GIUSTIZIA: IL LODO ALFANO E’ LEGGE
ROMA - L’Aula del Senato ha definitivamente approvato il "lodo Alfano", il disegno di legge che garantisce l’immunità per le alte cariche dello Stato fino alla scadenza del loro mandato. Il provvedimento è stato approvato con 171 sì, 128 no e 6 astenuti.
Il ministro della Giustizia Angiolino Alfano ha difeso con forza e con piglio polemico il disegno di legge che garantisce l’immunità delle alte cariche dello Stato (il Lodo che porta il suo nome). "Alle critiche che sono state rivolte - dice Alfano - sulla fretta con cui si è messo a punto questa legge, io rispondo che non è molto urgente né poco urgente è solo giusto". "Noi lo abbiamo fatto - aggiunge il Guardasigilli rivolgendosi ai banchi dell’opposizione - come abbiamo fatto il decreto sulla sicurezza atteso dai cittadini, così come era giusto fare il decreto che ha levato la spazzatura nella città di Napoli, così come era importante fare il decreto sull’abolizione dell’Ici sulla prima casa".
Alfano ha poi annunciato la riforma del sistema giudiziario italiano per l’autunno. In sede di replica sul disegno di legge che garantisce l’immunità per le alte cariche dello Stato, il ministro ha detto:"Intendiamo procedere alla riforma della giustizia civile e del processo penale visti i tempi irragionevoli della durata dei processi e visto che il conto lo paga il cittadino". Secondo Alfano, "oggi la linea di confine tra riformisti e conservatori è segnata dalla giustizia". Il Guardasigilli ha invitato "i settori ragionevoli dell’opposizione" ad un "confronto in autunno" sulla riforma della giustizia con l’auspicio che i settori riformisti dell’opposizione "non seguano i giustizialisti".
LODO-SPRINT IN PARLAMENTO, 25 GIORNI PER L’OK Venticinque giorni: tanti ne sono bastati al Parlamento per far diventare legge il lodo Alfano, il provvedimento definitivamente approvato oggi nell’Aula del Senato che dispone la sospensione dei processi penali nei confronti del presidente della Repubblica, dei presidenti delle due Camere e del presidente del Consiglio fino alla cessazione della carica. L’approvazione è arrivata in un tempo decisamente breve rispetto alla media parlamentare. Tuttavia, non si tratta di un record.
La scorsa legislatura, il disegno di legge del governo per il rifinanziamento delle missioni militari all’estero per il secondo semestre 2006 venne definitivamente approvato 23 giorni dopo l’arrivo in Parlamento: il sì definitivo arrivò al Senato con un voto di fiducia al quale non partecipò la Cdl. Il lodo Alfano è stato varato dal Consiglio dei ministri il 27 giugno. La presentazione del disegno di legge è stata autorizzata dal capo dello Stato il 2 luglio. L’esame in commissione è iniziato alla Camera l’8 luglio per concludersi nella stessa giornata.
Il giorno seguente, 9 luglio, il testo è stato posto all’ordine del giorno dei lavori dell’aula, che lo ha approvato 24 ore dopo, il 10 luglio. Le opposizioni hanno contestato la presidenza per aver anticipato l’esame del testo, malgrado in conferenza dei Capigruppo non si fosse raggiunta l’unanimità; ma in un lungo ’speech’ in Aula, Gianfranco Fini ha assicurato di aver rispettato tanto il regolamento quanto la prassi. Immediato il passaggio in Senato: a Palazzo Madama, il testo del lodo Alfano è stato esaminato in due giorni dalla commissione, dal 15 al 17 luglio. Ieri è approdato in Aula per il voto sulle pregiudiziali, e questa sera è stato approvato in via definitiva.
SUL TEMA, NEL SITO (CLICCARE SULLE PAROLE ROSSE PER LEGGERE L’ART.), SI CFR.:
LEGGE ELETTORALE ("PORCELLUM") E PROSTITUZIONE: ANGELA NAPOLI LANCIA L’ALLARME.
DECRETO-LEGGE 30 aprile 2019, n. 34 :
Capo III
Tutela del made in Italy
Art. 31
Marchi storici
1. Al decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 sono apportate le seguenti modificazioni:
CRAC PARMALAT
Quirinale: "Tanzi è indegno"
Revocato titolo di cavaliere
Il presidente della Repubblica accogliendo la proposta del ministro dello Sviluppo economico ha cancellato l’onorificenza al merito del lavoro conferita all’ex patron della Parmalat nell’84
ROMA - Calisto Tanzi non è degno del titolo di Cavaliere del Lavoro. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, accogliendo la proposta del ministro dello Sviluppo economico, ha firmato venerdì scorso il decreto di revoca "per indegnità" della decorazione di Cavaliere al Merito del Lavoro, che era stata conferita all’ex patron della Parmalat il 2 giugno 1984, con decreto firmato dall’allora Capo dello Stato, Sandro Pertini.
Dopo le complesse vicende del crac della Parmalat e delle condotte tenute dal fondatore e presidente dell’azienda (per le quali Tanzi è già stato condannato 1 a Milano) il ministero dello Sviluppo economico aveva chiesto di cancellare l’onorificenza ritenendo che sussistessero "le condizioni previste dalla legge per la revoca". Sarà ora lo stesso ministero di via Veneto, come si afferma nel decreto presidenziale, a curare la trascrizione del provvedimento nell’albo dell’ordine, oltre che a farlo pubblicare nella Gazzetta Ufficiale.
Nell’agosto scorso il presidente aveva tolto all’imprenditore responsabile del gigantesco fallimento di migliaia di risparmiatori anche il cavalierato della Gran Croce
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino (...)
Giustizia, pronto ddl costituzionale per riproporre il lodo Alfano *
ROMA - Sarà un disegno di legge di rango costituzionale, ma non prevede nessuna modifica della Costituzione, il provvedimento messo a punto dal Pdl in sostituzione del Lodo Alfano. Il ddl, secondo quanto apprende l’ANSA, è di tre articoli e prevede lo scudo giudiziario per il Presidente della Repubblica, il presidente del Consiglio e i ministri. Sarà presentato ad horas e reca le firme del capogruppo Maurizio Gasparri e del vicario Gaetano Quagliariello.
Il ddl prevede che il procedimento giudiziario vada comunque avanti. Il magistrato, sempre secondo quanto si apprende, deve invece comunicare alla Camera di appartenenza (Senato o Camera) del parlamentare o del ministro l’avvio del processo. La Camera ha 90 giorni di tempo per decidere se accogliere la richiesta o disporre la sospensione del processo fino al termine del mandato. Sarà il Senato, nel caso di un ministro tecnico, la Camera di riferimento per la decisione. Dal provvedimento sono rimasti esclusi, rispetto all’originale Lodo Alfano, le figura dei presidenti di Camera e Senato per rispondere all’obiezione della Corte costituzionale secondo cui lo scudo giudiziario, a quel punto, doveva essere esteso anche ai parlamentari.
* la Repubblica, 28 aprile 2010
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
Alfano: presto il nuovo Lodo *
Il ministro della giustizia, Angelino Alfano, assicura che per la presentazione di un lodo costituzionale per lo ’scudo’ alle più alte cariche dello stato «non passerà molto tempo». «Lo strumento- aggiunge aAfano- lo decideremo in sede politica. Stiamo valutando e non passerà molto tempo per la decisione». Il ministro spiega che nel legittimo impedimento, approvato ieri dalla Camera e atteso al Senato, c’è una norma «che postula proprio l’esistenza di una iniziativa nell’arco dei 18 mesi» per un lodo costituzionale sull’immunità e che «la Camera ha inoltre approvato un ordine del giorno, con il parere favorevole del governo, che impegna a compiere questa scelta. Noi- aggiunge il ministro- ci muoveremo in questa direzione». Il nuovo lodo, a quanto si apprende, coprirà anche i ministri. E la sponda è offerta sia dai rilievi mossi dalla Consulta in occasione della bocciatura della prima edizione dello scudo penale, sia dalla legge sul legittimo impedimento, che riguarda appunto sia il premier che i ministri.
Il ragionamento che i tecnici del centrodestra hanno applicato nella scrittura di questa norma è semplice, ma porta a quella che al premier è stata prospettata come la ’soluzione finale’. In prima istanza, verrebbe introdotta una modifica costituzionale alle prerogative del presidente del Consiglio e quindi dei ministri e del presidente della Repubblica. In tutti gli articoli che riguardano i poteri e le prerogative di queste cariche verrebbe introdotta una frase in cui si stabilisce che, nei loro confronti, non si può «nè cominciare nè proseguire l’azione penale». Questo introdurrebbe le necessarie condizioni costituzionali per porre al riparo dai processi penali sia il presidente della Repubblica che quello del Consiglio, che però, essendo ’primus inter pares’, ha le stesse specifiche degli altri membri del governo, come anche tenuto in considerazione nella redazione del legittimo impedimento. Ecco quindi l’ingresso dei ministri ma la fuoriscita dei presidenti delle Camere tra le alte cariche dello Stato tutelate.
Una volta introdotto il principio costituzionale, il resto della manovra sarà portato avanti con legge ordinaria, perchè, come spiegano sempre dal centrodestra, «la Costituzione elenca i principi, poi ci vuole una legge per applicarli». È qui che verranno introdotti concetti come la eventuale rinunciabilità della tutela offerta dallo scudo o la reiterabilità in caso di nomina o elezione ad altra carica, il tipo di copertura offerta e la durata degli effetti. Il tutto, ovviamente, per via ordinaria. In quel testo, si sta ragionando, si potrebbe prevedere di introdurre lo scudo anche per i presidenti delle Camere.
L’introduzione del principio di impossibilità a «cominciare e/o a proseguire l’azione penale», poi, otterrebbe anche un altro risultato: di fatto, renderebbe inutile la norma transitoria del processo breve, scritta di fatto per stoppare i processi a carico del premier. Berlusconi sarebbe infatti coperto prima dal legittimo impedimento (la norma-ponte) e poi dal neo-principio costituzionale che renderebbe ’improseguibilì le azioni penali contro il presidente del Consiglio. Resta ancora da definire la strategia parlamentare per arrivare a questa soluzione. Al momento, l’ipotesi più accreditata è quella di iniziare a fine febbraio, ma forse anche dopo le regionali. Entro il 28 febbraio, infatti, va approvato il dl riempi-procure, che oggi la Camera ha licenziato all’unanimità. Prima però il Senato dovrà approvare il legittimo impedimento, varato ieri da Montecitorio. Ecco quindi la finestra temporale opportuna aprirsi soltanto dopo il 28 febbraio, ovvero in piena campagna elettorale per le regionali. A quel punto, è la spiegazione che danno nel centrodestra, «fra presentare un testo il 5 marzo o il 30 non cambia niente». Al momento, infine, non è stato ancora deciso se le nuove norme costituzionali saranno proposte dal Governo o da parlamentari.
* l’Unità, 04 febbraio 2010
Il leader dell’Idv affida al suo blog una missiva per Gesù Bambino
"Non vuole farsi processare e lo chiama dialogo. Liberiamoci di lui"
La lettera di Natale di Di Pietro
"Con il diavolo non si discute" *
ROMA - "Nel nostro Paese c’è ’un diavolo’ al governo che pensa di usare le istituzioni solo per farsi gli affari suoi". Antonio Di Pietro affida al suo blog "la sua lettera a Gesu Bambino". Una missiva che chiama in causa, senza citarlo esplicitamente Silvio Berlusconi. E’ lui il diavolo che "vuole addirittura cambiare la Costituzione perchè nella Carta non è previsto che lui non può essere processato" e che "non vuole essere processato". "Però lui questo lo chiama dialogo - continua Di Pietro - E, come tu sai, caro Gesù Bambino, capita spesso che qualcuno abbocchi e dica: ’Vabbe’ andiamo a dialogare. Te lo immagini? Ricordi la storia di cappuccetto rosso? Avrebbe mai potuto dialogare con il lupo cattivo?". In pratica un messaggio esplicito al Pd. Di Pietro conclude: "Ecco la preghiera che ti faccio, caro Gesù Bambino: l’anno prossimo mettici in condizione di liberarci politicamente, attraverso l’esercizio democratico del voto, di questo diavolo al governo".
Dialogo e riforme, il punto è sempre quello. Berlusconi, che ieri ha avuto uno scambio di idee con Giorgio Napolitano, vorrebbe un’agenda per le riforme da definire con il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Magari ripartendo dalla bozza Violante. "Siamo pronti al dialogo con l’opposizione. Se la sinistra è pronta stavolta, se sono rose fioriranno..." afferma il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti. Ottimista il presidente del Senato Renato Schifani: "Ce la faremo. Noi chiudiamo questo anno in un clima diverso rispetto a quello di qualche settimana orsono".
Ma il Pd è cauto. "Sulle riforme occorre lavorare con determinazione - dice lo stesso Violante - senza però tenere troppo alte le aspettative perchè quando le vele sono troppo gonfie poi si possono sgonfiare rapidamente". Mentre Bersani fissa alcuni paletti: "La maggioranza ritiri le leggi ad personam con cui si appresta a occupare il Parlamento e si può iniziare a discutere". Chiude il ministro dell’Interno Roberto Maroni: "Mi auguro che le aperture di Bersani, confermate anche oggi da Violante, non inciucesche ma per un confronto in Parlamento su cose concrete, siano la strada giusta".
* la Repubblica, 23 dicembre 2009
Il premier perdona il suo aggressore ma confida nel giudizio dei magistrati
"Serve un segnale, non passi il messaggio che si può aggredire il presidente del Consiglio"
Berlusconi: "Ho perdonato Tartaglia
ma pm giudichino la gravità del gesto"
In giornata telefonata a Napolitano dopo il messaggio di ieri del capo dello Stato
Il presidente: "Buoni rapporti personali. Sono ragionevolmente fiducioso" *
ROMA - Silvio Berlusconi ha perdonato Massimo Tartaglia, l’uomo che lo ha aggredito una settimana fa a Milano. Ne dà notizia l’agenzia Ansa che riporta quanto riferito da una fonte presente a una conference call che il premier ha tenuto da Arcore con la sede Pdl di Roma per gli auguri di Natale. Perdona l’aggressore ma spera che i magistrati - riferisce la fonte - "nel giudicare il gesto non facciano passare il messaggio che si può aggredire il presidente del Consiglio, che resta un’istituzione da difendere". Perdono che per Tartaglia "sarà un sollievo", dice l’avvocato dell’uomo, Daniela Insalaco, certa che la decisione di Berlusconi "possa essere utile al mio assistito per rielaborare, con l’aiuto degli psichiatri lo hanno in cura, le conseguenze del grave fatto commesso".
Le parole di Berlusconi giungono nel giorno in cui il premier ha telefonato al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per uno scambio di auguri e un confronto dopo le parole pronunciate ieri dal capo dello Stato. Che dice: "Con Berlusconi i rapporti personali sono sempre stati buoni. Mi ha fatto piacere che oggi mi abbia chiamato e che abbia apprezzato le linee generali del mio discorso’’.
Berlusconi: "Serve un segnale". "Umanamente l’ho perdonato", ha detto Berlusconi sempre secondo il resoconto di chi ha potuto ascoltarlo. "Sapete che non so portare rancore", ha aggiunto rivolgendosi agli interlocutori che lo ascoltavano dalla sede di via dell’Umiltà a Roma. Tuttavia, il premier ha sottolineato l’importanza che il gesto di Tartaglia non venga sottovalutato: non deve passare il messaggio che si può andare in giro e colpire liberamente il presidente del Consiglio che rappresenta un’istituzione; il rischio è che altrimenti parta un tiro al bersaglio.
"Si è gridato al tiranno". "A furia di gridare ’a morte il tiranno’, c’è chi ha cercato di uccidere il tiranno...". Nel corso della telefonata con lo stato maggiore del Pdl, Berlusconi torna sull’episodio dell’aggressione. "E’ stata frutto di un clima d’odio - ribadisce - in queste situazioni se a qualcuno riesce il colpo allora diventa un eroe, se non riesce si fa poco tempo in galera e può uscire tranquillamente più libero di prima". "Io - ha aggiunto - non ho mai scaldato il clima, ho fatto solo notare la provenienza di alcuni organismi istituzionali che è una provenienza chiaramente di sinistra.
Napolitano: "Fra noi buoni rapporti". Quanto alla telefonata fatta da Berlusconi al capo dello Stato, Napolitano ne ha parlato con i giornalisti quirinalisti. Che gli hanno chiesto se fra lui e il presidente del Consiglio si fosse "sciolto il gelo". "Io sono per natura scongelato" ha replicato il presidente della Repubblica, ribadendo che "una cosa sono i rapporti personali e una cosa quelli tra le istituzioni. E quando vengono toccate le prerogative delle istituzioni, io reagisco nel modo che mi pare più opportuno".
Riforme, Napolitano "ragionevolmente fiducioso". Quanto al tema delle riforme, Napolitano si è detto "né ottimista né pessimista" ma "ragionevolmente fiducioso". Nel discorso di ieri, ha aggiunto, "quando ho detto che non c’è ancora il clima propizio, mi riferivo alle scelte necessarie per ridurre il debito pubblico e riqualificare la spesa. Sulla possibilità di fare le riforme in questa legislatura sono stato più fiducioso".
"Riflessioni salutari". Sui temi citati ieri (l’importanza delle riforme e della condivisione, il ruolo centrale del Parlamento, l’invito a tutti i protagonisti della politica a non insistere su ipotesi di supposti complotti, il ruolo di salvaguardia della Costituzione) il capo dello Stato è tornato anche oggi nel corso dell’incontro con il corpo diplomatico. Dopo l’aggressione a Berlusconi ci sono state "nell’opinione pubblica italiana delle reazioni e riflessioni salutari", ha detto Napolitano.
Crisi e temi internazionali. Napolitano ha anche fatto una riflessione sul valore della crisi finanziaria, che "ha dato la prova inconfutabile di una interdipendenza cui nessun continente e nessun Paese può sottrarsi". Questa interdipendenza, ha aggiunto, "è il presupposto e insieme il portato oggettivo di quel processo di globalizzazione, i cui indirizzi e le cui ricadute richiedono un impegno e delle forme concrete di governance". Di fronte alla crisi quindi si è manifestata "la consapevolezza che il mondo è uno solo e insieme bisogna governarlo".
Calderoli propone la Convenzione. Apprezza il "nuovo" clima il ministro per la Semplificazione normativa Roberto Calderoli. E lancia una proposta: "E’ iniziato un dialogo con l’opposizione e con le cariche istituzionali che dovrebbe essere prodromico alle riforme. Verificherò con la maggioranza, col governo e con l’opposizione la disponibilità all’utilizzo di uno strumento che ho chiamato Convenzione, perché al processo partecipino non solo deputati e senatori ma anche il territorio con Comuni, Province e Regioni".
* la Repubblica, 22 dicembre 2009
Appello
Alziamo le nostre coscienze e tiriamo su la nostra schiena
di Paolo Farinella, prete *
Il governo e la maggioranza hanno valicato ogni ritegno: ormai delinquono in pubblico e in tv apertamente al grido minaccioso di «Salvare Berlusconi ad ogni costo». Il parlamento chiuso si riapre per approvare una leggina che metta al sicuro Berlusconi dai «suoi processi» e non importa se questa leggina non solo annienta gli scandali di truffa, falso in bilancio, bancarotta, ecc. ma annulla il diritto di milioni di cittadini che hanno diritto ad una sentenza ed eventualmente ad un risarcimento. Con questa legge che riduce solo i tempi dei processi, senza dare personale, strumenti e mezzi per accelerarli, si consuma la supremazia definitiva del sopruso sul diritto, della mafiosità sulla legalità, dell’impudenza sulla dignità e la sconfitta definitiva dello stato di diritto.
Berlusconi, dopo il lodo Alfano torna ad essere, almeno teoricamente, un cittadino come gli altri e come tutti deve essere processato e assolto o condannato con una sentenza inappellabile. Non possiamo tollerare ancora una volta una legge che lo salvi impunemente, anche in presenza di sentenze in corso. Non possiamo assistere inattivi, inermi e complici di una immoralità e indegnità di questa portata.
Usiamo la rete non solo per resistere, ma per reagire, per impedire che ancora una volta il corrotto, corruttore, compratore di giudici, di sentenze e di testimoni, il predatore fiscale che con le sue evasioni e i suoi conti esteri ha rubato a tutti noi e a ciascuno di noi. Una leggina riguarda Mediaset che deve al fisco circa 200 milioni di euro e se la caverà con un misero 5%. Come è possibile che i pensionati, i lavoratori a stipendio fisso, i precari, i cassintegrati, le donne, i senza lavoro, possano ancora votarlo e vederlo come un modello?
Come è possibile che assistiamo rassegnati alla vivisezione della Costituzione e della sopravvivenza di uno scampolo di dignità? Siamo calpestati ogni giorno nei nostri diritti e derisi nella nostra dignità e non siamo in grado di reagire come si conviene ad un popolo di gente che ogni giorno si ammazza per vivere onestamente del proprio lavoro e nel rispetto della Legge.
Non possiamo tollerare più che un uomo disponga dello Stato, delle sue Istituzioni, che ordini alla Rai di firmare un contratto di 6 milioni di euro al suo maggiordomo Bruno Vespa perché è bravo a fargli il bidet. Non possiamo tollerare che un suo dipendente, Minzolini, pontifichi a suo nome dalla tv di Stato; non possiamo più tollerare che sia smantellata Rai anche se aumenta ascolti e fatturato solo perché indigesta al satrapo senza statura. Non possiamo più tollerare che ci domini a suo piacimento e a suo uso e consumo. Se lui è l’utilizzatore finale delle prostitute a pagamento, noi vogliamo essere le sue mignotte «a gratis»?
Mettiamo in moto una rivoluzione e riportiamo il treno dentro i binari della Legge, delle Istituzioni, della Legalità, della Giustizia, della Dignità e del nostro Onore. E’ ora il tempo di scendere in piazza non per rivendicare un aumento di stipendio, ma per rivendicare un sussulto di dignità e di orgoglio di essere Italiani e Italiane che non vogliono essere scaricati come spazzatura. Berlusconi sta imperando e sta distruggendo tutto perché noi lo permettiamo o quanto meno lo tolleriamo.
Alziamoci in piedi e non pieghiamo la testa, chiedendo a gran voce, se necessario con uno sciopero generale ad oltranza, le dimissioni di Berlusconi, dei suoi avvocati pagati da noi e la conclusione dei suoi processi perché in Italia nessuno può essere più uguale degli altri e tutti, nessuno escluso, devono sottostare alla Maestà del Diritto.
Mi appello alle organizzazioni sindacali, ai partiti, alle associazioni nazionali e internazionali, ai gruppi organizzati, all’Onda lunga della scuola, ai blogger, alle singole persone di buona volontà con ancora una coscienza integra perché «el pueblo unido jamás será vencido».
LETTERA Al Sig. Presidente della Repubblica On.
Giorgio Napolitano
di Paolo Farinella, prete
Ho appena inviato la seguente e-mail al Presidente della Repubblica
Se ritenete, fate lo stesso: inondiamo il Quirinale di e-mail, uno tsunami di e-mail, lettere, cartoline, telegrammi, piccioni viaggiatori, mosche cocchiere, tutto ciò che occorre perché si veda e si senta lo sdegno di tutti noi.
Paolo Farinella, prete
Al Sig. Presidente della Repubblica
On. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
00100 Roma
Via e-mail: presidenza.repubblica@quirinale.it
Sig. Presidente,
Con orrore prendiamo atto che il parlamento, chiuso da settimane per irresponsabilità del governo, riprende freneticamente l’attività per porre rimedio alla sentenza della Consulta che, bocciando il «lodo Alfano» (che pure Lei aveva firmato), ha dichiarato l’uguaglianza assoluta tra tutti i cittadini, compreso il presidente del consiglio dei ministri.
Il governo, la maggioranza, il parlamento e il Paese sono bloccati sulle vicende giudiziarie del presidente del consiglio che continua a pretendere leggi su misura per salvarsi dai processi dove è inquisito di reati gravissimi per i quali alcuni suoi complici sono stati condannati definitivamente (Previti) o in primo grado (Mills). La pretesa di leggi su misura viene fatta in pubblico, alla luce del sole, nella certezza dell’impunità assoluta, anche a costo di annullare migliaia e migliaia di processi gravissimi (Parlat, Cirio, Antonveneta, Eternit, rifiuti a Napoli, ecc.), lasciando centinaia di migliaia di cittadini vittime di ingiustizia senza risposte, senza risarcimenti, senza una sentenza con attribuzione di responsabilità. Sig. Presidente, il Paese è stufo di questo andazzo e in molti siamo pronti alla rivoluzione perché non possiamo tollerare più che le nefandezze di un uomo che si è servito sempre dello Stato distruggano lo Stato stesso per salvare lui e mettere al sicuro il suo patrimonio, frutto di evasione fiscale, riciclaggio, falso in bilancio e corruzione. Non tolleriamo più che un sistema mafioso condizioni lo stato di diritto e calpesti la dignità e la laboriosa onestà della maggior parte delle cittadine e cittadini che hanno sempre avuto il sommo rispetto per la Legalità, anche contro i propri interessi pratici.
Sig. Presidente, lei è l’ultimo baluardo del Diritto, il garante supremo della Carta Costituzionale, il rappresentante della unità nazionale. A nome di migliaia di persone oneste, la supplico di non fermarsi alla pura forma dei suoi compiti, ma di fare tutto il necessario perché il governo e il parlamento tornino ad essere esempio specchiato di trasparenza di vita, di legalità e di esempio morale. Non diventi, anche indirettamente, complice di norme e leggi improvvisate sulle necessità e sui tempi del presidente del consiglio, anche se mascherate con qualche pennellata di «esigenza generale» perché lei sa che così non è. Noi vogliamo che il sig. Berlusconi Silvio si sottoponga la giudizio dei tribunali della Repubblica, come un qualsiasi cittadino. Sig. Presidente stia dalla parte dei cittadini onesti, del Diritto e della Dignità dell’Italia che in questo momento è mortificata proprio da quel governo che dovrebbe condurla fuori dalla crisi economica e sociale e invece la sta infognando e annegando nella melma dell’indecenza. Se necessario, sciolga le Camere per ingovernabilità mafiosa.
Con flebile speranza,
Paolo Farinella, prete
La Consulta: e’ illegittimo, serviva legge costituzionale
La decisione portera’ alla riapertura dei processi a carico del premier
La Consulta - secondo quanto appreso dall’ANSA - ha bocciato il ’lodo Alfano’ per violazione dell’art.138 della Costituzione, vale a dire l’obbligo di far ricorso a una legge costituzionale (e non ordinaria come quella usata dal ’lodo’ per sospendere i processi nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato). Il ’lodo’ è stato bocciato anche per violazione dell’art.3 (principio di uguaglianza). L’effetto della decisione della Consulta sarà la riapertura di due processi a carico del premier Berlusconi: per corruzione in atti giudiziari dell’avvocato David Mills e per reati societari nella compravendita di diritti tv Mediaset.
La decisione della Corte Costituzionale di dichiarare l’illegittimità del ’lodo Alfano’ é stata presa a maggioranza, secondo quanto apprende l’ANSA da fonti qualificate. Il ’verdetto’ della Corte costituzionale sarà ufficializzato a breve dalla Consulta con un comunicato.
IL COMUNICATO DELLA CONSULTA
Da Palazzo della Consulta è stato diffuso il seguente comunicato: "La Corte costituzionale, giudicando sulle questioni di legittimità costituzionale poste con le ordinanze n. 397/08 e n. 398/08 del Tribunale di Milano e n. 9/09 del GIP del Tribunale di Roma ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 23 luglio 2008, n. 124 per violazione degli articoli 3 e 138 della Costituzione. Ha altresì dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale della stessa disposizione proposte dal GIP del Tribunale di Roma"
Allegati: Il testo del lodo (pdf)
La differenza tra eguali e diseguali
di MICHELE AINIS (La Stampa, 6/10/2009)
Oggi la Consulta inforca un paio d’occhiali per esaminare il Lodo Alfano. In una Repubblica ideale questo giudizio si consumerebbe nel silenzio degli astanti.
Nella nostra Repubblica reale è accompagnato viceversa da boatos, dichiarazioni sempre un po’ sopra le righe, sit-in di protesta preventiva, addirittura la minaccia d’elezioni anticipate. Sicché spegniamo l’audio, e proviamo a raccontare i termini giuridici su cui è chiamata a esprimersi la prossima decisione di legittimità costituzionale.
L’oggetto, innanzitutto: e dunque il Lodo. Figlio a sua volta del Lodo Schifani (legge n. 140 del 2003), che circondava di una speciale immunità le cinque più alte cariche dello Stato, e che fu poi decapitato dalla mannaia della Consulta (sentenza n. 24 del 2004). Tornando nella stanza dei bottoni, il centrodestra l’ha riapprovato in una nuova edizione (legge n. 124 del 2008), escludendo dal beneficio il presidente della Corte costituzionale, dichiarando il beneficio stesso rinunziabile a domanda dell’interessato, infine ponendo un limite di tempo alla sua fruizione. Ne rimane tuttavia invariata la sostanza: ovvero la sospensione di ogni processo sui reati comuni del Premier, del Capo dello Stato, dei presidenti di Camera e Senato. E si conserva perciò inalterata la domanda: è giusto o no che quattro eccellentissimi signori siano sottratti alle regole che valgono per tutti i cittadini?
Dietro le quinte del giudizio di legittimità costituzionale c’è dunque una questione d’eguaglianza. Sarà per questo che il Lodo Alfano ha subito innescato odi e furori, riattizzando i malumori del popolo italiano per i privilegi della Casta. Sennonché - diceva Aristotele - si danno due specie di eguaglianza: c’è un’eguaglianza «aritmetica» (la stessa cosa a tutti) e ce n’è una «proporzionale» (la stessa cosa agli stessi). E infatti la nostra Carta fa spazio a entrambe le categorie: alla prima quando afferma che tutti sono eguali al cospetto della legge (art. 3), alla seconda quando aumenta il prelievo fiscale per i ricchi, rendendo la tassazione progressiva (art. 53).
Quale eguaglianza riflette il Lodo Alfano? Indubbiamente la seconda; si tratta però di stabilire se è ragionevole isolare una categoria di diseguali (le alte cariche istituzionali) rispetto al consorzio degli eguali. In altre parole: chi sono «gli stessi» di cui parlò Aristotele? Stando alla sentenza che a suo tempo la Consulta pronunziò sul Lodo Schifani, la risposta è perentoria: sono l’intero plotone dei ministri, sono la squadra di mille deputati e senatori che s’esibisce in Parlamento. Disse la Corte: il lodo viola il principio d’eguaglianza perché «distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte Costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti». Insomma Berlusconi non è Obama: nel nostro ordinamento chi guida l’esecutivo è solo un primus inter pares, non c’è ragione di forgiargli una corazza più robusta di quella che indossano i ministri.
Se adesso la Consulta confermerà la sua precedente decisione, vorrà dire che il principio d’eguaglianza in Italia rimane obbligatorio quantomeno fra i membri della Casta. In questo caso possiamo ipotizzare due scenari. Primo: il lodo per i presidenti, e non per i peones, potrà adottarsi ancora (d’altronde non c’è due senza tre) nella forma della legge costituzionale. Significa che verrebbe esposto all’alea di un referendum prima d’entrare in vigore, con tutti i rischi politici del caso. Secondo: si riscrive il Lodo e lo si estende anche ai peones. In questo caso la legge ordinaria sarebbe sufficiente; chissà se basteranno invece i pomodori.
michele.ainis@uniroma3.it
MAPPE
Il Paese delle leghe e la nazione impossibile
di ILVO DIAMANTI *
Esiste l’Italia? E, soprattutto, è una nazione? È una questione vecchia quanto l’Italia. Tornata attuale all’avvicinarsi del 2011, anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Carlo Azeglio Ciampi, non a caso, ha minacciato di lasciare il Comitato per le celebrazioni, "se non cambia nulla". Se, cioè, non viene colmato - o almeno nascosto - il "vuoto di idee" in merito, denunciato da Ernesto Galli della Loggia.
Ciampi, d’altronde, aveva restituito dignità al 2 giugno, festa della Repubblica. Ha valorizzato un’idea dell’Italia come "nazione di città e di regioni". Dove la molteplicità e le differenze sono un elemento di unità. Un distintivo. Il che significava dare cittadinanza anche alla Lega e alle sue rivendicazioni "riformiste".
Anzitutto il federalismo. Nel corso della prima metà degli anni Novanta, d’altronde, la minaccia della secessione del Nord, lanciata dalla Lega, aveva reso esplicita la questione: che succede "se cessiamo di essere una nazione?" (titolo di un noto saggio Gian Enrico Rusconi del 1993). Favorendo, per reazione, un ritorno prepotente dell’identità nazionale (certificata da numerosi sondaggi).
Oltre 15 anni dopo, la questione riappare. Molto meno lacerante, però. E per questo più preoccupante. La nazione. Fondata su un comune nucleo civico. Un’identità condivisa. Non suscita grande passione. Semmai, vi sono segnali che vanno in senso diverso e divergente.
Anzitutto, gli orientamenti dei cittadini in questo senso, si sono raffreddati sensibilmente. All’inizio del 2000 (indagine LaPolis-liMes), l’Italia costituiva uno dei due principali riferimenti dell’appartenenza territoriale per il 42% delle persone. Alla fine del 2008 per il 35%. Oltre 8 punti in meno. Nello stesso periodo, però, si è ridimensionato anche l’attaccamento per le città (dal 41 al 26 %) e le regioni (dal 34 al 23%).
Mentre è cresciuta, soprattutto, l’identificazione nelle macroregioni. In particolare, nel Nord. Era espressa dal 9% dei cittadini nel 2000, oggi dal 14%. Che però sale al 26% fra i cittadini del Nord "padano" (senza l’Emilia Romagna). In altri termini, l’Italia non riesce più a tenere insieme i diversi pezzi di questo paese. Dove, anzi, si riaprono le fratture antiche. Prima fra tutte: fra Nord e Sud.
Negli ultimi 3 anni, infatti, la quota degli italiani che esprime "distacco" nei confronti del Nord o del Sud sale, infatti, dal 20 al 31% (indagini LaPolis-liMes). Segno di un reciproco risentimento, che cresce vistosamente. Oggi il 26% di coloro che risiedono nel Nord "padano" e il 20% di chi abita nelle regione "rosse" (oggi "rosa") dichiara la propria "distanza" dal Mezzogiorno. Viceversa, il 29% dei cittadini del Mezzogiorno si dice lontano dal Nord.
Ancora: oltre un terzo dei cittadini del Nord (più del 40% nel Nord-Est) ma anche delle regioni "rosse" del Centro ritiene che il Mezzogiorno sia "un peso per lo sviluppo del paese".
La divisione fra Nord e Sud, mai risolta, oggi appare una frattura. Resa più drammatica dalla crisi economica e finanziaria, che alimenta il conflitto fra interessi territoriali. Divenuti, a loro volta, argomento di consenso e antagonismo politico. I partiti della prima Repubblica erano anch’essi federazioni di interessi e di comitati territoriali. La DC ma anche il PCI. Tuttavia le differenze e le domande locali erano integrate e mediate all’interno del partito su base nazionale.
Oggi, invece, le forze politiche usano sempre più spesso il riferimento territoriale come un’arma di lotta politica. Nel Nord, ovviamente, la Lega. Ma anche i governatori del PdL. Nel Sud, l’MpA guidato da Raffaele Lombardo, in nome degli interessi della Sicilia ha rotto l’alleanza con il PdL. Mentre Bassolino propone apertamente un nuovo "movimento del Sud". E altri governatori di Centrosinistra, come il presidente della Puglia, Nichi Vendola, polemizzano apertamente con il governo "nordista", guidato dall’asse padano Bossi-Tremonti.
D’altra parte, il risultato del PdL e Berlusconi, a livello nazionale, come si è visto alle recenti elezioni europee, dipende sempre più dalle alleanze "territoriali". Al Nord con la Lega, al Sud con MpA e con altre liste. Mentre il Pd continua ad essere confinato nelle regioni rosse. Quasi una "Lega del Centro", come ebbe a dire anni fa Marc Lazar. E per questo fatica a imporsi.
Da ciò la differenza profonda, rispetto agli anni Novanta. Allora le tensioni territoriali erano agitate dalla Lega nel Nord. Un soggetto politicamente periferico. Oggi, invece, la Lega governa ed è in grande ascesa. Mentre al Sud crescono altre leghe. Così l’Italia rischia di venire lacerata dalle crescenti tensioni fra nordisti e sudisti. Mentre la pluralità delle "patrie locali", su cui puntava Ciampi, non riesce più ad alimentare senso di appartenenza. Le città, le province e le regioni stentano a offrire identità ai cittadini. Oppure lo fanno alimentando le spinte localiste e anticentraliste. Tutti contro tutti. Ciascuno per proprio conto. Le province, dal 1980, quando se ne propose l’abolizione, sono aumentate da circa 90 a 110. Mentre sono centinaia i comuni che vorrebbero a scavalcare i confini regionali. Aggregandosi alle regioni più ricche e favorite dallo stato (perlopiù, le Regioni a statuto speciale).
Per questo, celebrare l’Unità della Nazione oggi è un’impresa difficile, se non impossibile. Perché non ci sentiamo uniti. E neppure una nazione. D’altronde, il carattere specifico degli italiani, secondo gli italiani stessi, è definito anzitutto dall’arte di arrangiarsi e dall’attaccamento alla famiglia. Un popolo di persone ingegnose e familiste. Capaci di inventare e di adattarsi alle difficoltà. Ciascuno per conto proprio. Si ricordano di avere un Casa Comune solo quando si tratta di chiudere le porte. Agli stranieri. Alzando - ovunque - muri per difenderci da loro. Dovremmo, semmai, difenderci da noi stessi. In questo mondo sempre più grande e aperto. L’Europa, sempre più debole. Senza un senso di appartenenza comune. Siamo destinati a perderci. A divenire marginali. Più ancora di oggi.
La Nazione. Forse non c’è. Comunque, l’abbiamo rimossa. Ma la dovremmo (ri)costruire. Per legittima difesa.
* la Repubblica, 26 luglio 2009
Ansa» 2009-07-02 21:18
LODO ALFANO: QUIRINALE, CONSULTA E’ AUTONOMA
(di Silvia Barocci)
Con una mossa in due tempi dagli attigui palazzi di piazza del Quirinale, il capo dello Stato Giorgio Napolitano e il presidente della Consulta Francesco Amirante intervengono per smorzare l’incendio in cui rischiava di rimanere bruciata la credibilità della Corte all’indomani degli attacchi sferrati alla Camera dal leader dell’Idv Antonio Di Pietro. La richiesta di dimissioni avanzata dall’ex pm di ’Mani pulite’ nei confronti di Luigi Mazzella e Paolo Maria Napolitano, i due "giudici spregiudicati" che in maggio hanno partecipato a una cena con il premier Silvio Berlusconi e con, tra gli altri, il Guardasigilli Angelino Alfano, ha incontrato un secco altolà da parte del Colle, al quale ha fatto seguito un "invito a tutti ad abbassare i toni" che si è levato da palazzo della Consulta. Due mosse intervallate da una dichiarazione all’ANSA del giudice Napolitano che, come già fatto dal collega Mazzella, esclude fermamente la possibilità di una sua astensione quando il 6 ottobre prossimo la Corte dovrà decidere sulla legittimità del lodo Alfano, la legge che ha bloccato i processi a carico del premier.
Di più: Paolo Maria Napolitano legge come un "tentativo di intimidazione" le sue sollecitate dimissioni. Il primo stop alle messa in mora dei due giudici arriva mentre in Senato sono in corso le votazioni sul ddl sicurezza: il Quirinale fa sapere che "non trova alcun fondamento istituzionale" la richiesta avanzata da Di Pietro, che aveva reclamato un intervento del Capo dello Stato, perché ciò "interferirebbe nella sfera di insindacabile autonomia della Corte Costituzionale". Per i giudici costituzionali non valgono di certo le sanzioni disciplinari previste per la magistratura ordinaria e comminate dal Csm, di cui Napolitano è presidente. Inoltre - viene fatto notare da alcuni - potrebbe sembrare quantomeno inopportuno un intervento del Quirinale visto che il Capo dello Stato è tra le quattro cariche beneficiarie del lodo Alfano. La ’palla’ è dunque rinviata alla Corte stessa, l’unica che ad avere il potere di decidere sulla rimozione o sospensione di uno dei suoi quindici giudici, mentre dallo scorso ottobre, quando la Corte ha varato una integrazione alle sue norme generali, non è più possibile invocare in giudizio l’astensione o la ricusazione dei giudici. Il presidente della Corte, Amirante, di ritorno da due cerimonie, si chiude nel suo studio a meditare. E nel tardo pomeriggio comunica al Quirinale la volontà di intervenire per sgombrare ogni dubbio. Il risultato è un comunicato di sette righe in cui si invitano "tutti ad abbassare i toni" e che, non senza aver ringraziato il Capo dello Stato "per la giusta indicazione di quali debbano essere i rapporti tra le istituzioni", assicura la "collegialita" in quella che sarà la decisione che la Corte, "come ha sempre fatto", prenderà "in serenità e con imparzialità e obiettività’" sul ’lodo Alfano’. Il termine "collegialita" lascia intendere, tra le righe, che il presidente non vuole intervenire con un atto formale sui due giudici che hanno cenato col premier, nonostante - si fa notare in ambienti della Consulta - la vicenda abbia irritato diverse toghe dell’Alta Corte per una mancanza di ’self restraint’ da parte di Mazzella e Napolitano.
Ma Di Pietro non ci sta, e ne ha un po’ per tutti. Al presidente Giorgio Napolitano torna a chiedere di intervenire per "ripristinare la credibilità e la sacralità " della Consulta. A dare uno stop al leader dell’Idv è il presidente dei senatori del Pd, Anna Finocchiaro: Di Pietro - dice - "dovrebbe smettere di usare la funzione, il ruolo e la persona del Capo dello Stato per dare maggiore forza alle proprie polemiche politiche". Ma Di Pietro non si ferma e, anzi, rilancia: contesta il presidente Amirante ("La Consulta è serena? Questo lo dice lui, noi non se saremo convinti fino a quando i due giudici che hanno trescato con l’imputato Berlusconi non avranno rinunciato"), e si scaglia contro il giudice Napolitano ("non faccia lo gnorri, non siamo fessi").
La Stampa, 13/6/2009 (13:47)
L’AFFONDO DEL PREMIER
"Contro di me un progetto eversivo"
Berlusconi dai giovani industriali:
basta pubblicità ai media disfattisti.
Poi frena: "Parlavo di Franceschini".
La replica: "Non mi lascio intimidire"
SANTA MARGHERITA LIGURE (GENOVA) La campagna politica contro Silvio Berlusconi che ha fatto leva sulle vicende Noemi e Mills, che ha trovato una sponda anche nei media catastrofisti, è stata «scandalosa» e ha leso l’immagine dell’Italia, non semplicemente del premier, all’estero. È stata soprattutto orchestrata con «calunnie» da parte di chi aveva in mente un «progetto eversivo» per costringerlo alle dimissioni.
Davanti alla platea dei giovani imprenditori di Confindustria, il presidente del consiglio chiama in causa i poteri occulti dello Stato, che avrebbero tramato contro di lui per indurlo a gettare la spugna. «Su quattro calunnie messe in fila, veline, minorenni, Mills e voli di stato è stata fatta una campagna che è stata molto negativa per l’immagine dell’Italia all’estero - ha accusato Berlusconi - un comportamento colpevole da parte di chi l’ha pensata e anche, dietro queste calunnie, un progetto eversivo teso a voler far decadere un presidente del consiglio eletto democraticamente dagli italiani per metterne un altro. Se questa non è eversione ditemi cosa è».
Secondo il premier, le urne hanno confermato una «maggioranza chiara». Soprattutto nei Comuni e nelle Province «abbiamo avuto risultati straordinari - ha sottolineato - possiamo continuare a governare per i prossimi quattro anni». Il Cavaliere ha poi invitato a diffidare della stampa italiana. «Ormai faccio dichiarazioni, salvo pubbliche, solo scritte - ha affermato - e mi trovo sui giornali fra virgolette frasi che non solo non ho mai detto, ma nemmeno pensato. La stampa italiana dipinge un’Italia che non è quella vera». Accuse alle quali non manca l’immediata replica da parte dell’opposizione. Il segretario del Pd, Dario Franceschini, ariva addirittura a convocare una conferenza stampa ad hoc per farlo e per scandire che quelle di Berlusconi sono «intimidazioni» belle e buone. Ma, assicura, «non mi ha mai fatto nè mai mi farà paura: può avere tutto il potere, i soldi e l’arroganza che vuole ma non ci sono minacce o intimidazioni che mi fermeranno».
Il segretario del Pd suggerisce poi al premier un pò più di sobrietà spiegando che «in democrazia chi governa deve accettare le critiche e non parlare di eversione». Sulla stessa lunghezza d’onda anche i due capigruppo del Pd, Anna Finocchiaro e Antonello Soro. Per la prima «il premier si è esibito ancora in uno dei suoi tanti sproloqui» muovendo contro l’opposizione «un’accusa ridicola» per «nascondere una volontà intimidatoria tesa a delegittimarla» perchè non intralci «il suo delirio di onnipotenza». Il presidente dei deputati Pd, infine, sottolinea come questa volta «Berlusconi abbia passato il limite oltre il quale nessuno potrà più rimanere spettatore». Perchè nelle sue parole, spiega, «non c’è solo offesa e irrisione per quanti in questo paese, assuefatto e indifferente, non piegano la schiena a chi cerca di ostacolare la sua pretesa di dominio assoluto» ma c’è anche e soprattutto «il ricordo sinistro di un altro capo di Governo che chiedeva ai suoi avversari di tacere».
Ansa» 2009-05-23 11:38
NAPOLITANO, IN RICORDO DI FALCONE E BORSELLINO SIAMO NAZIONE
PALERMO - Nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, le commemorazioni del diciassettesimo anniversario della strage di Capaci. Alla manifestazione, alla presenza di centinaia di studenti di tutt’Italia di Napolitano e dei ministri Maroni, Alfano e Gelmini.
"Mai come in momenti come questo, uniti nel ricordo incancellabile di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le altre vittime della mafia sentiamo di essere una nazione", ha detto il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nell’aula bunker di Palermo.
"Lo Stato c’é e si fa sentire. I risultati degli sforzi compiuti dalle forze dell’ordine e dai magistrati sono sotto gli occhi di tutti". L’ha detto il ministro dell’Interno Roberto Maroni, intervenendo nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. Maroni, ricordando l’impegno di giudici, carabinieri, polizia e finanza, ha espresso loro il suo ringraziamento.
"Nel 2008 sono stati sottratti alle mafie beni per 4 miliardi di euro. Il triplo del 2007. E’ questo il miglior modo per celebrare le vittime della mafia: ricordare magistrati e forze di polizia impegnati nel contrasto ai boss", ha detto il ministro Maroni. Maroni ha elencato i dati relativi a sequestri, arresti e confische messi a segno all’inizio dell’anno dalle forze dell’ordine. "Da gennaio ci sono stati 1.088 arresti - ha spiegato - 97 operazioni antimafia. Sono finiti in cella 70 latitanti, alcuni dei quali inseriti nella lista dei 30 più pericolosi". "Sempre dall’inizio dell’anno - ha proseguito - sono stati sequestrati mille beni per 330 milioni di euro e confiscati 146 beni per un valore di 28 milioni di euro". "Solo a Palermo - ha ricordato Maroni - dall’inizio dell’anno sono stati messi a segno 19 blitz antimafia, arrestate 129 persone, tra le quali 5 latitanti. Due di loro erano nella lista dei 100 più pericolosi. In questi 5 mesi sono stati sequestrati 43 beni per 7 milioni di euro e confiscati in tutto proprietà e liquidi per 14 miliardi di euro". Maroni ha, infine, ricordato l’arresto del boss latitante Antonino Lo Nigro e tutti i recenti blitz delle forze dell’ordine facendo riferimento, da ultimo, a quello che ieri ha portato in cella Leonardo Badalamenti, figlio dello storico capomafia don Tano.
SORELLA MARIA, CADUTO MITO IMPUNIBILITA’ MAFIA- La sorella di Giovanni Falcone, Maria, intervenendo nel dibattito in corso all’aula bunker ha parlato di "caduta del mito dell’impunibilità della mafia" e ha sottolineato come quest’anno sia stato scelto come tema centrale dell’appuntamento quello del lavoro e dello sviluppo. "Fare sviluppo economico legale in Sicilia significa fare antimafia", ha detto Maria Falcone. Un filmato realizzato dalla Fondazione Falcone ha ripercorso l’attività del giudice e del suo collega Paolo Borsellino, con momenti di grande commozione, e scegliendo di mostrare più volte l’immagine del procuratore Antonino Caponnetto, che dei due giudici fu, oltre che un mentore, quasi un padre.
MARCEGAGLIA, LIBERI DI VOLARE NEL MONDO DELL’ONESTA’ - "Dobbiamo essere liberi di volare nel mondo dell’onesta". E’ l’appello che nell’aula bunker dell’Ucciardone ha lanciato Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria. "Siamo qui - ha detto - per testimoniare l’impegno dell’associazione e delle imprese sane in favore della legalità e contro la cultura della corruzione, dell’evasione, della collusione che inquina il tessuto civile del nostro Paese". Marcegaglia ha ribadito, in un intervento più volte interrotto dagli applausi, che si è ormai affermata nel mondo dell’imprenditoria la "volontà di stroncare ogni forma di contiguità". E di spezzare il circolo vizioso del sottosviluppo che crea illegalità, che finisce per "impedire alla società sana di svilupparsi e progredire". Secondo il presidente di Confindustria l’economia sana non ha altra scelta che di espellere le sacche di collusione che ancora sopravvivono. Netto deve essere il "rifiuto di pagare il pizzo" ma anche l’impegno di isolare chi non denuncia il racket. "E’ questa un’operazione - ha sottolineato - che sta andando avanti estendendosi dalla Sicilia alle altre regioni. Gli imprenditori sanno che non ci può essere scelta diversa: o si sta dalla parte della legalità o contro la legalità". La conferma che questo processo è ormai in una fase avanzata viene, ha ricordato Marcegaglia, dal fatto che molti imprenditori che investono al Sud sono pronti a sottoscrivere protocolli di legalità.
NAPPOLITANO INCONTRA LE VITTIME DI MAFIA Il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, prima di entrare nell’aula bunker dell’Ucciardone, ha incontrato i familiari di alcune vittime della mafia, alla presenza anche del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso. Prima il Presidente della Repubblica ha reso omaggio alle vittime dell’attentato di Capaci recandosi nella caserma Lungaro della polizia, a Palermo. Dopo avere deposto una corona di fiori ha incontrato i familiari di altre vittime della mafia. Erano presenti il presidente del Senato, Renato Schifani, e il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Alla cerimonia hanno partecipato anche, tra gli altri, il capo della polizia, Antonio Manganelli, il procuratore nazionale antimafia, Pietro Grasso, il presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo e il sindaco di Palermo, Diego Cammarata.
Il popolo
L’oggetto del desiderio della nuova demagogia
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 31.03.2009)
La concezione liberale lo vede non come una massa uniforme che applaude un uomo ma come un insieme di individui e cittadini. E’ nell’Ottocento che gli viene attribuita in quanto volontà collettiva la fonte della legittimità dei governi e anche la sovranità politica
"Il popolo" è tra le categorie politiche quella forse più ambigua e più abusata, al punto di essere ora adottata addirittura per designare un partito, come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" si proponesse identica al tutto.
L’origine del termine "popolo" è latina e nella tradizione romana repubblicana aveva un significato di opposizione/distinzione rispetto a una parte di popolazione che non era popolo: l’aristocrazia o il patriziato. Per questa sua connotazione non socialmente unitaria, dovendo decidere la denominazione della nuova assemblea convocata all’indomani della presa della Bastiglia, nel 1789, i costituenti francesi preferirono l’aggettivo "nazionale" a "popolare".
L’incorporazione del "popolo" nella concezione moderna della sovranità statuale e poi la sua identificazione con la nazione vennero perfezionate nel corso dell’Ottocento. Nel 1835 Giuseppe Mazzini lo definì "l’unica forza rivoluzionaria" esistente anche se "mai scesa nell’arena" politica, fino ad allora il luogo esclusivo della "casta" aristocratica e militare. Popolo venne a identificarsi con volontà collettiva e quindi con la sorgente del consenso fondamentale senza il quale nessun governo poteva dirsi legittimo.
Ma è proprio nella natura singolare del nome che sta il problema. Nelle principali lingue europee ad eccezione della lingua inglese, i termini Popolo, Peuple, Volk designano un’entità organica, un tutto unico la cui volontà è una ed è legge. Lo stesso Jean-Jacques Rossueau, al quale ingiustamente è stata attribuita la paternità teorica della democrazia totalitaria, aveva anticipato i rischi di plebiscitarismo quando, descrivendo l’assemblea popolare come unico legittimo sovrano, aveva precisato con molto acume che i cittadini vi si recano individualmente, e poi, una volta riuniti in assemblea, danno il loro voto in silenzio, ragionando ciascuno con la propria testa e senza consentire a nessun oratore di manipolare i loro consenso.
Le adunate oceaniche di memoria fascista e nazista sono state una negazione della volontà popolare democratica alla quale pensava Rousseau e che è così ben definita nella nostra costituzione.
Quelle adunate di popolo, che ricalcavano il modello dell’antica Sparta dove le assemblee si concludevano urlando il "sì" o il "no" alla proposta del consiglio, non erano per nulla un segno di democrazia. In Atene, alla quale dobbiamo la nostra visione della democrazia, i cittadini si recavano all’assemblea e votavano individualmente, con voto segreto, e infine contavano i voti uno per uno, non fidandosi dell’impressione acustica provocata dall’urlo come a Sparta.
Il modo di raccogliere il consenso e la procedura di computa dei voti sono stati da allora i due caratteri cruciali che hanno dato democraticità alla categoria ambigua di popolo; che hanno anzi consentito di togliere l’ambiguità ed evitare l’abuso.
È chiaro infatti che se il termine "popolo" è singolare, sono le regole che si premuniscono di renderlo plurale. Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso del popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. È ancora a un autore classico che ci si deve affidare per comprendere questa distinzione cruciale.
Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente.
Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo?
Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme degli individui-cittadini che fanno una nazione.
Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale le voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprime pubblicamente per poter essere valutate e scelte.
Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella "voce".
Ma se la "vox dei" abita un luogo definito e unico - sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo - se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso.
Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclestastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
La Stampa, 22/7/2008 (20:45)
GIUSTIZIA
Lodo Alfano, via libera del Senato
"In autunno riforma della Giustizia"
Il Guardasigilli: «Riguarderà il processo civile, quello penale, e il sistema delle carceri italiane»
ROMA Il Senato ha dato il via libera definitivo al disegno di legge sull’immunità per le alte cariche dello Stato. L’aula di Palazzo Madama ha dato infatti il suo via libera, senza modifiche, con 171 voti favorevoli (Pdl, Lega e Mpa), 128 contrari (Pd e Idv) e 6 astenuti (Udc), al disegno di legge, già approvato dalla Camera, che sospende i procedimenti penali nei confronti delle quattro più alte cariche dello Stato per la durata del loro mandato.
Prima delle definitiva approvazione, era stato lo stesso Guardasigilli a difendere il provvedimento: «Io vorrei essere molto chiaro: questa nostra ipotesi legislativa non è nè molto urgente nè poco urgente. Questo disegno di legge a nostro avviso è giusto e lo stiamo facendo». Alfano aveva fatto anche un appello all’opposizione perchè abbandoni «il giustizialismo» e in autunno partecipi, con la maggioranza, alla riforma della giustizia. Il Guardasigilli ha detto che «oggi la linea di confine tra riformisti e conservatori è segnata dalla giustizia» da quì l’invito del responsabile del dicastero di via Arenula ai «settori ragionevoli dell’opposizione» ad un «confronto in autunno» sulla riforma del pianeta giustizia.
Un secco "no" al lodo Alfano è arrivato dal capogruppo del Pd a Palazzo Madama, Anna Finocchiaro: «Con l’attuale sistema elettorale il capo della maggioranza governa e deve intendersi investito della funzione direttamente dal popolo. Ergo, egli ha il dovere e il diritto di governare. Affermazioni sin qui incontestabili. È quello che viene appresso che mi preoccupa: diritto - dovere di governare senza limite?». La Finocchiaro è stata netta: «Il popolo, lo dice la Costituzione, deve esercitare la sovranità nelle "forme e nei limiti della Costituzione". Invece al Presidente Berlusconi non si pone limite. E da ora in poi a nessun Presidente del Consiglio. Per qualunque reato. Anche il più brutale. Anche il più infamante» ha concluso la Finocchiaro, a lungo applaudita dai senatori del Pd.
Promette battaglia Antonio Di Pietro che, conversando con i giornalisti a Palazzo Madama, spiega la posizione dell’Italia dei Valori: «Faremo il referendum». Di Pietro spiega che da gennaio raccoglieranno le firme per il referendum, con o senza il Pd. «Il referendum lo faremo senz’altro - dice il leader dell’IdV - anzi sarà un pacchetto di cinque referendum. Ma ci sono aspetti tecnici di cui tener conto. Noi dell’IdV siamo in grado di fare anche da soli, di farlo indipendentemente e lo abbiamo già dimostrato. La legge stabilisce che si può depositare un quesito referendario in Cassazione solo dopo sei mesi l’indizione delle elezioni e quindi noi prima del 13 settembre non potremmo muoverci. Ma ancora la legge stabilisce che per la raccolta delle firme si può procedere in un arco di tempo che va dal 1 gennaio al 30 settembre e quindi non ci resterebbero che soli quindici giorni dal 14 al 30 settembre. Per raccogliere 600-700mila firme non è un problema ma per la raccolta dei certificati sì».
Il Lodo Alfano è legge
Il Pd: premier senza limiti
Casson: chiamatelo Lodo Berlusconi *
Il Lodo Alfano è legge: con 171 voti a favore, 128 no e 6 astenuti l’aula del Senato ha dato il via libera al provvedimento che garantisce l’immunità alle quattro alte cariche dello Stato, presidente della Repubblica, dei presidenti delle due Camere e presidente del Consiglio, fino alla fine dell’incarico. Il ministro della Giustizia Angelino Alfano l’aveva presentato come un ddl «né molto urgente né poco urgente, é semplicemente giusto». Ma l’urgenza c’è stata.
Il Lodo è arrivato infatti al Senato, e più in generale all’attenzione del Paese, con una rapidità che in campagna elettorale si diceva sarebbe stata dedicata ad altri temi. Venticinque giorni: tanti ne sono bastati al Parlamento per far diventare legge il provvedimento. L’approvazione è arrivata in un tempo decisamente breve rispetto alla media parlamentare. Varato dal Consiglio dei ministri il 27 giugno. La presentazione del disegno di legge è stata autorizzata dal capo dello Stato il 2 luglio. L’esame in commissione è iniziato alla Camera l’8 luglio per concludersi nella stessa giornata. Il giorno seguente, 9 luglio, il testo è stato posto all’ordine del giorno dei lavori dell’aula, che lo ha approvato 24 ore dopo. Le opposizioni hanno contestato la presidenza per aver anticipato l’esame del testo, malgrado in conferenza dei Capigruppo non si fosse raggiunta l’unanimità; ma Gianfranco Fini ha assicurato di aver rispettato tanto il regolamento quanto la prassi. Immediato il passaggio in Senato: a Palazzo Madama, il testo del lodo Alfano è stato esaminato in due giorni dalla commissione, dal 15 al 17 luglio.
Martedì 21 luglio in Aula, in meno di mezz’ora, la maggioranza ha respinto tutti e 58 gli emendamenti presentati dall’opposizione. E ha chiesto il dialogo, per lavorare a «un confronto in autunno sulla riforma della giustizia». Ma la capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro dice chiaramente che sembra che «l’intenzione della maggioranza sia di costruire un sovrano senza limiti e francamente non mi convince». Per questo, ribadisce, «è ben difficile che si possa trovare un filo comune di ragionamento».
La capogruppo del Pd nel dichiarare il «convinto no» del suo gruppo sottolinea il superamento di un limite da parte di chi beneficia dell’ immunità che riguarda il fatto, in base alla Costituzione, che tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge. «Si tratta una novità. Fino a questo momento il nostro ordinamento ha regolato ipotesi di immunità e prerogative solo per fatti commessi nell’esercizio della funzione» osserva Anna Finocchiaro che sottolinea come «ciò che è tutelata è la funzione e gli atti ad essi correlati, i cosiddetti atti funzionali, e che per il resto ogni potere, tutti i poteri, a cominciare da quelli del Presidente della Repubblica, incontrano un limite». «Il limite - precisa la capogruppo del Pd - è quello che per i fatti estranei all’esercizio di quelle funzioni vige il principio di uguaglianza: tutti uguali di fronte alla legge. Oggi voi introducete una rottura del limitei».
Finocchiaro si chiede il «perché dell’ ipocrisia di estendere il supermento del limite alle altre cariche delloStato». «Il Presidente del Consiglio, voi dite è sostanzialmente eletto dal popolo sovrano. Dissento, e vigorosamente, ma registro. Ma i Presidenti delle Camere? Sono eletti da maggioranze parlamentari. E così il Presidente della Repubblica. Qui il popolo non c’entra. Il popolo, lo dice la Costituzione, deve esercitare la sovranità nelle ’forme e nei limiti della Costituzione’. Invece al Presidente Berlusconi non si pone limite. E da ora in poi a nessun Presidente del Consiglio. Per qualunque reato. Anche il più brutale. Anche il più infamante».
Prima del dibattito in aula si è scagliato contro «una furia legislativa cieca, quasi iconoclasta, per approvare qualsiasi norma che possa non arrecare noia al premier, anzi al princeps» anche il senatore Pd, Felice Casson. Casson ci tiene a chiamare il Lodo con il suo nome: non Alfano, dunque, ma Berlusconi, perché «è stato lo stesso premier a dire nella lettera inviata al presidente del Senato che aveva bisogno di questo scudo protettivo ritenendolo indispensabile contro quelli che lui ha definito attacchi della magistratura».
Voto contrario anche dall’Idv: «Un ennesimo salvacondotto per la casta il provvedimento Alfano è un insulto ai cittadini e all’ordinamento democratico. Rientra nel piano della P2», ha dichiarato Felice Belisario, presidente dei senatori dell’Italia dei Valori, prima del voto. E a proposito della riforma della giustizia il senatore aggiunge: «Poi si metterà sotto i tacchi la giustizia, si cercherà di imbavagliare l’informazione e si reintrodurrà l’immunità parlamentare. Mentre le nostre famiglie hanno redditi che non permettono di arrivare a fine mese e le pensioni continuano a perdere potere d’acquisto, la maggioranza pensa alla giustizia: non a quella per la tutela dei cittadini - conclude Belisario - ma al solito salvacondotto per la casta». Mentre l’Udc ha scelto l’astensione.
Dalla maggioranza invece la difesa del Lodo: «E’ uno strumento che blocca l’uso politico della giustizia» ha detto in dichiarazione di voto il capogruppo del Pdl, Maurizio Gasparri, il quale ha ricordato che «Silvio Berlusconi ha dovuto aspettare undici anni per essere assolto dopo l’avviso di garanzia recapitatogli a Napoli e dodici anni per essere assolto dalle infondate accuse sul caso Sme». Gasparri ha citato poi interventi di costituzionalisti che non ravvisano nessuna violazione costituzionale. «Non vogliamo una impunità parlamentare nè immunità generalizzate ma evitare l’uso politico della giustizia. Il Lodo ha tenuto conto di tutti i rilievi della Corte Costituzionale e non sottrae nessuno al dominio della legge». Ma evidentemente il premier e le altre più alte cariche dello Stato non sono ’nessuno’.
* l’Unità, Pubblicato il: 22.07.08, Modificato il: 22.07.08 alle ore 21.01
Berlusconi: "Grazie al Lodo non mi sento più perseguitato" *
ROMA - E ora non si sente più "perseguitato". Prima conseguenza: il sabato potrà lavorare per il paese e non "perdere tempo" con i suoi avvocati. Il premier sembra radioso, così lo raccontano i suoi senatori, a poche ore dall’approvazione dello scudo penale per le quattro più alte cariche dello stato e dalla firma del Presidente della Repubblica che ha messo l’ok finale alla legge. Berlusconi è a un incontro con i suoi senatori a Palazzo Madama che in queste ore gli ha "regalato" due traguardi importanti: il Lodo e il pacchetto sicurezza. Il premier parla di tutto, rassicura su Alitalia ("stiamo lavorando"), dice la sua sul caso Englaro ("è giusto intervenire", cioè sollevare il conflitto di attribuzioni previsto la prossima settimana), sul federalismo ("bisogna tener conto delle esigenze delle regioni del sud") e sul dialogo col Pd.
"Ora il sabato potrò lavorare tranquillamente e non stare con i miei avvocati..." dice Berlusconi ai senatori che ha voluto ringraziare personalmente per il lavoro di questi giorni. "Non vorrei parlare dei magistrati - ha sottolineato il premier - ma mi avete liberato... Ora non verrò più perseguitato, da quando sono sceso in politica ho dovuto far fronte a 2.502 udienze".
Il Presidente del Consiglio ha anche scherzato sul provvedimento approvato dal Senato ieri: "Così facendo - ha detto Berlusconi -, avete licenziato Ghedini e i suoi collaboratori". Berlusconi ha ribadito che il Lodo Alfano "è un provvedimento assolutamente giusto".
* la Repubblica, 23 luglio 2008.