Lo stemma cardinalizio del Patriarca di Venezia |
Spiacevole episodio a Venezia
Giocando sulle parole non si fa ecumenismo
di FEDERICA AMBROSINI *
«DIO, Padre di noi tutti (...) noi ti preghiamo: affretta l’ora in cui tutte le chiese si riconosceranno nell’unica comunione da te voluta e per la quale il tuo Figlio ti ha pregato nella potenza dello Spirito Santo». Questa, secondo il testo distribuito ai presenti (e redatto da un gruppo di cattolici), la preghiera di intercessione prevista per l’incontro ecumenico di preghiera ospitato nella basilica veneziana di San Marco venerdì 19 gennaio, nell’ambito della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Sorpresa: nel leggere ad alta voce il testo della preghiera, il patriarca Angelo Scola sopprime di propria iniziativa il termine «chiese» per sostituirlo con «comunità ecclesiali». Per evitare, ovviamente, un implicito riconoscimento della dignità di «chiese» anche alle «comunità» nate dalla Riforma protestante.
L’episodio ha suscitato sconcerto e amarezza in molti tra i cristiani, cattolici compresi, riuniti per l’occasione nella basilica marciana. Se, infatti, la puntualizzazione del patriarca appare ineccepibile dal punto di vista dell’ecclesiologia cattolica, è pur vero che, nella sua pluridecennale tradizione, l’ecumenismo veneziano si era sempre distinto - anche e forse soprattutto da parte cattolica - per la carica veramente profetica che animava i suoi testimoni, e che trovava riscontro anche in una prassi lessicale improntata a rispetto reciproco. In ossequio a una delle norme basilari del dialogo ecumenico, si evitava di etichettare l’interlocutore secondo i propri preconcetti. Fino a un recentissimo passato, insomma, la puntigliosa quanto gretta - e, per gli evangelici, francamente offensiva - distinzione chiese/comunità ecclesiali sarebbe stata inconcepibile, soprattutto in un incontro di preghiera, nel mondo ecumenico veneziano: il primo in Italia, tra l’altro, ad avere promosso l’istituzione di un Consiglio locale delle chiese cristiane (delle chiese, si noti, non delle comunità ecclesiali).
Sarà naturalmente questo Consiglio a riflettere sull’accaduto nello spirito di un sincero desiderio di chiarezza, non di sterile polemica. È importante, tuttavia, evitare che l’incidente venga ridotto alla stregua di una semplice violazione del galateo ecumenico. Episodi come questo altro non fanno che confermare l’irrilevanza, a livello nazionale, delle nostre chiese. Una irrilevanza già più volte segnalata e deplorata sulle pagine di Riforma (si veda, per quanto riguarda l’informazione televisiva, il recente articolo di Paolo Naso nel n. 5 del settimanale), ma sulla quale dobbiamo interrogarci in modo più radicale di quanto abbiamo fatto finora.
La nostra invisibilità in Italia non può essere attribuita sempre e soltanto agli «altri»: a una radicata tradizione culturale, all’invadenza della chiesa cattolica, alla pigrizia e alla distrazione dei mezzi di comunicazione. Siamo noi stessi a renderci irrilevanti e invisibili, appagandoci della nostra stanca routine quotidiana. Stiamo fermi: il che, nella situazione attuale, equivale a condannarci a morte. Sarebbe ora che cominciassimo a dare qualche segno di vita. Questo non significa darci a un attivismo sfrenato nella speranza di conquistarci qualche brandello di spazio e un minimo di visibilità. Significa impegnarci a fondo, senza improvvisazioni, senza frenesie, ma con calma tenacia, per farci conoscere per ciò che siamo: cercando di dissipare almeno in parte l’enorme ignoranza che tuttora avvolge, in Italia, tutto ciò che ha a che fare con il mondo della Riforma. Proponendo un modo di essere cristiani diverso sotto molti e importanti aspetti, pur condividendone i presupposti fondamentali, da quello cattolico. Portando chiarezza, ed esigendo chiarezza.
Questo obiettivo si può realizzare in molti modi, a seconda delle situazioni locali. Venezia, in particolare, continua a configurarsi come un laboratorio privilegiato sotto questo aspetto. L’impronta agguerrita e manageriale che il patriarca Scola ha impresso all’istituzione cattolica veneziana rappresenta una sfida da raccogliere con competenza e determinazione. All’interlocutore evangelico si richiedono solidità culturale, fermezza e insieme costante apertura al dialogo, inventiva (soprattutto sul piano ecumenico, creando occasioni di incontro e collaborazione al di là delle scadenze obbligate). E capacità di accoglienza. Quando usiamo questa espressione siamo soliti riferirci ai problemi connessi agli immigrati; ma questo ci porta a trascurare i tanti italiani «in ricerca», che potrebbero trovare la risposta alle loro necessità spirituali nelle nostre chiese, se solo esse si mostrassero più attente, più sensibili, più pronte all’ascolto. Soprattutto, più credenti: credenti nella realtà di quanto viene annunciato dai pulpiti tutte le domeniche. Dotate di maggiore carica spirituale. Di maggiore coerenza cristiana.
Il presente articolo è tratto da Riforma - SETTIMANALE DELLE CHIESE EVANGELICHE BATTISTE, METODISTE, VALDESI Anno 143 - numero 12 - 23 Marzo 2007. Ringraziamo la redazione di Riforma (per contatti: www.riforma.it) per averci messo a disposizione questo testo
* IL DIALOGO, Giovedì, 22 marzo 2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RISUS PASCHALIS - VERSO LA PENTECOSTE CON LA GIOIA DELLA RESURREZIONE
L’allegria della vita e della mente
di Elmar Salman (L’Osservatore Romano. 19 aprile 2021
«La mente si nutre soltanto di ciò che la rallegra», scrive Agostino. La mente può essere tante cose: acuta, tagliente, speculativa, vispa, teorica o pratica, empatica o analitica, stupida ed intelligente. Ma di cosa si nutre? Cosa la fa intuire, comprendere, accogliere la realtà di sé, dell’altro, di un pezzo di questo mondo? Forse solo ciò che la convince, conforta, che allarga i suoi orizzonti, che la fa respirare. In un tale clima rinascono e risorgono sia il soggetto che quella briciola del cosmo che viene illuminata da esso. È un momento di gioia, che può creare un habitus, un’allegria o letizia o serenità nell’intimo dell’uomo.
L’allegria è il titolo della prima raccolta di poesie di Giuseppe Ungaretti, di quella catena aurea, di quel rosario doloroso e gioioso di opere che marca le stagioni della Vita di un uomo: Il porto sepolto, Sentimento del tempo, Il Dolore (Giorno per giorno), Il taccuino del vecchio, La terra Promessa - col cantico di una piccola e potente risurrezione: Per sempre. Vi si conserva e rinnova il tono fresco, immediato, laconico e coinvolgente dei suoi esordi, di quelle splendide poesie che si devono alla illuminazione di un attimo e che da parte loro fanno brillare la sorte degli uomini, perfino nella stagione della Prima guerra mondiale. Una letizia malgrado tutto.
E Gesù, conosceva lui l’allegria della mente, il sorriso raggiante, ironico, irenico, confortante? La sua vita è impensabile senza la gioia dei pranzi condivisi, dell’ospitalità, della vicinanza sorprendente ai malati e depressi per via della sua gratia elevans, senza l’umorismo nascosto, leggiadro e leggero del Discorso sulla Montagna, dove fa passare in rassegna gli uccelli, i gigli, i capelli, i passeri, i pagani, la regina di Saba, solo per stuzzicare l’esperienza della libertà vangelica, per allargare i suoi spazi di manovra e di letizia. O prendiamo la domanda di Giovanni 8: «Chi di voi è senza peccato...»: non lo dice con tono perentorio, smascherante, cinico, ma forse con un lieve sorriso, sapiente, triste e confortante che rispecchia la verità della condizione umana, condividendola.
Nel vangelo come messaggio lieto ritroviamo il clima che Ungaretti sa cogliere nella poesia “Senza più peso”: «Per un Iddio che rida come un bimbo,/ Tanti gridi di passeri,/ Tante danze nei rami,/ Un’anima si fa senza più peso,/ I prati hanno una tale tenerezza,/ Tale pudore negli occhi rivive,/ La mani come foglie/ s’incantano nell’aria.../ Chi teme più, chi giudica?».
Un piccolo canto della risurrezione, che, forse, invera la promessa che Italo Calvino esprime all’inizio delle sue Lezioni americane: l’opera della poesia sarebbe quello di togliere i falsi pesi alla realtà.
E se questo fosse anche l’operazione più intima e “graziosa” della religione?
STORIA #ANTROPOLOGIA #CATTOLICESIMO E "#DISAGIO DELLA #CIVILTA" (S. #FREUD, 1929): #DANTE2021.
DIVINA COMMEDIA. #Remi Brague - ricorda #Elmar #Salmann (nella sua intervista*) «ne "Il futuro dell’Occidente" auspica un ritorno alla #Romanitas» .... ma della sollecitazione di #Dante Alighieri (e di Immanuel #Kant) di aprire il discorso su "quella #Roma onde #Cristo è romano" (Pd., XXXII, 102) ancora non se ne parla. Forse, è bene #ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di #KarlBrandi che, a conclusione della sua "lettura" della figura di "#CarloV" (1935), rievoca (con queste parole) la figura del "gran cancelliere #Mercurino di #Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di #Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità"; e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante".
Legge speciale: i fondi andarono al Marcianum
di ENRICO TANTUCCI 20 Luglio 2014 *
«La fine del Marcianum creato dal cardinale Scola fa affiorare un retroscena del 2008: la Regione governata da Galan dirottò, per quel progetto, 50 milioni di fondi della Legge speciale originariamente destinati al disinquinamento della laguna». La Nuova Venezia, 20 luglio 2014 (m.p.r.) *
Venezia. E’ saltato come un castello di carte, sotto i contraccolpi politici e istituzionali dell’inchiesta sui fondi deviati per il Mose, l’ambizioso progetto della Fondazione Studium Generale Marcianum che l’allora Patriarca di Venezia (dal 2002 al 2011) e ora arcivescovo di Milano Angelo Scola aveva edificato in pochi anni, dalla fine del 2007, con l’appoggio determinante della Regione guidata allora da Giancarlo Galan e l’appoggio strategico di aziende come il Consorzio Venezia Nuova, il cui presidente di allora Giovanni Mazzacurati fu dall’inizio anche presidente del Consiglio di amministrazione.
La decisione obbligata presa ora dal nuovo Patriarca di Venezia Francesco Moraglia di “smantellarlo”, chiudendo - dopo quello che era già avvenuto per il polo scolastico delle medie e del liceo - anche la Facoltà di Diritto Canonico, l’Istituto Superiore di Scienze Religiose e il Convitto Internazionale, facendone solo un istituto di ricerca, è la fine della “creatura” di Scola. E non a caso il nuovo Patriarca -con un’evidente chiamata di corresponsabilità nei confronti del suo predecessore per la situazione che gli ha lasciato in eredità- si è recato a Milano, come ha tenuto a far sapere, per chiedere al cardinale se volesse lui, e a sue spese , “salvare” il Marcianum, ricevendone ovviamente un rifiuto.
E se, come ha sottolineato in questi giorni lo stesso Scola, i fondi erogati dalla Regione e dalle imprese a favore del Patriarcato per il Marcianum sono stati regolarmente approvati da quelle istituzioni, è però nel clima dell’uso improprio dei fondi per la salvaguardia di Venezia che il polo culturale ecclesiastico in laguna si è fondato ed è poi affondato. Lo dicono le cronache, visto che la Regione decise anni fa di sottrarre per la prima volta 50 milioni di euro di fondi della Legge Speciale per il disinquinamento della laguna, di cui è chiamata a occuparsi, per destinarli appunto tutti al Patriarcato di Scola, per il restauro del Palazzo Patriarcale di Piazzetta dei Leoncini, per quello della Basilica della Salute e soprattutto per la ristrutturazione del Seminario Patriarcale della Salute, destinato a ospitare il Marcianum, trasformato in un complesso polifunzionale con una foresteria da 70 camere con bagno, destinate agli ospiti del polo universitario.
Più che un restauro, una nuova destinazione del complesso, con spazi anche di ristoro, sale multimediali, biblioteca, spazi espositivi e sale congressi. Anche l’intervento per il Palazzo della Curia, più che a un restauro in senso stretto, rispose a una filosofia di modernizzazione di tutto l’edificio, prevedendo anche qui una foresteria, uffici e nuove sale di accoglienza. Di fronte alle polemiche per l’uso “improprio” di quei fondi girati al Patriarcato, Galan non fece una piega. «È la dimostrazione» dichiarò, «che la Regione non si occupa solo del Mose, ma ha a cuore anche la salvaguardia monumentale della città». E la Regione -socio fondatore dell’istituzione- con lui, non lasciò più solo il Marcianum voluto da Scola, anche per la «realpolitik» del cardinale nel mondo del cattolicesimo e delle comunità mediorientali, aggregate intorno alla rivista «Oasis» nel nome del suo celebre slogan del “meticciato di civiltà”.
\Con un provvedimento del 2008, infatti, Palazzo Balbi decide subito di stanziare 250 mila euro all’anno, dal 2009 al 2011 per il sostegno delle attività del Marcianum, prelevandole dal capitolo destinato alla formazione professionale. Finanziamenti per il funzionamento del Marcianum furono assicurati annualmente anche dal Consorzio Venezia Nuova e dalle altre aziende che hanno accompagnato la nascita del polo. Fino alla partenza di Scola per Milano. Il sistema istituzionale e imprenditoriale creato intorno al Marcianum dall’attuale arcivescovo di Milano che ne aveva consentito l’ambiziosa creazione e lo sviluppo si è di fatto dissolto con l’uscita di scena di Galan - il grande “alleato” - e con il suo addio a Venezia. Un polo culturale crollato, perché - come ha detto ora Moraglia - non poteva «dipendere a doppio filo dagli sponsor». Pubblici o privati.
* EDDYBURG: http://www.eddyburg.it/2014/07/legge-speciale-i-fondi-andarono-al.html
False accuse alla laicità
di Eric Noffke, pastore valdese
in “NEV” (Notizie Evangeliche) del 12 dicembre 2012
Per fortuna il discorso del cardinale Scola, pronunciato a Milano in occasione della festa di Sant’Ambrogio, ha suscitato un coro di sdegno: diverse riposte, puntuali ed intelligenti, sono arrivate da alcune delle voci più autorevoli del panorama intellettuale italiano.
Giustamente si è visto nelle parole dell’arcivescovo di Milano un ennesimo attacco all’idea di laicità e un inquietante auspicio a tornare al confessionalismo di Stato; il suo riferimento ad un presunto modello americano (che, è stato fatto notare correttamente, in quei termini oggi non esiste neanche più) sembra più uno specchietto per le allodole che una proposta seria.
In realtà, in prossimità della campagna elettorale Scola ha voluto mandare ai milanesi tutti, a cominciare dal loro sindaco, il chiaro messaggio che le cose, nell’arcidiocesi di Milano, sono cambiate.
Non che avessimo molti dubbi in proposito, ma un discorso come questo ci ripropone la domanda se una certa gerarchia cattolica voglia davvero porsi come interlocutore in un dialogo pubblico o se non abbia piuttosto ragione Paolo Naso quando, sul sito della Chiesa Valdese, parla di “guerra fredda”. In tal caso dobbiamo leggere le parole di Scola come una chiamata alle armi contro lo Stato laico; d’altra parte tutto il lavoro di Comunione e Liberazione non esprime proprio questo progetto? Che la direzione sia questa ce lo dice prima di tutto il riferimento a Costatino, proprio in apertura del discorso di Scola.
Invece di essere magistra vitae, la storia diventa piuttosto un’arma da guerra e altro non potrebbe essere la fuorviante immagine di Costantino eletto a patrono della libertà religiosa. È vero, il suo editto del 313 ha posto la parola fine alle persecuzioni dei cristiani, i quali saranno stati felici di poter professare la loro fede senza la paura di rischiare la vita. Esso, però, è stato il preludio delle persecuzioni degli eretici i quali, tra l’altro, con la loro stessa esistenza accusavano prima l’imperatore, poi il papa re di un uso politicamente e ideologicamente strumentale del cristianesimo. Per non parlare, come giustamente ci fa notare Vito Mancuso su Repubblica, della messa al bando dei culti pagani, ben presto a loro volta oggetto di condanne e vessazioni.
Di Costantino e della svolta che impresse alla storia del cristianesimo ci sarà tempo per parlare nel corso dell’anno in maniera storicamente più argomentata e seria. Vederlo evocato in un atto di accusa alla laicità, però, richiama echi inquietanti di tempi che vorremmo lasciarci alle spalle.
Dal cesaropapismo allo stato pontificio, la storia è piena dei pessimi esiti della commistione tra Stato e Chiesa. Ad ogni modo, proprio la storia è uno dei campi in cui si combatterà questa guerra, fredda o calda che sia, contro la laicità.
C’è poi un secondo punto che mi pare importante evidenziare: quali sono le fazioni opposte in questo confronto? Se da una parte, infatti, sta una maggioranza della gerarchia cattolica, con le sue spade affilate puntate contro lo schieramento laico e la sua cultura presunta secolarizzata, dove si collocano gli altri?
E soprattutto, il mondo evangelico italiano da che parte sta? Quanti, nelle nostre chiese, sono tentati dal frutto polposo, ma avvelenato, della battaglia cattolica per i valori “non negoziabili” in campo etico? Naturalmente è un’illusione immaginare che il mondo evangelico possa assumere una posizione comune; ma non sarebbe una cattiva idea quella di evitare pericolose neutralità o scomode strumentalizzazioni.
Siamo davvero appiattiti sull’alternativa tra una laicità alla francese o all’americana, quando nel nostro paese non abbiamo avuto né la Riforma protestante né la rivoluzione francese? Credo che sarebbe il caso di chiarirci le idee in qualche modo, magari proprio partendo dal diciassettesimo centenario dell’editto di Costantino.
Oggi più che mai, dunque, è necessario affermare che le accuse di Scola alla laicità sono false, soprattutto in Italia. Bisogna opporsi con forza a chi, come lui, cerca di riproporre, neanche tanto sotto mentite spoglie, una religione intesa come soffocante cappa liberticida, collaudata macchina di controllo delle coscienze, tesa alla difesa di ben precisi interessi di parte. Ma non basta: dobbiamo pure agire per offrire al nostro paese una reale alternativa evangelica, nel pensiero e nelle opere. (nev-notizie evangeliche 50/12)
Il cardinale Scola e i Fratelli Musulmani
di Alessandro Esposito (MicroMega, 10 dicembre 2012)
Con l’auspicato passo indietro del presidente egiziano Morsi, che ha deciso di revocare il decreto mediante il quale si auto-conferiva poteri assoluti, i nodi nevralgici che stanno alla base del conflitto che oppone i Fratelli Musulmani allo schieramento laico rappresentato dal Fronte di Salvezza Nazionale non vengono in alcun modo sciolti. Difatti il referendum sulla nuova Costituzione, previsto per sabato 15 dicembre, non è stato sospeso: la bozza costituzionale, approvata nell’arco di una seduta fiume dell’Assemblea Costituente durata ben 16 ore, demanda all’università islamica di Al Ahzar, massima autorità dell’islam sunnita, «la decisione di interpretare, senza appello, i princìpi della shahrìa (le leggi coraniche) da applicare».[1]
Il rischio, dunque, che la tanto sospirata primavera araba venga in tal modo soffocata sul nascere è reale e imminente: e ciò persino in un Paese come l’Egitto che, anche sotto il regime di Mubarak, si era comunque contraddistinto a motivo dei suoi ordinamenti improntati alla laicità.
Sebbene ad alcuni l’analogia parrà fuori luogo, nei suoi contenuti fondamentali il discorso tenuto dal cardinale Angelo Scola in occasione della tradizionale apertura dell’anno ambrosiano non si discosta dalle richieste inoltrate al presidente Morsi dalla Fratellanza Musulmana, volte alla tutela del diritto religioso da parte della Costituzione.
Con un’impostazione degna del più retrivo dei sistemi medievali di stampo tomista, completamente indifferente ai progressi del dibattito filosofico e teologico seguito all’illuminismo e ai risultati derivanti dalla ormai centenaria ricerca storicoesegetica, il noto porporato auspica il ritorno ad un sistema legislativo che contenga il «riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute (...) come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte».[2]
Il quadro interpretativo di riferimento è fornito dall’editto di Milano del 313, attraverso il quale l’imperatore romano Costantino sancì la liceità della religione cristiana che poco più avanti, con l’editto di Tessalonica promulgato dall’imperatore Teodosio, diventerà religione ufficiale dell’impero, dichiarando al contempo illecite le tradizioni religiose non cristiane e definendo persino come crimine pubblicamente perseguibile l’eresia ariana.[3]
Questa, infatti, sembra essere la nozione di libertà religiosa (rigorosamente intesa come la propria libertà) propugnata dal cattolicesimo intransigente: un’accezione in cui, come ricorda opportunamente Vito Mancuso, non è in alcun modo contemplata «la libertà di altri».[4] La Costituzione, in tal modo, dovrebbe rivestire la funzione di ancilla fidei che Tommaso d’Aquino riconosceva alla filosofia e abdicare al suo ruolo di tutela della libertà religiosa garantita dal principio inamovibile di laicità dello Stato.
L’insistenza vaticana concerne «l’importanza e l’utilità della dimensione pubblica della fede»[5] e si concentra, nelle parole del cardinale, su una critica del modello legislativo francese che, a suo giudizio, determina il fatto che «lo stato cosiddetto “neutrale”, lungi dall’essere tale, fa propria una specifica cultura, quella secolarista, che attraverso la legislazione diviene cultura dominante e finisce per esercitare un potere negativo nei confronti di altre identità, soprattutto quelle religiose, presenti nelle società civili, tendendo ad emarginarle».[6] Nessun accenno al fatto che tutte le conquiste delle moderne democrazie siano attribuibili proprio alla tanto deprecata secolarizzazione e non certo al controllo delle coscienze che le gerarchie vaticane vorrebbero continuare ad esercitare, con l’auspicio di vederlo persino sancito dalla carta costituzionale.
L’avvicendamento nella sede episcopale che fu prima quella del cardinal Martini e poi di Dionigi Tettamanzi, ambedue espressione di un cattolicesimo progressista figlio del Concilio Vaticano II, la dice lunga sul giro di vite che da Oltretevere si intende dare rispetto alle aperture della diocesi milanese: il diktat è quello improntato al desiderio di restaurazione che è sotteso alla politica vaticana portata avanti sotto gli ultimi due pontificati, ispirata alla demonizzazione di tutte le istanze laiche messa in atto dall’impostazione illiberale propria del Sillabo.
Ecco perché sempre più lontano appare l’orizzonte delineato dal filosofo e psicologo Umberto Galimberti, nel quale «l’uomo potrà avviarsi là dove è già da sempre chiamato e da cui recalcitra ogni volta che, valutando le cose a partire dalla propria fede, risolve l’Aperto nel chiuso delle sue valutazioni (...) in quel recinto dove non c’è più traccia né frammento di avvenire. Ma per incamminarsi alla ricerca di quella via occorre retrocedere da tutte le etiche religiose e dal loro integralismo».[7] Non si offenda il cardinale Scola se queste, assai più delle sue, sono parole di fronte alle quali sento di poter dire davvero: amen.
Alessandro Esposito (10 dicembre 2012)
[1] Tratto dall’articolo di Bernardo Valli: La Costituzione che divide l’Egitto, apparso sulle colonne
de La Repubblica di venerdì 7 dicembre 2012.
[2] Il testo integrale del discorso del cardinale Scola si può consultare sull’eccellente rassegna
stampa curata dai responsabili del sito: www.finesetimana.org.
[3] Per una disamina di questo «secolo breve» che determinò l’involuzione del cristianesimo in
senso istituzionale e dogmatico, si veda il recente e documentatissimo studio del professor Giovanni
Filoramo: La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Laterza, Roma, 2011
[4] Vito Mancuso: Scola, lo Stato laico e la libertà religiosa, apparso sulle colonne del quotidiano
La Repubblica di venerdì 7 dicembre.
[5] Tratto dal discorso del cardinale Scola: L’Editto di Milano: initium libertatis, del 6 dicembre
2012, consultabile sulla rassegna stampa curata dai responsabili del sito: www.finesettimana.org.
[6] Ibidem
[7] Tratto da: Umberto Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, Milano,
2012, pag. 87.
Il cardinale Scola nuovo arcivescovo di Milano
Teologo e rettore, lascia il Patriarcato di Venezia. Prende il posto di Dionigi Tettamanzi *
12:51 - Benedetto XVI ha nominato il cardinale Angelo Scola nuovo arcivescovo di Milano. Scola, fino a oggi Patriarca di Venezia, prende il posto del cardinale Dionigi Tettamanzi, che ha guidato la diocesi del capoluogo lombardo dal 2002. Il nuovo arcivescovo, 70 anni, è un teologo ed è stato anche rettore della Pontificia università lateranense a Roma. "Ho accolto questa decisione del Papa, perché è il Papa", sono state le sue prime parole.
"Voi comprenderete quanto la notizia, che mi è stata comunicata solo qualche giorno fa, trovi il mio cuore ancora oggi in un certo travaglio. Lasciare Venezia dopo quasi dieci anni domanda sacrificio. D’altro canto la Chiesa di Milano è la mia Chiesa madre. In essa sono nato e sono stato simultaneamente svezzato alla vita e alla fede". Questo il primo messaggio del nuovo arcivescovo di Milano, il cardinale Angelo Scola.
"L’obbedienza è l’appiglio sicuro per la serena certezza di questo passo a cui sono chiamato - continua il cardinale Scola -. Attraverso il papa Benedetto XVI l’obbedienza mia e vostra è a Cristo Gesù. Per lui e solo per lui io sono mandato a voi. E comunicare la bellezza, la verità e la bontà di Gesù risorto è l’unico scopo dell’esistenza della Chiesa e del ministero dei suoi pastori".
Il suo predecessore, cardinale Dionigi Tettamanzi, arrivò anche lui a Milano già cardinale dopo un breve episcopato a Genova. Lascia dopo 9 anni per ragioni di età e diventerà amministratore apostolico della diocesi ambrosiana fino al momento dell’ingresso di Scola, che avverrà con molta probabilità nella seconda metà di settembre.
Tettamanzi: "Lascio testimone a un confratello carissimo"
Mentre le campane del Duomo suonavano a festa, l’arcivescovo di Milano, dopo aver ringraziato il Papa per i due anni di proroga nell’incarico, che gli hanno consentito di portare a compimento molte opere, ha salutato il suo successore. "Ora - ha detto - con serenità di cuore e con spirito di fede che so condivisi dall’intera comunità diocesana, sono lieto di trasmettere il testimone della guida pastorale di questa splendida chiesa al carissimo confratello cardinale Angelo Scola"
* TGCOM, 28.6.2011:
http://www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/1013941/il-cardinale-scola-nuovo-arcivescovo-di-milano.shtml
“Per la Chiesa ambrosiana sarà un trauma. Se davvero Angelo Scola sarà scelto come prossimo arcivescovo di Milano, sulla diocesi più grande del mondo, l’arcidiocesi di Giovanni Battista Montini e di Carlo Maria Martini, piomberà un macigno. Non riesco a crederlo possibile: sarebbe, anche per il clero ambrosiano, uno strappo culturale e pastorale lancinante”.
Chi manifesta queste preoccupazioni, a condizione di aver garantito l’anonimato, è un personaggio che ha avuto un ruolo nella storia della diocesi di Milano. Con lui, sono molti i preti e i laici impegnati nelle strutture ecclesiali che sono seriamente allarmati per il possibile arrivo di monsignor Scola nella curia di piazza Fontana. Sarebbe la grande rivincita: fu cacciato dalla diocesi di Milano nel 1970, tanto che dovette andare a farsi ordinare sacerdote a Teramo, e ora tornerebbe nella Chiesa di Ambrogio da trionfatore. L’attuale arcivescovo, Dionigi Tettamanzi, a settembre si ritirerà in pensione. Il candidato favorito a sostituirlo è il patriarca di Venezia Angelo Scola, che gode della fiducia di papa Benedetto XVI.
Angelo Scola nasce a Malgrate, non distante da Lecco, nel 1941. Maturità al liceo classico Manzoni di Lecco, poi laurea in filosofia all’Università Cattolica di Milano. Intanto però Angelo ha fatto l’incontro che gli cambia la vita: quello con “il Gius”, don Luigi Giussani, il fondatore di Comunione e liberazione. Decide, adulto, di diventare prete. Entra nel seminario diocesano milanese: un anno a Saronno, poi a Venegono, dove si compiono gli studi teologici. Ma alla vigilia dell’ordinazione, il rettore Attilio Nicora decide di “fermare” il giovane Scola.
Il seminario milanese ha una tradizione antica e prestigiosa, che risale a San Carlo Borromeo: non può tollerare che alcuni seminaristi vivano tra i chiostri silenziosi di Venegono come fossero un corpo separato, senza riconoscere davvero l’autorità dei superiori, dei professori, dei teologi, del padre spirituale, perché hanno i loro maestri, i loro superiori, i loro teologi, i loro padri spirituali. Monsignor Nicora spiega ai ciellini che non possono usare il seminario ambrosiano come fosse un taxi. Così viene bloccato Angelo Scola, ma hanno qualche difficoltà anche Massimo Camisasca, Luigi Negri, Marco Barbetta, altri pupilli di “don Gius” che obbediscono a lui e solo a lui.
Cl s’incarica di trovare altre strade per far diventare prete Scola e anche gli altri faranno poi comunque carriera nella Chiesa. Il ventinovenne Angelo di Malgrate viene ordinato sacerdote il 18 luglio 1970 dal vescovo di Teramo, monsignor Abele Conigli, e poi parte per Friburgo, dove completa gli studi di teologia. Come gli altri preti ciellini vive in una sorta di extraterritorialità, fuori dalla diocesi, tanto che nel 1976, quando partecipa al primo convegno ecclesiale organizzato dalla Cei su “Evangelizzazione e promozione umana”, nel programma viene indicato come proveniente da Caserta.
Per capire la sua espulsione di fatto dal seminario maggiore ambrosiano, bisogna ricordare che cosa stava succedendo in quegli anni a Milano. Il gruppo di Giussani aveva occupato il settore giovanile dell’Azione cattolica ambrosiana, con grande imbarazzo del presidente, Livio Zambrini. Negli anni Sessanta, “il Gius” conquista Gioventù studentesca, “movimento d’ambiente” dell’Azione cattolica nelle scuole, trasformandola nel nucleo da cui nasce prima Undicesima ora, poi Comunione e liberazione. Con sapiente “entrismo”, colonizza il Settore giovani dell’Azione cattolica ambrosiana, ai cui vertici impone i ciellini Massimo Camisasca e Piera Bagattini. Angelo Scola era intanto diventato presidente della Fuci, l’organizzazione degli universitari cattolici. La campagna di conquista s’interrompe nel 1972.
L’assistente diocesano di Azione cattolica, don Antonio Barone, fiancheggiato dai giovani don Giovanni Giudici e don Erminio De Scalzi, va dal cardinale arcivescovo, monsignor Giovanni Colombo, e fa presente che la situazione non è più tollerabile. Si è insediata a Milano una Chiesa “parallela”, che risponde non al vescovo e ai preti e laici che hanno cariche formali, ma soltanto alla gerarchia invisibile di don Giussani. Il cardinale, dopo qualche tentennamento, interviene. Camisasca e Bagattini sono costretti a dare le dimissioni, sostituiti da Giorgio Vecchio e Antonietta Carniel. Ma “Don Gius” e i suoi non si danno per vinti. Spostano la guerra a Roma. Ottenendo importanti riconoscimenti prima da Giovanni Paolo II e ora da papa Ratzinger. Una sorte beffarda ha già voluto che Scola diventasse cardinale nel concistoro del 21 ottobre 2003, lo stesso che ha concesso la porpora anche ad Attilio Nicora, il rettore che lo cacciò da Milano. Ora, se arriverà nella diocesi ambrosiana come arcivescovo, la sua rivincita sarà completa.
* IL FATTO QUOTIDIANO, 19.06.2011
http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/06/19/scola-a-milanola-rivincita-del-vescovo-di-cl/119964/
TEOLOGIA POLITICA CATTILOCO-COSTANTINIANA E LINGUAGGIO BIFORCUTO: LA NECESSITA’ E L’URGENZA DI CAMBIARE REGISTRO E METTERSI SULLA STRADA DELLA "CHARITAS" NON DI MAMMONA ("CARITAS") E DI MAMMASANTISSIMA. Note di premessa:
FINE DEL CATTOLICESIMO E DELLA CASTA ATEA E DEVOTA VATICANA. (Federico La Sala)
RIPENSARE L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO E LA DEMOCRAZIA, A PARTIRE DALLA LEGGE DELLA UGUAGLIANZA ("LEY DE IGUALDAD") DEL GOVERNO DI ZAPATERO ...
CON LA SPAGNA DI "PUERTA DEL SOL", PER LA DEMOCRAZIA "REALE", SUBITO: RIPRENDERE IL FILO SPEZZATO DELL’UMANESIMO RINASCIMENTALE. IL MESSAGGIO DELLA "CAPPELLA SISTINA" CARMELITANA (1608)
Scola: “Serve un nuovo umanesimo cristiano aperto alle altre religioni”
di Andrea Tornielli (La Stampa, 21 giugno 2011)
Il «meticciato» di civiltà e culture è una prospettiva ormai «molto concreta» di fronte alle ondate migratorie provenienti dall’Africa subsahariana, destinate ad aumentare e provocate da «condizioni di vita insopportabili». Davanti a quanto sta accadendo i cristiani, senza «rinnegare nulla del Vangelo», devono stare «in mezzo agli altri uomini con simpatia», riscoprendo un umanesimo cristiano aperto «alle altre religioni». È la prospettiva offerta dal cardinale Angelo Scola nell’intervento inaugurale dei lavori dell’annuale incontro della rivista internazionale Oasis nell’isola veneziana di San Servolo, a cui partecipano vescovi mediorientali e studiosi, per interrogarsi e discutere sulla «nuova laicità» e sull’«imprevisto» delle rivolte in Nord Africa. Una prospettiva di incontro, di dialogo, di ascolto per cercare di comprendere in profondità i fenomeni emergenti in quelle società e i riflessi inevitabili sulla vita dell’Occidente. Un approccio abituale per Scola, il quale dal 2004 ha dato vita alla rivista e a questo gruppo di lavoro, ma che assume un significato particolare in questi giorni di attesa per l’annuncio del nome del nuovo arcivescovo di Milano, previsto la prossima settimana.
Con ogni probabilità sarà infatti proprio il patriarca di Venezia a succedere al cardinale Dionigi Tettamanzi sulla cattedra di Sant’Ambrogio, e questa eventualità è stata dipinta da qualcuno a tinte fosche, come una sorta di «normalizzazione», un cambiamento epocale rispetto agli episcopati di Carlo Maria Martini e dello stesso Tettamanzi. Ha volato più alto domenica, dalle colonne di Repubblica, l’arcivescovo uscente, che accennando alla necessità di proseguire nel dialogo interreligioso e nell’integrazione, si è rimesso alla «sensibilità del nuovo pastore». Ieri mattina a San Servolo, Scola ha preso la parola da patriarca di Venezia, senza riferirsi in alcun modo al chiacchiericcio mediatico che lo riguarda. Ma il suo intervento è illuminante anche nella prospettiva dell’eventuale successione a Milano.
Riferendosi alle rivolte in Nord Africa, il cardinale ha osservato come siano scoppiate in contesti di povertà, «in ambito giovanile», con la richiesta ricorrente di lavoro. È sembrato condividere l’analisi di quegli studiosi che affermano che la grande «onda d’urto» dei flussi migratori debba ancora arrivare: «Dietro le popolazioni magrebine - ha detto - premono quelle dell’Africa subsahariana, con i giovani che vedono i loro coetanei emigrati in Europa guadagnare 500 euro al mese, una cifra che loro, nei rispettivi Paesi, non riescono a mettere insieme in un anno». Ecco perché Scola, in nome del realismo, afferma che non si può continuare così, «senza intervenire radicalmente sull’attuale sistema economico». «Non è soltanto una questione etica - aggiunge - come spesso si sente ripetere in alcuni ambienti. È un’impossibilità pratica». Proprio per questo Benedetto XVI ha dedicato un’enciclica, la «Caritas in veritate», all’elaborazione di una «nuova ragione economica».
Il cardinale ha quindi ricordato di essere stato ridicolizzato quando sette anni fa, sulla scia degli interrogativi aperti dopo gli attacchi dell’11 settembre, lanciò la provocazione sul «meticciato» di culture e di civiltà come prospettiva per il prossimo futuro. Ora «la demografia suggerisce che il fenomeno potrebbe assumere anche tratti molto concreti e, come la storia ci ricorda, non poco dolorosi». Ecco dunque la necessità di «conoscere i processi per cercare di orientarli», richiamando l’Occidente alle sue responsabilità, dato che - osserva - la Tunisia, dalla quale «dobbiamo imparare», sta accogliendo «molti più profughi di quanto non faccia la nostra stanca, passiva e vecchia Europa».
Scola invita a guardare alle rivolte nordafricane al di là dei vecchi cliché, anche quelli sulla laicità,che non va interpretata come «categoria assoluta dello spirito di cui si attende il manifestarsi (finalmente) anche nelle civiltà non europee». E dunque senza considerare il rapporto con l’islam nello stesso modo in cui gli Stati europei gestiscono i rapporti con la Chiesa. Serve una «nuova laicità» come ricerca «di un criterio per regolare lo spazio della convivenza possibile». Il cardinale non considera le rivolte del Nord Africa alla stregua della caduta del comunismo nel 1989. Piuttosto, aggiunge, «si possono forse paragonare al Sessantotto» e come in quel caso esiste il rischio che vengano egemonizzate e strumentalizzate.
Ma è la parte finale della relazione di Scola a contenere un’indicazione di metodo, attuale seppure antichissima. Il cardinale la trae dall’antica Lettera a Diogneto, fatta riecheggiare un mese fa da Benedetto XVI durante la sua visita a Venezia: «Non rinnegate nulla del Vangelo in cui credete, ma state in mezzo agli uomini con simpatia, comunicando nel vostro stesso stile di vita quell’umanesimo che affonda le sue radici nel cristianesimo, tesi a costruire insieme a tutti gli uomini di buona volontà una città più umana, più giusta e solidale».
Una sottolineatura molto significativa, che prevede «come sua dimensione intrinseca l’apertura alle altre religioni e agli uomini di buona volontà». Avendo sempre come orizzonte «la testimonianza», quella che hanno offerto pagando con il loro sangue due figure straordinarie che Scola ricorda concludendo il suo intervento: il vescovo Luigi Padovese, assassinato in Turchia un anno fa, e il ministro pakistano Shahbaz Bhatti, «martire di Cristo e grande paladino della lotta contro l’iniqua legge della blasfemia».
Youcat, intraducibile catechismo
di Philippe Clanché
in “www.temoignagechretien.fr” del 14 aprile 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il libro avrebbe dovuto essere l’oggetto di richiamo degli zainetti dei partecipanti alle prossime GMG di Madrid. Youcat (“Youth Catechism”, catechismo per i giovani) - previsto in 750 000 copie in 15 lingue - è stato battezzato nel dolore mercoledì 13 aprile a Roma.
Il progetto veniva dalla Germania dove dei giovani cattolici hanno redatto un documento che in 520 domande-risposte presentava le grandi linee della fede e delle pratiche cattoliche in una lingua comprensibile alle nuove generazioni. Purtroppo le diverse traduzioni hanno conosciuto sorti funeste, raffreddando alquanto l’entusiasmo generale.
Da alcuni giorni correva voce di un ammorbidimento della dottrina ufficiale sull’uso dei mezzi contraccettivi da parte della coppia. E questo a causa di una frase dell’articolo 420 della versione italiana di Youcat. Vi si legge una risposta positiva alla domanda: “Può una coppia fare ricorso ai metodi anticoncezionali?” Invece nella traduzione inglese si legge: “Una coppia cristiana sposata può controllare il numero dei suoi figli [regulate the number of children they have]”. Una formulazione nettamente più in linea con la norma vaticana, in corso dal 1968 (!) e dall’enciclica Humanae Vitae.
Una sfumatura non da poco. Tanto che i vescovi italiani hanno esitato a sbarazzarsi delle migliaia di copi stampate, per decidere, alla fine, che il libro sarà distribuito con una nota correttiva. Che preciserà che l’espressione “metodi anticoncezionali” deve essere letta come “regolazione delle nascite”.
eutanasia
Sempre nella versione italiana, sarà soppressa nella prossima versione una frase che potrebbe far pensare all’accettazione da parte della Chiesa cattolica dell’“eutanasia passiva”. Il testo originale (tedesco) usa il termine “Sterbehilfe”, letteralmente “aiuto alla morte”, dal significato più ampio del senso normalmente dato a eutanasia.
Ancora ieri, nel corso della conferenza stampa per il lancio del libro presso la sala stampa della Santa Sede, i vescovi italiani non erano i soli a mostrarsi scontenti. I loro colleghi francesi, vittime di una altro grosso errore di trascrizione, hanno preso una decisione più radicale: 30.000 copie dello Youcat francese andranno al macero.
In questo caso non si tratta di regolazione delle nascite, ma di relazioni interreligiose. La semplice dimenticanza di una negazione è stata la causa dello strafalcione. Nel libro si leggeva l’affermazione “riconoscere la libertà religiosa significa riconoscere che tutte le religioni sono uguali”, invece della formulazione corretta “riconoscere la libertà religiosa non significa riconoscere che tutte le religioni sono uguali”.
In un’epoca di lotta ratzingeriana contro il relativismo in materia religiosa e morale, particolarmente tra i giovani, la svista appariva troppo grave. L’apertura al dialogo interreligioso, riaffermata recentemente da Benedetto XVI (1) non permette di mettere tutte le credenze sullo stesso piano. E pazienza per i soldi buttati al vento e per l’umiliazione. Da Roma, Mons. Christophe Dufour, presidente della Commissione episcopale per la catechesi, e padre André Dupleix, vicesegretario generale dell’episcopato, dicono di aver scelto di gettare tutti i libri, con l’accordo degli editori, il trio Bayard/Mame/Cerf. I quali, in tutta fretta, hanno dovuto annullare la conferenza stampa di Parigi.
umorismo
Sempre flemmatico e abituato ad inghiottire i rospi di una comunicazione spesso accidentata, Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, ha reagito con umorismo: “La lingua tedesca è veramente difficile, lo abbiamo constatato a diverse riprese”. Il gesuita si riferiva al libro-intervista del papa Luce del mondo, uscito alla fine del 2010. Si è discusso per giorni per sapere se l’esempio del papa di giustificazione eccezionale dell’uso delpreservativo riguardasse un prostituto (versione originale tedesca) o una prostituta (traduzione italiana). Una polemica che oggi appare assolutamente aneddotica davanti alle disavventure di Youcat.
I difensori dell’istituzione vaticana vedranno in questa faccenda la prova dell’estrema modestia della Chiesa, incapace, per mancanza di mezzi, di gestire perfettamente una pubblicazione poliglotta. Il che è vero. I suoi detrattori ne dedurranno che Roma eviterebbe questo genere di incidenti se accettasse di decentralizzare la realizzazione dei suoi testi ufficiali, dando prova di maggiore fiducia per le Chiese locali. Ma non è il caso di preoccuparsi. Quest’estate, nell’entusiasmo e nel caldo di Madrid, i giovani avranno dimenticato da tempo il parto doloroso di Youcat.
(1) Convoca i rappresentanti di tutte le fedi ad Assisi il 27 ottobre per commemorare i 25 anni dell’incontro storico organizzato da Giovanni Paolo II
(traduzione: www.finesettimana.org)
Il Pontefice approva un testo dove Roma viene posta al di sopra
Lo strale più forte contro i protestanti, "carenze" per gli ortodossi
Documento voluto da papa Ratzinger
"L’unica chiesa di Cristo è quella cattolica" *
CITTA’ DEL VATICANO - Roma contro Lutero e la Riforma per affermare il primato del Papa e della chiesa cattolica sulle altre. Perché Cristo ha costituito "sulla terra un’unica Chiesa", che si identifica "pienamente" solo nella Chiesa cattolica e non nelle altre comunità cristiane. E’ quanto afferma il documento "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa" redatto dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, diffuso oggi dalla Santa Sede e approvato dal Papa che ne ha ordinato la pubblicazione.
Il testo è firmato dal Prefetto della Congregazione, il cardinale William Levada, e dal segretario, monsignor Angelo Amato e porta la data del 29 giugno, solennità dei santi Pietro e Paolo, scelta, evidentemente, non a caso. Come non a caso arriva una precisazione sul Concilio Vaticano II: "Nel periodo postconciliare - dice l’articolo - la dottrina del Vaticano II è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa: se, da una parte, si vedeva in essa una ’svolta copernicana’, dall’altra, ci si è concentrati su taluni aspetti considerati quasi in contrapposizione con altri. In realtà - spiega la congregazione - l’intenzione profonda del Concilio Vaticano II era chiaramente di inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio".
Nel testo si legge anche che il Vaticano riconosce nelle altre comunità cristiane non cattoliche, in particolare nella Chiesa ortodossa, l’esistenza "numerosi elementi di santificazione e di verità". Ma vi sono anche - indica il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicato oggi - "carenze", in quanto tali confessioni non riconoscono "il primato di Pietro", ovvero del Papa di Roma. Tale primato - avverte tuttavia la nota - "non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei vescovi delle Chiese particolari".
Sì al dialogo anche con le chiese "particolari" ma, afferma l’ex Sant’Uffizio, "perché il dialogo possa veramente essere costruttivo, oltre all’apertura agli interlocutori, è necessaria la fedeltà alla identità della fede cattolica". Le comunità protestanti, nate dalla riforma luterana del XVI secolo, non possono essere considerate, dalla dottrina cattolica, "chiese in senso proprio", in quanto non contemplano il sacerdozio e non conservano più in modo sostanziale il sacramento dell’Eucarestia.
"L’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica - è quanto afferma in un’intervista monsignor Angelo Amato - non è da intendersi come se al di fuori della chiesa cattolica ci fosse un ’vuoto ecclesiale’, dal momento che nelle chiese e comunità ecclesiali separate si danno importanti ’elementa ecclesiae’". "Il volto nuovo della Chiesa - aggiunge - non implica rottura ma armonia in una comprensione sempre più adeguata della sua unità e della sua unicità".
Il segretario della Congregazione spiega anche perché sia stato scelto, nel documento, lo stile delle domande con risposte. "E’ un genere - osserva - che non implica argomentazioni diffuse e molto articolate, proprie ad esempio delle Istruzioni o delle Note dottrinali. Nel nostro caso invece si tratta di alcune brevi risposte a dubbi relativi alla corretta interpretazione del Concilio".
* la Repubblica, 10 luglio 2007
Nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede
Ribadita la Dominus Iesus
Nuovi ostacoli sulla via dell’ecumenismo
Riportiamo di seguito le notizie dell’agenzia SIR del 10-7-2007 sul nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede dal titolo : "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa" che affronta questioni legate all’ecumenismo. L’attuale documento si muove nel solco della Dominus Iesus che tanta polemica suscitò nel 2000 all’atto della sua promulgazione e che di fatto può considerarsi come il primo atto di Papa Ratzinger quando era ancora Cardinale. Nulla di nuovo dunque, se non la constatazione che il cammino ecumenico si fa sempre più difficile ed impervio. Il nuovo documento può essere letto al seguente link:
10/07/2007 12:00
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “FUGARE VISIONI INACCETTABILI” PER “PROSEGUIRE IL DIALOGO ECUMENICO”
“Un chiaro richiamo alla dottrina cattolica sulla Chiesa”, che “oltre a fugare visioni inaccettabili, tuttora diffuse nello stesso ambito cattolico, offre preziosi indicazioni anche per il proseguimento del dialogo ecumenico, che resta sempre una delle priorità della Chiesa cattolica”. E’ il nuovo documento della Congregazione della dottrina della fede, “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Il testo - 16 pagine, articolate in cinque quesiti a domanda e risposta - intende “richiamare il significato autentico di alcuni interventi dl Magistero in materia di ecclesiologia perché la sana ricerca teologia non venga intaccata da errori e da ambiguità”, in modo da rispondere ad “interpretazioni errate”, “deviazioni e inesattezze”. Punto di partenza, la costituzione dogmatica Lumen Gentium ed i decreti conciliari sull’ecumenismo (Unitatis Redintegratio) e sulle Chiese orientali (Orientalium Ecclesiarum), e gli “approfondimenti e orientamenti per la prassi” offerti da Paolo VI nell’Ecclesiam Suam e da Giovanni Paolo II nell’Ut Unum Sint. Non mancano “puntualizzazioni e richiami” più recenti della stessa Congregazione per la Dottrina della Fede, come quelli contenuti nella Dominus Iesus.
10/07/2007 12:00
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “IL CONCILIO NON HA CAMBIATO LA PRECEDENTE DOTTRINA DELLA CHIESA”
“Il Concilio ecumenico Vaticano II né ha voluto cambiare né di fatto ha cambiato” la precedente dottrina sulla Chiesa, “ma ha voluto solo svilupparla, approfondirla ed esporla più ampiamente”. A ribadirlo è il nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede, “Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa”, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Nel primo quesito, citando le parole di Paolo VI nel suo discorso di promulgazione della Lumen gentium, la Congregazione pontificia fa notare che “c’è continuità tra la dottrina esposta dal Concilio e quella richiamata nei successivi interventi magisteriali”: anche la Dominus Iesus “ha solo ripreso i testi conciliari e i documenti post-conciliari, senza aggiungere o togliere nulla”. Nonostante ciò, la dottrina del Concilio, denuncia il dicastero vaticano, “è stata oggetto, e continua ad esserlo, di interpretazioni fuorvianti e in discontinuità con la dottrina cattolica tradizionale sulla natura della Chiesa”, concentrandosi “su singole parole di facile richiamo” e “favorendo letture unilaterali e parziali della stesa dottrina conciliare”. “L’idea di popolo di Dio, la collegialità dei vescovi come rivalutazione del ministero dei vescovi insieme con il primato del Papa, la rivalutazione delle Chiese particolari all’interno della Chiesa universale, l’apertura ecumenica del concetto di Chiesa e l’apertura alle altre religioni”: queste le acquisizioni centrali dell’ecclesiologia conciliare, così come viene delineata nella Lumen gentium. Su tutto, puntualizza la Congregazione per la dottrina della fede, si staglia però “la questione dello statuto specifico della Chiesa cattolica, che si esprime nella formula secondo cui la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo, ‘subsistit in Ecclesia catholica’ (sussiste nella Chiesa cattolica, ndr.).
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10/07/2007 12:01
SANTA SEDE: DOCUMENTO, “DIVISIONE TRA I CRISTIANI OSTACOLO ALLA PIENA REALIZZAZIONE DELLA CHIESA”
“L’universalità propria della Chiesa, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, a causa della divisione dei cristiani, trova un ostacolo per la sua piena realizzazione nella storia”. E’ una delle affermazioni centrali del nuovo documento della Congregazione per la dottrina della fede, diffuso oggi dalla sala stampa vaticana. Il secondo e il terzo quesito, in particolare, si soffermano sull’”unica Chiesa di Cristo, una santa, cattolica e apostolica”, come recita la Lumen gentium. “Secondo la dottrina cattolica - spiega il testo - mentre si può rettamente affermare che la Chiesa di Cristo è presente e operante nelle Chiese e nelle comunità ecclesiali non ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica grazie agli elementi di santificazione e di verità che sono presenti in esse, la parola ‘sussiste’, invece, può essere attribuita esclusivamente alla sola Chiesa cattolica, poiché si riferisce appunto alla nota dell’unità professata nei simboli della fede”. La “preoccupazione” di fondo del documento, dunque, è “salvaguardare l’unità e l’unicità della Chiesa, che verrebbe meno se si ammettesse che vi possano essere più sussistenze della Chiesa fondata da Cristo”. Per i padri conciliari, precisa la Congregazione per la dottrina della fede, “l’identificazione della Chiesa di Cristo con la Chiesa cattolica non è da intendersi come se al di fuori della Chiesa cattolica ci fosse un ‘vuoto ecclesiale’”: al contrario, con l’espressione “subsistit in”, il Concilio ha voluto affermare “da un lato, che la Chiesa di Cristo, malgrado le divisioni dei Cristiani, continua ad esistere pienamente soltanto nella Chiesa cattolica, e, dall’altro, l’esistenza di numerosi elementi di santificazione e di verità al di fuori della sua compagine, ovvero nelle Chiese e comunità ecclesiali che non sono ancora in piena comunione con la Chiesa cattolica”: di qui il carattere “a prima vista paradossale” dell’ecumenismo cattolico, in camino verso “l’unità con tutti i cristiani”. “Il Concilio ha voluto insegnare che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica”, si legge ancora nel testo, in cui il quarto e quinto quesito sono dedicati al rapporto con le Chiese orientali separate, chiamate “Chiese sorelle delle Chiese particolari cattoliche” perché “restano unite alla Chiesa cattolica per mezzo della successione apostolica e della valida eucaristia”, e con le comunità ecclesiale nate dalla Riforma, con le quali “la ferita è molto più profonda”.
VATICANO: CHIESA CATTOLICA UNICA VOLUTA DA CRISTO
(di Elisa Pinna) *
Cristo ha "costituito sulla terra un’unica Chiesa", che si identifica"pienamente" solo nella Chiesa cattolica: è quanto ribadisce un documento pubblicato oggi dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della Fede, che però riconosce alle altre confessioni cristiane, e in particolare agli ortodossi,"numerosi elementi di santificazione e verità".
La nuova nota dottrinale, firmata dal Prefetto del Dicastero vaticano per la fede, lo statunitense William Levada, ed approvata da Benedetto XVI lo scorso 29 giugno, è un testo agile, con stile didascalico, di una quindicina di pagine, diviso in tre parti: una prefazione, una sezione dialogica con cinque risposte ad altrettanti quesiti, e un articolo di commento. Il titolo è "Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina della Chiesa". Scopo dichiarato del libriccino è quello di sgombrare l’orizzonte teologico dalle tante confusioni e interpretazioni "infondate" che si sono accumulate negli anni attorno al documento conciliare ’Lumen Gentium’ (1963) e in particolare su un passaggio in cui i padri conciliari affermano che ’la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica’. In tale pronunciamento, alcuni studiosi cattolici - tra cui é citato esplicitamente il brasiliano Leonardo Boff - hanno visto la possibilità che la Chiesa di Cristo "sussista", con pari pienezza, anche in altre chiese cristiane, oltre che in quella romana. Si tratta - puntualizza il documento della Congregazione per la Fede - di "interpretazioni infondate", "inaccetttabili", che hanno "frainteso" l’insegnamento dottrinale del Concilio Vaticano II. La parole ’sussiste’ - afferma il testo - "può essere attribuita alla sola Chiesa cattolica", che presenta "perenne continuità storica" e "la permanenza di tutti gli elementi istituiti da Cristo". Nonostante questo dato di principio, il documento apre la porta dell’ecumenismo: benché le altre chiese cristiane abbiano alcune "carenze" (in particolare il fatto di non riconoscere il primato del Papa su tutti gli altri vescovi), esse "non sono affatto spoglie di significato e di peso" nel "mistero della salvezza". "Infatti - si afferma in uno dei passaggi chiave - lo Spirito di Cristo non ricusa di servirsi di esse come strumento di salvezza, il cui valore deriva dalla stessa pienezza della grazia e della verità, che è stata affidata alla Chiesa cattolica". Inoltre - puntualizza la nota in un’altra frase di rilievo ecumenico - "sarà sempre necessario sottolineare che il Primato del successore di Pietro, Vescovo di Roma, non deve essere inteso in modo estraneo o concorrente nei confronti dei vescovi delle chiese particolari".
La nota del Vaticano ribadisce, sulla scia dello spirito conciliare, che il titolo di "Chiese particolari" spetta alle diverse comunità nazionali ortodosse, accomunate alla Chiesa cattolica dal riconoscimento del sacerdozio e dell’eucarestia. Viceversa le comunità protestanti, nate dalla riforma luterana del sedicesimo secolo, non possono essere considerate, dalla dottrina cattolica, "chiese in senso proprio", in quanto non contemplano il sacerdozio e non conservano più in modo sostanziale il sacramento dell’Eucarestia. Nessun accenno, nel documento, all’ebraismo e all’Islam. Del resto sarebbe stato fuori luogo perché si tratta di un testo tutto interno alla dottrina cristiana e alla riflessione teologica innescata dal Concilio vaticano II.
* ANSA» 2007-07-10 16:28
"Risus Paschalis": il riferimento al ovviamente, è all’opera con l’omonimo titolo della studiosa e della teologa M. C. Jacobelli. A suo onore, allego qui, anche una limpidissima e coraggiosissima presa di posizione, sulla linea politica portata avanti dalla "Chiesa" - nelle sue cattolcihe "comunità ecclesiali sparse nel mondo - sulla pedofilia (fls)
Sulla pedofilia abbiamo scherzato!
La prof.ssa Jacobelli, dottore in teologia morale ed alunna del grande p. Häring, ha pubblicato, tra l’altro, per la Queriniana "Il risus paschalis ed il fondamento teologico del piacere sessuale" e "Onestà verso Maria"
Come donna e come cristiana, - sono dottore in teologia morale - sento il dovere di rendere tutti i miei fratelli, credenti e non credenti, partecipi dell’indignazione profonda che si è impadronita di me dopo aver letto il comunicato ufficiale dei vescovi statunitensi al termine della riunione interdicasteriale sulla pedofilia dei preti.
Al punto 7 si legge (Osservatore romano di venerdì 25 aprile, pag.7):
” (...) i casi di vera pedofilia da parte di sacerdoti e religiosi sono pochi (...) si è attirata l’attenzione sul fatto che quasi tutti i casi hanno visto coinvolti adolescenti, e pertanto non erano casi di vera pedofilia”.
É un’affermazione talmente turpe da non aver bisogno di commento. Mi chiedo come un consesso di persone giunte ai più alti gradi della gerarchia cattolica possa, insieme con il pontefice, giocare così sulle parole, di fronte ad un problema di tale enormità. Gesù ha detto: ”Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli (...) sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina (...) e fosse gettato negli abissi del mare” (Mt 18,6). Per quello che ho letto, nessun giornale - e men che mai l’Avvenire lo ha rilevato. Quale credibilità può avere una chiesa ai cui vertici siedono persone di tanta ipocrisia?
Sono felice di aver ricevuto il dono della fede, sono felice di essere cristiana. Mi vergogno profondamente di questa chiesa. É in corso la campagna per l’otto per mille. Spero che gli italiani - come già fanno i cattolici americani - negando il loro contributo diano l’unica risposta che queste persone probabilmente comprenderanno.
Giovedì, 2 maggio 2002
Maria Caterina Jacobelli
SCIENZA
La visione tecnica che domina le società democratiche occidentali pretende di dire l’ultima parola sulle origini e le ragioni della vita. Nel discorso per la Festa del Redentore il Patriarca di Venezia mette in luce i punti di forza della religione e della filosofia nella ricerca, anche oggi, del senso dell’esistenza
L’anima? Non è più un tabù, ma una chance per le neuroscienze *
Fino a ieri l’ipoteca della fede sembrava complicare il lavoro agli scienziati che studiavano la mente e la coscienza. Oggi è diventato chiaro a molti che la razionalità ha forme molteplici che non sono riducibili unicamente ai paradigmi della scienza, ma trovano nello «spirito» un sostegno decisivo per la comprensione dell’umano e della realtà. Non tutto si può spiegare meccanicamente con la biochimica del cervello
I cultori delle neuroscienze convinti che la comprensione del cervello rappresenti la svolta epocale più radicale (una rivoluzione più grande di quelle copernicana, darwiniana e freudiana) affermano a chiare lettere non solo che la nozione di vita è assai complessa, ma anche che vita è un termine troppo generico ed applicabile ad un insieme di processi. A tal punto che lo spirito di vita e la vita sarebbero concetti «intorno a cui gli scienziati hanno cessato da tempo di interrogarsi» (V.S. Rachamandran, Che cosa sappiamo della mente, Mondadori, p. 98).
La fede cristiana, non complica ulteriormente le cose pretendendo che, per descrivere compiutamente la vita umana, si debba parlare non solo di mente e di cervello, ma anche di spirito (anima) e per di più di spirito individuale intimamente legato ad una carne destinata a risorgere? Rispondere a queste e simili domande in termini il più possibile adeguati è diventata una questione stantis vel cadentis per la fede cristiana.
Accogliere la sfida contenuta in questa provocazione è diventata ancor più una questione di vita e di morte per l’etica da quando William Safire ha coniato il termine «neuroetica» per indicare quell’insieme universale di risposte biologiche, connaturate al nostro cervello, da dare ai dilemmi di natura etica.
È decisamente positivo il fatto che siamo usciti dall’epoca in cui le scienze vietavano di «porre la domanda delle domande». Esse stesse non temono ormai di parlare, in qualche modo, di verità. La tecnoscienza, che non esclude di poter fornire spiegazioni per tutto il processo evolutivo, macro e micro - dal Big-Bang fino all’insorgere della prima cellula di vivente - sembra voler farsi carico di quelli che una volta erano i contenuti dell’etica filosofica e della religio. Taluni cultori delle neuroscienze affermano addirittura che «il nostro cervello vuole credere» (M.S. Gazzaniga, La mente etica, Codice edizioni, p. XVII) e quindi si apre uno spazio per una religiosità riconosciuta come fenomeno di una qualche rilevanza sociale. Essi dicono: pur sapendo che «di fronte ad un conflitto morale reagiamo di fatto in modi molto simili guidati da reti neurali o da sistemi di rinforzo comuni al nostro cervello» (ibid., 158) non si può evitare di confrontarsi col fatto che, almeno fino ad oggi, le persone, quotidianamente, vivono e muoiono in nome delle loro credenze religiose. Ci dividono le nostre teorie religiose e morali, ma la "mente etica" ci unirà e ci salverà!
La concezione tecnoscientifica della vita umana e della sua storia è divenuta assai rilevante nelle democrazie avanzate soprattutto dell’Occidente. Se la democrazia plurale si costruisce autonomamente solo su procedure, è però la tecnoscienza (non più le religioni e le filosofie) a volerci dire che cos’è la vita nella sua origine, nel suo svolgimento e nel suo termine. A ben vedere il fenomeno stesso della globalizzazione è strettamente dipendente dal fatto che l’Occidente sta imponendo a tutto il mondo una concezione della felicità come puro prodotto progressivo della tecnoscienza. In questa visione delle cose non v’è più posto per l’anima, la risurrezione della carne, la vita eterna.
Ci si può anzitutto porre una domanda. Una simile visione della realtà è per l’autentico profitto della stessa tecnoscienza?
Conviene anzitutto rilevare che la tecnoscienza fa leva su una visione del reale che consente la progressiva scoperta solo di ulteriori stati di cose, ma non quella di ulteriorità di senso rispetto a quello definito dall’impresa scientifica. Riaffiora qui obiettivamente il rischio, che ogni autentica impresa scientifica deve invece scongiurare, di una nuova forma di riduzionismo (non di corretta "riduzione") che finisce per produrre inedite, potenti varianti di scientismo, che in ogni sua forma, da quelle più rozze a quelle più raffinate, è fondato su una triplice ingiustificata identificazione: «ciò che è» è «ciò che è conoscibile»; «ciò che è conoscibile» è «ciò che è conoscibile s cientificamente»; «ciò che è conoscibile scientificamente» è «ciò che è conoscibile mediante la scienza empirica». Così che, in definitiva, solo le scienze, e in specie quelle empirico-sperimentali, ci danno la conoscenza di ciò che è.
Non la scienza astrattamente intesa, ma l’uomo di scienza non può però eludere la domanda: l’orizzonte della ragione umana oltrepassa o no l’orizzonte della ragione scientifica?
Esistono almeno due buoni motivi per rispondere positivamente. Anzitutto i processi umani, gli stati e le operazioni della mente quali intenzionalità, comportamento, cognizione, libero arbitrio non sono come tali oggetto possibile dell’indagine scientifca, che al più può analizzare solo le loro condizioni fisiche o psichiche. Non mancano conferme a questa affermazione da parte dei più recenti studi legati alle scienze cognitive. Inoltre vi è il problema dell’organismo che tiene in collegamento tali strutture, del perché esse svolgano la loro funzione, del come si siano formate. Emerge con forza già a questo livello la questione dell’Io (Self), che dovrà nella sua complessa articolazione (continuità, unità, corporeità, azione volontaria) trovare spiegazione. E i cultori delle neuroscienze sono ben lungi dall’aver dimostrato che questa sia correlabile con una qualche funzione neuronale od area cerebrale.
In secondo luogo esistono forme di razionalità differenti dalla razionalità scientifica. Il logos umano, infatti, pur essendo uno, si esercita ed è produttivo secondo plurime forme teoriche, pratiche ed espressive - come già affermava Aristotele - che oggi possiamo identifcare in almeno cinque forme differenziate ed irriducibili di razionalità (cfr. i diversi gradi del sapere di Maritain e le diverse forme della conoscenza secondo Lonergan): teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica). Per questo Benedetto XVI molto opportunamente non cess a di invocare il rispetto dell’"ampiezza" della ragione, articolata nella pluralità delle sue capacità e funzioni, e quindi né arbitraria, né indifferenziata pena la caduta nella frammentazione del senso.
Anche quando le neuroscienze fossero in grado di descrivere il come gli stati neuronali del cervello si colleghino a tutti i fenomeni che, per intenderci, chiameremo spirituali, resterebbe intatta la questione del che cosa essi siano in realtà. Anche ammesso un rapporto di causalità tra stati neuronali ed emozioni, operazioni ed opzioni spirituali, tale confronto non potrebbe mai escludere, ma piuttosto suggerire l’esistenza di un principio che muove l’Io (Self) nella sua relazione profonda verso il Sé e verso l’altro. Come escludere che la biochimica del cervello descriva solo una dimensione del complesso comportamento spirituale di un essere che vive dell’insopprimibile unità duale di anima e di corpo?
Se la biochimica del cervello risponderà alla domanda su che cosa sono il libero arbitrio, l’arte, su chi siamo noi, allora la grande questione della natura dell’Io e della vita - e alla fine dell’anima - troveranno una spiegazione in cui il problema della natura dell’io non svanirà affatto, ma solo sarà risolto da una pura lettura tecnoscientifica, che comunque dovrà mostrare la sua sufficienza. Oppure la biochimica del cervello, come personalmente ritengo occorra concludere, potrà solo dire sempre meglio il come del suo nesso con la mente, lasciando spazio ad altri procedimenti razionali per indagare il che cosa della mente stessa oltre che del bios.
Questo che cosa, da quando l’uomo esiste, non è mai stato messo da parte semplicemente perché irresistibilmente l’uomo, a partire dalla domanda che lo costituisce, «alla fine chi mi assicura definitivamente?», sempre lo ripropone. È la sua dimensione spirituale, l’anima e il destino immortale di tutta la persona, che impone all’uomo la domanda sulla natura della mente e attraverso di essa sulla sua natura tout- court.
VENEZIA
Tutta la Laguna nel segno del Redentore
Ogni anno in occasione della Festa del Redentore, festa religiosa e civile di Venezia e cara a tutte le terre venete, il Patriarca di Venezia rivolge alla città e non solo un discorso che mette in luce le sfide più urgenti per gli uomini e le donne di oggi di fronte alla realtà contemporanea. Negli anni questo appuntamento ha toccato le questioni del meticciato di civiltà, della nuova laicità, dell’educazione e della scuola nel nostro Paese, fino ad approdare, nel discorso che il Cardinale Angelo Scola (foto sopra) leggerà questa sera, al tema del rapporto tra l’anima e le scienze. Il discorso del Redentore sarà ripreso in un filo diretto radiofonico in onda sulle radio del circuito nazionale «In Blu» domani, dalle 11 alle 12, al quale parteciperanno tra gli altri il filosofo Emanuele Severino, l’astronomo Guido Chincarini, il matematico Giorgio Israel, l’imprenditore Polegato, il filosofo Francesco Botturi.
* Avvenire, 15.07.2007
IDEE
Il filosofo Spaemann mette in guardia da chi accusa le religioni di fomentare l’odio e il terrore: all’origine dei tre monoteismi vi è una divinità che si rivolge all’uomo attraverso il «logos». La ragione, dunque, appartiene al credente in quanto relazione con l’altro. Chi rifiuta questa dimensione dialogica apre la strada alla conflittualità
Ma Dio non è violenza
«Troppo spesso ancora nel mondo musulmano vince la via sanguinaria. Anche l’islam deve intraprendere la strada del dialogo comune»
di Robert Spaemann (Avvenire, 18.07.2007)
Non è un caso che il discorso di Regensburg abbia aperto un controverso dialogo con l’Islam. Senza il colpo di avvertimento costituito dalla citazione di un imperatore bizantino, più di trenta famosi professori islamici forse non avrebbero mai pensato di accettare l’invito al dialogo, di prenderlo sul serio, di rispondere gentilmente e di cominciare subito ad avanzare delle critiche invece dei soliti scambi di cortesie. Che altri musulmani abbiano reagito con un atto di violenza sanguinaria conferma che la questione del rapporto fra fede e violenza resta per l’Islam un problema aperto. Il Papa ha facilitato l’apertura di un dialogo serio ammettendo senza infingimenti apologetici che anche la cristianità ha avuto questo problema per tanto tempo e che spera che l’Islam compia lo stesso processo di apprendimento che ha compiuto la Chiesa. Oggetto di tale dialogo sarà verificare se il Corano favorisca un tale processo allo stesso modo del Nuovo Testamento. Metterlo inizialmente in dubbio fa parte di un onesto inizio di dialogo.
Ci si potrebbe chiedere perché bisogna discuterne e forse scontrarsi. Se i musulmani avessero un altro Dio rispetto ai cristiani un tale scontro sarebbe privo di senso. I cristiani potrebbero solo ribadire che non credono all’esistenza di quel Dio. In effetti tanti cristiani ritengono che Allah sia un altro Dio rispetto a quello dei cristiani. Se fosse così non avrebbe alcun senso scontrarsi rispettosamente su come si debba pensare e parlare correttamente di Dio. Ma in conformità col suo grande predecessore medievale Gregorio VII e col Concilio Vaticano II, Benedetto XVI parte dal presupposto che gli ebrei, i cristiani e i musulmani pregano lo stesso Dio uno e unico.
La lezione magistrale di Regensburg parla soprattutto della differenza che nel mondo di oggi salta agli occhi. Essa riguarda il tema «Dio e violenza». Ricollegandosi alle riflessioni di un imperatore bizantino, il Papa collega questo all’altro tema: «Dio e ragio ne». La ragione è quello step beyond ourselves la cui possibilità la modernità nega. Ho cercato, riferendomi a Nietzsche, di mostrare che questa possibilità dipende dall’esistenza di Dio e proprio di un Dio che nella sua essenza è luce. La ragione dunque non è uno strumento di sopravvivenza dell’homo sapiens, ma partecipazione alla luce divina e un vedere il mondo in questa «luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv 1,9). Questa luce, come dice Platone, fa vedere il bene come il koinon, «ciò che è comune a tutti» (cfr. Platone, Fedone). Non a caso Eraclito parla a questo riguardo del logos, e logos significa anche «parola».
Soltanto attraverso la parola, soltanto attraverso la lingua, attraverso il parlare con gli altri, noi ragioniamo. La violenza però è l’esatto contrario del parlare con gli altri. Lo scopo del discorso è l’intesa tramite la comune sottomissione al criterio del vero, lo scopo della violenza è la sottomissione dell’altro alla volontà di colui che si dimostra fisicamente più forte. Michel Foucault, che nega l’intelligibilità del mondo, deve di conseguenza minimizzare la differenza tra dialogo e violenza. Siccome non esiste un qualcosa che sia verità, anche nel dialogo può trattarsi solo di misurare le forze nella lotta per il potere. Così già pensavano d’altronde i sofisti con i quali si scontrò Socrate. Soltanto quando si dà verità come koinon si dà un’alternativa alla violenza. Il criterio della forza fisica non ha nulla a che fare con quello della verità. E la vittoria nello scontro violento solo per caso può anche essere la vittoria del migliore. C’è la forza legittima dello Stato, la cui ragione risiede nell’impedire la violenza tra gli individui, c’è la forza legittima del potere statale per la difesa contro la violenza di un’ingiusta aggressione. Ma lo scatenarsi della violenza, la trasformazione del dialogo in violenza è semp re il fallimento della ragione, e la probabilità che una situazione violenta possa essere migliorata con la violenza è scarsa.
Ma è soprattutto la violenza nel nome di Dio che è condannata inequivocabilmente da Benedetto XVI. Dio come Signore della storia agisce attraverso tutto ciò che succede e anche la violenza dei violenti alla fine dovrà servire al Suo scopo. Ma lo serve solo come tutto ciò che è malvagio. La Sua volontà è fatta sempre e dappertutto. Non deve chiedere il permesso. Ma non dappertutto sulla terra succede come in cielo, e cioè attraverso il conformarsi della volontà degli angeli e degli uomini alla volontà di Dio. Mefistofele, nel Faust di Goethe, confessa di essere parte «di quella Forza che sempre vuole il male e sempre il bene crea». Noi preghiamo affinché la volontà di Dio non sia fatta sulla terra così, ma «come in cielo», e questo significa anche: non tramite la violenza. Anche il popolo di Israele, a questo riguardo, ha compiuto un processo di apprendimento che si conclude soltanto con Gesù. E nonostante questa conclusione, la cristianità nel Medioevo ha creduto ancora di dover punire con pene temporali fino alla condanna a morte almeno l’apostasia e l’eresia: un punto di vista che vige ancora oggi nei Paesi islamici.
Ma non si può costringere a rimanere nella luce con i mezzi delle tenebre. Laddove dei cristiani vengono perseguitati in quanto cristiani, essi, seguendo il loro Signore, rinunciano a restituire la violenza. Dove dei cristiani, d’altronde, difendono legittimamente la civitas terrena in qualità di cittadini di essa, sanno che il processo della violenza, nei suoi esiti, è indifferente alla giustizia e all’ingiustizia. Non si presenteranno dunque in nome di Dio e in nome del bene per punire i cattivi e terranno l’odio che avvelena l’anima fuori dallo scontro. Dove vige la violenza, la ragione tace e l’unica forma della sua perdurante presenza può essere soltanto quel rispetto dei nemici che anticipa già la riconciliazione.
Non sempre possiamo decidere se avere o no nemici. A volte può essere giusto smitizzare l’idea del nemico, a volte no. Dobbiamo verificare l’idea che abbiamo del nemico confrontandola con la realtà. Ma ciò che invece possiamo decidere è di chiedere la forza di amare i nemici. Tale forza trasforma lo status della violenza che si oppone a Dio ed è il suo modo supremo con cui la luce può illuminare le tenebre, la luce della ragione e dell’amore, il cui massimo testimone è nel nostro tempo Papa Benedetto XVI.
IL DIBATTITO
Dopo Ratisbona, quale dialogo tra le fedi?
Il richiamo alla ragione che Benedetto XVI ha fatto nel discorso di Ratisbona ha suscitato un dibattito molteplice e anche incomprensioni forzate, sebbene il discorso del Papa fosse incentrato sulla necessità di un dialogo che abbia come riferimento il criterio della verità. Su questo ora prendono la parola cinque intellettuali nel volume «Dio salvi la ragione», edito da Cantagalli, che, oltre al testo di Benedetto XVI, presenta gli interventi di Wael Farouq, André Glucksmann, Sari Nusseibeh, Robert Spaemann e Joseph H.H. Weiler. Dal volume, pubblichiamo alcuni stralci del saggio del filosofo Robert Spaemann (nella foto), incentrati sulla questione del presunto rapporto fra religione e violenza.