NAPOLITANO: CAMERE SCIOLTE RATIFICHINO TRATTATO UE *
TRENTO - Il presidente della Repubblica ritiene che anche a Camere sciolte si possa e si debba procedere alla ratifica del Trattato di Lisbona. Lo ha detto svolgendo la Lectio Magistralis all’Università di Trento.
Giorgio Napolitano ha ribadito la necessità "indispensabile" che il nuovo Trattato europeo entri in vigore l’anno prossimo, prima delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo. "E’ indispensabile in questo contesto - ha detto - che nessuno Stato membro si sottragga alle sue responsabilità e agli impegni ancora una volta assunti. Il tempo stringe, non possiamo più esitare", ha detto facendo un implicito riferimento a Paesi come la Gran Bretagna che rispetto al precedente Trattato non arrivarono neppure ad indire il referendum di ratifica. Il presidente della Repubblica ha sollecitato l’Italia a fare la sua parte, ratificando il Trattato anche in questa fase elettorale. A suo parere, aggiunge" si può agire anche a Camere sciolte.
SEMPRE ATTUALE LA LEZIONE DI DE GASPERI
Giorgio Napolitano appena insignito del titolo di professore onorario dell’Università di Trento per il suo costante impegno politico e intellettuale a favore dell’integrazione europea, ha iniziato la Lectio magistralis con un omaggio "dovuto e convinto" ad Alcide De Gasperi, alla sua "ferma determinazione" che permise di radicare la scelta europeistica dell’Italia su un "nucleo di valori e di indirizzi ancora oggi essenziali e vitali". Il presidente della Repubblica si è detto "ammirato per il coraggio e la speranza" con la quale De Gasperi si batté per la Comunità Europea di Difesa (CED) senza lasciarsi scoraggiare dall’insuccesso a causa della bocciatura francese nel 1954. Napolitano ha ricordato le parole con cui, in Senato, De Gasperi presentò la mozione federalista: lo fece invitando alla lungimiranza, a perseguire risultati che forse avrebbero raggiunto le generazioni successive. Le idee di De Gasperi sono andate avanti, come lui auspicava. "Con lo stesso spirito - ha concluso Napolitano - possiamo e dovremmo guardare oggi all’impegno generosamente speso nella preparazione del Trattato costituzionale firmato a Roma nell’ottobre del 2004 e poi abortito. Dobbiamo farlo e continuare, con la stessa tenacia dimostrata nel passato, a muovervi lungo i binari attualmente percorribili grazie al compromesso raggiunto nel giugno scorso sotto la presidenza tedesca e sottoscritto a dicembre a Lisbona. Oggi la prima esigenza è concludere il processo di ratifica di questo nuovo Trattato".
* Ansa» 2008-02-11 11:58
«Salvaguardare obiezione di coscienza, quando diritti umani violati»
Il Papa: l’Europa rischia l’apostasia da se stessa se rinuncia alle radici cristiane
«Se dimentica i valori cristiani che hanno contribuito a forgiarla». Lo ha detto il Pontefice nella ricorrenza dei Trattati di Roma *
CITTA’ DEL VATICANO - L’Europa rischia la «apostasia» se dimentica quei «valori universali» che «il cristianesimo ha contribuito a forgiare»: ha ammonito il Pontefice ricevendo i rappresentanti degli episcopati europei a poche ore dall’apertura del vertice Ue di Berlino. «Se, in occasione del cinquantesimo dei trattati di Roma, i governi dell’Unione desiderano avvicinarsi ai loro cittadini, come potrebbero escludere un elemento essenziale dell’identità europea qual è il cristianesimo, in cui una vasta maggioranza di loro continua ad identificarsi?», si è domandato il Papa. «Non è motivo di sorpresa che l’Europa odierna, mentre ambisce di porsi come una comunità di valori, sembri sempre più spesso contestare che ci siano valori universali ed assoluti? Questa singolare forma di apostasia da se stessa prima ancora che da Dio - ha aggiunto Papa Ratzinger - non la induce forse a dubitare della sua stessa identità?». Il Papa non ha chiesto - come aveva fatto in passato da cardinale - la menzione esplicita delle radici giudaico-cristiane nel trattato costituzionale Ue. Benedetto XVI si è limitato a dire che «non si può pensare di edificare un’autentica casa comune europea trascurando l’identità propria dei popoli di questo nostro Continente. Si tratta infatti di un’identità storica, culturale e morale, prima ancora che geografica, economica o politica. Un’identità costituita da un insieme di valori universali, che il Cristianesimo ha contribuito a forgiare, acquisendo così un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti dell’Europa».
CONGEDO DALLA STORIA - «Sotto il profilo demografico, si deve purtroppo constatare che l’Europa sembra incamminata su una via che potrebbe portarla al congedo dalla storia». Benedetto XVI ha aperto con questa preoccupata denuncia il suo discorso per il 50esimo dei Trattati di Roma. «Ciò- ha spiegato - oltre a mettere a rischio la crescita economica, può anche causare enormi difficoltà alla coesione sociale e soprattutto favorire un pericoloso individualismo, disattento alle conseguenze per il futuro». Secondo il Papa, «si potrebbe quasi pensare che il Continente Europeo stia di fatto perdendo fiducia nel proprio avvenire».
OBIEZIONE DI COSCIENZA - «Il diritto all’obiezione di coscienza va salvaguardato ogniqualvolta i diritti umani fondamentali fossero violati». È quanto ha detto questa mattina Benedetto XVI nel corso dell’udienza concessa in Vaticano ai partecipanti al congresso «I 50 anni dei Trattati di Roma - Valori e prospettive per l’Europa di domani», promosso dalla Commissione degli episcopati della comunità europea. «Nell’attuale momento storico - ha affermato Benedetto XVI -e di fronte alle molte sfide che lo segnano, l’Unione europea per essere valida garante dello stato di diritto ed efficace promotrice di valori umani universali, non può non riconoscere con chiarezza l’esistenza certa di una natura umana stabile e permanente, fonte di diritti comuni a tutti gli individui, compresi coloro stessi che li negano». «In tal contesto - ha aggiunto - va salvaguardato il diritto all’obiezione di coscienza, ogniqualvolta i diritti umani fondamentali fossero violati».
BERLINO: LA CELEBRAZIONE UFFICIALE DELLA NASCITA DELLA UE
* Corriere della Sera, 24 marzo 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Una voce sola per l’Europa
o siamo condannati al declino
di GIORGIO NAPOLITANO *
L’EUROPA è oggi chiamata a un grande impegno. Vogliamo superare uno dei limiti più gravi nello sviluppo delle Comunità e quindi dell’Unione: l’insufficiente rapporto stabilito in profondità con i cittadini, l’insufficiente impegno per associarli alle decisioni e alle esperienze che si venivano compiendo. Ce ne rendiamo meglio conto oggi, di fronte alle incomprensioni e difficoltà che incontra il progetto di Costituzione, già tradottosi in un Trattato sottoscritto nell’ottobre 2004 da 27 Capi di Stato o di Governo. Su che cosa dobbiamo riflettere e far opera di chiarificazione, in special modo tra i giovani? Soprattutto su due punti. Il primo: quale bilancio trarre di oltre 50 anni di integrazione europea? Il secondo: quali sono le ragioni di un ulteriore e più deciso avanzamento su quella strada? Parto dal primo punto. Io mi chiedo come sia possibile non vedere e riconoscere la storica portata delle conquiste dell’integrazione.
È stato essenziale che l’Europa si unisse, partendo da una ristretta cerchia di Paesi e poi allargandosi sempre di più. Non vi sarebbe stata pace nel cuore dell’Europa, non si sarebbe consolidata un’area decisiva di libertà, di democrazia, di tolleranza, di solidarietà, non si sarebbero irradiati questi valori in tutto il resto dell’Europa fino alla recente unificazione del continente, se non si fosse intrapresa nel lontano 1950 la strada dell’integrazione. Si è dato vita da allora a un ordinamento originale, senza precedenti, nel quale si sono combinate le forze degli Stati nazionali, con la loro identità e diversità, e nuove istituzioni sovranazionali per l’esercizio di forme di sovranità condivisa.
Il bilancio che oggi si può trarre è fatto di formidabile crescita delle nostre economie e progresso delle nostre società, in un’Europa che era uscita distrutta e umiliata dalla seconda guerra mondiale e che non avrebbe potuto riprendere slancio senza integrare le proprie risorse, unire le proprie energie. Il rallentamento della crescita economica negli scorsi anni, l’aggravarsi di problemi come quello dell’occupazione, il frequente ripetersi di episodi di scarsa coesione europea, non possono oscurare un bilancio così ricco di luci. E comunque non c’è alternativa alla strada dell’integrazione e dell’unità su scala europea. Oggi come non mai.
Ecco il secondo punto che volevo toccare. Vi sono nuove ragioni che esigono di portare avanti nel modo più conseguente sia i progetti che hanno finora segnato il passo sia altri che si stanno mettendo in cantiere: una politica estera e di sicurezza comune, uno spazio interno di libertà, sicurezza e giustizia, politiche comuni di lotta contro la criminalità e di gestione del fenomeno migratorio, un progetto di sviluppo dell’economia europea come economia fondata sulla conoscenza e altamente competitiva, un progetto comune per l’energia e per l’ambiente.
E le ragioni stanno nell’evidente e clamoroso mutare degli equilibri mondiali, nella portata di sfide, rischi e minacce che non possono affrontarsi al livello puramente nazionale. Nessun singolo Stato europeo può farcela da solo, e può con le sue sole forze contare nel mondo di oggi e di domani. Occorre più Europa, più unità, più iniziativa europea; e ciò a sua volta richiede un comune quadro costituzionale, maggiori poteri e risorse per le istituzioni comunitarie, più efficaci regole di funzionamento e procedure di decisione per l’Unione...
Io non credo che l’Europa del 2015 sia così immaginaria. Credo che molti elementi di quell’Europa siano già presenti o si stiano già costruendo, anche se se ne sa molto poco. Sono stato per cinque anni - dal 1999 al 2004 - Presidente della Commissione Affari Costituzionali del Parlamento Europeo dove si è lavorato molto per il Trattato costituzionale che ora è bloccato per il "no" nei referendum francese e inglese... La crisi di consenso in Europa e in una parte dell’opinione pubblica europea dipende da un deficit di democrazia, senza dubbio. Questo è un problema che si discute da decenni: che ci sia un deficit democratico nell’Unione Europea, lo si diceva anche trent’anni fa. Poi il Parlamento Europeo fu per la prima volta eletto direttamente dai cittadini. Non dimentichiamolo: fino a quel momento c’era un’assemblea formata sulla base di nomine fatte dai Parlamenti nazionali; le maggioranze di governo nominavano i loro rappresentanti in quella Assemblea parlamentare europea.
Poi, finalmente, dopo tanti sforzi, il Parlamento Europeo fu eletto direttamente. E in quel modo si è un po’ ridotto il deficit di democrazia. Ed esso si è ulteriormente ridotto aumentando i poteri dello stesso Parlamento Europeo. Una volta era un’assemblea consultiva che esprimeva dei pareri. Oggi no: oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, nessuna decisione può essere presa senza il consenso del Parlamento Europeo. Se la Commissione Europea avanza una sua proposta, un suo progetto, questi devono essere discussi nel Consiglio Europeo, dove siedono i rappresentanti dei Governi; ma devono avere il consenso del Parlamento Europeo: non sempre, ma nella stragrande maggioranza dei casi. La Commissione Europea viene di solito considerata un nido di burocrati, ma è fatta in realtà di eccellenti funzionari e esperti; si dice, poi, che i funzionari sono tantissimi, ma se andiamo a verificare, vediamo che i funzionari della Commissione a Bruxelles sono molti di meno che in qualche nostra grande amministrazione locale.
Ad ogni modo, parliamoci francamente: l’ostacolo maggiore viene dall’organismo in cui sono rappresentati i governi nazionali: il Consiglio dei Ministri, il Consiglio Europeo. È lì che si bloccano tanti buoni propositi e tanti buoni progetti. E, poi, magari quegli stessi governi che hanno frenato lo sviluppo delle decisioni europee, scaricano sull’Europa e su Bruxelles quello che non va nei loro Paesi. Questo credo sia il punto essenziale...
La ricchezza dell’Europa è la sua diversità, la sua diversità storica, culturale, ideale, sociale. Ma possiamo fare molte cose insieme: dobbiamo decidere insieme tutto quello che si decide meglio a livello europeo che a livello nazionale e locale. Questo è il principio di sussidiarietà, che in questo Trattato Costituzionale è stato riaffermato molto fortemente. Se ci sono questioni che si decidono meglio da parte dei poteri locali o che possono essere decise meglio dai governi o dai Parlamenti nazionali, si debbono decidere lì.
Però non c’è dubbio che ci siano grandi questioni che si possono risolvere meglio o addirittura soltanto a livello europeo, soprattutto "parlando con una sola voce". Poniamo la questione di come dare un contributo al problema mondiale dell’ambiente. Non determineremo da soli, noi europei, una inversione di tendenza rispetto al cambiamento climatico. Certamente ancora meno potrà fare da sola la Germania, da sola la Francia. E così anche per le grandi questioni internazionali. Diciamoci la verità: l’Europa si è divisa a proposito della guerra in Iraq, ma né i Paesi che sono stati contro la guerra in Iraq, né i Paesi che sono stati a favore hanno veramente contato, proprio perché l’Europa si è divisa: alcuni governi hanno potuto dire no anche in sede di Consiglio di Sicurezza, qualche altro ha detto sì. Chi ha detto sì, in realtà ha aggiunto una sua flebile voce a quella ben più potente degli Stati Uniti d’America che avevano deciso e chi ha detto di no non è riuscito ad impedire che la guerra si facesse.
O parleremo con una sola voce, o... Non voglio dire che spariremo, ma - stiamo attenti - se anche non spariremo, vedremo declinare drammaticamente il nostro ruolo: il ruolo della Germania, dell’Italia, della Francia e di qualsiasi altro Paese, anche della Gran Bretagna. Potremo pesare solo se parleremo con una voce sola. Solo se saremo uniti e daremo forza alle nostre istituzioni.
Il testo che pubblichiamo, in occasione dei 50 anni del Trattato di Roma, è tratto dal discorso che il Capo dello Stato ha tenuto, insieme al Presidente tedesco Horst Köhler, agli studenti dell’Università di Tubinga il 9 febbraio 2007
* la Repubblica, 23 marzo 2007
Dichiarazione di Berlino
ecco il testo integrale
Questo il testo integrale della "Dichiarazione di Berlino" adottata oggi in occasione dei 50 anni dei Trattati di Roma. Il documento è stato siglato a Berlino dal cancelliere tedesco Angela Merkel, presidente di turno dell’Unione, dal presidente della Commissione europea Josè Manuel Durao Barroso e dal presidente del Parlamento europeo Hans Gert Poettering alla presenza di tutti i leader dei 27 Paesi che compongono l’Unione europea.
"L’Europa è stata per secoli una idea, una speranza di pace e comprensione. Questa speranza ha trovato conferma. L’unità europea ci ha portato pace e benessere. Ci ha donato affinità e ci ha fatto superare contrasti. Ogni paese membro ha contribuito a riunificare l’Europa e a rafforzare democrazia e stato di diritto. Dobbiamo ringraziare l’amore per la libertà dei popoli dell’Europa centrorientale se oggi è stata definitivamente superata la divisione innaturale dell’Europa. Con l’unità europea abbiamo tratto le lezioni dalle sanguinose contrapposizioni e dalla storia piena di sofferenze. Oggi noi viviamo insieme come mai era stato possibile prima", si legge nel preambolo della Dichiarazione, che si conclude con la frase: "Noi cittadine e cittadini dell’Unione europea siamo uniti nella nostra fortuna".
Seguono tre brevi capitoli:
"I - Noi realizziamo nell’Unione europea i nostri comuni ideali: per noi al centro vi è l’uomo. La sua dignità è inviolabile. I suoi diritti sono inalienabili. Donne e uomini hanno gli stessi diritti.
Noi abbiamo come obiettivo la pace e la libertà, la democrazia e lo stato di diritto, il rispetto reciproco e la responsabilità, il benessere e la sicurezza, la tolleranza e la partecipazione, la giustizia e la solidarietà.
Noi viviamo e operiamo insieme nell’Unione europea in una maniera straordinaria. Ciò si esprime nella convivenza democratica degli stati membri e delle istituzioni europee.
L’Unione europea si basa sull’uguaglianza e relazioni solidali. Così rendiamo possibile un giusto equilibrio di interessi fra gli stati membri.
Noi preserviamo nell’Unione europea l’autonomia e le molteplici tradizioni dei loro paesi membri. Le frontiere aperte e la vivace varietà di lingue, culture e regioni ci arricchiscono. Molti obiettivi li possiamo raggiungere non da soli ma soltanto insieme. L’Unione europea, gli stati membri e le loro regioni e comuni si dividono i compiti.
II - Noi siamo di fronte a grandi sfide, che non si fermano alle frontiere nazionali. L’Unione europea è la nostra risposta ad esse. Solo insieme possiamo conservare anche in futuro il nostro ideale sociale europeo, per il benessere di tutte le cittadine e i cittadini dell’Unione europea. Questo modello europeo unisce successo economico e responsabilità sociale. Il mercato comune e l’Euro ci rendono forti. In tal modo noi possiamo formare secondo i nostri concetti e valori la crescente interdipendenza dell’economia a livello mondiale e la sempre più intensa competitività sui mercati internazionali. La ricchezza dell’Europa è nel sapere e nella capacità delle sue persone: questa è la chiave per la crescita, l’occupazione e la coesione sociale.
Noi combatteremo insieme il terrorismo, la criminalità organizzata e l’immigrazione illegale. I diritti civili e di libertà li difenderemo anche lottando contro i loro nemici. Razzismo e xenofobia non dovranno più avere una chance.
Noi ci impegniamo affinchè i conflitti nel mondo vengano risolti pacificamente e le persone non siano vittime di guerre, terrorismo o violenza. L’Unione europea vuole favorire libertà e sviluppo nel mondo. Noi vogliamo reprimere povertà, fame e malattie. in questo vogliamo anche per il futuro assumere un ruolo guida.
Noi vogliamo andare avanti insieme nella politica energetica e nella difesa del clima, e dare il nostro contributo affinchè venga scongiurato il mutamento climatico.
III - L’Unione europea vive anche in futuro della sua apertura e della volontà dei suoi paesi membri, e al tempo stesso a consolidare lo sviluppo interno dell’Unione europea.
L’Unione europea continuerà a favorire la democrazia, la stabilità e il benessere al di là dei suoi confini. Con l’unità europea è divenuto realtà un sogno delle passate generazioni. La nostra storia ci ammonisce a difendere tale fortuna per le future generazioni. A questo scopo dobbiamo rinnovare di continuo la forma dell’Europa in conformità ai tempi. E per questo oggi, 50 anni dopo la firma dei Trattati di Roma, noi siamo uniti nell’obiettivo di porre l’Unione europea fino alle elezioni del parlamento europeo nel 2009 su una rinnovata base comune. Poichè noi sappiamo: l’Europa è il nostro comune futuro".
* la Repubblica, 25 marzo 2007
ANSA 2007-03-24 14:19
I padri fondatori dell’Europa
ANSA » 2007-03-24 14:25
I Trattati
L’EUROPA, "L’ELOGIO DELLA FOLLIA" (1511) E L’UTOPIA (1516). CULTURA E SOCIETÀ: "LA MONTAGNA INCANTATA" (1924) e "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929).
Una nota a margine di una "citazione" di una lettera di #Tommaso Moro a #Erasmo di Rotterdam:
«Non puoi immaginarti quanto ora io m’imbaldanzisca, quanto mi gonfi, quanto mi tenga più su. Immagino di continuo che i miei Utopiani mi vorranno eleggere loro sovrano perpetuo, tanto che mi vedo già incedere del diadema di frumento, mi vedo cospicuo nel paludamento francescano, mi vedo portare lo scettro venerabile di un covone di messi. Circondato da un’insigne accolta di cittadini di Amauroto, mi vedo, in pompa solenne, andare incontro agli ambasciatori e ai principi delle genti straniere, ben miseri al nostro confronto, pieni di sciocca superbia, perché ornati fanciullescamente, pieni di vanità femminile, carichi di disprezzabile oro, ridicoli per la porpora, per le gemme, per altre bazzecole.» (Cfr. E. Scelza, "LE CITAZIONI: il sogno ad occhi aperti di Tommaso Moro", "Gente e Territorio", 15 novembre 2023).
SE SI CONSIDERA CHE TOMMASO MORO (1478-1535) scrive quello che scrive ad ErasmodiRotterdam (1469-1536) il 4 dicembre 1516, e che, al contempo, Martin #Lutero (1483-1546) nell’ottobre del 1517 diffonde le sue #95Tesi, c’è da pensare che ognuno sognasse un proprio #sogno ad occhi aperti e non avessero affatto un #mondo "unico e comune" (#Eraclito) : questo spiega, soprattutto da parte di Erasmo e Moro, anche la loro presa di distanza dalle sollecitazioni di riforma della Chiesa da parte di Lutero.
Non è un caso che, pochi anni dopo (al tempo di Carlo V, dopo il Sacco di Roma nel maggio del 1527), la richiesta di un tentativo di edizione della "#Monarchia" di #DanteAlighieri, fatto da Alonzo de #Valdès (1490 - 1532) e Mercurino di #Gattinara (1465-1530), è lasciato cadere nel vuoto da Erasmo da Rotterdam (nel marzo del 1527), e, ancora e purtroppo, di lì a poco c’è la rottura di #EnricoVIII con Chiesa cattolica e l’avvio della Riforma Anglicana (1534).
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, alla fine della sua "Montagna Incantata" (#Zauberberg, 1924), #ThomasMann scrive: "Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?" (trad. di E. Pocar).
Nel 1929, in Italia, la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano sottoscrivono il "Concordato" (#PattiLateranensi, 11 febbraio 1929): a Vienna, intanto, #SigmundFreud porta avanti il suo lavoro e pubblica il risultato delle sue ricerche e delle sue riflessioni sul "Disagio della civiltà" (e nella civiltà).
P.S. - STATO ITALIANO E STATO PONTIFICIO (CHIESA CATTOLICA): LA QUESTIONE ROMANA E IL "20 SETTEMBRE 1870" (Festa della liberazione della capitale e dell’unificazione nazionale, abolita dal Fascismo). #BENEDETTOCROCE, NELLA "STORIA D’ITALIA DAL 1871 AL 1915" (1928), A PROPOSITO DEL PERSONAGGIO "LUDOVICO SETTEMBRINI" DELLA "MONTAGNA INCANTATA" ("DER ZAUBERBERG", 1924) DI THOMAS MANN, COSI’ SCRIVE:
Sessant’anni di Europa
Le linee di frattura dell’Unione
di Alessandro Cavalli (Il Mulino, 21 marzo 2017)
Gli anniversari sono tempo di bilanci. Il 25 marzo si celebrano i 60 anni dalla firma del Trattato di Roma dal quale è nata quella che oggi chiamiamo Unione europea. Il bilancio però è difficile. Per alcuni il bicchiere è mezzo pieno, per altri è mezzo vuoto, ma non è facile capire chi dei due abbia più ragione. La pace tra gli Stati membri non è venuta meno e, per ora, sembra garantita. L’Unione è sopravvissuta - con qualche acciacco - alla crisi del secolo, la più grave dopo quella che è sfociata nella Seconda guerra mondiale.
La povertà non è stata vinta e le disuguaglianze sono aumentate, ma nel complesso l’Europa resta in questo mondo una delle regioni nelle quali si sta meglio. Con qualche severa restrizione in alcuni Paesi, le libertà e i diritti umani fondamentali sono sostanzialmente rispettati. In un’ottica di lungo periodo e guardando a gran parte del resto del mondo, bisogna riconoscere che non ci è andata poi così male.
Molti di noi, se dovessero scegliere dove vivere, alla fine sceglierebbero proprio l’Europa, come del resto tanti profughi, rifugiati, migranti che bussano alla porta, anzi, perlopiù entrano senza bussare. Per loro l’Europa è una terra promessa: molti finiranno delusi, ma molti altri vi troveranno una nuova patria dove far crescere i loro figli.
E però, le crepe dell’edificio dell’Ue sono visibili a tutti e non riguardano solo la sfida dell’uscita del Regno Unito (voluta, giova ripeterlo, dal 37% degli aventi diritto al voto e dal 52% dei votanti).
Nelle aree limitrofe del Medioriente e dell’Africa regnano la guerra e il caos, e l’Unione non ha né le risorse né le competenze per far sentire la sua voce e per tentare di ricomporre i conflitti. I mercati finanziari sono sempre in agguato, sensibili all’altalena delle dinamiche imprevedibili della fiducia e della sfiducia sull’affidabilità dei singoli Paesi e dei loro debiti sovrani. Mario Draghi ha sparato tutte le munizioni che aveva a disposizione (e forse anche qualcuna di più) per fronteggiare la crisi monetaria, nel suo arsenale sono rimaste solo poche armi di emergenza. I movimenti anti-europei di destra, ma anche di sinistra, si apprestano a raccogliere, nell’anno elettorale incominciato nei Paesi Bassi, il consenso di tutti quegli scontenti che attribuiscono all’Europa e alla sua moneta la causa dei loro guai. Sulla scena mondiale sia Putin a Est sia Trump a Ovest sembrano entrambi ben intenzionati, sia pure con motivazioni diverse, a mettere i bastoni tra le ruote del processo di unificazione europea. Luci e ombre, a ognuno decidere se prevalgano le prime oppure le seconde.
La diga olandese ha tenuto; se in Francia le ambizioni di Marine Le Pen saranno ridimensionate e, soprattutto, se in autunno in Germania si affermasse una coalizione disposta a prendere l’iniziativa di qualche significativo passo avanti, gli scenari di una ever closer union potrebbero riaprirsi.
La Commissione Juncker ne ha disegnati cinque che si possono riassumere così, nel linguaggio delle parate militari: fermi tutti, un passo indietro, un passo laterale a sinistra, un passo laterale a destra, un passo avanti. Solo che la Commissione non ha il potere di dare ordini e di pretendere che vengano eseguiti, si limita a indicare le mosse possibili, sta ai governi decidere, insieme e quasi sempre all’unanimità, in che direzione andare. Al momento attuale, gli esiti sono tutti ancora aperti, da quelli perversi a quelli virtuosi.
Tra gli esiti possibili c’è la geometria variabile, i cerchi concentrici, l’Europa a due o più velocità. Diciamolo chiaro: se si vuole fare un passo avanti non si può farlo in ventisette.
Le linee di faglia sono troppo consistenti. C’è quella Nord-Sud che ci (noi, italiani) riguarda direttamente e quella Est-Ovest che riguarda i nuovi arrivati dopo l’allargamento del 2004. Lo sapevamo già allora che l’allargamento prima dell’approfondimento significava l’annacquamento. È a dir poco superficiale chi sostiene che allora non si doveva fare l’allargamento. La domanda da porsi è invece un’altra: che cosa sarebbe successo in Polonia, Ungheria, Bulgaria, Romania eccetera se l’allargamento non ci fosse stato? Basta guardare a che cosa è successo nella ex Jugoslavia e a che cosa succede ancor oggi in Ucraina.
A ventisette, a diciannove, a undici, a nove o a sei, l’egemonia sarà di fatto, lo si voglia o no, della Germania. È meglio per l’Europa nel suo insieme una Germania all’interno di un vincolo europeo rafforzato in un numero ridotto oppure un vincolo lasco per un gruppo più numeroso? Questo è il dilemma sul quale sarebbe utile un ampio e approfondito dibattito pubblico e sul quale si dovrebbero ridisegnare gli schieramenti politici. La Germania conta di più in un’Europa divisa, o in un’Europa unita, sia pure, ristretta?
Questa volta i cittadini non devono solo aspettare che piovano dall’alto le decisioni dei governi. Le campagne elettorali del 2017 avranno tutte al centro il tema dell’Europa e degli immigrati, certamente in Francia e Germania e, prima o poi, anche in Italia. Tutto lascia prevedere che siamo di fronte a una svolta nella quale si gioca il futuro del continente e questa volta a decidere saranno (anche) i popoli.
Sarà però utile riflettere sul fatto che il populismo nazionalista anti-europeo è solo un effetto, non una causa, della crisi dell’Unione. Le cause sono tante: l’assenza di visione e di leadership nei Paesi che hanno finora guidato il processo, la fragilità e la farraginosità dell’architettura istituzionale, la scarsa legittimazione democratica, la forza degli interessi finanziari e delle imprese multinazionali che lucrano sulla diversità dei sistemi pubblici e dei regimi fiscali e che non vedono negativamente la conservazione dello status quo e, infine, anche la forza di inerzia dell’esistente. Gli Stati nazionali, con i loro apparati burocratici, con i loro sistemi politici, con i sentimenti di appartenenza che riescono ancora a suscitare nelle popolazioni, possono durare ancora per secoli senza interrompere il loro declino. In fondo, di civiltà che sono declinate a lungo e sono scomparse lentamente, oppure in modo brusco e drammatico, la storia ne ha conosciute diverse. Se non facciamo qualcosa, questo potrebbe essere il destino anche dell’Europa.
di Sergio Rizzo (Corriere della Sera, 09.07.2015)
Il diffondersi del timore «che l’euro non sia irreversibile». È questo che dal precipitare della crisi greca teme il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, più che gli effetti sui nostri conti pubblici. «Non irreversibile». È un termine che evoca scenari inquietanti, ben oltre le implicazioni dell’eventuale uscita della Grecia dalla moneta unica. Perché se l’euro fosse davvero «non irreversibile», potrebbe mai esserlo la stessa Unione Europea?
Per quanto si stenti ancora a prenderne coscienza, c’è questo in ballo nella partita fra Atene, Francoforte e gli altri Paesi dell’eurozona. E la sensazione che si stia giocando con il fuoco sulla pelle dell’Europa è sempre più netta. L’ escalation dei toni con cui Alexis Tsipras prefigura per domenica una scelta senza ritorno, dopo aver rivendicato nei giorni scorsi addirittura il pagamento dei danni della Seconda guerra mondiale, e di rimando il gelo di Berlino spargono un odore sinistro. Lo stesso odore che aveva ammorbato il Continente per secoli e secoli, ed è per non sentirlo più che i padri fondatori avevano fatto nascere la Comunità europea. Decretando che le ragioni per stare insieme in pace sono immensamente più numerose e importanti di quelle che avevano insanguinato fino ad allora l’Europa. Ragioni ora smarrite nell’insorgere degli egoismi nazionali: come quelli di certi Paesi ex comunisti inondati di contributi europei che però sbattono la porta in faccia a un migliaio di rifugiati. Oppure soffocate da regole che rendono l’Europa una camicia di forza insopportabile. O di più, schiacciate da un rigore dei conti pubblici sacrosanto, ma la cui applicazione pratica non prevede il buonsenso. Con il risultato che basterebbe una scintilla per mandare in fumo tutto. Tsipras ci pensa?
L’abisso che sembra adesso dividere dall’Europa anche i più europeisti ha certo molti colpevoli. Il principale però è l’ignoranza. Dalla nascita della Cee sono trascorsi 58 anni, e ben 23 da quando c’è l’Unione. Esiste anche una bandiera: per legge campeggia sulla facciata degli edifici pubblici. Ma quanti cittadini europei sanno che cosa davvero rappresenta?
Prendiamo l’Italia. Non c’è una legge che imponga nelle scuole l’insegnamento della storia e delle istituzioni dell’Unione. Solo due mesi fa il dipartimento delle politiche europee ha firmato con il ministero dell’Istruzione, il Parlamento di Strasburgo e la commissione Ue un «accordo di programma» per istituire «un partenariato strategico allo scopo di garantire nelle scuole italiane l’Educazione civica europea». Bene. Ma l’orizzonte per colmare finalmente la lacuna non è vicino: il governo «spera» nel 2020. D’altra parte, dice Palazzo Chigi, «molti docenti sono digiuni di nozioni basilari sull’Ue e quindi non riescono a inserire unità didattiche ad essa relative nelle loro programmazioni».
Dovremo dunque attendere cinque anni perché i nostri figli (o forse i loro) imparino che cosa sono il Parlamento e la Commissione europea? Ma soprattutto perché è nata l’Unione (mai più guerre in casa nostra!) e qual è la nostra storia? Cinque anni, e il mondo cambia in 5 giorni. Ci fosse stata la volontà di farlo, si sarebbe introdotto da tempo l’insegnamento di Istituzioni e Storia d’Europa. Magari con una delle tante riforme della scuola: utilizzate invece per demolire i programmi e risolvere i problemi dei professori anziché quelli degli studenti.
Quanto costa la non-Europa
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 15 febbraio 2012)
Sembrano passati cinquant’anni e invece ne sono passati solo cinque, da quando i capi d’Europa, riuniti a Berlino per commemorare i Trattati di Roma, firmarono una dichiarazione in cui è scritto che «noi, cittadini dell’Unione siamo, per la nostra felicità, uniti». E ancora: «L’unificazione europea ci ha permesso di raggiungere pace e benessere... È stata fondamento di condivisione e superamento di contrasti... Aspiriamo al benessere e alla sicurezza, alla tolleranza e alla partecipazione, alla giustizia e alla solidarietà... L’Unione si fonda sulla parità, sull’unione solidale... sul giusto equilibrio di interessi tra Stati membri».
Era bello, pensare positivo e non prevedere nulla. È la stoffa di cui è fatta la crisi odierna. Ben altro campeggia davanti ai nostri occhi, con Atene che s’incendia e precipita nella punizione dell’impoverimento: non la felicità ma il sospetto reciproco, il bruto squilibrio d’interessi, l’intolleranza che dilaga in Italia, Ungheria, Danimarca, Olanda. E in Grecia non la pace ma la guerra civile, che non turba L’Europa ma è pur sempre ritorno della guerra, dei suoi vocabolari minatori. Nel difendere un’ennesima contrazione dei redditi, il premier Papademos ha brandito l’arma della paura, non della speranza: «Una bancarotta disordinata provocherebbe caos e esplosioni sociali. Lo Stato sarebbe incapace di pagare salari, pensioni, ospedali, scuole. L’importazione di beni basilari come medicine, petrolio, macchinari sarebbe problematica». Parafrasando Joyce: ecco Europa, un incubo dal quale non sappiamo svegliarci.
Potrebbero andare in altro modo le cose, se i responsabili europei riconoscessero che il male non è l ’inadempienza ellenica. Se capissero, come scrive l’economista greco Yanis Varoufakis, che malata è l’eurozona, con o senza Atene. Certo Atene è stata «un paziente recalcitrante»: ma è stata usata per velare il vizio d’origine, che è il modo in cui l’eurozona «ha aggravato gli squilibri, non ha assorbito il collasso finanziario del 2008».
In Grecia e altrove la Germania è descritta come cerbero, istupidito dai propri trionfi: quasi avesse dimenticato la disastrosa politica di riparazione che le inflissero i vincitori dopo il ’14-18. La sofferenza sociale dei tedeschi fu tale, che s’aggrapparono a Hitler. C’è del vero in quest’analisi - difesa nel ’19 da Keynes - ma le menti tedesche sono più complesse e incorporano anche il ricordo del ’45. Il ’45 seppellì l’era delle punizioni e aprì quella della fiducia, della cooperazione, creando Bretton Woods e l’Europa unita.
Angela Merkel deve essersi accorta che qualcosa sta andando molto storto se il 7 febbraio, in un incontro con gli studenti, ha confessato, in sostanza, che senza rifare l’Europa via d’uscita non c’è e il tesoro di fiducia svanisce. Non ha menzionato gli Stati uniti d’Europa, ma il suo progetto ha gli elementi tutti di una Federazione. L’Unione - ha detto - deve cambiar pelle. Gli Stati per primi dovranno farlo, e decidersi a un abbandono ben più vasto di sovranità: anche se per ciascuno, Berlino compresa, la scelta è «molto difficile». Così come difficili, ma non più rinviabili, sono l ’abolizione del diritto di veto e l’estensione del voto a maggioranza. La Commissione di Bruxelles dovrà trasformarsi in autentico governo, con i nuovi poteri delegati, e «rispondere a un forte Parlamento europeo».
Ridimensionato, il Consiglio dei ministri sarebbe «una seconda Camera legislativa» - simile al Senato americano - e massima autorità diverrebbe la Corte di giustizia: «Vivremo meglio insieme se saremo pronti a trasferire le nostre competenze, per gradi, all’Europa». Che altro si prospetta, se non quegli Stati Uniti che Monti aveva escluso, nell’intervista alla Welt dell’11 gennaio? E come parlare di una Germania despota d’Europa, se vuol abbandonare le prevaricazioni del liberum veto? Non solo. Senza esplicitamente nominarlo, il Cancelliere ha ricordato che Kohl vide subito i pericoli di una moneta senza Stato: «Oggi tocca creare l’unione politica che non fu fatta quando venne introdotto l’euro», senza curarsi delle «molte dispute» che torneranno a galla. Ci sono dispute più istruttive delle favole sulla felicità, perché non menzognere. Kohl, allora, chiese l’unione politica e la difesa comune: Mitterrand rispose no.
Può darsi che la Merkel parli al vento, un po’ per volubilità un po’ perché tutti tacciono. Comunque l’ostacolo oggi non è Berlino. Come ai tempi di Maastricht, chi blocca è la Francia, di destra e sinistra. È accaduto tante volte: nel ’54 per la Comunità di difesa, nel 2005 per la Costituzione Ue. Tanto più essenziale sarà l’appoggio di Monti a questo timido, ma cocciuto ritorno del federalismo tedesco.
Creare un’Europa davvero sovranazionale non è un diversivo istituzionale. Già Monnet diceva che le istituzioni, più durevoli dei governi, sono indispensabili all’azione. Oggi lo sono più che mai, perché solo prevalendo sui veti nazionali l’Europa potrà fare quel che Berlino ancora respinge: affiancare alla cultura della stabilità, che pure è prezioso insegnamento tedesco, una sorta di piano Marshall intra-europeo, incentrato sulla crescita. Il patimento greco lo esige.
Ma lo esige ciascuno di noi, assieme ai greci. La loro sciagura infatti non è solo l’indisciplina: è un accanimento terapeutico che diventa unica strategia europea, indifferente all’ira e alle speranze dei popoli. I dati ellenici, terribili, sono così riassunti da Philomila Tsoukala, di origine greca, professore a Washington: l’aggiustamento fiscale è già avvenuto (6 punti di Pil in meno di un anno, in piena recessione). Salari e pensioni sono già ai minimi, e le entrate aumentano ma colpendo i salariati, non gli evasori. Centinaia di migliaia di piccole imprese sono naufragate, la disoccupazione giovanile è salita al 48%, una persona su tre è a rischio di povertà. I senzatetto sono 20.000 nel centro di Atene. «La pauperizzazione delle classi medie è tale, che aumenta il numero di chi non teme più il default, non avendo nulla da perdere». A ciò si aggiungano losche pressioni esercitate ultimamente su Atene, perché in cambio di aiuto comprasse armi tedesche e francesi. È vero, la sovranità è oggi fittizia. Ma non può risolversi nel ricatto dei forti, e nell’umiliazione dei declassati.
È il motivo per cui l’Europa deve farsi, con istituzioni rinnovate, promotrice di crescita. E ai cittadini va detta la verità: se siamo immersi in una guerra del debito (in Europa, Usa, Giappone) è perché i paesi in ascesa (Asia, America Latina) non sopportano più un Occidente che domina il mondo indebitandosi. Alla loro sfida urge rispondere con conti in ordine, ma anche con uno sviluppo diverso, senza il quale la concorrenza asiatica ci schiaccerà. È lo sviluppo cui pensava Jacques Delors, con il suo Piano del ’93. Napolitano l’ha riproposto, venerdì a Helsinki: «Abbiamo bisogno di decisioni e iniziative comuni per la produttività e la competitività».
L’Europa può farlo, se oltre agli eurobond introdurrà una tassa sull’energia che emette biossido di carbonio (carbon tax), una tassa sulle transazioni finanziarie, un’Iva europea: purché i proventi vadano all’Unione, non agli Stati. È stato calcolato che i nuovi investimenti comuni - in energie alternative, ricerca, educazione, trasporti - genererebbero milioni di occupati e risparmi formidabili di spesa.
Divenire Stati Uniti d’Europa significa non copiare l’America, ma imparare da essa. Lo ricorda l ’economista Marco Leonardi sul sito La Voce: subito dopo la guerre di indipendenza, e prima di avere una sola Banca centrale e un’unica moneta, il ministro del Tesoro Alexander Hamilton prese la decisione cruciale: l’assunzione dei debiti dei singoli stati da parte del governo nazionale. Di un Hamilton ha bisogno l’Europa, che sommi più persone spavalde. Il loro contributo può essere grande e l’impresa vale la pena: perché solo nella pena riconosciamo l’inconsistenza, i costi, la catastrofe delle finte sovranità nazionali.
Lisbona, raggiunta l’intesa nella notte: un testo di 255 pagine che detta le regole di funzionamento dell’Unione a 27 e, poi, a 30
Accordo fatto con Italia e Polonia
la Ue approva il suo nuovo trattato
Roma ottiene 73 deputati (in totale saranno 751) come la Gran Bretagna
Varsavia avrà la "clausola di Ioannina" che voleva a tutti i costi
LISBONA - L’Italia ottiene un deputato in più (73 come la Gran Bretagna), la Polonia avrà la "clausola di Ioannina" che le permetterà di congelare per qualche mese le decisioni prese a maggioranza. Ma nella notte di Lisbona l’Europa approva il suo trattato di riforme istituzionali e può finalmente rimettersi in cammino.
Due anni e mezzo dopo la vittoria del no nei referendum in Francia e Olanda sulla Costituzione, il Consiglio europeo di Lisbona ha dato il via libera al nuovo testo di 255 pagine che detta le regole per il funzionamento dell’Ue allargata a 27 e presto forse a 30. Gli ultimi scogli sono stati superati con una maratona negoziale di sette ore condotta dal premier portoghese e presidente di turno, Josè Socrates, che ha portato all’intesa con l’Italia e la Polonia. "Ora l’Europa è più forte, ha superato la sua crisi istituzionale", ha commentato visibilmente soddisfatto Socrates dopo l’una di notte, le due in Italia. Il nuovo Trattato sarà firmato a dicembre a Lisbona, 50 anni dopo i Trattati di Roma.
Per Romano Prodi il compromesso sulla redistribuzione dei seggi all’Europarlamento dà "molta soddisfazione" all’Italia ed è anche "un riconoscimento del lungo lavoro di collante" che ha svolto nell’Ue. "Abbiamo messo le cose a posto" L’Italia si opponeva alla perdita della parità con Francia e Gran Bretagna prevista dalla risoluzione Lamassoure-Severin, che da 78 seggi per tutte e tre li riduceva a 74 per la Francia, a 73 per la Gran Bretagna e a 72 per l’Italia. Ora l’Italia ne ha ottenuto in più, 73, gli stessi dei britannici. Ciò è stato possibile portando da 750 a 751 il totale degli eurodeputati, anche se il presidente dell’Europarlamento sarà conteggiato a parte in quanto per prassi non vota. Con questi numeri si andrà a votare per le europee del 2009 mentre per quelle successive, nel 2014, si raccomanderà al Parlamento europeo di prevedere una nuova redistribuzione basata sul criterio della cittadinanza e non della residenza (come previsto dall’articolo 9A del nuovo Trattato). Un criterio che premia l’Italia per i suoi tanti cittadini residenti negli altri Paesi Ue.
Per Prodi il varo del Trattato segna "la fine di un lunghissimo periodo di difficoltà della storia europea" e permette all’Ue di "ricominciare a operare in modo tranquillo". "Noi non siamo dei piantagrane", ha sottolineato il ministro degli Esteri, Massimo D’Alema, "abbiamo posto un principio,l’Europa ne ha preso atto e ha fatto uno sforzo".
L’accordo con la Polonia, invece, è un compromesso sulla "clausola di Ioannina", di cui Varsavia chiedeva l’inserimento nel Trattato. Il meccanismo, che prende il nome dalla località greca dove venne definito e permette a un gruppo di Paesi di congelare per alcuni mesi una decisione approvata a maggioranza, sarà trasferito da un allegato a un protocollo vincolante e avrà quindi un valore giuridico superiore.
La Polonia vuole mantenerlo almeno fino al 2017, in modo da poter condizionare il prossimo negoziato sulle prospettive finanziarie dell’Ue. Varsavia, ottiene inoltre un avvocato generale permanente alla Corte europea di giustizia di Lussemburgo.
Il presidente polacco Lech Kaczynski, atteso domenica dalle elezioni politiche che sono anche un referendum sull’operato suo e del fratello gemello, il premier Jaroslaw, ha tenuto duro fino in fondo per strappare il massimo possibile. Prodi ha assicurato comunque che "non è stato fatto alcun passo indietro" sul trattato, "non c’è stato un compromesso sul compromesso". Il nuovo Trattato ricalca il mandato che era stato dato in giugno alla Conferenza intergovernativa, dopo un estenuante negoziato proprio con la Polonia. Introduce, tra l’altro, il voto in Consiglio a doppia maggioranza (il 55% degli Stati e il 65% della popolazione) a partire dal 2014.
* la Repubblica, 19 ottobre 2007.
ANTICIPAZIONE
A cent’anni dalla nascita del grande europeista, il presidente ne ricorda l’opera per l’unità del continente. Per la quale collaborò anche con un politico molto diverso da lui: De Gasperi
Napolitano: Spinelli mio maestro
di Giorgio Napolitano (Avvenire, 25.08.2007)
Sarà in libreria il 30 agosto il libro del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dedicato ad «Altiero Spinelli e l’Europa» (Il Mulino) nel centenario della nascita del grande europeista, avvenuta a Roma il 31 agosto 1907. Il volume - dal quale riprendiamo in questa pagina stralci dell’introduzione, che rielabora una conversazione con un giornalista - raccoglie una serie di interventi (discorsi, commemorazioni, scritti) che Napolitano ha dedicato al suo «maestro» Spinelli nel ventennio dopo la scomparsa, occorsa nel 1986. Sebbene i due si siano conosciuti sono negli ultimi dieci anni della vita di Spinelli, infatti, l’attuale massima autorità dello Stato riconosce all’antifascista romano nonché primo presidente del Parlamento europeo un profondo influsso su di lui. E Giorgio Ruffolo nella premessa al libro anticipa appunto come «Napolitano, di una generazione più giovane di Spinelli, non dissimula certo la propria ammirazione e simpatia per la sua persona e la sua opera. Della quale deve essere considerato, a giusto titolo, il continuatore». Come europeista, anzitutto: non a caso, il presidente della Repubblica cita più volte il «Manifesto di Ventotene», firmato nel 1940-41 da Spinelli ed Ernesto Rossi, sottolineandone la permanente attualità.
Altiero Spinelli è stato un grande visionario. Oggi è perfino difficile capire come sia stato possibile che, dopo tanti anni di carcere e infine di confino, mentre si trovava nell’isola di Ventotene, tagliato fuori dal resto del mondo, abbia potuto guardare tanto lontano, e concepire qualcosa di così radicalmente nuovo.
C’erano dei precedenti, correnti federaliste, o grandi occasioni in cui si era fatto appello all’Europa unita, ma tutto questo non aveva molto a che vedere con possibilità di realizzazione concreta. Invece Altiero Spinelli pensò a tracciare, insieme con i suoi compagni di prigionia Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, le linee di una costruzione possibile sul piano politico, nel rapporto tra gli S tati, tra quegli Stati nazionali che lui vedeva come corresponsabili di una guerra che stava devastando l’Europa.
Alla radice di essa erano stati gli antagonismi fra gli Stati nazionali, le conflittualità di carattere economico, le conflittualità di carattere politico e, infine, la terribile tentazione del ricorso alle armi per regolare ogni questione. Erano state precisamente queste forme di sovranità nazionale esasperata a determinare la grande rottura, e per due volte nel corso del XX secolo, con la Prima e la Seconda guerra, che diventarono mondiali dopo aver preso però avvio in Europa, essenzialmente tra Francia e Germania.
Altiero Spinelli capì che soltanto se si fosse messo un limite alle sovranità nazionali, soltanto se si fosse cercato di costruire qualcosa di diverso da una semplice alleanza tra gli Stati sovrani, soltanto se si fosse trovato il modo di mettere insieme delle sovranità, delle funzioni, dei poteri, per esercitarli al livello sovranazionale, si sarebbero potute superare le contraddizioni ed evitare le sciagure del passato.
Ed ecco che Spinelli, in quella piccola isola, scrive il suo «Manifesto». Poi deve ancora passare qualche anno, prima che cada il fascismo, prima che finisca in tutta Europa la guerra - sono gli anni tra il ’41 e il ’45 - e quando ritorna libero, già nel ’43, dopo la caduta del fascismo in Italia, Spinelli si presenta forte di questa sua grande idea.
Egli disse che arrivava di nuovo, sul suolo dell’Italia, solo: era solo, non aveva alle spalle un partito, si sarebbe cimentato con questo grandissimo compito e obiettivo della costruzione di un’Europa unita senza avere delle forze organizzate dietro di sé. E, in effetti, egli non fu mai un uomo di un solo partito, fu l’uomo di una sola causa. Per l’Europa unita egli cercò ogni sorta di possibili collaborazioni, convergenze anche tra forze molto diverse, e si può dire che egli sia stato davvero il maggior profeta dell’idea europea.
Naturalmente non bastano i profeti, ci vogliono anche gli uomini di Stato. In Italia possiamo dire che abbiamo avuto questo stranissimo, singolarissimo unirsi di due uomini profondamente diversi, e cioè Altiero Spinelli e Alcide De Gasperi. Il primo era il profeta, l’animatore, il combattente, anche su posizioni molto avanzate, decisamente federaliste; il secondo era l’uomo di Stato che credeva anche lui in questo destino europeo, e cercava poi di costruirlo con tutti i mezzi della politica e della diplomazia.
L’accordo tra i due si ebbe su un punto molto importante. Quando fu elaborato il Trattato che avrebbe dovuto istituire una Comunità europea di difesa, proprio all’inizio degli anni ’50, più o meno contemporaneamente alla creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, Spinelli propose a De Gasperi, e De Gasperi propose agli altri 5 capi di governo, di inserire in quel Trattato un articolo, il 38, che prevedeva che si desse vita a un’Assemblea politica comune, a una vera e propria comunità politica. E nel 1953, da parte di un comitato presieduto dal belga Paul-Henri Spaak, venne scritta quella che fu la prima idea di Costituzione europea, che avrebbe dovuto accompagnare una struttura per la difesa comune. Quel Trattato, quindi, non ebbe solo essenzialmente un contenuto militare, ebbe un contenuto politico.
Oggi, dell’Unione europea non si può dire che sia uno Stato, nemmeno federale, anche perché sono state molte le resistenze ad andare conseguentemente avanti sulla via del federalismo. Ma l’Unione europea non è nemmeno un’alleanza tradizionale, e quindi non ha nulla a che vedere con la Nato, né d’altra parte con le Nazioni Unite; nello stesso tempo non è neppure identificabile con una somma di Stati nazionali. L’Unione è qualcosa di assolutamente nuovo, un nuovo genus. Bisogna capire che ci sono dei momenti in cui la storia crea qualcosa di nuovo, qualcosa che non si può ricondurre a nessun modello (e credo che sarà così anche nel futuro). Quello che rimane essenziale è l a motivazione di fondo posta a base della costruzione europea, e che si esplicò subito in un quadro di valori che rimangono ancora oggi irrinunciabili.
Se si rilegge oggi il «Manifesto di Ventotene» lo si trova di una modernità straordinaria. Non è vero che quel «Manifesto» rappresenti il progetto di un superstato centralizzato, come è stato detto di recente da tutti i nemici del Trattato costituzionale. Se si rilegge Altiero Spinelli si vede che egli, che parlava di una Europa federale, pensava soltanto a dare ad essa, allo Stato federale europeo, alcuni poteri: quelli che, lasciati nelle mani degli Stati nazionali, avevano prodotto conflitti e disastri. Quello era dunque un progetto di edificazione di una entità completamente nuova.
Spinelli aveva pensato anche a una Assemblea Costituente europea. Questo obiettivo non fu mai raggiunto, ma Spinelli si batté poi fino in fondo affinché il Parlamento europeo non fosse più composto di delegazioni designate dai Parlamenti nazionali, ma fosse eletto direttamente dai cittadini. Quando questo avvenne per la prima volta, nel 1979, Altiero Spinelli disse: «Forse in questo giorno è nato il popolo europeo!». E va riaffermato che il Parlamento europeo, eletto dai cittadini, ha quindi la stessa legittimità democratica di qualsiasi altro Parlamento e rappresenta proprio la base per una sempre maggiore partecipazione democratica, per una sempre maggiore riconoscibilità democratica dell’Europa unita.
I mostri del passato
di Barbara Spinelli (La Stampa, 4/6/2007)
Dicono che l’esperienza e gli errori servono a maturare, ma per l’Unione europea le cose non stanno così: nel vertice di Bruxelles che venerdì e sabato doveva salvare la Costituzione dei Ventisette si è scelto di tornare indietro, non di andare avanti e di ripartire dal punto più alto cui si era arrivati. Hanno contato più i pochi Stati ansiosi di frenare l’Unione, che non gli Stati che in gran parte avevano già ratificato il progetto costituzionale proposto nel luglio 2003 dai rappresentanti del popolo, dei governi, delle istituzioni europee. Pochi Stati hanno spadroneggiato sui più, e a forza di spadroneggiare hanno spostato le lancette degli orologi costringendo il tempo ad arretrare e a cancellare non solo le esperienze vissute ma anche le risposte date agli errori passati.
La finta che da decenni consuma l’Europa ricomincia dunque, impermeabile agli insegnamenti della storia: continua l’abitudine a costruire l’Europa senza darle né il metodo né i mezzi né le parole per affermarsi. Non solo: pur appellandosi alle volontà dei cittadini, pur affermando di voler riavvicinare l’Europa alle popolazioni deluse, i capi di Stato e di governo hanno ignorato il parere delle genti. Il popolo europeo non aveva chiesto queste pavide rinunce. Aveva chiesto una costituzione europea, in cui potersi identificare come ci si identifica con le costituzioni nazionali: il 66 per cento l’aveva reclamata con forza, nel sondaggio Eurobarometro di giugno. Non è quello che gli Stati gli hanno dato, se è vero che perfino la parola costituzione li ha impauriti. Gli Stati hanno protetto non i popoli ma se stessi e le proprie false sovranità. Il linguaggio del progetto costituzionale era troppo farraginoso - era stato detto e per questo francesi e olandesi l’avevano respinto nel 2005. I testi odierni hanno un linguaggio infinitamente più opaco, impenetrabile, ambiguo. Più precisamente, i Ventisette sono tornati al trattato di Nizza del 2000, migliorandolo in alcuni punti importanti ma non decisivi. Di qui l’impressione che sette anni siano passati invano, quasi non fossero esistiti. Non è esistito il momento in cui fu chiaro a tutti che Nizza era una trappola paralizzante, e venne convocata una Convenzione più rappresentativa delle volontà popolari. Non è esistita la decisione di affidare la riforma delle istituzioni e dunque la nascita di un’Europa politica non più a governi gelosi delle proprie prerogative ma a un corpo più democratico (la Convenzione appunto, composta di rappresentanti dei parlamenti nazionali, dei governi, del Parlamento europeo, della Commissione di Bruxelles). Ogni futura modifica non richiederà la convocazione di un’analoga Convenzione, come era scritto nella parte quarta della Costituzione oggi affossata (articolo IV-443).
Anche questo paragrafo viene estromesso, assieme a tanti altri paragrafi, dal mandato su cui lavorerà, a partire dal 23 luglio, la Conferenza intergovernativa incaricata di emendare i vecchi trattati e proporli a ratifica prima delle elezioni europee del 2009.
Ma, soprattutto, gli Stati hanno agito come se non avessero avuto alle spalle una serie di fallimenti, riconducibili tutti all’incapacità dell’Unione di prendere decisioni comuni anche quando fra i Ventisette c’è disaccordo: fallimenti come la spaccatura sull’Iraq e l’impossibilità di una comune politica internazionale. Il ministro degli Esteri europeo, che doveva avere una sua autonomia e presiedere i Consigli dei ministri, diventa una figura senza autorità. Non si chiamerà d’altronde ministro degli Esteri ma Alto Rappresentante. Sarà una copia di quello che abbiamo già dal 1999 (Xavier Solana) e che ha dimostrato di non funzionare.
Gli Stati insomma si riprendono per intero i poteri che avevano promesso di delegare. In politica estera non accetteranno alcuna autorità sopra di sé, e ciascuno ottiene di gestirla «secondo i propri interessi nazionali». Non ci sarà una Carta dei diritti obbligatoria per tutti, ma solo un accenno alla sua esistenza e la possibilità, per Inghilterra e Polonia, di non considerare i suoi dettami vincolanti. Londra non considera validi i paragrafi sul diritto di sciopero e altri diritti sociali. Varsavia giudica irrilevanti diritti etici come la non discriminazione.
In realtà non si è tornati indietro di sette anni ma di più di mezzo secolo. Certo, l’europeizzazione delle politiche nazionali è un dato di fatto difficilmente smantellabile, anche se viene restaurato il falso potere sovrano degli Stati. Ma nei modi di pensare e di fare, i dirigenti nazionali tornano all’epoca che precedette la nascita stessa dell’unificazione europea. Il vertice appena concluso a Bruxelles ha svegliato mostri maligni, che sembravano dormienti, e l’Europa torna a essere un continente dove quel che conta è l’equilibrio di potenze invece della cooperazione e della comune volontà: la balance of power che tiene le singole nazioni del nostro continente in stato di perenne rivalità, intente a tenersi a bada reciprocamente e a brandire l’una contro l’altra le proprie sovranità assolute.
La balance of power è il veleno che per secoli ha corroso l’Europa fino a distruggerla, e contro cui fu inventata dopo la guerra l’Unione europea: questo veleno viene inoculato di nuovo nelle nostre vene, spensieratamente, come se la storia fosse fatta di nulla. Altro significato non ha lo scontro Berlino-Varsavia, che ha impregnato l’intero semestre di presidenza tedesca. Il governo polacco si è presentato a Bruxelles con l’esplicito proposito di ottenere un risarcimento per i disastri bellici causati dalla Germania («Se nel 1939 la Germania non avesse invaso la Polonia, oggi avremmo 66 milioni di abitanti invece di 38 e il problema non si porrebbe», ha detto il premier Jaroslaw Kaczynski) sostenendo che la regola di decisione basata sulla doppia maggioranza degli Stati e della popolazione è a ben vedere un premio dato alle stragi di Hitler.
Il risentimento, l’uso della storia, l’invidia per paesi come la Germania, divenuta ricca anche se perdente nell’ultima guerra: queste le emozioni che hanno dominato i lavori a Bruxelles. Quando Angela Merkel ha minacciato di convocare una conferenza senza Varsavia, ripetendo il gesto compiuto nell’85 a Milano dal governo Craxi (così si riuscì a convocare una conferenza intergovernativa sulla riforma delle istituzioni, mettendo in minoranza la Thatcher), era troppo tardi. Sarkozy e Blair si sono opposti, e l’Italia ha dimenticato Craxi e Andreotti.
Dicono che la sostanza resta, anche se la forma svanisce. Dicono che gli Stati non vogliono dire quel che fanno, e ancor meno scriverlo. In parte è vero: la dissimulazione torna a essere quel che distingue l’Unione. Ma proprio questa continua dissimulazione stava negli ultimi quindici anni uccidendo l’Europa, impedendole di divenire potenza per meglio salvare i simulacri che sono ormai gli Stati sovrani. Non si parla più di costituzione, non c’è più il preambolo del vecchio progetto né si accenna al comune inno, alla comune bandiera, alla comune parola d’ordine («uniti nella diversità»). Non si critica il diritto di veto, anche se un pochino lo si attenuerà. Il presidente della Commissione Barroso annuncia che «dalla bella lirica si è passati alla più efficiente prosa», ma in questa prosa non c’è efficienza e nel pragmatismo non c’è che menzogna: la menzogna secondo cui gli Stati hanno sovranità autentiche, per il solo fatto che riprendono il controllo dell’Europa e le vietano di nascere.
Chi in Italia aveva previsto e voluto simili involuzioni ha parzialmente ottenuto ragione, anche se lo sguardo che getta sull’Unione è non meno menzognero: è uno sguardo che sottovaluta la debolezza effettiva degli Stati e il riaffiorare continuo delle volontà europeiste. Il governo, presente a Bruxelles con Prodi e D’Alema, ha fatto comunque poco per smentire queste previsioni. Ha acconsentito all’arretramento, ha accettato perfino una richiesta assai equivoca del presidente Sarkozy: la rinuncia a considerare la «concorrenza libera e non distorta» uno dei fini dell’Unione, che dà alla Commissione di Bruxelles il diritto di punire il protezionismo degli Stati.
Ma soprattutto ha accettato di negoziare sulla base del trattato di Nizza anziché sulla Costituzione ratificata da 18 paesi, tra cui il nostro. Proprio quello che si era impegnato a non fare, nell’incontro di Prodi e D’Alema con il Capo dello Stato il 16 maggio scorso. In realtà non c’era che Napolitano a volersi battere per una linea coerente e ferma anche a prezzo di rompere. La sua voce nei prossimi mesi e anni, quando inevitabilmente riaffiorerà il bisogno d’Europa, sarà sempre più preziosa.
L’Europa resta invisibile
di Luciana Castellina *
Se la cosa non fosse triste - una buona Europa in fondo la vorremmo tutti - quanto è accaduto al summit che avrebbe dovuto varare la Costituzione dell’Unione sembrerebbe una farsa: la grande Comunità che ormai va dall’Atlantico all’Ucraina e dal mar Baltico a quello Nero, messa in mora da due gemelli polacchi che sembrano appena usciti da un Circo; il campione del modello di nuovo socialismo, in cui larga parte della sinistra trova l’ispirazione per ammodernare il suo armamentario politico-ideologico, Tony Blair, che ottiene trionfante di esentare il suo paese dall’obbligo di rispettare diritti umani e sociali (in particolare dal diritto di sciopero di solidarietà, e cioè l’arma che serve contro le multinazionali); il più illustre esponente della nuova destra, Sarkozy, che si fa paladino della richiesta su cui si è battuta la sinistra radicale e i movimenti che fanno capo al Forum Sociale Mondiale - non fare più della concorrenza, e dunque del nocciolo delle politiche neoliberiste, una finalità dell’Unione - e il capo di un governo di centro-sinistra, Prodi, che tenta di bloccarlo. Ma che razza di Europa hanno disegnato a Bruxelles nelle ultime ore?
Naturalmente niente corrisponde a quanto appare, sicché possiamo strare tranquilli, l’Europa, più o meno resterà quella di prima. Il fumo sollevato è molto, l’intrico della normativa europea devastante e occorrerà tempo per capire meglio. Già ora sappiamo comunque che: l’Inghilterra già se ne infischiava dei diritti europei, e senza commettere un grave peccato, dato che nei Trattati c’era scritto anche che questi debbono comunque essere conformi alle legislazioni nazionali (peccato, sia detto fra parentesi, altrimenti noi italiani vi avremmo trovato il modo di far passare i nostri Dico, come infatti temeva Buttiglione); che, cancellata come priorità e principio costitutivo, la concorrenza sul libero mercato, resta come «mezzo», legittimato dai Trattati precedenti e dalla Carta di Nizza, che restano in vigore. Si dirà che non aver fatto del mercato un principio costituzionale dell’Unione (al punto che avremmo potuto gettare alle ortiche la nostra Costituzione) è una vittoria etica. E però non ci salverà dal neoliberismo estremo, mentre sapendo come vanno le cose, non sarei davvero certa che la nuova formulazione eviterà le misure protezioniste verso Cina e altri. Che è quanto Sarkozy, ma non solo lui, vorrebbe: nel concetto di competizione coesistono infatti due elementi contraddittori: per un verso il protezionismo miope, per un altro le direttive stampo Bolkenstein, mirate in nome della competitività, a stracciare i diritti sociali acquisiti.
Infine l’annosa questione della politica estera: non avremo un ministro degli esteri dell’Unione! Ma siete davvero certi che se lo avessimo avuto Blair non avrebbe fatto la guerra all’Iraq assieme a Bush? O, al contrario, che, se gli europei avessero davvero voluto impedirlo, non avrebbero esercitato la dovuta pressione perché quella carica non era prevista? Il problema Europa non è istituzionale, sta nella sua incapacità di rispondere a una domanda di senso: perché l’Europa, se è solo un pezzo, subalterno, di mercato globale?
Il premier critica la Gran Bretagna: "Concezione diversa dell’Europa"
Ma per il governo l’intesa ha salvato la "linea rossa" fissata dall’Italia
Prodi attacca i paesi euroscettici
"Hanno perso lo spirito europeo" *
BRUXELLES - Romano Prodi lascia Bruxelles all’alba di oggi, con la consapevolezza che l’Europa "esce più forte" dal passaggio del Consiglio europeo che ha trovato l’accordo sul nuovo trattato. Ma anche con il rammarico di non aver fatto di più. E infatti nel pomeriggio, da Bologna, attacca il gruppo degli euroscettici, che hanno rischiato di far fallire il vertice. E che comunque ne hanno condizionato l’esito: "Molti paesi hanno perduto lo spirito di lavoro comune, hanno perduto lo spirito europeo", commenta il premier.
Certo, a suo giudizio l’Italia è riuscita a salvaguardare "la linea rossa", al di sotto della quale il summit sarebbe diventato un fallimento. Ma in Prodi resta l’amarezza di aver dovuto fronteggiare un gruppetto di "frenatori", capeggiato dalla Gran Bretagna. Londra "ha portato avanti una concezione diversa di Europa, e questo va detto con chiarezza e onestà intellettuale", spiega il presidente del Consiglio. Affermando di non aver cambiato idea sull’allargamento ma anche di non poter più accettare che vengano frustrate "per troppo tempo le aspettative di quanti desiderano avanzare più velocemente in un determinato settore, formando una avanguardia di paesi".
Il Professore indica la sua ricetta: se necessario si può e si deve pensare ad una cooperazione rafforzata, ad una sorta di Europa a due velocità, per completare il processo istituzionale. "Questo sarà un punto su cui nei prossimi mesi ci impegneremo fortemente. E riteniamo importante che nel mandato ci siano indicazioni precise per procedere in questa direzione", rimarca indicando i punti irrinunciabili per l’Italia, tra cui la presidenza del Consiglio stabile, una figura istituzionale che rappresenti una unica voce dell’Europa sul piano internazionale, l’estensione del voto a maggioranza qualificata a nuove materie, una personalità giuridica unica.
Da qui a qualche settimana sarà aperta una conferenza intergovernativa ed in quella sede il nostro paese "farà valere le sue ragioni e la sua visione". Un concetto che viene confermato in pieno anche il vicepremier e ministro degli Esteri Massimo D’Alema: "Dal 2009, e non dal 2017, avremo istituzioni più forti" e l’Italia ha dato un contributo non irrilevante all’avvio di questo processo", chiosa auspicando la chiusura di un accordo per il nuovo trattato addirittura entro ottobre.
* la Repubblica, 23 giugno 2007
I leader dei Ventisette hanno raggiunto un’intesa sul mandato per la Conferenza intergovernativa che dovrà redigere il nuovo Trattato e riscrivere le regole per l’Unione Europea allargata
Ue, accordo dopo la maratona notturna
Dal 2017 voto a doppia maggioranza
Il cancelliere Merkel: "Abbiamo portato tutti e 27 gli Stati membri sulla stessa strada: tutti hanno dovuto accettare qualcosa o rinunciare a qualcosa" *
BRUXELLES - Dopo aver rischiato una clamorosa rottura, l’Europa ha trovato nel cuore della notte l’accordo sul Trattato che dovrà sostituire la Costituzione bocciata nel 2005 dai referendum in Francia e Olanda. far ripartire il processo di allargamento. "Abbiamo ottenuto un mandato chiaro per la conferenza intergovernativa. C’è una grande opportunità per avere un nuovo Trattato in vigore nel 2009", ha detto il cancelliere tedesco Angela Merkel, nella conferenza stampa tenuta dopo la chiusura del vertice.
"C’è stato bisogno di molta volontà e abbiamo fatto ricorso a molti compromessi, ma alla fine ciò che conta è che siamo riusciti ad uscire dall’impasse e a rilanciare il Trattato su basi nuove - ha aggiunto ancora Merkel - E lo abbiamo fatto portando tutti e 27 gli Stati membri sulla stessa strada: tutti hanno dovuto accettare qualcosa o rinunciare a qualcosa".
C’è voluta infatti una maratona negoziale protrattasi fino a notte fonda, ma i leader dei Ventisette hanno raggiunto un’intesa sul mandato negoziale per la Conferenza intergovernativa la quale nei prossimi mesi, sotto la Presidenza semestrale di turno portoghese, dovrà redigere il nuovo Trattato che riscrive le regole per l’Unione Europea allargata.
Il cancelliere Merkel era arrivata a minacciare di convocare la Cig a 26, senza la Polonia, se i gemelli Kaczynski avessero insistito nella loro opposizione. Un decisione che avrebbe avuto un solo precedente, nel Consiglio Europeo di Milano del 1985 che lanciò il negoziato sull’Atto Unico malgrado il no di Gran Bretagna, Grecia e Danimarca.
Alla fine a far quadrare i conti è stata un’ulteriore concessione alla Polonia, contraria al passaggio a un meccanismo di voto a doppia maggioranza, in base al quale le decisioni sono adottate dal Consiglio se c’è il sì del 55 per cento degli Stati membri e del 65 per cento della popolazione complessiva: il nuovo sistema non entrerà in vigore nel 2009, come inizialmente previsto, ma solo nel 2017, dopo un periodo di transizione a partire dal 2014.
Sono occorse quasi diciannove ore di febbrili trattative, condotte anche al telefono con il premier polacco Jaroslaw Kaczynski il quale seguiva da Varsavia l’andamento del negoziato condotto dal fratello gemello Lech, per trovare un’intesa che a un certo punto è stata rimessa in discussione dal fronte europeista: Italia, Belgio, Cipro, Malta, Lussemburgo, Ungheria; quest’ultimo lamentava le troppe aperture ai contestatori.
Anche le trattative con la Gran Bretagna sono state complesse. Il premier Tony Blair aveva posto quattro punti irrinunciabili, ma alla fine ne ha tenuto fermo solo uno, che è stato accolto nella stesura finale dell’accordo: una clausola che salvaguarda la Common Law, il sistema giuridico anglosassone che sotto molti aspetti differisce dagli ordinamenti dei Paesi continentali. "Sono consapevole che molti britannici ora sono euroscettici, ma questa era un’occasione per andare avanti anche per noi", ha commentato Blair nell’incontro finale con i giornalisti.
* la Repubblica, 23 giugno 2007
VERTICE UE, DURI NEGOZIATI PER CONVINCERE VARSAVIA E LONDRA
BRUXELLES - La seconda giornata del Vertice Ue si è aperta a Bruxelles "senza soluzioni" ed un accordo sul nuovo Trattato europeo, che deve definire principi e regole dell’Europa allargata a 27, appare non ancora a portata di mano. "Le delegazioni stanno lavorando intensamente, ma non ci sono ancora soluzioni", ha detto il cancelliere tedesco Angela Merkel, al suo arrivo al Consiglio. La presidenza presenterà nel pomeriggio - e solo quando avrà ragionevoli possibilità di successo - una nuova proposta di compromesso.
"Solo dopo il pranzo si comincerà a lavorare su una nuova versione di bozza di compromesso", ha riferito Markel. Stamattina è stato il momento degli incontri bilaterali. Merkel ha nuovamente visto il presidente polacco Lech Kaczynski, già incontrato in nottata, ma anche il premier inglese Tony Blair e i primi ministri di Olanda e Repubblica Ceca, che rappresentano i punti "complicati" ancora da risolvere.
La questione più spinosa resta quella del sistema di voto a doppia maggioranza, basato cioé sul 55% degli Stati e il 65% della popolazione, al quale la Polonia continua ad opporsi, chiedendo un sistema basato sulla radice quadrata della popolazione che le darebbe più potere. Per sbloccare l’impasse, il presidente francese Nicolas Sarkozy ha proposto a Kaczynski di valutare l’inserimento della ’clausola di Ioannina’, dal nome di una città greca dove è stata definita nel 1994 per la prima volta. La clausola consente ad un piccolo gruppo di paesi che arrivano a toccare la soglia di minoranza di blocco di chiedere il riesame della decisione presa a maggioranza qualificata. I polacchi da parte loro hanno presentato ai partner alcune "proposte di soluzione", che includerebbero garanzie supplementari, compresa la possibilità di mantenere fino al 2020 il sistema di voto in carica, deciso a Nizza nel 2000.
Tra gli altri punti più complicati, resta la questione della Carta dei diritti fondamentali. Il compromesso propone di inserire nel nuovo Trattato un riferimento per renderla "giuridicamente vincolante", ma la Gran Bretagna si oppone in quanto teme ricadute sulla propria legislazione del lavoro e sociale. Una soluzione potrebbe essere la clausola dell’opt-out, che consentirebbe alla Gran Bretagna di tirarsi fuori da questo vincolo. Nonostante le difficoltà ancora presenti, il premier Romano Prodi si è detto "fiducioso" sulla possibilità di un accordo.
* ANSA » 2007-06-22 13:21
Parla lo storico Thomas E. Woods jr.: «Sui media domina una leggenda nera sulla Chiesa "oscurantista". La realtà è l’opposto».
«Nessun storico crede davvero che la civiltà occidentale derivi solo da classicità, Rinascimento e Illuminismo». «L’idea di un universo ordinato secondo leggi naturali ben fisse è sorta nell’Occidente cattolico che vedeva nell’ordine di Dio un Suo segno».
Antiscientifica, nemica della libera espressione artistica, oscurantista in campo sociale e foriera di ogni lato buio della storia. A leggere con un certo disincanto un po’ di pubblicistica nostrana oppure orecchiando qualche salotto televisivo, parrebbe che alla Chiesa cattolica manchi soltanto la definizione storiografica per essere assurta allo status di "regime totalitario". A smontare tale stantio cliché populista con una panoramica storica a largo raggio è un giovane studioso americano, Thomas E. Woods jr., di cui in questi giorni Cantagalli pubblica: "Come la Chiesa cattolica ha costruito la civiltà occidentale". Da notare che Woods, senior fellow in Storia al Ludwig von Mises Institute, non sostiene solo che l’Occidente abbia radici cristiane, ma che proprio il cattolicesimo sia stata la linfa vitale che ha dato origine al grande albero della cultura e società occidentale così come oggi la conosciamo.
Professor Woods, perché ha deciso di scrivere questo libro?
«I docenti di Storia medievale o di Storia della scienza tendono ad essere più comprensibili sulle vicende della Chiesa rispetto a coloro che insegnano altre discipline, più portati a diffondere miti e leggende riguardo a quest’ultima. Il grande pubblico è stato istruito (a scuola e dai media) a credere ad ogni sorta di nonsenso sulla Chiesa. Questi miti sono stati confutati in libri di spessore accademico, ma la maggior parte della gente non li legge mai. Il mio testo attinge a queste opere e le rende accessibili al lettore medio».
Nella Costituzione dell’Unione europea non c’è menzione delle radici cristiane. Cosa pensa di tale scelta?
«Rigettare le radici cristiane dell’Europa è l’apice dell’assurdità. Nessun storico moderno prende seriamente in considerazione l’idea che la civiltà occidentale derivi esclusivamente dal mondo classico, dal Rinascimento e dall’Illuminismo, come se il cosiddetto Medio Evo non fosse altro che un periodo di stagnazione o repressione».
Nel suo libro lei argomenta che la Chiesa cattolica ha plasmato la civiltà occidentale e fa una serie di esempi: il sistema universitario, la tradizione artistica, il diritto internazionale,... Quale il contributo più importante?
«La vera storia della relazione tra la Chiesa e la scienza è senza dubbio il fatto di maggior rilevanza. Per lungo tempo la gente ha considerato assodato che la Chiesa sia stata un ostacolo allo sviluppo scientifico. I moderni studiosi di scienza - sia cattolici che non - respingono tale visione, purtroppo ancora insegnata ai nostri figli. Dubito che vi sia chi sappia che trentacinque crateri lunari si chiamano come altrettanti scienziati gesuiti oppure che fu un gesuita (Giambattista Riccioli) il primo a misurare l’accelerazione di un corpo in caduta libera. O, ancora, che fu un membro della Compagnia di Gesù - Francesco Maria Grimaldi - a scoprire il fenomeno della diffrazione della luce».
Perché la scienza è stata una conquista cattolica?
«Importanti aspetti della visione del cattolicesimo hanno aiutato ad assicurare il successo della scienza in Occidente. Il metodo scientifico non può funzionare senza che gli esperimenti siano ripetibili e ciò può avvenire solo se l’universo è ordinato. Se non posso aspettarmi di ottenere lo stesso risultato quando lo ripeto nelle medesime condizioni, ecco che diventa impossibile fare scienza. L’idea di un universo ordinato secondo leggi naturali ben fisse è sorta nell’Occidente cristiano perché l’ordine di Dio è stato considerato come un segno della Sua bontà. Sant’Anselmo non era il solo tra i teologi a distinguere tra la potentia assoluta di Dio e la sua potentia ordinata. In altre parole, sebbene Dio possieda il reale potere di governare l’universo in maniera capricciosa, Egli non ha voluto esercitare tale potestà dal momento ciò non era adatto alla Sua natura. La fiducia in una strutturazione dell’universo, congiunta al fatto di credere che esso possa essere compreso in via quantitativa (come afferma il Libro della Sapienza 11,21, uno dei versetti biblici più citati nel Medio Evo), ha creato il contesto intellettuale nel quale la scienza ha potuto nascere in Occidente».
Lo storico delle religioni Philip Jenkins sostiene che l’anticattolicesimo sia l’ultimo pregiudizio oggi accettabile. Perché ciò avviene?
«Alcuni intellettuali e celebrità occidentali odiano la Chiesa perché ne rimprovera gli immorali stili di vita. Altri credono al mito illuminista per cui tutte le forme di progresso provengono dai laicisti che hanno combattuto la Chiesa. Ai nostri giorni i cattolici sono considerati stupidi, superstiziosi e deboli perché hanno bisogno della loro gretta fede in Dio per confortare se stessi. L’idea che qualcuno possa supportare i principi cattolici e difenderli con argomenti filosofici è semplicemente ignorata. E ciò avviene nonostante esista una fruttuosa relazione tra fede e ragione lungo un vasto periodo della storia della Chiesa: Anselmo e Tommaso d’Aquino, ad esempio, hanno posto senza sosta domande filosofiche e teologiche, impegnando molto spesso la ragione per giungere alle loro conclusioni».
di Lorenzo Fazzini, da "Avvenire", 14 giugno 2007
Dittature dell’Est contro l’Europa
di Barbara Spinelli (La Stampa, 21.05.2007)
E’ importante quel che accade lungo la frontiera Est dell’Unione, nel momento in cui a Parigi c’è un nuovo Presidente che promette di metter fine all’inedia che affligge l’Europa dal 2005, quando la costituzione fu bocciata in Francia e Olanda. È una frontiera dove stanno mettendo radice nazionalismi autoritari, che avvalendosi del diritto di veto insidiano mortalmente il farsi dell’Europa e il suo guarire. Sarkozy e il ministro degli Esteri Kouchner dicono che Parigi cambierà politica, difendendo i diritti dell’uomo nel mondo e combattendo le dittature. Ma la vera battaglia inizia in casa, se davvero la si vuol fare: il male è dentro l’Europa, ed è letale e contagioso. Le periferie dell’Est sono le nostre marche di confine, da quando la comunità s’è allargata, e questa loro condizione - l’esser baluardi orientali dell’Unione, come la Germania occidentale nella guerra fredda - le rende determinanti in politica estera e militare. Sono i governi dell’Est a decidere come e se l’Europa comincia a negoziare con il retroterra russo. Sono loro a influire sui rapporti con Washington, a meno d’un tempestivo chiarimento.
Chi vive nel cuore dell’Unione ha meno preoccupazioni politiche e strategiche di chi presidia le frontiere: questo è il dato da cui conviene partire quando si esamina quel che succede a Varsavia, Bratislava, Budapest, Bucarest, nei Baltici. I governi dell’Est hanno utilizzato questa carta (l’acuta coscienza delle marche di confine) ma col tempo il ragionamento strategico è divenuto un pretesto per insediare nazionalismi intolleranti che con le regole e la storia dell’Unione sono incompatibili. Il bisogno d’America che essi esprimono - su Iraq, sullo scudo anti-missili Usa, su ulteriori allargamenti a Est auspicati da Washington - è un mezzo per impantanare l’Europa con tre armi: il nazionalismo, l’appello al cristianesimo, la politica dei valori.
Il caso Polonia è il più significativo, ma il suo esempio fa scuola attorno a sé. Da quando i gemelli Kaczynski sono al potere, dopo le legislative e presidenziali del settembre-ottobre 2005, Varsavia è precipitata in un nazionalismo prevaricatore e religioso. Quel che conta per i due fratelli (Lech presidente, Jaroslaw premier) è opporre la democrazia al liberalismo, non solo economico ma istituzionale e dei diritti cittadini. Solo due idoli contano per loro - la legittimità popolare, i Valori - e su essi nulla deve prevalere: né le norme né la Costituzione, né le istituzioni né la divisione dei poteri. Una dopo l’altra, le istituzioni indipendenti sono state politicamente asservite (Banca Centrale, Corte costituzionale,Vigilanza sull’audiovisivo). Uno svuotamento democratico accentuato dal regolamento dei conti con la generazione dissidente, che nell’89 liberalizzò economia e politica negoziando con i comunisti (un metodo rischioso, che garantì alle nomenclature impunità e oblio del passato). Il regolamento dei conti secerne oggi la più vendicativa delle epurazioni.
La legge entrata in vigore a marzo si propone di epurare ben 700 mila persone. Secondo i calcoli fatti da Aleksandr Smolar, presidente della Fondazione Batory a Varsavia (filiale della fondazione Soros), sono 3 milioni i cittadini messi in pericolo dalla lustrazione, se si includono le famiglie dei 700 mila. Ha fatto impressione la ribellione di Geremek, leader di Solidarnosc negli Anni 80 e ministro degli Esteri fra il ’97 e il 2000: il deputato europeo si è rifiutato di firmare un’umiliante dichiarazione in cui negava d’aver collaborato con i servizi comunisti. Ma tanti si son rifiutati, perché l’epurazione non minacciava di licenziamento solo politici o giudici (come la legge del ’97) ma studenti, professori, giornalisti. La Corte costituzionale ha invalidato la legge, l’11 maggio, affermando che i governi «non regnano sulla Costituzione» e i diritti individuali. Di fatto sono forme neo-fasciste che s’installano a Est.
Un neofascismo che usa la politica dei valori per imporre società chiuse, ostili alle diversità: per colpire chi difende gli omosessuali, chi avversa la pena di morte, chi si schiera per un’Europa che i Kaczynski considerano atea, permissiva, materialista, decadente moralmente. È in nome delle radici cristiane che i gemelli si ergono contro un’Unione sovrannazionale, e legittimano l’arbitrio nazionalista: chi in Europa occidentale inalbera bellicosamente i Valori, ha interesse a vedere quel che succede qui. I grandi nemici dei Kaczynski sono la Russia ma anche la Germania accusata di furia egemonica: le due nazioni sono messe sullo stesso piano, la battaglia per i diritti umani violati da Putin è contaminata. Ambedue le potenze si spartirebbero l’Europa centrale e minaccerebbero, come in passato, la sopravvivenza polacca. Paralizzata com’è, l’Europa di oggi non ha tuttavia strumenti d’intervento: né istituzionali né culturali. Non ha neppure volontà di capire. È tormentata dal falso dibattito sulle radici cristiane, non osa difendere una laicità vitale per la democrazia polacca. Fu vigilante nel 2000, quando Haider in Austria s’avvicinò al potere, ma quei tempi son tramontati e oggi, in una situazione ben più deteriore (un’estrema destra ai vertici del potere), impensabili. La vigilanza d’allora fu ingiustamente criticata, ritenuta inefficace. In realtà l’Unione influì grandemente su Vienna. Il cancelliere democristiano Schüssel fu abile, nell’assorbire Haider invece di demonizzarlo. Ma mai sarebbe riuscito nell’impresa, senza il vigile occhio esterno dell’Unione. Oggi l’occhio è cieco.
A bloccare l’Europa è la stasi istituzionale, ingovernabile da quando l’Unione è composta di 27 Stati: sulle decisioni cruciali occorre l’unanimità, e al veto gli orientali s’aggrappano rabbiosamente, perché il diritto di nuocere e interdire dà loro lo smalto di mini-potenze. Smalto fittizio, ma pur sempre smalto. Senza che l’Unione possa impedirlo, ci sono deputati polacchi nel Parlamento europeo che impunemente elogiano Franco (uno «statista cattolico eccezionale») o Salazar. Il deputato europeo Maciej Gyertich ha pubblicato un pamphlet antisemita, edito dal Parlamento europeo (Guerra delle civiltà in Europa: gli ebrei, «biologicamente differenti», avrebbero scelto volontariamente i ghetti). Maciej è padre di Roman Gyertich, il ministro dell’Educazione che vorrebbe escludere Darwin dall’insegnamento, che avversa gli omosessuali e appartiene alla Lega della Famiglie Polacche, una formazione che governa con i Kaczynski e l’estrema destra di Lepper (partito dell’Autodifesa).
La Carta dei Diritti potrebbe essere uno strumento europeo: ma non è vincolante senza approvazione della Costituzione. È sperabile che Kouchner si batta per non estrometterla dal mini-trattato che sarà presentato in Parlamento. L’Unione è inerme: ha contato molto durante la presidenza Prodi, quando Bruxelles impose una democrazia fondata sulla separazione dei poteri in cambio dell’adesione. Ma appena ottenuto l’ingresso, i dirigenti che l’avevano voluto sono caduti: a Varsavia, Praga, Budapest, Bucarest. Lo slogan s’è fatto nichilista: adesso che siamo entrati, tutto è permesso. Jacques Rupnik, storico della Cecoslovacchia, parla di sindrome da decompressione. «Ora possiamo far loro vedere chi siamo veramente», avrebbero detto i Kaczynski. Quasi nessuno di questi Paesi entrerebbe oggi nell’Unione: né la Polonia né l’Estonia, che critica non senza motivi Putin ma che smantella provocatoriamente monumenti ai morti dell’ultima guerra e vieta alle consistenti minoranze russe (40 per cento della popolazione) una cittadinanza che dovrebbe esser normale (lo stesso accade in Lettonia).
L’Europa ha oggi bisogno di istituzioni forti, ma per edificarle dovrà capire l’emergenza veto creatasi a Est. Ha bisogno di laicità, per arrestare le proprie derive autoritarie-religiose. Ha bisogno di trattare seriamente con Mosca, e di avere una politica energetica comune anziché molte politiche e sterili veti alla trattativa. Uno straordinario articolo di Piero Sinatti, sul Sole-24 Ore, spiega bene come la Polonia rischi, bloccando il negoziato euro-russo, d’impedire che una risoluta politica comune nasca. L’emergenza veto dovrebbe ricordare qualcosa ai polacchi. Quando introdusse il liberum veto, nel XVII secolo, la Polonia preparò la propria rovina: ogni deputato della Dieta poteva interrompere sessioni e decisioni con le parole «Non permetto». Nel secolo successivo sarebbe scomparsa dal continente. È grave che oggi Varsavia usi la stessa carta per far scomparire l’Europa, nell’illusione di salvarsi come finta nazione sovrana.
La proposta della presidenza in vista del vertice di giugno prevede meccanismi di sganciamento dai Trattati
Mediazione tedesca con gli inglesi per scongiurare la scissione
Europa a due corsie per salvare la Carta
Un possibile compromesso prevede una Costituzione più "snella"
Niente simboli e stralcio del preambolo, come chiedono Londra e Varsavia
di ANDREA BONANNI (la Repubblica, 16.05.2007)
BRUXELLES - Napolitano, Prodi e D’Alema lo vanno ripetendo da tempo: se non si trova un accordo sulla riforma dei Trattati, l’unica soluzione per sbloccare la paralisi europea sarà una Ue «a densità variabile», con un nucleo di Paesi più integrati che si lasciano indietro gli scettici o gli indecisi, come è già avvenuto per la moneta o per l’abolizione delle frontiere. Ma paradossalmente proprio questa potrebbe essere la soluzione che permetterà di trovare un accordo tra i Ventisette al prossimo vertice di giugno per ridisegnare l’architettura dell’Europa dopo la bocciatura dei referendum francese e olandese sulla Costituzione. In questa direzione, infatti, vanno le proposte che la presidenza tedesca della Ue ha messo ieri sul tavolo ad una prima riunione a porte chiuse con i rappresentanti dei capi di governo europei.
Anche se un’intesa appare ancora lontana, vediamo di capire qual è la linea di compromesso che Angela Merkel spera di far accettare ai suoi colleghi. Il progetto di una Costituzione europea, almeno di nome, viene abbandonato nonostante sia stato firmato da 27 governi e ratificato da 18 Paesi che rappresentano la gran maggioranza della popolazione dell’Ue. I governi euroscettici, come Gran Bretagna, Polonia e Repubblica Ceca, non ne vogliono sentir parlare. E anche olandesi e francesi, dopo le bocciature al referendum, preferiscono abbassare l’ambizione del nuovo Trattato. Il problema, dunque, è riuscire a sacrificare la forma salvando quanto più possibile la sostanza della Costituzione.
Tra i sacrifici formali che quasi tutti sono disposti ad accettare c’è anche l’abbandono dei simboli statuali, come l’inno e la bandiera, che resteranno in vigore ma non saranno iscritti nel nuovo Trattato. Per quanto riguarda la Carta dei diritti, il cui testo era ripreso integralmente nella parte seconda della Costituzione, essa verrà stralciata. I governi europeisti vogliono mantenere nel Trattato un riferimento che la renda vincolante. I britannici e gli altri si oppongono. La questione resta aperta.
Per il resto, i punti di maggiore attrito riguardano le richieste avanzate da Londra (e sostenute anche da Praga e Varsavia) ma considerate inaccettabili dall’Italia e dagli altri Paesi che hanno già ratificato. La Gran Bretagna vorrebbe mantenere il diritto di veto su un’ampia serie di decisioni per le quali la Costituzione prevedeva il voto a maggioranza. Per lo stesso motivo il Regno Unito si oppone alla riunificazione dei diversi processi decisionali in un quadro unico che conferisca personalità giuridica all’Unione europea, oltre che in campo economico, anche in politica estera e in materia di giustizia e affari interni. La Polonia, inoltre, insiste nel contestare il sistema di voto previsto dalla Costituzione e che rende l’influenza dei singoli stati più proporzionale alla loro popolazione effettiva. Oggi il governo polacco (come quello spagnolo) dispone di un potere nettamente superiore al peso demografico del paese, e non vuole rinunciare a questo privilegio.
Come uscire da questo vicolo cieco, visto che qualsiasi modifica dei Trattati deve essere adottata all’unanimità e dunque britannici, ceci e polacchi dispongono di una formidabile arma di ricatto per imporre le loro richieste minimaliste? La presidenza tedesca ha avanzato due idee.
La prima è quella di ridurre il nuovo Trattato al minimo indispensabile limitandolo a punti che raccolgono un consenso generale: riduzione del numero dei commissari e degli eurodeputati, istituzione di un presidente permanente del Consiglio e di un ministro degli Esteri europeo (anche se Londra vorrebbe declassarne la figura a sottosegretario). La parte più controversa ma anche più delicata, che riguarda le politiche e il sistema di voto con cui prendere le decisioni nei vari settori, sarebbe stralciata e inserita in un allegato che prevede una serie di emendamenti ai Trattati già esistenti. Questo espediente potrebbe consentire a numerosi governi (ma non a tutti) di evitare di sottoporre la ratifica a referendum popolare. Anche così, però, non si verrebbe a capo delle obiezioni di quanti vogliono mantenere il diritto di veto.
E qui la soluzione avanzata dai tedeschi, proprio tenendo in considerazione le preoccupazioni britanniche, è quella di mantenere nella sostanza l’impianto della Costituzione (voto a maggioranza e unificazione delle varie politiche sotto il medesimo ombrello giuridico), ma offrendo agli euroscettici la possibilità di «opt-out», cioè di chiamarsi fuori dalle decisioni che non si sentono di condividere. Londra lo ha già fatto per quanto riguarda l’euro e l’unificazione delle frontiere. Potrebbe farlo in futuro anche in settori che riguardano, per esempio, la legge penale e l’immigrazione.
In sostanza, agli euroscettici si chiede di non impedire ai Paesi che lo vogliono di proseguire nell’integrazione adottando decisioni a maggioranza in una serie di nuovi settori. In cambio, si offre loro il diritto di non farsi vincolare da scelte che essi ritengono incompatibili con l’esercizio della sovranità nazionale.
Comunque vada a finire, dunque, il futuro appartiene ad una Europa a densità variabile. Il problema è di capire se essa vedrà la luce con il consenso di tutti, accettando il compromesso tedesco. O se invece nascerà come il risultato di una crisi ancora più dolorosa e di una scissione che, a quel punto, apparirebbe inevitabile.
UN PAPA FUORI DALLA STORIA
Marco d’Eramo (il manifesto, 25.03.2007)
Benedetto XVI sarà ricordato come un papa disperato. Ogni sua parola è ispirata da una visione cupa, quasi wagneriana, del mondo in cui gli è toccato vivere e regnare: della modernità nulla salva. Per l’universo della tecnica nutre un’avversione tomistico-heideggeriana e - grazie alla tecnologia della comunicazione di massa - non cessa di denunciare il nichilismo della tecnologia. La contemporaneità gli appare un deserto dei sentimenti e dei valori il cui relativismo lo angoscia.
L’ultimo esempio di tanta, infinita disperazione ci viene dal discorso che ha tenuto ieri mattina ai vescovi europei: dimentica dei valori cristiani, l’Europa rischierebbe «l’apostasia da se stessa, prima che da Dio». Apostasia è parola grossa, drammatica, almeno dall’imperatore Giuliano. Evoca un harakiri morale. Qui però esprime solo un antico vizio sillogistico: se l’essenza dell’Europa è la sua cristianità, quando l’Europa smette di essere cristiana, cessa di essere Europa, proprio come se tutti gli umani sono bipedi, e Socrate è umano, allora Socrate è bipede.
Per il pontefice, il moderno è la via al suicidio, persino fisico, della civiltà occidentale: «sotto il profilo della demografia» infatti l’Europa si avvierebbe «a prendere congedo dalla storia». Fa tenerezza che a predirci il nostro lungo addio dalla storia sia chi presiede una religione in picchiata da 40 anni: oggi va a messa meno del 30% degli italiani, dell’8% dei francesi, del 6% degli inglesi. A leggere i numeri delle iscrizioni ai seminari, sembra che a prendere congedo dalla storia sia il clero cattolico, non l’Europa relativista.
Più che emulare Francis Fukuyama (che negli anni ’90 teorizzò la «fine della storia»), Benedetto XVI sembra perciò vittima della sindrome delle Termopili: si vede come moderno Leonida, ultimo baluardo contro il relativismo etico.
Tanta disperazione a volte lo acceca. Non si accorge che a sgominare la Chiesa cattolica in Sudamerica non è il materialismo, ma sono le sette evangeliche: a sotterrare il dio cattolico sono altri dei, non l’ateismo. Che si tratti di Islam, di fecondazione assistita o di Dico, la cupezza della sua disperazione gli fa affrontare ogni battaglia come Fort Alamo.
Così il pontefice si chiude in una vera e propria «febbre identitaria»: il timore parossistico di smarrire l’identità, la difesa a tutti i costi dell’identità (cristiana). Ma dove passa la retorica identitaria, non cresce più un filo di tolleranza, e resta solo un paesaggio di macerie, di fondamentalismi etnici, religiosi: insomma un bello scontro di civiltà. Già la curia comincia a dubitare dell’opportunità strategica di un tale pessimismo: se la situazione è così disperata, la battaglia non è forse già perduta? Non rischia Leonida-Benedetto di inabissarci con lui?
Certo, molti cardinali rimpiangono oggi la frettolosa decisione del 19 aprile 2005, quando assursero Joseph Ratzinger al soglio di Pietro. Dostoevski ce l’aveva detto che la disperazione è luciferina, diabolica.
Senato, discorso del premier in occasione del cinquantenario. "Portiamo a termine il processo entro le elezioni europee del 2009"
Trattati, Prodi rilancia la Ue.
"Facciamo ripartire l’Europa"
Il capo dello Stato Giorgio Napolitano: "Riforme istituzionali". Il cancelliere tedesco Merkel: "Sì all’esercito comune"
ROMA - "Vogliamo portare a compimento il più grande esperimento di pace e democrazia del mondo contemporaneo. Senza cercare soluzioni al ribasso". Così Romano Prodi ha aperto, nell’aula del Senato, la cerimonia celebrativa del cinquantesimo anniversario dei Trattati di Roma. "I cittadini europei hanno capito che l’Europa potrebbe venire meno" ha continuato Prodi. Che ha rilanciato la necessità di portare a compimento la strada che porta ad un’Europa unita. E di farlo prima delle elezioni europee del 2009 perché "sarebbe impensabile votare senza aver prima costruito un quadro istituzionale chiaro e funzionale".
"Vogliamo un’ Europa forte, efficiente, adatta ad affrontare le sfide globali - ha insistito Prodi - Perché di fronte al mondo che cambia l’Europa non è più una scelta ma una necessità, un imperativo". Ma oltre al tempo ci sono altri due elementi che il presidente del Consiglio ha sottolineato: i giovani e il metodo "che ci ha consentito di conciliare le esigenze nazionali di ciascuno di noi con le ambizioni di un grande progetto europeo".
Una breve dichiarazione, ha concluso Prodi, "per mostrare che c’è la volontà di portare a compimento il più grande esperimento di pace, democrazia e prosperità del mondo contemporaneo".
Dopo Prodi ha preso la parola il presidente della Commissione Europea Josè Manuel Durao Barroso che ha sottolineato come "questa occasione serva per guardare avanti ed ispirare i cittadini con una nuova visione europea". Barroso, inoltre, ha individuato nella promozione della libertà e dello stato di diritto e nella promozione dei valori al di là delle sue frontiere, la doppia missione dell’Europa.
E sulla necessità di un’Europa che ha bisogno di "urgenti riforme istituzionali" ha insistito anche il capo dello Stato Giorgio Napolitano che ha lanciato un al Consiglio Europeo di giugno perché "faccia uscire l’Unione dall’impasse istituzionale e non rimetta in discussione l’equilibrio raggiunto col testo del 2004". Napolitano ha inoltre definito "imperiosa" la necessità per l’Europa di una forte unione politica ed ha chiesto "una più robusta costruzione politica e istituzionale".
E sulla necessità di "riprendere il cammino" è tornato anche l’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi: "Non è pensabile che i cittadini europei che nel 2009 si recheranno alle urne per eleggere il Parlamento europeo, non sappiamo quale sia il quadro istituzionale in cui i loro rappresentanti si muoveranno".
In apertura di seduta, invece, il presidente del Senato Franco Marini aveva ricordato quella "piccola Europa" nata 50 anni fa in Campidoglio, che oggi è diventata "una grande Europa" con "un continente quasi del tutto unificato".
Merkel: "Un esercito comune". "Sono favorevole alla creazione di un esercito comune europeo in cui la Commissione avra’ piu’ margine di manovra, con delle responsabilità definite chiaramente’’ dice il cancelliere conservatore tedesco in un’intervista al quotidiano Bild. ’
* la Repubblica, 23 marzo 2007
Prodi al vertice di Berlino: "L’Ue è l’antidoto ai mali europei"
Nuove regole entro il 2009"
BERLINO - "L’Unione europea è tante cose insieme. Talmente tante che è difficile spiegarle tutte. Per me, oggi, a cinquant’anni dai suoi natali a Roma, l’Unione europea rappresenta soprattutto l’antidoto ai mali d’Europa, ai nostri mali. Il riscatto e lo slancio d’orgoglio di un continente che nella prima metà del secolo scorso è stato sul punto di suicidarsi". Così Romano Prodi nel suo intervento alle celebrazioni dei cinquant’anni dalla firma dei Trattati di Roma.
Quanto al futuro, alla necessità di uscire dall’impasse, il presidente del Consiglio ha affermato: "L’Europa ha bisogno di ritrovare un poco della sua follia creativa. Per convincersi che il mondo può essere cambiato, reso migliore, che non ci si debba accontentare si prenderselo così com’è. Per completare il suo progetto di pace e prosperità: il più grande, il più nuovo e il più visionario del mondo contemporaneo". E "per continuare a costruire - ha proseguito Prodi - servono nuove regole. Ma senza ripartire da zero. Perché il Trattato firmato a Roma nell’ottobre 2004 costituisce una base solidissima su cui edificare il nostro nuovo patto fondamentale. Un testo firmato da 27 capi di Stato e ratificato da 18 paesi. E queste nuove regole servono subito. In ogni caso entro il 2009, cioè prima della prossime elezioni europee".
* la Repubblica, 25-03-2007
L’Europa dei 27 riparte da Berlino
I capi di stato e di governo firmano la dichiarazione solenne. La Merkel:" L’obiettivo è la nuova Costituzione entro il 2009". Polemica sulle radici cristiane
Prodi: "L’Unione è un progetto da prendere o lasciare, dobbiamo andare avanti senza mezze misure". E a sera parte la festa.
L’Europa riparte da Berlino
"La nuova Carta entro il 2009"
La Merkel accelera: a giugno la conferenza sulla Costituzione
di ANDREA TARQUINI (la Repubblica, 26.03.2007)
BERLINO - Guidata da una donna, l’Europa riparte da Berlino. Una nuova conferenza intergovernativa dovrà trattare e decidere il futuro della Costituzione europea e dell’integrazione politica Ue.
Con una sfida che accresce ancora il suo prestigio, la Cancelliera Angela Merkel ha chiuso ieri il solenne vertice dei 27 leader della Ue. L’appuntamento celebrativo dei 50 anni dei Trattati di Roma è diventato verifica politica. Comincia così lo scontro finale tra gli europeisti e chi vorrebbe l’Europa ridotta al minimo. Sarà necessario prendersi delle responsabilità, ha sottolineato Romano Prodi: «l’Europa non può andare avanti con "ni" e mezze misure, è un progetto, da prendere o lasciare». L’Europa a due velocità - ieri spartiacque tra economie più e meno stabili - dopo Berlino potrà rinascere come confine tra chi vuole l’Europa politica forte nel mondo e chi la rifiuta.
Il giorno più lungo di Angela Merkel e degli altri leader europei, sotto uno splendido sole primaverile, è cominciato nel mattino, con la cerimonia al Deutsches historisches Museum a lato del viale Unter den Linden sullo sfondo suggestivo dell’antico centro prussiano della città. Dopo aver ascoltato l’Inno alla gioia dalla Nona di Beethoven, i 27 hanno presentato insieme la Dichiarazione di Berlino. Quel testo cioè proposto dalla Cancelliera e osteggiato dal governo ceco in nome di tutti gli euroscettici, in cui si ricorda mezzo secolo di successi e si incita ad andare avanti. Senza parlare di Costituzione, concetto troppo sgradito a molti. In piena forma, elegante giacca arancio e pantaloni neri, la Merkel ha pronunciato un discorso a momenti toccante. «Io crebbi nella parte est di questa città. Quando i trattati furono firmati avevo tre anni, e sette quando fu costruito il Muro che divise anche la mia famiglia. Non credevo che avrei mai potuto vedere l’Occidente prima della pensione. Le mie strade, la mia vita allora finivano a pochi metri da qui. Ma poi il Muro è caduto: ecco la lezione, niente deve per forza restare com’è».
Rilanciare l’Europa con coraggio, essere orgogliosi delle molteplicità e differenze tra tedeschi disciplinati, francesi gran pensatori, italiani splendidamente eleganti, è il nuovo compito, ha continuato la Cancelliera. Non dimenticando da quali secoli di guerre e odio nacque il sogno dei padri fondatori. Non è stato poi facile, per la donna in giacca arancio, negoziare a colazione con tanti signori euroscettici, con l’appoggio di pochi amici fidati, Prodi in testa. Erano le 14,30, pranzo finito, quando con appena un po’ di sollievo "Angie" è corsa alla conferenza stampa conclusiva.
«Esistono sentimento e volontà comuni», ha esordito, «per concordare al vertice di giugno (alla fine del semestre di presidenza tedesco, ndr) una road map per arrivare, prima delle elezioni del 2009 per il nuovo Parlamento europeo, a un nuovo accordo e assetto sulla Costituzione. Se falliremo, sarà un fiasco storico. Se ci divideremo, l’Europa inciamperà e deraglierà prima di quanto non pensiamo». Nei prossimi mesi si lavorerà duro, ha spiegato ancora. In incontri riservati e segreti, non in litigi pubblici. «Se non avessero fatto così i padri fondatori, ai Trattati di Roma non si sarebbe mai arrivati».
La road map di Merkel è chiara: accordo entro giugno per una conferenza intergovernativa, per salvare l’essenziale della Costituzione. Conclusione rapida, se possibile entro il semestre portoghese cioè fino a fine 2007. La bordata di critiche degli euroscettici è venuta subito: «Un accordo a così breve termine è un obiettivo irrealistico», ha detto il presidente nazionalpopulista polacco, Leck Kaczynski. Scettico si è mostrato il premier ceco Topolanek. E l’olandese Balkenende ha rincarato la dose: «Allo stesso concetto di Costituzione europea sono poco affezionato».
Il vertice è finito, il nuovo scontro è aperto. Dei valori cristiani, nonostante la richiesta del Papa, la Costituzione dovrebbe continuare a non parlare. «Io sarei a favore, ma esistono anche tradizioni laiche di separazione tra Chiesa e Stato». Il summit ha chiuso i battenti, e l’allegra Berlino in piazza ha festeggiato l’Europa. Oltre mezzo milione di persone, tra giovani e famiglie, hanno ballato e bevuto in centro, al suono della musica di Joe Cocker. In un’Europa che si prepara a contarsi tra favorevoli e contrari, ieri nella bella capitale di "Angie" i dimostranti neocomunisti anti-Ue erano sì e no mille, poche persone rispetto alla folla in festa.
Avviso agli euroscettici: "Serve un’Europa che parli una voce sola e con strumenti adeguati, anche militari". Il Presidente della Repubblica ha parlato a Riga dove si è riunito il Club degli Otto
Napolitano: "Ue condannata senza riforme"
L’Italia "minaccia" il voto a maggioranza
La necessità di riforme concrete prima del voto del 2009. Fondamentale, a giugno, il Consiglio d’Europa *
RIGA - Guai agli euroscettici. Guai a chi tentenna. Il presidente Giorgio Napolitano, totalmente eurocentrico, fa la voce grossa nel gelo di Riga davanti al club "Uniti per l’Europa", i presidenti degli otto paesi europei che il 15 luglio 2005 si unirono in un cartello per "rifare slancio e spirito costruttivo all’Europa" andata alle corde con i no di Francia e Olanda.
"Tutti devono saperlo", avverte Napolitano parlando agli altri soci del’esclusivo club "Uniti per l’Europa". Nessuno pensi che il rilancio dell’integrazione passi per il varo di un nuovo Trattato Costituzionale, sostanzialmente edulcorato rispetto a quello bocciato dai referendum di Francia ed Olanda. Dovesse imporsi quest’idea si aprirebbe un vaso di Pandora con "trattative dai risultati e dai tempi imprevedibili", ed allora "i paesi che hanno ratificato quel trattato tornerebbero necessariamente a sollecitare riforme più ambiziose". Tra loro l’Italia, che ha pronta una carta che riaprirebbe molti giochi: il voto a maggioranza per ogni tipo di decisione. Quasi una minaccia sventolata non tanto davanti ai presenti bensì ai diciassette paesi membri che non sono presenti ma che devono sentirsi "avvisati".
Catapultato dall’estiva Pasqua napoletana al freddo e alla neve di Riga, Napolitano sfrutta questa riunione intermedia tra Berlino e il Consiglio Ue per mettere le cose in chiaro. "La crisi dell’Europa - dice - è una crisi della politica, della progettualità e di leadership". Per superarla serve "più partecipazione democratica". Serve un colpo d’ali perchè senza l’Europa non riuscirà ad avanzare nè economicamente, nè politicamente. "Lo dimostra lo scarto tra gli obiettivi della Strategia di Lisbona ed i risultati insufficienti effettivamente raggiunti", spiega, "lo conferma lo stentato cammino verso una politica europea dell’immigrazione. Lo prova i fatto che, ogni volta che l’Europa ha dovuto affrontare nuovi compiti, si è reso necessario riformare le istituzioni ed estendere il voto a maggioranza".
Così avvenne nel lontano 1986 per l’Atto Unico, così dovrà avvenire ora che "il resto del mondo ha bisogno di più Europa". Una Unione "che parli con una sola voce sul piano internazionale e che abbia strumenti adeguati, anche militari, per contribuire a garantire sicurezza e stabilità fuori dai propri confini, quando ciò venga richiesto dalla comunità internazionale".
Napolitano ritiene che senza le riforme previste dal Trattato Costituzionale del 2004, in particolare senza il voto a maggioranza, la Ue rischia di non sopravvivere: va incontro alla paralisi e all’irrilevanza sul piano internazionale.
Proprio le mancate riforme costituiscono il punto di debolezza dell’Europa di oggi. Esiste il "rischio di una Europa paralizzata dall’unanimità" che potrebbe col tempo "perdere in progettualità e competitività". Rischi "ancora più pressanti in una Europa più larga". Allora è bene accettare il rilancio della Costituzione così com’ è. Se qualcuno avesse voglia di renderla innocua con una ulteriore trattativa potrebbe trovarsi di fronte a sorprese:richieste ancora più corpose e il voto a maggioranza.
* la Rerpubblica, 10 aprile 2007
Se l’Europa diventa piccola piccola
di Romano Prodi *
Il rinnovato slancio che Nicolas Sarkozy ha inteso dare al processo europeo con le sue prime dichiarazioni da Presidente della Repubblica fa molto piacere all’Italia e a me personalmente. Perché l’Europa, senza la Francia, non sarebbe Europa. E quindi, senza la Francia, non la possiamo completare.
Il 25 marzo, mentre l’Europa celebrava i suoi cinquant’anni, assieme ai capi di governo degli altri 26 paesi che ne fanno parte ci siamo impegnati a far ripartire il processo di integrazione dopo la pausa di riflessione imposta dai no francese e olandese. La Dichiarazione solenne adottata a Berlino ci impegna tutti a dotare l’Europa di nuove regole entro il 2009, cioè prima delle prossime elezioni europee. È un risultato importante, per il quale l’Italia si è molto battuta, che dobbiamo accogliere con soddisfazione.
L’Europa ha fatto moltissimo per i suoi cittadini. L’abbattimento delle frontiere ci permette di muoverci liberamente. L’Euro ha rafforzato le nostre economie anche nei confronti del resto del mondo. I nostri giovani, grazie a programmi come l’Erasmus possono affrontare la vita con strumenti migliori di quelli delle generazioni precedenti. Un mercato interno più grande ha aumentato le potenzialità per le imprese europee desiderose di crescere e competere. Senza dimenticare la pacificazione e la riunificazione del continente dopo le stagioni dei totalitarismi e dei muri. L’Italia, che a questi sviluppi ha contribuito con uomini e idee, ha ricevuto a sua volta molto dall’Europa: industrializzazione, crescita, sviluppo del territorio, stabilizzazione finanziaria, aumento della qualità della vita per milioni di cittadini...
L’Europa ha già fatto tanto, ma le resta ancora molto da fare. Una missione su tutte: adeguarsi al mondo che cambia per essere essa stessa motore del cambiamento. Oggi ci troviamo di fronte a una doppia sfida: da una parte le minacce globali del terrorismo, della proliferazione nucleare, delle pandemie e dei cambiamenti climatici; dall’altra la competizione, anch’essa globale, in un mondo sempre più condizionato da grandi aggregati emergenti come Cina, India e Brasile (le tappe delle mie principali missioni all’estero in questo primo anno di governo). La dimensione di tali sfide è tale che nessun paese europeo, da solo, potrà farvi fronte efficacemente. Ormai lo vado ripetendo da tempo. E non è retorica, è un dato di fatto.
Lo dimostrano l’Afghanistan, l’Iraq, l’Iran e il Medio Oriente dove ogni giorno che passa si conferma l’inadeguatezza di iniziative unilaterali... Lo dimostrano le graduatorie sulle più grandi multinazionali, sui centri di eccellenza o sulle migliori università del pianeta: quasi sempre asiatiche o americane, ovvero espressione di realtà in grado di fare massa critica, di adeguarsi a un mondo che evolve inesorabilmente verso un sistema di continenti.
L’Europa è dunque davanti a un bivio: continuare sulla strada dell’integrazione oppure assistere impotente alla progressiva rinazionalizzazione delle politiche? Che tradotto vuol dire: tentare di dire la propria sulle cose del mondo, cercare di migliorarlo, oppure auto-condannarsi all’irrilevanza? Il rischio di rigurgiti nazionalisti è forte. Basta guardarsi intorno. Basta osservare le insofferenze per l’idea di Europa, le critiche populiste nei confronti delle sue istituzioni, la pretesa che essa debba agire in una logica di mera supplenza, la tendenza a scaricare su Bruxelles la responsabilità per qualsiasi fallimento nazionale.
La realtà è che senza Europa saremmo tutti più poveri, più esposti e più deboli. E che invece con un’Europa attrezzata a far fronte alle nuove sfide globali possiamo essere tutti più forti e sicuri. Ecco perché dopo la Dichiarazione di Berlino è venuto il momento di passare all’azione, di tradurre in pratica gli impegni che abbiamo assunto. Gli elettori europei devono sapere come sarà composto il Parlamento europeo per cui saranno chiamati a votare nel 2009. Quali saranno i suoi poteri. E quale sarà la composizione della Commissione. Se vi sarà o meno un Presidente stabile del Consiglio europeo e un Ministro degli Esteri europeo, qualunque sia il titolo che gli verrà dato. Negli ultimi mesi si è spesso parlato di «Europa dei risultati», quasi in opposizione alla necessità di rafforzamento istituzionale dell’Europa. Voglio dire con franchezza che non condivido questo approccio. Io auspico e mi batto per istituzioni più efficaci perché voglio più risultati.
In questi giorni stiamo intensificando il lavoro con la Presidenza tedesca. Mi sono appena recato a Lisbona per consultare i portoghesi che assumeranno la guida dell’Unione Europea dal primo luglio. Nei giorni scorsi, subito dopo la sua elezione, abbiamo convenuto con Sarkozy che ci saremmo incontrati presto. L’obiettivo è quello di uscire dalla riunione dei Capi di Governo della UE di giugno già con un percorso chiaro per le riforme. Un percorso chiaro sotto il profilo dei tempi, dei contenuti e del metodo di lavoro. Il punto di partenza, l’ho detto più volte, è il Trattato di Roma dell’ottobre del 2004, firmato dai 27 paesi membri e ratificato da 18. Penso agli aspetti istituzionali, al rafforzamento della politica estera e di sicurezza comune, a una presidenza del Consiglio più stabile, all’estensione del voto a maggioranza qualificata, questo si, strumento indispensabile per un’Europa dei risultati, non più paralizzata dai diritti di veto.
Sento dire da più parti che si dovrebbe «decostituzionalizzare» il trattato del 2004. Si parla di testi ridotti all’essenziale. Noi non ne faremo una questione formale. Perché il nostro essere europeisti non può ridursi al nome che diamo alle cose che facciamo. Per noi conterà la sostanza, come è sempre stato. Per questo dico che se da un lato occorre riaprire un numero limitato di punti, dall’altro bisognerà essere consapevoli dei reali margini di manovra su ciascuno di essi. Non bisogna cioè dimenticare che i compromessi sin qui raggiunti sono stati frutto di un negoziato duro e doloroso. E che già rappresentano punti di equilibrio delicati. Noi non siamo quindi disposti a sottoscrivere qualsiasi compromesso, a rincorrere minimi comuni denominatori a ogni costo. Per noi le ragioni dei cittadini dei paesi che hanno già ratificato il Trattato del 2004 devono valere almeno quanto quelle dei cittadini dei paesi che non lo hanno fatto.
L’Europa, se non va avanti va indietro, perché ferma non può stare. Questo mi hanno insegnato gli anni passati a lavorare per il progetto europeo. Dirò di più: non andare avanti, e quindi tornare indietro, ha un costo. Ed è questo costo della non Europa che va spiegato a chi esita. A chi pensa che al mondo d’oggi sia ancora possibile vivere in pace e in prosperità senza far parte di un grande aggregato politico ed economico. L’Italia poi, per le sue credenziali europee ed europeiste, ha forse in questa fase un dovere in più. Quello di pensare per tempo alle soluzioni in grado di superare eventuali stalli durante il negoziato dei prossimi mesi. Noi faremo ogni sforzo per arrivare a una soluzione condivisa e sono certo che ci riusciremo. Ma occorrerà che i leader politici europei dicano chiaramente alle proprie opinioni pubbliche che la scelta, questa volta, è essere dentro o fuori l’Europa. Perché restare in Europa è una scelta. Una scelta di condivisione in cui l’interesse nazionale è - e deve essere - temperato dall’interesse di tutti gli altri paesi. Che solidarietà non è soltanto una parola astratta. Che in un disegno più europeo e più grande occorre che ognuno faccia la propria parte, senza egoismi.
Credo in altre parole che per completare la costruzione dell’Europa non si debba per forza procedere tutti insieme, alla stessa velocità. Mi augurerei che fosse così, ma mi rendo conto che non sarà sempre possibile. D’altra parte alcune delle scelte politiche più significative dell’Europa, come l’Euro e la creazione dello spazio Schengen, sono state realizzate soltanto da alcuni stati membri. Non contro qualcuno, non escludendo gli altri. Tenendo la porta aperta. Ed è stata una scelta rispettata da quanti non si sono sentiti ancora pronti ad andare in quella direzione. Ecco, io auspico che anche in futuro prevalga sempre questa volontà di costruire. E che abbia la meglio su ogni tentazione di veto.
Perché in questo momento lungimiranza non significa solo disegnare scenari ambiziosi per il futuro della costruzione europea. Significa anche porsi il problema di permettere ai popoli che lo desiderino di realizzare le loro ambizioni di unità nei tempi e nei modi a essi più congeniali.
Questo articolo viene pubblicato in contemporanea dal quotidiano francese «Le Figaro»
* l’Unità, Pubblicato il: 10.05.07, Modificato il: 10.05.07 alle ore 11.57
LA FEDE DEI POPOLI
Dall’Università Europea di Roma laurea honoris causa in giurisprudenza al porporato che ha tenuto una «Lectio magistralis» sulla Santa Sede nel quadro istituzionale del vecchio continente
Sodano: l’Europa non trascuri le sue radici
Dal cardinale il richiamo al ruolo del cristiani nell’edificare la casa comune e l’invito a «lavorare nel solco tracciato dal Papa per un futuro di rinnovata speranza»
Da Roma Mimmo Muolo (Avvenire, 06.06.2007)
«L’Europa non è solo una geografia. È anche una storia, una cultura, un’eredità di valori condivisi». Perciò deve ascoltare l’appello di Benedetto XVI. Non si può pensare, infatti, «di edificare un’autentica casa comune» a livello continentale, «trascurando l’identità dei popoli» che la compongono. Un’identità che «il cristianesimo ha contribuito a forgiare», acquisendo così «un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti del continente». Il neodottore in giurisprudenza, cardinale Angelo Sodano, termina così la sua lezione magistrale, subito dopo aver ricevuto dall’Università Europea di Roma la laurea ad honorem nelle scienze giuridiche, la prima conferita dall’Ateneo fondato nel 2005. E il lungo applauso della platea - composta da cardinali, vescovi, docenti universitari, studenti e seminaristi dell’Ateneo promosso dalla Congregazione dei Legionari di Cristo - fa intendere che l’auspicio conclusivo del discorso («Se ci impegneremo a lavorare nel solco tracciato dal Papa, potremo guardare al futuro con rinnovata speranza») è ampiamente condiviso.
Il solenne atto accademico si svolge in una cornice festosa, scandita da alcuni brani di musica e dai discorsi ufficiali. Il rettore dell’Università Europea, padre Paolo Scarafoni, legge il messaggio inviato, a nome del Papa, dal cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Vi si ricordano i «lunghi anni di generoso e competente servizio alla Sede Apostolica» e gli «interventi di alto profilo anche nell’ambito del diritto internazionale» del cardinale già segretario di Stato e ora decano del collegio cardinalizio. «Il riconoscimento che a lui viene attribuito - ricorda, dunque, il messaggio - è un gesto di gratitudine per la dedizione con cui Sodano ha servito la Chiesa». Infine i «fervidi rallegramenti» del Pontefice «a chi gli è stato prezioso primo collaboratore» (ai quali Bertone aggiunge i propri) concludono il telegramma che si può considerare un condensato delle motivazioni della laurea ad honorem.
Quelle ufficiali, lette dal coordinatore della Facoltà di giurisprudenza, Giuseppe Valditara, ricordano che Sodano ha «ripristinato l’istituto della mediazione, inteso in senso giuridico, specialmente per la realizzazione dell’accordo di pace tra Cile e Argentina, firmato a Roma, presso la Santa Sede come ente sovrano»; che ha contribuito «a concludere a nome della Santa Sede, alcuni concordati e ad aggiornarne altri»; che l’ex segretario di Stato «è intervenuto presso le organizzazioni internazionali (come l’Onu) per la promozione e l’affermazione del diritto umanitario in tempo di guerra, per il diritto di famiglia e per i diritti dei bambini»; e infine che «ha seguito con particolare interesse, a nome della Santa Sede, l’evoluzione del Consiglio d’Europa, dell’Unione Europea e dell’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa)».
La grande esperienza di Sodano nell’ambito del diritto internazionale viene sottolineata anche da Cesare Mirabelli (docente del corso di laurea in Giurisprudenza), che pronuncia la «laudatio». Il giurista ne ricostruisce la personalità e l’opera, la inquadra sullo scenario più vasto di una famiglia da sempre attenta ai problemi del sociale (il padre del cardinale, Giovanni Sodano, fu deputato per tre legislature) e soprattutto la mette in rapporto con l’incessante e preziosa attività diplomatica vaticana.
Un’attività alla quale non può non fare riferimento lo stesso porporato nella sua lectio magistralis su La Santa Sede nel quadro istituzionale europeo («ho avuto la gioia di vedere stabiliti rapporti diplomatici ufficiali tra la Santa Sede e 20 stati europei»). Ma il suo sguardo è anche proiettato sul futuro. Dopo la «delusione per il mancato riconoscimento nel Trattato costituzionale delle radici cristiane del nostro continente» (soprattutto a causa della «ideologia laicista di alcuni politici»), la prossima presidenza portoghese dell’Unione «cercherà un possibile rimedio, proponend o un nuovo testo del Trattato», afferma. «È innegabile - conclude infatti - che il processo di integrazione tra stati omogenei europei ha bisogno di essere perfezionato». E la Santa Sede «confida nella saggezza dei Legislatori, chiamati a riconoscere i dati inconfutabili della storia europea».