Nel presente lavoro mi occuperò di fallacie intendendole in questo secondo senso, ossia nell’accezione ristretta; mi occuperò cioè di “fallacie logiche”. Più nel dettaglio, mi concentrerò su una particolare classe di ragionamenti scorretti: quella delle argomentazioni viziate che realizzano il loro potenziale comico.
[...]
Per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, occorre però aggiungere subito che qui mi soffermerò sulle fallacie comiche per come appaiono nella letteratura.
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Per provare a esplicitare gli scopi delle fallacie comiche nella letteratura conviene rifarsi ancora una volta a Freud, e nello specifico all’analisi di ciò che egli chiama «storielle con una facciata logica» (o «motti concettuali sofistici»). Secondo Freud, se questo tipo di barzellette mostra una parvenza logica così robusta da rivelarsi come tale solo in seguito a un esame più attento è appunto perché lo scherzo tradisce qualcosa di serio, cela una logica ancor più profonda[4]. Orlando, che dal libro freudiano sul Witz ha tentato di estrapolare una teoria generale del comico letterario, scrive a ragione che i motti con una facciata logica sono «di una logica sofistica, esagerata, che dissimula anziché ostentarla l’erroneità dei propri ragionamenti secondo il livello della coscienza, e con ciò stesso ostenta fingendo di dissimularla la validità dei ragionamenti stessi secondo un’altra logica di fondo»[5].
È proprio questa dialettica di erroneità e validità, di illogicità e logicità che caratterizza le fallacie comiche rinvenibili nelle opere letterarie. Vale perciò la pena di approfondirne l’esame e di articolarne i momenti costitutivi. In prima battuta il lettore (mi riferisco al lettore modello) prende per buono il ragionamento incongruo; in altre parole si lascia persuadere dalla sua coerenza apparente. Il pensiero critico e la valutazione razionale subentrano in lui solo in un secondo momento, così da rendergli la fallacia palese, riconoscibile, e con ciò stesso da muoverlo al riso. Ma non è tutto: il lettore è infine portato a riconsiderare l’argomentazione comica e a intuire che quel che gli pareva erroneo così erroneo non è, dal momento che fa luce su verità paradossali ma profonde a cui la logica ordinaria non può né vuole accedere[6]. Da questa angolatura, assurdo non è più tanto e solo il ragionamento fallace, ma anche e soprattutto qualcos’altro di più generale. Se si vuole, il sistema di pensiero corrente e le sue leggi ritenute inattaccabili.
Un esempio chiarirà meglio cosa intendo: «L’unico modo per liberarsi di una tentazione è quello di cedervi»[7]. Tra tutte le massime che in The Picture of Dorian Gray (1890) Wilde mette in bocca a Lord Henry Wotton, irresistibile campione di freddure, questa è forse la più celebre. Essa di primo acchito sembra sensata, convincente. Tuttavia, a un esame più approfondito, l’aforisma rivela tutta la sua inconsistenza argomentativa. A rigor di logica, oltre a quella suggerita da Lord Wotton, vi sarebbe infatti un’altra e ben più valida soluzione per liberarsi di una tentazione: quella di metterla a tacere, di ignorarla e in definitiva di reprimerla. Come si vede, ci troviamo qui a ridere di una fallacia facilmente individuabile, che è nota come evidenza soppressa (o unilateralità) e che consiste nel dimenticare per strada alcune informazioni in grado di invalidare la tesi proposta. Benché tutto questo sia esatto, va pur detto che la massima sopra citata non si esaurisce nell’errore logico e nel comico puro. Nonostante l’incongruenza, e anzi proprio in virtù di questa, Wilde mira a farci intravedere qualcosa di serio: che tutto sommato non c’è davvero altro modo per liberarsi di una tentazione se non quello di cedervi. Per convincersene, basta leggere come il discorso di Lord Wotton continua: «Resistetele, e la vostra anima si ammalerà di bramosia per le cose che si è proibite da sola, di desiderio per ciò che le sue leggi mostruose (monstrous laws) hanno reso mostruoso e illegittimo (monstrous and unlawful)»[8]. Qui Wilde vagamente anticipa una idea che da lì a poco la psicanalisi cercherà di fondare su basi scientifiche. Per quanto proviamo a domarlo, il desiderio - mostruoso e proibito, sì, ma solo nell’ottica della ragione dispiegata - non si lascerà mai ammansire e combatterà con tutte le proprie forze per emergere. Con buona pace della mentalità borghese-puritana, additata come il “vero” bersaglio comico del ragionamento.
Quanto detto può essere riformulato e arricchito combinando la terminologia di Freud con quella del suo erede cileno Matte Blanco: le fallacie comiche della letteratura sono - un po’ come i sogni, i lapsus e i sintomi psiconevrotici, benché calcolate e coscienti - «formazioni intermedie e di compromesso»[9], frutti di un «sistema logico-antilogico»[10]. Esse ci spingono da un lato a ridere con superiore distacco di assurdità che a tutta prima paiono il risultato di una disattenzione, di un disimpegno mentale, e dall’altro a sentire in modo partecipe che il pensiero consueto in fondo non è altro che uno tra i molti tipi di pensiero possibili e immaginabili. Credo che D’Angeli e Paduano vogliano suggerire qualcosa del genere quando scrivono che nel riso diretto ai danni di chi pronuncia ragionamenti aberranti si maschera il timore che la sua logica altrettanto strutturata e resistente costituisca un grave rischio per la presunta inattaccabilità del sistema di pensiero corrente: le sue leggi, date senza verifica per completamente affidabili, se messe sotto la lente di un simile sguardo straniante, si rivelano discutibili e quindi incerte, e coinvolgono nel dubbio l’intero sistema logico[11].
Ricapitolando, le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni. Da ciò si ricava che nella finzione letteraria i ragionamenti ridicoli si presentano come un salvacondotto grazie a cui formidabili deviazioni dalla logica e dal pensiero razionale riescono a trapelare in modo socialmente fruibile. Lo scopo di questo lavoro è appunto mettere in luce, attraverso un congruo numero di esempi, in quali modi la letteratura può trasgredire la logica consueta e dare risalto alle verità paradossali e profonde che emergono proprio in virtù del sovvertimento della logica.
** Fonte: Le parole e le cose, 3 dicembre 2020 (ripresa parziale - senza note)
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NOTA
LOGICA E REALTÀ: LE FALLACIE “COMICHE” NELLA LETTERATURA DELLA TRAGEDIA.
E le fallacie tragiche nella letteratura della “Commedia” e della “Monarchia” di Dante Alighieri...
SE “le fallacie comiche in letteratura hanno un intento duplice e ambiguo: punire col riso le argomentazioni che si discostano dalla logica ordinaria e, contemporaneamente, rimarcare i limiti e i vincoli delle certezze comuni [....]”, alla fin fine, confermano il sentimento tragico della vita in cui si collocano. O no?
Se è così, non è meglio capovolgere il senso del cammino e mettere in luce le fallacie “tragiche” nella “Commedia”, e nella “Monarchia”, come da lezione di Dante?! O no?!
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
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Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
“M”: (DANTE, D’ANNUNZIO, E) MUSSOLINI. SULL’UTILITA’ E IL DANNO DELL’ARALDICA PER LA VITA...*
LA BONIFICA DELL’AGRO PONTINO E LO STEMMA DELLA CITTA’ DI APRILIA (25 aprile 1936). A BEN RIFLETTERE, SE SI CONSIDERA che “Il primo bozzetto acquerellato dello stemma del nuovo centro dell’Agro Pontino fu predisposto da Araldo di Crollalanza, presidente dell’O.N.C. (Opera Nazionale Combattenti), e erede di una famiglia di insigni araldisti che contribuirono tra la fine del XIX sec. e l’inizio del XX a un aggiornamento in Italia della scienza del blasone” e, ancora, che “un velato riferimento al nome del fondatore della Città sembra non mancare nello stemma. Esso è dato dalla disposizione delle rondini che non sembra affatto casuale. Infatti le rondini tracciano idealmente una lettera M maiuscola considerate insieme all’andamento perpendicolare dei fianchi dello scudo [...] Tale stratagemma del richiamo al nome di Mussolini era più esplicito nella prima versione dello stemma di Pontinia [...]. Un richiamo del genere si trovava anche nell’originario stemma di Sabaudia, nel quale campeggiava un’aquila caricata da uno scudo sabaudo e posata su tre monti che, per numero e disposizione, accennavano ad una lettera M” (cfr. don Antonio Pompili, “Lo stemma”, Comune di Aprilia, NON E’ IMPENSABILE CHE nel “gioco” dell’immagine elaborata da Araldo di Crollalanza sia presente una volontà di alludere a Dante (alla “M”, all’Aquila, del canto XVIII del Paradiso) e al contempo di inviare un “messaggio” al “primo duce”, a D’Annunzio (e al suo “Dantes Adriacus”).
* Nota a margine dell’articolo di Aurelio Musi, "Un caso letterario: M, l’uomo della Provvidenza", "L’identità di Clio", 5 Ottobre 2020.
Federico La Sala
Se il miglior interprete dei diritti non è la Corte ma il papa
Diritti. La pronuncia dei giudici costituzionali è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro legislatore
di Massimo Villone (il manifesto, 23.10.2020)
È davvero uno scherzo della storia leggere nello stesso giorno di Papa Francesco e della Corte costituzionale. Il Papa apre alle coppie gay, e chiede una legge sulle unioni civili. Non sembra dubbio che, senza toccare il sacramento del matrimonio, dalle sue parole derivi un riconoscimento con pienezza di diritti, inclusa la filiazione. Mentre la Corte quei diritti li amputa.
Il fatto. A una coppia di donne, unita civilmente, nasce in Italia un figlio a seguito di fecondazione eterologa all’estero. La registrazione allo stato civile viene rifiutata. Nel giudizio conseguente viene sollevata dal Tribunale di Venezia una questione di legittimità costituzionale della legge sulle unioni civili e del decreto sugli atti dello stato civile. Il diritto.
La Corte si orienta per l’inammissibilità delle questioni sollevate. Il riconoscimento dello status di genitore alla cd madre intenzionale “non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale”. E dunque il diritto non esiste.
Le secche parole del comunicato chiudono la strada anche a interpretazioni secundum Constitutionem.
Al momento abbiamo solo il comunicato, e vedremo poi in dettaglio le motivazioni. Intanto possiamo dire che la Corte sembra aver sviluppato una allergia per i temi eticamente sensibili, con eccezioni per la fecondazione assistita. Cappato insegna, e certo la Corte sa bene che il rinvio al legislatore può tradursi nell’inerzia del medesimo.
Dobbiamo poi cogliere che oggi la Corte va oltre.
Al rinvio al legislatore si aggiunge la contestuale negazione di un diritto costituzionalmente protetto. Sul tema la Corte ha già balbettato in passato. Nella sentenza 138/2010 lesse nel matrimonio di cui all’articolo 29 della Costituzione la disciplina del codice civile del 1942, che ovviamente conosceva soltanto la coppia formata da due persone di sesso diverso. Ben si poteva invece dare una lettura evolutiva, che tenesse conto del nuovo.
Un recupero parziale è venuto poi dalla sent. 170/2014, sul cosiddetto divorzio automatico o imposto nel caso di cambio di sesso di uno dei coniugi. La Corte ha rinviato al legislatore, dichiarando però la incostituzionalità e affermando il diritto a una piena tutela giuridica della coppia del medesimo sesso.
Quella pronuncia ha avuto poi riscontro nella tormentata legge sulle unioni civili. Ma la Corte tiene oggi a precisare che la coppia omosessuale, pur riconosciuta dalla legge nella forma dell’unione civile, non ha gli stessi diritti della coppia eterosessuale unita in matrimonio. La Costituzione non garantisce che li abbia.
Si faccia una ipotesi di scuola. Una legge che limitasse forzosamente il numero dei figli consentiti nel matrimonio sarebbe incostituzionale. Mentre una legge che ponesse lo stesso limite a una coppia omosessuale unita civilmente potrebbe non esserlo.
Che ne è del nucleo incomprimibile dei diritti, di cui tanto abbiamo letto nella giurisprudenza costituzionale? E della razionalità, intesa come tutela contro distinzioni discriminatorie? Il presidio costituzionale diventa evanescente. Forse la stessa legge sulle unioni civili sarebbe in principio reversibile, se “l’interprete del sentire della comunità nazionale”, e cioè il legislatore maggioritario, maturasse un umore avverso.
L’odierna pronuncia della Corte, magari al di là delle intenzioni, è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro il legislatore. E che dunque l’area della political question sottratta al suo scrutinio deve essere il più possibile ristretta.
“Il sentire della collettività” è sempre il pericolo più grande per i diritti e per le libertà, che sono appunto un argine contro quel sentire tradotto in potere politico e legislativo. Bisogna essere estremamente cauti nell’affermare che questa o quella fattispecie sfugge alla protezione costituzionale.
Non è un paese felice quello in cui ci si sente garantiti da un capo religioso piuttosto che dal massimo organo di giustizia costituzionale.
Ma potremmo suggerire che Papa Francesco tenga per i giudici della Corte un seminario di formazione, dal momento che più e meglio di loro si mostra consapevole del senso vero della Costituzione.
#COSTITUZIONE ED #EVANGELO: #DUESOLI. #PapaFrancesco apre la strada a #Dante2021: pagare il tributo a #Cesare «è un #dovere»; ma la #CorteCostituzionale con poco #spirito di #Salomone (di fronte a #due cittadine, unite civilmente, con bambino) fa "per viltade il #granrifiuto".
Religiosità e criminalità.
Liberare la Madonna dalle mafie. Messaggio di papa Francesco
di Filippo Rizzi ed Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
La devozione mariana va salvaguardata da una religiosità fuorviata. Nel mirino «gli inchini» delle statue ai boss nelle processioni e la presenza dei clan nelle feste patronali
Liberare la Madonna dalla mafia. È il senso del nuovo intervento che papa Francesco ha voluto fare inviando un messaggio al francescano minore padre Stefano Cecchin presidente della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami), che ha deciso di porre il tema «religiosità e criminalità» al centro del proprio lavoro, dando vita a un Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio, a cui sono stati chiamati anche esperti esterni, rappresentati da magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile. È a loro che si rivolge il Papa nel messaggio inviato in vista del convegno che la Pami realizzerà il 18 settembre prossimo.
«La devozione mariana è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza - scrive Francesco nel suo messaggio datato significativamente 15 agosto, festa dell’Assunzione -, liberandolo da sovrastrutture, poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà, onestà e solidarietà».
Il riferimento, neppure troppo velato, è all’uso che le varie mafie fanno degli eventi religiosi - processioni e feste patronali in particolare - per mostrare la propria presenza sul territorio e anche per creare consenso facendo proprio leva attraverso la fede popolare. Negli anni passati accadeva spesso di leggere degli “inchini” che le statue della Madonna o del santo patrono, facevano verso la casa del boss locale, segno di omaggio e, nello stesso tempo, di riaffermazione del potere in quel territorio. Leggi anche
E il Pontefice, che già in passato ha fatto sentire la propria voce contro il crimine organizzato e le varie mafie, ribadisce con forza come sia «necessario che lo stile delle manifestazioni mariane sia conforme al messaggio del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa».
Ecco allora che uno «dei criteri per verificare ciò, è l’esempio di vita dei partecipanti a tali manifestazioni, i quali sono chiamati a rendere dappertutto una valida testimonianza cristiana mediante una sempre più salda adesione a Cristo e una generosa donazione ai fratelli, specialmente i più poveri». Insomma le comunità locali vigilino sulle feste patronali e soprattutto su coloro che in quelle occasioni si presentano come devoti, nascondendo intenti tutt’altro che devozionali. E ai fedeli, quelli veri, papa Francesco chiede di «assumere atteggiamenti che escludono una religiosità fuorviata e rispondano invece a una religiosità rettamente intesa e vissuta».
Invito che il Pontefice estende anche ai Santuari mariani, affinché «diventino sempre più cittadelle della preghiera, centri di azione del Vangelo, luoghi di conversioni, caposaldi di pietà mariana, a cui guardano con fede quanti sono alla ricerca della verità che salva». Dunque, conclude il Papa, ben venga questo lavoro che la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) intende avviare con la creazione del Dipartimento.
Un passo nuovo, che coinvolge anche le realtà del territorio non solo legate alle parrocchie o alle diocesi. Del resto queste ultime, in particolare nelle regioni con la maggior presenza delle organizzazioni di stampo mafioso, già da tempo sono intervenute con documenti e anche decisioni che hanno portato alla rottura con il passato.
Lo stesso papa Francesco, come abbiamo detto, ha espresso con forza l’impossibilità di far convivere una fede religiosa autentica e l’appartenenza alla mafia. Nella spianata di Sibari, durante la sua visita alla diocesi di Cassano all’Jonio il 21 giugno 2014, papa Bergoglio nell’omelia della Messa arrivò a dire che «coloro che seguono nella loro vita questa strada del male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati».
Concetto ribadito nell’omelia della Messa celebrata poco più di quattro anni dopo (il 15 settembre 2018) a Palermo in ricordo del beato don Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore».
Per questo «ai mafiosi dico: cambiate fratelli e sorelle. Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle. Io dico a voi mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».
E se, come disse nella visita a Napoli il 21 marzo 2015, «un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza», papa Francesco richiama tutti i credenti a essere vigilanti contro le distorsioni che della devozione mariana viene fatta. Un compito che richiama le coscienze di tutti all’impegno. E a non voltare le spalle quando si manifestano lungo i borghi della nostra Penisola queste deviate devozioni religiose.
Pami.
Culto mariano, un laboratorio per difendere la devozione dalla criminalità
Teologi, ma anche magistrati e giudici, nel Dipartimento creato nella Pontificia accademia Padre Roggio: studiare le cause delle deviazioni. Il criminologo Iadeluca: riti per odio e omertà
di Filippo Rizzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
Un dipartimento ad hoc all’interno della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) per studiare i fenomeni criminali e mafiosi e così «liberare la figura della Madonna dall’influsso delle organizzazioni malavitose». È quanto è allo studio di questa Istituzione pontificia per evitare di strumentalizzare la figura della Vergine da parte dei boss e dei clan criminali presenti nel nostro Paese: dalla Lombardia alla Calabria. Un centro studi sorto soprattutto sulla scorta dei recenti interventi di papa Francesco a questo riguardo: tra questi in particolare quello pronunciato, il 21 giugno del 2014, dove il Vescovo di Roma nella piana di Sibari in Calabria pronunciò parole inequivocabili: «La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati».
E il prossimo 18 settembre a Roma la Pami nel corso di un convegno traccerà le linee guida di questo nuovo Dipartimento che coinvolge (una trentina di persone): non solo teologi e mariologi ma anche magistrati (molto di loro della Dda, Direzione distrettuale antimafia), criminologi, avvocati, membri delle Forze dell’Ordine e sindaci di importanti città.
«Persone che ogni giorno - spiega il mariologo padre Gian Matteo Roggio, appartenente alla Congregazione dei missionari di Nostra Signora della Salette e tra i principali ispiratori di questa nuova sezione della Pami - si confrontano con il fenomeno mafioso, lo contrastano all’insegna della cultura della legalità. In un certo senso come recita il documento programmatico di questo nuovo dipartimento siamo chiamati tutti a un autentica “teologia della liberazione” dalle mafie».
Un evento assicurano gli organizzatori che ha anche il sostegno di papa Francesco. «Per il Convegno - racconta padre Roggio - il Papa ha inviato un messaggio chiaro e forte che porta la data del 15 agosto scorso. E caso singolare il documento reca la firma di Francesco dal palazzo del Laterano il luogo adiacente alla Cattedrale di Roma. In questo testo Francesco chiede a chi si professa autenticamente cristiano di salvaguardare la devozione mariana nella sua originaria purezza».
L’auspicio di questa task force di esperti è proprio quella di liberare anche idealmente luoghi simbolo come alcuni Santuari mariani del nostro Meridione - basti pensare - a quello della “Madonna di Polsi” nel cuore dell’Aspromonte dall’uso distorto di devozioni che ne fanno oggi le mafie odierne. «Il rito dell’iniziazione è la liturgia che accompagna l’ingresso del neofita nell’organizzazione.
È simile al “Battesimo” e deve essere considerata una “sorta di rinascita”, ovvero la nascita a nuova vita - spiega il criminologo Fabio Iadeluca -. Nella ’ndrangheta, in modo particolare rispetto a cosa nostra, alla camorra, alla sacra corona unita ed altre forme associative mafiose pugliesi, le forme rituali rappresentano l’essenza stessa dell’organizzazione e ne disciplina la vita dei suoi affiliati».
E aggiunge un dettaglio: «Monitorando questi episodi e intercettazioni ambientali a preoccuparci è stata l’adulterazione delle tradizionali venerazioni alla Madonna o ad importanti santi del Sud, penso in particolare a san Michele Arcangelo che con queste pratiche si trasformano in figure vendicatrici e cariche di odio; si tratta di usanze che servono a tutelare tutta una rete di omertà su cui si reggono queste realtà. Sono quasi sempre riti di iniziazione violenti con l’uso di santini e immagini sacre provenienti dal nostro patrimonio di fede cattolica».
Agli occhi di padre Roggio l’appuntamento di settembre servirà a fare chiarezza su quanto il magistero ecclesiale dice a riguardo. «Non è in discussione quanto da tempi non sospetti la Chiesa - è l’osservazione - si sia pronunciata per dire no a questi fenomeni e ribadire che tutto questo non appartiene alla corretta dottrina e spiritualità. Ma lo sforzo ulteriore che il nostro osservatorio vuole offrire è di andare alle radici culturali e antropologiche che fanno scaturire queste deviazioni religiose». Una sfida dunque di lungo termine.
«Penso che gli esempi di don Diana e don Puglisi e di come la Chiesa abbia mostrato proprio ai boss - è la riflessione finale - che questi miti sacerdoti erano dei modelli da imitare e non il contrario. Spesso viene usata dalla “cultura mafiosa” la figura della Vergine come un modello di obbedienza passiva di fronte al potere dominante. Essa viene raffigurata come una donna capace “oleograficamente” solo di piangere per la morte di un figlio. Bisogna dire basta a questo uso distorto dell’immagine della Madonna e ricordare attraverso la voce di tutti che ogni atto compiuto nella sua vita terrena e celeste è stato quello di essere in ascolto di tutti e in comunione fraterna con tutti gli uomini di buona volontà proprio come ci mostra il Vangelo quando ci parla di Lei a cominciare dal suo “fiat” all’arcangelo Gabriele».
Gioacchino e Anna.
Volti di una storia umana abitata dall’amore eterno
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 26 luglio 2020)
Il giorno in cui la Chiesa ricorda i nonni di Gesù, i genitori di Maria, è anche l’occasione per ricordare che ogni essere umano “è” una storia, è il frutto di un cammino, l’emergere di un senso condiviso, partecipato da chi l’ha preceduto e offerto a chi verrà. I santi Gioacchino e Anna, la cui storia è narrata nei Vangeli apocrifi, rappresentano l’intimità custodita nella vicenda del Dio che si fa uomo: Gesù ha una famiglia, segnata dalle stesse difficoltà delle altre famiglie, ma capace di aprirsi all’eterno.
Allo stesso tempo i due nonni santi sono il volto della maestosità del Vangelo: nel Risorto si riconciliano le generazioni e si realizza il Regno dell’amore che riguarda l’universo intero. La devozione per Gioacchino e Anna - celebrati nello stesso giorno dal 1584 - si è diffusa prima in Oriente; in Occidente ègiunta alla fine del primo millennio.
Altri santi. Sant’Austindo, vescovo (XI sec.); San Giorgio Preca, sacerdote (1880-1962). Letture. 1Re 3,5.7-12; Sal 118; Rm 8,28-30; Mt 13,44-52.
Ambrosiano. 1Sam 3,1-20; Sal 62 (63); Ef 3,1-12; Mt 4,18-22.
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio... *
Un vescovo emerito scrive.
Evasori fiscali, non si tradiscono così Dio e la nazione
di Luigi Bettazzi (Avvenire, mercoledì 8 luglio 2020)
Egregi evasori fiscali,
(e-gregio vuol dire infatti "fuori, al di sopra del gregge", della gente comune) da vescovo più giovane e da presidente di Pax Christi, Movimento internazionale per la pace, m’era venuto di scrivere ai politici del tempo - ad esempio al democristiano Benigno Zaccagnini e al comunista Enrico Berlinguer - invitandoli a essere coerenti con le loro scelte politiche e convergenti al bene della nazione, ora, al termine della mia vita (ho ormai più di 96 anni), mi viene di scrivere una lettera a voi.
La pandemia che stiamo vivendo ci ha obbligati a vivere più ritirati, quindi più pensosi per la nostra vita personale e per il bene della collettività. Ed è così, ad esempio, che ci siamo resi conto del lavoro delle varie mafie che, attente a evitare situazioni più clamorose, come quelle che finiscono in uccisioni e stragi, sfruttano la situazione per aumentare le loro ricchezze, ad esempio con prestiti a usura a chi non riesce a trovare mezzi legali per sovvenire alla mancanza di danaro causata dalla limitazione del lavoro o dalla sua perdita. Al contrario, v’è chi arriva a frodare per avere sovvenzioni a cui non ha diritto.
Questo ci ha fatto pensare come le limitazioni, sia del sistema sanitario antecedente come dei provvedimenti per arginare l’espandersi della pandemia e frenare le crisi dell’industria e delle aziende, derivi anche dalle minori disponibilità economiche dovute anche a quanto viene evaso da chi non paga le tasse, soprattutto di chi, con la ricchezza, riesce a trovare i mezzi per portare i suoi beni nei cosiddetti paradisi fiscali. Questa è una grossa ingiustizia perché quanto viene portato fuori dalla nazione è stato raggranellato con il lavoro dei concittadini e utilizzando le leggi (e le sottigliezze) dello Stato. È triste pensare che la nazione vi abbia fatti crescere e sviluppare fino al punto di poterla tradire.
Non voglio pensare che tra voi ci siano quelli che formalmente figurano come rispettosi - o addirittura partecipi attivi - del cristianesimo che ha accompagnato la storia della nostra nazione, ma poi trasgrediscono il suo messaggio fondamentale, che è quello di non chiudersi nel proprio egoismo, ma di aprirsi agli altri, proprio cominciando dai più piccoli, dai più poveri, dai più emarginati.
Così fanno i boss delle varie mafie, che poi a copertura delle loro violenze proteggono le devozioni popolari e se ne fanno riverire, o quei politici che nel mondo ostentano oggetti e proteggono frange di strutture religiose per coprire le loro minori attenzioni umane. Non vorrei che anche voi, magari sovvenendo pubblicamente alcune opere di solidarietà, vogliate così "scontare" la vostra ingiustizia di fondo.
È vero che alle volte, nel mondo, le tassazioni possono sembrare eccessive o ingiuste. Ma, in democrazia, si devono trovare i mezzi, soprattutto da parte dei più abbienti come siete voi, per correggerle, non per avere un pretesto per evaderle, portando il proprio danaro negli... inferni fiscali.
Perché purtroppo il danaro diventa quasi una divinità, anzi la vera alternativa a Dio: aveva già detto chiaramente Gesù (usando un termine locale) che non si possono servire due padroni: o Dio o mammona (il danaro).
Non so se anche qualche parroco vi ha mai detto che l’evasione fiscale è peccato mortale: l’ha detto qualche tempo fa laicamente Romano Prodi, ve lo ripete oggi un vescovo, anche se emerito. Mi verrebbe da ripetere la frase forte che san Giovanni Paolo II proclamò, nella valle di Agrigento, contro le mafie: "Convertitevi! Un giorno dovrete risponderne di fronte a Dio". E allora non ci saranno pretesti e coperture.
Vi chiedo scusa se vi ho attaccati pubblicamente. Spero comunque di avervi fatto pensare.
Da vescovo, pregherò per voi, per le vostre famiglie e per le vostre attività, ovviamente purché siano oneste.
Vescovo emerito di Ivrea
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
VIVA L’ITALIA !!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
ARTE, RELIGIONE,E ANTROPOLOGIA.
SAN GIUSEPPE, TERESA D’AVILA, E IL CARMELO TERESIANO... *
"[...] è bene ricordare che, il culto del santo nel Carmelo entra già dalle origini dell’Ordine. La devozione a san Giuseppe, a livello personale e locale, si viveva fin dalla venuta dei carmelitani in Europa, anche se la festa del santo Patriarca, a livello di Ordine, non appare sino alla seconda metà del XV secolo.
Tale devozione nel Carmelo teresiano, va essenzialmente unita a santa Teresa. È uno dei legati più ricchi e caratteristici che la Santa lasciò ai suoi figli. Non si comprende il Carmelo teresiano senza san Giuseppe, senza l’esperienza giuseppina della Santa. Per la Santa Madre, i conventi che fonda, a immagine del primo (Avila 1562), sono ‘case’ di san Giuseppe. Per questo procura che la maggior parte di essi porti il nome e titolo di san Giuseppe.
Dei diciassette, fondati dalla Santa, undici stanno sotto il titolo di san Giuseppe. Se non tutte le fondazioni della Santa Madre portano quel titolo, non ce n’è nessuna dove non ci sia un’immagine del Santo che presieda e protegga la comunità. È un’ulteriore manifestazione, più della sua devozione ed esperienza giuseppina, il diffondere nei conventi le immagini del santo, la maggior parte delle quali ancora si conserva.
È da notare, a questo riguardo, il dato che portava con sé in tutte le fondazioni, una statua di san Giuseppe, che riceveva il titolo di “Patrocinio di san Giuseppe” [...]" (Antonio Faita, "Un inedito di Giuseppe Sarno: san Giuseppe con Gesù Bambino presso la chiesa teresiana di Gallipoli", Fondazione Terra d’Otranto, 19.03.2020).
* Sul tema, mi sia lecito, si cfr. “De Domo David. 49 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò, Fondazione Terra d’Otranto, 10.11.2019).
Santa Marta.
L’orfanezza che proviamo e la promessa che rincuora
di Marina Corradi (Avvenire, mercoledì 20 maggio 2020)
Nell’ultima Messa mattutina in diretta tv e social il Papa lascia il segno «Oggi nel mondo c’è un grande sentimento di orfanezza: tanti hanno tante cose, ma manca il Padre». È domenica mattina. Ascolti il Papa, per l’ultima volta nelle Messe da Santa Marta aperte al popolo della tv e dei social, e le sue parole ti sembrano una freccia che lascia il segno, cogliendo il bersaglio. Un bersaglio dolente e misconosciuto: qualcosa che riguarda il nostro modo di vivere, nel suo livello più profondo.
Orfanezza, dice Francesco, e ti pare uno strano sostantivo (esistente però, dice il vocabolario); un’espressione che tuttavia centra con precisione un malessere carsico del nostro tempo. Orfanezza: il sentimento di non avere un Padre e dunque di non essere un figlio. Di non camminare in un disegno, ma dentro un caso cieco. Forse lo può capire meglio chi non è sempre vissuto nella fede: percepirsi soli, chissà perché venuti al mondo, e non veramente cari a nessuno.
Chi ha ereditato in famiglia una fede di roccia stenta magari a immedesimarsi in questa assoluta solitudine, che però accomuna oggi un grande numero di uomini e donne. Quando le cronache raccontano di vandalismi gratuiti, di aggressioni ai deboli, di cattiverie senza ragione, ecco sembra di vedere sotto a questo male stupido, al male fatto per passare il tempo, quella vena sotterranea di cui parla Francesco: orfanezza. Sbandamento, noia, aggressività da figli di nessuno. Figli che nessun Padre, e forse nemmeno un padre in carne e ossa, aspetta a casa, la sera. «Soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi. Sempre le guerre, sia le piccole guerre sia le grandi guerre, sempre hanno una dimensione di orfanezza: manca il Padre, che faccia la pace», ha continuato Francesco.
E di nuovo la sensazione di sentire evocare l’origine, una radice antica della violenza tra gli uomini. Da quella immane dei conflitti mondiali e delle persecuzioni, a quella “piccola” di certe liti di condominio, apparentemente banali, e che però si trascinano anni e creano “piccoli” odi tenaci. Perché se non si è figli di un Padre, non si è nemmeno fratelli. Se non c’è un vincolo d’appartenenza e amore forte come asse portante di sé, tutto il resto è sospeso alla consistenza della persona. Che può essere leale e perfino stoica, oppure instabile e incerta, o concentrata solo sul proprio interesse. Ma manca un centro, su cui gravitare. (Ha scritto Kafka: «Anch’io, come chiunque altro, ho in me, fin dalla nascita, un centro di gravità, che neanche la più pazza educazione è riuscita a spostare. Ce l’ho ancora questo centro di gravità, ma, in un certo qual modo, non c’è più il corpo relativo»). «E una delle conseguenze del senso di orfanezza è l’insulto», aggiunge il Papa.
Pensi all’odio che tracima sul web nei messaggi degli haters, gli odiatori: che odiano gli immigrati, o gli ebrei, o i musulmani, o quelli che non la pensano come loro. Protetti dall’anonimato vomitano un odio che probabilmente nella vita quotidiana dissimulano. Una quantità di odio che spaventa. Ma anche quello, dice Francesco, è un male che attinge all’orfanezza, al non essere figli, né fratelli. All’essere soli - e, forse, smarriti in fondo nell’angoscia e nello spavento.
Come bambini nel buio. «Non vi lascerò orfani», è la promessa di Cristo nel Vangelo di Giovanni, che il Papa ci ricorda. Promessa e memoria da rinnovare ogni mattina. Non siamo orfani venuti al mondo per un caso fortuito, abbandonati alla Fortuna cieca dei pagani. Pensiamo a come una madre e un padre guardano, istintivamente, un figlio appena nato. Non sarà infinitamente più grande l’amore di Dio per ogni uomo? Ricordarlo, per sottrarci dai vapori di questa orfanezza che marca il nostro tempo. Pieno, per molti, di tante cose che una volta non c’erano; ma mancante, dolorosamente, di ciò che è più necessario.
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?! *
A cento anni dalla nascita.
Giovanni Paolo II. «Totus tuus»: una vita per amore
Il suo sguardo fisso in Cristo ci ha insegnato che tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa Il suo amore per Maria è un faro vitale, una strada maestra ...
di Gualtiero Bassetti (Avvenire, domenica 3 maggio 2020)
Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II - Papa da otto anni, sempre più amato e popolare - animò ad Assisi la Giornata di preghiera interreligiosa per la pace, rimasta nella storia. In quella come in molte altre occasioni, le telecamere di tutto il pianeta lo immortalarono come lo ricordiamo: intimamente, quasi dolorosamente raccolto, in dialogo profondissimo con Dio, la cui volontà non può che essere il bene e la pace di tutti. Pochi furono i testimoni di un altro momento, intenso e dolcissimo, che precedette lo storico incontro.
Il giorno prima, 26 ottobre, il Papa visitò Perugia, oggi mia diocesi. Incontrò tutte le fasce di popolazione, in particolare gli amati giovani. In un saluto a braccio, seppe fondere la bellezza del genio italiano e cristiano - l’arte di una piazza tra le più belle d’Italia - col prorompente entusiasmo dei giovani che lo stavano festeggiando.
«Mi piace stare qui, mi piace molto!», non poté trattenersi dall’esclamare. A Perugia trascorse la notte, in una struttura diocesana fuori porta voluta da un mio predecessore, il vescovo mantovano Giovanni Battista Rosa. Chi salutò il Papa al mattino, alla partenza, ricorda il suo sguardo limpido affacciarsi dalla terrazza sulla valle assisana, dove stava recandosi. Avvolse in una lunga occhiata sia la bellezza quasi mistica di quel panorama, sia la pace che ne emanava, chiedendo forse a Dio, col Salmo 19, di tradurla in tutte le lingue del mondo. Ma solo una fu la testimone del suo ultimo sguardo: la Vergine Maria, raffigurata, in una semplice statua, su una colonna al centro della terrazza.
Totus tuus. La dedica a Maria nel motto apostolico di Karol Wojtyla è tratta da una frase di san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Tuus totus ego sum, et omnia mea tua sunt».
Non è, come chiarì lo stesso pontefice, una semplice formula di devozione: si radica nel mistero della Santissima Trinità. Alla potenza teologica unisce una vigorosa efficacia. San Giovanni Paolo II era uomo di pensiero quanto di azione; era abituato così, sia dalla sua storia personale, sia da quella del suo popolo. Un’assonanza, una comune origine scritturale, si coglie nella mia cattedrale in un gonfalone votivo di scuola peruginesca, realizzato nella pestilenza del 1526 - una delle tante che sconvolsero la città e l’Europa. In un cartiglio, il popolo, ai piedi dei santi e della Vergine, grida: “Salus nostra in manu tua est, et nos et terra nostra tui sumus”.
Altri approfondiranno le concordanze storico- artistiche: ci sono, a Dio piacendo, inediti filoni di bellezza di cui trovare origini e parentele, per scoprire, una volta di più, quanti canali uniscano l’umanità. A me interessa sottolineare l’efficacia della preghiera, quando davvero affida tutto l’essere. Siamo tuoi. La preghiera è universalità, coralità, unione fraterna, come ricorda papa Francesco; e pure intimità, sponsalità, unione mistica, come il Totus tuus di Wojtyla, che comunque, sulle labbra di un papa, sigilla l’offerta dell’intera umanità. Maria è via privilegiata al Cristo, di cui fu figlia e madre, come dice Dante con poesia incomparabile.
Madre di Gesù, madre di tutti, dalle nozze di Cana all’affidamento a Giovanni, ai piedi della Croce. Cristo è veramente risorto! E ci attende come attese Maria, con le sorprese della gioia. In questi giorni difficili, ho rinnovato, sia come supplica sia come ringraziamento, l’affidamento della città e del mondo alla Vergine Maria: le parole accorate che il popolo ha reiterato nei secoli. Tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa. È una delle eredità di san Giovanni Paolo II, forse la più significativa. Raccogliere e offrire a Dio, nella preghiera e nell’azione, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del mondo; gli aneliti alla pace, alla sicurezza, alla liberazione dai mali dell’anima e del corpo. Portare briciole di umanità dove dominano ancora barbarie, sopruso e ingiustizia, egoismo e indifferenza.
Annunciare amore in nome di Cristo, come faceva san Giovanni Paolo II, significa portare Cristo stesso.
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?!
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è) !
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! (Federico La Sala)
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso) : in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?»(Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?! Boh?! O no?!
Celebrazioni. Nel 2021 cadono i 700 anni della morte del poeta. Oltre 300 i progetti programmati in Italia e nel mondo, con al centro la «Commedia»
L’Alleluja eterno di Dante
di Carlo Ossola (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2020).
Abbiamo appena celebrato i 500 anni dalla scomparsa di Raffaello (6 aprile), e già s’annunciano i 700 anni dalla morte di Dante (1321), preceduti dall’aver posto in calendario l’annuale “giorno di Dante” al 25 marzo, giorno dell’Annunciazione, e inizio a Firenze, all’epoca di Dante, dell’anno civile.
Il tempo pasquale è propizio a ricordare che l’iter della Divina Commedia si svolge, nella finzione del poema, nella settimana santa del 1300, anno del Giubileo. È dunque, eminentemente, un poema di Resurrezione e Dante stesso, al sommo del Purgatorio, descrive in una luminosa terzina il gaudio a venire dei risorti: «Quali i beati al novissimo bando / surgeran presti ognun di sua caverna, / la revestita voce alleluiando » (XXX, 13-15).
Nel nome del realismo, il secolo XIX, e in particolare Francesco De Sanctis, ha celebrato la cruda materia dell’Inferno, riscattato in amore e dignità dai canti di Paolo e Francesca e di Ulisse. I grandi scrittori del Novecento hanno preferito il Purgatorio, il «dolce color d’orïental zaffiro», così caro a Borges (Sette notti), o il Paradiso dell’esilio dolorosamente rimeditato da Mandel’štam: «Dall’alto di scale inumane / Davanti a palazzi tutti spigoli, / Alighieri poteva cantare / più intensamente la sua Firenze / con la labbra riarse» (Quaderni di Voronej, 1935-1937); o quello tellurico, e cosmico, descritto da Saint-John Perse, il poeta di Anabase e di Exil, nel commentare l’incipit del canto II: «O voi che siete in piccioletta barca, / desiderosi d’ascoltar, seguiti / dietro al mio legno che cantando varca», così chiosando: «Non si era più intesa una voce siffatta dall’antichità latina. Ed ecco che questo canto non è più reminiscenza, ma creazione reale, e come un canto d’alveare che sciama verso l’Ovest, con il suo popolo di Sibille. [...] Poesia, ora dei grandi, cammino d’esilio e d’alleanza, lievito dei popoli forti, e levarsi degli astri presso gli umili» (Per Dante, 1965). Sì, Dante non è più, o solo, «reminiscenza» (anche se andrebbe sempre studiato a memoria), ma è futuro, per il XXI secolo: «È assurdo leggere i canti di Dante senza attrarli verso l’attualità. Essi sono fatti per questo. Sono dei proiettili lanciati per cogliere l’avvenire. Esigono un commento in futurum » (Mandel’štam, Conversazione su Dante).
Le celebrazioni del prossimo anno hanno suscitato un grande fervore: al Comitato nazionale per le Celebrazioni dantesche, istituito dal ministro Dario Franceschini, sono pervenuti oltre 300 progetti, da tutta Italia, dall’Europa, dall’America latina, dagli Stati Uniti; iniziative che toccano tutte le arti, la musica, il teatro d’opera e di parola, i Musei, gli Archivi, le città di Dante, le Accademie, le Università, le scuole.
Dante è veramente, come voleva Ezra Pound, everyman, ciascuno di noi; nello scorcio del XX secolo la voce di Carmelo Bene, di Vittorio Sermonti, di Vittorio Gassman, e soprattutto di Roberto Benigni, ha portato la Commedia sullo schermo televisivo e nelle piazze; Dante è davvero “popolare”: ci si può compiacere, ove questo non significhi recitarlo per via un giorno all’anno e perderne la lettura - lettura integrale del poema - nelle scuole.
In questo senso Dante è specchio fedele del nostro tempo: la maggior parte dei progetti presentati riportano Dante allo spettacolo, alla scena; o a una miriade di convegni a venire, propri dell’opificio accademico. Dante non è tuttavia un poeta della festa, ma dell’esilio, dei destini ultimi dell’umanità: Dante non si compiace mai dell’indugio (tranne un istante con Casella), corre al “fine ultimo”, con ansia e con sete: «[nel poema] le immagini si separano e si danno addio. È duro ascendere le balze dei suoi versi, colmi di addii» (ancora Mandel’štam).
Dante è un poeta in futurum: attenderà, finita questa pandemia, noi, al chiuso ora, guidandoci con la mansueta dolcezza dei suoi versi: «Come le pecorelle escon del chiuso / a una, a due, a tre, e l’altre stanno / timidette atterrando l’occhio e ’l muso; // e ciò che fa la prima, e l’altre fanno, / addossandosi a lei, s’ella s’arresta, / semplici e quete, e lo ’mperché non sanno; // sì vid’io muovere a venir la testa / di quella mandra fortunata allotta, / pudica in faccia e ne l’andare onesta» (Purgatorio, III, 79-87).
È un poema infinito, e che tuttavia si chiude: « A l’alta fantasia qui mancò possa; / ma già volgeva il mio disio e ’l velle, / sì come rota ch’igualmente è mossa, // l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 142-145; il compito del poeta termina; a colui che ha fatto il cammino di Croazia per vedere il volto di Cristo impresso nel velo della Veronica, la Grazia concede che desiderio e volontà infine si appaghino e si riducano a un solo ordine universale, come splendidamente annota il Tommaseo: «Fantasia: La visione delle cose celesti rende inutile la fantasia, che fa luogo al puro intelletto. Volgeva: Dio volgeva con libero equabile tranquillo moto, soddisfatti, il mio desiderio e l’amore».
Si chiude infine la lunga battaglia della tentazione, del contendere del Bene e del Male, in quel velle redento, che era stato avvolto nei vincoli e nelle insidie del Maligno, secondo le Confessioni di Agostino: «Velle meum tenebat inimicus» (VIII, 10).
Il poema va letto nell’asprezza di questo ruvido certame: due cantiche su tre (Inferno e Purgatorio) parlano di pene: eterne o redimibili; il Paradiso terrestre è vuoto; anche nel Paradiso Dante è costantemente interrogato (sulla fede, speranza, carità), rivelato dall’avo il destino d’esilio, lontanando infine nella gloria anche Beatrice. Ma quel velle placato è pur la fine del trionfo del Dies irae: «Dies irae, dies illa, / Solvet seclum in favilla,/ Teste David cum Sybilla», poiché ora la Sibilla e le sue sentenze si sciolgono per sempre: «Così la neve al sol si disigilla; / così al vento ne le foglie levi / si perdea la sentenza di Sibilla» (Paradiso, XXXIII, 64-66).
Solo alcuni grandi scrittori del Novecento hanno inteso questo “petroso” agone del poema; vorrei ricordare su tutti Flannery O’Connor che al culmine del suo Diario di preghiera si affisa su quella soglia, di grazia e di tormento, che è l’ingresso del Purgatorio, descritto da Dante con crudo espressionismo: «Là venimmo: e lo scaglion primaio / bianco marmo era sì pulito e terso, / ch’io mi specchiai in esso qual io paio. // Era il secondo tinto più che perso, / d’una petrina ruvida e arsiccia, / crepata per lo lungo e per lo traverso» (IX, 94-99).
Flannery O’Connor non sceglie il primo gradone, lo specchiarsi di una coscienza lacrimata e detersa; si inginocchia, con Dante, sul secondo, nel triturarsi della contritio smarrita di fronte alla parete, come di sangue, che «sopra s’ammassiccia». Della Commedia soltanto questo la urge, questa carcerazione che scarnifica: «Chiedi / umilmente che ’l serrame scioglia» (ivi, 107-108). Per poi confessare, vera lettrice di Dante e della sua scarna oltranza: «Io vorrei essere una mistica, e anche subito. Nonostante ciò, caro Dio, concedimi un posto, per piccolo che sia, e fa che io lo rispetti. Se fossi quella cui compete di lavare ogni giorno il secondo gradone, fammelo sapere, e fa che io lo lavi con un cuore traboccante d’amore» (Diario di preghiera, nota del 25 settembre [1946]).
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Carlo Ossola presiede il Comitato nazionale per le celebrazioni di Dante, 2021, ed attende (con Luca Fiorentini, Pasquale Porro, Jean-Pierre Ferrini, Stéphanie Vermot) all’edizione bilingue «Pléiade» della Divina Commedia
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LE INIZIATIVE E LA NUOVA EDIZIONE COMMENTATA DEGLI SCRITTI
«Lectura Dantis» a Roma. Per il settimo centenario della morte di Dante (settembre 2021) si stanno progettando iniziative, spettacoli (a Pompei), mostre, convegni (anche online). Prosegue la nuova edizione commentata degli scritti del poeta per l’Editrice Salerno: in autunno uscirà il volume VII/2 con le Opere già attribuite a Dante; in primavera ’21 è previsto il Convivio e l’Inferno per novembre ’21. L’edizione dei Commenti danteschi, sempre da Salerno, vedrà quello alla Commedia di Pietro Alighieri (autunno ’20) e di Bernardino Daniello (primavera ’21). Sul sito casadidanteinro ma.it (in foto, la casa a Roma) ci sono le registrazioni degli incontri avvenuti e i programmi futuri della «Lectura Dantis» romana che, ora fermata dal virus, si svolge la domenica alle 11: mai interrotta dal secondo dopoguerra. Inoltre ricordiamo di Giulio Ferroni, L’Italia di Dante. Viaggio nel paese della Commedia (La nave di Teseo, 2019): è un repertorio con tutti i luoghi del poema.
LA "STORIA" DI IPAZIA, I "DUE SOLI", E L’"ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE" COSTANTINIANA ... *
Ipazia, sedici secoli di bugie
La filosofa di Alessandria d’Egitto fu uccisa nel 415 da un gruppo di fanatici cristiani. E’ passata alla storia come una martire della scienza, versione femminile di Galileo. Ma la sua vicenda nasconde un mistero ancora piu’ inquietante.
di Luisa Muraro ("Giudizio Universale", 11.12.2009)
Ipazia di Alessandria ha un conto aperto con la nostra civilta’ che dobbiamo incominciare a pagare.
Parlo, per chi ancora non conoscesse questo nome, della scienziata e filosofa neoplatonica, maestra nel Museo di Alessandria d’Egitto (non un museo, ma un centro di studi superiori) che, nell’anno 415 dell’era cristiana, venne trucidata da un gruppo organizzato di cristiani fanatici. Il delitto resto’ impunito perche’ l’inviato imperiale non fece il suo dovere.
Da parte di chi ha a cuore la tradizione religiosa cristiana, io mi aspetto un preciso contributo. Posto che le fonti non consentono di attribuire al vescovo di Alessandria, il futuro santo e padre della Chiesa Cirillo, alcuna responsabilita’ diretta nella morte violenta della filosofa, si stabiliscano le innegabili responsabilita’ indirette, nel contesto di una diffusione del cristianesimo che e’ piena di luci e ombre.
Da coloro che hanno a cuore le grandi conquiste della modernita’ (liberta’ di pensiero, pluralismo, liberta’ di ricerca, valore delle scienze sperimentali), mi aspetto che smettano di strumentalizzare la figura della filosofa deformandola in quella di una martire della libera scienza. Le fonti storiche non autorizzano questa rappresentazione che si alimenta da una serie di stereotipi, gia’ confutati, sulla storia delle scienze e la cultura cattolica. Non si faccia di Ipazia un anacronistico pendant femminile di Galileo.
Lei fu indubbiamente una scienziata di prima grandezza e, come Galileo, si dedico’ all’astronomia con avanzate tecniche di osservazione. L’analogia finisce qui. La famosa vicenda del processo di Galileo riguarda il protagonista di una svolta epocale nell’idea di scienza, che non ha nulla a che fare con l’epoca di Ipazia, il cui tempo fu agitato da una somma di problemi che non riguardavano la concezione della scienza, se non molto indirettamente.
Detto in breve, Galileo e’ il campione e il martire del nuovo che avanza. Ipazia e’ l’esponente di una tradizione secolare (millenaria, se contiamo l’Egitto) e venne schiacciata dal nuovo avanzante, il cristianesimo, che fu anche rivoluzione sociale, non dimentichiamo.
Il mio contributo al pagamento del debito che abbiamo verso Ipazia, consistera’ nell’esporre, in forma di racconto basato sulle fonti storiche, le circostanze che portarono alla sua uccisione.
Di Ipazia non abbiamo una data di nascita, possiamo immaginare che fu intorno al 370. Trascorse la sua vita ad Alessandria; non risulta che abbia fatto viaggi fuori dalla sua citta’. Le fonti la ricordano come figlia di Teone, scienziato del Museo; di lui fu allieva, collaboratrice e, in un certo senso, successora. Le fonti dicono che lei lo supero’. Della sua opera non si e’ conservato quasi nulla.
Intorno al 375 nacque ad Alessandria anche Cirillo, che crebbe all’ombra dello zio Teofilo cui succedette sul seggio episcopale nel 412. Come lo zio, era un uomo di grande decisione, al limite della spregiudicatezza.
Per favorire la Chiesa, Cirillo cerco’ l’alleanza del prefetto imperiale Oreste, un battezzato anche lui ma poco propenso a schierarsi con i cristiani.
Scoppiarono incidenti, uno gravissimo nel 415: un gruppo di monaci venuti dal deserto (i cosiddetti parabolani) per servire il vescovo, a che titolo non sappiamo, assaltarono il carro del prefetto e riuscirono a ferirlo con una sassata. Il loro capo fu catturato e duramente punito, Cirillo voleva farne un martire ma i cittadini si opposero, compresi alcuni cristiani. Siamo alla vigilia dell’uccisione di Ipazia.
Bisogna sapere che Oreste era un ammiratore della filosofa e aveva preso l’abitudine di consultarla sui problemi della citta’. All’epoca Alessandria era una citta’ multietnica, abitata da elleni, egizi, ebrei, costellata da vari edifici religiosi: sinagoghe, templi alle divinita’ greche ed egizie, chiese cristiane. Il gruppo dominante e’ costituito dagli elleni (gli abitanti di origine greca), molti dei quali stavano passando al cristianesimo, che era diventato la religione dell’imperatore.
Ipazia, che apparteneva a questo gruppo sociale, non era cristiana. Fra i suoi allievi aveva tuttavia dei cristiani, come Sinesio, il futuro vescovo di Cirene, che la chiamava "madre" e "patrona", e su di lei ha lasciato una preziosa testimonianza scritta.
Le fonti raccontano che un giorno il vescovo Cirillo si trovo’ a passare nei pressi della casa di Ipazia e noto’ un assembramento di carri, lettighe e guardie.
Il vescovo, possiamo immaginare, senti’ una fitta penosa nell’anima. Per certo il nome di quella donna, famosa in citta’, non gli era nuovo. Nuovo fu per lui scoprire che il prefetto si degnasse di farle visita, dopo che aveva rifiutato l’offerta fatta da lui, Cirillo, che era un uomo e un vescovo.
Le fonti ci autorizzano a immaginare anche il pensiero che segui’ a quel penoso, ma cosi’ umano! sentimento: "Ad Alessandria le cose andrebbero meglio se io e il prefetto fossimo amici. Io e il prefetto non siamo amici per colpa di Ipazia che si e’ messa di mezzo e ha attirato Oreste nella sua orbita".
Questo e’ l’antefatto. Il fatto e’ che un giorno del marzo 415 un gruppo di parabolani, guidati da un tale di nome Pietro il lettore, sequestro’ Ipazia, la porto’ in una chiesa e qui, al chiuso, la trucidarono usando strumenti taglienti che non erano coltelli, forse pezzi di vetro o di conchiglia. Poi ne portarono i resti in una localita’, il Cinarone, forse assegnata alla eliminazione di materie di scarto con il fuoco, e qui li bruciarono.
Da questo insieme di fatti risulta che Ipazia, se siamo alla ricerca di un titolo da dare alla sua morte, fu principalmente una martire politica.
Colpita per colpire il prefetto imperiale, e’ la prima supposizione, Ma, se allarghiamo lo scenario storico, le circostanze suggeriscono piuttosto che lei fu eliminata perche’ disturbava, con la sua indipendenza, l’antagonismo fra due poteri, quello imperiale e quello ecclesiastico, che erano anche due uomini, Oreste e Cirillo, e impediva cosi’ che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza.
A cio’ si aggiunga un senso di rivalita’ del capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, aveva l’autorita’ di una sacerdotessa.
La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorita’ della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sicuramente contarono anche altre circostanze, fra cui il conflitto tra la cultura del mondo antico declinante e la nuova religione cristiana, purche’ abbiamo chiaro che il conflitto non si configurava come un antagonismo e che la vittoria del cristianesimo era ormai evidente. Conto’ il fatto che non di un filosofo si trattasse, ma di una filosofa? La domanda va riformulata, considerato che non esistono culture in cui la differenza sessuale sia indifferente. Quanto conto’, nella vicenda di Ipazia? E abbiamo noi modo di stabilirlo? Senza addentrarci, consideriamo che la nascente religione cristiana, a differenza di quella grecoromana e di quella egizia, non rendeva pensabile e accettabile una donna con le prerogative di Ipazia, libera di se’, non subordinata a partiti o fazioni, presente e parlante in luoghi pubblici, sapiente, maestra dotata di una parola autorevole per donne e uomini.
Questa considerazione ci porta ai nostri tempi per costatare che il tipo umano femminile incarnato da una Ipazia non ha corso nella nostra cultura, forse perche’ essa deriva dalla versione cristiana del patriarcato. Il che ci fa capire il perche’ di certi stereotipi laici o laicisti: questi stereotipi resistono e si ripresentano per non poter ammettere che quello che faceva veramente problema ai cristiani di Alessandria, continua a fare problema anche ai nostri giorni, e non solo ai "cristiani"! Voglio dire che gli stereotipi anticlericali con cui si accosta la figura e la vicenda di Ipazia (Chiesa nemica della scienza, della ragione, delle donne) sono fatti per coprire una certa coda di paglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA" !!! IL MAGGIORASCATO : L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, -L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
“VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Il pARTicolare.
Raffaello e la Madonna del Divino Amore
di Federica Maria Marrella [2018]*
Ci fu un saggio. Una volta.
Un saggio scritto che lessi con una voracità a me inconsueta, poiché la lentezza in realtà mi caratterizza, generalmente.
Eppure, quel saggio raccontava una storia bellissima. La storia di un dipinto simbolo e ritmo di perfezione.
Tondo in cui il tutto ha bisogno del singolo elemento, di ogni singolo particolare.
Verrà esposto a Torino nella Pinacoteca Agnelli, dal 17 marzo al 28 giugno, un dipinto di Raffaello Sanzio generalmente custodito a Napoli, nel museo di Capodimonte. L’opera è La Madonna del Divino Amore, realizzata nel periodo romano dell’artista, precisamente nel 1516 - 1518. Anni in cui la volta della cappella Sistina di Michelangelo Buonarroti era stata già compiuta. Anni in cui lo stile stesso di Raffaello si modifica, si espande nelle forme, nei tondi e negli angoli, come quella punta di ginocchio che tiene seduto il bambin Gesù.
Ma osserviamo l’opera.
Raffaello ritrae Maria, la madre Anna, Gesù e San Giovannino. Questo è il gruppo centrale, sapientemente ritratto e scolpito, poiché i corpi paion scolpiti, disegnati di sguardi, presentimenti, dettagli e silenziosi discorsi.
Maria e Anna, i capi leggermente appoggiati, sembrano sostenersi nell’osservare il miracolo di fronte a loro. Un sostegno muto e abbondante di sentimento. Lo stesso dialogo silenzioso e di sguardi realizzato nel cartone di Leonardo (Il Cartone di Sant’Anna, Louvre, Parigi). Quel cartone famoso, creato anche esso molti anni prima, nel 1499-1500, cartone in cui sant’Anna guarda, però, la figlia. E la figlia guarda il Cristo. E san Giovannino guarda anche egli il Cristo. E anche qui i corpi sono possenti. Entrambi gli artisti erano rimasti colpiti e, forse consciamente, forse inconsciamente ispirati dai corpi del Buonarroti. Quei corpi di scultura che si realizzano anche in pittura, nel disegno, nello studio della forma umana.
Le Conversazioni sono sempre materia molto complessa. Eppure la massa scultorea del cartone di Leonardo, i sentimenti umani concretizzati anche con la matita in uno sfumato misterioso, il movimento creato nella roccia umana, quel peso presente e concreto, tipico dell’umanesimo leonardesco che vedeva nell’uomo e nel suo corpo il più grande mistero di ogni tempo, ecco tutto questo in Raffaello sparisce. Questa possanza fisica, che si nota osservando ogni soggetto singolarmente, nel dialogo degli sguardi prende leggerezza, eleganza. Quella perfezione di cui parla Ernst H. Gombrich raccontando La madonna della seggiola (1514), altra opera di Raffaello. Quella perfezione e leggerezza che ha bisogno del tutto per esistere.
Eppure, il tutto nel dipinto di Raffaello, non si ferma al primo piano, al dialogo silenzioso ma serrato tra madre e figlia e tra i piccoli protagonisti. Il dialogo di fronte al mistero, pretende anche la solitudine del silenzio. Il distacco. La paura. Il disagio. madonna-del-divino-amore-dopo-il-restauro-img_5938
Queste parole sembrano così lontane dalla creazione di Raffaello Sanzio, il pittore che diede vita alla perfezione della natura, alla leggerezza, al tratto perfetto. All’armonia. Il pittore che, secondo le parole di Pietro Bembo, diede vita alla natura stessa. Raffaello invece, in questo dipinto, ritrae il dolore, la perplessità, la paura del mistero e dell’incomprensibile. Ritrae la pretesa e la ricerca di solitudine.
Eccolo, il pARTicolare.
Sullo sfondo, Giuseppe. San Giuseppe, perché ha già l’aureola. È già santo, anche nel suo tormento. Con le braccia conserte, ci sembra di vederlo che cammina avanti e indietro, su quel corridoio nascosto dalla luce perfetta che inonda il soggetto in primo piano. San Giuseppe, con la sua aureola, le sue braccia conserte, la sua mano tesa ad accartocciarsi il mantello, la sua testa confusa e i suoi pensieri legittimi, cammina, avanti e indietro. Crea un solco, su quel pavimento grigio.
Lo potremmo togliere, San Giuseppe, come ha giocato Gombrich sul dipinto de La Madonna con la seggiola. Il grande storico dell’arte aveva provato con la mano a coprire un elemento del dipinto e si è accorto che tutto il resto crollava.
La perfezione geometrica e l’armonia aveva bisogno del tutto.
E anche qui, senza san Giuseppe, questa conversazione crollerebbe.
Perché di fronte al miracolo, è concessa, anzi non solo concessa, è richiesta la paura. È da vivere il dubbio. Il dubbio che solca i pavimenti.
Che si stringe nel petto.
E che ci rende santi.
E quella distanza diventa unione nei colori. Il manto di Maria, azzurro, si unisce a quel cielo terso, in cui spicca il volto barbuto di San Giuseppe. Ogni elemento si unisce. Nel dialogo silenzioso, e dove non è possibile, nella Natura.
Federica Maria Marrella
* ArtSpeciallyDay, sabato 8 dicembre 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AUGUSTO, LA SIBILLA TIBURTINA, E LA "MADONNA DI FOLIGNO" DI RAFFAELLO.
FLS
L’anima e la cetra /2.
La mano che abbassa il ponte
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 4 aprile 2020)
«Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano?». Con questa domanda inizia il Salmo 2. Una domanda tremenda che i profeti e i sapienti ripetono da millenni: perché nonostante la vocazione alla pace e al benessere iscritta nel cuore di ogni persona e delle comunità, gli uomini continuano a esercitarsi nell’arte della guerra, a seminare e coltivare discordia e inimicizia? Le civiltà restano vive finché non si stancano di ripetere questa domanda.
Siamo trasportati dal salmo dentro un ambiente di ribellione, in una congiura di popoli nei confronti di un re - «Spezziamo le catene, gettiamo via da noi il giogo» (2,2). Questo re non è un sovrano qualunque: «E i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo unto» (2). Il protagonista del salmo è il Messia, l’unto di YHWH, mistero e anelito di tutta la Bibbia. Il salmo dice che i popoli cospirano «invano», e che di queste congiure «ride Colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro» (4). È molto probabile che il Salmo 2 sia stato scritto dopo l’Esilio, quando la monarchia in Israele non c’era più e il popolo aveva sperimentato la distruzione, la sconfitta, la deportazione. Aveva sentito sulla propria pelle la forza tremenda delle trame di potere e di conquista dei popoli, e lì aveva capito che la verità del loro Dio non coincideva con la vittoria sui nemici. L’esilio fu infatti il grande tempo in cui gli ebrei impararono che un Dio sconfitto può restare un Dio vero.
Perché allora quell’«invano»? Nonostante l’esperienza della sconfitta e della violenza che prevale sulla pace, la Bibbia qui e altrove annuncia l’avvento di un Messia, e quindi di un tempo nuovo finalmente diverso, giusto e buono. Più la realtà si allontana dal tempo messianico, più occorre annunciarlo. Credere e affermare una verità quando la storia e il presente dicono tutt’altro: è questo il vero ruolo della grande spiritualità, che è sempre incarnata, che parla della nostra vita soprattutto nei tempi nei quali l’evidenza dice l’opposto delle sue parole. È negli esili che si fanno i sogni più grandi.
L’attesa del Messia è un’anima profonda dell’intera Bibbia. La troviamo nei profeti, nei libri storici, e ora nei salmi. È una forma concreta che assume in essa la speranza. Questa attesa ha tenuto vivo il futuro e lo ha custodito come giudizio sul presente e come possibilità di liberazione.
Se si perde la dimensione messianica della storia, la vita individuale e sociale accorcia il suo orizzonte, si schiaccia tutta sul presente, si spegne la gioia e si abbuia la libertà. Ci riempiamo di piccole attese perché abbiamo ucciso quella più grande. Il capitalismo ha racchiuso il Messia nella merce (come aveva capito Marx), e così lo ha cancellato. Il messianesimo biblico è l’anno giubilare della storia, quel tempo diverso che diventa criterio morale per giudicare le prassi di tutti gli altri tempi. Il Messia resta tale finché non è ancora venuto. È il sovrano del non-ancora, il suo tempo è l’ideale che misura il tempo reale, un ideale che è profezia della storia. C’è un rapporto profondo tra profezia e messianesimo: entrambi sono dentro e fuori la storia, reale e ideale, già e non ancora. E quando si perde questa tensione vitale e paradossale, il messianesimo si identifica in questo o in quel leader politico e la profezia diventa profezia di corte - sta anche qui il senso di quell’anima critica nei confronti della monarchia che è ben presente e operante nei libri storici della Bibbia.
Per usare le parole di Jacob Taubes, il messianesimo biblico ci ricorda che «il ponte levatoio si trova sull’altra sponda ed è dall’altra sponda che devono comunicarci che siamo liberi». Ci dice quindi che se esiste una dimensione fondamentale della libertà che è auto-liberazione, in altre sue dimensioni decisive la libertà è invece liberazione per mano di qualcuno che abbassa per noi il ponte levatoio. La Bibbia ha custodito nei secoli questa dimensione della libertà come liberazione, l’ha scritta come suo primo comandamento, e così ci ha protetti dall’auto-inganno frequentissimo di immaginare libertà senza avvertire più il bisogno di una voce diversa dalla nostra che ci chiama e ci salva. Sta qui uno dei sensi di quella che chiamiamo salvezza. Grazie a questa attesa tenace del Messia, nella Bibbia il futuro non diventò «un tempo omogeneo e vuoto: perché ogni secondo era la porta da cui poteva passare il Messia» (Walter Benjamin).
Un errore grave e frequente dei cristiani è allora pensare che l’attesa del Messia sia finita con la venuta di Cristo, dimenticando che egli deve venire ogni giorno e deve ritornare. La liturgia è il grande luogo dove ciò che è stato si incontra con ciò che è e che sarà: in ogni Sabato Santo preghiamo che il sepolcro torni ancora vuoto e ogni resurrezione accade oggi. Nella Bibbia ricordare è verbo al futuro.
Molto noto e forte è il versetto 7 del Salmo: «Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: "Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato"». Una frase splendida, molto amata anche nel Nuovo Testamento e nel cristianesimo, dove la categoria di "Figlio di Dio" è divenuta un pilastro teologico. In questo salmo (e altrove nella Bibbia ebraica) scopriamo, tra l’altro, che chiamare Dio con l’appellativo di Padre e concepire la condizione umana come figliolanza non è una invenzione del cristianesimo ma eredità biblica.
Ma è quell’oggi che ci conquista - «oggi ti ho generato». Qui non c’è solo, forse, un’antica traccia di un canto composto per la consacrazione di un nuovo re in Israele; in questo "oggi" ci possiamo leggere anche qualcosa di diverso e di più. C’è il paradigma di ogni vocazione spirituale, che è una figliolanza che si manifesta dentro un primo oggi che si ripete in tutti gli oggi dell’esistenza, perché una vocazione è viva solo nel presente, e in questo presente continuo si incontra l’eternità.
Ogni paternità e ogni maternità umana è poi una generazione declinata al presente. È ripetere per tutta la vita: «Oggi ti ho generato» - «Ma ora che sei morta, o madre, io so le volte che mi hai generato. In silenzio, non vista d’alcuno» (David Maria Turoldo). Ogni generazione è ri-generazione, e ciò che è vivo se non si rigenera degenera. La paternità-maternità ci dice, simbolicamente (quindi realmente), che siamo vivi e capaci di generare perché oggi siamo rigenerati. Il giorno che tutti smetteranno di generarci inizieremo a morire. Per la Bibbia il principio, l’origine di questa generazione-rigenerazione sempre attuale è Dio, che quindi diventa il garante di quella mutua generazione che scandisce il ritmo della vita. Fino alla fine, quando nell’ultimo oggi ci sorprenderemo di vedere scendere il ponte levatoio e passeremo, indenni, sopra i coccodrilli.
Dopo aver udito pronunciare la promessa del Messia-figlio, eccoci precipitati in un altro paesaggio ampio e profondo: «Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in possesso i confini della terra» (8). Questo «chiedimi» ricorda l’invito rivolto da Dio a Salomone nell’oggi della sua chiamata: «Chiedimi ciò che vuoi» (1 Re 3,4). Salomone chiese la cosa più bella («Un cuore che sa ascoltare»: 9). Non sappiamo invece cosa chiese quel re dell’antico salmo; sappiamo però la promessa ivi contenuta, che se è diventata salmo allora, è promessa universale: le genti e la terra sono anche nostra eredità e nostro possesso. Sono l’eredità e il possesso di chi prega i salmi, che oggi, mentre li canta si deve riscoprire erede di tutte le genti e possessore dell’intera terra. Nell’umanesimo biblico, però, tutta la terra è di YHWH, e gli uomini sono soltanto utilizzatori e amministratori (economi). E dunque ogni proprietà è seconda e ogni possesso è imperfetto. La promessa è vera perché è imperfetta, o perché la completezza sta nella sua incompletezza.
Ogni figlio è erede, e quindi i figli di Dio sono eredi di tutto il cielo e di tutta la terra. Lo abbiamo intuito, e ci siamo sentiti eredi. Ma ci siamo dimenticati dell’incompiutezza, siamo diventati padroni della terra, l’abbiamo profanata, siamo diventati, molte volte, mercenari.
Dentro la stessa tradizione e promessa, un giorno Gesù di Nazareth ci disse qualcos’altro di nuovo e di importante su questa speciale eredità: «Beati i miti, perché erediteranno la terra». La mitezza è anche il riconoscimento dell’incompiutezza e della provvisorietà dell’esistenza e dei nostri possessi. Il mite abita il mondo senza diventarne predatore, possiede senza concupiscenza, usa i beni con castità. Il mite è custode della terra e del fratello. È l’anti-Caino. Solo una custodia mite può amministrare l’eredità della terra e far sì che i figli siano eredi di un patrimonio non sperperato.
La mitezza è virtù delle mani - mansueto, cioè "abituato alla mano", docile alla mano del pastore, come sa fare l’agnello. La custodia mite non è stata quella della nostra generazione. Ma oggi ci siamo improvvisamente ritrovati dentro una inondazione di mitezza, in un oceano di mansuetudine. Questo tempo tremendo sta diventando il tempo dei miti. Quello di chi sa restare a casa, di chi sa stare, docile, sotto le mani di medici e infermieri. Stiamo vedendo molte mani abbassare ponti su sponde che prima sembravano irraggiungibili.
«E ora siate saggi, o sovrani; lasciatevi correggere, o giudici della terra; servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore» (Salmo 2,10-12). Le ultime parole del salmo ci donano una nuova beatitudine per questo tempo: «Beato chi in lui si rifugia».
Coronavirus.
La Chiesa: il 19 marzo alle 21 preghiamo tutti insieme per l’Italia
Famiglie, fedeli, comunità religiosa sono invitati a recitare in casa il Rosario, uniti alla stessa ora nella festa di San Giuseppe. Al via anche un sito web con le indicazioni di diocesi e parrocchie
di Francesco Ognibene (Avvenire, giovedì 12 marzo 2020)
La preghiera sarà condivisa in diretta su Tv2000. La Cei ricorda anche il testo della celebre invocazione di Leone XIII, per la preghiera personale:
Consapevole delle necessità di accompagnamento spirituale di tanta gente “in questo tempo di prova e di difficoltà per tutti”, la “Chiesa che è in Italia” accompagna l’invito per il 19 marzo con uno strumento digitale di facile consultazione con il quale “vuole dare segni di speranza e di costruzione del futuro. A partire dal presente”.
È dunque da oggi on line https://chiciseparera.chiesacattolica.it, “ambiente digitale che raccoglie e rilancia le buone prassi messe in atto dalle nostre diocesi - fa sapere l’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali in una nota -, offre contributi di riflessione e approfondimento, condivide notizie e materiale pastorale”.
Si tratta di “un’iniziativa, promossa dalla Segreteria Generale della Cei, per testimoniare ancora e sempre l’impegno della Chiesa che vive in Italia nel continuare a tessere i fili delle nostre comunità. La convinzione che ci guida è che le criticità, lo smarrimento, la paura non possano spezzare il filo della fede, ma annodarlo ancora di più in speranza e carità”.
Con Chiciseparera.chiesacattolica.it la Chiesa italiana mette a disposizione “un punto di riferimento per riscoprire un senso di appartenenza più profondo. Il nome stesso “Chi ci separerà?” (Rm 8,35) indica un percorso impegnativo: la certezza che, pur circondati da una minaccia, niente potrà mai separarci da quell’Amore che ci unisce, perché figli e fratelli, e ci rende comunità. In questo senso bisogna osare, mettersi in cammino e non fermarsi”. “Il sito appena pubblicato - conclude la
Cei - intende guardare oltre il tempo presente. E quell’oltre non può che essere anche la qualità di una comunicazione pensata e che faccia pensare. È l’orizzonte a cui tendere”.
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO : “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola RacKete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
L’AMORE ("CHARITAS") NON E’ LO ZIMBELLO NE’ DEL TEMPO NE’ DELLA FILOLOGIA. IL SONNAMBULISMO DI HANNAH ARENDT E MARTIN HEIDEGGER (e dell’intera storiografia filosofica, teologica, e filologica):
Martin Heidegger e Hannah Arendt: la storia della fedeltà all’amore
A cura di bea *
Negli anni in cui Martin Heidegger andava elaborando "Essere e tempo" (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni, ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda. Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nel paragrafo 29 di “Essere e tempo”, l’opera più famosa di Martin Heidegger, troviamo due citazioni: la prima è di Pascal
La seconda, più incisiva, è di Agostino di Ippona
Anche se non sono citazioni dell’autore, queste prove bastano ad annullare quanto sostenne K. Jaspers, ovvero che la filosofia di Heidegger fosse “senza amore”.
Se da un lato possiamo capire la sua posizione, in quanto nell’opera i temi principali ruotano attorno all’essere, il Dasein, il tempo e la morte, dall’altra è fondamentale chiedersi il perchè di quelle due citazioni.
La spiegazione la troviamo nella vita reale del filosofo. Negli anni in cui andava elaborando Essere e tempo (1927) ebbe un’intensa avventura amorosa con una sua studentessa: Hannah Arendt aveva solo diciotto anni ed era una giovane donna di un’ intelligenza vivace e profonda.
Diventò a poco a poco una vera musa ispiratrice per il pensatore tedesco: tra i due, già dal 1925, ci furono intensi scambi epistolari, grazie ai quali è possibile non solo ricostruire il loro silenzioso amore, ma anche riflessioni più intime su temi profondi, quali il rapporto “verità-amore” e “fedeltà”.
Nelle ultime lezioni che Heidegger tenne a Marburgo nel semestre estivo del 1928 si fa riferimento alle due citazioni: egli riprende delle riflessioni che aveva scambiato con Max Scheler, per il quale amore e odio fondano la conoscenza, e sulla scia di una frase dell’Ordo Amoris “L’uomo, prima di essere un ente pensante o volente è un ente amante”, costruisce il motore immobile e invisibile che dà vita al suo Dasein, l’essere-nel-mondo.
Se Heidegger si appella ad Agostino e a Scheler, significa che l’amore è per lui un modo di apertura più originario di ogni conoscenza.
In riposta alla teoria delle passioni, la Arendt scrive nel 1953
Essere-nell’amore significa fare in primis esperienza dell’esistenza più “propria” e poi scoprire, in due, che l’essere nell’esistenza significa anche volere l’esistenza dell’altro. Amo, come dice Agostino, significa volo ut sis, ti amo, voglio che tu sia ciò che sei.
scriveva Heidegger alla sua studentessa.
Amare è anche lasciare libero l’altro, amare è cogliere il “tu” pur lasciandolo essere, senza cercare di possederlo: “... lasciar essere l’essere”
scrive il filosofo circa il concetto di libertà ne Lettere sull’umanismo.
Secondo la Arendt l’amore non consiste propriamente solo nei sentimenti verso l’ altro, ma prende una forma propria, che chiede qualcosa a entrambi gli amanti.
Se è fuori da ogni dubbio che Heidegger la amò, spingendola ad essere libera, resta tuttavia il fatto che rifiutò ostinatamente di cambiare per lei il corso della propria vita: non avrebbe mai lasciato il suo “punto fisso”, Elfride.
La concretizzazione del loro amore non avvenne mai. Avevano sì un mondo loro, ma era pur sempre circoscritto a qualche momento fuggitivo.
Hannah decise di chiudere la clandestina relazione, e lui, nonostante l’avesse ritenuta da sempre “molto più di una stella cadente”, non la trattenne, conservando però la speranza di riconquistarla.
In realtà tra i due ci fu sempre un collegamento, una sintonia che si riflette nelle numerose lettere che i due si spedirono anche dopo il primo matrimonio -poi fallito- della Arendt con G.Stern. Qualcosa cambiò nel 1933, quando Heidegger aderì al partito nazionalsocialista.
Nel frattempo la giovane Hannah si era trasferita a Parigi, dove sposò “il suo grande amore”, il filosofo tedesco H.Blucher, con il quale si imbarcò per gli Stati Uniti, lasciandosi alle spalle i ricordi del tormentato amore con quella “volpe” di Heidegger. Come un vero Don Giovanni, egli passa di donna in donna alla ricerca della Donna, vale a dire una “verità della Donna”, rifacendosi alle teorie filosofiche di Proust e Sartre:
Alla ricerca di questa verità, passa da graziose dottorande a giovani signore eleganti. Inoltre, si può notare che il suo Amore non si mostra affatto platonico, anzi l’amore si manifesta principalmente nell’effervescenza sessuale.
Non è dunque un caso che dedichi un libro su Platone alla sua “moglie-rifugio” Elfride, né che mandi alla Arendt alcuni versi dell’Antigone di Sofocle in cui il coro evoca il dio Eros.
Il 1950 è un anno di crisi per Hannah: se da una parte il secondo matrimonio sembra crollare a causa di un tradimento da parte del marito, dall’altra è un momento di riflessione feconda su un tema molto delicato, la fedeltà. Tra i due non c’erano più segreti, Blucher era al corrente delle lettere che mandava ancora al suo professore-amante, e addirittura la incoraggiava a riallacciare i rapporti.
Ma è nel suo Diario intellettuale che la filosofa trae le conclusioni dei vari episodi della sua vita.
Rispondere all’infedeltà - come è abitualmente intesa - con la gelosia equivale quindi a una perversione della fedeltà. L’infedeltà più grave e terribile che possa esistere, il peccato più grande è per la Arendt l’oblio, poiché spegne la Verità, la verità che è stata.
È per questo motivo che, pur con tutto l’orrore provato per l’adesione di Heidegger al partito nazista, decise di restare sempre in contatto, mentale e non, con lui. Un’affinità elettiva non priva di tormenti e sofferenze, incomprensioni e oscurità.
Più che di perdono, bisognerebbe parlare di una volontà di non rinnegare ciò che era stato “l’evento dell’amore”.
* A cura di bea - 30 Luglio 2014
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
DANTE 2021: DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica.
Federico La Sala
PER I 700 ANNI DALLA MORTE DI DANTE.... *
Dante, l’appello di Franceschini alle imprese
"Poste finanzia, altri li seguano". La Rai rilanci all’estero
(ANSA) - ROMA, 10 GEN - "Grazie a Poste Italiane, che hanno offerto il loro sostegno per le celebrazioni, nel 2021, dei 700 anni dalla morte di Dante", ma "vorrei che quello di Poste fosse un esempio per le altre imprese italiane che non si possono sottrarre a fare qualcosa per Dante". Il ministro di Cultura e Turismo Dario Franceschini presenta a Roma, insieme con il presidente del Comitato per i 700 anni dalla morte di Dante, Carlo Ossola e con la presidente Maria Bianca Farina e l’ad Matteo Del Fante di Poste Italiane un progetto di valorizzazione che coinvolgerà decine di comuni italiani (70 al momento ma potrebbero diventare di più) e approfitta per lanciare un appello al mondo delle imprese: "Dante è di tutti - dice - tutte le nostre imprese quando vanno all’estero hanno dietro il supporto dell’Italia e Dante per noi italiani è identitario.
Tutti dovrebbero fare qualcosa". E aggiunge: "Vorrei vedere Dante sui treni, sui voli Alitalia, dappertutto". Non solo: "Vorrei che la Rai , so che ci sono ragionamenti aperti in questo senso, producesse cose da far circolare non solo in Italia ma nel mondo". Un appello, quello del ministro Pd, rivolto in ultima analisi al Paese a tutto tondo: "Dante è di tutti, è identitario, coinvolge, è stato anche uno dei primi ad aver parlato di Europa. - sottolinea il capo delegazione Pd al governo - Celebrare i 700 anni dalla sua morte è lavorare per l’unità e il nostro Paese ha molto bisogno di unità. E’ anche orgoglio e il Paese ha bisogno di orgoglio". (ANSA).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE ("charitas"). Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia"
Federico La Sala
L’udienza. Il Papa: il presepe è Vangelo domestico
Francesco all’udienza generale: porta il Vangelo nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri, nelle piazze
di Redazione Internet (Avvenire, mercoledì 18 dicembre 2019)
«Fare il presepe è celebrare la vicinanza di Dio. Dio sempre è stato vicino al suo popolo, ma quando si è incarnato, è nato, è stato troppo vicino, molto vicino, vicinissimo: è riscoprire che Dio è reale, concreto, vivo e palpitante». Lo ha detto il Papa, che nella catechesi dell’udienza di oggi, sulla scorta della sua recente lettera apostolica e a una settimana dal Natale, ha ribadito che «il presepe infatti è come un Vangelo vivo»: «Porta il Vangelo nei posti dove si vive: nelle case, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e di ritrovo, negli ospedali e nelle case di cura, nelle carceri e nelle piazze. E lì dove viviamo ci ricorda una cosa essenziale: che Dio non è rimasto invisibile in cielo, ma è venuto sulla Terra, si è fatto uomo, un bambino».
«Dio non è un signore lontano o un giudice distaccato, ma è amore umile, disceso fino a noi», ha fatto notare il Papa: «Il Bambino nel presepe ci trasmette la sua tenerezza. Alcune statuine raffigurano il Bambinello con le braccia aperte, per dirci che Dio è venuto ad abbracciare la nostra umanità. Allora è bello stare davanti al presepe e lì confidare al Signore la vita, parlargli delle persone e delle situazioni che abbiamo a cuore, fare con lui il bilancio dell’anno che sta finendo, condividere le attese e le preoccupazioni».
Preparasi al Natale facendo il presepe
«In questi giorni, mentre si corre a fare i preparativi per la festa, possiamo chiederci: "Come mi sto preparando alla nascita del Festeggiato?"», ha esordito il Papa. «Un modo semplice ma efficace di prepararsi è fare il presepe. Anch’io quest’anno ho seguito questa via: sono andato a Greccio, dove san Francesco fece il primo presepe, con la gente del posto. E ho scritto una lettera per ricordare il significato di questa tradizione. Cosa significa il presepe nel tempo di Natale».
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Facendo il presepe «possiamo anche invitare la Sacra Famiglia a casa nostra, dove ci sono gioie e preoccupazioni, dove ogni giorno ci svegliamo, prendiamo cibo e siamo vicini alle persone più care» ha detto il Papa. «Accanto a Gesù vediamo la Madonna e san Giuseppe», l’immagine evocata da Francesco: «Possiamo immaginare i pensieri e i sentimenti che avevano mentre il Bambino nasceva nella povertà: gioia, ma anche sgomento».
«La parola presepe letteralmente significa mangiatoia, mentre la città del presepe, Betlemme, significa casa del pane», ha ricordato il Papa: «Mangiatoia e casa del pane: il presepe che facciamo a casa, dove condividiamo cibo e affetti, ci ricorda che Gesù è il nutrimento essenziale, il pane della vita. È Lui che alimenta il nostro amore, è Lui che dona alle nostre famiglie la forza di andare avanti e di perdonarci».
Il presepe del "lasciamo riposare mamma"
«Il presepe è attuale, è l’attualità di ogni famiglia» ha aggiunto Francesco "a bracci". «Ieri mi hanno regalato un’immaginetta di un presepe speciale, piccolina - ha raccontato - e si chiamava"lasciamo riposare mamma". E c’era la Madonna addormentata e Giuseppe col bambinello lì, facendolo addormentare. Quanti di voi dovete dividere la notte tra marito e moglie per il bambino o la bambina che piange, piange, piange! Lasciate riposare mamma: la tenerezza di una famiglia, del matrimonio».
Francesco ha sottolineato infine che «il presepe ci ricorda che Gesù viene nella nostra vita concreta». «E questo è importante - ha aggiunto -: fare un piccolo presepe a casa,sempre, perché è il ricordo che Dio è venuto da noi, nato da noi, ci accompagna nella vita, è uomo come noi, si è fatto uomo come noi. Nella vita di tutti i giorni non siamo più soli. Egli abita con noi. Non cambia magicamente le cose ma, se lo accogliamo, ogni cosa può cambiare».
«Vi auguro allora - ha concluso il Papa - che fare il presepe sia l’occasione per invitare Gesù nella vita. Quando noi facciamo il presepe a casa è come aprire la porta e dire "Entra Gesù". È fare concreta questa vicinanza, questo invito a Gesù perché venga nella nostra vita. Perché se lui abita la nostra vita, essa rinasce. E se la vita rinasce è davvero Natale. Buon Natale a tutti».
«Grazie per gli auguri» ricevuti nei giorni scorsi
Al termine dell’udienza Francesco ha ringraziato «quanti in questi giorni, da tante parti del mondo, mi hanno inviato messaggi augurali per il 50/o di sacerdozio e per il compleanno. Grazie soprattutto per il dono della preghiera».
IL MITO DELLE ORIGINI FAVOLOSE E IL PECCATO ORIGINALE... *
Arte e sacro. Che cosa c’era sul leggio di Maria?
Nelle raffigurazioni dell’Annunciazione il libro su cui legge Maria compare tardi, dal IX secolo. Il filologo Michele Feo va a caccia delle tante ipotesi sul contenuto del volume
di Rosita Copioli (Avvenire, sabato 19 ottobre 2019)
La storia della Madonna è un meraviglioso romanzo per immagini. Più misteriosa tra tutte l’Annunciazione perché è il mistero stesso di Maria. Ma anche la più rivoluzionaria nella storia dell’umanità, perché fonda il mondo dopo Adamo: il mondo da Gesù Cristo, origine del nostro tempo. E poi perché racchiude tutto il turbamento, anzi lo sconvolgimento, e insieme la concentrata tenerezza della Vergine prima che concepisca e nel suo stesso istante: l’anticipazione dell’aurora, prima che irrompa il giorno in lei, in ognuno di noi.
Le scarne parole di Luca e Matteo non sono prive di immagini potenti, anzi assolute: per Alberto Magno l’ombra non è l’oscurità - che non viene dalla somma luce - ma l’immagine specchiata dell’onnipotenza; tuttavia solo i Vangeli apocrifi ci mostrano le scene, gli oggetti, i simboli, che i pittori prediligono. In essi Maria è alla fonte, al pozzo con la brocca, poi in casa, intenta a filare scarlatto e porpora (colori della regalità) accanto a un vaso dove fiorisce il giglio di Gesù; più tardi ha con sé un libro aperto e talora lo legge.
Sono queste le raffigurazioni che si susseguono dovunque nei secoli, in molteplici varianti. Soprattutto impone infinite riflessioni la presenza del libro, che compare tardi, dal IX secolo, su un cofanetto d’avorio francese dall’aria regale. Perché quella ragazza umile e il libro, che fu strumento di distinzione, non solo per la sapienza, ma nelle classi sociali? E significava soprattutto autorevolezza, garanzia di verità? E cosa era scritto nel libro di Maria, oltre alle parole dei profeti, dei salmi, dei Vangeli, del Magnificat?
Si può rispondere che Maria stessa è un libro, contiene il passato e soprattutto il futuro: un libro profetico al massimo grado. Ma c’è quella commistione di realtà e di sentimenti, che colpisce nel profondo, e non si accontenta di spiegazioni teologiche. In Maria il mistero teologico è reale e carnale, attraversa la vita quotidiana, gli affetti delle madri nelle famiglie, tutte le forme reali e immaginarie, che le madri quotidiane e le divinità femminili hanno mostrato in ogni tempo e spazio.
Michele Feo, filologo e acutissimo investigatore dei testi, ne è stato così commosso e catturato, da inventariarne le immagini per uno studio colto e appassionato (Cosa leggeva la Madonna; Polistampa, pagine 304, euro 20,00). Ma non dobbiamo pensare che l’indagine di Feo si limiti a un excursus erudito che riguarda soltanto l’abbinamento con il libro. Si estende a ogni riflessione che tocca Maria, con una condivisione totale e sottile della femminilità e dei suoi valori più profondi.
Mentre segue nei secoli e nelle contestualizzazioni delle opere le Annunciazioni, decifrando e commentando le iscrizioni e le composizioni, Feo non dimentica mai l’origine. Chi è veramente Maria? Cosa accade nel momento in cui riceve l’annuncio traumatico dell’angelo che ha sconvolto lei fino a noi stessi? Perché l’Annunciazione non è un evento che si conclude, ma un progetto che ci riguarda inesorabilmente? Come sono diventati lontani nei secoli i sensi originari? Come tutto è diventato infinitamente indecifrabile, sebbene continuino a colpirci quegli atti e quei gesti e quelle mani della ragazza non ancora madre, che talora si specchiano nelle mani dell’angelo, o - come nella Vergine Annunciata palermitana di Antonello da Messina - emergono in assoluta eloquenza fuori dal quadro?
La ricchezza di questo libro sta anche nella presentazione di testi preziosi che accompagnano la figura dell’Annunciazione; non solo quelli sacri, o Dante, o Petrarca (di cui Feo è massimo studioso), che nel cammino dell’amore che nobilita attraverso la donna, compie la «rivoluzionaria e decisiva collocazione della Vergine a chiusura dei Rerum vulgarium fragmenta». Feo ci traduce molti testi straordinari: ora popolari, ora dei più sofisticati umanisti che intrecciano la Vergine con le divinità greco-latine, ora di mistici ottocenteschi, ora di teologi moderni. Il valore del libro sta anche nel sapiente dialogo che Feo intrattiene tra culture diverse.
Vorrei aggiungere una testimonianza, che ha origine da due antiche tradizioni romagnole. Esse hanno riscontri nei calendari popolari e nel Tempio malatestiano di Rimini, dove compaiono le due porte che le anime passano: nel segno del Capricorno abbandonano la carne attraverso la porta degli dèi e dell’immortalità; nel segno del Cancro si incarnano. Nell’Annunciazione (e incarnazione) del 25 marzo, nell’equinozio di primavera, Maria è seduta, intenta a filare il lino “marzuolo”. In questa immagine, che riprende il protovangelo di Giacomo, Maria è l’umile donna antica, attenta alla rocca, al fuso, al telaio. Ma rievoca anche archetipi: Elena che in Omero tesse una tappezzeria di porpora con le lotte di Greci e Troiani in cui lei è al centro; Cloto che fila lo stame della vita.
La vigilia di Natale, a Ravenna, in una filastrocca che inizia con l’invocazione «Levati, levati mio sole / con il raggio del Signore», tre angeli donano a Maria tre forcine o tre falci d’oro: lei le porge al Signore, e Lui con queste mette in moto la ruota del cosmo: è la nascita di Gesù e del tempo: il compimento dell’Annunciazione avviene nel solstizio d’inverno, sotto il segno del Capricorno. In sintonia con tradizioni immemoriali, raccolte da quelle platoniche, Maria tra primavera ed estate incarna, mentre nel cuore dell’inverno, con il “sole invitto” libera dalla carne, verso l’eternità.
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Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
Michele Feo, Mio nonno era un re , "Il grande vetro".
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni".
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
Teatro.
Ravenna: tutta la città a scuola con Dante
Un’imponente «chiamata pubblica» per riportare alla luce la struttura drammaturgica della «Commedia»: è la formula del Teatro delle Albe che quest’anno porta gli spettatori a esplorare il Purgatorio
di Alessandro Zaccuri, inviato a Ravenna (Avvenire, mercoledì 3 luglio 2019)
Il Purgatorio, scrive Marco Martinelli, è la cantica degli artisti. Di quelli attivi all’epoca di Dante, come il miniaturista Oderisi da Gubbio, e di quelli ancora là da venire, come Joseph Beuys o Vladimir Majakovskij. Separati da qualche secolo di storia terrena, ma meravigliosamente riuniti nella visione oltremondana dalla «chiamata pubblica per la Divina Commedia » che il Teatro delle Albe realizza all’interno del Ravenna Festival.
Un progetto avviato nel 2017 con l’Inferno e destinato a concludersi con il Paradiso nel 2021, settimo centenario della morte di Dante. Il 2019 è invece l’anno del Purgatorio, che non è soltanto la cantica nella quale gli artisti sono più presenti, ma anche quella che gli artisti più amano, come dimostra per esempio la predilezione espressa da T.S. Eliot.
Il Purgatorio è una montagna, lo sappiamo. Nello stesso tempo, però, è una scuola. A sostenerlo è di nuovo Montanari in Nel nome di Dante, il libro che accompagna e integra l’avventura della «chiamata pubblica». Teatro di strada e teatro di popolo, ridefinizione della città come palcoscenico urbano e rivendicazione della natura politica del coro, «un uno che non cancella i molti », secondo la formula che si legge in Acusma, il saggio - edito da Quodlibet - che Enrico Pitozzi ha dedicato al «teatro sonoro» di Ermanna Montanari, moglie di Martinelli e sua compagna di scena dalla metà degli anni Settanta.
Insieme, Ermanna e Marco fanno il Teatro delle Albe, ma non ne rappresentano l’interezza. Per rendersene costo basta venire a Ravenna, dove in queste settimane si svolge la liturgia comunitaria del Purgatorio. È, almeno in parte, lo stesso spettacolo già allestito tra maggio e giugno a Matera, ma nel caso di un oggetto teatrale come questo il cambio di ambientazione implica un ripensamento profondo delle scelte drammaturgiche. Non nell’impianto generale, quanto nell’ambientazione degli episodi e più ancora nella modulazione del paesaggio sonoro, che del Teatro delle Albe rappresenta forse l’elemento più caratteristico. C’è la voce di Ermanna Montanari, che nel tempo è diventata uno strumento a sé, nel quale l’eco della parlata romagnola si sublima nella pronuncia esatta della lingua (Miniature campianesi, il suo libro di memorie pubblicato da Oblomov, è ricco di indizi in questo senso). E c’è il coro, quell’uno-molti che le Albe riescono a suscitare ovunque si spostino, dall’Africa a Neww York, nella periferia di Scampia così come qui, a Ravenna, davanti alla tomba solenne di Dante, che del cimento purgatoriale segna l’inizio.
Alla «chiamata pubblica» hanno risposto un migliaio di ravennati di ogni età e condizione sociale, tra cui moltissimi bambini. Si distribuiscono in gruppi di trecento per animare, sera dopo sera, questa che non è affatto una drammatizzazione della Commedia, ma la rivelazione della natura drammaturgica che segretamente sostiene il «poema sacro». Si comincia con la proclamazione corale del primo canto, con Ermanna Montanari che scandisce «Per correr miglior acqua alza le vele» e il coro che le risponde ripetendo il verso con la medesima intonazione, in un effetto che amplifica e interiorizza ogni parola.
Dante, in apparenza, non si vede, ma solo perché in queste due ore ipnotiche e serrate ciascuno degli spettatori diventa Dante. Non si mette alla sua scuola, per tornare a una delle immagini centrali dell’allestimento, ma va con lui alla scuola del Purgatorio, che è poi una non-scuola : luogo di condivisione e di esperienza, non di trasmissione meccanica del sapere.
Dante siamo noi, in cammino per le strade di Ravenna, e il nostro Virgilio sono Ermanna e Marco. Entrambi vestiti di bianco, sempre pronti a dirigere il coro e a dialogare con le figure che di volta in volta prendono vita dalle pagine della Commedia. Il venerando Catone di Gianni Plazzi e il dolente Manfredi di Roberto Magnani, il penitente Adriano V di Alessandro Argnani e l’immobile Ugo Capeto di Luigi Dadina, il Bonconte di Massimilano Rassu, che non smette di rievocare il miracolo della salvezza dovuta a una «lacrimetta», e la Sapia di Laura Redaelli, anche lei instancabile nel mettere in guardia dalle insidie dell’invidia. Si tratta spesso di apparizioni improvvise e discrete, come quella dello scolaretto che da un balcone di via di Roma impersona l’angelo del silenzio.
Ma non mancano le grandi costruzioni corali. Su una scala di servizio dell’Istituto musicale Verdi si dispongono le donne uccise dalla violenza: a guidare le loro voci è la Pia dei Tolomei di Mirella Mastronardi, che per prima intona lo struggente «Ricordati di me». Una visione di forte resa emotiva, il cui corrispettivo è la massa degli iracondi che lo spettatore incontra nel Purgatorio vero e proprio, insediato per l’occasione nel cortile della Casa di riposo Garibaldi. Questa volta è il Marco Lombardo di Alessandro Renda a prendere la parola con la perorazione sul libero arbitrio che Dante ha voluto incastonare alla metà esatta del poema, come a denunciarne la struttura nascosta.
E la non-scuola? È organizzata in due classi, la cui frequenza è obbligatoria per accedere al Paradiso terrestre nel quale quattro ragazze, con le stesse trecce e la stessa giacca cerata di Greta Thunberg, sanciscono l’avvenuta purificazione di noi penitenti. Prima ci si siede tra i banchi per assistere alla lezione dell’Oderisi di Matteo Gatta, a sua volta abbigliato come Beuys, artista mistico e stravagnate. Poi vengono i «vermi e farfalle», che sui banchi salgono volentieri per proclamare i versi non solo di Dante, ma anche di Walt Whitman, John Donne, Etty Hillesum. E di Majakovskij, certo, che il Purgatorio lo ha descritto benissimo a modo suo: «Dite ai pompieri / che su un cuore in fiamme / ci si arrampica con le carezze».
VERSO IL "PARADISO TERRESTRE" (DANTE, 2021):
DALLA TRINITA’ DI ADAMO ED EVA ALLA TRINITA’ DI GIUSEPPE E MARIA. Al di là della Trintà edipica....*
Trinità, il mistero che abita dentro noi
di Ermes Ronchi (Avvenire, giovedì 13 giugno 2019)
Memoria emozionante della Trinità, dove il racconto di Dio diventa racconto dell’uomo. Dio non è in se stesso solitudine: esistere è coesistere, per Dio prima, e poi anche per l’essere umano. Vivere è convivere, nei cieli prima, e poi sulla terra. I dogmi allora fioriscono in un concentrato d’indicazioni vitali, di sapienza del vivere. Quando Gesù ha raccontato il mistero di Dio, ha scelto nomi di casa, di famiglia: abbà, padre... figlio, nomi che abbracciano, che si abbracciano. Spirito, ruhà, è un termine che avvolge e lega insieme ogni cosa come libero respiro di Dio, e mi assicura che ogni vita prende a respirare bene, allarga le sue ali, vive quando si sa accolta, presa in carico, abbracciata da altre vite. Abbà, Figlio e Spirito ci consegnano il segreto per ritornare pienamente umani: in principio a tutto c’è un legame, ed è un legame d’amore.
Allora capisco che il grande progetto della Genesi: «facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza», significa «facciamolo a immagine della Trinità», a immagine di un legame d’amore, a somiglianza della comunione. La Trinità non è una dottrina esterna, è al di qua, è dentro, non al di là di me. Allora spirituale e reale coincidono, verità ed esistenza corrispondono. E questo mi regala un senso di armoniosa pace, di radice santa che unifica e fa respirare tutto ciò che vive.
In principio c’è la relazione (G. Bachelard). «Quando verrà lo Spirito di verità, vi guiderà... parlerà... dirà... prenderà... annunzierà». Gesù impiega tutti verbi al futuro, a indicare l’energia di una strada che si apre, orizzonti inesplorati, un trascinamento in avanti della storia. Vi guiderà alla verità tutta intera: la verità è in-finita, «interminati spazi» (Leopardi), l’interezza della vita. E allora su questo sterminato esercito umano di incompiuti, di fragili, di incompresi, di innamorati delusi, di licenziati all’improvviso, di migranti in fuga, di sognatori che siamo noi, di questa immensa carovana, incamminata verso la vita, fa parte Uno che ci guida e che conosce la strada. Conosce anche le ferite interiori, che esistono in tutti e per sempre, e insegna a costruirci sopra anziché a nasconderle, perché possono marcire o fiorire, seppellire la persona o spingerla in avanti.
La verità tutta intera di cui parla Gesù non consiste in concetti più precisi, ma in una sapienza del vivere custodita nell’umanità di Gesù, volto del Padre, respiro dello Spirito: una sapienza sulla nascita e sulla morte, sulla vita e sugli affetti, su me e sugli altri, sul dolore e sulla infinita pazienza di ricominciare, che ci viene consegnata come un presente, inciso di fessure, di feritoie di futuro.
(Letture: Proverbi 8,22-31; Salmo 8; Romani 5,1-5; Giovanni 16,12-15)
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA: ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA ....
Tre note... *
A) - EUROPA, STRASBURGO 1770: CON “MARIA ANTONIETTA” IN VIAGGIO PER VERSAILLES.
Nel 1770 a Strasburgo, nei pressi del confine del Sacro Romano Impero con la Francia, Goethe “guarda un arazzo che narra le storie di Giasone, di Medea e di Creusa”, preparato “per le feste in onore dell’arrivo della sposa” di Luigi XVI di Borbone, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena che si stava trasferendo a Versailles, e così commenta: «dunque un esempio del più infelice matrimonio»!
Goethe mostra di avere una conoscenza superficiale della leggenda di Giasone, e della sua nave Argo, e del come e del perché sia arrivata proprio lì, sulle sponde del Reno, in quell’ambiente e per quella occasione, e, colpito, ne resta segnato per moltissimi anni: “era «estremamente» indignato dalla scelta e glien’è restato - commenta Curtius - il ricordo se dopo quarant’anni lo ritiene ancora degno di esser raccontato (Dichtung und Warheit, II, 9)”.
Nel 1950, Ernst R. Curtius, che ha già pubblicato nel 1947 “Letteratura europea e Medio Evo latino”, in un saggio intitolato “La nave degli argonauti” (cfr. Id.,“Letteratura della letteratura”, Saggi critici a cura di Lea Ritter Santini, Bologna 1984, pp. 301-325), quasi a conclusione, dopo aver ricordato che per Dante “il viaggio di Giasone è la più stupefacente impresa di tutti i tempi” e premesso che “il pensiero storico di Dante ha bisogno di prospettive millenarie - come quello di Goethe,” così prosegue e commenta: “A guardarlo oggi, Goethe si avvicina sempre più a Dante, e non solo nel tempo. Come Dante, anche egli rappresentò ancora una volta il Thesaurus della tradizione europea. Anche in lui troviamo il mito degli Argonauti”.
Curtius cosa sta cercando di dire - e di fare con le parole, con queste parole? Cambiata di segno, la sua affermazione appare essere una forma di sollecitazione subliminale volta ad avvicinare sempre più Goethe a Dante, sino a portarci a pensare: «dunque un esempio del più felice “matrimonio”»! Ma qualcosa resiste, sia nella memoria di Goethe sia di Curtius e fa emergere un non-detto del messaggio. Un’ipotesi: forse, e per caso, sono le stesse parole “sussurrate” al cuore e alla mente di Maria Antonietta dalla madre, l’Imperatrice Maria Teresa d’Austria, al momento del suo trasferimento a Parigi: «Rimanete una buona tedesca!», «Rimanete un buon tedesco!»?!
Incredibilmente Curtius - pur sapendo che “Giasone, nel XVIII canto dell’Inferno, compare fra i seduttori e Virgilio glielo presenta con ammirazione”, che “la nobile e bella figura giovanile di Giasone era già piaciuta ad Ovidio” e, ancora, che “Dante va oltre” lo stesso Ovidio e gli attribuisce “i tratti dell’eroe ideale” riservati “ai suoi prediletti” - fa sua la maschera di Goethe (“Der Bautigam” è il titolo di una sua poesia del 1829), divenuto egli stesso un Argonauta (“Linceo è l’Antifaust, Linceo è Goethe, l’argonauta trasformato”) e, nel tentativo di avvicinarsi “sempre più a Dante”, ricorda più il Thesaurus (il “Tresor” e il “Tesoretto”) della tradizione di Brunetto Latini, che quello della “Divina Commedia”, della nuova Argo, la nave del viaggio terrestre e celeste di Dante - più il Vitello (“T-aurus”) d’oro della tradizione egiziana, che il Vello d’oro dell’Ariete di Giasone e del Vello d’oro dell’Agnello di Dante. Che cagliostrosità!
Dopo i “venticinque secoli a la ‘mpresa” di Giasone (Dante, Par., XXXIII, 95), Curtius - ipnotizzato dalla magia di Goethe, che “scherzando” si autodefiniva “un Argonauta”, prende la sua maschera tratta fuori “dall’esatta descrizione storica dei mitologi”, e fa suo “il suo testamento. In ogni età c‘è una Argo, come aveva predetto Virgilio: «Ci saranno ancora un altro Tifi e un’altra Argo a trasportare eroi eletti»”.
Ma per quale destinazione?! Ancora e sempre per Versailles?!
Non è meglio uscire dal “letargo”, svegliarsi dal “sonno dogmatico”, e uscire “a rivedere le stelle”?!
B) - L’EUROPA, DOPO “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETTERATURA.
A commento dei “tratti dell’eroe ideale”, attribuiti da Dante a Giasone, in nota, Curtius] così scrive: “Una anticipazione del romanticismo burgundo che circonda Giasone. Filippo il Buono di Borgogna sposò nel 1430 Isabella del Portogallo. In questa occasione - o forse quale omaggio alla popolazione di allora, stupenda nel navigare - fondò l’ordine del Toson d’Oro. I suoi protettori erano Giasone e Gedeone. Anche nella loro storia un vello miracoloso aveva avuto la sua parte (Libro dei Giudici, IV, 36-40). Un auto sacramentale di Calderón si intitola La Piel de Gedeon (1650), stampato nella edizione di Pando y Mier (1717), vol. III; in tedesco in F. Lorinser: Calderóns geistliche Festpiele, vol IX. Sul romanticismo di Giasone: v. Georges Doutrepont, La Littérature Française à la Cour des Ducs de Bourgogne, 1909, pp. 147-176” (cfr. Ernst R. Curtius, Letteratura della letteratura..., op. cit., pp. 317-318).
Benché nella “Letteratura europea” (1947) abbia citato il lavoro dello storico olandese Johan Huizinga (morto nel 1945), in particolare l’opera “L’autunno del Medio Evo” (del 1919), una straordinaria lettura del “secolo della Borgogna”, ove si racconta diffusamente di “ordini e voti cavallereschi”, della nascita dell’ordine del Toson d’oro, ecc - ora, qui, nel saggio “La nave degli Argonauti” (1950), Curtius non ne fa alcun cenno; e, addirittura, delle opere di Calderón cita solo “La Piel de Gedeon” (ma non “El divino Jasón”, “El divino Orfeo”, “El Laberinto del Mundo”, ecc.)!
Cosa è successo?! La “maschera” di Goethe, forse, gli ha giocato giocato un brutto scherzo e lo ha costretto a rimettersi nei panni di Faust? Incredibilmente, già in “Letteratura europea e Medio Evo Latino”, dato per valido il calcolo dei “venticinque secoli” di Dante dall’impresa di Giasone (Par., XXXIII, 95), tre anni prima (1947), egli aveva già scritto: “La letteratura europea abbraccia il medesimo periodo di tempo della cultura europea, comprende cioè circa ventisei secoli (calcolati da Omero a Goethe” (p. 20).
Che dire? Davvero “Goethe si avvicina sempre più a Dante”?! Boh?! Bah!
C) - CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. A che gioco giochiamo?!
Nel 1929, in un breve saggio dedicato a "Hugo Hofmannsthal. In memoriam" (op. cit., pp. 165-176), Curtius scrive: "La regalità era la figurazione più interiore nel rapporto tra Hofmannsthal e il mondo. La funzione di poeta non era per lui che una delle forme in cui essa si manifestava [...] tutte le opere di Hofmannsthal tendono verso la forma ideale di un theatrum mundi, un poema cosmico allegorico-simbolico che eleva il caso dell’esistenza all’ordine delle grandi leggi, che nel temporale, fanno apparire l’eterno. L’allegoria non è qui indebolita ricchezza di vita e la maschera non è apparenza, al contrario, soltanto quando riusciamo a vedere la deformazione, la maschera della nostra esistenza, ne comprendiamo il senso e la verità più profonda".
E poco oltre, condividendo il programma e lo spirito della sua “rivoluzione conservatrice”, così prosegue : "La nostra poesia ha molto sentimento del mondo (Weltgefuhl), ma poco mondo: ha molte visioni del mondo (Weltanschauungen), ma mediocre ne è la sua conoscenza. In Goethe esisteva la possibilità di unire i due aspetti e ristabilire le giuste proporzioni. Ha dovuto condurre il suo Faust alla corte dell’imperatore: era anzi ancora legato all’impero e colorate feste d’incoronazione avevano illuminato la sua infanzia. Non ha sentito più battere il cuore dell’impero [...] L’orizzonte universale del vecchio impero asburgico era stato dato in eredità a Hofmannsthal. Vienna e Madrid non ne facevano meno parte [...]". E, così chiude: “Hofmannsthal ha raccolto nel suo tesoro reale, i beni più preziosi del linguaggio e dell’anima dei paesi latini: noi lo conserviamo come la sua eredità, come «munus Austriacum»”.
Nel 1932 fa il passo “decisivo”: pubblica “Deutscher Geist in Gefahr “ (“Lo spirito tedesco in pericolo”), un libro (una raccolta di articoli di quegli anni), e nella postfazione, confidando nella “metafisica dello spirito”, chiude con il richiamo al “Veni creator spiritus” - “l’inno del franco-renano Rabano Mauro” (“Mille anni più tardi un altro franco-renano, Goethe, ha tradotto questo “splendido canto religioso” e lo ha definito un “appello al genio”) - e con l’auspicio che “sotto questo segno la fede nella Germania e la fede nello spirito possono trovarsi legate e confermate” (cfr. Ernst R. Curtius, “Lo spirito tedesco in pericolo”, in Annamaria Bercini, “Il discorso politico culturale del «Deutscher Geist in Gefahr» di Ernst Robert Curtius”, Bologna 2015)
Le illusioni di Curtius di diventare una guida spirituale della “rivoluzione conservatrice” sono infondate e vengono spazzate via in un baleno: “Il 24 marzo del 1933, subito dopo l’ascesa al Reichstag di Hitler, sul Beiblatt del «Völkischer Beobachter», il giornale ufficiale del partito nazista sin dal 1920, comparve un durissimo articolo di Hermann Sauter (che di lì a qualche anno diverrà direttore della Stadtbibliothek di Monaco), Deutscher Geist in Gefahr? , che era in effetti una stroncatura senza appello del libro di Curtius. L’assenso di Curtius alla missione tedesca è, come si può vedere, in realtà una negazione del nuovo, potente volere tedesco. Ma questo è il nostro credo: che il vero spirito tedesco otterrà nuovamente onore, e sarà capace di avere valenza mondiale, quando sarà ripulito dal peso accumulato nella cosiddetta libertà spirituale del decennio passato. Sauter concludeva con quello che appare un vero avvertimento da mafioso. Curtius può avere ancora un ruolo importante nella nuova Germania, ma a patto di non tentare più di fare il Kulturpolitiker, perché non capisce nulla dei fondamenti autentici - cioè biologici - della cultura tedesca.” (cfr. Carlo Donà, “Lo spirito tedesco e la crisi della mezza età: «Deutscher Geist in Gefahr» (1932)” ).
Dopo la catastrofe della Germania del “Terzo Reich”, Curtius ancora non capisce: continua il suo “sogno” calderonico e la “vacanza” nel suo “illuminato” (contro e) pre-illuministico “stato di minorità” (I. Kant, 1784). E nel 1947, come se niente fosse successo, alla fine del primo capitolo di “Letteratura europea Medio Evo latino”, intitolato “Letteratura europea”, con un “occhiolino” a Benedetto Croce (e alla memoria di Hegel), riprende il lavoro per il “nuovo ordine culturale”, già proposto nel “Deutscher Geist in Gefahr” del 1932, e ricomincia: “Della letteratura europea l’eroe fondatore (heros ktistes) è Omero, l’ultimo autore universale è Goethe. Ciò che questi rappresenta per la Germania lo ha riassunto Hofmannsthal [...] La letteratura del secolo XIX e dell’inizio del XX non è stata ancora scandagliata, in essa non è stato ancora distinto ciò che è vivo e ciò che è morto. Ciò potrà dare materia per molte dissertazioni, la parola decisiva sarà però pronunciata non dalla storia della letteratura, ma dalla critica letteraria. Per questo compito noi, in Germania, abbiamo Friedrich Schlegel - e seguaci” (op. cit., p. 24)!
Purtroppo, per Curtius, che è vissuto e cresciuto all’interno di coordinate storico-culturali da Sacro Impero (romano, spagnolo, e germanico), e nelle cui orecchie risuona ancora l’ordine dato a Maria Antonietta dalla Madre-Imperatrice (“Rimanete un buon tedesco!”), “la vita è sogno” e non c’e alcuna possibilità di riconsiderare critica-mente né il lavoro di Ernst H. Kantorowicz (anch’egli vicino al “cerchio” di Stefan George) sulla figura dell’Imperatore Federico II (1927/1931), né tantomeno “l’autunno del Medio Evo”, il “declino del simbolismo” e la lezione su Dante di Johan Huizinga ("L’autunno del Medio Evo" [1919, 1921, 1928]): “[...] per indicare il rapporto fra l’autorità spirituale e quella temporale il Medioevo si serviva costantemente di due similitudini simboliche [...] La forza del simbolo è tale da intralciare l’indagine sullo sviluppo storico dei due poteri. Dante, avendo riconosciuto la necessità e il valore decisivo di tale indagine, si vede costretto, nel suo Monarchia, a spezzare prima la forza del simbolo, contestando la sua applicabilità, ed aprendosi così la strada alla ricerca storica".
La totale incomprensione del “relazionismo” proposto di Karl Mannheim in “Ideologia e Utopia” (1929), esaminato e rigettato nel capitolo quarto dello “Spirito tedesco in pericolo”, impedisce a Curtius di aprire gli occhi su stesso e sul mondo, di uscire dal relativismo-assolutismo dogmatico in cui naviga, e di smetterla di sognare il “sogno dei visionari” (sul tema, mi sia lecito, cfr.: “Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi”).
“Sogno o son desto?”: a che gioco si continua a giocare? Non è meglio cambiare gioco!? Per l’Europa - e per l’intero Pianeta? Boh? e bah!?
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Federico La Sala
Storia.
Il sogno di Napoleone: l’archivio dell’impero
Bonaparte aveva capito che, controllando la memoria dei popoli, li si teneva in pugno e si poteva scrivere la storia come prova della legittimità del proprio potere
di Edoardo Castagna (Avvenire, giovedì 11 aprile 2019)
Del saccheggio napoleonico di opere d’arte, con i lunghi strascichi relativi alle restituzioni o alle mancate restituzioni, molto si è scritto. Assai meno del saccheggio di uomini, della “carne da cannone” razziata come e più di quadri e statue in ogni angolo d’Europa, per finire seppellita tra le colline boeme o nelle steppe di Russia. Tutti iscritti all’anagrafe della storia come “francesi” sebbene in gran parte francesi non fossero affatto, come lo stesso Napoleone si premurò poi di rimarcare. Ma le appartenenze nazionali, così come le tradizioni storiche e le memorie collettive, si costruiscono. Ed è per questo che tra i tanti saccheggi napoleonici uno, perseguito con particolare tenacia, si concentrò sugli archivi delle varie capitali via via occupate e inglobate nell’Impero.
Vicenda meno nota di altre, ben ricostruita da Maria Pia Donato nel suo L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia (Laterza, pagine 170, euro 19,00). La sua versione dell’eterno sogno della biblioteca universale si declinò utilitaristicamente verso la condensazione sotto un unico controllo di quella che avrebbe dovuto essere la fonte primaria sia per la scrittura della storia nei secoli a venire, sia per la costruzione di una tradizione e di un’identità comune a tutta l’Europa posta sotto lo scettro di Napoleone, in ideale rimando all’unità medievale dei “due soli” a cui esplicitamente tale operazione si ispirò. Furono infatti la conquista, nel 1809, degli archivi del Sacro Romano Impero e del Papato a mettere in moto la macchina accentratrice dell’archivio dell’Impero.
Come in tante altre occasioni, la storia seguiva la propria strada indipendentemente dalla volontà degli uomini, tanto che l’idea di centralizzare gli archivi europei, sottolinea la Donato, seguì e non precedette l’inizio della sua realizzazione: il suo Napoleone è perfettamente tolstojano, in balìa di quegli stessi eventi epocali che si illude di governare. Stando al trattato con l’Austria nel 1809, avrebbero dovuto passare sotto controllo francese soltanto gli atti relativi ai territori ceduti agli occupanti: i quali invece, con militaresca ruvidità, prelevarono in blocco le carte conservate a Vienna, quali che fossero e di ogni epoca. Furono riempite oltre 2.500 casse, caricate sui carri e spedite a Parigi.
Simile fu la brutalità con la quale si procedette al- l’acquisizione degli archivi di Roma, il cui sequestro in realtà fu, almeno inizialmente, funzionale alla volontà di Napoleone di mettere sotto pressione il Papa: tanto che nel 1813, quando l’imperatore credette di averla spuntata su Pio VII, ordinò la restituzione delle carte. Per rimangiarsela, naturalmente, quando mutò nuovamente idea sul conto del Pontefice. Nel frattempo però, e anche in contraddizione con i tatticismi politici del momento, maturava in lui e nei suoi collaboratori «l’idea di creare un sito centrale della memoria per l’impero, anzi una grandiosa raccolta delle testimonianze scritte della civiltà», nota la Donato; via via furono acquisiti gli archivi olandesi, spagnoli, piemontesi, belgi, della galassia di staterelli tedeschi.
A sovrintendere al tutto fu l’archivista capo Pierre-Claude-François Daunou: ex prete, ex illuminista, ex fervente repubblicano, infine comodamente adagiato nell’ordine bonapartista (al quale peraltro sarebbe sopravvissuto). Nella sua opera trasfuse, al pari di quella contemporanea e simmetrica dei curatori del Louvre, del Jardin des plantes o della Biblioteca nazionale di Parigi, l’ideale e l’ambizione enciclopedici degli Idéologues illuministi. «Fu elaborata sul campo - nota la Donato - la dottrina che Édouard Pommier ha chiamato “la teoria del rimpatrio”, ossia l’idea che solo nella Francia rigenerata le opere delle scienze e delle arti avrebbero potuto sprigionare il loro potenziale di conoscenza ed emancipazione».
Daunou aveva ben servito Napoleone compilando un Saggio storico sul potere temporale dei papi tutto teso a mostrare le malefatte plurisecolari del Papato e le buone ragioni di un imperatore nel volerlo ridurre alla sua mercé; il Saggio venne ripetutamente riveduto e ampliato proprio grazie alle nuove fonti archivistiche divenute disponibili. Ma Daunou non era un mero cortigiano, anzi: nella sua opera di gran maestro dell’archivio napoleonico diede indubbie prove di capacità organizzative, di intelligenza pratica (fu l’inventore di quelle “schede”, uniformi per formato e ordine delle informazioni, divenute poi di uso universale fino all’avvento della digitalizzazione) e anche di un po’ di visionarietà.
Non ci fu il tempo di costruire l’immenso palazzo che avrebbe dovuto ospitare i Grandi Archivi, ma quello per affermarne la centralità storica sì: non solo, prosegue la Donato, «furono l’invenzione simbolica di un impero in cerca di radici», ma offrivano anche l’occasione di coltivare la storia pragmatica che era stata degli Idéologues. L’archivio serviva (anche) a scrivere la storia», e per questo esserne i controllori significava essere i controllori della memoria dei popoli. Nelle carte degli archivi si trovano i mattoni fondamentali per erigere quei monumenti umani collettivi che sono le identità naziona-li: una lezione, questa, che gli Stati- nazione che sarebbero sorti dopo il tramonto dell’età napoleonica, e che rientrarono in possesso dei rispettivi archivi, avrebbero ben messo a frutto.
DANTE, OGGI. PER UNA NUOVA "BUSSOLA TEOLOGICA" .... *
Classici.
Più fede nella politica, la lezione di Dante
La vicenda biografica e intellettuale del grande fiorentino si rivela di grande attualità ancora oggi, specie per quanto riguarda l’impegno dei credenti a favore del bene comune
di Gabriella M.Di Paola Dollorenzo (Avvenire, 17 febbraio 2019)
L’intervista al cardinale Gualtiero Bassetti (Avvenire, 9 dicembre 2018) ha riportato la nostra attenzione «sull’impegno concreto e responsabile dei cattolici in politica». Già nell’inchiesta del mensile Jesus sul «tempo del rammendo » (ottobre 2018), il presidente della Cei aveva rimarcato l’urgenza di ricostruire una presenza laicale che guardasse alla politica come a un’avventura positiva, nella necessità di una classe dirigente in grado di opporre alla sfiducia popolare un forte senso di concretezza e di responsabilità. Queste virtù o, per meglio dire, questi talenti ci permettono di richiamare la coerenza del pensiero politico di Dante così come ebbe a svilupparsi, sia negli anni di politica attiva sia dopo l’esilio e parallelamente allo svolgersi del suo pensiero teologico nella Commedia. Considerare l’architettura del suo pensiero, il rapporto tra teoria e prassi, l’utilizzo anzi l’interazione delle fonti (Sacre Scritture, autori grecolatini, testi arabi) può essere utile per individuare l’archetipo del cristiano impegnato nella realtà politica del proprio tempo, con l’ambizione di tradurre l’imitatio Christi nel concreto operare all’interno della res publica.
La vicenda umana del Poeta incardinato nella realtà politica del suo tempo, specialmente negli anni che vanno dalla morte di Beatrice (1290) alla condanna all’esilio (1302), ci permette di riflettere sul rapporto teologia- politica, così come fu duramente ma appassionatamente vissuto, in «un crescendo di temerarietà e di coerenza» (Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, 1993) e, nello stesso tempo, avendo ben salda la «coscienza della storia», quell’habitus morale in base al quale «gli avvenimenti non si confondono caoticamente nella memoria, ma sono collegati dalla coscienza della causa e dell’effetto, dell’iniziativa e della responsabilità» (Romano Guardini, Dante, 2008). Se accogliamo l’approccio euristico di Jürgen Moltmann (si veda in particolare Dio nel progetto del mondo moderno, edito da Queriniana nel 1999), possiamo capire in che senso la teologia può “binarizzarsi” con la politica determinando le scelte tra il bene e il male, nel concreto avvicendarsi della storia di una città, di una nazione, di un popolo. Non è un caso che la formazione filosofico-teologica di Dante preceda cronologicamente l’attività politica, anzi ne sia quasi il trampolino di lancio: «Io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocaboli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti » ( Convivio, II, xii, 5-7).
Dopo aver approfondito l’Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele (nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke e col commento di Tommaso d’Aquino), nel libro II del Convivio si rivendica il primato della morale. Dante va oltre Tommaso d’Aquino: se la metafisica è la scienza di Dio, l’uomo potrà cercare lo status felicitatis in questa vita e, dato che l’uomo è un animale sociale, in una politica regolata dalla morale. Pertanto non è conforme alla morale rinchiudersi nella contemplazione dell’intelligibile, quando l’odio e la violenza di parte sconvolgono la comunità in cui si vive.
Nel 1294, anno dell’elezione e successiva abdicazione di Celestino V, nonché dell’ascesa al papato di Bonifacio VIII, Dante ha un ruolo diplomatico- culturale di primo piano nella delegazione dei cavalieri destinati dal Comune al seguito dell’imperatore Carlo Martello. In seguito, con la stesura del Paradiso, Dante potrà immaginare un incontro con Carlo al cospetto di Dio; il dialogo tra i due, con esplicito richiamo alla Politica di Aristotele, ma anche al De Anima, ha una precisa connotazione teologica: «“Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?”. /E io: “Non già; ché impossibil veggio / che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi”. / Ond’ elli ancora: “Or dì: sarebbe il peggio /per l’omo in terra, se non fosse cive?”. / “Sì”, rispuos’ io; “e qui ragion non cheggio”. / “E puot’ elli esser, se giù non si vive /diversamente per diversi offici? / Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive”» ( Paradiso, VIII, 113-120).
Sarebbe un male per l’uomo sulla terra se non facesse parte di un ordine civile, di un organismo sociale? E può esistere un’organizzazione civile se i suoi membri non siano ordinati a vivere esercitando diverse funzioni? E Dante risponde “sì” alla prima domanda e “no” alla seconda. La naturale politicità dell’uomo si accompagna alla necessità di distinguere gli offici poiché Nihil frustra natura facit (Politica I, 2).
Il quinquennio successivo al 1294 segnerà intensamente la vita e l’opera di Dante proprio perché continuo sarà lo scambio tra teoria e prassi, una prassi in toga candida: dalla riflessione filosofica riguardo al primato della morale alla traduzione di ciò nella vita della polis, una sorta di ragion pratica kantiana ante litteram: impegno civile, riflessione morale, tenace inseguimento della giustizia.
Proprio quando Firenze è dilaniata da lotte sociali interne e lo stesso papato non è immune dalla brama di potere che assale i partiti politici, Dante tiene ben ferma la barra del suo operare cristiano, perché è fermamente convinto di agire nella direzione indicata dalla bussola teologica. In questo atteggiamento riconosciamo l’attualità del suo pensiero politico e del suo agire politico. Dopo la condanna, negli anni dell’esilio, Dante consegnerà alle pagine del Convivio, della Commedia, ma soprattutto del trattato Monarchia, la riflessione teorica frutto della sua esperienza politica. È un progetto in fieri perché dovrà fare i conti col divenire della storia, è un progetto politico voluto da Dio per il bene dell’umanità.
Dopo la fine del potere temporale dei Papi, la Chiesa, a partire dall’enciclica In praeclara summorum (1921) di Benedetto XV, fino al Messaggio al presidente del Pontificio Consiglio della cultura in occasione del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri (2015) di papa Francesco, ha pienamente rivendicato, si pensi alla mirabile Altissimi cantus, la lettera apostolica di Paolo VI, l’appartenenza di Dante alla Chiesa cattolica e alla fede di Cristo, proprio considerando la sua battaglia di cristiano impegnato nella vita politica del suo tempo e nella sua somma opera teologica.
Oggi l’umanesimo cristiano di Dante può essere una traccia da seguire nella comunicazione religiosa e laica che stiamo vivendo. Per la preparazione del laicato cattolico alla vita politica, il pensiero di Dante può diventare una “bussola teologica”. Il rapporto tra fede, morale e politica, vissuto alla luce dei valori cristiani, che fece di Dante il segno di contraddizione della sua epoca, oggi fa di lui un nostro contemporaneo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’immaginario del cattolicesimo imperiale.... *
Olimpiade, la mamma feroce che fece di Alessandro Magno un re
Una biografia ricostruisce intrighi, delitti e ambizioni della sovrana epirota. Mentre il figlio conquistava il mondo lei elargiva consigli su come trattare i sudditi
di Giorgio Ieranò (La Stampa TuttoLibri 09.02.2019)
Forse non è vero che dietro a ogni grande uomo c’è sempre una grande donna. Ma dietro a molti grandi condottieri c’è spesso una madre ingombrante. Gengis Khan, stando alla Storia segreta dei mongoli, aveva paura solo della mamma, l’intrepida Hoelun. Maria Letizia Bonaparte vegliò severa sul figlio Napoleone per tutta la sua vita.
Ad Alessandro Magno toccò invece in sorte Olimpiade, donna inquietante e strana. Secondo gli antichi, praticava oscuri culti misterici, durante i quali maneggiava serpenti che poi si portava persino nel letto. Era devota ai riti dionisiaci, che celebrava con torme di femmine invasate, tra le quali si distingueva, scrive Plutarco, per essere «la più selvaggia». Si diceva che persino il marito, il re di Macedonia Filippo II, persona non facilmente impressionabile, ne fosse terrorizzato. Ma Olimpiade fu soprattutto una donna di potere.
Senza di lei, forse, Alessandro non sarebbe mai divenuto re: fu la madre, con il delitto e l’intrigo, a spianargli la via verso il trono.
Certi ritratti a tinte fosche di Olimpiade nascono forse proprio dal fatto, scandaloso per gli autori antichi, maschi e maschilisti, che una donna fosse riuscita a imporsi come protagonista politica (qualcosa di simile accadrà poi con un’altra spregiudicata regina, Cleopatra).
Ne è convinto Lorenzo Braccesi, storico del mondo antico, che dedica ora alla mamma di Alessandro Magno una biografia documentata e avvincente. Olimpiade ne emerge con tutte le sue ambiguità. Una donna che, da un lato, scrive Braccesi, appariva avvolta in «una nebbia misterica dove il mito poteva sovrapporsi alla vita e alla realtà». Ma, d’altro lato, era una sovrana accorta e astuta. Del resto, era nata figlia di re: suo padre, Neottolemo I, era signore dell’Epiro, un piccolo regno la cui dinastia vantava però una discendenza da Achille. Aveva poi sposato un altro re, Filippo di Macedonia. I due si sarebbero conosciuti proprio durante una cerimonia misterica, un rituale d’iniziazione alle oscure divinità dell’isola di Samotracia. E il loro figlio, Alessandro, era destinato a diventare il più grande di tutti i re, fondatore di un impero universale che andava dalle rive del Nilo a quelle dell’Indo.
Olimpiade è immersa negli eventi che, nella seconda metà del IV secolo, cambiano la storia del mondo. Dapprima accanto al marito Filippo, che, con la battaglia di Cheronea (338 a. C.), schiaccia la libertà di Atene e diviene padrone della Grecia. Poi seguendo da lontano i trionfi di Alessandro. Mentre il figlio avanza impetuoso nei territori dell’impero persiano, guidando le sue falangi attraverso i deserti e le montagne dell’Asia, la madre intrattiene con lui una corrispondenza di cui Braccesi ricompone le tracce partendo dai testi degli storici antichi. Olimpiade dispensa saggi consigli su come comportarsi con i sudditi. E il figlio le racconta con orgoglio i suoi successi. Si accinge anche, con festosa sollecitudine, a comunicarle di avere scoperto, nella remota India, le sorgenti del Nilo, salvo poi fare ammenda del clamoroso errore.
Il ruolo di regina madre Olimpiade aveva dovuto conquistarselo. I re di Macedonia erano poligami. Filippo, nel 337 a. C., aveva sposato una nobile macedone, di nome Cleopatra. Plutarco riferisce che Olimpiade, «donna collerica e gelosa», s’infuriò per queste nuove nozze. C’era il rischio che Cleopatra partorisse un erede di puro sangue macedone, che avrebbe messo fuori gioco Alessandro, il figlio della principessa epirota.
Nel 336 a. C., mentre entrava nel teatro di Ege (oggi Verghina), l’antica capitale del regno macedone, Filippo venne ucciso da un sicario di nome Pausania. Fu Olimpiade ad armare la mano del regicida? Lo storico Giustino racconta che la regina andò a deporre una corona di fiori sul capo di Pausania, giustiziato e appeso a una croce. Non erano solo calunnie: Braccesi riesamina tutte le testimonianze e conclude che, quasi certamente, Olimpiade fu la mandante dell’omicidio del marito. Comunque sia, grazie all’assassinio di Filippo, Alessandro ottenne subito il trono. E Olimpiade, per evitare rischi futuri, costrinse la rivale Cleopatra a impiccarsi dopo averne ucciso la figlia bambina.
La regina avrebbe pagato il prezzo dei suoi intrighi. Dopo la morte di Alessandro a Babilonia, nel 323 a. C., i suoi generali iniziarono a combattere per spartirsi l’impero. Olimpiade, a questo punto, era sempre più solo una presenza ingombrante. Tentò di salvare la dinastia ma fu uccisa nel 316 a. C. Di lei resterà la leggenda cupa e misteriosa. Solo Giovanni Pascoli, nel suo poemetto Alexandros, la immaginerà diversa. Una madre assorta nella malinconia, che, ascoltando lo stormire della quercia profetica del tempio di Zeus a Dodona, nel natio Epiro, crede di sentire la voce del figlio lontano. Una madre «in un sogno smarrita», mentre «il vento passa e passano le stelle».
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’immaginario del cattolicesimo romano.
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Il “sacro dovere” e l’erosione della costituzione
di Francesco Palermo *
La costituzione è il perimetro entro il quale si può muovere la politica con le sue scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee deve svolgersi secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata a degli arbitri, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il Presidente della Repubblica. È pertanto non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la costituzione può svolgersi la politica. La costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: non avrai altro Dio all’infuori di me. E non può esserci politica al di fuori della costituzione.
Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati ad interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’interno ha invocato l’articolo 52 della costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due pur diverse vicende della nave Diciotti da un lato e della nave Sea Watch dall’altro, il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul “sacro dovere” di ciascun cittadino alla “difesa della patria”, previsto appunto dall’articolo 52 della costituzione.
La disposizione non ha naturalmente nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della costituzione. Non a caso il testo definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della costituente. Erano tutti d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo. Il richiamo al “sacro dovere” della “difesa della Patria” ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione (“sacro dovere”), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti. Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’art. 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo ricollega a tale contesto, facendo intuire che “l’invasione” dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della costituzione, di eroderne il ruolo di limite e di parametro dell’attività politica. Un’erosione che continua da tempo, trasversalmente alle forze politiche, e di cui questo caso è solo l’esempio più recente. Così facendo si arriva però a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della costituzione. Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale. O forse sì. E infatti l’operazione funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della costituzione - il più importante - sfugga. Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che non è “solo” quella dei migranti, ma quella della costituzione. Su cui siamo imbarcati tutti...
* 31.01.2019 - "Il sacro dovere e la sua torsione populista" (Il Mulino)
LA VERA STORIA DEL PRESEPIO .... *
“[...] Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19). Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”.
[...] Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo - Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia. Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino...”
* Cfr. Marco Belpoliti, “La vera storia del presepio”, “Doppiozero”, 24.12.2018 (https://www.doppiozero.com/materiali/la-vera-storia-del-presepio).
EDUCARE AL GENERE UMANO. La "storia" della Luna e del Sole...
Maschi/femmine. La parità (non) si insegna a scuola
di Paola Zanca (Il Fatto, 25.11.2018)
La storia della Luna e del Sole è in un sussidiario di quarta elementare. Un mito della tradizione orale africana che diversi editori hanno inserito nei libri di testo della scuola pubblica italiana. Il racconto spiega come mai la Luna e il Sole, marito e moglie, non stiano mai insieme in cielo: hanno litigato perché lei non gli ha fatto trovare la cena pronta. Una “infame pigraccia” che si è perfino permessa di mangiare la polenta che il marito si era poi cucinato da sé. Il lieto fine: il Sole lancia il tagliere con la cena bollente in faccia alla Luna che “dolorante e vergognosa corse a nascondersi”.
La “dimensione di genere”,spiega bene Cristina Gamberi in Educare al genere (Carocci), influisce sulle nostre vite “da quando nasciamo fino alla terza età, e specie nell’adolescenza, quando si gettano le basi del divenire uomini e donne”.
Secondo il rapporto Eurydice, tutti i Paesi europei hanno messo in atto politiche di educazione di genere in ambito didattico: tutti tranne Estonia, Ungheria, Polonia, Slovacchia. E Italia. “Nella società italiana - notano le associazioni delle Donne in Rete contro la violenza - gli stereotipi e pregiudizi di genere, i ruoli tradizionali assegnati a uomo e donna, sono riprodotti sin dai primi testi scolastici”.
E se “l’educazione è sessista”, per parafrasare il titolo della ricerca di Irene Biemmi sugli stereotipi di genere nei libri delle elementari, c’è poco da stupirsi se, per la metà degli intervistati da Ipsos per conto del dipartimento Pari Opportunità, le donne non dovrebbero lavorare a tempo pieno se hanno figli piccoli, sono le principali responsabili della cura della famiglia e si sono avvalse del proprio aspetto fisico per la loro realizzazione professionale.
È l’humus in cui nasce e prolifera la mentalità che è alla base della violenza. Ecco perché - spiega Biemmi, ricercatrice all’università di Firenze - è “scorretto associare l’educazione di genere alle misure di contrasto alla violenza” perché, piuttosto, l’educazione è lo strumento attraverso cui “costruire dinamiche relazionali sane e paritetiche tra maschi e femmine”. Quelle, quindi, in cui la violenza - né esercitata né subìta - ha diritto di cittadinanza.
Uscire dalla “logica emergenziale” è il passo fondamentale. E solo dalla scuola si può provare a farlo: con la formazione obbligatoria degli insegnanti e con un intervento sui libri di testo che escano dai “binari rosa/azzurro” - spiega Biemmi -. “La femmina buona e mansueta, il maschio brillante anche se vivace”.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni"...
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva di Federico La Sala Studio europeo nelle scuole, ma il Ministro "censura" la domanda sui metodi contraccettivi (la Repubblica/Salute, 14.02.2008, p. 19).
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.... *
Su “Dante, nostro contemporaneo” di Marco Grimaldi
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 23 luglio 2017)
Davanti agli scrittori e ai libri classici accade di tenere due atteggiamenti opposti. Uno è quello attualizzante: per far capire al pubblico, di solito un pubblico scolastico, che la voce dei grandi autori del passato è ben udibile anche oggi e merita di essere ascoltata, si annullano i secoli e si cerca di dimostrare come tutte le domande che ci poniamo oggi siano già contenute in quei vecchi libri, accompagnate da ragionevoli risposte. L’altro è quello filologico, che mira a leggere le opere nel loro contesto originario, e dunque a illuminare quel contesto con gli strumenti dell’erudizione. Interpretare significa, a seconda dei casi, avvicinarsi più all’uno o all’altro polo, o meglio trovare un punto intermedio dal quale spiegare le cose secondo verità, ma senza spegnere l’interesse del lettore non specialista.
La Commedia di Dante è naturalmente il banco di prova tradizionale per un simile esercizio di equilibrio: ci parla ancora, indubitabilmente, nonostante siano passati sette secoli, più di qualsiasi altro libro del Medioevo; ma più di ogni altro grande libro del Medioevo incarna le idee e i sentimenti del suo tempo, idee e sentimenti dei quali il lettore odierno ha perduto la chiave. Charles Singleton sosteneva che «l’indifferenza alla salvezza» che è caratteristica di noi moderni ci impedisce ormai di avere una comprensione adeguata dell’opera di Dante. «Il fatto è - scriveva - che siamo arrivati al limite cui era possibile arrivare nella tendenza a minimizzare o a escludere dall’attenzione i più profondi significati cristiani della Commedia».
In altre parole, così come la Bibbia o il Corano significano qualcosa per un lettore cristiano o un per lettore musulmano e qualcos’altro - qualcosa di meno - per un lettore che non creda alla verità né dell’una né dell’altro, allo stesso modo si potrebbe dire che, dal momento che non siamo più in grado di percepire nella Commedia il valore teologico e profetico che essa aveva in origine, anche il nostro apprezzamento dell’opera risulta almeno in parte compromesso. È davvero così? O si tratta invece, come osservava Eliot, non di credere nelle idee in cui Dante credeva bensì soltanto di conoscerle, di dare alla sua opera non un assenso filosofico ma un assenso poetico («Non dobbiamo confondere Dante con san Tommaso o viceversa. Sarebbe un grave errore psicologico. La disponibilità a credere di chi legge la Summa presuppone un atteggiamento diverso da quella di un lettore di Dante, anche se si tratta della stessa persona, e anche se questi è un cattolico»)?
Marco Grimaldi ha scritto questo suo breve saggio dantesco, appena pubblicato da Castelvecchi, mettendosi all’incrocio tra queste due linee di riflessione. Da un lato, la Commedia è un’opera così ricca da concedere un’infinità di appigli a chi voglia servirsene come cava di citazioni o - come malamente si dice - ‘suggestioni’ da applicare alla vita presente. Ma, come mostra molto bene Grimaldi, si tratta spesso di attualizzazioni arbitrarie, nate da una conoscenza insufficiente del contesto storico-culturale nel quale Dante scrive e, più ancora, dalla smania che molti studiosi hanno di adoperare la cultura del passato per illuminare il presente.
Ma c’è una piccola parte di verità e una grande parte di retorica nell’idea - quale che sia l’ideologia attraverso cui si declina - che le opere del passato contengano in sé, impostati se non ancora risolti, i problemi del futuro: la democrazia, il capitalismo, l’eguaglianza, il gender. Grimaldi invita a separare e a distinguere, a segnare le differenze piuttosto che le analogie, e le sue osservazioni andrebbero lette soprattutto da studenti e insegnanti troppo zelanti nella pratica così scolastica del ‘collegamento’ fatto un po’ a casaccio. No, Dante non dice sulla politica cose che possano riguardarci davvero, perché l’assetto del mondo è troppo diverso da quello che lui aveva sotto gli occhi; no, attraverso il personaggio di Beatrice Dante non ha voluto «sconvolgere il comportamento stereotipico codificato in base al gender»; eccetera.
Sotto la critica di Grimaldi cadono uno dopo l’altro questi abusi anche un po’ sciocchi, e forse c’è solo da osservare che la necessità di farli cadere costringe talvolta lo studioso a estremizzare i contrasti: non direi per esempio che l’idea di monarchia dantesca si possa assimilare alla tirannia modernamente intesa, né che, «per le sue prospettive imperiali», Dante sia «totalmente distante agli occhi di chi, come la maggior parte di noi, vorrebbe un mondo libero, democratico ed egualitario». Dante difende l’idea imperiale proprio perché è quella che secondo lui meglio garantisce la libertà e la giustizia fra gli uomini: «Genus humanum solum imperante Monarcha sui et non alterius gratia est» (Mn I xii 9: ma tutto il paragrafo è pertinente). Si può eccepire contro questa idea, contro questa idealizzata - e già a quell’epoca perenta - forma statuale, non però dire che a Dante non stessero a cuore gli ideali che stanno a cuore noi oggi, né che la democrazia, anzi la democrazia moderna, sia l’unica forma di governo che permette di realizzarli.
Dall’altro lato, Grimaldi non si sottrae alla domanda sul perché si legga ancora la Commedia, e anziché fissarsi sui dettagli (il Dante politico, il Dante riformatore religioso, ecc.) guarda all’intero, e trova in questo intero, negli ideali che lo ispirano, un’analogia con i postulati della ragion pratica di Kant, cioè l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, il libero arbitrio.
Qui - varcando, e di molto, i confini della filologia - il discorso di Grimaldi si fa ancora più interessante, ma anche più opinabile. Venuta meno per gran parte dei lettori odierni, come osservava Singleton, la fede in una vita dopo la morte, e nel giusto riconoscimento dei meriti e delle colpe, la visione dantesca sarebbe una specie di risarcimento, e la nostra perdurante devozione a quella visione esprimerebbe la nostalgia per un ormai tramontato ordine metafisico. È possibile.
Ma è su questa perdurante devozione che è lecito nutrire qualche dubbio, cioè sull’effettiva presenza della Commedia nelle letture degli italiani adulti, una volta finita la scuola. Presenza che a me pare scarsa, comprensibilmente scarsa, dato che la Commedia è un libro difficilissimo, che richiede un sacrificio di tempo e uno sforzo d’attenzione che sono ormai alla portata di pochi. Una risposta molto più pedestre alla domanda circa l’attualità e la ‘durata’ della Commedia nel canone delle nostre letture, circa il «perché leggiamo ancora la Commedia nell’anno 2017», potrebbe essere insomma «perché così hanno deciso centocinquant’anni fa coloro che hanno scritto i programmi della scuola italiana postunitaria». E s’intende che questa risposta materialista integra ma non cancella quella idealista proposta da Grimaldi: ma invita un’altra volta a riflettere su quanto la nostra visione del mondo e dell’arte rispecchi, più che sfuggenti costanti antropologiche, le - molto sagge, del resto - indicazioni nazionali per il curricolo scolastico.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!! DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL - Ratzinger e Habermas!!! MARX, come VIRGILIO, gli fa strada e lo segue. Contro il disfattismo, un’indicazione e un’ipotesi di ri-lettura. AUGURI ITALIA!!!
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
“Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia” di Marco Grimaldi
Professor Grimaldi, Lei è autore del libro Dante, nostro contemporaneo. Perché leggere ancora la Commedia edito da Castelvecchi: perché leggiamo ancora la Commedia? *
Leggiamo ancora la Commedia prima di tutto perché è un’opera d’arte perfetta. Perché Dante ha creato un mondo fantastico ma del tutto verosimile e coerente nel suo funzionamento. La leggiamo per il suo realismo: perché nella letteratura in volgare prima di Dante le descrizioni della natura, degli uomini e delle emozioni erano sempre standardizzare, sempre uguali. Spesso erano molto efficaci, certo, ma era come se i poeti non guardassero quasi mai dal vivo la realtà. Dante, che è un uomo coltissimo, un intellettuale che conosce tanta letteratura, è invece un poeta della realtà, un poeta del mondo terreno, come è stato chiamato. E tutto questo lo fa nel momento stesso in cui fonda la tradizione letteraria italiana. Che è poi il motivo per il quale possiamo leggerlo ancora: perché la sua lingua è ancora la nostra lingua. Queste sono le ragioni - importantissime - che si spiegano a scuola e all’università.
Ma leggiamo la Commedia anche per altri motivi, che sono quelli che ho cercato di spiegare nel libro. La leggiamo ancora perché la Commedia ha un messaggio profondo che ancora ci interessa; perché anche oggi, quando a differenza di quanto accadeva al tempo di Dante la maggior parte di noi non crede né nell’esistenza di Dio né nella possibilità che vi sia un sistema di pene e di ricompense nell’aldilà, tutti noi abbiamo comunque un’idea di che cosa dovrebbe accadere dopo la morte. E ce l’abbiamo perché il nostro mondo morale si fonda su quelli che Kant definiva i postulati della ragion pratica: l’immortalità dell’anima, l’esistenza di Dio e il libero arbitrio.
La Commedia mette in scena questi stessi postulati: ci racconta che cosa accade dopo la morte ed è uno straordinario elogio del libero arbitrio, della piena responsabilità dell’uomo nella determinazione del proprio destino. E forse la leggiamo anche perché è un’opera scritta per cambiare la vita degli uomini: Dante ce lo dice in maniera molto chiara: il fine del poema è togliere i viventi dallo stato di infelicità in questa vita e di guidarli alla felicità. Non è arte per l’arte, è arte per la vita.
Quali dei temi affrontati da Dante lo rendono contemporaneo?
Il titolo del mio libro è provocatorio, in quanto nella prima parte spiego in realtà perché Dante a mio parere non è contemporaneo. Non lo è perché crede in tutta una serie di cose che non ci appartengono più: crede che la donna sia naturalmente inferiore all’uomo, che l’omosessualità sia un peccato, che la sete di conoscenza dell’uomo debba avere dei limiti. Per questo non ha senso la prospettiva di certi studi di genere secondo i quali Dante - proprio perché è Dante - avrebbe voluto rivoluzionare il modo di concepire il comportamento della donna.
Certo, Beatrice è il personaggio più importante della Commedia. Ma è anche una donna chiusa nel suo ruolo di genere. Cercare di separare Beatrice dal modo in cui Dante, come tutti gli uomini del suo tempo, concepiva i rapporti di genere, significa non comprendere che l’esaltazione della donna - che era già tipica della letteratura cortese - era possibile solo all’interno di quei ruoli. Dante non vuole rivoluzionare il modo di concepire i generi sessuali: vuole invece esaltare la virtù, l’umiltà e la bellezza di una donna la cui immagine tende a coincidere con quella della Vergine Maria. E in questo non c’è nulla di contemporaneo. Non ha senso tentare di avvicinare Dante alla nostra concezione dei rapporti tra i generi.
Ma in questa operazione di distanziamento non bisogna esagerare. Qualche tempo fa, a un incontro con degli insegnanti delle scuole superiori, mi è stato chiesto: “come si fa a spiegare agli studenti che l’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è una cosa completamente diversa da quello che si intende oggi?”. Ora, questa prospettiva è molto cauta, ma è giusta solo in parte. L’amore di cui parlano Dante e Cavalcanti è infatti lo stesso amore che intendiamo noi oggi. Lo è perché le nostre emozioni, le nostre sensazioni (il brivido che si prova davanti alla persona che si ama, il desiderio di possesso, la gelosia) sono esattamente le stesse che descrive Dante. Per questo, se si conosce un po’ di italiano antico e un po’ di storia e di filosofia del Medioevo (ed è la funzione della scuola: mettere tutti in condizione di poter leggere Dante), è così facile sentirsi coinvolti dal canto di Paolo e Francesca, che parla del momento in cui ci si innamora e dell’impossibilità di resistere al desiderio. Quello che è completamente diverso è il sistema di idee all’interno del quale Dante inserisce quella cosa che chiamiamo amore. Un sistema che condanna duramente Paolo e Francesca. Ed è questo sistema di idee che dobbiamo cercare di ricostruire noi oggi per capire Dante.
Quali soluzioni offre Dante per i mali del nostro tempo?
Dante non offre soluzioni per i mali del nostro tempo; e se a volte sembra offrirle - se qualcuno crede di poter trovare in Dante delle soluzioni - non sono soluzioni che ci piacciono. Pensiamo alle sue idee politiche, per esempio al suo modo per risolvere il problema della cupidigia. Siamo liberi di considerare Dante un predecessore delle critiche al capitale, all’accumulazione finanziaria, all’Europa delle banche. Ma quando lo facciamo dobbiamo sapere che la sua soluzione era concentrare tutto il potere e tutta la proprietà nelle mani di un imperatore assoluto che proprio perché possiede tutto non desidera nulla e mette in questo modo un freno ai desideri smodati di tutti gli altri governanti, portando così pace e serenità in tutto il mondo. Questa è una soluzione, la soluzione di Dante, ma credo che piacerebbe a pochi. Quello che deve interessarci è però che Dante aveva una soluzione per i mali del suo tempo. E ci interessa perché leggendo Dante veniamo a contatto con una idea di poesia e di letteratura che è abbastanza diversa da quella comune. Basta pensare all’ultimo Nobel per la letteratura, Bob Dylan, che quando gli è stato chiesto che cosa significano le sue canzoni ha risposto: «Non dipingetemi come un uomo con un messaggio [...] Tutto quel che posso sperare di fare è cantare quello che penso».
Dante la vede in maniera completamente diversa: lui è esattamente il contrario di Dylan, è un uomo con un messaggio. Anzi, un poeta con un messaggio. Un poeta che vuole cambiare la realtà, che vuole trasformarla, che ama, odia e si vendica dei nemici scrivendo la Commedia. Dante non canta solo per sé; Dante canta per gli altri.
Per spiegare questo aspetto uso a volte un testo di un cantautore calabrese contemporaneo, Brunori Sas, che si intitola Canzone contro la paura. All’inizio Brunori dà voce alla prima modalità, per capirci quella di Bob Dylan: «Canzoni che parlano d’amore / perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare? / Che se ti guardi intorno non c’è niente da cantare / solamente un grande vuoto che a guardarlo ti fa male / perciò sarò superficiale / ma in mezzo a questo dolore / tutto questo rancore / io canto solo per me». Poi la canzone si accende, cambia di tono (anche musicalmente) e Brunori dà spazio anche all’altra modalità (che per me è simile a quella di Dante) e immagina che cosa pensa un tu: «E invece no tu vuoi canzoni emozionanti, / che ti acchiappano alla gola senza tanti complimenti, / canzoni come sberle in faccia per costringerti a pensare / canzoni belle da restarci male». E poi ancora: «Canzoni che ti salvano la vita, / che ti fanno dire “no, cazzo, non è ancora finita!” / che ti danno la forza di ricominciare, / che ti tengono in piedi quando senti di crollare». Ora, è chiaro che sto giocando un po’ con le citazioni, perché ovviamente Brunori Sas non aveva in mente quello che ho in mente io. Però l’opposizione è la stessa: di solito pensiamo alla poesia come a qualcosa che parla d’amore, che parla di un vuoto che abbiamo dentro, di qualcosa che il poeta scrive soltanto per sé. Però ci sono anche poeti che scrivono per un pubblico che vuole delle cose diverse, che vuole poesie che salvano la vita, che danno la forza di ricominciare. Ecco, Dante appartiene a questa seconda categoria.
In cosa consiste la grandezza della Divina Commedia?
La grandezza della Commedia, come dicevo prima, sta nella lingua in cui è scritta (che è ancora la nostra lingua perché Dante è davvero, come abbiamo imparato a scuola, il padre della lingua italiana). La grandezza sta nel mondo possibile che Dante ha creato, un mondo nel quale tutto è fantastico (il viaggio di un uomo nell’aldilà, i suoi incontri con le anime, i diavoli, i mostri, gli angeli e alla fine la visione diretta di Dio) eppure tutto è straordinariamente reale, perché Dante è un poeta della realtà, che ci fa vedere le emozioni, la natura, che ci spiega la storia e le idee. E la grandezza sta anche nella sua idea di poesia, una poesia che cambia la realtà, che cambia gli uomini, che aiuta a vivere meglio.
Ma soprattutto, almeno per me, perché la Commedia è forse in assoluto l’opera letteraria nella quale è più esplicito quel meccanismo per il quale tutti noi tendiamo a riconoscere la nostra storia nelle storie che leggiamo cercando delle risposte, per trovare qualcosa che ci riguardi profondamente e che sia ancora vivo, attuale, presente. È un concetto che esprime benissimo Francesco Petrarca, quando racconta che leggendo le Confessioni di Agostino aveva l’impressione di leggere non la storia di altri «ma quella del suo proprio peregrinare». In Dante il meccanismo è più esplicito: quella che sta raccontando è la storia di un singolo uomo che vuole ritrovare sé stesso, che vuole superare il peccato e per farlo deve conoscere ciò che accade nell’aldilà. Ma è anche la storia dell’umanità intera. Dante aveva previsto che sarebbe scattato quel meccanismo di riconoscimento e scrive la Commedia sapendo che tutti i lettori futuri avrebbero ritrovato nel suo viaggio la storia del loro peregrinare, come dice Petrarca.
In una delle più belle poesie di Satura, Montale scrive: «Dicono che la mia / sia una poesia d’inappartenenza. / Ma s’era tua era di qualcuno». Montale risponde a una critica e per spiegare che la sua non è una poesia senza destinatario si rivolge a un tu, alla donna che ha amato, e le dice che proprio per aver parlato a lei la sua poesia appartiene a qualcuno, è una poesia che si spinge all’esterno, che non è ripiegata sull’interiorità del poeta. Ecco, Dante avrebbe potuto rispondere più o meno nello stesso modo - «Ma s’era tua era di qualcuno» - perché uno degli aspetti più straordinari della Commedia è che sia pensata per elogiare una donna che incarna la perfezione cui possono tendere tutti gli uomini e che questa donna occupi un posto centrale in Paradiso. La Commedia appartiene sicuramente a qualcuno perché appartiene a Beatrice. Ma avrebbe potuto rispondere anche in un altro modo, avrebbe potuto dire: «Ma s’era mia era di tutti». Perché la Commedia è la storia di Dante, ma è anche la storia di tutti noi.
* Fonte: Letture.org.
LA DOMANDA CAPOVOLTA: QUANDO "TUTTO SI ROVESCIA". La relazione figli-genitori.... *
Dare onore oltre ogni merito.
La relazione figli-genitori nell’insegnamento del Papa
di Marina Corradi (Avvenire, 20 settembre 2018)
Onora il padre e la madre. La parola del Quarto comandamento risuona da migliaia di anni, ma da altrettanto tempo generazioni di figli si sono domandate perché onorare quei genitori che magari li hanno abbandonati, o maltrattati, o fatti soffrire. “Onora il padre e la madre”, dice il Decalogo, come prescindendo dall’infelicità di certe famiglie di ieri come di oggi.
Onora tuo padre che non ti ha riconosciuto, che picchia tua madre, che se ne è andato? Un simile “onore” potrebbe apparire un’astratta, esteriore formalità. Ma questo onore, cos’è? Il Papa in Udienza ieri ha spiegato che il termine ebraico indica il «peso», la consistenza di una realtà. Non è questione di forme esteriori, ha aggiunto Francesco, «ma di verità». Cioè questo onore ha a che fare con il riconoscimento di un dato oggettivo. Tua madre e tuo padre ti hanno dato la vita.
A prescindere da cosa sia successo poi, l’«onore» che devi loro è legato a questa incontrovertibile verità. Il Quarto comandamento, ha spiegato papa Francesco, «Non parla della bontà dei genitori, non richiede che i padri e le madri siano perfetti. Parla di un atto dei figli, a prescindere dai meriti dei genitori, e dice una cosa straordinaria e liberante: anche se non tutti i genitori sono buoni e non tutte le infanzie sono serene, tutti i figli possono essere felici, perché il raggiungimento di una vita piena e felice dipende dalla giusta riconoscenza verso chi ci ha messo al mondo».
Perché quel comandamento si conclude con una parola ben nota, certo, ai religiosi e ai biblisti, meno alla gente comune e meno ancora ai ragazzi di oggi, una generazione che in ampie proporzioni viene ormai da famiglie divise e sofferenti. Onora il padre e la madre, dunque, si legge nel Deuteronomio, «perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà». Annota Francesco: «La parola “felicità” nel Decalogo compare solo legata alla relazione con i genitori».
Dieci comandamenti, ma, singolare, solo in uno si fa esplicito riferimento alla felicità. Quell’«onore» dovuto riguarda una riconoscenza per il fatto di essere stati dati alla luce, e ha poi a che fare, in ultimo, con la felicità. Anche qui, certo, molti figli potrebbero umanamente recriminare che la vita data, e poi da quei genitori ferita o abbandonata, non è così bella da meritare tanta gratitudine. Spesso chi ne è protagonista trascorre l’esistenza a domandarsi “perché”, perché a me questa famiglia, perché a me, questa infanzia. Ma è una domanda sbagliata.
La domanda giusta, ha detto il Papa, non è «perché» ma «per chi» mi è successo questo, e ha spiegato: «In vista di quale opera Dio mi ha forgiato attraverso la mia storia? Qui tutto si rovescia, tutto diventa prezioso, tutto diventa costruttivo». In questo sguardo rovesciato le ferite dei figli possono diventare luoghi fecondi dell’anima. I silenzi e le parole, le assenze, i litigi, tutto ciò che segretamente ha fatto male, e perfino gli abbandoni e le violenze: di tutto questo dovremmo non chiederci più «perché», ma «per chi».
A quale disegno si è stati chiamati dentro alla incapacità o alla fragilità dei padri. Perché l’infanzia, come ha ricordato Francesco, è scritta «con inchiostro indelebile». Non ci si chiede di dimenticare, ma di andare oltre: a cosa serviva la sofferenza attraversata, e a che cosa ci chiama la forma, il “cuore” che con esso ci è stato dato.
Dentro a questo sguardo la vita ricevuta è davvero un dono. Dentro a questo sguardo l’onore dovuto ai genitori è anche, ha concluso Francesco, «misericordiosa accoglienza dei loro limiti». (Quasi fossimo noi, ora, madri e padri pietosi, e loro i figli). Quanta libertà e speranza in questa prospettiva.
I cristiani di una certa età vengono da tempi in cui ai bambini al catechismo veniva detto spesso «Onora il padre e la madre», e basta, come dando per scontate famiglie unite e perfette, come non prevedendo le sofferenze e i torti che pure allora c’erano. Oggi, con tanti figli che fin da piccoli vedono la famiglia spezzarsi, e con questa il loro stesso mondo, la “seconda parte” del Quarto comandamento ricordata dal Papa è una parola fondante. Non c’è solo il rancore, la tristezza, la depressione come reazione a certe infanzie, e nemmeno solo le psicoterapie, che analizzano, sezionano i ricordi, ma alla fine non curano la memoria. C’è anche questa domanda inconsueta, capovolta, posta da Francesco. Non più «perché», ma «per chi».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA VITA, L’ETICA E LA VERITA’ E IL LORO FONDAMENTO NASCOSTO, L’AMORE (DEUS CHARITAS). Come un "padre" diventa "figlio del suo figlio" - e il figlio "padre del suo padre"
"DUE SOLI". Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
RIPENSARE COSTANTINO. LA LEZIONE DI DANTE (E DI KANTOROWICZ) .... *
Musica, architettura e cosmo: una rilettura di Castel del Monte
di Cesare Cavalleri (Avvenire, mercoledì 22 agosto 2018)
Tantissimi anni fa, cioè nel 1970, lessi Pietre che cantano, di Marius Schneider, spinto dall’entusiasmo di Elémire Zolla che aveva spiegato come Schneider, osservando i chiostri romanici di San Cugat, di Gerona e di Ripoll in Catalogna, aveva annotato le figure effigiate sui capitelli assegnando a ciascuna un valore musicale; quindi lesse come simboli di note le singole figure, basandosi sulle corrispondenze tramandate dalla tradizione indù, e scoprì infine che la serie corrispondeva alla esatta notazione degli inni gregoriani dedicati ai santi di quei chiostri. Abbagliante erudizione che non ho mai smesso di ammirare.
Con questo precedente, non potevo evitare di tuffarmi (siamo in estate) nel saggio di Giulia Ferraro, Simbologia di Castel del Monte. Rilettura di un’ipotesi sui rapporti tra musica e architettura, pubblicato nel più recente quaderno del Conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano, a cura di Massimo Venuti con Giovanni Acciai e Gabriele Manca (Edizioni ETS, pagine 228, euro 23,00).
Castel del Monte, che si erge solitario nel paesaggio collinare delle Murge, in territorio di Andria, è un enigma che da otto secoli affatica gli studiosi che finora sono riusciti soltanto a scalfirlo. Enigmatico quant’altri mai, del resto, è chi lo fece costruire, l’imperatore Federico II di Svevia (1194-1250), guerriero, astronomo, falconiere, politico antagonista del papato, protettore degli artisti da cui amava circondarsi. Enigmatica anche la destinazione del Castello, che non sembra di difesa né di delizie, con la sua pianta ottagonale e le otto torri angolari.
L’ipotesi che Giulia Ferraro intende rileggere è del musicologo Vasco Zara, autore nel 2000 del saggio L’intelletto armonico. Il linguaggio simbolico musicale nell’architettura di Castel del Monte. Zara collega le forti implicazioni astronomiche, matematiche e geometriche racchiuse nell’architettura del Castello, con le conoscenze musicali dell’epoca. In particolare, viene proposto l’antico accostamento tra pianeti e note musicali, «introducendo il concetto di “musica delle sfere”, per il quale il movimento di ciascun pianeta produce un preciso suono».
È un concetto di ascendenza platonica, che Dante riprenderà nel Canto XII del Paradiso. Zara, «dopo aver associato a ogni facciata interna del pianterreno del Castello un pianeta e del piano superiore una delle gerarchie angeliche, abbina a questi una nota musicale», secondo uno schema rinvenuto in alcuni fogli liberi di un manoscritto del XII secolo, contenente il De institutione musica di Boezio.
Il passaggio dal giro pagano dei pianeti al cielo abitato dalle gerarchie angeliche è scandito nella facciata nord-ovest del Castello dalla statua equestre di un cavaliere, peraltro semidistrutta: «L’immagine è quella di mediatore tra Cielo e Terra, adatta a un imperatore come Federico, autoincoronatosi, in una Gerusalemme da lui liberata, Re del Mondo contro il volere del Papa che l’aveva scomunicato, Re per grazia di Dio e non della Chiesa».
Dunque, l’architettura di Castel del Monte riprodurrebbe in forma plastica la musica delle sfere, la cui inudibilità è così spiegata da sant’Ambrogio in Exameron, II,7: «Alcuni dicono che il suono delle sfere non arriva fino alla terra, per la ragione che gli uomini, sia in Oriente che in Occidente, sedotti dalla soavità e dal fascino di quel suono originato dal movimento velocissimo dei cieli, trascurerebbero ogni dovere e attività e tutto quaggiù rimarrebbe ozioso, perché lo spirito umano sarebbe come portato in estasi da quelle musiche celesti».
Il Quaderno del Conservatorio intitolato “I volti della musica: allegoria, Spirito, realtà”, contiene, oltre allo studio di Giulia Ferraro, altri due saggi: Lutero e la riforma. Alle origini del Corale, di Ivana Valotti; Luigi Nono, al gran sole carico d’amore. La rivoluzione in musica, di Claudia Ferrari. Finché ci saranno studiosi che si dedicano ad approfondimenti come questi, il mondo non cadrà nell’insignificanza.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA "MONARCHIA" DI DANTE, IL GIUSTO AMORE, E IL VATICANO CON IL SUO TRADIZIONALE SOFISMA DELLA "FALLACIA ACCIDENTIS".
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. --- KANTOROWICZ, UN GRANDE LETTORE DI DANTE. Una nota
LA SOVRANITÀ, LA DIGNITÀ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA, E "I DUE CORPI DEL RE". La lezione di Kantorowicz.... L’ analisi di Barbara Spinelli (2006)
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
Il bene è una modesta proposta
di Paolo Morelli (nazione indiana, 17.03.2018)
“A un certo punto, nell’educazione di mio figlio, ho cominciato a sostituire i concetti di buono e cattivo con quelli di reale e irreale, per quanto ciò possa sembrare arbitrario”. Nei suoi ultimi libri Filippo La Porta pare prendere il via da considerazioni di carattere pedagogico assai personale. Ma se nel precedente, Indaffarati, l’indagine riguardava la gioventù odierna e i suoi problemi d’adattamento, qui il critico letterario torna alla grande letteratura e alle sue possibilità di interpretazione ed integrazione nel vissuto quotidiano. Sarà per questo intento iniziale forse, educatore ed autobiografico che la lettura di quello che è pur sempre un saggio dantesco si presenta confortevole, amicale, familiare, con tutta evidenza cosa assai rara.
La Commedia di Dante, dispiegata e spaginata quasi fosse un esercizio spirituale, cioè a dire una pratica personale destinata ad operare un mutamento di visione. Terreno impervio, vista da stratificazione quasi millenaria di pensose riletture e studi accademici sul poema, quella di guardare oggi al viaggio avventuroso nell’oltretomba come un percorso morale di perfezione, un rivolgimento, e alla portata di tutti. Lui il Sommo, così avverso alla modernità riletto come classico contemporaneo, non aggiungendo quindi l’ennesima dose di filologia dantesca bensì alla scoperta di un Dante etico che “possa aiutarci a ridefinire un’etica per il terzo millennio”. E con un suo mentore anche in questo caso, magari più di uno, ma certamente centrale appare la figura di Simone Weil e la sua affermazione che “è bene ciò che dà maggiore realtà agli esseri e alle cose, male ciò che gliela toglie”.
Ed è con la forza delle analogie e la disinvoltura di un appassionato e continuo processo d’induzione che l’autore si avvicina, pure lui “con esitante umiltà”, si appresta a smuovere il monumento per una buona causa, costeggiando o corteggiando l’arbitrario per scrollarsi di dosso il noto, il risaputo, per riaprirlo convinto, almeno pragmaticamente, del primato della morale sulla metafisica e l’idea di grandezza che inevitabilmente essa porta in sé.
Dalla lettura attenta del poema quindi si può ricavare un’idea di bene “come riconoscimento della realtà (...), del carattere inesauribile e diversificato del mondo”, mentre il male, qui sempre minuscolo, è “sottrazione di realtà” per se e per gli altri, è chiusura. È bene (e aggiungerei io, utile) accettare l’insensatezza, la carenza, la reale e realistica nostra debolezza di fronte all’esistere, il male morale nasce invece da una cattiva immaginazione, dall’illusione di una stabilità. Amare qualcuno è dargli realtà, scrive La Porta, e lo ripete nel libro quasi con effetto psicagogico, vale a dire lasciare essere l’altro quello che è, senza volerlo per forza cambiare, ritirarsi quando serve per far esistere l’altro giacché solo “ci si salva lasciando che il mondo esista”. Il corollario di questa intuizione weiliana con cui leggere la Commedia è che una mente sana è una mente non distratta, causa ed effetto al contempo di una speciale qualità di attenzione non solo per gli altri ma per se stessi, traverso la quale è possibile riconoscere che tutti gli eventi e le cose al mondo, noi compresi, sono invariabilmente collegati, intrecciati da nessi cangianti, e ciò che li collega può addirittura definirsi il ‘sacro’.
Quindi il fine della ricerca dantesca, e della nostra parimenti potrebbe essere la visione delle cose come sono, ma il mezzo, lo strumento non può che essere l’attenzione, una speciale qualità d’attenzione come atto intellettivo originario da cui scaturisce, quasi per forza, l’effetto di un amor proprio meno lòico (lo è il diavolo), calcolatore e più laico, cioè forte abbastanza da avere il senso del limite, da poter esercitare la mitezza, quella mitezza così spesso scambiata per debolezza.
Ma poi sul libro aleggia anche, a mio parere, l’urgenza, l’esigenza di una critica letteraria risvegliata dal pensiero etico. Il pensiero pigro, esausto, nichilista o post-moderno che dir si voglia della nostra attualità accetta che non vi sia alcuna verità intrinseca nell’opera d’arte, e che la valutazione si possa quindi limitare al gusto personale, più o meno ammantato da chiacchiere e distintivo. In realtà, e se vogliamo sognare una rifondazione di una necessità quotidiana, di una efficacia autentica, la verità di un’opera d’arte dovrà trovarsi nella maggiore approssimazione del bello al bene, nella kalokagathìa per dirla alla greca.
E questa non è solo una modesta proposta.
Nota:
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ ...
Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Per ben agire e ben comunicare (anche solo con se stessi o con stesse!), come insegna Dante, ci vogliono TRE SOLI (la cosiddetta - impropriamente - teoria dei "due soli")!!!
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA".
Federico La Sala
IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”.
LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI *
PURGATORIO DE L’INFERNO, 10. “Questo è il gatto con gli stivali”
Questo è il gatto con gli stivali, questa è la pace di Barcellona
fra Carlo V e Clemente VII, è la locomotiva, è il pesco
fiorito, è il cavalluccio marino: ma se volti pagina, Alessandro,
ci vedi il denaro:
questi sono i satelliti di Giove, questa è l’autostrada
del Sole, è la lavagna quadrettata, è il primo volume dei Poetae
Latini Aevi Carolini, sono le scarpe, sono le bugie, è la scuola di Atene, è il burro,
è una cartolina che mi è arrivata oggi dalla Finlandia, è il muscolo massetere,
è il parto: ma se volti foglio, Alessandro, ci vedi
il denaro:
e questo è il denaro,
e questi sono i generali con le loro mitragliatrici, e sono i cimiteri
con le loro tombe, e sono le casse di risparmio con le loro cassette
di sicurezza, e sono i libri di storia con le loro storie:
ma se volti il foglio, Alessandro, non ci vedi niente
Edoardo Sanguineti
* SI CFR. : KARL MARX E WALTER BENJAMIN - “PURGATORIO DE L’INFERNO”: IL DIO MAMMONA (“CARITAS”), IL DENARO, E “IL GATTO CON GLI STIVALI”. LA LEZIONE DI EDOARDO SANGUINETI
Federico La Sala
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
B
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Nel nome di Mosé
È un prete, vive in Svizzera e lo chiamano così. Ogni giorno divide le acque per i rifugiati. Salvando vite. E invitandoci a restare umani
Ascoltare parole e approfondire. Non lasciarle macinare dal vortice. Nella trama delle parole scelte c’è l’interpretazione del mondo stesso. Quando il vicepresidente della Camera ha usato la parola “taxi” riferita alle imbarcazioni che salvano vite, ha descritto con una parola che sa di comodità una situazione di disperazione.
Poi ha cercato di recuperare distinguendo tra «ong buone e ong cattive». E poi la frase di rito, facile da dire e facile da applaudire: «Che la magistratura faccia il suo corso», pietra tombale su ogni ragionamento. Lo scopo è stato raggiunto e le ong diventano “complici” di malviventi difficilmente identificabili (un capro espiatorio serve e da qualche parte va trovato). Le espressioni da cui vengono accompagnate ormai sono: «improvvisamente proliferate», «finanziate da chi ha interesse a destabilizzare l’Europa» e a usarle è chi sa che non sono proliferate all’improvviso e che sono altri i fattori che destabilizzano l’Europa. Ad esempio la crisi economica, che non è scaturita dall’arrivo di migranti. Ma quanto è più facile dire: state male perché siete invasi, piuttosto che: continuate a stare male perché il nuovo che avanza è uguale al vecchio. Dietro le polemiche sulle ong nessuna volontà di fare chiarezza, ma solo razzismo, quello acchiappavoti e quello di chi ha completamente abdicato al ragionamento.
Vi racconto la storia di un uomo che dal 2003 salva vite. È un prete cattolico di origini eritree che oggi vive in Svizzera. Si chiama Mussie Zerai: Mosé lo chiamano i migranti, perché in qualche modo divide le acque per far arrivare i naufraghi sulla terraferma. Nel 2003 Gabriele Del Grande gli chiese di tradurre le testimonianze di alcuni rifugiati eritrei che erano in un centro di detenzione in Libia dopo aver tentato di migrare verso l’Europa.
Padre Zerai rimase scioccato dalle storie dei suoi connazionali che gli raccontarono la vita in quella prigione, tanto che prese l’impegno di denunciare la situazione e lasciò il suo numero di cellulare ai prigionieri. Nei giorni che seguirono quell’incontro iniziò a ricevere telefonate da migranti che erano in mezzo al mare, che chiedevano aiuto. Come era possibile che chiamassero lui? Semplice. Qualcuno aveva inciso il suo numero su una parete del carcere in Libia con sotto scritto: «In caso di emergenza chiamate questo numero». Lo aveva letto una donna, che se l’era trascritto sulle mani e dalle mani lo aveva trascritto sui legni di un barcone durante il suo viaggio dalla Libia verso Lampedusa.
I migranti, in genere, scrivono il numero dei familiari sui vestiti, in modo che si sappia a chi restituire la salma in caso finisse male, lei invece aveva scritto il numero di Padre Mosé, perché fosse visibile in caso di emergenza. Da quel giorno il cellulare di Padre Zerai non ha più smesso di squillare. A chiamarlo sono indifferentemente cattolici, musulmani, ortodossi, a cui è stato detto che Padre Zerai è capace di far comparire una scialuppa di salvataggio in mezzo al mare. Succede questo: quando le cose si mettono male in mare, chiamano padre Mosé e lui cerca di organizzarne il salvataggio, comunicando alla Guardia Costiera italiana più informazioni possibili per andare a prestare soccorso. Secondo le autorità italiane il cellulare di Padre Zerai ha permesso di salvare finora almeno 5 mila vita umane.
E poi c’è Nawal Soufi, chiamata la vedetta del Mediterraneo. Nawal Soufi è nata in Marocco, vive a Catania ed è diventata un punto di riferimento per chi fugge verso l’Italia. «Tutti hanno il mio numero, ne ho salvati a migliaia», dice. Il suo contatto passa tra chi fugge dalla guerra tentando l’approdo sulle coste europee. I profughi l’hanno soprannominata Lady SOS perché la chiamano dai barconi in difficoltà per dare le loro coordinate prima di affondare. E lei lancia l’allarme telefonando alla Guardia Costiera con un cellulare vecchio di 10 anni «perché almeno la batteria dura 4 giorni e posso essere sempre reperibile». Presta gratis questo servizio da oltre due anni ed è stata anche denunciata per aver facilitato l’immigrazione illegale (per la Bossi-Fini la solidarietà è un crimine). Nawal è in Italia da quando aveva un mese, studia Scienze Politiche e parla perfettamente italiano, la sua storia l’ha raccontata Daniele Bella nel libro “Nawal, l’angelo dei profughi”.
Immagino Padre Zerai e Nawal Soufi chiedere al telefono: «Mi scusi, non sarà mica uno scafista, perché nel caso sa che le dico, potete pure morire tutti».
Saviano: “Mosè per me era un amico immaginario, un alleato, un supereroe”
di Gisella Ruccia *
“Non ho mai visto Mosè come una una severa figura, la più importante dell’ebraismo, ma l’ho visto quasi come un alleato, una di quelle figure a cui parlare come un amico immaginario“. Sono le parole di Roberto Saviano ai microfoni di “Sorgente di vita”, il programma di Rai Due curato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dedicato alla cultura ebraica.
Lo scrittore, che ha aperto quest’anno il Festival internazionale della letteratura e cultura ebraica di Roma, racconta il suo amore e la sua ammirazione per l’ebraismo. “La cultura ebraica non mi ha semplicemente attratto, ma formato” - afferma - “Gli scrittori ebrei mi hanno insegnato a non disperare, a cercare sempre una via d’uscita”.
E rivela: “I racconti biblici di mio nonno per me sono stati fondamentali. Quando ero bambino, Mosè era davvero un supereroe. Accanto a Batman, Superman, Spiderman, l’Uomo Tigre, c’era Mosè. Lui era il balbuziente che guida un intero popolo, sbaglia di continuo, viene punito sempre per il minimo errore”. Saviano aggiunge: “Ci penso spesso a Mosè e penso spesso a me bambino che guardava a Mosè come qualcuno che, anche se sbagliava, sapeva che poteva farcela e poteva farcela a trovare un senso alle cose”
di Gisella Ruccia
* The Huffington, 31 luglio 2013 (ripresa parziale - con video).
VIAGGIO NELL’ANIMA DELL’EUROPA
Marx cita Dante nella solenne Treviri, Roma del Nord
di Carlo Ossola (Il Sole--24 Ore, 7 maggio 2017)
L’appuntamento è a Coblenza: Harald Weinrich, il più raffinato e magnanimo dei comparatisti europei, vi arriva da Colonia; ci troviamo alla confluenza del Reno e della Mosella (il cuore d’Europa) e di lì risalgo con lui in battello attraverso i luoghi cantati da Ausonio, al declinare dell’impero romano; colline e vigneti, anse e borghi, campanili e vie ciclabili.
Parliamo di grandi maestri: Curtius, Lausberg, Gadamer, Blumenberg, ma anche della Germania d’oggi, non più bina, ma quadripartita nella sua storia: il Palatinato romano che stiamo attraversando, le città anseatiche al nord, la Baviera al sud, la grande Prussia di Berlino, che sta avanzando.
Treviri ci accoglie dopo qualche ora, nobile e imperiale: è l’Augusta Treverorum della quale già parla Tacito (Historiae, IV). Di Roma ha ancora vestigia imponenti: la Porta Nigra, l’anfiteatro, il ponte romano sulla Mosella, le Terme, nonché la Basilica palatina, poiché Costantino ebbe a risiedervi all’inizio del IV secolo, patrimonio Unesco dell’umanità, fiancheggiata dall’imponente Palazzo del principe Elettore.
È una Roma del Nord, raccolta e raffinata (basterebbe contemplare l’elegante rilievo di Amore e Psiche), capitale della Gallia belgica, e poi della Tetrarchia, con Milano, Sirmio [Sremska Mitrovica in Serbia] e Nicomedia; fiorente nel Medioevo con la sua Liebfrauenkirche. Come tutte le città di confine, fu nei secoli contesa; fu francese e prussiana, ma conserva la sua caratura romana: vi nacque sant’Ambrogio, e sant’Emidio, patrono di Ascoli Piceno.
Arieggia un profumo tutto italiano: anche il severo Karl Marx, nativo di Treviri, si concede spesso, nelle Lettere, formule che vengono dalla memoria mozartiana: il più volte ripetuto, in italiano, «tutti quanti» è distico del Don Giovanni, ch’egli volgerà al serioso: «È aperto a tutti quanti / Viva la libertà» (atto I, scena 22). Egli stesso, di origini ebraiche, si firmava nelle lettere a Jenny von Westphalen, la colta e coraggiosa moglie, «il tuo Moro», ricordo forse del Mercante di Venezia.
Giorgio Pressburger nel suo Orologio di Monaco (memoriale autobiografico, e anche film di Mauro Caputo, 2014), in uscita in questi giorni da Marsilio, dedica un capitolo al Marx di Treviri («Cercando Marx»), e al delicato passaggio sociale del padre Hirsch-Heinrich Marx dalla tradizione rabbinica a quella riformata, descritto in pagine meditanti e severe.
Ma la Treviri che rimane nella nostra memoria è nel manipolo delle lettere a Jenny, in particolare quella, scritta dall’ «Hôtel de Venise», del 15 dicembre 1863, ove trasmette alla moglie (a Londra) l’eco di quella sua «principessa incantata» che aveva affascinato tutta la città; o ancora quella (da Manchester) del 21 giugno 1856, a Jenny in Treviri, che si apre con «Cuore mio diletto» e fa sfoggio della citazione dei Tristia di Ovidio, e di ostentate dichiarazione d’amore: «Grandi passioni, che a causa della prossimità del loro oggetto d’amore prendono la forma di piccole abitudini, crescono e riprendono le loro dimensioni naturali, per l’azione magica della lontananza. [...] Il mio amore per te, da quando sei lontana, appare per ciò che è, come un gigante nel quale si concentra tutta l’energia del mio spirito e tutto il carattere del mio cuore». Formule che parrebbero enfatiche, ma che trovano struggente riscontro nel Breve schizzo di una vita movimentata che Jenny redasse, piena di ritegno, nel 1865, percorrendo le dolorose vicende di una vita sempre in fuga, rigata dalla malattia e dalla morte di molti dei figli, e insieme appassionata e lucida sul fervore del marito rivoluzionario e sulla fine dei moti europei del 1848.
Da un caffè dell’Hauptmarkt, piazza frastagliata e gioiosa di tetti e colori, ripenso al Marx di Treviri, a quanto di italiano ci sia anche nel Capitale, alla splendida citazione di Dante che chiude, nella nostra lingua, la «Prefazione» alla I edizione: «Segui il tuo corso e lascia dir le genti», all’altra «Prefazione» di Engels che apre il III libro del Capitale: «L’Italia è il paese della classicità. Dalla grande epoca in cui apparve sul suo orizzonte l’alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandiosi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi». Marx, il “Moro”, si specchiava in quei «grandiosi caratteri» della scena del mondo (mentre da noi Dante era tagliuzzato sul tavolo anatomico di una stenta laicità).
Si avvicinano ora i due centenari: per il bicentenario di Marx, nel 2018, la Cina ha forgiato un colosso di oltre sei metri da collocare nella città che gli ha dato i natali; sembra che l’amministrazione comunale sia d’accordo, molto meno i cittadini; forse varrebbe la pena di ricordare la sequenza iniziale, solenne e funebre, dello «Sguardo di Ulisse» di Theo Angelopoulos, 1995, con quell’immensa statua di Lenin che discende, sezionata e supina, il fiume della storia.
Ma anche per Dante, 2021, bisognerebbe evitare statue e mausolei, e invece leggerlo quotidianamente come misura costante dei nostri saperi, come faceva Marx, il quale per spiegare il rapporto tra merce e moneta, citava semplicemente, in italiano, il San Pietro del Paradiso: «[...] Assai bene è trascorsa / D’esta moneta già la lega e il peso / Ma dimmi se tu l’hai nella tua borsa» (Pd., XXIV, 83-85; e Il Capitale, I, 1: Merce e denaro).
Attraverso la piazza - pensando se davvero “ho nella borsa” il senso di Treviri - ed entro in san Gengolfo (chiesa non meno imponente di quella omonima di Bamberga), con il suo mirabile organo. Mi viene in mente che è di qui la leggenda musicale di Genoveffa (e del conte di Treviri, Sigfrido), da cui la «Genoinda», 1641, di Giulio Rospigliosi, poi papa Clemente IX (dal 1667 al 1669), anch’essa appassionata: «A chi ama davvero, / Sembra, Sifrido, anch’un momento, eterno» (I, 1). Entro e ci sono le prove di una composizione sacra dall’ampio organico: osservo la locandina, si tratta dell’oratorio «Amor Deus» di Heinz Martin Lonquich (Treviri, appunto, 1937-2014, padre del pianista Alexander Lonquich), il più importante compositore contemporaneo di musica sacra, vincitore della prestigiosa «Orlando di Lasso Medaille», come più tardi Arvo Pärt. Una coralità di timbri e di voci, di arcate del tempo, di umani aneliti, sale nella possente navata; comprendo che non c’è vera durata se non «raccoglie / svettante a tenda» (direbbe Paul Celan) le generazioni dell’uomo: qui nella magia di suono, di flussi storici, che è Trier, Treviri, Trèves.
Quest’ultimo è il nome francese della città e anche il cognome, toponimo, di una serie di famiglie ebraiche, i Treves, che hanno dato all’Italia, tra gli altri Piero Treves (1911-1992), il cui Demostene e la libertà greca, 1933, fu un esemplare modello di ricerca e una ferma testimonianza antifascista: «Nel tempio di Poseidone, a Calauria, Demostene ebbe nel veleno del suo stilo l’ultima arma di libertà. E, dopo aver combattuto in ogni sua ora per essere libero, volle, almeno, poiché viver da libero più non poteva, farsi libero nella morte».
Lascio la città a sera, saluto Harald Weinrich passando un’ultima volta dalla Römerstrasse (traccia ancora della romana via Agrippa), ov’erano i Westphalen, la famiglia di Jenny Marx: cimento di passioni, Treviri, perché non adempi, ancora una volta, «tutti quanti» i nostri sogni di giustizia?
Dante, “il padre Alighiero di Bellincione era un usuraio: la prova in due pergamene”
I documenti conservati nell’Archivio Diocesano di Lucca e pubblicati nella nuova edizione del ’Codice Diplomatico Dantesco’, attestano l’attività usuraia del padre del Sommo Poeta a un processo svoltosi a Firenze nel 1254
di F. Q. (Il Fatto Quotidiano, 1 febbraio 2017)
Seduto su una spiaggia incendiata, sotto una pioggia di fuoco: così Dante Alighieri avrebbe punito suo padre dopo la morte, almeno secondo quanto si legge nella Divina Commedia. Alighiero di Bellincione, padre del Sommo Poeta, “era infatti un piccolo e astuto usuraio, protagonista di continui maneggi di denaro”. Per questo sarebbe potuto finire nel terzo girone del settimo cerchio dell’Inferno dantesco, insieme a bestemmiatori e sodomiti. Chissà però se il figlio, quando scrisse il suo capolavoro, era a conoscenza dell’attività di Alighiero, testimoniata ora dai documenti pubblicati nella nuova edizione del ‘Codice Diplomatico Dantesco‘ (Salerno Editrice) curato da Teresa De Robertis, Giuliano Milani, Laura Regnicoli e Stefano Zamponi. Due pergamene conservate nell’Archivio Diocesano di Lucca che attestano la partecipazione del padre di Dante a un processo svoltosi a Firenze nel 1254 davanti al podestà, undici anni prima della nascita di suo figlio.
Anche quando si trovò a vestire i panni di procuratore giudiziale nel tribunale del podestà, Alighiero di Bellincione non esitò a rivelarsi, sotto mentite spoglie, uno speculatore finanziario, sfruttando le difficoltà economiche di un convento, il cui abate aveva fama di essere “dedito ai piaceri mondani e dissipatore di denaro”: è questa l’immagine del padre del Sommo Poeta che emerge dai nuovi documenti, che non solo confermano la sua attività usuraria, ma contribuiscono a precisarla, arricchendola di dettagli e sfumature. Il tribunale di Firenze, dove costantemente si affrontavano cause per debiti in udienze aperte al pubblico, rappresentava per gli usurai “un fertile bacino da cui attingere la clientela e con ogni probabilità era frequentato anche dal padre di Dante in cerca di affari”, ricostruisce Laura Regnicoli, docente dell’Università di Firenze.
“Niente vieta allora di pensare che Alighiero, presente nell’aula del podestà il 5 settembre 1254, abbia offerto il proprio aiuto all’abate Nicola, tanto carico di debiti quanto di proprietà con cui garantire i mutui - spiega la professoressa all’AdnKronos - Se questa ricostruzione è esatta, le pergamene lucchesi assumono il valore esemplare di un’attività svolta da Alighiero come usuraio, in forma più o meno continuativa. In cambio di opera e soldi il padre di Dante ottenne verosimilmente la proprietà dell’abbazia e forse, attuando una strategia finanziaria già di famiglia, la rivendette, convertendola in moneta sonante”.
Le carte d’archivio spiegano che la causa civile fu promossa da due fratelli di Semifonte, città che fu avversaria di Firenze, contro il monastero di San Salvatore di Fucecchio, allora sotto Lucca, e il padre di Dante intervenne come procuratore dell’abate Nicola.
La prima pergamena, ritrovata da Alberto Malvolti (che ne pubblicò un riassunto del contenuto nel 1987 sulla rivista “Erba d’Arno”) contiene la verbalizzazione delle udienze tenutesi tra il 5 settembre e il 5 novembre 1254. -L’altra è stata scoperta proprio da Laura Regnicoli e costituisce il presupposto giuridico dell’azione processuale di Alighiero, contenendo la procura a lui rilasciata dall’abate. Due nuove testimonianze contenute nel ‘Codice Diplomatico Dantesco’ che dimostrano l’attività usuraia del padre di Dante. Anche se il Sommo Poeta, nel suo viaggio con Virgilio attraverso l’Inferno, non racconta di averlo incontrato.
Pianeta Terra, 2015. Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi......
Papa Francesco: "Donna tentatrice è luogo comune"
Bergoglio: "Famiglie combattano la subordinazione dell’etica alla logica del profitto" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice", "invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio". Lo ha detto il Papa, dopo aver affermato che "la donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge".
"Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto", ha detto Bergoglio concludendo un ciclo di catechesi sulla famiglia. "Cristo è nato da una donna ha aggiunto il Papa di fronte a oltre 25mila fedeli in Piazza San Pietro - "e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto".
"La famiglia ci salva da tanti attacchi, distruzioni e colonizzazioni, come quella del denaro o quelle ideologiche che minacciano il mondo", ha detto Francesco, "la famiglia - ha affermato - è la base per difendersi" e contrastare quanti "dispongono di mezzi ingenti e di un appoggio mediatico enorme".
Secondo Bergoglio, "l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica" e dunque il nemico da combattere è "la subordinazione dell’etica alla logica del profitto". "In questo scenario - ha scandito - una nuova alleanza dell’uomo e della donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile! Essa decide l’abitabilità della terra, la trasmissione del sentimento della vita, i legami della memoria e della speranza". "La famiglia ci salva dalla colonizzazione del denaro", ha poi aggiunto.
"Di questa alleanza - ha continuato - la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ’nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sè stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo".
Incontro con l’autore Marcello Toninelli
«Il mio Dante a fumetti, la Commedia con ironia»
di Paolo Guiducci (Avvenire, 14 agosto 2015)
Per dieci anni ha condotto Zagor, il longevo “spirito con la scure” di casa Bonelli, sulle piste di ogni avventura nordamericana, si è cimentato con il giallo di Nick Raider e l’orrore quotidiano di Dylan Dog, scrive fumetti per ragazzi sulle pagine de “Il giornalino” e innumerevoli serie umoristiche. Ma il personaggio al quale più di ogni altro ha legato il suo nome è Dante, proprio il Sommo poeta, le cui cantiche della Commedia Marcello Toninelli - in arte Marcello - ha trasposto in un’edizione integrale a fumetti, in strisce, caratterizzate dalla notevole carica umoristica. «La Divina Commedia ha tutte le qualità per essere fatta, tradotta e divulgata in fumetti, comunicando suoi valori storici e morali, tipici per noi italiani»: ciò che Cesare Zavattini teorizzava già nel 1959, Marcello lo ha minuziosamente “tradotto” a disegni, portando demoni, frodi, inganni, violenze, grida e pianti di dannati e la bellezza paradisiaca di Beatrice sulle nuvole. Un’opera così ben congegnata che in un convegno a York due autori britannici han letto il saggio The underworld turned upside down: Marcello’s Divina Commedia senza che in sala nessun cattedratico si scandalizzasse.
Dante a fumetti non è stato un parto a tavolino, piuttosto il frutto di un incontro.
«Studente di ragioneria, mentre ascoltavo le lezioni della Commedia, mi inventavo battute su quel soggetto. Disegnare mi aiutava a non distrarmi e, data la mia inclinazione a vedere il lato umoristico delle cose, le battute mi sgorgavano naturalmente insieme agli schizzi».
In principio fu il Purgatorio. Virgilio e Dante passeggiando incontrano un tizio seduto, pensoso. Dante gli domanda: “Anima, chi sei?”. Poi al sacro furore politico e religioso che ha “guidato” i passi del poeta nell’Inferno, lei ha contrapposto la sua ironia dissacrante.
«In realtà Dante a fumetti può essere un aiuto a seguire meglio ambienti, personaggi e svolgimento del viaggio dantesco: da Caronte “trasportatore” sempre in ritardo, a Cesare “incallito” giocatore di dadi. E per chi lo ha già dimenticato o mai conosciuto, uno stimolo a riprendere in mano il testo».
A 750 anni dalla nascita di Dante, qual è l’attualità della Commedia?
«Nelle mie strisce l’attualità non manca, visto che il “gioco” narrativo-umoristico è quello di seguire passo passo l’opera originale, ma leggendola con gli occhi (e i riferimenti culturali) di oggi. Per il poema di Dante, credo che l’attualità sia duplice: da una parte, la Divina Commedia è un po’ una summa delle conoscenze culturali, letterarie, politiche e religiose dell’epoca, e dunque una “enciclopedia in terzine” del sapere milletrecentesco sempre utile; dall’altro, analizzando le sfumature e i moti dell’animo umano, da quelli più bestiali ai più altruistici e generosi, continua a parlarci del nostro essere uomini e donne anche a distanza di sette secoli».
Quanto pesa il ruolo di Roberto Benigni in una riscoperta “popolare” del capolavoro dantesco?
«Il comico toscano ha portato all’opera dell’Alighieri fasce di pubblico che forse mai si sarebbero fatte attirare dalle più “corrette” ma meno spettacolari letture di Sermonti. Detto questo, confesso che, dopo la lettura-spiegazione di qualche canto, ho cominciato a trovare un po’ stucchevoli le esaltazioni di ogni minima cosa: “Fantastico!”, “Bellissimo!”, “Sconvolgente!”... Qualche parte meno riuscita ci sarà anche nella Divina Commedia, no?»
Dopo Dante, ha proseguito con altri classici a fumetti: il “gioco” ha funzionato?
«L’idea non fu mia, ma dell’allora direttore del settimanale per ragazzi “Il giornalino”, don Tommaso Mastrandrea (don Tom), che aveva pubblicato il mio Dante. Visto il successo ottenuto dalla versione a strisce umoristiche de La Divina Commedia, mi chiese di continuare con altri grandi poemi: Iliade, Odissea, Eneide e Gerusalemme liberata. La sua convinzione era che fosse necessario far conoscere i classici della letteratura ai ragazzi, in forma di fumetto, sceneggiato televisivo o film, affinché non andassero perduti “pezzi” di cultura che non sempre a scuola vengono proposti... o studiati con la dovuta attenzione. Una riproposta in forma “intrattenitiva” consentiva che riferimenti culturali magari trascurati a scuola non andassero perduti. Basta pensare a concetti come “il tallone d’Achille” o “il cavallo di Troia”».
Ora si è rivolto a I promessi sposi, il primo romanzo italiano che esce a puntate sulla rivista “Fumo di china”. È più il terrore degli insegnanti o la coscienza degli ex studenti che sui banchi non hanno strizzato l’occhio a Manzoni?
«Gli insegnanti sono i primi a comprarsi i miei volumi, perché ci trovano un valido supporto per far passare meglio le opere che ai ragazzi rischiano di risultare se non indigeste, difficili. Certo, quando iniziai a fare la mia versione umoristica della Divina Commedia (ora in tre volumi cartonati editi da Cartoon Club Editore, ndr) mi rivolgevo idealmente, cercandone la complicità, agli studenti che si erano scontrati con le difficoltà del testo dantesco (non è un caso se uno dei tormentoni di maggior successo della mia trasposizione è quello relativo al «vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole»), ma dopo la pubblicazione su “Il giornalino” ho incontrato tanti giovani che dicono di essersi innamorati dell’Alighieri sulle mie strisce, scegliendo poi di farne il centro del loro percorso di studio. Anche “I promessi sposi” sono un bellissimo libro che pure io, lo confesso, ho scoperto più grazie a una lettura radiofonica che non ai capitoli studiati a scuola, e spero che la mia versione parodistica spinga più d’un lettore alla riscoperta dell’opera originale».
È riuscito ad esportare la sua versione della Commedia anche all’estero. Con quale accoglienza?
«Ottima. L’edizione norvegese dell’Inferno (voluta dalla traduttrice Bodil Moss), presentata a un concorso indetto dal locale Ministero della Cultura, è stata scelta tra centinaia di libri per essere distribuita gratis in tutte le biblioteche della Norvegia».
Erasmo per la dignità umana. Sfida a Lutero e Machiavelli
Carlo Ossola parla del suo saggio edito da Vita e Pensiero sull’eredità dell’umanista olandese
di Paolo Di Stefano (Corriere della Sera, 27.02.2015)
È la biografia stessa di Erasmo da Rotterdam, prima ancora della sua visione intellettuale, a farne l’incarnazione dello spirito europeo. Nato in Olanda tra il 1466 e il 1469, studente a Parigi, precettore a Londra, laureatosi dottore a Torino, ospite di Manuzio a Venezia dove perfeziona il suo greco, viaggiatore a Roma e nel Sud Italia, prima di tornare in Inghilterra presso l’amico Thomas More, poi insegnante a Cambridge e ancora in viaggio, questa volta verso Lovanio e infine a Basilea, dove morirà nel 1536.
Erasmo non ispira mezze misure: chi lo ama senza riserve e chi lo respinge con nettezza. In Erasmo nel notturno d’Europa (Vita e Pensiero, pp. 136, e 13), Carlo Ossola, che insegna al Collège de France Letterature moderne dell’Europa neolatina, ha seguito le eredità e le ragioni degli opposti sentimenti nati, nei secoli, dalla lettura di un pensatore che si scopre straordinariamente «contemporaneo». Lo fa mettendo a fuoco nodi storici finora poco indagati.
Professor Ossola, lei vede una doppia opposizione: Erasmo contro Machiavelli ed Erasmo contro Lutero. In cosa si distingue il pensiero erasmiano da quello dei suoi contemporanei?
«Il punto di rottura più grave, che deciderà della coscienza europea moderna, è la polemica con Lutero: da una parte il “libero arbitrio” (Erasmo) dall’altra il “servo arbitrio” (Lutero). L’elogio della libertà umana, di un operare nutrito da retta volontà e non soltanto dall’imperscrutabile dono della Grazia divina, è il fulcro di ogni filosofia e visione storica che creda nella dignitas hominis. La distanza da Machiavelli è relativa, soprattutto, alla visione del principe: per Machiavelli necessitato a “tenere” ad ogni costo lo Stato, per Erasmo un “accrescitore” del bene comune (concetto classico che sarà ripreso da Rabelais). Machiavelli, nondimeno, trarrà dagli Adagia di Erasmo la celebre formula del “pigliare la golpe e il lione”: per Machiavelli è necessario “sapere bene usare la bestia”, per Erasmo - come per Cicerone - l’uno e l’altro strumento paiono alieni dalla dignità umana».
La «funzione Erasmo» nella cultura europea ha vissuto parecchi momenti di oblio: a cosa si deve?
«Erasmo è stato poco amato da una parte non piccola del cattolicesimo romano per la sua pungente riprovazione dei costumi mondani della Chiesa e ancor meno gradito alla tradizione riformata per la sua “fedeltà critica” alla confessione cattolica. Erasmo stesso illustra la propria posizione nella diatriba contro Lutero: “Sopporto questa Chiesa, in attesa che divenga migliore, dal momento che anch’essa è costretta a sopportare me, in attesa che io divenga migliore”. Rimane luminosa la chiosa dello storico francese della letteratura Marcel Bataillon, se più abbia giovato “un Lutero che ha modificato la mappa del cattolicesimo settentrionale, introducendovi macule di religione di Stato, o un Erasmo che ha seminato, un po’ dappertutto, nel seno della cattolicità, la sollecitudine di sapere che cosa significa essere cristiani”. I secoli delle certezze esibite (Seicento e Ottocento soprattutto) l’hanno messo da parte, i secoli che hanno avuto bisogno di testimoni di libertà (in specie il XX) hanno trovato in lui un saldo modello».
Pierre de Nolhac ne fece un paladino cosmopolita della pace in un momento in cui l’Europa era dilaniata dalla guerra, un saggio e un credente privo di fanatismo in un mondo governato dalla follia. Anche in questa chiave si può leggere l’attualità di Erasmo?
«Coloro che hanno creduto nella libertà, contro i totalitarismi che li hanno perseguitati (penso soprattutto a Johan Huizinga e, in Italia, a Benedetto Croce e Tommaso Fiore) sono stati attivi paladini di Erasmo. Ed oggi nulla ha più unito l’Europa che gli scambi di percorsi universitari Erasmus: coscienza plurale delle tradizioni, degli studi, l’Europa come patria comune, il sapere della memoria quale patrimonio da raccogliere e far crescere. E anche: gusto dell’ironia, critica e autocritica, illustrata nell’esemplare dialogo di Voltaire, Luciano, Erasmo e Rabelais nei Campi Elisi, ove vengono raggiunti infine da Swift, in un apologo sorridente, contro ogni fanatismo, e pieno di utopia. E infine: elogio della pace, primato della pace, che Erasmo ha tessuto in celebri saggi».
C’è un tratto comune che ci conduce da François Rabelais allo storico olandese Huizinga e allo scrittore Stefan Zweig, per citare alcuni dei grandi difensori dell’eredità di Erasmo?
«È comune a tutti il primato della interiorità e della libertà di coscienza: per Rabelais essa è rappresentata dalla figura dei Sileni di Alcibiade (tratta dagli Adagia di Erasmo): “Dipinti all’esterno con figure allegre e scherzose, quali arpie, satiri, paperi imbrigliati” e all’interno gelosamente depositari di “ingredienti rari, come balsamo, ambra grigia, zibetto, pietre preziose”. Nell’immagine insomma ciò che è veramente essenziale ha dimora all’interno di ciascuno di noi. Nel Novecento, Huizinga ha difeso tale principio non solo nella sua biografia di Erasmo, ma soprattutto nella sua testimonianza, serena e ferma, contro il nazismo, dapprima in Homo ludens, e poi nella sua stessa vita: morirà prigioniero in un campo di “contenimento” nazista. Lo storico Lucien Febvre lo ricorderà commosso nella sua prefazione all’edizione francese dell’ Erasmo di Huizinga. Zweig non solo nel suo Erasmo, ma anche nel suo profilo che oppone Calvino a Sebastiano Castellione, è difensore strenuo della libertà umana contro ogni Incipit Hitler. Morirà tragicamente in Brasile, Zweig, ma non senza aver ricordato per Erasmo e per sé un dovere e un lascito: “Conviene morire libero come ho vissuto! (...) Libero come tutti i solitari, solitario come tutti i liberi”».
Nella postfazione, lei si sofferma sulla sfortuna italiana di Erasmo nel Novecento, che ha il suo fulcro nell’ipoteca «politica» di Delio Cantimori. Una condanna che nasce sotto il segno dell’Einaudi. Come si spiega?
«Cantimori è il celebre autore di Eretici italiani del Cinquecento (1939), saggio sul quale si sono formate generazioni di studiosi del dissenso religioso in Italia lungo il XVI secolo. In questa sua prospettiva, egli scrive, “l’interesse per la personalità di Erasmo e per le sue opere rappresenta solo un episodio della storia culturale e spirituale italiana”. Più critico nei confronti degli interpreti “liberali” di Erasmo (in specie Huizinga), egli non mancherà di ribadire queste posizioni anche dopo la Seconda guerra mondiale. Nella mia Postfazione ripercorro le sue prese di posizione (contro Adorno, contro Braudel, e persino contro la traduzione di Musil) documentate ampiamente nei Verbali einaudiani; avversioni che, dal campo opposto e con pari e acritica adesione, già emergono dal volume, curato da Luisa Mangoni, che raccoglie gli scritti politici di Cantimori (1927-1942), nel periodo del suo attivo consenso al fascismo. L’opposizione a Minima moralia di Adorno è tale che il Consiglio Einaudi decide di affidare, in seconda lettura, il libro - difeso da Renato Solmi e da Massimo Mila - a Norberto Bobbio. I due libri saranno, naturalmente, entrambi pubblicati da Einaudi. Le posizioni politiche di Cantimori sono state molto dibattute e chiarite, con definitive ragioni storiche, dal lucido bilancio critico che Luciano Canfora ha pubblicato sul “Corriere della Sera” circa il carteggio tra Cantimori e Gastone Manacorda. Liberi da ipoteche, si può oggi riprendere un cammino erasmiano per l’Europa nei termini che Lucio Villari propone ripubblicando Lo scempio del mondo di Huizinga. Nel definirlo uno storico del futuro, egli conclude: “Così, mentre in Italia si combatteva, in mesi di angoscia e di disperazione, una guerra di armi e di ideologie, il libro di Huizinga riemergeva come un segno di pace e di civiltà”».
Erasmo, un Sileno per l’Europa
Il ritratto di Carlo Ossola del grande uomo del Rinascimento, maestro di saggezza e di equilibio nel secolo dei conflitti religiosi
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.02.2015)
Frutto di un corso tenuto al Collège de France nel 2012-13 e pubblicato nel 2014 in francese, il saggio di Carlo Ossola - illustre collaboratore di questo supplemento - offre una rivisitazione di alcuni nodi del pensiero erasmiano nel solco della riflessione che sul grande umanista fiammingo si svolse nel «notturno d’Europa», e cioè nel cupo entre-deux-guerre dominato dai totalitarismi nazi-fascisti.
Non una sintesi del pensiero erasmiano, e tantomeno una biografia, ma pensieri e suggestioni su Erasmo e i suoi rapporti con altri grandi protagonisti dell’età sua: Lutero, Rabelais, Machiavelli. Pochi anni, per esempio, separano il Principe (1513) dall’Institutio principis christiani (1516), ma un vero e proprio abisso separa la spregiudicata teorizzazione politica del primo dall’umanesimo cristiano del secondo, anche perché l’uno scriveva nell’Italia «più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa», e l’altro per Carlo V d’Asburgo che si accingeva a cingere la corona imperiale e diventare signore di mezzo mondo.
Eppure molto probabilmente fu dagli Adagia del grande umanista fiammingo, la celebre antologia di detti e proverbi degli antichi, che Machiavelli desunse l’immagine della «golpe» e del «lione» quali metafora della forza e dell’astuzia che i detentori del potere devono imparare a usare e dosare, senza farsi troppi scrupoli sulla loro liceità. Ma anche riflessioni e suggestioni sulla eredità di Erasmo, sugli usi (e talora abusi) tra Cinquecento e Ottocento del suo immenso lascito intellettuale e, non senza vivaci spunti polemici, sulla storiografia novecentesca.
Scritte in punta di penna, attraversando con elegante disinvoltura secoli e frontiere della cultura europea, le pagine di Ossola sono tutt’altro che neutrali nel presentare un Erasmo non solo maestro inarrivabile di sapere, di erudizione, di moralità desunta da una tradizione classica profondamente introiettata, ma anche maestro di equilibrio, di saggezza, di moderazione, di «riservatezza, sobrietà, armonia» (p. 14) di fronte alle drammatiche fratture religiose che si stavano aprendo sotto i suoi occhi e che in un breve volgere di anni avrebbero diviso la res publica christiana (l’universo cosmopolita nel quale egli si muoveva a proprio agio) e innescato guerre, controversie, conflitti destinati a durare per secoli all’insegna del fanatismo e dell’odio teologico.
Invano nel 1533, tre anni prima di morire, egli avrebbe scritto il De amabili Ecclesiae concordia, un accorato appello all’unità dei cristiani, nonostante in passato egli fosse stato il critico più severo dei frati accidiosi e corrotti, dei prelati di curia insensibili a ogni istanza riformatrice, dei pontefici impegnati a combattere con le armi in pugno invece che a predicare il vangelo, di un cattolicesimo superstizioso fatto di gesti ripetitivi e pratiche simoniache.
Ma al tempo stesso non aveva mancato di rinfacciare a Martin Lutero gli sconquassi che stava causando e di attaccarlo sulla questione del libero arbitrio in cui a suo avviso si radicavano la dignità e responsabilità morale della natura umana. Fu lo stesso riformatore sassone, nelle sue rabbiose risposte, a dargli atto di aver affrontato una questione ben più significativa di quelle dei tanti controversisti cattolici che insistevano su temi secondari e a riconoscere che solo Erasmo era stato «il lupo capace di morderlo alla gola».
Erede di una tradizione che proprio al Collège de France ha avuto predecessori illustri come Augustin Renaudet, autore tra l’altro di un Erasme et l’Italie, e Marcel Bataillon, cui si deve quell’Erasme et l’Espagne ormai diventato un classico della storiografia, ma anche di Pierre de Nolhac, di Johan Huizinga, di Stephan Zweig, Ossola addita in Erasmo un grande maestro della cultura occidentale e della moderna identità europea proprio nella misura in cui nell’età sua egli fu sconfitto, aspramente attaccato e talora deriso dai protestanti come un traditore del vangelo e un infingardo opportunista, ma anche condannato senza appello e messo all’Indice dall’ortodossia romana. Per questo lo affianca spesso ad altre figure d’eccezione, come il suo amico Tommaso Moro (evocato anche nel titolo dell’Elogio della pazzia, in latino Moriae encomium) o Michel de Montaigne.
Ne scaturisce il profilo di «un Rinascimento critico che li pone al di sopra della querelle della Riforma» (p. 11), di «un Cinquecento che non si lasciò irretire dalle contese religiose, che tolse all’eredità classica i paludamenti aulici e alla tradizione patristica i tratti apologetici per andare a fondo nell’esame della condizione umana» (p. 13), nutrito della consapevolezza che la verità si manifesta «in progresso di tempo, vive nella e attraverso la storia» (p. 22) e si basa sulla filologia, la discussione libera e franca, il rispetto reciproco, il «rovesciamento costante della doxa nel paradosso» (p. 47), e non su incontrovertibili certezze dogmatiche e ottusa intolleranza. Per questo Erasmo piacerà a Voltaire, impegnato nella strenua battaglia contro l’infâme delle conversioni forzate e delle persecuzioni religiose.
È un’immagine classica di Erasmo, non a caso affermatasi soprattutto negli anni più cupi della storia dell’Europa novecentesca, quando all’autore del Lamento della pace e del Dolce è la guerra a chi non la conosce si poteva guardare come a un faro della civiltà che rischiava di essere travolta da brutali tirannie e aberranti ideologie destinate inevitabilmente a precipitare in guerre atroci e devastanti.
Ma ad essa occorre affiancare anche un’altra immagine, quella cui rinvia uno degli emblemi di Erasmo, i Sileni, le mitiche divinità silvestri che nascondevano sotto sembianze grottesche tesori di saggezza, riprodotte nell’antichità in piccole raffigurazioni scultoree che potevano essere aperte per scoprire al loro interno immagini divine. Una sorta di metafora della doppiezza, del segreto, dell’andare oltre la scorza delle cose per indagare verità più profonde, e perciò stesso più inquietanti ed eversive, da trasmettere e divulgare con cauta prudenza.
Lo stesso Cristo - scriveva Erasmo - era stato uno «straordinario Sileno» (p. 33). Sotto la silenica maschera erasmiana fatta di moderazione ed equilibrio, infatti, si cela anche un pensatore radicale, che nel condannare le astiose controversie teologiche insinuava il dubbio che le certezze religiose per cui si combatteva e si ammazzava alla fin fine fossero di scarsa rilevanza e poco avessero a che fare con il vangelo di Gesù Cristo. Lasciava intendere insomma che il fondamento della fede risiede solo e soltanto nella coscienza del credente e che la sua autenticità si misura sull’amore del prossimo e non sull’obbedienza a un codice immutabile di verità dottrinali e alle gerarchie ecclesiastiche che nei diversi contesti si attribuiscono il diritto di esserne gli unici e supremi custodi.
Cultura islamica di padre Dante
di Carlo Ossola (Il Sole-24 - Domenica, 14.12.2014)
«Hic incipit liber qui arabice vocatur Halmahereig, quod latine interpretatur: "in altum ascendere". Hunc autem librum fecit Machometus et imposuit ei hoc nomen» («Qui comincia il libro che in arabo si intitola Halmahereig, che in latino significa: "salire in alto". Maometto lo compose, e gli diede tale nome»). Ben prima che Enrico Cerulli pubblicasse, nel 1949, il Libro della scala. La questione delle fonti arabo-spagnole della Divina Commedia, un grande studioso spagnolo, Miguel Asín Palacios (Saragozza, 5 luglio 1871 - San Sebastián, 12 agosto 1944) aveva posto, con una erudita e vastissima messe di allegazioni, il problema dei contatti tra la struttura della visione di Dante e le tradizioni dell’ascensione o mi’ra-’g’ di Maometto nei regni dell’oltretomba.
Il suo saggio La escatología musulmana en la Divina Comedia, pubblicato nel 1919, suscitò polemiche enormi; non si riconosceva più, nell’autore, il sacerdote pieno di dottrina che aveva edito l’Averroísmo teológico en Santo Tomás de Aquino (1904), bensì un avventuroso e incauto assertore di contatti immaginari, e proprio alla vigilia del VI centenario della morte di Dante (1921).
Naturalmente il libro non venne tradotto in italiano, ma trovò un recensore attento nel grande arabista francese Louis Massignon, che gli consacrò, nello stesso 1919, un lungo saggio ora ripreso, da Andrea Celli, nel prezioso volume dello stesso Massignon, Il soffio dell’Islam. La mistica araba e la letteratura occidentale (Medusa, 2008).
Asín conosceva i resoconti del viaggio di Ricoldo da Montecroce, ma morì prima di aver potuto vedere l’edizione del Liber de scala, che certo avrebbe portato ben altri suffragi alle sue tesi (esso è ora edito da Anna Longoni, Rizzoli-Bur, 2013).
Nei cinquant’anni dalla morte di Asín Palacios proposi all’editore Pratiche di pubblicare il volume (nell’ottima traduzione di Roberto Rossi Testa e Younis Tawfik) e da allora il libro si è ristampato, sino alla presente edizione, nella quale propongo il bilancio di ulteriori vent’anni di indagini. Dalle parallele ricerche di Maria Corti, e poi di più giovani studiosi - da Andrea Celli a Luciano Gargan -, è apparsa evidente l’ampia circolazione occidentale del Liber de scala, sino alla menzione di una copia del Liber de scala nell’inventario della biblioteca di un domenicano bolognese ai tempi di Dante.
Ora non si tratta né di attingere a tipologie intemporali che riunifichino i culti, come fece Frazer, e neppure di voler immaginare filiazioni dirette, bensì - ben vide Maria Corti - ritrovare costellazioni di testi e di senso che circolarono con libertà e influenze reciproche nel Mediterraneo della fine del Medioevo (Mediterraneo oggi irriconoscibile, per fratture e reciproca ignoranza, rispetto alla sua storia plurimillenaria).
Si tratta, ancor più, di sceverare ciò che è della "memoria collettiva" di tutte le tradizioni semitiche (ad esempio, il capitolo XXXIII che «parla del Paradiso in cui fu creato Adamo, e dei fiumi che in esso si trovano») da ciò che è più tipico di una tradizione araba che si innerverà in Occidente («Il XXVI capitolo parla di come Dio fece molteplici mondi e creature di molteplici specie»), e dai luoghi che possono aver suscitato l’attenzione di Dante e che ho ampiamente esaminato nell’"Introduzione".
Oggi, nel ripubblicare il volume, occorre riconoscere la funzione storica che il saggio ebbe, e rendere onore a Miguel Asín Palacios, probo e coraggioso nel l’aprire un problema storiografico, che non è spento. I libri servono a suscitare ricerche: e mi auguro che questa edizione, prima che nuovi giudizi, riapra le porte dell’inchiesta storica, sì che rientri il vento delle generazioni che corsero le acque e le terre, come vide Julio Cortázar per la parabola di Marco Polo: «Con il mio nome / ho gettato sulle porte la pergamena aperta» (Marco Polo ricorda).
Quando il Papa disse
“Riabilitiamo Dante è il sommo poeta cattolico”
In un’enciclica del 1921, Benedetto XV rivendicava la fede della “Commedia”, nonostante le dure critiche alla Chiesa. Anticipando alcune aperture di Bergoglio
Oggi alle 11 alla Casa di Dante (Roma)viene presentata la Comedia di Dante con figure dipinte della Casa di Dante (editrice Salerno)
Presente Gianfranco Ravasi
Domani alle 11 Lectio Dantis e conferenza di Massimo Cacciari
di Lucio Villari (la Repubblica, 08.11.2014)
IL 30 aprile 1921, in un dopoguerra di inquietudini, fu resa nota agli italiani una enciclica dal contenuto inatteso. Era dedicata a un poeta ed era firmata da Benedetto XV, un pontefice di grande intelligenza politica (aveva denunciato «l’inutile strage» della Prima guerra mondiale). Il poeta era Dante, che, dopo secoli di dissenso, la Chiesa intendeva riabilitare. L’enciclica In praeclara summorum è un inedito omaggio alla religiosità cattolica di Dante, ma con allusioni precise alla forza intellettuale della critica dantesca ai poteri della Chiesa, la volontà di potenza dei papi, del clero corrotto.
Era una riappropriazione, forse sperata da tempo in qualche segmento del cattolicesimo, ma rinviata dopo la piena rivendicazione dell’opera teorica e della poesia di Dante, vettori di libertà e verità per la “nazione” italiana, da parte della cultura liberale e democratica e di tutte le strutture ideali del Risorgimento. La nuova libertà d’Italia era modellata anche sul rifiuto di Dante dei tanti poteri fraudolenti della Chiesa, temporale e non.
Benedetto XV non sapeva che otto anni dopo, nel 1929, il suo successore avrebbe firmato cinicamente con lo Stato fascista un patto illiberale. Ma da uomo di cultura Benedetto XV - che per qualche aspetto pare precorrere le aperture di papa Francesco - aveva intuito che un eventuale superamento di quel dissidio non poteva non passare attraverso un dialogo con Dante.
Il papa parla di un uomo che crede in Dio e in una Chiesa degna del suo ruolo universale, ma che apre un varco alla critica storica della Chiesa. Dante lascia nel canto XI del Paradiso il più grande elogio della povertà e della “mirabil vita” di san Francesco e nel XXVII la più veemente invettiva di san Pietro contro le degenerazioni della Chiesa e della figura stessa del papa.
L’enciclica non poteva ignorare tutto questo, ma il testo rivela una certa sofferenza di composizione. “Oltre” l’ideologia c’è, secondo il pontefice, nel solo valore estetico della poesia di Dante il varco aperto verso la dottrina cattolica: «Mentre non è scarso il numero dei grandi poeti cattolici che uniscono l’utile al dilettevole, in Dante è singolare il fatto che, affascinando il lettore con la varietà delle immagini, con la vivezza dei colori, con la grandiosità delle espressioni e dei pensieri, lo trascina all’amore della cristiana sapienza. [...]. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra, e certamente è assai più moderno di certi vati recenti».
In questo tentativo vi erano delle intenzioni precise. Le parole dell’enciclica riguardavano proprio il clima filosofico e politico italiano di quegli anni, contrassegnati non solo dal superstite Modernismo ma dalla sempre più incisiva presenza del pensiero di Benedetto Croce e della progressiva laicizzazione della pubblica istruzione. Il confronto culturale tra la cultura cattolica e quella liberale e laica stava dunque per divenire una sfida ai più alti livelli. Dante poteva perciò essere una prima trincea della dottrina cristiana posta sul terreno fino a quel momento occupato da un Dante laico e risorgimentale.
Bisognava fare della Divina Commedia una testimonianza di fede. Di qui l’affondo operativo: «Poiché sebbene in qualche luogo il “poema sacro” non sia tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri che devono essere più studiati, esso però non suole recare ai giovani quel vitale nutrimento che è destinato a produrre, in quanto essi, per l’indirizzo difettoso degli studi, non sono disposti verso la verità della fede come sarebbe necessario».
Pochi mesi prima della pubblicazione dell’enciclica, nel settembre 1920, Croce dava alle stampe La poesia di Dante. Questo saggio sarà per anni al centro di ampie discussioni critiche, ma quel che contava in quel momento per la Chiesa è che Croce era ministro della Pubblica istruzione e che il metodo crociano apriva prospettive pedagogiche molto diverse da quelle sperate da Benedetto XV. Le istruzioni alla lettura di Dante del ministro Croce erano nette.
L’enciclica avrebbe dovuto essere una prima, immediata risposta a queste istruzioni? C’è da pensarlo. Soprattutto leggendo questo passaggio: «La sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di divina, pur nelle varie finzioni simboliche e nei ricordi della vita dei mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio». Al contrario di quanto si possa immaginare, questo discorso così problematico intorno a Dante è ancora aperto, nella ricerca storica ed estetica e in quella teologica. L’umano e il divino dantesco si fronteggiano sempre e attendono risposte rinnovate.
Strane nascite
di Piero Stefani (22.12.2013) *
Matteo e Luca nei loro «vangeli dell’infanzia» (i soli che parlano dell’evento) descrivono la nascita di Gesù come un parto verginale. Tra tutti gli aspetti narrativi collegati all’immaginario natalizio, questo è, senza dubbio, quello meno tenuto presente. La ragione è semplice: il tema della verginità feconda emerge in primo piano nelle feste mariane, mentre a Natale il centro è occupato da Gesù. Tutte le altre, anche le più prossime, sono figure di contorno. Di presepi ce ne sono stati tanti e di molti tipi, ma nessuno tra essi evoca una scena di parto. Il bambinello viene messo tra la paglia dall’esterno, come se venisse da fuori. Nella storia dell’iconografia molti sono i ritratti di Maria che allatta ma nessuno di essi - salvo smentite - è collocato in un presepe. Nella stalla la madre è presentata la prima tra gli adoranti. Vale a dire, è caratterizzata da un atteggiamento che ogni fedele può assumere in proprio. Tra i gesti paraliturgici della notte di Natale vi è quello di baciare un neonato che «scende dalle stelle» isolandolo dai suoi genitori.
Secondo un antico detto, l’apparenza inganna. Si è fatta molta fatica per cercare di comprendere la difficile frase secondo la quale Giuseppe, una volta scoperta la gravidanza della sua promessa sposa, «poiché era uomo giusto» non volle accusarla pubblicamente e pensò perciò di ripudiarla in segreto (Mt 1,19). Che senso di giustizia vi è mai in ciò? Una risposta sta proprio nel rifiuto di Giuseppe di prendere quanto appare per quel che è. Quando non si sa decifrare un avvenimento, la persona giusta, in luogo di condannare, sospende il giudizio: «non giudicate per non esser giudicati» (Mt 7,1).
In base a un modello biblico, il vangelo di Matteo inizia con una genealogia (Mt 1,1-17). Essa riguarda «Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo». Nella genealogia compaiono anche quattro donne - Tamar (Gen 38), Rachab (Gs 2), Rut (Rt 3-4) e la moglie di Uria (Betsabea, 2Sam 11,1-12,24) - le cui maternità furono contraddistinte da tratti «irregolari». Tuttavia, nonostante le apparenze, queste nascite furono tutte conformi alla giustizia di Dio; esse anticipano quanto sarebbe avvenuto in Maria e interagiscono con l’anomalia di una genealogia che termina in Giuseppe che pur non è presentato come padre naturale di Gesù.
Tra i quattro casi il più fruttuoso, in riferimento a Giuseppe, è quello relativo a Tamar e a Giuda (il capostipite della tribù a cui appartenne lo sposo di Maria). Giuda, dopo aver violato la legge che lo obbligava a far sposare un suo figlio con la propria nuora rimasta vedova, ha rapporti sessuali con Tamar, da lui non riconosciuta perché travestitasi da prostituta. Quando la nuora rimane incinta il suocero esige l’applicazione della pena capitale prevista per le adultere. Tamar gli fornisce però le prove inconfutabili della sua paternità; allora il suocero esclama: «Lei è più giusta di me» (Gen 38,26). Sotto la maschera di un rapporto sessuale con una prostituta si annida un’opera di giustizia. Giuda giudicò secondo le apparenze, non così il giusto suo discendente Giuseppe.
Se ci si limitasse alle apparenze cosa mai sarebbe il Natale? La nascita di un povero bimbo di duemila anni fa venuto al mondo in una stalla. La fede non nega che sia così, ma nel contempo ci fa pure andar oltre. Anche tenendo conto di tutte le differenze del caso, qualcosa di simile vale pure per i rapporti interumani.
Nel mondo dominato dalle immagini e quindi dall’apparire, il giusto Giuseppe ci invita, da un lato, a non giudicare in base a quanto appare in superficie e, dall’altro, ad essere aperti a credere che persino quella che ai nostri occhi sembra una colpa può essere un luogo dove opera Dio.
Giulio Cesare, il pontefice ateo
Seguace di Epicuro, fu eletto alla massima carica religiosa
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 25.09.2012)
Nell’anno 63 a.C. Giulio Cesare, non ancora quarantenne, grazie ad una campagna elettorale costosissima che rischiò di portarlo definitivamente alla rovina, riuscì a farsi eleggere pontefice massimo, la più alta carica religiosa dello Stato romano. Lo scontro elettorale era stato durissimo; il suo principale antagonista Quinto Lutazio Catulo aveva messo in atto la più pervasiva corruzione elettorale fondata sulla capillare compravendita del voto. Cesare rispose con la stessa arma. Il «mercato politico» - come ancora oggi elegantemente lo si chiama - raggiunse in quell’occasione una delle sue vette.
Cesare dovette indebitarsi a tal punto per far fronte ai costi di una tale oscena campagna elettorale da lasciarsi andare, parlando con la madre, alla celebre uscita: «Oggi mi vedrai tornare o pontefice massimo o esule». È Plutarco, al solito egregiamente informato su tutto quell’aspetto del reale che la storia «alta» trascura, a darci la notizia e a chiosarla con una interessante considerazione: con tale vittoria inattesa, e contro un avversario così forte e così autorevole, Cesare «intimidì gli ottimati, i quali capirono che avrebbe potuto indurre il popolo a qualunque audacia» (Vita di Cesare, 7).
Subito dopo esplode la congiura di Catilina. Cesare, che è pretore designato (entrerà in carica nel gennaio 62), è lambito dalla congiura. Ed in Senato, di fronte alla pressione fortissima di chi (come Cicerone e Catone) propugna l’esecuzione capitale dei congiurati, ormai scoperti e arrestati, Cesare sceglie di motivare, con argomenti tratti dalla filosofia di Epicuro, la proposta di lasciarli in vita. Con l’argomento che, se l’anima è mortale, la pena di morte è più lieve di una lunga detenzione!
Sappiamo quanto si sia speculato da parte dei contemporanei, e poi degli studiosi moderni, intorno alla implicazione o meno di Cesare nella congiura. Cicerone - e non lui soltanto - era convinto che Cesare fosse compromesso: ma non ritenne di affermarlo apertamente, se non quando il dittatore era morto. Certo, la vittoria elettorale che consentì a Cesare di assumere il pontificato massimo venne al momento opportuno e rivestì lo stesso Cesare di una nuova sacralità protettiva, quanto mai giovevole in quel momento.
Essere implicati in un’iniziativa eversiva segreta si può in molti modi, che vanno dalla diretta partecipazione alla semplice, passiva consapevolezza del progetto. Cesare non era così imprudente da porsi in una posizione tale da divenire ricattabile, una volta fallito il piano, da compagni imprudenti o sfortunati. Cercò però di salvarli parlando in Senato nel modo in cui Sallustio, suo seguace, lo fa parlare, scomparsi ormai tutti i protagonisti della vicenda.
Decimo Silano aveva proposto la pena capitale e la proposta incontrava largo consenso. Cesare interviene per capovolgere una situazione difficilissima e si sforza di presentare la pena di morte come troppo lieve, con l’argomento che - nella sventura - «la morte non è un supplizio, è un riposo agli affanni», in quanto - prosegue in perfetto stile epicureo - «dopo la morte non c’è posto né per il dolore né per il piacere» (Sallustio, Congiura di Catilina, 51). Fa una notevole impressione il pontefice massimo che impartisce agli altri senatori una breve ed efficace (e strumentale) lezione di filosofia epicurea. Era noto che Cesare avesse, come tantissimi nelle classi colte romane, subìto l’influsso o sentito il fascino di quel lucido pensiero anticonsolatorio.
Replicando a Cesare in quel dibattito memorabile, che si concluse con la decisione illegale di procedere all’esecuzione capitale immediata, e senza processo, dei congiurati, Catone ironizzò: Cesare - disse - pontefice massimo, pretore designato, «ci ha amabilmente intrattenuto (bene et composite disseruit) sulla vita e sulla morte»; «se non erro - soggiunse - ha sostenuto teorie false, ha dichiarato infatti di non credere a quello che si narra degli inferi, che cioè i malvagi andranno a finire, dopo la morte, in contrade diverse da quelle destinate ai buoni: contrade tetre, incolte, sinistre, spaventevoli». Questa lezione di corretta credenza religiosa, impartita al pontefice massimo appena eletto, è una delle più sottili perfidie dell’oratoria politica di tutti i tempi.
Naturalmente il problema da porsi è come mai nella società politica romana fosse possibile e conciliabile con il mos maiorum e con la stabilità delle istituzioni avere un «papa ateo».
AL DI LA’ DI EDIPO. Freud con Dante
La cosa più semplice a farsi è la più difficile: risalire la corrente come un SALoMONE e giungere alla Sorgente: l’Amore che muove il sole e le altre stelle!!!
Detto diversamnte, e più chiaramente: andare oltre "Maria e Giuseppe", "Adamo ed Eva", e scoprire che al di là di tutto non c’è Geova (un dio-zio "Paparone", con il suo minestrone faraonico), ma solo l’Amore ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8), l’Amore più forte di Morte!!!
Federico La Sala
La celebrazione nel cuore dell’estate della festa dell’Assunzione
Maria, parola-segno di consolazione e speranza
di Mauro Cozzoli (Avvenire, 12 agosto 2012
Nel cuore dell’estate la liturgia ci fa celebrare la festa della Assunzione di Maria. È un segno dell’accompagnamento della Chiesa, che con la sua liturgia ritma i tempi della nostra vita, anche i tempi di vacanza. Tempi mai vuoti ma particolarmente propizi - perché liberi da incombenze e preoccupazioni lavorative - per elevare lo sguardo e prendersi cura di sé, della propria vita interiore, della propria anima. Elevare lo sguardo ai segni della grazia, che non mancano, ma hanno bisogno di occhi attenti per essere riconosciuti e accolti. Riconoscerli e accoglierli per arginare quel logorio etico-spirituale che gli affanni del quotidiano alimentano e dilatano. Logorio provato come senso di smarrimento, insignificanza, insoddisfazione, estraneità, apatia. Il segno dei segni - il segno primordiale e centrale della grazia - è Cristo, la sua umanità. Poi - ci dice san Paolo - «quelli che sono di Cristo». E «di Cristo» è prima di tutto sua madre.
Di qui l’attenzione privilegiata della Chiesa a Maria, per imparare da lei, la nuova Eva: figura dell’umanità rinnovata. Icona di perfetta umanità, in rapporto a quei limiti esistenziali da cui non c’è auto-liberazione (redenzione a opera dell’uomo) ma soltanto liberazione dall’alto, a opera della grazia. E Maria - come la dice il vangelo - è la «piena di grazia», nella quale «grandi cose ha fatto l’Onnipotente». Così da essere additata dal Concilio Vaticano II come «eccellentissimo modello», cui guardare per sapere chi siamo e chi siamo destinati ad essere.
I due grandi limiti da cui non c’è auto-liberazione e che angosciano ineludibilmente l’animo umano sono la morte e il peccato, dai quali Maria - per singolare privilegio divino - è stata preservata. Per cui la Chiesa la riconosce e la proclama "Immacolata" e "Assunta". Non per nulla le due grandi solennità mariane sono «l’Immacolata concezione» e «l’Assunzione al Cielo». Due festività che, attraverso la devozione e la pietà popolare, hanno acquisito valenza e spessore sociale e culturale nella nostra gente. Così da sentirsi incoraggiata e sospinta a guardare e accostarsi a Maria per affrontare e amare la vita e non soccombere al tormento della colpa e allo sgomento della fine. In una socio-cultura (e socio-economia) del disincanto, che abbandona gli animi alla mestizia della disillusione, abbiamo bisogno di segni trasparenti e attraenti di umanità.
Segni in cui riconoscerci per continuare o tornare a credere nella vita, specialmente quando questa si fa buia e la tentazione opprimente. Non parole-teorie, ancor meno parole "a perdere". Ma parole-persone: parole-segni di vita che aprono alla fiducia e alla speranza. Maria è questa parola, riflesso primo e singolare della «Parola fatta carne» in lei e attraverso di lei. Parola-segno, che la fede, l’arte e la cultura fin dalle origini hanno elevato all’ammirazione e all’invocazione dei fedeli. E di cui gli uomini e le donne del nostro tempo hanno rinnovato bisogno, per dare senso e valore a una vita sempre più esposta alla vanità e all’effimero.
Cosa possiamo sperare? - è una delle tre grandi domande formulate da Immanuel Kant all’inizio della modernità. Volgi lo sguardo a Maria, all’evento di grazia della sua assunzione al Cielo, ci dice la Chiesa in questa vacatio estiva. Vedrai una umanità riconciliata, in cui la libertà («Eccomi») ha incontrato la grazia («Hai trovato grazia presso Dio»), e il cui esito è l’assunzione alla pienezza di vita (il Cielo). Un’assunzione in totalità unificata di anima e corpo, che contraddice tutti i manicheismi e gli gnosticismi antichi e moderni. L’assunzione di Maria è indice della stima e della premura più grande per il corpo, nella quale per prima si percepisce il pro nobis della risurrezione di Cristo: «risurrezione della carne». Questa novità il vangelo e la tradizione della Chiesa la coniugano al femminile, fatta risplendere - «di generazione in generazione» - dalla bellezza, bontà e verità di vita di Maria. La sua femminilità, liberata dal peccato e dalla morte, è per tutti, donne e uomini, - come la dice il Concilio e la proclama la liturgia - «segno di consolazione e di sicura speranza».
Mauro Cozzoli
La Commedia di ognuno di noi
di Carlo Ossola (Il Sole -24 Ore, 18 marzo 2012)
Siamo stati formati dalla critica a pensare alla Divina Commedia come «viaggio a Beatrice» (così suona il titolo del celebre saggio di Charles S. Singleton, Journey to Beatrice, 1958). Il fedele d’Amore mantiene la promessa che chiudeva la Vita nova: «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei». Beatrice appare nel Paradiso Terrestre, al sommo della montagna del Purgatorio, ivi trionfa e ivi nomina, per la prima volta nella Commedia, Dante: «Quando mi volsi al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra» (Purg., XXX, 62-63). La teoria romantica che da Rossetti a Gourmont ha ispirato la lettura del poema trova qui il suo sigillo.
Ma molti ostacoli presenta tuttavia una lettura siffatta: il primo ed evidente è che Dante si fa lì nominare per essere aspramente rimproverato da Beatrice: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57). Anche a voler ammettere che Dante si pieghi a un gesto di umiltà, e poi ascenda gloriosamente con Beatrice al Paradiso, sul più bello - come si dice in maniera colorita ma calzante - Dante si fa poi abbandonare da Beatrice: «Uno intendëa, e altro mi rispuose: / credea veder Beatrice e vidi un sene / vestito con le genti glorïose» (Par., XXXI, 58-60).
La guida al mistero e alla visione finale sarà san Bernardo: su questo "transito" Jorge Luis Borges ha scritto pagine finissime e non resta che rinviare ai suoi Nove saggi danteschi. L’ipotesi romantica rimane monca e toglie anzi grandezza al «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par., XXV, 1-2), toglie spessore alla lettura allegorica del testo che Dante difende spiegando, nell’Epistola a Cangrande, e citando nel poema il salmo In exitu Isräel de Aegypto (Purg., II, 46).
Occorre prendere sul serio il testo e ritornare a una ipotesi già avanzata dal Boccaccio e dai primi commentatori e ripresa nel Novecento da Ezra Pound: «In un senso ulteriore è il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare "Ognuno", cioè "Umanità", per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (E. Pound, Dante, in Lo spirito romanzo, 1910). Se il protagonista del viaggio è «Everyman», non è più necessario attribuire a Dante viator l’esperienza eccezionale di una visione mistica, ma di riconoscere in lui il volto di Ognuno: per questo «la Commedia di Dante è, di fatto, una grande sacra rappresentazione, o meglio, un intero ciclo di sacre rappresentazioni» (ivi).
La lettura di Pound incontra, dicevamo, la chiosa che il Boccaccio propone sin dall’apertura delle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante, estrema opera della sua vita, suggerendo che non solo da Beatrice Dante si faccia nominare, ma soprattutto da Adamo al sommo del Paradiso: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: "Dante, la voglia tua discerno meglio", eccetera».
Ora precisamente Boccaccio adotta una lezione, per Par., XXVI, 104, trádita dai più antichi codici (il Landiano, 1336, il Trivulziano, 1337, e molti altri) e confermata dagli antichi commentatori, da Pietro Alighieri, alle Chiose ambrosiane, a Francesco da Buti; lezione che cambia profondamente il senso del poema, poiché ora - nominato da Adamo - Dante non è più solo il fedele d’Amore, ma è il «novello Adamo» di un’umanità redenta, come riassume, nel suo commento, Pietro Alighieri e, con raffinata pertinenza, ribadiscono le «Chiose ambrosiane» (da situare intorno al 1355; traduco dal bel latino): «Dante - Qui il poeta si fa nominare dal primo uomo che impose il nome a tutte le cose e senza quella excusatio alla quale ebbe a ricorrere nel Purgatorio ove disse: "Che de necessità qui se registra". Nota quindi che il poeta mai volle essere nominato nell’Inferno, e neppure nel Purgatorio nei luoghi ove si purgano i vizi, ma concesse di farsi nominare fuori dalle cornici dei vizi, sebbene dovendosi scusare (tamen cum excusatione). Ma in Paradiso senza doversi scusare, come appunto qui - essendo l’opera ormai quasi compiuta - e dopo che, esaminato, aveva fatto professione delle virtù teologali».
Quando parallelamente si osservi il comportamento di Boccaccio copista, in particolare nell’esemplare «Chigiano L VI 213 (= Chig), di mano del Boccaccio, che lo trascrisse non molto avanti la nomina a lettore di Dante, nell’agosto del 1373» (G. Petrocchi, I testi del Boccaccio, in La Commedia secondo l’antica vulgata), si dovrà concludere che anche lì un codice Chig «il quale si impone sugli altri con la qualifica di edizione ultima e definitiva del testo dantesco» (Petrocchi) mantiene la lezione «Dante, la tua voglia discerno meglio» (nel ms. a p. 330; ringrazio di cuore Rudy Abardo per il prezioso riscontro filologico e Marisa Boschi Rotiroti per la sollecitudine) con perfetta coerenza alle ragioni enunciate nelle contigue Esposizioni.
Si tratta dunque di ritornare alle origini, non solo agli autorevolissimi manoscritti che inscrivono: «Dante» o «da- te» e non «da te» (lezione minoritaria), come ha adottato il Petrocchi e con lui - snervando il vigore del testo - le edizioni moderne della Commedia («Indi spirò: "Sanz’essermi proferta / da te, la voglia tua discerno meglio"»); e di riconoscere che - nell’eliminare Dante nominato da Adamo - non si è fatta solo una "rimozione" a favore di una lettura meramente amorosa del poema, ma si è privato il testo stesso di quella grandiosa e universale coralità che Dante voleva conferire al proprio viaggio. Poiché, qui, Dante non è più il poeta della Vita nova, ma l’autore del «poema sacro»; egli è ormai, e per sempre, Everyman, il "novello Adamo" dell’umanità redenta, sì che dal «padre antico» (Par., XXVI, 92) possa ricevere la più alta consacrazione.
Occorre insomma pensare alla Commedia, come a «l’albero che vive de la cima» (Par., XVIII, 29); che si compie nella "nuova Genesi" del Paradiso di Gloria, come ben vide Giovanni Getto, sin dal 1947, sottolineando «cotesto epos della vita interiore come esultanza delle spirito elevato verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria e dell’eterno» (Poesia e teologia nel «Paradiso» di Dante, in Aspetti della poesia di Dante); ma anche come partecipazione dell’umanità tutta alla speranza della Resurrezione della carne della storia e dei corpi, che ansiosamente i beati in Paradiso attendono («Come la carne glorïosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta», Par., XIV, 43-45).
Così dunque, in questa quotidiana coralità di Everyman, è da proporre al XXI secolo la Divina Commedia, bene comune non dell’Italia soltanto, ma dell’umanità intera; e sempre così è stata intesa, dai primi commentatori al Boccaccio, come il poema al quale bussare e attingere per avere accoglienza, ospitalità, conforto. Lo testimonia ancora, al portale di un palazzo di Cannaregio il battente dantesco, e i tanti uomini che in nome di Dante, e leggendo il suo poema, hanno sfidato la barbarie, da Osip Mandel’štam a Primo Levi. Ogni giorno, Dante è davvero tutti noi.
"Doppio ritratto" un saggio di Cacciari sulle diverse visioni del frate
San Francesco tra Giotto e Dante
di Franco Marcoaldi (la Repubblica, 17.03.2013)
L’azione ha il suo epicentro nella basilica di Assisi dedicata a San Francesco e si consuma in un periodo storico che vede la Chiesa drammaticamente impegnata su un duplice fronte, interno ed esterno: da un lato il pullulare di forze religiose centrifughe che ne mettono in discussione l’autorità teologico-politica; dall’altro, la forza montante della potenza statuale.
Per parte sua Francesco ha tentato l’impossibile: il ritorno pieno all’insegnamento di Cristo e del Vangelo combinato al vincolo indissolubile con un’istituzione ecclesiastica che se ne è allontanata. Rifuggendo da qualunque tentazione eretica, Francesco ha finito così per imprimere alla sua vita il timbro di un ardente martirio, che ora chiede soltanto di essere raccontato.
È quanto accadrà nel cantiere poetico della Commedia dantesca e prima ancora nel cantiere pittorico di Assisi, secondo le diverse sensibilità dei due "capomastri": Dante e Giotto (anche se in questo secondo caso gli artisti implicati sono molteplici e le loro opere oggetto di controverse attribuzioni). Questo comunque è l’affascinante confronto proposto da Doppio ritratto, un breve, densissimo saggio di Massimo Cacciari (pubblicato da Adelphi) che, partendo da lontano, finisce per interrogare con estrema efficacia il nostro presente.
Giotto è pittore amato dai potenti in generale e dalla corte pontificia in particolare; Dante è in perenne battaglia contro tutti "i falsi dèi" del suo tempo. Entrambi riconoscono l’eccezionalità della santità incarnata di Francesco.
Ma Dante insiste sulla necessità di combinare la dottrina militante dei domenicani e la caritas francescana, la dura predicazione dei primi e la misericordiosa povertà dei secondi: «Francesco deve andare a nozze anche con l’altro "principe" per salvare la Chiesa che crolla»; una Chiesa che entrerà ripetutamente in conflitto con la proposta di Francesco, mentre nel ciclo di Assisi è la stessa corte pontificia ad accompagnare armoniosamente tale processo, finendo così per normalizzare una vicenda altrimenti scandalosa. Dunque niente chiodi né corpo nudo e piagato, né lotta «contro e con la Chiesa, e il suo stesso Ordine, e il mondo».
Molto spazio invece, nella basilica umbra, viene dedicato al Francesco poeta (che il poeta Dante, in qualche modo, trascura). Spazio al nuovo discorso sulla natura e su una creaturalità intrinsecamente divina, come indica la predica agli uccelli, che, annota Cacciari, in realtà sale verso Dio grazie a un canto comune di uomo e animale. L’idea e l’esperienza di vita francescana - a ben vedere - si intrecciano e si elidono di continuo in questo "doppio ritratto". A ulteriore dimostrazione dell’inafferrabile radicalità di Francesco, così evidente in quell’immagine estrema di "Madonna Povertà" che ne caratterizzerà il destino.
Povero è chi si libera non soltanto degli averi, ma di sé, della propria persona. E grazie a questo sarà tanto più potente (perché avrà raggiunto l’essenziale) e tanto più lieto (perché vivrà solo dell’amore e nell’amore per l’altro).
È l’ultimo passaggio, il più azzardato di tutti. Né Dante (attratto dall’idea "regale" di Francesco), né Giotto (che insiste soprattutto sull’obbedienza e l’umiltà) riusciranno a rappresentare fino in fondo il paradosso di una «"vittoria" che emerge dal colmo stesso della miseria, che si annuncia lietamente nella sconfitta». Ma questa "incomprensione", questo "tradimento", si chiede Cacciari, non sono forse gli stessi che ha patito Cristo, a cui Francesco guarda insistentemente come unico, inarrivabile modello?
Irripetibile, esemplare, la vita di Francesco - su cui si sono incentrati i ripetuti, mirabili studi di Chiara Frugoni - continua ad affascinare per la sua radicalità. Per quel suo modo insieme semplice e paradossale di stare al mondo, che questo vibrante saggio di Cacciari indaga piega per piega in tutta la sua santa follia; nello slancio assoluto per il prossimo, che arriva a disfare e ricreare l’idea stessa di persona; nella scelta della povertà come sinonimo di suprema leggerezza e letizia. Di una vera, compiuta libertà.
San Francesco la rivoluzione prima di Nietzsche
Massimo Cacciari analizza i ritratti del religioso in Dante e Giotto: entrambi falliscono nello spiegare le ragioni della povertà
di Franca D’Agostini (La Stampa/TuttoLibri, 17.03.2012)
Conosciamo bene lo stile di Massimo Cacciari. Uno stile che non fa nessuna concessione all’angloitaliano oggi dominante, e alla sua sintassi elementare, didattica e paratattica. Anche in questo Doppio ritratto (Adelphi, pp. 86, 7), piccolo libro sui due ritratti di San Francesco, in Dante e Giotto, Cacciari resta fermo nel suo aristocratico spaesamento mentre intorno a lui scorre e cresce la facile lingua dei social media.
Cacciari privilegia la comunicazione indiretta, «il movimento metodico del respiro», come diceva Benjamin nel Saggio sul dramma barocco. La sua è prosa «saggistica» nel senso stretto dell’espressione, una prosa che gira intorno al suo oggetto, procede e ritorna sui suoi passi. Prosa che non intende ammaestrare ma appunto respirare, insieme al lettore.
Ma ci si chiede: che cosa vuole Cacciari, scrivendo in questo modo? Che cosa intendere ottenere? Mi viene in mente una sola possibile risposta: nascondersi. Più precisamente: riuscire a dire quel che vuole dire senza dirlo veramente, o dicendolo a metà, perché non venga frainteso, svilito, deturpato. È l’antica paura di Platone, di Kierkegaard, di Antonin Artaud. Paura giustificata, perché spesso le migliori idee filosofiche, afferrate brutalmente, fanno i peggiori danni. Specie in politica.
Ed è specificamente politica l’idea di fondo di questo libro. Tanto Dante quanto Giotto tentano di restituire in immagini (poetiche e figurali) il programma rivoluzionario di Francesco: un «rovesciamento di tutti i valori» concepito sei secoli prima di Nietzsche, ma come una paradossale rivoluzione pacifica, e il cui scopo è anzitutto la pace. Entrambi cercano di capire e far capire l’enigmatica strategia politica di Francesco: una strategia la cui decisione è l’abbandono, e la cui risolutezza è l’umiltà.
Ma entrambi, in vario modo, falliscono in ciò che era più importante: spiegare le ragioni della povertà, e della specifica gioia o letizia che il programma francescano assegna al non possedere, e al privarsi di tutto.
Né Dante né Giotto riescono a cogliere «l’aspetto più profondo e inquietante della mistica di Francesco» vale a dire «l’aspetto femminile, materno di questa santità». La mistica femminile di Francesco risulta allora il vero messaggio politico, l’autentico «rovesciamento» che vede una «vittoria» là dove sembra esserci una estrema irrecuperabile sconfitta. Un «paradosso» che non si può rappresentare, né in poesia né in figura.
Forse, non si può neppure apertamente dire. In effetti, se Cacciari fino in fondo dicesse tutto ciò che consegue da queste tesi, dovrebbe ammettere la fine della politica come sempre è stata concepita, e come lui stesso l’ha praticata. Si comprende allora che qui si limiti a suggerire l’ipotesi, senza difenderla apertamente, lasciando che per lui parli come voleva Benjamin il respiro del pensiero.
Premessa sul tema.
L’ARCA DELL’ALLEANZA, IL PRESEPE, E L’AMORE ("CHARITAS") CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE.
Una nota
AI DUE CHERUBINI E AI DUE COLOMBI ... A MARIA E GIUSEPPE - E GESU’!!!
COME DA ARCA DELL’ALLEANZA ... COME DAL "GLORIA A DIO NEL PIU’ ALTO DEI CIELI", COME DALLA LEZIONE DEL PRESEPE DI SAN FRANCESCO ("Va’, ripara la mia casa") - E DALLA "MONARCHIA" DI DANTE:
Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", Così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri".
L’Amore ("Charitas") muove il Sole e le altre stelle ... e non la Ricchezza ("caritas") del "santo-padre" del cattolicesimo-costantiniano.
In principio era il Logos - non il "Logo" della tradizione vaticana del "Latinorum"!!! (Federico La Sala)
di CCBF
in “www.baptises.fr” dell’8 dicembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Celebriamo oggi la festa dell’Immacolata Concezione. Qualche parola a questo proposito. Abbiamo la tendenza a ritenere che Maria, la madre di Gesù, abbia uno status di eccezionalità, che sia un caso unico: «la» donna preservata dal peccato. Mi sembra che dovremmo guardarla piuttosto come quella che rappresenta in maniera esemplare una verità che fatichiamo a vedere, ma che si applica a tutti. Maria, si dice, porta Dio nel suo seno. Certo, ma ogni vita è presenza di Dio, così che ciascuno è, come Maria, portatore di Dio dentro di sé.
Sulla linea - abbastanza infelice, ammettiamolo - di Agostino e della sua teologia piuttosto nevrotica del peccato originale (Agostino aveva però altri ottimi talenti), diciamo che Maria è esente da ogni peccato, il che le permette di portare in sé il Figlio di Dio in maniera totalmente pura. Questa ossessione della purezza, in realtà, è poco fedele alla fede del Vangelo.
Diciamo piuttosto che Maria è per noi il segno che la vita che viene non è rinchiusa nei fatalismi e nelle ferite ereditate dal passato. Matteo e Luca, che mettono in scena Maria nei loro rispettivi vangeli, si curano anche di stabilire una genealogia di Gesù. Queste due genealogie, per quanto diverse, hanno tuttavia un punto in comune: ritracciano una storia carica di drammi e di infedeltà. Ciò che fa Maria, che legge le Scritture, e quindi rilegge questa storia, è di discernere il percorso del dono di Dio, senza rinchiudere la vita nella logica dei regolamenti di conti e dei risentimenti. Percepisce la vera finalità della vita, quello a cui Dio mira, ed è in questo che sfugge al peccato - il che etimologicamente vuol dire che non manca il bersaglio. È esemplare più che singolare, perché ci dice che, con la forza dell’Altissimo, con lo Spirito Santo, ciascuno di noi può accogliere questa intenzione e non imprigionare la vita. È quello che ha scoperto, molto più tardi, la psicanalisi, perché nel frattempo, troppi cristiani l’avevano dimenticato...
Smettiamola di pensare che lo Spirito Santo sostituisca gli spermatozoi o altre scempiaggini del genere. Ciò significa limitarsi ad una stupida lettura fondamentalista dei vangeli (in particolare dei due semi-versetti dell’inizio del vangelo di Matteo, suscettibili di molte interpretazioni contraddittorie). Scopriamo che Maria è il segno di ciò che è la nostra vera vocazione. La liturgia di oggi ci fa rileggere in parte il racconto della “caduta” nel libro della Genesi. La pericope comincia con il giudizio che Adamo rivolge a se stesso ritenendosi colpevole al punto da nascondersi a colui che dà la vita. Perde di vista l’essenziale, la vita stessa. Ecco il peccato. In Maria, scopriamo che possiamo credere alla vita, piuttosto che alla morte. È tutta un’altra cosa.
Per concludere, posso dire che vorrei che la nostra Chiesa alla fine dicesse questo, che sa perfettamente, piuttosto che lasciare credere delle stupidaggini per paura di perdere le ultime pecorelle che le restano?
I mosaici del duomo completati da Federico II?
Lo sostiene il professor Heinrich Pfeiffer, che ha tenuto una lezione in cattedrale
di Maria Modica *
MONREALE, 26 febbraio - I mosaici del duomo di Monreale potrebbero essere stati completati da Federico II.
La rivoluzionaria tesi è sostenuta da uno dei maggiori esperti mondiali di Storia dell’arte, il gesuita Heinrich Pfeiffer della Pontificia Università Gregoriana di Roma. Lo studioso è stato invitato dall’arcivescovo di Monreale, Monsignor Salvatore Di Cristina, per esporre la terza lezione - concerto, dedicata ai mosaici del duomo. Ultimo appuntamento del ciclo che ha voluto lanciare un dialogo ideale con la Settimana di Musica sacra in programma il prossimo anno.
La prolusione è stata preceduta dall’esecuzione del coro di voci bianche del Conservatorio Bellini di Palermo.
L’oratore ha incantato la platea con osservazioni acute e stimoli lanciati alla mente e al cuore.
«Questo luogo - ha esordito Pfeiffer - è unico al mondo. Presenta una divisione dello spazio basilicale per tematiche, ma quel che stupisce è l’ampiezza della descrizione dedicata al Vecchio testamento: tutta la navata centrale. La narrazione biblica comincia con la morte di Caino per il colpo di una freccia e termina con storia di Giacobbe e l’Angelo, centrale nella storia dell’Ebraismo perché da questo deriva il nome di Israele che significa lotta con Dio. Un’ampiezza descrittiva degna di una sinagoga. Questo spazio E .
Primo indizio che porta all’imperatore svevo è, dunque, l’ecumenismo religioso a lungo accarezzato da Federico II. Ma la stimolante tesi è suffragata dall’osservazione dei canoni estetici che contraddistinguono le raffigurazioni musive, una difformità di stile che non trova giustificazioni nell’esiguo spazio temporale, nemmeno un ventennio, durante il quale sarebbe stato ultimato il duomo.
«La differenza fra alcune icone - ha continuato Pfeiffer - di chiaro stile bizantine, di sicuro risalenti al XII s., e altre raffigurazioni, fra cui il Pantocratore, in cui la plasticità prelude alla soluzione prospettica del ’400, ci indica il trascorrere di almeno un secolo. La "sproporzione" fra il Cristo absidale e le figure circostanti non può essere stata concepita da una personalità mite quale quella del re normanno».
Secondo lo studioso tedesco, la conferma implicita si trova nella leggenda del Carrubo, sotto il quale Guglielmo avrebbe rinvenuto un immenso tesoro con cui edificare il tempio.
«La leggenda - ha proseguito - risponde ad una domanda cui manca una giustificazione storica: chi ha pagato tutto questo? Il regno normanno non avrebbe potuto permetterselo, soltanto l’Impero avrebbe potuto farlo».
La spiegazione del mistero si troverebbe nella "damnatio memoriae" che ha colpito gli Svevi snaturandone la reale portata storica, soprattutto in Sicilia.
«Una damnatio memoriae - ha concluso lo studioso - deve essere tolta da un cristiano: perciò ho parlato».
Il patrono della Chiesa come modello per affrontare le turbolenze del mondo
Attualità di san Giuseppe
di TARCISIO STRAMARE *
"È certo che la figura di Giuseppe acquista una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo Millennio cristiano". Così afferma Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica Redemptoris custos, dove richiama la Christifideles laici nel contesto storico del decreto Quemadmodum Deus (1870) con il quale Pio IX "metteva se stesso e tutti i fedeli sotto il potentissimo patrocinio del santo Patriarca Giuseppe". Giovanni Paolo II riteneva che la situazione della Chiesa e della società non fosse meno grave al presente che "in quei tristissimi tempi": "Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione del mondo e di rievangelizzazione in quei paesi e Nazioni dove la religione e la vita cristiana (...) sono messi a dura prova" (n. 29). Il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, istituito da Benedetto XVI il 21 settembre 2010, a vent’anni dalla Redemptoris custos, con il motu proprio Ubicumque et semper, si pone nella linea della continuità.
I mezzi di comunicazione sociale ci informano quotidianamente sulle gravi turbolenze che scuotono l’umanità e sulle sofferenze della Chiesa, che ne compromettono lo sviluppo, dimostrando che ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare san Giuseppe. La rinnovata attualità del santo si estende dall’intervento di difesa verso l’esterno all’opera interna di rinvigorimento.
Tutta la Redemptoris custos è focalizzata sull’economia della salvezza, della quale san Giuseppe è stato, insieme con Maria, singolare "ministro". Così lo ha presentato la predicazione apostolica, testimoniata nei vangeli là dove essi descrivono "gli inizi della redenzione", ossia "i misteri della vita nascosta di Gesù", gli stessi misteri che la Chiesa rivive nel ciclo annuale della sua celebrazione liturgica. Di essi Giuseppe è stato ministro fedele "mediante l’esercizio della sua paternità" (n. 8).
Che di san Giuseppe si intenda evidenziare soprattutto il ministero, appare già nel titolo dell’esortazione apostolica. Custos, infatti, non vuole metterne in ombra la paternità, della quale anzi il documento difende espressamente l’autenticità, quanto piuttosto sottolinearne la funzione, che è quella del servizio, come d’altronde deve essere per ogni paternità. Già questo è un chiaro ammonimento per quei genitori che oggi si arrogano il diritto di spadroneggiare sulla vita dei figli come se fossero un loro prodotto. La vita dell’uomo è nelle mani di Dio, al quale il titolo di Padre appartiene in assoluto (cfr. Matteo, 23, 9). Di questa paternità divina san Giuseppe è stato colui che ha esperimentato in modo singolare la ministerialità: escluso dalla generazione a motivo dell’origine divina del Figlio, egli ha assunto, tuttavia, gli impegni più onerosi della paternità, ossia l’accoglienza e l’educazione della prole, elementi che rientrano, insieme alla generazione, nella natura della paternità umana, come insegna san Tommaso. Già Origene scriveva: "Benché niente nella sua generazione, Giuseppe gli ha dedicato il servizio e l’amore. È per questo suo fedele servizio, che la Scrittura gli ha concesso il nome di "padre"".
Giovanni Paolo II considera la paternità di san Giuseppe appunto come un servizio, del quale la debolezza dell’umanità di Gesù aveva bisogno soprattutto nel periodo della sua vita nascosta - "custode del Redentore" e "ministro della salvezza". Ebbene, questo profilo del santo è lo stesso che deve qualificare e definire la Chiesa. Di fronte all’odierna diffusa crisi di "identità", che non ha risparmiato neppure lei, è proprio "il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo che consentirà alla Chiesa di ritrovare continuamente la propria identità" (n. 1).
Se già la qualifica di custode è significativa per designare la funzione della paternità umana, tanto più lo è se questa ha come termine non un semplice uomo ma il redentore. La figura e il ruolo di san Giuseppe, infatti, avrebbero potuto essere esaltati con il titolo di "Padre del Verbo" o "Padre di Dio", espressioni già presenti nella liturgia, ovvero con l’espressione più familiare e largamente diffusa dell’inno latino Salve, pater Salvatoris; salve, custos Redemptoris. Perché allora non scegliere proprio nell’abbinamento di questi due titoli quello di Pater Salvatoris, che sarebbe stato più elogiativo? Evidentemente perché "custode" si adattava meglio al tenore del documento pontificio, che intende presentare san Giuseppe come "ministro della salvezza".
La domanda, allora, è un’altra: perché Giovanni Paolo II ha voluto presentare san Giuseppe come "ministro della salvezza", pur esaltandone e valorizzandone la paternità? La risposta va cercata nella scelta fondamentale del suo magistero, che è il tema della redenzione. Poiché la redenzione dell’umanità è la dimostrazione dell’amore di Dio per la "sua immagine" (Genesi, 1, 27), assunta dallo stesso suo Figlio nell’incarnazione, tutti devono parteciparvi. Il Papa rivolge la sua esortazione alla Chiesa tutta, ricordandole quale sia la sua identità e proponendole un modello concreto, san Giuseppe, appunto.
L’affermazione di Giovanni Paolo II, secondo cui deve "crescere in tutti la devozione al Patrono della Chiesa universale", è finalizzata all’accrescimento dell’"amore al Redentore, che egli esemplarmente servì". Proprio questo "servì" è il profilo della figura di san Giuseppe, sempre presentato nei vangeli come attento e fedele esecutore degli ordini di Dio trasmessigli da un angelo nel sonno. San Tommaso traccia questo profilo con due parole: "ministro e custode". Si comprende allora perché all’invocazione del patrocinio, la Chiesa debba associare coerentemente la necessità di imitare il suo patrono, "un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele".
* L’Osservatore Romano 19 marzo 2011
Paradiso e libertà
di Carlo Molari (Rocca, n. 1, 1 gennaio 2011)
Il nuovo libro di Raniero La Valle «Paradiso e libertà» riassume e sviluppa in modo articolato due ideali fondamentali della sua esperienza di credente e di uomo pubblico: il coinvolgimento attivo nella politica come impegno per la libertà, distintivo essenziale della persona umana, e la tensione consapevole verso il traguardo del cammino comune: la divinizzazione dell’uomo o l’assunzione del «nome scritto nei cieli» (cfr. Lc. 10,20), il nome di figli di Dio.
I due aspetti sono collegati perché l’identità di figli di Dio è scritta nel cielo ma lo si costruisce solo sulla terra camminando insieme ai fratelli e vivendo consapevolmente la responsabilità per gli altri. «Non si salva l’anima se non si grida per gli oppressi». Ora «la politica altro non è che il consapevole vivere degli uomini insieme» (p. 164).
Il titolo «Paradiso e libertà» rievoca una curiosa terminologia della Bologna medioevale. Un decreto del 1257, che riscattava le 5856 persone ancora soggette a qualche forma di schiavitù venne chiamato «Libro Paradiso», «perché la conquista della libertà era percepita come un ritorno al Paradiso; il Paradiso è la libertà; data da Dio a lei si ritorna» (p. 116). Il termine ’Paradiso’, come è noto, può designare sia la condizione originaria dell’uomo secondo il mito della perfezione iniziale (Paradiso terrestre), sia il traguardo al quale ogni uomo è chiamato: «l’identità definitiva dei figli di Dio», secondo le parole di Gesù sulla croce «Oggi sarai con me in Paradiso» (Lc. 23, 43). Tra i due poli dell’inizio e della fine si intreccia l’esistenza storica dell’uomo che può svolgersi in un paradiso anticipato. Perché «ogni volta che sono stati liberati dei prigionieri, che è stata abolita la schiavitù, che sono state chiuse le Inquisizioni, che sono stati cacciati gli invasori, che sono stati arrestati gli usurai, che sono stati sconfitti i mafiosi, che hanno acquistato diritti gli operai, che sono uscite le donne dalle mani di padri e padroni, che si sono poste garanzie per i delitti e per le pene, e ogni volta che si sono scritte le Costituzioni, e si è dato mano ad attuarle, e le si sono difese contro i loro eversori, e quando il costituzionalismo ha fatto concepire anche altre, ulteriori conquiste, allora si è stabilito un pezzo di paradiso in terra; e ogni volta che questo accade, si accorciano le distanze tra i due paradisi» (p. 29).
L’ideale quando è vissuto inserisce una tensione nella storia e affida molte responsabilità agli uomini. «Forse un giorno questo paradiso, senza manicomi, senza carceri, senza ghetti, senza esclusioni, sarà possibile, qui in questo mondo. Forse le istituzioni, tutte le istituzioni, potranno assicurare la libertà, invece che toglierla... per costruire piuttosto un nuovo ordine di rapporti umani e vivere in un libero Paradiso in libera terra» (p. 120).
Il sottotitolo, «L’uomo quel Dio peccatore», riassume l’antropologia soggiacente alle scelte storiche e alle riflessioni proposte. L’uomo è l’unica creatura fatta «a immagine e a somiglianza di Dio» (cfr. Gen. 1,26 s) e lo è in virtù della libertà. La libertà dell’uomo, tuttavia, implica la possibilità di peccare, a differenza della libertà di Dio «che non può dissociarsi dalla propria immagine, non può non somigliare a se stesso, non può sdivinizzarsi» (p. 121). «Come la divinità è ciò che distingue l’uomo dagli animali, così il peccato è ciò che distingue l’uomo dagli animali e da Dio; e se Dio è l’essere divino che non pecca, l’uomo è l’essere divino che, peccando, viene meno alla sua divinità» (p. 121). È possibile però uscire dal peccato per entrare nell’ambito della grazia riconciliatrice. Questo è un aspetto essenziale del «buon annuncio» che è il Vangelo di Gesù: il peccato può essere redento, l’amore di Dio si esprime come misericordia per i peccatori. Dio entra nella terra sterminata del peccato, «vi entra per farsi uomo, l’uomo ne esce per farsi Dio» (p. 122).
Tutto ciò è possibile non in virtù della buona volontà dell’uomo o delle sue attuali capacità, bensì perché «nell’ uomo c’è una misteriosa energia divina; misteriosa non perché sia magica, ma perché è divina. E se Dio è amore... questa energia è l’amore. Come la libertà è nell’uomo l’immagine di Dio, così l’amore è Dio che ama attraverso l’uomo; di questo amore l’uomo è il vaso e il ministro, ne è la trasparenza e il filtro» (p. 175). D’altra parte lo stesso Concilio nel «Decreto sulle religioni non cristiane» aveva parlato «di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana» (Nostra Aetate n. 2).
Questa forza creatrice nell’uomo è giunta a fiorire come amore e conduce avanti la storia. Per questo: «l’antidoto al male e al peccato non è mai il Dio degli eserciti, del giudizio, della condanna, del potere, ma solo e sempre» (p. 186) il Dio dell’Amore misericordioso rivelato da Gesù. È la forza che consente di portare ilmale, di attraversare la sofferenza espressioni provvisorie della condizione imperfetta delle creature, per il momento ineliminabile. «C’è troppo dolore nel mondo, per pensare che esso non trovi né consolazione né fine» (p. 200).
Questa stessa forza dell’amore spinge il mondo verso il compimento, perché il Bene che la suscita e la muove è già esistente in forma piena e può far fiorire modalità inedite di fraternità e di giustizia. Questa tensione verso il Bene è essenziale alla prospettiva cristiana, ma è anche una leva di sconvolgimenti storici per cui «il cristianesimo che perda l’escatologia perde la sua anima, ma il mondo perde la rivoluzione» (p. 200). La missione della Chiesa in questa prospettiva è proclamare e difendere l’eccelsa dignità della persona umana; diffondere dinamiche di attesa, suscitare la tensione verso il compimento attraverso le sue anticipazioni. La Chiesa, in quanto struttura, non è l’unico ambito di salvezza nel mondo, ma è lo strumento perché tutta l’umanità diventi popolo di Dio. «Questo popolo di Dio, che sta nella Chiesa visibile ma non finisce nella Chiesa visibile, che sta in tutti i luoghi e in tutti i punti della storia, che è il soggetto in cui si gioca la salvezza, esistenzialmente, sociologicamente, politicamente è l’umanità tutta intera. E lei il corpo di cui Cristo è il capo: come dice la Mystici corporis, Cristo morendo in croce offrì al Padre se stesso quale capo di tutto il genere umano (p. 217).
Ciò che importa, in ogni caso, è mantenere alta la tensione verso il compimento, alimentare la speranza, perché solo questa consente di camminare anche quando tutto intorno è tenebroso. La città degli uomini può acquisire caratteristiche che anticipano e fanno presagire la città di Dio «e l’uomo, se è divino può trovarsi a suo agio in ambedue le città» (p. 29). Questi messaggi riassumono la intensa e ampia riflessione di Raniero La Valle, che ha indicato i criteri con cui riconoscere nella storia umana la sottile trama della salvezza offerta da Dio a tutti gli uomini. La conclusione è molto chiara: «il mondo non è da buttare. È il mondo di Dio, abitato da creature chiamate ad essere come Dei. E i demoni sempre infesti e sconfitti» (p. 220).
Raniero La Valle, Paradiso e libertà, Ponte alle Grazie, Milano 2010
«Operazione Dante»: un’edizione critica per il VII centenario *
Non solo gli affreschi dei grandi pittori del passato, ma anche i classici della letteratura italiana «vanno mantenuti» e salvati, Dante Alighieri in primis: urgono infatti una riedizione critica della sua opera e il censimento dei commentari che la riguardano. Lo sostiene Francesco Bruni, docente di Storia della lingua a Cà Foscari di Venezia e membro della Commissione scientifica istituita dal Centro Pio Rajna per la «Nuova Edizione commentata delle opere di Dante», che vedrà la luce a un secolo esatto dall’analoga impresa del 1921 curata dalla Società Dantesca Italiana e diretta da Michele Barbi.
Il piano editoriale - che prevede 8 volumi in 15 tomi da pubblicare entro il 2021, VII centenario della morte del poeta toscano - è stato illustrato ieri a Palazzo Chigi a Roma. «In una società che sembra aver smarrito i valori autentici, occorre ridare significato al patrimonio immenso di arte e cultura da tramandare alle nuove generazioni, dando eco e sostegno a questa iniziativa», ha rilevato il sottosegretario Gianni Letta, annunciando l’alto patronato della Presidenza della Repubblica al progetto, realizzato in collaborazione con la Casa di Dante in Roma: riconoscimento che si aggiunge al patrocinio del Consiglio dei Ministri e del Ministero dei beni culturali.
Il sottosegretario Francesco Giro ha ribadito l’appoggio del governo a quella che ha definito «l’operazione Dante». Una sfida voluta da Enrico Malato, docente di letteratura italiana alla «Federico II» di Napoli e presidente dell’editrice Salerno che pubblicherà i volumi (il primo, dedicato a «Vita nuova» e «Rime», uscirà nel 2011): «Ogni anno vengono stampati nel mondo da 800 a 1500 libri, articoli, saggi, recensioni che hanno come oggetto un tema dantesco».
La nuova edizione nazionale mira ad offrire al pubblico internazionale dell’Alighieri un testo di riferimento, affidabile e riveduto alla luce degli apporti più recenti della filologia; per questo sarà affidata alla direzione scientifica di alcuni tra i maggiori dantisti: Marco Ariani, Alessandro Barbero, Alfonso Maierù, Paola Manni, Paolo Mastandrea, Andrea Mazzucchi, Manlio Pastore Stocchi, Nigel G. Wilson, Stefano Zamponi.
* Laura Badaracchi
Avvenire, 19.01.2010
Politica e convivenza sociale in Dante
L’equilibrio di due felicità
di Lorenzo Ornaghi *
Nella lettera apostolica Altissimi Cantus del 7 dicembre 1965, con la quale - in occasione del settimo centenario dalla nascita del poeta fiorentino - si istituiva la Cattedra di Studi danteschi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Paolo VI volle soffermarsi sulla "dottrina politica" di Dante Alighieri. Papa Montini sottolineò con forza il significato e l’importanza che Dante aveva attribuito al perseguimento, da parte del genere umano, della felicità terrena, accanto - e in subordine - a quella celeste: Chiesa e Impero, entrambe "al servizio della res publica christiana", erano chiamate, pur nella loro indipendenza, ad "aiutarsi reciprocamente" per permettere la vita buona dell’intera civiltà umana. L’idea dantesca - egli proseguiva - di "una potestà sovranazionale, che faccia vigere un’unica legge a tutela della pace e della concordia dei popoli", seppur concepita in termini medievali, manifestava non solo attualità, ma anche freschezza politica.
Pur implicitamente, Paolo VI si scostava dall’interpretazione del pensiero politico di Dante allora (e ancora oggi) assai diffusa. Secondo una tale interpretazione, Dante è sì un profeta, ma - per usare la celebre espressione di Friedrich Schlegel - un profeta rivolto all’indietro. E il suo sogno politico di un’autorità universale nient’altro riecheggerebbe se non l’ultima, nostalgica esaltazione dell’ideale del Sacro Romano Impero, che aveva orientato la civiltà medievale e che ora tramontava per lasciare definitivamente spazio al sistema delle comunità politiche particolari, alle idee di sovranità e di ragion di Stato, alla modernità e - con essa - ai molteplici processi di secolarizzazione.
La genesi del pensiero politico di Dante è strettamente legata all’esperienza del poeta non solo come cittadino della Firenze di quel tempo, ma anche e soprattutto alla sua (pur breve e travagliata) esperienza politica. Nella Firenze tra il XIII e il XVI secolo, la spietata "guerra civile" tra guelfi bianchi e neri, che dilania la città, non è lotta tra valori o principi, non ha finalità ideali. Come osserva Robert Davidsohn nella sua monumentale Storia di Firenze, in quel periodo ferveva "una lotta sorda per l’accaparramento del potere e le fazioni in tumulto stavano sovvertendo tutto l’ordine civile. Per ogni più futile pretesto si dava sfogo alle più selvagge passioni ed un’abominevole corruzione inquinava la cosa pubblica".
Il quadro non cambia, se si volge lo sguardo ai rapporti (o, per meglio dire, alle lotte) tra i comuni italiani. Ciò che Dante descrive nel Convivio è, dunque, una sorta precisa istantanea della situazione politica del suo tempo.
Oltre che dall’amore di Dante per l’indipendenza della patria fiorentina, la realizzazione - che egli invoca a gran voce - dell’humana civilitas e di un potere universale al di sopra di quelli particolari nascerebbe così, secondo Etienne Gilson, per soddisfare un’esigenza strettamente legata alla realtà politica del suo tempo: quella cioè di garantire alla sua città, e più in generale agli stati italiani, un protettore sufficientemente potente contro "l’opera usurpatrice della Chiesa". In realtà, la profondità, la passione e l’incisività degli argomenti, coi quali Dante negli anni dell’esilio condanna la volontà di dominio del Papa e difende l’autonomia del potere temporale da quello ecclesiastico, superano il nobile ma troppo angusto ambito dell’amor di patria.
Entra così in campo il "presunto" anticlericalismo di Dante. Nella Lettera ai Cardinali italiani - i quali durante l’aprile del 1314 erano riuniti in conclave in una piccola città della Provenza, all’indomani della morte di Clemente v - Dante infatti sostiene che, per la loro sete di potere, alcuni Pontefici sono stati causa dell’eclissi del papato e la cura degli interessi mondani che ha invaso la gerarchia ha condotto la Chiesa quasi alla rovina. Questo preteso anticlericalismo è divenuto il cuore delle interpretazioni che vedono in Dante un fermo sostenitore della separazione più netta tra potere temporale e spirituale. Anzi - quasi egli fosse profeta dell’autonomia della ragione umana e del fine naturale dell’uomo rispetto alla fede e a ogni fine soprannaturale - un precursore di quel separatismo radicale che, poco dopo, troverà in Marsilio da Padova uno dei primi e massimi esponenti. Secondo queste interpretazioni ancora oggi radicate, per Dante combattere le pretese teocratiche del Papa significherebbe salvare l’autonomia dell’imperatore, affinché la "imperiale maiestade" possa compiere quella missione del tutto immanente che Dante gli assegna: assicurare la pace e la felicità terrene alle quali tutti gli uomini per natura tendono. A questo fine terreno si aggiungerebbe anche quello ultramondano, che Dante certo non nega. Il primo, però, sarebbe del tutto autosufficiente rispetto al secondo. In tal modo, con la sua difesa dell’indipendenza dell’imperatore dal Papa, Dante si rivelerebbe l’anticipatore di un’idea del tutto nuova - "moderna", appunto - del rapporto tra potere temporale e potere spirituale: un rapporto di irreversibile separazione tra due realtà ormai dotate di piena autosufficienza.
Sulla dottrina politica di Dante avrebbero dunque "sbagliato" Paolo VI e, prima di lui, Benedetto XV, il quale - nella lettera enciclica In praeclara Summorum del 30 aprile 1921, scritta in occasione del sesto centenario della morte del poeta - affermava che Dante "professò in modo esemplare la religione cattolica", e sapeva perfettamente che "il principale fondamento delle nazioni" sono "la giustizia e i diritti di Dio".
Ma il quadro cambia se, al centro del pensiero politico di Dante, correttamente si mette non la critica al temporalismo del Papa, bensì il concetto di cupidigia e le conseguenze spirituali e materiali del suo trionfo. Per Dante, l’ordine e la pace terrene sono turbate dallo scatenamento di quella cupiditas che, in termini teologici, è la riduzione sul piano orizzontale dell’amor Dei per cui l’uomo non può in ultimo essere saziato da alcun bene finito. In termini temporali, la cupiditas è il contrario della giustizia: ossia è egoismo, volontà di sopraffazione e sete di potere. Come afferma Paolo VI, ancora nella Altissimi Cantus, secondo Dante l’agostiniana "tranquillità dell’ordine" - la pace che riguarda "i singoli, le famiglie, le nazioni, il consorzio umano, pace interna ed esterna, pace individuale e pubblica" - "è turbata e scossa, perché sono conculcate la pietà e la giustizia".
Del trionfo della cupidigia, il temporalismo di Bonifacio viii è certo una manifestazione, ma non l’unica. La sua copia rovesciata, è infatti - come ha osservato molto acutamente Augusto Del Noce - il tentativo del re di Francia di avere potestà diretta sul piano spirituale. Da questa prospettiva, Dante afferma la distinzione degli ordini perché vuole combattere la cupiditas, perché avverte profonda l’esigenza di permeare compiutamente di religione la vita pubblica. E questa esigenza è condizione essenziale per il raggiungimento della beatitudine celeste e della felicità terrena.
Vi è dunque una sorta di unità-distinzione che caratterizza, in Dante, il rapporto tra potere spirituale e quello temporale, dal momento che entrambi sono chiamati, pur nella necessaria distinzione, a cooperare armoniosamente per il bene integrale degli uomini: ossia per la felicità terrena e, "insieme", per la salvezza delle anime, per la vita buona su questa terra, e "insieme" per la beatitudine celeste. Così, il fine naturale del genere umano - da perseguire con la ragione, e per raggiungere il quale è necessaria l’opera di un’autorità politica universale - non è in contrasto, bensì in armonia con il raggiungimento del fine soprannaturale e celeste, dettato dalla fede. Come scrive Dante stesso nell’ultima pagina del suo De Monarchia, proponendo un’affermazione sintetica della laicità dal punto di vista cattolico: "La felicità terrena è in un certo modo subordinata alla felicità eterna".
Suona dunque corretta e appropriata l’affermazione di Benedetto XV, quando egli sottolineava la consapevolezza di Dante che la giustizia e i diritti di Dio sono il più solido fondamento della famiglia umana e del sistema internazionale. Ce ne viene oggi un’ulteriore prova dalla recentissima enciclica Caritas in Veritate, in cui Benedetto XVI giustamente ci ricorda: "Talvolta l’uomo moderno è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi, che discende - per dirla in termini di fede - dal "peccato delle origini". La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: "Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi"".
Appare pertanto sempre meno ragionevole concepire il pensiero politico di Dante semplicemente come quello - per dirla con Karl Vossler - dell’ultimo "cavaliere dell’ideale teocratico", o, al contrario, come quello di uno dei primi scultori del laicismo moderno. In Dante, semmai, ritroviamo gli elementi di una genuina e sana concezione di laicità. Una concezione che, sapendo armonizzare fede e ragione, è in grado di affermare e realizzare la necessità della dimensione pubblica della fede per il bene di tutti, credenti e non credenti.
* ©L’Osservatore Romano - 24-25 agosto 2009
Su "Lettera internazionale" un saggio di Starobinski
Dall’epica di Virgilio al dio di Dante
La memoria e il futuro
Il potere e la forza della poesia e delle immagini Nell’Eneide e nella Commedia due diversi modi di raccontare il passaggio da una catastrofe a una redenzione
Nel poema latino il ricordo di Enea inizia con la distruzione di Troia
Il percorso delle tre cantiche dantesche somiglia a quello virgiliano
di Jean Starobinski (la Repubblica, o8.10.2o08)
La memoria che Virgilio attribuisce al suo eroe assume la distruzione come suo inizio. È una storia di fragore e di furore. E il celebre racconto si annuncia come il ritorno di un dolore che le parole non possono tradurre.
Infandum regina jubes renovare dolorem. «Mi chiedi, o regina, di rinnovare un dolore indicibile» (Eneide, II, v. 1). La rammemorazione stessa è oggetto di orrore (animus meminisse horret, II, v. 12). La parola si dichiara in difetto, inadatta a rievocare le sventure subìte. Questa precauzione oratoria invita i destinatari fittizi, la regina e il suo seguito, e i lettori reali, che siamo noi, ad ascoltare tutto ciò che sarà narrato loro superandolo con l’immaginazione. La realtà fu peggiore del quadro che può esserne dipinto. Non resta nulla della città così a lungo difesa, e anche alla parola manca il terreno su cui poggiare. Perché, allora, non accordare fiducia a un racconto che confessa subito l’insufficienza delle sue risorse?
Nella notte del disastro, si dispone ancora di un aiuto. Apparizioni, voci divine guidano l’avanzare delle navi, promettendo una terra di Ponente per la città nuova che i discendenti dei vinti fonderanno. La notte fatale sarà così il punto zero, senza ritorno né ritirata possibili, da cui prenderà le mosse tutta l’azione successiva. L’incendio, i suoi bagliori, le sue ceneri sono preliminari che imprimono un carattere di necessità alla navigazione avventurosa e ai discorsi narrativi che seguiranno.
Nel terribile notturno virgiliano, ogni forma, fattasi precaria, è travolta dal crollo generale. Voci, clamori, fracasso assumono un’importanza eccezionale nello spazio sensoriale. Il racconto di Enea sviluppa così un registro uditivo di notevole ampiezza. Dall’elevato linguaggio divino al fragore inarticolato della catastrofe, l’orecchio del lettore di Virgilio è tenuto in uno stato di costante allerta. Per convincersene basterà scorrere rapidamente il testo.
Enea è inizialmente un testimone tra gli altri. Racconta quello che, come i suoi compagni, ha visto e sentito: le menzogne del falso transfuga Sinone, la morte di Laocoonte e dei suoi figli, strangolati da due serpenti usciti con gran frastuono dai flutti: il sacerdote muore lanciando orribili clamori verso le stelle (clamores horrendos). Queste grida mostruose segnano l’inizio della rovina.
Nella notte che avanza, le parole e i rumori assumeranno un’importanza sempre maggiore. Appena scivolato nel primo sonno, Enea è messo in guardia dall’ombra di Ettore che gli ingiunge di fuggire: il suo compito è ormai quello di raccogliere intorno a sé i suoi compagni e di cercare con essi, altrove, quelle «grandi mura, che infine fonderai, percorso il mare». A quattro versi di distanza, la stessa parola moenia (le mura) designa i bastioni di Troia che stanno per crollare e quelli della città che bisognerà costruire. Ma la devastazione è già cominciata e il sogno si interrompe perché i suoni diventano sempre più violenti: Frattanto da tutte le parti un terribile pianto / Sconvolge le mura, e sempre di più, sebbene remota dalle altre / e protetta da alberi la casa del padre Anchise si apparti, / i suoni si fanno chiari e incombe il fragore delle armi. / Mi riscuoto dal sonno e salendo giungo sul colmo / del tetto e mi fermo con gli orecchi tesi: come / quando all’infuriare degli austri cade una fiamma / tra le messi, o un rapace torrente con fiotto montano / spiana i campi e i floridi seminati e le opere dei buoi, / e trascina a precipizio le selve: il pastore stupisce / ignaro ascoltando il rombo da un’alta rupe (II, v. 298 e segg.).
Il disastro è attraversato dalle grida di lutto (luctus), dai gemiti (gemitus), dal fragore della bufera (sonitus), dallo strepito degli esseri umani (clamor), dagli squilli delle trombe (clangor). Nelle parole di Enea (II, vv. 361-362), Virgilio dichiara l’impotenza della parola e delle lacrime a dire la distruzione e la vana lotta contro la morte (clades, funera, labores). «L’interno del palazzo risuona di gemiti / e d’un misero tumulto; le ampie stanze remote / ululano di pianti femminili; il clamore ferisce le auree stelle» (II, vv.486-488). Il rumore fa pensare al fracasso dell’albero che si abbatte sotto l’infuriare della tempesta. Nella notte che si fa sempre più buia, Enea incontra sua madre Venere, apparizione luminosa che gli mostra brevemente ciò che i mortali non vedono: gli dèi accaniti contro Troia che collaborano attivamente alla sua distruzione. E l’ordine di fuggire viene ripetuto. Il baccano, il crepitio del fuoco, il terrore si moltiplicano. Infine, nell’incendio e nel silenzio terrificante che si stabilisce quando cessa ogni resistenza (simul ipsa silentia terrent, II, v. 755), Enea vede apparire l’ombra di Creusa, sua moglie, che gli rivolge le ultime parole premonitrici e gli annuncia che la sua destinazione è l’Esperia, la terra del tramonto, là dove scorre il Tevere. Nel corso del racconto, il registro dei suoni avrà dunque mostrato tutta la sua complessità e la sua varietà, tra il silenzio della notte e il clamore assordante della distruzione e del massacro - tra le grida inumane e il linguaggio elevato della profezia che spinge all’azione.
L’epopea di Virgilio ha offerto alla letteratura europea un grande modello, in cui coesistono un passato rammemorato e un futuro in cui avrà luogo l’azione. Questa doppia prospettiva diventa più evidente quando Enea, disceso agli Inferi, nel VI libro, incontra alcune figure del passato - il padre Anchise, Didone morta suicida - e le anime che si apprestano a fare il loro ingresso nella vita, futuri viventi, eroi che si sacrificheranno per la patria. Sente pianti e musiche, i vagiti dei bambini morti e i canti religiosi dei beati. Voci premonitrici mostrano l’impero che verrà. Con la discesa agli Inferi, l’eroe virgiliano si inoltra nell’intrico dei tempi. Durante le tappe successive del suo viaggio sotterraneo impara a quali castighi sono condannati coloro che sono stati giudicati e scorge il nugolo delle anime il cui destino è annunciato senza essersi ancora compiuto. Gli antenati troiani e i discendenti romani abitano negli stessi boschi. Virgilio si afferma così come il poeta che sa in che modo passato e futuro si compenetrano.
E quando appare Virgilio, nel I canto della Commedia, Dante lo designa facendogli dichiarare: «Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne da Troia / poi che il superbo Ilion fu combusto». Si trova così giustificato il suo compito di guida iniziale nel grande viaggio cosmoteologico, in un ruolo che ricorda quello che l’Eneide attribuisce alla Sibilla nel VI libro. Con il suo percorso, che somiglia volutamente a quello della discesa agli inferi dell’epopea latina, la Divina Commedia si muove tra passato e futuro, a partire dal «mezzo del cammin».
Lo scopo non è quello di fondare un impero, ma di accogliere la rivelazione della giustizia di Dio e di accedere alla conoscenza amorosa, alla visione beatifica. Virgilio, il poeta pagano, accompagna Dante solo fino alla soglia del Paradiso terrestre (Purgatorio, XXX), quando con Beatrice si manifesta la chiarezza divina. Durante tutto il tragitto e fino al suo termine contemplativo, il registro dei suoni svolge un ruolo fondamentale, in cui Dante mostra di essere un discepolo perfetto.
L’ambito sonoro si estende dalle urla dei dannati ai canti degli angeli, dalle dissonanze infernali alle armonie celesti. Il viaggio di Dante avrà come punto di arrivo non le mura di una capitale temporale, ma la contemplazione della «luce sovrana». Sono due citazioni latine nel XXX canto del Purgatorio a suggellare il nesso: per i lettori che hanno memoria dei contesti, uno stretto legame si stabilisce tra i versi dell’Eneide, dove Anchise, che ha assistito all’incendio di Troia, annuncia l’avvenire di Roma fino ai funerali di Marcello, e le parole del Vangelo di Matteo che fanno parte del rituale della messa. I «messagger di vita eterna» salutano l’arrivo di Beatrice cantando successivamente «Benedictus qui venit» (Mt., XXI, 9) e «Manibus, oh, date lilia plenis» (Eneide, VI, 883).
Il potere della poesia fa sì che una memoria storica fittizia si aggiunga alle immagini inventate e sostenute da una fede reale. Ma al contrario del racconto di Enea che cominciava con il dichiarare inadeguato il linguaggio quando si tratta di dire tutta la sofferenza patita, Dante si vede invece costretto a rinunciare a esprimere la gioia più alta: «Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch’io vidi, / è tanto che non basta a dicer poco» (Paradiso, XXXIII, vv. 121-123).
Paradiso. La biblioteca di Dante
Una lettura del canto X della terza Cantica della «Divina Commedia», rappresentata qui come un trittico dal biblista e teologo Gianfranco Ravasi.
Il Sommo Poeta ci parla dei grandi teologi e filosofi cui si è ispirato: Boezio e Sigieri di Brabante in primo luogo, ma anche Alberto Magno e Dionigi Areopagita, Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile *
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 14.09.2008)
« T ra le scienze la teologia è la più bella, la sola che tocchi la mente e il cuore arricchendoli, che tanto si avvicini alla realtà umana e getti uno sguardo luminoso sulla verità divina». Questa confessione di un grande teologo come Karl Barth nella sua Introduzione alla teologia evangelica (1962) propone la stessa emozione che secoli prima Dante aveva sperimentato e suggerito, rivelando il suo volto di teologo, soprattutto nel Paradiso. Ed è appunto, entrando nel quarto cielo, dominato dal sole, «lo ministro maggior de la natura» (v. 28), tappa decisiva dell’ascesa verso lo zenit supremo divino, che il poeta intesse una riflessione teologica che ora vorremmo simbolicamente raccogliere in un trittico.
IL CANTO DELLA LUCE
A dare sostanza a questo abbozzo sono i 148 versi del canto X del Paradiso, che segna il transito verso i cieli superiori ove ormai del tutto remota è l’ombra della terra e glorioso si dispiega il moto de «l’alte rote» (v. 7), quelle sfere celesti che tanto appassionavano anche il Dante astronomo. Una prima scena della nostra ideale trilogia potrebbe intitolarsi il canto della luce. È facile, infatti, subito riconoscere che quasi ogni verso della pagina poetica è irradiato dallo sfolgorare della luce che, come insegna tutta la tradizione biblica, è immagine del divino, al punto tale che san Giovanni non esiterà nella sua Prima Lettera (1,5) a coniare la celebre definizione ho Theòs phôs estin, «Dio è luce». La luce può mirabilmente rappresentare sia la trascendenza divina (è esterna a noi e inafferrabile) sia la sua immanenza (ci individua, ci avvolge, ci attraversa, ci riscalda e fa vivere). Anche per Dante Dio è «il Sol de li angeli» (v. 53).
A irrompere innanzitutto è, però, il sole fisico che «col suo lume il tempo ne misura» (v. 30), l’astro che - come si è detto - impera nel quarto cielo e che non può essere travalicato («sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse», v. 48). Occhieggia per un istante anche la luna, «la figlia di Latona» (v. 67), ma per il poeta la luce solare, che pure è studiata nelle sue meccaniche celesti, è soprattutto una metafora di una luminosità interiore sulla scia delle parole di Cristo: «La lucerna del corpo è l’occhio» ( Matteo 6, 22).
È per questo che Beatrice svela «lo splendor de li occhi suoi ridenti» (v. 62). Ma sono soprattutto gli spiriti beati che poi incontreremo ad essere la vera luce spirituale: essi, infatti, brillano più della stessa luminosità solare (vv. 40-42) e l’aggettivo che Dante adotta per definirli è appunto «lucenti» (vv. 40; 66). Essi sono «vivi e vincenti» la stessa luce solare e, quindi, destinati a superare anche l’umana capacità visiva. Simili alla folgore (v. 64), sono «ardenti soli» (v. 76) o «come stelle» sfavillanti (v. 78). Anzi, per definirli il poeta ricorre costantemente alla parola «luce» (vv. 109; 118; 136), ora «bella», ora «piccoletta», ora «etterna», ora «lume» (vv. 73; 115; 134). Il loro è un «fiammeggiare» (vv. 103; 130).
E la sorgente di questa luminosità è trascendente: è, infatti, «lo raggio de la grazia» divina col quale «s’accende verace amore» (vv. 83-84), facendo sì che l’anima risplenda «di luce in luce» (v. 122). Siamo, allora, nel cuore della teologia che ha nella cháris, la «grazia» di Dio, la sua sorgente, come insegnava san Paolo, tenendo conto che questa categoria teologica implica la radicale trasformazione della persona da schiavo a figlio adottivo, la sua rigenerazione in «nuova creatura», attraverso la vicenda battesimale che non per nulla era denominata photismós, «illuminazione» (cf. Efesini 5,13-14), mentre il Cristo giovanneo entrava in scena proclamando: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).
IL CANTO DELLA CONTEMPLAZIONE
In stretta connessione con la luce è naturalmente la visione. È per questo che la seconda parte del nostro ideale trittico potrebbe essere definita il canto della contemplazione. È suggestivo che l’incipit del canto X sia affidato a un «guardare» divino (v. 1), a cui si associa il «rimirare» umano (v. 6).
L’appello dantesco rivolto al «lettore» è, perciò, quello di «levare» in alto lo sguardo dell’anima, a «vagheggiar», cioè a contemplare con amore sia l’opera cosmica di Dio sia il suo mistero trascendente.
Sulla creazione, infatti, il Creatore «mai da lei l’occhio non parte» (v. 12): è la provvidenza divina che incessantemente si appunta sulla creatura per sostenerla nell’essere. Similmente l’uomo deve «credere» ora con gli occhi della fede, nell’attesa e nella «brama di vedere» attraverso la piena visione beatifica (v. 45).
Il percorso di questa contemplazione è arduo perché la nostra stessa fantasia è insufficiente a immaginare abissi di luce così profondi, anche perché l’esperienza del nostro occhio non ha mai intuito una realtà più luminosa del sole (vv. 46-48). Il nostro è, quindi, solo un «prelibare» (v. 23) parziale e imperfetto rispetto a un orizzonte infinito. Ecco, allora, la necessità per l’uomo di essere «levato per grazia» divina (v. 54). Solo così, condotto per la «scala» celeste (v. 86), riesce a «vedere»; e questo verbo è spesso reiterato dal poeta per designare la sua stessa esperienza nell’itinerario celeste (vv. 64; 145), È un «vedere» che dà gioia e godimento (v. 124), e che è attuato attraverso «l’occhio de la mente» (v. 121).
Ma ora, dopo aver sottolineato come la contemplazione sia la via privilegiata della conoscenza paradisiaca, Dante delinea ed esalta anche l’oggetto di quella visione. E lo fa soprattutto in apertura e in finale al canto, anticipando quanto affermava Barth sulla felicità che prova il teologo quando fissa lo sguardo nel mistero dell’essere divino e umano. L’attacco del canto è solenne e punta direttamente a quel gorgo di luce che è il mistero trinitario.
È sempre sorprendente vedere come nell’arco di una sola terzina e con una decina di parole Dante riesca a formulare la dottrina cattolica della Trinità, affrontando persino la famosa questione del Filioque, ossia della processione dello Spirito Santo, cioè l’«amore», sia dall’«uno», che è il Padre, «lo primo e ineffabile Valore» (potenza), sia dall’«altro», il Figlio: «Guardando nel suo Figlio con l’Amore/ che l’uno e l’altro etternalmente spira, /lo primo e ineffabile Valore...» (vv. 1-3).
Ma la contemplazione trinitaria svela anche l’agire divino; ossia la creazione che Dio opera, e qui Dante propone la tradizionale via «analogica» già presente nel libro biblico della Sapienza: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’Autore» (13, 5), tema liberamente ripreso da Paolo in Romani 1, 20.
Infatti, afferma il poeta, Dio creò i cieli e il cosmo con un ordine così perfetto che chi lo contempla non può non intuire e gustare la perfezione divina che in essi si dispiega: «con tant’ordine fé, ch’esser non puote / sanza gustar di lui chi ciò rimira» (vv. 5-6).
Per questo Dante poi si abbandona alla contemplazione astrale, coinvolgendo anche il suo interlocutore: «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista...» (vv. 7-8). E ciò che si scopre non è una mera opera di architettura cosmica bensì un vero e proprio atto d’amore.
Il Creatore rivela un’«arte» da «maestro», vale a dire da signore e artefice che la sua opera «dentro a sé l’ama, / tanto che mai da lei l’occhio non parte» (vv. 10-12). L’amore di Dio che presiede alla creazione continua ininterrottamente così da assicurare vita ed esistenza alla sua opera; è un amore che fiorisce all’interno di Dio stesso, per cui il creato è in qualche modo nel cuore di Dio.
La dottrina trinitaria si riaffaccerà a metà del canto quando si ricorderà che i beati del quarto cielo, «la quarta famiglia» di Dio, sono «saziati» nella visione dell’intimo processo trinitario che si compie nell’essenza divina: quella «famiglia» di santi, infatti, «l’alto Padre sempre la sazia / mostrando come spira e come figlia», rivelandole cioè la generazione del Figlio e la «processione» dello Spirito Santo (vv. 50-51).
Ma, come si diceva, anche la finale del canto X ritorna alla contemplazione del mistero divino, una contemplazione di purissimo e gioioso abbandono d’amore, come già si suggeriva nel v. 59 ove Dante dichiarava che «tutto ’l mio amore» era trasfuso in Dio.
L’immagine ora evocata è di taglio musicale, a due livelli di armonia. C’è prima il tintinnare dell’orologio che scandisce nell’alba ancor incerta il sorgere della Chiesa, la «sposa di Dio», che si leva a «mattinar lo sposo» divino perché la ami. La scena, dipinta nelle due terzine dei vv. 139-144, è di straordinaria fragranza, tutta percorsa da ammiccamenti all’uso degli innamorati di elevare il loro canto sotto le finestre dell’amata.
Quel «tin tin», che risuona «con sì dolce nota» e che fa fremere l’anima fedele che si «turge» d’amore appassionato, richiama l’altra immagine musicale esplicita, quella del coro dei beati che canta «in tempra», cioè in piena armonia - quasi fosse uno strumento «ben temperato» - la sua lode a Dio, creando nel poeta una sensazione talmente alta di bellezza da fargli pregustare l’eterna felicità paradisiaca, «colà dove gioir s’insempra» (vv. 146-148).
IL CANTO DELLA SAPIENZA
A popolare il cielo del sole sono gli spiriti dei sapienti, di coloro che consacrarono la loro esistenza terrena alla ricerca della verità sia nella teologia sia nelle scienze umane, cioè il Sdiritto, la filosofia, la grammatica, e nell’attività concreta di governo e di opere, come fu per Salomone, emblema della sapienza biblica, che qui è pure convocato.
Chiameremo, perciò, questa terza tavola del nostro trittico ideale, il canto della sapienza. Dante ordina questi sapienti in due cori di dodici spiriti ciascuno e il canto X fa sfilare la prima sequenza di personaggi che hanno per corifeo il grande Tommaso d’Aquino (la seconda entrerà in scena nel canto XII). È stato detto suggestivamente che si riesce a intravedere in questi due elenchi quasi la biblioteca di Dante e anche le sue predilezioni, come accade nel nostro canto per Boezio e per Sigieri di Brabante.
Le immagini che rappresentano questo ideale congresso di sapienti sono affascinanti: è una «corona» luminosa (v. 65), fatta di «ardenti soli» (v. 76), è una «ghirlanda» di fiori (v. 92), è «lo beato serto» (v. 102), è la «gloriosa rota» (v. 145), è il «coro» (v. 106). E a descrivere la perfetta armonia, pur nella diversità delle voci (anzi, proprio per questa ideale policromia), è appunto la citata raffigurazione corale finale (vv. 146-148), ritmata sul tintinnare d’un orologio, a cui possiamo associare la precedente rievocazione del loro canto che si sviluppa in una danza, capace di richiamare l’armonia dei moti siderali (vv. 78-81). È qui che Dante riesce plasticamente a cogliere quell’emozionante momento di sospensione - quasi un «fermoimmagine » - in cui le danzatrici sostano per un istante tra l’una e l’altra figura del loro movimento, quando si ha la pausa musicale tra la strofe e l’antistrofe della loro danza.
Bellezza e armonia si sposano, però, con la profondità del pensiero di questi dodici sapienti, vere e proprie «luci» nel cammino della ricerca teologica e filosofica. Sì, Dante, fedele alla sua Weltanschauung che distingueva senza separare o opporre religione e politica, fede e ragione, vuole qui ribadire in modo simbolico la sua concezione.
E lo fa ponendo in rilievo - accanto alla serie dei pur ammirati e celebrati Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi Areopagita, Orosio, Isidoro di Siviglia, Beda Venerabile e Riccardo di San Vittore - due figure emblematiche. Da un lato, Severino Boezio, l’originale mediatore tra la cultura classica e la cristiana, al quale vengono riservate due commosse e intense terzine (vv. 124-129), espressione anche di una sintonia nel comune travaglio vissuto dal filosofo e dal poeta a livello culturale, personale e politico. D’altro lato, ecco emergere un po’ provocatoriamente alla fine Sigieri di Brabante, il maestro parigino dalla «luce etterna» (v. 136), paradossalmente celebrato dal suo avversario teorico, Tommaso d’Aquino. Egli che fu contestato per la sua affermazione radicale dell’autonomia della filosofia e della razionalità rispetto alla fede, viene appunto posto su un piedestallo proprio per la sintonia che Dante sente vibrare col suo pensiero.
Si ha, così, la libertà e la sincerità appassionata del poeta, ma si ha anche la testimonianza della profonda sofferenza che può generare la sapienza cosciente e coerente, nella linea di quanto confessava un sapiente biblico, il Qohelet/Ecclesiaste, che nel dir questo s’era tra l’altro rivestito del manto di Salomone: «Grande sapienza è grande tormento; chi più sa più soffre» (1,18). Sigieri, l’araldo di «invidïosi veri», cioè di verità invise e scomode (v. 138), fu così torturato nei suoi pensieri acuti e liberi da dover quasi desiderare la morte («’n pensieri gravi a morir li parve venir tardo», vv. 134-135).
Ma è significativo che in cielo a celebrare così altamente Sigieri sia proprio - come si diceva - colui che lo contestò aspramente in terra, ed è altrettanto significativo che a cantare le glorie di san Francesco sarà il domenicano Tommaso d’Aquino (canto XI), così come a esaltare san Domenico sarà incaricato il francescano san Bonaventura (canto XII).
Le due scuole, la domenicana e la francescana, che si confrontavano vigorosamente e fin duramente nell’accademia terrena, ora nella sapienza celeste s’incontrano e s’incrociano non più per un duello, ma per un abbraccio, nella bellezza dell’armonia molteplice e nell’umiltà della contemplazione della luce divina, che ora si compie non «in uno specchio, in maniera confusa, ma vedendo a faccia a faccia» ( 1 Corinzi 13,12). Si ferma qui il nostro sguardo dall’alto su questo canto dantesco.
Ora è il momento, conclusa la fase delle presentazioni introduttorie, di proseguire, nell’ascolto pieno e approfondito, lungo lo svolgersi dei versi: «Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba» (v. 25).
RAVENNA
Due appuntamenti per il Settembre dantesco
Tra il 13 e il 14 settembre 1321 (come concorda la maggior parte degli studiosi), «nel dì - scrive il Boccaccio - che la esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa», moriva a Ravenna Dante Alighieri. Questo ’evento’, attorno a cui ruotano le tradizionali manifestazioni del ’Settembre dantesco’, viene commemorato con due iniziative promosse del Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali in collaborazione con l’Archidiocesi di Ravenna-Cervia e il Comune di Ravenna. Il primo appuntamento si è svolto ieri sera alla Basilica di San Francesco con il «Dantis Poetae Transitus»: il noto biblista Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha commentato il canto X del «Paradiso» in cui Dante, lasciata la zona del terzo regno dove ancora si allunga l’ombra della terra, entra in quella dove abitano gli spiriti «sapienti», la cui vita fu tutta rivolta al fine proprio dell’uomo, cioè a Dio. Oggi poi, domenica 14 settembre, lo stesso monsignor Ravasi presiederà la «Messa di Dante» (Basilica di San Francesco, ore 11.30), la solenne celebrazione eucaristica al termine della quale la delegazione del Comune di Firenze rinnoverà l’offerta dell’olio e riaccenderà la lampada votiva che dal 1908 - giusto cent’anni fa - arde nella tomba del Sommo Poeta.
I PERSONAGGI
Severino Boezio ( Roma, 476 - Pavia 525) è uno dei maggiori filosofi latini: le sue opere influenzarono notevolmente la filosofia cristiana del Medioevo.
Figlio del console romano Flavio Boezio, alla morte del padre fu affidato a Simmaco, nobile e letterato romano, del quale sposerà la figlia Rusticiana avendone due figli. Formatosi alla scuola di Atene, Boezio scrive i trattati del quadrivio che gli rendono grande fama. Verso il 520 compone il De Trinitate e l’ Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur.
Boezio capro espiatorio di Teodorico. L’interesse di Boezio e del patriziato romano per i problemi teologici mettono in allarme Teodorico, che nel 493 aveva sconfitto Odoacre, re degli Eruli, stabilendo in Italia il proprio regno. In seguito al sequestro da parte di un magistrato di lettere dirette alla corte di Bisanzio, Boezio difende Albino dall’accusa di complotto ai danni di Teodorico, e a sua volta viene sospettato. Incarcerato nel 524 a Pavia con l’accusa di praticare arti magiche scrive la De consolatione philosophiae. Giudicato colpevole nel 525 la sua condanna a morte viene eseguita presso Pavia.
Sigieri di Brabante, l’anti- Scolastica
Sigieri di Brabante ( Brabante 1235 c. - Orvieto 1282) compì gli studi all’università di Parigi nella facoltà delle arti tra l’anno 1255 e il 1257. In seguito fu professore presso la stessa università. Di spirito sovversivo e grande conoscitore di Aristotele, attraverso gli studi compiuti sui testi di Averroè che in quegli anni, anche grazie alle crociate, cominciano a circolare nelle università europee, si pone in contrasto con la corrente filosofica della Scolastica, collocandosi nella corrente filosofica degli Averroisti latini che contestano il rettore dell’Università, Alberico di Reims. Venne condannato per 13 proposte eretiche, contenute nei suoi scritti, dal vescovo di Parigi Etienne Tempier nel 1270. Nel 1277 gli venne proibito l’insegnamento all’università e venne convocato dall’inquisitore di Francia Simon du Val. Per sfuggire all’inquisizione parte per Orvieto, in quel tempo residenza del Papa, dove si appellò al pontefice Martino IV. Rimasto a Orvieto, in attesa della sentenza papale, venne pugnalato a morte dal suo segretario impazzito.
DANTE NELLE STANZE DEI BOTTONI
Uno studio della Fumagalli Beonio-Brocchieri sulle idee politiche nel Medioevo
di ARTURO COLOMBO (Corriere della Sera, 20 MAGGIO 2000)
Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, "Il pensiero politico medioevale", Laterza, pagine 264, lire 45.000
Altro che "secoli bui", come certe deformazioni scolastiche continuano a dipingere il cosiddetto medio evo! Per smentire questo cliché basta avvicinarci al panorama avvincente, che ne Il pensiero politico medioevale ci offre una specialista come Maria Teresa Fumagalli Beonio-Brocchieri, in collaborazione con due suoi allievi, Mario Conetti e Stefano Simonetta. Il vivace racconto serve benissimo a spiegarci come molti dei problemi-chiave che condizionano il dibattito politico contemporaneo trovino le loro origini proprio nelle riflessioni, succedutesi durante l’arco di un millennio, fra il V ed il XIV secolo. Eccone qualche esempio. Quante volte ancora oggi vediamo dei governanti che pretendono di esercitare il potere senza consenso, usurpando i diritti dei cittadini? Ebbene, già nel XII secolo Giovanni di Salisbury chiarisce che in quanto "immagine del male" il tiranno va tolto di mezzo, anzi "dev’essere ucciso", perché calpesta il bene comune della convivenza e la libertà. Non solo: sempre più spesso sentiamo ripetere che ci vorrebbero classi politiche efficienti e oneste? Ebbene, fin dal 1324 Marsilio da Padova insiste perché a governare non siano i politicanti, trafficoni e demagoghi, ma quella che lui chiama la "valentior pars", ossia l’élite dei più validi e capaci di far funzionare la famigerata stanza dei bottoni.
Ancora: da quanto tempo auspichiamo un mondo senza più guerre fra arroganti Stati sovrani? Ecco la coraggiosa "ricetta" di Dante, pronto a spiegarci quanto sia indispensabile impegnarci per dar vita a un unico potere politico sovrannazionale se vogliamo davvero "che tutto il genere umano costituisca una sola comunità" (magari nel segno di quella mirabile testimonianza dantesca: "Mi è patria il mondo, come ai pesci il mare"...).
RAGIONE E FANTASIA. UN SAGGIO DEL FISICO ROBERT EHRLICH SPIEGA PERCHÉ LE GRANDI RIVOLUZIONI CULTURALI NASCONO CONTRO IL SENSO COMUNE
La pazza idea dei due soli. Una teoria scientifica, o quasi
Anche l’ ipotesi eliocentrica di Copernico pareva folle. Esistono buoni criteri per decidere se un enunciato meriti considerazione
di Giorgio Cosmacini *
C’ era una volta la consolidata credenza che le idee scientifiche dovessero modellarsi sul senso comune, di cui venivano considerate una sorta di elaborato prolungamento concettuale. Dal buon senso alla scienza il passo non era lungo. Classico è l’ esempio della concezione tolemaica geocentrica, basata sulla evidenza sensibile che la terra è ferma e il sole sempre in moto, dall’ alba al tramonto. Fu Copernico, nel 1543, a concepire la «strana» idea dell’ eliocentrismo e della terra in continuo movimento rotante. Che cos’ è una idea «strana»?
Se lo chiede Robert Ehrlich, ricercatore nel campo della fisica delle particelle e docente alla George Mason University, all’ inizio del suo libro Il viaggio nel tempo e altre pazzie (Einaudi) che ha per sottotitolo «Nove strane idee al vaglio della scienza». Scrive di sé l’ autore: «Come fisico, ho sempre avuto una certa simpatia per le idee strane. Non è che i fisici siano più strambi degli altri esseri umani. Alcuni di essi sono ragionevolmente sani di mente. Ma la fisica, per la sua stessa natura, sfida di continuo le convenzioni del nostro mondo dominato dal buon senso e svela segreti dell’ universo che spesso appaiono fantastici alla maggior parte della gente».
Quante volte abbiamo pensato e detto che le bizzarrìe inventate ieri dalla fantascienza sono state percorritrici della realtà documentata oggi dagli scienziati? Anche attualmente circolano «strane» idee: che una maggior diffusione di armi ridurrebbe la criminalità; che il virus Hiv non sarebbe il responsabile dell’ Aids; che l’ esposizione ai raggi del sole e addirittura l’ esporsi a basse dosi di radiazioni ionizzanti (atomiche, nucleari) non sarebbe affatto nocivo, anzi farebbe bene; che il sistema solare avrebbe due soli; che i combustibili «fossili» (carbone, petrolio) avrebbero un’ origine inorganica; che esisterebbero particelle (tachioni) più veloci della luce; che infine - prodigio dei prodigi - il viaggio nel tempo sarebbe possibile. Come con la memoria e con i sogni è possibile raggiungere soggettivamente il passato, così alcuni fisici pensano che The Time Machine, «la macchina del tempo» vaticinata nel 1895 dal romanziere Herbert George Wells, sia una metafora del paradosso teorico di un viaggio nel futuro oggettivamente possibile.
Non si tratta, come potrebbe sembrare a prima vista, di un’ opera di cosiddetto «revisionismo scientifico». L’ autore dà i voti in pagella a ciascuna delle «strane» idee sopra enunciate. Lo fa secondo uno schema di valutazione basato su 10 parametri, indicati nell’ introduzione, tra i quali figurano l’ uso delle statistiche in modo corretto e l’ efficace sostegno di riferimenti adeguati. Da professore obiettivo, è giustamente severo: nessuna delle idee esaminate merita più di un 3 e talune addirittura non si sollevano dallo 0. Una stroncatura globale: c’ era bisogno di dedicarvi un libro? Ce n’ era bisogno, eccome!
Molte sono le idee «strane» che oggi trovano udienza nei notiziari, nelle rubriche televisive e sulla carta stampata. Noi siamo sempre più spesso cimentati, assillati, provocati da idee di volta in volta bizzarre, insensate, miracolistiche, folli. Alcune non reggono alle critiche serrate, altre invece sopravvivono, si affermano, talora diventano accreditate teorie, collocandosi al centro di dibattiti scientifici, sottoposte a «congetture e confutazioni» per dirla alla Popper. Tutte rivelano quanto sia accidentato il percorso dell’ impresa scientifica e quali ne sono le regole, le procedure, i controlli. Il libro non è dunque un mero divertissement intellettuale. È invece un libro che esprime un metodo razionale affidabile per decidere con la nostra testa se una teoria meriti considerazione oppure debba essere liquidata magari con un semplice, sommario sorriso.
Il libro di Robert Ehrlich, «Il viaggio nel tempo e altre pazzie. Nove strane idee al vaglio della scienza», Einaudi, pagine XIX - 248, euro 14,00
Cosmacini Giorgio
(Corriere della Sera - Archivio storico, 6 settembre 2002, Pagina 35).
DANTE LETTO NELLE PIAZZE PARLA ALLA GENTE
di DANIELE PICCINI (Avvenire/Agorà, 17.04.2008)
In giro per l’Italia si sta rianimando l’uso delle «lecturae Dantis», dopo la sistematica e completa immersione di Vittorio Sermonti di qualche anno fa e dopo la popolatissima performance di piazza e di teleschermo di Roberto Benigni. Proprio l’attore toscano, per l’effetto di schiacciamento che i grandi media inducono, diviene un punto di partenza interessante e insieme contrastivo. Il pubblico più largo e generico è suggestionato a pensare che l’unica «lectura» possibile sia di quel tipo. Una messa in scena appassionata, magari con divagazioni attualizzanti e satiriche, e con la mediazione necessaria di un attore, di un «performer» appunto. Ma la storia, come sempre, è più lunga e complessa. Basti pensare che la prima «lectura Dantis» della storia venne tenuta da Giovanni Boccaccio a Firenze nella chiesa di Santo Stefano di Badia nel 1373.
Anziano e malandato, in una sessantina di lezioni pubbliche, Boccaccio arrivò a commentare circa la metà della prima cantica. In una chiesa, si diceva. Quello che Dante chiama nel «Paradiso» «sacrato poema» e ancora il «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» può essere meditato, ’ruminato’ e letto in un luogo per l’appunto sacro: la parola umana, umana al quadrato grazie alla tecnica poetica, aspira tuttavia, nell’altissima pretesa della Commedia, ad essere parola di verità, con l’autore autopromosso a «scriba Dei». Così a Sansepolcro, la città di Piero della Francesca, si è promosso un ciclo di quattro letture, intitolato «Comincia la commedia», proprio nella cattedrale romanica del paese: analisi e commento del primo canto di ognuna delle tre cantiche affidati a un dantista e a seguire lettura integrale del testo da parte di un attore (con la serata finale del 18 aprile dedicata alla versione in dialetto locale dell’«Inferno»: la Commedia è stata ’reinventata’ non solo in innumerevoli lingue straniere ma in tanti idiomi dialettali della penisola). A Milano poi, all’Università Statale, è ancora in corso la nuova edizione degli «Esperimenti danteschi», quest’anno dedicata all’«Inferno», con la presenza di prestigiosi dantisti italiani e stranieri. Che cosa suggeriscono queste «lecturae» rinate? Che la «Commedia» è stata letta per secoli nei modi classici della lectio accademica. E che Benigni è un felice episodio di una lunga trafila. E poi ci ricordano il potere ’salutare’ (come avrebbe detto Luzi) del poema: non solo in senso religioso, ma in chiave di pienezza della lingua, messa a frutto in tutta la sua efficacia ed economicità.
La potente scaturigine dantesca richiama all’origine, alle fonti di una parola armonizzata per «legame musaico» e per ciò stesso sottratta a ogni usura, consumo, deprivazione di energia. Parla perciò alla comunità civile. E a volerla e saperla ascoltare, parla anche ai dispersi poeti della tarda modernità, non come un bene di rifugio, consolatorio, ma come una spinta a riconsiderare i fondamenti del loro dire, perché possa nuovamente risuonare (anche attraverso una riforma tecnica e metrica) pubblico e comunitario.
Benedetto Lutero
di Daniele Garrone, decano della Facoltà valdese di teologia di Roma
Nei giorni scorsi si è tornato a parlare di Lutero su alcuni quotidiani italiani. L’occasione è stata la notizia che, nel prossimo dei consueti incontri che ha con i suoi ex-allievi, il Papa intenderebbe occuparsi del pensiero del riformatore tedesco. Dall’incontro ci sarebbe da attendersi una rivalutazione degli elementi “cattolici” nel pensiero di Lutero. Il Financial Times bollava la presunta iniziativa con toni sarcastici: una cosmesi sull’immagine di Lutero non cambierebbe il dogmatismo di Benedetto XVI e non accrediterebbe una liberalizzazione della chiesa di Roma. Il portavoce di Roma precisava infine che nessuna riabilitazione di Lutero è in vista e che il tema del prossimo incontro di papa Ratzinger con i suoi allievi non è ancora fissato.
Staremo a vedere se e che cosa dirà il Papa di Lutero. Se la questione di fondo sarà, come si esprime Giacomo Galeazzi su La Stampa, stabilire se Lutero “voleva creare una frattura o, invece, intendeva sì riformare, ma senza traumi, la storia millenaria della Chiesa”, e se la risposta accoglierà la seconda ipotesi, vorrà dire che anche Roma riconosce ora, quasi 500 anni dopo, ciò che da decenni è accertato sul piano della storiografia e del dialogo ecumenico. Lutero intese sostanzialmente ripristinare su basi bibliche la cattolicità della chiesa, cioè la sua universalità in Cristo, che riteneva compromessa dalla tradizione della chiesa romana. Egli era convinto che la chiesa una, santa, cattolica e apostolica esiste in Cristo, dalla sua venuta fino al suo ritorno, e si manifesta là dove la comunità cristiana vive nella fede, è santificata dallo Spirito, ed amministra rettamente i sacramenti. Per questa sua interpretazione della cattolicità, universale e non “romana”, che deriva direttamente dal Credo niceno, fu scomunicato e messo al bando. Sarà interessante vedere come si parlerà di Lutero - se lo si farà - , in questi tempi in cui sempre più la chiesa di Roma si erge a criterio e misura della cattolicità, che ritiene di detenere compiutamente.
La comparsa passeggera di Lutero sulla stampa solleva però immediatamente un altro problema, tipico del nostro paese e della nostra cultura, che non esiterei a definire “questione protestante”. L’apporto che il protestantesimo, da Lutero in avanti, ha dato alla coscienza cristiana e alla società moderna, è in Italia semplicemente ignorato, strutturalmente rimosso. Si sa bene o male che c’è una minoranza protestante anche in Italia. Ma, se posso dirlo con una battuta, non si sa che cosa ci si è perso, come italiani, negli ultimi 500 anni.
Non si sa che è emersa una postura cristiana che ha contribuito a forgiare la modernità, quella di chi sostiene che nella chiesa non esiste clero ma tutti sono ugualmente laici e sacerdoti, soggetti liberi e responsabili, con la schiena dritta e la testa alta davanti ad ogni pretesa di assolutezza e di obbedienza, soggetti solo alla Parola di Dio che li chiama e li giudica. Una postura che, avendo declericalizzato la chiesa, ha desacralizzato la politica, contribuendo ad aprirla al pluralismo delle convinzioni e alla negoziazione delle decisioni.
L’emergere di questa postura ha segnato la storia di gran parte dell’Europa, del Regno Unito e degli Stati Uniti. Ma in Italia si può ancora ragionare come se tutto questo non ci fosse stato e, dai talk-show televisivi ai convegni sulla laicità, si può rappresentare un pluralismo variegato ma sempre rigorosamente senza confronto con le ragioni del protestantesimo. Che compare invece quando c’è qualcosa che suona come scoop. Non di scoop l’Italia ha bisogno, ma di recuperare dimensioni della storia moderna che le sono mancate, e che, tuttavia, potrebbero ancora farle un gran bene. (NEV, 10-11/2008)
Articolo tratto da
NEV - Notizie Evangeliche
Servizio stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia
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* il dialogo, Giovedì, 13 marzo 2008
Il Dante di Benigni "vale come una preghiera"
di Andrea Tornielli (Il giornale, lunedì 11 febbraio 2008) «Quella di Roberto Benigni, quella dei grandi interpreti della letteratura in televisione, è una scommessa vincente. Il servizio pubblico deve essere capace di compiere scelte coraggiose e promuovere vera cultura». Monsignor Rino Fisichella, vescovo e rettore della Pontificia università Lateranense, l’ateneo del Papa, ha davanti a sé la pagina del Giornale con l’intervista a Benigni. «Mi ha molto colpito, domani (oggi per chi legge, ndr) devo tenere un incontro con molti sacerdoti e partirò proprio da alcune delle sue espressioni su Gesù».
La sorprende questo successo delle letture di Dante?
«Nella sua trasmissione non c’è solo il fatto positivo di riportare in primo piano un grande protagonista della letteratura, c’è anche un grande interprete che fa gustare Dante e avvicina i giovani alla Divina Commedia: è una svolta di cui non solo la televisione, ma più in generale il nostro Paese ha bisogno».
La letteratura, l’incontro con grandi autori, può aiutare la fede cristiana?
«L’incontro tra letteratura e cristianesimo è uno dei più fecondi. La letteratura indaga il mistero dell’uomo, ci fa capire in modo espressivo che nel cuore dell’uomo albergano interrogativi, grandi domande di senso, di significato. Domande che non possono essere espresse con il linguaggio scientifico. La letteratura evoca, ci fa intuire il grande mistero dell’esistenza e le domande costitutive del nostro essere uomini».
Forse, ci sarebbe più bisogno di maestri in grado di far vibrare quei testi...
«Guardiamoci alle spalle: che cosa sarebbe stata l’umanità senza Omero, Sofocle, Dante Alighieri, Pascal o Papini, Bernanos e Peguy? In questi come in altri grandi autori risplende una capacità di esprimere la bellezza del cristianesimo, più che in tanti libri di teologia. Penso al Diario di un curato di campagna e a come quelle pagine esprimano la forza di un amore che ama e perdona». Ci sono stati maestri ed educatori che hanno avvicinato generazioni alla lettura dei classici. Ad esempio don Luigi Giussani, che citava il ...
Canto alla luna di Leopardi per evocare la domanda di felicità e compimento dell’uomo.
«La letteratura, non necessariamente cristiana, provoca il credente, la fede, la teologia a percepire la drammaticità dei grandi interrogativi del cuore umano. È stata anche la mia esperienza personale di docente, quando insegnavo alla IV ginnasio e iniziavo le mie lezioni con le pagine del Piccolo principe di Saint-Exupéry. Grazie a quelle pagine arrivavo ai nodi fondamentali dell’antropologia e della fede. Non vorrei poi che dimenticassimo che la Bibbia stessa ha testi stupendi di alta letteratura e di alta poesia. Prendiamo il Cantico dei Cantici o i salmi, o gli interrogativi espressi nel libro di Giobbe. Heidegger riconosceva che la poesia è la forma culminante per esprimere la realtà. Arte e letteratura sono una ricchezza inestimabile per la religione, che senza queste espressioni sarebbe impoverita e non esprimerebbe il mistero di Dio che si fa uomo».
Benigni ha detto: «Come si fa a non restare affascinati dalla figura di Gesù Cristo? Il Vangelo ti dice che puoi sempre ricominciare da capo. Ti mette nella condizione di fare ognuno la rivoluzione dentro se stesso. Prima che arrivasse Gesù il rapporto con Dio era fatto di dolore e lui se l’è preso tutto su di sé»...
«Parole che indicano quanto sia entrato nella profondità delle pagine evangeliche. Gesù, il figlio di Dio, con la sua esistenza ha dato una risposta alla nostra domanda di felicità e di significato».
Questo approccio ha qualcosa da insegnare a chi predica o insegna il catechismo?
«La bellezza va contemplata e contemplare significa anche rimanere in silenzio ad ascoltare chi ci propone un brano di letteratura. Vorrei ricordare, a proposito dell’inno “Vergine Madre Figlia del tuo Figlio”, che per noi quelle parole di Dante diventano preghiera, nella Liturgia delle Ore, in occasione di ogni festività mariana».
Benigni osserva che «tutta la nostra civiltà è cristiana senza saperlo - e il senza saperlo è forse la cosa più bella - lo si vede da ogni cosa che facciamo».
«È un’osservazione acutissima. Credo dovremmo prendere coscienza del fatto che tutto ciò che respiriamo trova compimento e fondamento in quel messaggio d’amore che è il Vangelo».
DIVINA COMMEDIA SUPERSTAR
(ANSA) - ROMA, 14 GEN - Il successo delle letture di Benigni la dice lunga. Applaudita in teatro e nelle piazze, la Divina Commedia continua ad emozionare. In Italia, certo. Ma anche all’estero, dove l’Opera del Sommo Poeta conquista il top nella hit del libro italiano più emozionante, che si rileggerebbe più volentieri.
A sottolineare il primato è il sondaggio mensile commissionato dal sito Internet della Società Dante Alighieri www.ladante.it: l’opera di Dante, che in una indagine precedente era già risultata la più significativa per la nostra identità nazionale con il 40% dei voti, prevale in questo caso con il 9% dei voti complessivi, seguita a ruota da altri big della letteratura del belpaese, da Umberto Eco a Manzoni e Tomasi di Lampedusa, Primo Levi. Non solo: perché in Brasile, dove certo non mancano grandi poeti nazionali, La Divina Commedia, secondo il portale Web ’Dominio Pubblico’ (citato dalla Dante Alighieri) è risultato il testo più letto dagli studenti che si stanno preparando per la prova obbligatoria di accesso all’università. Divina commedia superstar, quindi. Sebbene in quest’ultimo sondaggio, fanno notare dalla Società Dante Alighieri, il podio é stato insidiato fino all’ultimo giorno da ’Il nome della rosa’ di Eco, che ha raccolto l’8% delle preferenze. Ma anche da ’I promessi sposi’ di Alessandro Manzoni e ’Il Gattopardo’ di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (7%) e ’Se questo e’ un uomò di Primo Levi (6%). Nettamente distaccato, con il 3%, un altro vecchio classico, ovvero ’Cuore’ di De Amicis, seguito da ’La coscienza di Zeno’ di Italo Svevo (2%), in buona compagnia con ’Le avventure di Pinocchio’ di Collodi, ’Il barone rampante’ di Calvino, ’La storia’ di Elsa Morante e ’Và dove ti porta il cuore’ di Susanna Tamaro. Il maggior numero di contatti, riferiscono dalla Società Dante Alighieri, è arrivato dal continente americano, Argentina e Brasile su tutti. In Europa la palma d’oro va alla Svizzera, seguita da Francia, Spagna, Polonia ed Olanda. La novità assoluta arriva dall’Africa, in particolare il Marocco, con un notevole incremento di contatti rispetto al passato. La graduatoria, ricordano dalla Società è pubblicata sul portale della ’Dante’, dove si possono anche consultare i risultati finali di tutti i sondaggi precedenti. Con il 2008, infine, la Dante Alighieri lancia un nuovo quesito: "Qual è il poeta italiano, contemporaneo o classico, che preferisce?" , la gara è aperta, ognuno dica la sua.
Dante e Benigni. Ovvero: il gigante e il bambino.
di Rosario Amico Roxas
Benigni si spoglia della marsina del comico per leggere Dante e fornirne una interpretazione lontanissima dalle ricerche semantiche, teologiche, filosofiche, allegoriche, analogiche o anagogiche, per proporre un approccio capace di entrare dentro l’architettura della “Commedia”, per smontarla, pezzo dopo pezzo, dalle sovrastrutture e restituirla alla chiarezza della semplicità, come se fosse stata scritta per essere “raccontata” a tutti e non analizzata, studiata e interpretata da pochi.
Si è scomodato anche il Vaticano, per bocca del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, per sottolineare l’interpretazione di Benigni come quella di un grande teologo.
Con queste parole Bertone non ha premiato lo sforzo di chiarezza operato da Benigni, ma lo ha castigato proiettandolo dentro la pletora dei critici, dei supercritici, degli analisti, dei filologi, dei filosofi e dei teologi, che hanno avuto, ormai da 750 anni, la pretesa di far dire a Dante ciò che loro avrebbero voluto che dicesse.
Alle parole dette dal Segretario dello Stato vaticano si sono associati i nuovi critici e i nuovi interpreti, pronti, come sempre, a “soccorrere” il vincitore. Perché Benigni è stato ed è un vincitore, capace di affascinare la platea porgendo il cuore e mostrando l’anima, istruendo senza dottrina, con la sensibilità dei semplici.
Non viene tenuta in nessun conto la frase con la quale ha esordito prima di dedicarsi a quel 33° canto del Paradiso, ove viene composta la più bella e sentita invocazione alla Vergine dopo l’Ave Maria dell’Arcangelo Gabriele, la sola preghiera che accomuna cristiani e musulmani, che assimila Vangelo e Corano.
Con la semplicità di chi si appresta a narrare un affascinante racconto, Benigni ha esordito affermando: “Da grande non ci ho capito granché, ma da bambino avevo capito tutto”.
E’ tutto qui il mistero di un successo che travalica i limiti della critica, per entrare nell’alveo della cultura popolare, ingenua, semplice, comprensibile e accettata.
E’ vero, Benigni entra nel mondo dantesco servendosi di una “porta di servizio” ma solo perché l’ingresso principale è ancora intasato dalla fanfara dei “dotti e degli intelligenti”; infatti, come dice Cristo: “Ti ringrazio Dio Padre Onnipotente di avere nascosto ciò ai dotti e agli intelligenti e averlo rivelato ai semplici”.
Le dotte parole di Dante, l’architettura dei versi e l’articolazione del contenuto trovano la loro migliore identificazione in una trasposizione dalla dotta versione medievale del sommo poeta, (quando il letterato doveva essere competente in tutte le discipline conosciute), ad una esemplificazione apprezzabile e apprezzata perché liberata dalle sovrastrutture di una erudizione senza anima.
Il metodo di Benigni può essere sovrapposto alla letteratura dei Vangeli, alle esemplificazioni delle parabole, alle loro interpretazioni; le parole di Cristo che ci sono state tramandate perdono la loro efficacia diretta solo quando vengono manipolate in disquisizioni dogmatiche, altrimenti la loro presa è diretta, senza equivoci, penetrante.
“Lasciate che i fanciulli vengano a me”, come invito ai cuori semplici di avvicinarsi alla fonte viva della verità.
“Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, come sfida alla coscienza, attribuendo, solo ad essa, la capacità di giudicare.
E’ la forza grandissima della semplicità, della comunicazione diretta, capace di invadere e penetrare nelle coscienze, anche quando sono intorpidite nel sonno della ragione.
Ne sono certo: Benigni da bambino aveva capito tutto, adesso ci ripropone la sua esperienza e cerca di contagiare gli ascoltatori inoculando il gene del fanciullino, proponendo la sola chiave di lettura che illumina e non confonde, quella della purezza che alberga nell’animo incontaminato dei bambini.
«Vivere come figli di Dio, via di libertà» *
l’angelus
Il Pontefice: la santità non è privilegio per pochi eletti ma vocazione di ogni uomo
Alle ore 12 di ieri, solennità di Tutti i Santi, Benedetto XVI si è affacciato alla finestra del suo studio nel Palazzo apostolico vaticano per recitare l’Angelus con i fedeli e i pellegrini convenuti in Piazza San Pietro. Queste le parole del Papa nell’introdurre la preghiera mariana.
Cari fratelli e sorelle!
Nell’odierna solennità di Tutti i Santi, il nostro cuore, oltrepassando i confini del tempo e dello spazio, si dilata alle dimensioni del Cielo. Agli inizi del Cristianesimo, i membri della Chiesa venivano chiamati anche «i santi». Nella Prima Lettera ai Corinzi, ad esempio, san Paolo si ri- C volge «a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo» ( 1 Cor 1,2). Il cristiano, infatti, è già santo, perché il Battesimo lo unisce a Gesù e al suo mistero pasquale, ma deve al tempo stesso diventarlo, conformandosi a Lui sempre più intimamente. A volte si pensa che la santità sia una condizione di privilegio riservata a pochi eletti. In realtà, diventare santo è il compito di ogni cristiano, anzi, potremmo dire, di ogni uomo! Scrive l’Apostolo che Dio da sempre ci ha benedetti e ci ha scelti in Cristo «per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità» ( Ef 1,3-4). Tutti gli esseri umani sono pertanto chiamati alla santità che, in ultima analisi, consiste nel vivere da figli di Dio, in quella «somiglianza» con Lui secondo la quale sono stati creati. Tutti gli esseri umani sono figli di Dio, e tutti devono diventare ciò che sono, attraverso il cammino esigente della libertà. Tutti Iddio invita a far parte del suo popolo santo. La «Via» è Cristo, il Figlio, il Santo di Dio: nessuno giunge al Padre se non per mezzo di Lui (cfr Gv 14,6).
Sapientemente la Chiesa ha posto in stretta successione la festa di Tutti i Santi e la Commemorazione di tutti i fedeli defunti. Alla nostra preghiera di lode a Dio e di venerazione degli spiriti beati, che oggi la liturgia ci presenta come «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua » ( Ap 7,9), si unisce la preghiera di suffragio per quanti ci hanno preceduto nel passaggio da questo mondo alla vita eterna. Ad essi domani dedicheremo in modo A speciale la nostra preghiera e per essi celebreremo il Sacrifico eucaristico. In verità, ogni giorno la Chiesa ci invita a pregare per loro, offrendo anche le sofferenze e le fatiche quotidiane affinché, completamente purificati, essi siano ammessi a godere in eterno la luce e la pace del Signore.
Al centro dell’assemblea dei Santi, risplende la Vergine Maria, «umile ed alta più che creatura» (Dante, Paradiso, XXXIII, 2). Ponendo la nostra mano nella sua, ci sentiamo animati a camminare con più slancio sulla via della santità. A Lei affidiamo il nostro impegno quotidiano e La preghiamo oggi anche per i nostri cari defunti, nell’intima speranza di ritrovarci un giorno tutti insieme, nella comunione gloriosa dei Santi.
Benedetto XVI
* Avvenire, 02.11.2007
Ahi Costantin di quanto mal fu madre
di EUGENIO SCALFARI *
Tra le tante questioni che affliggono il nostro paese, insolute da molti anni e alcune risalenti addirittura alla fondazione dello Stato unitario, c’è anche quella cattolica. Probabilmente la più difficile da risolvere. Personalmente penso anzi che resterà per lungo tempo aperta, almeno per l’arco di anni che riguardano le tre o quattro generazioni a venire. Roma e l’Italia sono luoghi di residenza millenaria della Sede apostolica e perciò si trovano in una situazione anomala rispetto a tutte le altre democrazie occidentali. Se guardiamo agli spazi mediatici che la Santa Sede, il Papa, la Conferenza episcopale hanno nelle televisioni e nei giornali ci rendiamo conto a prima vista che niente di simile accade in Francia, in Germania, in Gran Bretagna, in Olanda, in Scandinavia e neppure nelle cattolicissime Spagna e Portogallo per non parlare degli Usa, del Canada e dell’America Latina dove pure la popolazione cattolica ha raggiunto il livello di maggiore densità.
Da noi le reti ammiraglie di Rai e di Mediaset trasmettono sistematicamente ogni intervento del Papa e dei Vescovi. L’"Angelus" è un appuntamento fisso. Le iniziative e le dichiarazioni dei cattolici politicamente impegnati ingombrano i giornali, il presidente della Repubblica, appena nominato, sente il bisogno di inviare un messaggio di "presentazione" al Pontefice, cui segue a breve distanza la visita ufficiale. Tutto ciò va evidentemente al di là d’una normale regola di rispetto e dipende dal fatto che in Italia il Vaticano è una potenza politica oltre che religiosa. Ciò spiega anche la dimensione dei finanziamenti e dei privilegi fiscali dei quali gode il Vaticano, la Santa Sede e gli enti ecclesiastici; anche questi senza riscontro alcuno negli altri paesi.
Infine il rapporto di magistero che la gerarchia ecclesiastica esercita sulle istituzioni ovunque vi sia una rappresentanza di cattolici militanti e la funzione di guida politica che di fatto orienta i partiti di ispirazione cattolica e quindi cospicui settori del Parlamento.
La questione cattolica è dunque quella che spiega più d’ogni altra la diversità italiana. Spiega perché noi non saremo mai un "paese normale". Perché una parte rilevante dell’opinione pubblica, della classe politica, dei mezzi di comunicazione, delle stesse istituzioni rappresentative, sono etero-diretti, fanno capo cioè e sono profondamente influenzati da un potere "altro". Quello è il vero potere forte che perdura anche in tempi in cui la secolarizzazione dei costumi ha ridotto i cattolici praticanti ad una minoranza. "Ahi Costantin, di quanto mal fu madre...".
La questione cattolica ha attraversato varie fasi che non è questa la sede per ripercorrere. Basti dire che si sono alternate fasi di latenza durante le quali sembrava sopita, e di vivace ed aspra riacutizzazione.
Il mezzo secolo della Prima Repubblica, politicamente dominato dalla Democrazia cristiana, fu paradossalmente una fase di latenza. La maggioranza era etero-diretta dal Vaticano e dagli Stati Uniti, il Pci era etero-diretto dall’Unione Sovietica. Entrambi i protagonisti accettavano questo stato di cose, insultandosi sulle piazze e dai pulpiti, ma assicurando, ciascuno per la sua parte, un sostanziale equilibrio. Quando qualcuno sgarrava, veniva prontamente corretto.
Ma la fase attuale non è affatto tranquilla, la questione cattolica si è riacutizzata per varie ragioni, la prima delle quali è l’emergere sulla scena politica dei temi bioetici con tutto ciò che comportano.
La seconda ragione deriva dalla linea assunta da Benedetto XVI che ritiene di spingere il più avanti possibile le forme di protettorato politico-religioso che il Vaticano esercita in Italia, per farne la base di una "reconquista" in altri paesi a cominciare dalla Spagna, dal Portogallo, dalla Baviera, dall’Austria e da alcuni paesi cattolici dell’America meridionale. Le capacità finanziarie dell’episcopato italiano forniscono munizioni non trascurabili per sostenere questo disegno che ha come obiettivo l’esportazione del modello italiano laddove ne esistano le condizioni di partenza.
A fronte di quest’offensiva le "difese laiche" appaiono deboli e soprattutto scoordinate. Si va da forme d’intransigenza che sfiorano l’anticlericalismo ad aperture dialoganti ma a volte eccessivamente permissive verso i diritti accampati dalla "gerarchia". Infine permane il sostanziale disinteresse della sinistra radicale, che conserva verso il laicismo l’antica diffidenza di togliattiana memoria.
Si direbbe che il solo dato positivo, dal punto di vista laico, sia una più acuta sensibilità autonomistica che ha conquistato una parte dei cattolici impegnati nel centrosinistra. Ma si tratta di autonomia a corrente variabile, oggi rimesso in discussione dalla nascita del Partito democratico e dai vari posizionamenti che essa comporta per i cattolici che ne fanno parte. Con un’avvertenza di non trascurabile peso: secondo recenti sondaggi nell’ultimo decennio i cattolici schierati nel centrosinistra sarebbero discesi dal 42 al 26 per cento. Fenomeno spiegabile poiché gran parte dell’elettorato ex Dc si trasferì fin dal 1994 su Forza Italia; ma che certamente negli ultimi tempi ha accelerato la sua tendenza.
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Un fenomeno degno di interesse è quello del recente associazionismo delle famiglie. Non nuovo, ma fortemente rilanciato e unificato dal "forum" che scelse come organizzatore politico e portavoce Savino Pezzotta, da poco reduce dalla lunga leadership della Cisl e riportato alla ribalta nazionale dal "Family Day" che promosse qualche mese fa in piazza San Giovanni il raduno delle famiglie cattoliche.
Da allora Pezzotta sta lavorando per trasformare il "forum" in un movimento politico. "Non un partito" ha precisato in una recente intervista "ma un quasi-partito; insomma un movimento autonomo che potrà eventualmente appoggiare qualche partito di ispirazione cristiana che si batta per realizzare gli obiettivi delle famiglie. Sia nei valori che sono ad esse intrinseci sia per i concreti sostegni necessari a realizzare quei valori".
L’obiettivo è ambizioso e fa gola ai partiti di impronta cattolica, ma Pezzotta amministra con molta prudenza la sigla di cui è diventato titolare. Dico sigla perché al momento non sappiamo quale sia la sua realtà organizzativa e la sua effettiva spendibilità politica.
Sembra difficile che il nascituro movimento delle famiglie possa praticare una sorta di collateralismo rispetto ai settori cattolici militanti nel Partito democratico: la piazza di San Giovanni non sembrava molto riformista, le voci che l’hanno interpretata battevano soprattutto su rivendicazioni economiche ma non basterà riconoscergliele per acquistarne il consenso e il voto. A torto o a ragione le famiglie e le sigle che le rappresentano ritengono che quanto chiedono sia loro dovuto. Il voto elettorale è un’altra cosa e non sarà Pezzotta a guidarlo. Ancor meno i vari Bindi, Binetti, Bobba nelle loro differenze. Voteranno come a loro piacerà, seguendo altre motivazioni e inclinazioni, influenzate soprattutto dai luoghi in cui vivono e dai ceti sociali e professionali ai quali appartengono.
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Un elemento decisivo della questione cattolica e dell’anomalia che essa rappresenta è costituito dalla dimensione degli interessi economici della Santa Sede e degli enti ecclesiastici, del loro "status" giuridico e addirittura costituzionale (il Trattato del Laterano è stato recepito in blocco con l’articolo 7 della nostra Costituzione) e dei privilegi fiscali, sovvenzioni, immunità che fanno nel loro insieme un sistema di fatto inattaccabile. Basti pensare che la Santa Sede rappresenta il vertice di un’organizzazione religiosa mondiale e fruisce ovviamente d’un insediamento altrettanto mondiale attraverso la presenza dei Vescovi, delle parrocchie, degli Ordini religiosi, delle Missioni. Ma, intrecciata ad essa c’è uno Stato - sia pure in miniatura - che gode d’un tipo di immunità e di poteri propri di uno Stato e quindi di una soggettività diplomatica gestita attraverso i "nunzi" regolarmente accreditati presso tutti gli altri Stati e presso le organizzazioni internazionali.
Questa doppia elica non esiste in nessun’altra delle Chiese cristiane ed è la conseguenza della struttura piramidale di quella cattolica e della base territoriale da cui trasse origine lo Stato vaticano e il potere temporale dei Papi. Non scomoderemo Machiavelli e Guicciardini, Paolo Sarpi e Pietro Giannone per ricordare quali problemi ha sempre creato il potere temporale nella storia della nazione italiana, nell’impossibilità di realizzare l’unità nazionale quando gli altri paesi europei avevano già da secoli raggiunto la loro ed infine lo scarso senso dello Stato che gli italiani hanno avuto da sempre e continuano abbondantemente a dimostrare. Sarebbe storicamente scorretto attribuire unicamente al potere temporale dei Papi questo deficit di maturità civile degli italiani, ma certo esso ne costituisce uno dei principali elementi.
Purtroppo il temporalismo è una tentazione sempre risorgente all’interno della Chiesa; sotto forme diverse assistiamo oggi ad un tentativo di resuscitarlo che si esprime attraverso la presenza politica diretta dell’episcopato nelle materie "sensibili" il cui ventaglio si sta progressivamente ampliando.
Negli scorsi giorni l’atmosfera si è ulteriormente riscaldata a causa di una frase di Prodi che esortava i sacerdoti a sostenere la campagna del governo contro le evasioni fiscali e lamentava lo scarso contributo della Chiesa ad un tema così rilevante.
Credo che Prodi, da buon cattolico, abbia pronunciato quella frase in perfetta buonafede ma, mi permetto di dire, con una dose di sprovveduta ingenuità. Lo Stato non rappresenta un tema importante per i sacerdoti e per la Chiesa. Ancorché i preti e i Vescovi siano cittadini italiani a tutti gli effetti e con tutti i diritti e i doveri dei cittadini italiani, essi sentono di far parte di quel sistema politico-religioso che a causa della sua struttura è totalizzante. La cittadinanza diventa così un fatto marginale e puramente anagrafico; salvo eccezioni individuali, il clero si sente e di fatto risulta una comunità extraterritoriale. Pensare che una delle preoccupazioni di una siffatta comunità sia quella di esortare gli italiani a pagare le tasse è un pensiero peregrino. Li esorta - questo sì - a mettere la barra nella casella che destina l’otto per mille del reddito alla Chiesa. Un miliardo di euro ha fruttato all’episcopato italiano quell’otto per mille nel 2006. Ma esso, come sappiamo, è solo una parte del sostegno dello Stato alla gerarchia, alle diocesi, alle scuole, alle opere di assistenza.
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Come si vede la pressione cattolica sullo Stato "laico" italiano è crescente, si vale di molti mezzi, si manifesta in una pluralità di modi assai difficili da controllare e da arginare.
Le difese laiche - si è già detto - sono deboli e poco efficaci: affidate a posizioni individuali o di gruppi minoritari ed elitari contro i quali si ergono "lobbies" agguerrite e perfettamente coordinate da una strategia pensata altrove e capillarmente ramificata. Quanto al grosso dell’opinione pubblica, essa è sostanzialmente indifferente. La questione cattolica non fa parte delle sue priorità. La gente ne ha altre, di priorità. È genericamente religiosa per tradizione battesimale; la grande maggioranza non pratica o pratica distrattamente; i precetti morali della predicazione vengono seguiti se non entrano in conflitto con i propri interessi e con la propria "felicità". In quel caso vengono deposti senza traumi particolari.
Perciò sperare che la democrazia possa diventare l’"habitus" degli italiani è arduo. Gli italiani non sono cristiani, sono cattolici anche se irreligiosi. Questo fa la differenza.
* la Repubblica, 5 agosto 2007
IDEE
Il filosofo Spaemann mette in guardia da chi accusa le religioni di fomentare l’odio e il terrore: all’origine dei tre monoteismi vi è una divinità che si rivolge all’uomo attraverso il «logos». La ragione, dunque, appartiene al credente in quanto relazione con l’altro. Chi rifiuta questa dimensione dialogica apre la strada alla conflittualità
Ma Dio non è violenza
«Troppo spesso ancora nel mondo musulmano vince la via sanguinaria. Anche l’islam deve intraprendere la strada del dialogo comune»
di Robert Spaemann (Avvenire, 18.07.2007)
Non è un caso che il discorso di Regensburg abbia aperto un controverso dialogo con l’Islam. Senza il colpo di avvertimento costituito dalla citazione di un imperatore bizantino, più di trenta famosi professori islamici forse non avrebbero mai pensato di accettare l’invito al dialogo, di prenderlo sul serio, di rispondere gentilmente e di cominciare subito ad avanzare delle critiche invece dei soliti scambi di cortesie. Che altri musulmani abbiano reagito con un atto di violenza sanguinaria conferma che la questione del rapporto fra fede e violenza resta per l’Islam un problema aperto. Il Papa ha facilitato l’apertura di un dialogo serio ammettendo senza infingimenti apologetici che anche la cristianità ha avuto questo problema per tanto tempo e che spera che l’Islam compia lo stesso processo di apprendimento che ha compiuto la Chiesa. Oggetto di tale dialogo sarà verificare se il Corano favorisca un tale processo allo stesso modo del Nuovo Testamento. Metterlo inizialmente in dubbio fa parte di un onesto inizio di dialogo.
Ci si potrebbe chiedere perché bisogna discuterne e forse scontrarsi. Se i musulmani avessero un altro Dio rispetto ai cristiani un tale scontro sarebbe privo di senso. I cristiani potrebbero solo ribadire che non credono all’esistenza di quel Dio. In effetti tanti cristiani ritengono che Allah sia un altro Dio rispetto a quello dei cristiani. Se fosse così non avrebbe alcun senso scontrarsi rispettosamente su come si debba pensare e parlare correttamente di Dio. Ma in conformità col suo grande predecessore medievale Gregorio VII e col Concilio Vaticano II, Benedetto XVI parte dal presupposto che gli ebrei, i cristiani e i musulmani pregano lo stesso Dio uno e unico.
La lezione magistrale di Regensburg parla soprattutto della differenza che nel mondo di oggi salta agli occhi. Essa riguarda il tema «Dio e violenza». Ricollegandosi alle riflessioni di un imperatore bizantino, il Papa collega questo all’altro tema: «Dio e ragio ne». La ragione è quello step beyond ourselves la cui possibilità la modernità nega. Ho cercato, riferendomi a Nietzsche, di mostrare che questa possibilità dipende dall’esistenza di Dio e proprio di un Dio che nella sua essenza è luce. La ragione dunque non è uno strumento di sopravvivenza dell’homo sapiens, ma partecipazione alla luce divina e un vedere il mondo in questa «luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9). Questa luce, come dice Platone, fa vedere il bene come il koinon, «ciò che è comune a tutti» (cfr. Platone, Fedone). Non a caso Eraclito parla a questo riguardo del logos, e logos significa anche «parola».
Soltanto attraverso la parola, soltanto attraverso la lingua, attraverso il parlare con gli altri, noi ragioniamo. La violenza però è l’esatto contrario del parlare con gli altri. Lo scopo del discorso è l’intesa tramite la comune sottomissione al criterio del vero, lo scopo della violenza è la sottomissione dell’altro alla volontà di colui che si dimostra fisicamente più forte. Michel Foucault, che nega l’intelligibilità del mondo, deve di conseguenza minimizzare la differenza tra dialogo e violenza. Siccome non esiste un qualcosa che sia verità, anche nel dialogo può trattarsi solo di misurare le forze nella lotta per il potere. Così già pensavano d’altronde i sofisti con i quali si scontrò Socrate. Soltanto quando si dà verità come koinon si dà un’alternativa alla violenza. Il criterio della forza fisica non ha nulla a che fare con quello della verità. E la vittoria nello scontro violento solo per caso può anche essere la vittoria del migliore. C’è la forza legittima dello Stato, la cui ragione risiede nell’impedire la violenza tra gli individui, c’è la forza legittima del potere statale per la difesa contro la violenza di un’ingiusta aggressione. Ma lo scatenarsi della violenza, la trasformazione del dialogo in violenza è semp re il fallimento della ragione, e la probabilità che una situazione violenta possa essere migliorata con la violenza è scarsa.
Ma è soprattutto la violenza nel nome di Dio che è condannata inequivocabilmente da Benedetto XVI. Dio come Signore della storia agisce attraverso tutto ciò che succede e anche la violenza dei violenti alla fine dovrà servire al Suo scopo. Ma lo serve solo come tutto ciò che è malvagio. La Sua volontà è fatta sempre e dappertutto. Non deve chiedere il permesso. Ma non dappertutto sulla terra succede come in cielo, e cioè attraverso il conformarsi della volontà degli angeli e degli uomini alla volontà di Dio. Mefistofele, nel Faust di Goethe, confessa di essere parte «di quella Forza che sempre vuole il male e sempre il bene crea». Noi preghiamo affinché la volontà di Dio non sia fatta sulla terra così, ma «come in cielo», e questo significa anche: non tramite la violenza. Anche il popolo di Israele, a questo riguardo, ha compiuto un processo di apprendimento che si conclude soltanto con Gesù. E nonostante questa conclusione, la cristianità nel Medioevo ha creduto ancora di dover punire con pene temporali fino alla condanna a morte almeno l’apostasia e l’eresia: un punto di vista che vige ancora oggi nei Paesi islamici.
Ma non si può costringere a rimanere nella luce con i mezzi delle tenebre. Laddove dei cristiani vengono perseguitati in quanto cristiani, essi, seguendo il loro Signore, rinunciano a restituire la violenza. Dove dei cristiani, d’altronde, difendono legittimamente la civitas terrena in qualità di cittadini di essa, sanno che il processo della violenza, nei suoi esiti, è indifferente alla giustizia e all’ingiustizia. Non si presenteranno dunque in nome di Dio e in nome del bene per punire i cattivi e terranno l’odio che avvelena l’anima fuori dallo scontro. Dove vige la violenza, la ragione tace e l’unica forma della sua perdurante presenza può essere soltanto quel rispetto dei nemici che anticipa già la riconciliazione.
Non sempre possiamo decidere se avere o no nemici. A volte può essere giusto smitizzare l’idea del nemico, a volte no. Dobbiamo verificare l’idea che abbiamo del nemico confrontandola con la realtà. Ma ciò che invece possiamo decidere è di chiedere la forza di amare i nemici. Tale forza trasforma lo status della violenza che si oppone a Dio ed è il suo modo supremo con cui la luce può illuminare le tenebre, la luce della ragione e dell’amore, il cui massimo testimone è nel nostro tempo Papa Benedetto XVI.
IL DIBATTITO
Dopo Ratisbona, quale dialogo tra le fedi?
Il richiamo alla ragione che Benedetto XVI ha fatto nel discorso di Ratisbona ha suscitato un dibattito molteplice e anche incomprensioni forzate, sebbene il discorso del Papa fosse incentrato sulla necessità di un dialogo che abbia come riferimento il criterio della verità. Su questo ora prendono la parola cinque intellettuali nel volume «Dio salvi la ragione», edito da Cantagalli, che, oltre al testo di Benedetto XVI, presenta gli interventi di Wael Farouq, André Glucksmann, Sari Nusseibeh, Robert Spaemann e Joseph H.H. Weiler. Dal volume, pubblichiamo alcuni stralci del saggio del filosofo Robert Spaemann (nella foto), incentrati sulla questione del presunto rapporto fra religione e violenza.
DIBATTITO La postmodernità ha posto l’esigenza di riportare la fede nel discorso pubblico Come ha dimostrato l’ultima discussione tra Jürgen Habermas e Joseph Ratzinger. I due concordano sulla necessità di scommettere sulla religione perché nelle attuali società secolarizzate essa può far crescere coscienza normativa e solidarietà civile
Processo all’Illuminismo
Ma sul futuro pesa la «razionalità plurale» espressa da Rorty e Vattimo e simbolizzata dal labirinto (Eco e Borges) e dal rizoma
di Rosino Gibellini (Avvenire, 12.07.2007)
Alle origini della postmodernità vi è l’annuncio della «morte di Dio» di Nietzsche, che toglie il fondamento ultimo alla realtà; i «sentieri interrotti» di Heidegger nei confronti di una teoria generale dell’essere; e la svolta verso il pluralismo del linguaggio di Wittgenstein. La concettualità della postmodernità è stata introdotta in filosofia dal filosofo francese Jean-François Lyotard con La condizione postmoderna (1979), caratterizzata come fine dei grands récits, dei megaracconti del progresso e delle mete finali del divenire storico; e ha inoltre i suoi filosofi in Jacques Derrida con il «decostruzionismo» e con il pensiero della «differenza»; in Gianni Vattimo con il «pensiero debole»; in Richard Rorty con il «neopragmatismo». La postmodernità come ricerca di una razionalità plurale ha i suoi simboli nel rizoma (Deleuze e Guattari), nel labirinto (Borges e Eco), e nella rete senza centro.
Un esempio illuminante di questo percorso è il dibattito, avvenuto in Europa in anni recenti, sul futuro dell’illuminismo. Subito dopo il secondo conflitto mondiale Adorno e Horkheimer pubblicavano la Dialettica dell’illuminismo (1947), nella quale i due filosofi francofortesi mostravano come il processo storico dell’illuminismo si era mutato nel suo contrario, in una universale alienazione in quanto la ragione storica si è fatta ratio del dominio sull’uomo e sulla natura.
A quarant’anni (1947-1987) dalla pubblicazione di quell’opera, che poneva in termini nuovi il dibattito sull’illuminismo e sulla sua storia degli effetti, un gruppo di eminenti studiosi ha voluto ripercorrere la «dialettica dell’illuminismo» nell’opera Il futuro dell’illuminismo (1988). Per Habermas, si tratta di individuare il «nucleo razionale» dell’illuminismo, al di là delle ambiguità storiche: questo nucleo razionale è un lascito da conservare e da sviluppare per affrontare in nuovi problemi, «che, semmai, possono esser risolti solo alla luce del sole, solo con la cooperazione, solo con le ultime gocce di una solidarietà pressoché dissanguata». Nell’ambito di questa revisione critica hanno portato il loro contributo anche i teologi Metz e Moltmann, i principali rappresentanti della teologia politica europea. Per Moltmann, la cultura dell’illuminismo «non è minacciata dall’esterno, ad esempio, dalla "sindrome conservatrice", o dalle "controrivoluzioni religiose", o dalle profezie della "fine dell’epoca moderna", o dal "postmoderno", o dalla New Age, bensì dalle contraddizioni dello stesso illuminismo».
Le «tre grandi contraddizioni» sono: a) il contrasto strutturale tra il prog