STORIA D’ITALIA (1994-2010). CON un Partito camuffato (e tuttavia autorizzato dalle Istituzioni, non una ma due volte!) da PARTITO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA, IL CAVALIERE SFERRA L’ATTACCO AL QUIRINALE E ALLA COSTITUZIONE: "FORZA ITALIA"!, FORZA "POPOLO DELLA LIBERTA’"! - "L’ITALIA SONO IO" E IL DIRITTO E’ "UN DIRITTO AD PERSONAM"!!!
COSTITUZIONE
DELLA REPUBBLICA ITALIANA:
L’ITALIA E’ UNA REPUBBLICA (ART. 1),
UNA E INDIVISIBILE (ART. 5).
LA SUA BANDIERA E’ IL TRICOLORE (ART. 12)...
E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E’
IL CAPO DELLO STATO
E RAPPRESENTA L’UNITA’ NAZIONALE (ART. 87)
SIG. PRESIDENTE
DELLA REPUBBLICA ITALIANA
SIG. PRESIDENTE
DELLA CORTE COSTITUZIONALE
CARISSIMO CITTADINO
GIORGIO NAPOLITANO
CARISSIMO CITTADINO
FRANCESCO AMIRANTE
A VOI ARBITRI IMPARZIALI DELLA VITA POLITICA DELLA NOSTRA SOCIETA’ DI CITTADINI-SOVRANI E DI CITTADINE-SOVRANE CHIEDO UN INTERVENTO DI CHIARIFICAZIONE E UN MESSAGGIO ILLUMINANTE.
L’ITALIA HA UN SOLO PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA E LA PAROLA "ITALIA" E’ COSTITUZIONALMENTE SOLO SUA.
NESSUNO PUO’ APPROPRIARSENE PER FARNE PAROLA DI PARTITO O SCUDO PER COPRIRE INTERESSI DI PARTE, COME E’ AVVENUTO E CONTINUA AD AVVENIRE SOTTO GLI OCCHI SUOI E DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE D’ITALIA.
NON E’ PIU’ POSSIBILE TEMPOREGGIARE E GIOCARE CON IL FUOCO E CON LA MORTE CIVILE CULTURALE E POLITICA VOSTRA E DELL’INTERA ITALIA.
LA "LOGICA" E IL SOFISMA DEL MENTITORE ISTITUZIONALE HA ASSICURATO AL PARTITO "FORZA ITALIA" UNA MAGGIORANZA FALSA E BUGIARDA, CAMUFFATA DA LEGALITA’ E LEGITTIMITA’, E PRODOTTO UNO STRAVOLGIMENTO DELLE STESSE REGOLE COSTITUZIONALI.
NON SI PUO’ PIU’ PROCEDERE OLTRE SU QUESTA STRADA DI DEVASTAZIONE E MORTE CULTURALE POLITICA E CIVILE. E’ L’ORA DI DIRE SEMPLICEMENTE E DECISAMENTE LA VERITA’ E RISTABILIRE L’AUTORITA’ DELLA LEGGE DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI:
OLTRE C’E’ SOLO LA FINE DI OGNI DIGNITA’, COME DELLA VOSTRA COSI’ DELL’INTERA ITALIA.
PER UNA VERA PACIFICAZIONE E UN VERO DIALOGO TRA LE FORZE IN CAMPO
CHIEDO
UN VOSTRO INTERVENTO E UN VOSTRO MESSAGGIO DI CHIARIFICAZIONE IN MERITO.
IL MIO AUGURIO E LA MIA SOLLECITAZIONE E’
CHE
LA PAROLA
"ITALIA"
VENGA RESTITUITA IMMEDIATAMENTE
AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA,
AL CITTADINO GIORGIO NAPOLITANO,
ALL’INTERO PARLAMENTO
E A TUTTI I CITTADINI E A TUTTE LE CITTADINE
D’ITALIA!!!
E CHE SOTTO LA VOSTRA
IMPARZIALE E COSTITUZIONALE GUIDA
E CON VOI
TUTTI I CITTADINI E TUTTE LE CITTADINE,
TUTTI I GIOVANI E TUTTE LE GIOVANI,
TUTTI GLI STUDENTI E TUTTE LE STUDENTESSE
D’***ITALIA***
POSSANO RICOMINCIARE A GRIDARE IN MODO CHIARO, SERENO, DIGNITOSO E FIERO
SENZA TRUCCHI E SENZA INGANNI
FORZA ***ITALIA***, VIVA L’***ITALIA***
Che l’Italia viva: Forza ***Italia***!!!
VIVA L’ITALIA!!!
Federico La Sala (25.05.2009)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
1992-2010: LA GUERRA DI "FORZA ITALIA" CONTRO L’ITALIA.
Xanti Schawinsky, Sì, 1934 |
Mattarella: "Costituzione, inno e bandiera i riferimenti che ci guidano"
Il Presidente nel messaggio per l’Unità d’Italia: "La Carta garantisce risorse per sfide complesse"
di Redazione ANSA (17 marzo 2023->https://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2023/03/17/mattarella-costituzione-inno-e-bandiera-i-riferimenti-che-ci-guidano_c7b81537-523c-4aee-9fa1-81087ae76988.html])
ROMA. "Viviamo oggi, con il conflitto scatenato dalla Federazione Russa in territorio ucraino, un’aperta minaccia che ci impone una ferma risposta unitaria in seno alla comune identità europea e atlantica, affinché venga posta fine ai combattimenti e si raggiunga un duraturo accordo di pace".
Lo afferma il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in un messaggio in occasione dell’anniversario dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera.
Con lui - tra gli altri - il presidente del Senato, Ignazio La Russa, la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, il vicepresidente della Camera Fabio Rampelli e la presidente della Corte Costituzionale, Silvana Sciarra. Il capo dello Stato ha deposto una corona d’alloro sulla tomba del Milite Ignoto.
"La Repubblica, in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. Gli stessi che, ispirando la nostra società, garantiscono le risorse morali necessarie a fronteggiare le sfide complesse che la contemporaneità ci mette innanzi", afferma Mattarella nel messaggio.
"La Repubblica, in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. La Costituzione, l’Inno degli italiani e la Bandiera sono i riferimenti che ci guidano nell’impegno comune di consolidare un’Italia fondata su pace, libertà e diritti umani" prosegue il capo dello Stato.
"Celebriamo oggi - prosegue il Capo dello Stato - l’anniversario dell’Unità d’Italia, che è "Giornata dell’Unità Nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera". 162 anni fa, sotto il Tricolore, con i plebisciti popolari si espressero la sovranità e la volontà che, attraverso l’opera risorgimentale, avevano portato alla costituzione dello Stato italiano. Il primo pensiero va alle generazioni che hanno accompagnato questo traguardo, a quanti, con il loro operato, hanno contribuito alla nascita e alla crescita del nostro Paese, promuovendo quei valori di civile convivenza, quegli ideali di libertà e democrazia, di pace e di partecipazione allo Stato di diritto e alla comunità internazionale, che hanno trovato consacrazione nella nostra Costituzione. Viviamo oggi, con il conflitto scatenato dalla Federazione Russa in territorio ucraino, un’aperta minaccia a questi valori che ci impone una ferma risposta unitaria in seno alla comune identità europea e atlantica, affinché venga posta fine ai combattimenti e si raggiunga un duraturo accordo di pace". "La Repubblica - conclude Mattarella - in innumerevoli prove e, da ultimo, durante la pandemia, ha confermato sentimenti di unità e coesione stringendosi ai valori costituzionali. Gli stessi che, ispirando la nostra società, garantiscono le risorse morali necessarie a fronteggiare le sfide complesse che la contemporaneità ci mette innanzi. La Costituzione, l’Inno degli italiani e la Bandiera sono i riferimenti che ci guidano nell’impegno comune di consolidare un’Italia fondata su pace, libertà e diritti umani".
"Oggi l’Italia celebra la Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera, le fondamenta robuste sulle quali la nostra comunità si erge e dalle quali essa prende ispirazione". Lo afferma in una nota la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. "Il 17 marzo di 162 anni fa iniziava il cammino dell’Italia come Stato unitario e si realizzava l’auspicio di un giovane genovese, visionario e ribelle, come Goffredo Mameli: poter vedere gli italiani non più "calpesti e derisi" e "divisi", bensì raccolti in "un’unica bandiera". Il 17 marzo è la solennità nazionale più unificante che abbiamo e nel corso della quale quale siamo chiamati a ricordare le ragioni del nostro stare insieme. Perché, come ha spiegato Ernest Renan, la Nazione è una "grande solidarietà, un plebiscito che si rinnova ogni giorno e che si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti e di quelli che ancora siamo disposti a compiere". Questa è la sfida che abbiamo davanti, è l’impegno che dobbiamo onorare ogni giorno: riannodare i fili di ciò che ci unisce e riscoprirci una comunità. Solo così possiamo liberare le migliori energie della Nazione e dimostrare che nessuna meta è preclusa all’Italia. Buon 17 marzo a tutti gli italiani!"
AGENZIA ANSA
FdI: speriamo di festeggiare l’unità d’Italia già il 17 marzo 2024 - Politica
Con la proposta di legge che chiede di istituire il 17 marzo come festa nazionale dell’unità d’Italia, Fratelli d’Italia spera che il 17 marzo del 2024 si possa già festeggiare. (ANSA)
FILOLOGIA FILOSOFIA STORIA E DIVINA COMMEDIA (DANTE 2021):
QUANTE "NUVOLE" NEL CIELO DELLA "REPUBBLICA"!
UN LETARGO TEOLOGICO-POLITICO ANTROPOLOGICO E COSTITUZIONALE PROFONDO ha mandato in collasso tutte le istituzioni culturali e politiche di tutte le #Città.
Nelle #Università e nelle #Accademie laiche e devote si insegna ancora a credere che #Aristofane scherzasse su #Socrate! #Nietzsche ("#Crepuscolo degli #idoli") aveva ragione: la #filosofia del suo allievo #Platone contiene il segreto sul come rendere forte il discorso debole e debole il discorso forte, e sul come realizzare il #sogno del #sofista #re: egli ha truccato le "regole del gioco" dell’#Occidente e ha insegnato a una "parte" della intera umanità a come mettersi al di sopra di tutte le "parti", a un "partito" come mettersi al di sopra di tutti i "partiti", e a come imporre le proprie "olimpiche" demiurgiche "#Leggi" su tutta la #Fattoria! Un colpodistato più che millenario - al capolinea... #Giornatadellamemoria, #27gennaio 2023.
FILOLOGIA E STORIOGRAFIA DELLA STORIA D’ITALIA E "LA GENTE DALLA DOPPIA TESTA" (PARMENIDE).
DI COSA PARLANO GLI STORICI E LE STORICHE DELL’ITALIA QUANDO PARLANO E SCRIVONO DI STORIA D’ITALIA?
Parlano di "Dio" o di Dio, di "Patria" o di Patria, di "Famiglia" o di Famiglia? Siamo fratelli tutti, ma di quale famiglia, di quale patria e di quale Dio - quello di Italia o di "Italia"?
Archeologia, Antropologia, Giustizia, e Costituzione: "Homo pontifex" (MichelSerres). Per uscire dall’orizzonte del mentitore, forse, è opportuno ritornare a Elea e rivisitare la città di Parmenide e Zenone: la cosiddetta "Porta Rosa" non è affatto una "porta", ma è un viadotto, un ponte...
Intervista. Gerardo Bianco: elezione del capo dello Stato? Rischio svolta autoritaria
L’ex ministro Dc sulla proposta del centrodestra: presidenzialismo stravolge la Costituzione. Serve un risveglio dei cattolici, le parole del Papa in Canada erano rivolte a noi
di Angelo Picariello (Avvenire, martedì 2 agosto 2022)
«Il presidenziasmo? Sarebbe uno stravolgimento della Costituzione. In nome del populismo si seppellisce la nostra democrazia parlamentare, e potrebbe diventare l’avvio di una svolta autoritaria». Gerardo Bianco, passati i 90 anni, dedica la sua vita alla lettura e a tenersi informato. Nella gloriosa Dc è stato tante cose (capogruppo alla Camera più volte, ministro della Pubblica istruzione) e poi è stato segretario del Partito popolare.
Considerato uno degli storiografi più autorevoli di questa cultura politica, oggi ai margini dalle proposte politiche che vanno per la maggiore, si dice preoccupato per una «carenza di consapevolezza » che registra fra i cattolici, una sorta di mix di delusione e diserzione. -Il suo ragionamento parte da lontano. Da quello che il Papa ha inteso dirci con la sua visita in Canada: «Al di là della rappresentazione mediatica poco più che folkloristica, essa è stata un rivolgersi a noi, come San Paolo ai Colossesi, un invito a tutto l’Occidente a non smarrire sé stesso. Proprio la nostra crisi di identità ha consentito a Putin di scatenare la sua offensiva, un tentativo di disgregazione in atto che è di carattere culturale prima che bellico».
E questo c’entra con la campagna elettorale?
C’entra eccome, perché nei confronti di un popolo che sembra aver smarrito la sua identità la politica rispolvera il vecchio motto latino panem et cicencences, con proposte prive di una visione solidale, d’insieme, volte solo a catturare fasce di consenso sociale. La tradizione politica dei cattolici è un’altra cosa, non può nemmeno rifugiarsi in un’acritica idolatria del Pil, mentre ancora una volta il Papa ci sollecita a superare un consumismo sfrenato, indifferente al futuro del pianeta.
Che cosa occorre invece?
Serve un risveglio dei cattolici. Una nuova presa di coscienza. I grandi assenti sono i temi delle ultime Settimane sociali, delle grandi encicliche. Manca una vera consapevolezza del ruolo svolto dai cattolici nell’unità d’Italia, e nella promozione del progetto europeo.
Forse un momento così difficile lo si può paragonare solo al primo dopoguerra e agli anni di piombo.
Quella uscita dalla guerra era un’Italia poverissima, che seppe aprire una prospettiva di crescita, non basata su un’idea di benessere per il benessere, ma sulla sua forza morale. Penso al ruolo, umile ma dignitoso, svolto sul piano internazionale da De Gasperi nell’opera di ricostruzione; penso al sacrificio di Moro e al suo insegnamento negli anni di piombo, ma penso soprattutto al ruolo svolto da grandi costituenti come Dossetti, La Pira, Mortati, Fanfani, lo stesso Moro. Che seppero imprimere alla nostra Carta costituzionale il principio della centralità della persona umana. E ai movimenti anti-sistema seppero opporre la centralità dei corpi intermedi, un concetto di cui vedo scarsa consapevolezza, anche fra i cattolici.
Ma il problema della governabilità richiede, e non da oggi, una riforma delle istituzioni.
Se l’obiettivo fosse davvero questo sono altre le proposte da prendere in esame: ad esempio il modello del cancel-lierato, molto più compatibile con il nostro impianto costituzionale, e la sfiducia costruttiva, che imporrebbe a chi mette in crisi un governo di indicare contemporaneamente una soluzione alternativa.
E il presidenzialismo?
Si muove in tutt’altra direzione, mira proprio al superamento dei corpi intermedi su cui si basa il nostro assetto istituzionale. Un concetto mutuato dalla Dottrina sociale cristiana, richiamato già dalla Rerum novarum, di cui pochi si ricordano, in diretto collegamento alla centralità della persona umana che in questi organismi sviluppa la sua libertà, anche in nome del principio di sussidiarietà inserito nella nostra Carta costituzionale. Si vorrebbe ora passare a un modello, il presidenzialismo, che ha mostrato ovunque i suoi limiti: lo si è visto negli Usa, ma nell’America del Sud è stata la strada che ha aperto a una deriva istituzionale gravissima, che pari pari rischia di ripetersi in Italia.
Il centrodestra ha vinto già altre volte, in Italia.
Stavolta a vincere non sarebbe il centrodestra, ma la destra. E il vero rischio che vedo è lo stravolgimento della Costituzione, se avesse i numeri per poterlo fare da sola.
A sinistra quali rischi vede, invece?
Vedo il rischio del riproposi di modelli ormai superati, che hanno poco a che vedere con un’impostazione come la nostra. Mentre trovo giusto, invece, che essa porti alla luce le istanze dei ceti più deboli, come è naturale che altre forze portino avanti soprattutto quelle dei ceti produttivi. Poi toccherebbe a noi, come cattolici, il favorire - in nome del bene comune - che si tenga conto di tutti i fattori in gioco, senza idolatrare nessuna ideologia o classe sociale. Ma perché ciò avvenga c’è bisogno di una nuova presenza, e di un nuovo protagonismo, da mettere in campo.
La riflessione.
La comunicazione politica dentro la crisi: rispettateci anche a parole
di Mauro Magatti (Avvenire, domenica 17 gennaio 2021)
Nel passato, la parola data era sacra e, col suggello di una stretta di mano, stabiliva impegni vincolanti. Un retaggio che filtra fin nelle democrazie moderne che fanno del "parlamento" il palazzo dove i diversi interessi e i differenti punti di vista "si parlano", si confrontano, si accordano. Anche i sistemi politici più avanzati poggiano su quella fragile e delicata facoltà della vita umana che è la parola.
Sappiamo tutti quanto è difficile intendersi. Equivoci, fraintendimenti, ipocrisie, menzogne. Non certo solo in Parlamento. Ma al lavoro, in famiglia. Non sempre si dice quello che si pensa. Né si fa quello che si dice. Più spesso le parole vengono usate strategicamente per i propri obiettivi. Ingannando gli altri, violentando la realtà. Da qui si scatenano tensioni, litigi, lotte, sfiducia. Tutti ingredienti tristi della nostra vita.
Nulla di cui sorprendersi o scandalizzarsi dunque. La comunicazione umana, quando ha successo, ha qualcosa di miracoloso. E proprio poiché ne conosciamo la fragilità, col tempo si è affermata la tendenza a sostituirla con contratti scritti, procedure rigide, algoritmi. Col rischio di diventare una società di autistici. Ci sono situazioni, però, in cui la verità delle cose si impone con forza. In cui il bene che condividiamo è così necessario e forte da non ammettere furbizie o manipolazioni.
Così dopo quasi 11 mesi di pandemia, con ormai più di 80mila morti, con le scuole chiuse da quasi un anno, con interi settori economici distrutti, con ansia e preoccupazione in aumento nella popolazione, l’uso palesemente strumentale delle parole che abbiano ancora una volta visto nel ’teatrino della politica’ suona particolarmente stucchevole. L’Italia non meritava e non merita un tale spettacolo.
Un gruppo di governanti che pensa al bene comune, di fronte a delle legittime divergenze, si chiude in una stanza discute tutto il tempo necessario per arrivare a un accordo o a un disaccordo. E poi parla chiaro, e agisce alla luce del sole. E invece sono settimane (se non mesi) che il Paese è inchiodato in una pantomima dove tutti hanno un pezzo di ragione ma nessuno riconosce i propri torti. Renzi che critica (giustamente) certo immobilismo e verticismo di Conte, facendo però capire che il suo scopo non è semplicemente quello di dare buoni consigli al premier ma di rimandarlo a casa.
Conte che interviene con toni sempre rassicuranti su tutte le questioni facendo però finta di non sapere che il nostro (anziano) Paese è uno dei peggiori al mondo per numero assoluto di morti e di riduzione del Pil. I 5stelle che si dichiarano contrari al Mes (quando la nostra sanità avrebbe bisogno di ogni ulteriore risorsa) senza mai proporre una qualche ragione comprensibile, ma per pura affermazione identitaria e ideologica.
Il Pd che cerca di barcamenarsi in una coalizione traballante, ma non riconosce che, al di là delle speranza del primo momento, la coalizione di governo di fatto non riesce a prendere forma e consistenza. E intanto i leader dell’opposizione non perdono occasione per dire tutto quello che si sarebbe dovuto fare e che il governo non ha fatto elencando, senza vincolo di realtà, un numero più o meno infinito di decisioni che meravigliosamente ci avrebbero potuto portare fuori dalla crisi. Ma non fanno mai cenno dei fallimenti clamorosi registrati nelle Regioni in cui governano.
Con tutta la buona volontà, si tratta di uno spettacolo deprimente per il cittadino che cerca di farcela in mezzo a mille difficoltà. L’abuso della parola provoca un grave danno alla democrazia. Quando nessuno crede più a nessuno e si perde la fiducia nella possibilità di intendersi, il Parlamento diventa una ’torre di babele’ di cui qualcuno comincia a pensare di fare a meno. E questo è pericoloso. La parola comunicazione viene dal latino com-munis che rimanda all’idea di dono ’obbligatorio’.
Un’espressione che noi non riusciamo più nemmeno a cogliere. Come è possibile un dono obbligatorio? In realtà questa idea nasce dal presupposto che le relazioni (e quindi la comunicazione) siano rette su una obbligazione e che, proprio per questo, il comportamento individuale, pur libero, non possa prescindere da una serie di condizioni.
Che nel caso della comunicazione hanno a che fare con la ricerca della verità, la franchezza, l’onestà, la parresia. Senza obbligazione, la democrazia si riduce a puro scontro di potere, delegittimandosi di fronte al popolo. Soprattutto quando la verità dei fatti si impone per la sua gravità, non si possono usare le parole in modo solo strategico.
Serve un’ecologia della parola. Adesso.
Trump sospeso dai social, Cacciari: "E’ pazzesco"
di Redazione Adnkronos *
"C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump. E’ inaudito che imprenditori privati possano controllare e decidere loro chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump". E’ l’opinione di Massimo Cacciari, filosofo, professore ed ex sindaco di Venezia, che interviene con l’Adnkronos sulle polemiche che ha suscitato l’eliminazione dei post di Trump da parte di Twitter e la sospensione dell’account da parte di Facebook, Instagram e altri social in seguito all’assalto al Congresso.
"Che sia l’imprenditore a farlo, che è il padrone di queste reti, è una cosa semplicemente pazzesca. E’ uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie. Non c’è dubbio alcuno. Perché come oggi è Trump, domani potrebbe essere chiunque altro, e lo decide Zuckerberg. E’ una cosa semplicemente pazzesca", incalza Cacciari.
Che spiega meglio nel merito: "Dovrebbe esserci una forma di autorità politica che decide. Esattamente così come c’è l’Autorità per concorrenza, per la privacy, che decide ’questi messaggi in rete sono razzisti, sono sessisti, incitano alla violenza’ e cosi via. E tu, Zuckerberg, li devi cancellare. Cioè deve essere l’autorità che dice a Zuckerberg cosa cancellare, invece qui è lui che decide. E’ una cosa dell’altro mondo".
* Fonte: Adnkronos, 08/01/2021 10:31 (ripresa parziale).
La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale
di Laura Vasselli (InLibertà, 10 Giugno 2020)
Chi non ha avuto modo di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati?
Il gossip che si scatenato su di lei per questo autentico guazzabuglio di notizie, sulla cui veridicità si sono scatenati dibattiti televisivi di ogni livello, ha lasciato spazio ad una specie di “giallo informativo”, nel quale si sono aggrovigliati elementi di falso recitativo misti ad esternazioni di reale innamoramento con scenari rosei di vita futura con esclamazioni pubbliche di gioia del tipo “...sarò moglie e mamma!...e altre simili esternazioni.
Ma è meglio procedere con ordine.
Nei fatti reali, diversi mesi fa, Pamela Prati annunciò il suo matrimonio con questo tale Mark Caltagirone che, dal racconto della “promessa sposa”, era un imprenditore italiano che l’aveva portata con sé in molti viaggi di lavoro in giro per il mondo; la showgirl parlava di lui offrendo dati concreti e dichiarando che si trattasse di un personaggio noto nel suo ambiente ed apprezzato come professionista.
Tuttavia, nessun rilievo venne attribuito all’indizio della totale assenza di fotografie di lui, che giustificava con esigenze di riserbo sulla propria vita privata, anche in ragione della presenza dei suoi due bambini che sarebbero stati adottati dalla fidanzata, una volta che sarebbe diventata sua moglie.
Ma la data dell’8 maggio 2019 che era stata annunciata per le nozze, venne rinviata e - a seguito di verifiche, riscontri incrociati e indagini di vario tipo - si accertò che Mark Caltagirone non è mai esistito e che è stato un personaggio completamente inventato.
Dal racconto felice al disagio totale, Pamela Prati - che come ospite aveva raccontato in varie trasmissioni televisive la sua storia d’amore miseramente fallita - è stata costretta suo malgrado ad ammettere di essere stata plagiata, con tanto di conseguenze sul piano giudiziario in danno a chi l’aveva tratta in inganno, salvi poi ulteriori retroscena che non riguardano questo argomento.
Insomma, questo episodio di cronaca rosa ha reso conoscibile l’esistenza di preoccupante fenomeno in diffusione che è proprio quello definito “truffa amorosa” realizzata attraverso un sistema di manipolazione mentale costruita attraverso raffinate tattiche persuasive, elogi esagerati, false prospettive di “vita insieme per sempre” per far seguito a vissuti problematici più o meno verosimili per tutti i truffatori sentimentali in danno a persone desiderose di poter finalmente realizzare qualcosa che - a quanto pare - non passerà mai di moda: il “sogno d’amore”.
Queste vere e proprie condotte criminali penalmente perseguibili, attuate con gli inganni, gli artifizi e i raggiri che connotano il reato di truffa come disciplinata dall’art. 640 del codice penale, risultano essere incrementate nell’ultimo periodo perché favorite dall’isolamento imposto dalla protezione pandemica che ha reso più fragili le persone che vivono in solitudine, così esponendole in maniera così subdola al rischio di essere vittime di questo terribile reato, lesivo della buona fede e della dignità di chi auspica un’esistenza migliore attraverso la ricerca della felicità in coppia.
Attraverso l’uso della rete e dei social networks, i malcapitati destinatari di questo reato vengono portati a legarsi sentimentalmente con il truffatore che agisce fino ad ottenere vantaggi economici e di altra natura con trappole particolarmente sofisticate
Col sistema tipico della tela del ragno, l’autore della truffa comincia col reperire lentamente ogni utile informazione sulla vita privata della sua futura vittima, magari studiando i suoi interessi e le sue abitudini fino all’approccio diretto azionato con la creazione di un falso profilo dotato di apposito nickname.
Spesso la vittima resta malamente intrappolata nella rete perché viene prima sedotta e poi illusa attraverso sapienti approcci con forte carica psicologica persuasiva; questi autentici delinquenti sono infatti sempre pronti a intervenire sulle fragilità e sui i punti deboli della vittima che sono riusciti a scovare mediante questa tattica di attento e incalzante corteggiamento.
Scattano quindi i meccanismi di intimità, fiducia e comprensione tipici dell’innamoramento virtuale con questo partner apparentemente ideale che portano a credere in uno scambio sentimentale vero e proprio e che si realizza mediante attenzioni e pensieri quotidiani a sostegno dell’interesse dell’uno verso la vita dell’altro (compresi i diffusissimi messaggini del buongiorno e della buonanotte a cui viene ancora attribuita una valenza affettiva esageratamente elevata).
Una volta catturata la vittima, colui o colei che pone in essere la truffa, parte con l’azione vera e propria: inizia la filza delle lamentele su problematiche debitorie (tipo: devo restituire denaro a un caro amico che mi ha aiutato nel momento del bisogno!), su danni alla salute (tipo: devo subire un urgente intervento chirurgico!), su emergenze economiche (tipo: ho perso il bancomat!), su progetti in comune (tipo: dobbiamo arredare la nostra futura casa!), ma anche su depressioni causative di disagio che richiedono fondi a vario titolo economico e simili, fino alla diretta richiesta di danaro, di utilità e vantaggi di qualsiasi natura che induce all’offerta di aiuto economico spontaneo vero e proprio da parte della vittima che non riesce a vincere il senso di colpa in caso di diniego a pagare.
Nei casi più gravi, la vittima arriva anche ad indebitarsi e addirittura ad esaurire i risparmi per non deludere la falsa persona amata; non di rado si trova anche isolata per aver il truffatore escogitato anche il piano di allontanamento dagli affetti per rafforzare il suo potere facendogli perdere la lucidità e il senso di realtà.
Ma quel che stupisce maggiormente è che per la “coppia” non c’è, non ci sarà mai neanche alcun incontro personale; normalmente lontani per ragioni lavorative, truffatore e vittima fissano appuntamenti che vengono puntualmente disdettati con scuse o contrattempi di vario genere.
Raramente, infatti, si registrano casi di incontri a scopo sessuale perché il truffatore dovrebbe utilizzare all’esterno la sua falsa identità che costituisce un ulteriore tipo di reato a sé stante.
La suggestione della vittima è quindi talmente forzata da far credere che la finzione si confonda con la realtà; ecco perché occorre sempre - in ogni caso - verificare l’identità degli interlocutori virtuali e segnalare le anomalìe per la tutela di tutti.
Fingere dunque di provare sentimenti verso una persona al solo fine di trarre un ingiusto profitto è reato pieno; chi avesse voglia di approfondire il tema, può leggere la motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa
“non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“
Nota:
IL DESIDERIO, IL “SOGNO D’AMORE”, E LA TRAPPOLA DELLA “TRUFFA ROMANTICA”. *
PER CHI HA AVUTO L’OPPORTUNITA’ O IL MODO “di venire a conoscenza, se pur in modo fugace e non dettagliato, della vicenda del fantomatico Mark Caltagirone, promesso sposo virtuale della nota showgirl Pamela Prati”, CONSIGLIO UNA LETTURA ATTENTA DELL’ARTICOLO “La truffa esiste anche in danno alla vita sentimentale” (Laura Vasselli, "InLibertà", 10.06.2020), TOCCA UNA QUESTIONE FONDAMENTALE DELLA STESSA VITA DI OGNI PERSONA, NON SOLO SUL PIANO DEI RAPPORTI PRIVATI MA ANCHE DEI RAPPORTI PUBBLICI: “[...] credere che la finzione si confonda con la realtà , [...] perdere la lucidità e il senso di realtà”!
QUANTO TALE “PROBLEMA” SIA DEGNO DI ESSERE PENSATO A FONDO (E A TUTTI I LIVELLI) è chiaramente detto - come scrive l’autrice - nella motivazione della Suprema Corte di Cassazione Penale che, con la sentenza n. 25165/2019 in materia di “truffa romantica” ha stabilito che essa “non si apprezza per l’inganno riguardante i sentimenti dell’agente rispetto a quelli della vittima, ma perché la menzogna circa i propri sentimenti è intonata con tutta una situazione atta a far scambiare il falso con il vero operando sulla psiche del soggetto passivo“ (cit.).
CHE DIRE?! E’ UNA SOLLECITAZIONE A SAPERSI CONDURRE CON SENNO SIA NELLE QUESTIONI PRIVATE SIA NELLE QUESTIONI PUBBLICHE E UN INVITO A NON PERDERE IL SENSO DELLA REALTA’ (sul tema, non sembri strano né casuale, si cfr. l’articolo di Italo Mastrolia, su “#iorestoacasa, Forza Italia”). NE VA DELLA NOSTRA STESSA VITA : E’ UN PROBLEMA DI SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, A TUTTI I LIVELLI.
Editoriale
Le menzogne, il censore e il premier
James Bond. Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia
di Norma Rangeri (il manifesto, 12.04.2020).
Qualche domanda: quante volte il premier Conte è stato attaccato in diretta tv, e sul circuito mediatico delle opposizioni, sul piano personale? E senza alcun contraddittorio? La leader che guida Fratelli d’Italia non ha forse accusato Conte di essere addirittura un “criminale”, con nessun conduttore o direttore di tg che replicasse “no, questo non si può dire in diretta tv”?
Quando mai Mentana si è indignato per le parole pesanti indirizzate al premier? E non è da censori affermare - come lui ha detto - che non avrebbe mandato in onda le accuse di Conte a Salvini e Meloni se avesse saputo?
Nemmeno gli fosse arrivata una cassetta registrata di Berlusconi come ai vecchi tempi, quando l’appello al popolo, via Vhs, veniva trasmesso da Arcore ai prediletti tg di famiglia e naturalmente a quelli della Rai plaudente. La famosa Rainvest a reti unificate.
Conte aveva, e ha, tutto il diritto di replicare alle falsità che inondano i media ad ogni ora del giorno. In particolare le ultime, proprio sul Mes, al centro del confronto-scontro in sede europea e in Italia. Il diritto e il dovere di rispondere alle sonore bugie che abbeverano l’opinione pubblica grazie a una informazione molto lacunosa, se non subalterna e connivente. Il dovere di ricordare che il Mes non lo riguarda.
E infatti la Ue ha fatto presente erga omnes che l’accordo sul salva-stati passò nel 2011 durante il governo Berlusconi IV, con Meloni giovane ministra. La stessa persona che oggi vuol giocare il ruolo della vittima insieme a Salvini, proprio lui che ha usato e abusato del ruolo istituzionale di ministro dell’interno e che ora, senza pudore, si appella addirittura al Capo dello Stato, dopo aver inondato di fango e fake news Conte e il suo governo.
Le opposizioni d’altronde, giocano le loro carte. Noi che conosciamo bene il ruolo dell’opposizione, e lo teniamo in gran conto, non abbiamo mai usato le menzogne, gli insulti personali. Le destre di oggi ne fanno invece pratica quotidiana. E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi.
E alla disperata, perché sanno di essere ininfluenti in questa crisi. Oltretutto quello che sta emergendo nelle Regioni sotto la loro guida conferma responsabilità e colpevoli incapacità nell’emergenza della lotta alla pandemia.
Alzano il tiro perché ogni giorno che passa si solleva il velo su una condotta al centro di accertamenti giudiziari. Il direttore del Pio Albergo Trivulzio, indagato per epidemia e omicidio colposo, dipende dal governo di destra lombardo. E gettare la palla fuori campo serve a distrarre gli italiani dalla tragedia che stanno vivendo migliaia di famiglie per aver perso i loro cari a causa di scelte sanitarie molto pericolose per la vita dei malati.
Al contrario, chi appoggia direttamente o indirettamente questo governo, dovrebbe apprezzare un presidente del Consiglio che parla in modo chiaro, diretto, che non nasconde la realtà ai cittadini, che non si piega alle pressioni confindustriali, che non fa da sponda alle forze politiche che lo sostengono, che soprattutto non propala bufale. Forse avrebbe dovuto ricostruire meglio il caso Mes, perché non tutti sanno, anzi, ma una risposta agli italiani era necessaria.
La critica che invece va mossa riguarda proprio la coalizione di governo. Perché appare chiaro che la tragicità della situazione che attraversa ogni cellula della vita sociale, non può essere cancellata da un “vogliamoci bene”, che continua a nascondere la polvere sotto il tappeto. Tra Pd e M5S riaffiorano rivalità, visioni diverse, contrapposizioni capaci di minare il fragile terreno sul quale poggia la coalizione.
Rivedendo Conte in tv emergeva un certo nervosismo, solo in parte dovuto allo stress del momento. Nato contro i pieni poteri reclamati dalle destre, costruito in difesa di un clima democratico messo in crisi dall’odio, dal razzismo, dalla xenofobia, sempre di più questa maggioranza deve dimostrare di essere all’altezza di una proposta politica in grado di avviare la ricostruzione del paese, sgovernato da un sistema che ne ha fatto il regno europeo delle diseguaglianze.
Perché quel cambiamento verso uno stato sociale e di diritto (per i lavoratori come per gli immigrati e per i carcerati), dentro una battaglia europea cruciale e inimmaginabile senza la micidiale opera distruttrice del virus, non ammette rinvii, né concederà repliche
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI. Un invito e un appello a fare luce, a fare giorno
FLS
POLITICA, FILOSOFIA, E MERAVIGLIA. Non è mai troppo tardi .... *
L’ appello
Prepariamoci alle Europee
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 03.08.2018)
La situazione dell’Italia si sta avvitando in una spirale distruttiva. L’alleanza di governo diffonde linguaggi e valori lontani dalla cultura - europea e occidentale - dell’Italia. Le politiche progettate sono lontane da qualsivoglia realismo e gravemente demagogiche. Nella mancanza di una seria opposizione, i linguaggi e le pratiche dei partiti di governo stanno configurando una sorta di pensiero unico, intriso di rancore e risentimento. Il popolo è contrapposto alla casta, con una apologia della Rete e della democrazia diretta che si risolve, come è sempre accaduto, nel potere incontrollato dei pochi, dei capi. L’ossessione per il problema dei migranti, ingigantito oltre ogni limite, gestito con inaccettabile disumanità, acuisce in modi drammatici una crisi dell’Unione europea che potrebbe essere senza ritorno.
L’Europa è sull’orlo di una drammatica disgregazione, alla quale l’Italia sta dando un pesante contributo, contrario ai suoi stessi interessi. Visegrad nel cuore del Mediterraneo: ogni uomo è un’isola, ed è ormai una drammatica prospettiva la fine della libera circolazione delle persone e la crisi del mercato comune. È diventata perciò urgentissima e indispensabile un’iniziativa che contribuisca a una discussione su questi nodi strategici. In Italia esiste ancora un ampio spettro di opinione pubblica, di interessi sociali, di aree culturali disponibile a discutere questi problemi e a prendere iniziative ormai necessarie.
Perché ciò accada è indispensabile individuare, tempestivamente, nuovi strumenti in grado di ridare la parola ai cittadini che la crisi dei partiti e la virulenza del nuovo discorso pubblico ha confinato nella zona grigia del disincanto e della sfiducia, ammutolendoli.
Per avviare questo lavoro - né semplice né breve - è indispensabile chiudere con il passato ed aprire nuove strade all’altezza della nuova situazione, con una netta ed evidente discontinuità: rovesciando l’ideologia della società liquida, ponendo al centro la necessità di una nuova strategia per l’Europa, denunciando il pericolo mortale per tutti i paesi di una deriva sovranista, che, in parte, è anche il risultato delle politiche europee fin qui condotte.
C’è una prossima scadenza, estremamente importante, che spinge a mettersi subito in cammino: sono ormai alle porte le elezioni europee. C’è il rischio che si formi il più vasto schieramento di destra dalla fine della Seconda guerra mondiale. La responsabilità di chi ha un’altra idea di Europa è assai grande. Non c’è un momento da perdere. Tutti coloro che intendono contribuire all’apertura di una discussione pubblica su questi temi, attraverso iniziative e confronti in tutte le sedi possibili, sono invitati ad aderire.
Gli altri firmatari: Enrico Berti Michele Ciliberto Biagio de Giovanni Vittorio Gregotti Paolo Macrì Giacomo Manzoni Giacomo Marramao Mimmo Paladino
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE. PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI ’UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema
Federico La Sala
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. ... *
Disobbedienza, cattolici più avanti della sinistra
di Michele Prospero (il manifesto 27.07.2018)
Vade retro, Salvini si presenta ai lettori con questo titolo, forte e pieno di coraggio civile, il settimanale Famiglia cristiana. Il ministro degli interni lepenista è affrontato senza remore. Con il suo volto in copertina, il leader padano viene indicato come bersaglio esplicito di un mondo cattolico che non tentenna neanche ora che i sondaggi danno il governo oltre il 62 per cento e pure le toghe sono in sintonia con il vento nuovo della destra al comando.
Famiglia cristiana non è sola nella sua azione di denuncia. Anche sul quotidiano Avvenire, molto sensibile ai temi sociali, la comprensione critica del fenomeno delle destre di governo è molto acuta.
Le stesse pratiche di resistenza civile, abbozzate nei giorni scorsi dalle camicie rosse, sono state promosse da don Ciotti e hanno visto quindi la presenza in prima fila del cattolicesimo. Molti e autorevoli sono poi i pronunciamenti di prelati e della stessa gerarchia, che non rimane indifferente alle prove di regime, con tracce inequivoche di etnopopulismo sperimentate nei palazzi del potere.
C’è, in questo impressionante esercizio dell’etica della convinzione da parte dell’universo cattolico, un fatto di straordinaria rilevanza e novità: la fede come assunzione di responsabilità pubblica contro gli abusi del potere che nella costruzione del nemico indossa i simboli del sacro. I cattolici non avvertono esitazione alcuna a scagliarsi contro un potente che, in maniera blasfema, brandisce il rosario per incitare all’inimicizia verso l’altro.
Nessuna giustificazione è possibile per chi, coltivando le ambizioni di un consenso facile, gioca con la vita dei profughi. L’indignazione dell’uomo di fede è incontenibile quando il vice presidente del consiglio, che vuole il censimento degli zingari giusto per esibire la forza persuasiva della ruspa sui loro campi, e si scaglia contro il buonismo della «Corte di Strasburgo sui diritti dei rom», per fondare su solide basi etiche il respingimento dei naufraghi propone di esibire un crocefisso nei porti chiusi.
Scrittori, sindacalisti, intellettuali di sinistra hanno votato in gran numero per il non-partito padronale di Casaleggio e ora sono afoni dinanzi alle regressioni di civiltà promosse dal governo del cambiamento. La confusione è così grande, sotto il cielo di una sinistra ormai perduta nelle idee, che lo scrittore Domenico Starnone si meraviglia perché «nel decreto dignità ci sono un bel po’ di cose che così di sinistra ce le eravamo dimenticate».
Le apparenti (e modiche) aperture in campo sociale sono sempre necessarie alle destre radicali quando inaspriscono il volto repressivo del potere e conferiscono una pericolosa curvatura etnica alle loro politiche. I cattolici questo nesso eversivo lo hanno colto e per questo si indignano dinanzi a un governo che nella gestione del potere esibisce i simboli del sacro per delimitare una comunità etnica che si ritrova solo se si difende dallo straniero. A sinistra invece si balbetta sui principi e non manca chi contrappone l’anima sociale (!) del governo a una componente più di destra e suggerisce di differenziare e civettare con i grillini per impedire che la mucca si trasformi in toro.
Si spiega con la riluttanza ad assumere le implicazioni definitive del contratto di governo, l’incapacità della sinistra di rispondere alle provocazioni della destra con il gusto della rottura simbolica, della disobbedienza. Al potere ci sono due forze, le unisce una sola cultura, che ha i tratti inconfondibili di una destra postmoderna. Le ossessioni a sfondo etnico di Salvini, che intende destinare alla polizia i soldi tolti ai rom e ai migranti, sono le stesse di Grillo che nel suo blog difese la sacralità dei confini e scrisse che le invasioni dei rom erano la vera «bomba sociale».
Peraltro quando l’imprenditore Casaleggio prospetta che solo tra qualche lustro il parlamento deve essere chiuso come un ente inutile, svela con trasparenza assoluta la vocazione illiberale del suo non-partito a proprietà privata: alla fine della guerra, urlava già Grillo nelle piazze, solo uno deve rimanere. E appunto la chiusura di Montecitorio evoca un mondo ideale senza più partiti, pluralismo, organizzazioni in conflitto. Uno solo al potere, con il popolo passivizzato che fa un clic sulla piattaforma e nel cassetto conserva una pistola.
Per tornare al popolo e riconquistare le periferie a sinistra c’è chi pensa persino di scoprire il nucleo di verità del salvinismo che denuncia una mutazione antropologica degli italiani per le invasioni dei neri.
La strada più giusta è quella indicata da settori di un mondo cattolico che non va verso il popolo, sfida il suo popolo sedotto dal male, come è necessario in fasi di regressione etico-politica.
La sinistra deve fare lo stesso, organizzarsi come minoranza dalle grandi idealità che punge il governo e strattona il suo popolo di un tempo e la sua classe dormiente che ora inneggia a Salvini e a Grillo. La disobbedienza, il terreno della resistenza culturale e civile, in attesa che si riscaldi quello sociale, sono i cardini di una controffensiva possibile dopo la catastrofe che prepara una democratura a cemento etno-populista.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
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La festa del 2 giugno
La democrazia a un bivio
di Guido Crainz (la Repubblica, 01.06.2018)
Mai come quest’anno il 2 giugno ci costringe a interrogarci sul nostro essere nazione e sulla tenuta della nostra democrazia, ed è difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a un bivio. Mai infatti, neanche nelle fasi più aspre, questa data ha cessato di essere la festa di tutti gli italiani: il momento in cui ribadiscono i fondamenti culturali, politici e civili del proprio vivere collettivo. Mai qualcuno aveva pensato di utilizzare il 2 giugno per contestare le nostre regole costituzionali. Mai, neanche per un attimo, era stata proposto di lacerare questa giornata con una manifestazione di parte volta a colpire proprio quelle regole, assieme alla figura istituzionale che ne è garante ( e il vulnus resta, anche se la miserevole proposta è crollata grazie alla alta e necessaria fermezza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella).
Non avvenne neppure nel clima teso della Guerra fredda, nonostante le profonde divisioni e contrapposizioni di allora. E non avvenne negli anni cupi della strategia della tensione e del terrorismo degli anni Settanta: la centralità del 2 giugno verrà appannata semmai dalla smemoratezza degli anni Ottanta, nel prolungarsi dell’abolizione della festività decisa nel 1977 (discutibile conseguenza di esigenze di “austerità”).
Quell’appannarsi era in realtà il sintomo dell’indebolimento civile del Paese, malamente mascherato dalle euforie di quel decennio, e alla vigilia del crollo della “ prima Repubblica” Giorgio Bocca evocava a contrasto, su queste pagine, l’Italia uscita dalla guerra: eravamo divisi in fazioni, scriveva, in un Paese distrutto, eppure «uniti nel vivere, liberali, cattolici, monarchici, comunisti, padroni, operai, tutti certi di essere padroni del nostro destino. Ma questa voglia di avere un’identità, di essere noi, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo? Che cosa significa essere italiani? » . In quella crisi il valore centrale del 2 giugno sembrò offuscarsi ancora e la sua decisa riaffermazione fu parte integrante della pedagogia civile avviata con forza dal presidente Ciampi e proseguita dai suoi successori.
Fu parte integrante del loro impegno a rifondare il “ patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva, collocandolo nella più ampia appartenenza europea e rafforzandone al tempo stesso i momenti simbolici e le date fondative. In primo luogo, appunto, la festa del 2 giugno, ripristinata da Ciampi nella sua interezza e accompagnata da una parata che poneva ora al centro l’impegno dell’esercito nelle calamità civili e nelle missioni di pace. Ciampi stesso ha ricordato: andai a quella prima, rinnovata sfilata «in una vettura scoperta, con al fianco il ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Eravamo circondati da una folla festosa che mi diceva di andare avanti, mi ringraziava, era contenta » . Quella ispirazione è andata via via arricchendosi e sono ancora vive le immagini di un anno fa, con la folta presenza di sindaci e con quell’enorme tricolore che calava sul Colosseo.
È forte dunque la sensazione di essere oggi di fronte a una possibile, inquietante divaricazione, e nei giorni scorsi lo abbiamo compreso in maniera traumatica: in essi infatti il fantasma del populismo è uscito definitivamente dal limbo delle definizioni astratte o da territori ancora lontani. È diventato forza corposa e devastante, con la lacerante contrapposizione fra una “ sovranità del popolo” arbitrariamente interpretata e le istituzioni che la fanno realmente vivere, svilite e calpestate assieme alle loro regole. Questo abbiamo vissuto e viviamo, e quelle lontane parole di Giorgio Bocca sembrano di nuovo drammaticamente attuali.
Scuola
Fermiamo la trasformazione della scuola in impresa
Appello. La scuola ha bisogno di un arricchimento dei programmi disciplinari, di una loro più avanzata e originale cooperazione, di nuovi rapporti tra docenti e alunni. Forze politiche, cittadini e intellettuali dicano un no definitivo a questi ciechi legislatori, che vogliono la scuola come un gigantesco apprendistato senza anima e senza futuro
La scuola italiana ha bisogno di maggiori risorse per rendere sicuri gli edifici che ospitano i nostri ragazzi, servizi più avanzati, per recuperare l’evasione che consegna tanti giovani alla marginalità, talora alla criminalità. La scuola italiana ha bisogno di un arricchimento dei programmi disciplinari, di una loro più avanzata e originale cooperazione, di nuovi rapporti tra docenti e alunni, nuove modalità di insegnamento, in grado di trasformare la classe in una comunità di studio e dialogo.
LA SCUOLA ITALIANA ha bisogno di formare ragazze e ragazzi emotivamente e psicologicamente equilibrati, culturalmente ricchi, consapevoli dei problemi del Pianeta, muniti di sguardo critico sulla società oggi inghiottita entro una bolla pubblicitaria. Ma chi decide il destino della nostra scuola è sordo a questi bisogni irrinunciabili del presente e del futuro. Impone ai nostri ragazzi- ad esempio con l’alternanza scuola-lavoro - un apprendistato per un lavoro che non troveranno, competenze per mansioni che saranno rese obsolete dall’innovazione tecnologica incessante.
EBBENE, dal prossimo giugno maestri e docenti della scuola elementare e media dovranno certificare le competenze dei loro allievi, utilizzando i nuovi modelli nazionali predisposti dal Ministero dell’istruzione. Per i ragazzini delle medie, la scheda di certificazione conterrà una parte dedicata a 8 «competenze europee» redatta dai loro insegnanti e una parte a cura dell’INVALSI.
Per i bambini delle elementari, la scheda di certificazione riferita alle otto competenze europee, riguarda anche quella denominata «spirito di iniziativa e imprenditorialità», che in Italia è diventata semplicemente «spirito di iniziativa», pur mantenendo in nota il riferimento originario all’entrepreneurship, l’imprenditorialità. I consigli di classe delle varie scuole del Paese dovranno adoperarsi per «testare» la capacità di «realizzare progetti», essere «proattivi» in grado di «assumersi rischi», «assumersi le proprie responsabilità» fin da piccoli.
Si stenta a credere, ma è proprio così: le istituzioni europee chiedono agli insegnanti di fare violenza ai nostri bambini, di plasmarli in una fase delicatissima della loro formazione emotiva e spirituale, incitandoli alla competizione, alla realizzazione di cose, all’intraprendenza «rischiosa».
Verrebbe da ridere di fronte all’enormità di tale pretesa. Ma essa fa parte ormai di una gabbia fittissima di imperativi a cui è sottoposta la scuola, diventata luogo di ubbidienza di comandi ministeriali.
DOPO ANNI di ciarle sull’autonomia, sulle libertà di scelta, su tutte le chimere della letteratura neoliberistica, appare evidente che la scuola è assoggettata a un progetto di centralismo neototalitario. Una pianificazione dall’alto mirata a sottrarre libertà agli insegnanti, obbligandoli a compiti subordinati ai miopi interessi del capitalismo attuale. Passo dopo passo, la scuola cessa di essere il progetto educativo di una comunità nazionale per diventare il luogo dove si riproduce un solo tipo di individuo, l’uomo economico ossessionato da finalità produttive. Chiediamo a tutte le forze politiche, agli intellettuali, ai cittadini italiani ed europei di dire un no definitivo a questi ciechi legislatori, che vogliono trasformare la scuola in un gigantesco apprendistato senza anima e senza futuro.
Stato-Mafia: Pm Di Matteo: ’Dell’Utri tramite dopo il ’92’
’Da Anm e Csm nessuna difesa. Silenzio assordante, chi speravamo ci difendesse ha taciuto’
di Redazione ANSA *
"La sentenza è precisa e ritiene che Dell’Utri abbia fatto da cinghia di trasmissione nella minaccia mafiosa al governo anche nel periodo successivo all’avvento alla Presidenza del Consiglio di Berlusconi. In questo c’è un elemento di novità. C’era una sentenza definitiva che condannava Dell’Utri per il suo ruolo di tramite tra la mafia e Berlusconi fino al ’92. Ora questo verdetto sposta in avanti il ruolo di tramite esercitato da Dell’Utri tra ’Cosa nostra’ e Berlusconi". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
La replica dell’Anm, sempre difeso magistrati attaccati - "L’Associazione Nazionale Magistrati ha sempre difeso dagli attacchi l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati". Lo dice il presidente dell’Anm Francesco Minisci. "Lo ha fatto - prosegue - a favore dei colleghi di Palermo e continuerà sempre a difendere tutti i magistrati attaccati, pur non entrando mai nel merito delle vicende giudiziarie".
"Né Silvio Berlusconi, né altri hanno denunciato le minacce mafiose, né prima né dopo" ha anche detto il pm Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, su Rai tre. "Nel nostro sistema costituzionale le sentenze vengono pronunciate nel nome del popolo italiano e possono essere criticate e impugnate. Il problema è che quando le sentenze riguardano uomini che esercitano il potere devono essere conosciute", ha aggiunto. "C’è una sentenza definitiva - ha spiegato - che afferma che dal ’74 al ’92 Dell’Utri si fece garante di un patto tra Berlusconi e le famiglie mafiose palermitane. Ora questa sentenza dice che quella intermediazione non si ferma al ’92, ma si estende al primo governo Berlusconi, questi sono fatti che devono essere conosciuti"
"I carabinieri che hanno trattato sono stati incoraggiati da qualcuno. Noi non riteniamo che il livello politico non fosse a conoscenza di quel che accadeva. Ci vorrebbe ’un pentito di Stato’, uno delle istituzioni che faccia chiarezza e disegni in modo ancora più completo cosa avvenne negli anni delle stragi". Lo ha detto il pm della dna Nino Di Matteo, a proposito della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre.
"Quello che mi ha fatto più male è che rispetto alle accuse di usare strumentalmente il lavoro abbiamo avvertito un silenzio assordante e chi speravamo ci dovesse difendere è stato zitto. A partire dall’ Anm e il Csm". Lo ha detto il pm della Dna Nino Di Matteo, dopo la sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, intervenendo alla trasmissione "1/2 ora in più" di Lucia Annunziata, in onda sui Rai tre a proposito delle critiche subite, negli anni, dal pool che ha coordinato l’inchiesta.
* ANSA,23 aprile 2018 (ripresa parziale, senza immagine).
Lo Stato deve manifestare contro i fascisti
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 10.02.2018)
Altro che vietare le manifestazioni, a Macerata deve manifestare lo Stato: manifestare la sua ferma determinazione di combattere i fascisti con tutte le sue forze, nel pieno rispetto della Costituzione e delle leggi. A Macerata deve andare il presidente della Repubblica e parlare, con i corazzieri alle spalle, e con lui sul palco devono esserci il presidente del Consiglio, il ministro degli Interni e quello della Difesa, i presidenti di Senato e Camera, i comandanti militari e delle forze di sicurezza. Devono dire con parole chiare che la Repubblica s’impegna solennemente a non dare tregua ai fascisti e a proteggere la libertà e la sicurezza di tutti, cittadini e non cittadini.
Possibile che le alte cariche dello Stato, uomini e donne colti e saggi, almeno si spera, non si rendano conto che sottovalutare il pericolo neofascista è moralmente ignobile e politicamente suicida? Possibile che non sappiano che lo Stato liberale è crollato nel 1922 perché non volle e non seppe combattere i fascisti, non certo perché i fascisti erano più forti?
Se Vittorio Emanuele III avesse decretato lo stato d’assedio e mandato contro i fascisti l’esercito e i carabinieri, avrebbe salvato lo Stato liberale.
Con tutte le differenze del caso, oggi la Repubblica democratica può sconfiggere il neofascismo soltanto se lo combatte con la massima intransigenza. In Italia il fascismo è un reato, l’antifascismo è un dovere civile. Ha, quindi, perfettamente ragione Giuseppe Civati a sostenere che “Fascismo e Antifascismo non sono in nessun modo paragonabili”. E con lui hanno ragione le associazioni e le organizzazioni che hanno chiesto alle autorità competenti di autorizzare la manifestazione. È un loro dovere ancor prima che loro diritto.
Sarebbe una vergogna tirarsi indietro. Ma i cittadini da soli non possono vincere contro i fascisti, poiché i fascisti usano la violenza: sparano, aggrediscono, intimidiscono. I cittadini non possono e non vogliono scendere sul terreno della violenza.
Soltanto lo Stato può usare la forza legittima e se non lo fa chi lo rappresenta si carica di una responsabilità gravissima. Per giustificare la scelta iniziale - per fortuna ieri rivista - di vietare le manifestazioni non vale l’argomento dell’ordine pubblico.
Lo Stato deve garantire agli antifascisti il diritto di manifestare e proteggerli da aggressioni fasciste. Se vuole, può farlo. Permettere agli antifascisti di manifestare significa non solo fare capire ai fascisti che lo Stato questa volta non è con loro ma contro di loro, ma dare forza alle istituzioni repubblicane. Altrettanto dissennato è l’argomento di chi sostiene che il gesto di Traini è stato un atto di solitaria follia. Chiunque abbia letto qualche libro sulle organizzazioni terroristiche intende perfettamente che quel che ha fatto Traini è puro terrorismo: violenza indiscriminata e a qualunque costo, contro un determinato gruppo sociale. I terroristi, infatti, agiscono anche a rischio della libertà e della vita, quando sanno di poter contare su una comunità che li sostiene. Infatti ecco Forza Nuova che si fa carico delle spese legali e manifesta con Casapound per aiutarlo, ecco Salvini che dichiara che la colpa è di chi ha fatto arrivare gli immigrati, ecco i molti che non parlano ma lo considerano un eroe.
Proprio perché l’atto terroristico di Macerata è segno della forza delle idee fasciste, la risposta deve essere una guerra senza quartiere. Le parole del sindaco di Macerata, Pd, che approva la scelta di vietare le manifestazioni in nome di un silenzio che rispetti le ferite della città sono penose. Qualcuno gli spieghi che il silenzio è atto di rispetto e di pietà per le vittime, ma che il dovere più importante e pressante è fermare gli aguzzini.
Il dato vero che deve preoccupare è che la solidarietà antifascista, che in passato aveva unito liberali, democristiani, repubblicani, socialdemocratici socialisti, comunisti e aveva saputo fare argine valido contro il neofascismo e ogni altra idea che mirasse a destabilizzare lo Stato, oggi non esiste più. Provino Pietro Grasso e Giuseppe Civati a proporre a chi a vario titolo è alla testa degli altri partiti politici (Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Giorgia Meloni, Luigi Di Maio, Matteo Salvini) di firmare prima del 4 marzo un documento comune in cui ciascuno s’impegna solennemente a combattere il neofascismo. Sarà un fallimento.
Lo scenario che probabilmente ci aspetta è quello di un governo di centrodestra guidato, di fatto, da Berlusconi. Com’è noto Berlusconi in più di un’occasione ha manifestato la sua simpatia per Mussolini, ed è poco incline a combattere i fascisti e felice di bastonare gli antifascisti, che poi per lui sono comunisti camuffati. Così, nel 2022, avremo le piazze piene di fascisti ed essi stessi, o i loro amici, al governo.
I fatti di Macerata rappresentano una svolta fondamentale. Le alte cariche dello Stato possono salvarla o agevolarne la morte. Rinnovo l’appello: vada il presidente Mattarella a Macerata e pronunci le parole giuste per sconfiggere il pericolo fascista, prima che sia tardi.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO
Che fine ha fatto la filosofia nell’era del caos?
di Andrea Zhok (“L’Espresso”, 18/06/2017)
‘Filosofia’ è stata per gran parte della storia occidentale quasi sinonimo di scienza e sapienza. L’opera maggiore di Isaac Newton porta ancora il titolo di ‘Principi matematici di filosofia naturale’. Ma da allora, e con particolare intensità dal secondo dopoguerra, le cose sono drammaticamente cambiate. Oggi la funzione e l’autorevolezza un tempo evocate dal termine ‘filosofia’ sembrano essere monopolio delle scienze naturali. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, quale possa essere (o se ancora debba esservi) uno spazio della filosofia nel mondo odierno, nell’“Epoca della scienza”.
Il fatto che più o meno tutte le scienze oggi note, dalla fisica alla biologia, dalla psicologia alla sociologia siano nate come ‘costole’ della riflessione filosofica può richiamare glorie passate, ma non dice molto delle possibilità presenti. Dovremmo forse risolverci a considerare la filosofia come una forma di conoscenza superata, da gettare ‘nella pattumiera della storia’, accanto all’alchimia, alla frenologia, all’astrologia, e ad altre ‘pseudoscienze’?
Di fatto, l’autorevolezza conquistata dalle scienze naturali ha finito per esercitare sulla filosofia una pressione sia concreta, in termini di riduzione degli spazi accademici e di ricerca, sia per così dire psicologica, creando una sorta di crisi identitaria. Questa crisi ha indotto nel ‘900 l’attività filosofica a cercare di ridefinire la propria identità. L’esito di questo processo è stato l’emergere di quattro orientamenti primari; la filosofia si è concepita in sempre maggior misura o come ‘riflessione sulla scienza’ (epistemologia, metodologia, ecc.), o come ‘cultura critica’ (ermeneutica, ‘postmodernismo’, decostruzionismo, ecc.), o come preservazione della tradizione (storia della filosofia), o traendo senz’altro ispirazione e stilemi dalle scienze naturali (filosofia analitica). Questa classificazione è naturalmente approssimativa e non esaustiva, ma fatta ammenda per la necessaria approssimazione, queste tendenze sono nei loro tratti generali facilmente accertabili.
Ora, chiediamoci: tale ridefinizione degli orientamenti è tutto ciò che ci si può attendere dalla tradizione filosofica? È utile soffermarci a questo proposito sul decisivo rapporto con la scienza. Qual è la forma di conoscenza che la scienza moderna de facto finisce per consentire e proporre? Al netto di analisi di dettaglio, il problema macroscopico che l’epoca della scienza naturale non può evitare di proporre è quello della frammentazione dei saperi. La divisione del lavoro, e l’interesse prioritario per l’efficacia causale, hanno fatto sì che oggi nessun fisico possa dire di conoscere senz’altro ‘la Fisica’, nessun biologo di conoscere ‘la Biologia’, nessun economista di conoscere ‘l’Economia’, ecc. Il sistema di produzione delle verità scientifiche è un sistema che si giova delle virtù della divisione del lavoro e la raccomanda. Articoli scientifici generalisti sono scarsamente apprezzati a livello accademico, mentre la specializzazione perseverante è costantemente premiata.
Tutto ciò ha ottime ragioni nella capacità di questo modello metodologico di far crescere le competenze operative (si pensi agli straordinari progressi della medicina nell’ultimo secolo). E tuttavia, la Scienza, quando ancora non si distingueva dalla Filosofia, faceva qualcosa di essenzialmente diverso. Accanto all’attenzione per il governo locale dei processi materiali era essenziale la ricerca di una ‘visione vera’ del mondo. Di ciò nella prassi delle scienze contemporanee non è rimasta sostanzialmente traccia. La frammentazione in oggetto non coinvolge infatti solo le partizioni interne alle singole scienze, ma in modo ancor più radicale le relazioni tra scienze diverse. Non esiste una concettualità comune, anzi neppure una concettualità compatibile tra, ad esempio, fisica, psicologia, economia, storia, biologia evoluzionistica, ecc. Ciascuna scienza organizza i propri saperi in cornici parzialmente, o talvolta integralmente, incompatibili con i quadri proposti da altre scienze. Concetti irrinunciabili in un campo risultano inconciliabili con concetti irrinunciabili in un campo diverso.
Si potrebbe dire che questo è un necessario sacrificio al progresso scientifico. Questa frammentazione dei saperi non è però un incidente senza vittime. Il suo risultato complessivo è una forma storica inedita di irrazionalità. Un mondo sommerso di saperi specialistici, e di informazioni particolari irrelate, produce un disorientamento cognitivo profondo e diffuso. L’esito paradossale è che in un mondo apparentemente dominato da paradigmi scientifici lo spazio per pregiudizi vaghi, leggende metropolitane, credenze settarie, sapienze ‘alternative’, dogmi incoercibili, ecc. è più ampio che mai.
È in questa giunzione che la filosofia, intesa in senso classico, ha la possibilità di esercitare un ruolo essenziale. Gli orientamenti filosofici novecenteschi menzionati più sopra, pur preziosi e fecondi, mancano programmaticamente di un aspetto che fu invece al cuore del ruolo tradizionale della filosofia. Ciò che accomuna paradossalmente orientamenti filosofici così diversi come la riflessione epistemologica, la storia della filosofia, la critica culturale e l’indagine analitica (se intesi in senso ‘specialistico’) è la tendenziale rinuncia all’orizzonte della sintesi, al tentativo di produrre ‘visioni del mondo’, o loro abbozzi.
La propensione tradizionale alla sintesi sistematica, al ‘sistema filosofico’ è stata progressivamente percepita dal secondo dopoguerra come qualcosa di indebitamente ambizioso, di ‘inattuale’, di pretenzioso, addirittura di ‘violento’. L’influenza del modello organizzativo delle scienze ha finito per gettare implicitamente discredito proprio su quel tipo di sintesi razionale di cui oggi si sente acutamente la mancanza.
Alla paradossale condizione odierna, di un irrazionalismo grondante di informazioni irrelate, oggi finiscono per ‘porre rimedio’, guru autopromossi, tuttologi da Talk Show, promotori di fedi, e fondamentalisti vari. Occasionalmente (su appello dei media più scrupolosi) viene convocato qualche scienziato in pensione, la cui autorevolezza settoriale viene spesa per farlo esprimere su ‘massimi sistemi’ di cui, nel migliore dei casi, è un tardivo dilettante.
In questo contesto, invece, l’indagine filosofica è l’unica forma culturale nota ad aver elaborato metodi e forme riflessive adatti a produrre sintesi razionali (scientificamente informate), quadri sistematici, ‘mappe’ e ‘visioni’ che consentano una lettura del presente e un orientamento razionale nel mondo. Una visione che miri alla comprensività e coerenza d’insieme non ha né rigore né statuto razionale inferiore a una visione analitica. La filosofia ha il diritto, ma anche il dovere, di porre un argine a questo pluralismo brado che, lungi dall’essere un contributo alla ragione, rappresenta una paradossale e strisciante abdicazione ad ogni intelligenza.
Renzi pronto a vedere Berlusconi
Legge elettorale, il segretario Pd disponibile a incontrare anche Grillo: “Ora o mai più”
Accelerazione sul modello tedesco e sul voto a fine settembre, ma Alfano punta i piedi
di Carlo Bertini Ugo Magri (La Stampa, 26.05.2017)
Non di nascosto ma alla luce del sole, Matteo Renzi è pronto a incontrare tutti gli altri leader. Tutti: compreso Silvio Berlusconi e, perché no, Beppe Grillo (se i Cinquestelle volessero farsi guidare da lui nella trattativa). Per parlare di legge elettorale e, qualora si delineasse una vasta intesa sul modello proporzionale «alla tedesca», del modo più rapido per concludere questa sfortunata legislatura. Gli incontri si susseguiranno fino a lunedì perché il giorno seguente Matteo vuole andare nella direzione del suo partito, tirare le somme e zittire gli eventuali malpancisti. C’è il clima tipico delle grandi vigilie e delle svolte ineluttabili.
Tutti ci credono
Ufficialmente il Pd tiene ancora vivo il «Rosatellum», mezzo maggioritario e mezzo proporzionale, con Renzi che chiederà ai suoi interlocutori cosa ne pensano. Ma conosce già la risposta: tutto il peggio possibile. Per cui passerà subito alla sostanza, cioè quel «tedesco» che ha sempre più ammiratori perché, come segnala la vecchia volpe Franceschini, «è l’unico treno capace di arrivare alla meta». Oltre a Pd , Forza Italia e Mdp, per un motivo o per l’altro non sono ostili M5S e Lega. Unico irriducibile rimane Alfano, che vede nella soglia del 5 per cento un sopruso ai suoi danni. Potrà da solo rappresentare il classico granello che blocca l’ingranaggio? In casa Renzi qualche ansia si coglie, perché l’alleato di governo non può essere preso a pedate. E poi, i tempi sono terribilmente stretti.
Per votare il 24 settembre, insieme con la Germania, le Camere andrebbero sciolte entro luglio. Per quella data ci vorrebbe una legge elettorale già in «Gazzetta Ufficiale» e con i collegi ridisegnati: impresa da Guinness. Al momento la discussione si svolge in commissione alla Camera. Ben che vada, la legge arriverà in aula il 10 giugno. Poi passerà in Senato. Per rispettare la tempistica, l’intesa dovrebbe essere non solo blindata, ma fatta rispettare con la precisione di un cronografo elvetico. Il rischio che salti tutto è presente allo stesso Matteo: «Se a luglio dovesse essere bocciata la riforma, non se ne farebbe più nulla». Toccherebbe andare alle urne con le due leggi amputate dalla Consulta, previo un mini-decreto correttivo delle parti più inconciliabili. A Renzi tutto sommato non dispiacerebbe, perché con i «consultelli» il Pd ci guadagna. Ma è proprio questo che tiene sulle spine il Cav.
I dubbi di Silvio
Berlusconi ha due timori. Il primo è che Salvini e Meloni lo prendano di mira accusandolo di «inciucio» coi «comunisti». Per questo già mette le mani avanti e nega Patti del Narareno (Renzi, con più ironia, si scrolla i sospetti citando «Cara ti amo» di Elio e le Storie Tese: qualunque cosa lui dica, agli altri non sta mai bene). Berlusconi poi sospetta che l’altro tenti nuovamente di buggerarlo: questa volta sfruttando l’esca del sistema tedesco (che a Forza Italia fa gola) per andare al voto con l’altro sistema. Nonostante questi fantasmi, il clima tra i due eserciti è cameratesco. Rosato (capogruppo Pd) procede a braccetto con l’ex nemico Brunetta, il testo della legge lo stanno limando insieme. E casomai non si dovesse fare in tempo a votare il 24 settembre, già spunta un’altra data: il 22 ottobre. Il Colle teme che non ci sarebbe più tempo per approvare la Finanziaria entro l’anno, scatenando l’ira di Bruxelles. Per Renzi, è un problema che non esiste: pure Germania e Austria votano in autunno, ma con loro nessuno ha da ridire...
Da “delinquente naturale” ad alleato abituale del Pd: ricordate chi è Berlusconi?
Amnesie - Il Caimano torna sulla scena come interlocutore dell’ex rottamatore per fare la legge elettorale e da argine al “populismo”. Ma il suo passato è tutto una macchia
di Gianni Barbacetto (Il Fatto, 25.05.2017)
Silvio torna. Sì, Berlusconi si prepara a essere di nuovo al centro della vita politica italiana. Come leader del suo schieramento, che non ha trovato un “federatore”. Ma anche come interlocutore privilegiato, anzi unico, del centrosinistra di Matteo Renzi, per fare la legge elettorale. Intendiamoci: nel centrosinistra per vent’anni hanno ripetuto che non bisognava demonizzarlo. Ma allora almeno qualcuno c’era a ricordare ogni giorno i conflitti d’interessi, le amicizie pericolose, le indagini penali. Del resto, occupava la scena politica e parlare con lui, se non trattare con lui, poteva apparire scelta obbligata.
Oggi invece il sistema politico di cui Berlusconi era diventato il perno è saltato, la scena è cambiata, le sue forze si sono ridotte, le sue schiere sfrangiate, il bipolarismo non c’è più. Eppure c’è chi cerca un nuovo patto del Nazareno. Il leone è invecchiato, ha incassato sonore sconfitte, si è indebolito politicamente, è stato sostituito da nuovi narcisismi a Palazzo Chigi. Ma tutto questo sembra valergli una sanatoria generale, una amnistia della memoria. Il Caimano è dimenticato, oggi Silvio è un partner strategico con cui Renzi può fare argine al male assoluto: il “populismo”. Forse vale però la pena di fare un esercizio di memoria e di ricordare chi è Silvio Berlusconi, il politico unfit all’estero, pregiudicato in Italia.
La sentenza che lo butta fuori dalla scena politica (per ora) è del 1 agosto 2013: la Corte di cassazione conferma 4 anni di pena per frode fiscale. Perché ritiene provato al di là di ogni ragionevole dubbio che Berlusconi, quando già era in politica e formalmente non più alla guida delle sue società, abbia nascosto cifre imponenti al fisco italiano e agli altri azionisti di Mediaset. La condanna riguarda “solo” 7,3 milioni di euro, occultati negli anni 2002 e 2003. Altri 6,6 milioni (del 2001) sono stati cancellati dalla prescrizione. Ma in totale, scrivono i giudici, “le maggiorazioni di costo realizzate negli anni” sono di ben “368 milioni di dollari”. Nella sentenza di primo grado, i giudici scrivono che l’imputato ha una “una naturale capacità a delinquere”. Può essere richiamato in scena, come alleato politico, un personaggio che ha nascosto al fisco 368 milioni di dollari?
Ma è lunga la storia imprenditoriale e politica di Berlusconi, che spesso coincide con la sua storia giudiziaria: 35 procedimenti penali, sette prescrizioni, una amnistia, due proscioglimenti per leggi modificate su misura in corso d’opera, quattro processi ancora in corso. Tra questi, il Ruby 3, per aver pagato testimoni affinché mentissero al processo Ruby 1 (per concussione e prostituzione minorile, nel quale è stato assolto anche grazie al cambiamento della legge sulla concussione).
Certo è stata ormai dimenticata la sentenza che condanna il suo vecchio avvocato, Cesare Previti, per aver comprato la sentenza che ha fatto diventare proprietà di Berlusconi la Mondadori, la più grande casa editrice italiana. Per lui è arrivata la prescrizione, grazie alle attenuanti generiche: ma che la sentenza sia stata comprata da Previti, per Berlusconi e con i soldi di Berlusconi, è provato, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Per non andare troppo indietro nel tempo, della Prima Repubblica possiamo qui ricordare solo una delle mazzette che hanno fatto la storia di Tangentopoli: ma è la mazzetta più grande pagata a un singolo uomo politico, 23 miliardi di lire a Bettino Craxi, segretario del Psi e gran protettore del Silvio Berlusconi diventato padrone unico delle tv private italiane. Il processo All Iberian si è concluso con un’ennesima prescrizione (grazie alla generosità del giudice che gli ha concesso le attenuanti generiche, dimezzando così i termini), ma il finanziamento illecito dei 23 miliardi è stato riconosciuto provato. Delicato il capitolo palermitano della irresistibile ascesa dell’imprenditore diventato politico.
È in carcere per mafia Marcello Dell’Utri, braccio destro di Berlusconi e ideatore di Forza Italia, condannato nel 2014 a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver fatto da mediatore tra Silvio Berlusconi e Cosa Nostra, a cui giungevano finanziamenti da Arcore. Ma già una sentenza irrevocabile del 1997 stabiliva, condannando per associazione mafiosa l’uomo d’onore Pierino Di Napoli, che certamente la Fininvest di Silvio Berlusconi versava ogni anno 200 milioni di lire a Cosa Nostra per la “protezione delle antenne tv in Sicilia”. I soldi passavano da Dell’Utri al suo amico Gaetano Cinà, che poi li consegnava a Pierino Di Napoli, il quale andava dal boss Raffaele Ganci con un sacchetto di plastica e gli diceva: “Raffaele, questi i soldi delle antenne”. Poi - dice la sentenza - Ganci si presentava da Totò Riina e gli consegnava il pacchetto: “Zu’ Totuccio, vedi che Pierino ha portato i soldi delle antenne”. (Particolare temporale: i versamenti sono continuati anche dopo il 1992, anno della strage in cui è morto Giovanni Falcone, di cui ora Berlusconi si dice tifoso. Tanto tifoso da continuare a versare 200 milioni ai suoi assassini).
Una volta arrivato ai cieli della politica, Silvio ha anche comprato un paio di senatori, nel 2008, per far cadere Romano Prodi e tornare al governo. Una lunga carriera, quella di Silvio, ieri “delinquente naturale”, oggi naturale alleato. Matteo Renzi intanto se la cava con una battuta: “Andrei a cena con Berlusconi, Salvini e D’Alema? Certo avrei delle cose da chiedere a tutti e tre, a Berlusconi del Patto del Nazareno... Ma sono a dieta”.
Le oligarchie e il suicidio delle vecchie sinistre:
(...) Il guaio è che la vecchia sinistra non crede di vivere il sonno della ragione. Crede d’incarnare la ragione ed esser più sveglia di tutti gli altri (Barbara Spinelli, Il Fatto Quotidiano, 12 novembre 2016 )
Napolitano su Berlusconi: "Patologiche ossessioni"
di GOFFREDO DE MARCHIS (la Repubblica, 14 ottobre 2015)
ROMA. "Ce l’avevano con Calderoli". Giorgio Napolitano risponde ironicamente alla plastica contestazione delle opposizioni: l’uscita dall’aula di Forza Italia e 5stelle, il cartello di Domenico Scilipoti con scritto "2011" (l’anno delle dimissioni di Berlusconi). Durante il suo intervento, la minoranza manifesta la propria distanza dall’ex capo dello Stato, padre della riforma come lo ha definito Maria Elena Boschi. "Sono usciti subito dopo il discorso di Calderoli. Poi ce n’è stato un altro. Non potevo essere io la causa di quell’esodo", scherza Napolitano.
È un modo per non rovinare un giorno di festa per il senatore a vita. Che nell’intervento rivendica il suo ruolo, difende la risposta riformatrice finora mai data "per la ricerca del perfetto o del meno imperfetto". Ma che adesso è arrivata.
Sempre sul filo dell’ironia reagisce ai ripensamenti di alcuni protagonisti della legge. Berlusconi innanzitutto. "Deluso da qualche atteggiamento? Ma qui entriamo nel campo della psicologia. E io non voglio fare commenti politici, figuriamoci quelli psicologici".
Al capogruppo forzista Romani invia tuttavia una durissima lettera che affida ai commessi (e viene immortalata dai fotografi). "Ho letto attribuite a Berlusconi - scrive l’ex capo dello Stato - parole ignobili, che dovrebbero indurmi a querelarlo, se non volessi evitare di affidare alla magistratura giudizi storico-politici; se non mi trattenesse dal farlo un sentimento di pietà verso una persona vittima ormai della proprie, patologiche, ossessioni".
A Pier Ferdinando Casini, con cui parla per 10 minuti in aula subito dopo il voto, confida il suo stupore per le parole dell’ex Cavaliere: "Lui si ricorda solo il 2011 ma dimentica il 2010 quando diedi 45 giorni al suo governo per affrontare un voto di fiducia".
Comunque le contestazioni le aveva messe nel conto. "Per svelenire il clima ho evitato di partecipare alle votazioni sugli emendamenti". Non è bastato. Ma non voleva rinunciare alla seduta finale in virtù del ruolo attivo che la Costituzione affida anche ai senatori a vita. A proposito, dispiaciuto per le parole di Elena Cattaneo che descrivendo la riforma ha parlato di "ircocervo istituzionale"? "La senatrice è libera. Quando l’ho nominata sapevo bene che aveva un’estrazione politica e culturale diversa dalla mia". Resta, racconta Casini, un pizzico di amarezza ma senza drammi anche perché Napolitano ha una certa esperienza. E alla fine, l’ex presidente non rinuncia a fare un salto alla buvette. In fondo, ieri ha vinto anche lui.
Il silenzio (del presidente Mattarella) genera mostri
di Antonio Padellaro (il Fatto, 27.06.2015)
Certe volte (e con molto rispetto) viene da chiedersi: ma dov’è il presidente Mattarella? Nel senso di un sommesso appello: perché resta in silenzio, perché non fa qualcosa? Attenzione, non siamo certo noi a rimpiangere i tempi del Quirinale interventista, quando Giorgio Napolitano faceva, disfaceva, suggeriva, orientava, accompagnato da una sinfonia di moniti.
Ma c’è una misura in tutto e pensiamo che il pur flemmatico successore sarà saltato sulla sedia alla lettura del maxi-emendamento sulla Buona Scuola, imposto da Renzi all’approvazione del Senato con l’ennesimo voto di fiducia, prendere o lasciare.
Una legge in 25 mila parole, ha scritto Michele Ainis sul Corriere della Sera , denunciando il mostro legislativo in 209 commi e nove deleghe al governo, che in una concentrazione abnorme di poteri fa tutto lui: propone, emenda e approva. Ricordate come si stracciavano le vesti i mandarini di Re Giorgio, di fronte ai maxi eccessi di Prodi, Berlusconi, Monti, Letta?
Eppure, forse mai un governo aveva agito con tale prepotenza, umiliando il Parlamento ridotto a bottonificio e su una riforma che suscita timori in milioni di insegnanti, alunni, famiglie. La speranza è che Mattarella si prepari a un gesto forte che la Costituzione gli consente, quando riceverà sul tavolo questo maxisgorbio dopo il previsto sì di Montecitorio. Non lo firmi Presidente, lo rimandi indietro. Il silenzio genera mostri.
Viaggio alla ricerca del Paese smarrito
di Guido Crainz (la Repubblica, 07.12.2013)
NEL Rapporto del Censis sul 2013 diversi piani sembrano intrecciarsi, in parte contraddirsi o comunque offrirsi ad una riflessione problematica. La sottolineatura della gravità della crisi si intreccia infatti allo sforzo di individuare le possibilità di ripresa («il crollo atteso da molti non c’è stato (...) serpeggia una silenziosa constatazione che “ce l’abbiamo fatta”»). E la segnalazione della ambiguità di alcune “evidenze” (l’avvicinarsi del Paese al baratro, la “stabilità” come salvifico antidoto, l’inadeguatezza della classe dirigente) si accompagna alla denuncia del “vuoto di classe politica, di società civile e di leadership collettiva”. O alla constatazione che un “interventismo pedagogico” ha semmai “accentuato la fatica del vivere quotidiano e la mancanza di speranza per il futuro”.
Il Rapporto è indubbiamente molto franco sul deteriorarsi della realtà del lavoro, “emergenza nazionale”, e dei consumi. Il 2013 infatti “ha fatto venir meno la speranza” che la crisi del mercato del lavoro “possa essere breve e per certi versi contenibile”: “la sensazione che il peggio debba ancora venire accentua la dimensione di incertezza e paura”, in un disagio che si allarga ben oltre le fasce giovanili. Sono altrettanto eloquenti i dati sui consumi, ove la “sobrietà” rispetto a precedenti e non virtuosi modelli di consumo è intessuta di sacrifici talora pesanti, dall’alimentazione agli stili di vita. E ove cresce la protezione offerta di necessità dalle reti familiari o da quelle costituite da amici e conoscenti. Anche il trend dei consumi, insomma, ci parla di un Paese smarrito e profondamente fiaccato. Ci ripropone quell’erosione del “grande lago del ceto medio, storico perno della coesione e dell’agiatezza sociale” su cui si era soffermato il Rapporto dello scorso anno. Il Rapporto delle tre R: risparmio, rinuncia, rinvio.
Eppure, osserva il Censis con una torsione, “il crollo non c’è stato” e occorre semmai chiedersi quale realtà sociale abbiamo di fronte dopo la lunga fase segnata dalla necessità di sopravvivere. Prima di indicare possibili vie d’uscita il Rapporto non manca neppuredi segnalare alcuni “non entusiasmanti orientamenti di psicologia collettiva”. Da un lato laprogressiva perdita di quel “fervore del sale”, di quella capacità di dinamismo che ha costituito ilmotore del nostro sviluppo nella seconda metà del Novecento (insidiato ora da eccessi di furbizia, disabitudine al lavoro, immoralismo). Dall’altro un malcontento connesso al “grande e inatteso ampliamento” delle diseguaglianze sociali: un’Italia “sciapa e malcontenta” al tempo stesso, dunque.
Ma davvero è scomparso del tutto il fervore che aveva innervato il nostro sviluppo? Così non è, osserva il Censis rivolgendosi in primo luogo a quel “capitalismo molecolare” che è stato tradizionalmente al centro della sua attenzione e che non sembra aver smarrito tutte le proprie potenzia-lità: non in grado di avviare da sole, oggi, una nuova fase ma capaci di reagire positivamente a ulteriori stimoli. Vi aggiunge poi alcuni processi “in lenta emersione” come il crescere dell’imprenditorialità femminile o della presenza imprenditoriale e sociale degli immigrati. O il ruolo dei sempre più numerosi italiani, spesso giovani, che vivono all’estero per differenti ragioni e che possonorafforzare la nostra presenza nella “grande platea della globalizzazione”. E vi sono infine processi che possono offrire nuove opportunità di impresa, dalla revisione del welfare all’economia digitale.
Quale può essere però il filo rosso capace di agire da motore decisivo in tutti questi campi? Qui il Rapporto cala la sua parola chiave, connettività: cioè una capacità di relazione e interazione dal basso di cui si segnala già il manifestarsi e il procedere. Una “connettività orizzontale” tradizionalmente contrastata da tratti portanti del nostro vivere, dall’egoismo particolaristico alla “contrapposizione emotiva”: proprio essi però hanno accentuato la nostra crisi, e da qui può dunque prender avvio un ripensamento profondo e fecondo. Ipotesi suggestiva, certo, anche se l’auspicio sembra prevalere sull’analisi e trova al tempo stesso corposi ostacoli proprio in quella pesantezza della situazione che impronta di sé le parti centrali del Rapporto.
Caso Ruby, il Csm censura l’unica persona che fa il suo dovere
di Bruno Tinti *
Personaggi. Annamaria Fiorillo: sostituto procuratore presso la Procura dei minori di Milano. Ingiunge a Giorgia Iafrate di affidare a una comunità la minorenne marocchina Ruby. Giorgia Iafrate: commissario presso la Questura di Milano. Viola le direttive ricevute e affida Ruby alla igienista dentale di B., Nicole Minetti. Pietro Ostuni: capo di gabinetto. “Consiglia” a Giorgia Iafrate di ignorare le direttive di Annamaria Fiorillo. Silvio Berlusconi detto B.: presidente del Consiglio. “Consiglia” a Pietro Ostuni di ingiungere a Giorgia Iafrate di ignorare le direttive di Annamaria Fiorillo. Roberto Maroni: ministro dell’Interno. Afferma pubblicamente che la Polizia aveva affidato Ruby alla Minetti obbedendo alle direttive impartite da Annamaria Fiorillo. Edmondo Bruti Liberati: procuratore della Repubblica di Milano. Emana un comunicato stampa in cui afferma che l’affidamento di Ruby si è “svolto correttamente”. Monica Frediani: procuratore della Repubblica per i minori di Milano. Vieta ad Annamaria Fiorillo di parlare con i giornalisti per smentire le affermazioni false di Maroni e Bruti Liberati. Consiglio Superiore della Magistratura, detto Csm, composto da membri togati (magistrati nominati dalle correnti) e da membri laici (persone nominate dai partiti). Rifiuta di aprire una pratica a tutela richiesta da Annamaria Fiorillo al fine di smentire le menzogne di Maroni e Bruti Liberati; poi condanna disciplinarmente la stessa per aver spiegato ai giornalisti che Maroni e Bruti Liberati avevano mentito.
Trama della tragicommedia (farsa/tragedia?). La minorenne Ruby è accusata di furto, fermata durante la notte. Si accerta che è senza fissa dimora. Il Pm minorile Fiorillo ordina alla polizia di affidarla a una comunità (così prescrive la legge). Il potente B., probabilmente amante di Ruby, teme che costei lo “sputtani” e “ordina” di consegnarla alla sua fida “igienista dentale”. Ostuni e Iafrate, lieti di compiacere il potente ovvero spaventati da lui, obbediscono. Molti cantastorie raccontano il trionfo del vizio; forte è l’indignazione dei benpensanti. Maroni, compagno di governo di B., spontaneamente o sollecitato, li rassicura con una menzogna: la Polizia ha fatto il suo dovere, obbedendo agli ordini del pm. Bruti Liberati gli fa eco, non si sa se con consapevole menzogna o superficiale accertamento: la Polizia ha agito “correttamente”.
Fiorillo si incazza: mi fanno passare per ignorante o, peggio, serva di B.; chiede al Csm di valutare i fatti e intervenire a sua tutela perché sia chiaro che ella ha fatto il suo dovere, applicando la legge. Il Csm (che di pratiche a tutela ne ha fatte qualche migliaio) si dichiara non competente. Bruti Liberati si guarda bene dal correggere il suo falso comunicato. Fiorillo, abbandonata da tutti e additata come incompetente professionista al pubblico disprezzo, racconta a giornalisti cartacei e televisivi come sono andate le cose.
Bugiardi colposi e dolosi si arrabbiano e il Csm condanna Fiorillo per aver trasgredito all’ordine esplicito del suo capo Frediani. Per scaricarsi la coscienza, il Csm affetta virtuosa integrità: condanno perché la legge è legge; ma sento il bisogno di affermare che la vicenda si è svolta così come ha dichiarato Fiorillo. Qualche anno dopo, uno scriba ignoto, indignato per lo strazio arrecato alla virtù e per l’omaggio offerto al vizio, riprende la storia e ne immagina un confortante sviluppo. Annamaria Fiorillo si ricorda della favola del panettiere, del Re di Prussia Federico II e del giudice di Berlino; e presenta un ricorso alla Corte di Cassazione. Racconta che il sostituto procuratore generale che chiese la sua condanna al Csm era Elisabetta Cesqui, personaggio di spicco di Magistratura democratica, di cui Bruti Liberati è stato a lungo presidente ed è vera e propria icona. Sommessamente lamenta che ragioni di opportunità (anche i pm debbono essere e apparire imparziali) avrebbero consigliato di affidare l’accusa a persona meno legata al procuratore di Milano, il cui comunicato stampa sarebbe stato platealmente smentito dalla sua assoluzione.
Invita la Corte a valutare l’incoerenza del Csm che sollecitamente incolpa lei per aver disatteso l’ordine del procuratore dei Minori Frediani; e che però non assume alcuna iniziativa nei confronti del procuratore di Milano Bruti Liberati. Eppure costui non solo ha emesso un comunicato obiettivamente falso (questo sì indice di scarsa professionalità e colpevole ingenuità) ma ha omesso, una volta noti i fatti, di emetterne altro, a correzione del primo, a tutela dell’immagine pubblica e professionale di lei stessa Fiorillo e della Procura dei minori. Ricorda infine che lo stesso Csm (Sezione Disciplinare del Csm n. 52/99) aveva ritenuto “giustificate le dichiarazioni alla stampa, fatte per rispondere ad accuse già pubblicate su una certa testata giornalistica, e che esigevano il diritto di ripristinare la rappresentazione reale del proprio operato, contro rovesciamenti di prospettiva distorti e/o offensivi per sé e/o per l’ufficio giudiziario di appartenenza”. La Corte di Cassazione si rende conto dell’oltraggio patito da Fiorillo e applica l’esimente della legittima difesa: in linguaggio paragiuridico (per l’occasione preso in prestito da Marco Travaglio) scrive in sentenza che mandare impuniti funzionari pavidi o compiacenti e magistrati disattenti ed eccessivamente prudenti, “censurando” l’unica persona che ha fatto il proprio dovere, è un vero schifo.
Inno, è obbligatorio impararlo a scuola
Senato dà ok: 17 marzo giornata Unità d’Italia
Con 208 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, l’Aula ha dato il via libera alla legge che istituisce la nuova festività e prevede l’insegnamento del testo di Mameli. Forti proteste della Lega *
ROMA - D’ora in poi sarà più difficile notare sportivi che rimangono in silenzio o persone che inseriscono parole a caso mentre suona l’inno di Mameli: impararlo a scuola è obbligatorio. Il Senato, infatti, tra le accese proteste della Lega, ha dato il via libera definitivo al ddl che prevede l’insegnamento dell’inno tra i banchi. La norma, che è passata con 208 voti a favore, 14 contrari e 2 astenuti, istituisce inoltre il 17 marzo giornata nazionale dell’Unità d’Italia, della Costituzione, dell’inno nazionale e della bandiera.
In base al testo approvato oggi, a partire dal prossimo anno scolastico, nelle scuole di ogni ordine e grado saranno organizzati "percorsi didattici, iniziative e incontri celebrativi finalizzati ad informare e a suscitare riflessione sugli eventi e sul significato del risorgimento nonché sulle vicende che hanno condotto all’unità nazionale, alla scelta dell’inno di Mameli, alla bandiera nazionale e all’approvazione della Costituzione, anche alla luce dell’evoluzione della storia europea".
Lo scopo che si prefigge la legge con l’istituzione di questa nuova festività (che non avrà comunque effetti civili, non sarà insomma un giorno di vacanza o di ferie) è quello di "ricordare e promuovere" nella giornata del 17 marzo, data della proclamazione nel 1861 a Torino dell’unità d’Italia, "i valori di cittadinanza, fondamento di una positiva convivenza civile, nonché di riaffermare e consolidare l’identità nazionale attraverso il ricordo e la memoria civica".
Le reazioni. Accese le proteste della Lega prima dell’approvazione del testo. Alcuni senatori hanno lasciato l’Aula prima del voto. "Senatori del Parlamento italiano, magari ex ministri, non possono affermare di non sentirsi italiani. È vergognoso", ha detto il senatore Udc Achille Serra intervenendo in Aula. Attribuisce ’grande valore storico’ alla decisione presa dal Senato il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri: "Da oggi - ha detto - il 17 marzo diventa il giorno di tutti gli italiani che, attraverso una memoria finalmente condivisa, avranno la possibilità di riaffermare i valori dell’identità nazionale". Per il coordinatore nazionale del Pdl, Ignazio La Russa, l’inno è parte integrante della nostra storia: "È importante che proprio a scuola, culla dell’insegnamento e della cultura, i giovani possano imparare non solo il testo, ma ciò che esso rappresenta per tutti gli italiani". "Con questo ddl - ha detto il senatore del Pd Antonio Rusconi - alle scuole è affidato un compito importante: recuperare e rinnovare le radici di una Nazione, dei sacrifici compiuti e di quelli che si è ancora disposti a compiere insieme’’.
* la Repubblica, 08 novembre 2012
Napolitano riflessioni sul bel paese uno e indivisibile *
Il ciclo delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità non può considerarsi ancora esaurito: lo dicono notizie e annunci che continuano ad affluire. Ma un bilancio sostanziale è certamente possibile, e vorrei sottolinearne alcuni aspetti. Innanzitutto l’eccezionale diffusione e varietà di iniziative, e il carattere spontaneo che molte di esse hanno presentato: non sollecitate e coordinate dall’alto, da nessun luogo “centrale”, Presidenza della Repubblica o Governo. Si è davvero trattato di un gran fiume di soggetti che si sono messi in movimento, in special modo al livello locale, fin nei Comuni più piccoli - istituzioni, associazioni di ogni genere, gruppi e persone.
È stato un gran fervore di richiami di antiche memorie, anche famigliari, e di impegni di studio, di discussione, di comunicazione. Quel che si è mosso, poi, nelle scuole è stato straordinario: quanti insegnanti, per loro conto, e quanti studenti, a ogni livello del sistema d’istruzione, si sono messi d’impegno e hanno dato in tutte le forme il loro contributo! E anche in termini quantitativi che cosa è stata la partecipazione dei cittadini anche alle manifestazioni nelle piazze e nelle strade e dai balconi delle case, in un’esplosione mai vista di bandiere tricolori e di canti dell’Inno di Mameli!
Ce lo aspettavamo? In questa misura e in questi toni, no: nemmeno quelli tra noi, nelle massime istituzioni nazionali, che ci hanno creduto di più e hanno deciso di dedicarvisi più intensamente. È stata una lezione secca per gli scettici, e ancor più per coloro che prevedevano un esito meschino, o un fallimento, dell’appello a celebrare i centocinquant’anni dell’unificazione nazionale. Soprattutto, è stata una grande conferma della profondità delle radici del nostro stare insieme come Italia unita. Si può davvero dire che le parole scolpite nella Costituzione - «la Repubblica, una e indivisibile» - hanno trovato un riscontro autentico nell’animo di milioni di italiani in ogni parte del Paese. E non in contrapposizione ma in stretta associazione - come nell’articolo 5 della Carta - all’impegno volto a riconoscere e promuovere le autonomie locali. Nello stesso tempo, si può ritenere che il così ampio successo registratosi vada messo in relazione col bisogno oggi diffuso nei più diversi strati sociali di ritrovare - in una fase difficile, carica di incognite e di sfide per il nostro Paese - motivi di dignità e di orgoglio nazionale, reagendo a rischi di mortificazione e di arretramento dell’Italia nel contesto europeo e mondiale.
L’aver fatto leva sull’occasione del Centocinquantenario, l’aver puntato su celebrazioni condivise, è stato dunque giusto e ha pagato. Non bastava però lanciare un appello generico: occorreva richiamare in modo argomentato fatti storici ed esperienze, fare i conti con interrogativi e anche con luoghi comuni, favorire quella che non esito a chiamare una riappropriazione diffusa, da parte degli italiani, del filo conduttore del loro divenire storico, del loro avanzare - tra ostacoli e difficoltà, cadute e riabilitazioni, battute d’arresto e balzi in avanti - come società e come Stato nei secoli XIX e XX. Gli interventi che ho svolto, nel succedersi delle iniziative per il Centocinquantenario, hanno segnato i momenti e i contenuti dello sforzo compiuto: spero che il leggerli, raccolti in volume, ne renda il senso complessivo, lo sviluppo coerente.
Qual è la conclusione che oggi ne traggo? Che non si è trattato di un fuoco fortuito, di un’accensione passeggera che già sta per spegnersi, di una parentesi che forse si è già chiusa. No, si è trattato di un risveglio di coscienza unitaria e nazionale, le cui tracce restano e i cui frutti sono ancora largamente da cogliere. Non ci porti fuori strada l’impressione che appena dopo aver finito di celebrare il Centocinquantenario in un clima festoso e riflessivo, aperto e solidale, si sia ritornati alle abituali contrapposizioni, alle incomunicabilità, alle estreme partigianerie della politica quotidiana.
Quel lievito di nuova consapevolezza e responsabilità condivisa che ha fatto crescere le celebrazioni del Centocinquantenario continuerà a operare sotto la superficie delle chiusure e rissosità distruttive, e non favorirà i seminatori di divisione, gli avversari di quel cambiamento di cui l’Italia e gli italiani hanno bisogno per superare le ardue prove di oggi e di domani.
Giorgio Napolitano
* Avvenire, 23.11.2011
2011, c’era bisogno di una scossa nazionale
di GIORGIO NAPOLITANO *
Caro Direttore,
il suo giornale ha il merito di essere stato, fin dal concepimento di un programma di celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità, tra i soggetti (anche lei personalmente) che più hanno creduto nella straordinaria importanza dell’occasione che si presentava e dell’impegno che andava esplicato per un sostanziale rafforzamento delle ragioni e del sentimento del nostro «stare insieme» come italiani - nazione - Stato e cittadini.
La quantità e qualità delle iniziative che si sono succedute - tra le quali un particolare spicco hanno assunto quelle promosse a Torino - ci hanno detto che erano insieme maturata un’esigenza e insorta una disponibilità largamente condivise. C’era bisogno di una scossa nazionale unitaria di fronte alle difficoltà, alle derive, agli scoramenti che colpivano il nostro Paese e alle prove sempre più ardue che lo attendevano (e lo attendono).
Ritengo che il quasi imprevedibile successo delle celebrazioni, non ancora del tutto concluse, abbia lasciato un segno profondo, anche contribuendo al crearsi di condizioni più favorevoli per affrontare con fiducia una nuova inedita e incoraggiante fase della vita politico-istituzionale italiana.
* La Stampa, 20/11/2011
Colpevole di alto tradimento
di Roberta De Monticelli (“il Fatto Quotidiano”, 20 ottobre 2011)
Raccolgo la poca speranza residua che un riscatto morale e civile degli italiani sia ancora possibile, per scrivere questa lettera aperta agli esperti di Diritto costituzionale. Mi rivolgo a tutti loro e a chiunque, nelle istituzioni di questa Repubblica, abbia titolo a suggerire una via per sanare le profondissime ferite che sono in questi giorni inferte alla nostra coscienza civile. O sia, almeno, in grado di dare risposta allo sconcerto di molti semplici cittadini come me, dei quali mi faccio portavoce. Siamo noi che abbiamo perduto il senso della misura, o è l’opinione pubblica che ha perduto, per abitudine e rassegnazione, la capacità di percepire quando la misura è colma?
IO CREDO che il voto di scambio sia un reato, e che se non si procede a denunciarlo e a esigere che chi se ne è reso colpevole ne paghi le conseguenze, sia in generale perché è difficile trovare le prove che il mercato abbia avuto luogo. Ma nel caso che abbiamo sotto gli occhi, le prove ci sono. Il presidente del Consiglio ha ripetuto di aver "dovuto" ripagare con un posto di viceministro la signora Polidori per via di promesse già fatte, in cambio di favori pregressi, ha anche aggiunto che precedeva altri nella lista, e che c’era un documento scritto a provarlo. Lo ha detto, ed è stato riportato dai giornali di ieri e di sabato. In quelli di oggi, con le intercettazioni delle telefonate con Lavitola, emergono numerosi altri casi del genere, con personaggi che dicono "io sono prima di lui nella lista", eccetera.
Io credo che un capo di governo che dica "facciamo la rivoluzione vera... facciamo fuori il Palazzo di Giustizia di Milano" si renda semplicemente colpevole di tradimento nei confronti della Repubblica, e della sua Costituzione, sulla quale ha giurato. Credevo che, se fino ad ora non si è proceduto a denunciarlo e a procedere con una qualche - immagino prevista - forma di impeachment per alto tradimento, fosse perché non era dimostrabile che questo fosse il pensiero del capo del governo. Ora è dimostrato. Nero su bianco, voce e sua riproduzione scritta, comparsa sui giornali del 17 ottobre. Io credo che quando un presidente del Consiglio dichiara che nessuno che non sia un suo "pari" - cioè, immagino, un parlamentare, o un ministro - non ha il diritto di giudicarlo, fa una dichiarazione eversiva, in quanto lesiva dell’articolo 3 della Costituzione. E questa dichiarazione il suddetto presidente l’ha fatta in numerose occasioni, già molti anni fa. È oggi uno dei temi ricorrenti delle conversazioni con Lavitola, anche queste oggi di pubblico dominio .
IO CREDO che se un presidente del Consiglio dimostra di avere ogni genere di rapporti, che lo rendono ricattabile, con un indagato per reati di vario genere, peraltro dichiaratosi latitante; se addirittura ha istigato il suddetto latitante a restare tale; se infine pare all’origine del fatto che costui non viene arrestato, nonostante sia perfettamente reperibile, avendo concesso a una televisione nazionale una pubblica intervista: ebbene questo presidente del Consiglio si rende come sopra colpevole di eversione e tradimento della Costituzione su cui ha giurato, nonché di insulto alla coscienza morale e civile di tutti i suoi concittadini.
Se queste mie credenze sono fondate, allora mi chiedo e vi chiedo se le migliori intelligenze delle discipline giuridiche pertinenti non possano e non debbano farsi autrici di un documento di pubblica accusa, che se anche fosse destinato all’inefficacia pratica, avrebbe comunque una forte efficacia morale, come specchio e riferimento ideale di tutti i cittadini italiani che nella Costituzione si riconoscono, e che l’occupazione del potere da parte di chi la spregia ferisce nel fondamento stesso della loro coscienza e fedeltà alla Repubblica.
NON CI si obietti che questo capo di governo e la sua maggioranza sono al tramonto. Qualunque sia la maggioranza che gli succederà, considerare semplicemente “politica” la differenza fra la fedeltà alla Costituzione e il suo disprezzo, è rendersi complici del massacro, che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della nostra dignità di cittadini, oltre che di quella delle istituzioni di questa Repubblica. Ed è soffocare per sempre la speranza di quel riscatto a partire dal quale soltanto una civiltà nazionale e politica può ricominciare a esistere.
La coscienza dello Stato
di Ezio Mauro (la Repubblica, o1.10.2011)
Ieri Giorgio Napolitano ha rotto un pezzo dell’incantesimo che blocca il Paese in questa lunga agonia del berlusconismo. Spazzando via false credenze, mitologie e leggende politiche che pure hanno imprigionato e condizionato l’attività di questo governo, il Capo dello Stato ha detto chiaramente quel che la politica (anche di opposizione) non riesce a spiegare: non esiste un popolo padano, pensare ad uno Stato lombardo-veneto che competa nella sfida della globalizzazione mondiale è semplicemente grottesco, e una via democratica alla secessione è fuori dalla realtà.
Dopo queste parole, vivere nella finzione non sarà più possibile. Ci vuole coraggio istituzionale - quindi responsabilità - nel pronunciarle, perché l’Italia politica ha accettato per anni che crescesse dentro la cultura della destra berlusconiana questa leggenda nera della secessione possibile, della Padania immaginaria, fino alla buffonata delle false sedi ministeriali al Nord, col ritratto di Bossi appeso ai muri. Oggi, semplicemente e finalmente, lo Stato dimostra di avere coscienza e nozione di sé, e dice di essere uno e indivisibile, frutto di una vicenda nazionale e di una storia riconosciuta.
È una frustata alla politica, Lega, governo e maggioranza in primo luogo: ma anche all’opposizione. Napolitano infatti denuncia la rottura del rapporto tra eletti ed elettori, come se la politica si sentisse irresponsabile. E proprio nel giorno in cui le firme per il referendum abrogativo hanno raggiunto un milione e duecentomila, chiama in causa per questo il Porcellum: voluto e votato da Berlusconi e dalla Lega, colpevole di aver spostato la scelta dei parlamentari nelle mani dei capi-partito, spezzando il collegamento tra i cittadini e i loro rappresentanti. Per questo il Presidente chiede espressamente una nuova legge elettorale per ripristinare la fiducia nelle istituzioni.
Guai se le parole del Quirinale restassero inascoltate, al punto in cui è giunta la disaffezione dei cittadini verso il sistema politico-istituzionale. È un invito a dire la verità, a farla finita con gli inganni, a restituire la parola ai cittadini, a "cambiare aria" nel Palazzo. Se accadrà, anche la finzione di governo che si arrocca a Palazzo Chigi avrà vita breve.
Zagrebelsky e C.
Non date la colpa al Papa
di Lucia Ceci (il Fatto/Saturno, 8.7.11)
LA FINE DI UNA stagione si consuma sempre con una resa dei conti: chi è stato responsabile di cosa. Negli italici confini del secolo breve è capitato almeno tre volte: Caporetto, 8 settembre, tangentopoli. Il redde rationem investe le persone, i fatti, le cose. Ma gli intellettuali sono interessati anche ad altro: le cause. Accade dunque, nel crepuscolo del berlusconismo, che i professionisti dell’analisi di lungo periodo si adoperino per individuare il vizio d’origine di tanto sfa-celo. E poiché la scena, con le notti di Arcore, si consuma su un terreno etico in cui il privato si mesce col pubblico e ha il volto seducente e da tutti decifrabile di una prostituta minorenne, appare naturale chiamare in causa l’azionista di maggioranza dell’ethos pubblico italiano: la Chiesa cattolica.
In questi mesi di crisi torna a riaffacciarsi il teorema che evoca la presenza del papato nel territorio nazionale quale forza fiaccatrice degli anticorpi civili : dal fascismo a Scilipoti, passando per l’evasione fiscale, la corruzione, il bunga-bunga. Così, più che in altri momenti, ci troviamo a imparare da Ezio Mauro come, nello sfacelo delle istituzioni democratiche, la «riconquista» dei vescovi sia «quasi un Dio italiano che cammina, una sorta di via italiana al cattolicesimo».
E contemporaneamente ci imbattiamo nel dito di Gustavo Zagrebelsky, puntato contro «l’enorme concentrazione di potere mondano» di cui la Chiesa dispone. E nei suoi profetici richiami perché essa si purifichi dai beni della terra e dal potere sulla terra. Pena la salvezza della laicità e, dunque, della democrazia. Una Chiesa di santi. Una laicità senza se e senza ma.
Eppure non si può mettere sulle spalle di Pietro il peso dei guasti della democrazia in Italia. Ora è vero che la gerarchia cattolica ha rinunciato da troppo tempo a parlare di Dio. E sente piuttosto il dovere di intervenire su temi lontani dalle Sacre Scritture e dalle vite concrete delle donne e degli uomini. Che vuole raggiungere direttamente il legislatore nelle pieghe di un tessuto politico fragile e gregario. Ma non si può ignorare che l’essere cattolici si riduce all’esser stati battezzati, che i vescovi orientano sempre meno le menti, le scelte morali, le decisioni elettorali degli italiani. La longa manus della Chiesa (così la chiamano Mauro e Zagrebelsky) riesce solo a muovere un ceto politico impegnato nella spartizione di prebende, il cui cinismo resiste ai colpi di ogni indignazione.
Da parte mia mi sottrarrei volentieri al compito di individuare il germe che fornisce la cifra specifica del deficit di etica pubblica nell’Italia di oggi. Perché non sono capace di fare un ragionamento semplificato. Avrei bisogno di tirare in ballo crisi del sistema dei partiti, mutamenti di assetti internazionali, tradizioni civiche, culture politiche, guelfi e ghibellini. E il ragionamento sarebbe meno incalzante. Una cosa però la voglio dire.
Se proprio non posso sottrarmi alla semplificazione tirerei in ballo il tradimento delle élites democratiche e delle forze politiche che dal 1994 in avanti le hanno rappresentate. Perché in 17 anni di berlusconismo hanno guidato il Paese per 101 mesi, cioè 8 anni e mezzo, se mettiamo insieme i governi Dini, Prodi, D’Alema, Amato. Perché il loro narcisismo etico - per usare una categoria centrale nell’ultimo libro di Franco Cassano, L’umiltà del male - il loro atteggiamento di superiorità morale le ha rese incapaci di una mobilitazione in grado di innervare la politica.
Se il Grande Inquisitore è riuscito ad avvelenare i pozzi non è solo per la sua potenza, ma anche perché il campo gli è stato lasciato libero dalla presunzione di quelli che Dostojevski nella sua Leggenda chiama i dodicimila santi.
Napolitano: "In Italia troppa partigianeria. E i leader politici non siano gelosi di me" *
ROMA - In Italia c’è un eccesso di partigianeria politica. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro stamattina con i giornalisti della stampa estera.
All’incontro ha partecipato una rappresentanza di giornalisti di diverse testate internazionali e secondo quanto si è appreso il capo dello stato avrebbe fatto riferimento, come gli è capitato altre volte, a una partigianeria politica esasperata usando il termine inglese "hyperpartisanship".
"Penso che non ci sia per i politici italiani motivo di ingelosirsi, perchè viaggiamo su pianeti diversi, non ci sono comparazioni possibili, che non siano invece arbitrarie", ha aggiunto il capo dello Stato a proposito del suo ruolo. Spiegando poi che il compito del Colle è quello di "rappresentare l’unità nazionale" ed è "completamente diverso da quello dei leader politici".
* la Repubblica, 23 maggio 2011
Le tensioni con la Consulta potrebbero costare caro
di Marcello Sorgi (La Stampa, 11.02.2011)
Non doveva proprio capitare anche questa a Berlusconi, di ricevere con qualche mese di ritardo, ma tutta insieme, la reazione dei giudici della Consulta agli attacchi a cui s’era lasciato andare un numero infinito di volte, da quando, ormai un anno e mezzo fa, la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittimo il lodo Alfano, rimettendo in moto la macchina dei processi contro il Cavaliere.
Da allora in poi è stato un lento, ma neppure troppo, rotolamento verso la morsa in cui il presidente del consiglio s’è ritrovato stretto in questi giorni, tra il caso Ruby con le accuse di concussione e sfruttamento della prostituzione, e i tre processi che dal 28 febbraio lo attendono a Milano. La breve parentesi del legittimo impedimento, parzialmente annullato anche quello, è stata una specie di libertà provvisoria, per altro usata dal premier per rimettersi nuovamente nei guai.
D’altra parte il tono usato dal presidente De Siervo ieri lascia poche speranze: trattandoli da manutengoli della sinistra, Berlusconi ha offeso i giudici della Consulta, due terzi dei quali, come si sa, non provengono dal Parlamento, essendo scelti direttamente dal Capo dello Stato o tra i capi delle diverse magistrature. Ma anche per quelli di nomina politica i requisiti e le alte competenze giuridiche richiesti sono gli stessi e il sistema di elezione è tale da rendere indispensabile un accordo tra maggioranza e opposizione. Di qui l’irritazione dei supremi giudici a cui De Siervo ha dato voce ieri.
Il nuovo attrito istituzionale che ne è generato ha un prezzo particolarmente alto per Berlusconi. La Consulta infatti, nelle strategie dei difensori del premier, rappresenta l’ultima possibilità per cercare di evitare il processo con rito immediato chiesto dalla Procura di Milano e tentare di ricondurlo al Tribunale dei ministri, da dove, grazie a un nuovo voto parlamentare, potrebbe essere portato in una specie di limbo.
Anche se non c’è alcuna ragione per temere che i giudici costituzionali si lascino influenzare dagli attacchi ricevuti, l’uscita del presidente De Siervo lascia trapelare una non proprio felice disposizione a occuparsi dei frequenti problemi giudiziari del premier. E se la richiesta di investire il Tribunale dei ministri dovesse essere respinta dalla Corte, Berlusconi dovrebbe rassegnarsi a comparire a Milano, per rispondere delle accuse infamanti che il caso Ruby gli ha riversato addosso e per ricevere in poco tempo, data la proceduta abbreviata, una sentenza che non promette niente di buono.
Il Presidente della Repubblica grida: Forza Italia.
Il Presidente del Partito "Forza italia" grida: Forza Italia.....
Chi è il vero Presidente della Repubblica?!!!
IL "QUIZ" CONTINUA ....!!!
Un nome da rossore
di Piero Stefani *
In una sera di maggio del 1915 un poeta vate, rivolgendosi alla folla accalcata in una piazza di Roma, così si esprimeva: «Su la nostra dignità umana, sulla dignità di ognuno, su la fronte di ognuno, su la mia, su la vostra, su quella dei vostri figli, su quella dei non nati, sta la minaccia di un marchio servile. Chiamarsi Italiano sarà nome da rossore ...». Con queste, e altre ancor più veementi, parole di [un] «grande» della letteratura italiana, Gabriele d’Annunzio, portava a compimento un esercizio di retorica che fingeva di premere sul governo al fine di prendere una decisione in effetti già assunta: l’ingresso in campo dell’Italia a fianco dell’Intesa. Non fu una scelta di cui gloriarsi.
In tutt’altro contesto, oggi si impongono con implacabile attualità, a patto di trascriverle al presente, alcune di quelle parole: «chiamarsi italiano è un nome da rossore». La vera ragione non è quella, pur reale, dell’immagine che si diffonde nel mondo legata agli inqualificabili comportamenti personali del presidente del consiglio. Lì, certo, ci sono ad abundantiam motivi di coprire le proprie guance di rubyno e tuttavia lo snodo fondamentale si trova altrove. Il vero motivo di vergogna che tutti ci accomuna è che, all’incirca da vent’anni, in Italia non si può fare a meno di riferirsi, in un modo o in un altro, a Berlusconi. Vi è un dato oggettivo: da quasi quattro lustri il Cavaliere è divenuto il perno su cui ruota l’intera vita nazionale.
Non siamo in una classica dittatura, le gigantografie di Berlusconi non appaiono agli angoli delle strade o sui palazzi istituzionali, nelle scuole o nei tribunali. Si tratterrebbe di un procedimento arcaico. Il fatto cruciale è che tutto il linguaggio della comunicazione, in modo diretto o indiretto, non riesce a ignorarlo o come persona o come stile di comportamento avversato e/o introiettato. Berlusconi si è impossessato dell’anima del paese. Questo è il vero motivo di incancellabile rossore. Essere all’opposizione politica è un rantolo di dignità, ma non sposta il baricentro della questione. Non ci si può dimenticare di lui. È lui che comanda il gioco. Prima o poi perderà; ma il torneo sarà sempre intitolato a lui anche dopo di lui. Lo sarà fino a quando non ci sarà una vera svolta. Giunti a questo punto, la rigenerazione dovrà, per forza, passare attraverso una fase traumatica, proprio come avvenne per l’altro ventennio: prospettiva realistica, ma non augurabile, i prezzi da pagare saranno infatti enormi.
Tutto è così. Quando ci si imbatte in forze positive impegnate nel sociale, nella concreta applicazione dei diritti, nell’elaborazione culturale seria, allora sorge, inevitabile, un interrogativo: come è possibile che un paese che ha queste potenzialità abbia una vita e un’immagine pubbliche così degradate? A parti rovesciate, la stessa conclusione va tratta quando ci si imbatte in comportamenti e stili di vita volgari, egoistici, narcisistici e dissipatori pervarsivamente presenti tra noi. In tal caso si è obbligati a constatare quanta terribile omogeneità ci sia tra il «paese reale» e quello legale. Se si contemplano le opere d’arte del passato o si è avvinti dalla grande musica e letteratura dell’Italia di un tempo, ci si chiede come è possibile che una civiltà capace di aver prodotto quelle realtà si sia ridotta così. Se si è di fronte alla liturgia pubblica dei picchetti di onore, delle toghe, delle deposizioni di corone di alloro, delle solenni sedute inaugurali, delle celebrazioni e degli anniversari sorge, inevitabile, un senso di smarrimento constatando la vuotezza di quella ritualità di fronte al vero volto dell’Italia. Su questo declivio si potrebbe continuare, fino a giungere alla minuscola esemplificazione costituita da queste righe, anch’esse prigioniere di quello spettro che si aggira tra noi e dentro di noi.
Il modello «tirannico» (in senso classico) di chi governa la cosa pubblica in base al proprio interesse privato si è capovolto fino a far sì che anche il privato di ciascuno sia impregnato da un diuturno confronto con quello stile pubblico. Quando ci si alza la mattina, si è coperti da un rossore contraddistinto da tratti depressivi: non ce ne liberiamo, siamo ancora qui, non riusciamo a coagulare forze per uscirne.Nell’orizzonte italico vi è un altro rosso, quello cardinalizio. Anch’esso è ormai segno di vergogna. Quando il primo ventennio aveva imboccato la strada dello sfacelo, ci fu qualche sussulto; è il caso degli ultimi mesi di pontificato di Pio XI. Tuttavia neppure allora ci fu una seria messa in discussione dello scoperto appoggio che si era dato in precedenza. Né avvenne alcuna franca ammissione di aver sbagliato. La statura culturale di papa Ratti è imparagonabile a quella di un Bertone, di un Ruini o dell’evanescente Bagnasco. Da lui ci si poteva, forse, aspettare qualcosa, dagli odierni cardinali non è dato attendere nulla e i loro tardivi distinguo non fanno che rendere più intensa la porpora presente sui loro abiti e sulle nostre guance. Semplicemente essi non sono all’altezza di comprendere il dramma del nostro paese in quanto ne sono parzialmente corresponsabili.
* http://pierostefani.myblog.it/, 22 gennaio 2011
CORTE COSTITUZIONALE
Legittimo impedimento bocciato in parte a decidere dovranno essere i giudici
Sentenza sostanzialmente sfavorevole a Berlusconi da parte della Consulta sulla legge pensata per mettere il premier al riparo dai processi che lo vedono imputato. In particolare viene affidato ai magistrati giudicanti di valutare le ragioni che secondo la difesa impedirebbero la presenza in aula *
ROMA - Parziale bocciatura, ma legge sostanzialmente stravolta rispetto all’impianto con cui era stata concepita dagli avvocati di Silvio Berlusconi. E’ questo il verdetto della Consulta al termine della lunga camera di consiglio per valutare la costituzionalità della norma sul legittimo impedimento. La decisione sarebbe stata presa a larga maggioranza, con 12 voti favorevoli e 3 contrari, dopo oltre cinque ore di discussione: i giudici si erano trovati in udienza alle 9.30 di stamattina e poco prima delle 14 avevano aggiornato la seduta ripresa alle 15.30. Circa un’ora dopo è arrivata la sentenza.
La decisione dell’Alta Corte in parte boccia e in parte interpreta alcune norme sul ’legittimo impedimento’. La Corte Costituzionale ha infatti posto diversi paletti alla legge nata per mettere temporaneamente al riparo il presidente del Consiglio dalla ripresa dei suoi tre processi (Mills, Mediaset e Mediatrade). In particolare, la Consulta ha bocciato la certificazione di Palazzo Chigi sull’impedimento e l’obbligo per il giudice di rinviare l’udienza fino a sei mesi, dichiarando illegittimo il comma 4 dell’art.1 della legge 51 del 2010. Bocciato solo in parte invece il comma 3, con l’affidamento al giudice della valutazione del ’legittimo impedimento’.
La Consulta ha inoltre fornito una interpretazione del comma 1, ritenendolo legittimo solo se, nell’ambito dell’elenco di attività indicate come impedimento per premier e ministri, il giudice possa valutare l’indifferibilità della concomitanza dell’impegno con l’udienza, nell’ottica di un ragionevole bilanciamento tra esigenze della giurisdizione, esercizio del diritto di difesa e tutela della funzione di governo, oltre che secondo un principio di leale collaborazione tra poteri.
Bocciato per "irragionevole sproporzione tra diritto di difesa ed esigenze della giurisdizione" (art. 3 della Costituzione) il comma 4 dell’art. 1 che prevede nello specifico quanto segue: "Ove la Presidenza del Consiglio dei ministri attesti che l’impedimento è continuativo e correlato allo svolgimento delle funzioni di cui alla presente legge, il giudice rinvia il processo a udienza successiva al periodo indicato, che non può essere superiore a sei mesi".
Il comma 3, rispetto al quale la Corte sarebbe intervenuta con una pronuncia ’additiva’ , prevede che "il giudice, su richiesta di parte, quando ricorrono le ipotesi di cui ai commi precedenti, rinvia il processo ad altra udienza".
Il comma 1, di cui la Consulta ha invece dato una interpretazione conforme alla Costituzione, prevede che per premier e ministri, chiamati a comparire in udienza in veste di imputati, costituisce legittimo impedimento "il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi o dai regolamenti". A seguire, sempre il primo comma, elenca i riferimenti normativi riguardanti specifiche attività tra le quali, ad esempio, il consiglio dei ministri, la conferenza Stato-Regioni, impegni internazionali etc. Dopo questo elenco minuzioso, il comma 1 prevede che sono oggetto di legittimo impedimento le "relative attività preparatorie e consequenziali, nonché ogni attività comunque coessenziale alla funzioni di governo".
* la Repubblica, 13 gennaio 2011
Il partito della salvezza
di Angelo D’Orsi (il Fatto Quotidiano, 07.01.2011)
Il 2 giugno scorso redassi un manifesto che cominciava con queste parole: “L’Italia è molto oltre la crisi di nervi. L’Italia che festeggia oggi la nascita della Repubblica - uno dei pochi momenti della sua storia in cui il popolo è stato sovrano, attuando una rivoluzione istituzionale, che si legava al “vento del Nord”, la grande speranza suscitata dalla Resistenza - si trova a fronteggiare, quasi inerte, una crisi drammatica”.
La crisi cui alludevo non riguardava soltanto l’economia, o le istituzioni, o l’informazione: la crisi era - ed è, tanto più oggi, a sei mesi di distanza - una crisi di sistema. Siamo nel pieno di una decadenza morale e intellettuale, politica e antropologica degli italiani. Come gli eventi del 14 dicembre - tra il Parlamento e la piazza - hanno dimostrato, noi italiani, come in altre stagioni della storia, ci troviamo in una situazione di contrapposizione radicale. Lo scontro è durissimo, e grazie alla prepotenza del tiranno - forte del suo strapotere finanziario e mediatico - si acuisce settimana dopo settimana.
Chi mette in dubbio il valore dell’Unità
NESSUNA CERTEZZA ci è rimasta; basti dire, che mentre ci accingiamo a celebrare i 150 anni di esistenza dello Stato unitario, una forza politica la mette sotto accusa, quasi fosse uno dei grandi mali del Paese, negandone provocatoriamente il valore storico e il significato politico. La Sinistra è spappolata e tenta in qualche modo di raccogliere le sparse membra per rilanciarsi, ma l’impresa appare difficilissima. Le forze di opposizione sono esitanti, e nel momento del redde rationem hanno rivelato la loro debolezza, mostrando quanto grande sia lo spazio tra le dichiarazioni e l’azione: il tycoon a capo del governo, in grado di comprare non soltanto i voti, ma l’anima dei suoi avversari, ride, ride, non cessa di ridere, mentre continua la sua campagna acquisti. Se vi è chi riesce a comprare è perché esiste un mercato sul quale si possono reperire uomini e donne in vendita.
Si è sostenuto sovente che il trasformismo è uno dei mali d’Italia; ma qui si tratta d’altro: qui siamo all’infamia, che mostra la pochezza di un’intera classe politica e l’impotenza delle istituzioni, la complicità di una parte dei media; qui siamo alla vendita e acquisto dei voti in Parlamento. In passato e ancora oggi, specie nel Mezzogiorno, certi personaggi politici facevano campagna elettorale col pacco di pasta o con le mille lire tagliate a metà. Ora la compravendita è giunta in Parlamento, gettando ignominia su quel consesso, ma anche su quei partiti che hanno accolto nelle loro file individui non spregevoli, ma spregevolissimi.
Ennesimo, certo non ultimo segnale di un degrado ogni giorno più evidente e pericoloso, che dalle istituzioni giunge ai singoli e viceversa. Il catalogo è lungo, tra inefficienze e nefandezze, menzogne e sprechi, iniquità sociali e bassezze morali. Quanto c’è dell’oggi, legato essenzialmente alla figura malefica del Cavaliere e quanto dei nostri ieri nella politica messa in atto da un gigantesco “Partito della Devastazione”? Da dove giungono le miserie odierne? In tal senso giunge opportuno il bel libretto di Paul Ginsborg, lo studioso inglese che da poco ha ottenuto la cittadinanza italiana (pur conservando - e fa bene! - la sua d’origine): Salvare l’Italia (Einaudi) si intitola, significativamente. Un titolo che suona classico, stentoreo, ma non retorico: e io condivido il messaggio che esso contiene e che evoca grandi spiriti, da Cattaneo a Rosselli, da Pisacane a Gramsci. Oggi si tratta di tentare, precisamente, di opporre un ideale “Partito della Salvezza” al partito in atto “della Devastazione”.
Ginsborg, con arguzia e ricca informazione, ripercorre molti fili della storia di questo sfortunato Paese, sovente connettendoli a una trama europea. Salvare l’Italia da quali pericoli? - si chiede. Sono quattro: 1) “Una Chiesa troppo forte in uno Stato troppodebole”; 2) il clientelismo, mai debellato e anzi mai affrontato seriamente come un male cronico, gravissimo; 3) “la ricorrenza della forma dittatura”; 4) la “povertà delle sinistre”.
Il raffronto tra il duce e Berlusconi
LA VICENDA della formazione unitaria, i limiti del Risorgimento, gli errori e le miopie delle classi politiche che si sono succedute nel corso di un secolo e mezzo; le timidezze delle forze di una sinistra che pare aver rinunciato alla “bellezza della lotta”, che costituisce un elemento di fondo del suo background.
Particolarmente stimolante il raffronto, tra Mussolini e Berlusconi, enumerando somiglianze e differenze; certo, nota Ginsborg, questo raffronto che fino a qualche tempo fa suscitava riprovazione e quasi scandalo, oggi sta diventando quasi un esercizio obbligato: troppi i punti di contatto, anche nella distanza temporale e nella mutata temperie storica. Ginsborg prova anche - esercizio da lui, come da altri studiosi, già compiuto nel saggio intitolato proprio a Berlusconi (Einaudi, 2003) - a sondare le ragioni del successo di questo falso modernizzatore, che seduce le casalinghe avvinghiate al televisore che ogni sera racconta inesistenti famiglie felici, imprenditori capaci, giovani di successo, donne belle e fortunate...
A questa Italia passiva e plaudente al sorriso del Cav, che la modella e a sua volta la rispecchia, il nostro nuovo concittadino Paul oppone un’altra Italia: una “nazione mite” ma combattiva, che riscopra la politica dal basso, che sia quasi una guerriglia autenticamente democratica, una Italia di cittadini attivi e non più passivi e inerti. Il Risorgimento, non da prendersi come modello alla lettera, offre buoni spunti in tal senso. E in fondo, come ho scritto io stesso su questo giornale, oggi “non possiamo non dirci garibaldini”.
GIUSTIZIA
Consulta, De Siervo presidente
per un voto ha battuto Quaranta
Alla Corte è arrivato nel 2002 eletto dal Parlamento su indicazione del centrosinistra. Il primo importante appuntamento sarà l’udienza della prossima settimana sul "legittimo impedimento". "Offensivo dire che siamo di parte" *
ROMA - Un solo voto di scarto, al ballottaggio. È bastato a Ugo De Siervo per diventare nuovo presidente della Corte Costituzionale e battere l’altro candidato Alfonso Quaranta. De Siervo succede a Francesco Amirante, il cui mandato novennale è scaduto lo scorso 6 dicembre. Ad eleggerlo sono stati, a scrutinio segreto, i 15 giudici della Consulta. Resterà in carica fino al 29 aprile del prossimo anno. Alla Corte è arrivato nel 2002 eletto dal Parlamento su indicazione del centrosinistra. Nella corsa alla presidenza è stata dunque rispettata l’anzianità di carica e De Siervo - già vicepresidente con Amirante - ha avuto la meglio sull’altro candidato, il giudice costituzionale Quaranta per un solo voto: nello scrutinio del ballottaggio, De Siervo ha avuto otto voti contro i sette di Quaranta. Tra le numerose sentenze scritte come giudice costituzionale, quelle sul conflitto tra Stato e Regioni sul nucleare sono tra le più recenti. Il primo importante appuntamento per la Corte sarà l’udienza della prossima settimana sul "legittimo impedimento".
"La Consulta non ha orientamenti precostituiti". "Non accade, come da qualche parte si è voluto fare intendere, anche di recente, che la corte costituzionale abbia orientamenti precostituiti. E’ sbagliato dire che la corte abbia orientamenti", ha detto De Siervo. "Dire che la corte abbia orientamenti precostituiti - ha aggiunto - è profondamente offensivo per ciascuno di noi. Noi giuriamo fedeltà al presidente della repubblica e la prima fedeltà è quella di essere imparziali, senza vincoli di appartenenza".
Chi è. Sessantotto anni, sposato e con quattro figli, Ugo De Siervo è nato a Savona ma è fiorentino di adozione. Si è laureato nel 1965 con 110 e lode alla Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Firenze, dove nel 1969 diventa assistente ordinario di diritto costituzionale. Nel 1972 diventa professore incaricato nella Facoltà di giurisprudenza di Sassari e poi di Firenze, mentre nel 1976 vince il concorso a cattedra di diritto pubblico e va ad insegnare nelle Università di Salerno e Firenze. Attualmente è professore (in aspettativa) di diritto costituzionale presso la Facoltà di giurisprudenza di Firenze. Coordinatore del dottorato di ricerca in diritto pubblico presso l’ateneo fiorentino dal 1982 al 1993, è stato direttore di numerosi gruppi di ricerca in vari settori del diritto costituzionale e del diritto delle regioni e degli enti locali.
E’ autore di molti scritti di storia costituzionale, sistema delle fonti, libertà e diritti costituzionali, sistema regionale, processo di costituzionalizzazione dell’Europa. De Siervo è stato componente dal 1970 al ’74 del Comitato regionale di controllo (Coreco) della Toscana, dal 1986 al 1993 del Consiglio superiore della pubblica amministrazione, dal 1997 al 2001 del Garante per la protezione dei dati personali. Nel 1988 e’ stato inserito nell’elenco entro cui eventualmente sorteggiare i giudici aggregati della Corte costituzionale nei casi di giudizi penali.
* la Repubblica, 10 dicembre 2010
Legittimo impedimento, slitta l’udienza
"Serve clima tranquillo per giudicare"
In origine la Corte Costituzionale l’aveva fissata il 14 dicembre, ma la concomitanza con la fiducia l’ha fatta spostare a gennaio. De Siervo: "Non è un regalo al premier" *
ROMA - La Corte Costituzionale rinvierà l’udienza (e quindi non solo la decisione) sul ’legittimo impedimento’ il prossimo gennaio, in origine fissata il 14 dicembre, per "giudicare in un clima più tranquillo" vista la concomitanza con il voto di fiducia al governo in Parlamento. "Il clima è troppo surriscaldato, vogliamo evitare letture politicizzate della sentenza" dice il neopresidente della Consulta, Ugo De Siervo 1, in conferenza stampa. Un rinvio che non è un "regalo" al assicura De Siervo.
Slitta, probabilmente l’11 o il 25 gennaio, il verdetto dei giudici sulla legittimità della legge grazie alla quale i tre processi a carico di Berlusconi (Mills, Mediaset e Mediatrade) sono rinviati almeno fino a ottobre 2011. Una decisione che farà felici i legali del premier che, quattro giorni fa, avevano chiesto di rinviare l’udienza vista la concomitanza con il voto di fiducia al governo.
A rispondere il giorno stesso, era stato l’ex presidente della Consulta, Francesco Amirante, che aveva fatto sapere ai legali che la Corte si sarebbe riservata di valutare e che a decidere sarebbe stato il collegio dei 15 giudici (e dunque non il solo presidente).
La scelta della Consulta ha importanti ricadute sul piano politico. Slittando l’udienza Berlusconi evita di trovarsi in una situazione tutt’altro che agevole. Da una parte avrebbe potuto ottenere la fiducia ma non il legittimo impedimento. Dall’altra non ottenere la ’fiducia’ ma salvarsi con il ’legittimo impedimento’. Adesso, con lo slittamento, la matassa diventa meno ingarbugliata.
L’italia del sottosuolo
di BARBARA SPINELLI *
Sono settimane ormai che l’annuncio è nell’aria: il governo Berlusconi sta finendo, anzi è già finito. Il suo regno, la sua epoca, sono morti. È sempre lì sul palcoscenico, come nelle opere liriche dove le regine ci mettono un sacco di tempo a fare quel che cantano, ma il sipario dovrà pur cadere. Anche i giornali stranieri assistono al funerale, nei modi con cui da sempre osservano l’Italia: il feeling, scrive l’Economist, la sensazione, è che la commedia sia finita. Burlesquoni è un brutto scherzo di ieri.
In realtà c’è poco da ridere, e il ventennio che abbiamo alle spalle è infinitamente più serio. Non siamo all’epilogo dei Pagliacci, e non basta un feeling per spodestare chi è sul trono non grazie a sentimenti ma a una macchina di guerra ben oleata. Per uscire dalla storia lunga che abbiamo vissuto - non 16 anni, ma un quarto di secolo che ha visto poteri nati antipolitici assumere poi il comando - bisogna, di questo potere, averne capito la forza, la stoffa, gli ingredienti. Non è un clown che si congeda, né l’antropologia dell’uomo solitario aiuta a capire. I misteri di un’opera sono nell’opera, non nell’autore, Proust lo sapeva: "Un libro è il prodotto di un io diverso da quello che manifestiamo nelle nostre abitudini, nella società, nei nostri vizi". Sicché è l’opera che va guardata in faccia, per liberarsene senza rompersi ancora una volta le ossa. Chi vagheggia governi tecnici o elezioni subito, a sinistra, parla di regime ma ne sottovaluta le risorse, la penetrazione dei cervelli.
Un regime fondato sull’antipolitica - o meglio sulla sostituzione della politica con poteri estranei o ostili alla politica, anche malavitosi - può esser superato solo da chi è stato detronizzato. Nessun tecnico potrà resuscitare le istituzioni offese. Può farlo solo la politica, e solo se essa si dà del tempo prima del voto. Capire il regime vuol dire liberare quello che esso ha calpestato, e quindi non solo mutare la legge elettorale. Non è quest’ultima a rendere anomala l’Italia: se così fosse, basterebbe un gesto breve, secco. Quel che l’ha resa anomala è l’ascesa irresistibile di un uomo che fa politica come magnate mediatico. Berlusconi ha conquistato e retto il potere non malgrado il conflitto d’interessi, ma grazie ad esso. Il conflitto non è sabbia ma olio del suo ingranaggio, droga del suo carisma. La porcata più vera, anche se tabuizzata, è qui. La privatizzazione della politica e dei suoi simboli (non si governa più a Palazzo Chigi ma nel privato di Palazzo Grazioli) è divenuta la caratteristica dell’Italia.
Proviamo allora a esaminare i passati decenni, oltre l’avventura iniziata nel ’94. L’avventura è il risultato di un’opera vasta, finanziata torbidamente e cominciata con l’idea di una nuova pòlis, un’altra civiltà. Un progetto - è Confalonieri a dirlo - che "ha contribuito a cambiare il clima grigio e penitenziale degli anni ’70, ed è stato un elemento di liberazione. Ha portato più America e più consumi, più allegria e meno bigottismo". Più America, consumi, allegria: la civiltà-modello per l’Italia divenne Milano2, una gated community abitata da consumatori ansiosi di proteggersi dal brutto mondo esterno, di sentirsi più liberi che cittadini. E al suo centro una televisione a circuito chiuso, che intrattenendo distrae, occulta, manipola: nel ’74 si chiama Milano-2, diverrà l’impero Mediaset. Quando andrà al potere, il Cavaliere controllerà tutte le reti: le personali e le pubbliche.
Tutto questo non è senza conseguenze: cadendo, il Premier non lascia dietro di sé una società sbriciolata. Il paese in briciole è stato da principio sua forza, sua linfa. Non si tratta di profittare di subitanei sbriciolamenti, ma di far capire agli italiani che su questo sfaldamento Berlusconi ha edificato la sua politica. Che su questo ha costruito: sul maciullamento delle menti, non sull’individualismo. Su un’Italia che somiglia all’Uomo del sottosuolo di Dostojevski: un’Italia che rifiuta di vedere la realtà; che "segue i propri capricci prendendoli per interessi"; che giudica intollerabile che 2+2 faccia 4. Un’Italia che "vive un freddo e disperato stato di mezza disperazione e mezza fede, contenta di rintanarsi nel sottosuolo". Un’Italia arrabbiata contro chiunque vorrebbe illuminarla (la stampa, o Marchionne, o i magistrati) così come l’America arrabbiata del Tea Party il cui ossessivo bersaglio è la stampa indipendente.
Correggendo solo la legge elettorale si banalizza la patologia. Altre misure s’impongono, che permettano agli italiani di comprendere quanto sono stati intossicati. Esse riguardano il controllo di Berlusconi sull’informazione e il conflitto d’interessi. La profonda diffidenza verso una società bene informata (per Kant è l’essenza dei Lumi) caratterizza il suo regime. "Non leggete i giornali!" - "Non guardate certi programmi Tv!": ripete. Gli italiani devono restare nel sottosuolo, eternamente incattiviti. Altro che allegria. È sulla loro parte oscura, triste, che scommette. Qualsiasi governo che non si proponga di portar luce, di riequilibrare il mercato dell’informazione, fallirà.
Per questo è importante un governo di alleanza costituzionale che raggiusti le istituzioni prima del voto, e un ruolo prioritario è riservato non solo a Fini ma alle opposizioni. Fini farà cadere il Premier ma l’intransigenza sul conflitto d’interessi spetta alla sinistra, nonostante gli ostacoli esistenti nel suo stesso seno. Del regime, infatti, il Pd non è incolpevole. Fu lui a consolidarlo con un patto preciso: la conquista di suoi spazi nella Rai, in cambio del potere mediatico del Cavaliere. Tutti hanno rovinato la tv, pur sapendo che il 69,3 per cento degli italiani decide come votare guardandola (dati Censis).
A partire dal momento in cui fu data a Berlusconi l’assicurazione che l’impero non sarebbe stato toccato, si è rinunciato a considerare anomali la sua ascesa, il conflitto d’interessi. E i responsabili sono tanti, a sinistra, cominciando da D’Alema quando assicurò, visitando Mediaset nel ’96: "Non ci sarà nessun Day After, avremo la serenità per trovare intese. Mediaset è un patrimonio di tutta l’Italia".
La verità l’ha detta Luciano Violante, il giorno che si discusse la legge Frattini sul conflitto d’interessi alla Camera, il 28-2-02: "L’on. Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena - non adesso, nel ’94 quando ci fu il cambio di governo - che non sarebbero state toccate le televisioni. Lo sa lui e lo sa l’on. Letta... Voi ci avete accusato nonostante non avessimo fatto la legge sul conflitto d’interessi e dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni... Durante i governi di centrosinistra il fatturato Mediaset è aumentato di 25 volte!". Il programma dell’Ulivo promise di eliminare conflitto e duopolio tv, nel ’96. Non successe nulla. Nel luglio ’96, la legge Maccanico ignorò la sentenza della Consulta (Fininvest deve scendere da tre a due tv). Lo stesso dicasi per l’indipendenza Rai. È il centrosinistra che blocca, nell’ultimo governo Prodi, i piani che la sganciano dal potere partitico. A luglio Bersani ha presentato un disegno di legge che chiede alla politica di "fare un passo indietro". Non è detto che nel Pd tutti lo sostengano. Una BBC italiana è invisa a tanti.
Se davvero si vuol uscire dall’anomalia, è all’idea di Sylos Labini che urge tornare: all’ineleggibilità di chi è titolare di una concessione pubblica, secondo la legge del 30 marzo ’57. D’altronde non fu Sylos a dire che l’ineleggibilità è la sola soluzione. Il primo fu Confalonieri, il 25-6-2000 in un’intervista a Curzio Maltese sulla Repubblica. Sostiene Confalonieri che l’Italia, non essendo l’Inghilterra della Magna Charta, non può permettersi di applicare le proprie leggi. Forse perché il paese è sprezzato molto. Forse perché c’è chi lo ritiene incapace di uscire dal sottosuolo, dopo una generazione.
* la Repubblica, 17 novembre 2010
Porta Pia, festa grottesca
La commistione tra autorità civili e religiose assomiglia al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni ’30 e ’40, alleati con i loro nemici
di Nicola Tranfaglia (il Fatto, 21.09.2010)
Erano le cinque e un quarto del mattino quando il 20 settembre l’artiglieria italiana sparò i primi due colpi di cannone contro le mura di Roma all’altezza di Porta Maggiore e Porta Pia. La resa avvenne verso le undici del mattino dopo che Pio IX ha ordinato ai pontifici di presentare la bandiera bianca. I morti tra i bersaglieri sono 49, tra i pontifici 19. Pio IX, riuniti i diplomatici presso lo Stato Pontificio, definisce l’assalto “un attentato sacrilego” e dovranno passare altri cinquantanove anni prima che Mussolini e Pio XI firmino il Trattato del Laterano e i Patti annessi.
La pace tra Stato e Chiesa
DA QUEL MOMENTO regna, per così dire, la pace tra Stato e Chiesa ma la dittatura fascista lo ha fatto per avere la Chiesa dalla sua parte e non certo per realizzare la formula di Camillo Benso, conte di Cavour, che in anni lontani aveva detto: “Libera Chiesa in libero Stato.” E il Vaticano, a sua volta, ha ottenuto dallo Stato quel che non aveva mai avuto dalla classe dirigente liberale sul piano economico come su quello politico. Ed oggi, nel Ventunesimo secolo dopo che nel 1988 è stato rinnovato con qualche modifica il Concordato del 1929 e la Chiesa cattolica ha messo sull’attenti gran parte della classe politica, di governo e di opposizione, si può dire che la celebrazione del 1870 avviene nelle migliori condizioni possibili per la Santa Sede. Roma diventa Capitale con la legge appena approvata e il sindaco Alemanno che, da fascista che era è diventato un berlusconiano fervente, può celebrare oggi i centoquarant’anni della Breccia di Porta Pia non soltanto con il capo dello Stato ma anche con il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, come se la Chiesa fosse stata anch’essa dalla parte dell’Italia appena unificata piuttosto che contro a rispondere con le cannonate ai bersaglieri che premevano dal di fuori.
Ed è questo il centro della giornata di ieri e il significato che le autorità locali e centrali intendono fornire agli italiani, dimenticando quello che davvero l’arrivo dei bersaglieri aveva significato in quel mattino del 20 settembre 1870.
Non è un caso che oltre cinquanta tra associazioni, movimenti e forze politiche hanno deciso di festeggiare domenica la ricorrenza per non mischiarsi alle celebrazioni ufficiali. Ma se si guarda all’imponente serie di manifestazioni e di occasioni di visite e di mostre previste in questi giorni non si capisce davvero come Stato e Chiesa possano festeggiare insieme un avvenimento così limpido e chiaro.
L’Italia liberale del Risorgimento, dopo meno di dieci anni dall’unificazione nazionale, aveva deciso di scegliere Roma come sua Capitale e approfittando di un atteggiamento non negativo di due grandi potenze del tempo come la Francia e l’Inghilterra aveva mandato una spedizione ufficiale di soldati e di bersaglieri per entrare a Roma e far finire il Potere temporale dei Pontefici. E questo significato di fondo non si può rovesciare, celebrando la ricorrenza con la Santa Sede e con quel cardinale Bertone, segretario di Stato, che quando divenne vescovo di Genova si preoccupò immediatamente di chiudere gli archivi della diocesi per impedire che gli storici facessero luce sul ruolo del Vaticano nella fuga in Sudamerica dei criminali nazisti che si trovavano in Italia o che erano appena arrivati dalla Germania. Un amico mi ha detto, in questi giorni, che la commistione tra le autorità civili e religiose assomiglia al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni Trenta e Quaranta, alleati con i loro nemici.
E si potrebbe dire ancora molto di peggio di fronte a questo spettacolo. A differenza dei francesi, noi non abbiamo nella nostra Costituzione all’inizio un articolo dedicato alla laicità dello Stato ma in vari punti del dettato costituzionale emerge con chiarezza il profilo laico della nostra democrazia parlamentare che riguarda i credenti come i non credenti e che dovrebbe spingere tutte le forze politiche, a cominciare da quelle di centrosinistra, a difendere il significato della Breccia di Porta Pia e la difesa della formula cavouriana. Nella cosiddetta “Prima Repubblica”, e soprattutto da parte di chi aveva partecipato ai lavori dell’Assemblea Costituente, anche tra cattolici come Aldo Moro era centrale la rivendicazione della laicità dello Stato come elemento fondamentale dell’attività politica e istituzionale.
Oggi, soprattutto dopo l’89 e la caduta delle grandi ideologie che avevano diviso il mondo negli anni della Guerra fredda, le classi dirigenti italiane e in particolare quelle più vicine e legate alla classe politica, sembrano aver perduto il senso delle distinzioni tra una sfera laica e una sfera religiosa. La destra berlusconiana, così priva di valori etici e politici, ha bisogno dell’appoggio del Vaticano e il papa attuale non ha avuto difficoltà fino a ieri ad appoggiarne l’azione di governo.
La sinistra e il Vaticano
QUANTO alla sinistra, la fine del comunismo ha favorito l’avvicinamento degli ex comunisti al Vaticano e ormai da anni essi si confondono con gli altri esponenti politici devoti alla Chiesa. Pochi di fatto - e noi dell’Italia dei Valori siamo tra questi - ritengono che, al di là della fede cattolica di ciascuno, che sia necessario sostenere con chiarezza una posizione che si riallacci a quella liberale e democratica dell’Ottocento ma anche del Novecento e del nuovo secolo: la parità di tutte le fedi religiose, la difesa della sfera politica dalle intromissioni della Chiesa e delle Chiese. E proprio questa incertezza della politica e il suo degrado evidente conducono alla situazione di oggi che è nello stesso tempo grottesca e paradossale: si vuol ricordare la Breccia di Porta Pia e lo si fa con il sindaco fascista berlusconiano e con il segretario di Stato del Vaticano.
Adro, "Toglierò quei simboli
Solo se me lo ordina Bossi"
Il sindaco della cittadina respinge, di fatto, la timida richiesta del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. E il leader della Lega, Bossi, lo sostiene: "Ne ha messi solo troppi". Il parroco del paese: "Esagerazioni da entrambe le parti". Durissimo attacco alla Gelmini dall’opposizione *
BRESCIA - Il simbolo della "Lega", il "Sole delle Alpi", per ora resta nella scuola di Adro, in provincia di Brescia, intitolata all’ideologo del movimento leghista, Gianfranco Miglio. Resta, anche se il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, ha chiesto al sindaco della cittadina di rimuovere tutti i simboli.
Resta, perché il primo cittadino di Adro ha implicitamente risposto affermando che a chiederglielo deve essere il leader della Lega, Umberto Bossi: "Se me lo dice lui, rimuovo i simboli non domani, ma ieri. Se li tolgo dalla scuola, però, farò lo stesso con gli edifici pubblici su cui è presente da secoli", ha aggiunto Oscar Lancini. "Sono sorpreso di quello che ho letto sui giornali. Io ho ricevuto comunque i complimenti dei vertici leghisti". In quanto alla lettera della Gelmini, Lancini sostiene che "Non mi è arrivato niente. Non ho letto nulla se non quello che c’è sui giornali. È da ieri che si dice che il ministro ha scritto al sindaco, è scritto su tutti i giornali ma, ad oggi, la verità è che io non ho in mano nessuna lettera".
E il "senatur" non ha perso tempo ad appoggiare, nei fatti, la posizione del sindaco del bresciano: "Forse ne ha messi troppi - ha detto Bossi a chi gli chiedeva se la Gelmini aveva sbagliato o no a chiederne la rimozione - Avrebbe potuto farne uno bello, che bastava". Per confermare poi la sua sostanziale "vicinanza" al primo cittadino, il ministro delle Riforme ha aggiunto: "Questi simboli la Lega li ha fatti diventare politici, ma sono graffiti delle Alpi. E a Brescia ce ne sono tantissimi".
A rincarare la dose c’è anche il ministro dell’Interno, Roberto Maroni: "Condivido quanto sostiene Bossi - ha detto - Intitolare la scuola a Miglio è stata una grande idea, ma io mi sarei fermato lì. Miglio vol dire tutto: è stato l’inventore delle tre macroregioni e quindi anche della Padania".
Una parola di equidistanza, a nome della popolazione della Franciacorta, è venuta invece dal parroco di Adro, don Giammaria Fattorini, nell’intervento che è stato letto oggi in tutte le messe celebrate nel comune: "La mia idea sulla questione, che sento condivisa da molti, è che si sta esagerando da entrambe le parti. Sta esagerando chi ha oggi il potere, dato loro dalla stragrande maggioranza della gente. Ma stanno esagerando anche le minoranze politiche che, avendo dichiarato guerra all’ultimo sangue ai vincitori alle urne, non perdono occasione per dare contro".
Taglia corto il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini: "Abbiamo già preso posizione, non c’è da aggiungere altro dopo la lettera inviata al sindaco del paese". E il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini, sostiene la linea tenuta dalla Gelmini, anche se non perde l’occasione per una battuta polemica: "Ha fatto bene il ministro, ma mi sarei aspettato che intervenisse prima. I bimbi non appartengono a nessuno e vanno lasciati fuori dalla politica".
Critici verso il ministro Gelmini gli esponenti dell’opposizione. Il senatore Silvio Pedica, dell’Idv, è durissimo: "La Gelmini, costretta dall’opinione pubblica indignata, si muove con una timida lettera in cui chiede di eliminare dalla sucola di Adro la griffe leghista. Questa vicenda evidenzia come il ministro gestisce la scuola in base alle proprie convinzioni personali e ai diktat della sua coalizione politica.
"I marchi leghisti - ha aggiunto - non sarebbero dovuti restare neanche un’ora, questi episodi sono precedenti pericolosi inquadrati in un clima politico dove un partito come la Lega, a colpi di incostituzionalità, non riconosce l’unità d’Italia e ingelosendosi di Roma Capitale, dichiara di voler una capitale del nord".
Pedica ha quindi concluso: "Regalerò alla Gelmini la carta igienica con il simbolo della Lega, troppo tempo tollerata l’ assurda idea di fare di una scuola un circolo di partito: il ministro Gelmini si deve dimettere".
E Nichi Vendola è ancora più duro: "Abbiamo contato fino a diecimila per avere una parola di buon senso dal Ministro per l’Istruzione, Mariastella Gelmini. Come si può immaginare - ha proseguito - che la discussione oggi sul tappeto sia quella della prospettiva del federalismo solidale, mentre frammenti di scuola pubblica diventano frammenti di scuola padana? Vuol dire che è una presa in giro. Vuol dire che si chiama federalismo quello che in realtà è un processo di separazione e di secessione. Il problema non è solo il tappetino leghista sulla scuola padana, sotto quel tappetino c’è una semina di cultura regressiva: l’idea che il Nord si può salvare se manda alla deriva il Sud. Hanno seminato veleni in questi anni. A noi - ha concluso il governatore pugliese - toccherà fare una lunga bonifica di questa terra avvelenata".
Dello stesso avviso il responsabile giustizia dell’Idv, Luigi De Magistris: "Il ministro dell’istruzione Gelmini è intervenuta in modo debole e fuori tempo massimo. Prima ha cercato di sminuire il caso, di fatto avallando una scelta antidemocratica da parte del sindaco Lancini, poi timorosamente e in ritardo ha deciso di suggerire un ritorno alla normalità democratica. E lo ha fatto, per altro, soltanto perchè costretta dalle proteste dei genitori e della società civile di Adro, oltre che dalle critiche piovute dall’opposizione. La trasformazione di una scuola pubblica in una sezione della Lega è un atto contrario alla Costituzione, che trova origine nel fondamentalismo razzista e delirante del partito di Bossi che tiene sotto scacco questo governo. Gelmini compresa".
* la Repubblica, 19 settembre 2010
Ci hanno tolto la patria
Ci hanno tolto la patria, ecco quello che Berlusconi e i suoi servi hanno fatto. È questa l’ accusa che
l’opposizione dovrebbe mettere al centro della sua lotta, se vuole vincere e soprattutto se vuole fare
vincere l’Italia.
di Maurizio Viroli (il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2010)
IN QUESTI GIORNI vicini all’8 settembre viene naturale pensare alla morte della patria o all’Italia che manca, per ripetere il titolo del festival Lector in fabula che si apre oggi a Conversano. Di morte della patria parlò per primo, credo, Salvatore Satta, nel De profundis (1948), e ne ha trattato Ernesto Galli della Loggia nel suo libro del 1996. La tesi di Galli della Loggia è nota: con la firma dell’armistizio, si verificò in Italia il crollo completo non solo dello Stato, con la fuga del re e della corte e la disgregazione dell’esercito lasciato in balia degli ex alleati tedeschi diventati nemici, ma anche il dissolversi del sentimento di solidarietà nazionale e del senso del dovere verso il bene comune. Né la Resistenza, per il suo debole carattere di autentico movimento di liberazione nazionale, né la Repubblica, per il troppo ambiguo sentimento di lealtà nazionale della sua élite politica (compreso il Partito Comunista) riuscirono poi a far rinascere e radicare nella mentalità degli italiani un nuovo amor di patria.
A mio giudizio la tesi della morte della patria è un’interpretazione parziale degli avvenimenti che segnarono la storia italiana negli anni successivi all’8 settembre e durante i primi decenni della Repubblica. Anziché di morte della patria è a mio avviso storicamente più corretto parlare di morte e di rinascita della patria, o, meglio la morte di una patria, quella del fascismo e della monarchia, e la nascita di una nuova patria, quella della Repubblica e della Costituzione.
Lo provano documenti e testimonianze di notevole peso. Nell’agosto del 1943 Piero Calamandrei scriveva: “Veramente la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere senza retorica in questa frase: Si è ritrovata la patria”. Ancora più eloquente è una pagina di Natalia Ginzburg: “Le parole patria e Italia, che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché accompagnate dall’aggettivo fascista, perché gonfie di vuoto, ci apparvero d’un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D’un tratto alle nostre orecchie risultarono vere”.
LO PROVANO DEI FATTI troppo importanti per essere trascurati come il rifiuto di tanti soldati italiani di entrare nelle truppe della repubblica di Salò in nome di un sentimento di patria faticosamente ritrovato negli orrori della guerra a fianco dell’alleato tedesco. Ma che un sentimento nuovo di patria, fondato su principi di libertà era rinato lo prova la Costituente. Basti citare le parole con cui il relatore presentò all’Assemblea l’articolo che afferma che “la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”. Egli disse infatti che la Patria, “non è più la matrigna che il fascismo aveva tentato di creare, ma è la madre generosa che accetta ed accoglie tutti i suoi figli con identico animo. (Applausi)”. È vero che durante i primi decenni della nostra storia repubblicana il sentimento di patria di offuscò e visse confinato in ambiti ristretti dell’élite politica e del popolo.
Ma non morì affatto la lealtà costituzionale. Grazie ad essa la Repubblica ha vinto sfide tremende. La lealtà alla Costituzione è il cuore del sentimento di patria. Non è tuttavia tutto, perché patria vuol dire anche amore del bene comune, vuol dire, in Italia, antifascismo, vuol dire Risorgimento, vuol dire memorie di uomini e donne che hanno dato l’esempio, vuol dire cultura, vuol dire speranze e fini comuni come popolo.
ORBENE, BERLUSCONI e i suoi hanno distrutto con ferocia metodica tutto ciò che è patria, sia detto senza retorica, con tristezza. Hanno offeso in tutti i modi la Costituzione; hanno dimostrato tante volte di preferire il loro interesse al bene pubblico, a tal segno da essere pronti a devastare la legalità per sottrarsi alle leggi; hanno deriso l’antifascismo e favorito la nascita dell’antiantifascismo, sentimento quanto mai pericoloso e moralmente detestabile; hanno distrutto le nostre memorie: quando ne hanno parlato perché non erano in grado di farlo, e quando hanno taciuto per ignoranza o per disprezzo; hanno avvilito ogni forma di cultura seria per sostituirla con il trionfo della banalità e della volgarità; hanno disseccato nell’animo degli italiani, con le loro azioni e le loro parole, ogni speranza collettiva. La storia insegna: non c’è mai stata in Italia una rinascita civile senza o contro l’idea di patria. Oggi, per ritrovare la patria, bisogna liberarci di Berlusconi e della sua corte.
QUIRINALE
Napolitano: "Indignazione e allarme
per corruzione e trame inquinanti"
Il Capo dello Stato ha affrontato anche temi politici nel corso della cerimonia del Ventaglio. "P3 che squallore. Magistratura vada avanti". E sul ddl intercettazioni: "Ho agito secondo Costituzione"
ROMA - "Ci indigna e allarma l’emergere di fatti di corruzione e trame inquinanti da parte di squallide consorterie, ma la nostra democrazia dispone di anticorpi: la reazione morale dei cittadini, i principi costituzionali, le leggi per applicare tali principi". Giorgio Napolitano non ha risparmiato critiche e parole dure sui recenti fatti giudiziari durante la cerimonia del ventaglio al Quirinale. Dopo aver parlato a lungo della crisi economica 1, il presidente della Repubblica ha toccato i principali temi politici del momento, strettamente connessi alle inchieste sugli appalti e sulla cosiddetta P3, ma anche la legge sulle intercettazioni. Casi come quello delle indagini in corso devono essere affrontati "senza incertezza", ma anche "senza cedere al massacro tra e nelle istituzioni", ha detto il capo dello Stato, che ha sottolineato in particolar modo di non aver mai interferito nella dialettica politica e di non aver fatto alcun intervento riguardo al discusso disegno di legge sulle intercettazioni.
"Non mi interessano scenari politici ipotetici". "Non c’è spazio per autosufficienze ed esclusivismi, né per contrapposizioni totali: convincersi di ciò e trarne le conseguenze è quel che mi sta a cuore e che sollecito, mentre non mi interessano scenari politici ipotetici di nessuna specie" ha affermato il presidente della Repubblica durante la tradizionale cerimonia del Ventaglio svoltasi al Quirinale, aggiungendo che "del contesto di lungimirante confronto che auspico, nell’interesse generale, è condizione il corretto funzionamento delle istituzioni e dei rapporti tra le istituzioni".
"Opposizione non rifugga da confronto". "Auspico che nel confronto emergano anche visioni diverse rappresentative sul piano politico delle attuali forze di maggioranza e delle attuali forze di opposizione non sottraendosi queste ultime alla prova e alle responsabilità cui sono chiamate in un quadre di feconda competizione come quello che dovrebbe caratterizzare la democrazia dell’alternanza" ha detto Napolitano che più volte nel suo intervento ha richiamato la necessità di una "ampia condivisione sui grandi obiettivi".
Intercettazioni: "Ho agito secondo Costituzione". "Nella vicenda della controversa legge" sulle intercettazioni "il ruolo del presidente della Repubblica è risultato, io credo, più che mai chiaro nel rispetto delle attribuzioni e dei limiti sanciti dalla Costituzione" ha detto Napolitano. "Nessuna interferenza nella dialettica politica tra gli opposti schieramenti e l’interno di essi; nessuna interferenza nell’attività del parlamento, fatta salva la facoltà di cui l’articolo 74 della Carta", ha spiegato. In occasione del lavoro parlamentare sul testo, ha proseguito il Capo dello Stato, si è avuto "un ragionevole bilanciamento tra diversi valori e diritti", in uno "sforzo che non si può non apprezzare, dandone il merito e non demerito alla dialettica parlamentare". "Non deve dunque stupire - ha affermato - che la definizione di una nuova legge in materia di intercettazioni, da lungo attesa, abbia richiesto un tempo non breve e un percorso faticoso, potremmo dire ’per approssimazioni successive’ ". Tra i valori che il ddl deve bilanciare, Napolitano richiama il valore della sicurezza "da garantire con l’imperio della legge, colpendone ogni violazione attraverso la ricerca con i mezzi indispensabili degli indizi di reato"; il valore della libertà di stampa "e ancora - aggiunge il Presidente della Repubblica - il valore della libertà di comunicazione tra le persone, il diritto al rispetto della riservatezza e della dignità delle persone".
"Parlamento elegga presto membri laici". Dopo aver riferito che "entro la fine del mese" si ripromette di "affrontare" fatti rilevanti e di attualità nell’incontro con gli uscenti e gli entranti del Consiglio superiore della magistratura, il Capo dello Stato ha lanciato una sorta di invito-monito: "Sono certo che il Parlamento stia per procedere alla dovuta elezione di componenti laici del Consiglio".
* la Repubblica, 23 luglio 2010
CSM
Mancino: "P3? Cono d’ombra sulla magistratura
ma l’autonomia delle toghe non si discute"
Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura torna sull’inchiesta: "L’interferenza nella libera attività del magistrato non è mai stata posta in discussione"
ROMA - "Gli ultimi avvenimenti relativi all’inchiesta sull’associazione segreta Loggia P3 gettano un cono d’ombra, ma non credo che possano incidere sulla sostanza dell’attività che abbiamo svolto al Csm". Il vicepresidente dell’organo di autogoverno della magistratura, Nicola Mancino, intervistato da Sky Tg24, torna sulla vicenda della cosidetta P3 e sui tentativi di interferire sugli orientamenti di alcuni consiglieri per favorire la nomina del presidente della Corte d’Appello di Milano, Alfonso Marra. Mancino fa peraltro notare che "è in corso un’inchiesta da parte della Prima commissione del Csm" e che "lo stesso Pg della Cassazione avverte la necessità di avviare un procedimento disciplinare. Vediamo cosa succederà".
Davanti al plenum, Mancino torna sulla richiesta di dibattito sulla deontologia dei consiglieri, avanzata da alcuni membri togati e rimandata alla prossima consiliatura dal capo dello Stato, ribadendo come il Csm abbia sempre garantito ai magistrati "la tutela del libero esercizio della giurisdizione".
"L’esperienza di questi quattro anni - dice Mancino - dimostra la validità di un impianto istituzionale che rende il giudice obbligato ad assumere la legge come guida nell’esercizio della sua attività. L’attività della sezione disciplinare dimostra con quanta attenzione ci siamo posti il problema di garantire autonomia e indipendenza della magistratura. L’interferenza nella libera attività del magistrato non è mai stata posta in discussione e le stesse modifiche sulle regole per le pratiche a tutela dimostrano che ciò che il consiglio vuole garantire al magistrato è proprio la tutela del libero esercizio della giurisdizione".
Mancino replica così al consigliere Ciro Riviezzo che prendendo la parola in aula aveva sottolineato come la stampa stia rappresentando una magistratura "fatta di faccendieri che si rivolgono ai loro amici per ottenere vantaggi, favori e raccomandazioni".
* la Repubblica, 21 luglio 2010
L’eterno ritorno del cesarismo
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 18/7/2010)
Chi è il «Cesare» che compare nei discorsi dei faccendieri, degli affaristi e degli altri personaggi dell’ultimo scandalo politico? Secondo una prima dichiarazione dei carabinieri, si tratterebbe di Berlusconi. Quest’attribuzione è sembrata subito verosimile perché il nome di Cesare, con la sua reminiscenza di scuola, può esprimere anche una ingenua adulazione o una deferente ironia. Ora invece si dice che si riferisce a Previti. Ma trovo maldestro, anche da parte di dilettanti, mettere in circolazione un nome di persona reale. Poco importa. Quello che gli interessati non sospettano è che il riferimento a Cesare e il sostantivo che gli viene associato - cesarismo - hanno una lunga storia nell’interpretare un fenomeno politico che è antico ma che ritorna sempre. La domanda importante oggi quindi non è chi è il «Cesare» di cui si parla, ma se è in atto una forma di cesarismo politico e quali sono i suoi tratti caratterizzanti.
Il Giulio Cesare storico in questa storia conta, ma relativamente. Ciò che è davvero importante è il modello di comportamento che gli viene attribuito e che attraversa i secoli. Sinteticamente è il modello del «dittatore democratico». Cesare era amato dal popolo e affossatore di fatto, in suo nome, della antica repubblica che diceva di volere salvare. Ma i due termini «dittatore democratico» sono chiari soltanto in apparenza. Cambiano infatti profondamente di senso quando sono applicati al tempo della repubblica romana in via di transizione verso l’impero. O quando vengono ripresi sistematicamente nell’Ottocento in riferimento a Napoleone III, a Bismarck e persino, di riflesso, al nostro Cavour.
Nessuno di questi politici è stato propriamente un dittatore. Neppure l’imperatore dei francesi, che a metà dell’Ottocento è stato oggetto di una letteratura politica sterminata che ha rilanciato alla grande il tema del cesarismo (nel suo caso interscambiabile con bonapartismo). I tre nomi citati sono di uomini politici di grande statura. Hanno subito naturalmente stroncature feroci - come quella di «Cesare il piccolo» affibbiata al Bonaparte da Victor Hugo. Ma di Cesari grandi e piccoli ce ne sono stati tanti. Anche al tempo delle dittature novecentesche: basti ricordare i busti di Mussolini fisiognomicamente confusi con il profilo idealizzato di Cesare. In realtà però ha poco senso parlare di cesarismo fascista, perché in esso si perde l’elemento essenziale: il riferimento alla democrazia, che Mussolini certamente non voleva.
Questo è il punto: il cesarismo è uno stile di governo (non un regime) che, insediato in un sistema democratico preesistente, tende a forzare o a rifunzionalizzare le istituzioni esistenti in senso autoritario ma senza negarle, anzi volendo creare la «vera democrazia». Lo strumento centrale è un rapporto nuovo e diretto con il «popolo». Non a caso il concetto associato al fenomeno cesaristico è anche populismo.
Nei primi due decenni del Novecento Max Weber, facendo un bilancio della fine della democrazia liberale e spingendo lo sguardo in avanti, parlava di «tendenza cesaristica della democrazia di massa». Cesarismo e democrazia di massa sono dunque strettamente legati. Poi Weber ha insistito (forse troppo) sugli aspetti personali carismatici eccezionali della leadership cesaristica. Noi oggi più realisticamente riteniamo che il cesarismo del nostro tempo conti di più sulla potenza della comunicazione di massa e dei mezzi mass-mediatici che non sulle (presunte) doti carismatiche personali del leader. Si tratta di un mutamento di prospettiva decisivo.
Rimane essenziale il rapporto con il popolo. Ma chi è il popolo del Cesare storico? È la plebs acclamante ma anche un gruppo consistente di amici, collaboratori, mediatori, clientes e senatores del regime precedente. Il popolo del Cesare contemporaneo è il popolo-degli-elettori che lo votano, è il popolo mediatico monitorato con strumenti demoscopici. Ma anche una solida rete di «amici di Cesare», insediati non solo nella politica ma soprattutto nella «società civile». In questo senso il cesarismo è davvero popolare.
«Gli amici di Cesare» (compresi i leader di altri partiti che gli sono «amici» prima ancora che «alleati») surrogano di fatto il partito tradizionale. Il «partito del popolo» infatti ha la funzione esclusiva di mettergli a disposizione consenso e risorse. Offre personale esecutore, realizzatore, implementatore delle idee del leader. Non deve sollevare problemi, tanto meno competizioni o alternative interne. Il partito del leader cesaristico è, o meglio deve essere, assolutamente unitario. Deve attendere e sostenere le soluzioni dei problemi ipotizzate dal leader. Se queste non si realizzano la colpa è delle opposizioni che le ostacolano o degli ambiziosi disturbatori interni al partito che non sono più «amici». Ma soprattutto la colpa è del sistema istituzionale - in particolare giudiziario - che frena e boicotta. Da qui l’inderogabile necessità della riforma delle istituzioni che non si presenta come sovversiva (anche se retoricamente si sente «rivoluzionaria») ma come loro sistematica forzatura sempre al limite della legalità costituzionale.
Mentre scriviamo questo sistema sta entrando in una fase di turbolenza inedita. C’è chi da mesi ne prevede la fine. Personalmente - come analista - sarei cauto
I VERBALI
Nomine e missioni proibite
venti toghe a disposizione della "loggia"
di MARIA ELENA VINCENZI e EMANUELE LAURIA *
ROMA - "Prendono parte alle riunioni nelle quali vengono impostate le operazioni e paiono fornire il proprio contributo alle attività di interferenza". Venti nomi che scottano. Quelli delle toghe coinvolte nell’inchiesta sull’eolico e sulla nuova loggia "P3". Il rapporto dei Carabinieri non lascia adito a equivoci. Era fitta la rete di giudici e procuratori attraverso la quale la banda Carboni portava avanti i suoi piani di "interferenza" sulle istituzioni. Tutto ruotava intorno al ruolo di Arcibaldo Miller (capo degli ispettori del ministero della Giutsizia), Giacomo Caliendo (sottosegretario alla Giustizia) e Antonio Martone (ex avvocato generale in Cassazione). Loro gli incaricati di costruire la ragnatela da stendere sui magistrati. Qualcuno aveva un ruolo di primissimo piano nell’attività dell’associazione segreta, altri davano informazioni preziose. Altri ancora erano semplicemente oggetto di tentativi di avvicinamento da parte della combriccola che - per perseguire i propri obiettivi illeciti - si avvaleva della copertura offerta dal centro studi "Diritti e libertà".
Sono sempre Miller, Caliendo e Martone i commensali del famoso pranzo a casa Verdini del 23 settembre scorso in cui sarebbe stato pianificato il condizionamento della Consulta per far approvare il Lodo Alfano. Martone era stato invitato senza giri da parole da Lombardi all’incontro a piazza dell’Aracoeli: "Noi ci dobbiamo vedere all’una meno un quarto". "Ma io sono impegnato con il procuratore...". "Mandalo affanc. che chisto non porta voti e vieni da noi...", insiste Lombardi mostrando una certa confidenza.
Caliendo poi è presente in tutte le manovre. Dopo il pranzo a casa Verdini, Lombardi raccomanda al sottosegretario di fare la conta dei giudici costituzionali a favore e contro il Lodo: "Ci dobbiamo vedere ogni giorno, ogni settimana, capire dove sta o’ buono e dove o’ malamente: vuagliò, ti hai la strada spianata per fare il ministro". Le carte raccontano che Caliendo, su pressione di Lombardi, ha sollecitato al vicepresidente del Csm Mancino la nomina di Alfonso Marra a presidente della Corte d’Appello di Milano. Nomina che si è rivelata poco decisiva: Caliendo infatti è poi intervenuto, senza fortuna, con lo stesso Marra per far accogliere il ricorso di Formigoni contro l’esclusione della sua lista nelle elezioni regionali lombarde. Successivamente, davanti alle pressioni dello stesso Lombardi per far inviare gli ispettori alla Procura di Milano, il sottosegretario ammetterà: "L’ho chiesto trenta volte al ministro!". Della stessa vicenda è protagonista anche Miller, chiamato confidenzialmente Arci dai membri della banda, che in una telefonata del 5 marzo suggerisce ad Arcangelo Martino cosa fare per ottenere l’ispezione: "Ci vorrebbe un esposto...".
Un magistrato vicino a Lombardi, Angelo Gargani, compare frequentemente nell’inchiesta: con il tributarista, dopo il pranzo a casa Verdini, parla della vicenda del Lodo e gli fornisce il numero di un ex presidente della Consulta da contattare, Cesare Mirabelli (che respingerà la "corte" del disinvolto faccendiere napoletano).
Lombardi attiva di continuo la sua rete di contatti con i magistrati. Lo fa all’occorrenza e soprattutto in occasione dell’elezione di Marra che - secondo i carabinieri - è avvenuta proprio grazie all’interferenza della banda. Il tributarista ne parla il 21 ottobre con Celestina Tinelli, componente del Csm. Alla quale chiede informazioni anche sulle chances di altri due "amici" in corsa per incarichi di rilievo: Gianfranco Izzo per la Procura di Nocera e Paolo Albano per Isernia. Lombardi parla in quel periodo con diversi magistrati. Fra i voti da conquistare (e poi conquistati) per l’elezione di Marra, c’è quello di Vincenzo Carbone, primo presidente di Cassazione: il 22 ottobre Lombardi invita Caliendo a "lavorarselo per bene", e gli comunica di avere già prospettato un aumento dell’età pensionabile da 75 a 78 anni. Una modifica della legge che proprio in quei giorni il governo proporrà con un emendamento. Lo stesso Carbone, un mese prima, aveva chiesto a Lombardi: "Che faccio dopo la pensione?".
Un altro giudice, Francesco Castellano, il 31 gennaio conferma all’attivissimo Lombardi di avere segnalato alla Tinelli il nome di Marra. Ma intanto Lombardi aveva già parlato del caso Marra a Beppe ("verosimilmente il giudice Giuseppe Grechi", scrivono i carabinieri). Anzi, è quest’ultimo il 16 novembre a chiedere a Lombardi qual è l’intenzione del "comune amico" Carbone in vista del voto: "Tienilo sotto che lo tengo sotto anch’io", dice il tributarista.
Il 19 gennaio Lombardi parla con Gaetano Santamaria della candidatura di tale "Nicola" per la Procura di Milano. A Cosimo Ferri, altro componente del Csm, arriva a chiedere il rinvio di quella nomina. Ferri, in realtà, si ritrae imbarazzato. A Lombardi sta a cuore, in quel periodo, anche la candidatura di Nicola Cosentino alla guida della Regione Campania. Vede due volte il procuratore di Napoli Giambattista Lepore per chiedergli informazione sulla situazione giudiziaria di Cosentino, indagato per rapporti con la camorra. Dopo l’incontro del 20 ottobre, Lombardi riferirà, violando tutte le procedure, ad Arcangelo Martino che le prospettive per il sottosegretario (appena dimessosi) non sono buone: "Negativo al 90 per cento". Agli atti anche una telefonata fra Lombardi e il magistrato Giovanni Fargnoli: parlano del ricorso in Cassazione contro la richiesta di arresto a carico di Cosentino: Fargnoli assicura a Lombardi che gli farà sapere perché il ricorso è stato rigettato. Una conferma, l’ennesima, della rete che lega i componenti della combriccola, i politici e i magistrati: il 14 ottobre Ugo Cappellacci, presidente della Sardegna, chiama Martino per avere il numero di telefono di Cosimo Ferri: vuole evitare il trasferimento di Leonardo Bonsignore, presidente del tribunale di Cagliari, ad altra sede: "Perderemmo un amico carissimo e una persona valida". Martino si attiva subito e parla con la segretaria di Ferri. Secondo i carabinieri proprio per questo motivo Martino "poteva ritenersi creditore nei confronti di Cappellacci".
* la Repubblica, 16 luglio 2010
Il predone
di GIUSEPPE D’AVANZO *
PENSIAMO ogni volta di aver conosciuto di Berlusconi il volto peggiore, l’intenzione più maligna, la mossa più fraudolenta. Bisogna convincersene, quell’uomo sarà sempre in grado di mostrare un’intenzione ancora più maligna, una mossa ancora più fraudolenta, un volto ancora peggiore. Sappiamo che cosa è e rappresenta la cosa pubblica per il signore di Arcore, non dobbiamo scoprirlo oggi. È l’opportunità di ignorare e distruggere le inchieste giudiziarie che hanno ricostruito con quali metodi e complici e violenze Silvio Berlusconi ha messo insieme il suo impero. Non scopriamo adesso che il signore di Arcore si è fatto Cesare per evitare la galera (lo ha detto in pubblico senza vergogna il suo amico Fedele Confalonieri). E tuttavia, pur consapevoli che il potere berlusconiano sia esercitato in modo esplicito a protezione dei suoi interessi privati, lascia di stucco l’affaire Brancher.
La storia la si conosce. C’è questo signore, Aldo Brancher. Non se ne apprezza un pregio. Si sa che è stato assistente di Confalonieri in Fininvest. Con questo ruolo, tiene i contatti con socialisti e liberali nella prima repubblica. Detto in altro modo, è l’addetto alla loro corruzione. Il pool di Milano documenta nel 1993 che Brancher elargisce 300 milioni di lire al Psi e 300 al segretario del ministro della Sanità liberale (Francesco De Lorenzo) per arraffare a vantaggio della Fininvest un piano pubblicitario dello Stato.
Lo arrestano. Resta tre mesi a san Vittore. Non scuce una frase. Condannato in primo grado e in appello per falso in bilancio e finanziamento illecito, vede la luce in Cassazione grazie alla prescrizione del secondo reato e alla depenalizzazione del primo corrette, l’una e l’altra, dalle leggi "privatistiche" del governo Berlusconi. Il salvataggio del Capo e della Ditta gli vale, a titolo di risarcimento, l’incarico di messo tra il partito del presidente e la Lega di Bossi, uno scranno in Parlamento, un seggio di sottosegretario di governo. E da qualche giorno anche di ministro. Ministro senza incarico, senza missione, senza alcuna utilità per il Paese. Un ministro talmente superfluo che gli cambiano anche la delega dopo la nomina.
Fin dall’annuncio del suo ingresso nel governo, è chiaro a tutti - se non agli ingenui - che Aldo Brancher diventa ministro per un’unica necessità: egli deve opporre nel giudizio che lo vede imputato di appropriazione indebita nel processo Antonveneta il legittimo impedimento che Berlusconi si è affatturato per liberarsi dalle sue rogne giudiziarie. Ora che Brancher chiede di salvarsi dal giudizio perché ministro, anche gli ingenui hanno capito.
C’è qualcosa di umiliante e di illuminante in quest’affaire perché ci mostra in quale abisso di degradazione sono state precipitate le nostre istituzioni. Ci manifesta quale arretramento di secoli la nostra democrazia deve affrontare. Ci dice che le istituzioni coincidono ormai con le persone che le incarnano, anzi con la persona, quel solo uomo - il Cesare di Arcore - che le "possiede" tutte come cosa sua, Ditta sua, nella sua piena disponibilità proprietaria al punto che può eleggere il suo "cavallo" senatore o ministro uno dei suoi complici, pretendendo oggi per il ministro (e domani per il senatore, chissà) la stessa impunità che ha assegnato a se stesso.
Voglio dire che quel che abbiamo sotto gli occhi con il caso Brancher è nitido: il cesarismo, il bonapartismo, il peronismo - chiamatelo come volete - di Silvio Berlusconi non riconosce alle istituzioni, alle funzioni pubbliche dello Stato alcuna oggettività, ma soltanto la soggettività che egli - nel suo potere e volontà - di volta in volta decide di assegnare loro. Il governo è suo, di Berlusconi, perché il popolo glielo ha dato e così del governo ci fa quello che gli pare. Se vuole, lo trasforma - come per Brancher - in una casa dell’impunità per corifei e turiferari. Quel che l’affaire illumina è il lavoro mortale di indebolimento delle istituzioni. Di quelle istituzioni nate per arginare l’abuso e l’istinto di sopraffazione, per garantire sicurezza e stabilità, diffondere fiducia e cooperazione e diventate, nella democrazia plebiscitaria del signore di Arcore, strumento inutile, ferro rugginoso e inservibile.
Se la nomina a ministro può mortificarsi a capriccio e complicità vuol dire che la politica può fare a meno delle istituzioni. Certo, non si possono accantonarle formalmente, ma svuotarle, sì. Di ogni significato, rilevanza, legittimità, come accade al governo con l’uomo diventato ministro per evitare il giudice. Osserviamo ora la scena che Berlusconi ha costruito in questi due anni di governo. Il Parlamento è soltanto l’esecutore muto degli ordini dell’esecutivo. La Corte costituzionale e la magistratura devono essere presto subordinate al comando politico. La presidenza della Repubblica, priva della legittimità popolare, è soltanto un impaccio improprio. Il governo, già consesso obbediente agli ordini del sovrano, diviene ora e addirittura il premio per chi, con il suo servizio al Capo, si è guadagnato il vantaggio di rendersi legibus solutus come il sovrano. Tocchiamo qui con mano il conflitto freddo che si sta consumando tra una concezione della democrazia incardinata nella Costituzione, nei principi di una democrazia liberale basata sull’oggettività delle funzioni pubbliche e la convinzione che il voto popolare renda onnipotenti e consenta ogni mossa anche l’annichilimento delle istituzioni.
Umiliante e illuminante, l’affaire Brancher è anche educativo perché liquida almeno un paio di luoghi comuni del dibattito pubblico, specialmente a sinistra. Chi di fronte alle minacce estorsive del sovrano (o impunità o processo breve che blocca centinaia di migliaia di processi; o impunità o paralisi della macchina giudiziaria) trova sempre conveniente scegliere la "riduzione del danno" e "il male minore" saprà oggi quel che avrebbe già dovuto sapere da tre lustri: il Cesare di Arcore non ha inibizioni. È un predone. Lo guidano i riflessi. Quel che serve, lo trova d’istinto. Se gli si offre un arsenale, lo utilizza, statene certi, perché è ridicolo aspettarsi da Berlusconi self-restraint. Non esisteranno mai mali minori con lui, ma soltanto mali che annunceranno il peggio. Il secondo luogo comune dice che "l’antiberlusconismo non porta da nessuna parte". L’affaire Brancher conferma che non c’è altra strada che contrastare il berlusconismo se si vuole proteggere il Paese e le sue istituzioni da una prova di forza pre-politica, fuori delle regole che ci siamo dati. È anche questo il caso Brancher, una prova di forza. Che toccherà non solo all’opposizione contrastare. Fini, la Lega, i soliti neutrali potranno subirla senza mettere in gioco la rispettabilità di se stessi?
* la Repubblica, 25 giugno 2010
Italiani, di costituzione
di Alessandra Longo (la Repubblica, 24.06.2010)
Italiani, di Costituzione. E’ il titolo che l’Anpi ha dato alla sua seconda festa nazionale che apre oggi ad Ancona per chiudersi domenica 27. Lavoro, pace, democrazia: di questo si parlerà. I partigiani, dopo anni di solitudine, anche amara, si ritrovano dentro la corrente dei tanti che ci tengono ancora alla Costituzione, oggi sottoposta a continui attacchi. Non un raduno di ex. «E’ una sfida al presente», dice l’attore Marco Paolini. Da Ancona, l’appello è per un «no forte, responsabile, massiccio, a chi intende cancellare la democrazia dal Paese». Un nuovo sito, il blog, forum, spettacoli, il tentativo di rinnovarsi per lasciare il testimone ai giovani: è la missione dell’Anpi 2010, fedele alla lezione della decima brigata Rocco: «Abbiamo imparato a non essere mai indifferenti».
La patria immaginaria
di ILVO DIAMANTI *
"La Padania non esiste", ha sostenuto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, all’indomani della manifestazione di Pontida. Capitale simbolica della Patria "padana". Dove sono echeggiati discorsi che evocano il federalismo, la secessione. Distintamente o in alternativa. Come ha fatto il viceministro Castelli, minacciando: "Federalismo o secessione!".
Si potrebbe dire che, mai come oggi, la Lega abbia assunto centralità politica e culturale, in questo Paese disorientato. Perché mai come oggi il dibattito politico appare contrassegnato dal linguaggio introdotto - e imposto - dalla Lega. Tutto interno e intorno all’appartenenza e all’identità territoriale. Gianfranco Fini ha, infatti, pronunciato le sue critiche intervenendo a un seminario sul tema: "Patriottismo repubblicano e Unità d’Italia". Appunto: l’Unità d’Italia. Divenuta un tema centrale dell’agenda politica, proprio in vista del 150enario. Come tutto quel che riguarda l’Italia: l’inno di Mameli, la nazionale di calcio, il Tricolore. E, sotto il profilo dell’organizzazione dello Stato: il federalismo. Anche questa, una definizione largamente in-definita. Perché non è mai stato chiarito, fino in fondo, cosa si intenda. Quale Italia, con quali e quante regioni, macro-regioni, meso-regioni.
Tanto noi siamo ormai un laboratorio avanzato del riformismo. A parole. Capaci di lanciare la corsa al federalismo fiscale e, al contempo, di asfissiare Regioni e Comuni, dotati di poteri che non possono esercitare per assoluta mancanza di risorse. Capaci di affidare la stessa materia - il federalismo - a 3 (tre) ministri: Bossi, Calderoli e, da qualche giorno, Brancher. Questo Paese, ormai politicamente diviso tra Nord, Centro e Sud. Assai più che fra Destra e Sinistra. Oggi si trova, di nuovo, a discutere di Padania. Che è una patria immaginaria. Ma, tanto in quanto se ne parla, tanto in quanto diventa l’etichetta di prodotti e manifestazioni (dai campionati di calcio ai concorsi di bellezza ai festival della canzone), tanto in quanto è discussa: esiste. Come "invenzione", operazione di marketing. Ma c’è.
Per questo, le polemiche di questi giorni confermano l’importanza della Lega, come attore politico e - ripeto, senza timore di ironie - culturale. Perno di una maggioranza di centrodestra, altrimenti povera di radici e identità. Il problema, per la Lega è che anch’essa rischia di essere danneggiata dal crescente successo dei suoi miti e del suo linguaggio. Perché le impedisce di usare, come sempre, le parole e le rivendicazioni in modo plastico e allusivo. E, dunque, di muoversi in modo agile sulla scena politica. Anche in passato, d’altronde, l’invenzione della Padania, dopo un primo momento di successo, divenne un vincolo.
Il "lancio" della Padania, lo ricordiamo, avviene tra il 1995-96, dopo la fine burrascosa dell’esperienza di governo con Berlusconi. Allora la Lega smette di parlare di federalismo - lo fanno tutti. E comincia a rivendicare prima l’indipendenza e poi la secessione. Per smarcarsi, per posizionarsi là dove nessuno la può raggiungere. Allora nasce la Padania. Che non è semplicemente il Nord. La patria dei produttori e dei lavoratori contro Roma ladrona e il Sud parassita. No. La Padania è una Nazione. Altra. Diversa dall’Italia. E quindi alternativa. In nome della Padania, Bossi e la Lega trionfano alle elezioni del 1996 (il risultato in assoluto più ampio raggiunto fino ad oggi). Promuovono una marcia lungo il Po, nel settembre successivo. A cui partecipano alcune decine di migliaia di persone. Poche per proclamare la secessione. Da lì il rapido declino della Lega Padana. Abbandonata da gran parte dei suoi elettori, che la volevano (e la vogliono) sindacalista del Nord a Roma. Non movimento irredentista di una Patria indefinita.
Per questo nel 1999 Bossi rientra nell’alleanza di centrodestra, accanto a Berlusconi. Per questo riprende la tela del federalismo. La secessione scompare. La Padania diventa un mito. Un rito da celebrare una volta all’anno. Che, tuttavia, oggi suscita imbarazzo. Come gli altri miti su cui poggia l’identità leghista. L’antagonismo contro Roma. La lotta contro l’Italia e contro lo Stato centrale. Perché oggi la Lega governa a Roma, a stretto contatto con i poteri centrali dello Stato nazionale italiano. Usa un linguaggio rivoluzionario, ma è un attore politico normale e istituzionalizzato.
Nel 1992 Gian Enrico Rusconi scrisse che la provocazione della Lega ci ha costretti a ragionare su cosa avverrebbe se cessassimo di essere una nazione. Ci ha imposto, cioè, di riflettere sulla nostra identità nazionale. Oggi, per ironia della storia, è la Lega - come ha sottolineato Fini - a trovarsi di fronte alla stessa questione. Se le sia possibile, cioè, "cessare di essere padana". Spiegando, apertamente, ai suoi stessi elettori e agli elettori in generale, dove si ponga. Fra l’Italia e la Padania. Federalismo e secessione. Opposizione e governo.
* la Repubblica, 22 giugno 2010
Pretendiamo rispetto
di Gian Carlo Caselli (il Fatto, 15.06.2010)
Ennesimo attacco del premier contro i giudici, che sarebbero “politicizzati” e avrebbero l’obiettivo di rovesciare per via giudiziaria il risultato elettorale. Tesi non priva di un che di grottesco. Liquidata dalla “Jena”, sul quotidiano “La Stampa”, osservando che dopo 16 anni di tentativi inutili i giudici andrebbero licenziati per manifesta incapacità...
Ma l’ironia non basta. La ripetizione ossessiva di una tesi, anche bislacca, con martellanti campagne spesso prive di contraddittorio, finisce per diffondere e consolidare un pregiudizio pericoloso per la democrazia. Perché in democrazia la fiducia dei cittadini nella giustizia non è un optional, ma un elemento strutturale: se viene meno, si affaccia il rischio di derive illiberali e disgreganti. I tentativi del premier di circoscrivere i suoi attacchi ad una parte della magistratura non sono credibili perché smentiti dalle vicende degli ultimi anni. L’attacco si è rivelato a geometria variabile, nel senso che è di assoluta evidenza come siano stati costretti a subirlo tutti i magistrati (proprio tutti: pm e giudici, fino alle Sezioni Unite della Cassazione e addirittura alla Corte costituzionale) che adempiendo i loro doveri, in qualunque città o ufficio, abbiano avuto la sventura di imbattersi in interessi che pretendono di sottrarsi ai controlli istituzionali previsti per tutti gli altri.
Ma l’obiettivo di una propaganda tanto infondata quanto insistita è anche distogliere l’attenzione rispetto ai veri problemi che angosciano il Paese. Riproporre il vecchio ma sempre verde ritornello della magistratura politicizzata significa parlare meno della crisi economica; della manovra finanziaria; delle pensioni; del lavoro che non c’è o se c’è è sempre più spesso nero, precario, insicuro.
Significa provare ad offuscare la realtà incontestabile di una legge sulle intercettazioni che stritola in una tenaglia micidiale informazione, investigazione e sicurezza dei cittadini, picconando in un colpo solo alcune pietre angolari della democrazia.
Significa continuare ad ignorare la catastrofe annunziata del sistema giustizia, per tirare invece la volata a riforme che invece di migliorare anche solo un poco l’efficienza del sistema taglieranno ancora di più le unghie agli inquirenti. Dunque, evocare complotti giudiziari, disegni politici realizzati mediante l’azione penale, persecuzioni per motivi di parte può essere utile perché sempre meno si ragioni sui fatti. Ma questi metodi e questa cultura rischiano di uccidere la verità e la giustizia, rendendo un pessimo servizio al Paese.
L’Associazione nazionale magistrati, facendo il suo mestiere, prova ad arginare questa strumentale ondata di propaganda basata sul nulla, ma gli spazi che riesce a ritagliarsi sono sempre più esigui. Il Consiglio superiore della magistratura ha sempre fatto di tutto per difendere l’autonomia e l’indipendenza dei giudici contro gli attacchi di certa politica, ma non possiede radio o televisioni che diffondano ovunque il suo “verbo”. Anzi, dovrà presto pagare il rifiuto sempre opposto alle richieste di maggior “docilità” subendo una trasformazione (due Csm separati per separare le carriere, in vista della agognata - anche se a parole negata - sottoposizione del pm al governo), trasformazione che non è prevista dalla Costituzione, ma tanto si sa che la Costituzione è vista da qualcuno come una pratica da archiviare, non come una Carta di valori irrinunciabili, una spinta al continuo miglioramento del tasso di democrazia del sistema, che nello stesso tempo funziona da argine ai tentativi di arretramento.
Il ministro Guardasigilli, il presidente della Camera e il presidente del Senato potrebbero, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze istituzionali, intervenire in qualche modo per recuperare un clima di rispetto verso l’ordine giudiziario. Non mi sembra che abbiano molta voglia di farlo. E allora, non resta che sperare in qualcun altro. Che però è troppo in alto perché possa arrivargli la voce sommessa di uno dei tanti servitori dello Stato stanchi di essere vilipesi “a gratis”.
Si può non firmare
Onida: nel ddl limiti incostituzionali
Il Presidente emerito della Consulta: «Ma il capo dello Stato non ha l’ultima parola»
di Silvia Truzzi (il Fatto, 12.06.2010)
Il bavaglio dice: niente foto e dichiarazioni dei magistrati. La funzione è più importante della persona che la esercita. Principio valido per tutte le istituzioni chiamate in causa dalla legge “sulle intercettazioni”: ne abbiamo parlato con Valerio Onida, presidente emerito della Corte costituzionale.
Professore, ravvisa profili di incostituzionalità nel testo licenziato dal Senato?
Si stabiliscono limiti per la pubblicazione di atti non coperti da segreto, che abbiano pubblico interesse e siano verificati: è una limitazione indebita - e secondo me incostituzionale - alla libertà di informazione. Io sono d’accordo sul fatto di contenere le fughe di notizie su persone estranee e su fatti irrilevanti. E anche sul divieto di pubblicazione di foto e dichiarazioni dei magistrati. Ma queste sono questioni secondarie. Il punto chiave ovviamente è un altro. Se la legge sarà approvata ci sarà certamente un ricorso alla Consulta.
In casi del genere l’inconveniente è che per il ricorso alla Corte è necessario che si instauri un contenzioso. Cioè che ci sia una violazione della legge. Il nostro sistema non consente un immediato ricorso, come accade per esempio in Francia. Il che secondo me non è solo un difetto, perché il nostro sistema consente di valutare la legge al momento della sua applicazione, mentre l’altro favorisce una maggiore “politicizzazione” del giudizio della Corte costituzionale. Così mentre aspettiamo il giudizio di legittimità restiamo al buio. Che ne pensa?
L’applicazione anche per qualche mese di una legge che appaia restrittiva della libertà di informazione è un vulnus. “Appare” o “è” restrittiva? In questo punto secondo me lo è. Poi giudicherà la Corte. Il presidente della Repubblica giovedì ha criticato “I professionisti della richiesta di non firma”. Ha ragione. La firma del capo dello Stato non è la sanzione regia. Il re aveva una volontà deliberativa, il presidente della Repubblica è chiamato esclusivamente alla promulgazione. Allora perché è stata prevista nella Carta la possibilità del rinvio? La potestà legislativa spetta esclusivamente alle Camere, non è in coabitazione con il Quirinale. E tuttavia è stato pensato per il capo dello Stato - che è collocato super partes e quindi in qualche modo chiamato a esercitare un’influenza su chi decide - questo potere di rinvio. Ma è un veto sospensivo, non l’ultima parola. Il capo dello Stato non può rischiare una riapprovazione che, se diventasse sistematica, si tradurrebbe in una sua delegittimazione. È un potere non un dovere: il presidente della Repubblica non è un giudice costituzionale e nemmeno il capo dell’opposizione.
C’è stata una reazione molto energica da parte dell’opinione pubblica. Sì, una sollevazione che raramente si è vista. Sarebbe auspicabile che accadesse più spesso di fronte a episodi legislativi gravi.
Forse di tutto questo il presidente della Repubblica potrebbe tener conto: non è alla sua persona che ci si rivolge, ma alla sua figura. Certamente, non si deve alterare però il ruolo del capo dello Stato. La sistematica richiesta di “non firmare” trascura questo ruolo. Probabilmente accade perché le leggi o i decreti di cui si occupa il governo mettono in discussione principi fondamentali: l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge o la libertà di stampa.
Sì, ma bisogna avere riguardo ai caratteri di fondo del nostro ordinamento. Il capo dello Stato, ribadisco, non è un co-decisore. Che effetto le ha fatto sentire il presidente del Consiglio dire che governare con questa Costituzione è un inferno? Queste dichiarazioni, fatte da un rappresentante delle istituzioni sono ridicole. Espongono al ridicolo chi le fa.
I tentativi di strappo ai valori della Carta sono stati tanti: forse per questo le persone non ridono.
Le parole sono spesso dei diversivi, soprattutto in politica. Mi spaventano molto di più i fatti, come questo progetto di legge.
Il sipario sugli scandali
di MARIO CALABRESI (La Stampa, 11/6/2010)
Ora cala il sipario. Il nostro lavoro si farà più incerto e faticoso e gli avvocati diventeranno compagni di banco di direttori e editori. Nonostante dibattiti, correzioni e appelli di ogni tipo, la legge che detta nuove regole per le intercettazioni e l’informazione viaggia spedita verso i suoi obiettivi.
Abbiamo più volte scritto e riconosciuto che in Italia ci sono stati problemi di rispetto delle vite private di persone coinvolte in indagini, ma ciò non può cambiare il giudizio totalmente negativo che abbiamo della nuova legge.
Il dovere di informare i lettori e il mestiere di giornalisti saranno resi più difficili perché le possibilità di raccontare le inchieste si ridurranno notevolmente, potremo darvi resoconti minimi e parziali, dovremo destreggiarci a fare brevi riassunti e mai citare dettagli o particolari determinanti. Tutto in una grande incertezza, che spingerà gli editori a sollecitare continui pareri legali per evitare le maximulte.
E’ forte l’amarezza per un gesto che non ha nulla a che fare con la privacy e la civiltà giuridica, ma ci parla solo della volontà urgente della politica di calare il sipario sulle inchieste e di mettersi al riparo dagli scandali, per garantirsi un tranquillo futuro di impunità e mani libere.
La sovranità privata
di Carlo Galli (la Repubblica, 10.06.2010)
«Fare leggi rispettando questa Costituzione è un inferno». Certamente, alle molte e anche contrastanti definizioni di "Costituzione" mancava ancora questa: ma c’è da sperare che d’ora in poi i manuali di diritto costituzionale tengano conto anche della Costituzione come inferno, ultima delle esternazioni di Berlusconi in questi giorni.
D’accordo. Si tratta del solito espediente grazie al quale una sostanziale vittoria (il provvedimento sulle intercettazioni) viene fatta passare, in perfetto stile democristiano, per un compromesso di cui non si è soddisfatti: a ciò Berlusconi è spinto anche dal timore di esser poi travolto nella sconfitta nel caso che dal Quirinale venga uno stop alla legge. La prova di forza della "blindatura" - e a maggior ragione il pugno sul tavolo del voto di fiducia - è venata da debolezza, come ha scritto ieri Ezio Mauro.
Al tempo stesso si tratta di una mossa diversiva, per aprire una polemica che distolga l’opinione pubblica sia dalla legge-bavaglio sia dalla manovra economica, due provvedimenti fortemente impopolari. E per incolpare qualcuno o qualcosa - la Costituzione, chi l’ha voluta in passato, chi la difende ora - come responsabile delle debolezze e delle contraddizioni dell’azione di governo, che vanno imputate invece alle divisioni nella maggioranza e all’uso distorto delle istituzioni, che non sono state pensate per essere utilizzate come ora avviene.
Il discorso pubblico che proviene da Berlusconi - esplicitamente post-costituzionale, e ormai anti-costituzionale - è infatti consapevolmente centrato sul trasferimento nel campo politico delle logiche imprenditoriali del "comando efficace", libero da ogni contropotere costituito, anche da quello delle norme e delle procedure. La funzione pubblica è quindi concepita come qualcosa di discrezionale, che dipende dalla volontà del Capo: non a caso egli afferma che la Protezione Civile dovrebbe astenersi dal suo dovere, in Abruzzo; e che la Rai non dovrebbe vedersi rinnovare il contratto di concessione, se non si piega ai suoi voleri.
Questo prevalere del Privato sul Pubblico viene definito da Berlusconi "sovranità": quel Privato ha infatti vinto le elezioni, e ha quindi ricevuto un presunto mandato dal popolo sovrano a governare senza limiti né controlli. A questa aberrante conclusione egli giunge poiché concepisce la sovranità come la titolarità e l’esercizio di una volontà monolitica e irresistibile (in un certo senso, come facevano i giacobini, che concentravano nelle loro mani la sovranità del popolo).
È questo modo di pensare che gli fa dire che i pm e la Corte Costituzionale, esercitando le loro funzioni giurisdizionali, attentano alla sovranità; che cioè lo colloca al di fuori della dimensione costituzionalistica che la nostra democrazia si è consapevolmente data nel secondo dopoguerra. Infatti, la nostra Costituzione (non senza suscitare a suo tempo qualche perplessità, anche a sinistra) ha impiantato sul corpo della sovranità popolare l’elemento - che proviene dalla civiltà politica e giuridica del costituzionalismo inglese e americano - del controllo di legalità, da parte della magistratura, sulle azioni dei membri del ceto politico in generale, e del controllo di legittimità, a opera della Corte Costituzionale, sugli atti del Legislativo (e sui decreti dell’Esecutivo).
Nessuno, nemmeno la sovranità popolare, è onnipotente: la politica si manifesta attraverso il diritto che limita, con la legge, ogni potere; e garantisce così i diritti di tutti. Se Berlusconi afferma che agire secondo la Costituzione è un inferno, evidentemente pensa che il paradiso sia il potere senza limiti: il potere privato di un padrone (in greco, despòtes), reso onnipotente dall’investitura popolare.
Insomma, la sua idea di sovranità è privata e al tempo stesso assoluta: è, tecnicamente, un’autocrazia plebiscitaria. La quale oggi si manifesta con chiarezza programmatica, ma forse anche epigrammatica: come annuncio di linee d’azione "riformistiche" per l’avvenire (secondo le parole di commento di Bossi, e secondo le proposte recentissime di Tremonti sull’articolo 41), ma anche come commento conclusivo di un ciclo politico, reso "infernale" proprio dalla sopravvivenza ostinata della Costituzione.
In ogni caso, questo "discorso" - che, certamente, cela la concreta finalità di coprire specifiche persone rispetto a specifiche responsabilità in specifiche inchieste giudiziarie: una finalità parziale alla quale si sacrificano beni collettivi come l’efficacia delle indagini e la libertà dei cittadini - fa passare come ovvia la tesi che la politica consista in un comando senza controlli, purché efficace. Ed è questa tesi a distaccare gli italiani dalle radici del loro passato democratico e costituzionale (recente, ma anche ormai remoto: o almeno così pare), e a generare, proprio col suo apparente tono iperpolitico, uno specifico atteggiamento antipolitico, cioè quell’analfabetismo civile che afferma qualunquisticamente che solo i fatti contano, e che le regole sono soltanto pastoie che frenano l’agire dei governanti.
Una tesi, quella espressa da Berlusconi, che ha almeno il merito della chiarezza; e che individua un fronte di conflitto politico dal quale sarà difficile sottrarsi, anche per chi lo volesse: il fronte che vede da una parte chi lotta apertamente contro la forma e la sostanza della Costituzione, e dall’altra chi la difende, consapevole che in questa difesa - si spera non rassegnata, né di maniera - consiste ormai la sostanza della nostra democrazia.
La lezione di Tocqueville
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 4 giugno 2010)
La libertà di stampa è una di quelle libertà per le quali non può esistere una via intermedia tra massima libertà e dispotismo. Lo aveva capito quasi due secoli fa Alexis de Tocqueville, il quale, da critico diagnostico della trasformazione democratica delle società moderne, non si faceva scrupolo a confessare la sua ambigua attitudine nei confronti di questa libertà. Una libertà che diceva di amare non perché un bene in sé ma perché un mezzo che impedisce cose veramente indesiderabili come l’impunità, l’abuso di potere e le tentazioni assolutistiche di chi governa. Proprio perché ogni tentativo di regolare la libertà di stampa si risolverebbe invariabilmente in uno sbilanciamento di potere a favore di chi regola, meglio, molto meglio una libertà senza limiti.
Del resto, chi può decidere su quale sia il limite giusto? E poi, chi controllerà colui che decide sul limite? Per questa ragione, Tocqueville osservava che se i governanti fossero coerenti con la loro proposta di limitare la libertà di stampa per impedirne un uso licenzioso ed esagerato, dovrebbero accettare di sottomettere le loro azioni ai tribunali, di essere monitorati dai giudici in ogni loro atto. Se non amano il tribunale dell’opinione dovrebbero preferire il tribunale vero. Ma questo, oltre che essere irrealistico, comporterebbe se attuato un allungamento della catena di impedimenti fino al punto da asfissiare l’intera società sotto una cappa di controllori e censori. A meno di non ripristinare l’assolutismo di età pre-moderna - un vero assurdo.
L’impossibilità di trovare una giusta limitazione per legge della libertà di stampa sta nel fatto che nei governi che si fondano sull’opinione, come sono quelli rappresentativi e costituzionali, non è possibile sfuggire all’opinione, la quale deve pur formarsi in qualche modo ed essere libera di fluire.
È per questa ragione che l’azione del premier contro i due tribunali - la stampa e la magistratura - è in qualche modo anacronistica e assurda. Lo è per questa semplice ragione: nonostante la sua persistente passione censoria, egli vive di pubblico e non può restare celato agli occhi di chi è deputato a preferirlo e perfino amarlo. Il suo desiderio più grande è quindi quello non tanto o semplicemente di mettere il bavaglio alla stampa, ma invece quello di esaltare una forma soltanto di opinione, quella che non fa conoscere ma fa invece ammirare, preferire, amare. Egli vuole quindi l’impossibile: vivere di pubblico senza pubblico.
Poiché il pubblico è formato proprio attraverso diverse opinioni (questo è vero anche quando il pubblico è fatto di consumatori, e l’opinione è pubblicitaria, poiché in fondo anche di dentifrici ce ne sono di vari tipi sul mercato). Ma il premier vuole creare il suo pubblico e vuole che questo solo goda di libera circolazione: questa è l’ambizione assurda dell’assolutismo dispotico nell’era dei media.
Come ha scritto Ezio Mauro a commento dell’attacco in diretta che il premier ha lanciato contro chi aveva ricordato le sue passate dichiarazioni di sostegno agli evasori fiscali (Massimo Giannini) e contro chi aveva mostrato con i dati un suo calo nei consensi (Ipsos e Pagnoncelli), egli vuole «impedire ai giornali di raccontare la verità» per distribuire invece «un’unica verità di Stato».
I monarchi assoluti dell’età pre-moderna non avevano a che fare con il pubblico: il decidere liberamente (fuori dai vincoli dell’opinione e del voto) li rendeva, se possibile, meno esposti alla menzogna e se menzogna c’era era all’interno della cerchia di potere nella quale vivevano. Arcana imperii era il nome della politica fatta a porte chiuse in un sistema di potere nel quale non c’era nessun obbligo a tenerle aperte. Ma con l’avvento della politica del consenso - in primis della designazione elettorale dei governanti - questa condizione di libertà ha perso giustificazione e, soprattutto, si è rivelata impossibile. Infatti, per il leader, l’essere scelto, sostenuto, e perfino amato è possibile solo se acquista o si crea un’immagine pubblica, un’immagine che esca dal palazzo e circoli liberamente. La condanna del leader con ambizioni assolutisiche nell’era democratica è quella di non poter più aspirare al potere assoluto mentre i mezzi di cui dispone - la stampa e l’opinione- - alimentano enormemente questa sua aspirazione.
Ecco quindi il paradosso del quale siamo testimoni (e vittime) in Italia: un leader che è stato creato dai media e che per restare al potere deve poter contare sulla pubblicità di quell’immagine vincente, e per tanto su un sostegno acritico dei media stessi.
La premessa non detta di questo paradosso è che la verità sarebbe fatale a quell’immagine, e deve per tanto restare celata alla vista e all’udito. Ecco allora che la limitazione della libertà di stampa deve per forza essere più di questo per poter funzionare: deve coinvolgere non soltanto il momento della divulgazione delle opinioni scomode, ma anche quello del reperimento delle informazioni sulle quali quelle opinioni si basano (deve cioè mettere in discussione entrambi i tribunali). Aveva ragione Tocqueville: nella sfera della libertà di stampa non si dà né può darsi una via mediana tra massima libertà e dispotismo, perché una volta imboccata la strada della censura un limite tira l’altro senza che si riesca a vederne la fine.
ISTITUZIONI
Napolitano, monito al governo
"Il Parlamento è compresso"
Il capo dello Stato accompagna la firma della legge incentivi con una lettera al presidente del Senato e ai presidenti del Consiglio e della Camera. I contenuti del decreto, scrive il presidente della Repubblica, modificati "nel corso dell’iter di conversione". "Basta fiducia su maxiemendamenti". "A rischio equlibri costituzionali". "Firmo solo per la lotta all’evasione" *
ROMA - Nuovo, duro richiamo di Napolitano all’esecutivo. Il presidente della Repubblica ha accompagnato la firma al dl incentivi con una lettera indirizzata al presidente del Consiglio e a quelli di Camera e Senato, con al quale mette nero su bianco i rilievi alle modalità dell’iter di conversione. Un modo per ribadire tutte le sue perplessità sull’alterazione degli equilibri e delle prerogative degli organi costituzionali. Nella lettera, Napolitano sottolinea di aver apposto la sua firma sul decreto per evitare la decadenza di "disposizioni di indubbia utilità", come quelle relative al contrasto dell’evasione fiscale e al reperimento di nuove risorse finanziarie. Appena ricevuta la lettera, il presidente del Senato, Renato Schifani, ne ha trasmesso copia ai presidenti dei Gruppi parlamentari di Palazzo Madama.
Scrive Napolitano che "il decreto legge, che nella sua formulazione originaria conteneva disposizioni riguardanti esclusivamente la repressione delle frodi fiscali, la riscossione tributaria e incentivi al sostegno della domanda e delle imprese, nel corso dell’iter di conversione è stato profondamente modificato, anche mediante l’inserimento di numerose disposizioni estranee ai contenuti del decreto e tra loro eterogenee".
Tale tecnica, ricorda il capo dello Stato, è stata "criticata" sia da lui che dai suoi predecessori. Napolitano dice dunque ancora una volta "no" ai maxiemendamenti approvati con il voto di fiducia che ampliano il contenuto originario dei decreti legge. Tale procedura, sottolinea il capo dello Stato, incide negativamente "sulla qualità della legislazione" ed elude "la valutazione spettante al presidente della Repubblica in vista della emanazione" dei provvedimenti d’urgenza del governo. Inoltre, "si realizza una pesante compressione del ruolo del Parlamento, specialmente allorché l’esame da parte delle Camere si svolga con il particolare procedimento e nei termini tassativamente previsti dalla Costituzione per la conversione in legge dei decreti".
Fin quando non intervengano eventuali modifiche alla prassi e alle norme vigenti, "si impone un richiamo al senso di responsabilità del Governo e del Parlamento - aggiunge Napolitano -, in particolare dei gruppi di maggioranza, affinché non si alterino gli equilibri costituzionali per quel che riguarda i criteri per l’adozione dei decreti-legge e i caratteri di omogeneità che ne devono contrassegnare i contenuti, nonché sotto il profilo dell’esercizio delle prerogative del presidente della Repubblica".
Il presidente della Repubblica confida che "Parlamento e governo converranno sulla fondatezza dei rilievi di carattere generale che ho ritenuto di sottoporre alla loro attenzione, nonché di quelli concernenti specifiche disposizioni del provvedimento da me oggi promulgato, anche apportando, nei modi opportuni, possibili correzioni".
* la Repubblica, 22 maggio 2010
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino (...)
GIUSTIZIA
Napolitano alle toghe: fate autocritica
L’appello del Quirinale: "Evitare
delegittimazione e personalismi"
L’Anm: "Difficile se ci attaccano" *
ROMA La vera forza del magistrato dovrebbe essere quella dell’equilibrio. Non dovrebbe cedere alle lusinghe dei media, nè sentirsi investito «di missioni improprie ed esorbitanti». E soprattutto non dovrebbe avere atteggiamenti «impropriamente protagonistici e personalistici». Perchè così facendo mette in discussione l’imparzialità di tutte le toghe. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, coglie l’occasione dell’incontro con i magistrati tirocinanti al Quirinale, per invitare di nuovo politica e magistratura a non pestarsi i piedi e a stemperare i toni. «In tutti - avverte - deve prevalere senso della misura, rispetto e responsabilità istituzionale».
Napolitano augura alle nuove leve di svolgere il proprio lavoro con «animo sgombro» dalle tensioni del passato e di avere «la fierezza di appartenere a un mondo di servitori dello Stato», soggetti «solo alla legge» e «fedeli alla Costituzione». Perchè è soprattutto con loro che si potrà aprire «una pagina nuova, una nuova stagione nelle travagliate vicende della giustizia in Italia». Per quanto riguarda il presente, però, l’inquilino del Quirinale richiama le toghe alla moderazione e all’esame di coscienza. Perchè senza le necessarie «autocorrezioni» e senza che si rifugga da visioni «autoreferenziali» sarà più difficile recuperare «l’apprezzamento e il sostegno dei cittadini». Il percorso, avverte Napolitano, non sarà facile, ma si dovrà insistere riuscendo a stemperare «le esasperazioni e le contrapposizioni polemiche che da anni caratterizzano il nodo delicato e critico dei rapporti tra politica e giustizia».
I due mondi ora contrapposti, non dovrebbero percepirsi come «ostili, guidati dal reciproco sospetto». Dovrebbe «prevalere in tutti - è l’appello del presidente della Repubblica - il senso della misura» perchè si svolga un servizio efficiente nell’interesse del cittadino. Servono interventi, dice, ma «condivisi». Ed è per questo che invita il Csm a dare subito attuazione alle norme sul trasferimento nelle sedi disagiate e a conferire, di concerto con il ministro, uffici direttivi di primo piano come quelli del presidente della Cassazione e del Procuratore della Repubblica di Milano. Napolitano sottolinea anche un’altra questione: quella dell’ «oggettiva confusione dei ruoli» che si genera quando il magistrato si propone per incarichi politici laddove abbia esercitato le proprie funzioni. Il plenum del Csm esaminerà domani una risoluzione sul tema e il Capo dello Stato esprime apprezzamento. L’indipendenza e l’autonomia delle toghe, insiste, vanno difese ad ogni costo, ma per farlo non si devono avere comportamenti che generino «ingiusta delegittimazione» nè si devono tollerare «chiusure corporative», «casi gravi di inerzia o cattiva conduzione degli uffici».
Il presidente dell’Anm Luca Palamara è categorico: le toghe danno, ma chiedono anche rispetto. Ed è difficile comportarsi in un certo modo quando si è «sotto assedio». Quella di Napolitano, commenta il Guardasigilli, «è una riflessione di grande equilibrio». Ed è vasto il coro di consensi nella maggioranza: dal deputato Pdl Maurizio Paniz («si seguano sue parole») al leghista Matteo Brigandì («bene equilibrio»). Solo chi vuole sottomettere la magistratura «è cioè il Pdl», interviene il leader Idv Antonio Di Pietro, la fa «apparire politicizzata». I tirocinanti piuttosto «imparino a tenere la schiena dritta». Il legislatore, afferma Michele Vietti (Udc), «faccia tesoro delle sue parole». E analogo è il commento dei componenti del Csm e di alcuni Pm. Vincenzo Siniscalchi (Pd) parla di «alto momento di riflessione», mentre per Michele Saponara (Pdl) il capo dello Stato «ha il diritto-dovere di dire ai magistrati quali siano i loro compiti». «Spesso però - replica il Pm di Palermo Antonio Ingroia - sono i riflettori a cercare le toghe».
* * La Stampa, 27/4/2010 (17:20)
Sull’Unità d’Italia dimissioni a catena
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 23.04.2010)
E’ qualcosa di emblematico nella burrasca che scuote il comitato per le celebrazioni dell’Unità d’Italia. Dopo le dimissioni del presidente Carlo Azeglio Ciampi, dettate da ragioni d’anagrafe, s’annunciano altre defezioni illustri, firmate da Dacia Maraini, Ugo Gregoretti, Marta Boneschi e Ludina Barzini. Tra i nomi dei dimissionari è circolato ieri anche quello di Gustavo Zagrebelsky, il quale però precisa: «Non esiste alcun atto formale. Siamo ancora in alto mare, non so bene come andrà a finire. Quel che posso esprimere è solo un sentimento di disagio».
Se è vero che anche le precedenti celebrazioni - nel 1911 e nel 1961 - si svolsero nel segno della disunità, queste del prossimo anno rischiano di saltare del tutto: anche per scarsa convinzione - da parte dei seguaci di Bossi, ma non solo - che vi sia qualcosa da festeggiare. Ora il nuovo contrasto, di cui non erano mancate le avvisaglie. Ma conviene procedere per ordine. Ciampi scrive una lettera di dimissioni a Berlusconi e Bondi dai toni molto sereni («Negli ultimi tempi sto avvertendo una riduzione delle mie energie, che si traduce in un senso di affaticamento, fisico e psicologico. Nulla di grave. Tutto in linea con... i dati anagrafici»). Una missiva che in sostanza riconosce al governo il merito di avere avviato le celebrazioni, e che dunque sembra sgombrare il campo da ogni malizia (ora, per la sua successione alla presidenza, si fanno i nomi di Giovanni Conso, Lamberto Maffei e Giuliano Amato).
Però alcuni "saggi" del comitato colgono l’occasione per annunciare il proprio ritiro. Tra questi Dacia Maraini, che sul sito dell’Espresso dichiara: «Con il passare dei mesi il ruolo del comitato è stato svuotato. Non contavamo più niente, non potevamo decidere niente. Mi sembrava poco dignitoso restare lì a fare la foglia di fico e così ho mandato una mail a Zagrebelsky, anche lui preoccupato per la deriva del nostro lavoro, dicendogli: "Ma che ci stiamo a fare?". Zagrebelsky ha scritto una lettera di dimissioni piuttosto dura e motivata, che è stata firmata da me, da Gregoretti e da Boneschi». Zagrebelsky mostra cautela: «È solo una situazione in movimento, la lettera è un documento privato». Di più lo studioso non vuole dire, anche perché «tradirei la riservatezza di altri membri del comitato».
Quel che si percepisce è il sentimento di inutilità diffuso tra i "saggi", messi da parte dalle autorità che guidano le celebrazioni. La Maraini racconta di aver provato a impegnarsi in prima persona con due proposte, una rassegna di film sul Risorgimento e una serie di iniziative sulla lingua italiana. «Nessuno mi ha mai risposto. Poi improvvisamente ci è stato detto che non c’era più una lira, che non si poteva fare più niente. Abbiamo continuato a vederci lo stesso, sperando di sbloccare la situazione, ma è stato inutile. In tutte le nostre riunioni siamo riusciti ad approvare una sola cosa, un disegno con tre bandierine che sarà il logo delle celebrazioni».
Anche il programma finora definito - il restauro dei monumenti, un museo virtuale del Risorgimento, un paio di convegni e poche altre cose - era apparso a diversi membri del comitato molto debole, inadeguato a restituire il senso del processo unitario e di una storia lunga un secolo e mezzo. Un progetto che in sostanza restituiva la scarsa convinzione con cui l’attuale governo si predispone a omaggiare la data fondativa della nostra identità italiana.
Ma abbandonare oggi il comitato potrebbe avere conseguenze indesiderate. Il rischio è che saltino le celebrazioni o subiscano l’influenza di chi ancora crede che l’Italia sia "un’espressione geografica". È dai primi anni Novanta che alcune forze politiche oggi al governo mettono in discussione il processo storico unitario e l’assetto statuale dell’Italia. È anche per sottolineare il valore di un anniversario - contestato "con toni rozzi e inaccettabili", come dice la Maraini - che molti avevano accettato con entusiasmo di impegnarsi nelle celebrazioni. Ora però sembrano venute meno le condizioni per il proseguimento della collaborazione. Un bel pasticcio. Gli storici del futuro potranno usare anche questa vicenda come indicatore del debole stato di salute del nostro sentimento nazionale.
L’arbitro
Se l’Italia fosse un Paese normale, i risultati delle elezioni regionali del 28 e 29 marzo sarebbero risultati normali: in un sistema seccamente bipolare, come quello che fa le fortune della destra italiana, un risultato di 7 regioni all’opposizione e 6 alla maggioranza sarebbe un risultato ragionevole e abbastanza equilibrato; significherebbe che il centro-destra conserva, sia pure di misura, i consensi per governare e il centro-sinistra è ancora in grado di candidarsi al potere; che il governo ha passato senza danni e senza gloria la strettoia delle elezioni “di mezzo termine” e può tranquillamente continuare a lavorare per altri tre anni; che sul risultato del voto hanno pesato non solo gli schieramenti nazionali, ma anche la qualità delle persone, che spesso ha fatto la differenza, come Vendola in Puglia che il centro-sinistra nemmeno voleva, come Renata Polverini nel Lazio che ha commosso e persuaso con la sua limpida figura femminile ed operaia, come Emma Bonino ingiustamente abbattuta dal diktat dei vescovi, come De Luca e Loiero contro cui ha votato (o non votato) mezzo elettorato di sinistra in Campania e in Calabria, come Formigoni a Milano che Comunione e Liberazione sembra aver deputato al potere per sempre.
Ma l’Italia non è un Paese normale, e perciò i risultati elettorali si prestano anche ad altre, più allarmate letture. Il Paese non ha colto quest’occasione per salvarsi dal dominio incondizionato di Berlusconi, che in forza di un diritto proprietario interpretato alla latina, esercita il potere di “usarne ed abusarne” a suo piacimento; e anche se il rimedio era a portata di mano, ha preferito rimanere sotto schiaffo della violenza contro le istituzioni che Berlusconi e la sua corte scatenano ogni giorno nel loro anarchico o sovversivo estremismo; lo scorato se non disperato astensionismo ha contribuito a questo esito.
Tuttavia Berlusconi resta al potere per il gioco di fattori che sono ormai del tutto estranei alla sua effettiva capacità di controllo. Non ha più la forza di un partito che “per amore” doveva inglobare in sé più della metà, se non tutti gli Italiani: questo suo partito personale è uscito a pezzi dalle urne (ha perso sei punti, cioè milioni di voti, rispetto alle politiche), spesso superato nel Nord dalla Lega, aborrito da Casini e quasi ripudiato da Fini. Non ha più il fascino del leader, perché la sua immagine privata e pubblica si è irrimediabilmente rotta, e nemmeno lui deve essere molto contento quando la mattina mette la sua faccia, cipria o non cipria, davanti allo specchio. Ha perso la sua lucidità perché in odio a Santoro e a Floris, ad Anno zero e Ballarò, ha dovuto rinunciare a Vespa e a Porta a porta, scatenando uno tsunami di opinione contro di lui, e ha dovuto rimediare con una “totale immersione” in TV facendo tutto da solo, per vincere il suo personale “referendum”. Ha finto un’intimità che non ha con gli Italiani, mandando loro per posta venti milioni di lettere chiamandoli grottescamente uno per uno per nome. Ha continuato a magnificare come opera del regime la ricostruzione all’Aquila, quando la città, materia ormai”inerte”, giaceva sbriciolata nelle carriole trascinate a forza dai suoi esuli abitanti. Ha tentato il dialogo diretto con la folla a San Giovanni e l’ha fatta giurare, offrendosi come paradigma di un nuovo regime assoluto in cui corpo mistico del sovrano e corpo politico del popolo si identificano, ed è bastato il confronto con Mussolini a piazza Venezia perché la cosa finisse nel ridicolo.
Se questo premier che il mondo ci invidia resta al potere, è perché la sinistra è in stato di confusione mentale, e perché dietro a lui si è alzato un arbitro, che ancora non fischia il rigore e che detta le regole del gioco. Questo arbitro è Bossi, come ha detto egli stesso di sé la sera della vittoria; e Bossi è oggi un uomo di poche, ma decisive parole. Arbitro e allenatore insieme, l’unica cosa che vuole è il “federalismo”, che una volta si chiamava secessione, e che i suoi giornali chiamano “la Padania”. Da vero politico, il capo della Lega Nord si è insinuato nelle pieghe del sistema bipolare, ma non perché voglia due partiti o due schieramenti politici, ma perché vuole due Italie, quella delle regioni ricche e quella delle regioni povere, e vuole due “proletariati”, quello degli italiani e quello degli stranieri, dei nativi e dei migranti, degli sfruttati e degli sfruttatori; due poli, geografici e sociali, uno dei quali deve innalzarsi e dominare sull’altro.
Quando Bossi cominciò, si è irriso, lo si è chiamato “folklore”. Come è stato ricordato nell’occasione, D’Alema tentò di annetterselo, come “una costola della sinistra”. Ora Bossi presenta il conto, ed è la divisione sociale ed etnica, la balcanizzazione. Se lo permetteremo.
Raniero La Valle
La porta della libertà
di Furio Colombo (il Fatto, 28.03.2010)
Nessuno di noi finora ha tenuto conto di una domanda che pure dovrebbe apparire urgente e drammatica. La domanda è questa: riuscirà la Repubblica Italiana a rientrare nella normalità democratica senza avere prima capito e detto e denunciato il grave stato di fuori gioco in cui si trovano ormai da tempo in questo Paese tutte le istituzioni? Fino ad ora ha prevalso, se non altro per l’ autorevolezza di chi l’ ha espressa, la persuasione che alcuni episodi separati, non sempre denunciati, non sempre redarguiti, non formino di per sé un comportamento grave e costante e non debbano, quindi, essere affrontati in difesa della Repubblica e della sua Costituzione, come un grave pericolo in atto. Il più delle volte, a parte il silenzio, l’invito ha queste caratteristiche: ci sono due parti che debbono riconciliarsi. Offra ciascuna il suo “passo indietro” e “ i toni bassi” e “il rispetto delle istituzioni”, senza “delegittimare l’avversario”.
Questi ammonimenti sono saggi da un punto di vista molto importante: evitare il peggio. Chi li propone, a volte in modo ripetuto e con una preoccupazione che si percepisce molto intensa, questo “peggio” deve averlo intravisto o addirittura vissuto in alcune occasioni rimaste non pubbliche. Va dunque considerato e apprezzato lo sforzo di “evitare il peggio”, tenendo conto, però, che nelle vicende politiche sia nazionali che internazionali, tale intento di scartare un pericolo ha sempre portato a un pericolo più grave. Infatti lo spazio lasciato vuoto da fatti veri non riconosciuti e non descritti ai cittadini, viene invaso, ogni volta, da fatti più gravi e letali. Il lettore può pensare che mi sto tenendo un po’ alla larga. Perciò preciso. Vi prego di notare che dirò le stesse cose che molti di coloro che si oppongono vanno dicendo tutti i giorni, durante i quindici anni di Berlusconi.
Ma questa volta lo dico nel modo formulato dalla domanda: se si possa uscire da un pericolo ormai molto grave e imminente fingendo di non vedere, ed evitando di descrivere quel pericolo. Non è ciò che è accaduto a Monaco quando normali e prudenti statisti democratici hanno accettato e avvalorato la finzione di avere raggiunto un accordo con normali e democratici statisti di parte opposta che però erano Hitler e Mussolini? Purtroppo abbiamo imparato che prudenza e saggia cautela non diminuiscono il rischio contro la democrazia.
Il modo in cui avvengono le cose oggi in Italia lo conosciamo: un esecutivo, per sua natura pronto nell’ agire e nel reagire (per questo la Costituzione circonda ogni esecutivo di verifiche, contrappesi, controlli, garanzie per i cittadini) e per giunta reso fortissimo dal doppio potere, pubblico e privato, lancia attacchi violenti, con intenzione di piena rottura contro i centri costituzionali di verifica, controllo e garanzia. Alla fine di ogni attacco, complice quasi tutta la stampa (d’ altra parte comprata o succube o spaventata) manca la descrizione di quell’attacco, la portata distruttiva. Persino le intenzioni esplicite, proclamate dal capo di quell’esecutivo che attacca le altre istituzioni, vengono omesse. Qui il problema non è l’ arbitro (mi riferisco con tutto il rispetto al Capo dello Stato) perché il problema non è il rapporto fra maggioranza e opposizione e non è l’eventuale lamentela dell’opposizione.
Qui stiamo parlando di iniziative ripetute di tipo rivoluzionario contro la Costituzione, i suoi organi di controllo, i suoi giudici e le fondamentali leggi della Repubblica tuttora in vigore. In quel punto e in quel momento dell’ aggressione, che è ogni volta un colpo duro e forse finale al muro democratico, c’è l’ ultima, estrema possibilità di difesa della Repubblica. Vi sono consiglieri, in luoghi autorevoli, che insistono nel suggerire, come unica cura, come unico intervento risolutivo di questo momento grave, una ragionevole e ben visibile equidistanza.
Ma equidistanza da che cosa? La parte offesa di questo tremendo gioco non è l’ opposizione. Il suo mestiere comprende il dare e avere, argomenti duri e aggressivi (vedi la brutalità senza riguardi che i repubblicani americani riservano al loro Presidente, vedi l’impegno senza tregua con cui Barack Obama tiene testa a quell’ offensiva) .
La parte offesa, adesso, in Italia, sono le istituzioni dello Stato, sono i magistrati (tutti), sono le Corti, fino alla Cassazione e alla Corte Costituzionale, sono le authority di garanzia, come quella delle comunicazioni. Quando i giudici si comprano (nei pochi casi in cui si può) o si insultano con modalità di separazione definitiva dallo Stato di diritto, quando cade ogni finzione sull’ appartenenza comune alle leggi fondamentali, violandole e annunciandone la soppressione ogni volta che sono un ostacolo, la controparte è la Costituzione, sono le sue radici di libertà, la sua originaria e incancellabile natura antifascista. Questa è la descrizione di una grave e pericolosa situazione politica. Se continueremo a non riconoscerla fingendo di credere che due parti in contrapposizione debbano smettere di delegittimarsi e giungere a più miti consigli, si nega la realtà, si cancellano i fatti, si murano le porte di uscita.
I PASTORI SI MANGIANO LE PECORE? E’ "UN FENOMENO RIDOTTO"!!!
SMS: “E’ vero che non si può accusare Berlusconi di abigeato (furto di bestiame) come titola Il Giornale. Ma è perché si è già portato via tutte le pecore”.
Regime, scene di un crollo
di Furio Colombo (il Fatto, 17.03.2010)
Un giorno qualcuno potrà dividere il regime Berlusconi (finora quindici anni ininterrotti) in tre periodi: quello del finto innocente, della negazione risoluta davanti ai fatti. Chi, io? ma io mi dimetterei immediatamente se fosse vero; quello in cui comincia lui e poi si guarda intorno smarrito come nel gioco “lo schiaffo del soldato”; quello della rivendicazione del fatto (o reato) compiuto come di un naturale e legittimo diritto. E la violenta denuncia: “Ci dobbiamo difendere”.
Ho detto “quindicennio ininterrotto” del regime Berlusconi nonostante due periodi (uno molto breve) di governo del centrosinistra a causa di due trovate di Berlusconi che spero gli storici non trascureranno. Il primo è di agire, in democrazia, con la trovata di sospendere la democrazia nel suo partito. Ciò gli dà uno spazio di libertà (a parte i soldi, a parte il conflitto di interessi) che i suoi avversari, appesantiti dalla necessità del consenso, non possono fronteggiare. Il secondo è di non governare mai e di fare opposizione, anzi campagna elettorale sempre. Per farlo deve arrecare danno - e lo fa - alla Repubblica. Il danno più grave è portarsi via - forse solo a causa del suo fascino leaderistico - potenti funzionari dello Stato, guardiani delle garanzie, verificatori e tutori della legalità, notai della vita istituzionale e della vita pubblica. Clamoroso è il caso dell’Autorità delle Comunicazioni.
Comincia il crollo del regime. Si vedono ovunque nel Pdl crepe, lacerazioni, perdite di rispetto. Le barzellette rimbalzano tra sms ed e-mail, tra l’Italia e il mondo. Quella che trovate oggi sul telefonino spiega: “E’ vero che non si può accusare Berlusconi di abigeato (furto di bestiame) come titola Il Giornale. Ma è perché si è già portato via tutte le pecore”.
Il fatto è che sta facendo crollare la Repubblica e con lui cadono nel vuoto i lavoratori senza fabbrica, i precari senza contratto, le aziende svendute senza padrone. Ma con lui cominciano a cadere anche pezzi importanti delle Istituzioni repubblicane. Per ogni regola è stato legiferato uno strappo. Per ogni strappo ci vuole un garante a rovescio. Un garante della illegalità. Sarà una lista lunga e un danno immenso.
Un Paese oltre ogni limite
di MARCELLO SORGI (La Stampa, 13/3/2010)
La nuova ondata di intercettazioni resa nota ieri dal «Fatto quotidiano» ci consegna uno spaccato del potere anche peggiore di quel che si poteva immaginare. Di per sé, l’idea che il presidente del Consiglio chiami al telefono il direttore generale della Rai Mauro Masi, il direttore del Tg1 Augusto Minzolini e il membro dell’Agcom, l’Autorità indipendente per le telecomunicazioni, Giancarlo Innocenzi, non è fuori dalla realtà. Ma se solo è verosimile il contenuto dei verbali, riassunti stavolta, e non pubblicati tra virgolette, è il modo in cui li tratta - da servi, neppure da dipendenti! - che fa spavento. Se questo è il livello a cui è giunta la vita pubblica, ancorché nei suoi anfratti nascosti, siamo ormai oltre la «bolgia» infernale denunciata dal Capo dello Stato. Del resto sarebbe proprio Masi a lamentarsi perché certe cose, a suo dire, non accadono neppure nello Zimbabwe.
Malgrado ciò occorre distinguere. Il premier che cerca di orientare il responsabile del principale telegiornale dell’emittente di Stato è solo uno, uno dei tanti politici che tutti i giorni cercano di guadagnare visibilità, ascolto e spazio a dispetto di altri.
Chiunque abbia lavorato come giornalista in Rai sa che un malinteso concetto del servizio pubblico fa credere a ciascuno dei quasi mille membri del Parlamento di essere azionista di viale Mazzini, e in base a questo di poter accampare pretese, senza rispetto, né per chi fa informazione, né per chi deve fruirne come pubblico. Sta alla personalità e alla professionalità di chi riceve le telefonate reagire e salvaguardare, per quanto possibile, l’informazione dalle pressioni indebite. Ma siccome al telefono si ricevono anche notizie, e siccome i politici non hanno sempre ed esclusivamente torto, un giornalista che condivida, in qualche caso, il punto di vista del suo interlocutore, e come Minzolini lo faccia esplicitamente, anche nel caso si tratti del presidente del Consiglio, non è detto che faccia necessariamente qualcosa di male.
Diversi sono i casi di Masi e Innocenzi. In qualche modo, e con opposti atteggiamenti, stando sempre al riassunto delle intercettazioni, sarebbero stati coinvolti nella cancellazione per il periodo elettorale del programma di Michele Santoro «Anno Zero», che si è tirata dietro la sospensione di tutti i più importanti spazi di approfondimento, da «Porta a porta» a «Ballarò» a «In mezz’ora». In questo caso sembra che, mentre il membro dell’Agcom Innocenzi (a lungo dipendente delle emittenti Mediaset prima di approdare a Forza Italia) si adoperava, non solo per favorire, ma per suggerire una via per ghigliottinare il conduttore sgradito al premier, il direttore generale Masi a modo suo resisteva. E si sarebbe piegato solo dopo il silenzio imposto ai talk-show della Rai dalla Commissione parlamentare di vigilanza, e seguito dal regolamento dell’Autorità - peraltro sospeso ieri mattina dal Tar - che lo estendeva anche alle reti tv private. Ma con la collaborazione di uno, o con l’opposizione dell’altro dei due altissimi funzionari, alla fine l’effetto è stato lo stesso: e Berlusconi, anche se non gli spettava, l’ha avuta vinta sul terreno - la politica in tv - su cui da sempre è più sensibile.
Accanto a questa ricostruzione, per forza di cose frammentaria e meritevole di approfondimenti - per accertare, almeno, se Innocenzi debba rispondere di esser venuto meno ai doveri di imparzialità connessi al suo incarico di membro di un’Autorità indipendente - c’è un altro interrogativo che aspetta risposte. Come si sa, l’inchiesta che ha portato alla scoperta di tutto è partita da Trani, in Puglia. Le indagini riguardavano un giro di usura basato su carte di credito irregolari. Alcuni degli indagati avrebbero minacciato di rivolgersi all’Agcom e alla Rai come consumatori truffati, millantando amicizie che potevano procurargli assistenza da parte dell’Autorità e attenzione giornalistica da parte del Tg1.
Un magistrato che decida di conseguenza di mettere sotto controllo uno (solo uno?) dei membri dell’Agcom dovrebbe sapere che quell’organo non si occupa di protezione dei consumatori. Se non lo sa, appena scopre che ha sbagliato indirizzo, dovrebbe chiudere le intercettazioni. Lo stesso vale per il direttore del Tg1, che tra l’altro sulla storia delle carte di credito ha anche mandato in onda un servizio.
Invece il magistrato rimane in ascolto. E quando si accorge che al telefono dei suoi intercettati c’è Berlusconi, moltiplica le sue attenzioni, anche se è chiaro che né lui né gli altri due c’entrano niente con la storia della truffa. Per questa strada - una via obliqua - s’è arrivati a rivelare le pressioni del premier sull’informazione Rai. Ma - va detto - difficilmente si potrà arrivare fino in fondo e conoscere tutta la gravità e i dettagli del caso, specie ora che è finito nel frullatore della campagna elettorale. Il magistrato che ha continuato a tendere il suo orecchio, pur sapendo che la vicenda non era di sua competenza, non ha dato grande prova di serietà. Anzi, magari senza capirlo - cosa che fa dubitare della sua intelligenza - ha contribuito ad accelerare la legge che vuole tagliare le intercettazioni. D’altra parte, se è così facile spiare il presidente del Consiglio (oggi Berlusconi, ma era successo anche a Prodi), non si troverà più tanto facilmente qualcuno contrario a limitarle. Così, giorno dopo giorno, cresce la confusione e la sensazione è che anche i diritti più elementari e le libertà indispensabili siano messi a rischio. L’Italia sta diventando un Paese senza il senso del limite.
ITALIA. USCIRE DALLA CONFUSIONE
L’amarezza del presidente emerito della Repubblica Ciampi
"Aberrante episodio di torsione del sistema democratico"
"E’ il massacro delle istituzioni
ora proteggiamo il Quirinale"
di MASSIMO GIANNINI *
ROMA - Benvenuti nella Repubblica del Male Minore. Cos’altro si può dire di un Paese che ormai, per assecondare i disegni plebiscitari di chi lo governa, è costretto ogni giorno ad un nuovo strappo delle regole della civiltà politica e giuridica, nella falsa e autoassolutoria convinzione di aver evitato un Male Maggiore? Carlo Azeglio Ciampi non trova altre formule: "La strage delle illusioni, il massacro delle istituzioni...". Ancora una volta, l’ex presidente della Repubblica parla con profonda amarezza di quello che accade nel Palazzo. Dopo il Lodo Alfano, il processo breve, lo scudo fiscale, il legittimo impedimento, il decreto salva-liste è solo l’ultimo, "aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico". Il "pasticciaccio di Palazzo Chigi" non è andato giù all’ex capo dello Stato, che considera il rimedio adottato (cioè il provvedimento urgente varato venerdì scorso) ad alto rischio di illegittimità costituzionale. E la clamorosa sentenza pronunciata ieri sera dal Tar del Lazio, che respinge il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio, non arriva a caso: "È la conferma che con quel decreto il governo fa ciò che la Costituzione gli vieta, cioè interviene su una materia di competenza delle Regioni. Speriamo solo che a questo punto non accadano ulteriori complicazioni...", dice.
Dopo il ricorso già avanzato da diverse giunte regionali, potrebbe persino accadere che, ad elezioni già svolte, anche la Consulta giudichi quel decreto illegittimo, con un verdetto definitivo e a quel punto davvero insindacabile. Questo preoccupa Ciampi: "Il risultato, in teoria, sarebbe l’invalidazione dell’intero risultato elettorale. Il rischio c’è, purtroppo. C’è solo da augurarsi che il peggio non accada, perché a quel punto il Paese precipiterebbe in un caos che non oso immaginare...". Il presidente emerito non lo dice in esplicito, ma dal suo ragionamento si evince che qualche dubbio lui l’avrebbe avuto, sulla percorribilità giuridica e politica di un decreto solo apparentemente "interpretativo", ma in realtà effettivamente "innovativo" della legislazione elettorale.
Ora si pone un interrogativo inquietante: questo disastro si poteva evitare? E se sì, chi aveva il potere di evitarlo? Detto più brutalmente: Giorgio Napolitano poteva non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo? Ciampi vuole evitare conflitti con il suo successore, al quale lo lega un rapporto di affetto e di stima: "Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell’irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso "io avrei fatto, io avrei detto...". Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo...". Ma in questa occasione non si può negare che il Quirinale sia dovuto passare per la cruna di un ago particolarmente stretta, e che secondo molti ne sia uscito non proprio al meglio. In rete e sui blog imperversano le critiche: Scalfaro e Ciampi, si legge, non avrebbero mai messo la firma su questo "scempio". Al predecessore di Napolitano questo gioco non piace: "Queste sono cose dette un po’ a sproposito". Come non gli piacciono le rischieste di impeachment che piovono sull’inquilino del Colle dall’Idv: "Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell’interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese...".
Premesso questo, Ciampi non si nega una netta censura politica di quanto è accaduto: "Io credo che la soluzione migliore sarebbe stata quella di rinviare la data delle elezioni. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria una volontà politica che, palesemente, nella maggioranza è mancata. Ma soprattutto io credo che sarebbe stato necessario, prima di tutto, che il governo riconoscesse pubblicamente, di fronte al Paese e al Parlamento, di aver commesso un grave errore. Sarebbe stato necessario che se ne assumesse la responsabilità, chiedendo scusa agli elettori e agli eletti. Da qui si doveva partire: a quel punto, ne sono sicuro, tutti avrebbero lavorato per risolvere il problema, e l’opposizione avrebbe dato la sua disponibilità a un accordo. Bisognava battersi a tutti i costi per questa soluzione della crisi, e inchiodare a questo percorso chi l’aveva causata. Ma purtroppo la maggioranza, ancora una volta, ha deciso di fuggire dalle sue responsabilità, e di forzare la mano". I risultati sono sotto gli occhi di tutti: "Di nuovo, assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all’integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole: questo è il male oscuro e profondo che sta corrodendo l’Italia".
Su questo piano inclinato, dove si fermeranno lo scivolamento civico e lo smottamento repubblicano? "Vede - osserva Ciampi - proprio poco fa stavo rileggendo il De senectute di Cicerone: ci sarebbe bisogno di quella saggezza, di quell’amore per la civiltà, di quell’attenzione al bene pubblico. E invece, se guardiamo alle azioni compiute e ai valori professati da chi ci governa vediamo prevalere l’esatto opposto". Aggressione agli organi istituzionali, difesa degli interessi personali: l’essenza del berlusconismo - secondo l’ex capo dello Stato - "è in re ipsa, cioè sta nelle cose che dice e che fa il presiedente del Consiglio: basta osservare e ascoltare, per rendersi conto di dove sta andando questo Paese". Già qualche mese fa Ciampi aveva rievocato, proprio su questo giornale, l’antico principio della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco sulla felicità dei popoli "ai quali sono più necessari gli ordini che gli uomini", e poi il vecchio motto caro ai fratelli Rosselli, "non mollare", poi rideclinato da Francesco Saverio Borrelli nel celebre "resistere, resistere, resistere".
Oggi l’ex presidente torna su queste "urgenze morali", per ribadire che servono ancora tanti "atti di coraggio", se vogliamo difendere la nostra democrazia e la nostra Costituzione. "I miei sono lì, sono le firme che non ho voluto apporrre su alcune leggi che mi furono presentate durante il settennato, e che successivamente mi sono state rinfacciate in Parlamento, come se si fosse trattato di atti "sediziosi", o decisioni "di parte". E invece erano ispirati solo ai principi del vivere civile in cui ho sempre creduto, e che riposano sulla sintesi virtuosa dei valori e delle istituzioni". Tra i 2001 e il 2006 Ciampi non potè rinviare alle Camere tutte le leggi-vergogna del secondo governo Berlusconi, perché in alcune di esse mancava il vizio della "palese incostituzionalità" che solo può giustificare il diniego di firma da parte del capo dello Stato. Ma dalla riforma Gasparri sul sistema radiotelevisivo alla riforma Castelli sull’ordinamento giudiziario, Ciampi pronunciò alcuni "no" pesantissimi.
Nonostante questo, anche a lui tocca oggi constatare che quella forma di "pedagogia repubblicana", necessaria ma non sufficiente, è servita a poco o a nulla. "Cosa vuole che le dica? Purtroppo questo è il drammatico paesaggio italiano, né bello né facile. E questo è anche il mio più grande rimpianto di vecchio: sulla soglia dei 90 anni, mi accorgo con amarezza che questa non è l’Italia che vagheggiavo a 20 anni. Allora ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti. Oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro. E’ molto triste, per me che sono un nonuagenario. Ma chi è più giovane di me non deve perdersi d’animo, e soprattutto non deve smettere di lottare". Sabato prossimo Ciampi non andrà in piazza, per sfilare in corteo contro il "pasticciaccio" di Berlusconi: "Non ho mai aderito a manifestazioni, e comunque le gambe non mi reggerebbero...", dice. Ma chissà: magari con vent’anni di meno ci sarebbe andato anche lui.
*
m.giannini@repubblica.it
© la Repubblica, 09 marzo 2010
COSTITUZIONE, LINGUA E PAROLA.....
La colpa di chi fa
le leggi per se stesso
di GUSTAVO ZAGREBELSKY *
"Un dio o un uomo, presso di voi, è ritenuto autore delle leggi?" chiede l’Ateniese ai suoi ospiti venuti da Creta e da Sparta. "Un dio, ospite, un Dio! - così come è perfettamente giusto". Queste parole aprono il grande trattato che Platone dedica alle Leggi, i Nòmoi. Il problema dei problemi - perché si dovrebbe obbedire alle leggi - è in tal modo risolto in partenza: per il timor degli Dei. Le leggi sono sacre.
Chi le viola è sacrilego. Tra la religione e la legge non c’è divisione. I giudici sono sacerdoti e i sacerdoti sono giudici, al medesimo titolo. Oggi non è più così. Per quanto si sia suggestionati dalla parola che viene dal profondo della sapienza antica, possiamo dire: non è più così, per nostra fortuna. Abbiamo conosciuto a sufficienza l’intolleranza e la violenza insite nella legge, quando il legislatore pretende di parlare in nome di Dio. Ma, da quella scissione, nasce la difficoltà. Se la legge ha perduto il suo fondamento mistico perché non viene (più) da un Dio, ma è fatta da uomini, perché dovremmo prestarle obbedienza? Perché uomini devono obbedire ad altri uomini? Domande semplici e risposte difficili.
Forse perché abbiamo paura di chi comanda con forza di legge? Paura delle pene, dei giudici, dei carabinieri, delle prigioni? Se così fosse, dovremmo concludere che gli esseri umani meritano solo di esseri guidati con la sferza e sono indegni della libertà. In parte, tuttavia, può essere così. In parte soltanto però, perché nessuno è mai abbastanza forte da essere in ogni circostanza padrone della volontà altrui, se non riesce a trasformare la propria volontà in diritto e l’ubbidienza in dovere. Ma dov’anche regnasse la pura forza, dove regna il terrore, dove il terrorismo è legge dello Stato, anche in questo caso ci dovrà pur essere qualcuno che, in ultima istanza, applica la legge senza essere costretto dalla minaccia della pena, perché è lui stesso l’amministratore delle pene. In breve, molti possono essere costretti a obbedire alla legge: molti, ma non tutti. Ci dovranno necessariamente essere dei costrittori che costringono senza essere costretti. Ci dovrà essere qualcuno, pochi o tanti a seconda del carattere più o meno chiuso della società, per il quale la legge vale per adesione e non per costrizione. In una società democratica, questo "qualcuno" dovrebbe essere il "maggior numero possibile".
Che cosa è, dove sta, da che cosa dipende quest’adesione? Qui, ciascuno di noi, in una società libera, è interpellato direttamente, uno per uno. Se non sappiamo dare una risposta, allora dobbiamo ammettere che seguiamo la legge solo per forza, come degli schiavi, solo perché la forza fa paura. Ma, appena esistono le condizioni per violare la legge impunemente o appena si sia riusciti a impadronirsi e a controllare le procedure legislative e si possa fare della legge quel che ci piace e così legalizzare quel che ci pare, come Semiramìs, che "a vizio di lussuria fu sì rotta, che libito fé licito in sua legge, per tòrre il biasmo in che era condotta" (Inferno, V), allora della legge e di coloro che ancora l’invocano ci si farà beffe.
Possiamo dire, allora, che la forza della legge, se non si basa - sia permesso il banale gioco di parole - sulla legge della forza, si basa sull’interesse? Quale interesse? La moralità della legge come tale, indipendentemente da ciò che prescrive, dovrebbe stare nell’uguaglianza di tutti, nel fatto che ciascuno di noi può rispecchiarvisi come uguale all’altro. "La legge è uguale per tutti" non è soltanto un ovvio imperativo, per così dire, di "giustizia distributiva del diritto". È anche la condizione prima della nostra dignità d’esseri umani. Io rispetto la legge comune perché anche tu la rispetterai e così saremo entrambi sul medesimo piano di fronte alla legge e ciascuno di noi di fronte all’altro. Ci potremo guardare reciprocamente con lealtà, diritto negli occhi, perché non ci sarà il forte e il debole, il furbo e l’ingenuo, il serpente e la colomba, ma ci saranno leali concittadini nella repubblica delle leggi.
Questa risposta alla domanda circa la forza della legge è destinata, per lo più, ad apparire una pia illusione che solo le "anime belle", quelle che credono a cose come la dignità, possono coltivare. È pieno di anime che belle non sono, che si credono al di sopra della legge - basta guardarsi intorno, anche solo molto vicino a noi - e che proprio dall’esistenza di leggi che valgono per tutti (tutti gli altri), traggono motivo e strumenti supplementari per le proprie fortune, economiche e politiche. Sono questi gli approfittatori della legge, free riders, particolarmente odiosi perché approfittano (della debolezza o della virtù civica) degli altri: per loro, "le leggi sono simili alle ragnatele; se vi cade dentro qualcosa di leggero e debole, lo trattengono; ma se è più pesante, le strappa e scappa via" (parole di Solone; in versione popolare: "La legge è come la ragnatela; trattiene la mosca, ma il moscone ci fa un bucone"). Anche per loro c’è interesse alla legalità, ma la legalità degli altri. Poiché gli altri pagano le tasse, io, che posso, le evado. Poiché gli altri rispettano le procedure per gli appalti, io che ho le giuste conoscenze, vinco la gara a dispetto di chi rispetta le regole; io, che ho agganci, approfitto del fatto che gli altri devono attendere il loro turno, per passare per primo alla visita medica che, forse, salva la mia vita, ma condanna quella d’un altro; io, che posso manovrare un concorso pubblico, faccio assumere mio figlio, al posto del figlio di nessuno che, poveretto, è però più bravo del mio; io, che ho il macchinone, per far gli affari miei sulla strada, approfitto dei divieti che chi ha la macchinina rispetta; io, che posso farmi le leggi su misura, preparo la mia impunità nei casi in cui, altrui, vale la responsabilità.
L’ultimo episodio della vita di Socrate, alle soglie dell’autoesecuzione (la cicuta) della sentenza dell’Areopago che l’aveva condannato a morte, è l’incontro con Le Leggi. Le Leggi gli parlano. Qual è il loro argomento? Sei nato e hai condotto la tua vita con noi, sotto la nostra protezione nella città. Noi ti abbiamo fatto nascere, ti abbiamo cresciuto, nutrito ed educato, noi ti abbiamo permesso d’avere moglie e figli che cresceranno come te con noi. Tutto questo con tua soddisfazione. Infatti, non te ne sei andato altrove, come ben avresti potuto. E ora, vorresti ucciderci, violandoci, quando non ti fa più comodo? Così romperesti il patto che ci ha unito e questo sarebbe l’inizio della rovina della città, le cui leggi sarebbero messe nel nulla proprio da coloro che ne sono stati beneficiati.
Le Leggi platoniche, parlando così, chiedono ubbidienza a Socrate in nome non della paura né dell’interesse, ma per un terzo motivo, la riconoscenza. Il loro discorso, però, ha un presupposto: noi siamo state leggi benigne con te. Ma se Le Leggi fossero state maligne? Se avessero permesso o promosso l’iniquità e non avessero impedito la sopraffazione, avrebbero potuto parlare così? Il caso non poteva porsi in quel tempo, quando le leggi - l’abbiamo visto all’inizio - erano opera degli Dei. Oggi, sono opera degli uomini. Dagli uomini esse dipendono e dagli uomini dipende quindi se possano o non possano chiedere ubbidienza in nome della riconoscenza.
Certo: abbiamo visto che l’esistenza delle leggi non esclude che vi sia chi le sfrutta e viola per il proprio interesse, a danno degli altri. Ma il compito della legge, per poter pretendere obbedienza, è di contrastare l’arroganza di chi le infrange impunemente e di chi, quando non gli riesce, se ne fa una per se stesso. Se la legge non contrasta quest’arroganza o, peggio, la favorisce, allora non può più pretendere né riconoscenza né ubbidienza. Il disprezzo delle leggi da parte dei potenti giustifica analogo disprezzo da parte di tutti gli altri. L’illegalità, anche se all’inizio circoscritta, è diffusiva di se stessa e distruttiva della vita della città. Tollerarla nell’interesse di qualcuno non significa metterla come in una parentesi sperando così che resti un’eccezione, ma significa farne l’inizio di un’infezione che si diffonde tra tutti.
Qui è la grande responsabilità, o meglio la grande colpa, che si assumono coloro che fanno leggi solo per se stessi o che, avendo violate quelle comuni, pretendono impunità. Contrastare costoro con ogni mezzo non è persecuzione o, come si dice oggi, "giustizialismo", ma è semplicemente legittima difesa di un ordine di vita tra tutti noi, di cui non ci si debba vergognare.
Questo testo sarà letto stasera da Gustavo Zagrebelsky
al Teatro della Corte di Genova, nel corso
del primo incontro del ciclo "Fare gli italiani - Grandi Parole alla ricerca
dell’identità nazionale"
© la Repubblica, 01 marzo 2010
Dopo la frase sui pm "talebani", lettera del presidente della Repubblica a Mancino
Il vicepresidente del Csm: "E’ necessario impegnarsi in un confronto civile e rispettoso"
Giustizia, Napolitano al premier:
"Basta polemiche e accuse pesanti"
Bersani contro Berlusconi: "Sui giudici ormai sragiona"
L’Idv: "Non possiamo accettare che i magistrati siano offesi. Siamo al golpe" *
ROMA - Dopo l’attacco di Berlusconi ai giudici che il premier ha definito "talebani", il presidente della Repubblica con una lettera inviata al vicepresidente del Csm Mancino interviene perché vengano evitate "in tema di giustizia esasperazioni polemiche e accuse pesanti tra parti politiche, istituzioni, poteri e organi dello Stato". Invito che Mancino accoglie con sollievo, sottolineando come "il forte ed autorevole messaggio del presidente della Repubblica esorta tutte le istituzioni a guardare oltre i confini delle rispettive competenze e a impegnarsi in un confronto civile e rispettoso rivolto a realizzare il bene comune in un momento tanto difficile per il nostro Paese". Protesta anche l’opposizione: il segretario del Pd Pierluigi Bersani definisce quelle del premier "frasi inaccettabili".
La lettera di Napolitano. Nella lettera inviata a Mancino Napolitano esprime il "vivissimo auspicio che prevalga in tutti il senso della responsabilità e della misura, e che in particolare nelle prossime occasioni di dibattito, sotto la sua guida, nel Consiglio Superiore della Magistratura l’attenzione si concentri su segni positivi che pure si sono registrati, anche in Parlamento, di maggiore ascolto fra esigenze e posizioni diverse".
"Anche la causa delle riforme necessarie per rendere più efficiente, al servizio dei cittadini, l’amministrazione della giustizia in un quadro di corretti rapporti istituzionali, non può trarre alcun giovamento - sottolinea napolitano - da esasperazioni polemiche, da accuse quanto mai pesanti che feriscono molti e che possono innescare un clima di repliche fuorvianti: clima nel quale la magistratura associata apprezzabilmente dichiara di non voler farsi trascinare".
"Sarà questo il modo migliore di essere vicini a tutti i magistrati - conclude il Capo dello Stato - che sono impegnati con scrupolo e imparzialità nell’accertamento e nella sanzione di violazioni di legge da cui traggono forza la criminalità organizzata e la corruzione".
La risposta di Mancino. "Non nasconde il Capo dello Stato - sottolinea Mancino nella lettera di risposta a Napolitano - il rischio di drastiche contrapposizioni tra le forze politiche e di ritorsioni esasperate. Anche un linguaggio più sobrio e austero può, infatti, aiutare a far prevalere un clima di dialogo costruttivo rispetto a tentazioni o a repliche giustamente definite fuorvianti"
Le proteste dell’opposizione. Contro le parole di Berlusconi insorge anche l’opposizione. Duro il segretario del Pd Pierluigi Bersani. "Penso - ha detto - quello che pensa una persona normale. Ormai siamo alle sparate, si sragiona. E’ preoccupante, sono frasi inaccettabili". "Dire che ormai ci siamo abituati, no - ha aggiunto Bersani - perché restano inaccettabili. Credo che veramente gli italiani debbano cominciare a pensare come andare oltre questa fase. Noi non possiamo essere tutti i giorni dentro a questa vicenda. Abbiamo un sacco di problemi, siamo davanti a fabbriche che chiudono. Non possiamo parlare sempre di Berlusconi e delle sue beghe coi magistrati". "E questa - ha ripetuto il segretario Pd - è una responsabilità che lui porta: mettere sempre al centro se stesso e le sue questioni". Bersani ha ricordato che "c’è un appuntamento elettorale. Non chiedo che il governo venga mandato a casa, ma chiedo che i cittadini mandino una letterina al governo per dire basta, cerchiamo di occuparci dei problemi nostri".
Ancor più allarmato l’Idv che parla per bocca del suo portavoce Leoluca Orlando. "Non possiamo accettare - dice - che i magistrati che amministrano la giustizia in nome del popolo italiano siano offesi solo perché svolgono con onestà il proprio dovere. Ci rivolgiamo al presidente della Repubblica, nella sua veste di garante della costituzione e dell’equilibrio dei poteri, nonché di presidente del consiglio superiore della magistratura, affinché difenda l’onorabilità delle toghe". "Siamo al golpe - avverte il portavoce di Idv - ad opera di un politico corruttore a capo di una banda di lestofanti e di rappresentanti nelle istituzioni di mafia, camorra e ’ndrangheta. Della banda di talebani fanno parte i corrotti, i corruttori, coloro che ridevano nel letto durante il terremoto dell’aquila e tutti coloro che, sentendosi al di sopra della legge, usano le istituzioni per far soldi a sfregio della costituzione e umiliando tutti i cittadini onesti".
* la Repubblica, 27 febbraio 2010
Dal vertice della Corte Costituzionale, una difesa contro gli attacchi del
centrodestra all’indomani della sentenza che negava legittimità al ’lodo Alfano’
Il presidente della Consulta Francesco Amirante: "E’ bizzarro stupirsi per la bocciatura di una legge" *
ROMA - Il presidente della Corte Costituzionele, Francesco Amirante, difende la Consulta dagli attacchi provenienti dal centrodestra all’indomani della bocciatura del cosiddetto ’lodo Alfano’. E dice: "Quando una Corte o un Tribunale costituzionale dichiara l’illegittimità di una legge non compie nulla di strano, o peggio di illegittimo, ma emette una decisione che rientra nello svolgimento del principale dei suoi compiti istituzionali. Forse ora la vera bizzarria potrebbe consistere nel meravigliarsene".
Senza mai citare quella sentenza, Amirante - nella sua relazione, in occasione del tradizionale incontro di inizio d’anno con la stampa - ricorda che anche tra i Costituenti, comunisti e liberali, ci fu chi "ritenne una ’bizzarria’ la sola ipotesi che quindici persone, non elette direttamente dal popolo, potesse porre nel nulla una legge emanata dal Parlamento". Tuttavia - fa subito notare - "sta di fatto che tale bizzarria esiste da oltre mezzo secolo ed è ormai condivisa dalla quasi totalità dei Paesi europei e da molti Stati extraeuropei". E dunque, "è singolare che ciò non venga compreso da molti di coloro che si richiamano alla tradizione e che, non ben considerando la specificità della Corte costituzionale tra le istituzioni, incorrono in fraintendimenti della valutazione del suo operato". A tale proposito, Amirante rivolge un "grato pensiero" al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che "in numerose occasioni ha sottolineato la peculiarità e il rilievo di garanzia della Corte Costituzionale".
La ’bizzarria’ dell’Italia è ormai comune a molti altri paesi europeo. Amirante cita, ad esempio, il caso della Francia dove, fino al febbraio 2008, era previsto solamente il controllo preventivo sulle leggi da parte del Consiglio costituzionale, mentre ora è stato introdotto anche il controllo successivo, "così superando il moto giacobino che attribuiva soltanto all’assemblea il potere di porre nel nulla una legge". Analogo è poi il caso della Corte suprema di giustizia entrata in funzione nel Regno Unito nell’ottobre 2009.
"Tutto questo conferma che - sottolinea il presidente della Consulta - è ormai fortemente sentita da più parti l’esigenza di organi indipendenti preposti a garantire il rispetto dei diritti e doveri sanciti dalla Costituzione e dalle altre regole in essa previste per assicurare l’equilibrio tra poteri. E’ altresì condivisa l’idea - aggiunge - che si debba trattare di organi giuridici e non politici, proprio per fare in modo che le relative decisioni possano avere la virtù della persuasione e non siano invece ’lievito di discordie civili’, secondo la felice espressione dei nostri Padri costituenti".
Poi, in riferimento al continuo contenzioso fra Stato e Regioni, il presidente della Corte Costituzionale ha aggiungo: "La frequenza delle controversie tra Stato e Regioni, con ripetuti ricorsi alla Corte Costituzionale, rappresentano ’’un contenzioso che nelle sue dimensioni presenta, di per sé, un qualcosa di patologico’’.
* la Repubblica, 25 febbraio 2010
La democrazia al tempo delle emergenze
di Francesca Rigotti (l’Unità, 16 febbraio 2010)
Nel 1979 il filosofo ebreo tedesco Hans Jonas, emigrato negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni razziali, pubblicò un libro che sarebbe divenuto una pietra miliare nel campo dell’etica pubblica: «Il principio di responsabilità».
Aveva fretta di scrivere, Jonas, perché sapeva di essere vecchio e aveva paura che il tempo non gli bastasse (oddio, aveva l’età che ha ora il pluriliftato, trapiantato, tinto e truccato presidente del consiglio italiano, ma una considerazione di sé evidentemente più realistica e meno vanesia).
Decise quindi, per scrivere più velocemente, di tornare al tedesco dopo quarant’anni di frequentazione scritta e parlata dell’inglese, e mise giù, in una lingua un po’ arcaica quanto impeccabile, i suoi pensieri sul tema della responsabilità da parte degli uomini nei confronti dei loro simili, delle generazioni future, dell’ambiente, dell’intero pianeta, di fronte ai problemi dell’età della tecnica. Uno dei punti che Jonas affronta è proprio come reagire alle catastrofi, naturali o indotte, chiedendosi a chi spetta prendere decisioni e sulla base di quali principi. Ora, chi si occupa di questi problemi da un punto di vista teoretico sa bene che le catastrofi chiedono spesso una reazione rapida e risposte veloci ma non isteriche che si traducano in azioni efficaci. Sa anche, tuttavia, che la democrazia non è la forma di governo della velocità e nemmeno quella della segretezza. La democrazia richiede deliberazioni riflesse e ponderate nonché trasparenza di metodi.
Come conciliare dunque il tempo della riflessione con il tempo dell’azione senza che il sistema assuma tratti dittatoriali? Come conciliare l’efficienza dell’intervento con la giustizia dei principi e il rispetto della trasparenza? Il problema non è di facile soluzione: esso ha bisogno, avrebbe detto Gramsci, di tutta la nostra intelligenza. C’è bisogno che ci organizziamo con tutta la nostra forza per creare forme di democrazia partecipativa, non paternalistica, per predisporre strutture di sorveglianza preventiva e di pronto intervento in caso di incidenti di varia natura e livello; per rispondere in prima persona - questa è responsabilità, direbbe Jonas - guidati da leggi che favoriscano l’impegno civico più che l’assistenza dall’alto.
Occorre assumersi la responsabilità, dimettersi se lo dice la coscienza e non se lo ordina il capo, ridersela di atteggiamenti tipo la luce accesa di notte a Palazzo Venezia a significare «dormite tranquilli, ghe pensi mi». No grazie, ci pensiamo noi che siamo intelligenti e forti.
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
Emergenza nazionale
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 30/1/2010)
Fra politica e magistratura sono tempi di grande tensione. Ma ieri, all’inaugurazione solenne dell’anno giudiziario in Cassazione davanti al parterre delle alte cariche dello Stato, i toni sono stati misurati e composti. È bene che sia stato così, anche se i problemi esistono, sono profondi e non sono certamente le chiacchierate di un mattino a dissiparli.
Il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Cassazione hanno pronunciato parole condivisibili. Sullo sfondo vi era, ovviamente, il tema del «processo breve» appena votato in Senato dalla maggioranza con l’intento di salvaguardare il premier dai processi in corso. Entrambi i due alti magistrati hanno sottolineato che un processo rapido costituisce, comunque, esigenza imprescindibile di ogni società civile. Ma hanno soggiunto che l’obiettivo non può essere conseguito tramite leggi di giornata, asfittiche e di corto raggio; deve essere invece perseguito attraverso riforme organiche di vasto respiro, accompagnate da un potenziamento delle risorse umane e materiali destinate all’esercizio della giurisdizione.
Parole ineccepibili, che il mondo del diritto pronuncia da anni, ma che, per anni, sono state ignorate dalla politica che, giorno dopo giorno, ha lasciato che la giustizia s’impoverisse. Ha ragione il Primo Presidente a denunciare l’intollerabilità di una situazione che, nella gerarchia mondiale in materia di giustizia, vede l’Italia solo al centocinquantesimo posto, al pari del Gabon, della Guinea e dell’Angola. Ma occorre ricordare che, se ciò è capitato, è soprattutto colpa di chi, al governo e in Parlamento, a tutto ha pensato tranne che a rendere efficiente la macchina giudiziaria dotandola, per legge, dei mezzi e degli strumenti necessari.
Ed occorre, ulteriormente, ricordare, ancora una volta con le parole del Primo Presidente, che senza un disegno riformatore di ampio respiro della legislazione penale e dell’organizzazione giudiziaria sarebbe vano pretendere di «imporre ex lege una risposta di giustizia che possa in concreto essere breve ed efficace a fronte di un crescente carico di domanda». In altre parole, prescrivere per legge un processo breve senza dotare gli addetti dei mezzi e degli strumenti idonei a rispettare i tempi stabiliti, significa introdurre, semplicemente, una mannaia destinata a cancellare processi, condanne, soluzioni giudiziarie. Un disastro ulteriore, e forse definitivo.
Il ministro della Giustizia, stando alle notizie di agenzia, ha cercato di abbozzare, riconoscendo che la condizione della giustizia italiana, specie di quella civile, costituisce «una vera e propria emergenza nazionale», ed annunciando «un piano straordinario di smaltimento delle pendenze». In realtà, sarebbe necessario un progetto complessivo di intervento sui codici civili e penali, sugli organici del personale giudiziario, sulla distribuzione delle sedi giudiziarie, sulla copertura dei posti vacanti. Non un intervento straordinario, ma un ordinario, serio, riassetto globale del sistema legislativo e giudiziario.
Un’ultima annotazione. Sempre il ministro, in un unico accenno leggermente polemico in una giornata «pacificante» ricca di composto equilibrio istituzionale, ha dichiarato di avere rispetto per l’indipendenza dell’ordine giudiziario, ma ha sottolineato che «i giudici sono soggetti alla legge» e che «la legge la fa il Parlamento libero, democratico, espressione del popolo italiano», quello stesso popolo italiano in nome del quale i giudici pronunciano le loro sentenze.
Anche questa è annotazione, di per sé, assolutamente condivisibile, costituendo, ciò che è stato detto, fotografia della divisione dei poteri propria dello Stato di diritto. Occorre tuttavia ricordare, al ministro e a noi tutti, che il Parlamento, nel legiferare, è sovrano, ma è, comunque, tenuto a rispettare la Costituzione (cosa sovente dimenticata in questi ultimi tempi). Nel dibattito di ieri in Cassazione è stato d’altronde ignorato un profilo di grande importanza. Si è parlato ampiamente della necessità di riformare con legge ordinaria la giustizia penale e civile per renderla efficiente (cosa sulla quale sono tutti, bene o male, a parole d’accordo); si è però taciuto sulle ventilate riforme costituzionali attraverso le quali una parte consistente del personale dei partiti intenderebbe rimodulare i rapporti di potere fra politica e magistratura.
È, questo, un profilo di grandissima delicatezza. Non si vorrebbe infatti che, con la scusa del riequilibrio fra i poteri dello Stato, si intendesse in realtà proteggere in modo abnorme il mondo politico intriso di malaffare. La speranza è che il clima con il quale il tema della giustizia ordinaria è stato affrontato ieri nell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione consenta di affrontare con altrettanta distensione anche quello, assai meno pacifico, che concerne la ventilata riforma costituzionale. Per intanto si attende con una certa apprensione che cosa accadrà, oggi, nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario in ciascuna sede di Corte d’Appello.
Napolitano in Calabria, trovata auto con armi
Vicino all’aeroporto, all’interno anche esplosivo *
REGGIO CALABRIA - Attimi di tensione durante la visita del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a Reggio Calabria. Un’auto contenente armi, esplosivo e alcuni passamontagna è stata trovata nella zona dell’aeroporto anche se, secondo i Carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria l’episodio non avrebbe nessun collegamento con la visita del capo dello Stato. L’auto è stata individuata da una pattuglia intorno alle 12.30 in via Ravagnese, regolarmente parcheggiata, ma non chiusa e con un finestrino semi aperto. La vettura, una Fiat Marea nera, era stata rubata nei giorni scorsi a Reggio Calabria. All’interno i carabinieri hanno trovato due fucili semiautomatici da caccia calibro 12 con le canne tagliate. Poi, sotto il sedile del guidatore sono state trovate due pistole, una calibro 7.65 ed una 38 a tamburo, e due ordigni rudimentali, un composto da un tubo lungo una trentina di centimetri e largo 12 ed un altro di 15 centimetri per 12, collegati con una miccia a lenta combustione e tre passamontagna di colore verde. Nel bagagliaio, infine, è stata trovata una tanica da due litri con liquido infiammabile alla quale erano attaccati fiammiferi antivento. Secondo i carabinieri, gli ordigni e le armi, con ogni probabilità, dovevano servire a compiere attentati di intimidazione nei confronti di commercianti o imprenditori.
GLI INVESTIGATORI, NON ESCLUSO SEGNALE ALLO STATO Non è da escludere che la macchina con esplosivo e armi "fatta trovare su segnalazione di una fonte confidenziale, proprio stamattina quando Reggio Calabria era presidiata dagli uomini delle forze dell’ordine per la visita del Presidente Napolitano, sia un segnale di minaccia e intimidazione nei confronti dello Stato". L’analisi arriva da fonti investigative dell’antimafia. Si tratterebbe - spiegano - di "una sorta di crisi di nervi della ’ndrangheta che, comunque, anche se non ha ancora deciso di alzare il tiro, manda un messaggio: ’non intendiamo fermarcì di fronte all’azione di contrasto messa in campo dal governo, dalla magistratura, dalle forze di polizia".
UNA TELEFONATA ANONIMA HA SEGNALATO LA PRESENZA DELL’AUTO A sostegno di questa analisi ci sarebbero diversi elementi - proseguono le fonti dell’antimafia - come "il fatto che la macchina sia stata rubata proprio stamattina", una circostanza che "esclude l’ipotesi della rapina", e poi "il ritrovamento di una tanica di benzina con micce ed esplosivi fa chiaramente pensare all’intimidazione, e la telefonata della fonte confidenziale è il gesto di sfida di chi vuol far sapere ’vedete, riusciamo a piazzarvi sotto il naso una macchina con esplosivo nonostante tutta la citta’ sia presidiata da poliziotti, carabinieri e finanzierì". "Forse in un primo momento si è voluto minimizzare questo ’ritrovamento’ - concludono le fonti - per non ammettere che nel sistema di sicurezza qualche ’smagliatura’ c’é stata".
IMMIGRAZIONE: NAPOLITANO, SERVONO ORDINE E LEGALITA’ Per governare il fenomeno dell’immigrazione ed evitare scoppi di violenza come quelli di Rosarno, occorrono "ordine e legalità", garantire i flussi di ingresso legale, lavorare per una effettiva integrazione degli immigrati, che è compito degli enti locali "ai quali lo Stato deve fornire risorse sufficienti", ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano definendo "molto positivo" l’impegno dimostrato dal governo "in questi giorni" per fronteggiare questi fenomeni e quelli legai alla criminalità organizzata.
A Rosarno - ha aggiunto il Capo dello Stato - sono accadute cose brutte, pesanti. Uno scoppio di insofferenza che ha mostrato il peggio di cio’ che si era accumulato nell’animo dei cittadini e degli immigrati. E’ nostra responsabilita’ collettiva di rapresentanti dello Stato non aver saputo prevenire cio’ che avremmo dovuto prevenire. Ora dobbiamo evitare che si ripeta e respingere luoghi comuni e pregiudizi che indicano la Calabria come luogo di intolleranza e di razzismo’’.
’’Noi rappresentanti dello Stato non dobbiamo fare fugaci apparizioni in Calabria - ha continuato il Capo dello Stato - ma sviluppare un impegno sistematico contro la ’ndrangheta e per affermare la legalita’’’.
La battaglia condotta "con intelligenza, tenacia e preofessionalità" dalla magistratura calabrese contro la ’ndrangheta ’’segna una svolta che promette molto bene per il futuro della Calabria. Stiamo vivendo una pagina nuova nella storia di questa regione", ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano esprimendo piena solidarietà al procuratore generale Salvatore Di Landro, e ai procuratori di Reggio Calabria, Giuseppe Pignatone, e di Palmi,Giuseppe Creazzo per lo sventato attentato alla Procura Generale, che il capo dello stato ha definito "aggressione brutale".
’Pm come Tartaglia’: interviene il Csm
Parole Berlusconi in dossier a tutela magistrati gia’ attaccati dal premier *
ROMA - Il Csm si occuperà delle frasi pronunciate ieri dal presidente del Consiglio, che ha paragonato "l’aggressione" giudiziaria nei suoi confronti a quella fisica subita in piazza Duomo a Milano per mano di Tartaglia. La prima commissione di Palazzo dei Marescialli ha infatti deciso di acquisire i giornali che riportano le dichiarazioni di Berlusconi e di inserirle nell’ampia pratica a tutela di magistrati oggetto in passato di accuse rivolte dal premier. Questo fascicolo pende da tempo e riguarda in particolare i giudizi espressi dal presidente del Consiglio sui magistrati delle Procure di Palermo e di Milano che hanno riaperto le indagini sulle stragi mafiose e sui giudici del processo Mills.
Berlusconi, parlando ieri dopo la riunione del Consiglio dei ministri, ha definito le aggressioni giudiziarie "parificabili a quelle di piazza del Duomo, se non peggio’’.’’Mi attaccano sul piano della persona con la ’character assassination’ che e’ stata messa in campo - ha detto ancora Berlusconi riferendosi ora a un ambito più generale -, mi attaccano sul piano patrimoniale, ora non gli resta che attaccarmi sul piano fisico, come hanno iniziato a fare, ma - ha avvertito - ’non praevalebunt’’’.
Sempre parlando di giustizia il Presidente del Consiglio ha annunciato che il governo ’’riproporra’ l’inappellabilita’ delle sentenze di primo grado nella riforma della giustizia che stiamo esamindando’’. Per quanto riguarda la riforma fiscale, ha invece parlato di tempi lunghi. Per ora - ha detto - la crisi non consente una riduzione delle tasse.
Di giustizia e molto altro, Berlusconi parlera’ oggi in un faccia a faccia con il presidente della Camera Gianfranco Fini, durante una colazione in programma a Montecitorio. All’ordine del giorno anche una ricognizione su equilibri nel Pdl, agenda di governo, regionali, innesti nel governo di nuovi sottosegretari, alleanze con l’Udc.
Processo breve, il Csm: è incostituzionale. E’ un’amnistia *
Il plenum del Csm ha approvato a larga maggioranza il parere della sesta Commissione che giudica il ddl sul processo breve in contrasto con più principi costituzionali e un’«amnistia» per reati «di considerevole gravità», a cominciare dalla corruzione.
Misure «dannosissime» che rischiano di avere l’effetto di uno «tsunami» per la giustizia, per questo, dopo quasi cinque ore di dibattito, il plenum del Csm ha approvato il parere fortemente negativo sul Ddl in materia di processo breve. L’assemblea del Consiglio Superiore della Magistratura ha approvato a larghissima maggioranza il documento, con i soli voti contrari dei due laici del Pdl Ginafranco Anedda e Michele Saponara.
* l’Unità, 14 dicembre 2009
Se l’Italia fosse Bologna
di Carlo Lucarelli (l’Unità, 8 gennaio 2010)
Ultimamente per una serie di motivi, anche letterari, mi capita di incontrare, sia in Italia che all’estero, molte persone che vengono dall’Eritrea.
Tutte le volte che mi chiedono dove abito io rispondo, per semplificare, che sto in un paese vicino a Bologna e quando lo dico - dico quella parola, Bologna - il mio interlocutore fa subito un sorriso e un cenno di assenso, anche se magari, a Bologna, non c’è mai stato. Bologna, mi dicono, è stata molto importante per gli eritrei durante gli anni in cui il loro paese era impegnato a combattere per l’indipendenza dall’Etiopia del regime sanguinario di Menghistu in una guerra che è durata trent’anni.
A Bologna molti fuoriusciti avevano trovato rifugio e ogni anno si teneva una grande festa, una specie di festival, che riuniva gli eritrei come in una seconda patria.
Oggi quella festa non c’è più e Bologna forse è meno importante in quel senso, ma il ricordo positivo di quel suono - Bologna! - è rimasto e quando dici ad un eritreo - anche negli Stati Uniti, come mi è capitato - che sei di quella città hai subito l’impressione di stargli più simpatico.
E siccome è una gran bella sensazione quella di stare istintivamente simpatico a qualcuno - perché è sempre molto più gratificante essere amati che odiati - ed è anche un buon punto di partenza per qualunque cosa, a me piacerebbe che anche quando dico che sono italiano chi mi sta davanti faccia lo stesso sorriso e lo stesso cenno di assenso.
Perché in Italia c’è stato bene - come turista, come lavoratore, come rifugiato, come persona e basta - e che per questo, guarda un po’ gli sto subito più simpatico.
LA LETTERA.
Il direttore generale della Luiss
avremmo voluto che l’Italia fosse diversa e abbiamo fallito
"Figlio mio, lascia questo Paese"
di PIER LUIGI CELLI *
Figlio mio, stai per finire la tua Università; sei stato bravo. Non ho rimproveri da farti. Finisci in tempo e bene: molto più di quello che tua madre e io ci aspettassimo. È per questo che ti parlo con amarezza, pensando a quello che ora ti aspetta. Questo Paese, il tuo Paese, non è più un posto in cui sia possibile stare con orgoglio.
Puoi solo immaginare la sofferenza con cui ti dico queste cose e la preoccupazione per un futuro che finirà con lo spezzare le dolci consuetudini del nostro vivere uniti, come è avvenuto per tutti questi lunghi anni. Ma non posso, onestamente, nascondere quello che ho lungamente meditato. Ti conosco abbastanza per sapere quanto sia forte il tuo senso di giustizia, la voglia di arrivare ai risultati, il sentimento degli amici da tenere insieme, buoni e meno buoni che siano. E, ancora, l’idea che lo studio duro sia la sola strada per renderti credibile e affidabile nel lavoro che incontrerai.
Ecco, guardati attorno. Quello che puoi vedere è che tutto questo ha sempre meno valore in una Società divisa, rissosa, fortemente individualista, pronta a svendere i minimi valori di solidarietà e di onestà, in cambio di un riconoscimento degli interessi personali, di prebende discutibili; di carriere feroci fatte su meriti inesistenti. A meno che non sia un merito l’affiliazione, politica, di clan, familistica: poco fa la differenza.
Questo è un Paese in cui, se ti va bene, comincerai guadagnando un decimo di un portaborse qualunque; un centesimo di una velina o di un tronista; forse poco più di un millesimo di un grande manager che ha all’attivo disavventure e fallimenti che non pagherà mai. E’ anche un Paese in cui, per viaggiare, devi augurarti che l’Alitalia non si metta in testa di fare l’azienda seria chiedendo ai suoi dipendenti il rispetto dell’orario, perché allora ti potrebbe capitare di vederti annullare ogni volo per giorni interi, passando il tuo tempo in attesa di una informazione (o di una scusa) che non arriverà. E d’altra parte, come potrebbe essere diversamente, se questo è l’unico Paese in cui una compagnia aerea di Stato, tecnicamente fallita per non aver saputo stare sul mercato, è stata privatizzata regalandole il Monopolio, e così costringendo i suoi vertici alla paralisi di fronte a dipendenti che non crederanno mai più di essere a rischio.
Credimi, se ti guardi intorno e se giri un po’, non troverai molte ragioni per rincuorarti. Incapperai nei destini gloriosi di chi, avendo fatto magari il taxista, si vede premiato - per ragioni intuibili - con un Consiglio di Amministrazione, o non sapendo nulla di elettricità, gas ed energie varie, accede imperterrito al vertice di una Multiutility. Non varrà nulla avere la fedina immacolata, se ci sono ragioni sufficienti che lavorano su altri terreni, in grado di spingerti a incarichi delicati, magari critici per i destini industriali del Paese. Questo è un Paese in cui nessuno sembra destinato a pagare per gli errori fatti; figurarsi se si vorrà tirare indietro pensando che non gli tocchi un posto superiore, una volta officiato, per raccomandazione, a qualsiasi incarico. Potrei continuare all’infinito, annoiandoti e deprimendomi.
Per questo, col cuore che soffre più che mai, il mio consiglio è che tu, finiti i tuoi studi, prenda la strada dell’estero. Scegli di andare dove ha ancora un valore la lealtà, il rispetto, il riconoscimento del merito e dei risultati. Probabilmente non sarà tutto oro, questo no. Capiterà anche che, spesso, ti prenderà la nostalgia del tuo Paese e, mi auguro, anche dei tuoi vecchi. E tu cercherai di venirci a patti, per fare quello per cui ti sei preparato per anni.
Dammi retta, questo è un Paese che non ti merita. Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.
Adesso che ti ho detto quanto avrei voluto evitare con tutte le mie forze, io lo so, lo prevedo, quello che vorresti rispondermi. Ti conosco e ti voglio bene anche per questo. Mi dirai che è tutto vero, che le cose stanno proprio così, che anche a te fanno schifo, ma che tu, proprio per questo, non gliela darai vinta. Tutto qui. E non so, credimi, se preoccuparmi di più per questa tua ostinazione, o rallegrarmi per aver trovato il modo di non deludermi, assecondando le mie amarezze.
Preparati comunque a soffrire.
Con affetto,
tuo padre
L’autore è stato direttore generale della Rai. Attualmente è direttore generale della Libera Università internazionale degli studi sociali, Luiss Guido Carli.
*la Repubblica, 30 novembre 2009
Procedura inusuale del capo dello Stato che ha convocato i giornalisti
al termine di una cerimonia al Quirinale: "Sento il bisogno di parlare"
Napolitano: "Le toghe non travalichino"
Anm: "Ma noi vogliamo parlare" *
ROMA - Imporre uno stop, nell’interesse della nazione, alla spirale di polemiche e tensioni sempre più drammaticizzata non solo fra partiti ma addirittura fra istituzioni, tenendo presente che "niente può far cadere un governo se ha la fiducia del Parlamento" e se conta su una maggioranza coesa. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha lanciato un vero e proprio appello alla politica italiana. E lo ha fatto dal Quirinale, con una dichiarazione non priva di toni allarmati. Che provoca la reazione dell’Anm. "Non siamo in guerra ma non vogliamo aggressioni" dice il presidente Luca Palamara.
Le parole di Napolitano rispondono punto per punto alle preoccupazioni manifestate da più parti nei rapporti tra politica e giustizia e anche ai timori del premier, Silvio Berlusconi, che ieri, durante l’ufficio di presidenza del Pdl, ha lamentato che la magistratura voglia "abbattere il suo governo ".
La dichiarazione del presidente della Repubblica è avvenuta nella sala di rappresentanza del Colle con una procedura, sinora inedita, che testimonia la preoccupazione del capo dello Stato per lo scontro in atto nel Paese. Al termine dell’udienza con l’Anmil, l’Associazione nazionale dei mutilati ed invalidi del lavoro, i giornalisti vengono raccolti nella sala di rappresentanza. Pochi minuti dopo, anche Napolitano ha raggiunto la sala per leggere la sua dichiarazione. Poche parole per motivarne l’urgenza: "Sento il bisogno di dire qualcosa in questo particolare momento. L’interesse del Paese richiede che si fermi la spirale di una crescente drammatizzazione, cui si sta assistendo, delle polemiche e delle tensioni non solo tra opposte parti politiche ma tra istituzioni investite di distinte responsabilità costituzionali".
"Va ribadito - aggiunge il presidente - che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto dai cittadini-elettori il consenso necessario per governare. E’ indispensabile che da tutte le parti venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche, e che quanti appartengono alla istituzione preposta all’esercizio della giurisdizione, si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione".
"E spetta al Parlamento - conclude Napolitano - esaminare, in un clima più costruttivo, misure di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia".
Le reazioni. Di "parole sagge" parla il presidente del Senato Renato Schifani, mentre Gianfranco Fini apprezza il messaggio del capo dello Stato e sottolinea come vada letto e apprezzato "nella sua totalità". Anche Umberto Bossi accoglie l’invito ad abbassare i toni: "Bisogna stare più tranquilli". Chi, invece, si smarca è Antonio Di Pietro: "Non posso però esimermi dal riaffermare che i magistrati, quando lamentano l’impossibilità di potere svolgere il proprio lavoro per colpa di norme criminogene che vengono emanate da questo Parlamento, non possono essere zittiti". Il presidente del Pd Rosy Bindi, invece, chiama in causa chi "continua a lanciare accuse di eversione o a parlare di guerra civile". Ovvero il premier. "Berlusconi dovrebbe verificare che, dopo le parole da lui stesso pronunciate contro esponenti del suo partito, sia ancora così solida" chiude Rosy Bindi. Per il leader dell’Udc Pierferdinando Casini si tratta di "un doppio monito che vale per tutti coloro che in questi giorni ingiustamente hanno fatto polemiche dissennate contro i vertici delle istituzioni, anche contro il Capo dello Stato".
* la Repubblica, 27 novembre 2009
Appello
Alziamo le nostre coscienze e tiriamo su la nostra schiena
di Paolo Farinella, prete *
Il governo e la maggioranza hanno valicato ogni ritegno: ormai delinquono in pubblico e in tv apertamente al grido minaccioso di «Salvare Berlusconi ad ogni costo». Il parlamento chiuso si riapre per approvare una leggina che metta al sicuro Berlusconi dai «suoi processi» e non importa se questa leggina non solo annienta gli scandali di truffa, falso in bilancio, bancarotta, ecc. ma annulla il diritto di milioni di cittadini che hanno diritto ad una sentenza ed eventualmente ad un risarcimento. Con questa legge che riduce solo i tempi dei processi, senza dare personale, strumenti e mezzi per accelerarli, si consuma la supremazia definitiva del sopruso sul diritto, della mafiosità sulla legalità, dell’impudenza sulla dignità e la sconfitta definitiva dello stato di diritto.
Berlusconi, dopo il lodo Alfano torna ad essere, almeno teoricamente, un cittadino come gli altri e come tutti deve essere processato e assolto o condannato con una sentenza inappellabile. Non possiamo tollerare ancora una volta una legge che lo salvi impunemente, anche in presenza di sentenze in corso. Non possiamo assistere inattivi, inermi e complici di una immoralità e indegnità di questa portata.
Usiamo la rete non solo per resistere, ma per reagire, per impedire che ancora una volta il corrotto, corruttore, compratore di giudici, di sentenze e di testimoni, il predatore fiscale che con le sue evasioni e i suoi conti esteri ha rubato a tutti noi e a ciascuno di noi. Una leggina riguarda Mediaset che deve al fisco circa 200 milioni di euro e se la caverà con un misero 5%. Come è possibile che i pensionati, i lavoratori a stipendio fisso, i precari, i cassintegrati, le donne, i senza lavoro, possano ancora votarlo e vederlo come un modello?
Come è possibile che assistiamo rassegnati alla vivisezione della Costituzione e della sopravvivenza di uno scampolo di dignità? Siamo calpestati ogni giorno nei nostri diritti e derisi nella nostra dignità e non siamo in grado di reagire come si conviene ad un popolo di gente che ogni giorno si ammazza per vivere onestamente del proprio lavoro e nel rispetto della Legge.
Non possiamo tollerare più che un uomo disponga dello Stato, delle sue Istituzioni, che ordini alla Rai di firmare un contratto di 6 milioni di euro al suo maggiordomo Bruno Vespa perché è bravo a fargli il bidet. Non possiamo tollerare che un suo dipendente, Minzolini, pontifichi a suo nome dalla tv di Stato; non possiamo più tollerare che sia smantellata Rai anche se aumenta ascolti e fatturato solo perché indigesta al satrapo senza statura. Non possiamo più tollerare che ci domini a suo piacimento e a suo uso e consumo. Se lui è l’utilizzatore finale delle prostitute a pagamento, noi vogliamo essere le sue mignotte «a gratis»?
Mettiamo in moto una rivoluzione e riportiamo il treno dentro i binari della Legge, delle Istituzioni, della Legalità, della Giustizia, della Dignità e del nostro Onore. E’ ora il tempo di scendere in piazza non per rivendicare un aumento di stipendio, ma per rivendicare un sussulto di dignità e di orgoglio di essere Italiani e Italiane che non vogliono essere scaricati come spazzatura. Berlusconi sta imperando e sta distruggendo tutto perché noi lo permettiamo o quanto meno lo tolleriamo.
Alziamoci in piedi e non pieghiamo la testa, chiedendo a gran voce, se necessario con uno sciopero generale ad oltranza, le dimissioni di Berlusconi, dei suoi avvocati pagati da noi e la conclusione dei suoi processi perché in Italia nessuno può essere più uguale degli altri e tutti, nessuno escluso, devono sottostare alla Maestà del Diritto.
Mi appello alle organizzazioni sindacali, ai partiti, alle associazioni nazionali e internazionali, ai gruppi organizzati, all’Onda lunga della scuola, ai blogger, alle singole persone di buona volontà con ancora una coscienza integra perché «el pueblo unido jamás será vencido».
LETTERA Al Sig. Presidente della Repubblica On.
Giorgio Napolitano
di Paolo Farinella, prete
Ho appena inviato la seguente e-mail al Presidente della Repubblica
Se ritenete, fate lo stesso: inondiamo il Quirinale di e-mail, uno tsunami di e-mail, lettere, cartoline, telegrammi, piccioni viaggiatori, mosche cocchiere, tutto ciò che occorre perché si veda e si senta lo sdegno di tutti noi.
Paolo Farinella, prete
Al Sig. Presidente della Repubblica
On. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
00100 Roma
Via e-mail: presidenza.repubblica@quirinale.it
Sig. Presidente,
Con orrore prendiamo atto che il parlamento, chiuso da settimane per irresponsabilità del governo, riprende freneticamente l’attività per porre rimedio alla sentenza della Consulta che, bocciando il «lodo Alfano» (che pure Lei aveva firmato), ha dichiarato l’uguaglianza assoluta tra tutti i cittadini, compreso il presidente del consiglio dei ministri.
Il governo, la maggioranza, il parlamento e il Paese sono bloccati sulle vicende giudiziarie del presidente del consiglio che continua a pretendere leggi su misura per salvarsi dai processi dove è inquisito di reati gravissimi per i quali alcuni suoi complici sono stati condannati definitivamente (Previti) o in primo grado (Mills). La pretesa di leggi su misura viene fatta in pubblico, alla luce del sole, nella certezza dell’impunità assoluta, anche a costo di annullare migliaia e migliaia di processi gravissimi (Parlat, Cirio, Antonveneta, Eternit, rifiuti a Napoli, ecc.), lasciando centinaia di migliaia di cittadini vittime di ingiustizia senza risposte, senza risarcimenti, senza una sentenza con attribuzione di responsabilità. Sig. Presidente, il Paese è stufo di questo andazzo e in molti siamo pronti alla rivoluzione perché non possiamo tollerare più che le nefandezze di un uomo che si è servito sempre dello Stato distruggano lo Stato stesso per salvare lui e mettere al sicuro il suo patrimonio, frutto di evasione fiscale, riciclaggio, falso in bilancio e corruzione. Non tolleriamo più che un sistema mafioso condizioni lo stato di diritto e calpesti la dignità e la laboriosa onestà della maggior parte delle cittadine e cittadini che hanno sempre avuto il sommo rispetto per la Legalità, anche contro i propri interessi pratici.
Sig. Presidente, lei è l’ultimo baluardo del Diritto, il garante supremo della Carta Costituzionale, il rappresentante della unità nazionale. A nome di migliaia di persone oneste, la supplico di non fermarsi alla pura forma dei suoi compiti, ma di fare tutto il necessario perché il governo e il parlamento tornino ad essere esempio specchiato di trasparenza di vita, di legalità e di esempio morale. Non diventi, anche indirettamente, complice di norme e leggi improvvisate sulle necessità e sui tempi del presidente del consiglio, anche se mascherate con qualche pennellata di «esigenza generale» perché lei sa che così non è. Noi vogliamo che il sig. Berlusconi Silvio si sottoponga la giudizio dei tribunali della Repubblica, come un qualsiasi cittadino. Sig. Presidente stia dalla parte dei cittadini onesti, del Diritto e della Dignità dell’Italia che in questo momento è mortificata proprio da quel governo che dovrebbe condurla fuori dalla crisi economica e sociale e invece la sta infognando e annegando nella melma dell’indecenza. Se necessario, sciolga le Camere per ingovernabilità mafiosa.
Con flebile speranza,
Paolo Farinella, prete
Norma e diritto, da Platone a Brecht
Il nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky ricerca le fonti della giustizia
Non deve esserci un’idea astratta che governa ma il rifiuto dell’ingiustizia
La Costituzione è la condizione basilare della democrazia che scaturisce dalla dialettica sociale
di Roberto Esposito (la Repubblica, 10.11.2009)
"Che cosa è la legge?" - chiede il giovane Alcibiade al saggio Pericle nei Memorabili di Senofonte, ricevendone una risposta tutt’altro che soddisfacente.
Se essa è "tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto", cosa la differenzia da una semplice imposizione? Qual è la sua fonte di legittimità e quali i suoi effetti sulla vita associata? In forza di cosa, in definitiva, essa è legge - di un comando divino o di una decisione umana, di una necessità naturale o di un principio di ragione?
E’ la stessa domanda che lega i saggi di Gustavo Zagrebelsky in un libro affascinante, appena edito da Einaudi, che coniuga la tensione della ricerca sul campo - sperimentata nella lunga attività di giudice costituzionale - alla misura, ormai classica, di una scrittura limpida e coinvolgente. Il suo titolo, Intorno alla legge (pagg.409, euro 22), non allude solo all’argomento trattato, ma, in senso più letterale, al periplo argomentativo, ricco di riferimenti filosofici, antropologici, letterari, con cui l’autore si approssima ad esso per cerchi concentrici, fino a penetrarne il nucleo incandescente.
Anziché definita in quanto tale, la legge è interrogata a partire dai suoi presupposti e dalla sua ulteriorità - lungo i margini sottili che la congiungono, ma insieme la distinguono da ciò che la precede e da ciò che la eccede, vale a dire da un lato dal diritto e dall’altro dalla giustizia.
Quanto al primo, la legge - intesa come la regola formale che determina i nostri comportamenti - è lungi dall’esaurire quel complesso di norme e consuetudini, di vincoli e pratiche che una lunga tradizione ha chiamato "diritto". Naturalmente il passaggio dall’antico diritto alla moderna legge - di cui l’Antigone di Sofocle rappresenta in modo insuperato la tragica problematicità - costituisce una svolta irreversibile nei confronti di una concezione non più in grado di organizzare razionalmente la relazione tra gli uomini. Ma non al punto di cancellare la memoria di un ordine non ancora chiuso nella rigidezza formale di comandi e divieti, ancora aderente al flusso magmatico della vita associata.
Anche quando, nei primi secoli della modernità, l’equilibrio tra i due mondi si spezza a favore della legge, ormai saldamente insediata al centro della civiltà giuridica, resta l’esigenza di non perdere del tutto i contatti con quell’origine da cui essa trae la propria linfa ed il proprio significato.
Lo stesso nesso problematico che la lega al diritto rapporta la legge, in maniera sempre difettiva, all’esigenza universale della giustizia. Qui il contrasto tra principio e realtà è ancora più stridente.
Se la giustizia assoluta è inattingibile dalla legge, se questa non obbliga perché giusta ma solo perché legge, da dove trae la propria legittimità sostanziale? Cosa la distingue da un comando arbitrario? D’altra parte tutte le volte che la legge ha sorpassato i propri limiti costitutivi, proclamandosi giusta per decreto divino o secondo natura, ha prodotto esiti negativi se non anche catastrofici. Volendo portare sulla terra il paradiso, l’ha consegnata all’inferno. L’unico rapporto possibile con la giustizia, da parte della legge, è individuato da Zagrebelsky non in un’idea astratta e artificiale della ragione, ma in un sentimento di rifiuto nei confronti dell’ingiustizia palese.
Qui l’autore torna a riproporre l’antitesi, già formulata in opere precedenti, tra logica dei valori e semantica dei principi. Pur ponendosi gli stessi obiettivi - dalla protezione della vita alla salvaguardia della natura, dalla difesa dei diritti alla diffusione della cultura - valori e principi divergono nella modalità con cui si presentano. Mentre i primi esprimono criteri morali assoluti e dunque sottratti al confronto, i secondi sono norme aperte, modelli di orientamento, destinati a favorire l’integrazione sociale. Perciò essi sono, o vanno posti, alla base delle moderne costituzioni.
Arriviamo così al cuore stesso del libro, in cui il discorso di Zagrebelsky si articola in un quadro fitto di riferimenti alla storia del diritto costituzionale ma anche di rimandi a Platone e a Sofocle, a Shakespeare e a Dostoevkij, a Canetti e a Brecht - ad ulteriore riprova che i veri problemi del diritto non giacciono inerti nei codici o nelle decisioni dei giudici, ma nella falda profonda che essi interpretano in forma sempre precaria e provvisoria.
La costituzione, oltre che come garanzia della legittimità e dei limiti dei poteri all’interno dello Stato, va intesa, in senso culturale, come luogo di confluenza, e di rielaborazione, di quell’insieme di valori, aspirazioni, sensibilità collettive che costituiscono l’orizzonte razionale ed emozionale della convivenza. In questo senso, nella sua capacità di tenere insieme punti di vista diversi, essa travalica di gran lunga i confini formali del diritto positivo, per diventare la condizione basilare della democrazia pluralista. Non solo, ma anche un punto d’incrocio decisivo tra le dimensioni del tempo e dello spazio.
Da questo punto di vista la dottrina costituzionale cui Zagrebelsky si richiama non costituisce soltanto una variante rispetto ai tanti modelli precedenti, bensì un vero e proprio cambio di paradigma. Assumere la costituzione non più come norma sovrana, ma come norma fondamentale scaturita dall’intera dialettica sociale, vuol dire situarla in rapporto da un lato con la storia e dall’altro con la nuova configurazione globale del mondo contemporaneo. Anziché modello fisso e immutabile, o anche atto creativo volto ad istituire un ordine completamente nuovo, la costituzione è quella linea di continuità capace di collegare in un nodo complesso passato e futuro. Di attivare una dinamica storica non racchiusa nei confini di un singolo Stato, ma aperta alle richieste che arrivano da un mondo sempre più unito dalle stesse angosce e dalle stesse speranze.
L’OCCUPAZIONE DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
Democrazia in crisi, società civile anche
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 07.11.2009) *
Sulla crisi della democrazia, non mi pare che ci sia molto da dire, in più di quel che sappiamo. Se non bastasse la realtà di cui tutti facciamo esperienza nei piccoli e grandi rapporti di vita quotidiana - prima ancora che nella vita delle istituzioni - , ci sono studi ponderosi che parlano della democrazia odierna nella luce spettrale di un "totalitarismo capovolto".
Si elaborano griglie concettuali per "misurare" le democrazie esistenti, e ciò meno per rilevare progressi, e più per attestare regressi verso il punto-zero al di là del quale, di democratico, resta la forma ma non la sostanza. Ritornano antiche immagini biologiche delle società, paragonate ai corpi naturali viventi che, come nascono, sono destinati a morire. Nulla, nelle opere degli uomini è eterno e così, oggi, quest’idea del ciclo vitale si applica alla democrazia.
La caduta dei totalitarismi del secolo scorso sembrava avere aperto l’èra della vittoria della democrazia su ogni altra forma di governo degli uomini. Dalla seconda metà del secolo XX, si cominciò a mettere tutte le concezioni e le azioni politiche in rapporto con la democrazia, diventata quasi un concetto idolatrico comprensivo di tutte le cose buone e belle riguardanti gli Stati e le società, in tutte le loro articolazioni, dalla famiglia, al partito, al sindacato, alle Chiese, alla comunità internazionale.
Questa connotazione positiva era un rovesciamento di antiche convinzioni. Fino allora, la democrazia era stata associata all’idea della massa senza valore, egoista, arrogante, faziosa, instabile e perciò facile preda dei demagoghi. Il giudizio negativo di Platone fece scuola nei secoli: la democrazia come regime in cui il popolo ama adularsi, piuttosto che educarsi: «Un tal governo non si dà alcun pensiero di quegli studi a cui bisogna attendere per prepararsi alla vita politica, ma onora chiunque, per poco che si professi amico del popolo».
Oggi, nel senso comune, non c’è un ri-rovesciamento a favore di concezioni antidemocratiche. C’è piuttosto un accantonamento, un fastidio diffuso, un "lasciatemi in pace" con riguardo ai discorsi democratici che, sulla bocca dei potenti, per lo più puzzano di ideologia al servizio della forza e, nelle parole dei deboli, spesso suonano come vuote illusioni. Non c’è bisogno di consultare la scienza politica per incontrare sempre più frequentemente una semplice domanda - «democrazia: perché?» - , una domanda che, solo a formularla, suona come espressione del disincantamento a-democratico del tempo presente e mostra tuttavia l’oblio di una durissima verità: che, salve le differenze esteriori, prima della democrazia c’è stata una dittatura e, dopo, ce ne sarà un’altra.
Che bisogno c’è oggi, in effetti, di democrazia? Con questa domanda, ci spostiamo dalla parte della "società civile". È lì la sua sede, il luogo della sua forza o della sua debolezza.
Nel senso in cui se ne parla correntemente oggi, la società civile è il luogo delle energie sociali che esprimono bisogni, attese, progetti, ideali collettivi, perfino "visioni del mondo", che chiedono di manifestarsi e trasformarsi in politica. Chiedono di prendere parte alla vita politica e di esprimersi nelle istituzioni: chiedono cioè democrazia. Se la società si spegne, cioè si ripiega su se stessa e sulle sue divisioni corporative, essa diviene incapace di idee generali, propriamente politiche, e il suo orizzonte si riduce allo status quo da preservare, o alle tante posizioni particolari ch’essa contiene - privilegi grandi e piccoli, interessi corporativi, rendite di posizione - da tutelare.
Basta allora l’amministrazione dell’esistente; cioè la tenuta dell’insieme e la tutela dell’ordine pubblico: in altre parole, la garanzia dei rapporti sociali de facto. Di fronte a una società politicamente inerte può ergersi soltanto lo Stato amministrativo che si preoccupa di sopravvivenza, non di vita; di semplice, ripetitiva e, alla lunga, insopportabile riproduzione sociale.
Ma, se questo - la sopravvivenza - è il mandato dei governati ai governanti, ciò che occorre è soltanto un potere esecutivo forte e un apparato pubblico almeno minimamente efficiente. Non c’è bisogno di politica e, con la politica, scompare anche la democrazia. Infatti, mentre ci può essere politica senza democrazia, non ci può essere democrazia senza politica. Non avendo nulla di nostro che vogliamo realizzare, tanto vale consegnarci nelle mani di un qualche manovratore e, per un po’, non pensarci più.
Con queste considerazioni, si spiega l’orientamento che a poco a poco prende piede, a favore di un ri-disegno dei rapporti tra i poteri costituzionali, con l’esecutivo predominante sugli altri. L’investitura popolare diretta del capo, depositario d’un potere tutelare illimitato, contrariamente all’apparenza di parole d’ordine come innovazione, trasformazione, riforme, decisione, ecc. è perfettamente funzionale alla sconfitta della politica democratica, cioè della politica che trae alimento dalla vitalità della società civile. Non solo: più facilmente, sarà funzionale alla sconfitta della politica tout court e alla vittoria della pura amministrazione dell’esistente, cioè alla cristallizzazione dei rapporti sociali esistenti. Di per sé, il pericolo non è l’autoritarismo, anche se può facilmente diventarlo, le volte in cui si tratta di cancellare o reprimere istanze politiche non integrabili nell’amministrazione dell’esistente. Il pericolo immediato è la garanzia della stasi, cioè la decomposizione ulteriore della nostra società in emarginazioni, egoismi, ingiustizie, illegalità, corruzione, irresponsabilità.
Se non si tratta necessariamente di autoritarismo, non è nemmeno un semplice ammodernamento della Costituzione. L’impianto su cui questa è stata consapevolmente costruita è quello di una società civile che esprime politica, a partire dai diritti individuali e collettivi, per concludersi nelle istituzioni rappresentative, con i partiti come strumenti di collegamento. Questa costruzione costituzionale, però, è soltanto un’ipotesi. I Costituenti, nel tempo loro, potevano considerarla realistica. I grandi principi di libertà, giustizia e solidarietà scritti nella prima parte della Costituzione, allora tutti da attuare, segnavano la via lungo la quale quell’ipotesi avrebbe trovato la sua verifica storica. La società italiana, o almeno quella parte della società che si identificava nei partiti, poteva darle corpo. Si può discutere se e in che misura questo corpo sia stato fin dall’inizio deformato dalla "partitocrazia" e se, quindi, le istituzioni costituzionali siano diventate uno strumento di affermazione più di partiti, che della società civile, tramite i partiti. Tutto questo è discusso e discutibile. C’erano comunque istanze politiche che chiedevano accesso alle istituzioni. La democrazia costituzionale si è costruita su questa ipotesi, che per un certo tempo ha corrisposto alla realtà.
Ora, siamo come a un bivio. La strada che si imboccherà dipende dall’attualità o dall’inattualità di quell’ipotesi. Noi non contrasteremo le deviazioni dall’idea costituzionale di democrazia soltanto denunciandone l’insidia e i pericoli, cioè parlandone male. In carenza di una sostanza - cioè di istanze politiche venienti da una società civile non disposta a soggiacere a un potere che cala dall’alto - perché mai si dovrebbero difendere istituzioni svuotate di significato? Le istituzioni politiche vitali sono quelle che corrispondono a bisogni sociali vivi. Se no, risultano un peso e sono destinate a essere messe a margine.
Qui si innesta il compito della società civile, nei numerosissimi campi d’azione che le sono propri, e delle sue tante organizzazioni che operano spesso ignorate e sconosciute, le une alle altre. La formula di democrazia politica che la Costituzione disegna è per loro. La sua difesa è nell’interesse comune. Non c’è differenza, in questo, tra le associazioni che operano per la promozione della cultura politica e quelle che lavorano nei più diversi campi della vita sociale. C’è molto da fare per unire le forze. E c’è molto da chiedere a partiti politici che vogliano ridefinire i loro rapporti con la società civile: innanzitutto che ne riconoscano quell’esistenza che troppo spesso è stata negata con sufficienza, e poi si pongano, nei suoi confronti, in quella posizione di servizio politico che, secondo la Costituzione, è la loro.
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Questo testo sarà letto domani dall’autore all’incontro annuale di "Libertà e Giustizia" che inizia oggi al Palazzo Ducale di Genova.
Il presidente della Repubblica scrive all’associazione delle toghe "Servono riforme non occasionali e che siano per i cittadini"
Napolitano: "Garante della magistratura
l’Anm sia sempre aperta al dialogo" *
ROMA - "Sono e resto garante dei principi fondamentali di indipendenza ed autonomia della magistratura". Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in una lettera al Presidente dell’Anm Luca Palamara, riafferma il ruolo del Colle sul delicato tema della giustizia. E lo fa mentre le tensioni tra toghe e governo sono acuite dall’intenzione dell’esecutivo di mettere mano alla riforma. Non dimenticando "l’inquietante attacco mediatico" al giudice Mesiano. "Serve un confronto equilibrato, l’Anm sia aperta al dialogo" dice Napolitano che risponde così alla lettera che l’Anm gli aveva inviato il 16 ottobre scorso.
Quelle che servono sono "riforme nè occasionali nè di corto respiro", le stesse che si augurano quelli "che hanno a cuore un soddisfacente esercizio della fondamentale funzione di presidio della legalità, al servizio del cittadino e dei suoi diritti, nel rispetto reciproco e nella leale collaborazione tra tutte le istituzioni".
Per realizzare riforme del genere, è questo l’invito del capo dello Stato all’associazione dei magistrati, "l’Anm deve continuare a guardare a tutti i motivi e gli aspetti della crisi del sistema giustizia, offrendo,con rigore, con misura e senza scendere sul terreno dello scontro, la sua disponibilità a concreti contributi propositivi, come un interlocutore attento e credibile, fermo nella difesa dei principi fondamentali di indipendenza e autonomia".
Principi di cui Napolitano si dice "garante", non mancando di sottolineare le preoccupazioni per "l’acuirsi della tensione tra le istituzioni della Repubblica, e in particolare tra quelle in cui s’incarnano i rapporti tra politica e giustizia".
Immediata la reazione dell’Anm che si dice "impegnata" a contribuire ad una riforma per i cittadini, sottolineando "le parole chiare" di Napolitano sull’indipendenza dei giudici.
* la Repubblica, 6 novembre 2009
Il potere illiberale
di MASSIMO GIANNINI *
"IL peggio deve ancora accadere". L’aveva scritto il direttore di questo giornale, solo cinque giorni fa. Mai profezia è stata più centrata. Il peggio sta accadendo. Il presidente del Consiglio chiama alla "ribellione" le forze produttive contro "un giornale che getta discredito non solo su di me, ma sui nostri prodotti, sulle nostre imprese, sul made in Italy". Anche se stavolta Berlusconi non lo cita per nome, quel giornale è naturalmente Repubblica. Un capo di governo che invita gli imprenditori a "ribellarsi" contro un quotidiano, "colpevole" solo di rivolgergli dieci domande alle quali non è in grado di rispondere, non si era ancora visto in nessun Paese dell’Occidente.
È una deriva populista, e peggiorista, che non ha più limiti. Ma benché aberrante, c’è coerenza in questo delirio. Prima arringa gli industriali: rifiutate la pubblicità a questo giornale. Poi accusa il Corsera: sarebbe addirittura "anti-berlusconiano". Ora attacca di nuovo Repubblica: è "anti-italiana". Viene fuori, incontenibile, la natura illiberale e anti-istituzionale del Cavaliere. Non tollera le critiche della stampa, non accetta le regole della Costituzione. Da uomo politico nega lo Stato, da imprenditore nega il mercato.
L’"editto di Monza" lo conclude con una battuta che tradisce la dimensione tecnicamente totalitaria del suo "premierato di comando": "Alla democrazia ghe pensi mi". Lo dice. Lo pensa. Ecco perché siamo preoccupati per il futuro di questo Paese.
© la Repubblica, 13 ottobre 2009
Dall’opposizione reazioni dure ma il Pd annuncia: "Non chiederemo le dimissioni"
Il Pdl fa quadrato attorno al premier. Bossi: "Niente elezioni anticipate. Andremo avanti"
Di Pietro: "Berlusconi vada a a casa"
Pd: "Tutti uguali davanti alla legge"
Il Quirinale: "Napolitano imparziale, sta dalla parte della Costituzione"
ROMA - Antonio Di Pietro non lascia spazio a mezze misure: "Berlusconi vada a casa". Dario Franceschini è soddisfatto perché la sentenza dimostra che anche il presidente del Consiglio "è un cittadino come gli altri", mentre Umberto Bossi si stringe attorno al premier: "Escludo il ricorso ad elezioni. Andiamo avanti, noi non ci pieghiamo". Dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittimo il Lodo Alfano, dalla maggioranza e dall’opposizione si alzano reazioni contrastanti.
Quirinale respinge sospetti di imparzialità. Ma sono le parole di Berlusconi pronunciate contro l’imparzialità del presidente della Repubblica ("Il capo dello Stato sapete da che parte sta"), che provocano la reazione indignata del Quirinale: "Tutti sanno da che parte sta il presidente della Repubblica", è scritto in una nota del Colle. "Sta dalla parte della Costituzione, esercitando le sue funzioni con assoluta imparzialità e in uno spirito di leale collaborazione istituzionale".
Italia dei Valori: "Dimettiti". Dure anche le parole dell’Italia dei Valori che rivendica la lunga battaglia sostenuta dal partito contro la legge: "Lo abbiamo detto subito anche al capo dello Stato", ripete Antonio Di Pietro. "La legge era uno scempio di incostituzionalità e immoralità. Berlusconi la smetta di fare leggi a proprio uso e consumo, e si dimetta. E’ letteralmente matto".
Il Pd. Soddisfatto della sentenza Dario Franceschini, segretario del Pd, convinto che la sentenza della Corte ribadisce "il principio dell’uguaglianza. Non ci possono essere eccezioni", spiega. "Tutti sono uguali davanti alla legge, anche i potenti". E il compagno di partito Pierluigi Bersani, candidato alla segretaria del Pd, avverte: "Che adesso il premier rispetti le parole dei giudici". Ma niente dimissioni. Il Pd, a differenza degli alleati dell’Italia dei Valori e della Sinistra radicale, non chiederà la crisi di governo.
"La sentenza - ha detto il presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro - è espressione della forza della Costituzione e dell’indipendenza della Corte", e Massimo D’Alema, osserva: "E’ sbagliato trarre conseguenze politiche. I governi cadono se manca la maggioranza, non per una sentenza". E Piero Fassino si scaglia contro Berlusconi che accusa Napolitano di imparzialità e la Corte di essere composta da "giudici di sinistra": "Berlusconi si difenda nei processi e non trasformi un suo problema, in un problema del Paese’’. "Inaccettabili" le parole che Berlusconi ha riservato a Napolitano, anche per Dario Franceschini e il suo predecessore Walter Veltroni: "Irresponsabili attacchi che vanno respinti. Il presidente Napolitano svolge il suo ruolo di garanzia in modo ineccepibile".
Anche l’Udc ritiene che la sentenza non debba avere conseguenze politiche ma "deve essere rispettata": "In questo paese c’è scarsa attitudine a rispettare le sentenze. Il governo - ha detto Pier Ferdinando Casini - deve continuare a occuparsi dei problemi degli italiani che vengono prima di quelli Berlusconi’’.
Intanto una trentina di rappresentanti di Sinistra e Libertà si è riunita davanti Palazzo Chigi per un sit-in. Alzano cartelli con scritto: "E adesso fatti processare". In piazza Paolo Cento, Grazia Francescato, Gennaro Migliore e Giuliana Sgrena.
Bossi: "Niente elezioni anticipate". Fa quadrato attorno a Silvio Berlusconi invece il centrodestra. A cominciare dall’alleato Umberto Bossi convinto che il presidente del Consiglio non mollerà: "E’ forte e deciso a combattere". E a chi gli domanda se la sentenza preannuncia elezioni anticipate, Bossi risponde deciso: "Ho parlato con Berlusconi. Neppure lui vuole le elezioni anticipate. Andiamo avanti, non ci piegano".
Ne è convinto anche il ministro delle Politiche Ue Andrea Ronchi, che invita il partito "a concentrarci ancora di più sulle prossime elezioni regionali, che ora avranno una maggiore valenza politica". E Jole Santelli, Pdl, vicepresidente della commissione Affari Costituzionali, avverte: "La Corte Costituzionale contraddice sè stessa".
Solidali a Berlusconi, anche il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo ("Quella della Consulta è una sentenza politica"); il collega di governo Luca Zaia, ministro dell’Agricoltura ("Il governo si rafforzerà"); quello dell’Istruzione Mariastella Gelmini ("La Consula non è più un organo di garanzia"), e il ministro della Gioventù Giorgia Meloni ("Ho il sospetto che i giudici si siano espressi secondo le indicazioni dei partiti"). Nessun commento ufficiale invece da Gianfranco Fini, presidente della Camera, anche se fonti parlamentari del Pdl assicurano che, in una lunga conversazione telefonica con il premier, Fini ha ribadito che "la maggioranza è solida e si va avanti".
Dai costituzionalisti Oscar Luigi Scalafo, già presidente della Repubblica, e Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, commenti più "tecnici". "Non mi interessa il caso personale - ha detto Scalfaro - quello che conta è che la Corte abbia fatto il suo dovere e abbia difeso la Costituzione". "Il nostro sistema costituzionale funziona", sono state le parole dell’ex presidente della Corte. "I giudici non si sono fatti condizionare dal clima di drammatizzazione costruito attorno al caso".
* la Repubblica, 7 ottobre 2009
Una inizativa che farà discutere
Germania, Vescovi citati in giudizio: Non dovranno più definirsi cristiani
http://www.reporterfreelance.info/ *
Mentre i vescovi cattolici tedeschi si riuniscono per la loro assemblea annuale a Fulda, al tribunale amministrativo di Friburgo viene presentata contro il loro presidente, l’arcivescovo Robert Zollitsch, una domanda giudiziale destinata a fare scalpore. I /Cristiani liberi per il Cristo del Discorso della Montagna in tutte le culture in tutto il mondo/ richiedono che venga vietato all’arcivescovado di Friburgo, presieduto da Zollitsch, in rappresentanza per tutta la chiesa cattolica, di continuare a definirsi “cristiano”.
La domanda giudiziale era stata preceduta da una “diffida” rivolta a tutti i vescovi diocesani tedeschi, nella quale un teologo, un medico, due giornalisti e due giuristi avevano spiegato in modo dettagliato i motivi per i quali, dal loro punto di vista, la chiesa avrebbe perso il diritto di definirsi “cristiana”. In palese contraddizione con l’insegnamento di Gesù di Nazareth, essa accumulerebbe infatti potere e ricchezza (”mentre milioni di persone del popolo sono disoccupate e soffrono a causa della povertà”), e malgrado le sue immense ricchezze si farebbe finanziare dallo Stato con sovvenzioni di miliardi (”inclusi gli stipendi per i loro vescovi”), giustificherebbe guerre e violenza e incuterebbe paura agli uomini con la minaccia di un presunto “inferno eterno”. Costrizione al celibato, ostilità alla sessualità e alle donne, abusi sessuali commessi da sacerdoti - la lista dei crimini ecclesiastici arriva direttamente fino ai nostri giorni.
I vescovi non hanno reagito entro il termine posto e pertanto devono ora confrontarsi con la domanda giudiziale. I richiedenti si presentano in tal senso come “parenti spirituali” di Gesù di Nazareth che non possono più tacere di fronte al “prepotente abuso di definizione” con il quale si abusa del Suo nome. Un’istituzione che incorpora gli uomini fin da neonati agisce inoltre contro i diritti alla personalità. E’ possibile leggere in internet il testo di 36 pagine della domanda giudiziale (anche in italiano).
L’azione portata avanti dai Cristiani liberi ha già fatto scalpore nell’opinione pubblica all’estero, per esempio in Spagna, in Argentina e negli Stati Uniti, mentre invece l’opinione pubblica tedesca ha reagito in modo piuttosto riservato. Ora la prima domanda giudiziale è arrivata in casa. E non sarà l’ultima, perché anche i colleghi luterani dei vescovi hanno già ricevuto una diffida ...
Per maggiori informazioni: www.christus-oder-kirche.de
* Il Dialogo, Venerdì 25 Settembre,2009 Ore: 12:37
Il grande sacco dell’Italia
dl BARBARA SPINELLI (La Stampa, 4/10/2009).
Lo chiamano nubifragio, quello che ha ucciso decine di persone nei villaggi del Messinese e gettato nel fango le loro case, e invece la natura matrigna non c’entra. Non è lei a tradire, ingannare. C’entra invece lo Stato matrigno, e c’entrano le opere pubbliche, le infrastrutture, gli amministratori matrigni. È a loro e non alla natura che occorre rivolgersi con la domanda che Leopardi lancia alla natura: «Perché non rendi poi/Quel che prometti allor?/ perché di tanto/ Inganni i figli tuoi?». È l’Italia che vediamo piano piano autodistruggersi, e non solo nel modo in cui si governa ma nel suo stesso fisico stare in piedi, nel suo esser terra, fiumi, colline, modi di abitare. Si va sgretolando davanti ai nostri occhi come fosse un castello che abbiamo accettato di fare di carta, anziché di mattoni. Che ciascuno di noi accetta - per noia, per fretta, per indolente fatalismo - di fare di carta.
E’ essenziale leggere Gomorra per capire l’estensione del dominio del male ma basta mettere in fila i tanti disastri visti in televisione, e il cittadino non si sottrarrà all’impressione di un Paese dove perfino la terra frana a causa di questo lungo dominio.
Inutile dividere i mali italiani in compartimenti stagni: la morte della politica da una parte, l’informazione ammaestrata o corriva dall’altra, le speculazioni edilizie da un’altra ancora. Tutte queste cose sono ormai legate, fanno un unico grumo di misfatti e peccati d’omissione che mescola vizi antichi e nuovi. È l’illegalità che uccide l’Italia politica e anche quella fisica, la sua stima di sé, la sua speranza, con tutti i vizi che all’illegalità s’accompagnano: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio di molte classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati, il territorio che infine soccombe. Nella recente storia non sono caduti uccisi solo eroici servitori della Repubblica, che hanno voluto metter fine all’anti-Stato che mina la nazione dagli Anni 60. Muoiono alla fine gli uomini comuni, en masse: abbattuti dalla menzogna, dall’abusivismo, dalla disinvoltura con cui si costruiscono case, scuole, ospedali con materiali di scarto. Non da oggi ma da decenni, destre e sinistre confuse.
Il servizio pubblicato ieri su La Stampa da Francesco La Licata è tremendo. Non è solo Giampilieri che l’abusivismo ha colpito, perché le fondamenta del villaggio erano inaridite da disboscamenti irrazionali e poggiavano «su creta incerta, massacrata dalla furia della corsa al cemento» - in particolare dal cemento «allungato», che le mafie usano per guadagnare molto e presto, senza pensare al domani: l’ingordigia delle mafie e soprattutto l’impunità di cui esse godono nella penisola minacciano opere pubbliche di mezza Sicilia (gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il commissariato di polizia che si sta costruendo a Castelvetrano). La terra trema in Italia e il gran traditore non è la natura ma l’omertà di un’intera società. Omertà è una parola etimologicamente incerta: pare provenga da umirtà, e sia dunque una versione succube, perversa dell’umiltà. L’abbiamo sentito dire quando ci fu il disastro abruzzese e lo stesso vale per Messina: in Giappone o in Germania non ci sarebbero tanti morti, in presenza di intemperie. Giampilieri non è un’eccezione che conferma buone regole ma è la nostra regola.
È diventata la nostra regola perché tutto, appunto, si tiene: la cultura dell’illegalità che si tollera e l’abusivismo che si accetta sperando di trarne, individualmente, qualche vantaggio immediato. Perché tutto trema in contemporanea: terra e politica, senso dello Stato e maestà della legge. Perché intere regioni (non solo a Sud) sfuggono al controllo dei poteri pubblici, intrise di mafia e omertà. E perché l’informazione non circola, non aiuta le autorità municipali, regionali, nazionali a correggersi, essendo inascoltata e dando solo fastidio. L’informazione indipendente irrita quando denuncia lo svilimento dello Stato che nasce dalle condotte private di un presidente del Consiglio. Irrita quando ricorda che il ponte di Messina è una sfarzosa e temeraria tenda su infrastrutture siciliane degradate. Allo stesso modo danno fastidio, e non solo all’attuale governo, le indagini di Legambiente o della magistratura. La Licata spiega come non manchino indagini e moniti che da anni denunciano la criminalità edilizia, i brogli sui piani regolatori, la cementificazione fatta di molta sabbia e poco ferro: sono a rischio di crollo trenta capannoni dell’area industriale di Partinico, sono sotto inchiesta la Calcestruzzi Spa e la Calcestruzzi Mazara Spa. In un Paese dove la legalità non ha buon nome è ovvio che l’informazione in sé fa paura, quando porta chiarezza.
Dipende da ciascun cittadino far sì che queste abitudini cessino. Finché penseremo che i disastri sono naturali, non faremo nulla e sprofonderemo. È un po’ come nella Dolce vita di Fellini. Nella campagna romana, una famiglia aristocratica possiede una villa del ’500 caduta a pezzi e nessuno l’aggiusta. Il capofamiglia s’aggira sconsolato fra le rovine, sogna di mettere un pilastro qui, una trave lì. Si lamenta col figlio che non fa nulla per riparare, che bighellona a Roma stanco di tutto. «Ma cosa vuoi che faccia, papà?», replica quest’ultimo, stomacato. È la cinica, accidiosa risposta che l’italiano continua a dare a se stesso, ai propri padri e anche ai propri figli.
L’indebolirsi della politica e la non volontà di governare il territorio li tocchiamo con mano e hanno ormai un loro teatrale, quasi macabro rituale. L’Italia è divenuta massima esperta in funerali, opere misericordiose, messe riparatrici, offerte di miracoli stile padre Pio. Tutta l’attenzione si concentra, spasmodica, compiaciuta, sulla nostra inclinazione a piangere, a ricevere le stigmate da impersonali forze esterne, a ripartire da zero nella convinzione (falsamente umile, ancora una volta) che da zero comunque si ricomincia sempre. Come vi sentite lì all’addiaccio? avete voglia di ricostruire? forza di credere, sopportare? così fruga l’inviato tv, il microfono brandito come una croce davanti ai flagellanti, e le lacrime sono assai domandate. L’occhio della telecamera punta su ricostruzione e espiazione, più che sul crimine che viene trattato alla stregua di fatalità. Importante è vivere serenamente il disastro, più che evitarlo cercandone con rabbia le cause. Anche il politico agisce così: non lo interessa la stortura, ma l’anelito alla lacrima e alle esequie teletrasmesse. Simbolo del disastro riparato più che prevenuto, la Protezione Civile è oggi un immenso lazzaretto, un potere divoratore di soldi e non controllato.
Di fronte a tanta catastrofe viene in mente il grido di Rosaria Costa, la vedova di un agente di scorta morto con Giovanni Falcone a Capaci. La giovane prese la parola il giorno dei funerali di Stato, il 25 maggio 1992 nella chiesa di San Domenico a Palermo, e disse: «Mi rivolgo agli uomini della mafia, vi perdono ma voi vi dovete mettere in ginocchio, dovete avere il coraggio di cambiare». D’un tratto la voce si rompe e grida: «Ma voi non cambiate, io lo so che voi non cambiate». Nulla può cambiare se l’impunità continua. Se l’informazione non circola, non esce dai recinti di Internet, di Legambiente, delle associazioni volontarie antimafia. Se la gente non smette di ascoltare solo messe funebri. Mario Calabresi ha scritto ai lettori indignati di questo giornale, ieri, che il «grande sacco dell’Italia» è avvenuto e avviene perché esiste un terreno fertile a disposizione di mafie e criminalità: non c’è politica seria se al primo posto non sarà messo il ripristino della legalità. Legalità e parola libera sono il farmaco di cui c’è bisogno, Falcone ne era convinto quando diceva: «Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa. Chi parla e cammina a testa alta muore una volta sola». Per questo tutto si tiene: la manifestazione di ieri sulla stampa indipendente e l’indignazione per il disastro di Messina.
Di Pietro ancora contro Napolitano: "Firmando lo scudo ha compiuto un atto di viltà" *
Attacco prevedibile, ma toni impensabili. Di Pietro accusa il capo dello stato per aver firmato lo scudo fiscale voluto da Tremonti: «Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, affermando che non poteva non firmare la legge criminale sullo scudo fiscale, ha compiuto un atto di viltà ed abdicazione». Il leader dell’Idv lo ha detto a Roma, a piazza della Repubblica al corteo dei precari della scuola. E’ scontro col Pd.
«È proprio la Costituzione - ha spiegato Di Pietro - che affida al capo dello Stato il compito di rimandare le leggi alle camere controllando in prima istanza la loro costituzionalità. Così facendo - ha concluso - Napolitano si assume la responsabilità di questa legge».
«Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, svolge un ruolo di garanzia importante e ineccepibile». così il segretario del Pd, Dario Franceschini, alla manifestazione della Fnsi risponde ai cronisti che gli chiedono un commento all’attacco di Antonio Di Pietro nei confronti del capo dello Stato per aver firmato il decreto anticrisi che contiene lo scudo fiscale.
«Di Pietro è un parlamentare che dovrebbe sapere quali sono i compiti dell’opposizione, della Corte Costituzionale e -conclude Franceschini- del capo dello Stato».
«Esprimo piena solidarietà al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, oggetto di una riprovevole rincorsa al populismo da parte di chi lo critica per aver svolto i suoi doveri istituzionali». Così Enrico Letta, a margine della manifestazione per la libertà di stampa in corso a Piazza del Popolo, a Roma.
Il presidente della Repubblica era già tornato in mattinata sul tema dello s cudo fiscale rispondendo con energia a un cittadino che gli aveva chiesto di non firmarlo per il bene dei cittadini onesti: «Nella Costituzione c’è scritto che il presidente promulga le leggi. Se non firmo oggi, il Parlamento rivota un’altra volta la stessa legge e a quel punto io sono obbligato a firmare. Questo voi non lo sapete? Se mi dite non firmare, non significa niente», ha detto Napolitano.
«Le accuse al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, a cui va la nostra piena solidarietà, dimostrano che quello di Antonio Di Pietro è un atteggiamento irresponsabile che manifesta la totale assenza di senso delle istituzioni e una pervicace volontà di avvelenare il clima politico»: così il presidente della Camera Gianfranco Fini in una nota.
«Si tratta di affermazioni che lasciano senza parole, inqualificabili, non consapevoli nè rispettose del ruolo che ha il Presidente della Repubblica nel nostro assetto costituzionale, ruolo che Giorgio Napolitano svolge con grande rigore». Lo ha detto Pier Luigi Bersani, candidato alla segreteria nazionale del Pd, in tarda serata, commentando le dichiarazioni del leader dell’Idv, Antonio Di Pietro.
* l’Unità, 03 ottobre 2009
NAPOLITANO A CSM, DISCUTERE SERENAMENTE ACCUSE PREMIER
ROMA - Il dibattito al Csm sulle pratiche a tutela di magistrati oggetto di accuse da parte di Silvio Berlusconi "avvenga con serenità ed equilibrio". E’ l’invito che il capo dello Stato, Giorno Napolitano ha rivolto al Consiglio superiore della magistratura.
* Ansa» 2009-09-10 10:56 - per aggiornamenti, cliccare sul rosso).
Sui giornali internazionali impazzano gli articoli sul premier e le sue feste
"Uno degli aspetti più deprimenti dello scondalo è che resti ancora al potere"
La stampa estera e le "donne del Cavaliere"
e il Times di Londra titola: "Roma brucia"
dal corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - "Roma brucia". Il titolo dell’editoriale del Times di oggi si ferma a questo, ma è chiara l’allusione a un Nerone che suona la cetra mentre tutto crolla attorno a lui. "Uno degli aspetti più deprimenti dello scandalo che avvolge il primo ministro italiano è che egli, nonostante un calo di consensi nei sondaggi, rimanga ancora al potere", afferma il commento della direzione del quotidiano londinese.
Ci sono varie spiegazioni di questo, continua l’editoriale, "la più pertinente sembra essere la mancanza di un’alternativa credibile in un’opposizione divisa dopo la caduta del governo Prodi e tra gli stessi alleati del premier nel centro-destra". Ma anche se per il momento Berlusconi sopravvive, il presidente della Camera Gianfranco Fini, dopo il dissidio di questi giorni con il leader del Pdl, "sta sicuramente pensando al lungo termine" e "rappresenta il meglio della destra, valori familiari e conservatorismo tradizionale".
Tre cose rendono Berlusconi "vulnerabile", scrive il Times. La prima è "il danno che egli ha causato all’immagine dell’Italia all’estero". La seconda è "la mentalità da bunker in cui si è rinchiuso, le cause per diffamazione, le smentite, il voler far finta di credere che tutto va bene, nascondono una rabbia cocente per l’incapacità del suo mondo virtuale di proteggerlo". La terza è un "non detto timore di ricatti".
Varie delle giovani donne con cui il premier si è intrattenuto, osserva l’editoriale, sembrano essere straniere. "Cosa accadrebbe se una potenza straniera decidesse di strumentalizzare questa pacchiana faccenda? Non è una preoccupazione solo per Roma. L’Italia è un importante partner occidentale nella Nato, dai Balcani all’Afghanistan. Il comportamento del primo ministro preoccupa e imbarazza tutti gli amici del suo Paese".
Oltre all’editoriale, il Times dedica un’altra pagina intera al caso Berlusconi, con due articoli, nei quali osserva che le rivelazioni sulle deposizioni di Gianpaolo Tarantini a proposito delle "30 donne fornite a Berlusconi per i suoi party aumentano la pressione sul premier", la cui bonomia e i cui sorrisi "appaiono sempre meno convincenti, perché i problemi si accumulano, distraendolo in un momento in cui l’Italia ha bisogno di una mano ferma" che guidi l’economia. Il capo del governo, conclude il quotidiano di Londra condividendo l’opinione di un commentatore italiano, dà l’impressione di essere "un uomo arrabbiato, sconfitto e depresso, che litiga con tutti".
Titoli e servizi analoghi sugli altri principali quotidiani britannici. "Altre cinque donne pagate da Berlusconi", titola il Daily Telegraph, notando che gli ultimi sviluppo "aumentano la sensazione che la permanenza al potere del premier abbia i giorni contati" a causa dei suoi conflitti con i media, la Chiesa, gli alleati interni. Anche il Guardian, come il Times, osserva che il fatto che varie delle donne incontrate da Berlusconi siano straniere potrebbe avere "compromesso la sicurezza nazionale, come afferma l’opposizione". E il Daily Mail titola su "Silvio e la sua galleria di ragazze da party", pubblicando una serie di foto delle donne coinvolte nello scandalo.
Le nuove rivelazioni figurano nei titoli di tutta la stampa europea e internazionale. "Trenta accompagnatrici per allietare le serate del Cavaliere", titola il Figaro in Francia, dove Le Monde parla di una "strategia della tensione" lanciata da Berlusconi contro i suoi avversari, che però "potrebbe rivelarsi più pericolosa di quanto lui pensi". In Spagna, il Mundo titola: "Prostituzione e cocaina sono le chiavi del successo, un imprenditore ammette che pagava droga e ragazze per Berlusconi". La Voz de Galicia scrive che Tarantini ha organizzato "fiesta con 30 chicas" per Berlusconi. El Pais titola: "Un amico di Berlusconi gli organizzò 18 feste con prostitute", ricordando, in un altro servizio, che proprio in questo momento di crisi personale e di scandali il premier italiano si appresta a incontrarsi in Sardegna con il premier spagnolo Zapatero, con il quale "ha ben poco in comune, ideologicamente e personalmente", ma l’incontro era stabilito da tempo.
In Irlanda, un altro paese fortemente cattolico che segue con grande attenzione l’evolversi della Berlusconi story, l’Irish Times la definisce "una soap opera" in cui si aggiungono sempre nuovi colpi di scena e l’Irish Independent titola sulle "esplosive rivelazioni" riguardo a "trenta call girls" che "andavano ai party di Berlusconi".
E continuano a fare il giro del mondo, la vicenda arriva fino in Australia, dove Mx scrive sulla "string of hookers", la collana di prostitute, del premier; e in Argentina, dove il Clarin titola senza mezzi termini: 30 prostitute a 18 feste per "el capo".
* la Repubblica, 10 settembre 2009
Confronto dopo lo sfogo sul Colle. Il premier: una tregua, basta veleni
Il capo dello Stato preoccupato anche per i difficili rapporti a livello europeo
"Serve equilibrio e responsabilità"
Napolitano frena il Cavaliere
Il premier teme ancora manovre in autunno. E con lo stato maggiore
di Forza Italia non ha escluso il ricorso ad elezioni politiche anticipate
di FRANCESCO BEI *
Napolitano con Silvio Berlusconi ROMA - Alla fine, come forse era inevitabile, l’onda del caso Boffo, la crisi nei rapporti tra governo e Cei, si è andata a infrangere sul Quirinale.
In quel salotto nello studio alla Vetrata, dove il capo dello Stato ha ricevuto ieri pomeriggio Berlusconi, insieme a Sandro Bondi e Gianni Letta, è stato proprio il Cavaliere a tirar fuori per primo l’argomento. Uno sfogo non sollecitato, come quello che la mattina l’aveva portato a prendersela con i giornali, che Giorgio Napolitano ha raccolto con preoccupazione, spendendosi più del solito per un "rasserenamento" del clima. "Presidente - ha esordito Berlusconi, febbricitante e sofferente per via di un mal di stomaco - sappi che in tutta questa storia di Boffo io non c’entro assolutamente nulla, i giornali hanno diffuso solo falsità. Feltri lo conosci anche tu. Semmai la prima vittima sono io".
Ma ciò che sta più a cuore al premier è chiedere un aiuto, cercare una sponda istituzionale nel presidente della Repubblica. Come prima del G8 dell’Aquila, al culmine degli scandali sulla vita privata del premier, quando, in nome dell’Italia, Napolitano arrivò a invocare una "tregua" politica. "C’è in giro un clima per cui diventa impossibile lavorare, sarebbe utile un tuo intervento che faccia da argine a tutti questi veleni - ha chiesto a questo punto Berlusconi -, anche perché alla fine è il paese che ci va di mezzo, è l’immagine dell’Italia all’estero". Berlusconi se ne è reso conto nel suo recente viaggio a Danzica e ne è rimasto impressionato: persino durante le commemorazioni sull’invasione nazista della Polonia si è sentito chiedere conto delle serate a palazzo Grazioli da uno dei leader europei. Ma questa volta, da parte di Napolitano, più che comprensione c’è stato un invito implicito ad abbandonare la tattica di controguerriglia seguita finora da palazzo Chigi. Un invito alla "moderazione", al senso di "equilibrio" e di "responsabilità da parte di tutti".
Il cruccio di Napolitano riguarda anche i rapporti con la Commissione europea, oggetto degli strali del Cavaliere a Danzica. Così, se il Presidente non ha fatto mistero di aver seguito con apprensione gli attacchi a Boffo, allo stesso modo ha valutato lo scontro tra Roma e Bruxelles un errore. E non è un caso allora se proprio ieri, da Stoccolma, Franco Frattini si sia affrettato a smentire gli intenti più bellicosi annunciati dal premier, quel voler paralizzare le istituzioni comunitarie con il veto se non cesseranno le critiche al governo italiano: "Siamo un paese responsabile", ha tagliato corto il ministro degli Esteri. Un’altra colomba, Gianni Letta, starebbe manifestando un crescente disagio per la strategia di attacchi a tutto spiano messa in atto da Berlusconi. In fondo le dimissioni di Boffo e la campagna del Giornale segnano anche la prima vera sconfitta della sua linea, volta interamente a ricucire la frattura con la Santa sede. Come dimostra anche la sua presenza domani a Viterbo accanto a Papa Ratzinger. È Letta una delle vittime del furore dei falchi che circondano il Cavaliere, che ieri ha provato a blandirlo in pubblico ancora una volta: "Non ho bisogno di Internet, io ho Gianni".
L’altra grande questione che sta agitando l’inquilino di palazzo Chigi sono le elezioni regionali. Anche qui nella convinzione che solo una schiacciante vittoria metterà a tacere i critici e spazzerà il tavolo da tutti i "complotti" messi in campo per destituirlo. E se poi il clima si dovesse fare ancora più pesante, alcuni sussurrano che il premier avrebbe in mente di giocarsi l’arma finale, le dimissioni e il ricorso alle elezioni anticipate (nella certezza che un’altra maggioranza in Parlamento sarà impossibile da trovare) in concomitanza con le amministrative di marzo. Fantapolitica? Forse, ma nel pranzo di ieri a palazzo Grazioli, dove Berlusconi ha riunito Verdini, Cicchitto, Quagliariello, Bondi e Gianni Letta, il padrone di casa ha ripetuto: "In questa legislatura non ci saranno altri governi".
Il cuore della partita, dunque, si gioca nella metà campo di Casini, decisivo in molte regioni. Ma nel lungo vertice a via del Plebiscito sarebbe stata affrontata anche la questione del testamento biologico e dell’atteggiamento da tenere per disinnescare le "trappole" del presidente della Camera nell’iter del ddl a Montecitorio. I partecipanti ovviamente smentiscono, giurano che si è trattato di una "riunione informale, del tutto occasionale", ma intanto dalle parti di An il vertice è stato visto sotto tutt’altra luce. "È stata una riunione incauta - è la reazione che si coglie tra gli uomini di Fini -, sembra quasi il tentativo di far rinascere Forza Italia. Un episodio che dà un segno involutivo al processo di costruzione del Pdl. Tra di noi c’è profondo malessere".
* la Repubblica, 5 settembre 2009
Comunicato della Direzione de l’Unità
Berlusconi vuole chiudere l’Unità *
Le argomentazioni contenute nei due atti di citazione (nelle foto: le copertine dei due numeri del giornale "incriminati") sono formalmente dirette a dimostrare che l’Unità ha colpito la reputazione di Berlusconi, ma nella sostanza delineano un illecito non previsto dal nostro ordinamento, quello di lesa maestà.
Il legale del presidente del Consiglio contesta le nostre opinioni politiche, le nostre valutazioni (peraltro condivise da opinionisti di altri giornali nazionali e internazionali e comunque attinenti alla libera manifestazione del pensiero tutelata dall’articolo 21 della Costituzione) sui rapporti tra la maggioranza e il Vaticano. O i giudizi sui comportamenti privati del premier e sulla loro compatibilità col suo ruolo pubblico.
Viene addirittura qualificato lesivo della onorabilità del premier il fatto di aver riportato giudizi espressi pubblicamente da Veronica Lario attorno alle sue condizioni e alle sue frequentazioni con minorenni. Persino l’opinione di una scrittrice come Silvia Ballestra viene inserita nell’elenco delle affermazioni non pubblicabili.
Un passo dell’atto prodotto dal legale del premier riassume bene il senso complessivo dell’iniziativa. “Si è scritto, spacciandolo per vero, che ‘tutto’ sarebbe stato ‘nascosto ‘ manipolando l’informazione attraverso le televisioni. E che il dottor Berlusconi non solo avrebbe tale controllo ma addirittura ne avrebbe abusato e continuerebbe ad abusarne in danno del servizio pubblico Rai e per i suoi interessi personali (che sarebbero una sorta di guerra contro Sky). Il che, come quant’altro divulgato dall’Unità, è mera invenzione”.
In definitiva, è “diffamatorio” anche dire che Berlusconi controlla l’informazione in Italia.
Viene contestata la “illiceità” di due interi numeri del giornale in tutte le loro parti che si riferiscono al presidente del Consiglio e, attraverso il combinato disposto di articoli e commenti, diventa “diffamatoria” una linea politica e una visione del mondo.
Non è possibile, nei due atti di citazione, trovare nulla che riguardi il merito delle affermazioni contestate. Né, quindi, ci viene data la possibilità di dimostrare che esse sono fondate su dichiarazioni pubbliche (addirittura fatte da parlamentari della Repubblica un tempo legatissimi al premier, come Paolo Guzzanti) o su dichiarazioni già acquisite dall’autorità giudiziaria (come quelle della D’Addario) e diffuse da tutta la stampa mondiale.
E questo chiarisce le ragioni della scelta della sede civile e la richiesta di un risarcimento esorbitante. E’ evidente che Silvio Berlusconi, come già il fascismo, vuole chiudere il giornale fondato da Antonio Gramsci.
Faremo tutto ciò che è nelle nostre possibilità per impedirlo. Lanciamo, ai nostri lettori e a tutti i democratici, un appello perché si mobilitino a difesa della libertà di stampa.
L’intenso traffico che il nostro quotidiano online sta registrando in queste ore, potrebbe causare dei rallentamenti nell’accesso: ce ne scusiamo con i lettori .
* l’Unità, 02 settembre 2009
Il colpo di stato d’autunno
Nei prossimi mesi la maggioranza politica tenterà di attuare il più devastante disegno autoritario dal dopoguerra in poi
di Luigi De Magistris (l’Unità 30.8.2009)
Credo che il popolo italiano debba essere consapevole che la maggioranza politica di ispirazione piduista tenterà di utilizzare le Istituzioni per portare a compimento nei prossimi mesi il più devastante disegno autoritario mai concepito dal dopoguerra in poi. Un vero golpe d’autunno.
Da un punto di vista istituzionale si cercherà di rafforzare il progetto presidenzialista di tipo peronista disegnato su misura dell’attuale Premier. Poteri assoluti al Capo dello Stato eletto dal popolo. Elezioni supportate dalla propaganda di regime costruita attraverso il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione. Il Parlamento coerentemente ad un assetto autoritario e verticistico del potere ridotto ad organo di ratifica dei desiderata dell’esecutivo con le opposizioni democratiche messe in condizione di esercitare mera testimonianza. La distruzione dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura attraverso la sottoposizione del pubblico ministero al potere esecutivo con modifiche costituzionali realizzate illegittimamente con legge ordinaria (quale quella che subordina il Pm all’iniziativa della polizia giudiziaria e, quindi, del governo), nonché attraverso la mortificazione del suo ruolo attraverso leggi quale quella che elimina di fatto le intercettazioni (rafforzando quindi la cd. microcriminalità in modo, poi, da invocare poteri straordinari per combatterla).
La revisione della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura - non però nella direzione di liberare tali fondamentali organi dalle influenze partitiche e di poteri che pure sono presenti - ma attraverso il rafforzamento della componente politica e partitocratica. La soppressione della libertà di stampa e del pluralismo dell’informazione formalizzando normativamente la scomparsa dei fatti. La disintegrazione della scuola pubblica, dell’università e della ricerca, in modo da favorire il consolidamento della sub-cultura di regime, quella per intenderci che ha realizzato il mito del «papi», ossia del padrone che dispensa posti e prebende.
Il prossimo Presidente della Repubblica - il desiderio dei nuovi peronisti è ovviamente quello che Berlusconi diventi il Capo, il Capo di tutto e di tutti dovrà avere ampi poteri e con questi anche il comando delle forze armate (dopo aver già ottenuto la gestione della sicurezza attraverso la sua privatizzazione con l’utilizzo delle ronde da lanciare magari a caccia di immigrati e omosessuali) in modo da poter governare anche eventuali conflitti sociali con la forza.
Sul piano economico e del lavoro la maggioranza prepara la repressione al dissenso ed al conflitto sociale causato da un disegno che punta a rafforzare le disuguaglianze attraverso una politica economica che consolida sempre più i poteri forti e squilibra fortemente il Paese come nei regimi (chi ha già tanto deve avere di più, mentre sempre di più saranno quelli che non riescono ad arrivare alla fine del mese), con l’assenza del contrasto all’evasione fiscale e l’approvazione di norme che rafforzano il riciclaggio del denaro sporco. Il furto delle risorse pubbliche che vanno a finire nelle tasche dei soliti comitati d’affari. Il mancato adeguamento dei salari al costo della vita. L’incapacità di favorire l’iniziativa economica privata fondata sulla libera concorrenza supportando, invece, la rapacità dei soliti prenditori. L’assenza di strategia che possa rilanciare il lavoro pubblico e privato fondandolo sulla meritocrazia e non sul privilegio e sull’occupazione della cosa pubblica (come, per fare un esempio, nella sanità). Assenza di politiche economiche fondate su sviluppo e lavoro, tutela delle risorse e rispetto della natura e della vita. Il saccheggio, in definitiva, della nostra «Storia».
Un progetto contro il nostro futuro. Il colpo di Stato apparentemente indolore ed a tratti invisibile reso possibile dall’istituzionalizzazione delle mafie, dalla loro penetrazione nelle articolazioni economiche e pubbliche del Paese, dal loro controllo del territorio, dalla capacità di neutralizzare la resistenza costituzionale. Un golpe senza armi ma intriso di violenza morale con l’utilizzo del diritto illegittimo,della creazione di norme in violazione della Costituzione. L’eversione attraverso l’uso di uno schermo legale. L’uccisione della democrazia dal suo interno. È necessario, quindi, che si realizzino subito le condizioni per una grande mobilitazione civile, sociale e politica che si opponga a questo disegno autoritario che stravolge gli equilibri costituzionali e l’assetto democratico del nostro Paese.
Spezzatino d’Italia
di MICHELE AINIS (La Stampa, 29/8/2009)
L’Italia ha le traveggole, verrebbe da pensare. Perché i due temi che campeggiano nel nostro dibattito pubblico, anzi la doppia polemica che ci avvolge come una nuvola di smog reca in sé un ossimoro, una contraddizione. Eppure in entrambi i casi a darle corpo sono i fatti, non una chiacchiera sotto l’ombrellone.
È un fatto, in primo luogo, che il Belpaese è ormai uno spezzatino. Nei suoi simboli identitari, dato che la Costituzione rimane un oggetto misterioso, dato che l’inno nazionale è stato messo in discussione, dato che c’è chi vuol affiancare al tricolore le bandiere regionali, dato infine che persino la lingua ci divide, con l’idea dei dialetti obbligatori nelle scuole. Nei valori della fede, benzina per la guerra in corso tra guelfi e ghibellini, ora per la pillola abortiva Ru486, ora per l’insegnamento della religione, ora per il testamento biologico. Nelle disparità economiche, che il federalismo fiscale promette d’accentuare, mentre nel frattempo incalza la proposta delle gabbie salariali. Nella rappresentanza nazionale in Parlamento, con un partito del Nord che rastrella il 10 per cento dei consensi, sicché l’antico Regno dei Borboni sta per opporgli un partito del Sud. Insomma l’unità d’Italia è diventata un’impostura, o al più un ricordo dell’infanzia. Ovvio che le celebrazioni per i suoi 150 anni di carriera siano ferme al palo, nonostante moniti ed allarmi.
È un fatto, in secondo luogo, che questa marmellata nazionale alimenta tuttavia una politica dura come il ferro, permeata da istinti muscolari, incline a derive autoritarie. Può sembrare l’opinione di qualche intellettuale pallido, magari abbagliato dalle tante ordinanze dei sindaci sceriffi, che per esempio a Sanremo vietano a chiunque di sedersi fuori dalle panchine comunali, a Voghera vietano invece le panchine, quando ci s’accomoda in più di tre persone. Ma le prove sono ben maggiori, e soprattutto è ormai corale la denuncia. Il segretario del Pd, Franceschini, ha appena messo in guardia gli italiani dal pericolo d’un nuovo autoritarismo, e intanto prepara una mobilitazione straordinaria per la libertà d’informazione. Il presidente della Camera, Fini, punta l’indice contro le politiche razziste del governo. I radicali di Pannella presentano un dossier per dimostrare che le patrie galere sono peggiorate anche rispetto ai tempi del fascismo. I valdesi digiunano per solidarietà con gli immigrati. La Chiesa cattolica si schiera senza mezzi termini contro il reato d’immigrazione clandestina, aprendo un incidente con la Lega. Perfino Lippi, ct della Nazionale, protesta dopo il sistema poliziesco deciso da Maroni, ossia la schedatura in massa dei tifosi.
Da qui una contraddizione, un bisticcio logico. Perché se il cemento che ci univa gli uni agli altri si va spappolando, allora significa che siamo rimasti orfani dello Stato, la nostra casa comune. Ma se al contempo va consumandosi una stretta autoritaria, vuol dire che di Stato ce n’è troppo, ed è così potente da prosciugare i diritti individuali. Insomma: almeno all’apparenza, il primo fenomeno suona come la negazione del secondo. A meno che non ne sia la scaturigine, ed è precisamente questa la domanda che reclama oggi una risposta. Quando l’unità d’un popolo viene messa a repentaglio, chi lo governa tende sempre a rinsaldarlo fabbricandogli un nemico. Può trattarsi d’un nemico esterno, come la perfida Albione su cui farneticava Mussolini. Oppure d’un nemico interno: i clandestini, e poi gli zingari, i lavavetri, i clochard sui quali da un mese pende l’obbligo di registrazione, perfino i tifosi. Se c’è davvero un nesso fra l’unità del popolo italiano e il suo patrimonio di diritti, faremmo meglio a darci una regolata. Senza amor di Patria, corriamo il rischio di diventare schiavi.
michele.ainis@uniroma3.it
L’attacco a "Repubblica", di cui la citazione in giudizio per diffamazione è solo l’ultimo episodio, è interpretabile soltanto come un tentativo di ridurre al silenzio la libera stampa, di anestetizzare l’opinione pubblica, di isolarci dalla circolazione internazionale delle informazioni, in definitiva di fare del nostro Paese un’eccezione della democrazia. Le domande poste al Presidente del Consiglio sono domande vere, che hanno suscitato interesse non solo in Italia ma nella stampa di tutto il mondo. Se le si considera "retoriche", perché suggerirebbero risposte non gradite a colui al quale sono rivolte, c’è un solo, facile, modo per smontarle: non tacitare chi le fa, ma rispondere.
Invece, si batte la strada dell’intimidazione di chi esercita il diritto-dovere di "cercare, ricevere e diffondere con qualsiasi mezzo di espressione, senza considerazioni di frontiere, le informazioni e le idee", come vuole la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, approvata dal consesso delle Nazioni quando era vivo il ricordo della degenerazione dell’informazione in propaganda, sotto i regimi illiberali e antidemocratici del secolo scorso.
Stupisce e preoccupa che queste iniziative non siano non solo stigmatizzate concordemente, ma nemmeno riferite, dagli organi d’informazione e che vi siano giuristi disposti a dare loro forma giuridica, senza considerare il danno che ne viene alla stessa serietà e credibilità del diritto.
Franco Cordero
Stefano Rodotà
Gustavo Zagrebelsky
* la Repubblica, 28.08.2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente della Repubblica
Picconatori dell’unità nazionale
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 8 agosto 2009)
C’è una singolare concordia bipartisan nel giudicare cosa non seria la proposta del presidente dei senatori della Lega on. Bricolo di «recuperare i simboli identitari» delle regioni. Con bandiere e inni distinti, che fa seguito all’altra proposta, quella relativa ai dialetti. Eppure queste proposte hanno un senso e una logica di cui bisogna tenere conto. L’appuntamento del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia è un’occasione per riflettere su dove stiamo andando e su che cosa sappiamo e pensiamo di un paese dove pezzo su pezzo quell’unità si sgretola.
Prendiamo come guida la celebre definizione di Alessandro Manzoni: «Una d’arme, di lingua, d’altare». Una d’arme: oggi registriamo il ritorno con le ronde a un’imitazione edulcorata delle squadracce fasciste e l’avvio della fine di un carattere essenziale dello Stato moderno - il monopolio della violenza, il rifiuto del farsi giustizia da sé. Una d’altare: quale altare? Oggi l’intolleranza della Chiesa scatena il fanatismo di una sua verità senza carità contro le leggi dello Stato, contro il rispetto dei diritti costituzionali dell’individuo e dei principi della laicità e del pluralismo. Qui si deve parlare chiaro. Abbiamo seguito con attenzione il crescere dell’indignazione morale in mezzo al clero di base davanti al dilagare del fiume di immondizia che ha trasformato i palazzi del potere in nuove stalle di Augia. Ma com’era facile prevedere la dirigenza ecclesiastica non ha trovato niente di serio da dire contro un potere dal quale si attende concessioni tanto più generose quanto più chi ne è il titolare e il simbolo è oggi bisognoso del suo sostegno. Dai tempi di Enrico IV a Canossa questa è la situazione preferita dal papato. Un giorno qualcuno indagherà su questi silenzi così come si è fatto per i silenzi papali e i sussurri dei palazzi apostolici ai tempi della Shoah. Ma spetta a noi cercar di capire dove questa politica della Chiesa mira a portare il paese.
L’importanza della Chiesa in Italia è innegabile. Non per niente la riflessione di Antonio Gramsci sulla funzione degli intellettuali e sulla costruzione di una nuova egemonia prese a modello il clero come "intellettuale organico". Oggi c’è un legame tra lo stato di crisi della cultura italiana e le pulsioni integriste e fondamentaliste del blocco sociale che ha trovato nella benedizione della Chiesa la sua espressione culturale "seria". Non importa se la saldatura mette insieme pezzi solo apparentemente eterogenei come il divieto cattolico dell’aborto e l’immoralità grossolana di chi tratta il corpo femminile come merce da esibire e consumare, sul letto privato o sulle poltrone pubbliche. Per l’alta dirigenza ecclesiastica il diritto fissato dalla Costituzione e sancito dalle leggi di disporre del proprio corpo è intollerabile: invece l’umiliazione della dignità femminile da qualunque parte venga non urta una cultura clericale tradizionalmente ostile alle donne.
Ma veniamo all’ultimo termine della definizione manzoniana: la lingua. Oggi il "paso doble" di un leader che fa strame di moralità pubblica e privata e di un partito - la Lega - che persegue senza ostacoli il disegno della cancellazione dell’unità del paese è arrivato all’ultimo baluardo: la lingua. È forse necessario ricordare che ben prima di Mazzini e di Garibaldi è stata la lingua italiana a unificare la penisola? Questo è il patrimonio immateriale del paese. Patrimonio altissimo, non solo dell’Italia ma dell’umanità: non c’è bisogno di un riconoscimento dell’Unesco per sapere che l’Italia vive nel mondo in grazia di una tradizione letteraria e intellettuale che spinge genti lontane a studiare la lingua di Dante e di Boccaccio, di Machiavelli e di Galilei - una lingua condivisa ben al di là dei confini statali, tanto che, come ha detto una volta il presidente Napolitano, potrebbe essere considerata la lingua franca del Mediterraneo. Cancellate quella lingua e scomparirà il paese Italia.
Lingua come cultura? Oggi non si dice più cultura. Si dice identità. La cultura è parola buona per assessorati e ministeri, per l’industria pubblica del divertimento, del sogno e dell’evasione. Mentre eravamo distratti, mentre la volontà di voltar pagina faceva illudere che si potesse semplicemente dimenticare il "secolo breve", il vocabolario è cambiato: oggi si dice "identità". E si intende diritto del sangue e del suolo, chiusura, esclusione. Allora le classi dirigenti italiane scelsero la chiusura culturale e sognarono il cupo sogno della purezza della razza italiana. Sappiamo bene com’è finita. Oggi il virus torna, solo apparentemente innocuo. Invece di ridere o di scandalizzarsi, sarebbe utile chiedersi in quanti abbiano arato e concimato il terreno su cui cade oggi la proposta del senatore Bricolo di dare espressione ai "simboli identitari" delle regioni; e magari contare i palazzi pubblici che inalberano già bandiere e simboli del genere. Quanta esaltazione del tipico e del locale, quante sagre strapaesane sono state pagate col taglio delle risorse per scuole, biblioteche, musei, con la svendita e la cementificazione del paesaggio.
Il "sacro egoismo" degli otto milioni di baionette fu negli anni Trenta la morale pubblica di un regime liberticida e razzista. Oggi, nel paese dei nove milioni di auto sulle vie delle vacanze, il sacro egoismo è quello del Nord contro il Sud, delle gabbie salariali, dei muri e delle prigioni per gli immigrati. Allora nel carcere di Turi Antonio Gramsci iscrisse sull’agenda politica della rinascita del paese la necessità di una riflessione sul Risorgimento, sulla questione meridionale, sulla funzione degli intellettuali. Oggi questi sono i temi che ci tornano davanti come un rimorso, a ricordarci che la cultura è confronto, dialogo, arricchimento nel continuo confronto tra passato e presente, tra noi e gli altri.
La memoria perduta dell’Unità d’Italia
di Mario Pirani (la Repubblica, 04.08.2009)
LE LAMENTAZIONI sulle sorti d’Italia rappresentano quasi un genere letterario da molto prima che si realizzasse l’unità della Penisola. Da Dante a Petrarca, da Leopardi a Manzoni è un inseguirsi di appassionate strofe: da «Ahi serva Italia, di dolore ostello» a «Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno», da «O patria mia, vedo le mura e gli archi/e le colonne, ma la gloria non vedo» fino alla breve speranza di «O giornate del nostro riscatto!»: è tutto un disperato anelito all’inveramento della nazione lacerata.
Anelito, peraltro, sofferto da minoranze che sognavano una patria, da ristrette aristocrazie del pensiero e del lignaggio, da spiriti liberi indipendenti e rari; la maggioranza, in gran parte analfabeta e sepolta nel duro lavoro dei campi e nel servaggio, non potendo che riconoscersi, invece, nel cinico «Franza o Spagna, purché se magna». Motto seicentesco degli italiani soggiogati e divisi, ma che potrebbe esser stato scritto da Alberto Sordi e lasciato a perenne eredità per quei più, che sprezzano ogni poetico idealismo (o altro “ismo” che sia) in nome dei prosaici interessi, misurabili su scala individuale o familistica.
Tale preambolo può essere utile per rammentare come la poetica sulle peculiari sorti del nostro Paese, accompagnata, lungo tutto l’Ottocento, dal trionfo popolare del melodramma verdiano, che a essa si affiancava e a una letteratura formativa del carattere, dei valori e della lingua, dai Promessi sposi al Cuore, declinò quel “racconto italiano” scandito dalla formazione scolastica universale.
Quel “racconto italiano” che servì, almeno fino agli anni del secondo dopoguerra, a plasmare, in continuità con quel loro passato, finalmente riscattato, il profilo dei cittadini di una Nazione ritrovata.
Delineata nel 1861, coronata con Roma capitale nel 1870, completata nel 1918 con Trento e Trieste, esaltata nel ventennio fascista, che la dilatò in un nazionalismo catastrofico e in un vacuo quanto magniloquente richiamo augusteo, l’unità d’Italia, salvata dalla Resistenza, sembrò recuperata e messa in sicurezza dall’avvento repubblicano e costituzionale del 1947.
Storia e geografia parvero comporsi lungo la dorsale appenninica e l’arco alpino. La lingua unica si diffuse e radicò, accanto ai vecchi dialetti, grazie alla formazione di base universale e, soprattutto, alla tv. Tutto questo patrimonio culturale ed emotivo, riferimento primario che ha forgiato per generazioni l’auto identificazione degli italiani, sembra improvvisamente dissolversi, uscire dalla memoria collettiva e individuale di milioni di persone, regredite da cittadini ad abitanti di una penisola lobotomizzata. Molti commentatori, sollecitati dalle traversie celebrative del 150° anniversario e dall’esplodere del malcontento siciliano hanno affrontato il fenomeno. Gli ottimisti di natura, come Giuseppe De Rita, giurano che tutto andrà per il meglio: l’Italia sarebbe «una nazione in corso d’essere, un semenzaio di nazioni che continuano a cercare faticose convergenze». Altri, come Angelo Panebianco, vedono «il riacutizzarsi delle storiche fratture» di cui solo la Dc aveva impedito il dispiegarsi.
Giorgio Ruffolo, invece, riconduce la crisi al venir meno di ogni attenzione alla pur irrisolta questione meridionale, giustamente vista come «la questione critica dell’unità nazionale, oggi praticamente uscita dall’agenda politica e sostituita da una questione settentrionale che punta piuttosto alle divergenze che all’unità».
Sono contributi che denotano la sensibilità verso un tema che tutti sentiamo incombere. Il sottoscritto, ad esempio, reputa che il disgregarsi dei principi che ressero per quasi un secolo l’unità della nazione italiana sia di natura politica ma non corrisponda affatto a un preciso disegno. Come quasi sempre accade è il risultato di errori, sedimentatisi nel tempo, di coincidenze casuali, di esiti eterogenei rispetto ai fini, di nefandezze culturali concimate per insipienza che hanno fecondato uova di serpente. È pur vero che l’intelaiatura del nostro Paese si reggeva su un sistema partitocratico e che la Dc vi svolgeva un ruolo decisivo, finalizzato in primo luogo a legittimare l’apporto cattolico alla gestione dello Stato, ma questo non era affatto esclusivo. Anche più incisivo, ai fini di far vestire ai ceti popolari gli abiti della storia patria e della Costituzione unitaria, fu l’apporto della sinistra e principalmente del Pci.
Collocati dalla genialità del Togliatti 1944-1948 in un prospettiva atemporale, sia il vecchio internazionalismo socialista che il legame con l’Urss, il motore propulsivo del partito fu attivato in ogni sua potenzialità per raggiungere la identificazione della sinistra con la storia d’Italia. I partigiani si chiamarono nona caso garibaldini, Gramsci fu declinato come inventore dell’alleanza permanente tra contadini del Sud e operai del Nord, Togliatti si spese per allargare l’alleanza ai ceti medi (teorizzata in un celebre discorso, “Ceti medi e Emilia rossa”). Non si trattò mai di una edificazione di facciata ma di una costruzione a tutto tondo con solide fondamenta per allineare il recepimento di una politica nazionale a un impianto sociale che tendesse a rendere, quanto meno sul piano dei principi, gli italiani eguali, dalle Alpi alla Sicilia. Le leggi,i salari, le riforme, la scuola e in genere il Welfare state si svilupparono con questa impronta egualitaria e nazionale a un tempo.
Ancor più intrinseca alla storia d’Italia fu l’elaborazione di quella che si chiamò l’egemonia culturale, imperniata sulla triade De Sanctis-Labriola-Gramsci, affiancata in dialettico rapporto al duo Croce-Gentile. Migliaia di intellettuali, di riviste, di centri studi vi apportarono arricchimenti continui.
Mentre scandirono i tempi della questione meridionale, concepita come centrale questione nazionale, uomini come Fortunato e Salvemini, Dorso e De Martino, Amendola e Rossi Doria, Compagna e Saraceno.
Non era scritto da nessuna parte che tutto ciò dovesse venir meno con il crollo del vecchio sistema partitocratico. Non era scritto che il Pci dovesse tentare il proprio rinnovamento gettando alle ortiche non solo Stalin ma anche Cavour e Garibaldi, riducendosi a soggetto immemore dalla incerta identità.
Non stava scritto che alla Dc dovesse subentrare non un altro movimento di centro, orientato o menoa destra, liberaleo populista che fosse, ma un partito-azienda, partorito da Mediaset e guidato da un personaggio la cui filosofia politica e di vita è priva di retroterra storico come di prospettive future, ma tutta appiattita sul presente, sull’ hic et nunc misurabili in termini massmediatici e di potere. Non stava scritto che anche la destra nazionale abdicasse all’unica parte valida del proprio passato per un piatto di lenticchie berlusconiano, da cui rifugge il solo Fini, rassegnato a sbandierare le sue buone ragioni dalla presidenza di Montecitorio.
Un assieme di eventi che sarebbero stati probabilmente metabolizzati col tempo se non si fossero incrociati in un punto di coincidenza del tutto casuale: la comparsa della Lega. Fenomeno di per sé nient’affatto eccezionale ma apparentabile ad altri simili, ispirati al localismo e alle “piccole patrie”, in Austria, in Catalogna, in Belgio, in Slovacchia e, con effetti sanguinosi e dirompenti, in Jugoslavia.
Da noi la Lega poteva restare nell’ambito della Padania, recependo e realizzando concreti miglioramenti regionali per il suo elettorato. Invece, come quei virus che diventano mortali quando passano dall’animale all’uomo, così la Lega incrociando un Pd senza memoria e un PdL privo di radici storiche, ha infettato gli uni e gli altri. Da un lato la deplorevole riforma del Titolo V della Costituzione, con la cancellazione del principio prioritario dell’interesse nazionale, dall’altra il recepimento di dosi massicce di velenosità anti nazionali, atte a produrre esplosioni incontrollate di fronte alla crisi economica e alla appropriazione da parte del Nord delle scarse risorse a disposizione. Così quella di Bossi si è trovata a essere l’unica ideologia che ispira il PdL e ha finito per condizionare il Pd.
Non basta il pessimismo leopardiano per lamentarne gli esiti.
Democrazia zoppa d’Italia
di MICHELE AINIS (La Stampa, 31/7/2009)
Ancora qualche giorno, poi il Parlamento andrà in vacanza. Ma in realtà le vacanze dei parlamentari durano dall’avvio della legislatura. Anzi: i nostri rappresentanti non sono in ferie, sono già in pensione. Pensionamento anticipato, come succede nelle aziende in crisi. Perché le due Camere hanno ormai una funzione puramente ornamentale. Non dettano più l’agenda del Paese, semmai la scrivono sotto dettatura. I dati sono fin troppo eloquenti. Per esempio quelli diffusi il mese scorso dall’Osservatorio civico sul Parlamento italiano. Su 4.016 proposte legislative depositate alla Camera e al Senato, soltanto 68 si sono trasformate in legge. Neanche poche, giacché fra i nostri guai c’è il gran numero di leggi e di leggine che abbiamo sul groppone. Ma il guaio maggiore dipende dalla circostanza che fra queste 68 leggi, 61 sono nate su iniziativa del governo: il 90%. Dunque l’officina del diritto ha traslocato, il suo nuovo indirizzo è a palazzo Chigi.
Per conseguenza i parlamentari della maggioranza sono i più assidui nelle votazioni (83% di presenze), quando c’è da mettere un timbro sugli ordini del Capo; diventano altrettanti desaparecidos se si tratta di prendere parola in aula, o d’imbastire a propria volta qualche iniziativa (il Pdl ha il più basso grado d’efficienza: 2,01 in una scala da 0 a 10). Ma in generale solo 24 onorevoli su un migliaio lavorano a pieno ritmo. Colpa loro? Forse. Ma sta di fatto che in Parlamento non c’è più lavoro. Perfino il sindacato ispettivo sul governo è via via sfumato come un ricordo dell’infanzia, se è vero che attualmente sono appena 2 le commissioni bicamerali d’inchiesta: quella sulla mafia e quella sui rifiuti. L’asservimento delle Camere al governo dipende da tre cause. Una originaria: la legge elettorale, che ha trasformato gli eletti in nominati, privandoli d’indipendenza e dignità. Due successive: l’abuso dei decreti legge e dei voti di fiducia. I primi sono ormai una quarantina in questo scorcio di legislatura, benché i costituenti ne avessero immaginato l’adozione soltanto dopo un terremoto. Quanto alle fiducie, fin qui ne abbiamo contate 23, per lo più imposte dall’esecutivo durante la conversione dei decreti, com’è appena accaduto sul decreto anticrisi. Una tenaglia perfetta, stretta alla gola delle assemblee parlamentari in nome dell’urgenza. Ma che cos’è la questione di fiducia? Uno strumento estraneo alla Costituzione, che però il governo sfodera come una sorta di ricatto: o fai come ti dico o tutti a casa. Sicché i parlamentari non votano più misure normative, bensì continue dichiarazioni d’amore verso la carovana dei ministri. Hai fiducia, mi vuoi bene? Dimmelo di nuovo, dimmelo una volta a settimana. Tutto questo sarebbe perfino ridicolo, se non fosse viceversa tragico. In primo luogo perché la smobilitazione delle Camere implica uno sfratto per l’opposizione, dato che quest’ultima ha casa proprio lì, non certo nelle stanze dell’esecutivo. Quando si chiede alle minoranze di collaborare, o almeno d’evitare grida e strepiti, bisognerebbe almeno dire dove si trovi la sede del confronto, quale edificio abbia rimpiazzato il Parlamento.
In secondo luogo perché il nuovo andazzo nega l’attributo basilare delle democrazie: il principio di pubblicità. Le discussioni parlamentari sono per definizione pubbliche, ma chi mai viene a sapere quale mano ha scritto il decreto del governo o il maxiemendamento? E chi potrà appurare di quali occulte trattative siano figli questi testi? In terzo luogo - e soprattutto - perché l’eclissi delle Camere ci restituisce un sistema sbilanciato, dove il potere non ha contropoteri, dove la separazione cara al vecchio Montesquieu gira in subordinazione, in accentramento verticale del comando. No, non c’è da rallegrarsi del nuovo abito che indossano le nostre istituzioni. In quest’ultimo anno è andata in crisi la democrazia rappresentativa, ma altresì quella diretta, dopo il fiasco del referendum elettorale, con un misero 23 per cento di votanti. Significa che la democrazia italiana è zoppa di ambedue le gambe. O chiamiamo di corsa un ortopedico, o altrimenti dovremo rassegnarci alla sedia a rotelle.
michele.ainis@uniroma3.it
MAPPE
Il Paese delle leghe e la nazione impossibile
di ILVO DIAMANTI *
Esiste l’Italia? E, soprattutto, è una nazione? È una questione vecchia quanto l’Italia. Tornata attuale all’avvicinarsi del 2011, anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Carlo Azeglio Ciampi, non a caso, ha minacciato di lasciare il Comitato per le celebrazioni, "se non cambia nulla". Se, cioè, non viene colmato - o almeno nascosto - il "vuoto di idee" in merito, denunciato da Ernesto Galli della Loggia.
Ciampi, d’altronde, aveva restituito dignità al 2 giugno, festa della Repubblica. Ha valorizzato un’idea dell’Italia come "nazione di città e di regioni". Dove la molteplicità e le differenze sono un elemento di unità. Un distintivo. Il che significava dare cittadinanza anche alla Lega e alle sue rivendicazioni "riformiste".
Anzitutto il federalismo. Nel corso della prima metà degli anni Novanta, d’altronde, la minaccia della secessione del Nord, lanciata dalla Lega, aveva reso esplicita la questione: che succede "se cessiamo di essere una nazione?" (titolo di un noto saggio Gian Enrico Rusconi del 1993). Favorendo, per reazione, un ritorno prepotente dell’identità nazionale (certificata da numerosi sondaggi).
Oltre 15 anni dopo, la questione riappare. Molto meno lacerante, però. E per questo più preoccupante. La nazione. Fondata su un comune nucleo civico. Un’identità condivisa. Non suscita grande passione. Semmai, vi sono segnali che vanno in senso diverso e divergente.
Anzitutto, gli orientamenti dei cittadini in questo senso, si sono raffreddati sensibilmente. All’inizio del 2000 (indagine LaPolis-liMes), l’Italia costituiva uno dei due principali riferimenti dell’appartenenza territoriale per il 42% delle persone. Alla fine del 2008 per il 35%. Oltre 8 punti in meno. Nello stesso periodo, però, si è ridimensionato anche l’attaccamento per le città (dal 41 al 26 %) e le regioni (dal 34 al 23%).
Mentre è cresciuta, soprattutto, l’identificazione nelle macroregioni. In particolare, nel Nord. Era espressa dal 9% dei cittadini nel 2000, oggi dal 14%. Che però sale al 26% fra i cittadini del Nord "padano" (senza l’Emilia Romagna). In altri termini, l’Italia non riesce più a tenere insieme i diversi pezzi di questo paese. Dove, anzi, si riaprono le fratture antiche. Prima fra tutte: fra Nord e Sud.
Negli ultimi 3 anni, infatti, la quota degli italiani che esprime "distacco" nei confronti del Nord o del Sud sale, infatti, dal 20 al 31% (indagini LaPolis-liMes). Segno di un reciproco risentimento, che cresce vistosamente. Oggi il 26% di coloro che risiedono nel Nord "padano" e il 20% di chi abita nelle regione "rosse" (oggi "rosa") dichiara la propria "distanza" dal Mezzogiorno. Viceversa, il 29% dei cittadini del Mezzogiorno si dice lontano dal Nord.
Ancora: oltre un terzo dei cittadini del Nord (più del 40% nel Nord-Est) ma anche delle regioni "rosse" del Centro ritiene che il Mezzogiorno sia "un peso per lo sviluppo del paese".
La divisione fra Nord e Sud, mai risolta, oggi appare una frattura. Resa più drammatica dalla crisi economica e finanziaria, che alimenta il conflitto fra interessi territoriali. Divenuti, a loro volta, argomento di consenso e antagonismo politico. I partiti della prima Repubblica erano anch’essi federazioni di interessi e di comitati territoriali. La DC ma anche il PCI. Tuttavia le differenze e le domande locali erano integrate e mediate all’interno del partito su base nazionale.
Oggi, invece, le forze politiche usano sempre più spesso il riferimento territoriale come un’arma di lotta politica. Nel Nord, ovviamente, la Lega. Ma anche i governatori del PdL. Nel Sud, l’MpA guidato da Raffaele Lombardo, in nome degli interessi della Sicilia ha rotto l’alleanza con il PdL. Mentre Bassolino propone apertamente un nuovo "movimento del Sud". E altri governatori di Centrosinistra, come il presidente della Puglia, Nichi Vendola, polemizzano apertamente con il governo "nordista", guidato dall’asse padano Bossi-Tremonti.
D’altra parte, il risultato del PdL e Berlusconi, a livello nazionale, come si è visto alle recenti elezioni europee, dipende sempre più dalle alleanze "territoriali". Al Nord con la Lega, al Sud con MpA e con altre liste. Mentre il Pd continua ad essere confinato nelle regioni rosse. Quasi una "Lega del Centro", come ebbe a dire anni fa Marc Lazar. E per questo fatica a imporsi.
Da ciò la differenza profonda, rispetto agli anni Novanta. Allora le tensioni territoriali erano agitate dalla Lega nel Nord. Un soggetto politicamente periferico. Oggi, invece, la Lega governa ed è in grande ascesa. Mentre al Sud crescono altre leghe. Così l’Italia rischia di venire lacerata dalle crescenti tensioni fra nordisti e sudisti. Mentre la pluralità delle "patrie locali", su cui puntava Ciampi, non riesce più ad alimentare senso di appartenenza. Le città, le province e le regioni stentano a offrire identità ai cittadini. Oppure lo fanno alimentando le spinte localiste e anticentraliste. Tutti contro tutti. Ciascuno per proprio conto. Le province, dal 1980, quando se ne propose l’abolizione, sono aumentate da circa 90 a 110. Mentre sono centinaia i comuni che vorrebbero a scavalcare i confini regionali. Aggregandosi alle regioni più ricche e favorite dallo stato (perlopiù, le Regioni a statuto speciale).
Per questo, celebrare l’Unità della Nazione oggi è un’impresa difficile, se non impossibile. Perché non ci sentiamo uniti. E neppure una nazione. D’altronde, il carattere specifico degli italiani, secondo gli italiani stessi, è definito anzitutto dall’arte di arrangiarsi e dall’attaccamento alla famiglia. Un popolo di persone ingegnose e familiste. Capaci di inventare e di adattarsi alle difficoltà. Ciascuno per conto proprio. Si ricordano di avere un Casa Comune solo quando si tratta di chiudere le porte. Agli stranieri. Alzando - ovunque - muri per difenderci da loro. Dovremmo, semmai, difenderci da noi stessi. In questo mondo sempre più grande e aperto. L’Europa, sempre più debole. Senza un senso di appartenenza comune. Siamo destinati a perderci. A divenire marginali. Più ancora di oggi.
La Nazione. Forse non c’è. Comunque, l’abbiamo rimossa. Ma la dovremmo (ri)costruire. Per legittima difesa.
* la Repubblica, 26 luglio 2009
Legge sulla sicurezza, Napolitano:
"Chi mi critica non conosce la Costituzione"
ROMA - "Sono stati invocati poteri e doveri che non ho" così il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, risponde a chi lo ha criticato per la promulgazione della legge sulla sicurezza. E in materia di intercettazioni auspica che a settembre quando il ddl verrò riesaminato al Senato vi sia "spirito di apertura e senso della misura", per arrivare ad "una riforma condivisa".
La legge sulla sicurezza. Giorgio Napolitano ribatte "a qualche fiero guerriero" che lo ha criticato soprattutto dopo la promulgazione della legge sulla sicurezza. E’ stata una promulgazione piena, e chi "invoca polemicamente poteri e doveri di intervento che non ho, mostra di aver compreso poco della Costituzione". Il Capo dello Stato torna a chiedere capacità di autocritica e dialogo da parte di governo e opposizione, e spiega che il dibattito sulle intercettazioni sarà uno dei "banchi di prova" della nuova stagione.
Le intercettazioni. "Riconoscere che esiste un problema di revisione di regole e di comportamenti in materia di intercettazioni è la premessa per cercare soluzioni appropriate e il più possibili condivise". E’ l’auspicio espresso dal presidente delle Repubblica. Soluzioni che, a suo giudizio, si possono raggiungere "cogliendo l’occasione dell’opportuno slittamento delle votazioni in parlamento sulla legge già da non breve tempo in discussione".
Per Napolitano, dunque, "occorre spirito di apertura e senso della misura da parte di tutti i soggetti interessati". Anche per questo, sottolinea il Capo dello Stato, "sarà prossimamente questo uno dei banchi di prova di quel confronto più civile e costruttivo tra maggioranza e opposizione che continuo a considerare necessario nell’interesse della democrazia e del paese".
* la Repubblica,20 luglio 2009
Il presidente della Repubblica scrive a Berlusconi, a Maroni e ad Alfano
"Norme tra loro eterogenee, non poche delle quali prive di organicità e sistematicità"
Sicurezza, Napolitano promulga la legge
ma esprime "perplessità e preoccupazioni"
ROMA - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha promulgato la legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento il 2 luglio scorso, ma ha inviato al premier e ai ministri interessati una lettera in cui esprime "perplessità e preoccupazioni". Il capo dello Stato ha ritenuto di non poter sospendere in modo particolare la entrata in vigore di norme, ampiamente condivise in sede parlamentare, volte ad assicurare un più efficace contrasto - anche sul piano patrimoniale e delle infiltrazioni nel sistema economico - delle diverse forme di criminalità organizzata.
Suscita peraltro perplessità e preoccupazioni l’insieme del provvedimento che, ampliatosi in modo rilevante nel corso dell’iter parlamentare, risulta ad un attento esame contenere numerose norme tra loro eterogenee, non poche delle quali prive dei necessari requisiti di organicità e sistematicità; in particolare si rileva la presenza nel testo di specifiche disposizioni di dubbia coerenza con i principi generali dell’ordinamento e del sistema penale vigente.
Su tali criticità il presidente Napolitano ha ritenuto pertanto di richiamare l’attenzione del presidente del Consiglio e dei ministri dell’Interno e della Giustizia per le iniziative che riterranno di assumere, anche alla luce dei problemi che può comportare l’applicazione del provvedimento in alcune sue parti.
La lettera è stata inviata, per conoscenza, anche ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati.
* la Repubblica, 15 luglio 2009
Oscar Luigi Scalfaro: "Il premier risponda sulle escort"
di Vittorio Ragone (la Repubblica, 15.07.2009)
Silvio Berlusconi deve rispondere alle domande di Repubblica sulla frequentazione di Noemi Letizia e sulle feste con le escort. Lo dice in una intervista l’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. «Quando un uomo di Stato è invitato a dare spiegazioni in Parlamento - sottolinea - l’appello non può restare inascoltato. Qui si tratta di questioni che presentano oggettivi profili di tutela dello Stato».Applicare due dottrine diverse a vita privata e vita pubblica è un costume al quale mi sono sempre ribellato
ROMA - Silvio Berlusconi, che tanta stima proclama e comuni sentimenti con Obama, impari da Obama l’amore per «la verità, la chiarezza e il dialogo. Tutti e tre insieme». È questo l’invito di Oscar Luigi Scalfaro al premier, convivente-rivale durante il suo settennato. «Chiarezza e verità» che l’ex capo dello Stato chiede siano applicate in tutte le occasioni.
Presidente Scalfaro, Repubblica pone da mesi domande che ritiene di interesse pubblico al capo del governo il quale tace. Lei che pensa: dovrebbe rispondere?
«Mi sono posto il problema. Penso che dovrebbe rispondere. Quando un uomo di Stato è invitato a dare spiegazioni in Parlamento su comportamenti che possono apparire privati ma lasciano ampi margini alla discussione pubblica, l’appello non può restare inascoltato». Anche se, come sostiene una parte del centrodestra, il tutto potrebbe tradursi in un pubblico processo su materie private?
«Nessuno ha titolo per pretendere confessioni pubbliche. Ma non c’è dubbio che su fatti che comunque interferiscono nelle responsabilità di governo, il Parlamento, che secondo la Costituzione è al centro della nostra vita democratica, abbia il diritto di sapere».
Lei che idea si è fatto dell’affare Noemi-D’Addario?
«Non voglio entrare nel merito. Il punto fondamentale è che le risposte arrivino e, soprattutto, che siano vere. Altrimenti si finirebbe solo per dar vita a una infinita catena di polemiche, procurando altri danni a questa democrazia tormentata. Gli interrogativi che vengono posti - e manteniamoci tutti al di là, e lontano, dalla morbosa curiosità che può facilmente subentrare - presentano degli oggettivi profili di tutela dello Stato nei suoi poteri e nell’attività all’interno e più ancora all’esterno del paese, e nell’intreccio dei suoi rapporti internazionali. Non dimentichiamo che donne come quelle di cui si parla e scrive sono le destinatarie, in genere, di chi fa spionaggio in casa nostra».
Quale dovrebbe essere l’atteggiamento di Berlusconi?
«Io credo che un uomo intelligente che si presentasse a dire: "Signori, assicuro sul mio onore che non ho mai violato il giuramento di fedeltà alla Costituzione, nel senso più ampio. Chiedo scusa al Parlamento e ai cittadini se ho dato adito a interrogativi e garantisco che non si ripeterà"... un uomo che si presentasse così, cospargendosi il capo con un pizzico di cenere, potrebbe vincere la partita. Ma se consente vorrei affrontare un discorso più generale, che mi è stato sempre a cuore nella attività politica. Riguarda appunto il tema della coesistenza tra politica e verità».
Restiamo comunque nei dintorni, mi pare.
«Sì, ma voglio uscire per un momento dalle ristrettezze dell’attualità. Vede, noi dobbiamo riconoscere che la distinzione fra una morale pubblica e una privata è sempre stata una tentazione marcata, anche in ambienti di convinzioni religiose cattoliche. Aggiungo che il riserbo spesso è un dovere, non sempre costituisce un arbitrio. Ma quando si viene al rispetto della verità, io ritengo che non si possa e non si debba affermare una specie di dottrina morale differenziata per la vita pubblica e per quella privata. E’ una distinzione alla quale mi sono sempre ribellato. Ecco perché sono rimasto ammirato dalla figura di Obama in questo suo primo viaggio in Europa e in Africa».
Non è il solo a professare ammirazione. Ma qual è esattamente l’attinenza?
«Sia nell’incontro con il presidente russo Medvedev per trattare della riduzione degli armamenti; sia nella presenza al G8, al quale indubbiamente ha dato un’impronta particolare e positiva; sia nella visita a Benedetto XVI, dove pure sono stati trattati temi irrinunciabili per la dottrina cattolica come la difesa della vita; sia, infine, nell’incontro in Ghana con gli africani attraverso un discorso veramente alto, da africano, Obama è sempre partito da una chiarezza assoluta delle posizioni. Non si è mai sentita, in questa prima esperienza di vertice del presidente statunitense, una precisazione, una marcia indietro, l’accusa di fraintendimenti. E questa chiarezza, unita al rifiuto della violenza e della guerra, ha imposto la ricerca del dialogo come fondamentale risorsa politica».
Tornando all’Italia, come tradurrebbe il metodo americano?
«Nella nostra tradizione, dove pure ce ne sono stati di uomini che si sono battuti per la verità, si è sempre dovuto constatare una certa tendenza a provare più attrattiva per la furbizia che per il rispetto spietato della verità. Ma se posso citare parole che ebbi modo di pronunciare in Parlamento anni addietro, "io voglio sperare di non aver mai negato la verità. Se per caso l’avessi fatto, la colpa è solo mia. Perché non è la politica che ci costringe a tormentare o occultare la verità. Quando accade, siamo noi i responsabili". Ecco, se dopo le esperienze di questi anni ci si invitasse reciprocamente a un ripensamento, la scelta del dialogo sarebbe certo la migliore. A condizione che il dialogo parta sempre dalla constatazione del vero».
Il dovere della chiarezza
di STEFANO RODOTÀ *
Archiviato il G8, con un indubbio successo personale del presidente del Consiglio, dovranno pure essere archiviate tutte le vicende che, negli ultimi turbinosi tempi, hanno riguardato la sua figura pubblica? Può un nuovo corso politico cominciare all’insegna di una omissione?
Non è un accanimento ingiustificato a sollecitare queste domande, ma proprio la necessità di avere una vita politica davvero limpida. Peraltro, era stato lo stesso Silvio Berlusconi a annunciare una svolta sul piano dei comportamenti. Un proposito limitato ai giorni aquilani o destinato a produrre qualche frutto anche in futuro? Il premier ha un’opportunità. Andare in un luogo che non ama, ma centrale per le istituzioni come il Parlamento, e rispondere alle domande che gli sono state poste.
Ricordava ieri Eugenio Scalfari che la maggiore sobrietà mostrata da Berlusconi durante il G8 può darsi che sia stata determinata anche dalla chiarezza con la quale una parte del sistema dell’informazione ha criticato il suo modo d’impersonare la più alta responsabilità politica del Paese, con echi globali che certamente non hanno giovato né alla sua credibilità, né a quello che enfaticamente si chiama il buon nome dell’Italia. E’ così emersa, inaspettatamente, la forza d’una opinione pubblica che si pensava ormai indifferente o addirittura dissolta, incapace di avere reazioni politicamente significative. Gli effetti si sono visti in occasione delle elezioni europee, nelle parole taglienti del segretario della conferenza episcopale italiana. Proprio questa risvegliata opinione pubblica, questo mondo che non ha dimenticato i doveri della moralità pubblica, sono ancora in credito. I buoni propositi sono sempre importanti, ma la loro fondatezza si deve subito misurare dal modo in cui si dimostra consapevolezza piena della responsabilità degli uomini pubblici nei confronti dei cittadini, di tutti i cittadini.
E’ giusto non alzare inutilmente i toni, ma questo non può significare dimenticare frettolosamente quel che è avvenuto e che, per altri versi, continua a essere oggetto di accertamenti giudiziari e inchieste giudiziarie. Se si scegliesse questa strada e non si continuasse a chiedere con voce sommessa ma chiara la verità, il già debole tessuto civile sarebbe ulteriormente logorato. Sono state proprio le troppe compiacenze e assoluzioni a buon mercato dei potenti a dare una spinta decisiva all’antipolitica, a creare un clima politico che ha spalancato le porte a una ricerca del consenso che fa leva più sui vizi che sulle virtù repubblicane. Illegalità sempre blandita, razzismo sempre meno strisciante, frequentazioni a dir poco disinvolte hanno legittimato una clima diffuso che costituisce un brodo di coltura che certo non fa bene alla democrazia.
Qui è il punto. La vicenda delle frequentazioni di Berlusconi, che nessun criterio consente di confinare nel privato, dev’essere chiarita per evitare che, per l’ennesima volta, la resistenza passiva dei politici, il loro "ha dda passà ’a nuttata" o "chinati juncu che passa la china", alla fine trionfino, non solo garantendo impunità, ma dando un pessimo esempio sociale. Non si tratta di andare alla ricerca di responsabilità penali, ma di rimettere in onore la responsabilità politica, praticamente cancellata in questi anni. E’ una impresa impegnativa, perché il fronte della responsabilità politica deve essere presidiato da molti soggetti. Quanta parte del sistema dell’informazione ha fatto il suo dovere? Quanta parte del ceto politico non vede l’ora di chiudere la "parentesi moralistica" per tornare agli usati costumi? Se attingiamo alla cultura pop, ci imbattiamo in Caterina Caselli: "La verità ti fa male, lo so... Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu". Probabilmente queste sono oggi le fonti, consapevoli o no, alle quali ci si ispira in un momento che esigerebbe meno leggerezza e maggiore consapevolezza di che cosa voglia dire far politica in un sistema democratico. Non suggerisco altre canzoni o altre letture. Richiamo il senso della verità in politica, che è componente essenziale della legittimazione stessa delle istituzioni, e che non può essere accantonato con una mossa cinica o di malinteso realismo politico (che, peraltro, non ha finora dato alcun profitto alle opposizioni).
L’obbligo di verità da parte delle istituzioni diviene diritto d’informazione sul versante dei cittadini. Nell’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu si afferma che "ogni individuo ha diritto di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee con ogni mezzo e senza riguardo a frontiere". Questo diritto individuale alla ricerca della verità attraverso le informazioni chiarisce bene quale sia il significato della verità nelle società democratiche, che si presenta come il risultato di un processo aperto di conoscenza, che lo allontana radicalmente da quella produzione di verità ufficiali tipica dell’assolutismo politico, che vuole proprio escludere la discussione, il confronto, l’espressione di opinioni divergenti, le posizioni minoritarie. Proprio questa ovvia considerazione ci dice che la partita in corso intorno alle mille verità, contraddizioni, reticenze, bugie sulla vicenda personale del presidente del Consiglio deve concludersi in modo da evitare ogni inquinamento del sistema democratico. Aspettiamo pazienti. Ma della pazienza si può abusare, come si disse per quel Catilina citato a sproposito nei paraggi berlusconiani. Perché l’abuso non si consolidi, e diventi regola, bisogna non stancarsi di insistere.
* la Repubblica, 13 luglio 2009
Italia: con una buona siesta tutto passa
di Shukri Said - El País - Tribuna, 10 luglio 2009 (traduzione dallo spagnolo di José F. Padova) *
Chiunque ami l’Italia e si avvalga del singolare privilegio di non essere coinvolto direttamente in uno dei suoi mille giochi di potere si vede obbligato ad assistere a una gravissima malattia. È la stessa democrazia, la più bella espressione dell’Italia dalla unità del Paese in poi, che si sta frantumando, mentre ripetute infiltrazioni di cortisone inibiscono la visibilità della devastazione dei suoi tratti distintivi. Il cancro che sta corrodendo l’Italia è il berlusconismo.
Ciò che in realtà ha maggiore importanza non è se l’attuale presidente del Consiglio frequenti ragazzine minorenni come Noemi o prostitute la notte e prelati di giorno, ma il fatto che moltissimi italiani lo ignorano. Da circa due mesi e mezzo una parte d’Italia è al corrente delle amicizie notturne e bisbocce del Cavaliere e di queste si occupa la stampa internazionale, tuttavia sono molti quelli che nulla sanno e che pertanto non possono giudicarlo. Se uno passeggia in un qualsiasi capoluogo di provincia non tarda a rendersi conto che le abitudini del capo del Governo non soltanto non sono note ma che, una volta spiegate, non vengono credute. Gli argomenti sono di questo tipo: “Una persona come lui come fa ad andare a puttane!”. La provincia italiana, senza dubbio, continua a essere sana quando afferma indignata che :”Andare a puttane è qualcosa di immorale!” e, invitata a informarsi in Internet, promette: “Lo farò, non dubiti!”.
Chi risponde così sono i giovani della febbre del sabato sera, che lavorano come operai, artigiani o apprendisti: le nuove generazioni che possono vivere senza informazione quotidiana o che, come molti, si nutrono del Telegiornale della Prima Rete RAI. Ed è qui che il problema democratico si combina col conflitto d’interessi che vede Berlusconi come proprietario diretto di tre reti televisive nazionali (Canale 5, Rete 4 e Italia 1), alle quali occorre aggiungere altre due pubbliche sotto controllo del governo (RAI 1 e RAI 2) ma anche l’influsso che la presidenza del governo può esercitare su altre reti private, in virtù del regime di concessione pubblica (La 7). Anche l’invito fatto agli imprenditori perché si astengano dal farsi pubblicità sul quotidiano che più insiste nell’inchiesta sulle feste berlusconiane (La Repubblica) ha peso, perché proviene dal capo del governo.
D’altro canto, fra gli italiani che “sanno”, una certa percentuale considera che le frequentazioni del presidente del Consiglio sono un affare privato, vale a dire non meritevole di tanta insistenza mediatica, e anche non particolarmente riprovevole. Sono quelli che ricordano come nelle istituzioni siano stati eletti gay imbarazzanti, stelline del porno in abiti succinti e transessuali che esitano nello scegliere il sesso del gabinetto. Sono loro che dicono di sentirsi orgogliosi di un presidente fornito di tanto testosterone.
Certi dettagli di questi precedenti, compresi quelli storici, non passano loro per la testa e si consolano col criterio del male minore.
L’insieme di queste due categorie di italiani, quelli che non sanno e quelli che si consolano, costituisce la maggioranza e permette a Silvio Berlusconi di rispondere alle domande sulle sue abitudini che lui è così e che gli italiani lo valutano positivamente per un 61%. Tuttavia questa maggioranza non si rende conto di aver contratto la metastasi della corruzione.
Questa corruzione fatta di permissività totale è ciò che dalla sfera pubblica dilaga in quella privata, permettendo che coniugi infedeli si sopportino senza che si arrivi mai a un chiarimento e vi siano tanti figli disorientati senza che alcuno si chieda le ragioni della loro insoddisfazione. Questa corruzione si diffonde con l’insofferenza davanti alle regole, con la violazione costante dei limiti di velocità e dei diritti dei pedoni, visti in definitiva come meri birilli da abbattere, che ammette il parcheggio in seconda fila o sui marciapiedi. È questa corruzione che nega ai tutori [della legge] e ai docenti l’autorità dello Stato, perché gli istituti universitari e ospedalieri esibiscono nelle loro nomine un clientelismo al di là di ogni decenza. Essa si compiace dell’evasione fiscale e vende il proprio voto elettorale; costruisce abusivamente confidando nei condoni che prima o poi arriveranno. Se approvano lo scudo fiscale per i ricchi, come non approveranno il condono per due mattoni sulla spiaggia!
Di menzogna in inganno le falsità di Stato si estendono a qualsiasi settore, senza altra considerazione per tutto ciò che non sia il potere come fine a sé stesso e al proprio interesse. Il respingimento degli africani ha luogo senza la minima selezione di coloro che potrebbero chiedere il diritto di asilo, suscitando allarme internazionale: che c’è di più? Ci sono elezioni e la Lega Nord deve piantare la sua bandierina sulla pelle dei più poveri al mondo. E sulla sua scia il Cavaliere si duole che Milano si sia trasformata in una città africana. Poi, il giorno dopo, stringe la mano a Obama. Che ci si potrebbe aspettare più di un caffè?
La corruzione dei costumi passa dalla sfera privata a quella pubblica e dà appena il tempo che si attenui la pressione della stampa sul Noemigate quando altri scandali si propongono alla pubblica attenzione. Berlusconi è stato accusato di aver pagato la falsa testimonianza dell’avvocato inglese David Mills in un processo su soldi neri che sembrano condurre a colui che fu eletto per la terza volta presidente del Consiglio nell’aprile 2008. La prima cosa che fa il Parlamento di nominati dai partiti (e non eletti dal popolo) è votare con fulminea rapidità una legge che lascia indenne il capo del governo dai processi penali in corso: la legge passa alla storia come lodo Alfano, dal nome del ministro della Giustizia che l’ha proposta. Il processo Mills si divide in due rami: quello che riguarda Mills si è concluso da poco con la condanna dell’avvocato; quello che coinvolge Berlusconi si interrompe con la remissione del lodo Alfano alla corte costituzionale, che già ha annullato un procedimento analogo, il lodo Schifani, pochi anni fa. La corte ha fissato la discussione sulla costituzionalità del lodo Alfano al prossimo mese di ottobre. Nel frattempo due dei 15 giudici della corte si riuniscono a metà maggio in una cena con il ministro Alfano e il presidente Berlusconi in casa di uno di questi magistrati. Scoppia lo scandalo circa l’inopportunità che chi viene giudicato si sieda a tavola con il suo giudice, ma quest’ultimo, a ragione, tira fuori la medesima giustificazione tirata fuori da Berlusconi circa le sue feste: "In casa mia io faccio ciò che voglio". Quasi come se la dignità istituzionale fosse un abito da lavoro.
Il fatto è che non si vede, nell’opposizione, nessuno che possa risalire la china. Il partito democratico è nato sotto una pessima stella: l’unione dei cattolici e della sinistra è servita soltanto per trascinare quest’ultima sull’altra sponda del Tevere (il Vaticano). Qualsiasi problematica nell’ambito dei diritti civili e morali viene oscurata davanti all’impossibilità di mantenere una coerenza fra l’obbedienza clericale e la laicità sociale, con il che si finisce per diluire in disorganizzazione e in silenzio un patrimonio di fermezza etica che era stato elevato a emblema e orgoglio. Coloro che hanno dilapidato in questo modo un simile patrimonio hanno perso qualsiasi credibilità davanti agli occhi dei vecchi simpatizzanti e la sinistra viene a trovarsi tanto carente di leadership da vedersi obbligata a ricorrere al ricambio generazionale, non senza litigi. Tanto meno il giustizialismo popolare stile Di Pietro dà segnali di essere un sostituto equilibrato di queste virtù.
Il presidente della Repubblica ha sollecitato una tregua per il G8. È difficile pensare che si tratti di un invito diretto alla stampa. Non è nello stile di Napolitano. È più facile supporre che abbia voluto evitare un altro errore della magistratura come quello del 1994, quando in pieno G-7 contro la criminalità arrivò al Cavaliere l’avviso di garanzia per corruzione inviato da "Mani Pulite".
Un cambiamento profondo potrà solo avvenire di nuovo ricuperando i punti cardinali della democrazia. Prima di tutto, l’informazione. Sotto il motto di "conoscere per poter discutere". In caso contrario, il sonno delle coscienze ci farà cantare come Enzo Jannacci fece alcuni anni fa: "E c’è chi dice... con una buona siesta tutto passa, fino al cancro".
PS: Rigoletto: il libertino duca di Mantova (Berlusconi) insidia la virtù di Gilda (Italia), figlia di Rigoletto (gli italiani), con la complicità dei cortigiani, ai quali Rigoletto si rivolge con la nota aria cortigiani, vil razza dannata. La cosa finisce con Gilda che muore fra le braccia di Rigoletto dopo essersi sacrificata per permettere che il duca di Mantova, del quale si era innamorata, sopravviva all’attentato organizzato da Rigoletto stesso.
* Shukri Said es secretaria de la Asociación Migrare. Traducción de Carlos Gumpert.
Chi rompe la tregua paga
DI BARBARA SPINELLI (La Stampa, 12/7/2009)
La tregua che è stata invocata nei giorni scorsi, per proteggere da aggressioni l’immagine dell’Italia durante il G8, introduce nella politica democratica un’esigenza di immobile quiete su cui vale la pena riflettere. Presa in prestito dal vocabolario guerresco, tregua significa sospensione delle operazioni belliche, concordata di volta in volta per stanchezza, timore del pericolo, subitanee emergenze. Fino alla rivoluzione francese, scrive Clausewitz, le guerre erano fatte soprattutto di pause: l’ozio assorbiva i nove decimi del tempo trascorso in armi.
Era «come se i lottatori stessero allacciati per ore senza fare alcun movimento». Le battaglie smettono quest’usanza quando si fa più possente il pensiero dello scopo per il quale si guerreggia, giacché solo tale pensiero può vincere la «pesantezza morale» del combattente. Ma la tregua non è solo «pesantezza, irresolutezza propria all’uomo». L’etimologia dice qualcos’altro: perché ci sia tregua efficace occorre che i lottatori siano leali, che la sospensione sia un patto, che non sia unilaterale. L’etimologia, germanica, rimanda all’inglese true-vero, e al tedesco treu-leale, fiducioso.
Verità, fiducia, lealtà, patto: sono gli ingredienti essenziali della tregua, specie quando dal teatro di guerra ci si sposta a quello di pace, e quando il concetto si applica alla selezione dei governanti migliori che avviene in democrazia. Un prorompente atto terrorista, una calamità naturale, possono comportare la sospensione della conflittualità propria alle democrazie.
Non per questo vengono sospese la ricerca di verità, la pubblicità data all’azione dei politici, il contrasto fra partiti, l’informazione indipendente. Altrimenti la tregua politica altro non è che continuazione della guerra con altri mezzi, e per essa vale quel che Samuel Johnson usava dire dei conflitti armati, nel 1758: «Fra le calamità della guerra andrebbe annoverata la diminuzione dell’amore della verità, ottenuta tramite le falsità che l’interesse detta e che la credulità incoraggia». Se sostituiamo la parola tregua a guerra, vediamo che i rischi sono gli stessi.
Quando ha chiesto una tregua, il 29 giugno, il presidente Napolitano non pensava certo a questo sacrificio della verità. Ma il rischio è grande che i governanti l’intendano in tal modo: usando il Colle, rompendo unilateralmente la tregua come ha subito fatto Berlusconi aggredendo oppositori e giornali. Il conflitto maggioranza-opposizione, le inchieste giornalistiche o della magistratura sul capo del governo, sono automaticamente bollate come poco patriottiche, fedifraghe, addirittura eversive. Questo in nome di uno stato di emergenza trasformato in condizione cronica anziché occasionale, necessitante la sospensione di quel che dalla Grecia antica distingue la democrazia: la parresia, il libero esprimersi, la contestazione del potere e dell’opinione dominante, il domandare dialogico.
Significativa è l’allergia del potente alle domande, non solo quelle di Repubblica ma ogni sorta di quesiti: netto è stato il rifiuto di Berlusconi di permettere domande ai giornalisti, il primo giorno del G8. Sulla scia dell’11 settembre 2001 Bush reclamò simile tregua, che non migliorò la reputazione dell’America ma la devastò. Washington si gettò in una guerra sbagliata, in Iraq, senza che opinione pubblica e giornali muovessero un dito. La recente storia Usa dimostra che la democrazia guadagna ben poco dalle tregue politiche, quando i governi possono tutto e l’equilibrio dei poteri è violato. Il vantaggio delle tregue è la coesione nazionale: falsa tuttavia, se passiva. Lo svantaggio è la libertà immolata. Tanto più grave lo svantaggio, se l’emergenza è un mero vertice internazionale.
Ripensare la tregua e le sue condizioni può servire, perché la tendenza è forte, in chi governa, a prolungare emergenze e sospensioni della parresia, rendendole permanenti. Purtroppo la tendenza finisce con l’estendersi all’opposizione, alla stampa, e anche qui vale la descrizione di Clausewitz sul cessate il fuoco: che spesso interviene non perché la tregua sia necessaria, ma perché nell’uomo che rinvia decisioni c’è pavidità. Perché dilaga «l’imperfezione delle conoscenze, delle facoltà di giudizio». Perché, soprattutto, opposizione e giornali non hanno un «chiaro pensiero dello scopo» per cui si oppongono, analizzano, interrogano. Sono le occasioni in cui la tregua non è un patto di verità ma una variante dell’illusionismo e della menzogna.
Ma c’è una condizione supplementare, affinché la tregua si fondi su verità e fiducia. La condizione è che la memoria resti viva, e non solo il ricordo del passato ma la memoria del presente, meno facile di quel che sembri perché essa presuppone un legame tra i frammenti dell’oggi e aborre la fissazione su uno solo di essi: l’ultimo della serie. È la memoria di cui parla Primo Levi, quando descrive la tregua nei campi. Nel Lager, simbolo della condizione umana, esistono remissioni, «tregue». Ma esse sono chimere se non s’accompagnano alla memoria di quel che ineluttabilmente avverrà al risveglio, quando risuonerà il «comando dell’alba»: l’urlo in polacco - wstawac - che intima di alzarsi.
Meditare attorno all’idea di tregua è fecondo perché aiuta a capire come deve organizzarsi, in Italia e altrove, la parresia greca che i latini traducevano con libertas. Parresia è letteralmente parlare con libertà: un compito che politici e stampa condividono col medico, che non deve dire tutto alla rinfusa ma andare all’essenza e fare sintesi. Galeno, medico del primo secolo dopo Cristo, scriveva che «non si può guarire senza sapere di cosa si deve guarire»: il malato ha diritto alla verità, detta «senza ostilità ma senza indulgenza». La tregua anche in Italia ha senso se non si sacrifica il vero. Se non è solo la stampa estera a indagare sulla nostra singolare apatia etica.
Il mondo dell’informazione non è estraneo a tale apatia, incomprensibile all’opinione straniera e da essa biasimata. Il difetto, il più delle volte, è lo sguardo corto: uno sguardo che non collega i fatti, che sempre si fissa sull’ultimissimo evento, che non scava con la memoria né nel passato né nel presente. L’influenza della mafia sulla politica, i cedimenti di quest’ultima, il conflitto d’interesse che consente al privato di manomettere il pubblico, l’impunità reclamata dai massimi capi politici, infine la lunga storia italiana di stragi e corruzioni su cui mai c’è stata chiarezza: c’è un nesso fra queste cose, ma l’ultimo scandalo da noi scaccia il precedente e ogni evento (buono o cattivo) cancella il resto.
Lo scandalo delle ragazze a Palazzo Grazioli cancella la corruzione di Mills, le minorenni di Berlusconi obnubilano la mafia, le dieci domande di Repubblica cancellano innumerevoli altri quesiti. Anche l’opposizione si nutre di amnesia: i successi di Prodi (aiuti allo sviluppo, clima, liberalizzazioni, infrastrutture, accordo vantaggioso per Alitalia) sprofondano nell’oblio, se ne ha vergogna. Non stupisce che perfino fatti secondari siano mal raccontati, come fossero schegge insensate: ad esempio l’assenza dal programma G8 di Carla Sarkozy, giunta all’Aquila il giorno dopo il vertice. I giornali arzigogolano su una persona che ha voluto far l’originale, differenziarsi. Nessuno rammenta l’appello di 13.000 donne italiane - presumibilmente ascoltato da Carla - perché le first ladies non venissero al G8.
L’Italia come tutti i paesi è una tela, non un’accozzaglia caotica di episodi. Se non ricordiamo questo quadro non solo le tregue saranno basate su contro-verità. Si faticherà anche a ricominciare i normali conflitti e il parlare franco, finita la tregua. Sotto gli occhi della stampa mondiale appariremo come i lottatori di Clausewitz: allacciati ininterrottamente l’uno all’altro, senza fare alcun movimento.
Sette domande al Primo Ministro italiano, Signor Silvio Berlusconi - di Carlo Cosmelli *
NASCITA DI UN LADRO
a c. di don Aldo Antonelli
Il N. 42 di CRITICA LIBERALE dell’8 Luglio ripercorre, sotto forma di domande, la nascita e la crescita del Ladro.
Che si sappia!
Ed anche se le disposizioni di legge contamplano l’istituto della prescrizione, nella coscienza dei cittadini certi comportamenti, ancorché reiterati, soprattutto se sono l’espressione del DNA di una persona, non sono soggetti a termini di scadenza.
Potrà fare quello che vuole, potrà imbandire tavole di beneficenza a iosa, iscriversi ai mille circoli di Dame della Carità, farsi la doccia con le acquesante benedette nei Sacri Palazzi, celebrare pontificali su Libertà e Democrazia: a meno che non pervenga ad una pubblica, vera conversione, è e resterà un Ladro accomparato con la Mafia e affiliato alla P2. Il plauso del popolo squalifica il popolo stesso e non gli ridona nessuna verginità.
Aldo Antonelli
Ecco l’articolo di Critica Liberale:
Sette domande al Primo Ministro italiano, Signor Silvio Berlusconi *
Al Primo Ministro della Repubblica Italiana sono state rivolte dieci domande circa le sue relazioni con una ragazza minorenne invitata più volte anche a cene ufficiali. Fino ad ora si è rifiutato di rispondere. Si potrebbe fare uno sconto al Signor Silvio Berlusconi, chiedendogli di rispondere a sette domande.
Signor Berlusconi, potrebbe rispondere pubblicamente a queste domande?
Premessa:
La Banca Rasini di Milano, di proprietà negli anni ’70 di Carlo Rasini, è stata indicata da Sindona e in molti documenti ufficiali di magistrati che hanno indagato sulla mafia, come la principale banca utilizzata dalla mafia per il riciclo del denaro sporco nel Nord - Italia.
Di questa Banca sono stati clienti Pippo Calò, Totò Riina e Bernardo Provenzano, negli anni in cui formavano la cupola della mafia.
In quegli stessi anni il Sig. Luigi Berlusconi lavorava presso la Banca, prima come impiegato, poi come Procuratore con diritto di firma e infine come Direttore.
1) Nel 1970, il procuratore della banca Luigi Berlusconi ratifica un’operazione molto particolare: la banca Rasini acquisisce una quota della Brittener Anstalt, una società di Nassau legata alla Cisalpina Overseas Nassau Bank, nel cui consiglio d’amministrazione figurano Roberto Calvi, Licio Gelli, Michele Sindona e monsignor Paul Marcinkus. Questo Luigi Berlusconi, procuratore con diritto di firma della banca Rasini, era suo padre?
2) Sempre intorno agli anni ’70 il Sig. Silvio Berlusconi ha registrato presso la banca Rasini ventitré holding come “negozi di parrucchiere ed estetista”, è lei questo Signor Silvio Berlusconi?
3) Lei ha registrato presso la banca Rasini, ventitré “Holding Italiane” che hanno detenuto per molto tempo il capitale della Fininvest, ed altre 15 Holding, incaricate di operazioni su mercati esteri. Le ventitré holding di parrucchiere, che non furono trovate ad una prima indagine della guardia di finanza, e le ventitré Holding italiane, sono la stessa cosa?
4) Nel 1979 il finanziere Massimo Maria Berruti che dirigeva e poi archiviò l’indagine della Guardia di Finanza sulle ventitré holding della Banca Rasini, si dimise dalla Guardia di Finanza. Questo signor Massimo Maria Berruti è lo stesso che fu assunto dalla Fininvest subito dopo le dimissioni dalla Guardia di Finanza, fu poi condannato per corruzione, eletto in seguito parlamentare nelle file di Forza Italia, e incaricato dei rapporti delle quattro società Fininvest con l’avvocato londinese David Mills, appena condannato in Italia su segnalazione della magistratura inglese?
5) Nel 1973 il tutore dell’allora minorenne ereditiera Anna Maria Casati Stampa si occupò della vendita al Sig. Silvio Berlusconi della tenuta della famiglia Casati ad Arcore. La tenuta dei Casati consisteva in una tenuta di un milione di metri quadrati, un edificio settecentesco con annesso parco, villa San Martino, di circa 3.500 metri quadri, 147 stanze, una pinacoteca con opere del Quattrocento e Cinquecento, una biblioteca con circa 3000 volumi antichi, un parco immenso, scuderie e piscine. Un valore inestimabile che fu venduto per la cifra di 500 milioni di lire (250.000 euro) in titoli azionari di società all’epoca non quotate in borsa, che furono da lei riacquistati pochi anni dopo per 250 milioni.(125.000 euro). Il tutore della Casati Stampa era un avvocato di nome Cesare Previti. Questo avvocato è lo stesso che poi è diventato suo avvocato della Fininvest, senatore di Forza Italia, Ministro della Difesa, condannato per corruzione ai giudici, interdetto dai diritti civili e dai pubblici uffici, e che lei continua a frequentare?
6) A Milano, in via Sant’Orsola 3, nacque nel 1978 una società denominata Par.Ma.Fid. La Par.Ma.Fid. è la medesima società fiduciaria che ha gestito tutti i beni di Antonio Virgilio, finanziere di Cosa Nostra e riciclatore di capitali per conto dei clan di Giuseppe e Alfredo Bono, Salvatore Enea, Gaetano Fidanzati, Gaetano Carollo, Carmelo Gaeta e altri boss - di area corleonese e non - operanti a Milano nel traffico di stupefacenti a livello mondiale e nei sequestri di persona. Signor Berlusconi, importanti quote di diverse delle suddette ventitré Holding verranno da lei intestate proprio alla Par. Ma.Fid. Per conto di chi la Par.Ma.Fid. ha gestito questa grande fetta del Gruppo Fininvest e perché lei decise di affidare proprio a questa società una parte così notevole dei suoi beni?
7) Signor Berlusconi da dove sono venuti gli immensi capitali che hanno dato inizio, all’età di ventisette anni, alla sua scalata al mondo finanziario italiano?
Vede, Signor Berlusconi, tutti gli eventuali reati cui si riferiscono le domande di cui sopra sono oramai prescritti. Ma il problema è che i favori ricevuti dalla mafia non cadono mai in prescrizione, i cittadini italiani, europei, i primi ministri dei paesi con cui lei vuole incontrarsi, hanno il diritto di sapere se lei sia ricattabile o se sia una persona libera.
P.S. Dato che lei è già stato condannato in via definitiva per dichiarazioni false rese ad un giudice in un tribunale, dovrebbe farci la cortesia di fornire anche le prove di quello che dice, le sole risposte non essendo ovviamente sufficienti.
Carlo Cosmelli
LA Stampa, 6/7/2009 (15:12)
DDL INTERCETTAZIONI
Di Pietro: "Non basta una piuma per difendere la Costituzione"
Il leader dell’Idv lancia il suo appello a Napolitano. E infuriano le proteste di Franceschini e del governo
«Signor Presidente, lei sta usando una piuma d’oca per difendere la Costituzione dall’assalto di un manipolo piuttosto numeroso di golpisti». Il leader dell’Idv Antonio Di Pietro, nel suo blog, critica Giorgio Napolitano rimproverandogli di aver aperto la strada, con il suo incontro con il ministro della Giustizia Alfano, a semplici a «modifiche di facciata» al ddl sulle intercettazioni. Di Pietro, che sostiene, invece, la neccessità dell’immediato ritiro di un disegno di legge che produrrebbe solamente effetti devastanti e un aumento vertiginoso della corruzione e degli atti criminali.
«Oramai - sottolinea il leader dell’Italia dei Valori - non è più possibile evitare lo scontro contro il governo dal momento che ha agito esclusivamente nell’interesse di pochi, spesso di una sola persona, a colpi di fiducia, di cene carbonare, di vili attacchi verbali, negando la realtà, la crisi del Paese, insultando la dignità dei cittadini ed usando la menzogna come strumento sistematico di propaganda. Affidarsi al buon senso della maggioranza accettando solo modifiche al ddl sulle intercettazioni non basta, bisogna ritirarlo. In una legge, dove il 90% del testo è da rifare, non si può parlare di ritocchi».
Immediato gli attacchi del presidente dei deputati Pdl Fabrizio Cicchitto, che definisce «pericolosa la deriva dell’avventurismo e dell’estremismo giustizialisti», e di Gasparri che accusa il leader dell’Idv di aver fatto dello scontro la sua unica attività parlamentare. Le critiche, tuttavia, non hanno tardato a giungere anche dal candidato alla segreteria del Pd Franceschini, secondo il quale «è intollerabile coinvolgere il presidente della Repubblica, che sta svolgendo con intelligenza la sua funzione di garante delle regole e degli equilibri istituzionali, nella polemica politica».
«Franceschini, come al solito, capisce fischi per fiaschi - è la secca risposta di Di Pietro - Nessuno se la prende con il Presidente della Repubblica al quale semmai abbiamo rivolto una supplica, non certo una critica. Noi -prosegue- ce la prendiamo e ce la prenderemo sempre con un governo che vuole, attraverso un provvedimento di legge, bloccare le intercettazioni e mettere il bavaglio all’informazione. Ma, come al solito, Franceschini guarda al dito e non alla luna, criticando chi denuncia lo scandalo e non chi lo commette. Ce lo ricorderemo -conclude- alle prossime regionali».
Il capo dello Stato convoca Alfano al Quirinale: senza modifiche niente firma
Il presidente preoccupato per i rischi di incostituzionalità. Esclusa la fiducia
Legge sulle intercettazioni
arriva lo stop di Napolitano
di LIANA MILELLA *
ROMA - Irragionevole, incostituzionale, gravemente dannosa per le indagini, foriera di scontri con una stampa già pronta allo sciopero del 13 luglio. La legge sulle intercettazioni, così com’è, non va. Napolitano poteva rinviarla alle Camere e dare uno schiaffo a Berlusconi. Ma fedele al motto che "gli strappi tra le istituzioni vanno sempre evitati" (almeno fin dove è possibile), il capo dello Stato l’ha fermata prima del suo ultimo passaggio al Senato.
Con un governo pronto a mettere la fiducia come aveva fatto alla Camera. Dopo un anno di ininterrotta moral suasion, dopo aver messo in allerta Fini e Schifani, il presidente della Repubblica ha compiuto il passo definitivo, ha chiamato al Quirinale il Guardasigilli Alfano. Che arriva lesto lesto.
Poco meno di un’ora di colloquio, accanto i suoi esperti giuridici, un esordio che non consente spiragli di trattativa: "Sono molto preoccupato e turbato per la tensione che si sta creando nel mondo della giustizia e della stampa su questa legge. I miei consiglieri mi spiegano che se dovesse passare così al Senato i vizi di palese incostituzionalità mi costringerebbero a fare un passo che di certo non vi sarebbe gradito". Il ministro della Giustizia, che si è sempre mostrato rispettoso del Colle, non tenta neppure una difesa. Alla fin fine sa che al premier questa legge non è mai piaciuta perché lui ne avrebbe voluta una molto più dura, con gli ascolti autorizzati solo per mafia e terrorismo. Nel rinviarla, soprattutto in ore in cui, per le voci su procure in azione, non vuole scontri con toghe, polizie, servizi, non soffrirà troppo. Napolitano prosegue: "È vero che avete intenzione di mettere la fiducia?".
Alfano si allarga in uno dei suoi sorrisi da bravo ragazzo: "Assolutamente no, presidente, il governo non pensa di farlo. Tutt’altro. Il testo non è blindato, siamo pronti a far tesoro del lavoro della commissione Giustizia. Certo, dopo che è rimasto un anno alla Camera, ci auguriamo che non succeda lo stesso al Senato". Il ghiaccio è rotto, si può pure ragionare dei dettagli e mettere sul tavolo i palesi dubbi di costituzionalità. Non uno, ma numerosi.
A cominciare da quella che il Quirinale considera una pessima, irragionevole, incostituzionale, norma transitoria, forse la buccia di banana più platealmente inaccettabile su cui scivola il ddl. "Le disposizioni della presente legge non si applicano ai procedimenti pendenti alla data della sua entrata in vigore". Doveva servire, è servita, per far dire all’avvocato del premier Niccolò Ghedini (e ora anche presidente della Consulta del Pdl sulla giustizia, sempre per tenere ben vivo il conflitto d’interessi) che "questa non è una legge ad personam, visto che non si applica ai processi in corso". E in effetti è così, ma con il rischio di un tal guazzabuglio tra chi godrà di norme più favorevoli e chi no, di giornalisti in galera e altri fuori, di intercettazioni pubblicate ed altre censurate, che l’incostituzionalità è manifesta. Dunque la norma va cambiata. Ma non solo. Il Colle punta il dito sugli "evidenti indizi di colpevolezza" necessari per ottenere un ascolto. Che ne sarà delle indagini contro gli ignoti (autori anche di omicidi), di quelle sui reati che poi portano a scoprire la mafia (usura, racket, rapine e tanti altri)? Giusto nelle stesse ore in cui Alfano è seduto di fronte a Napolitano, al Csm protestano i più noti procuratori antimafia.
Alle orecchie di Alfano risuonano le tante insistenze di Giulia Bongiorno, la presidente della commissione Giustizia della Camera e alter ego di Fini per la giustizia, che si è battuta nella sua maggioranza per "limitare i danni". Ma anche lei, di fronte ai falchi ghediniani e alfaniani che insistevano, ha dovuto piegare la testa sugli "evidenti indizi di colpevolezza" che adesso diventeranno "evidenti indizi di reato". E infine il capitolo sulla stampa, dal carcere (fino a un anno) per i giornalisti che pubblicano intercettazioni da distruggere e che fano protestare anche il Garante della privacy Pizzetti, alle supermulte contro gli editori, ai testi delle telefonate che non si potranno pubblicare neppure per riassunto, creando così una marchiana e irragionevole differenza tra una prova, gli ascolti, e un’altra, una lettera, un verbale d’interrogatorio che invece, quelli sì per riassunto, potranno essere pubblicati.
Non prende appunti Alfano, ma il terremoto che si abbatte sul suo ddl è intensissimo. Non di modifiche formali si tratta, ma di cambiamenti sostanziali. A Napolitano non era affatto piaciuto il grido dell’Anm, "sarà la morte della giustizia", ma i suoi rilievi sono la riprova che la legge stoppa indagini e cronaca giudiziaria. Il Guardasigilli se ne va tranquillizzando il presidente: "Non abbiamo fretta, seguiremo i lavori del Senato". Alfano sa che Berlusconi non vuole spingere l’acceleratore sulla giustizia. La decisione della Consulta sul lodo Alfano è alle viste, le procure incombono, il premier continua ad avere il dubbio che il Bari-gate sia esploso a ridosso del voto della Camera giusto sulle intercettazioni. Questo ddl e la famosa riforma costituzionale della giustizia possono aspettare. Alfano l’ha detto al presidente preoccupato di uno scontro estivo con le toghe: "I prossimi consigli dei ministri saranno dedicati all’economia. Io sono soddisfatto del mio lavoro. Domani (oggi, ndr.) entra in vigore la riforma del processo civile, in cui ho profondamente creduto ed è legge la sicurezza con le norme antimafia più forti da quando è morto Falcone. Che senso avrebbe una riforma costituzionale a metà luglio?". C’è tempo. Magari quando si saprà se la Consulta conferma o boccia il lodo Alfano.
* la Repubblica, 4 luglio 2009
Ansa» 2009-07-02 21:18
LODO ALFANO: QUIRINALE, CONSULTA E’ AUTONOMA
(di Silvia Barocci)
Con una mossa in due tempi dagli attigui palazzi di piazza del Quirinale, il capo dello Stato Giorgio Napolitano e il presidente della Consulta Francesco Amirante intervengono per smorzare l’incendio in cui rischiava di rimanere bruciata la credibilità della Corte all’indomani degli attacchi sferrati alla Camera dal leader dell’Idv Antonio Di Pietro. La richiesta di dimissioni avanzata dall’ex pm di ’Mani pulite’ nei confronti di Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, i due "giudici spregiudicati" che in maggio hanno partecipato a una cena con il premier Silvio Berlusconi e con, tra gli altri, il Guardasigilli Angelino Alfano, ha incontrato un secco altolà da parte del Colle, al quale ha fatto seguito un "invito a tutti ad abbassare i toni" che si è levato da palazzo della Consulta. Due mosse intervallate da una dichiarazione all’ANSA del giudice Napolitano che, come già fatto dal collega Mazzella, esclude fermamente la possibilità di una sua astensione quando il 6 ottobre prossimo la Corte dovrà decidere sulla legittimità del lodo Alfano, la legge che ha bloccato i processi a carico del premier.
Di più: Paolo Maria Napolitano legge come un "tentativo di intimidazione" le sue sollecitate dimissioni. Il primo stop alle messa in mora dei due giudici arriva mentre in Senato sono in corso le votazioni sul ddl sicurezza: il Quirinale fa sapere che "non trova alcun fondamento istituzionale" la richiesta avanzata da Di Pietro, che aveva reclamato un intervento del Capo dello Stato, perché ciò "interferirebbe nella sfera di insindacabile autonomia della Corte Costituzionale". Per i giudici costituzionali non valgono di certo le sanzioni disciplinari previste per la magistratura ordinaria e comminate dal Csm, di cui Napolitano è presidente. Inoltre - viene fatto notare da alcuni - potrebbe sembrare quantomeno inopportuno un intervento del Quirinale visto che il Capo dello Stato è tra le quattro cariche beneficiarie del lodo Alfano. La ’palla’ è dunque rinviata alla Corte stessa, l’unica che ad avere il potere di decidere sulla rimozione o sospensione di uno dei suoi quindici giudici, mentre dallo scorso ottobre, quando la Corte ha varato una integrazione alle sue norme generali, non è più possibile invocare in giudizio l’astensione o la ricusazione dei giudici. Il presidente della Corte, Amirante, di ritorno da due cerimonie, si chiude nel suo studio a meditare. E nel tardo pomeriggio comunica al Quirinale la volontà di intervenire per sgombrare ogni dubbio. Il risultato è un comunicato di sette righe in cui si invitano "tutti ad abbassare i toni" e che, non senza aver ringraziato il Capo dello Stato "per la giusta indicazione di quali debbano essere i rapporti tra le istituzioni", assicura la "collegialita" in quella che sarà la decisione che la Corte, "come ha sempre fatto", prenderà "in serenità e con imparzialità e obiettività’" sul ’lodo Alfano’. Il termine "collegialita" lascia intendere, tra le righe, che il presidente non vuole intervenire con un atto formale sui due giudici che hanno cenato col premier, nonostante - si fa notare in ambienti della Consulta - la vicenda abbia irritato diverse toghe dell’Alta Corte per una mancanza di ’self restraint’ da parte di Mazzella e Napolitano.
Ma Di Pietro non ci sta, e ne ha un po’ per tutti. Al presidente Giorgio Napolitano torna a chiedere di intervenire per "ripristinare la credibilità e la sacralità " della Consulta. A dare uno stop al leader dell’Idv è il presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro: Di Pietro - dice - "dovrebbe smettere di usare la funzione, il ruolo e la persona del Capo dello Stato per dare maggiore forza alle proprie polemiche politiche". Ma Di Pietro non si ferma e, anzi, rilancia: contesta il presidente Amirante ("La Consulta è serena? Questo lo dice lui, noi non se saremo convinti fino a quando i due giudici che hanno trescato con l’imputato Berlusconi non avranno rinunciato"), e si scaglia contro il giudice Napolitano ("non faccia lo gnorri, non siamo fessi").
Palazzo Madama approva il progetto del governo. Critica l’opposizione
Il Vaticano: "Basta criminalizzare gli stranieri. Norma che porterà dolore"
Il pacchetto sicurezza diventa legge
Sì alle ronde, la clandestinità è reato *
ROMA - Si potranno organizzare le ronde; diventa reato l’immigrazione clandestina. Da oggi il ddl sicurezza è legge dello Stato. L’ok definitivo del Senato è giunto in tarda mattinata con il voto di fiducia: 157 favorevoli tra PdL, Lega Nord e MpA; 124 no; 3 astenuti. Plaude la maggioranza ("Una legge per gli italiani", ha detto Maurizio Gasparri); forti le critiche sollevate dall’opposizione e dal Vaticano: "Basta criminalizzare gli stranieri. E’ una norma che porterà dolore".
Inasprite pene per gli immigrati. Dopo un lungo braccio di ferro con l’opposizione, la nuova legge impone un giro di vite sugli immigrati irregolari che da oggi rischieranno il processo. La permanenza nei Centri di identificazione temporanea per verificare la provenienza dei migranti potrà toccare i 18 mesi (finora il limite era di 60 giorni). Una pena fino a tre anni di carcere è prevista per chi affitta case o locali ai clandestini.
Le ronde. Potranno collaborare con le forze dell’ordine le associazioni di cittadini organizzate in ronde. Le associazioni saranno iscritte in un apposito elenco a cura del prefetto. Sarà un decreto del ministro dell’Interno a disciplinare i requisiti necessari, ma fin d’ora il governo ha assicurato che le ronde non saranno armate.
Norme anti-racket. Vengono inoltre ripristinati i poteri del procuratore nazionale antimafia e inasprito il 41-bis sulla detenzione dei boss mafiosi. Rispetto ad una stesura precedente, torna l’obbligo per gli imprenditori di denunciare i tentativi di racket, pena l’esclusione dalle gare d’appalto che scatta anche quando la richiesta del pizzo emerga dalle risultanze di un rinvio a giudizio.
Ritorna il reato di oltraggio. Aggravanti per i reati commessi su anziani e disabili; introdotte norme più severe contro i graffitari e contro coloro che impiegano bambini per l’accattonaggio. Ritorna ad essere penalmente rilevante il reato di oltraggio a pubblico ufficiale.
I complimenti del centrodestra. "Una legge per gli italiani", ha detto Maurizio Gasparri, presidente dei senatori del Pdl. Soddisfatto anche il ministro dell’Interno Roberto Maroni, "padre politico" del provvedimento: "E’ un passo in avanti molto importante per garantire la sicurezza ai cittadini. Non è un provvedimento razzista".
Le critiche. Ma dall’opposizione si alza dura la protesta. "E’ un pugno sbattuto sul tavolo. Così si favorisce la clandestinità", ha sostenuto Anna Finocchiaro, presidente dei senatori Pd. E i parlamentari dell’Italia dei Valori hanno alzato in aula cartelli con scritto: "I veri clandestini siete voi. Governo: clandestino del diritto".
Critico anche il Vaticano. Il presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti, monsignor Antonio Maria Veglio, ha scritto: "I migranti hanno il diritto di bussare alle nostre porte. Basta demonizzare e criminalizzare il forestiero. L’arrivo dei migranti non è certo un pericolo. Sbagliato trincerarsi dentro le proprie mura". Gli fa eco il segretario del pontificio Consiglio, monsignor Agostino Marchetto: "La nuova legge porterà "molti dolori e difficoltà agli immigrati".
E dal forum del Terzo settore, il portavoce Andrea Olivero avverte che la legge è "un’ulteriore chiusura a quel dialogo tanto auspicato tra istituzioni e società civile".
* la Repubblica, 2 luglio 2009
Ddl sicurezza
Camilleri, Tabucchi, Maraini, Fo, Rame, Ovadia, Scaparro, Amelio: Appello contro il ritorno delle leggi razziali in Europa
Pubblichiamo il testo italiano dell’appello pubblicato il 1 luglio sul quotidiano spagnolo El Paìs. *
Alla cultura democratica europea e ai giornali che la esprimono
Le cose accadute in Italia hanno sempre avuto, nel bene e nel male, una straordinaria influenza sulla intera società europea, dal Rinascimento italiano al fascismo. Non sempre sono state però conosciute in tempo. In questo momento c’è una grande attenzione sui giornali europei per alcuni aspetti della crisi che sta investendo il nostro paese, riteniamo, però, un dovere di quanti viviamo in Italia richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica europea su altri aspetti rimasti oscuri. Si tratta di alcuni passaggi della politica e della legislazione italiana che, se non si riuscirà ad impedire, rischiano di sfigurare il volto dell’Europa e di far arretrare la causa dei diritti umani nel mondo intero.
Il governo Berlusconi, agitando il pretesto della sicurezza, ha imposto al Parlamento, di cui ha il pieno controllo, l’adozione di norme discriminatorie nei confronti degli immigrati, quali in Europa non si vedevano dai tempi delle leggi razziali. È stato sostituito il soggetto passivo della discriminazione, non più gli ebrei bensì la popolazione degli immigrati irregolari, che conta centinaia di migliaia di persone; ma non sono stati cambiati gli istituti previsti dalle leggi razziali, come il divieto dei matrimoni misti.
Con tale divieto si impedisce, in ragione della nazionalità, l’esercizio di un diritto fondamentale quale è quello di contrarre matrimonio senza vincoli di etnia o di religione; diritto fondamentale che in tal modo viene sottratto non solo agli stranieri ma agli stessi italiani.
Con una norma ancora più lesiva della dignità e della stessa qualità umana, è stato inoltre introdotto il divieto per le donne straniere, in condizioni di irregolarità amministrativa, di riconoscere i figli da loro stesse generati. Pertanto in forza di una tale decisione politica di una maggioranza transeunte, i figli generati dalle madri straniere irregolari diverranno per tutta la vita figli di nessuno, saranno sottratti alle madri e messi nelle mani dello Stato. Neanche il fascismo si era spinto fino a questo punto. Infatti le leggi razziali introdotte da quel regime nel 1938 non privavano le madri ebree dei loro figli, né le costringevano all’aborto per evitare la confisca dei loro bambini da parte dello Stato.
Non ci rivolgeremmo all’opinione pubblica europea se la gravità di queste misure non fosse tale da superare ogni confine nazionale e non richiedesse una reazione responsabile di tutte le persone che credono a una comune umanità. L’Europa non può ammettere che uno dei suoi Paesi fondatori regredisca a livelli primitivi di convivenza, contraddicendo le leggi internazionali e i principi garantisti e di civiltà giuridica su cui si basa la stessa costruzione politica europea. È interesse e onore di tutti noi europei che ciò non accada.
La cultura democratica europea deve prendere coscienza della patologia che viene dall’Italia e mobilitarsi per impedire che possa dilagare in Europa. A ciascuno la scelta delle forme opportune per manifestare e far valere la propria opposizione.
Roma, 29 giugno 2009
Andrea Camilleri, Antonio Tabucchi, Dacia Maraini, Dario Fo, Franca Rame, Moni Ovadia, Maurizio Scaparro, Gianni Amelio
(2 luglio 2009)
* APPELLO: MICROMEGA CONTRO LE "LEGGI RAZZIALI"
Polemica su un incontro a cena fra il membro della Consulta e il premier
alla vigilia della decisione sul Lodo Alfano. "La polizia fascista è ancora all’opera"
Il giudice Mazzella scrive a Berlusconi
"Siamo oggetto di barbarie"
Pd e Idv all’attacco in Parlamento: "Infangata la sacralità della Corte"
ROMA - "Caro Silvio, siamo oggetto di barbarie ma ti inviterò ancora a cena", firmato Luigi Mazzella. Il giudice costituzionale, dopo le polemiche, scioglie le riserve e sceglie la strada dello scontro aperto con i critici. Motivo del contendere una cena a casa del giudice costituzionale, cui hanno partecipato Silvio Berlusconi, il ministro della Giustizia Angelino Alfano, insieme ad un altro giudice costituzionale, Paolo Maria Napolitano, e al senatore Carlo Vizzini che ha scatenato polemiche feroci sull’opportunità che due giudici dell’Alta Corte si incontrino alla viilia di una importante decisione sul Lodo Alfano che la Consulta dovrà giudicare a settembre. E la lettera arriva nel giorno dello scontro il Aula fra Antonio Di Pietro e il ministro Sandro Bondi a colpi di "vergogna".
La lettera. "Caro Presidente, caro Silvio, ti scrivo una lettera aperta perché cominciando seriamente a dubitare del fatto che le pratiche dell’Ovra (la polizia segreta fascista, ndr) siano definitivamente cessate con la caduta del fascismo". "Ho sempre intrattenuto con te - scrive Mazzella - rapporti di grande civiltà e di reciproca e rispettosa stima. Vederti in compagnia di persone a me altrettanto care e conversare tutti assieme in tranquilla amicizia non mi era sembrato un misfatto. A casa mia, come tu sai per vecchia consuetudine, la cena è sempre curata da una domestica fidata (e basta!). Non vi sono cioè possibili ’spioni’, come li avrebbe definiti Totò. Chi abbia potuto raccontare un fantasioso contenuto delle nostre conversazioni a tavola inventandosi tutto di sana pianta - è sottolineato nella lettera - resta un mistero che i grandi inquisitori del nostro Paese dovrebbero approfondire prima di lanciare accuse e anatemi. La libertà di cronaca è una cosa, la licenza di raccontare frottole ad ignari lettori è ben altra! Soprattutto quando il fine non è proprio nobile".
"Caro Silvio, a parte il fatto che non era quella la prima volta che venivi a casa mia e che non sarà certo l’ultima fino al momento in cui un nuovo totalitarismo malauguratamente dovesse privarci delle nostre libertà personali, mi sembra doveroso dirti per correttezza che la prassi delle cene con persone di riguardo in casa di persone perbene non è stata certo inaugurata da me ma ha lunga data nella storia civile del nostro Paese. Molti miei attuali ed emeriti colleghi della Corte Costituzionale hanno sempre ricevuto nelle loro case, come è giusto che sia, alte personalità dello Stato e potrei fartene un elenco chilometrico".
"Caro presidente - conclude la lettera -, l’amore per la libertà e la fiducia nella intelligenza e nella grande civiltà degli italiani che entrambi nutriamo ci consente di guardare alla barbarie di cui siamo fatti oggetto in questi giorni con sereno distacco. L’Italia continuerà ad essere, ne sono sicuro, il Paese civile in cui una persona perbene potrà invitare alla sua tavola un amico stimato. Con questa fiducia, un caro saluto".
Lo scontro in Aula. "Non si è parlato di Lodo Alfano", ha detto il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito, durante il question time alla Camera, rispondendo così ad un’interrogazione del presidente dell’Idv Antonio Di Pietro. "Tranquillizzo gli onorevoli interroganti: le iniziative del governo in materia di Giustizia - conclude Vito - saranno rispondenti al programma presentato al corpo elettorale e che gli elettori hanno premiato". La cena, continua Vito, non è stata organizzata dal Governo, ma "molte settimane prima" dallo stesso Mazzella e vi hanno partecipato anche le consorti degli invitati.
Eppure le polemiche non si placano e la spiegazione non convince l’opposizione, mentre crescono le adesioni - un migliaio di email sono arrivate a Repubblica - all’appello che circola su Internet per le dimissioni dei due giudici costituzionali. Il Pd continua a definire "gravissimo" l’incontro nella residenza privata del giudice Mazzella. "Può dire ciò che vuole, ma io trovo che decisamente non stia bene invitare qualcuno a casa propria, sul quale si è chiamati a decidere. Un magistrato, soprattutto se sta alla Corte Costituzionale, non dovrebbe mai farlo’’, dice Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Partito Democratico. E il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, illustrando alla Camera la sua interpellanza, parla di toghe spregiudicate che con la loro condotta hanno "infangato la sacralità della Corte Costituzionale" e giudica la risposta di Vito "insoddisfacente e inaccettabile". Toni forti, che il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, non gradisce. Ne segue un battibecco in aula, con Bondi che alle parole di Di Pietro grida più volte "Vergognati", inveendo contro gli scranni dell’Idv, e poi lascia l’aula.
* la Repubblica, 1 luglio 2009
Il ministro per i rapporti con il Parlamento risponde alla Camera sull’invito al premier a casa del magistrato della Consulta Mazzella
Vito: "Alla cena coi giudici
non si parlò del LodoAlfano"
"Incontro non organizzato dal Governo".
L’opposizione attacca. Per il Pd
"fatto gravissimo" e
Di Pietro: "Risposta insoddisfacente e inaccettabile"
ROMA - Alla cena a casa del giudice costituzionale Luigi Mazzella, cui hanno partecipato Silvio Berlusconi, il ministro della Giustizia Angelino Alfano, insieme ad un altro giudice costituzionale, Paolo Maria Napolitano, e al senatore Carlo Vizzini, non si è parlato del Lodo che porta il nome del Guardasigilli, che la Consulta inizierà ad esaminare il 6 di ottobre.
Lo ha detto il ministro per i Rapporti con il Parlamento Elio Vito, durante il question time alla Camera, rispondendo così ad un’interrogazione del presidente dell’Idv Antonio Di Pietro. L’incontro, secondo Vito, "non ha avuto in alcun modo ad oggetto i temi relativi all’agenda della Corte costituzionale nè ipotesi di riforma del Titolo IV della Costituzione. Tale riforma compete al Parlamento, anche su iniziativa del governo".
"Tranquillizzo gli onorevoli interroganti: le iniziative del governo in materia di Giustizia - conclude Vito - saranno rispondenti al programma presentato al corpo elettorale e che gli elettori hanno premiato". La cena, continua Vito, non è stata organizzata dal Governo, ma "molte settimane prima" dallo stesso Mazzella e vi hanno partecipato anche le consorti degli invitati.
Eppure le polemiche non si placano e la spiegazione non convince l’opposizione, mentre crescono le adesioni - un migliaio di email sono arrivate a Repubblica - all’appello che circola su Internet per le dimissioni dei due giudici costituzionali. Il Pd continua a definire "gravissimo" l’incontro nella residenza privata del giudice Mazzella. "Puo’ dire cio’ che vuole, ma io trovo che decisamente non stia bene invitare qualcuno a casa propria, sul quale si è chiamati a decidere. Un magistrato, soprattutto se sta alla Corte Costituzionale, non dovrebbe mai farlo’’, dice Anna Finocchiaro, presidente dei senatori del Partito Democratico. E il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, illustrando alla Camera la sua interpellanza, parla di toghe spregiudicate che con la loro condotta hanno "infangato la sacralità della Corte Costituzionale" e giudica la risposta di Vito "insoddisfacente e inaccettabile". Toni forti, che il ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, non gradisce. Ne segue un battibecco in aula, con Bondi che alle parole di Di Pietro grida più volte "Vergognati", inveendo contro gli scranni dell’Idv, e poi lascia l’aula.
Per il vicepresidente vicario dei senatori Pdl Gaetano Quaglieriello è invece "del tutto ininfluente" l’invito a cena al premier Silvio Berlusconi da parte dei giudici della Consulta rispetto al prossimo giudizio di costituzionalità sul Lodo Alfano.
Il lodo, ribatte Quagliariello, "non è un provvedimento su Berlusconi, né la corte costituzionale è un tribunale chiamato a pronunciarsi sulla colpevolezza o sull’innocenza del presidente del Consiglio, come invece parrebbe di capire leggendo le parole della senatrice Finocchiaro. Il lodo Alfano è una norma di diritto e di civiltà, rispetto alla quale la consulta è chiamata soltanto a stabilire l’osservanza del dettato costituzionale e la rispondenza ai rilievi formulati nel 2004 dalla corte stessa, rispondenza su cui in autorevoli sedi si sono avute già indicazioni piuttosto chiare. E’ evidente - conclude - che rispetto a tutto questo un invito a cena è del tutto ininfluente".
* la Repubblica, 1 luglio 2009
Il secco monito del presidente della Repubblica
"Non bisogna confondere, servono punti fermi"
Napolitano: "La politica è in crisi
le istituzioni sono un riferimento"
ROMA - Tenere i piani ben distinti. Non confondere la crisi della politica con quella della democrazia e delle istituzioni. Se la prima c’è, questo non significa che abbia contagiato anche il resto. "Non bisogna confondere la crisi della politica con la crisi della democrazia" e bisogna trovare un punto di riferimento nelle istituzioni "che hanno bisogno del necessario rispetto" dice il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante la cerimonia di inaugurazione dell’archivio storico del Quirinale.
Guarda al presente il capo dello Stato e osserva che "siamo nel momento in cui si discute molto, in Italia e fuori del nostro paese, della crisi e delle difficoltà della democrazia rappresentativa". Un’ondata di sfiducia che Napolitano vede come un fatto negativo. Ha un’impressione Napolitano, quella che "talvolta si discuta in modo astratto o per formule, cercando una definizione nella fase complessa e senza dubbio difficile che stiamo attraversando". Una generalizzazione che rischia di unire, in un unico calderone, le difficoltà della poltica spacciandole anche per quelle delle istituzioni e della democrazia.
Per Napolitano, invece, "proprio per non perdere il senso della fondamentale distinzione e giungere a giudizi più ponderati, è fondamentale il riferimento alla realtà delle istituzioni e alla loro cultura, nella loro storia, nella loro evoluzione, nel loro continuo travaglio di progressivo adeguamento".
"Fra le istituzioni - prosegue Napolitano - c’è naturalmente la Presidenza della Repubblica e io davvero mi auguro che non sola, ma assieme alle altre autorità di garanzia, riceva sempre il necessario rispetto che è dovuto alle fondamentali istituzioni della nostra Repubblica e sappia anche farsi conoscere e farsi valere".
* la Repubblica, 25 giugno 2009
Napolitano: "Ristabilire valori necessario per uscire dalla crisi" *
ROMA - Per uscire dalla crisi "è essenziale un ristabilimento di valori spirituali e morali che sono stati completamente assenti dalle determinazioni di soggetti finanziari ed economici". E’ questo un passaggio del discorso rivolto dal presidente, Giorgio Napolitano, ai rappresentanti delle grandi religioni mondiali, riunite a Roma in occasione del G8, che sono state ricevute oggi al Quirinale dal Capo dello Stato.
"Sentiamo che in questa crisi globale sono in gioco grandi scelte e grandi valori". Il capo dello Stato ha anche detto: "Non c’è prospettiva e sviluppi per i Paesi di tutti i continenti se non si riesce a riformulare i valori di convivenza, dialogo, rispetto delle diversità e collaborazione reciproca. Sono valori che insieme con quelli di libertà solidarietà e responsabilità" che il vostro incontro metterà in rilievo.
* la Repubblica, 16 giugno 2009
La Stampa, 13/6/2009 (13:47)
L’AFFONDO DEL PREMIER
"Contro di me un progetto eversivo"
Berlusconi dai giovani industriali:
basta pubblicità ai media disfattisti.
Poi frena: "Parlavo di Franceschini".
La replica: "Non mi lascio intimidire"
SANTA MARGHERITA LIGURE (GENOVA) La campagna politica contro Silvio Berlusconi che ha fatto leva sulle vicende Noemi e Mills, che ha trovato una sponda anche nei media catastrofisti, è stata «scandalosa» e ha leso l’immagine dell’Italia, non semplicemente del premier, all’estero. È stata soprattutto orchestrata con «calunnie» da parte di chi aveva in mente un «progetto eversivo» per costringerlo alle dimissioni.
Davanti alla platea dei giovani imprenditori di Confindustria, il presidente del consiglio chiama in causa i poteri occulti dello Stato, che avrebbero tramato contro di lui per indurlo a gettare la spugna. «Su quattro calunnie messe in fila, veline, minorenni, Mills e voli di stato è stata fatta una campagna che è stata molto negativa per l’immagine dell’Italia all’estero - ha accusato Berlusconi - un comportamento colpevole da parte di chi l’ha pensata e anche, dietro queste calunnie, un progetto eversivo teso a voler far decadere un presidente del consiglio eletto democraticamente dagli italiani per metterne un altro. Se questa non è eversione ditemi cosa è».
Secondo il premier, le urne hanno confermato una «maggioranza chiara». Soprattutto nei Comuni e nelle Province «abbiamo avuto risultati straordinari - ha sottolineato - possiamo continuare a governare per i prossimi quattro anni». Il Cavaliere ha poi invitato a diffidare della stampa italiana. «Ormai faccio dichiarazioni, salvo pubbliche, solo scritte - ha affermato - e mi trovo sui giornali fra virgolette frasi che non solo non ho mai detto, ma nemmeno pensato. La stampa italiana dipinge un’Italia che non è quella vera». Accuse alle quali non manca l’immediata replica da parte dell’opposizione. Il segretario del Pd, Dario Franceschini, ariva addirittura a convocare una conferenza stampa ad hoc per farlo e per scandire che quelle di Berlusconi sono «intimidazioni» belle e buone. Ma, assicura, «non mi ha mai fatto nè mai mi farà paura: può avere tutto il potere, i soldi e l’arroganza che vuole ma non ci sono minacce o intimidazioni che mi fermeranno».
Il segretario del Pd suggerisce poi al premier un pò più di sobrietà spiegando che «in democrazia chi governa deve accettare le critiche e non parlare di eversione». Sulla stessa lunghezza d’onda anche i due capigruppo del Pd, Anna Finocchiaro e Antonello Soro. Per la prima «il premier si è esibito ancora in uno dei suoi tanti sproloqui» muovendo contro l’opposizione «un’accusa ridicola» per «nascondere una volontà intimidatoria tesa a delegittimarla» perchè non intralci «il suo delirio di onnipotenza». Il presidente dei deputati Pd, infine, sottolinea come questa volta «Berlusconi abbia passato il limite oltre il quale nessuno potrà più rimanere spettatore». Perchè nelle sue parole, spiega, «non c’è solo offesa e irrisione per quanti in questo paese, assuefatto e indifferente, non piegano la schiena a chi cerca di ostacolare la sua pretesa di dominio assoluto» ma c’è anche e soprattutto «il ricordo sinistro di un altro capo di Governo che chiedeva ai suoi avversari di tacere».
Ieri la fiducia, oggi l’approvazione a Montecitorio Sì al voto segreto. L’Idv espone cartelli listati a lutto
Intercettazioni, via libera al ddl
Napolitano si riserva di esaminarlo
Il ministro Alfano: "21 deputati dell’opposizione con noi"
ROMA - Via libera della Camera, tra bagarre e contestazioni, al ddl sulle intercettazioni. Si è votato con il voto segreto e i sì sono stati 318, i no 224 (un solo astenuto): numeri parlamentari alla mano, vuol dire che 21 deputati dell’opposizione - come non manca di sottolineare il ministro della Giustizia, Angelino Alfano - hanno agito da franchi tiratori, votando a favore del provvedimento. Adesso il testo passa al Senato. E nel clima di scontro sul provvedimento in serata il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano annuncia: "Mi riservo di esaminare il testo approvato e di seguire l’iter che avrà in Parlamento, per prendere poi le decisioni che mi competono. Certo, ci sono molte cose da difendere e molte cose da rinnovare". Parole che giungono poche ore dopo il voto e all’indomani dell’iniziativa dell’opposizione che ha scritto al capo dello Stato per esprimere il "profondo disagio" per un testo definito "politicamente eversivo".
I giornali hanno il dovere di informare. I cittadini hanno il diritto di sapere. Firma l’appello
L’Associazione nazionale magistrati. Oggi l’Anm torna all’attacco: "E’ un testo con previsioni incredibili. Con queste norme polizia e magistratura avranno le mani legate nei confronti dei criminali e abbiamo il dovere di dirlo ai cittadini" attacca il segretario dell’associazione Giuseppe Cascini. E dopo il voto il presidente dell’Associazione Luca Palamara parla di "duro colpo allo svoglimento dell’attività investigativa". "I delinquenti - prosegue - non verranno scoperti e puniti, soprattutto quelli che commettono i reati più insidiosi e che mettono a repentaglio la sicurezza nelle città, quali rapinatori e stupratori".
La reazione di Fieg e Fnsi. Nettamente critiche anche Fieg e Fnsi, che in una nota congiunta sottolineano come il voto di oggi sia "una brutta notizia per l’informazione, la sua autonomia, il suo valore non meramente materiale". Da qui l’appello "per rinnovare al Parlamento, ora in particolare al Senato, e a tutte le forze politiche, l’invito a scongiurare l’introduzione nel nostro ordinamento di limitazioni ingiustificate al diritto di cronaca e di sanzioni sproporzionate a carico di giornalisti ed editori".
La maggioranza si difende. Ma la maggioranza - in aula c’era anche Berlusconi - si difende: "Sulle nuove norme sulle intercettazioni c’è un allarmismo che viene da chi vorrebbe tenere in piedi una situazione inaccettabile", dice il capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto.
La protesta dell’Idv. Durissima l’opposizione dipietrista che, al momento del voto ha esposto in Aula cartelli con le scritte come "libertà di informazione cancellata", "Pdl: protegge delinquenti e ladri", "vergogna" e manifesti listati a lutto con su scritto: "Oggi è morta la libertà di informazione uccisa dall’arroganza del potere". Replica del Pdl con coro di "buffoni". E’ severa la critica dell’Idv che parla di un provvedimento per cui "assassini, ladri, corruttori, violentatori e delinquenti ringraziano il Pdl. Mentre i delinquenti resteranno impuniti, i blogger finiranno in galera e ogni sito internet sarà equiparato a una testata giornalistica", afferma il capogruppo Massimo Donadi.
Alfano: "La vita delle persone non sarà più rovinata". Sul fronte del governo il ministro Alfano prima segnala come 21 deputati dell’opposizione abbiano votato il ddl, poi ne rivendica l’importanza: "Abbiamo raggiunto dopo un anno di lavoro un punto di equilibrio tra la tutela della privacy e la riservatezza delle indagini. Non ci sarà più la possibilità di rovinare la vita delle persone". Secco Umberto Bossi: "La gente non vuole essere intercettata. Berlusconi lo ha capito e ha avuto buon gioco".
L’ANALISI / Gli scatti di Antonello Zappadu e la vita privata del capo del governo possono minare la credibilità del paese alla vigilia dell’incontro con Obama e del G8
Perché la storia di quelle foto
cambia il registro di una crisi
di GIUSEPPE D’AVANZO *
CINQUEMILA foto che scrutano la vita del capo di un governo (una vita "disordinata": lo dice la moglie; lo ammettono anche i suoi fedelissimi) possono essere un trascurabile gossip soltanto per teste imprevidenti o vecchi volponi. È più responsabile parlare - per dirlo in modo chiaro - di una crisi della sicurezza nazionale. Può essere questo il nuovo e allarmante approdo di un affare che, in modo bizzarro, ha avuto inizio a una festa di compleanno di una ragazza di Napoli. Si è gonfiato con le ricostruzioni pubbliche di Silvio Berlusconi, presto diventate pubbliche menzogne e impossibilità a rispondere a dieci domande suscitate dalle sue stesse parole, contraddizioni, incoerenze.
Il "caso" è cresciuto con il racconto delle abitudini ambigue del presidente del consiglio che, in un qualsiasi pomeriggio d’autunno, telefona a una minorenne che non conosce (ne ha ammirato le grazie in un book fotografico) per invitarla a conservare la sua "purezza". Fin qui, anche se pochi hanno avuto finora l’interesse o la buona fede per capirlo, eravamo dinanzi a una questione politica che interrogava il divieto o il limite dell’uso della menzogna nel discorso pubblico. L’affare proponeva questioni non dappoco: l’attendibilità del premier e la costruzione di una realtà artefatta che si avvantaggia della debolezza delle istituzioni (il Parlamento); del dominio di chi - come Berlusconi - possiede e governa i media; delle pulsioni gregarie che li abitano.
Il racconto per immagini della vita privata che il capo del governo conduce, con i suoi ospiti, a Villa Certosa (viene detto oggi in cinquemila scatti) muta ora il registro. In queste foto, raccolte nell’arco degli ultimi tre anni, si può scorgere Silvio Berlusconi, circondato da stuoli di ragazze, alcune italiane, altre apparentemente slave, sempre giovanissime.
Il presidente del consiglio è con i suoi ospiti, in alcune occasioni. Sono avanti con gli anni. Hanno i capelli bianchi. Chi sono? Amici personali del presidente o dignitari stranieri? E, in questo caso, di quale Paese? Le fotografie - Repubblica ha preso visione soltanto di una parte - sono caste, ma non innocenti. La loro pubblicazione (vietata in Italia) può senza dubbio danneggiare l’immagine e la reputazione del capo del governo, provocare l’imbarazzo del nostro e di altri governi o comunque dei leader che Berlusconi ha ospitato a Punta Lada. Qui si può scorgere, in due incertezze, l’avvio di una possibile crisi.
Si pensava (lo pensava l’avvocato del premier) che tutte le foto fossero state eliminate dal mercato. Non è così. Ce ne sono altre migliaia in circolazione.
Che cosa ritraggono? Possono trasformare l’imbarazzo di Berlusconi in vergogna e la vergogna in disonore? E ancora, chi oggi può entrare in possesso di quelle foto? Al di là delle immagini delle jeunes filles en fleurs raccolte da Antonello Zappadu, quelle giovani ospiti straniere hanno avuto la possibilità di andar via con qualche scatto, con qualche immagine?
Ecco allora perché un affare nato in modo inatteso in un ristorante della periferia di Napoli, può diventare una minaccia della sicurezza nazionale. Non c’è dubbio che il presidente del Consiglio vive ore di grande debolezza in quanto non è in grado di sapere quali e quante immagini circolino (e non è necessario che siano compromettenti anche se sarebbe oggi avventuroso sostenere, con certezza, che non lo siano). Come non c’è dubbio che chi arraffa, o ha arraffato per tempo, quegli scatti, potrebbe avere un potere di interdizione sui passi del capo del governo.
Si comprende quindi il nervosismo, l’ansia del premier; la pressione che in queste ore muove sui servizi segreti per avere non solo, come pure si è detto, una maggiore protezione per il futuro, ma - e quel che conta - la sterilizzazione di ogni minaccia che viene dal passato e la distruzione di ogni disegno aggressivo che può affacciarsi nel presente.
Questa condizione di precarietà, dicono, avrebbe convinto Berlusconi a chiedere all’intelligence un’azione meno "politica" e discreta, più convinta e determinata per liberare i suoi giorni da ogni possibile ombra. Soprattutto alla vigilia di importati appuntamenti internazionali (l’atteso incontro con Obama, il G8 di luglio a l’Aquila).
Ma, ammesso che ci siano i margini tecnici per mettere in sicurezza la reputazione del presidente del consiglio, nessuno oggi è in grado di dire se non sia già troppo tardi. In questo dubbio, c’è tutta l’asprezza di una crisi che deve ancora trovare il suo vero nome.
* la Repubblica, 12 giugno 2009
La stampa europea segue con attenzione i nuovi sviluppi della vicenda Noemi
Durissimo editoriale del quotidiano di Murdoch su Berlusconi: "Disprezza gli italiani"
Il Times: "Cade la maschera del clown"
Libération: "Lo scandalo è alle calcagna"
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - Uno scandalo che non riguarda più solo gli italiani, ma anche i paesi partner dell’Italia, nell’Unione Europea, nella Nato, nel G8 che l’Italia si prepara ad ospitare. E’ questo il severo giudizio di un editoriale del Times di Londra sulla vicenda che ruota da settimane attorno a Silvio Berlusconi, al suo rapporto con la 18enne Noemi Letizia, alle feste in Sardegna e al divorzio con la moglie Veronica Lario. E non è solo il Times a occuparsi ancora una volta di questa storia, che la stampa inglese sta seguendo con particolare attenzione: ci sono nuovi articoli anche sul Financial Times, sul Daily Telegraph, sull’Independent.
"Cala la maschera del clown", s’intitola l’editoriale del Times, il secondo su questa vicenda dopo quello altrettanto duro del 18 maggio, pubblicato al primo posto fra i tre commenti del giorno nella pagina degli editoriali. "La qualità del governo Berlusconi non è una questione privata", afferma il sottotitolo. "L’aspetto più sgradevole del comportamento di Silvio Berlusconi non è che è un pagliaccio sciovinista, né che corre dietro a donne di 50 anni più giovani di lui, abusando della sua posizione per offrire loro posti di lavoro come modelle, assistenti o perfino, assurdamente, come candidate al parlamento europeo", comincia l’articolo. "Ciò che è più scioccante è il completo disprezzo con cui egli tratta l’opinione pubblica italiana. Il senile dongiovanni può trovare divertente agire da playboy, vantarsi delle sue conquiste, umiliare la moglie e fare commenti che molte donne troverebbero grottescamente inappropriati. Ma quando vengono poste domande legittime su relazioni scandalose e i giornali lo sfidano a spiegare legami che come minimo suscitano dubbi, la maschera del clown cala. Egli minaccia quei giornali, invoca la legge per difendere la propria ’privacy’, pronuncia dichiarazioni evasive e contraddittorie, e poi melodrammaticamente promette di dimettersi se si scoprisse che mente".
Il Times riconosce che la vita privata di Berlusconi è appunto un affare privato, ma osserva che, come è si è dovuto rendere conto Bill Clinton, scandali e alti incarichi pubblici non vanno d’accordo. "Molti potrebbero dire che l’Italia non è l’America, che l’etica puritana degli Stati Uniti non ha mai dominato la vita pubblica italiana, e che pochi italiani si scandalizzano davanti ai donnaioli. Ma questo è un ragionamento insensato e condiscendente. Gli italiani comprendono quanto gli americani cosa è accettabile e cosa non lo è. E, come gli americani, giudicano spregevole il cover-up".
L’editoriale del quotidiano londinese nota quindi che pochi media in Italia possono fare simili affermazioni, senza timore di un castigo. "A suo merito, la Repubblica ha continuamente sollevato domande al primo ministro sulla sua relazione con Noemi Letizia, e alla maggior parte di queste domande non ci sono state risposte soddisfacenti. Quando e dove egli ha conosciuto la famiglia della ragazza? Mr. Berlusconi chiese di avere fotografie da un’agenzia di modelle per iniziare i contatti con la signorina Letizia? Che cosa c’è di vero sulle notizie di party con decine di giovani donne nella sua villa in Sardegna? Mr. Berlusconi ha promesso di spiegare tutto in parlamento. Ma non ha certo riassicurato i suoi critici con la sua iniziativa per bloccare la pubblicazione di 700 fotografie che potrebbero mostrare cosa succedeva a quei party. Né lo aiuta il suo sventurato ministro degli Esteri, che ha provato a difenderlo sottolineando che l’età per il consenso (a rapporti sessuali, ndr.) in Italia è 14 anni, come se ciò fosse rilevante".
Qualcuno potrebbe dire, si conclude l’editoriale, che tutto ciò non riguarda i forestieri. Ma gli elettori italiani, alla vigilia delle elezioni europee, dovrebbero riflettere sul modo in cui è guidato il loro governo, sui candidati selezionati per Strasburgo e sul livello di sincerità del premier. E la faccenda "riguarda anche altri", afferma il Times. "L’Italia ospita quest’anno il summit del G8, dove si discuterà di maggiore cooperazione nella lotta al terrorismo e al crimine internazionale. E’ un importante membro della Nato. Fa parte dell’eurozona, che è confrontata dalla crisi finanziaria globale. Non sono soltanto gli elettori italiani a domandarsi cosa sta succedendo. Se lo chiedono anche i perplessi alleati dell’Italia".
Il Times pubblica anche una lunga corrispondenza dall’Italia, intitolata "Berlusconi blocca la pubblicazione di foto di giovani donne in bikini a un party nella sua villa". Un articolo sul Financial Times, invece, osserva che "l’ondata di gossip" e "l’odore di scandalo" intorno a Berlusconi distolgono l’attenzione dell’opinione pubblica italiana da questioni ben più gravi, come le cattive notizie sull’andamento dell’economia italiana.
Una corrispondenza sul Daily Telegraph afferma che "gli alleati di Berlusconi mettono nel mirino la moglie" per il divorzio, con la rivelazione che Veronica Lario avrebbe un partner da tempo, fatta da Daniela Santanché sul quotidiano Libero. E l’Independent riporta le pesanti critiche fatte dal premio Nobel per la letteratura Josè Saramago, che hanno spinto la casa editrice Einaudi, "parte dell’impero Modandori di Berlusconi", a non pubblicare il suo ultimo libro, che descrive tra l’altro il primo ministro come "un delinquente".
Francia. Il quotidiano Libération dedica la copertina alla vicenda: "Lo scandalo alle calcagna" e nelle due pagine interne: "Rivelando la tresca il quotidiano Repubblica ha fatto vacillare la popolarità del presidente del consiglio. E’ una battaglia portata avanti nel nome di una certa concezione dell’interesse pubblico".
Spagna. Il quotidiano El Pais torna a trattare la questione in una corrispondenza da Roma: "L’opposizione italiana chiede a Berlusconi che spieghi in parlamento se abbia portato nell’organizzazione elettorale del partito i suoi invitati delle feste private in Sardegna" e si chiede: "Berlusconi utilizza gli aerei ufficiali dello stato Italiano per portare gli artisti, ballerine e veline a Villa Certosa? Ha fatto uso improprio dei beni dello stato? È l’ultimo capitolo del Naomigate che ha trasformato l’Italia in un manicomio semplicemente portando allo scoperto l’abitudinaria mescolanza tra vita privata e pubblica di Berlusconi e la sua tendenza a conquistarsi amici e amiche dell’ambiente televisivo portandoli in quello politico".
Sferzante il pezzo della Vanguardia: "La campagna elettorale per le Europee continua in Italia, astrusa e noiosissima, incapace di competere quanto a contestazioni, incanto mediatico, spessore del tema con la vita personale della stella più sgargiante della politica italiana degli ultimi quindici anni: Silvio Berlusconi. Nelle cerchia del potere si parla più di questa commediola che delle vicende poltico-continentali a Bruxelles. A volte diverte. La maggior parte delle volte preoccupa ed esaurisce tanta banale frivolezza".
(Ha collaborato Flaminia Giambalvo)
* la Repubblica, 1 giugno 2009 (ripresa parziale - cliccare sul rosso, per gli allegati).
VENENDO DA UN PAESE EUROPEO, ALLA FRONTIERA, SUL CANCELLO D’ENTRATA DEL NOSTRO PAESE HO TROVATO già LA SCRITTA: "FATTORIA ITALIA" ... CASA DEL "POPOLO DELLA LIBERTA’".
Allarme a più voci
Concita De Gregorio presenta un servizio di Maria Zegarelli, che intervista Ingrao, Ruffolo, Bocca, Hack, Fo e Cossutta sulla deriva dell’Italia. Su l’Unità del 23 maggio 2009 *
UN PIENO DI MEMORIA
di Concita De Gregorio
Sarà per via del fatto che siamo storditi dalle urla e dagli insulti della destra leghista e di quella fascista, dall’istigazione continua alla paura e alla cura soltanto di sè, dalle subdole minacce degli avvocati forzisti, dai monologhi presidenziali in prima serata con sottofondo di farfalline e minorenni, dai comitati per la candidatura a «Silvio Nobel per la pace» e - più in generale - da un populismo che scivola lungo la china della dittatura, quel genere di dittatura che germoglia fertilizzata da rotocalchi e varietà giornalistici di regime, fiorisce nel servilismo eletto a utile compiacenza e finisce col dire che c’importa del Parlamento e della magistratura, possiamo benissimo fare senza. Sarà che è troppo alto e minaccioso il tono di voce generale, grevi i contenuti, che la comparsa di Marco Pannella in tv, venerdì sera, ha fatto a tutti quelli che ancora conservano un poco di amore per questo Paese un’impressione così grande. A ottant’anni, con il corpo consumato il volto scavato e gli occhi enormi, con la voce in bilico fra il senso delle parole e la forza dei silenzi lì a dire che bisogna stare attenti ma attenti davvero, che l’Italia è in pericolo la democrazia lo è, che le voci dissonanti si spengono, tutte, anche quelle che hanno fatto la storia, e che poi tutto si dimentica perché la memoria è diventata così breve. Un vecchio, certo. Un vecchio gigante della politica, il superstite di una stagione di uomini di un’altra razza. Lo si può detestare, gli si può rimproverare ogni genere di nefandezza o riconoscergli i più alti meriti ma non ignorare la differenza: lo spirito, la forza, la generosità di un’epoca in cui la politica e il bene pubblico venivano prima, erano da costruire e custodire come la casa di tutti e non la reggia di uno solo. Così siamo andati da lui ieri mattina e anziché scrivere anzitempo il suo necrologio come altri hanno già fatto gli abbiamo chiesto di parlarci di questa ultima sua battaglia, del perché ancora combatta a rischio della vita, per cosa. Marco Bucciantini gli ha domandato a cosa serva più il suo «canestro pieno di parole», diceva la canzone che gli dedicò De Gregori. «Sono tempi bui, il regime si sceglie anche gli avversari». Opposizione incorporata.
Per i padri, ormai nonni della Patria sono tempi di delusione e di rabbia, di allarme e di fatica. Cosa resta di un secolo, chi si incaricherà di proteggere il destino dei figli, di garantire libertà e democrazia così faticosamente conquistate alle generazioni future?
Li abbiamo cercati. Il più anziano tra loro, Pietro Ingrao, frequentava le elementari nei giorni della Marcia su Roma quando la più arrabbiata, Margherita Hack, aveva pochi mesi. I più giovani ( Dario Fo, Giorgio Ruffolo, Armando Cossutta) non avevano ancora vent’anni al tempo della Liberazione. Giorgio Bocca, il più pessimista, ne aveva 25 e scriveva i suoi primi articoli. Intellettuali, politici, scienziati e premi Nobel che hanno vissuto gli anni della dittatura e i giorni di gioia per il ritorno della democrazia.
Li abbiamo trovati delusi, indignati, a volte sbalorditi per la capacità del nostro paese di far male a se stesso. Pietro Ingrao ricorda che l’attacco al Parlamento è ciò che qualifica ogni iniziativa reazionaria. Non hanno voluto consolarci, ci hanno consegnato un compito.
Ascoltiamoli, qualunque sia il frammento di storia che hanno da porgerci. La memoria è il miglior viatico sempre.
LA RABBIA DEI GRANDI VECCHI
di Maria Zegarelli
Erano ragazzi quando finì il fascismo. Hanno vissuto le speranze del ritorno alla democrazia. Oggi sono preoccupati per il nostro futuro. Il più anziano tra loro, Pietro Ingrao, frequentava le scuole elementari nei giorni della Marcia su Roma, quando la più arrabbiata, Margherita Hack, era nata da pochi mesi. I più giovani del gruppo (Dario Fo, Giorgio Ruffolo e Armando Cossutta) non avevano ancora vent’anni al tempo della Liberazione. Giorgio Bocca, il più pessimista, ne aveva 25 e scriveva i suoi primi articoli. Abbiamo deciso di sentire la voce di questi intellettuali, politici, scienziati e premi Nobel con lo spirito di chi, in un momento difficile, si rivolge al padre o alla madre, al nonno o alla nonna. Alle persone, cioè, che hanno vissuto gli anni della dittatura e i giorni di gioia per il ritorno della democrazia. Li abbiamo trovati delusi, indignati, a volte sbalorditi per la capacità del nostro paese di far male a se stesso. Margherita Hack dice di «provare vergogna». L’ex partigiano Giorgio Bocca si dichiara «supersconfitto». Giorgio Ruffolo è sorpreso per le incertezze della sinistra, Armando Cossutta definisce «eversive e populiste» le iniziative del premier, Pietro Ingrao ricorda che l’attacco al Parlamento è ciò che qualifica ogni iniziativa reazionaria. Non hanno voluto consolarci i nostri grandi vecchi. Sono preoccupati. La loro memoria lancia l’allarme.
Pietro Ingrao L’offensiva reazionaria è sempre iniziata così
Non sono sorpreso dall’affondo di Berlusconi contro il Parlamento. Ieri e oggi l’attacco alle assemblee è stato e resta un punto qualificante di ogni offensiva reazionaria. Basti pensare alla polemica di fascismo e nazismo contro la democrazia rappresentativa. L’antiparlamentarismo rappresenta un terreno chiave per le ideologie e le correnti autoritarie. Da sempre infatti il Parlamento incarna la difesa delle garanzie e del libero confronto politico. Il che disturba profondamente i conservatori. Non voglio dire che Berlusconi sia fascista, ma certe sue uscite vanno in una direzione allarmante e ben nota. Tutto ciò non significa che non siano necessarie delle modifiche all’ordinamento parlamentare. Un Parlamento di mille rappresentanti, che fanno tutti la stessa cosa, è pletorico. Ma ridurlo a cento persone, come vuole Berlusconi, sarebbe un annichilimento e uno svuotamento. Per fortuna però, su questo emergono allarmi anche a destra. E le parole di Fini a riguardo mi sono parse molto equilibrate. Da cittadino mi rivolgo perciò al Presidente della Repubblica e ai Presidenti delle Camere perché intervengano con decisione a salvaguardia delle istituzioni.
Giorgio Bocca
Ex fascisti nelle alte cariche:
ecco la dittatura morbida
Avendo vissuto la Resistenza e oltre 60 anni di vita repubblicana mi considero supersconfitto: la dittatura morbida è già iniziata. Il premier può dire quello che gli pare senza alcuna reazione della società civile: durante un’assemblea della stessa Confindustria ne definisce il presidente una velina senza che si levi una reazione, e lasciamo perdere gli attacchi a parlamento e giustizia. E infatti oggi nelle alte cariche troviamo tutti ex fascisti come Fini e Alemanno. La cosa grave è che non c’è niente da fare: il piacere di servire sembra più forte di tutto. Lo definirei uno dei flussi della storia: l’unica cosa da fare è assumersi le proprie responsabilità e continuare a essere antifascisti e antiberlusconiani.
Giorgio Ruffolo
Non è ancora regime ma se ne uscirà solo
se la sinistra saprà guardare lontano
Non siamo al regime, ma i rischi sono molto seri. La democrazia attraversa un periodo oscuro a livello internazionale, che in Italia coincide con una crisi a cui Berlusconi dà un’accelerazione di populismo privatistico, e dunque dal carattere plebiscitario e senza regole. C’è un’analisi molto interessante in A destra tutto. Dove si è persa la sinistra di Biagio Di Giovanni. È singolare che la sinistra italiana sembri rincorrere la destra proprio durante una crisi mondiale del capitalismo, senza offrire risposte proprie che superino la contingenza,e mostrando una evidente mancanza di obiettivi. Di fronte a questo attacco di Berlusconi le reazioni sono di sorpresa, scoramento, indignazione, ma non propositive.
Margherita Hack
Che vergogna Pannella
costretto a digiunare
C’è da vergognarsi di essere italiani. Non capisco come sia possibile che la metà di questo Paese continui a fidarsi di un presidente del Consiglio come Berlusconi, che dice bugie, non risponde alle domande scomode, che - come dice la moglie- ha comportamenti immorali. E c’è da vergognarsi se Marco Pannella è costretto a fare lo sciopero della sete e della fame per far apparire il suo simbolo elettorale in televisione perché l’informazione non fa il suo dovere. Berlusconi pensa di essere il raìs dell’Italia, ma quello che mi spaventa di più è il consenso di cui gode. È un bruttissimo segno, vuol dire che il lavaggio del cervello è riuscito. Come si può non indignarsi di fronte al fatto che c’è un signore che ne corrompe un altro, ma il corrotto viene condannato e il corruttore no perché si è fatto una legge su misura come il Lodo Alfano? Fa male vedere quello che sta succedendo nel Paese, ascoltare frasi irriguardose verso le istituzioni da parte di chi le rappresenta. E fa male vedere questa sinistra confusa fare un’opposizione debole rispetto alla gravità dei fatti. A volte mi sorprendo a pensare che mi mancano i vecchi grandi partiti di una volta, come il Pci e la Dc.
Dario Fo
È come il compagno di sbronze ricco:
nessuno dice nulla perché paga da bere
È ammalato: partiamo da quello che dice Veronica che lo conosce bene: Berlusconi sta male e ha pregato le persone che lo conoscono di aiutarlo a uscire dalla malattia, evitando che faccia male a sé stesso e agli altri. Quando parla parte normale, poi si eccita, perde il controllo e dice cose di cui poi si deve scusare. Purtroppo nessuno glielo fa notare, perché la gente che gli è vicina lo tratta come il compagno di sbronze ricco: dicesse e facesse quel che vuole, tanto da bere paga lui. Abbiamo a che fare col matto: può sorprendere che un personaggio simile metta a rischio la democrazia. Ma in Italia abbiamo una secolare tradizione nell’applaudire chi ci fa male: il popolo non perdona chi gli apre gli occhi e piuttosto lo lincia.
Armando Cossutta
Fare muro. Sono comunista
ma stavolta voterò Pd
La democrazia corre pericoli molto seri: la posizione del premier è infatti eversiva e populista. Il suo modo di attaccare le istituzioni rivolgendosi direttamente alla gente ricalca ma solo grottescamente la Costituzione. Se l’articolo 1 della carta dice che il potere appartiene al popolo, afferma anche che questo viene esercitato attraverso il parlamento.
Attaccare la giustizia e il parlamento per indebolirli è perciò un tentativo eversivo e populista, di chi vuol governare scavalcando tutti senza più alcun controllo. Di fronte a questo pericolo non si devono avere esitazioni: al di là delle differenze tra le idee politiche bisogna votare un partito in grado di porre un argine concreto. Ero, rimango e rimarrò sempre comunista, ma stavolta voterò il Partito Democratico, l’unica forza che numericamente può opporsi a questa che è una minaccia molto seria.
E voglio anche dire che anche in questo periodo di attacchi forsennati alla democrazia in Italia, lavorando all’Anpi mi sono reso conto che tra la gente c’è ancora una coscienza antifascista e la voglia di resistere. Lo ha dimostrato la battaglia vinta contro la legge che voleva equiparazione i repubblichini ai partigiani, una battaglia cui hanno aderito moltissime persone di idee politiche diverse.
* Fonte: l’Unità del 23 maggio 2009
Editoriale del quotidiano finanziario britannico: "Rifiuta ogni critica indipendente"
L’Independent: se il premier può "mentire così spudoratamente", il Paese è a rischio
Berlusconi "un pericolo per l’Italia"
l’affondo del Financial Times
dal nostro corrispondente ENRICO FRANCESCHINI *
LONDRA - "Un pericolo" per l’Italia. Due grandi giornali inglesi, il Financial Times e l’Independent, usano stamane la stessa espressione parlando di Silvio Berlusconi, alla luce delle vicende che hanno recentemente coinvolto il primo ministro e del suo rifiuto di rispondere alle domande che gli ha posto "la Repubblica".
Dopo i numerosi servizi dei corrispondenti da Roma della stampa britannica, e due editoriali molto critici verso Berlusconi apparsi sul Times di Londra, quotidiano filoconservatore, e sul Guardian, quotidiano filolaburista, oggi a occuparsi del caso sono il quotidiano della City, considerato l’organo di informazione più autorevole d’Europa, e l’Independent, che dedica alla questione un ampio ritratto del premier italiano su due intere pagine.
Silvio Berlusconi "non è chiaramente un altro Mussolini" e il suo potere non comporta il rischio di un ritorno al fascismo, "ma è un pericolo per l’Italia e un maligno esempio", afferma l’editoriale non firmato, dunque espressione dell’opinione della direzione del giornale, collocato al primo posto frai tre commenti del giorno nella pagina "Op-Ed" (opinioni ed editoriali) del Financial Times, subito al di sotto del motto del Ft, "Without fear and without favor", ossia senza timori reverenziali e senza fare favori a nessuno. "Mentre vengono poste pesanti domande sulla sua relazione con un’adolescente che sogna di diventare una star, domande che sua moglie è stata la prima a sollevare, Berlusconi si è rivolto contro il suo più ostinato interrogante, il quotidiano di centro-sinistra la Repubblica, ha lanciato velate minacce tramite un suo associato e ha cercato di invalidare le domande sostenendo che sono viziate da un pregiudizio politico. Egli ha mostrato simile belligeranza verso i magistrati che lo hanno giudicato corruttore dell’avvocato inglese David Mills, definendoli "militanti di sinistra, sebbene il parlamento lo abbia reso immune dall’essere processato. E insoddisfatto anche di un così utile parlamento, ha detto che dovrebbe essere drasticamente ridotto a 100 deputati, mentre il potere del premier dovrebbe essere accresciuto".
Il pericolo rappresentato da Berlusconi, prosegue l’editoriale del quotidiano finanziario, è di "svuotare i media di serio contenuto politico, rimpiazzandolo con l’intrattenimento, di demonizzare i nemici e rifiutare di accettare la legittimazione di ogni critica indipendente". Il pericolo è "mettere una fortuna al servizio della creazione di un’immagine di massa, composta da affermazioni di successi ininterrotti e sostegno di popolo". Che Berlusconi sia così dominante è "in parte colpa di una sinistra titubante, di istituzioni deboli e talvolta politicizzate, di un giornalismo spesso subalterno. Ma più di tutto è colpa di un uomo molto ricco, molto potente e sempre più spietato. Non un fascista, ma un pericolo, in primo luogo per l’Italia, e un esempio maligno per tutti".
Il lungo articolo dell’Independent, firmato dall’ex corrispondente da Roma, Peter Popham, ricostruisce punto per punto tutti gli sviluppi della "Berlusconi’s story", chiedendosi se un leader coinvolto in casì tanti scandali, controversie e processi, possa finire per perdere il potere a causa di una vicenda apparentemente minore, come la partecipazione al compleanno di una ragazza diciottenne, riportata inizialmente in un trafiletto di giornale da Repubblica, ma poi gonfiata dalla decisione di Veronica Lario di chiedere per questo il divorzio, sostenendo che suo marito ha incontri "con minorenni", che "non sta bene" e che "ha bisogno di aiuto".
L’implicita allusione dell’Independent è allo scandalo Watergate, anch’esso iniziato con una piccola notizia di cronava, un apparente tentativo di forto nel quartier generale del partito democratico americano, ma poi terminato con le dimissioni di Richard Nixon. Il quotidiano londinese conclude che oggi Berlusconi è di fronte al "rischio reale" di perdere consensi alle prossime elezioni europee, particolarmente dopo le critiche espresse da alte autorità della Chiesa cattolica per il suo comportamento. La questione dei suoi rapporti con Noemi Letizia, afferma il giornale, "non è triviale". Vivere in Italia oggi è "come essere intrappolati in un campo di lava che sta lentamente ma inesorabilmente scivolando giù da un pendio". Gli scandali di Mani Pulite, anziché portare alla nascita di una rivitalizzata "Seconda repubblica", hanno condotto a una "Età di Silvio e al lento ma costante degrado delle istituzioni democratiche della nazione". Se il primo ministro può "mentire così spudoratamente" sulla sua relazione con una teen-ager, allora l’Italia "è in pericolo".
Ansa» 2009-05-23 11:38
NAPOLITANO, IN RICORDO DI FALCONE E BORSELLINO SIAMO NAZIONE
PALERMO - Nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, le commemorazioni del diciassettesimo anniversario della strage di Capaci. Alla manifestazione, alla presenza di centinaia di studenti di tutt’Italia di Napolitano e dei ministri Maroni, Alfano e Gelmini.
"Mai come in momenti come questo, uniti nel ricordo incancellabile di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le altre vittime della mafia sentiamo di essere una nazione", ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nell’aula bunker di Palermo.
"Lo Stato c’é e si fa sentire. I risultati degli sforzi compiuti dalle forze dell’ordine e dai magistrati sono sotto gli occhi di tutti". L’ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni, intervenendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Maroni, ricordando l’impegno di giudici, carabinieri, polizia e finanza, ha espresso loro il suo ringraziamento.
"Nel 2008 sono stati sottratti alle mafie beni per 4 miliardi di euro. Il triplo del 2007. E’ questo il miglior modo per celebrare le vittime della mafia: ricordare magistrati e forze di polizia impegnati nel contrasto ai boss", ha detto il ministro Maroni. Maroni ha elencato i dati relativi a sequestri, arresti e confische messi a segno all’inizio dell’anno dalle forze dell’ordine. "Da gennaio ci sono stati 1.088 arresti - ha spiegato - 97 operazioni antimafia. Sono finiti in cella 70 latitanti, alcuni dei quali inseriti nella lista dei 30 più pericolosi". "Sempre dall’inizio dell’anno - ha proseguito - sono stati sequestrati mille beni per 330 milioni di euro e confiscati 146 beni per un valore di 28 milioni di euro". "Solo a Palermo - ha ricordato Maroni - dall’inizio dell’anno sono stati messi a segno 19 blitz antimafia, arrestate 129 persone, tra le quali 5 latitanti. Due di loro erano nella lista dei 100 più pericolosi. In questi 5 mesi sono stati sequestrati 43 beni per 7 milioni di euro e confiscati in tutto proprietà e liquidi per 14 miliardi di euro". Maroni ha, infine, ricordato l’arresto del boss latitante Antonino Lo Nigro e tutti i recenti blitz delle forze dell’ordine facendo riferimento, da ultimo, a quello che ieri ha portato in cella Leonardo Badalamenti, figlio dello storico capomafia don Tano.
SORELLA MARIA, CADUTO MITO IMPUNIBILITA’ MAFIA- La sorella di Giovanni Falcone, Maria, intervenendo nel dibattito in corso all’aula bunker ha parlato di "caduta del mito dell’impunibilità della mafia" e ha sottolineato come quest’anno sia stato scelto come tema centrale dell’appuntamento quello del lavoro e dello sviluppo. "Fare sviluppo economico legale in Sicilia significa fare antimafia", ha detto Maria Falcone. Un filmato realizzato dalla Fondazione Falcone ha ripercorso l’attività del giudice e del suo collega Paolo Borsellino, con momenti di grande commozione, e scegliendo di mostrare più volte l’immagine del procuratore Antonino Caponnetto, che dei due giudici fu, oltre che un mentore, quasi un padre.
MARCEGAGLIA, LIBERI DI VOLARE NEL MONDO DELL’ONESTA’ - "Dobbiamo essere liberi di volare nel mondo dell’onesta". E’ l’appello che nell’aula bunker dell’Ucciardone ha lanciato Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. "Siamo qui - ha detto - per testimoniare l’impegno dell’associazione e delle imprese sane in favore della legalità e contro la cultura della corruzione, dell’evasione, della collusione che inquina il tessuto civile del nostro Paese". Marcegaglia ha ribadito, in un intervento più volte interrotto dagli applausi, che si è ormai affermata nel mondo dell’imprenditoria la "volontà di stroncare ogni forma di contiguità". E di spezzare il circolo vizioso del sottosviluppo che crea illegalità, che finisce per "impedire alla società sana di svilupparsi e progredire". Secondo il presidente di Confindustria l’economia sana non ha altra scelta che di espellere le sacche di collusione che ancora sopravvivono. Netto deve essere il "rifiuto di pagare il pizzo" ma anche l’impegno di isolare chi non denuncia il racket. "E’ questa un’operazione - ha sottolineato - che sta andando avanti estendendosi dalla Sicilia alle altre regioni. Gli imprenditori sanno che non ci può essere scelta diversa: o si sta dalla parte della legalità o contro la legalità". La conferma che questo processo è ormai in una fase avanzata viene, ha ricordato Marcegaglia, dal fatto che molti imprenditori che investono al Sud sono pronti a sottoscrivere protocolli di legalità.
NAPPOLITANO INCONTRA LE VITTIME DI MAFIA Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, prima di entrare nell’aula bunker dell’Ucciardone, ha incontrato i familiari di alcune vittime della mafia, alla presenza anche del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Prima il Presidente della Repubblica ha reso omaggio alle vittime dell’attentato di Capaci recandosi nella caserma Lungaro della polizia, a Palermo. Dopo avere deposto una corona di fiori ha incontrato i familiari di altre vittime della mafia. Erano presenti il presidente del Senato, Renato Schifani, e il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Alla cerimonia hanno partecipato anche, tra gli altri, il capo della polizia, Antonio Manganelli, il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo e il sindaco di Palermo, Diego Cammarata.
Il Pdl Le prime assise
«L’era Silvio? Non avevamo capito nulla»
Violante: nel Pds si ironizzava. Solo Pecchioli comprese, D’Alema intuì qualcosa *
ROMA - «L’inizio di tutto? Ho un ricordo netto, visivo, e quasi fisico: ero nel mio ufficio di presidente della commissione Antimafia, a Palazzo San Macuto, e stavo guardando i tigì di mezza sera. All’improvviso sentii dare questa notizia: "L’imprenditore Silvio Berlusconi ha deciso di appoggiare il leader dell’Msi Gianfranco Fini che, nella corsa a sindaco di Roma, è impegnato contro Francesco Rutelli, candidato del centrosinistra"... Beh: mai, prima di quel momento, c’era stato qualcuno così sfrontato nell’appoggiare un esponente di destra, e di una destra vera, autentica... che anno era?».
Era il 23 novembre 1993.
(Luciano Violante ha 68 anni ed è nato a Dire Daua: il padre, giornalista comunista, fu costretto dal regime fascista ad emigrare in Etiopia. Ma su questo non indugiamo: è pomeriggio tardi, dalle finestre del suo ufficio al terzo piano di via Uffici del Vicario si vede il sole venire giù su Roma. È un ufficio bello ed elegante come il rango di ex presidente della Camera impone. Naturalmente di Violante, ora nel Pd, occorre ricordare che fu anche magistrato di spicco e alto dirigente del Pci, e poi, ma questo è in molti libri di storia, uno dei pochi e sinceri amici di Giovanni Falcone).
Berlusconi-all’epoca padrone di tv e strepitoso presidente del Milan - decide di mettersi a fare politica: voi del Pds cosa pensaste? «Pensammo ciò che pensò buona parte della classe politica italiana sopravvissuta a Tangentopoli: ma chi è questo? Cosa vuole? Come si permette di irrompere nella nostra politica in modo così sgrammaticato?».
Tutti sorpresi. «No... forse non tutti. Ugo Pecchioli, che era presidente della commissione per i Servizi, qualcosa intuì».
Tipo? «Lui era un politico assai rigido, rigoroso. Di pura cultura comunista. Ma ricordo che un giorno mi disse: "Attenti, le cose nuove, in politica, nascono così"...».
E i diccì? E i socialisti? «Erano provati dalle vicende di Tangentopoli... Ma tipi come Martinazzoli e Cabras... e anche come Gargani...».
Cosa dicevano? «Mah, è probabile che loro qualcosa, delle potenzialità di Berlusconi, intuissero. In fondo loro avevano frequentato Bettino Craxi, erano stati suoi alleati e perciò lo avevano incontrato in privato, con lui avevano trattato...».
E quindi? «Beh, credo che una certa sua capacità di rompere gli schemi, in fondo, la ritrovassero anche in Berlusconi».
Voi, invece, rigidi. «Non capimmo che cominciava una nuova era».
Perché? «Aneddoto. Pranzo di Pasqua, a casa mia, in montagna, a Cogne: tra gli ospiti una signora che era funzionaria di Publitalia. La quale, ad un certo punto, fa: "Io ve lo dico... guardate che quello sta fondando un partito"...».
E voi? «Scettici. Pensando: e che un partito si fonda così?».
Ingenui. «Ci credevamo poco. Mentre lui tesseva alleanze, stringeva patti con la Lega, con la destra... noi ironizzavamo».
Per esempio, quando? «Quando si seppe che ai suoi adepti forniva un kit di ordini: lasciare i bagni puliti, essere sempre sbarbati...».
E quando, il 26 gennaio del 1994, Berlusconi registrò il suo primo messaggio televisivo, mettendo una calza da donna davanti all’obiettivo della telecamera per garantirsi così un effetto visivo più fascinoso? «Pensammo fosse una roba poco seria. E sbagliammo. Perché lui, invece, aveva già intuito come la nuova società italiana stesse cambiando e, alla verità del merito, tipica della nostra storia comunista, si stesse sovrapponendo la verità della forma».
Achille Occhetto, avversario designato. «All’ultimo match televisivo si presentò con un abito marrone in stoffa "occhio di pernice" piuttosto triste... Berlusconi, di fronte, come un manichino lucente...».
Ma lo sottovalutaste davvero a lungo. Veltroni, all’epoca direttore dell’«Unità », gli consentì addirittura di scrivere un editoriale in prima pagina per spiegare l’uso delle sue tivù. Vittorio Foa lo definì una «bolla di sapone»... «Davvero Foa disse questo?... Se posso aggiungere, però, ricordo che D’Alema, almeno lui, non fu tenero. La verità è che Berlusconi, dopo che i suoi tigì avevano cavalcato Tangentopoli, si presentò dicendo "io sono il nuovo". Noi, automaticamente, diventammo il vecchio».
Eppure voi, fino all’ultimo, pensaste di vincere. Occhetto definì la vostra armata elettorale una «gioiosa macchina da guerra». «Propaganda. Io dico che se ci fossimo alleati con i popolari di Martinazzoli avremmo vinto. Comunque, negli ultimi due giorni di comizi, capii che avremmo perso. A Palermo, a Caltanissetta....
Ci fu un suo incidente con Marcello Dell’Utri. «Il quotidiano La Stampa mi attribuì frasi che io non avevo mai pronunciato. Occhetto mi costrinse alle dimissioni da presidente dell’Antimafia, seguì una querela... acqua passata, direi».
Oggi comincia il congresso di fondazione del Pdl. «Il segreto di Berlusconi è che è sempre rinato. Ha vinto, perso, rivinto, riperso, e ancora rivinto. Ogni volta cambiando gioco e regole».
E stavolta? «Stavolta, con il Pdl, l’obiettivo è quello di dare un nuovo ordine alla società italiana...».
Fabrizio Roncone
* Corriere della sera, 27 marzo 2009
Populismo selettivo
di Stefano Rodotà *
La democrazia italiana sta correndo il rischio d’essere schiacciata tra il "presidenzialismo assoluto" e il populismo elettronico. È un rischio grave, di cui si dovrebbe essere consapevoli nel momento in cui si parla di aprire addirittura una stagione costituente.
Ed è un rischio reale, come dimostrano in modo eloquente alcuni fatti significativi delle ultime settimane, tra i quali spicca l’alto e severo monito del presidente della Repubblica. Berlusconi non si limita a chiedere una maggiore efficienza dell’azione di governo. Pretende una radicale ridefinizione del ruolo del presidente del Consiglio, con una concentrazione di potere nelle sue mani senza precedenti e senza controlli, alterando, e non riformando, la forma di governo disegnata dalla Costituzione.
Consapevoli o no, Berlusconi e i suoi continuano a muoversi secondo un modello messo a punto negli Stati Uniti nel 1994 da un parlamentare repubblicano, Newt Gingrich, che proponeva un "Contratto con l’America" e il passaggio a un "Congresso virtuale" (collegati elettronicamente, i cittadini avrebbero votato le leggi al posto dei parlamentari). Sappiamo che Berlusconi fece proprio il primo suggerimento, firmando in diretta televisiva il non dimenticato "Contratto con gli italiani". Ora si indica una strada per delegittimare il Parlamento, già minacciato d’una riduzione ad una sorta di riunione di famiglia di cinque persone, quanti sono i presidenti dei gruppi parlamentari, che voterebbero al posto dei singoli senatori o deputati. Fallito negli Stati Uniti, il modello Gingrich troverà in Italia la sua terra d’elezione?
Cogliamo così il populismo nella sua versione più radicale, che ispira l’azione quotidiana del presidente del Consiglio, che si è da tempo manifestato nell’accorta e totalitaria gestione del sistema della comunicazione e che ora attende il suo compimento finale, con l’accentramento dei poteri nelle mani del primo ministro e un incontro fatale con le tecnologie elettroniche. Di questo modo d’intendere la politica e lo Stato Berlusconi ha dato pubblica testimonianza quando, in apertura del congresso costituente del Popolo della Libertà, ha descritto l’intero costituzionalismo moderno appunto nella chiave, abusiva e inquietante, di una sua radice populista. E l’insofferenza per ogni forma di controllo e per le stesse regole dello Stato di diritto, caratteri tipici del populismo di destra, ritornano ossessivamente nelle più impegnative vicende recenti. Quando Napolitano ha rifiutato di firmare il decreto legge sul caso Englaro, Berlusconi ha minacciato un ricorso al popolo, costituzionalmente improponibile, perché il potere di decretazione fosse attribuito al governo fuori d’ogni controllo.
Viviamo, però, in un clima di populismo "selettivo". Quando esalta la voce del popolo, Berlusconi dimentica del tutto che questa voce si levò nel giugno 2006, quando proprio un referendum popolare bocciò la sua proposta di riforma costituzionale. Quel voto, infatti, viene svalutato imputandolo non ai cittadini, ma alla "sinistra", ai "comunisti". Questo perché si vuole cancellarne l’indubbio significato politico nel momento in cui si cerca di imboccare una strada preoccupante come quella allora bloccata. Dopo il referendum, infatti, si sottolineò che, evitato lo stravolgimento, la Costituzione aveva bisogno di una "buona manutenzione": esattamente l’opposto di quel che oggi propone Berlusconi, chiedendo in primo luogo d’essere libero da ogni controllo nell’emanazione dei decreti legge e di spostare sul presidente del Consiglio il potere di sciogliere le Camere. In questo modo, però, non si va verso una forma di governo parlamentare razionalizzata, ma verso un primato assoluto dell’esecutivo, anzi di chi lo presiede, che contrasta con il sistema costituzionale vigente.
Dopo aver trasferito la sede del governo a casa propria, ora Berlusconi vuole portare a compimento il suo progetto di privatizzazione delle funzioni di governo trasferendo nello Stato il modello già realizzato per il suo nuovo partito, descritto senza reticenze nell’articolo 15 dello statuto sui poteri del presidente del Pdl: "Ha la rappresentanza politica del partito, e lo rappresenta in tutte le sedi politiche e istituzionali, ne dirige l’ordinato funzionamento e la definizione delle linee politiche e programmatiche, convoca e presiede l’ufficio di presidenza, la direzione e il consiglio nazionale e ne stabilisce l’ordine del giorno. Procede alle nomine degli organi di partito e, d’intesa con l’ufficio di presidenza, decide secondo le modalità previste dallo statuto". Non si poteva trovare una più sincera dichiarazione di autocrazia.
Conosco già alcune risposte. Non si vuole alterare la Costituzione, ma soltanto rendere più efficiente l’azione di governo e più fluidi i regolamenti parlamentari. Non lasciamoci ingannare da queste giravolte. Si dice che, reso più rapido l’iter parlamentare delle proposte del governo, verrà ridotto il ricorso ai decreti legge. Che non è una buona risposta, perché si accetta comunque la pretesa del governo di non sottoporre a controlli adeguati le sue iniziative. E perché ai guasti del presidenzialismo strisciante non si risponde con una sua rassegnata accettazione, ma ripensando gli equilibri istituzionali, partendo da una seria rivalutazione della funzione parlamentare che non può essere affidata alle logore acrobazie di uno "statuto" concesso alle opposizioni (si rifletta sugli effetti della recente riforma costituzionale francese, che ha determinato l’assoluta opacità della legislazione chiusa nelle commissioni parlamentari e il sistematico azzeramento degli spazi di iniziativa legislativa "garantiti" all’opposizione). È tempo di contrappesi forti.
Si torna così al tema della comunicazione. L’ipotesi del sondaggio permanente dei cittadini dà l’illusione della sovranità e la sostanza della democrazia plebiscitaria. È una ipotesi insieme pericolosa e vecchia, se appena si rivolge lo sguardo ai diversi tentativi di far sì che i cittadini, consultati anche elettronicamente, non siano ridotti a "carne da sondaggio", ma possano essere soggetti attivi e consapevoli. Il ben diverso uso delle tecnologie e delle reti sociali da parte di Obama, e non da lui soltanto, dovrebbe indurre a riflessioni meno rozze. Ma delle impervie vie della democrazia elettronica, fuori dal populismo, converrà parlare più distesamente.
* Eddyburg: La Repubblica, 24 aprile 2009
«La Costituzione non è un residuato bellico» Intervento di Napolitano in difesa della Carta
(22 aprile 2009 - l’Unità)
5. FEDERICO LA SALA
22-04-2009 - 20:41:35
ONORE AL PRESIDENTE NAPOLITANO!!!
QUESTA E’ L’ITALIA CHE NON E’ DI UNA SOLA PARTE, QUESTA E’ L’ITALIA CHE VOGLIAMO, QUESTE LE LEZIONI CHE VORREMMO SENTIRE IN TUTTE LE NOSTRE SCUOLE, PER ESSERE ORGOGLIOSI CITTADINI E ORGOGLIOSE CITTADINE DELL’ITALIA!!!
NON QUELLA "ITALIA" IMBOTTIGLIATA - ANTICOSTITUZIONALMENTE - NEL "LOGO" DI UN PARTITO, COPERTO DA COPYRIGHT ...
BERLUSCONI, SE VUOLE ESSERE ITALIANO E PARTECIPARE AL 25 APRILE (Meglio tardi che mai, COME HA DETTO FRANCESCHINI), E’ BENE CHE restituisca il Nome "Italia" nelle mani del Presidente Napolitano e del Parlamento, e dell’Italia intera.
VIVA IL 25 APRILE, VIVA LA COSTITUZIONE, VIVA L’ITALIA!!!
Federico La Sala
Napolitano: «Disprezzo delle regole e avidità dietro alla tragedia Abruzzo e alla crisi economica» *
«Quando oggi pensiamo e soffriamo per le vittime e per i danni provocati dal terremoto in Abruzzo non possiamo non ritenere che anche qui abbiano contato in modo pesante e abbiano contribuito alla gravità del danno umano e del dolore umano comportamenti di disprezzo delle regole, disprezzo dell’interesse generale e dell’interesse dei cittadini». Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricevendo nella Tenuta di Castelporziano una delegazione delle famiglie francescane.
«Non sono stati forse questi fenomeni e questi comportamenti» legati «a un indubbio e allarmante decadimento di valori spirituali, umani e morali» a rappresentare «una delle cause della crisi che oggi affligge le nostre economie e le nostre società?». «Parlo di comportamenti dettati da avidità, dalla sete di ricchezza e di potere, dal disprezzo dell’interesse generale e dall’ignoranza di valori elementari di giustizia e di solidarietà».
«E perfino - ha sottolineato Napolitano - quando oggi pensiamo all’Abruzzo e soffriamo per le vittime e per i danni provocati dal terremoto, certamente un evento naturale e imprevedibile, non possiamo non ritenere che anche qui abbiano contato in modo pesante e abbiano contribuito alla gravità del danno umano e del dolore questi comportamenti di disprezzo delle regole, disprezzo dell’interesse generale e dell’interesse dei cittadini».
* l’Unità, 18 aprile 2009
Il popolo
L’oggetto del desiderio della nuova demagogia
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 31.03.2009)
La concezione liberale lo vede non come una massa uniforme che applaude un uomo ma come un insieme di individui e cittadini. E’ nell’Ottocento che gli viene attribuita in quanto volontà collettiva la fonte della legittimità dei governi e anche la sovranità politica
"Il popolo" è tra le categorie politiche quella forse più ambigua e più abusata, al punto di essere ora adottata addirittura per designare un partito, come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" si proponesse identica al tutto.
L’origine del termine "popolo" è latina e nella tradizione romana repubblicana aveva un significato di opposizione/distinzione rispetto a una parte di popolazione che non era popolo: l’aristocrazia o il patriziato. Per questa sua connotazione non socialmente unitaria, dovendo decidere la denominazione della nuova assemblea convocata all’indomani della presa della Bastiglia, nel 1789, i costituenti francesi preferirono l’aggettivo "nazionale" a "popolare".
L’incorporazione del "popolo" nella concezione moderna della sovranità statuale e poi la sua identificazione con la nazione vennero perfezionate nel corso dell’Ottocento. Nel 1835 Giuseppe Mazzini lo definì "l’unica forza rivoluzionaria" esistente anche se "mai scesa nell’arena" politica, fino ad allora il luogo esclusivo della "casta" aristocratica e militare. Popolo venne a identificarsi con volontà collettiva e quindi con la sorgente del consenso fondamentale senza il quale nessun governo poteva dirsi legittimo.
Ma è proprio nella natura singolare del nome che sta il problema. Nelle principali lingue europee ad eccezione della lingua inglese, i termini Popolo, Peuple, Volk designano un’entità organica, un tutto unico la cui volontà è una ed è legge. Lo stesso Jean-Jacques Rossueau, al quale ingiustamente è stata attribuita la paternità teorica della democrazia totalitaria, aveva anticipato i rischi di plebiscitarismo quando, descrivendo l’assemblea popolare come unico legittimo sovrano, aveva precisato con molto acume che i cittadini vi si recano individualmente, e poi, una volta riuniti in assemblea, danno il loro voto in silenzio, ragionando ciascuno con la propria testa e senza consentire a nessun oratore di manipolare i loro consenso.
Le adunate oceaniche di memoria fascista e nazista sono state una negazione della volontà popolare democratica alla quale pensava Rousseau e che è così ben definita nella nostra costituzione.
Quelle adunate di popolo, che ricalcavano il modello dell’antica Sparta dove le assemblee si concludevano urlando il "sì" o il "no" alla proposta del consiglio, non erano per nulla un segno di democrazia. In Atene, alla quale dobbiamo la nostra visione della democrazia, i cittadini si recavano all’assemblea e votavano individualmente, con voto segreto, e infine contavano i voti uno per uno, non fidandosi dell’impressione acustica provocata dall’urlo come a Sparta.
Il modo di raccogliere il consenso e la procedura di computa dei voti sono stati da allora i due caratteri cruciali che hanno dato democraticità alla categoria ambigua di popolo; che hanno anzi consentito di togliere l’ambiguità ed evitare l’abuso.
È chiaro infatti che se il termine "popolo" è singolare, sono le regole che si premuniscono di renderlo plurale. Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso del popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. È ancora a un autore classico che ci si deve affidare per comprendere questa distinzione cruciale.
Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente.
Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo?
Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme degli individui-cittadini che fanno una nazione.
Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale le voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprime pubblicamente per poter essere valutate e scelte.
Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella "voce".
Ma se la "vox dei" abita un luogo definito e unico - sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo - se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso.
Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclestastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
George Orwell a palazzo Madama
di Stefano Rodotà, (la Repubblica, 27 marzo 2009)
Ricordate George Orwell e la «neolingua» che compare nel suo "1984"? Parole manipolate per soddisfare le «necessità ideologiche» del regime, per «rendere impossibili altre forme di pensiero». È esattamente quello che è accaduto ieri al Senato della Repubblica, che ha battezzato come «dichiarazioni anticipate di trattamento» il loro esatto contrario, cancellando ogni valore vincolante del documento con il quale una persona indica le sue volontà per il tempo in cui, essendo incapace, dovesse trovarsi in stato vegetativo permanente. Sarà inutile seguire un tortuoso iter burocratico, da ripetere ogni tre anni, perché con esso si approderà semplicemente al nulla. E la maggioranza dei senatori ha fatto la stessa operazione battezzando come sostegno vitale l’alimentazione e l’idratazione forzata contro l’opinione larghissima del mondo medico internazionale che le considera trattamenti. È lo stesso consenso informato, uno dei grandi risultati civili del tempo recente, perde il suo valore fondativo del diritto di costruire liberamente la propria personalità. Il sequestro di persona, di cui ha parlato ieri Adriano Sofri, ha trovato il suo compimento. Missione compiuta, potrà dire il presidente del Consiglio al cardinale Bagnasco a tre giorni appena dall’ingiunzione dei vescovi a chiudere senza indugi e senza aperture la discussione sul testamento biologico.
È con grande amarezza che scrivo queste parole. Non si sta parlando di una vicenda marginale, ma del modo in cui si stanno delineando i rapporti tra le persone ed uno Stato che, abituato da sempre a legiferare sul corpo della donna come «luogo pubblico», rende ora «pubblici» i corpi di tutti, li fa tornare sotto il dominio del potere politico e si serve abusivamente della mediazione dei medici, di cui viene restaurato un potere sul corpo del paziente che era stato cancellato proprio dalla «rivoluzione» del consenso informato. Ora non sarà più la persona a decidere per sé. Altri lo stanno facendo, e lo faranno, al suo posto. Dov’era un «soggetto morale», quello nato appunto dall’attribuzione a ciascuno del potere di accettare o rifiutare le cure, troviamo di nuovo un «oggetto».
Non è solo una questione di costituzionalità, allora, quella che si è ufficialmente aperta. È una questione di democrazia, perché stiamo parlando del modo in cui si esercita il potere. Sono in discussione il diritto all’autodeterminazione e i limiti all’uso della legge.
Torniamo così alla costituzionalità del testo appena approvato, di cui la maggioranza appare sicura probabilmente perché alla Costituzione e alla sue logiche si mostra sostanzialmente estranea, come provano molte vicende degli ultimi tempi, e dei tempi meno recenti. Ma la Costituzione e i suoi guardiani sono ancora lì. Alla maggioranza conviene far sapere che, mentre si arrabattava in tutta una serie di espedienti legali per impedire che avesse attuazione la sentenza della Corte di Cassazione sull’interruzione dei trattamenti a Eluana Englaro, la Corte Costituzionale (sentenza numero 438 del 23 dicembre 2008) scriveva le seguenti parole: «La circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».
Da qui bisogna partire già in questi giorni, mentre il disegno di legge passa dal Senato alla Camera. Non è retorica dire che il punto forte è costituito dal sentire delle persone, testimoniato da tutti i sondaggi, da quelli appunto sulle decisioni relative al morire a quelli sull’uso del preservativo, che mostrano non solo una distanza netta dalle posizioni delle gerarchie vaticane, ma soprattutto una consapevolezza profonda della libertà e della responsabilità che devono accompagnare le scelte di vita. Ai deputati bisogna far sentire la voce di questo paese, che la maggioranza politica non ascolta, chiusa com’è nelle sue convenienze e nei suoi ideologismi, e che il Partito democratico rischia di non sentire, lasciando così senza avere rappresentanza parlamentare proprio un mondo che potrebbe essergli vicino.
Dalla ormai celebre calzamaglia della discesa in campo all’annuncio dal "predellino"
Le tappe della vita politica del Cavaliere nel giorno di apertura del congresso Pdl
"Questo è il paese che amo"
La storia italiana del Cavaliere
di MATTEO TONELLI *
ROMA - Dalla discesa in campo alla salita sul predellino. La parabola di Silvio Berlusconi si potrebbe sintetizzare così. Eppure ne sono successe di cose da quel lontano 1994 in cui gli italiani cominciarono a conoscere la faccia del Cavaliere (con annessa libreria posticcia sullo sfondo) fino ad oggi, alla vigilia del battesimo del Pdl. Il contenitore unico del centrodestra che ha inglobato An e si prepara a festeggiare, in pompa magna, la sua nascita. Con tanto di banda musicale.
Quindici anni di cambiamenti, di partiti nati e spariti, di leader inventati e bruciati. Quindici anni la cui comprensione, però, non può prescindere da Silvio Berlusconi. E’ lui l’unica costante immutabile della scena politica. Più di Prodi, che pur l’ha sconfitto due volte. Più di Fini,"il politico di professione" relegato a eterno numero due. Piaccia o non piaccia gli ultimi 15 anni hanno avuto come costante il Cavaliere. Da Forza Italia, alla Casa delle libertà, al Pdl. Al comando sempre un solo uomo: Berlusconi.
E anche oggi, mentre il Pdl sta per nascere, non si può dimenticare che l’atto fondativo della nuova forza politica risiede nel balzo del premier sul predellino di una macchina tra la folla che lo ascoltava in piazza San Babila. Congressi? Ma quando mai. La storia è Forza Italia è un continuo slittare o derubricarli a semplici Consigli Nazionali. Voti? Mozioni? Macché. mai nessuno, in Forza Italia, ha osato mai proporre un documento di critica al Cavaliere. E di un voto non c’è mai stato bisogno: bastava l’acclamazione. Persino le parole sono rimaste le stesse. Quelle del ’94 della scesa in campo, Berlusconi le ha riutilizzate, nel 2008, al termine del consiglio nazionale che sancì la confluenza di Fi nel Pdl. A Berlusconi bastarono dieci minuti e le stesse parole del ’94. Come dire: nulla è cambiato, in primis il Cavaliere.
Ma vale la pena di partire da lontano. Tornare con la memoria agli ultimi mesi del ’93 quando si diffondono le voci del probabile ingresso in politica del Cavaliere. Lui smentisce, ma la cassetta con il famoso discorso del "Paese che amo" è già pronta. Gli italiani si trovano davanti ad un nuovo modo di fare politica. Fatto di sondaggi, sorrisi, spot televisivi usati a piene mani. Il Cavaliere guida uno schieramento che lo vede al nord alleato con Ccd e Lega (Polo delle libertà), al centro-sud con Ccd e An (Polo del buon governo) e vince, travolgendo "la gioiosa macchina da guerra" messa in piedi dall’allora segretario del Pds Achille Occhetto.
Ma dura poco. Arriva il famoso avviso di garanzia durante il vertice di Napoli. Un mese dopo Bossi si impunta sulle pensioni e il governo cade. E’ l’inizio di una "guerra" contro la magistratura che segna il Dna di Forza Italia. Una vera e propria ossessione quella di Berlusconi: "La giustizia va riformata". Al governo va Prodi e il Cavaliere prepara la rivincita. Forza Italia cambia statuto e diventa un partito. Leggerissimo, per la verità. Di plastica, dicono i detrattori. Di sicuro saldamente identificato con il suo leader. Lo stesso di sempre. Che ne diventa presidente del 1998. Ovviamente per acclamazione. "Siamo un partito liberaldemocratico, popolare, cattolico, laico e nazionale" scandisce Berlusconi. Che, un anno più tardi, vede Forza Italia entrare nel Ppe.
E’ il momento del primo cambio di nome. Nel 2000 nasce la Casa delle libertà. In pratica un cartello delle forze che si oppongono "alla sinistra". Si arriva così al voto del 2001. Il Cavaliere firma, in diretta televisiva da Bruno Vespa con tanto di scrivania portata per l’occasione, il "contratto con gli italiani e promette "grandi opere, sviluppo, libertà, meno tasse". Un mix che fa breccia nell’elettorato. Berlusconi torna a palazzo Chigi. Ma non sono rose e fiori con il centrosinistra che rialza la testa alle amministrative del 2005.
Il resto è storia recente. La sofferta vittoria di Prodi del 2006. Il Cavaliere furioso che grida ai brogli e non riconosce la vittoria dell’avversario. Il Professore che, fin dal primo giorno deve fare i conti con una coalizione rissosa e divisa. Ma anche nel centrodestra i rapporti sono tutt’altro che sereni. "Il limite della Casa delle libertà, è quello di essere una coalizione, dove basta il veto di uno solo dei partiti coalizzati per bloccare qualsiasi decisione" dice il Cavaliere sempre più insofferente verso Fini e Casini. Che ricambiano. Sembra che si vada alla rottura quando Berlusconi, il 18 novembre del 2007, rompe gli indugi e sale sul predellino della sua berlina di lusso in piazza San Babila a Milano. Intorno una folla adorante. "E’ l’ora dei partito unico del centrodestra". Fini e Casini, scavalcati, schiumano rabbia. "Siamo alle comiche finali" tuona il leader di An. Ma la caduta del governo Prodi funziona da miracoloso collante (non con l’Udc che se ne va da sola). A marzo 2008 si vota e il centrodestra stravince. Berlusconi risale a palazzo Chigi. Per Forza Italia è l’ora dello scioglimento. Il 21 novembre dello scorso anno il consiglio nazionale vota la confluenza nel Pdl. An la segue il 20 marzo. Si arriva così all’oggi. Con un partito che nasce sul predellino di un’auto, senza che nessuno, al momento dell’annuncio, ne sappia nulla. Se non Berlusconi, ovviamente. Dal 94 ad oggi, unico vero dominus del centrodestra. Comunque si voglia chiamarlo.
* la Repubblica, 27 marzo 2009
Un partito unico per un unico padrone
Pdl, dal predellino alla Fiera di Roma
di Federica Fantozzi (l’Unità, 27.03.2009)
Al via oggi pomeriggio il congresso costituente del Popolo della Libertà Immagini psichedeliche per catturare i giovanissimi. Ma i giornalisti in un’altra sala Superpalco sospeso di 600 metri, coreografie rutilanti, cori e pennacchi. Ma gli interventi «liberi» di ragazzi e delegati comuni andranno in scena la sera tardi. L’ordine dei lavori indicherà chi sale e chi scende.
Il palco è un candido ponte sospeso, 600 metri quadrati di ideale trait d’union «tra il passato e il nuovo». I 500 metri di fondali luminosi sono il maxischermo su cui scorreranno immagini psichedeliche stile Mtv, due schermi laterali e due quinte esterne in nuances azzurre. Banda musicale con pennacchio e coro. Nuovo inno e nuova «fatina»: al posto di Stefania Prestigiacomo, presenterà la giovane e bionda deputata Annagrazia Calabria che si dice già «emozionatissima».
Le 7200 sedie del Padiglione 8 accoglieranno delegati e ospiti, ma solo ministri e big del partito avranno accesso alla privatissima «zona rossa». Andrà peggio ai giornalisti: confinati nella sala stampa al Padiglione 6, incollati agli schermi (piccoli) lontani dal travaglio che darà vita al nascituro PdL. E peggio ancora ai peones, giovani e delegati comuni, i cui interventi massimo 5 minuti sono previsti dopo cena «a oltranza» fino a mezzanotte.
Nuova Fiera di Roma, ingresso Nord, sotto il cubo con il disco celeste visibile dall’autostrada. «Hostess? Andate pure». In effetti ne passano a grappoli, in 250 accudiranno il Popolo della Libertà. Ieri pomeriggio, ora del sopralluogo di La Russa e Verdini in attesa della benedizione finale di Berlusconi, la Fiera era ancora un cantiere. Operai, attrezzisti, security con la missione di “bonificare” l’area (cacciato persino un gruppo di ricercatori che studia i partiti), carrelli, gru. Discussioni sugli stand: qui Magna Carta, un po’ più in là l’editore Bietti. Pacchi incellophanati di libri: dalla «Svolta del Predellino» alle opere di Quagliariello. Il clou, croce e delizia, crocevia di ansie e aspettative, è «l’ora della sorpresa». Dalle 17 alle 18 di oggi: tra l’apertura delle assise e il discorso di Berlusconi. Sarà il momento della coreografia: «Un grande colpo d’occhio» gongola La Russa. «Decoro in movimento - la chiama l’architetto globe-trotter Mario Catalano - Ha deciso Berlusconi come sempre, su un ventaglio di dieci proposte». Sugli schermi scorrono meduse digitali, sorride una fanciulla con cappello di paglia e papaveri rossi: «Solo prove». Qualche anticipazione? «Per carità, sono un soldato» inorridisce Catalano. Si ventilano adesioni vip, un caleidoscopio di immagini del quindicennio forzista alle spalle, montaggio emotivo e lacrimucce in sala.
Al lavoro c’è un team decennale. Dopo i triumviri (Bondi, Verdini e La Russa), la triade: Catalano, giacca sahariana e occhiali da sole, già «compagno di scorribande palermitane» con il maestro craxiano Panseca; il curatore dell’immagine Roberto Gasparotti, cravatta azzurra, «Ecco, lì, anzi no, qui»; il direttore della fotografia Gianni Mastropietro. Berlusconi parlerà da un palchetto più vicino al pubblico: da solo venerdì, con l’ufficio di presidenza alle spalle da presidente eletto. Ancora da limare il resto degli interventi, su cui è rimbalzato il gelo con Fini. Le donne sognano Mara Carfagna coordinatrice. I dettagli chiariscono le gerarchie interne: venerdì sera sindaci e assessori, sabato di giorno Fini, Schifani, ministri e capigruppo. Tremonti subito prima di cena (fornita, al solito, dal catering Ottaviani: pasta tricolore, cotolettine, mozzarelle, caponata di verdure, involtini di pesce spada). Sabato notte «interventi liberi». Domenica mattina saluto dei «piccoli»: il Repubblicano Nucara non aderisce, chissà se lo faranno parlare. Ultimi sussurri: quanto si fermerà Berlusconi? E quali interventi ascolterà? Al via il nuovo borsino di chi sale e chi scende.
La Russa, polemica sul 25 aprile: «Berlusconi sbaglierebbe ad andare»
Il Popolo delle Libertà sta per nascere, il 25 aprile prossimo avrà circa un mese, ma la Liberazione italiana non la considera una data da festeggiare. Almeno non la considerano tale i suoi leader; prima di tutti il premier Silvio Berlusconi, che alle celebrazioni del 25 aprile non è mai andato finora. E a seguire, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ormai ex reggente di quella che è stata Alleanza nazionale.
La polemica sulle assenze del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, alle celebrazioni per il 25 aprile, è datata, ma è stata riaperta a ’Porta a Porta’. L’esponente del Pd, Pierluigi Bersani, in apertura di trasmissione mette alla prova la nuova identità del centrodestra italiano e chiede con forza che Silvio Berlusconi festeggi le celebrazioni del 25 aprile. Chiede ad Ignazio La Russa: «Il vostro partito celebrerà o no il 25 aprile? Sarkozy e Aznar hanno sempre celebrato la sconfitta del nazifascismo, mentre Ciarrapico ha lodato Berlusconi per non averlo fatto».
Netta la risposta del ministro: «Il 25 aprile non si misura sul numero di passi che si fanno insieme alle bandiere rosse. C’è andata Letizia Moratti a celebrare il 25 aprile con il padre che era partigiano: è stata fischiata e insultata. Voi volete che Berlusconi si sottoponga a questa gogna mediatica, ma non lo farà mai. Se lo facesse sbaglierebbe». Inoltre aggiunge La Russa: «Io ci andrei tranquillamente il 25 aprile a dire quello che penso», ma non c’è solo questa data tra i momenti di pacificazione nazionale: «Ci sono tre date, il 25 aprile, il 2 giugno e il 4 novembre. Perchè tutti mi chiedono cosa faccio il 25 aprile e nessuno chiede a Bersani cosa fa il giorno della festa delle Forze armate il 4 novembre?».
Bersani però è pronto a controreplicare: «Io voglio solo sottolineare che tutti i partiti popolari in Europa celebrano la liberazione, Berlusconi invece non lo ha mai fatto e comunque chiunque viene al corteo è sempre stato il benvenuto». Nella polemica interviene allora il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini che si limita a sottolineare: «Mi auguro che non ci siano strumentalizzazioni perché credo che il 25 aprile debba essere per tutti gli italiani il minimo comune denominatore».
Il coordinatore di Forza Italia, Denis Verdini, dal canto suo ha voluto precisare che «Forza Italia, come partito, ha sempre celebrato il 25 aprile».
* l’Unità, 23 marzo 2009
Le spallate alla Costituzione
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 12.03.2009)
Che effetto fa vivere in un paese dove il presidente del Consiglio dichiara di voler chiudere il Parlamento? Non lasciamoci rassicurare da chi dice che questa proposta «cadrà nel vuoto». Non banalizziamo, non derubrichiamo a battuta occasionale un’affermazione così pesante secondo un costume invalso in questi anni e che ha portato al degrado del linguaggio e della politica. Le parole aggressive della Lega sono state un potente veicolo di promozione degli spiriti razzisti. Lo stillicidio delle dichiarazioni di Berlusconi contribuisce a distruggere gli anticorpi che consentono ad un sistema di rimanere democratico. Soprattutto, non isoliamo le ultime affermazioni del presidente del Consiglio da un contesto ormai caratterizzato da un quotidiano attacco alla Costituzione.
Si stanno mettendo le mani sulla prima parte della Costituzione, proprio quella che, a parole, si dice di voler tenere fuori da ogni proposito di riforma. La legge all’esame del Senato sul testamento biologico viola la libertà personale e l’autodeterminazione delle persone. Si mettono in discussione la libertà d’espressione e il diritto dei cittadini ad essere informati con la legge sulle intercettazioni telefoniche. Si nega il diritto alla salute come elemento essenziale della moderna cittadinanza quando si prevede che i medici possano denunciare un immigrato irregolare la cui unica colpa è la richiesta di cure. Si privatizza la sicurezza pubblica legittimando le ronde, con una abdicazione pericolosa dello Stato da una delle funzioni che ne giustificano l’esistenza. Si avanzano proposte censorie che riguardano Internet. Si erodono le garanzie della privacy per improprie ragioni di efficienza. Si propone una banca dati del Dna con scarse garanzie per la libertà delle persone.
Non era mai accaduto che il nostro sistema politico vivesse quotidianamente ai margini della legalità costituzionale, che si dubitasse della costituzionalità di tutte le leggi di qualche peso in discussione alle Camere. Si altera così il funzionamento del sistema istituzionale, e si trasferisce l’intero compito di garantirne il corretto funzionamento ai "due custodi", il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale, di cui si accentuano le responsabilità e la politicità. E si dimentica che proprio la cultura costituzionale segna la politica e la civiltà di un paese.
Distogliamo per un momento lo sguardo dalle nostre lacrimevoli vicende, e rivolgiamolo agli Stati Uniti. Barack Obama non sta soltanto liberando il suo paese da inammissibili vincoli, come quelli sul divieto del finanziamento pubblico alla ricerca sulle cellule staminali embrionali, mostrando come sia possibile e necessaria una politica lungimirante e svincolata da ipoteche fondamentaliste. In un documento indirizzato a tutti i responsabili dell’amministrazione federale, Obama ha scritto che, «esercitando la mia responsabilità nel decidere se una legge sia incostituzionale, agirò con prudenza e misura, basandomi unicamente su interpretazioni della Costituzione che siano solidamente fondate». Qui è evidente l’imperativo di allontanarsi dalle pratiche lesive dei diritti dell’amministrazione Bush, proprio per ricostituire quegli anticorpi democratici la cui distruzione stava minando la coesione interna e la stessa credibilità degli Stati Uniti.
Quale distanza, quale abisso ci separano da questa volontà di ridare la bussola costituzionale al funzionamento dell’intero sistema politico, e quale deriva ci sta travolgendo proprio perché stiamo abbandonando quella bussola. Grande, allora, diviene la responsabilità della cultura che si cimenta proprio con il tema della Costituzione, e con il modo in cui oggi si deve guardare ad essa.
Le reazioni, gli atteggiamenti sono diversi. Si è diffidenti verso una difesa della Costituzione che sembra fine a se stessa, che non tiene nel giusto conto la dimensione della politica. Che è preoccupazione giusta a condizione, però, che la sacrosanta invocazione di una politica non più latitante abbia quei solidi fondamenti che, per le ragioni appena accennate, debbono essere trovati proprio nei principi costituzionali. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una politica "costituzionale".
Della legittimità stessa di questa politica si dubita quando si mette in evidenza che proprio la prima parte della Costituzione, quella delle libertà e dei diritti, è segnata da un inaccettabile statalismo, dall’accentuazione di una funzione protettiva delle istituzioni pubbliche che apre la porta alle tentazioni stataliste. È singolare, o rivelatore, il fatto che questo atteggiamento ritorni proprio nel momento in cui i guasti enormi della economia deregolata hanno fatto emergere una imperiosa richiesta di regole. Disturba, ad esempio, il fatto che si adoperi la parola "tutela" quando ci si riferisce alla salute. Eppure proprio negli Stati Uniti, nella materia della salute, si è verificato un gigantesco fallimento del mercato e la riforma del sistema è un punto chiave del programma di Obama.
Si torna, poi, a ripetere che la nostra Costituzione dovrebbe essere modificata perché non dà spazio adeguato al riconoscimento del mercato. Che cosa dovrebbe dire, allora, la Germania la cui costituzione parla di una proprietà il cui «uso deve servire al bene della collettività»? La verità è che rimane forte il fastidio per un contesto che vuole il mercato rispettoso dei diritti fondamentali. In Italia si è arrivati a proporre l’abrogazione dell’articolo 41 della Costituzione, che stabilisce che l’iniziativa economica privata «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Statalismo o soglia minima di civiltà?
La spallata berlusconiana al Parlamento nasce in tempi di costituzionalismo debole e ha come fine, insieme alla cancellazione del sistema parlamentare, l’azzeramento delle garanzie, lo smantellamento del sistema dei diritti.
Indice
1 Riassunto
2 Curiosità
3 Note
4 Bibliografia
5 Voci correlate
6 Collegamenti esterni
Riassunto Si tratta di un film-collage di diversi frammenti di documentari filmati dal dopoguerra in poi, che illustrano varie situazioni:
Il viaggio di Alcide De Gasperi in America nel 1947.
La cacciata del Partito Comunista Italiano dal governo di unità nazionale.
L’istituzione del Piano Marshall di aiuti economici americani per la ricostruzione dell’Europa, in particolare è descritta la situazione italiana.
Le elezioni politiche del 1948, mettendo in evidenza l’utilizzo da parte dei partiti di frasi come: «Dio ti vede, Stalin no», i comizi di Padre Lombardi.
Il festival canoro di Sanremo.
Nunzio Filogamo che presenta in televisione (la RAI, unica TV esistente) "La rassegna del dilettante".
La "Mostra dell’aldilà", che presentava in modo atroce la situazione economica e sociale dell’Europa di oltrecortina
La sconfitta della Democrazia Cristiana, comandata da De Gasperi nelle elezioni del 1953. Dopo questa sconfitta, la DC sarà costretta ad abbandonare il "monocolore DC", ed a formare coalizioni di governo, alcune volte il monocolore tornerà sostenuto da indipendenti (come l’estrema destra del MSI nel governo Tambroni) ma quasi sempre verranno formate coalizioni della D.C. con altri partiti conservatori o moderati come il PRI, il PLI, il PSDI, fino ad includere il PSI di Pietro Nenni (che successivamente, durante gli anni 80 con Bettino Craxi avrebbe formato il cosiddetto "Pentapartito").
La sciagura provocata dal crollo della diga del Vajont, nel Veneto, 1963.
L’elezione dell’onorevole Giuseppe Saragat alla presidenza della Repubblica, nel 1964.
La strage di Piazza Fontana, a Milano, nel 1969
La contestatissima visita del presidente americano Richard Nixon in Italia, all’epoca della guerra del Vietnam.
Papa Paolo VI (Giovan-Battista Montini) che assiste ad un comizio televisivo di Amintore Fanfani osteggiando il referendum a favore del divorzio.
Viene mostrato il Presidente della Repubblica Giovanni Leone, mentre pubblicamente esegue il gesto scaramantico di «fare le corna».
Presenta spezzoni di filmati sul congresso della Democrazia Cristiana di Roma del 1976, narrando di come non sembra esserci alcun seguito alla promessa (fatta più volte nei decenni anteriori) di rinnovare finalmente la DC, rendendola più «trasparente» nelle sue decisioni, e più flessibile nell’elezione di nuovi volti dirigenziali, tra questi Aldo Moro (WIKIPEDIA)
Ronde, come spaccare l’Italia
Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato percorrono le nostre strade con poteri incostituzionali di controllo del «territorio»
di Furio Colombo (l’Unità, 1.03.2009)
La secessione di Bossi assomiglia alla minaccia nucleare di Teheran. Il piano è già fatto, ma i pezzi arrivano un po’ per volta. La differenza è che, per ogni passo avanti dell’Iran, anche piccolo, anche simbolico, il mondo trasalisce e alza la voce. In Italia, invece, tutti assistiamo assenti o compiaciuti mentre, con espedienti o modalità diverse, la Lega smantella l’Italia. Non siamo ancora arrivati al federalismo fiscale che segnerà lo smembramento ufficiale e legale del Paese. Ma molti pezzi staccati di ciò che era l’Italia giacciono già, in esibizione penosa, sui prati dei «territori».
I cittadini non sono più uguali. I diritti condivisi sono stati spezzati. I sindaci-sceriffi si sono dotati di poteri che - in uno Stato normale - non hanno nulla a che fare con i compiti e le funzioni dei sindaci. Bande organizzate dallo Stato contro lo Stato (o meglio da un ministro infiltrato dentro lo Stato di cui è avversario) percorrono le nostre strade con il nome civettuolo di “ronde” a cui si danno poteri di controllo del «territorio» che - in condizioni normali, e se vigesse la Costituzione - spetterebbero solo allo Stato.
Tenete conto della parola «territorio». Non esiste nella Costituzione, che infatti recita: «L’Italia è composta di Comuni, Province, Regioni». La Lega Nord ha imposto le parole «territori» e «popoli» perché non sa dire cos’è o dov’è la sua presunta patria, la Padania, e non sa come distinguere i suoi presunti cittadini “padani” da tutti gli altri italiani.
Il colpo di genio è venuto attraverso l’accordo-ricatto di Arcore: invece di svelare le amicizie pericolose di Berlusconi con la mafia (come aveva cominciato a fare «La Padania» nel 1999, pubblicando in prima pagina la foto di Berlusconi accanto a quella di Totò Riina), la Lega viene dotata di tutto il sostegno mediatico e finanziario necessario per sembrare un partito nazionale.
In tal modo un partito locale eletto quasi solo in due regioni italiane conquista punti cruciali di controllo nel governo e dello Stato italiano che era, invece, il nemico (ricordate “Roma ladrona”?).
Ma la strategia della Lega, mentre da un lato ricatta con successo tutto il versante berlusconiano e porta un partito nazionalista come An a sostenere con fervore ogni nuovo atto secessionista, dall’altro affascina e ipnotizza ciò che resta della sinistra. La prova più impressionante sono le «ronde di Penati», ovvero il disorientante sostegno alla cultura della Lega da parte del presidente della Provincia di Milano, già Ds, ora leader Pd, Filippo Penati . «Che c’è di sbagliato nell’associare ai sindaci carabinieri e poliziotti in pensione e mandarli a sorvegliare parchi, scuole, strade? Chiamiamoli presìdi e non ronde e le obiezioni verranno meno». (La Repubblica, 23 febbraio).
Che c’è di male? C’è che salta tutto l’impianto di legalità costituzionale di un Paese democratico. C’è che si nega il compito delle forze dell’ordine regolate dalla legge. C’è che si aboliscono i diritti garantiti dei cittadini. C’è che a Milano l’unico esponente Pd (cioè della normale cultura costituzionale italiana nelle istituzioni) abbraccia in modo pubblico e clamoroso la cultura della Lega che infaticabilmente lavora a divaricare l’Italia.
I governi, centrale e locale, vengono riorganizzati come agenti persecutori degli immigrati e di tutti gli altri cittadini (dai medici ai poliziotti ai giudici) che non intendono prestarsi al brutto gioco della divaricazione morale e della spaccatura fisica del Paese.
Intorno allo slancio della cultura rondista si forma un focoso rapporto plebiscitario e tribale fra sindaco ed elettori, dove tutto avviene al di fuori delle leggi e della Costituzione. I danni sono enormi, da Lampedusa che brucia agli attacchi di natura razziale frequenti, ripetuti, spinti fino all’omicidio e alle persone a cui danno fuoco sulle panchine. Gli ospedali diventano luoghi pericolosi da cui stare alla larga se si è clandestini, anche per chi è portatore di malattie contagiose. Le scuole hanno classi separate per i non italiani e test di «cultura locale» per tenere lontani dall’integrazione i figli degli immigrati, e tenere bassa e umiliante la qualità della scuola italiana.
Devastando con leggi nazionali e arbitrio locale la Costituzione italiana, la Lega ha fatto molto di più della secessione. Ha infettato di cattiveria persecutoria tutto il Paese, aperto la strada ai linciaggi, diffuso disprezzo e odio. La Lega, salita sulla groppa di Berlusconi, governa la Repubblica italiana. È peggio, molto peggio, della minaccia di secessione.
Lo Stato e le regole
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 1/3/2009)
La maggior presenza dello Stato nell’economia, resa necessaria dalla rovina finanziaria, restituisce ai poteri pubblici molti spazi che essi avevano ceduto o perso nell’ultimo trentennio. Restituisce allo Stato una forza inaspettata, vasta, benefica nell’immediato ma anche colma di rischi perché potenzialmente invadente, minacciosa non solo per l’economia ma per gli equilibri della democrazia.
Il fatto è che mancano, in buona parte dell’Occidente, classi politiche all’altezza di una svolta così profonda, anche se temporanea. Se si esclude Obama, giunto al potere in coincidenza con il crollo finanziario, numerosi politici che oggi governano le democrazie son figli dell’epoca che ha visto gli spazi della politica restringersi, e quelli del mercato allargarsi smisuratamente. I pericoli di uno Stato prevaricatore non diminuiscono ma aumentano, se il delicato passaggio è gestito da una generazione che per decenni s’è fidata del mercato più che della politica, abituandosi non a servire lo Stato ma a servirsi di esso, e mostrando un’acuta allergia alle regole. Nelle loro mani, lo Stato rinsaldato potrebbe divenire un Leviatano temibile.
Per tutti costoro, il Grande Crollo rischia di somigliare a quello che per Bush fu, nel 2001, la Grande Scossa dell’11 settembre.
Un’occasione non per consolidare la democrazia che si pretendeva tutelare, ma per accentrare il potere, per accentuare l’unilateralismo, per estendere l’ingerenza nel privato del cittadino, per distruggere l’equilibrio dei poteri sino a violare norme costituzionali come l’habeas corpus, che è il diritto di chi è arrestato a sapere perché il suo corpo viene sequestrato. Proprio dai neo-liberisti venne il più potente attacco alle libertà individuali: un’aggressione che la crisi economica può riprodurre, mescolando proditoriamente, come allora, politica dei valori, della paura, degli interessi particolari, del nazionalismo. Proprio da loro venne l’idolatria di una concorrenza sganciata dalla cooperazione. Dal caos d’un mercato senza briglie sono fuoriusciti governanti che hanno edificato la propria forza, oltre che sulla propria ricchezza, sul rifiuto esplicito delle leggi, costituzionali o internazionali. Che hanno spregiato la politica classica chiamandola inutile teatro. In Italia si parla di teatrino: i paesi feroci adorano i diminutivi.
In molti casi sarà questa generazione politica a gestire il ritorno dello Stato, e proprio questo turba. Dirigenti che aborrivano la politica e le istituzioni, che erano avvezzi a servirsene, che sono andati al potere da privati per privatizzare il pubblico, si trovano ora al volante di Stati dilatati, e tenderanno a comportarsi come ieri. Continueranno ad agire fuori dalle regole, a crearsi spazi dove gli spiriti animali del mercato non son temperati né dal senso razionale del limite, né dalla fiducia nel diverso. Con la politica dei valori e della paura si plasmerà la società. La guerra al Grande Crollo diverrebbe una variazione ben poco armoniosa della Guerra al Terrore.
Tale è infatti il potere, se non controbilanciato: cresce senza misura. Lord Acton diceva che naturalmente «tende a corrompere», e «quando è assoluto, corrompe assolutamente». Ciò è tanto più vero per chi lascia nel vago i fini che col governo della cosa pubblica vuol raggiungere, e tende a profittare del momento per accrescere un potere fatto di forza, muscoli, influenza sulle menti, sulla società, sull’informazione, addirittura sul comportamento etico di ciascuno. La vocazione ad accentrare e privatizzare il potere mal tollera le regole, i contropoteri, financo l’opposizione. In Italia si finge addirittura un’unità nazionale che nessun esito elettorale ha sancito. In Germania la Grande Coalizione è nata nelle urne. Da noi strega e corrode le menti, delegittimando chi vorrebbe, classicamente, fare opposizione.
Eppure solo uno spazio pubblico aperto a opinioni diverse permette di sventare i pericoli di uno Stato straripante: uno spazio nel quale a un potere si contrapponga un altro potere, alla maggioranza faccia fronte la minoranza, con la calma che nasce da una lunga storia della democrazia. A questo compito non sono preparate né le destre, influenzate per decenni dal fondamentalismo del mercato, né le sinistre immerse nello sforzo di tagliare le proprie radici stataliste. Ambedue sono figlie del neo-liberismo e del caos che ha generato. Ambedue dovranno affrontare la crisi ripensando il potere, i suoi fini, i suoi limiti.
C’è bisogno di un potere calmo, non rivoluzionario, per diminuire i rischi di uno Stato troppo forte, nocivo all’economia come ai cittadini. Chi sa i rischi dello strapotere non solo accetta ma favorisce la moltiplicazione di contropoteri, di controlli nazionali, europei, se possibile mondiali. Ma può farlo a due condizioni: deve dire i fini del potere politico, e sapere cosa significa senso dello Stato.
Un potere che si proponga fini alti non passa il tempo a criticare il politicamente corretto e gli ideali di giustizia sociale della sinistra. Attività simili perdono ogni senso: valevano quando si credeva che il mercato si regolasse da solo. Lottando contro il politicamente corretto, i fondamentalisti del mercato hanno scoperchiato tabù ma hanno anche finito con lo svilire i fini della politica: fini come la convivenza tra diversi, l’accoglienza dello straniero, la protezione dei bisognosi. Il potere - che dovrebbe essere un mezzo - è divenuto un fine in sé: nichilisticamente, sostiene Gustavo Zagrebelsky.
Non meno importante è la seconda condizione: che concerne il senso dello Stato, delle istituzioni. Un senso che non combacia sempre con lo Stato-nazione. Oggi, il senso dello Stato tocca averlo sia nazionalmente, sia in Europa: e non per ideologia sovrannazionale, come scrive sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia. L’Europa federale già esiste in numerosi campi (frontiere, moneta, commercio, concorrenza, agricoltura, spazi giuridici crescenti). Siccome nessuna mente, neanche la più fine, può dire il domani, nessuno può escludere che in futuro il senso delle istituzioni diventi senso dell’istituzione-Europa. Jean Monnet lo sosteneva agli esordi dell’unione: tutto sta a creare istituzioni comuni, perché «solo le istituzioni son capaci di divenire più sagge»: «Niente esiste senza le persone, niente dura senza le istituzioni». Nell’odierna crisi finanziaria è evidente: ogni Stato si difende da solo, minacciando col protezionismo l’Europa e se stesso contemporaneamente. Non esiste il sacrificio degli interessi «nazionali» sull’altare europeo, perché i due interessi coincidono più che mai. D’altronde gli europei lo intuiscono: molti irlandesi già si son pentiti del no al Trattato di Lisbona, molti Stati euroscettici sull’orlo della bancarotta riscoprono l’Unione.
In Italia cominciano a farsi sentire voci, anche a destra, che vogliono liberarsi dalla rivoluzione neo-liberista e neo-nazionalista contro le tavole delle leggi. Tremonti invoca regole mondiali e discipline europee, contro il caos del mercatismo. Gianfranco Fini si muove nello stesso senso. Giuseppe Pisanu, ex ministro dell’Interno, mette in guardia il governo, in un’intervista a Metropoli, contro una politica che ignora le regole, e contro lo Stato che si fa invadente, repressivo. Invita quest’ultimo a «governare con sapienza l’immigrazione», a non punirla attizzando cupi risentimenti negli immigrati, a non spezzare «l’unitarietà e l’efficienza del nostro sistema di sicurezza» con le ronde private.
Lo Stato diventa sempre più forte e proprio per questo sono importanti la costituzione, le regole, l’Europa. Solo custodendole si può dire, come Obama giovedì al Parlamento: lo Stato interverrà nell’economia senza danneggiarla ma non rinuncerà a dire la sua, e non mollerà: We are not quitters.