Disagio della civiltà: "Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]" (S. Freud, Il disagio della civiltà, 1929).
95 TESI? FORSE NE BASTA UNA SOLA!
Una breve considerazione di Federico La Sala*
Caro Direttore
A proposito delle 95 TESI ( Matthew Fox, “95 tesi sulla porta della cattedrale di Wittenberg. Di nuovo!”, Adista, n. 46 del 18 giugno 2005) ..... devo dire che il sogno-desiderio di Fox di ottenere lo stesso effetto di Lutero è totalmente campato in aria!!!
Proprio il primo punto non quadra: denuncia una cecità politica e teologica, che non ha niente a che fare (a mio parere) né con Lutero .... e nemmeno con la stessa Chiesa Cattolica(al di là delle critiche) dello stesso Papa “Ratzinger”. Eccolo: "1. Dio è Madre e Padre".
Fox, Chi ha “dimenticato” o addirittura ha “ucciso”? Fox, fin dal principio, ha tolto di mezzo ... il Principio, proprio Dio - lo Spirito Santo!!! Attenzione: Dio non solo è Madre e Padre, ma è anche e soprattutto Dio stesso! N on c’è alcun Dio, se non Dio!!! Con i Due, manca il Terzo, che - in verità - è il Primo. Questo ci ha detto Gesù, il Figlio: il Padre è lo Spirito Santo, l’Amore che unisce i Due, li eleva e li costituisce in Madre e Padre, che danno vita al Figlio, che è il quarto.... E ogni cristiano e cristiana su di sé, nel farsi il segno della croce (che noi stessi e noi stesse siamo: prendi la tua croce e seguimi... sulla strada del Padre Nostro, Amore) dovrebbe saperlo.
A partire da se stesso e da se stessa, chi lo fa - il segno di “croce”!- ricorda e dice a se stesso e a se stessa che è rinato e rinata nello spirito dell’Amore (non del Cristo di Bush, né di papa Benedetto XVI, ... né di nessun altro!!!): In Nome del Padre, in nome del Figlio (che è qui e ora testimonia la realtà, la vita e la verità, dell’unione del padre e della madre - dx e sx del proprio corpo), lo Spirito Santo - Amore...è! Così sia ... e così è!
A mio modesto parere, credo che affermare “ io, dall’Amore di D(ue)IO ... e non li dimentico” sia più rispondente all’antropologia (biblica e umana, in generale), alla tradizione dei nostri padri e delle nostre madri, alla Lingua d’Amore.... e alla nostra stessa Costituzione Italiana (non di quella della edipica-dogmatica della chiesa cattolico-romana!!!). Voi siete dei: io divento e sono un “dio”, che solo nell’incontro, nel riconoscimento, e nel dialogo con un altro “dio” o un’altra “dio”, diventiamo e divento, siamo e sono, Uno con l’Amore, lo Spirito Santo, il Padre Mio - e Nostro!
Questa è la Legge, e questo il grande comandamento di Gesù (non del papa del IV sec. d. C. - papa Benedetto XVI): “ "Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?". Costui rispose: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso". E Gesù: "Hai risposto bene; fa questo e vivrai"“(Luca: 10, 26-28) - invitando così (come si può notare) a non cancellare né "Dio", né "il prossimo", e né "te stesso"!!!
L’Amore non separa né alza ponti levatoi o steccati. Né il Padre, né la Madre, e neppure il Figlio o la Figlia, o, che è lo stesso e come vuole Fox, “Madre e Padre” è Dio. Michele, l’arcangelo Michele, sta lì a ricordarcelo da sempre!!! Il suo Nome è un Urlo che risuona dall’inizio e per tutta la storia e giunge fino al cuore del nostro stesso presente: Chi è come Dio?! (questo significa il suo Nome!). Chi pretende di esserlo, fosse pure il Santo Padre, ... la Santa Madre, o la Santa Figlia o il Santo Figlio, è solo un povero Lucifero - o, se “madre e padre”, ... due poveri diavoli.
L’Amore, questo vuol dire Amore, significa che il ’cerchio’ non si chiude né può chiudersi mai - ad opera di nessuno e intorno a nessuno (fosse uno, fossero due, o fossero diecimila - la ’società’ in cui regna Amore è ‘aperta’ - questo né Popper né tantomeno Pera lo sa!!!), diversamente è la ricaduta nell’orizzonte pre-evangelico, greco-romano o ... new age, e sempre fuori dalla grazia di Dio, dell’Unico Sole, dall’Amore stesso!
Lutero lo sapeva: solo Dio salva! E, del resto, non è questo anche il senso di tutta la buona novella? Preceduto da Socrate, Gesù l’aveva ripetuto, chiarito e detto senza mezzi termini - contro ogni tentazione: solo Dio è buono!!! L’evangelista Giovanni cosa scrive? La Luce, l’Amore .... accoglierLa, accoglierLo! Di questo esser capaci, tutti e tutte - al di là di ogni “platonismo per il popolo” e di ogni ‘cattolicesimo’ di parte!!!
Questo è il problema: avere il coraggio di aprire gli occhi, di vedere, di assaggiare - sì, anche di assaggiare! "Sàpere aude!": a questo invitava il vecchio “cinese” di Koenigsberg! Egli la sapeva lunga e non cedette mai alle lusinghe né del materialismo né dell’idealismo né del relativismo né dello scetticismo .....né ai sogni di un visionario dell’epoca. Egli sapeva della "grande luce": l’aveva vista e aveva capito! Perciò esortava: abbi il coraggio di sapere (di servirsi della propria intelligenza, per conoscere e ...assaggiare!) - abbiate il coraggio, non abbiate paura!!!
Altro che astenersi! Ma da che?! Dal dialogo, dall’amore, e dalla conoscenza?! Mah!!! L’unica cosa da fare è proprio quella di aprire di più e meglio gli occhi, tutti e due! - e deciderci ad accogliere la luce che viene da fuori e da dentro di noi stessi..... dall’altro e dall’altra, da noi stessi - tutti e tutte, non da Mammona[caritas] o da Baal-lone. L’Unico nostro "Padre" - l’unico Solo, l’Amore di D(ue)IO... indica e mostra chi siamo e chi possiamo diventare: figli e figlie di “Dio”, figli e figlie della “Relazione” di cittadini-sovrani e cittadine sovrane di una società fondata su una nuova, salda, e robusta Alleanza, Costituzione. O, se no, che cosa?!!! Chiarito questo unico, personale - di ognuno e di tutti e di tutte, e fondamentale primo punto, possiamo aprire il dialogo ... e, se si vuole, cominciare a discutere le 94 Tesi. O no?!
Federico La Sala
* www.ildialogo.org/filosofia, Venerdì, 17 giugno 2005.
PER UN’EUROPA.... talebanica, fondamentalista, e nazistoide!!!
Una nota sulla "poesia della persona umana" e sulla cecità della Chiesa cattolico-romana
di Federico La Sala*
A) "METTI LA FAMIGLIA NEL CUORE DELL’EUROPA" ... e al bando le tautologie sessuali (omossesualità e lesbismo)!: "Le tautologie sessuali - ha aggiunto il filosofo [Stanislw Grygiel del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, all’interno del Simposio europeo di docenti universitari sul tema "La famiglia in Europa"] distorcono la poesia della persona umana e, provocano il caos nel suo amore e lavoro. In questo caos, il matrimonio, la famiglia e la società si corrompono. Di conseguenza si disgrega anche la cultura, poiché la cultura si basa sulla relazione uomo-donna"(Avvenire, 25.06.2004, p. 11).
B) EUROPA: RADICI CRISTIANE!? MA DOV’E’ GIUSEPPE?!!!
Intervento inviato al Forum dell’ "Avvenire": EUROPA, CHE FARE? (28.06.2004).
Per un’EUROPA NUOVA, ci vuole una NUOVA "Sacra Famiglia": il modello ’cattolico-romano’ è ancora pre-cristiano. E’ edipico (per dirla con FREUD: c’è Maria e Gesù, MA DOV’E’ GIUSEPPE)?!!! Io, da cristiano ed eu-ropeo (come eu-angelico!!!), sono figlio dell’Amore (= DIO) di ’Giuseppe’ e ’Maria’ e non solo di ’Maria’. Queste sono le mie "radici": bisogna RICONOSCERE GIUSEPPE (A PIENO TITOLO, INSIEME A MARIA: "io accolgo te" - "io accolgo te")!!! Basta con i riduzionismi biologici e antropologici e i deliri teologici!!! Cerchiamo di essere all’altezza della nostra piccola fragile umanità - figli e figlie di Dio, tutti e tutte, senza cecità e zoppicamenti. Siamo s-inc-eri, siamo nel terzo millennio dopo Cristo!!! Non è mai troppo tardi: SVEGLIA. Apriamoli tutti e due, GLI OCCHI!!!
* www.ildialogo.org, Mercoledì, 30 giugno 2004
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR::
I SOGNI DEL CARDINALE MARTINI (iNTERVISTE E ARTICOLI)
PAOLO DI TARSO, L’ASTUTO APOSTOLO DELLA GRAZIA ("CHARIS") E DELL’AMORE ("CHARITAS"),E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO! UNA NOTA
di Federico La Sala *
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Doc.:
A) Testo latino
B) Testo italiano
COSTITUZIONE DOGMATICA SULLA CHIESA
LUMEN GENTIUM (21 novembre 1964):
42. « Dio è amore e chi rimane nell’amore, rimane in Dio e Dio in lui » (1 Gv 4,16). Dio ha diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr. Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di lui. Ma perché la carità, come buon seme, cresca e nidifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e con l’aiuto della sua grazia compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’eucaristia, e alle azioni liturgiche; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, all’attivo servizio dei fratelli e all’esercizio di tutte le virtù. La carità infatti, quale vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr. Col 3,14; Rm 13,10), regola tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine [132]. Perciò il vero discepolo di Cristo è contrassegnato dalla carità verso Dio e verso il prossimo.
* PAOLO VESCOVO
SERVO DEI SERVI DI DIO
UNITAMENTE AI PADRI DEL SACRO CONCILIO
A PERPETUA MEMORIA
"IL #PRESEPE" (E IL POSSIBILE "#CREDO") DI #MICHELANGELO #BUONARROTI, OGGI (#15OTTOBRE2024).
UNA #PAROLA DI #METASTORIA E #METAFILOSOFIA: "#AMORE E’ PIU’ FORTE DI #MORTE" (Ct. 8.6 - trad. di #Giovanni Garbini).
Il Concilio Ecumenico di Costantinopoli, del 381 [del 2024], definì la #divinità dello #SpiritoSanto (#Charitas) con le parole che ancora oggi si ripetono nel "Credo": «Credo nello Spirito Santo ["Deus charitas est": 1 Gv. 4.8], che è Signore [#Logos: Gv.1.1] e dà vita, e procede dal Padre ("#Giuseppe") [e la Madre -"#Maria"] e dal Figlio ["#Gesù"- "#Cristo"]. Con il Padre [e la Madre] e il Figlio, [l’#Amore -"Charitas"] è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei #profeti» [e delle #sibille].
Allegato: #Tondo Doni. Nella cornice non sono "raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti" - come scrivono gli esperti della "Galleria degli Uffizi" - ma chiaramente, e per Michelangelo, #due profeti e due sibille.
POESIA, LETTERATURA, STORIOGRAFIA E FILOLOGIA CRITICA:
BAUDELAIRE, DE QUINCEY, E "LES SEPT ViEILLARDS" ( E I "SETTE DORMIENTI DI EFESO").
SE E’ VERO, COME E’ VERO, CHE IL SIGNIFICATO della figura dei "Sept vieillards" rimane "enigmatico. Qui, l’altrove (alle) a cui la figura rimanda o da cui parla (agoreuo) si sottrae al dominio della ragione (“vainement ma raison voulait prendre la barre”, v.49), è un mare “mostruoso e senza limiti” (v.52). [...] Baudelaire ci descrive gli effetti dell’apparizione dei vecchi [2]: la ragione non riesce più a governare ciò che vede, deve arrendersi al suo nauseante “sdoppiamento”; una tempesta si oppone ai suoi sforzi, ma lo fa en jouant, come per gioco; quel gioco crudele sembra contagiare anche l’anima che, invece di opporglisi, si mette a danzare come una vecchia scialuppa senza alberi né vele",
E’ ALTRETTANTO VERO CHE, COME E’ DETTO NELLA NOTA "[2]", "L’immagine presenta non poche analogie con un passo di De Quincey sulla “tirannia del volto umano” che Baudelaire cita nei Paradisi artificiali: «Allora sulle acque inquiete dell’Oceano cominciò a mostrarsi il volto dell’uomo; il mare mi parve selciato da innumerevoli teste rivolte verso il cielo; visi furiosi, imploranti, disperati, si misero a danzare sulla superficie, a migliaia, a miriadi, a generazioni, a secoli; la mia agitazione diventò infinita e il mio spirito balzò e rotolò con le onde dell’Oceano»”.
MESSO A FUOCO QUESTO LEGAME E, AMPLIANDO LO SGUARDO SULLO SPAZIO LETTERARIO E STORICO, A CUI RINVIANO PER LA LORO STESSA FORMAZIONE SIA BAUDELAIRE SIA DE QUINCEY, FORSE, E’ IL CASO DI RIAPRIRE LA DISCUSSIONE SUL TEMA E RIPENSARLO ALLA LUCE DELLA #LEGGENDA DEI "SETTE DORMIENTI DI EFESO"".
PROBABILMENTE, un indizio per la risoluzione dell’enigma del significato della figura dei "Sept viellards" è da rintracciarsi nella sintesi "storiografica" (e "teologico-politica") dello "chá timent de l’orgueil" ("L’orgoglio punito" di "Les Fleurs du Mal", XVI) e, al contempo, al ’fatto’ segnalato già da De Quincey, che "sulle acque inquiete dell’Oceano cominciò a mostrarsi il volto dell’uomo; il mare mi parve selciato da innumerevoli teste rivolte verso il cielo; visi furiosi, imploranti, disperati, si misero a danzare sulla superficie, a migliaia, a miriadi, a generazioni, a secoli".
GIOVANNI MACCHIA: "Baudelaire aveva ragione. La nostra epoca è divenuta sempre più «baudelairiana». E’ divenuta baudelairiana senza che noi siamo tornati indietro d’un passo" (Charles Baudelaire, "Poesie e Prose", Milano 1973).
INVERTIRE IL PRESENTE. CON FERNANDO PESSOA, SEGUENDO OMERO VIRGILIO E DANTE, RITORNO AL FUTURO: "NON BASTA APRIRE LA #FINESTRA".
CAMBIARE ROTTA E SVEGLIARSI DAL #SONNODOGMATICO (#KANT): INVERTIRE LA DIREZIONE (Carlo Rovelli) E USCIRE DALLA TRAGICA E "LUCIFERINA" #CAVERNA DI #PLATONE (E DI TUTTI I #PLATONISMI PER IL #POPOLO), DALLA #FILOSOFIA "COSMOTEANDRICA" DEL "MONDO COME VOLONTA’ E RAPPRESENTAZIONE" DI OGNI #UOMOSUPREMO:
"Non basta aprire la finestra *
Non basta aprire la finestra
per vedere la campagna e il fiume.
Non basta non essere ciechi
per vedere gli alberi e i fiori.
Bisogna anche non aver nessuna filosofia.
Con la filosofia non vi sono alberi: vi sono solo idee.
Vi è soltanto ognuno di noi, simile ad una spelonca.
C’è solo una finestra chiusa e tutto il mondo là fuori;
E un sogno di ciò che potrebbe esser visto se la finestra si aprisse,
che ai è quello che si vede quando la finestra si apre.
Santa Sede.
Il Papa torna a essere “patriarca d’Occidente”: che cosa vuol dire
di Redazione Catholica (Avvenire, giovedì 11 aprile 2024)
Il Papa torna a essere anche patriarca d’Occidente.
Lo spiega l’agenzia Fides osservando come il titolo compaia nell’Annuario pontificio del 2024, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana. Tale definizione era scomparsa nel 2006 su disposizione di Benedetto XVI. Nel comunicato diffuso allora dal Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei cristiani si chiariva che il titolo di «patriarca d’Occidente» era stato adoperato nell’anno 642 da Papa Teodoro I. In seguito, il suo utilizzo aveva preso piede nel XVI e XVII secolo, «nel quadro del moltiplicarsi dei titoli del Papa» nell’’Annuario Pontificio esso era apparso per la prima volta nel 1863. Il termine “Occidente” - proseguiva il comunicato «non intende descrivere un territorio ecclesiastico né esso può essere adoperato come definizione di un territorio patriarcale». Quindi il titolo «patriarca d’Occidente» - prosegue Fides citando il comunicato del 2006 «descriverebbe la speciale relazione del Vescovo di Roma a quest’ultima, e potrebbe esprimere la giurisdizione particolare del Vescovo di Roma per la Chiesa latina». Tuttavia, la soppressione di tale titolo non sottintendeva “nuove rivendicazioni” papali rispetto alle Chiese d’Oriente, ma era espressione di un “realismo storico e teologico” che spingeva a mettere da parte un titolo considerato obsoleto.
La scelta di papa Francesco di ripristinare il titolo di patriarca d’Occidente - prosegue ancora Fides - può essere collegata alla sua insistenza sulla importanza della sinodalità, e alla sollecitudine ecumenica che spinge a guardare sempre ai primi secoli del cristianesimo, quando tra le Chiese non c’erano lacerazioni di carattere dogmatico. Il titolo di patriarca d’Occidente richiama in qualche modo anche l’esperienza del Primo Millennio cristiano, quando le cinque sedi della cristianità antica (Roma, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia e Gerusalemme), pur nella differenza delle rispettive storie e dei diversi accenti spirituali, rivestivano un rilievo particolare per il vincolo che le univa alla Tradizione apostolica. I rapporti di queste cinque sedi, nella comunione, apparivano strutturati nella prassi che gli studi di storia della Chiesa definiscono come “Pentarchia”.
In un momento storico segnato dal dilagare di conflitti che spingono i popoli verso il baratro di una terza guerra mondiale, la sollecitudine ecumenica vede come occasione propizia l’approssimarsi del 17° centenario del Concilio di Nicea, svoltosi nel 325 dopo Cristo. I cristiani - come ha suggerito Papa Francesco già il 6 maggio 2022 - hanno la possibilità di riunirsi e celebrare insieme i 17 secoli dal Concilio di Nicea, come per un nuovo inizio. E nel 2025, tutti i cristiani per coincidenze di calendario, tutti i cristiani celebreranno la Pasqua nello stesso giorno, domenica 20 aprile.
Dunque, nell’Annuario pontificio, i titoli del Papa sono: vicario di Gesù Cristo, successore del principe degli apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa universale, patriarca d’Occidente, primate d’Italia, arcivescovo e metropolita della provincia romana, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, servo dei servi di Dio.
LINGUISTICA STORIOGRAFIA E PSICOANALISI:
RIFLETTENDO sul #nodo etimologico di #cuore e #cardine (in connessione con l’ #hamlet-ico tempo di #Shakespeare, "fuori dai cardini"), la memoria ha richiamato l’attenzione su una #immagine (qui, v. allegato) che continua a "#parlare" di un problematico #letargo di secoli (quantomeno a partire da #LorenzoValla, 1440), di uno strano "lapsus" storico e storiografico sul tema dell’#Amore per eccellenza: la #Carità, la #Charitas (gr. "#Xapitas"), e sulla famosa e falsa "donazione di Costantino".
IN PRINCIPIO ERA IL #LOGOS: CHARITAS (AMORE). Questa parola-chiave, la "password" del "regno dei cieli", è diventata nel tempo la Carità - #elemosina, la #Caritas (fatta derivare dal lat. "carus", "caro") e così, persa la "h" (l’#acca), anche in lingua greca (v. allegato) è diventata (addirittura) "#Kapitas" ( "Karitas").
"RIPENSARE #COSTANTINO"? NO! #DANTE2021? NO! RICORDARE L’ANNIVERSARIO DI #NICEA 325, 2025!
OVVIAMENTE, così permanendo e stando le cose in tutte le Università e le Accademie del #PianetaTerra (con la loro forte segnatura culturale di epoca "rinascimentale"), il "sonno dogmatico" continua a tutti i livelli, sul piano non solo etimologico, ma filologico, antropologico, teologico e politico.
LA CHIESA CATTOLICA-COSTANTINIANA (NICEA 325-2025) E IL SUO DIFFICILISSIMO COMPITO ANTROPOLOGICO E FILOLOGICO:
PENSARE LA "RICAPITOLAZIONE" NON PIù SECONDO LA #LOGICA TEANDRICA DEL #PAOLINISMO RIAFFERMATA DA BENEDETTO XVI, NEL SUO TESTAMENTO ("Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita - e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo.") E RIORGANIZZARE LA RELAZIONE DI #AMORE ("#CHARITAS") TRA LE FIGURE DEL #PRESEPE (GRECCIO, 1223). #BuonAnno, #Buon2024
STORIA DELLA CULTURA EUROPEA:
UNA FILOSOFICA QUESTIONE D’AMORE (CHARITAS).
Una nota sul "disagio della civiltà" (e nella civiltà).
Hannah Arendt, sul "concetto d’#amore in Agostino" (1929), titola il cap. 2 della Parte Prima ("Amor qua appetitus") e della Parte Seconda ("Creator - Creatura"): "Caritas e cupiditas"; ma il Dottore della #Grazia ("Charis") non scrive "Ecce unde incipit Charitas"?
Martin Heidegger, in "Essere e Tempo" (1927), a proposito di Max "Scheler, sotto l’influenza di Agostino e di Pascal", ricorda la frase del’uno e dell’altro, e, cita in nota: "Non intratur in veritatem nisi per charitatem"; "n’entre dans la vérité que par la charité" ("Non si entra nella verità se non con la carità"). Che fare?!
Amore (Charitas") o Mammona ("Caritas"): "Essere, o non essere" (Shakespeare, "Amleto": III,1). Sul "Deus caritas est" non è forse ora di fare chiarezza (claritas)? O, per assurdo, l’amore è "lo zimbello del Tempo" (Shakespeare, Sonetto 116)?!
Non è bene ricordare, filologicamente, che "in principio era il Logos"?! Se non ora, quando?!
*
a) Cfr. Hannah Arendt, "Il concetto d’amore in Agostino", a c. di Laura Boella, SE, 2021.
b) Cfr. Max Scheler, "Ordo amoris", Morcelliana, Brescia.
c) Cfr. S. Freud, "Disagio della civiltà, Bollati Boringhieri, Torino.
Oggi alle 18.
I cristiani pregano per il Sinodo, veglia ecumenica in piazza San Pietro
Sarà presieduta da papa Francesco. Insieme per dire Dio in tutte le lingue del mondo e sottolineare in unità con i leader della altre confessioni cristiane il dovere di puntare alla comunione
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 30 settembre 2023
Insieme, together, per dire Dio in tutte le lingue del mondo. Per abbracciare nella stessa preghiera i tanti carismi che arricchiscono la Chiesa cattolica. Per sottolineare in unità con i leader della altre confessioni cristiane il dovere di puntare alla comunione. Soprattutto per chiedere al Padre il dono dello Spirito perché guidi i lavori della XVI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi che inizierà mercoledì prossimo per concludersi il 29 ottobre.
Oggi in piazza San Pietro è il giorno, anzi la sera di “Together”, la grande veglia che il Papa presiederà alle 18, alla presenza del patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I e dell’arcivescovo di Canterbury, il primate anglicano Justin Welby. In realtà però l’appuntamento inizia molto prima, anzi è già partito. La maggior parte dei giovani dai 18 ai 35 anni, provenienti da diversi Paesi europei e di tutte le denominazioni cristiani hanno raggiunto Roma già da ieri pomeriggio. Per loro è stato preparato un programma apposito, che prevede l’accoglienza presso le comunità e le famiglie romane, quindi stamani dalle 9 alle 11 dei “laboratori” in diverse zone di Roma e, a seguire, il pranzo al sacco, la preghiera di lode in San Giovanni in Laterano, il cammino-pellegrinaggio fino a piazza San Pietro e l’animazione con canti e musiche nell’attesa del Papa.
Gli appuntamenti “giovani” inoltre non si esauriranno con la Veglia ma proseguiranno domani mattina con la Messa nelle varie parrocchie di Roma, seguite dal pranzo. Oltre ottanta le comunità dell’Urbe che hanno aperto le loro porte ai graditissimi ospiti. Together, spiega padre Davide Carbonaro, parroco di Santa Maria in Portico in Campitelli è un evento «molto atteso», perché esprime «l’ecumenismo e la sinodalità, che trovano completezza in questa esperienza» in cui un evento «della Chiesa cattolica è preceduto da un momento di preghiera con fratelli delle altre confessioni cristiane» . «L’accoglienza - aggiunge don Stefano Cascio che guida la comunità di San Bonaventura da Bagnoregio a Torre Spaccata - rientra nel concetto che la Chiesa di Roma presiede nella carità, quindi nell’apertura all’altro».
La Veglia stessa del resto respira l’aria dell’universalità. Non a caso l’appuntamento è stato organizzato nel proprio stile dalla Comunità di Taizé, che si è avvalsa della collaborazione della Segreteria del Sinodo dei vescovi, del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, di quello per i laici, la famiglia e la vita e del Vicariato di Roma. Giunge in questo modo a realizzarsi una proposta lanciata due anni. «All’interno della stessa Chiesa cattolica - disse nell’ottobre 2021 disse il priore di Taizé frerè Alois invitato a parlare a Roma - , il Sinodo porterà alla luce grandi diversità. Queste saranno tanto più feconde nella ricerca della comunione, non per evitare o nascondere i conflitti, ma per alimentare un dialogo che riconcilia. Per favorire questo - aggiunse Alois - , mi sembra auspicabile che nel cammino sinodale ci siano dei momenti di respiro, delle soste, per celebrare l’unità già realizzata in Cristo e renderla visibile».
E sottolineare una volta di più il carattere ecumenico della Veglia, il patriarca ortodosso Bartolomeo I guiderà la preghiera di apertura mentre l’arcivescovo Welby, introdurrà la recita del Padre Nostro. Con loro tante voci differenti legate idealmente insieme dall’impegno a superare le divisioni e a promuovere un cammino di riconciliazione. «È una gioia essere qui - sottolinea Serge Sollogoub, arciprete del Patriarcato ecumenico di Francia - perché quando succede qualcosa in una Chiesa, dobbiamo gioire con essa; il Sinodo della Chiesa cattolica è molto importante». «Questo modo di intendere i legami tra le nostre Chiese - aggiunge la pastora Anne-Laure Danet responsabile delle relazioni tra le Chiese cristiane per la Federazione protestante francese - , legami di interdipendenza, di solidarietà, è essenziale nel movimento ecumenico. E ascoltare la Parola di Dio, lasciare che lo Spirito Santo ci ispiri e ci guidi, è anche parte di questo cammino insieme».
«Taizé è un luogo di ascolto dello Spirito Santo - osserva Karin Johannesson, vescovo della Chiesa luterana di Svezia - parliamo molto nella Chiesa, ma qui vengo per ascoltare, per discernere cosa dobbiamo fare insieme. Il processo del Sinodo è anche un processo di ascolto». Roma più che mai città dialogo dunque. Ma anche scintilla di un percorso virtuoso che vedrà iniziative di preghiera collegate con l’Urbe pressoché in ogni parte del mondo. Come dire che la famiglia dei credenti in Cristo sa che l’invocazione a Dio risulta più efficace se fatta, magari in lingue differenti ma con lo stesso desiderio di unità. Se nata insieme. Together.
COSMOTEANDRIA DEL XXI SECOLO: IL MONDO COME VOLONTÀ E RAPPRESENTAZIONE DELL’UOMO SUPREMO.
PIANETA TERRA:
RIPENSARE COSTANTINO.
DOPO 1700 ANNI DAL PRIMO CONCILIO DI NICEA (325), DI "QUALE" ECUMENISMO, LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E L’INTERA EUROPA (LAICA E RELIGIOSA) VUOLE FARE MEMORIA?
A) - NICEA 325. "Il concilio di Nicea, tenutosi nel 325, è stato il primo concilio ecumenico cristiano. Venne convocato e presieduto dall’imperatore #Costantino I, il quale intendeva ristabilire la pace religiosa e raggiungere l’unità dogmatica, minata da varie dispute, in particolare sull’arianesimo; il suo intento era anche politico, dal momento che i forti contrasti tra i cristiani indebolivano anche la società e, con essa, lo Stato romano. Con queste premesse, il concilio ebbe inizio il 20 maggio del 325. Data la posizione geografica di Nicea, la maggior parte dei vescovi partecipanti proveniva dalla parte orientale dell’Impero. [...]".
B) STORIA #STORIOGRAFIA ED ECUMENISMO: QUESTIONE ANTROPOLOGICA ("CRISTOLOGICA") E ASSEDIO DI COSTANTINOPOLI (1453). Riprendendo il filo dalla "Dotta Ignoranza" (Niccolò Cusano, 1440), la "Donazione di Costantino" (Lorenzo Valla, 1440), e dalla caduta di Costantinopoli (1453) e il fallimento della proposta "cristologica" del "De pace fidei" (N. Cusano, "La pace della fede", 1453), non è forse tempo di corre ai ripari, di ristrutturare il campo e riequilibrare la bilancia antropologica e teologica?!
C) BILANCIA DELLA COSTITUZIONE, BILANCIA DELL’ETICA, E PACE PERPETUA. Una "foto" per riflettere non solo l’8 marzo 2023, ma anche l’ 8 marzo 2025...
#Earthrise #Metaphysics #Anthropology #Theology #Cosmology #InternationalWomensDay #Eleusis2023 #Roma2024
L’AZIONE PASTORALE DELLA CHIESA CATTOLICA E IL NATALE DEL 2022: IL CATTOLICESIMO-ROMANO DI COSTANTINO (NICEA 325 d. C) ESISTERA’ ANCORA NEL 2025 d. C.?! *
La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano
di Michele La Rocca (Insula Europea, 15 Dicembre 2022
La Chiesa rivolge la sua attenzione alla pietà popolare in vasti settori della sua azione pastorale, perché come in passato era stata efficace per arginare gli effetti negativi del movimento protestante, così ora si dimostra valida per contrastare le suggestioni corrosive del razionalismo. La fissa in rapporto con la Liturgia. Si tratta di due espressioni legittime del culto cristiano, che non sono da opporre, né da equiparare, ma da armonizzare. Liturgia e Pietà Popolare sono ordinate alla ricerca di un rapporto armonico in cui la seconda è oggettivamente subordinata e finalizzata alla prima. Un rapporto che va guardato alla luce delle direttive impartite dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium: «I pii esercizi del popolo cristiano siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra Liturgia, da essa traggano in qualche modo ispirazione, e ad essa, data la sua natura di gran lunga superiore, conducano il popolo cristiano» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 13).
Da una parte la pietà popolare è uno spazio adeguato per celebrare in modo libero e spontaneo la «Vita» e le sue molteplici espressioni, insomma uno spazio reale e semplice per la vita di preghiera: attraverso i credenti esercizi, infatti, il fedele dialoga veramente con il Signore, con «discorsi» che egli comprende pienamente e che sente propri; parlando direttamente all’uomo, ne coinvolge il cuore, lo spirito, il corpo. La ritualità attraverso cui si esprime è recepita e accolta dal fedele, perché vi è corrispondenza tra il suo mondo culturale e il linguaggio rituale. Dall’altra la Liturgia invece, pur centrata sul «Mistero di Cristo» e anamnetica per sua natura, proibisce la spontaneità e risulta ripetitiva e formalistica; non riesce a coinvolgere il fedele nella totalità del suo essere, nella sua corporeità e nel suo spirito. Al contrario, ponendo sulle sue labbra parole non sue e spesso estranee al suo mondo culturale, più che un mezzo si rivela un impedimento per la vita di preghiera. La sua stessa ritualità è invece incompresa, perché i suoi moduli espressivi provengono da un mondo culturale che il fedele sente diverso e lontano.
È importante ricordare cosa suggerisce l’ultimo Concilio ecumenico: «ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa ne uguaglia l’efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 7).
Un altro aspetto significativo della Pietà Popolare è il pellegrinaggio, simbolo della condizione di ogni essere umano in quanto homo viator: «Il pellegrinaggio è icona del cammino che ogni persona compie nella sua esistenza. La vita è un pellegrinaggio e l’essere umano è un viator, un pellegrino che percorre una strada fino alla meta agognata» (Francesco, Misericordiae Vultus, 11 aprile, 2015, 14).
La vita dell’uomo nella Bibbia viene presentata come il grande Pellegrino che va alla ricerca dell’uomo e della creazione, fino ad assumere poi in Gesù Cristo la stessa carne della creatura, con cui farà ritorno al Padre. Si parla di un linguaggio semplice e naturale perché i credenti, come tutti gli altri uomini, esprimono il loro sentimento religioso e curano la dimensione della trascendenza. Esso ha un chiaro significato antropologico, descrive e definisce l’essere umano con un’identità definita, in quanto racconta la vita di Cristo e dei cristiani in viaggio verso la casa del Padre, equipaggiati del senso della vita in quanto si sentono amati da Dio.
In passato, raggiungere alcune mete comportava una vita totale: perché partire significava molte volte il non ritorno a causa dei mezzi non potenti, di malattie inguaribili; e questo trasformava il pellegrinaggio in un vero e proprio viaggio verso l’eterno.
L’immagine dell’uomo, che il pellegrinaggio propone, è un ideale rimedio alla rottura antropologica del postmoderno, che spesso descrive l’uomo come un individuo lacerato, senza patria, senza riferimenti e senza prospettiva (Cfr. Z. Bauman, Da pellegrino a turista, in “Rassegna Italiana di Sociologia” 36 (1995/1) 3-26, qui 13-21); una umanità aperta, labile ma senza progettualità. Invece il pellegrinaggio esprime la totalità della vita cristiana e l’autentica immagine dell’uomo, che sa dove lo conduce la strada della vita. L’essere pellegrino e il tema del viaggio appartengono non solo alla Bibbia ma al grande tema dell’umanità, dai filosofi ai poeti, agli scrittori; sono uno dei miti letterari più presenti da Omero con Ulisse, all’inquieto cuore di Agostino.
Come indica la Bolla di indizione del Giubileo, il pellegrinaggio «è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore» (Cfr. L. Pozzoli, L’apostolo e il personaggio-uomo: due nomadi su strade diverse, in AA. VV., Fede e cultura dagli Atti degli Apostoli, EDB, Bologna 1988, 27-55).
Il pellegrinaggio è un evento assai complesso, che abbraccia diversi momenti successivi: «la partenza del pellegrinaggio sarà opportunamente caratterizzata da un momento di preghiera, compiuto nella chiesa parrocchiale oppure in un’altra più adatta, consistente nella celebrazione dell’Eucaristia o di una parte della Liturgia delle Ore o in una peculiare benedizione dei pellegrini. L’ultimo tratto del cammino sarà animato da più intensa preghiera; è consigliabile che quell’ultimo tratto, quando il santuario è già in vista, sia percorso a piedi, processionalmente, pregando, cantando, sostando presso le edicole che eventualmente sorgono lungo il tragitto.
L’accoglienza dei pellegrini potrà dar luogo a una sorta di “liturgia della soglia”, che ponga l’incontro tra i pellegrini e i custodi del santuario su un piano squisitamente di fede; ove sia possibile, questi ultimi muoveranno incontro ai pellegrini, per compiere con loro l’ultimo tratto del cammino.
La permanenza nel santuario dovrà ovviamente costituire il momento più intenso del pellegrinaggio e sarà caratterizzata dall’impegno di conversione, opportunamente ratificato dal sacramento della riconciliazione; da peculiari espressioni di preghiera quali il ringraziamento, la supplica o la richiesta di intercessione, in rapporto alle caratteristiche del santuario e agli scopi del pellegrinaggio; dalla celebrazione dell’Eucaristia, culmine del pellegrinaggio stesso. La conclusione del pellegrinaggio sarà caratterizzata convenientemente da un momento di preghiera, nello stesso santuario o nella chiesa da cui esso è partito; i fedeli ringrazieranno Dio del dono del pellegrinaggio e chiederanno al Signore l’aiuto necessario per vivere con più generoso impegno, una volta tornati nelle loro case, la vocazione cristiana» (Cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. sulla sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium, 287).
Il momento finale del pellegrinaggio è il «commiato»: essa rivela una forte alleanza tra i presbiteri al servizio del santuario e i pellegrini che incaricano i sacerdoti a continuare la loro lode nel luogo più santo. Non deve mai terminare il contatto con Dio, questo dialogo tra Dio e il popolo. Il pellegrinaggio non è un camminare erratico, senza una meta ben precisa. Il pellegrinare verso chiese, santuari, memorie della nostra fede, luoghi della nostra miseria e della misericordia di Dio ci porta a riconsiderare il ministero della Parola e della nostra fede. Inoltre entrare nel santuario in cui Cristo ha già fatto il suo ingresso fa riscoprire all’uomo la paternità e la maternità di Dio.
Al ritorno, il pellegrinaggio ricalca la discesa da Gerusalemme a Gerico e invita tutti di farsi prossimo dei pellegrini di ogni genere, sostando con loro, mettendo a disposizione anche i propri beni, con amore e affetto. Le differenze non devono dividere ma integrare nel piano di Dio e portare all’unione di tutti gli uomini in un solo corpo che è Cristo stesso. Le diversità sono doni di cui si serve lo Spirito per costruire la casa del Padre. Quando Dio rivolge gli occhi verso il suo popolo: «i cristiani scoprono paternità di Dio; l’illusione mitica che li faceva ricondurre alla terra della patria e credere di essere stati creati in diverse caste è distrutta; essi sanno che sono tutti di una stessa famiglia, e perciò veramente fratelli. La fede demitologizza il mondo, smaschera l’errore razzistico, i dogmi sociali, frutti di menzogna, allontanando gli uomini per condurli alla verità che rende liberi. La fede posseduta in comune, crea nello stesso tempo la comprensione tra gli uomini, continua il miracolo della Pentecoste, trionfa sulla confusione babilonica delle lingue, non, del resto per l’unità esteriore del linguaggio ma per l’unità dello spirito che essa stabilisce» (J. Ratzinger, Fraternitè, in Dictionnaire de Spiritualitè, V, 1159).
Il primo pellegrinaggio di ogni uomo dimora nel rinnovamento del cuore: convertirsi è farsi pellegrini verso sé stessi per ricomprendere la propria vita e la propria identità; è volgersi al proprio cuore «là dove lo aspetta quel Dio che scruta i cuori (Cfr. 1 Sam 16,7; Ger 17,10), là dove sotto lo sguardo di Dio egli decide del suo destino» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. past. Gaudium et spes, 1965 dic. 7: cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, in AAS, 58 (1966), 14).
Infatti, «non è tanto il mutamento da un luogo all’altro che ci rende più vicini a Dio, ma una dimora ben preparata, dove Dio possa abitare. A nulla, infatti, servirebbe visitare i Luoghi Santi, fosse pure il Golgota, se non si è in grazia di Dio» (S. Gregorio di Nissa, Epist. 81). La conversione è l’invito all’amore e alla fedeltà a colui che resta fedele sempre anche se noi non lo siamo quasi mai e questa è la certezza che Dio non si è stancato di noi.
«Ravvediti» (Cfr. Ap 2,5): un ritornello continuo dello Spirito che è quasi una dichiarazione di amore da parte del Signore nei riguardi di ogni singolo uomo. La prima parola che il Vangelo annuncia è «conversione» perché compito proprio del ministero apostolico è la predicazione nel nome di Gesù della conversione e del perdono dei peccati a tutte le genti (Cfr. Lc 24,47). Anche noi oggi siamo chiamati ad accettare colui che viene e fa «nuove tutte le cose» (Cfr. Ap 2,5), attraverso un confronto e un «dialogo» aperto e coraggioso con Gesù; l’unico che può permettere la conversione: questo passaggio a un essere nuovo, ma non in qualche aspetto o verso l’interiorità, ma il completo rinnovamento. La meta cristiana del pellegrinaggio «non è più un luogo, una città, un tempio, bensì la persona stessa del Maestro e Signore che il pellegrino deve seguire, portando la propria croce, entrando per la propria parte nel mistero della sua Pasqua» (Commissione Ecclesiale per la pastorale del tempo libero, turismo e sport della Cei, “Venite saliamo sul monte del Signore”, il pellegrinaggio alle soglie del III millennio, nota pastorale, 8).
L’essere cristiani possiamo considerarlo come un invito a superare sé stessi, al cercare di essere sempre gli uni per gli altri, ma soprattutto comporta il seguire il Signore, il mistero della sua Croce che è completamente dedita agli altri e lontana «dall’egoismo dell’io» (J. Ratzinger, Introduzione al Cristianesimo, Quiriniana, Brescia, 1996, 203).
«Chi vuol venga dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Cfr. Mt 16,24.) Questo è anche il senso del Crocifisso, delle sue braccia spalancate che testimoniano il gesto della preghiera; un senso di abbraccio, di fraternità, di amore, di servizio tra uomini e glorificazione a Dio. Sotto questo profilo il pellegrinaggio è un annuncio di fede e i pellegrini sembrano diventare «araldi itineranti di Cristo»; perché «pellegrinare» rappresenta, in qualche modo, quella di Gesù e dei suoi discepoli, che percorrono le strade della Palestina annunciando il Vangelo di salvezza.
* NOTA
#ANTROPOLOGIA, #LINGUISTICA, #FILOLOGIA E MESSAGGIO EVANGELICO: IN #PRINCIPIO ERA IL #VERBO.
CHI HA VISTO L’ A O ... RISTO? Un omaggio a Salvo Micciché e a Carlo Pulsoni e una nota a margine di un articolo sulla #pietà popolare, sul #pellegrinaggio, apparso su Insula Europea...
#MARIAEGIUSEPPE, #GESÙ, E IL #PRESEPE. MA CHE NATALE è questo #Natale2022, con "La pietà popolare: il pellegrinaggio cristiano" ... e la vita e l’#idea platonica di un "#Gesù" segnato da tragico #androcentrismo e costruito ad uso e strumento della casta sacerdotale? #STORIA E #MEMORIA. "È significativo che l’espressione di Tertulliano: «Il cristiano è un altro Cristo», sia diventata: «Il prete è un altro Cristo»" (Albert Rouet, arcivescovo di #Poitiers, 2010).
#APOCALISSE (1,8). Non è il caso e il tempo di riflettere un po’ di più sull’ AO...risto ("Io sono l’Alfa e l’Omega"), sulla delfica #conoscenza di sé, e su #comenasconoibambini? Ricordare che fra pochi giorni inizia il nuovo anno e che #Eleusi, città greca legata alla memoria dei #MisteriElesusini, sarà una delle capitali europea della cultura: #Eleusis2023.
#BUONNATALE E #BUON2023, #BUONANNO
FILOLOGIA E STORIA: RITORNARE A SCUOLA DA LORENZO VALLA (1440) E RISALIRE ALLA SORGENTE DELLA DIFFERENZA DI SIGNIFICATO TRA "CHARITAS" E "CARITAS".
IN #MEMORIA DEL TEOLOGO BELGA CHARLES MOELLER, A 110 ANNI DALLA SUA NASCITA. Note a margine di un articolo di Massimo Borghesi (Insula Europea) *
A) "#Karitas (von lat. #caritas = Teuerung, Hochachtung, hingebende Liebe, uneigennütziges Wohlwollen) ist im Christentum die Bezeichnung für die tätige Nächstenliebe und Wohltätigkeit. [...]"(https://de.wikipedia.org/wiki/Karitas).
B) #CHARITAS (gr. #XAPITAS). Che la "charitas" sia partecipe dell’orizzonte #greco è chiaro, così come la "caritas" sia partecipe dell’orizzonte #latino è altrettanto chiaro, ma che si continui ad equiparare logicamente, teologicamente, antropologicamente e filologicamente, "Dio-amore" ("Deus #charitas est") e "Dio-mammona ("#Deus #caritas est") è semplicente folle e autodistruttivo!
C) "I 110 anni dalla nascita di Charles Moeller (1912-1986), teologo e critico letterario belga, ci offrono l’occasione per ricordare un autore che non può e non deve essere dimenticato. Moeller, professore di filosofia presso l’Università Cattolica di Lovanio, ha collaborato al #ConcilioVaticanoII svolgendo un ruolo decisivo nella stesura dello schema XIII, La Chiesa nel mondo, che ha poi dato vita alla costituzione Gaudium et Spes. È stato Segretario della Segreteria per l’Unità dei Cristiani e, su incarico di Paolo VI, Rettore dell’Istituto Ecumenico di Gerusalemme. È l’autore di due grandi opere.
La prima, Sagesse grecque et paradoxe chrétien, pubblicata nel 1948, è un libro splendido, che ha come interlocutore ideale la gioventù francese, disorientata e priva di certezze, quale emergeva dall’immane tragedia della guerra. A essa, poggiante su un umanesimo distrutto, ben espresso dall’esistenzialismo in auge, Moeller proponeva il “paradosso” cristiano quale umanesimo assolutamente nuovo. Il metodo seguito era, in analogia a quanto aveva fatto #RomanoGuardini nei suoi studi su Hölderlin, Dostojewski, Rilke, di far risultare la verità cristiana rapportandola alla rappresentazione dell’uomo propria dell’opera artistico-letteraria.
Omero e i tragici, Eschilo, Sofocle, Euripide da un lato e i moderni Shakespeare, Racine, Dostojewski dall’altro erano le grandi voci di un coro chiamate a evidenziare tanto i conflitti irrisolti dell’animo greco (il tema del male, del dolore, della morte, ecc.) quanto il modo in cui l’avvenimento cristiano muta l’orizzonte della drammatica nei tragici moderni. Attraversato dall’enigma della morte lo spirito greco oscilla, secondo Moeller, tra un’adesione profonda alla vita e alla terra e un rifiuto delle medesime quale vuota apparenza. Questo dissidio tra amore della “carne” e nostalgia di una pienezza in un aldilà, viene a risolversi solo con il cristianesimo. Solo qui viene realizzato ciò che i greci sognavano: «salvare il reale visibile e trasfigurarlo». Solo la risurrezione della carne consente al cuore di riconciliarsi con la terra senza rinnegare il desiderio di infinito che lo abita. Il dissidio greco torna, non superato, in quella parte della letteratura contemporanea che si rifiuta alla speranza cristiana.
Nel primo dei sei volumi dell’altra grande sua opera, Litterature du XX siècle et christianisme, tradotta in italiano da Vita e Pensiero, dal titolo Il silenzio di Dio, la «fedeltà al mondo» viene espressa mediante le figure di Camus e di Gide mentre il rifiuto, l’ombra sulla realtà, è presente nelle tendenze “gnostiche” di Aldous Huxley e Simone Weil. Ancora una volta solo nel cristianesimo l’antitesi può essere superata. Esso afferma che il mondo è salvo in quanto è trasfigurato. Tale trasfigurazione non sopprime la materia, né la personalità. Julien Green, Graham Greene, Bernanos documentano la difficile strada della fede, speranza, carità in un mondo velato dal dolore e dalla corruzione, il sì al finito nella luce dell’infinito. Fede, speranza e amore - le tre virtù teologali - costituiscono pure il tema dei successivi volumi dell’opera in una forma per cui esse si situano in continuità e al contempo in rottura con la fede, l’attesa, l’amore puramente umani.
Il secondo volume, La fede in Gesù Cristo, vede come interlocutori Sartre, Martin du Gard, H. James, Malègue. Il terzo, La speranza degli uomini, espressa da Malraux, Kafka, Vercors, Sciolokov, Maulnier, Bombard, Sagan, Reymont, prepara, non senza una chiara discontinuità, il quarto, La speranza in Dio Padre, i cui autori: Anna Frank, Miguel de Unamuno, Gabriel Marcel, Charles Du Bos, Fritz Hockwälder, Charles Péguy, «hanno decifrato i segni della seconda virtù teologale in una umanità straziata dal dolore e abbrutita dalla morte». Parimenti il volume quinto, Gli amori umani, con saggi su Françoise Sagan, Brecht, Saint-Exupéry, Simone de Beauvoir, Paul Valéry, Saint-John Perse, doveva aprire il campo al sesto e ultimo volume sull’amore di Dio, l’«amore dello Spirito Santo», che uscirà postumo nel 1993 con il titolo Esilio e ritorno, dove tratta di Marguerite Duras, Ingmar Bergman, Valery Larbaud, François Mauriac, Gertrud von le Fort, Sigrid Undset.
La prospettiva dei volumi era chiara: mostrare mediante un approccio non astratto quale quello della letteratura, il soprannaturale come compimento, impossibile all’uomo, dell’umana natura. Tra cristiano e umano non v’è abisso che il mistero dell’incarnazione non abbia già superato. Fuori da questo incontro vi sono due possibili interpretazioni cristianamente riduttive: «gli umanisti, i quali elaborano un ordine umano chiuso su se stesso; e gli escatologisti, i quali trovano che la cultura, davanti alla prospettiva della fine dei tempi, non ha importanza alcuna». Entrambi, scrive Moeller, «affermano che la cultura cristiana non conta solo che gli uni preferiscono, segretamente, una storia puramente profana, gli altri invece, una storia di contenuto puramente religioso, ma tanto gli uni che gli altri sono infedeli all’incarnazione di Dio nella storia». Essere fedeli a essa significa assumere, nella fede, la totalità dell’umano. Di qui il grande amore di Moeller per Péguy, come di un testimone profetico del regno futuro, regno «carnale-spirituale», «temporale-eterno». «Nel mio Paradiso - scriveva Péguy - ci saranno le cattedrali di Chartres... ci sarà tutto». E ancora, come per puntualizzare: «Nel mio Paradiso ci saranno delle cose». Le cose, spiegava Moeller, «sono le parrocchie, i villaggi, i campi di grano, in una parola il vero regno di Dio, celeste e terrestre».
Un’affermazione che manifestava, appieno, il suo realismo, la sua passione per la realtà, il suo modo di sentire il cristianesimo: come resurrezione della carne e non già come fuga idealistica dal mondo. Nel gennaio del 1979 ho avuto l’occasione di incontrarlo. Un amico doveva intervistarlo per il settimanale “Il Sabato” e mi chiese di accompagnarlo in via della Conciliazione, a Roma, dove si trovava. Ricordo che gli rivolsi una domanda su Simone Weil alla quale rispose: «Debbo dire che il capitolo su Simone Weil del primo volume di Letteratura e cristianesimo non è un buon capitolo. La reattività, con cui l’ho pensato e scritto, mi ha impedito di comprendere il profondo significato della Weil. Ho scritto in modo reattivo, perché in certi ambienti culturali e religiosi del Belgio e della Francia di quel tempo non vi era sufficiente coscienza del pericolo gnostico e dualista di alcuni testi della Weil. Oggi non vi è più questo pericolo nel leggere la Weil e, se si confrontano la prima e la settima edizione, si scorgono i mutamenti che vi ho apportato». Si trattava di una rettifica importante che consentiva di non contrapporre la Weil all’amato Péguy.
Quando lo incontrammo, nel 1979, gli chiedemmo dei suoi progetti futuri. Ci rispose che stava lavorando al sesto volume di Letteratura e cristianesimo, che uscirà postumo, e poi ad un libro sul «metodo di lettura del passato» e, da ultimo, ad un testo su Proust. Instancabile e generoso fino alla fine ci ha lasciato pagine indimenticabili sulla letteratura classica e sulla grande letteratura del ‘900.
* Cfr. Massimo Borghesi, "Dio nella letteratura del ’900", Insula Europea, 30 novembre 2022.
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA: "NOTE" PER ELEUSI 2023
KOENIGSBERG (1784), KALININGRAD (2022), E MISTERI ELEUSINI:
Dopo interi millenni di labirinto e di platonismo per il popolo (Nietzsche), con Hegel e Holderlin, andare oltre Hegel e Holderlin e prepararsi a ripensare la storia della Terra-Madre (Demetra), M->Arianna, e rendere omaggio a ELEUSI, CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2023.
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STORIA, FILOSOFIA, E MEMORIA. HEGEL,
"A HOLDERLIN" [dalla lettera dell’agosto 1796]:
ELEUSI" *
"[...]
Ah! Se da sole ora le porte del tuo santuario si spezzassero,
o Cerere, tu che in Eleusi avevi il trono!
Ebbro di entusiasmo, io proverei ora
il fremito della tua vicinanza,
comprenderei le tue rivelazioni,
interpreterei l’alto senso delle immagini, udrei
gli inni nei banchetti degli dei,
gli alti detti del loro consiglio -
Pure i tuoi atri sono ammutoliti, o dea!
Il cerchio degli dei è fuggito dall’Olimpo
degli altari consacrati,
fuggito dalla tomba dell’umanità profanata
il genio innocente, che qui li incantava! -
La saggezza dei tuoi sacerdoti tace; non un suono dalle sacre
iniziazioni si è salvato fino a noi [...]"
* Cfr. G. W. F. Hegel, "Eleusis, Carteggio. Il poema filosofico del giovane Hegel e il suo epistolario con Hölderlin", Mimesis edizioni 2014 - ripresa parziale).
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"LETTERATURA EUROPEA" E "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI": DEMETRA (LA TERRA-MADRE) ED ELEUSI 2023...
A) L’ORACOLO DI APOLLO AI TROIANI, A DELO: "[...] la #terra da cui traete origine,/ prima culla dei padri, vi vedrà ritornare/ nel suo seno materno, reduci. Su, cercate/ l’antica #madre! [...]" (Virgilio, Eneide, III, 114-117).
B) GIUNONE (E LA RICERCA DI FREUD): "Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo" (Virgilio, Eneide, VII, 312)
C) L’EDIPO COMPLETO (FREUD) E DEMETRA: ELEUSIS 2023. "[...] Rimane ancora aperta la questione della Madre, di cui oggi parlano in pochi. Non si tratta né di ruolo, né di funzione. Si tratta di codici. Perché la Legge del Padre si stabilisca nel modo giusto, è necessaria, a mio avviso, la fiducia nella persona, incarnata nel codice affettivo materno. Ciò che mantiene sempre il legame sociale, anche quando appare spezzato. Sembra che di ciò, in tutto questo importante discorso sui padri, ci si stia dimenticando." (Pietro Barbetta, "Presenza/Assenza del padre", Doppiozero 7 Gennaio 2014).
Il Papa e l’aggravarsi della guerra.
Insostenibile escalation
di Eugenio Mazzarella (Avvenire, venerdì 30 settembre 2022).
È tempo di verità sulla guerra in Ucraina. E la prima verità è che è «un errore pensare che sia un film di cowboys, dove ci sono i buoni e i cattivi, e che sia una guerra tra Russia e Ucraina e basta». Un’evidenza che papa Francesco ci ha ancora una volta messo sotto gli occhi, parlando a 19 religiosi della ’Regione russa’ della Compagnia di Gesù. Dialogo che si può leggere su ’La Civiltà Cattolica’.
È una guerra mondiale, e ne siamo coinvolti tutti. E l’ambigua serie di attentati al gasdotto del Baltico, all’indomani dello scambio aperto di reciproche minacce nucleari tra Mosca e Washington, ci dice quasi tutto del livello dello scontro in questa guerra ’ibrida’ che arriva nei suoi costi umani e sociali sin dentro casa nostra, anche se i nostri figli non sono stati chiamati (come in Ucraina e in Russia) a ’mettere gli scarponi sul terreno’. Il Papa ricorda ancora una volta che a dicembre dello scorso anno un capo di Stato era andato a dirgli le sue preoccupazioni sulla Nato che «era andata ad abbaiare alla porte della Russia senza capire che i russi sono imperiali e temono l’insicurezza ai confini», esprimendogli «la paura che ciò avrebbe provocato una guerra, e questa è scoppiata due mesi dopo», concludendo che «non si può essere semplicisti nel ragionare sulle cause del conflitto», e che egli vede «imperialismi in conflitto, e quando si sentono minacciati e in decadenza, gli imperialismi reagiscono pensando che la soluzione sia scatenare una guerra per rifarsi, e anche per vendere e provare armi».
Ha ragione il Papa. Su tutta la linea. È inutile mettere davanti le colpe dello scatenamento della nuova e terribile fase della guerra in Ucraina e della sua conduzione, che sono pressoché tutte in capo alla Russia, per evitare un discorso franco sulle cause, molto più distribuite del contesto geopolitico internazionale, di questa esplosione dell’escalation sempre più manifesta. Esse sono in capo a entrambi gli imperialismi in conflitto, quello russo da un lato, e quello occidentale dall’altro.
E hanno una radice ’esistenziale’, cioè di interessi incomprimibili alla propria sicurezza per cui, da entrambe le parti, ci si sta dimostrando disposti a correre ogni rischio. Questo è il punto tragico e dirimente. Non c’è solo l’imperialismo russo che si sente minacciato e in decadenza, cioè avviato a quel declassamento a potenza regionale perseguito da alcune cancellerie occidentali. C’è in ballo anche l’insicurezza - la minaccia di decadenza dell’imperialismo occidentale a guida anglo-americana per la graduale perdita della leadership politico-economica di un mondo globalizzato dove avanzano altre candidature alla testa del supermercato globale che ormai è il pianeta, la Cina innanzi tutto e la sua proiezione attrattiva, in antitesi all’area del dollaro, nel grande spazio del Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica).
In Ucraina noi siamo nel pieno di un conflitto, esposto a ogni pericolo, di due imperialismi (al di là della loro ’stazza’ economico-politica, per capacità militare distruttiva e autodistruttiva equivalenti) in insicurezza esistenziale. E anche ammesso, inverosimilmente, che la Russia accettasse o fosse costretta ad accettare il proprio declassamento imperiale, questo non toglierebbe all’altro imperialismo in conflitto le ragioni sostanziali della propria insicurezza sul suo ruolo nel ’nuovo mondo’ in cui ci stanno portando le navi della globalizzazione. E quale sarebbe la prossima espressione di questa nostra insicurezza occidentale? E dell’insicurezza degli altri imperialismi oggi alla finestra del conflitto in Ucraina?
Queste, credo, sono le domande dell’intero pianeta, della famiglia umana dove è sempre la povera gente di tutte le parti (con voce più forte di tutti lo ricorda ancora papa Francesco) a pagare il prezzo maggiore agli imperialismi in conflitto.
È venuto il tempo di pensare che il futuro della globalizzazione, se alla globalizzazione si vuol dare un futuro ’vivente’ e non un pianeta morto del suo ambiente antropizzato, passa solo per una franca e leale accettazione di una cooperazione multilaterale degli imperialismi, dove si possa anche ambire al ruolo di primus inter pares , ma potrà essere primus politicamente, e moralmente, solo chi si farà carico di guidare alla pace e nella pace la stessa competizione economica, senza farla degenerare in un conflitto deciso dalle cannoniere. O meglio non deciso, perché non ci sarà vittoria per nessuno. In Ucraina noi occidentali, e noi italiani, non abbiamo messo ancora gli scarponi sul terreno.
E dobbiamo sperare che non accada. Perché se si arrivasse a questo, sarebbe anche inutile mandare i nostri figli: perché non tornerebbe nessuno, e nessuno sarebbe in grado ancora di partire. In Russia (in modo clamoroso) e anche in Ucraina (sebbene qui non faccia notizia) tanti si ribellano e obiettano a questa guerra. E noi? Noi italiani, noi europei, noi occidentali? Se non per amor di Dio, almeno per egoistico amore di noi stessi, si ascolti la voce di Francesco.
QUESTIONE ANTROPOLOGICA ED ECOLOGIA: SCIENZA E FEDE...
Scenari.
Antropocene: che cosa chiede Dio all’uomo?
Siamo in una nuova era dove l’uomo può giocare il ruolo decisivo nel futuro del Pianeta. Però dal punto di vista cristiano è una sfida a unire il genere umano nella solidarietà e nella carità
di Giuseppe Tanzella-Nitti (Avvenire, sabato 21 maggio 2022)
Durante la seconda metà del XIX secolo, il geologo e sacerdote cattolico Antonio Stoppani, autore del primo trattato di geologia del territorio italiano, intitolato Il Bel Paese (1876), portò l’attenzione sul fatto che la presenza dell’essere umano sul nostro pianeta aveva raggiunto un’influenza globale, suggerendo di chiamare “antropozoica” l’epoca geologica nella quale ormai ci si trovava. Dopo oltre un secolo, Paul Crutzen e Eugene Stormer si ricollegarono proprio a Stoppani intitolando Anthropocene il loro articolo apparso nell’anno 2000 sulla “Global Science News Letter”, nel quale si chiedevano a partire da quale data, e a motivo di quali fenomeni antropici, si potesse definire l’inizio di questa nuova “era geologica”. Il termine è tornato alla ribalta in questi ultimi anni a causa della questione ecologica, dei cambiamenti climatici e degli altri possibili effetti della presenza umana, diffusa e pervasiva.
Dal punto di vista scientifico, la definizione dell’inizio formale di una nuova era spetta ai geologi della International Commission on Stratigraphy (che non ha ancora preso una decisione); tuttavia, nei suoi aspetti mediatici, sociali e politici, nell’Antropocene ci siamo già da un pezzo.
L’essere umano, entrato nella storia naturale «in punta di piedi », per usare un’espressione di Pierre Teilhard de Chardin, sembra poter adesso influenzare in maniera decisiva e globale molte delle dinamiche terrestri a livello chimico, biologico, geologico e ambientale, tanto da poter, appunto, essere considerato un fattore determinante per lo stato complessivo del pianeta. Il tema, però, è filosoficamente più profondo di quanto sembri, se pensiamo che espressioni come “influenza sul pianeta” e “influsso globale” possono riguardare anche la comunicazione, la condivisione e la solidarietà.
Dal documento programmatico Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato (1990) di Giovanni Paolo II, fino alla Laudato si’ (2015) e alla Fratelli tutti (2020) di Francesco, il magistero della Chiesa cattolica ha da tempo guidato una riflessione di primo piano sulla responsabilità ecologica e sullo sviluppo sostenibile, guadagnando sul campo un’autorità ormai riconosciutale a livello internazionale. Sono insegnamenti ben noti che non è necessario qui richiamare. La teologia viene però sollecitata dalla nozione di antropocene a un’ulteriore riflessione, specie se questo termine viene compreso come «epoca in cui l’essere umano giunge a una visione unitaria e globale della sua attività sulla terra». Dio ha infatti affidato agli uomini un creato in via e l’attività umana nel cosmo - ormai operiamo ben oltre i confini della terra - contribuisce al progetto del Creatore mediante la costruzione di un futuro aperto sulla storia.
La teologia potrebbe allora porsi una domanda, forse inconsueta ma significativa: qual è l’Antropocene voluto da Dio? Teilhard de Chardin si era già chiesto un secolo fa qualcosa del genere, sebbene impiegando termini diversi. Partendo dai suoi studi di paleontologia, il pensatore gesuita consegnava la suggestiva visione di un mondo in convergenza evolutiva, che diventa gradualmente più complesso, dalla biosfera fino alla noosfera, ambito del pensiero, che pervade l’intero pianeta. Grazie alla sua vita spirituale, l’uomo avrebbe le risorse per unificare tutto il genere umano nella solidarietà e nella carità. Compito dell’umanità, sosteneva, è allora adoperarsi per realizzare tale condivisione e convergenza, lasciando che Cristo, centro del cosmo e della storia, possa attrarre tutti a sé, affinché Dio sia tutto in tutti.
Se osserviamo gli effetti che cristianesimo ha determinato sulla storia, in modo particolare quella dell’Occidente, non è difficile trovare opere e prospettive di carattere globale e unificante. Si pensi agli ospedali e alla cura dell’umano, alle università e alle economie di condivisione generate dai primi istituti di credito. Si tratta di iniziative nate dal lavoro responsabile dei cristiani, ispirate a ideali di solidarietà, di condivisione e di promozione. E si stratta di attività che hanno caratterizzato in modo globale, esteso, la nostra vita sul pianeta.
Ma possiamo andare più in là e chiederci, appunto: quali manifestazioni dovrebbe avere la presenza influente dell’essere umano sul pianeta perché egli cooperi, secondo il piano di Dio, a portare il creato verso un suo compimento? La prima di esse è fare del genere umano un’unica famiglia. Tutti gli esseri umani sono ordinati a divenire membra dello stesso corpo, il corpo di Cristo: la Chiesa, sacramento universale di salvezza, è figura e segno di questa unione, ci ha ricordato il Concilio Vaticano II. L’influenza e la presenza del genere umano sul pianeta, poi, dovrebbero essere tali da aiutare, in ogni luogo e in ogni circostanza, chi rimane indietro, facendosi carico di tutti, perché «tutti siamo responsabili di tutti», espressione cara a Giovanni Paolo II e a Francesco. «Quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale - scrive Francesco nella Laudato si’ - niente e nessuno è escluso da tale fraternità. [...] Tutto è in relazione, e tutti noi esseri umani siamo uniti come fratelli e sorelle in un meraviglioso pellegrinaggio, legati dall’amore che Dio ha per ciascuna delle sue creature e che ci unisce anche tra noi». (n. 92).
Nell’antropocene voluto da Dio, la rete di comunicazione con la quale l’essere umano ha interamente avvolto il pianeta, e la globalizzazione che ne deriva, verrebbero impiegate per distribuire le risorse laddove è più necessario. Si investirebbe per accrescere in tutti la qualità della vita, ma anche per condividere il pane della cultura, dell’istruzione e della conoscenza, perché comprendere la nostra storia e il ruolo dell’uomo nel cosmo è espressione di una dignità alla quale tutti abbiamo diritto. In sostanza, nell’antropocene che Dio si attende dall’uomo, la scienza sarebbe al servizio dello sviluppo di tutti e l’uomo di scienza, perché sa di più, dovrebbe servire di più...
Il mondo in cui viviamo è un mondo in costruzione, un mondo nel quale gli uni influiranno sempre più sugli altri, un mondo in cui saremo sempre più consapevoli di essere tutti in relazione, fra noi e con la natura. È però indispensabile restare tutti aperti alla relazione più importante, quella con Colui che custodisce in Sé il progetto del mondo e il senso della storia. Solo così le relazioni potranno essere costruite su un fondamento solido, nella carità, nella solidarietà e nel rispetto. «Il presente e il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio», scrive san Paolo ai Corinzi (1Cor 3, 21-23). La teologia cristiana è persuasa che in queste poche parole siano contenute tutte le istruzioni per gestire saggiamente la nuova era geologica, se così proprio fosse, che l’essere umano ha ormai inaugurato.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
SCIENZA E FEDE VATICANA: LA CATTEDRA DELL’EMBRIONE. DOPO LE TRACCE DEL DNA, TROVATE LE IMPRONTE DIGITALI DI DIO!!! IL DISEGNO "INTELLIGENTE" DEGLI SCIENZIATI "CATTOLICI" E LA LORO VECCHIA E "DIABOLICA" ALLEANZA.
FLS
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA SESSIONE PLENARIA
DEL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI
Sala del Concistoro *
Signori Cardinali,
cari fratelli Vescovi e Sacerdoti,
cari fratelli e sorelle!
Vi saluto tutti di cuore, e ringrazio il Cardinale Koch per le parole che mi ha rivolto a nome di voi membri, consultori e collaboratori del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
Oggi si conclude la Plenaria del vostro Consiglio, che è stato finalmente possibile tenere in presenza dopo averla rimandata più volte a causa della pandemia. Questa, con il suo tragico impatto sulla vita sociale del mondo intero, ha fortemente condizionato anche le attività ecumeniche, impedendo negli ultimi due anni la realizzazione dei consueti contatti e di nuovi progetti. Al tempo stesso, però, la crisi sanitaria è stata anche un’opportunità per rafforzare e rinnovare le relazioni tra i cristiani.
Un primo significativo risultato ecumenico della pandemia è stata la rinnovata consapevolezza di appartenere tutti all’unica famiglia cristiana, consapevolezza radicata nell’esperienza di condividere la medesima fragilità e di poter confidare solamente nell’aiuto che viene da Dio. Paradossalmente, la pandemia, che ci ha costretti a mantenere le distanze gli uni dagli altri, ci ha fatto comprendere quanto in realtà siamo vicini gli uni agli altri e quanto siamo responsabili gli uni degli altri. È fondamentale continuare a coltivare questa consapevolezza, e far scaturire da essa iniziative che rendano esplicito e accrescano questo sentimento di fratellanza. E su questo vorrei sottolineare: oggi per un cristiano non è possibile, non è praticabile andare da solo con la propria confessione. O andiamo insieme, tutte le confessioni fraterne, o non si cammina.
Oggi la coscienza dell’ecumenismo è tale che non si può pensare di andare nel cammino della fede senza la compagnia dei fratelli e delle sorelle di altre Chiese o comunità ecclesiali. E questa è una grande cosa. Soli, mai. Non possiamo. È facile, infatti, dimenticare questa profonda verità. Quando ciò accade alle Comunità cristiane, ci si espone seriamente al rischio della presunzione di autosufficienza e della autoreferenzialità, che sono gravi ostacoli per l’ecumenismo. E noi lo vediamo. In alcuni Paesi ci sono certe riprese egocentriche - per così dire - di alcune comunità cristiane che sono un tornare indietro e non potere avanzare. Oggi, o si cammina tutti insieme o non si può camminare. È una verità e una grazia di Dio questa coscienza.
Prima ancora che l’emergenza sanitaria finisse, il mondo intero si è trovato ad affrontare una nuova tragica sfida, la guerra attualmente in corso in Ucraina. Dopo la fine della seconda guerra mondiale non sono mai mancate guerre regionali - tante! Pensiamo al Ruanda, per esempio, 30 anni fa, per dirne una, ma pensiamo al Myanmar, pensiamo... Ma poiché sono lontane, noi non le vediamo, mentre questa è vicina e ci fa reagire -, tanto che io ho spesso parlato di una terza guerra mondiale a pezzetti, sparsa un po’ ovunque. Tuttavia, questa guerra, crudele e insensata come ogni guerra, ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero, e non può non interpellare la coscienza di ogni cristiano e di ciascuna Chiesa.
Dobbiamo chiederci: cosa hanno fatto e cosa possono fare le Chiese per contribuire allo «sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale» (Enc. Fratelli tutti, 154)? È una domanda a cui dobbiamo pensare insieme.
Nel secolo scorso, la consapevolezza che lo scandalo della divisione dei cristiani avesse un peso storico nel generare il male che ha avvelenato il mondo di lutti e ingiustizie aveva mosso le comunità credenti, sotto la guida dello Spirito Santo, a desiderare l’unità per cui il Signore ha pregato e ha dato la vita. Oggi, di fronte alla barbarie della guerra, questo anelito all’unità va nuovamente alimentato. Ignorare le divisioni tra i cristiani, per abitudine o per rassegnazione, significa tollerare quell’inquinamento dei cuori che rende fertile il terreno per i conflitti.
L’annuncio del vangelo della pace, quel vangelo che disarma i cuori prima ancora che gli eserciti, sarà più credibile solo se annunciato da cristiani finalmente riconciliati in Gesù, Principe della pace; cristiani animati dal suo messaggio di amore e fraternità universale, che travalica i confini della propria comunità e della propria nazione. Torniamo su quello che ho detto: oggi, o camminiamo insieme o rimarremo fermi. Non si può camminare da soli. Ma non perché è moderno, no: perché lo Spirito Santo ha suscitato questo senso dell’ecumenismo e della fratellanza.
Da questo punto di vista, la vostra riflessione su come celebrare in modo ecumenico il 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea, che ricorrerà nel 2025, rappresenta un contributo prezioso. Nonostante le travagliate vicende della sua preparazione e soprattutto del successivo lungo periodo di recezione, il primo Concilio ecumenico è stato un evento di riconciliazione per la Chiesa, che in modo sinodale riaffermò la sua unità intorno alla professione della propria fede. Lo stile e le decisioni del Concilio di Nicea devono illuminare l’attuale cammino ecumenico e far maturare nuovi passi concreti verso la meta del pieno ristabilimento dell’unità dei cristiani.
Dato che il 1700° anniversario del primo Concilio di Nicea coincide con l’anno giubilare, auspico che la celebrazione del prossimo giubileo abbia una rilevante dimensione ecumenica.
Poiché il primo Concilio ecumenico fu un atto sinodale e manifestò anche a livello della Chiesa universale la sinodalità quale forma di vita e di organizzazione della comunità cristiana, voglio sottolineare l’invito che, insieme alla Segreteria Generale del Sinodo, il vostro Consiglio ha indirizzato alle Conferenze episcopali, chiedendo loro di cercare i modi per ascoltare, durante l’attuale processo sinodale della Chiesa cattolica, anche le voci dei fratelli e delle sorelle di altre Confessioni sulle questioni che interpellano la fede e la diaconia nel mondo di oggi.
Se vogliamo davvero ascoltare la voce dello Spirito, non possiamo non sentire ciò che ha detto e sta dicendo a tutti coloro che sono rinati «da acqua e da Spirito» (Gv 3,5).
Andare avanti, camminare insieme. È vero che il lavoro teologico è molto importante e dobbiamo riflettere, ma non possiamo aspettare di fare il cammino di unità finché i teologi si mettono d’accordo.
Una volta un grande teologo ortodosso mi disse che lui sapeva quando i teologi saranno d’accordo. Quando? Il giorno dopo il giudizio finale, mi ha detto. Ma nel frattempo? Camminare come fratelli, nella preghiera insieme, nelle opere di carità, nella ricerca della verità. Come fratelli. E questa fratellanza è per tutti noi.
Carissimi, vi incoraggio a proseguire nel vostro impegnativo e importante servizio, e vi accompagno con la mia costante vicinanza e gratitudine. Chiedo al Signore che vi benedica, e per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie.
* Fonte: Vatican.va, 6 maggio 2022.
KANT E LA DOMANDA ANTROPO-LOGICA: CHI SONO "IO"? *
La corona della pace
Dall’Antico Testamento ai nostri giorni
di Piero Stefani (Il Regno/Attualità, 6/2022, 15/03/2022)
Nel rito preconciliare della messa in latino, non di rado il Vangelo iniziava con questa formula: «In illo tempore Iesus dixit...». Anche ora, quando non si è nelle condizioni di riportare l’ambientazione precisa dell’episodio, si ricorre a: «In quel tempo Gesù disse...». È una clausola che riguarda il passato. Di contro, nei profeti d’Israele l’espressione «in quel giorno (ba-yom ha-hu)» si proietta verso l’avvenire (cf. Zc 14,20); lo stesso vale per «Ecco, verranno giorni» (Ger 31,31). Vi è però una formula ancor più radicale: «Alla fine dei giorni (be‘aharit ha-yamin)», ed è proprio quest’ultima a contraddistinguere l’oracolo di pace presente, in termini identici, in due diversi profeti: Isaia e Michea.
Soltanto alla fine dei giorni un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo; solo allora si smetterà di fare guerra (cf. Is 2,2-4; Mi 4,1-3). La filologia si impegna a precisare il senso dell’espressione; resta fuor di dubbio che essa riguarda il futuro. La fine dei giorni non può essere mai declinata al presente. Dunque, finché ci sono i nostri giorni, non è dato sperare nella venuta di «quei giorni»?
Sperare comporta guardare in avanti; a volte conviene però voltarsi anche indietro per comprendere i modi in cui si è concepita questa porta dischiusa verso il futuro. Per pensare bisogna avere fiducia nella ragione, per farlo in modo maturo occorre individuarne i limiti. Questo procedere si definisce critico. Esso, a fine Settecento, raggiunse il proprio vertice con Kant, il filosofo vissuto a Königsberg, l’attuale Kaliningrad, enclave russa tra Lituania e Polonia.
Per Kant le questioni fondamentali di tutta la nostra esistenza si riducono a tre: che cosa posso sapere, che cosa debbo fare, in che cosa ho il diritto di sperare. Le domande, formulate in modo semplice, ricevono tutte e tre un trattamento filosofico molto articolato; tuttavia tra esse la questione più complessa è quella relativa alla speranza. La prima domanda infatti è solo teorica e speculativa, la seconda solo pratica, mentre la terza si collega a entrambe le componenti.
Per sperare non basta sapere semplicemente come vanno le cose, né è sufficiente impegnarsi nell’agire in modo giusto: è necessario trovare il punto di tangenza tra essere e dover essere. Secondo Kant, mentre il sapere giunge alla conclusione che qualcosa è poiché qualcosa accade, la speranza conclude che qualcosa sia poiché qualcosa deve accadere.
La speranza non può appoggiarsi solo sulla descrizione della realtà e non si limita neppure a prospettare il dovere: essa è indirizzata verso un dover essere chiamato a diventare reale in virtù di una forza non totalmente sottoposta al nostro controllo. Anche se la si pensa come un progetto, la speranza non è paragonabile ai programmi la cui realizzazione dipende dall’azione di chi ora li sta mettendo in pratica. Il farsi della speranza non è paragonabile al processo che porta la materia prima a diventare manufatto. La clausola in base alla quale qualcosa sarà perché qualcosa deve accadere sta a indicare la presenza di questo salto qualitativo.
Il progetto è, ovviamente, sulla carta e non ancora nella realtà. Il passaggio dal virtuale al reale è intrinsecamente esposto a rischi; tuttavia, il più delle volte, esso è connesso a quanto si fa e non già a quel che deve accadere. La speranza ha invece bisogno di appoggiarsi a una realtà - piccola o grande che sia - posta al di là della sfera del nostro agire.
La speranza si situa nello spazio posto tra l’agire e la meta che l’opera si prefigge di conseguire. Quando questo salto è molto grande il fine può apparire utopico. Non ci è dato di controllare la forza in grado di garantire che quanto deve essere effettivamente sia. Per questa ragione la pace messianica, allorché, secondo le parole di Isaia e Michea, le armi saranno convertite negli strumenti del buon operare umano, è apparsa ai più un’utopia. La storia parla il linguaggio della guerra o al più delle tregue, non quello di una pace che non conosce tramonto.
L’ideale della pace perpetua
Nel 1795, quando l’Europa era scossa dai sussulti della Rivoluzione francese, mentre Russia, Impero asburgico e Prussia si spartivano la Polonia ed erano in incubazione le grandi guerre del periodo napoleonico, Immanuel Kant scrisse l’opuscolo Progetto per una pace perpetua. Quelle pagine non si limitano a individuare le modalità per conseguire tregue prolungate in grado di garantire una tranquilla convivenza tra gli stati; esse prospettano un esito più alto in cui la pace sarà condizione normale e permanente per tutta l’umanità.
Il libretto assume la veste di progetto fornendo regole per fondare un diritto cosmopolitico (noi diremmo internazionale) in grado di garantire a tutti una pacifica convivenza. Nelle ultime righe dell’opera si legge: «Se è un dovere, ed anche una fondata speranza, realizzare uno stato di diritto pubblico,1 anche se solo con una approssimazione progressiva all’infinito, allora la pace perpetua, che succederà a quelli che sono stati sino a ora falsamente denominati trattati di pace (propriamente, armistizi), non è idea vuota. Ed anzi sarà un compito che, assolto per gradi, si avvicinerà sempre più velocemente al suo adempimento (perché è sperabile che i periodi di tempo in cui avverranno tali progressi si faranno sempre più brevi)».
Dovere e fondata speranza assumono l’aspetto di tangenza all’infinito: non li si raggiungerà mai, ma ci si può avvicinare sempre. La vera meta diviene così un continuo camminare. In termini consoni agli addetti ai lavori, si dovrebbe parlare di uso noumenico regolativo dell’idea di pace. L’aver definito «progetto» il trattato conferma il carattere laico del pensare di Kant. In questo ambito concettuale non si spera nell’irruzione dall’esterno di un evento messianico. L’operare umano non può andare al di là di un’approssimazione all’infinito. La pace perpetua conserverà sempre l’aspetto di un ideale ancora da realizzare. Non si arriverà mai a una pace definitiva; tuttavia la tensione per giungervi avvicinerà sempre più gli armistizi a veri e propri trattati di pace.
Come stanno le cose ai nostri giorni? Le attuali guerre hanno perso le connotazioni giuridiche un tempo a esse consuete. Oggi, in pratica, non è più dato pensare a trattati che pongano fine a guerre dichiarate perché queste ultime non esistono più.
Semplicemente si fanno guerre senza prendersi la briga di dichiararle. Per alludere a Ugo Grozio e al suo capolavoro De jure belli ac pacis, è arduo stabilire le regole della pace là dove non ci sono più le regole della guerra. La guerra civile sembra essere diventata il modello di ogni tipo di scontro bellico. Nei nostri giorni, quando le armi perdono di virulenza, a prolungarsi a tempo indeterminato sono, spesso, guerre condotte «a bassa intensità» (il Donbass ha molti, crudeli parenti in giro per il mondo).
La pace messianica
Se è lecito avere nostalgia, oltre che dei grandi ideali kantiani, anche delle regole della guerra e della pace, che dire della pace messianica di cui parlò il filosofo neo-kantiano Hermann Cohen? Egli, mentre l’Europa era sconvolta dalla Prima guerra mondiale, ripensò, alla fine della sua vita, alla propria origine ebraica e scrisse un’opera - uscita postuma nel 1918 - dal titolo che evoca a un tempo sia Kant (cf. La religione nei limiti della semplice ragione) sia l’antica sapienza d’Israele: La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo.
Essa si conclude parlando di pace; lo fa però in termini messianici e non già noumenici. La pace è il fine assoluto che non può essere mai reso puro mezzo: «La pace in quanto fine dell’uomo è il Messia, che libera gli uomini e i popoli da ogni dissidio, che appiana il dissidio nell’uomo stesso e produce infine per l’uomo la riconciliazione con il suo Dio. (...) Il messianismo è e rimane la forza fondamentale della coscienza ebraica. E il Messia è il principe della pace (...) Qual è il compendio della vita umana nello spirito della Bibbia? È la pace. Tutto il senso, tutto il valore della vita risiede nella pace. Essa è l’unità di tutte le forze vitali, il loro equilibrio, è l’appianamento di tutti i contrasti. La pace è la corona della vita».2
«Corona della vita», l’espressione ebraica shalom ‘alekhem (al pari della sua forma sorella araba) resa alla lettera significa «pace su di voi». La pace è una realtà che scende dall’alto e si posa sul capo.
Il libro di Hermann Cohen termina con queste parole: «La pace è l’emblema dell’eternità, è la parola d’ordine della vita umana, tanto nel suo comportamento individuale quanto nell’eternità della sua missione storica. In questa eternità storica si compie la missione di pace dell’umanità messianica».3 In un mondo irredento solo la speranza in una pace messianica, di cui nei momenti felici è dato gustare già qualche anticipazione (la tradizione ebraica parla del sabato come di un sessantesimo del mondo avvenire), può, forse, reggere di fronte alla catastrofe.
In un mondo lacerato dalle guerre, la sfida lanciata dalla speranza messianica ebraica al Messia cristiano definito anch’esso «principe della pace» continua, questa volta senza alcun «forse», a stagliarsi all’orizzonte. Sta alla comunità dei credenti in Gesù Cristo cercare i modi per rispondervi.
1 Vale a dire l’esistenza di un effettivo diritto internazionale.
2 H. Cohen, La religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, 636-638.
3 Ivi, 640.
*
NOTA:
ANTROPOLOGIA E CRISTOLOGIA ("ECCE HOMO").
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso: "Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ, ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Questo è il problema...
Federico La Sala
LA GUERRA DI TROIA NON E’ MAI FINITA: SIMONE WEIL TRA STORIA E PROFEZIA. Il potere delle "parole maiuscole"
Novecento. Simone Weil tra storia e profezia
Continua a suscitare interesse la filosofa, della quale tornano in libreria saggi e testimonianze Forte in lei il rifiuto del potere, violento tradimento dell’ideale
di Roberto Righetto (Avvenire, domenica 27 febbraio 2022)
È sempre l’ora di Simone Weil. Anche in Italia si continuano a pubblicare, o ripubblicare, le sue opere. La casa editrice Eleuthera propone, nel volume Incontri libertari a cura di Maurizio Zani (pagine 272, euro 18,00) alcuni suoi scritti giovanili su marxismo e nazismo ove trapela l’ostilità della pensatrice francese verso ogni forma di Stato. Erano gli anni in cui la Weil decideva di andare a lavorare in fabbrica per condividere la sorte degli operai e in cui maturava l’idea di porre in atto un’opera di sensibilizzazione culturale dei ceti popolari, consapevole - come sarebbe stato anni dopo don Milani - che solo l’istruzione avrebbe potuto infondere nei lavoratori e nelle lavoratrici la coscienza dei propri diritti. Anni in cui Simone si recò in Germania per verificare l’operato dei partiti di sinistra e dei sindacati e in cui ospitò a Parigi Trockij, col quale però litigò perché l’esponente comunista, pur rivale di Stalin, giudicava ancora positivamente l’esperimento sovietico e qualificava come “operaio” lo Stato russo.
In quei primi anni Trenta la Weil maturò un giudizio complessivamente negativo verso la forma statale, ritenuta sinonimo di oppressione. Aveva in mente le degenerazioni autoritarie del comunismo in Russia e presentiva quanto stava germinando in Germania con l’affermarsi del nazismo. Anche a livello di filosofia della storia, criticava Marx e le sue teorie viziate da un «riduzionismo esasperato», che riconduce solo agli elementi economici e ai rapporti di produzione i movimenti storici fondamentali, ignorando l’apporto degli individui e dei fattori psicologici e culturali.
Delusa dai partiti comunisti e socialdemocratici che vede all’opera in terra tedesca, «la Weil - scrive Zani - avverte un sensibile isolamento rispetto a tutte quelle forze intellettuali e politiche che sembrano incapaci di cogliere le minacce incombenti in Europa e che porteranno alla tragedia della Seconda guerra mondiale». Spirito inquieto e sinceramente ribelle, Simone Weil, dopo l’infelice esperienza della Guerra civile spagnola, lasciò cadere a poco a poco i suoi interessi verso la politica e si indirizzò verso temi più filosofici e religiosi.
Come risulta evidente da un altro volume che Mimesis ora ripropone, Simone Weil come l’abbiamo conosciuta di Joseph-Marie Perrin e Gustave Thibon (pagine 170, euro 16,00), che raccoglie le testimonianze delle due figure che più la introdussero alla fede cristiana assieme a padre Marie-Alain Couturier, quest’ultimo incontrato dopo aver lasciato la Francia per gli Stati Uniti, nel luglio 1942. Non a caso scrisse proprio a lui queste parole nella Lettera a un religioso: «Quando leggo il Nuovo Testamento, i mistici, la liturgia, quando vedo celebrare la messa, avverto quasi la certezza che questa fede è la mia, o più esattamente sarebbe mia senza la distanza che la mia imperfezione ha posto tra me e lei».
A Couturier l’aveva presentata il confratello domenicano Perrin, che Simone aveva frequentato a Marsiglia a partire dal 1941. Con quest’ultimo, impegnato nella Resistenza, era diventato amico e a lungo avevano discusso del cristianesimo, anche animatamente. Ma la filosofa aveva preferito non ricevere il battesimo.
Pur manifestando la sua adesione alla figura di Cristo, rimanevano in lei numerose perplessità sulla Chiesa cattolica. Che emergono in tutta evidenza nel volume Attesa di Dio, pubblicato postumo nel 1949 proprio su iniziativa di padre Perrin.
Non sopportava la Chiesa cattolica come organizzazione e collettività, e poi l’incapacità che riscontrava a quel tempo di valorizzare le altre culture e religioni e il mondo dei non credenti (non c’era ancora stato il Concilio), manifestatasi con la violenza più volte nel corso della storia. Infine, pesava il suo sentirsi inadeguata a essere accolta dalla Chiesa. Per questo partecipava alla Messa ma non voleva ricevere l’ostia.
Anche in un altro saggio, I catari e la civiltà mediterranea, che opportunamente Marietti rimanda in libreria, emerge la sua critica alla politica centralizzatrice della Chiesa che avrebbe aperto la strada all’Inquisizione, fermando anche la spinta per un modello pacifico che veniva dall’Umbria, con san Francesco. Allo stesso modo, il gotico avrebbe cancellato il romanico.
Come racconta nel volume ripubblicato da Mimesis Gustave Thibon, il filosofo-contadino che Simone frequentò in Provenza fra il 1941 e il ’42, l’ostacolo intellettuale verso la Chiesa rimase insormontabile. Di qui la sua simpatia verso il manicheismo e il catarismo e la sua ripetuta condanna delle degenerazioni totalitarie del cattolicesimo nel corso della storia.
La sua preferenza andava ai vinti, a coloro che avevano - e hanno - saputo resistere al male prendendo su di sé il dolore degli altri. Thibon ne riporta un aforisma: «La pulizia filosofica della religione cattolica non è mai stata fatta; per farla, bisognerebbe essere al contempo dentro e fuori».
Ma nonostante tutto, così conclude la sua testimonianza: «Tutto ciò che sappiamo di Simone Weil ci fa intuire che appartiene a quella Chiesa dei santi la cui vita è nascosta in Dio. Simone Weil ha appassionatamente amato l’anima della Chiesa; se ne è nutrita, vi ha attinto le sue più alte ragioni di vita: il suo solo errore è stato di dimenticare che quest’anima si portava dietro un corpo, con la sua miseria e le sue esigenze. E non solo ha vissuto di Chiesa, ma ha desiderato morire per essa».
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E MESSAGGIO EVANGELICO: UNA QUESTIONE DI "RICAPITOLAZIONE", SECONDO UMANITA’ ("ECCE HOMO") NON SECONDO VIRILITA’ ("ECCE VIR)! *
La “ricapitolazione” di tutte le cose in Cristo
di Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 14 febbraio 2001) *
1. Il disegno salvifico di Dio, “il mistero della sua volontà” (Ef 1,9) concernente ogni creatura, è espresso nella Lettera agli Efesini con un termine caratteristico: “ricapitolare” in Cristo tutte le cose, celesti e terrestri (cfr Ef 1,10). L’immagine potrebbe rimandare anche a quell’asta attorno alla quale si avvolgeva il rotolo di pergamena o di papiro del volumen, recante su di sé uno scritto: Cristo conferisce un senso unitario a tutte le sillabe, le parole, le opere della creazione e della storia.
A cogliere per primo e a sviluppare in modo mirabile questo tema della ‘ricapitolazione’ è sant’Ireneo vescovo di Lione, grande Padre della Chiesa del secondo secolo. Contro ogni frammentazione della storia della salvezza, contro ogni separazione tra Antica e Nuova Alleanza, contro ogni dispersione della rivelazione e dell’azione divina, Ireneo esalta l’unico Signore, Gesù Cristo, che nell’Incarnazione annoda in sé tutta la storia della salvezza, l’umanità e l’intera creazione: “Egli, da re eterno, tutto ricapitola in sé” (Adversus haereses III, 21,9).
2. Ascoltiamo un brano in cui questo Padre della Chiesa commenta le parole dell’Apostolo riguardanti appunto la ricapitolazione in Cristo di tutte le cose. Nell’espressione “tutte le cose” - afferma Ireneo - è compreso l’uomo, toccato dal mistero dell’Incarnazione, allorché il Figlio di Dio “da invisibile divenne visibile, da incomprensibile comprensibile, da impassibile passibile, da Verbo divenne uomo. Egli ha ricapitolato tutto in se stesso, affinché come il Verbo di Dio ha il primato sugli esseri sopracelesti, spirituali e invisibili, allo stesso modo egli l’abbia sugli esseri visibili e corporei. Assumendo in sé questo primato e donandosi come capo alla Chiesa, egli attira tutto in sé” (Adversus haereses III, 16,6). Questo confluire di tutto l’essere in Cristo, centro del tempo e dello spazio, si compie progressivamente nella storia superando gli ostacoli, le resistenze del peccato e del Maligno.
3. Per illustrare questa tensione, Ireneo ricorre all’opposizione, già presentata da san Paolo, tra Cristo e Adamo (cfr Rm 5,12-21): Cristo è il nuovo Adamo, cioè il Primogenito dell’umanità fedele che accoglie con amore e obbedienza il disegno di redenzione che Dio ha tracciato come anima e meta della storia. Cristo deve, quindi, cancellare l’opera di devastazione, le orribili idolatrie, le violenze e ogni peccato che l’Adamo ribelle ha disseminato nella vicenda secolare dell’umanità e nell’orizzonte del creato. Con la sua piena obbedienza al Padre, Cristo apre l’era della pace con Dio e tra gli uomini, riconciliando in sé l’umanità dispersa (cfr Ef 2,16). Egli ‘ricapitola’ in sé Adamo, nel quale tutta l’umanità si riconosce, lo trasfigura in figlio di Dio, lo riporta alla comunione piena con il Padre. Proprio attraverso la sua fraternità con noi nella carne e nel sangue, nella vita e nella morte Cristo diviene ‘il capo’ dell’umanità salvata. Scrive ancora sant’Ireneo: “Cristo ha ricapitolato in se stesso tutto il sangue effuso da tutti i giusti e da tutti i profeti che sono esistiti dagli inizi” (Adversus haereses V, 14,1; cfr V, 14,2).
4. Bene e male sono, quindi, considerati alla luce dell’opera redentrice di Cristo. Essa, come fa intuire Paolo, coinvolge tutto il creato, nella varietà delle sue componenti (cfr Rm 8,18-30). La stessa natura infatti, come è sottoposta al non senso, al degrado e alla devastazione provocata dal peccato, così partecipa alla gioia della liberazione operata da Cristo nello Spirito Santo.
Si delinea, pertanto, l’attuazione piena del progetto originale del Creatore: quello di una creazione in cui Dio e uomo, uomo e donna, umanità e natura siano in armonia, in dialogo, in comunione. Questo progetto, sconvolto dal peccato, è ripreso in modo più mirabile da Cristo, che lo sta attuando misteriosamente ma efficacemente nella realtà presente, in attesa di portarlo a compimento. Gesù stesso ha dichiarato di essere il fulcro e il punto di convergenza di questo disegno di salvezza quando ha affermato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). E l’evangelista Giovanni presenta quest’opera proprio come una specie di ricapitolazione, un “riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,52).
5. Quest’opera giungerà a pienezza nel compimento della storia, allorché - è ancora Paolo a ricordarlo - “Dio sarà tutto in tutti” (1Cor 15,28).
L’ultima pagina dell’Apocalisse - che è stata proclamata in apertura del nostro incontro - dipinge a vivi colori questa meta. La Chiesa e lo Spirito attendono e invocano quel momento in cui Cristo “consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza... L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa (Dio) ha posto sotto i piedi” del suo Figlio (1Cor 15,24.26).
Al termine di questa battaglia - cantata in pagine mirabili dall’Apocalisse - Cristo compirà la ‘ricapitolazione’ e coloro che saranno uniti a lui formeranno la comunità dei redenti, che “non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione” (CCC, 1045).
La Chiesa, sposa innamorata dell’Agnello, con lo sguardofisso a quel giorno di luce, eleva l’invocazione ardente:“Maranathà” (1Cor 16,22), “Vieni, Signore Gesù!” (Ap 22,20).
* FONTE: VATICAN.VA, 14 FEBBRAIO 2001 (RIPRESA PARZIALE)
FLS
COSMOTEANDRIA E SONNO DOGMATICO: SCHOPENHAUER E IL MACROANTROPO, IL CORPO MISTICO DEL MONDO.
Storia della filosofia
Le considerazioni di Schopenhauer sulla sua filosofia
di Saverio Mariani (Ritiri Filosofici, 20 Febbraio 2022)
In quella che abbiamo definito (almeno in parte) un’opera a sé stante di Arthur Schopenhauer, il filosofo tedesco si pone nella posizione di commentare il suo contributo filosofico in relazione alla storia della filosofia nella quale sente di ricoprire un posto. Nei Supplementi a «Il Mondo come volontà e rappresentazione» infatti, Schopenhauer è franco, diretto, in alcuni passaggi appare “scocciato” da un certo ambiente filosofico. Ci sono ampi passi dell’opera nei quali entra in un dialogo nient’affatto morbido con la filosofia del suo tempo. -L’ultimo capitolo dei Supplementi, il cinquantesimo, è sintomatico essenzialmente di due cose: dell’enorme contrasto che Schopenhauer ha vissuto con l’ambiente filosofico tedesco e del rapporto ambivalente con Spinoza [1]. Entrambe queste cose, a ritroso potremmo dire, ci permettono di capire ancora meglio quanto nelle pagine precedenti l’autore ha trattato con dovizia e una acutezza importante. In queste poche pagine l’autore condensa alcune coordinate fondamentali per apprezzare lo sforzo immane che nel Mondo e poi nei Supplementi egli ha compiuto.
Filosofia immanente ed esperienza
In apertura del capitolo Schopenhauer dice esplicitamente che, prima di chiudere, c’è ancora qualche considerazione sulla sua filosofia che si può svolgere. Ancora una volta, per i motivi che abbiamo già indagato, egli rivendica l’aderenza «ai dati di fatto dell’esperienza esteriore e interiore» (Schopenhauer 2013, 817), quasi a rimarcare la solidità delle premesse di tutto il suo ragionamento. Ciò che è fuori dell’esperienza non è oggetto della filosofia: la filosofia per questo è immanente, ovvero si occupa di ciò che è all’interno della sfera dell’esperienza («nel senso kantiano del termine», scrive).
Tuttavia, persistono delle domande che non possono non essere prese in considerazione; domande che però evadono il campo dell’esperienza e quindi si pongono su un livello diverso rispetto alla filosofia immanente di cui Schopenhauer si fa promotore. Sono le stesse questioni che Kant riconosceva come oggetto della metafisica, alle quali quindi il Principio di ragione - che per l’autore è «l’espressione della forma più generale e costante del nostro intelletto» (Schopenhauer 2013, 818) - non può rispondere. È il tentativo di applicare il Pdr a elementi esterni all’esperienza che ci porta a sbattere contro problemi senza soluzione, «contro le pareti del nostro carcere». L’imperscrutabilità di queste domande, si badi bene, è assoluta, non relativa: in nessun luogo e in nessun tempo si potrà dare, per mezzo dell’intelletto umano, una risposta a tali questioni. Questa zona insondabile non rientra nella forma della conoscenza, e per dare conto di ciò Schopenhauer si affida alle parole di Scoto Eriugena nel De divisione naturae: «Della meravigliosa divina ignoranza, per la quale Dio non capisce che cosa Egli stesso sia» (Schopenhauer 2013, 819).
Quello che sfugge è dunque l’essenza delle cose, una essenza che non è «conoscente, non è intelletto, bensì un’essenza priva di conoscenza», di essa se ne può avere una comprensione parziale, non «esauriente e capace di soddisfare ogni esigenza». Ma questo, conclude Schopenhauer, «concerne i limiti della mia e di ogni filosofia» (Schopenhauer 2013, 819-820).
L’unità
Fatte tutte queste premesse, Schopenhauer compie un passo in avanti. Scrive infatti che l’unità e unicità dell’essenza delle cose è qualcosa di già concepito da tempo: «gli Eleati, Scoto Eriugena, Giordano Bruno e Spinoza lo avevano ampiamente insegnato e Schelling aveva rinfrescato questa dottrina» (Schopenhauer 2013, 820). Il che cosa sia questa unità (Uno) e come si manifesti nella molteplicità (ovvero come si compia il processo di rarefazione da Uno a Molti), sono questioni «la cui soluzione si trova per la prima volta nella mia filosofia».
La svolta si ha grazie a un rovesciamento del punto di vista e al contempo del principio su cui si incardina la comprensione del mondo: non è l’uomo ad essere un microcosmo, piuttosto è il mondo ad essere un «macroantropo». Il mondo si comprende a partire dall’uomo, da ciò che è immediato (l’autocoscienza), per poi passare a quel che è mediato, ovvero all’intuizione esterna.
Il metodo analitico che Schopenhauer rivendica - installato nel quadro ineluttabile dell’esperienza - apre una nuova visuale filosofica nella quale i dati immediati della coscienza, come li chiamerà Bergson qualche anno dopo, ci mostrano la rete di rapporti e il tessuto che ci tiene connessi l’uno all’altro: la volontà.
Se questa posizione può sembrare affine a quella della filosofia panteista, Schopenhauer prende subito le distanza mostrando come esistano sì dei punti di contatto ma anche dei decisivi punti di distanza. Innanzitutto il metodo di conoscenza, ma anche la ricomprensione del male e delle storture del mondo nella “perfezione” di Dio o della Natura. Inoltre, scrive Schopenhauer «per i panteisti il mondo dell’intuizione, ossia il mondo come rappresentazione, è appunto una manifestazione intenzionale del Dio che abita in esso, ma questo non include alcuna spiegazione autentica del suo prodursi» (Schopenhauer 2013, 821-822).
Spinoza
Le riflessioni generali sui panteisti non sono che i prodromi del confronto che Schopenhauer sente di dover avere con Spinoza, e con il quale chiuderà la sua opera.
Dopo la critica kantiana, sostiene Schopenhauer, «i filosofanti tedeschi si sono nuovamente gettati quasi tutti su Spinoza», costruendo di fatto una filosofia post-kantiana che «altro non è che spinozismo agghindato senza gusto, avviluppato in discorsi incomprensibili d’ogni sorta e in vario modo deformato» (Schopenhauer 2013, 822). Il giudizio è sferzante, netto, inequivocabile e pienamente nello stile schopenhaueriano.
Il rapporto che c’è fra Spinoza e Schopenhauer, dice quest’ultimo, è quello che intercorre fra il Vecchio e il Nuovo Testamento: per entrambi «il mondo esiste per sua forza interiore e da se stesso». Ma se Spinoza si è limitato a spersonalizzare Jehova, il Dio-Creatore del Vecchio Testamento, la Volontà schopenhaueriana - «intima essenza del mondo» - è Gesù crocefisso, o il ladrone crocefisso al suo fianco. In Spinoza, infatti secondo Schopenhauer, il Deus è una perfezione di cui rallegrarsi, un’unità dalla quale nulla fuoriesce e tutto è divino. «Quello di Spinoza è ottimismo» (Schopenhauer 2013, 823); ottimismo a cui Schopenhauer guarda con sospetto, poiché tanto il neo-spinozismo, quanto ogni altra dottrina che riconduce l’esistenza del mondo a una qualche necessità assoluta, tanto le dottrine di chi crede che il mondo sia il frutto della creazione benevola di un Dio, ci pongono nell’alveo del fatalismo.
Schopenhauer sostiene di essere il primo ad aver liberato la filosofia da questo vincolo, perché «l’atto di volontà dal quale scaturisce il mondo è il nostro. È un atto libero, giacché il principio di ragione, dal quale solamente ogni necessità riceve il proprio significato, è la mera forma della sua manifestazione fenomenica» (Schopenhauer 2013, 824). E per questo nel momento in cui essa esiste si dipana secondo necessità. Il piano della rappresentazione, dunque, governato dal Principio di ragione ci mostra come necessario qualcosa che è invece, naturalmente, libero. La nostra libertà - conclude Schopenhauer - sta nell’arretrare alle spalle della rappresentazione, immergersi nella «costituzione di quell’atto di volontà e conseguentemente eventualiter volere altrimenti». In altre parole, risiede in quello “spazio” pre-umano che pone le condizioni del nostro mondo come rappresentazione.
Su quest’ultimo punto, per quanto Schopenhauer scriva, Spinoza risuona forte insieme a una piccola schiera di filosofi per cui la molteplicità è il mondo e la porta di accesso alla sfera comune entro la quale tutti ci ritroviamo a bagno sentendoci finalmente liberi.
Note:
[1] Su un altro rapporto ambivalente nei confronti di Spinoza ho provato a dare conto in: Bergson duplice. Spinoza nemico-amico della filosofia della durata, in Lo sguardo n. 26-2018 (I): http://www.losguardo.net/it/bergson-duplice-spinoza-nemico-amico-della-filosofia-della-durata/
Bibliografia:
Schopenhauer 2013: A. Schopenhauer, Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione», trad. Giorgio Brianese, Einaudi, 2013
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
SPINOZA, UN "FIGLIO" DEL "DEUS", NON UN "FIGLIO" DEL "LUPUS" (A FIANCO DI KANT, NON DI HEGEL).
Federico La Sala
"PRIMI CRISTIANI", I MILITANTI DI BASE, E UNA TRAGEDIA DI LUNGA DURATA.... *
Il comunismo e le bugie della classe intellettuale
di Goffredo Fofi (Avvenire, venerdì 24 settembre 2021)
Stanno scendendo in campo alcuni dei migliori scrittori italiani di oggi (in arrivo Mari e Starnone) e tra di loro Davide Orecchio merita un posto di rilievo. Il suo romanzo Storia aperta (Bompiani) è uno dei migliori di questa stagione. Orecchio sarebbe un forte candidato al prossimo Strega... Egli insiste su qualcosa che ha già affrontato, e che è fin troppo al centro della sua ispirazione: la figura di un padre che fu intellettuale e giornalista comunista, per interrogarsi sulla storia del Novecento e sulle sue difficoltà, le sue speranze ricatti fallimenti. Non è il solo “figlio” o “figlia” di figure del genere a essersi confrontato con questo dilemma: un padre comunista e intellettuale, e va bene, ma anche ligio ai dettami del Partito in un partito ligio per tanti anni ai dettami del Pcus, che erano anche quelli di Stalin.
Stare dalla parte delle “classi subalterne” era eminentemente giusto, ma lo era meno accettare (fino al ’56) l’ottica che nel Pci era dominante, perché non era difficile, soprattutto per un intellettuale, sapere del gulag dei processi delle purghe. Un esempio personale, e me ne scuso, ma quando andavo ancora alle medie e leggevo però di tutto, in casa mia circolava l’“Avanti”, quotidiano socialista, e certe cose io già le sapevo. Mi commuove l’amore filiale e la volontà di conoscere i dilemmi dei padri e le loro ragioni e i loro cedimenti, e anzi mi commuove che ci sia chi lo fa. E però mi accade di continuare a mettermi non dalla parte dei politici e degli intellettuali ma da quella delle “basi”.
Ho conosciuto decine e decine di militanti del Pci che erano contadini e operai, a Nord e a Sud e al Centro, e mi piacerebbe che di questa massa di dimenticati qualche romanziere ancora si interessasse, lo immaginasse verificando storie e dilemmi.
Per dirla tutta, ho avuto e ho ancora un certo rispetto per i politici comunisti, e alcuni ne ho davvero amati, per esempio tra gli ultimi Berlinguer, e ho ammirato i militanti comunisti di base, che mi sembrarono spesso più millenaristi che comunisti, mossi da un’ansia di giustizia e da una pratica della solidarietà, da un’abnegazione “da primi cristiani” che raramente trovavo in altre militanze; ma confesso di non aver mai amato gli intellettuali comunisti, perché non potevano non sapere e dunque mentivano.
Ho conosciuto anche delle rare eccezioni, e ne sono stato più o meno amico: Romano Bilenchi, Lucio Lombardo-Radice, Aldo Natoli, Valentino Parlato, uomini di grandi convinzioni e di grandi aperture, che sapevano andare oltre i compromessi della politica. In passato, nel dopoguerra e ancora per molto, tanti romanzi e film hanno raccontato le “basi”, e talvolta anche i militanti politici di base, ma solo negli anni del centrosinistra osarono affrontare le contraddizioni di militanti già un po’ intellettuali (per esempio, Una vita difficile di Risi e certi film, pur se di parte, del comunista Scola ma da Age e Scarpelli).
Sarebbe bello che chi intende investigare e ragionare sul passato affrontasse i destini delle “basi” e non quelli, fin troppo osannati, di chi sapeva e taceva, pur tenendo conto delle tragiche contraddizioni dell’epoca.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
Federico La Sala
Roma.
Benedetto XVI: la Chiesa si esprima con "cuore e spirito", non con le "funzioni"
Il Papa emerito in una intervista a una rivista parla della Chiesa tedesca e la invita a "demondanizzarsi" affinché "il mondo non continui ad allontanarsi dalla fede"
di Redazione Internet (Avvenire, martedì 27 luglio 2021)
Il Pontefice emerito Benedetto XVI rompe il silenzio e rispondendo per iscritto alle domande della rivista tedesca Herder Korrespondenz avanza alcune osservazioni critiche alla Chiesa tedesca. Una Chiesa, osserva Benedetto XVI, che deve parlare "con il cuore e lo spirito" e che deve "demondanizzarsi", perché "finché nei testi ufficiali della Chiesa parleranno le funzioni, ma non il cuore e lo Spirito, il mondo continuerà ad allontanarsi dalla fede".
L’intervista sarà pubblicata nel numero di agosto e la rivista ha anticipato qualche estratto online.
Sullo sfondo, il cammino sinodale della Chiesa in Germania. Joseph Ratzinger osserva che ci si attende "una vera e personale testimonianza di fede degli operatori della Chiesa"; che "nelle istituzioni ecclesiali - ospedali, scuole, Caritas - molte persone sono coinvolte in posizioni decisive che non supportano la missione della Chiesa e quindi spesso oscurano la testimonianza di questa istituzione" e dice che "i testi ufficiali della Chiesa in Germania sono in gran parte scritti da persone per le quali la fede è solo ufficiale".
Nel testo, il Papa emerito definisce irrealistica anche una "fuga nella pura dottrina". Piuttosto, la dottrina deve "svilupparsi nella e dalla fede, non accanto ad essa". Perché una "dottrina che dovesse esistere come una riserva naturale, separata dal mondo quotidiano della fede e dalle sue necessità sarebbe allo stesso tempo una rinuncia alla fede stessa". Nell’intervista, Ratzinger, ricordando la parabola del Vangelo secondo Matteo, ha sottolineato che "la Chiesa è fatta di grano e pula, pesci buoni e pesci cattivi. Quindi non si tratta di separare i buoni dai cattivi, ma di separare i fedeli dagli infedeli".
Benedetto XVI è tornato anche sul suo discorso di Friburgo, pronunciato nel 2011 quando era pontefice, due anni prima di rinunciare al papato. Allora il Papa emerito esortò la Chiesa a "distaccarsi dal mondo"; oggi Benedetto XVI si chiede se la scelta della parola "Entweltlichung" (demondanizzazione), tratta dal filosofo Martin Heidegger, sia stata adeguata in quanto forse non ha "espresso a sufficienza" l’aspetto positivo della sua argomentazione.
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo
gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPE FLAVIO
("Egli era il #Cristo")
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mc 12,29-30)
#Questione Antropologica.
La cit. di Mc 12, 29-30 ha un senso andrologico (e cosmo-te-andrico) o antropologico,
come il #Padre di ogni essere umano (#PonzioPilato: #Ecce homo),
quell’#Amore (di #Dante Alighieri),
che muove il #sole e le altre #stelle -
e anche la #Terra?!
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE. «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio».. *
Sulla questione del ddl Zan.
Laici perché cristiani non privilegi ma libertà
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, venerdì 25 giugno 2021)
Perché ribadire l’ovvio in situazioni critiche? Forse per il fatto che lo dimentichiamo, come tralasciamo il buon senso e il radicamento nelle istituzioni. Il premier ieri non ha detto nulla di nuovo, ma, come dice Qoelet, non è mai superfluo rammentare che «non c’è nulla di nuovo sotto il sole!» (1, 9). In tal senso ribadisco quanto già espresso in diversi interventi. Una sana laicità è la nostra bussola. E la laicità l’Occidente la deve al messaggio evangelico: «Restituite a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mc 12,17). Un loghion pronunciato da Gesù stesso, che mi piace interpretare nel senso di restituire a Cesare quel che è suo per dare a Dio ciò che gli appartiene, cioè tutto. Si tratta di «restituire» e qui entra in gioco la categoria giuridica del «risentimento », questione centrale nella ’Filosofia del diritto’ del beato Antonio Rosmini, il cui soggetto è la persona, «diritto sussistente».
E qui trova ampio spazio la legittimità di voler vedere riconosciuti i propri diritti da parte di minoranze per lungo tempo oppresse ed emarginate, spesso violentate. Poiché da cittadino italiano ritengo che sia la ’persona’ il principio architettonico della nostra Costituzione, non posso non scorgere in essa e nelle istituzioni che ha generato gli anticorpi più idonei per allontanare ogni possibile lesione dei diritti fondamentali. Nel nostro caso si tratta della libertà di pensiero e di educazione, il cui soggetto fondamentale non è lo Stato, ma la famiglia, al cui servizio vanno poste le istituzioni statali. E anche qui è in gioco qualcosa di decisivo. Gli anticorpi della nostra democrazia nei confronti di possibili devianze li avevo già messi in campo nella lettera al direttore di ’Avvenire’, pubblicata mercoledì 23 giugno: il Parlamento prima e poi, eventualmente, la Corte costituzionale verificheranno e si pronunzieranno circa la costituzionalità, come garanzia di libertà, della legge ancora in progetto sull’omotransfobia e per questo l’impegno dei laici è fondamentale. Né in questo processo si può cedere al ricatto della fretta, che non è mai buona consigliera e fa sì che la gatta generi dei gattini ciechi. Il campanello di allarme suonato dalla Chiesa cattolica, per mezzo del Vaticano, all’interlocutore italiano, se lo si legge senza paraocchi ideologici, significa una sola cosa: «Cesare non è Dio», e ne siamo felici... quindi si evocano l’umano e la persona come soggetto fondamentale del diritto.
Una riflessione che ha bisogno di tempo, di spazi e di libertà interiore, piuttosto che di strategici giochi elettoralistici. Nel suo discorso al Senato, ieri il premier ha ribadito la laicità dello Stato, ovviamente non confessionale, ma è tale proprio perché non è istituzione divina. Egli ha anche orientato verso il rispetto degli accordi internazionali, fra cui il Concordato. Illuminante ed estremamente lucido, a tal proposito, l’intervento del cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin: «Ho apprezzato il richiamo fatto dal presidente del Consiglio al rispetto dei princìpi costituzionali e agli impegni internazionali. In questo ambito vige un principio fondamentale, quello per cui pacta sunt servanda. È su questo sfondo che con la Nota Verbale ci siamo limitati a richiamare il testo delle disposizioni principali dell’Accordo con lo Stato italiano, che potrebbero essere intaccate. Lo abbiamo fatto in un rapporto di leale collaborazione e oserei dire di amicizia che ha caratterizzato e caratterizza le nostre relazioni. Faccio anche notare che fino ad ora il tema concordatario non era stato considerato in modo esplicito nel dibattito sulla legge. La Nota Verbale ha voluto richiamare l’attenzione su questo punto, che non può essere dimenticato».
Né può sfuggire il fatto che Draghi, al pari di Parolin, abbia posto l’accento su una «laicità» che non significa ’neutralità’ o ’indifferenza’ nei confronti dell’esperienza religiosa e credente. E abbia insistito sull’attenzione alla plura-lità, attraverso cui tale vissuto si esprime in un Paese come il nostro, che è per tradizione ospitale e inclusivo di differenti culture e appartenenze, fra le quali, oltre quella tradizionalmente cattolica, si rendono sempre più consistenti quella islamica e quella del cristianesimo orientale. Anche in questo sta la nostra mediterraneità. E di tutto questo lo «Stato laico», di cui ha parlato il premier, non potrà non tener conto. Infatti, richiamando la sentenza della Corte costituzionale 203/1989, ha ribadito, come se ne fossimo ignoranti, o peggio lo fossero i parlamentari presenti, che laicità non significa «indifferenza dello Stato dinnanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale».
Il Governo sta giustamente alla finestra, mentre il Parlamento (ora il Senato) sta valutando e ci auguriamo che sia illuminato anche dalla profezia ecclesiale cattolica, nel frattempo noi pensiamo all’uomo, al suo ruolo nel cosmo e nella storia e al suo destino ultimo, che non può non interpellare anche il presente. In questo senso, come ancora il beato Rosmini insegna, la Chiesa non chiede privilegi, ma «libertà» e le sue piaghe provengono dall’aver in altre situazioni troppo ceduto a compromessi dettati da scelte di potere, che non possono appartenere a chi vuole seguire Gesù di Nazareth.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile, recensito da Riccardo Chiaberge
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". Per una nuova laicità, un nuovo cristianesimo!!! Come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO"!!! Dante non "cantò i mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore che muove il Sole e le altre stelle ... e la fine del cattolicesimo costantiniano!!!
Federico La Sala
L’Italia in cammino sinodale. Processo che parte dal basso
Su La Civiltà Cattolica il direttore si sofferma sull’avvio del percorso nazionale. «Chiaro il contesto: un incontro organizzato dai vescovi italiani». Il ruolo del laicato e l’unità della coscienza
di Antonio Spadaro *
Dal 24 al 27 maggio scorsi si è svolta la 74ª Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana. Essa è stata aperta dalla preghiera, presieduta da papa Francesco, e dal suo dialogo con i vescovi presenti. I lavori dell’Assemblea, sotto la guida del cardinale presidente Gualtiero Bassetti, hanno riguardato il tema: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita. Per avviare un cammino sinodale”. Tra l’altro, nella sua Introduzione, il cardinale Bassetti ha definito questo cammino come «quel processo necessario che permetterà alle nostre Chiese che sono in Italia di fare proprio, sempre meglio, uno stile di presenza nella storia che sia credibile e affidabile».
Il Pontefice ha esortato i pastori a riprendere le linee tracciate dal Convegno ecclesiale di Firenze, e a valorizzare un percorso che parta dal basso e metta al centro il popolo di Dio. Egli ha sempre lamentato una certa «amnesia» riguardo alle indicazioni che diede nel capoluogo toscano il 10 novembre 2015. Chiaro che la concomitanza tra l’indizione del Sinodo della Chiesa universale - del quale parleremo successivamente - e l’avvio del percorso sinodale della Chiesa italiana sarà un’occasione unica per sintonizzare i cammini.
L’Assemblea generale ha quindi votato la seguente mozione: «I vescovi italiani danno avvio, con questa Assemblea, al cammino sinodale secondo quanto indicato da papa Francesco e proposto in una prima bozza della Carta d’intenti presentata al Santo Padre». Il Consiglio permanente della Cei costituirà un gruppo di lavoro per armonizzarne temi, tempi di sviluppo e forme.
Le misurate parole della mozione riassumono e rilanciano un dibattito durato sei anni. Ad aprirlo fu il Papa a Firenze, suggerendo il metodo sinodale: «La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose», disse Francesco. «Mi piace una Chiesa italiana inquieta - aggiunse - sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti».
Tutto rimase sottotraccia. All’inizio del 2019, “La Civiltà Cattolica” rilanciò la proposta di un Sinodo nazionale (cfr. A. Spadaro, “I cristiani che fanno l’Italia”, in Civ. Catt. 2019 I 250-252): ci parve la via più sicura da indicare a tutti, quella in grado di aiutarci a leggere a fondo la storia di oggi. Un luogo privilegiato di discernimento è infatti il processo sinodale, dove, se lo Spirito Santo è in azione, - come ha affermato Francesco - «dà un calcio al tavolo, lo butta e incomincia daccapo». E allora ecco la domanda: non sentiamo oggi il bisogno di un calcio dello Spirito? Se non altro per svegliarci dal torpore...
Alla nostra proposta fecero seguito interventi autorevoli di vescovi su “L’Osservatore Romano”, “Avvenire”, “Corriere della Sera”, e di teologi e studiosi su “Famiglia Cristiana”, “il Regno” e altra stampa cattolica e laica che, in generale, alimentarono il dibattito. Su “La Civiltà Cattolica” intervennero successivamente anche padre Bartolomeo Sorge e il sociologo Giuseppe De Rita.
«La sinodalità è una proposta che sentiamo di poter e dover fare a una società slabbrata come la nostra», puntualizzò il cardinale Bassetti il 1° aprile 2019. Il Pontefice ha poi effettivamente indicato il cammino sinodale alla Chiesa italiana, parlando ai vescovi del nostro Paese il successivo 20 maggio 2019, aprendo la 73ª Assemblea generale della Cei.
Il 21 gennaio scorso, la rotta è stata aggiornata. Andando «oltre le emergenze», ha detto il cardinale Bassetti, l’Italia deve ricomporre le quattro «fratture» (sanitaria, sociale, educativa, delle nuove povertà) che l’hanno piegata, con una capillare «opera di riconciliazione».
Il 30 gennaio Francesco, in un discorso in cui non a caso ha anche difeso con fermezza il Concilio Vaticano II («Chi non lo segue è fuori dalla Chiesa»), ha rilanciato la proposta in maniera decisa, affermando: «La Chiesa italiana deve tornare al Convegno di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi». Il contesto è chiaro: un incontro organizzato dai vescovi italiani. Chiaro il messaggio: la Chiesa italiana deve incominciare un processo di Sinodo nazionale. Chiaro, infine, il metodo: camminare a partire dal basso verso l’alto; comunità per comunità, diocesi per diocesi. «Il momento è adesso», ha scandito Francesco.
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È necessaria un’«opera di riconciliazione» con la realtà e la storia - anche recente - del nostro Paese, ripensando uno «stile di presenza» della Chiesa italiana nella storia e nella vita del Paese, consapevoli del fatto che «la Chiesa è il cuore di Dio che batte nella storia» (monsignor Aldo Del Monte).
Le parole di Francesco alla Curia romana del 21 dicembre 2019 devono guidare il discernimento: «Non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale». Quindi occorre anche fare un discernimento sulle dinamiche interne della stessa Chiesa italiana, in particolare quella del «clericalismo».
Il Sinodo è un mare aperto, e noi - ha detto Francesco in piena pandemia - «siamo tutti sulla stessa barca». Oggi i credenti sono chiamati a remare con tutti, e a farlo con la consapevolezza di essere anche cittadini. E questa è pure una vera «sfida» culturale, che è molto di più che un progetto. Sarà necessario, dunque, parlare dell’annuncio del Vangelo e delle sue difficoltà in un mondo mutato dalla pandemia, dagli stili di vita mobili, fluidi, veloci, plurali, dalle verità «alternative» dei social network e da tanti altri cambiamenti.
I processi ecclesiali di rinnovamento sono un fatto sinodale, il cui protagonista è il popolo di Dio. La Chiesa italiana ha bisogno di ritrovarsi in condizione sinodale. La richiesta di un «Sinodo dal basso» ha già messo in moto la riflessione, le discussioni, il coinvolgimento delle comunità e di alcune diocesi. Il metodo del Sinodo è né più né meno che lo stesso modo di esistere della Chiesa.
In questo senso pensiamo sia da riprendere il «voto finale» che padre Bartolomeo Sorge espresse al Convegno ecclesiale del 1976 e registrato negli Atti. Egli, dopo aver affermato che «la risposta pastorale della Chiesa italiana non può essere più affidata alla stesura di un documento», postulava la necessità di «dar vita a strutture permanenti di consultazione e di collaborazione tra Vescovi, rappresentanti delle varie componenti della comunità ecclesiale ed esperti provenienti da tutti i movimenti di ispirazione cristiana operanti in Italia».
Padre Sorge intendeva indicare quel modo di procedere che oggi Francesco definisce come «popolo e pastori insieme» (cfr. Documento di Aparecida n. 371). Infatti - proseguiva padre Sorge - «è urgente offrire alla nostra comunità ecclesiale un luogo di incontro, di dialogo, di analisi e di iniziativa che [...] superi in radice l’impossibile divisione tra "Chiesa istituzionale" e "Chiesa reale"», e che è anche il rischio dell’oggi. Allora la proposta rimase senza esito. Oggi le condizioni per riprendere quel voto ci sono. E sappiamo che i frutti del cammino sinodale verranno per la grazia dello Spirito Santo. Il Sinodo, finalmente!
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Antonio Spadaro è direttore de "La Civiltà Cattolica"
* Avvenire, giovedì 17 giugno 2021 (ripresa parziale).
Intervista - "Letture" *
“Bibbia e Corano, un confronto” di Piero Stefani
Prof. Piero Stefani, Lei è autore del libro Bibbia e Corano, un confronto edito da Carocci: quanto sono simili i due testi sacri?
Comincio da una precisazione rilevante: i testi sacri sono in realtà tre. Occorre infatti distinguere tra Bibbia ebraica e Bibbia cristiana. Uno stereotipo ancora abbastanza diffuso parla di Bibbia e Vangelo. In realtà, esistono la Bibbia ebraica, e la Bibbia cristiana formata da Antico e Nuovo Testamento. I libri dell’Antico Testamento, salvo alcuni casi particolari, coincidono con quelli della Bibbia ebraica; tuttavia in questo caso si è trattato non di aggiungere alcuni libri a quelli precedenti bensì di creare un insieme da leggere e interpretare in maniera diversa.
La somiglianza più profonda è che Bibbia e Corano sono sacri soltanto a motivo dell’esistenza di tre comunità che li considerano tali, in quanto li ricevono, li leggono nella liturgia, li commentano e li trasmettono. Tutte e tre le comunità religiose condividono la convinzione che, nel corso della storia, Dio abbia fatto giungere agli esseri umani parole destinate in seguito ad assumere una forma scritta. Ciò è avvenuto grazie a specifici mediatori che hanno trascritto nella “lingua degli uomini” la volontà di Dio. Per ricorrere alla classificazione consueta, ebraismo, cristianesimo e islam sono «religioni rivelate». Tra esse ci sono molte e non lievi differenze, ma tutte emergono a partire da questo terreno comune. Le si può paragonare a un bosco in cui ci sono alberi molto differenti tra loro, anzi a volte uno di essi fa ombra a un altro, tutti però condividono lo stesso suolo.
Quali sono i più significativi punti comuni tra Bibbia e Corano?
Il primo, irrinunciabile punto in comune è che Dio è definito creatore. Ciò significa che la realtà nel suo insieme ha avuto inizio a causa di un atto libero di Dio. Per tutte e tre non si tratta di dimostrare l’esistenza di Dio a partire da quanto sperimentiamo in noi e attorno a noi; quanto affermato dalle tre religioni è che in noi e attorno a noi ci sono segni dell’opera creatrice di Dio. Per così dire, il Cantico delle creature di Francesco di Assisi esprime un convincimento comune a ebrei, cristiani e musulmani. Per tutte e tre le tradizioni religiose, specie di età moderna, nasce poi il problema di sapere come confrontarsi con la visione del cosmo e della natura proposta dalla ricerca scientifica. Qui le strategie sono in parte diverse.
Altro punto accomunante è che Dio abbia comunicato agli esseri umani delle leggi (per limitarci a un solo esempio, si pensi ai “Dieci comandamenti”) volte a regolare sia i rapporti interni alle singole comunità religiose sia quelli con le altre persone e società. In questo caso ci si deve confrontare con il problema di quale rapporto esista tra queste leggi credute di origine divina e i tempi storici in cui sono sorte. Nasce poi anche l’interrogativo di quale sia la relazione tra le leggi di natura divina e quelle, fondate su altri principi, che regolano la società civile. La questione è accomunante, le risposte sono invece molteplici e spesso non concordi. Sono tali non soltanto tra ebraismo, cristianesimo ed islam, ma anche tra i vari gruppi o membri interni alle singole comunità religiose.
Le tre grandi religioni monoteiste fondano sulla rivelazione divina la propria dottrina, tanto da meritare l’appellativo di ‘popolo del libro’: come definiscono, i due testi sacri, la comunità dei credenti?
Come accennato in precedenza è vero che tutte e tre le comunità hanno testi sacri, tutt’altro che certo è invece che le si possa chiamare concordemente «popolo del libro». Per limitarmi a un solo esempio, per il cristianesimo la fonte prima della rivelazione è Gesù stesso, di cui i Vangeli sono memoria e testimonianza. Si può affermare che tanto l’ebraismo quanto il cristianesimo definiscono i loro rispettivi testi sacri in modo gerarchizzato.
La Bibbia ebraica è costituita da tre parti: Torah (Legge, con parola derivata dal greco, detta Pentateuco), Neviim (Profeti) e Ketuvim (Scritti). Il ruolo decisivo è svolto della prima parte; nell’armadio sacro presente in ogni sinagoga è contenuta, non a caso, solo una copia manoscritta della Torah, l’unica che fonda i precetti osservati dagli ebrei.
Per il cristianesimo il vertice è invece costituito dai quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi). Essi sono incentrati sulla vita pubblica, morte e resurrezione di Gesù. I Vangeli sono colti come una specie di chiave interpretativa per leggere in modo unitario un libro, la Bibbia, composto da un vasto insieme di testi molto vari per origine e provenienza, sorti in un arco di tempo di parecchi secoli.
Il Corano ha avuto invece un processo redazionale molto più breve misurabile in qualche decennio. La sua scansione interna è tra sure (capitoli) “fatte scendere” (cioè rivelate) a Mecca e quelle, cosiddette medinesi, risalenti a un periodo successivo all’egira (622 d.C.). I contenuti del Corano si suddividono in annunci, narrazioni e leggi; queste ultime, che incidono maggiormente sulla vita della comunità, risalgono al periodo finale della vita di Muhammad, quando il Profeta esercitava già una forma di governo.
L’espressione «comunità dei credenti» calza bene per cristiani e musulmani in quanto l’appartenenza alla Chiesa e all’ Umma (comunità musulmana) presuppone la fede, meno agli ebrei che costituiscono un popolo vero e proprio, non a caso si è ebrei innanzitutto per nascita (secondo una discendenza matrilineare).
Come descrivono Bibbia e Corano l’origine del male?
Vi è una dimensione accomunante che individua l’origine del male nella trasgressione. Come ben compreso da Paolo nella Lettera ai Romani, perché ci sia una trasgressione bisogna che prima ci sia una legge o un comando. Occorre quindi trovare miti fondativi che si muovano in questa direzione; il più noto è quello della proibizione di mangiare l’albero della conoscenza del bene e del male. Non è difficile comprendere il suo valore simbolico incentrato propria sulla connessione tra divieto e violazione. Al pari di prospettive presenti nell’apocalittica tanto giudaica quanto cristiana, il Corano pensa a una violazione antecedente a quella compiuta dalle creature umane. Ecco allora irrompere il peccato angelico, nell’islam connesso alla figura di Iblis, angelo superbo e disobbediente. D’altra parte conviene riflettere sul fatto che una trasgressione c’è eppure non ci dovrebbe essere; in questo senso si vede chiaramente la sua connessione con il male, altra realtà che c’è ma non dovrebbe esserci. Individuare la radice del male nella trasgressione porta con sé però altri problemi: chi spinge a trasgredire? Ecco allora che si “personalizza” il peccato, presentandolo come una forza che induce a compiere atti brutali. Sia per la Bibbia sia per il Corano la storia di Caino rappresenta il simbolo più conosciuto di tutto ciò: quando uccise il fratello, il primo fra i nati da donna non aveva ricevuto il comando di non uccidere.
Aumentare a dismisura la forza del peccato o della tentazione come causa del male rischia però di fa scivolare la visione di insieme verso una forma troppo prossima al dualismo, vale a dire di prospettare l’esistenza di un Dio del male; ecco allora che in alcuni passi sia biblici sia coranici si legge che Dio crea il male (Isaia 45,7). Affermazione che non va assolutizzata ma neppure del tutto accantonata. La presenza del male rappresenta per tutti uno scoglio complesso.
In che modo Bibbia e Corano affrontano il tema della resurrezione dei morti?
Il tema è presentato in maniera per così dire defilata nella Bibbia ebraica, infatti lo si trova con chiarezza solo nel tardo e apocalittico libro di Daniele (che nella Bibbia ebraica non è annoverato neppure tra i libri profetici). La resurrezione dei morti svolge invece un ruolo centrale nel Nuovo Testamento; il motivo è evidente: il kerygma - cioè l’annuncio originario e fondamentale della fede - ha il proprio centro nella «buona novella» di Gesù Cristo morto e risorto. Come stabilito in modo definitivo da Paolo, per la fede cristiana vi è un legame inscindibile tra la risurrezione di Gesù Cristo e quella dei salvati. Anche per questo motivo nel cristianesimo, per quanto sia stato affermato più volte e venga attestato anche da alcuni passi neotestamentari, suscita sempre sconcerto la prospettiva secondo la quale ci sono dei risorti destinati alla dannazione eterna. Nel Corano la resurrezione dei morti è affermata in maniera forte e inequivocabile. Per trovarne il fondamento basta rifarsi alla perenne attività del Dio creatore: Allah, che ha plasmato l’uomo dalla polvere, è ben capace di dare nuova vita a ossa disseccate. La resurrezione è però intrinsecamente legata al giudizio in virtù del quale si è o beati o dannati; una prospettiva tanto presente nell’islam da essere anticipata da una specie di interrogatorio che avviene dentro le tombe.
Piero Stefani, di formazione filosofica, insegna “Bibbia e cultura” presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano e “Diritto ebraico” all’Istituto internazionale di Diritto Canonico e Diritto comparato delle religioni dell’Università della Svizzera Italiana. È segretario generale di Biblia, associazione laica di cultura biblica. Tra le sue numerose pubblicazioni si segnalano Il grande racconto della Bibbia, il Mulino 2017 e per Carocci I volti della misericordia (2015).
* Fonte: Letture.org
Nota:
Al vertice del "cristianesimo" (cattolicesimo costantiniano), in realtà, non ci sono - come sostiene Piero Stefani - i "quattro Vangeli canonici (nella liturgia cattolica proclamati solo da un sacerdote o da un diacono e ascoltati stando in piedi)", ma - fondamentalmente - ma le lettere (e l’interpretazione "andrologica" della figura di Cristo) di Paolo di Tarso:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [gr. ἀνήρ ἀνδρός «uomo»], e capo di Cristo è Dio" (1 Cor. 11, 1-3).
Federico La Sala
Inedito.
Patria, sovranismo, fascismo e comunismo: in Rete il Moro che non ti aspetti
Con una cerimonia in diretta dal Quirinale da domani vengono resi disponibili online gli scritti dello statista. Si parte dal periodo giovanile degli studi e dell’Azione cattolica
di Angelo Picariello (Avvenire, domenica 23 maggio 2021)
Si sente parlare molto in questi tempi di epurazione della vita pubblica italiana dagli elementi compromessi con il fascismo. In modo pressoché unanime si invocano provvedimenti in questo senso; provvedimenti immediati, rigorosi, senza discriminazione alcuna. Non si può non notare, almeno avendo riguardo alle espressioni verbali, che il nostro popolo con questa pressante richiesta assume una posizione di intransigenza, senza rendersi perfettamente conto che essa, così assunta senza discriminazione, rischia di conservare ed approfondire il solco fatale che ha diviso per tanti anni il popolo italiano, distinguendo coloro che sono al centro da quelli che sono ristretti ai margini della vita nazionale. [...]
Non può certo meravigliare che il popolo italiano, pur condotto per natura a perdonare e dimenticare ed alieno da ogni ferocia, sia giunto a questo punto di esasperazione e di intransigenza. Troppi e troppo grandi sono i nostri dolori di ieri e di oggi; troppe sono le previste dure conseguenze della dittatura per noi stessi e per i nostri figli; troppo grande l’offesa arrecata alla nostra libertà e dignità di uomini; troppe ingiustizie furono perpetrate in nome di un falso particolaristico ideale di Patria, perché non sorga naturale in tanti il desiderio di giustizia. [...] Non si può, ancora, non tener presente che quest’opera di epurazione sembra condizione preliminare per un realmente nuovo indirizzo della nostra vita politica ed a garanzia dell’efficacia della nostra stessa azione armata contro l’oppressore tedesco, per conseguire in definitiva la nostra libertà. Si osservi pure che proprio l’eliminazione totale e definitiva degli elementi fascisti dalla vita pubblica italiana sembra la sola forma idonea ad assicurare il nostro popolo contro il ritorno in forza, sempre possibile, dei negatori della libertà e della vita altrui, i quali verrebbero così ancora a tradire la libertà, avvalendosi delle possibilità che quest’ultima generosamente ad essi consente. Sicché l’epurazione appare non solo come giusta reazione per quello che fu fatto soffrire a noi, ma come la sola idonea misura di sicurezza per un leale e costante rispetto della nostra libertà per l’avvenire.
Tutto quello che si è detto sin qui è certo esatto, ma non si tiene abbastanza conto di altri meno chiari ed imbarazzanti aspetti della situazione, i quali invitano ogni persona assennata a considerare con maggiore spirito di prudenza queste cose ed i progettati drastici provvedimenti. Innanzi tutto intanto bisognerebbe definire il "fascista". È troppo nota, perché occorra riprenderla qui, la distinzione tra fascista di tessera e fascista di fede. [...] Si consideri ancora che il giustissimo desiderio di rendere sicura l’Italia da un ritorno della vecchia dittatura, la quale già una volta tradì la libertà, se si concreti soltanto in una reazione feroce e piena di odio, se sia tutta realizzata cioè con metodo e spirito fascista, finirebbe per dare ai signorotti di ieri una pericolosa aureola di martiri, giustificando la loro accusa che altri prosegua in fondo per la stessa strada, sostituendo alla richiesta tessera fascista una tessera antifascista e - perché no? - magari fissando dei privilegi di anzianità per coloro che parteciparono all’opera di epurazione. Ciò, s’intende, per nulla esclude che siano adottati provvedimenti di giustizia e di sicurezza a carico di tutti i responsabili e i pericolosi. Ma intanto li vuole misurati, giusti, realizzati soprattutto con la forza e con i limiti della legalità e cioè con mente serena e senza spirito di parte o di vendetta.
Quello che sembra in definitiva giusto e necessario è una misura di garanzia e non una vendetta volgare; cioè una misura di garanzia che sia irrogata, la parola non sembri strana, perché è semplicemente cristiana ed italiana, con spirito di comprensione e di amore, nell’intento cioè di persuadere e di rieducare alla vita civile ed al rispetto della libertà, anziché porre soltanto impedimenti fisici o giuridici a nuovi possibili attentati al nostro vivere umano e civile. Qui è veramente il nucleo dell’assillante problema. Che l’epurazione si debba fare prima o poi è una cosa secondaria. Quello che conta è vedere quel che debba intendersi per epurazione e se si debba essere attenti ad una umana e cristiana voce di comprensione o se si debba fascisticamente tirare diritto. E qui soccorre la comune considerazione che l’etica è veramente cosa economica, che anzi un agire sistematicamente contro di essa è umanamente e socialmente impossibile, che un perdono generoso, e tuttavia sempre vigile, (salvi s’intende i casi più gravi) non è solo un omaggio reso ai supremi valori di fraternità e di umanità della vita, ma pure un calcolo accorto, almeno per chi guardi lontano, per ricostruire una società che ebbe troppo a soffrire di alcune divisioni, perché non abbia ora bisogno urgente di unità.
Aldo Moro
"Esodo", il libro del servizio e della democrazia
di Jean-Louis Ska (Avvenire, 15.04.2021).
Dalla servitù al servizio: è così che Georges Auzou intitolava il suo breve commento al libro dell’Esodo, pubblicato in francese nel 1961 con le edizioni Orante. Ë difficile trovare un titolo più adatto a questo libro fondamentale per la fede d’Israele e per quella dei cristiani, il secondo libro del Pentateuco dopo quello della Genesi. In effetti, questo titolo ha l’enorme vantaggio di descrivere il passaggio da una situazione dolorosa, ossia dalla schiavitù, a una situazione più soddisfacente, cioè al servizio. In secondo luogo, questo titolo gioca sulla stessa radice linguistica, poiché «servitù» e «servizio» sono due parole correlate, due modi cli «servire».
Ora, anche il libro dell’Esodo gioca su tutte le sfumature di uno stesso verbo, il verbo «servire». Che in ebraico può significare «essere schiavi», «essere al servizio di», «lavorare» e finalmente «rendere un culto». Anche il sostantivo «servizio» possiede tutte queste sfumature: «servitù», «schiavitù», «servizio», «lavoro», «fatica», «culto»`e «liturgia».
Infine, il titolo scelto da Georges Auzou fissa in due parole l’essenziale di quello che avviene nel libro dell’Esodo: nel deserto, il popolo di Israele passa dalla servitù in Egitto al servizio del suo Dio, il Signore. Occorre notare che Israele non passa solo dalla servitù alla libertà, ma anche che questa libertà si traduce immediatamente in un «servizio», che gli dona il suo senso e il suo scopo. La libertà di Israele è una libertà «per». Uno dei messaggi del libro è inoltre quello che Israele sarà libero solo se è fedele a quel Dio che gli ha donato la sua libertä [...]
Il libro dell’Esodo è quindi un libro fondatore. Infatti, il popolo di Israele vi trova gli elementi essenziali della sua identità e della sua esistenza, l’equivalente di un territorio e di una monarchia o di un potere organizzatore. Il suo Dio sarà certamente il suo solo e vero sovrano, il solo degno di esserlo. Israele ne farà l’esperienza, talora anche a sue spese. La presenza di questo Signore si manifesta in realtà concrete: la Legge dï Mosè e il santuario. La Legge di Mosè definisce le vere frontiere del popolo, quelle del suo comportamento, poiché determina subito chi può far parte o deve essere escluso dal popolo di Dio. Come dice molto bene il poeta tedesco di origine ebraica Heinrich Heine, la Legge (in ebraico: la Torah) è per Israele una «patria portatile». Il santuario e le istituzioni del culto sono presenti per ricordare a Israele chi è il suo unico e vero sovrano, il solo che merita di essere onorato, perché Israele deve a lui la propria esistenza di popolo libero. Esodo, legge, alleanza e culto risalgono tutti a un personaggio, Mosè, unico mediatore tra Dio e il popolo. È a lui che il popolo d’Israele fa risalire tutte le istituzioni che considera indispensabili per la propria identità e sopravvivenza [..] Tutto ciò dovrebbe convincerci dell’attualità di questo libro che stabilisce un legame indissolubile tra l’esperienza di Dio e quella della libertà.
San Paolo lo ribadirà: ‹Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù» (Gal 5,1).
Il libro dell’Esodo stabilisce un legame indissolubile anche tra l’esperienza della libertà e le esigenze del diritto. Quando Israele esce dall’Egitto, non sostituisce la tirannia del faraone con un’altra e ancora meno conl’anarchia. Israele si libera dalla tirannia imboccando la via del diritto e della Legge, che, stando al racconto dell’Esodo, è il vero mezzo per preservare e promuovere la libertà.
Citiamo nuovamente san Paolo «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri» (Gal 5,13).
Dio libera il suo popolo per il servizio, un servizio libero e generoso, un servizio vicendevole che significa anche la costruzione di una società giusta ed equa, fondata sul rispetto del diritto. Anche le nostre democrazie attuali, talora senza saperlo, hanno ereditato questa esperienza. Come, infatti, fa notare il filosofo Baruch Spinoza (1632-1677), Mosè non prende il posto del faraone, ma lo sostituisce con la Legge, «come in una democrazia».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SOVRANITÀ E OBBEDIENZA. "DICO": DI CHI, DI QUALE LEGGE - A CHI, A QUALE LEGGE OBBEDIRE?!! ... Al Faraone e alla sua legge o a Mosè e alla Legge che egli stesso segue?! Abramo, chi ascoltò: Baal, il dio dei sacrifici e della morte, o Amore, il dio dei viventi?! Un’analisi di Giovanni Filoramo
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
FLS
ANTROPOLOGIA, MATEMATICA, E IL PROBLEMA DELL’UNO: "DOCTA IGNORANTIA", "COINCIDENTIA OPPOSITITORUM", E NUOVO PRINCIPIO DI CARITÀ (CHARITAS)! *
Maestri.
Ripartire da Cusano, il sapiente che sa di non sapere
Filosofo, teologo, diplomatico, cardinale, vescovo, umanista, un saggio di Massironi lo rilegge come modello di pensiero di fronte allo smarrimento culturale e spirituale del nostro tempo
di Simone Paliaga (Avvenire, giovedì 15 aprile 2021)
Tocca in sorte all’epoca attuale fare esperienza della crisi di configurazioni religiose, filosofiche, simboliche, giuridiche che per secoli hanno dato senso e ordine alla realtà circostante. Scollinare da una stagione all’altra non lascia indenni. Il passaggio di epoca comporta lo scacco di una ragione ormai diventata incapace di ritrovare le proprie tracce nel mondo. Il suo naufragio non è però un fenomeno isolato. Fa il paio con la soggettività che se ne faceva interprete, e che ormai fatica a riconoscersi nella realtà che la circonda. Lo spaesamento avviene perché una ragione calamitata dal finito è esposta all’irrompere dell’imprevedibile e l’uomo, alla stregua di una singolarità in costruzione, scopre che essere umano significa non restare identici in rapporto alla Verità.
Sono le sfide da fronteggiare quando a un’epoca di cambiamenti succede il cambiamento di un’epoca. Sembrerebbero questioni più attuali che mai in questo frangente storico. Ma non appartengono esclusivamente al nostro tempo. Lo conferma Sergio Massironi nel suo Il cardinale inquieto. La ripresa di Cusano in Italia come provocazione alla modernità (pagine 228, euro 22) appena pubblicato dalle edizioni Vita e Pensiero e che sarà presentato oggi alle ore 18 in un confronto online che vedrà l’autore discuterne con monsignor Sergio Ubbiali, docente di Teologia sistematica presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, e Silvano Petrosino, che insegna Antropologia religiosa e media all’Università Cattolica del Sacro Cuore, moderati da Sara Corna, del Collegio Villoresi di Monza. Il dibattito sarà trasmesso, in diretta, sul canale Youtube e profilo Facebook della casa editrice. Massironi nel suo lavoro mette in dialogo, con gran agio, la biografia intellettuale di Nicola da Cusa con alcune analisi critiche del suo pensiero condotte di recente in Italia.
Pur passando in rassegna le fatiche di Davide Monaco, Giovanni Gusmini, Cesare Catà, Gianluca Cuozzo e Marco Maurizi, lo studioso lombardo non rinuncia al confronto con figure come il filosofo Harald Schwaetzer sullo statuto del soggetto, con il teologo Ingolf U. Dalferth sul problema della ragione e il contributo dell’escatologia e con Jorge Bergoglio sui risvolti ecclesiologici-magisteriali.
Riannodare i fili tra presente e passato è una necessità perché «la crisi della modernità - avverte Massironi - ha provocato nel pensiero del Novecento una ripresa critica della parabola europea. Ciò ha offerto al cristianesimo l’opportunità di ripensarsi e di intervenire nuovamente con la propria proposta a indicare una traiettoria». Nicola da Cusa rappresenta, per usare in maniera impropria un’immagine a lui cara, uno speculum, uno specchio con cui compiere questo passo.
Il Cusano (1401-1464) è uno straordinario modello di riflessione per oggi perché percorre il crinale tra due mondi altrettanto delicato del nostro senza trovarsi impreparato dinanzi alle nuove sfide. Egli è di certo l’ultimo pensatore della stagione medioevale ma anche il primo riformatore nella fase moderna. Lo testimoniano sia la sua opera sia la sua biografia intellettuale. Filosofo, teologo, diplomatico, cardinale, vescovo, umanista, al tempo stesso quindi pastore di anime, politico, teoreta e uomo di fede oltreché grande collezionista di manoscritti, in perfetta sintonia con la passione umanistica delle fonti.
Nel corso dell’esistenza ha percorso più e più volte l’Europa, dalla natia Kues a Bisanzio, da Basilea a Parigi, da Colonia a Roma. Gli studi condotti a Padova gli hanno permesso di svincolarsi dai dibattiti frustri e desueti vissuti nel corso dei primi anni trascorsi all’università di Heidelberg dove si discuteva ancora della disputa degli universali, quasi un duecentesco déjà vu.
Ma i tempi erano ormai fuggiti in avanti. Infatti è il soggiorno italiano a consentire a Nicola da Cusa di nutrirsi della grande cultura umanistica che allora soffiava sulla penisola. Frequentare Vittorino da Feltre, Giuliano Cesarini e Lorenzo Valla, interloquire con Tommaso Parentuccelli, il futuro Niccolò V e con Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, o ancora confrontarsi, durante la missione a Bisanzio, con Isidoro di Kiev, Giovanni da Ragusa, il cardinale Bessarione, Gemisto Pletone permettono al Cusano di non rinchiudersi tra le strette gole della scolastica ma di schiudere strategie di pensiero rivolte all’epoca nuova.
Mettendo a frutto il dispositivo della docta ignorantia, Nicola da Cusa comprende che il non sapere è il vero sapere e assume, nel De coniecturis, la natura prospettica della scienza umana che permette di conoscere, senza indulgere in alcun relativismo, la singola cosa come coincidentia oppositorum, un risultato che contrae il tutto in sé, punto nodale dell’intreccio di relazioni del reale, e capace di comprendere in sé il prima e dopo del passaggio d’epoca
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER LA PACE E IL DIALOGO, UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. GIUSEPPE dà a suo Figlio, GESU’ (= "Dio" salva), il NOME del Suo "Dio", e Gesù rivela che il Nome di "Dio" è "Amore" (Agape, Charitas)!!!
UOMINI E DONNE, PROFETI E SIBILLE, OGGI: STORIA DELLE IDEE E DELLE IMMAGINI. A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE ..... RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!! FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Il papa in Iraq sconfigge i potenti della terra
In missione di pace. È suo il vero patto di Abramo che ieri in Iraq ha stretto con Ali Sistani, con tutti gli iracheni e anche con noi: basta guerre, basta armi, basta intolleranza. In poche ore Bergoglio in Medio Oriente sta facendo più di chiunque altro in un secolo di guerre e massacri, di falsi accordi e di pacificazioni effimere
di Alberto Negri (il manifesto, 07.03.2021)
Cosa sono la politica e la diplomazia? Eccole, nel segno di Abramo, e le porta un uomo testardo vestito di bianco. Cos’è il coraggio di cambiare il mondo? È quello di Bergoglio che in direzione ostinata e contraria, quando tutti lo sconsigliavano dall’andare in Iraq, ha sfidato i consigli più ipocriti, degli americani e dei venditori di morte occidentali. E lo ha detto anche nella biblica piana di Ur dove oltre a condannare il terrorismo in nome della religione si è scagliato contro ogni forma di oppressione e prevaricazione.
«Quante divisioni ha il papa?», si chiedeva ironicamente Stalin a Yalta a chi gli faceva presente le esigenze di Pio XII. La stessa domanda se la faranno adesso Biden, Macron, Netanyahu, magari pure il principe assassino, il mandante dell’omicidio di Jamal Khashoggi, il saudita Mohammed bin Salman - che in Yemen ha usato anche le bombe italiane - e molti altri dei cosiddetti potenti della terra. Perché il papa sta portando a casa un risultato straordinario che non si potevano neppure immaginare: hanno arsenali pieni ma poche idee che funzionano per una pace autentica.
È suo il vero patto di Abramo che ieri in Iraq ha stretto con Ali Sistani, con tutti gli iracheni e anche con noi: basta guerre, basta armi, basta intolleranza. In poche ore Bergoglio in Medio Oriente sta facendo più di chiunque altro in un secolo di guerre e massacri, di falsi accordi e di pacificazioni effimere. Si sbaglia chi pensa di misurare in un tempo breve quello che accade sotto i nostri occhi e che gran parte dei media, forse stupiti, stenta ad accettare: il peso specifico di questo viaggio lo soppeseremo nell’onda lunga della storia ma già nell’immediato Bergoglio ha instaurato un clima mai visto in questo Paese che ha vissuto 40 anni di guerre, di morte, di sopraffazione dei più deboli e vulnerabili.
Questa volta si sono dette cose completamente diverse da quelle che abbiamo dolorosamente conosciuto dell’Iraq. Nei cartelloni di benvenuto al papa lungo la strada maestra di Najaf campeggiava la scritta «Voi siete parte di noi e noi siamo parte di voi», con sotto raffigurati i volti di Bergoglio e di Alì Sistani. In una stanza spoglia, con due divanetti, un tavolino, una scatola di fazzoletti appoggiata e un vecchio condizionatore sulla parete intonacata, il papa e Sistani si sono guardati negli occhi. Nessuno dei capi occidentali lo aveva mai incontrato in questi decenni. Il senso del viaggio di Bergoglio tutto in questa immagine di Najaf dove nel mausoleo con la cupola d’oro è sepolto l’imam Ali, quarto califfo, cugino e genero di Maometto, il cuore dell’islam sciita. È qui che Sistani lanciò nel 2014 l’appello a tutti gli iracheni per ribellarsi dal Califfato che aveva conquistato Mosul.
Il papa ha ringraziato Sistani perché, assieme alla comunità sciita, di fronte alla violenza ha levato la sua voce in difesa dei perseguitati. Sistani ha affermato che le autorità religiose hanno un ruolo nella protezione dei cristiani iracheni che dovrebbero vivere in pace e godere degli stessi diritti degli altri iracheni. Un passo importante per il dialogo interreligioso ma soprattutto per la pacificazione tra tutte le componenti della società irachena, dalla maggioranza sciita irachena (60%) ai sunniti (35%), dai cristiani agli yazidi, dagli arabi ai curdi. L’incontro, lungamente preparato nei mesi scorsi dalla santa sede e dall’entourage di Sistani, con la mediazione di Louis Raphaël Sako, patriarca cattolico di Babilonia e dei caldei, ha infatti toccato tutte le questioni che affliggono le minoranze irachene, non solo quella cristiana. Francesco ha auspicato che sia proprio Sistani a guidare la difesa delle minoranze e il loro reintegro nella vita civile del Paese.
Il suo patto di Abramo vale, almeno moralmente, assai di più di quello tra Israele e le monarchie del Golfo voluto da Trump e ora caldeggiato da Biden: quello non è un accordo per la pace e la composizione dei conflitti ma contro l’Iran e tutti i popoli della regione che non si arrendono alla violenza e ai soprusi, alla legge del più forte, di chi ha più armi, più soldi, più tecnologia. Il patto di Abramo degli americani è un accordo che divide tra buoni e cattivi. I buoni sono gli alleati dell’Occidente e i maggiori clienti di armamenti degli Stati uniti, i cattivi coloro che non si arrendono all’ingiustizia e al doppio standard applicato da Washington e dall’occidente ai popoli della regione.
Forse non è del tutto casuale che, in coincidenza con il viaggio del papa in Iraq, l’ex capo dei pasdaran iraniani Mohsen Rezai abbia affermato, in un’intervista al Financial Times, che l’Iran è pronto a un nuovo negoziato sul nucleare se gli Usa si impegneranno a togliere le sanzioni a Teheran entro un anno.
Il patto di Abramo, quello tra Bergoglio e Sistani, magari potrebbe anche funzionare.
A). Discorso del Santo Padre - Testo in lingua italiana.
Cari fratelli e sorelle,
questo luogo benedetto ci riporta alle origini, alle sorgenti dell’opera di Dio, alla nascita delle nostre religioni. Qui, dove visse Abramo nostro padre, ci sembra di tornare a casa. Qui egli sentì la chiamata di Dio, da qui partì per un viaggio che avrebbe cambiato la storia. Noi siamo il frutto di quella chiamata e di quel viaggio. Dio chiese ad Abramo di alzare lo sguardo al cielo e di contarvi le stelle (cfr Gen 15,5). In quelle stelle vide la promessa della sua discendenza, vide noi. E oggi noi, ebrei, cristiani e musulmani, insieme con i fratelli e le sorelle di altre religioni, onoriamo il padre Abramo facendo come lui: guardiamo il cielo e camminiamo sulla terra.
1. Guardiamo il cielo. Contemplando dopo millenni lo stesso cielo, appaiono le medesime stelle. Esse illuminano le notti più scure perché brillano insieme. Il cielo ci dona così un messaggio di unità: l’Altissimo sopra di noi ci invita a non separarci mai dal fratello che sta accanto a noi. L’Oltre di Dio ci rimanda all’altro del fratello. Ma se vogliamo custodire la fraternità, non possiamo perdere di vista il Cielo. Noi, discendenza di Abramo e rappresentanti di diverse religioni, sentiamo di avere anzitutto questo ruolo: aiutare i nostri fratelli e sorelle a elevare lo sguardo e la preghiera al Cielo. Tutti ne abbiamo bisogno, perché non bastiamo a noi stessi. L’uomo non è onnipotente, da solo non ce la può fare. E se estromette Dio, finisce per adorare le cose terrene. Ma i beni del mondo, che a tanti fanno scordare Dio e gli altri, non sono il motivo del nostro viaggio sulla Terra. Alziamo gli occhi al Cielo per elevarci dalle bassezze della vanità; serviamo Dio, per uscire dalla schiavitù dell’io, perché Dio ci spinge ad amare. Ecco la vera religiosità: adorare Dio e amare il prossimo. Nel mondo d’oggi, che spesso dimentica l’Altissimo o ne offre un’immagine distorta, i credenti sono chiamati a testimoniare la sua bontà, a mostrare la sua paternità mediante la loro fraternità.
Da questo luogo sorgivo di fede, dalla terra del nostro padre Abramo, affermiamo che Dio è misericordioso e che l’offesa più blasfema è profanare il suo nome odiando il fratello. Ostilità, estremismo e violenza non nascono da un animo religioso: sono tradimenti della religione. E noi credenti non possiamo tacere quando il terrorismo abusa della religione. Anzi, sta a noi dissolvere con chiarezza i fraintendimenti. Non permettiamo che la luce del Cielo sia coperta dalle nuvole dell’odio! Sopra questo Paese si sono addensate le nubi oscure del terrorismo, della guerra e della violenza. Ne hanno sofferto tutte le comunità etniche e religiose. Vorrei ricordare in particolare quella yazida, che ha pianto la morte di molti uomini e ha visto migliaia di donne, ragazze e bambini rapiti, venduti come schiavi e sottoposti a violenze fisiche e a conversioni forzate. Oggi preghiamo per quanti hanno subito tali sofferenze, per quanti sono ancora dispersi e sequestrati, perché tornino presto alle loro case. E preghiamo perché ovunque siano rispettate e riconosciute la libertà di coscienza e la libertà religiosa: sono diritti fondamentali, perché rendono l’uomo libero di contemplare il Cielo per il quale è stato creato.
Il terrorismo, quando ha invaso il nord di questo caro Paese, ha barbaramente distrutto parte del suo meraviglioso patrimonio religioso, tra cui chiese, monasteri e luoghi di culto di varie comunità. Ma anche in quel momento buio sono brillate delle stelle. Penso ai giovani volontari musulmani di Mosul, che hanno aiutato a risistemare chiese e monasteri, costruendo amicizie fraterne sulle macerie dell’odio, e a cristiani e musulmani che oggi restaurano insieme moschee e chiese. Il professor Ali Thajeel ci ha anche raccontato il ritorno dei pellegrini in questa città. È importante peregrinare verso i luoghi sacri: è il segno più bello della nostalgia del Cielo sulla Terra. Perciò amare e custodire i luoghi sacri è una necessità esistenziale, nel ricordo del nostro padre Abramo, che in diversi posti innalzò verso il cielo altari al Signore (cfr Gen 12,7.8; 13,18; 22,9). Il grande patriarca ci aiuti a rendere i luoghi sacri di ciascuno oasi di pace e d’incontro per tutti! Egli, per la sua fedeltà a Dio, divenne benedizione per tutte le genti (cfr Gen 12,3); il nostro essere oggi qui sulle sue orme sia segno di benedizione e di speranza per l’Iraq, per il Medio Oriente e per il mondo intero. Il Cielo non si è stancato della Terra: Dio ama ogni popolo, ogni sua figlia e ogni suo figlio! Non stanchiamoci mai di guardare il cielo, di guardare queste stelle, le stesse che, a suo tempo, guardò il nostro padre Abramo.
2. Camminiamo sulla terra. Gli occhi al cielo non distolsero, ma incoraggiarono Abramo a camminare sulla terra, a intraprendere un viaggio che, attraverso la sua discendenza, avrebbe toccato ogni secolo e latitudine. Ma tutto cominciò da qui, dal Signore che “lo fece uscire da Ur” (cfr Gen 15,7). Il suo fu dunque un cammino in uscita, che comportò sacrifici: dovette lasciare terra, casa e parentela. Ma, rinunciando alla sua famiglia, divenne padre di una famiglia di popoli. Anche a noi succede qualcosa di simile: nel cammino, siamo chiamati a lasciare quei legami e attaccamenti che, chiudendoci nei nostri gruppi, ci impediscono di accogliere l’amore sconfinato di Dio e di vedere negli altri dei fratelli. Sì, abbiamo bisogno di uscire da noi stessi, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. La pandemia ci ha fatto comprendere che «nessuno si salva da solo» (Lett. enc. Fratelli tutti, 54). Eppure ritorna sempre la tentazione di prendere le distanze dagli altri. Ma «il “si salvi chi può” si tradurrà rapidamente nel “tutti contro tutti”, e questo sarà peggio di una pandemia» (ibid., 36). Nelle tempeste che stiamo attraversando non ci salverà l’isolamento, non ci salveranno la corsa a rafforzare gli armamenti e ad erigere muri, che anzi ci renderanno sempre più distanti e arrabbiati. Non ci salverà l’idolatria del denaro, che rinchiude in sé stessi e provoca voragini di disuguaglianza in cui l’umanità sprofonda. Non ci salverà il consumismo, che anestetizza la mente e paralizza il cuore.
La via che il Cielo indica al nostro cammino è un’altra, è la via della pace. Essa chiede, soprattutto nella tempesta, di remare insieme dalla stessa parte. È indegno che, mentre siamo tutti provati dalla crisi pandemica, e specialmente qui dove i conflitti hanno causato tanta miseria, qualcuno pensi avidamente ai propri affari. Non ci sarà pace senza condivisione e accoglienza, senza una giustizia che assicuri equità e promozione per tutti, a cominciare dai più deboli. Non ci sarà pace senza popoli che tendono la mano ad altri popoli. Non ci sarà pace finché gli altri saranno un loro e non un noi. Non ci sarà pace finché le alleanze saranno contro qualcuno, perché le alleanze degli uni contro gli altri aumentano solo le divisioni. La pace non chiede vincitori né vinti, ma fratelli e sorelle che, nonostante le incomprensioni e le ferite del passato, camminino dal conflitto all’unità. Chiediamolo nella preghiera per tutto il Medio Oriente, penso in particolare alla vicina, martoriata Siria.
Il patriarca Abramo, che oggi ci raduna in unità, fu profeta dell’Altissimo. Un’antica profezia dice che i popoli «spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci» (Is 2,4). Questa profezia non si è realizzata, anzi spade e lance sono diventate missili e bombe. Da dove può cominciare allora il cammino della pace? Dalla rinuncia ad avere nemici. Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo.
Cari amici, tutto ciò è possibile? Il padre Abramo, egli che seppe sperare contro ogni speranza (cfr Rm 4,18) ci incoraggia. Nella storia abbiamo spesso inseguito mete troppo terrene e abbiamo camminato ognuno per conto proprio, ma con l’aiuto di Dio possiamo cambiare in meglio. Sta a noi, umanità di oggi, e soprattutto a noi, credenti di ogni religione, convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace. Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti. Sta a noi mettere a tacere le accuse reciproche per dare voce al grido degli oppressi e degli scartati sul pianeta: troppi sono privi di pane, medicine, istruzione, diritti e dignità! Sta a noi mettere in luce le losche manovre che ruotano attorno ai soldi e chiedere con forza che il denaro non finisca sempre e solo ad alimentare l’agio sfrenato di pochi. Sta a noi custodire la casa comune dai nostri intenti predatori. Sta a noi ricordare al mondo che la vita umana vale per quello che è e non per quello che ha, e che le vite di nascituri, anziani, migranti, uomini e donne di ogni colore e nazionalità sono sacre sempre e contano come quelle di tutti! Sta a noi avere il coraggio di alzare gli occhi e guardare le stelle, le stelle che vide il nostro padre Abramo, le stelle della promessa.
Il cammino di Abramo fu una benedizione di pace. Ma non fu facile: egli dovette affrontare lotte e imprevisti. Anche noi abbiamo davanti un cammino accidentato, ma abbiamo bisogno, come il grande patriarca, di fare passi concreti, di peregrinare alla scoperta del volto dell’altro, di condividere memorie, sguardi e silenzi, storie ed esperienze. Mi ha colpito la testimonianza di Dawood e Hasan, un cristiano e un musulmano che, senza farsi scoraggiare dalle differenze, hanno studiato e lavorato insieme. Insieme hanno costruito il futuro e si sono scoperti fratelli. Anche noi, per andare avanti, abbiamo bisogno di fare insieme qualcosa di buono e di concreto. Questa è la via, soprattutto per i giovani, che non possono vedere i loro sogni stroncati dai conflitti del passato! È urgente educarli alla fraternità, educarli a guardare le stelle. È una vera e propria emergenza; sarà il vaccino più efficace per un domani di pace. Perché siete voi, cari giovani, il nostro presente e il nostro futuro!
Solo con gli altri si possono sanare le ferite del passato. La signora Rafah ci ha raccontato l’eroico esempio di Najy, della comunità sabeana mandeana, che perse la vita nel tentativo di salvare la famiglia del suo vicino musulmano. Quanta gente qui, nel silenzio e nel disinteresse del mondo, ha avviato cammini di fraternità! Rafah ci ha raccontato pure le indicibili sofferenze della guerra, che ha costretto molti ad abbandonare casa e patria in cerca di un futuro per i loro figli. Grazie, Rafah, per aver condiviso con noi la ferma volontà di restare qui, nella terra dei tuoi padri. Quanti non ci sono riusciti e hanno dovuto fuggire, trovino un’accoglienza benevola, degna di persone vulnerabili e ferite.
Fu proprio attraverso l’ospitalità, tratto distintivo di queste terre, che Abramo ricevette la visita di Dio e il dono ormai insperato di un figlio (cfr Gen 18,1-10). Noi, fratelli e sorelle di diverse religioni, ci siamo trovati qui, a casa, e da qui, insieme, vogliamo impegnarci perché si realizzi il sogno di Dio: che la famiglia umana diventi ospitale e accogliente verso tutti i suoi figli; che, guardando il medesimo cielo, cammini in pace sulla stessa terra.
B). Preghiera dei figli di Abramo - Testo in lingua italiana.
Dio Onnipotente, Creatore nostro che ami la famiglia umana e tutto ciò che le tue mani hanno compiuto, noi, figli e figlie di Abramo appartenenti all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, insieme agli altri credenti e a tutte le persone di buona volontà, ti ringraziamo per averci donato come padre comune nella fede Abramo, figlio insigne di questa nobile e cara terra.
Ti ringraziamo per il suo esempio di uomo di fede che ti ha obbedito fino in fondo, lasciando la sua famiglia, la sua tribù e la sua patria per andare verso una terra che non conosceva.
Ti ringraziamo anche per l’esempio di coraggio, di resilienza e di forza d’animo, di generosità e di ospitalità che il nostro comune padre nella fede ci ha donato.
Ti ringraziamo, in particolare, per la sua fede eroica, dimostrata dalla disponibilità a sacrificare suo figlio per obbedire al tuo comando. Sappiamo che era una prova difficilissima, dalla quale tuttavia è uscito vincitore, perché senza riserve si è fidato di Te, che sei misericordioso e apri sempre possibilità nuove per ricominciare.
Ti ringraziamo perché, benedicendo il nostro padre Abramo, hai fatto di lui una benedizione per tutti i popoli.
Ti chiediamo, Dio del nostro padre Abramo e Dio nostro, di concederci una fede forte, operosa nel bene, una fede che apra i nostri cuori a Te e a tutti i nostri fratelli e sorelle; e una speranza insopprimibile, capace di scorgere ovunque la fedeltà delle tue promesse.
Fai di ognuno di noi un testimone della tua cura amorevole per tutti, in particolare per i rifugiati e gli sfollati, le vedove e gli orfani, i poveri e gli ammalati.
Apri i nostri cuori al perdono reciproco e rendici strumenti di riconciliazione, costruttori di una società più giusta e fraterna.
Accogli nella tua dimora di pace e di luce tutti i defunti, in particolare le vittime della violenza e delle guerre.
Assisti le autorità civili nel cercare e trovare le persone rapite, e nel proteggere in modo speciale le donne e i bambini.
Aiutaci ad avere cura del pianeta, casa comune che, nella tua bontà e generosità, hai dato a tutti noi.
Sostieni le nostre mani nella ricostruzione di questo Paese, e dacci la forza necessaria per aiutare quanti hanno dovuto lasciare le loro case e loro terre a rientrare in sicurezza e con dignità, e a iniziare una vita nuova, serena e prospera. Amen.
Francesco in Iraq, l’unica diplomazia contro la guerra
Medio Oriente. Bergoglio non solo è il primo papa in Iraq ma anche il primo capo di stato dell’Occidente a casa dell’ayatollah Sistani. Ecco perché la sua visita è pastorale ma anche politica
di Alberto Negri (il manifesto, 06.03.2021)
Il papa in visita oggi da Sistani fa politica e diplomazia, quella che nessuno riesce a fare. Chi è Alì Sistani, il religioso sciita di Najaf?
È un uomo, con un’influenza spirituale estesa ben oltre i confini iracheni, che rappresenta la sintesi complessa, avvincente, e talora inestricabile, di un secolo di vicende dell’Iraq e del Medio Oriente.
Ma è anche una parte della nostra storia, assai poco onorevole, fatta di spartizioni coloniali e guerre, come quella del 2003 che l’Occidente ha portato nella terra di Abramo e che un altro papa, Wojtyla, ricevendo il vicepresidente di Saddam Hussein, il cristiano Tarek Aziz, cercò di fermare mentre in Italia esponevamo quelle bandiere arcobaleno adesso ormai stinte ed estinte.
Questa volta il papa fa un po’ anche la nostra parte, ci ricorda l’inferno iracheno, la memoria perduta e la vergogna di guerre costruite su menzogne come quella delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, la madre di tutte le fake news inventata da Bush jr. e Blair. Gli iracheni soffrono da decenni un calvario senza fine.
Morti e profughi si contano a milioni, le distruzioni sono inenarrabili: vite travolte e generazioni perdute. In 40 anni lì ho vissuto la guerra contro l’Iran (un milione di morti), quella del ‘91, del 2003, le stragi di Al Qaida e dell’Isis fino alla caduta di Mosul e alla sua liberazione dal Califfato nel 2017.
Una delle storie di Sistani e Najaf che ci può interessare è questa. Quando l’Imam Khomeini, poi diventato nel 1979 il leader indiscusso della rivoluzione sciita in Iran, andò nel 1965 in esilio a Najaf, Sistani accolse la sua venuta con una frase rimasta famosa: «Ecco adesso sono arrivati i guai».
Sistani come il suo maestro il grande ayatollah Khoei è sempre stato contrario al coinvolgimento del clero nella politica. Ma i suoi moniti a volte non furono seguiti: il figlio di Kohei, Abdul Majid, fu assassinato mentre, dopo una missione a Londra, andava a pregare al mausoleo di Alì il 10 aprile 2003, il giorno dopo l’entrata a Baghdad degli americani.
Qui anche una preghiera a volte è di troppo. Ogni passo del papa in questo viaggio è segnato dal sangue, quello dei musulmani, sciiti e sunniti, dei cristiani, degli yazidi, dei mandei, degli arabi, dei curdi.
In politica Sistani, massima autorità religiosa del Paese, è stato coinvolto dopo la caduta di Saddam ma in tanti anni di occupazione Usa non ha mai ricevuto il rappresentante di un governo occidentale. Come se gli americani avessero conquistato l’Italia senza mai essere accolti in Vaticano.
La stessa Najaf come meta del viaggio ha un’alta carica simbolica: la cupola d’oro del mausoleo di Alì, dove nel ’91 vidi le pareti insanguinate dalla repressione di Saddam, è dedicata al cugino e genero di Maometto, il quarto califfo, padre del martire Hussein a Karbala nel 680. Dopo Mecca e Medina è la meta di pellegrinaggio musulmana più gettonata e quando il papa vi giungerà, ancor prima di vedere i due minareti e la cupola, osserverà il più grande cimitero del mondo che ospita le tombe di milioni di sciiti da tutto l’islam.
Quindi Bergoglio non solo è il primo papa in Iraq ma anche il primo capo di stato dell’Ovest a casa di Sistani. Ecco perché la sua visita è pastorale ma anche politica. Pastorale perché i due firmeranno il documento sulla «fratellanza umana» già sottoscritto nel 2019 ad Abu Dhabi con l’imam sunnita di Al Azhar, Ahmad al Tayyeb.
Politica perché Sistani, pur essendo ostile alle ingerenze nel potere dell’establishment religioso, in realtà ha giocato in questi anni un ruolo di primo piano, fino a essere considerato una sorta di deus ex machina capace di imprimere svolte significative e di mediare le profonde divisioni del Paese.
Nato in Iran a Mashad nel 1930, Sistani era in origine un «quietista» e si teneva lontano dalla politica mentre altre famiglie di ayatollah come gli Al Hakim, i Baqr e i Sadr cadevano stritolati dalla macchina repressiva del regime baathista.
Poi, con l’arrivo degli americani, il Grande Ayatollah si è trovato in mezzo, prima trascinato dal suo giovane concorrente Muqtada Sadr, che guidò una rivolta armata con l’esercito del Madhi, poi nel 2014, quando dopo la caduta di Mosul ha dato la sua benedizione alle milizie popolari sciite che si opponevano al Califfato insieme ai pasdaran guidati dal generale Qassem Soleimani, eliminato da Trump nel gennaio 2020 proprio all’aereoporto di Baghdad.
Insomma il papa è in visita da un leader che è stato cruciale per arrestare l’offensiva jihadista dell’Isis e capovolgere le sorti del conflitto, difendendo strenuamente l’indipendenza del Paese dagli Usa e anche dall’inevitabile influenza iraniana. Se c’era ancora Trump il papa forse non si sarebbe troppo fidato di andare in Iraq, con Biden, che pure continua a fare il pistolero in Siria, si può sentire meno minacciato.
Ma è da ricordare che proprio questo papa nel 2014 si è opposto ai bombardamenti di un altro presidente democratico sulla Siria. La guerra al papa proprio non piace, che ci volete fare...
Viaggio. Papa Francesco in Iraq nel segno di Abramo, che sperò contro ogni speranza
Una palma, il Tigri e l’Eufrate e una colomba a fianco del motto “Siete tutti fratelli” tratto dal Vangelo di Matteo: è il logo della prima volta di un Papa nella Terra dei due fiumi
di Stefania Falasca *
Una palma, il Tigri e l’Eufrate e una colomba a fianco del motto “Siete tutti fratelli” tratto dal Vangelo di Matteo è il logo della prima volta di un Papa nella Terra dei due fiumi che è stata culla della civiltà, che è la Terra Santa del patriarca Abramo, dei profeti Ezechiele e Giona, là dove fu scritta parte della Bibbia e dove il popolo della Promessa soffrì l’esilio babilonese.
Quello di papa Francesco in Iraq dal prossimo 5 all’8 marzo è il primo viaggio apostolico in un Paese a maggioranza sciita, che ha vissuto quattro conflitti negli ultimi quattro decenni, ma anche il primo dell’era pandemica, e può così a ragione considerarsi un viaggio non solo storico.
Proprio in Iraq, a Ur dei Caldei, Dio scelse un “arameo errante”, Abramo, per un progetto apparentemente incomprensibile. Fu l’inizio della storia della salvezza.
Dai cristiani, dagli ebrei e dai musulmani Abramo viene onorato con il titolo di “amico di Dio”, un appellativo che si ritrova, caso unico, nell’Antico e nel Nuovo Testamento e nel Corano. È dunque ad Abramo, padre della fede in un solo Dio, che seppe «sperare contro ogni speranza» che bisogna guardare per capire le coordinate profonde di questo viaggio nell’antica Mesopotamia.
«Il viaggio che il Papa si accinge a fare si ascrive in questa storia di pellegrinaggio e apertura al futuro nel segno di Abramo. È un gesto d’amore estremo. Un gesto d’amore verso questa terra lacerata, verso la sua gente duramente provata ora anche dalla pandemia, verso le comunità cristiane che risalgono all’età apostolica» ha spiegato il direttore della Sala stampa della Santa Sede Matteo Bruni nella conferenza di presentazione del prossimo passaggio del Papa in Iraq. Nella quale ha poi rilevato come questa trentatreesima visita apostolica di papa Francesco origini da lontano, dal sogno che era stato di già di Giovanni Paolo II di portarsi nella Piana di Ur e come fosse già nella mente di papa Francesco dal 30 ottobre del 2013, pochi mesi dopo la sua elezione al soglio di Pietro, quando rivelò l’urgenza di pregare per l’Iraq, «colpito quotidianamente da tragici episodi di violenza, perché trovi la strada della riconciliazione e della pace».
«Un pensiero insistente» che ha preso forma dopo l’enciclica “Fratelli tutti” e lo ha accompagnato negli anni nella speranza che l’Iraq «possa guardare avanti attraverso la pacifica e condivisa partecipazione alla costruzione del bene comune di tutte le componenti anche religiose della società, e non ricada in tensioni che vengono dai mai sopiti conflitti delle potenze regionali».
«Fraternità e speranza» sono dunque «le due parole che possono aiutarci a fare sintesi del prossimo viaggio in Iraq» ha sottolineato ancora il direttore della Sala Stampa vaticana. Per precisare poi che incontrare le comunità cristiane, in particolare quella sira e caldea - provate da violenze e abusi e da una emorragia di fedeli costretti ad abbandonare le terre abitate da secoli - farsi prossimo alla società irachena nel momento di nuova crisi in questo Paese cerniera del Medio Oriente e approfondire il rapporto tra fedi diverse sono i tre motivi principali di questo particolare viaggio.
Baghdad, la città sacra dell’islam sciita Najaf, a Ur dei caldei, poi Erbil nella regione autonoma del Kuridistan iracheno, Mosul, Qaraqosh nella piana di Ninive, abitate dai cristiani, queste le tappe simbolo del viaggio in Iraq nel quale il Papa pronuncerà quattro discorsi e terrà due omelie, un Angelus e una preghiera di suffragio per le vittime della guerra.
Alle 7.30 del 5 marzo, con il volo da Roma, papa Francesco arriverà a Baghdad dove verrà accolto dal primo ministro e da una cerimonia di benvenuto nel palazzo presidenziale con una visita di cortesia, privata, al capo dello Stato al termine del quale il Papa terrà il suo primo discorso. Significativamente la giornata si concluderà con l’incontro con i vescovi, i sacerdoti, i religiosi e i catechisti nella Cattedrale Siro-Cattolica di Nostra Signora della Salvezza a Baghdad, che nell’ottobre del 2010 è stata teatro di un attentato che ha provocato 48 vittime per le quali è in corso il processo di canonizzazione.
Sabato 6 marzo sarà dedicato alla visita a Najaf al grande ayatollah Ali Al-Sistani. Concluso il quale papa Francesco partirà per Nassirya, sulle rive dell’Eufrate, per un incontro interreligioso. Nel pomeriggio il rientro a Baghdad e la celebrazione della messa nella cattedrale caldea di San Giuseppe, una delle 11 presenti nel Paese.
Il 7 marzo papa Francesco si dividerà fra Kurdistan irakeno e piana di Ninive. Al mattino partenza per Erbil, incontro con le autorità religiose e civili. In elicottero il trasferimento a Mosul, per anni roccaforte del Daesch, dove terrà una preghiera per le vittime della guerra. A seguire in elicottero l’altra tappa simbolo a Qaraqosh nella piana di Ninive, occupata dallo Stato islamico fino al 2016, con un discorso alla comunità locale dall’interno della chiesa dell’Immacolata Concezione. Nel pomeriggio rientro a Erbil, per la Messa celebrata nello stadio “Franso Hariri” e in serata rientro a Baghdad.
La mattina successiva il volo che lo riporterà a Roma. «Con l’eccezione di Erbil - ha fatto notare Bruni - il Papa, tenuta in conto la condizione sanitaria, non incontrerà folle: siamo nell’ordine delle centinaia di persone. Il viaggio si farà, come ha detto il Papa, anche solo per permettere agli iracheni di vederlo in televisione che è nel loro Paese. Questo conta».
* Fonte: Avvenire, 02 marzo 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"GIUSEPPE", L’ANELLO DI CONGIUNZIONE DEI "TRE" MONOTEISMI. Un importante studio di Massimo Campanini sul patriarca d’Israele e sul profeta del Corano.
FLS
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Teologia.
La Chiesa superstite, profezia sul domani
Il biblista Walter Vogels indaga la questione del “resto” come unità residuale che sembra indicare il declino, ma in realtà può annunciare una rinascita
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 19 febbraio 2021)
L’esilio babilonese: James Tissot, “ La deportazione dei prigionieri” - WikiCommons
Resto. Oggi viene da pensare al popolo dell’Artsakh, violentemente aggredito da turchi e azeri e costretto a rifugiarsi in Armenia, abbandonando case e campi, oltre che chiese e monasteri testimonianze di una civiltà millenaria.
Nelle culture precristiane, il concetto di ’resto’ fu applicato a quel che rimaneva di una popolazione dopo una guerra o un disastro naturale e, come noto, la Bibbia abbonda di citazioni relative al popolo di Israele. In particolare, dopo la serie di crudeli invasioni e deportazioni da parte di Assiri e Babilonesi. Nell’Antichità infatti, al termine di un conflitto, i vincitori si abbandonavano alla distruzione quasi totale degli avversari, a cominciare dai loro leader, ma anche delle fonti di vita, dei villaggi e delle vigne.
Un’esperienza verificatasi più volte, dai Sumeri agli Ittiti, dagli Assiri agli Egizi. Eppure, nonostante questa sistematica opera di annientamento dei vinti, qualche sopravvissuto rimaneva sempre. E in alcune circostanze, dopo anni o decenni la vita poteva riprendere. È il caso appunto di Israele, che riuscì a risorgere dopo periodi di cattività a Babilonia. «Racimolate, racimolate come una vigna il resto d’Israele», scrive Geremia dopo l’invasione babilonese che portò, nel 586 a.C., alla distruzione di Gerusalemme.
In realtà, il primo a parlare di ’resto’ era stato Amos, considerato anche il primo profeta-scrittore. Molto severo verso gli israeliti che avevano abbandonato il Signore, egli preannuncia la distruzione del regno del Nord da parte degli Assiri, che si verificherà nel 721 a.C., ma esprime pure la speranza che «forse il Signore, Dio degli eserciti, avrà pietà del resto di Giuseppe ».
La nozione di ’resto’ si affaccia la prima volta dunque, come accennato, in un contesto di guerra. È noto che gli Assiri erano particolarmente feroci, puntavano ad schiacciare completamente i popoli conquistati e, nei loro rapporti ufficiali, i re rimarcavano come ’il resto’ fosse stato catturato, ucciso o deportato, in modo che i vinti non potessero ribellarsi in futuro. Però, v’era sempre un ’resto’ che era riuscito a fuggire nel deserto.
Gli Assiri dovettero accontentarsi di prendere la Samaria ma non giunsero sino a Gerusalemme, cosa che si verificò invece anni dopo con Nabucodonor, prima nel 597 e poi nel 586, quando il tempio venne distrutto dalla foga dei Babilonesi, e infine in un’ultima deportazione voluta da Nabuzaradan, nel 582. In queste circostanze, vari profeti, da Isaia a Sofonia e Geremia, lamentarono la sorte del resto d’Israele. Dice Isaia: «Da Gerusalemme uscirà un resto, dal monte di Sion un residuo». E Geremia auspica che il suo popolo si lasci sottomettere dai Babilonesi per sopravvivere.
Così Ezechiele, che vede una speranza e un futuro possibile per il popolo di Dio anche nell’esilio. Sarà Ciro, re di Persia, nel 538 a.C., a ridare la possibilità al resto d’Israele di tornare nella sua patria. Così finì il periodo di castigo e purificazione. Nella Bibbia il riferimento al resto è legato anche a circostanze diverse, come il diluvio di Noè o l’incendio di Sodoma (probabilmente conseguenza di un terremoto), ma tutti questi disastri sono dovuti al peccato d’Israele, cui Dio dà però sempre la possibilità di risollevarsi.
È a partire dall’esame accurato di questo tema biblico che attraversa tutte le Scritture che il biblista e teologo Walter Vogels, docente emerito di Antico Testamento all’Università Saint-Paul di Ottawa, nel suo libro Il piccolo resto nella Bibbia (Queriniana, pagine 144, euro 16,00) finisce per applicarlo al declino attuale della Chiesa: «E se la manciata di fedeli pronti a mantenere viva la fede in Cristo svolgesse oggi la stessa missione dei superstiti dell’Antico Testamento».
È sotto gli occhi di tutti il calo enorme non solo nella frequenza alle cerimonie religiose, ancor più evidente in questo periodo di pandemia, tanto che risulta ben difficile parlare ancora di ’Europa cristiana’. Anche secondo le indagini recenti, meno della metà delle persone che vivono nel Vecchio Continente si dice credente o religiosa e i cristiani si collocano ormai fra il 20 e il 30 per cento.
Diversa la situazione nel resto del mondo, in particolare in America, Asia e Africa, dove semmai il cristianesimo è messo in pericolo non dall’abbandono dovuto dalla secolarizzazione ma dalla persecuzione. Vogels enumera il Medio Oriente, che ha visto i seguaci dell’Isis assassinare centinaia di cristiani, o la Nigeria, il Pakistan e l’India, ove molti subiscono angherie, se non conversioni forzate all’islam o uccisioni, solo perché cristiani.«Non è sorprendente - commenta l’autore - che papa Francesco parli della nostra epoca come quella dei martiri. In Occidente, una cultura umana e cristiana è del pari in via di estinzione, e chi si preoccupa?».
Le persone che si collocano dentro la Chiesa hanno tre diverse reazioni. Ci sono i profeti di sventura, che rimpiangono i bei tempi andati e mettono sotto accusa tutta la cultura moderna. Poi ci sono quelli che guardano alla differente e più positiva situazione della Chiesa nel resto del mondo e perciò non si preoccupano più di tanto.
Infine vi sono coloro che vedono in questa situazione di crisi un’opportunità, quella di tornare alle origini, «un’umile, piccola Chiesa, lievito nell’impasto, granello di senape, luce per il mondo». Si apre insomma la possibilità di ritrovare la natura vera ed essenziale della Chiesa, che si deve purificare abbandonando ogni compromissione col potere.
Qui il tema del ’resto’ non appare affatto ingiustificato. Come ha detto Gesù: «il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?», una domanda che non ha una risposta scontata e che deve far riflettere, perché la perdita di fede in Europa potrebbe non aver raggiunto il culmine.
Anche il popolo d’Israele subì una terza deportazione e «rimase il resto di un resto di un resto»: accadrà così anche ai cristiani d’Occidente? Per Vogels non si tratta di consolarsi sostenendo che ora va a Messa solo chi ci crede davvero e che la Chiesa è più pura. Se in questo c’è del vero, non ci si può illudere che il futuro delle comunità cristiane sia costituito solo da pochi eletti, che magari si ritengono perfetti. Anche coloro che in passato frequentavano in massa la parrocchia e che magari non erano acculturati, vivevano però una fede sincera e profonda. E trasmettevano la fede ai loro figli.
Il volume esamina anche le possibili cause del declino, fra cui le stesse colpe della Chiesa dovute per esempio agli scandali e agli abusi, ma pone pure alcuni segni di speranza. «Quanto durerà questo esodo?», si chiede Vogels, e aggiunge: «Dopo tutte le apologie degli ultimi papi per le colpe della Chiesa, la chiamata costante e fervida di papa Francesco alla misericordia di Dio sarebbe una profezia che questo tempo della misericordia, che darà il cambio a quello dell’ira, è vicino?».
Si tratta di ripartire proprio dal ’resto’, da coloro che rimangono legati alla Chiesa e continuano ad impegnarsi e a trasmettere la fede alle nuove generazioni. Sarà capace questo ’resto’, grazie a un processo di riforma autentica e una nuova evangelizzazione, di recuperare almeno una parte di coloro che se ne sono andati? «La rimpatriata non sarà facile. Ma non abbiano il diritto di lasciare i feriti della vita da soli, in esilio, lontani o esclusi dalla comunità». E ancora: «Spalanchiamo le porte della misericordia, della comprensione e della tolleranza. Ci deve essere posto per molti nella casa del Padre, per coloro che sono chiamati liberali o conservatori, tradizionalisti o rivoluzionari, di sinistra o di destra. Ci sarà del vecchio e del nuovo. Nessuna comunità è perfetta ».
Ma si può ricostruire rispettando due condizioni: che sia salvaguardato il patto fra la Chiesa e i diritti dell’uomo, nel rifiuto di ogni violenza, e che si testimoni il primato dell’agape, segno vero della presenza dei cristiani nel mondo.
Non solo sociologia. Le religioni e la violenza sulle donne
Liviana Gazzetta (Alfabeta-2, 3 marzo 2019)
Sulla questione della violenza sulle donne, che sempre più si manifesta come un’emergenza delle società contemporanee - e della società italiana in particolare -, c’è una precisa responsabilità storico-culturale delle religioni che non può più essere taciuta. Che anzi va tematizzata esplicitamente nelle chiese, nei luoghi di culto, nelle assemblee dei credenti di tutte le fedi: fedi che spesso, preoccupate di fare i conti con gli effetti della secolarizzazione, tendono a pensarsi o a presentarsi come innocenti rispetto ai drammi del nostro tempo.
È esattamente ciò che cerca di fare il volume collettaneo Non solo reato, anche peccato. Religioni e violenza sulle donne, curato da Paola Cavallari, che esce nella collana Sui generis del Coordinamento Teologhe Italiane presso la casa editrice Effatà di Torino.
I testi raccolti sono frutto di alcuni incontri ecumenici avvenuti tra il 2016 e il 2018 a Bologna, dopo la firma dell’Appello alle chiese cristiane in Italia contro la violenza sulle donne. Anche se pochi di noi se ne sono accorti, infatti, il 9 marzo 2015, durante una cerimonia solenne svoltasi al Senato, è stato siglato un importante documento ecumenico su questo tema.
Firmato da anglicani, metodisti, battisti, cattolici di rito latino e bizantino, cristiani apostolici armeni e ortodossi, esso ufficialmente definisce il ginocidio come "un’emergenza (...) che interroga anche le chiese e pone un problema alla coscienza cristiana" e soprattutto dichiara l’urgenza di impegnarsi "per un’azione educativa e pastorale profonda e rinnovata che da un lato aiuti la parte maschile dell’umanità dalla spinta a commettere violenza sulle donne e dall’altro sostenga la dignità della donna, i suoi diritti" tanto nella società, quanto nelle relazioni affettive, quanto - va sottolineato - nelle stesse comunità cristiane.
Un testo di grande interesse e per molti versi innovativo, come si può capire. Ma la difficoltà del tema è tale che neppure in questo appello, come nota la stessa curatrice Cavallari, si nomina esplicitamente la corresponsabilità storica delle istituzioni religiose, proprio quelle nate dalla tradizione giudaico-cristiana, nell’aver condiviso, trasmesso, legittimato, a volte sostenuto una visione antropologica del femminile (e del maschile) che è di fatto tra le matrici della cultura che produce l’abominio della violenza sulle donne.
Bisogna cioè avere il coraggio di riconoscere che la situazione attuale è parte di tutta una serie di processi plurisecolari; che le interpretazioni della Parola ancora oggi presenti nei vari ambienti ecclesiali sono impregnate di una cultura androcentrica e sessista; che i codici simbolici adottati nel tempo dalle chiese inducono o pretendono atteggiamenti di passività e di assoggettamento femminile facilitando la prevaricazione e l’offesa nei confronti delle donne; che le istituzioni monosessuate hanno rappresentato una sorta di furto ai danni della spiritualità femminile, sottraendo loro lo spazio della predicazione e dell’amministrazione dei sacramenti: non a caso nell’introduzione si cita un passaggio illuminante di santa Teresa d’Avila, che così recriminava in pieno XVI secolo: "Io rimprovero al nostro tempo di respingere gli spiriti forti e dotati di ogni bene solo perché sono donne".
Le analisi ospitate nel libro sono tutte variamente stimolanti, basate su un assunto completamente diverso da quello che, per esempio, ha ispirato il noto Dio odia le donne di Giuliana Sgrena (Il Saggiatore 2016): in quest’ultimo saggio, si ricorderà, i testi sacri delle tre tradizioni monoteistiche sono considerati né più né meno che come «gli strumenti di un’aggressione» fondamentale alle donne. E proprio perché oppresse in misura esponenziale dall’integralismo monoteista, secondo questa lettura, le donne continuerebbero a essere anche più credenti e praticanti degli uomini, le prosecutrici di quelle tradizioni che dalla loro fede traggono la forza per limitare (quando non cancellare) i loro diritti.
Il libro curato da Cavallari per il “Coordinamento Teologhe Italiane” si spende, invece, in una scommessa di tutt’altro segno: l’ipotesi cioè che oggi sia possibile un’alleanza tra ecumenismo religioso e femminismo, e che su questo debbano essere aperti tanti ‘cantieri’ di elaborazione e di prassi innovativa.
Resta, tuttavia, il dato clamoroso, se vogliamo, della mancanza di risonanza data all’Appello. A parte la Federazione delle Donne delle Chiese Evangeliche, si può dire che in Italia nella Chiesa cattolica il testo sia pressoché sconosciuto e che neppure il mondo ecumenico abbia mobilitato le sue energie, se si esclude la fondazione per le Scienze religiose Giovanni XXIII e alcuni gruppi del SAE, Segretariato per le Attività Ecumeniche.
Se a tutto ciò si aggiunge che la cultura secolarizzata delle nostre società - come Sgrena - dà per scontato che le chiese, anzi le stesse religioni, siano strutturalmente nemiche delle donne, si può facilmente capire come questa riflessione cruciale rischi di diventare un’occasione persa, l’ennesima in questa battaglia di civiltà.
La Giornata.
Papa Francesco: la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità
L’intervento del Papa in occasione della celebrazione virtuale per la prima Giornata Internazionale della Fratellanza Umana: non c’è tempo per l’indifferenza, "o siamo fratelli o ci distruggiamo"
di Mimmo Muolo (Avvenire, giovedì 4 febbraio 2021)
C’è un giardino ad Abu Dhabi dove lo scorso anno i giovani hanno appeso alle fronde degli alberi i loro pensieri di pace, scritti su centinaia di foglietti. Oggi, idealmente, anche il Papa e il grande imam di Al-Azhar, Ahmad Al-Tayyeb, hanno aggiunto i loro.
Per ribadire di fronte al mondo - come ha sottolineato Francesco - che «la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità». Che si è «o fratelli o nemici». Altrimenti «crolla tutto e ci distruggiamo a vicenda». E noi, ha aggiunto il Pontefice, «siamo fratelli, nati da uno stesso Padre. Con culture, tradizioni diverse, ma tutti fratelli. E nel rispetto delle nostre culture e tradizioni diverse, delle nostre cittadinanze diverse, bisogna costruire questa fratellanza». Messaggio di pace che oltre tutto giunge mentre si prepara il viaggio in Iraq a maggioranza islamica.
Per il secondo anniversario dell’incontro di Abu Dhabi, dove il 4 febbraio 2019 insieme firmarono il Documento sulla fratellanza umana, il Papa e l’imam si sono di nuovo “riuniti”, questa volta sul web, per la prima Giornata internazionale sulla fratellanza umana, istituita il 21 dicembre 2020 dall’Onu, che l’ha fatta coincidere proprio con il giorno in cui avvenne la storica firma.
È stata l’occasione non solo per ascoltare Francesco e Ahmad Al-Tayyeb chiamarsi nuovamente e reciprocamente «fratelli», ma anche per presentare i vincitori (presenti in collegamento) del primo Premio Zayed, ispirato anch’esso al documento, che quest’anno va al segretario generale dell’Onu, António Guterres, e a Latifa Ibn Ziaten, una mamma di cinque figli, che dopo averne perso uno, vittima del terrorismo, ha fondato un’associazione per i giovani e la pace, che porta il suo nome: Imad. Allo specialissimo “webinar” era presente anche il giudice Mohamed Mahmoud Abdel Salam, segretario generale dell’Alto Comitato per la fratellanza umana, cioè l’organismo che tramite una giuria internazionale ha scelto i premiati.
Le prime parole di papa Francesco sono state per l’imam, «fratello mio, amico mio, mio compagno di sfide e di rischi - ha rimarcato - nella lotta per la fratellanza». «La sua testimonianza - ha quindi proseguito il Pontefice - mi ha aiutato molto perché è stata una testimonianza coraggiosa. So che non era un compito facile. Ma con lei abbiamo potuto farlo insieme, e aiutarci reciprocamente. La cosa più bella è che quel primo desiderio di fratellanza si è consolidato in vera fratellanza. Grazie, fratello, grazie». Successivamente papa Bergoglio ha ringraziato lo sceicco Mohammed bin Zayed «per tutti gli sforzi che ha compiuto perché si potesse procedere in questo cammino. Ha creduto nel progetto. Ci ha creduto», ha detto. E un grazie il Papa lo ha detto anche al giudice Abdel Salam, «“l’enfant terrible” di tutto questo progetto, amico, lavoratore, pieno d’idee, che ci ha aiutato ad andare avanti». Espressioni di gratitudine e di affetto anche Guterres e Latifa.
Visibilmente contento, Francesco ha ribadito: «Grazie a tutti per aver scommesso sulla fratellanza, perché oggi la fratellanza è la nuova frontiera dell’umanità. O siamo fratelli o ci distruggiamo a vicenda». E per questo ha messo in guardia dall’indifferenza: «Non possiamo lavarcene le mani, con la distanza, con la non-curanza, col disinteresse. O siamo fratelli o crolla tutto. È la frontiera. La frontiera sulla quale dobbiamo costruire; è la sfida del nostro secolo, è la sfida dei nostri tempi». Anche la «non-curanza», infatti, è per il Papa «una forma molto sottile d’inimicizia. Non c’è bisogno di una guerra per fare dei nemici. Basta la non-curanza. Basta con questa tecnica - si è trasformata in una tecnica -, basta con questo atteggiamento di guardare dall’altra parte, non curandosi dell’altro, come se non esistesse».
Bergoglio ha quindi spiegato che cosa intende per fratellanza. «Vuol dire mano tesa; fratellanza vuol dire rispetto. Fratellanza vuol dire ascoltare con il cuore aperto. Fratellanza vuol dire fermezza nelle proprie convinzioni. Perché non c’è vera fratellanza se si negoziano le proprie convinzioni». E perciò «un mondo senza fratelli è un mondo di nemici».
Anche da parte di Al-Tayyeb sono giunte parole di grande rispetto verso il Papa, «mio fratello, amico sulla via della fraternità e della pace». E la promessa di continuare a lavorare per il resto della sua vita con Francesco e con ogni sostenitore della pace «per rendere i principi di fratellanza umana una realtà in tutto il mondo». Da qui il suo auspicio concreto che il 4 febbraio sia «ogni anno un campanello d’allarme per il mondo e per i suoi leader, che li spinga a consolidare» questi principi.
Guterres, dal canto suo ha ringraziato per il premio, definendolo «un riconoscimento per il lavoro dell’Onu». -E Latifa ha ricordato: «Ho perso un figlio, ma oggi riesco a raggiungere tanti bambini che ho salvato anche nei centri di detenzione, perché non cadessero nell’odio».
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE, MARIA, E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE... *
Lo sposalizio di Maria e Giuseppe
Un amore semplice
di Antonio Tarallo *
Si erge con magnifico splendore la pala del Raffaello, insigne maestro del Rinascimento: «Sposalizio della Vergine», olio su tavola firmato Raphael Vrbinas, datato mdiiii . Colpisce la maestria dei colori. Colpisce l’equilibrio perfetto delle forme. La scena del matrimonio di Maria e Giuseppe è posta in primo piano. Dietro di loro, al centro, un sacerdote. Tiene le mani di entrambi, custode delle nozze. Alla sinistra di Maria, le donne. A destra di Giuseppe, un gruppo di uomini. Nell’iconografia tradizionale, usualmente, proprio uno di questi uomini è colto nell’atto di spezzare un bastone. È un ramo secco destinato a non fiorire, a non portare frutto. Solo quello di Giuseppe, invece, fiorisce. Ma da dove proviene questa tradizione?
Secondo i vangeli apocrifi, Maria era cresciuta nel Tempio di Gerusalemme - conservando, quindi, la castità - e, quando giunta in età di matrimonio (secondo la tradizione ebraica) la troviamo promessa sposa di Giuseppe. Il Protovangelo di Giacomo ( ii secolo) ci fornisce alcune informazioni a riguardo. Giuseppe è discendente dalla famiglia di David e originario di Betlemme. Prima del matrimonio con Maria, si sposò con una donna con la quale ebbe sei figli. Rimase però, poi, vedovo. Ed è in questo contesto che si introduce la famosa tradizione del bastone fiorito di Giuseppe. Come? Andando ad approfondire il tema - grazie al lavoro che sta compiendo, da tempo, la Pontificia Accademia mariana internationale sul recupero di una vera ed autentica “storia di Maria”, su un sempre maggiore approfondimento della sua figura, scrostando le sovrastrutture che il tempo ha costruito sopra la Vergine - riusciamo a comprendere meglio questo “arcano” che si dipana tra tradizione e iconografia. Basterebbe pensare a tutte le immagini che raffigurano Giuseppe che tiene in mano un bastone fiorito. È, allora, assai interessante andare a scovare le parole che il vangelo apocrifo riserva a questo episodio: «Indossato il manto dai dodici sonagli, il sommo sacerdote entrò nel santo dei santi e pregò a riguardo di Maria. Ed ecco che gli apparve un angelo del Signore, dicendogli: “Zaccaria, Zaccaria! Esci e raduna tutti i vedovi del popolo. Ognuno porti un bastone: sarà la moglie di colui che il Signore designerà per mezzo di un segno”. Uscirono i banditori per tutta la regione della Giudea, echeggiò la tromba del Signore e tutti corsero. Gettata l’ascia, Giuseppe uscì per raggiungerli. Riunitisi, andarono dal sommo sacerdote, portando i bastoni. Presi i bastoni di tutti, entrò nel tempio a pregare. Finita la preghiera, prese i bastoni, uscì e li restituì loro; ma in essi non v’era alcun segno. Giuseppe prese l’ultimo bastone: ed ecco che una colomba uscì dal suo bastone e volò sul capo di Giuseppe. Il sacerdote disse allora a Giuseppe: “Tu sei stato eletto a ricevere in custodia la vergine del Signore”». Fin qui, ciò che una errata tradizione ci dice. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza su questo evento che ha segnato il piano di salvezza di Dio per l’umanità intera.
Il mese di Adar era il mese dei matrimoni. Un proverbio diceva: «Quando arriva Adar, Israele si riempie di gioia!». Troviamo una Maria quindicenne, allora. È una fanciulla che si avvicina all’età in cui le ragazze d’Israele erano solite contrarre matrimonio. Molto probabile che i genitori fossero già morti. Maria era, allora, nella casa di qualche parente della sua famiglia. Il capo di quella famiglia, come rappresentante del padre di Myriam, deve occuparsi del suo futuro. Viene concordato il matrimonio di Maria con Giuseppe. Sono poche le notizie che i Vangeli ci offrono sul “promesso sposo” di Maria. Del loro incontro, nulla sappiamo. È molto probabile che si conoscessero già prima del matrimonio. Il villaggio è piccolo: Nazaret, questo piccolo paese della Galilea.
Giuseppe era della stirpe reale di Davide e, in virtù del suo matrimonio con Maria, conferirà al figlio della Vergine - Figlio di Dio - il titolo legale di figlio di Davide. È l’adempimento delle profezie. Maria sa soltanto che il Signore l’ha voluta sposa di Giuseppe, un “uomo giusto”. Come immaginare, allora, il loro matrimonio? La tradizione giudaica antica ci viene in aiuto. Sappiamo bene che tutta la comunità del villaggio partecipava a questa gioia. Gran sfarzo di abiti. Frasi dell’Antico Testamento che riecheggiavano nella cerimonia: il Talmud, il libro principe di tutto. Gli anziani della città coprivano il loro capo con veli bianchi in segno di superiorità: sono gli anziani, gli uomini più rispettati della comunità. I bambini, in quel giorno così particolare, ricevevano dolci di miele e noci. E lo sposo faceva un regalo alla sposa, un regalo significativo.
«Il ragazzo e Maria si capivano senza parole, non c’era mai tra i due il minimo urto: sembrava che entrassero l’uno nell’altra, che costituissero un’unica persona, tanto era stretta la loro unione», così lo scrittore Pasquale Festa Campanile ci presenta i due coniugi nel suo romanzo Per amore, solo per amore (1983). E a noi, piace trovare in quella parola, «amore», l’infinito Amore di Dio per l’umanità, espresso proprio in un matrimonio, in una unione sponsale tra un giovane e una giovane. Così, semplicemente. Perché Dio è semplice nel suo Amore.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 23 gennaio 2021
* Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Il Trittico di Mérode è un dipinto di Robert Campin, olio su tavola (129x64,50 cm) conservato nel Metropolitan Museum di New York, nella sezione The Cloisters, e databile al 1427. - Il trittico, formato tipico della produzione di Campin, poteva essere chiuso, ed era probabilmente destinato alla devozione privata. La scena centrale mostra l’Annunciazione, mentre gli scomparti laterali mostrano i due committenti inginocchiati e San Giuseppe al lavoro
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FLS
I grandi temi che la Chiesa ha pensato di non vedere
Si parla poco della condizione di declino e di crisi gravissima che il Cristianesimo sembra conoscere attualmente
di Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 30 dicembre 2020)
È opinione diffusa che l’attuale pontificato si caratterizzerebbe per un indirizzo audacemente innovativo, si dice addirittura rivoluzionario. A causa vuoi di una pastorale tutta rivolta alle grandi questioni mondiali dell’ecologia e della giustizia economica tra le nazioni, vuoi di una straordinaria e quasi indiscriminata apertura alle diversità culturali, al dialogo tra le fedi, alla «carità». È però singolare che a questa proiezione del pontificato verso il mondo, e all’attivismo indefesso con cui essa viene alimentata, corrispondano tuttavia un silenzio e una mancanza pressoché assoluta di riflessioni e di iniziative sulla condizione generale che il mondo stesso riserva oggi alla fede cristiana e alla Chiesa stessa.
Una condizione di crisi gravissima. Nell’intero emisfero settentrionale del pianeta il Cristianesimo sembra conoscere, infatti, un tale declino da far pensare che esso stia addirittura sul punto di spegnersi. Lo mostra al semplice sguardo la quantità di edifici religiosi che in tutti Paesi europei hanno chiuso i battenti. Specialmente le chiese, trasformate in gran numero in supermercati, sale bingo o centri commerciali. Ma lo indicano in modo ancor più pregnante due fatti decisivi. Innanzi tutto la sparizione di ogni residuo di quella che un tempo era la Cristianità intesa come fatto pubblico, cioè come connessione tra istituzioni religiose e istituzioni politiche che per secoli ha caratterizzato tutti i regimi europei, ancora in sostanza sul modello dell’Impero romano. In secondo luogo, il fatto che ormai non rimane quasi più traccia di quel «compromesso cristiano-borghese» instauratosi dopo la Rivoluzione francese che fino a qualche decennio fa era tipico di tutte le classi dirigenti euro-occidentali. Un compromesso in forza del quale, pur laicizzandosi e modernizzandosi, esse erano però rimaste legate in qualche modo all’antica fede. Da tempo, invece, nei loro modelli di vita, nell’educazione dei figli, nell’autocoscienza di sé, nei loro valori pubblici, le élite delle società sviluppate appaiono virtualmente scristianizzate. E inevitabilmente il resto della società segue il loro esempio.
Ora, di fronte a questa gigantesca frattura storica - che oggi si manifesta in tutta la sua straordinaria ampiezza ma che nell’ultimo mezzo secolo non ha mancato di sollecitare le alte e tormentate riflessioni del magistero, da papa Montini a papa Ratzinger - appare davvero singolare il silenzio non solo dell’attuale Pontefice ma dell’insieme della gerarchia. L’attenzione e l’iniziativa dell’uno e dell’altra non sembrano attratte neppure da altre due questioni di enorme portata ormai arrivate drammaticamente al pettine. Tali, a me pare, da obbligare la Chiesa a mettere in discussione di fatto la propria intera vicenda identitaria, a riformularne gli esiti in misura radicale.
La prima di tali questioni è quella della democrazia. È vero naturalmente che la Chiesa non può essere una democrazia perché Dio non può essere messo ai voti. La democrazia però non è solo questione di voti. È anche - anzi soprattutto - una questione di diritti. Innanzi tutto di quei diritti della persona alla cui origine c’è il Cristianesimo e sui quali da decenni non a caso insiste in ogni occasione il magistero della Chiesa stessa. Ma allora la domanda ovvia che si pone è la seguente: come può essere compatibile con la tutela di tali diritti della persona il tipo di potere che esercita il Papa sul suo Stato e sull’istituzione ecclesiastica - un potere assoluto e incontrollato, arbitrario nel più vero senso della parola? Com’è compatibile ad esempio il diritto di ogni persona a conoscere le accuse che gli vengono mosse, a conoscerne i motivi, ad avere un giusto processo da parte di giudici indipendenti, con la sorte riservata al cardinale Becciu, il quale, spogliato dal Papa di alcune importanti prerogative legate alla sua carica senza nulla sapere dei motivi, in teoria aspetta giustizia - si noti il paradosso - da giudici nominati e revocabili ad nutum dal Papa stesso? Come si può chiedere al mondo di essere giusto, mi chiedo, se in casa propria le regole della giustizia sono queste? E d’altra parte, che in quella casa ci sia un problema vero di democrazia non è forse testimoniato anche dal fatto che ancora oggi in seguito a un episodio come quello appena detto (ma anche a mille altri) nessuno osi dire pubblicamente nulla? Sollevare qualche dubbio? Chiedere, Dio non voglia, qualche spiegazione? O l’obbligo democratico alla trasparenza tante volte invocato vale solo per gli altri?
Né si tratta solo di questo. Finora, infatti, a far da contrappeso alla natura autocratica del potere papale è stato il carattere elettivo della carica. Incontrollatamente elettivo, bisogna aggiungere: grazie al quale, quindi, a un Papa di un certo orientamento era possibilissimo (come infatti è accaduto quasi sempre) che succedesse un Papa di un orientamento affatto diverso. Ora invece, con la nomina da parte dell’attuale Pontefice di un sempre maggior numero di cardinali in tutto e per tutto a lui omogenei, minaccia di nascere di fatto al vertice dell’istituzione un vero e proprio «partito del Papa», detentore della maggioranza nel conclave. Grazie al quale al Papa regnante stesso diviene perciò possibile scegliere il proprio successore o perlomeno influenzarne in modo decisivo l’elezione. Determinando così il passaggio da un’autocrazia dalla titolarità incontrollata a una autocrazia dalla titolarità designata.
Infine, al problema della democrazia si ricollega direttamente pure la seconda delle grandi questioni arrivate al pettine che oggi interrogano la Chiesa e la sua storia: la questione del ruolo delle donne all’interno dell’istituzione ecclesiastica. O per dire meglio la questione della loro assoluta, continua, esclusione da qualsiasi ruolo significativo. Non mi riferisco al sacerdozio femminile. Mi riferisco al potere, alle cariche, che so, di presidente dello Ior, di governatore dello Stato, di nunzio o di segretario di Stato: che a mia conoscenza nessun passo dei Vangeli prescrive debbano essere affidate a uomini anziché a donne. Ma che la Chiesa invece continua imperterrita a credere un esclusivo monopolio maschile. Mi chiedo come possa immaginare di avere un qualsiasi futuro un’istituzione che nel mondo di oggi si muove in questo modo. Mostrando cioè una mancanza di senso storico che ricorda tristemente la vana battaglia che la stessa Chiesa cattolica ingaggiò per oltre un secolo contro i principi liberali. Oltre tutto - ancora una volta, come allora - smentendo in tal modo l’ispirazione più luminosa della propria storia e la testimonianza più straordinaria del proprio fondatore.
Ma se le cose stanno così, mi risulta allora abbastanza incomprensibile come possa essere definito innovativo, progressista o addirittura rivoluzionario, papa Francesco. Il quale esercita il suo potere al modo che ho detto e circa tutte le questioni e i problemi fin qui enumerati è convinto evidentemente che essi non esistano, o comunque che non meritino la sua attenzione. Per quel che conta la mia opinione, ho il sospetto che la sua via non porti lontano.
La grazia della crisi della Chiesa
di Marcello Neri (Il Mulino, 23 dicembre 2020)
Il discorso di papa Francesco alla Curia romana per la presentazione degli auguri di Natale ha avuto quest’anno un clamore relativamente più basso sulla stampa e sui mezzi di informazione rispetto a quelli di anni precedenti. Niente di appetibile per confezionare notizie ad effetto - come nel 2014 quando Francesco elencò una per una le malattie curiali; o nel 2018 dove affrontò di petto la questione dell’abuso del potere; oppure l’anno scorso sulle linee portanti di una riforma della Curia stessa. Lo scarso potenziale polemico del discorso non ne sminuisce però l’importanza per la vita della Chiesa cattolica e la sua solidale presenza in un mondo che nel giro di pochi mesi sembra aver perso la sua tracotante sicurezza, per ritrovarsi vulnerabile e ferito.
Si procede a tentoni e in ordine sparso davanti alla crisi del nostro tempo, forse proprio perché ci ostiniamo a non voler cogliere nella crisi “una grande occasione per convertirci e recuperare autenticità”. Pensare di uscire da una crisi tornando alle condizioni quo ante vuol dire abdicare a ogni possibilità di futuro, indice questo di una condizione umana che non sa più declinare un lessico, anche solo minimale, della speranza.
Invece, la crisi è “una tappa obbligata della storia personale e della storia sociale (...) che causa sempre un senso di trepidazione, angoscia, squilibrio e incertezza nelle scelte da fare (...). La crisi è quel setacciamento che pulisce il chicco di grano dopo la mietitura”. Setacciamento che mette al vaglio la stessa Chiesa, che non è esente da questa doverosa fedeltà alla storia in cui vive.
Proprio per la Chiesa, davanti alla Curia, Francesco rilancia il senso evangelico della crisi. E lo fa senza tacere una disfunzionalità oramai conclamata dell’apparato, giunta al punto tale da mortificare impietosamente anche i tanti slanci di sincera generosità e di buon servizio professionale che pur sempre vi sono al suo interno. Perché oramai l’apparato ecclesiastico sembra essersi asservito a quella che Francesco chiama la logica del conflitto: “vorrei esortarvi a non confondere la crisi con il conflitto: sono due cose diverse. La crisi generalmente ha un esito positivo, mentre il conflitto crea sempre un contrasto, una competizione, un antagonismo apparentemente senza soluzione fra soggetti divisi in amici da amare e nemici da combattere, con la conseguente vittoria di una delle due parti (...). La Chiesa, letta con le categorie del conflitto - destra e sinistra, progressisti e tradizionalisti - frammenta, polarizza, perverte, tradisce la sua vera natura: essa è un corpo perennemente in crisi proprio perché è vivo (...)”.
L’apparato che gioca col conflitto, schierandosi sul fronte delle tante scomposizioni del nostro tempo, impedisce alla Chiesa di fare il suo lavoro - che è quello di immettere un orizzonte di speranza nel tempo della crisi e dei suoi drammi. Tra tutte le istituzioni, proprio la Chiesa dovrebbe avere una famigliarità connaturale con la crisi, perché da sempre essa è “messa in crisi dal Vangelo” che la origina. La logica del conflitto impedisce oggi alla Chiesa di attingere alla sapienza di questo attraversamento millenario della crisi, mettendo invece in campo tutto un armamentario difensivo mediante il quale viene stoltamente ostacolata “l’opera della Grazia”.
Dopo otto anni di pontificato, giunto oramai al suo 84º compleanno, Francesco continua imperterrito a cercare di allineare la Chiesa cattolica sull’asse portante del Vangelo, scontentando a destra e manca - che è poi il prezzo che la liberalità evangelica paga da sempre nel cristianesimo.
Smarcandosi così da quella conflittualità che scuote il corpo della comunità ecclesiale fin dai suoi primi giorni: ogni volta che si dice “io sono di Paolo; io invece sono di Apollo; e io di Cefa; e io di Cristo” (1Cor 1,12) si è sicuramente fuori dal Vangelo di Gesù, e la Chiesa si trasforma in un apparato insopportabilmente scandaloso al cospetto di Dio e degli uomini.
La statuina.
La devozione e l’affidamento di papa Francesco a san Giuseppe «dormiente»
Una devozione che risale alla giovinezza di Bergoglio e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale
di Mimmo Muolo *
Papa Francesco e san Giuseppe. Una devozione che risale alla giovinezza del Pontefice e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale. Come pure all’inizio del suo ministero petrino.
È infatti nella chiesa di San José di Buenos Aires che nel 1953 il diciassettenne Jorge Mario Bergoglio scopre la vocazione al sacerdozio. Ed è il 19 marzo 2013 - sei giorni dopo l’elezione a Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale - che egli inaugura il proprio Pontificato con un’omelia incentrata sul ruolo di custode del padre putativo di Gesù. Non stupisce dunque la decisione di dedicare al santo la Lettera apostolica di ieri e di proclamare l’anno "giuseppino" (con relative indulgenze plenarie). Si può anzi dire che questi due gesti del Pontefice costituiscano gli ultimi anelli (per il momento) di una catena di affetto e devozione che lega Jorge Mario Bergoglio al casto sposo della Vergine.
Francesco ha del resto raccontato più volte come a san Giuseppe sia solito affidare intenzioni di preghiera e speciali intercessioni per il suo ministero. Nel suo studio personale a Casa Santa Marta, ci sono infatti due statue che raffigurano il santo. Una in particolare gli è molto cara e lo accompagna da sempre, da quando viveva nel Collegio Maximo di San Miguel di cui era rettore. Si tratta di un’immagine insolita, per noi italiani ed europei, ma molto diffusa tra i fedeli sudamericani: una statua che raffigura san Giuseppe dormiente.
Ora, sappiamo dalla Scrittura quanto il sonno sia stato determinante nella vicenda terrena del falegname custode della Sacra Famiglia. E anche nella Lettera apostolica di ieri papa Francesco si sofferma sui sogni in cui Giuseppe dà ascolto all’Angelo per prendere in sposa Maria, per fuggire in Egitto onde sottrarre Gesù Bambino alla persecuzione di Erode e infine per fare ritorno a Nazaret, una volta morto il malvagio re.
Per questo il Papa ha l’abitudine di infilare sotto la statua del santo addormentato biglietti che contengono problemi, richieste di grazia, preghiere dei fedeli. È come se invitasse san Giuseppe a "dormirci su", e magari a mettere una buona parola davanti a Dio, per risolvere situazioni difficili e aiutare i bisognosi, rinnovando così il suo ruolo di padre misericordioso e tutto proteso verso coloro che ama.
Lo confidò egli stesso il 16 gennaio 2015 a Manila nell’incontro con le famiglie: «Io amo molto san Giuseppe perché è un uomo forte e silenzioso. Sulla mia scrivania ho un’immagine di San Giuseppe mentre dorme e quando ho un problema o una difficoltà io scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la statua di San Giuseppe affinché lui possa sognarlo. (...) Ma come san Giuseppe, una volta ascoltata la voce di Dio, dobbiamo riscuoterci dal nostro sonno; dobbiamo alzarci e agire».
In definitiva, per papa Francesco lo sposo della Madonna è un santo davvero speciale, che protegge e aiuta perfino quando dorme.
Più volte nei suoi discorsi il Pontefice ha fatto riferimento alla figura del santo. In una delle omelie di Santa Marta, il 18 dicembre 2018, Francesco disse: «Giuseppe è l’uomo che sa accompagnare in silenzio» ed è «l’uomo dei sogni». Il 1° maggio scorso ha accolto a Santa Marta la statua di san Giuseppe lavoratore solitamente posizionata all’ingresso della sede nazionale delle Acli a Roma. Ma sicuramente, prima di ieri, l’espressione più compiuta della devozione giuseppina del Papa si trova nell’omelia di inizio pontificato.
«Giuseppe è "custode" - disse -, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge». L’eco di queste parole risuona ora nella Lettera apostolica "Patris corde".
Leggi anche
* Fonte: Avvenire, mercoledì 9 dicembre 2020
Sul terma, nel sito, si cfr.:
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
FLS
Santo del giorno
Solennità di Cristo Re
Ricorrenza: 22 novembre *
Il Papa Pio XI, istituendo nell’anno Giubilare 1925 la nuova solennità di Cristo Re, pubblicava la sapientissima enciclica «Quas primas». Ne riportiamo i punti principali.
« Avendo concorso quest’Anno Santo non in uno ma in più modi, ad illustrare il regno di Cristo, ci sembra che faremo cosa quanto mai consentanea al Nostro apostolico ufficio, se, assecondando le preghiere di moltissimi Cardinali, Vescovi e fedeli fatte a Noi, sia da soli, sia collettivamente, chiuderemo questo stesso Anno coll’introdurre nella sacra Liturgia una festa speciale di Gesù Cristo Re.
Da gran tempo si è usato comunemente di chiamare Cristo con l’appellativo di Re, per il sommo grado di eccellenza che ha in modo sovraeminenie fra tutte le cose create. In tal modo infatti, si dice che Egli regna nelle menti degli uomini, non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è la Verità, ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da lui la verità. Similmente Egli regna nelle volontà degli uomini sia perché in Lui alla santità della volontà divina risponde la perfetta integrità e sottomissione della volontà umana, sia perchè con le sue ispirazioni influisce sulla libera volontà nostra, in modo da infiammarci verso le più nobili cose. Infine Cristo è riconosciuto Re dei cuori, per quella sua carità che sorpassa ogni comprensione umana e per le attrattive della sua mansuetudine e benignità ».
La regalità di Gesù Cristo « consta di una triplice potestà: la prima è la potestà legislativa. È dogma di fede che Gesù Cristo è stato dato agli uomini quale Redentore in cui essi debbono riporre la loro fiducia e nel tempo stesso come Legislatore, a cui debbono ubbidire.
In secondo luogo egli ebbe dal padre la potestà di giudicare il cielo e la terra, non solo come Dio, ma ancora come uomo.
Infine diciamo che Gesù Cristo ha pure il diritto di premiare o punire gli uomini anche durante la loro vita ».
Dove si trova il regno di N. S. Gesù Cristo? Di quali caratteri particolari è dotato? Come si acquista? Il regno di N. S. Gesù Cristo «ha principalmente carattere soprannaturale e attinente alle cose spirituali. Infatti quando i Giudei e gli stessi Apostoli credevano per errore che il Messia avrebbe reso la libertà al popolo ed avrebbe ripristinato il regno di Israele, Egli cercò di togliere loro dal capo queste vane attese, e questa speranza ».
Così pure quando la folla, presa da ammirazione per gli strepitosi prodigi da lui operati, voleva acclamarlo re, egli miracolosamente si sottrasse ai loro sguardi e si nascose: ed a Pilato che l’aveva interrogato sul suo regno rispose: «Il mio regno non è di questo mondo».
L’ingresso in questo regno soprannaturale, si attua mediante la penitenza e la fede, e richiede nei sudditi il distacco dalle ricchezze e dalle cose terrene, la mitezza dei costumi, la fame e la sete di giustizia ed inoltre il rinnegamento di se stessi per portare la croce dietro al Signore. Ecco il programma di ogni cristiano che vuole essere vero suddito di Gesù Cristo Re!
* Santo del giorno, 22 novembre (ripresa parziale e senza immagine).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano
"La nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano del 26 novembre 2000, in sostituzione della precedente - la prima - emanata il 7 giugno 1929 dal Papa Pio XI di v.m., è entrata in vigore il 22 febbraio 2001, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo.
Come ben illustrato nell’introduzione della nuova Legge, il Sommo Pontefice ha "preso atto della necessità di dare forma sistematica ed organica ai mutamenti introdotti in fasi successive nell’ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano". Allo scopo, pertanto, di "renderlo sempre meglio rispondente alle finalità istituzionali dello stesso, che esiste a conveniente garanzia della libertà della Sede Apostolica e come mezzo per assicurare l’indipendenza reale e visibile del Romano Pontefice nell’esercizio della Sua missione nel mondo", di Suo Motu Proprio e certa scienza, con la pienezza della Sua sovrana autorità, ha promulgato la seguente Legge:
Art. 1
1. Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. [...] (Acta Apostolicae Sedis, Supplemento, 01.02.2001)
FLS
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
*
Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
L’anima e la cetra /29.
Con lo stesso nome di Dio
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 17 ottobre 2020)
In alcune regioni italiane, e tra queste la mia, in certi dialoghi intimi le madri e i padri chiamano il figlio e la figlia con il loro stesso nome. Gli dicono: "Dai, mamma, fai il buono", "Ma quanto sei brava, babbo". Lo dicono ai bambini, ma a volte continuano a chiamarli così anche da adulti. Non è scritto in nessun libro di grammatica, non lo si impara a scuola. Lo ripetiamo perché lo abbiamo sentito dai nostri genitori, in giorni meravigliosi. Sono parole diverse assimilate per osmosi, e poi trasmesse da una generazione a un’altra, parte di quella trasmissione dell’essenziale della vita. Sono tra le parole più belle nei dialoghi del cuore, in quei tu-a-tu delicati e segreti, che contengono tutta la tipica e unica tenerezza che scorre tra genitori e figli, che nutre gli uni e gli altri, sempre, ma soprattutto nei momenti delle grandi gioie e dei grandi dolori.
La Bibbia ci dice che il primo che ci ha chiamato con il suo stesso nome è stato ed è Dio, quando ci ha creato "a sua immagine e somiglianza". Dicendoci disse se stesso, e ripete il nostro nome in ogni attimo. Perché se da una parte il Dio biblico è la divinità più trascendente e diversa di tutte, dall’altra non c’è nulla sulla Terra che gli assomigli più di un essere umano, non c’è cuore più simile al suo del nostro, non c’è nome che più del nostro abbia lo stesso suono del suo. La Bibbia ebraica ci ha tolto l’immagine di Dio, ma ci ha donato una meravigliosa immagine di uomo e di donna: nascondendoci il volto di Dio ha esaltato il nostro volto. E allora ogni volta che si ama e si rispetta il nome di un uomo o di una donna si sta amando e rispettando anche il nome di Dio; e, per la legge di reciprocità, ogni volta che un uomo prega e loda il nome di Dio sta pregando e lodando l’umanità intera, ogni uomo e ogni donna.
Nasce qui lo sguardo positivo che la Bibbia, con tenacia e resilienza, ha sugli uomini e sulle donne. Ne vede i limiti, i peccati, gli omicidi e i fratricidi, ma prima e soprattutto ne vede l’immagine di Dio riflessa, non è capace di uscire dall’Eden. Vede i molti gesti degli uomini, ma prima continua a vederlo nel suo dialogo con Elohim sul finire del giorno. Come le madri e i padri, che anche quando la vita porta i loro figli a fare cose brutte e pessime, per salvarsi e salvarli continuano a sognarli bambini puri e bellissimi, a chiamarli fino alla fine "babbo" e "mamma", anche dentro le carceri. Tra la fede, la speranza e l’agape c’è lo stesso tipo di rapporto che lega le tre Persone divine: in ognuna ci sono le altre due, ciascuna è rivolta contemporaneamente verso le altre, è impossibile separarle senza distruggerle tutte. E così nei Salmi, pur popolati da sentimenti di tristezza, di delusione e di dolore, più forte e più grande è lo sguardo di speranza-fede-amore che domina l’intero Salterio, che lo rende forse il libro più bello di tutti, perché il libro più capace di parlarci di paradiso dagli inferi, di speranza dentro la disperazione, di bellezza in mezzo alla bruttezza.
La forza dei Salmi sta nella loro verità. Un inferno vero è preferibile a un paradiso finto, perché finché chiamiamo l’inferno col suo vero nome possiamo sempre desiderare un paradiso, che invece non desideriamo più se pensiamo di averlo già raggiunto: «Alleluia. È bello cantare inni al nostro Dio, è dolce innalzare la lode. Il Signore ricostruisce Gerusalemme, raduna i dispersi d’Israele; risana i cuori affranti e fascia le loro ferite... Intonate al Signore un canto di grazie, sulla cetra cantate inni al nostro Dio» (Salmo 147,1-7). È bello cantare inni al Signore. È bello e buono lodare YHWH, è bello e buono per Dio ma è bello e buono anche per noi. Il salmo inizia con una lode della lode. È il momento di auto-coscienza dell’orante, che arriva (se arriva) quando ci rendiamo conto che il primo premio della lode è prendere coscienza della sua bellezza e del suo dono intrinseco. Quando scopriamo che noi preghiamo per lodare Dio, ma mentre cantiamo sentiamo che è Dio che sta lodando e cantando noi. Noi diciamo il suo nome e un giorno sentiamo che in realtà è Dio che sta dicendo il nostro, e che nel nostro nome dice il nome di tutti, il nome di ogni creatura, il nome delle stelle e dell’universo intero. Ed è meraviglia. E mentre cerchiamo le parole e le note più belle e alte per lodare Dio stiamo anche imparando le note e le parole più belle per lodarci gli uni gli altri. Forse non c’è stata una parola splendida pensata per dar lode a Dio che qualche poeta non abbia usata anche per una persona amata, e forse non c’è poesia d’amore che qualcuno, in un altro giorno, magari senza saperlo, ha usato per cantare Dio. Anche tutto questo è immagine e reciprocità. Benedicendo gli umani abbiamo imparato a benedire Dio, e benedicendo Dio stiamo già benedicendo uomini e donne, anche se non lo sappiamo.
L’essere immagine del Creatore rende immediatamente la nostra lode a Dio una lode cosmica: «Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome... Egli copre il cielo di nubi, prepara la pioggia per la terra, fa germogliare l’erba sui monti, provvede il cibo al bestiame, ai piccoli del corvo che gridano» (147,4;8-9). Essere immagine di Elohim ci rende più grandi della sola immagine umana. Sentiamo fin da piccoli una profonda fraternità cosmica - solo i bambini sanno sentire veramente fratelli e sorelle i gatti e gli uccellini, i fiori e le foglie -, dovremmo riuscire a non perderla invecchiando e se la vita funziona questa grande fraternità cresce con noi, e si conclude con il canto per sorella morte.
La fraternità inter-umana non ci basta, è troppo piccola sebbene già immensa. Perché la fraternità e sororità umana siano autentico umanesimo, dobbiamo imparare a sentire sorelle anche le stelle, il sole, gli uccellini, la natura intera - ci sono pochi canti (se ce ne sono) più biblici del Cantico di Francesco. Molto bello e delicato è qui il riferimento ai «piccoli del corvo che gridano». In questo verso ci sono i corvi che nutrivano Elia nella sua fuga (1 Re 17,6), ma ci sono anche gli uccellini del nido guardati dalla Legge di Mosè, che comanda di non catturare la madre-uccello che cova le sue uova o custodisce i suoi piccoli, di lasciarla volare via, «perché tu sia felice e goda lunga vita» (Dt 22,7). Una Legge di YHWH che scruta anche dentro un nido di uccelli, e poi pone una equivalenza che a noi può apparire ardita e stupenda. La promessa riservata a chi lascia volar via la madre senza catturarla è la stessa promessa del Quarto comandamento, Onora tuo padre e tua madre: «Perché si prolunghino i tuoi giorni e tu sia felice» (Dt 5,16).
Nella Bibbia tutto è creazione: tutto è figlio. Dio guarda così il mondo, è così che ci guarda, e noi, sua immagine, impariamo a guardare il mondo nello stesso modo, anche se ancora tutta la creazione "geme ed è in travaglio", perché "attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio" (Rm 8,19-23). Tutta la creazione geme e attende di essere guardata finalmente così. Mai come in questi anni di crisi ambientale e di distruzione del pianeta siamo nelle condizioni di poter capire i Salmi e quel misterioso passaggio di Paolo ai Romani: la terra soffre e attende che gli uomini finalmente si rivelino per quello che sono, che si comportino con essa da figli, e immagine, di Dio creatore e padre.
Il Salmo 147 si distingue poi anche per il suo essere un canto civile. Non ci sono né sacerdoti né re, non è menzionato Davide né si allude al tempio. Sono i cittadini a elevare il loro canto, coloro che conoscono i tempi e i ritmi delle stagioni e del lavoro, il valore della pace e del pane quotidiano. Un salmo molto amato da sempre dai contadini: «Dio ha messo la pace sulle tue frontiere, e ti sazia con fior di farina... Invia la neve come lana e sparge come cenere la brina, i suoi ghiacci formano blocchi: chi potrà reggere tanto gelo? Invia un ordine: ecco il disgelo, soffia il suo alito e scorrono le acque» (139,14-18). Tutta la terra è avvolta da uno sguardo buono, tutto è retto da provvidenza.
Dopo averci donato fin qui parole bellissime su Dio e su di noi, il Salmo termina lodando direttamente la parola, e l’Alleanza e la Legge che ne sono il culmine (147,19-20). La parola è vista come un messaggio inviato per noi, una intelligenza che ci fa scoprire l’ordine e il senso della creazione: «Manda sulla terra il suo messaggio: la sua parola corre veloce» (147,15). La parola è anche logos, è ragionamento e ordine. Israele ha stimato la parola in una misura altissima e per noi oggi incomprensibile. Ne ha fatto esperienza straordinaria con i Patriarchi, con Mosè e i profeti - "... e c’era soltanto una voce". Dovendo rinunciare all’immagine di Dio ha maturato una immensa competenza sulla parola, ha dovuto imparare a disegnare Dio con le parole, ha scoperto le mille dimensioni nascoste dentro la parola biblica e nelle parole umane. Una grande povertà produsse una ricchezza infinita. Forse non avremo la straordinaria tradizione letteraria occidentale senza questa parola biblica privata delle immagini, che la costrinse a diventare immagine senza diventare idolatria.
Quando Giovanni scrisse il Prologo del suo Vangelo, uno dei brani più geniali della storia, aveva in mente molte cose, ma certamente pensava alle parole dei Salmi, a quel logos capace di benedire l’uomo mentre benediceva e lodava Dio. Nel dirci che quel logos si era fatto carne, che era diventato uomo come noi, ci ha detto molte cose e tutte stupende, e ci ha chiamato ancora con lo stesso nome di Dio. E continua a chiamarci così ogni giorno.
Arte e fede.
Gerusalemme: sui muri del Colosseo la mappa della “sposa contesa”
Il dialogo interreligioso tra i monoteismi e quello ecumenico, tra cristiani d’Occidente e cristiani d’Oriente, è nell’imprinting stesso di Gerusalemme e dovrebbe essere impegno costante di tutti
di Gianfranco Ravasi *
Ai mille legami storici, religiosi e culturali che collegano Roma e Gerusalemme si aggiunge la sorprendente mappa simbolica della città santa all’interno di uno dei segni maggiori della romanità classica, il Colosseo. In occasione del suo restauro sono stato invitato a proporre un profilo biblicoculturale di Gerusalemme proprio all’interno di quello spazio così emblematico com’è l’Anfiteatro Flavio.
Tutte e tre le religioni monoteistiche sono protese verso Sion che è simile a una sposa contesa, spiritualmente e materialmente. Basta solo gettare uno sguardo su una mappa dell’area antica della città. Si leggono le indicazioni topografiche di un quartiere ebraico, di uno cristiano, di un altro musulmano e di quello armeno. Se si avanza per quelle viuzze e si entra nei luoghi sacri delle varie religioni, si sente parlare in arabo ed ebraico, in greco e armeno, in siriano ed etiopico, in russo e inglese o in yiddish: si prega e si discute in almeno quindici lingue con sette alfabeti differenti! Ma tutti sono certi di avere un legame unico, insostituibile, inscindibile con quella città.
Infatti, le tre grandi fedi monoteistiche hanno in questa città ciascuna una sua pietra reale e simbolica su cui fondarsi. Così, gli Ebrei non possono non risalire a Davide e fondarsi sulla pietra sacra del tempio eretto da suo figlio Salomone (anche se le pietre del cosiddetto Muro del pianto sono di un millennio dopo, appartenendo al tempio eretto da Erode). È, infatti, questo il cuore della fede e della storia di Israele.
Un famoso detto rabbinico afferma che «il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio». Il poeta ebreo spagnolo Giuda Levita, che la leggenda farà morire nel 1140 calpestato dai cavalli appena giunto pellegrino a Sion, cantava: «Io amo le tue pietre che voglio baciare e saporite mi saranno le tue zolle più del miele!». Ma già il Salmista aveva esclamato: «Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion!» (Salmo 102,15). Gesù stesso era convinto che queste pietre possono gridare una storia di fede e di sangue (Luca 19,40). Elena, la madre di Costantino, era giunta qui nel 326 alla ricerca delle memorie di Gesù e in particolare della sua tomba.
La pietra ribaltata del sepolcro di Cristo, ora custodita nella possente basilica crociata omonima, è il cuore della cristianità, che da allora non si è staccata più da Gerusalemme, pur sfrangiandosi in decine di comunità diverse (per i cattolici pensiamo alla presenza francescana) e non esitando a ricorrere alle crociate. Quella pietra, custodita nella basilica del Santo Sepolcro, è il segno della risurrezione, il mistero centrale della fede cristiana.
Anche i musulmani hanno a Gerusalemme una loro pietra fondante, quella che è protetta dalla sfolgorante cupola dorata della moschea di Omar, memoria del sacrificio di Abramo (Genesi 22) ma soprattutto dell’ascensione al cielo del Profeta, Maometto, che è ricordato anche dall’altra moschea della Spianata, al’Aqsa, come si legge nel Corano: «Lode a Dio che trasportò di notte il suo Servo [Maometto] dalla moschea sacra [Mecca] alla moschea al-’Aqsa [l’altra, più lontana]» (17,1). È per questo che in arabo Gerusalemme è al-Quds, cioè “la (città) santa” per eccellenza.
Tre pietre, quindi, sono per le tre religioni - che pure in Abramo hanno una radice comune - segno di una presenza propria, non solo spirituale ma anche “fisica”. È per questo che Gerusalemme è oggetto di un amore non solo ideale e quelle pietre sono state striate nella loro storia secolare anche dal sangue. È per questo che è arduo trovare accordi politici o religiosi attorno a questo simbolo così "personale".
Eppure il testo sacro ebraico-cristiano, la Bibbia che cita 656 volte Gerusalemme, è un ininterrotto appello a ritrovare unità nella molteplicità in Sion. Come sogna il profeta Sofonia verso la fine del VII secolo a.C., «allora io darò ai popoli un labbro puro perché tutti invochino il nome del Signore e lo servano tutti spalla a spalla» (3,9).
Certo, prima di ogni altro popolo è Israele che convergeva verso la città santa non solo nelle cosiddette “feste di pellegrinaggio”, cioè Pasqua, Settimane (o “Pentecoste”) e Capanne, che postulavano un itinerario orante al tempio di Sion, ma anche nella testimonianza orante e poetica - adottata pure dalla liturgia e dalla fede cristiana - dei “cantici delle ascensioni”, cioè in quel fascicolo di 15 Salmi (dal 120 al 134) che nel Salterio recano questo titolo. Essi sembrano appartenere quasi a un libretto del pellegrino che “ascende” materialmente (Gerusalemme è a 800 metri di altezza) e spiritualmente verso la città di Dio. Basterebbe solo ascoltare alcune battute del Salmo 122: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore! E ora i nostri piedi sono fermi alle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme è costruita come città salda e compatta. Là salgono insieme le tribù del Signore, secondo la legge di Israele, per lodare il nome del Signore!».
Anzi, quell’itinerario verso le proprie sorgenti di fede e di vita si trasforma in un’esperienza non solo mistica ma anche esistenziale. Certo, prima di tutto c’è la gioia di un incontro col mistero di Dio perché lassù si sale «per lodare il nome del Signore», ossia per il culto: «L’anima mia languisce e brama gli atri del Signore, il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. Anche il passero trova la casa, la rondine il nido, dove porre i suoi piccoli, presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio!» (Salmo 84,3-4).
Ma a Gerusalemme avviene anche un’altra esperienza di indole più sociale. «Là, infatti, sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide», canta l’orante del Salmo (v. 5). Si aveva nella capitale l’istanza suprema del potere politico e giudiziario e idealmente il popolo trovava quella giustizia a cui tanto anelava e che altrove gli era negata. In questa linea è capitale la voce dei profeti che ininterrottamente combattono ogni sacralismo fine a se stesso. Il tempio stesso, se privo di fede e di giustizia, è «una spelonca di ladri» (Geremia 7,11; cfr. Matteo 21,13), il culto senza l’impegno dell’esistenza è magia, i riti senza vita sono una farsa. Implacabili sono le parole di Isaia: «Quando vi presentate a me - dice il Signore - chi vi chiede di venire a calpestare i pavimenti del tempio? Finitela di presentare offerte inutili! L’incenso mi fa nausea, come noviluni, sabati, assemblee sacre. Non riesco a sopportare delitto e solennità. Odio i vostri noviluni e le vostre feste: sono un peso per me e sono stanco di sopportarli. Quando alzate le mani, io allontano da voi gli occhi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non le ascolto. Le vostre mani, infatti, grondano sangue. Allora, lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista! Smettetela di fare il male, imparate e fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova!» (1,12-17).
Questa prospettiva è esaltata anche da Cristo che, pur amando e frequentando Sion, non esita a “smitizzarne” la funzione materiale sacrale per celebrarne il valore di santità, di simbolo di gloria, di pace e di vita. Infatti, di fronte al tempio di Gerusalemme Gesù non esita a dire: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere!». E Giovanni annota: «Egli parlava del tempio del suo corpo e, quando fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo» (2,19-22). Anzi, Gesù - stando al Vangelo di Marco - avrà come capo di imputazione iniziale durante il processo presso il tribunale giudaico del Sinedrio proprio questa testimonianza: «Noi lo abbiamo udito dire: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo» (14,58). È in questa luce che l’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, non solo sostituisce alla Gerusalemme terrena, materiale e spaziale, «la città santa, la nuova Gerusalemme che scende dal cielo, da Dio» (21,2) ma la descrive come ormai priva del tempio: «Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio» (21,22).
È proprio su questa traiettoria ideale che possiamo pensare alle divisioni di Gerusalemme sotto una nuova luce. Quei segni di sacralità, di separatezza e di separazione potrebbero diventare simboli di santità, di comunione, di incontro. È ciò che aveva configurato il profeta Isaia in una sua pagina indimenticabile (2,1-5). Gerusalemme si erge come un monte immerso nella luce su un pianeta avvolto nel sudario delle tenebre. In essa sfolgora la Parola divina. Ed ecco che da ogni angolo di quel mondo oscuro si muovono processioni di popoli che convergono verso quella città di luce. Giunti lassù, essi trasformano le armi che impugnano: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra» (2,4).
Finalmente Gerusalemme attuerà il suo nome di città di shalôm, della pace. Perché là tutti hanno un ideale diritto nativo di cittadinanza che li dovrebbe rendere fratelli e non avversari. È ciò che canta il Salmo 87 che descrive le nazioni mentre danzano e cantano rivolti a Sion: «Sono in te tutte le nostre sorgenti«. In questo canto “natale” di Gerusalemme come genitrice di tutte le nazioni per tre volte nell’originale ebraico risuona la locuzione jullad sham/bah, “è nato là / in essa”. Tutti i punti cardinali della terra, pur nella loro diversità, sentono di appartenere a un’unica matrice: c’è Rahab, cioè l’Egitto, la grande potenza occidentale, e c’è Babele, la grande potenza orientale babilonese; c’è Tiro, la potenza commerciale del nord, c’è la Filistea (o Palestina) che è l’area centrale, e l’Etiopia che rappresenta il profondo sud. Nell’anagrafe di Sion tutti sono registrati come figli: la citata locuzione jullad sham/bahera appunto la formula ufficiale giuridica con cui si dichiarava un individuo nativo di una determinata città e, come tale, dotato della pienezza dei diritti municipali.
*Avvenire, venerdì 16 ottobre 2020 (ripresa parziale, senza immagine).
Becciu è il malfattore e il Papa l’innocente tradito? La realtà è un po’ diversa
di Marco Marzano (da ilfattoquotidiano.it)*
Gigantesche e oscure speculazioni finanziarie spesso finite malissimo, violentissime rivalità interne tra gerarchi in tonaca disposti a tutto pur di far del male al proprio rivale, imprenditori e finanzieri di dubbia reputazione e in qualche caso in odor di mafia divenuti negli ultimi anni abituali frequentatori delle stanze vaticane e lì ricoperti di denaro. Se giudicata dai fatti che emergono dalle cronache di questi giorni e non dalle parole delle encicliche o dei documenti pontifici, la chiesa “povera e per i poveri” annunciata da Francesco appare poco di più di una felice immagine retorica, di una formula buona forse per ottenere il plauso di qualche “ateo devoto” in cerca di identità, ma certo inadatta a descrivere il modo in cui la Chiesa agisce concretamente nel mondo.
Insomma, la Chiesa di Roma predica bene e razzola malissimo e usa molti dei denari che i poveri, direttamente o indirettamente, le donano per arricchire prelati di corte, faccendieri vari e le famiglie di tutti costoro.
Quello che non convince nelle ricostruzioni giornalistiche di queste vicende è però l’individuazione delle catene di responsabilità. Sempre in casi come questo l’attenzione della pubblica opinione viene giustamente puntata in alto, in direzione del vertice dell’organizzazione, verso i capi, che non potevano non sapere. Qui invece è bastato che papa Francesco, guarda caso proprio pochi giorni prima della pubblicazione della prima inchiesta giornalistica, licenziasse brutalmente e degradasse il cardinal Becciu, implicitamente additandolo al pubblico ludibrio come traditore, perché tutta la stampa che conta si precipitasse sul cadavere politico dell’alto gerarca per sbranarne quel che resta, per dipingerlo come il più sordido dei criminali, come un infido malfattore fattosi strada con l’astuzia nelle segrete stanze per appropriarsi dei suoi tesori.
Non manca giorno che non si apprenda di qualche nuova pista, invero mai approfondita e mai corredata da solide prove di colpevolezza, che porta ad arricchire il catalogo dei crimini di costui. Il fatto che il papa lo abbia solo due anni fa promosso prefetto (cioè capo) della congregazione dei santi e soprattutto nominato cardinale non ha, per la stampa, nessun rilievo. Becciu è diventato ormai il sinonimo di Giuda, capace, per qualche denaro, di vendere l’immacolato e purissimo successore argentino di Pietro. Giorno dopo giorno cadono con lui nella polvere altre figure, ma la loro disgrazia non fa che esaltare, nelle cronache, il candore della veste papale, l’innocenza tradita del Santo Padre. Più costoro sono meschini più lui appare diverso da tutti, unico e puro.
E’ lo schema usato in altre circostanze storiche per descrivere il rapporto tra i sovrani e la loro corte, tra i dittatori e il loro seguito. “Il re e è puro e ama il suo popolo - questo è l’adagio - ma i perfidi cortigiani tramano alle sue spalle e approfittano della sua immensa bontà per compiere il male”. Oppure “il duce è onesto, sono i suoi collaboratori ad essere corrotti”. E’ questo anche lo schema adoperato all’inizio di Tangentopoli da quei leader politici che cercavano disperatamente di scaricare tutte le responsabilità degli affari illeciti dei loro partiti sui “mariuoli”, sui segretari amministrativi, su chi gestiva i cordoni della borsa.
Ho il sospetto che la realtà sia un po’ diversa. La Chiesa Cattolica è la più centralizzata e gerarchica delle istituzioni esistenti. Il monarca che la guida è dotato di poteri immensi e assoluti e la curia è il principale apparato organizzativo al suo diretto servizio.
Se così stanno le cose, i casi sono due: o Bergoglio si trova nella stessa posizione che fu di Ratzinger e ha perso completamente il controllo della situazione e allora siamo di fronte ad un vuoto di potere che immaginiamo sarà colmato al più presto (casomai grazie a un gesto di responsabilità, un autopensionamento del monarca) oppure il papa regna e governa a tutti gli effetti e allora qualche responsabilità l’avrà anche lui nelle vicende di cui sopra.
Quel che in ogni caso sarebbe bello sentirgli dire è che, per risolvere il problema alla radice, andrebbe direttamente soppressa la curia romana, che la struttura di governo accentrata e autoritaria ereditata dall’impero romano non funziona più, che non ha senso che un’organizzazione religiosa amministri una tale quantità di denaro e che lo investa cercandone di fare profitti, che è venuto il momento per delegare poteri, risorse e responsabilità alle periferie, facendo seguire una volta tanto alle parole i fatti. Sarebbe bello. Ma temiamo di dover aspettare ancora qualche secolo.
* MicroMega, 14 ottobre 2020 (ripresa parziale, senza immagine).
Vaticano.
Il Papa a Moneyval: impedire ai mercanti di speculare nel tempio dell’umanità
L’incontro con gli esperti del Comitato del Consiglio d’Europa, giunti in Vaticano per la valutazione periodica delle misure contro il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 8 ottobre 2020)
Il Papa ha incontrato il Comitato Moneyval e li ha ringraziati per il loro servizio "a tutela di una finanza pulita, nell’ambito della quale ai ’mercanti’ è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore".
"Il lavoro che voi svolgete in relazione a questo duplice obiettivo mi sta particolarmente a cuore", ha detto il Papa sottolineando la necessità di "una finanza che non opprima i più deboli e i bisognosi". "Ritengo necessario ripensare al nostro rapporto col denaro", ha ribadito il Papa.
“Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza”, ha ricordato Francesco, secondo il quale “quando l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune,il denaro deve servire e non governare!”. E proprio per attuare tali principi, ha sottolineato il Papa, “l’Ordinamento vaticano ha intrapreso, anche recentemente, alcune misure sulla trasparenza nella gestione del denaro e per contrastare il riciclaggio e il finanziamento del terrorismo”. Il 1° giugno scorso, infatti, è stato promulgato un Motu Proprio per una più efficace gestione delle risorse e per favorire la trasparenza, il controllo e la concorrenza nelle procedure di aggiudicazione dei contratti pubblici, mentre i 19 agosto scorso, una ordinanza del presidente del Governatorato ha sottoposto le organizzazioni di volontariato e le persone giuridiche dello Stato della Città del Vaticano all’obbligo di segnalazione di attività sospette all’Autorità di Informazione Finanziaria.
Le politiche di antiriciclaggio e di contrasto al terrorismo costituiscono "uno strumento per monitorare i flussi finanziari, consentendo di intervenire laddove emergano tali attività irregolari o, addirittura, criminali. Gesù ha scacciato dal tempio i mercanti - ha detto Papa Francesco nell’udienza a Moneyval - e ha insegnato che non si può servire Dio e la ricchezza. Quando, infatti, l’economia perde il suo volto umano, non ci si serve del denaro, ma si serve il denaro. È questa una forma di idolatria contro cui siamo chiamati a reagire, riproponendo l’ordine razionale delle cose che riconduce al bene comune, secondo il quale il denaro deve servire e non governare".
Operare per una “finanza pulita”, nell’ambito della quale “ai mercanti è impedito di speculare in quel sacro tempio che è l’umanità, secondo il disegno d’amore del Creatore”, l’appello finale.
“Fratres omnes” - fratelli e sorelle tutti
A chi si rivolge Francesco d’Assisi nell’incipit della nuova enciclica
di Niklaus Kuster (Vatican-News, 22.09.2020)
Ancor prima che la terza enciclica di Papa Francesco sia firmata ad Assisi e che ne venga pubblicato il testo (1) si è scatenato un dibattito sul suo titolo. Nell’area di cultura tedesca, ci sono donne che si propongono di non leggere uno scritto che si rivolge solo ai “fratelli tutti”. Le traduzioni poco sensibili ignorano che nell’opera citata Francesco d’Assisi si rivolge sia alle donne sia agli uomini. L’autore medievale sostiene, come la nuova enciclica, una fratellanza universale. Papa Francesco mette in luce una perla spirituale del Medioevo capace di sorprendere le lettrici e i lettori moderni. Una citazione di Frate Francesco
All’annuncio dell’enciclica, la reazione dei media è stata giustamente quella di chiedersi se Papa Francesco pone una citazione discriminante all’inizio della sua terza enciclica. Come è possibile che colui, le cui prime parole pubbliche dopo l’elezione sono state “fratelli e sorelle”, ora si rivolga solo ai “fratelli tutti”? Perché l’incipit escludendo le donne esclude metà della Chiesa? “Solo i fratelli - o cosa?”, domanda un contributo critico di Roland Juchem. Il direttore del servizio vaticano della KNA spiega che la nuova enciclica inizia consapevolmente con le parole del mistico medievale d’Assisi, che sono state tradotte fedelmente. Dal momento che Frate Francesco si rivolge ai suoi frati, l’espressione “omnes fratres” andrebbe formulata al maschile. Secondo tale logica, però, la traduzione corretta sarebbe “Frati tutti“! E allora il testo verrebbe letto solo da una minoranza infinitesimale nella Chiesa. Papa Francesco inizia la sua nuova enciclica con una massima di saggezza del suo modello. Chi con presunta fedeltà al testo insiste su una traduzione solo al maschile, non riconosce il vero destinatario della raccolta medievale: Francesco d’Assisi, con la composizione finale delle sue “ammonizioni”, si rivolge a tutte le donne e gli uomini cristiani. Le traduzioni nelle lingue moderne devono esprimerlo in modo accurato e immediatamente comprensibile.
Raccolta di saggezze
Se l’enciclica Laudato si‘ nel suo incipit citava il Cantico di Frate Sole composto dal Poverello nella lingua volgare medievale, la terza enciclica del Papa rimanda a una raccolta delle sue massime di saggezza. La fonte utilizzata da Papa Francesco nelle edizioni moderne degli scritti francescani reca il titolo Admonitiones. -L’espressione “ammonizioni” è riduttiva, poiché i 28 insegnamenti spirituali comprendono anche numerose beatitudini, un breve trattato e perfino un cantico alla forza dei doni dello Spirito. L’edizione olandese di fatto preferisce parlare di “Wijsheidsspreuken” (massime di saggezza). L’essere indirizzate ai frati vale per la genesi delle singole massime, non per la successiva raccolta.
Quando i traduttori si basano sul fatto che tutte le edizioni standard degli scritti francescani in tutte le lingue del mondo traducono l’omnes fratres della massima citata nella forma maschile, colgono solo una mezza verità.
In altre parole: La traduzione letterale della frase latina non riflette il pieno significato che il testo intende esprimere nella sua forma finale!
Nell’edizione italiana delle Fonti Francescane, la sesta ammonizione inizia con le parole: “Guardiamo con attenzione, fratelli tutti, il buon pastore, che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce”. Si può subito notare che l’immagine del pastore e del suo gregge utilizzata nel testo comprende l’intera Chiesa, e non solo una schiera di frati. Per riconoscere il destinatario finale della raccolta di testi citata dal Papa occorre distinguere tra la nascita delle diverse parti di testo e la loro composizione finale. In quest’ultima, la parola fratres si allarga dalla piccola cerchia della fraternitas francescana a tutta la Chiesa.
Dalla tessera del puzzle al quadro completo
La citata allocuzione proviene da una raccolta che riflette discussioni spirituali tra i frati Minori e le loro conclusioni maturate. La composizione complessiva allarga l’orizzonte oltre la cerchia iniziale. Le singole massime sono rivolte ai frati di Francesco, ai “religiosi” in generale e anche a tutte le persone al servizio di Dio (servi Dei).
Negli ultimi anni della sua vita, Francesco d’Assisi mise insieme 28 insegnamenti spirituali ben selezionati per formare un ciclo che conduce in un edificio spirituale e ricorda la “casa della Sapienza” biblica, con le sue “colonne intagliate”. Il numero simbolico 28 è composto da 4 x 7: il quattro indica il mondo e il sette la creazione di Dio, il 28 rappresenta simbolicamente la Chiesa come opera di Dio. Chi entra sotto un porticato allestito in modo artistico e si limita a guardare una sola colonna? In questo edificio spirituale sono invitate tutte le persone, senza eccezioni, e di fatto le singole parole nella raccolta sono rivolte a tutti.
Omnes fratres
In apertura della raccolta finale, la prima admonitio parla dell’eucaristia, ma si rivolge anche in modo programmatico a tutte le figlie i “figli degli uomini”: così, il testo latino nell’invitante breve trattato indica che l’orizzonte della speranza si apre su tutta la Chiesa e tutti i membri dell’umanità. Nel loro percorso attraverso la casa della Sapienza scopriranno un cammino verso una “vita che rende felici”. Di fatto, al centro di questo ciclo di lezioni spirituali, Francesco d’Assisi commenta beatitudini bibliche, anch’esse rivolte a tutte le persone, aggiungendovi dieci beatitudini proprie.
Papa Francesco non mette in luce un testo singolo, bensì un’intera raccolta di testi, definita già da Kajetan Esser la “Magna Charta” della fratellanza cristiana. Il sottotitolo dell’enciclica rende evidente che essa è rivolta, come il documento comune cristiano-islamico di Abu Dhabi sulla fratellanza universale, al di là della propria Chiesa all’intera umanità: Papa Francesco scrive “sulla fraternità e l’amicizia sociale”, che deve unire, senza alcuna esclusione, tutte le persone in un mondo solidale.
Da “frati” a “fratelli e sorelle”
La ragione per cui Papa Francesco con la sua visione fraterna dell’umanità fa giustamente riferimento al suo modello Francesco d’Assisi e pone una citazione fraterna all’inizio della sua enciclica può essere illustrato in breve. Gli scritti tramandati del santo contengono una raccolta di lettere, alcune delle quali sono rivolte a singoli frati (Leone, Antonio, responsabili del governo), altre all’intera fraternitas dei Minori e a tutti i fedeli. C’è però anche una lettera circolare che estende l’orizzonte all’universale e si rivolge “A tutti i podestà e ai consoli, ai giudici e ai reggitori di ogni parte del mondo, e a tutti gli altri ai quali giungerà questa lettera”. Nessun papa e nessun imperatore dell’alto Medioevo si è rivolto in modo così universale all’umanità.
Nella Regola del 1221, diretta ai suoi frati, Francesco inserisce un invito a tutta l’umanità che travalica ogni confine di nazione e religione: non solo i fedeli cristiani e non solo le persone impegnate a livello ecclesiale, bensì “tutti i popoli, genti, razze e lingue, tutte le nazioni e tutti gli uomini d’ogni parte della terra, che sono e che saranno... tutti amiamo... il Signore Iddio”.
Il mistico allarga i propri orizzonti all’intera famiglia umana nella Regola specifica per i frati, pochi mesi dopo essere giunto in Egitto nella quinta Crociata e aver sperimentato in modo impressionante, attraverso l’incontro con l’islam, che è possibile trovare la saggezza spirituale e l’amore di Dio anche al di fuori della propria religione. La stessa apertura universale avviene anche con le sue massime di saggezza, che nelle Admonitiones vengono unite in un ciclo artistico di brevi lezioni.
Negli ultimi anni di vita, Francesco inserisce quelle che erano state parole di saggezza ai suoi frati in una composizione che si rivolge a tutti i fedeli. Il testo latino non richiede nessuna aggiunta o modificazione: l’espressione “fratres” usata per i frati comprende anche fratelli e le sorelle carnali o spirituali, come fanno ancora oggi “fratelli”, “hermanos” e “frères” nelle lingue latine. Oggi, le lingue germaniche invece distinguono tra “Brüder” (solo fratelli maschi) e “Geschwister” (fratelli e sorelle), e ugualmente tra “Brüderlichkeit” (senza le sorelle) e “Geschwisterlichkeit” (con le sorelle).
Similmente, l’inglese distingue tra “brothers” (unicamente maschile) e “siblings” (fratelli e sorelle), e tra “brotherhood” (spesso senza sorelle) e “fraternity” o “siblinghood” (che include tutti).
Dopo che all’inizio la prima ammonizione fa entrare tutti “i figli e le figlie dell’uomo” nella bella casa della Sapienza, tale destinatario universale deve essere riferito anche al fratres della sesta admonitio: si rivolge a tutte le donne e gli uomini cristiani, e riguarda tutte le persone sulla terra.
Sulla nascita della fonte citata
Riguardo alla raccolta delle 28 Admonitiones, le ricerche francescane affermano quanto segue: i singoli testi tramandati dovrebbero condensare discorsi che in origine hanno trattato questioni relative alla vita spirituale e comune nell’ambito dei frati. Nel corso del tempo, alcuni colloqui sono stati riassunti per iscritto e messe in rilievo. È avvenuto così qualcosa di analogo a quanto è successo con i detti degli antichi padri e madri del deserto nella cerchia dei loro seguaci, tramandati in modo condensato negli Apophthegmata e nel Meterikon. Anche i singoli insegnamenti di Francesco sono stati annotati nelle situazioni più disparate da compagni capaci di scrivere e condensati nella loro essenza. Lui stesso, verso la fine della sua vita, ha unito questi risultati di discorsi comuni così raccolti in un’opera completa, nella quale i singoli insegnamenti hanno acquisito una nuova dimensione e un nuovo indirizzo.
Non a caso il primo insegnamento inizia con una citazione scritturale programmatica: “Il Signore Gesù disse a tutti coloro che lo seguono: Io sono la via, la verità e la vita”. I portali romanici delle chiese a volte invitano a entrare nell’edificio passando sotto una figura di Cristo nel timpano che presenta questa stessa citazione in un libro aperto.
Nell’edificio spirituale delle Admonitiones, dopo due insegnamenti preparatori, dieci massime di saggezza tracciano il cammino verso il luogo della cena. Ad esse seguono quattro beatitudini bibliche a altre dieci beatitudini francescane, prima che due insegnamenti conclusivi preparino al ritorno alla quotidianità. I singoli insegnamenti si uniscono così per comporre una casa spirituale della saggezza che assomiglia a una basilica: a sinistra della navata dodici colonne conducono, come “via della verità” verso l’area dell’altare, il cui baldacchino è sorretto da quattro esili colonne e definisce il luogo di comunione intima con Dio. Poi, sull’altro lato della navata, dodici colonne riconducono al portale e segnano la “via della vita”. Via - veritas - vita sono le chiavi della composizione di un’opera completa, le cui singole parole staccate dal contesto in cui sono nate, diventano un messaggio per tutti i cristiani, uomini e donne.
Chiunque fosse interessato alla raccolta delle Ammonizioni dalla quale Papa Francesco trae l’incipit della sua enciclica, troverà prossimamente un’analisi della composizione e del messaggio completo in una collana specializzata della PTH Münster.
Conclusione
Con l’incipit della sua terza enciclica, Papa Francesco rimanda espressamente a Francesco d’Assisi. Il patrono del suo pontificato parla di una fratellanza universale che, nel Cantico di Frate Sole, si estende a tutte le persone e a tutte le creature. Tra le lettere circolari del santo ce n’è una che si rivolge in modo universale a tutte le persone sulla terra. Perfino nella Regola dell’Ordine del 1221, composta per i frati francescani, egli si rivolge a tutte le persone e a tutti i popoli con un invito ad amare insieme il Dio unico.
La sesta admonitio citata dal Papa condensa, partendo dal contesto in cui è nata, i risultati di un discorso spirituale nell’ambito dei frati minori. L’insegnamento spirituale che ispira l’incipit della nuova enciclica viene però inserito da frate Francesco verso la fine della sua vita come una colonna nella “casa della Sapienza”, dove i capitelli sono ornati da sculture e corrispondono tra loro. A percorrere questo edificio spirituale non sono invitati solo i fratelli, bensì tutti i credenti e ogni persona sulla terra.
L‘ “omnes fratres” o “fratelli tutti” dell’enciclica va quindi tradotto come citazione di san Francesco in modo tale che tutti i cristiani, uomini e donne, si sentano coinvolti. Il destinatario della citata raccolta di testi va oltre “tutti i fratelli e le sorelle” che s’incontrano negli spazi ecclesiali reali e ideali, estendendosi a tutte le persone sulla terra.
Niklaus Kuster (1962) è un frate cappuccino svizzero, laureato in teologia e noto studioso di san Francesco. Insegna storia della Chiesa all’università di Lucerna e spiritualità francescana negli istituti superiori dell’ordine a Münster (PTH) e a Madrid (ESEF). Ha reso omaggio al profilo francescano di Papa Francesco nel suo libro: Franz von Assisi. Freiheit und Geschwisterlichkeit in der Kirche, (Verlag Echter) Würzburg 2019.
L’anima e la cetra / 24.
Non a immagine d’idolo
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 12 settembre 2020)
Dovremmo ringraziare la Bibbia solo per aver custodito nei secoli il mistero intimo di Dio, protetto dalle nostre manipolazioni teologiche e ideologiche. L’esilio babilonese non è stato soltanto il luogo e il tempo dove sono nati alcuni dei libri biblici più grandi e dove hanno parlato e scritto profeti immensi come Ezechiele e il Secondo Isaia. Quell’esilio generò anche alcuni dei salmi più belli. Canti e preghiere sgorgate dall’anima di un popolo umiliato, offeso nella sua identità nazionale, colpito al cuore della sua religione. L’esilio fu molte cose, ma fu soprattutto una grande prova religiosa. Ritrovarsi in una terra dalla religione ricchissima, circondati da molti dèi ognuno con il suo santuario, rappresentati da statue luccicanti e portati in processioni spettacolari, costrinse Israele a ripensare profondamente la propria fede. Anche la dura polemica biblica anti-idolatrica si sviluppò durante l’esilio. L’assenza del tempio e di immagini di YHWH rendeva forte e drammatica la domanda che i babilonesi rivolgevano ironicamente agli ebrei: "Dov’è il vostro Dio?".
In quelle culture antiche, un Dio senza luogo era un dio inesistente. Come risposta a quella domanda tremenda giunse a maturazione la grande idea biblica del divieto di rappresentazioni di Dio (Es 20,4). Un divieto unico, e fondato su un evento decisivo: «Poiché non vedeste alcuna figura nel giorno in cui il Signore vi parlò sull’Oreb» (Dt 4,15). L’esperienza dell’incontro con YHWH era stato l’incontro con una voce, con qualcosa reale ma invisibile. Né Abramo né Mosè né i profeti hanno visto l’immagine di Dio - Mosè lo vide passare di spalle, come dire che non lo vide. Hanno invece udito la sua voce, il suo sussurro (Elia). Allora ogni pretesa immagine di Dio non può che essere un falso, perché la voce non si può rappresentare.
«Perché le genti dovrebbero dire: "Dov’è il loro Dio?". Il nostro Dio è nei cieli... I loro idoli hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni» (Salmo 115,2-7). La lotta idolatrica della Bibbia ha due componenti: una critica esterna alle immagini degli dèi degli altri popoli e una critica interna a Israele che è stato sempre tentato di farsi immagini del suo Dio.
La critica del Salmo 115 sembra, a prima vista, tutta centrata sulla prima componente dell’idolatria, ridicolizzare gli altri popoli che adorano stupidi pezzi di legno. Questa, però, non è la dimensione più interessante e profonda della polemica biblica, perché se fosse stata formulata in presenza dei sacerdoti e profeti babilonesi questi avrebbero potuto rispondere che quelle immagini erano solo simboli e segni dei loro dèi che, al pari del Dio di Israele, "abitavano nel cielo". Avrebbero potuto rispondere con argomentazioni simili a quelle con cui i cattolici difendevano le statue dei santi dalla furia iconoclastica di alcuni movimenti della Riforma protestante. La critica biblica alle immagini torna anche oggi quando ci dimentichiamo che statue e icone sono segni di un Dio che non vediamo e che riconosciamo da una voce che pronuncia un nome: "Maria".
La seconda critica, quella rivolta agli ebrei, è invece molto più importante. Israele è stato accompagnato in tutta la sua storia biblica dalla tentazione di avere una religione semplice come quella degli altri popoli, con le stesse statue e le stesse processioni, con gli stessi riti naturali della fertilità. Il vitello d’oro sotto il Sinai è condannato e poi distrutto da Mosè perché immagine del loro Dio - il nome che il popolo diede al vitello aureo fu: YHWH. Rappresentare un Dio invisibile può produrre soltanto immagini sbagliate.
La linea anti-idolatrica più importante è allora quella che Israele sviluppò non per criticare gli altri popoli ma come meccanismo di auto-protezione della propria fede, che non era solo minacciata (soprattutto prima dell’esilio) dai tentativi di importare dèi stranieri (i culti di Baal o della dea "moglie" di YHWH) e di collocarli nel loro tempio, ma dalla tentazione di semplificare la loro fede. L’idolatria più rilevante è infatti un riduzionismo religioso che diventa riduzionismo antropologico.
Lo sfondo di tutta la riflessione anti-idolatrica della Bibbia è la Genesi, e in particolare quei versi stupendi sull’Adam creato a "immagine di Dio" (1,27). Se noi umani siamo immagine di Dio, allora se riduciamo Dio a una sua immagine inevitabilmente sbagliata, stiamo riducendo ancor di più noi, che siamo l’immagine di quell’immagine ridotta. Tenere YHWH lassù, nell’alto dei cieli, invisibile ma parlante, significa tenere altissima la dignità delle donne e degli uomini; e dire che l’immagine di Dio che portiamo impressa appartiene al regno dello spirito e dell’essere non a quello dell’apparire.
Chi vede un uomo, una donna, un bambino non vede la statua di Dio, ma una scintilla vera del suo mistero invisibile. Qui davvero l’essenziale dell’immagine è invisibile agli occhi. Non è la vista il senso necessario per vedere questa immagine. Importante è l’inizio del Salmo: «Non sarà a noi, non sarà a noi Signore che darai gloria! La Grazia tua e la tua Verità la innalzeranno solo al tuo Nome» (115,1).
Torna un tema molto caro alla Bibbia: il Nome. Con l’avvicinarsi all’era cristiana, gli ebrei pronunziarono sempre meno il nome di YHWH (Es 20,7). Scrivevano il tetragramma (YHWH) ma pronunciavano "Adonai", Signore. Il Nome YHWH veniva pronunciato dal sacerdote solo nel tempio, forse solo nella festa di Kippur. Con la seconda distruzione del tempio nel 70 d.C. si smarrì anche il ricordo della pronuncia del Nome rivelato a Mosè. Ma cosa c’è dietro al Nome?
Quegli esiliati avevano una grande nostalgia dell’esperienza di Dio fatta in patria, quando YHWH "abitava" nel suo tempio ormai distrutto. Fecero molta fatica per ritrovare l’esperienza del sacro senza il loro luogo sacro. Ma questa immane fatica generò più cose straordinarie. Innanzitutto, l’assenza del tempio sacro inventò il tempo sacro: nacque lo Shabbat. Il tempo divenne più importante dello spazio. Lo Shabbat divenne il tempio del tempo, e resta ancora una delle più grandi profezie della Bibbia - senza una nuova cultura dello Shabbat non usciremo mai dalle crisi ambientali e sociali del capitalismo, che è l’anti-Shabbat. Lì scoprirono anche una nuova dimensione del Nome, che impararono grazie ai profeti sentinelle dell’esilio (si sente molto Ezechiele dentro il Salmo 115: «Dice il Signore: Ma io agii diversamente per onore del mio Nome»: Ez 20,9).
Con quel primo verso il salmista dice a Dio: non ti chiedo che tu mostri qui la tua gloria per noi. No, noi non abbiamo meriti per questo (il popolo visse l’esilio come punizione per le sue infedeltà). Mostra invece la tua gloria per fedeltà a te stesso, per fedeltà al tuo Nome. Non farlo per noi: fallo per te. È questa una delle più belle espressioni della gratuità nella fede. Il salmista sapeva che non possiamo eliminare il nostro vantaggio dalle nostre preghiere, possiamo però pregare Dio di non tenerne conto.
Forse è questo il massimo della gratuità possibile sotto il sole: Dio, io non riesco a dimenticare i miei interessi, tu lo sai, ma non tenerne conto mentre ti prego. Qui la fede si distingue dal commercio, la preghiera dalla magia. Si prega Dio per Dio. Uno dei frutti religiosi e umani più grandi dell’esilio: la gratuità della preghiera, la capacità dell’uomo di auto-trascendersi, di essere più grande dei propri bisogni.
Un ultimo passaggio sull’idolatria. Il divieto biblico di rappresentare la divinità con statue o disegni, generò come sua bellezza collaterale una grande produzione di immagini letterarie e narrative su Dio. La Bibbia ha vietato immagini plastiche di Dio, ma ha prodotto una quantità sterminata di immagini intellettuali. Midrash rabbinici, leggende ebraiche, e poi la immensa, in qualità e quantità, letteratura ispirata da episodi biblici. Quel limite all’immagine ha impoverito il mondo ebraico di arti visive ma, come la siepe leopardiana, ha generato una letteratura infinita. Dio non è stato dipinto ma è stato molto pensato e meravigliosamente narrato. La filosofia greca ha pensato soprattutto l’uomo, la sapienza biblica ha pensato soprattutto Dio. Ma la Bibbia, forse, non è stata abbastanza consapevole del grande pericolo delle rappresentazioni intellettuali di Dio (L.A. Schoekel). La Bibbia vietò l’immagine (e la pronuncia del nome) di Dio per salvare Dio nel suo mistero e nella sua intimità, per proteggerlo dalle nostre molte manipolazioni. Ma le immagini più potenti non sono quelle visive, sono quelle mentali. L’idolatria non si manifesta solo con pupazzi e statue, i pupazzi più perniciosi sono i pupazzi intellettuali. Quella parola, cuore e anima profonda della Bibbia, è molto più capace delle mani di produrre feticci, di fabbricare vitelli d’oro.
Il nome delle idolatrie intellettuali è ideologia. E tra le ideologie molto dannose sono quelle religiose, perché dimenticano spesso il divieto di "farsi immagine" di Dio. La tentazione della teologia è violare il comandamento del divieto di farsi immagini di Dio. Mentre il bravo scienziato o il bravo economista sanno che il modello che usano per descrivere il mondo non è il mondo (per esempio: la concorrenza perfetta non è il mercato), il teologo (tranne i grandissimi, e tra questi san Tommaso) è tentato di credere che i modelli che ha costruito per descrivere Dio siano l’immagine di Dio. E così, una volta costruito un modello pensato come immagine, catturano Dio dentro quella immagine. Abbiamo ucciso migliaia di persone, bruciato eretici perché troppo sicuri che l’idea che ci eravamo fatti di Dio fosse la sua immagine. Solo recuperando il senso biblico del divieto di immagine per custodire il mistero Dio potremo imparare l’arte del dialogo con chi ha altre idee di Dio.
Molto bello e suggestivo è l’ultimo verso di critica agli idoli: «Diventi come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida!» (115,8). Nel tempo abbiamo imparato che il congiuntivo ("diventi") può essere sostituito dall’indicativo: diventa. Noi diventiamo gli oggetti e le immagini che adoriamo. Non ce ne stiamo accorgendo, ma stiamo diventando sempre più simili alle nostre merci, cittadini sempre più simili al consumatore-idolo. Il Salmo termina con una splendida serie di benedizioni. Sono per noi, non ce ne perdiamo neanche una: «Vi renda numerosi il Signore, voi e i vostri figli. Siate benedetti dal Signore, che ha fatto cielo e terra. I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data ai figli dell’uomo» (115,14-16).
Se Benedetto XVI si fosse chiamato Francesco I o Zeffirino I
di Paolo Farinella, prete (Il dialogo, Giovedì 25 Marzo, 2010) *
Signore e Signori, donne e uomini d’Irlanda,
non vi chiamo «Carissime e carissimi figlie e figli» come è usanza edulcorata nei documenti ecclesiastici anche perché non posso rivolgermi a voi con espressioni affettuose come se nulla fosse successo. Mi rivolgo a voi, non con distacco, ma con timore e tremore, con rispetto, stando a debita distanza, in punta di piedi e consapevole che nessuna parola può lenire la vostra rabbia, il vostro dolore e il marchio che in modo indelebile è stato impresso sulla vostra carne viva. Io non sono degno di rivolgermi a voi con parole di affetto.
Vi scrivo per dirvi che presto verrò a trovarvi, verrò solo, senza seguito e senza fanfare: a piedi nudi e a capo scoperto, umile e penitente, sì, come si addice al «servo dei servi di Dio». Verrò per inginocchiarmi davanti a voi e chiedervi perdono dal profondo del cuore perché su una cosa non possiamo, voi ed io, avere dubbi: la responsabilità di tutto ciò che ha coinvolto i vostri figlie e figlie, virgulti innocenti, rovinati per sempre, è mia, solo mia, esplosivamente mia. Mi assumo totalmente la responsabilità della colpa di pedofilia di cui si sono macchiati molti preti e religiosi in istituti e collegi sotto la giurisdizione della Chiesa cattolica.
In quanto vescovo della Chiesa universale non ho parole e sentimenti per alleviare il tragico giogo che è stato posto sulle vostre spalle. Sono stato per oltre un quarto di secolo a capo della congregazione della dottrina della fede e non ho saputo valutare la gravità di ciò avveniva in tutto il mondo: negli Stati Uniti, in Irlanda, in Germania e ora anche in Italia e, ne sono certo, anche in tutti gli altri paesi del mondo. La piaga è enorme, estesa e dilagante e io non sono stato capace di leggerne la gravità, la pericolosità e l’ignominia.
Ho preferito salvare la faccia dell’Istituzione e a questo scopo nel 2001 ho emanato un decreto con cui avocavo a me i casi di pedofilia e imponevo il «silenzio papale»: ciò significa che chiunque avesse parlato era scomunicato «ipso facto», cioè immediatamente. Se vi è stata omertà, se vi è stata complicità dei preti, religiosi, vescovi e laici, la colpa è mia e solo mia. Per salvare la faccia, ho finito di dannare uomini e donne, bambini e bambine che sono stati macellati nell’ignominia dell’abuso sessuale che è grave quando accade tra adulti, ma è terribile, orribile, blasfemo e delinquenziale quando avviene su minori.
Non si tratta di poche persone che hanno sbagliato. Mi ero illuso che fosse così, invece ora prendo atto amaramente che la responsabilità sta principalmente in quella struttura che si chiama «seminario» i cui criteri di formazione, io e gli altri responsabili della Chiesa abbiamo varato, mantenuto e preteso che fossero attuati. Con i nostri metodi educativi poco umani e disincarnati, abbiamo creato preti e religiosi devoti, ma avulsi dalla vita e dalla problematicità di essa, uomini e donne inconsistenti, pronti ad ubbidire perché senza spina dorsale e senza personalità. In una parola abbiamo creato mostri sacri che si sono avventati sulle vittime innocenti, appena si sono scontrati con la realtà che non hanno saputo reggere e con cui non hanno potuto confrontarsi. Personalità infantili che hanno abusato di bambini senza nemmeno averne coscienza.
Oggi ritengo che una grande responsabilità sia da mettere in conto al celibato obbligatorio per preti e religiosi, un sistema che oggi non regge, come non ha mai retto nella storia della Chiesa: dietro la facciata formale, ben pochi hanno osservato questo stato che in se stesso è un valore, ma solo se voluto per scelta di vita, libera e consapevole. Su questo punto, prendo l’impegno di mettere all’ordine del giorno il senso del celibato perché si arrivi ad un clero coniugato, ma anche celibe per scelta e solo per scelta.
Vengo a voi, spoglio di ogni autorevolezza perché l’ho perduta e con le mani vuote per chiedervi perdono e subito dopo nella curia romana e nelle chiese locali licenzierò tutti coloro che in qualsiasi modo sono stati implicati in questa dramma. Infine, mentre la giustizia umana farà il suo corso, affiderò il personale responsabile di queste ignominie per curarlo perché si tratta di menti e cuore malati.
Infine, rassegnerò le dimissioni da papa e lo farò dalla terra d’Irlanda, il paese, forse più colpito. Mi ritirerò in un monastero a fare penitenza per i giorni che mi restano perché ho fallito come prete e come papa. Non vi chiedo di dimenticare, vi supplico di guardare avanti, sapendo che il Signore che è Padre amorevole, di cui siamo stati indegni rappresentanti, non abbandona alcuno e non permette che l’angoscia e la sofferenza abbiano il sopravvento. Che Dio mi perdoni, e con lui, se potete, fatelo anche voi. Con stima e trepidazione.
*
Roma, 19 marzo 2010, memoria di S. Giuseppe, padre adottivo di Gesù.
Il concilio di Albino Luciani
A quarantadue anni dall’elezione di Giovanni Paolo I
di Andrea Tornielli (L’Osservatore Romano, 26 agosto 2020)
La sera di 42 anni fa si affacciava sorridente dalla Loggia centrale della basilica di San Pietro il successore di Papa Paolo VI. Albino Luciani, patriarca di Venezia, il 26 agosto 1978 venne eletto al quarto scrutinio assumendo il doppio nome di Giovanni Paolo, in ossequio ai suoi immediati predecessori, Roncalli e Montini. Il primo l’aveva voluto vescovo di Vittorio Veneto includendolo così tra i padri del Concilio, il secondo l’aveva trasferito a Venezia e creato cardinale. Quella calda sera d’estate nessuno poteva immaginare che il pontificato di Giovanni Paolo I, mite e umile pastore veneto con origini montanare, sarebbe stato tra i più brevi della storia. Quarantadue anni dopo quell’evento, in un tempo in cui il concilio ecumenico Vaticano II è oggetto di attacchi e di critiche, è significativo ricordare Luciani attraverso alcune sue parole scritte quando era vescovo e padre conciliare, per spiegare ai fedeli della sua diocesi ciò che stava accadendo a Roma.
Contro il diffuso pessimismo
Nella fase preparatoria Luciani non fa mancare il suo parere scritto. Nel suo voto il vescovo di Vittorio Veneto auspica che il futuro Concilio metta in luce «l’ottimismo cristiano» insito nell’insegnamento del Risorto, contro «il diffuso pessimismo» della cultura relativistica, denunciando una sostanziale ignoranza delle «cose elementari della fede». Luciani parte per Roma, partecipa alle sessioni del concilio, ascolta con attenzione i dibattiti. Non prende mai la parola ma scrive pagine e pagine di appunti. Rilegge Antonio Rosmini, studia a fondo molti teologi, tra i quali Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar. Scrive spesso ai fedeli della sua diocesi, li tiene aggiornati sui risultati del concilio e spiega argomenti delicati con il consueto stile didascalico e catechistico, evitando però, allo stesso tempo, le semplificazioni eccessive. Il vescovo Luciani indica subito quello che ai suoi occhi sarà l’attore principale del Concilio: «Lo Spirito Santo, presente ai lavori colla sua assistenza a impedire errori e deviazioni dottrinali». Un’assistenza, scrive, che andrà ai membri del concilio collettivamente come a «capi-Chiesa, non come a uomini singoli» che «rimarranno uomini col loro temperamento».
Un’esperienza di Chiesa universale
In un messaggio per la giornata missionaria, datato 14 ottobre 1963, Luciani informa i suoi diocesani che sta toccando le missioni nelle persone dei vescovi convenuti da ogni parte del mondo. E infatti scrive: «Nell’aula conciliare, basta ch’io alzi gli occhi sulle gradinate che mi stanno davanti. Son là: le barbe dei vescovi missionari, le facce nere degli africani, gli zigomi sporgenti degli asiatici. E basta ch’io scambi con essi qualche parola; s’aprono davanti visioni e bisogni, di cui, da noi, non s’ha neppur l’idea». Conclusosi il primo periodo conciliare, Luciani ritorna a casa insieme al suo «vicino di banco», Charles Msakila, vescovo di Karema (Tanganika), suo ospite per alcuni giorni: un gesto di attenzione, ma anche un modo per far respirare alla diocesi la dimensione dell’universalità della Chiesa. L’impeto missionario emerge anche dalle parole che il vescovo di Vittorio Veneto dedica a Papa Giovanni, celebrando nel giugno 1963 una messa di suffragio per il Pontefice appena defunto. «L’idea di Papa Giovanni, che più ha colpito il mio spirito, è questa: Ecclesia Christi lumen gentium! La Chiesa deve far chiaro non solo ai cattolici, ma a tutti; essa è di tutti, bisogna cercare di avvicinarla a tutti».
Riforma liturgica
Due assaggi, dagli scritti del vescovo Luciani, per comprendere come il futuro Papa guardasse ad alcuni dei temi cruciali del concilio. Il primo riguarda la liturgia. «Durante la prima sessione del Concilio - scrive Luciani - il grande problema, circa la Messa, è stato: quali aiuti offrire ai fedeli, perché ricavino il massimo frutto possibile da questo, che è “il punto culminante della vita cristiana?”. Un primo aiuto, è stato detto, venga dalla Bibbia. La Bibbia è parola di Dio; è straordinaria nel creare un clima di giusta e fervida religiosità... La lettura dell’epistola e del Vangelo sia fatta direttamente in italiano, quando alla Messa assistono i fedeli, e sia messa più in risalto... Un secondo aiuto è l’uso della lingua italiana. Alla prima sessione del Concilio ben 81 vescovi hanno chiesto per la liturgia l’uso della lingua materna. Altri vescovi erano timorosi... Altri fecero notare che la Chiesa, in passato, ha più volte cambiato lingua, adattandosi alla lingua del popolo. Gesù stesso parlò e pregò non in ebraico, lingua nazionale della Palestina, ma in aramaico, lingua del popolo... Un terzo aiuto consiste nel semplificare i riti della Messa. Per essere sinceri, alcuni riti, nel corso dei secoli, si sono accavallati, altri non sono capiti dal popolo di oggi, altri, per essere capiti, richiedono complicate spiegazioni. Un rito - s’è detto al Concilio - non dev’essere una cosa, su cui parlare e spiegare, ma una cosa che parla e spiega di per sé; in ogni caso, non imponiamo ai fedeli inutili difficoltà!... Un quarto aiuto consiste nel promuovere e rendere facile la partecipazione dei fedeli».
Libertà religiosa
Uno degli argomenti più delicati e complessi affrontato dal concilio fu quello della libertà religiosa. Per Luciani fu un cambiamento significativo rispetto agli insegnamenti del seminario. Ecco come il vescovo di Vittorio Veneto spiega quel momento: «Tutti siamo d’accordo che c’è una sola vera religione... Ma, detto questo, ci sono anche altre cose che sono giuste e bisogna dirle. Cioè, chi non è convinto dal cattolicesimo ha il diritto di professare la sua religione per più motivi. Il diritto naturale dice che ciascuno ha il diritto di cercare la verità. Ora guardate che la verità, specialmente religiosa, non si può cercarla chiudendosi in una stanza e leggendo qualche libro. La si cerca seriamente parlando con gli altri, consultandosi... Non abbiate paura di dare uno schiaffo alla verità quando date a una persona il diritto di usare della sua libertà».
Rispettare i diritti dei non cattolici
Scrive ancora il vescovo Luciani: «Se uno ha coscienza che quella è la sua religione ha il diritto di tenersela, di manifestarla e di farne propaganda. Si deve giudicare buona la propria religione, ma anche quella degli altri. La scelta della religione deve essere libera; quanto più è libera e convinta, tanto più chi l’abbraccia se ne sente onorato. Questi sono i diritti, i diritti naturali. Ora, non c’è un diritto al quale non corrisponda anche un dovere. I non cattolici hanno il diritto di professare la loro religione, e io ho il dovere di rispettare il loro diritto: io privato, io prete, io vescovo, io Stato».
Fate meglio il catechismo
Infine, negli scritti di Luciani padre conciliare si ritrovano anche queste parole di notevole attualità nel rapporto con i credenti di altre fedi. Nonostante siano state scritte 56 anni fa, colgono ancora nel segno e appaiono in sintonia con la frase di Benedetto XVI frequentemente citata dal suo successore Francesco: «La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione». E dunque di fronte alla presenza delle altre fedi religiose, non sono certo i divieti a professarle o l’arroccamento difensivo a mantenere in vita il cristianesimo. La fede cristiana esiste e si diffonde se ci sono cristiani che la vivono e la testimoniano attraverso la loro vita.
«Qualche
vescovo - scrive Albino Luciani - si è spaventato: ma allora domani vengono i buddisti e fanno la loro propaganda a Roma, vengono a convertire l’Italia. Oppure ci sono quattromila musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea. Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare. Se volete che i vostri figli non si facciano buddisti o non diventino musulmani, dovete fare meglio il catechismo, fare in modo che siano veramente convinti della loro religione cattolica».
Papa Francesco: non valido battesimo con formula ’noi battezziamo’
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO. La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle. "Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole : ’A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale - riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede - è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità".
Ma l’"io", che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso : "segno-presenza dell’azione stessa di Cristo". "Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione", spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito "Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta ?", la risposta del Vaticano è : "affermativamente". "Negativamente" è la risposta che si dà al quesito principale : "È valido il Battesimo conferito con la formula : ’Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’ ?".
In pratica i battesimi con la formula ’noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica - secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano - potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ’ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che "Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti". Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati : "Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato". (ANSA).
Sul tema, in rete, si cfr.:
Trasmettere ciò che si è ricevuto (di Angelo Lameri) - Congregazione per la dottrina della fede,Nota dottrinale circa la modifica della formula sacramentale del Battesimo (L’Osservatore Romano, 06.08.2020).
FLS
Hiroshima e Nagasaki. 75 anni dopo l’atomica: i vescovi Usa pregano con i giapponesi
Messaggio della Conferenza episcopale americana che chiede, richiamando papa Francesco, l’abolizione delle armi di distruzione di massa. A Hiroshima cerimonia annuale al cenotafio con misure antivirus
di Silvia Guzzetti (Avvenire, sabato 1 agosto 2020)
"Io e i miei confratelli vescovi piangiamo, insieme ai nostri fratelli giapponesi, per le vite innocenti che sono state annientate e per le generazioni che hanno continuato a soffrire le conseguenze sull’ambiente e sulla salute di questi tragici attacchi".
Comincia cosi il comunicato dell’arcivescovo José H. Gomez di Los Angeles, presidente della Conferenza episcopale cattolica statunitense, in occasione del 75esimo anniversario del lancio della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki che ricorre rispettivamente il 6 e il 9 agosto prossimi e che sancì l’inizio della fine della Seconda Guerra Mondiale.
"In questa solenne occasione uniamo la nostra voce a quella di papa Francesco per chiedere ai nostri leader nazionali e internazionali di perseverare nei loro sforzi per abolire le armi di distruzione di massa che minacciano l’esistenza della razza umana e del nostro pianeta", scrivono ancora i vescovi degli Stati Uniti, "Chiediamo alla nostra Santa Madre Maria, la Regina della pace, di pregare per la famiglia umana e per ciascuno di noi".
Il comunicato continua con la speranza, espressa dai vescovi, che "ricordandoci la violenza e le ingiustizie del passato possiamo impegnarci ad essere costruttori di pace, vocazione alla quale ci chiama Gesù Cristo. Possiamo sempre cercare la strada della pace e alternative all’uso della guerra come mezzo per risolvere le differenze tra le nazioni e i popoli".
La commissione Giustizia e Pace Internazionale della Conferenza episcopale americana ha anche diffuso materiali di preghiera, studio e azione che aiutino i fedeli a organizzare iniziative per commemorare l’anniversario del lancio della bomba il prossimo 6 e 9 agosto.
A riprendere l’appello dei vescovi americani contro l’uso e il possesso di armi nucleari, facendo proprie le forti parole pronunciate lo scorso 24 novembre da papa Francesco in occasione della sua visita in Giappone, è anche la Conferenza episcopale cattolica giapponese che rilancia l’iniziativa della "10 giorni di preghiera per la pace", celebrata ogni anno tra il 6 e il 15 agosto. La "10 giorni" è partita dopo l’invito alla riconciliazione di san Giovanni Paolo II ad Hiroshima, il 25 febbraio 1981, durante la sua storica visita nel Paese.
Vi sarà anche quest’anno, anche se con misure molto rigorose per fermare il coronavirus, la tradizionale cerimonia davanti al cenotafio per le vittime della bomba atomica ad Hiroshima che non è mai stata cancellata a partire dal 1952, quando venne costruito il monumento. Alle 8.15 proprio quando la bomba venne lasciata cadere, il 6 agosto 1945, sulla città giapponese, suonerà la campana della pace e, in tutta la città, si sentirà l’urlo delle sirene. I cittadini, nelle case e negli uffici, si fermeranno per un minuto per ricordare le vittime e pregare per una pace mondiale duratura.
Quest’anno le misure antivirus prevedono che il numero dei partecipanti venga limitato a 880 persone, sedute a distanza di due metri le une dalle altre, sul prato davanti al monumento. Dovrebbe partecipare di persona il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres.
Il settimanale “Economist” racconta anche di un nuovo modo giapponese di preservare la memoria della tragedia di Hiroshima e Nagasaki. I Consigli comunali delle due città hanno, infatti, deciso di reclutare diversi volontari perché diventino “denshosha”, ovvero trasmettitori dell’eredità della storia della due bombe. I sopravvissuti, conosciuti col termine “hibakusha”, sono ormai ottantenni e, con la loro morte, i racconti di quel bombardamento, tristemente unico nella storia dell’umanità, rischiano di scomparire. I "denshosha" e, a volte, si tratta di figli o nipoti dei sopravvissuti, ascoltano con grande attenzione la storia dei due bombardamenti e la imparano per raccontarla a loro volta cosi che non venga dimenticata.
C’è grande preoccupazione, in Giappone, che la lezione delle bombe scompaia e, insieme ad essa, la consapevolezza degli orrori di quella tragedia. Meno del 30% dei giapponesi per esempio - e nelle due città di Hiroshima e Nagasaki la percentuale è anche più alta - è in grado di ricordare, con precisione, le date dei bombardamenti.
Chiesa.
Il primato del Papa e l’infallibilità, i due dogmi compiono 150 anni
Approvati dal Concilio Vaticano I, affrontano temi dibattuti per secoli. Lo storico Fantappiè: una scelta per ribadire la sovranità spirituale della Chiesa. Il Vaticano II aprirà poi alla collegialità
di Filippo Rizzi (Avvenire, sabato 18 luglio 2020)
Era il 18 luglio 1870, esattamente centocinquanta anni fa, quando veniva promulgata la Costituzione Pastor Aeternus approvata dal Concilio Vaticano I. Con questa Costituzione il Concilio presieduto dal futuro beato il papa Pio IX ha definito due dogmi della Chiesa cattolica: il primato di giurisdizione del Vescovo di Roma e l’infallibilità papale. Un evento di portata storica che suscitò reazioni fortissime sia all’esterno sia in alcuni settori della Chiesa, provocando lo scisma dei “vecchi cattolici”.
Il documento venne approvato due mesi prima della fine del potere temporale dei Papi che avvenne con l’ingresso delle truppe piemontesi a Porta Pia a Roma.
A giudizio di Carlo Fantappiè, docente di storia del diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, il testo conciliare «rappresentò il coronamento di un processo di verticalizzazione interna alla Chiesa, dall’età gregoriana al Concilio di Trento, dopo la sconfitta delle tesi conciliariste intorno al primato del Concilio sul Papa e la consacrazione delle sue prerogative magisteriali dopo secolari discussioni intorno alla infallibilità del Papa».
Infatti, se fin dai primi secoli fu riconosciuto il ruolo del Vescovo di Roma come «custode della fede», nell’età moderna, prima Lutero e i riformatori, poi i gallicani e i giansenisti, tentarono più volte di negare o di limitare l’infallibilità papale.
Il professore che è anche ordinario di diritto canonico all’Università Roma Tre si sofferma sul legame stretto che si venne a creare nel corso dell’Ottocento fra l’affermazione del potere assoluto di governo del Papa nella Chiesa, sollecitato dalle correnti ultramontane e dal pensiero controrivoluzionario di De Maistre, e la formazione della sovranità negli Stati-nazione.
«Il conflitto fra Stati e Chiesa romana si venne a focalizzare sul problema della sovranità e dell’appartenenza dei fedeli alla Chiesa o alla nazione. Pio IX volle affermare la sovranità spirituale della Chiesa con i due dogmi del Vaticano I contro la sovranità temporale degli Stati che assoggettavano le strutture della Chiesa ai poteri secolari e minacciavano lo Stato pontificio».
In questo secolo e mezzo si è avvalso della prerogativa dell’infallibilità papale Pio XII per la proclamazione nel 1950 del dogma dell’Assunzione della Vergine in anima e corpo in Cielo.
Fantappié si sofferma su alcuni aspetti della Pastor Aeternus che, visti con gli occhi di oggi, possono apparire controversi. «Il testo definitivo che noi conosciamo - spiega - è concentrato sulle prerogative del Papa. In verità si pensava di elaborare una seconda Costituzione che completasse gli aspetti mancanti ma, a causa della sospensione del Vaticano I, ciò non fu possibile.
Anche per questo il Vaticano I fu un “Concilio monco”. In questa Costituzione avviene un sbilanciamento dottrinale a favore delle funzioni e dei poteri del Vescovo di Roma mentre vengono sottaciuti i diritti e le prerogative dell’episcopato come la partecipazione della “comunità dei fedeli” all’elaborazione del magistero e della vita della Chiesa. Per la verità diversi padri conciliari si resero conto di questo “sbilanciamento”. Una lacuna che sarà colmata cento anni dopo solo con il Vaticano II».
Inoltre osserva: «I padri conciliari ebbero l’avvertenza di restringere le prerogative del Pontefice quando egli parla “ex cathedra” nella sua veste di “pastore e dottore di tutti i cristiani” in materia di fede e di costumi, cioè lasciando lo spazio all’idea che anche un Papa quando esprime una semplice opinione può errare....». Bisogna distinguere infatti fra infallibilità e inerranza.
Fantappié legge soprattutto il filo rosso di continuità «non solo ideale di magistero» che i successori di Pio IX (in particolare Giovanni XXIII e Paolo VI, «entrambi grandi estimatori di papa Giovanni Maria Mastai Ferretti») hanno intravisto nel Vaticano II come «il completamento di ciò che non fu possibile realizzare durante l’assise conciliare del 1869-1870».
Di qui la riflessione finale: «In un certo senso lo stesso cardinale e oggi santo John Henry Newman comprese prima di altri che ogni Concilio, incluso il Vaticano I, doveva essere letto alla luce di quelli precedenti. Egli era convinto che, proprio perché il Vaticano I fu oggetto di “grandi opposizioni e prove” a livello di discussioni teologiche, avesse avuto bisogno di un riassetto e di un riequilibrio che ridefinisse quelle verità di fede che rimanevano valide. E cento anni dopo il suo auspicio fu esaudito con il Vaticano II. Per questo Newman per le sue intuizioni è considerato tra i migliori ermeneuti del Vaticano I e il precursore, secondo Jean Guitton, del Concilio successivo».
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Nella Messa a Santa Marta, Francesco pensa a quanti svolgono servizi di pulizie nelle case, negli ospedali, nelle strade, un lavoro nascosto e necessario per sopravvivere. Nell’omelia ha affermato che nella società ci sono guerre, contrasti e insulti perché manca il Padre: lo Spirito Santo insegna l’accesso al Padre che fa di noi dei fratelli, un’unica famiglia, e ci dona la mitezza dei figli di Dio
Francesco ha presieduto la Messa a Casa Santa Marta (VIDEO INTEGRALE) nella sesta Domenica di Pasqua. Nell’introduzione ha rivolto il pensiero agli addetti alle pulizie:
Oggi la nostra preghiera è per tante persone che puliscono gli ospedali, le strade, che svuotano i bidoni della spazzatura, che vanno per le case a portare via la spazzatura: un lavoro che nessuno vede, ma è un lavoro che è necessario per sopravvivere. Che il Signore li benedica, li aiuti.
Lo Spirito Santo ci insegna la mitezza dei figli di Dio
Nel congedo dai discepoli (cfr Gv 14,15-21), Gesù gli dà a loro tranquillità, gli dà pace, con una promessa: «Non vi lascerò orfani»( v. 18) . Li difende da quel dolore, da quel senso doloroso, dell’orfanezza. Oggi nel mondo c’è un grande sentimento di orfanezza: tanti hanno tante cose, ma manca il Padre. E nella storia dell’umanità questo si ripete: quando manca il Padre, manca qualcosa e sempre c’è la voglia di incontrare, di ritrovare il Padre, anche nei miti antichi.
Pensiamo ai miti di Edipo, di Telemaco, tanti altri: sempre cercare il Padre che manca. Oggi possiamo dire che viviamo in una società dove manca il Padre, un senso di orfanezza che tocca proprio l’appartenenza e la fraternità. Per questo Gesù promette: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito» (v. 16). “Io me ne vado - dice Gesù - ma arriverà un altro che vi insegnerà l’accesso al Padre. Vi ricorderà l’accesso al Padre”. Lo Spirito Santo non viene per “farsi i suoi clienti”; viene per segnalare l’accesso al Padre, per ricordare l’accesso al Padre, quello che Gesù ha aperto, quello che Gesù ha fatto vedere. Non esiste una spiritualità del Figlio solo, dello Spirito Santo solo: il centro è il Padre. Il Figlio è l’inviato dal Padre e torna al Padre. Lo Spirito Santo è inviato dal Padre per ricordare e insegnare l’accesso al Padre.
Soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi. Sempre le guerre sia le piccole guerre sia le grandi guerre, sempre hanno una dimensione di orfanezza: manca il Padre che faccia la pace. Per questo, quando Pietro alla prima comunità dice che rispondano alla gente del perché sono cristiani (cfr 1Pt 3,15-18), dice: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza» (v. 16), cioè la mitezza che dà lo Spirito Santo. Lo Spirito Santo ci insegna questa mitezza, questa dolcezza dei figli del Padre. Lo Spirito Santo non ci insegna a insultare. E una delle conseguenze del senso di orfanezza è l’insulto, le guerre, perché se non c’è il Padre non ci sono i fratelli, si perde la fratellanza. Sono - questa dolcezza, rispetto, mitezza -, sono atteggiamenti di appartenenza, di appartenenza a una famiglia che è sicura di avere un Padre.
«Io pregherò il Padre ed egli vi invierà un altro Paràclito» (Gv14,16) che vi ricorderà l’accesso al Padre, vi ricorderà che noi abbiamo un Padre che è il centro di tutto, l’origine di tutto, l’unità di tutti, la salvezza di tutti perché ha inviato il suo Figlio a salvarci tutti. E adesso invia lo Spirto Santo a ricordarci l’accesso a Lui, al Padre e da questa paternità, questo atteggiamento fraterno di mitezza, di dolcezza, di pace.
Chiediamo allo Spirito Santo che ci ricordi sempre, sempre, questo accesso al Padre, che ci ricordi che noi abbiamo un Padre. E a questa civiltà, che ha un grande senso di orfanezza, dia la grazia di ritrovare il Padre, il Padre che dà senso a tutta la vita e fa che gli uomini siano una famiglia.
* Fonte: Vatican News, 17 maggio 2020 (ripresa parziale).
Covid-19.
Bartolomeo I: la preghiera comune vero atto di libertà per evitare il baratro
Sulla giornata di preghiera di oggi il patriarca ecumenico di Costantinopoli: "Nessun sincretismo". "Chiudersi all’altro tradisce l’idea di Dio". "Amore e solidarietà è la via"
di Stefania Falasca (Avvenire, giovedì 14 maggio 2020)
«Amore e solidarietà sono gli aspetti positivi della preghiera mondiale, per un cambio di mentalità... Il tempo delle parole è finito, ora possono solo iniziare le opere. Possiamo pertanto affermare che la preghiera comune sarà un passo importante nella volontà di evitare il baratro». Aderendo alla proposta dell’Alto Comitato per la fratellanza umana, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I ha fin dal primo momento sottolineato l’importanza che i credenti di tutte le religioni si uniscano in preghiera a implorare l’aiuto per tutta l’umanità nel tempo segnato dalla pandemia che il mondo sta attraversando. E per “Avvenire” così risponde.
Santità, perché è importante questo momento di preghiera comune fatta da appartenenti di diverse religioni? La preghiera comune non è un atto di sincretismo religioso ma un vero atto di libertà, caratterizzato dalla capacità di ogni essere umano di porsi in relazione con Dio per il bene di tutti. La libertà della preghiera è il primo elemento che caratterizza ogni dialogo umano, perché è dialogo con Dio. Non è altresì una forma di panteismo, ma è relazione intima, profonda e sacra tra il creato e il Creatore. È intima, perché nella preghiera di ogni essere umano vi è una sinergia relazionale che parte dal cuore sensibile dell’uomo. È profonda, perché pone ogni creatura a guardare in sé stesso, senza essere vittima di condizionamenti esterni, che alterano la visione profonda di Dio. Infine, è sacra, perché nella sacralità della persona umana vi è la comune appartenenza alla famiglia umana, che non propone rapporti di tolleranza, ma rapporti di uguaglianza, che non è fondamenta-lista o fanatica, ma capace di trovare le ricchezze della fede o anche dei riferimenti metafisici in tutti gli aspetti della religiosità dell’uomo. La preghiera comune pertanto supera le persecuzioni, perché esse non hanno diritto di cittadinanza; supera ogni atto di tolleranza, perché non c’è qualcuno che permette e qualcuno che accetta il permesso dell’altro; supera l’integralismo, perché esso è la negazione della libertà e se si nega la libertà, si nega anche il rapporto tra Dio e l’uomo.
Come si deve intendere anche il gesto del digiuno legato alle opere di carità? Il digiuno, come modo di preghiera e le opere di carità, come atto di ogni rapporto umano. Nella storia bimillenaria della Chiesa, il digiuno non è assenza o riduzione di cibo o altro, ma è un atteggiamento insito nell’uomo che si fa preghiera in Dio. Gesù stesso ha digiunato e ha insegnato come il vero digiuno spirituale possa vincere ogni forza avversa. E nella libera preghiera e nel digiuno spirituale non può mancare l’attenzione verso i fratelli. Allora questa preghiera mondiale trova il suo vero modo di essere vissuta, partecipata e sicuramente ascoltata e ne spiega la sua importanza.
Questi gesti quali sviluppi posso portare in questa umanità sconvolta dalla pandemia? Da troppi anni, l’umanità non è stata attenta al grido di dolore che saliva dalla creazione di Dio. Un piccolissimo e sconosciuto virus, ci ha fermati. L’intera umanità si è accorta della sua fragilità, della importanza dei rapporti interpersonali e ancora una volta si trova ad un bivio dopo questa esperienza. Il tempo delle parole è finito, ora possono solo iniziare le opere. Possiamo pertanto affermare che la preghiera comune sarà un passo importante nella volontà di evitare il baratro. Innalziamo la nostra preghiera a Dio con fede, supplichiamo con la certezza dell’ascolto, imploriamo con lacrime di vera contrizione. Come sviluppo positivo del gesto della preghiera comune di tutta l’umanità ribadiamo di vivere questo periodo come un cammino del deserto per giungere in sicurezza alla Terra Promessa, quando la scienza, per grazia di Dio, vincerà la battaglia col virus. Perché siamo sicuri che, anche con le nostre preghiere, vincerà. E la prova è una occasione per cambiare al meglio. Nella direzione di rafforzare l’amore e la solidarietà. Amore e solidarietà sono gli aspetti positivi della preghiera mondiale per un cambio di mentalità.
Qual è il contributo che possono dare le religioni per un mondo più vivibile? Possono aprire alla vera conoscenza dell’altro. La chiusura, in ogni religione, è da considerarsi di per sé stessa un tradimento e un offuscamento dell’idea di Dio e di Divinità. Conoscere significa partecipare alla vita intima del fratello che abbiamo accanto, significa superare gli stereotipi che arrivano da altre epoche, significa capire, comprendere, apprezzare e quindi rispettare e amare. Il rispetto e l’amore portano al dialogo, non per una “unica religione mondiale”, come alcune volte sentiamo dire, ma perché il dialogo forma la base profonda etica e spirituale dell’uomo. Se le religioni del mondo sapranno fare di questo dialogo la loro forza, allora anche la loro fede, il loro Credo sarà rafforzato, non contro qualcuno, ma a favore di tutti. Le religioni saranno così portavoci di una “società aperta” dove non avrà la ultima parola solamente la omogeneizzazione economica e lo sviluppo basato sul principio della autonomia dell’economia, ma saranno espressioni di fede nella libertà e nella dignità umana. (Si ringrazia per la traduzione p. Athinagoras e Nikos Tzotis)
CONCILIO DI NICEA I e il CONCILIO DI NICEA - 2025. Materiali sul tema:
2 MAGGIO 2020. Il santo del giorno
Atanasio. Discepolo di sant’Antonio, difensore dell’ortodossia
di Matteo Liut (Avvenire, giovedì 2 maggio 2019)
Sant’Atanasio fu come un ponte per la Chiesa antica: sulle spalle, infatti, portò il “peso” della retta dottrina, dell’ortodossia, traghettandola attraverso un periodo difficile, nel quale sembrava che l’eresia dovesse trionfare.
Era nato ad Alessandria nel 295 e nel 325 era al Concilio di Nicea come diacono del vescovo Alessandro. Lì si stabilì che il Figlio era della stessa sostanza del Padre, Cristo non era “come” Dio, ma era Dio.
Una verità che gli ariani tentavano di negare, mettendo in campo una lotta aspra, spesso fatta di calunnie e strategie politiche.
Nel 328 la gente volle Atanasio come nuovo vescovo di Alessandria e lui, nei suoi 46 anni di episcopato, si dimostrò un saldo difensore della verità. Ma dovette subire attacchi personali e anche esili prima di essere riabilitato. Ebbe come maestro sant’Antonio abate di cui scrisse una Vita. Morì nel 373.
Altri santi. San Felice di Siviglia, martire (IV sec.); sant’Antonino Pierozzi (di Firenze), vescovo (1389-1459).
Letture. At 5,27-33; Sal 33; Gv 3,31-36.
Ambrosiano. At 4,32-37; Sal 92; Gv 3,7b-15.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico La Sala
Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus *
Il senso profondo della preghiera.
Con Lui davanti al Dio della vita
di Pierangelo Sequeri (Avvenire, venerdì 27 marzo 2020)
Il Capo se ne sta, dritto e umile, tra Dio e il suo popolo. Non fronteggia l’assemblea degli anziani e la folla dei fedeli, per questa volta. Fronteggia il Signore suo e nostro, il Padre di tutti, il Dio della vita che mille volte già ci ha fatto uscire dalle prigioni della storia, rimettendoci in cammino, perché potessimo celebrare le sue benedizioni e testimoniare la sua misericordia.
Il Capo supplica Dio, per la nostra vita e per le sue promesse, di non abbandonarci. Non siamo stinchi di santi, ma siamo uomini e donne che portano - spesso loro malgrado - i segni della presenza dell’amore di Dio nella storia. Non ne siamo affatto all’altezza: non siamo i migliori che Dio avrebbe potuto trovare, portiamo il tesoro della sua benedizione in vasi di creta, raggiustati più volte, che stanno insieme per miracolo. Però, siamo quelli che Lui si è preso. E abbiamo arrancato per generazioni dietro a Lui: molti hanno perso il passo, molti sono rimasti indietro, molti hanno perso le forze e persino la fiducia. Siamo quello che siamo. Eppure, siamo uomini e donne che tutto vorrebbero, eccetto che essere separati da Lui.
E non abbiamo mai pensato veramente che una creatura umana - chiunque - possa essere abbandonata da Lui. Il Capo, da solo davanti a Dio, rappresenta solennemente tutti noi. E non si sottrae a questo legame profondissimo e struggente. Un vero capo è così. La sua preghiera, in più, ha in serbo una mossa che lo espone direttamente: irresistibile anche per Dio. ’Se tu pensassi di abbandonarli, Signore, con tutto il rispetto, abbandona anche me, perché neppure io potrei seguirti’. Un vero capo arriva a questo. Guardo il papa Francesco nel mezzo di piazza san Pietro, vuota del consueto assembramento, che sta in mezzo fra Dio e il popolo per caricare su di sé il simbolo stesso dell’intercessione, in nome di tutti i credenti e in favore di tutti i viventi. Non posso fare a meno di pensare a quel commovente passaggio della preghiera di Mosè per il popolo, quando osa dire a Dio che non sarebbe un buon segno - per Lui - se abbandonasse il popolo ora, dopo averlo salvato da mali ben peggiori.
Dopo l’episodio del vitello d’oro, infatti, Dio offre a Mosè un nuovo inizio, più o meno in questi termini: ’Facciamola finita con questi, farà di te l’inizio di un nuovo popolo e di una nuova storia’ Mosè, però, respinge l’offerta, supplicando per il popolo: ’Sono quelli ai cui padri e madri hai fatto promesse irrevocabili’ (cfr. Esodo, 32, 10). Il senso profondo della preghiera e dell’atteggiamento dell’intercessione si illumina, qui, di uno splendore emozionante. Così è un vero capo. Nello stesso modo si comporta un vero sacerdote, un vero testimone, un vero credente: ’si mette in mezzo’, esponendosi in prima persona di fronte a Dio stesso, per la vita di ognuno: ’Se li abbandoni, non contare su di me’. Gesù - il Capo reale della Chiesa - ha sigillato l’atto tenero e potente di questa intercessione dalla parte stessa di Dio, iscrivendolo nell’intimità profonda e insondabile del Padre. È il nostro dogma questo, il dogma di tutti i dogmi, capisci? Il Figlio si mette in mezzo, il Figlio intercede, il Figlio non ha nessuna intenzione di abbandonarci, anche quando siamo insopportabilmente inaffidabili.
Nell’orto degli Ulivi, Gesù chiese di essere preso lui soltanto, lasciando i discepoli (Giovanni 18, 7-9). In croce, inchiodato davanti al Padre, chiese di risparmiare i suoi stessi persecutori (Luca 23, 34). Riscoprire il gesto dell’intercessione fino a questa profondità è un miracolo. E nei tempi difficili per il popolo, una grazia insostituibile. Ciascuno di noi è chiamato a riscoprire, anche nel suo forzato isolamento, la benedizione del gesto di intercessione. Ognuno, per gli altri. L’essenza del cristianesimo sta qui, la certezza della redenzione sta qui. L’intercessione comunica un messaggio potente. Non pensate neppure per un istante che i nostri peccati possano indurre Dio ad abbandonarci nella prova. E non scaricate sul vostro prossimo i mali che ci affliggono, sostituendo l’intercessione con l’intimidazione. In momenti di straordinaria angoscia, il semplice e coraggioso gesto dell’intercessione, che supplica di Dio di non abbandonare nessuno, testimoniando che noi stessi non lo faremo, non ha prezzo. È un giuramento di fedeltà che ricompone la comunità: per ciascuno e per tutti. Non ci muoveremo da qui.
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Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
NOTE ALLA "Lettera aperta a San Cristoforo al tempo del Coronavirus:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
FLS
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
I "CONFLITTI TRA I RESTI" E UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".... *
Profezia è verità /28.
La custodia del primo nome
Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 dicembre 2019)
Non basta essere minoranza per essere minoranza profetica. Non è l’essere parte di un resto di superstiti a fare il resto della Bibbia. Nella conquista babilonese, alcuni ebrei furono deportati e altri restarono in patria. In ciascuna di queste due comunità - quella in esilio e quella in patria - c’era chi si auto-attribuiva lo status di "resto" annunciato da Isaia. Ezechiele e Geremia ci parlano, in pagine bellissime, di questi "conflitti tra resti", delle polemiche tra i figli per l’eredità ideale dei padri. Le crisi, soprattutto quelle grandi e decisive, generano molti "resti", vari gruppi che pretendono di essere i veri custodi del primo patto, i garanti della prima alleanza, gli eredi del primo testamento. In questi conflitti identitari è probabile che ogni gruppo possieda alcuni elementi autentici del vero "resto"; ma non appena una minoranza inizia a rivendicare la primogenitura contro gli altri gruppi, i semi buoni cominciano a guastarsi.
Durante e dopo le crisi, fondamentale è infatti la capacità di non pretendere il monopolio dell’eredità, di saper convivere con altri che si rifanno allo stesso patrimonio. Perché una virtù importante di chi si sente onestamente parte del "resto" fedele sta nel saper convivere con altri che dicono cose molto diverse in nome della stessa eredità - inclusi imbroglioni e falsi profeti, che accompagnano sempre i profeti veri. Perché quando è un solo gruppo a sentirsi il legittimo proprietario della promessa e a essere riconosciuto da tutti come tale, è quasi certo che quel gruppo sia quello sbagliato. Lo spirito ama l’eccedenza e gli sprechi. L’eredità spirituale, come la verità, è sinfonica. Solo il tempo e la storia sanno separare il grano dalla zizzania, e nessun grano può essere sicuro prima dell’ultimo attimo di non essere zizzania. Si vive tra parole dette e parole da dire senza essere i padroni della verità delle une e delle altre. I dubbi sull’autenticità della propria vocazione ed elezione sono, paradossalmente, il primo segno di autenticità. C’è anche questa buona ignoranza nel repertorio umano.
Siamo arrivati al culmine dei Libri dei Re e della storia biblica. Ed ecco un nome che da solo dice moltissime cose, quasi tutto: Nabucodonosor. «Nei suoi giorni, Nabucodonosor, re di Babilonia, salì contro di lui e Ioiakìm gli fu sottomesso per tre anni, poi di nuovo si ribellò contro di lui. YHWH mandò contro di lui bande armate di Caldei, di Aramei, di Moabiti e di Ammoniti; le mandò in Giuda per annientarlo, secondo la parola che YHWH aveva pronunciato per mezzo dei suoi servi, i profeti» (2 Re 24,1-2). Le mandò in Giuda per annientarlo... Abbiamo immediatamente l’interpretazione di quanto il testo sta narrando. L’assedio di Gerusalemme, la distruzione del tempio, l’esilio in Babilonia, la fine del regno di Giuda, sono voluti da Dio, perché sono la conseguenza della violazione dell’Alleanza. Lo aveva detto per mezzo dei profeti, e ora quella parola si compie, per dirci la serietà della parola, il valore assoluto di una promessa, la radicale verità dell’alleanza.
Se un patto è vero, se la parola che lo crea pronunciandolo non è fumo e vanitas, allora deve essere vero tutto ciò che quella reciprocità essenziale implica. Un patto è un bene relazionale, è quindi fatto di reciprocità, che muore quando quella reciprocità viene meno. Allora la distruzione del tempio e la fine del regno sono inerenti alla verità dell’alleanza con Abramo e Mosè. E questa è una cosa davvero importante.
I Libri dei Re ci dicono che la fine era già iniziata nel momento in cui Salomone importò a Gerusalemme gli dèi stranieri. Molto suggestiva e forte è allora la scena della devastazione del tempio: «In quel tempo gli ufficiali di Nabucodonosor, re di Babilonia, salirono a Gerusalemme e la città fu assediata. Nabucodonosor giunse presso la città mentre i suoi ufficiali l’assediavano. Ioiachìn, re di Giuda, uscì incontro al re di Babilonia... Il re di Babilonia lo fece prigioniero nell’anno ottavo del suo regno. Asportò di là tutti i tesori del tempio di YHWH e i tesori della reggia; fece a pezzi tutti gli oggetti d’oro che Salomone, re d’Israele, aveva fatto nel tempio di YHWH, come aveva detto YHWH» (24,10-13). Come aveva detto YHWH: ancora la stessa tesi.
Con il bottino dei tesori del tempio e della reggia (forse un dato anacronistico, poiché questo episodio avvenne probabilmente dieci anni dopo, con la seconda deportazione durante la distruzione di Gerusalemme e del tempio), si chiude un lunghissimo ciclo durato secoli. La corruzione del cuore di Salomone e dei molti re che dopo di lui si sono succeduti, raggiunge ora il suo culmine, con l’asportazione di quel tesoro e "facendo a pezzi" gli oggetti.
La parola che conduce Nabucodonosor a Gerusalemme è la stessa parola della benedizione ingannata e irrevocabile di Isacco per Giacobbe, la stessa parola che creò la luce e l’Adam. Se è vero l’Adam, se sono vere le dieci parole, se è vera Betlemme, allora deve essere vero anche Nabucodonosor. È questa la verità tremenda, drammatica e stupenda della parola biblica, una parola che è vera perché è fedele fino alle conseguenze estreme della parola: «YHWH non volle usare indulgenza» (24,4). Anche questo è la parola biblica, anche qui sta la sua unicità, è anche questo il suo messaggio rivolto alle nostre parole.
Gli scribi che componevano questi capitoli ci volevano allora dire che quella distruzione conteneva la stessa verità dell’Alleanza e del Sinai. Nella Bibbia l’alleanza e i patti sono qualcosa di immenso, dal valore infinito che noi lettori del XXI secolo non capiamo più.
Nell’umanesimo biblico i patti umani hanno il loro fondamento in un meraviglioso e impensabile patto con Dio. Una religione dell’alleanza ha potuto fondare una cultura dell’alleanza che ancora, sebbene soffra, continua a sostenere la cultura occidentale. È stato anche per il valore di quel patto fondativo che abbiamo saputo dar vita ai matrimoni, alle imprese, alle cooperative, alle città e poi agli Stati nazionali e all’Unione Europea.
La religione dell’alleanza è la possibilità che i nostri "per sempre" possano essere veri mentre li pronunciamo nell’ignoranza del futuro; ma questa alleanza è anche la fonte del valore infinito della reciprocità nei patti.
Quando esco per l’ultima volta dalla porta di casa, ti dico che quel patto di reciprocità che avevamo fatto anni prima era vero, che non era fumo e vento.
Mentre vado via dico a me e a te la verità del primo patto e del tempo in cui sono restato. Certo, posso anche perdonarti e restare a casa - tanti, tante lo fanno ogni giorno, e risuscitano molti patti dai loro sepolcri -, ma ciò non toglie verità a quell’andare; anche se poi è la stessa Bibbia a dirci che quell’andare, sebbene vero, non è l’ultima parola perché "un resto tornerà".
L’interpretazione che quella comunità di redattori diede della distruzione di Gerusalemme, è allora qualcosa di straordinario e di essenziale. Di fronte alla tragedia, quegli scribi avrebbero potuto gridare l’abbandono, lamentarsi con YHWH per aver rinnegato l’alleanza. E invece scelsero di leggere quella terribile realtà nella fede, aggrappati alla corda-fides che li teneva legati al cielo, al loro passato, al futuro possibile e al "resto" che avrebbe continuato la storia. Quella lettura fu l’unica capace di salvare la loro fede e il loro popolo diverso, perché la vera alternativa che avevano era affermare che il loro Dio fosse solo un idolo, una vanitas come tutti gli altri. E invece salvarono la fede, salvarono la parola e l’alleanza, salvarono Dio. Come Giobbe.
Ecco perché la distruzione di Gerusalemme è veramente il cuore della Bibbia, il centro gravitazionale della sua fede e del suo umanesimo. Con ogni probabilità non avremmo la Bibbia, o l’avremmo totalmente diversa, se quella comunità di scribi, sacerdoti e profeti, schiantati dall’esilio, avesse scelto di salvare se stessa condannando Dio. Il "resto" potrà tornare e continuare la storia se teniamo viva la verità di quel primo patto assumendocene tutte le conseguenze.
L’esilio babilonese produsse una delle più grandi rivoluzioni religiose e etiche della storia dell’umanità. Lì, in quella terra straniera e idolatra, nacque il culto senza tempio, Dio non fu più prigioniero del suo territorio. E soprattutto terminò l’era dell’identificazione della verità con la vittoria, perché si capì che YHWH poteva restare vero anche se sconfitto, che le nostre verità possono essere vere anche se non vincono, che una vita può essere vera mentre muore.
Una innovazione antropologica e teologica decisiva, possibile perché quella comunità di scrittori-interpreti scelse la propria condanna religiosa per salvare la verità del Dio dell’alleanza e della promessa, per donarcela in eredità.
Insieme agli ori del tempio e della reggia, in questa prima deportazione (del 598-597) i babilonesi portarono via anche le élite militari, tecniche e intellettuali: «Deportò tutta Gerusalemme, cioè tutti i comandanti, tutti i combattenti, in numero di diecimila esuli, tutti i falegnami e i fabbri; non rimase che la gente povera della terra. Deportò a Babilonia il re Ioiachìn» (24,14-15).
Non rimase che la gente povera... Anche in questo racconto tragico riemerge la polemica dei "resti". Quella che scrisse o completò questo verso era una mano che apparteneva a quel gruppo (golà di deportati in Babilonia che si considerava il vero resto fedele. Così definisce "gente povera" i rimasti in patria, che in quanto poveri non potevano quindi pretendere lo status di eredi della promessa - come se l’essere poveri non fosse compatibile con l’abitare il Regno, con l’essere chiamati "beati".
Dentro queste pagine tragiche c’è infine un dettaglio che può passare inosservato: «Il re di Babilonia nominò re, al posto di Ioiachìn, Mattania suo zio, cambiandogli il nome in Sedecìa» (24,17). Il nuovo sovrano cambia nome al re da lui nominato. La stessa operazione l’avevano fatta qualche anno prima gli egiziani con il padre del re Ioiachìn: «Il faraone Necao nominò re Eliakìm, figlio di Giosia, al posto di Giosia, suo padre, cambiandogli il nome in Ioiakìm» (23,34).
È un’antica e sempre attuale abitudine dei padroni cambiare il nome ai loro sudditi. Quando un uomo o una donna ci cambia il nome, quel nuovo nome è sigillo di proprietà privata. Il Dio biblico non ci cambia il nome. Ci lascia il nostro, lo ama, vi legge la nostra vocazione, ed è con quel primo nome che ci sa chiamare: Samuele, Agar, Maria. E le poche volte in cui lo cambia (con Abramo, Sara, Giacobbe, Simone), è per indicarci un orizzonte o una vocazione ancora più liberi e larghi.
È difficile attraversare il mondo e terminare il viaggio con il nome con cui vi siamo giunti. Gli incontri e le ferite, mentre ci in-segnano il nome dell’altro, cercano fino alla fine non solo di ferire il nostro (cosa necessaria e in genere buona), ma di cambiarlo, di metterci il sigillo e da figli trasformarci in schiavi. Che possiamo custodire il nome del primo giorno per sentirlo pronunciare nell’ultimo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE.
Un commento a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO... Ricordando quanto sia determinante e fondamentale, oggi, ripensare sul piano antropologico (andrologico e ginecologico) e teologico la figura della “sacra famiglia” e di san Giuseppe (si cfr. i commenti a "Ggimentu, gimmientu e ggimintare" di A. Polito, Fondazione Terra d’Otranto, 06.07.2018), e “come nascono i bambini”, non posso non PLAUDIRE alla realizzazione del “convegno e del libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”, con tutti i suoi molteplici contributi!!!
SUL TEMA DELLA «GIUSEPPOLOGIA», MI SIA LECITO, si cfr.: GESU’ “CRISTO”, GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE (“CHARITAS”) DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Federico La Sala
Il caso.
La Ue equipara nazismo e comunismo
La risoluzione evidenzia la necessità di uno sguardo storico comune dell’Europa a ciò che ora la unisce: il rifiuto di ogni totalitarismo
di Riccardo De Benedetti (Avvenire, domenica 22 settembre 2019)
La risoluzione del Parlamento europeo di giovedì scorso, 19 settembre, che ha sostanzialmente equiparato sul piano storico il nazismo al comunismo, possiede tutte le caratteristiche per diventare uno spartiacque politico-culturale decisivo per l’identità della stessa Unione Europea. Intanto perché è il Parlamento Europeo a essersi espresso su una questione di tale rilevanza, non una qualsiasi Commissione o un Tribunale con giurisdizione incerta. La risoluzione, votata da 535 deputati a favore, 66 contro e 52 astenuti, è un atto politico vero e proprio.
A esprimersi a favore il gruppo del Ppe, di cui fa parte Forza Italia, il gruppo Identità e Democrazia a cui aderisce la Lega, il gruppo dei Conservatori e Riformisti di cui fa parte Fratelli d’Italia e anche quello dei Socialisti e Democratici di cui è membro il PD. I parlamentari italiani di tali gruppi presenti in aula ieri, risultano aver tutti votato a favore. Il che è confortante se non persino sorprendente.
Ma cosa dice, in sintesi la risoluzione? Che, dopo Norimberga, «vi è ancora un’urgente necessità di sensibilizzare, effettuare valutazioni morali e condurre indagini giudiziarie in relazione ai crimini dello stalinismo» (era quel che cercò di fare la grande antropologa Germaine Tillion, incarcerata nel lager di Ravensbrück, dove perse la madre, raccogliendo per dieci anni dopo la fine della seconda guerra mondiale i documenti dei crimini nazisti ma anche quelli perpetrati nei gulag staliniani, come si può leggere nel volume che riunisce i suoi saggi specifici: Alla ricerca del vero e del giusto); che «l’integrazione europea è stata una risposta alle sofferenze inflitte da due guerre mondiali e dalla tirannia nazista, che ha portato all’Olocausto, e all’espansione dei regimi comunisti totalitari»; che il «riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l’unità dell’Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne».
In questo modo la comoda distinzione tra “stalinismo” e “comunismo” non è più possibile. È quella distinzione infatti che ha consentito finora a tante forze politiche e culturali di lucrare su una presunta differenza morale e storica tra stalinismo e comunismo grazie alla quale si poteva, e si doveva, condannare il nazismo assolvendo il comunismo che nulla, secondo costoro, aveva a che fare con lo stalinismo. Nella risoluzione, invece, quasi sempre la parola “stalinismo” è accompagnata e usata insieme a “comunismo”.
Ed entrambe sono altrettanto chiaramente accostate ai crimini commessi dal nazismo e dal fascismo e come tali da considerare, senza attenuanti o assoluzioni pregiudiziali. La risoluzione di fatto invita a proseguire il lavoro della memoria che è stato compiuto nei riguardi della Shoah e che ora deve allargarsi più decisamente alle vittime del comunismo. Il che è possibile fare proprio superando gli equivoci storici e morali, persistenti e reiterati, anche da molte personalità della cultura europea, relativi alle presunte differenze tra crimini nazisti e comunisti.
È un lavoro storico culturale che avrà bisogno di tanto impegno e tante risorse perché per troppo tempo molta parte della cultura europea si è adagiata nella convinzione che non si potessero nemmeno accostare i crimini nazisti a quelli comunisti, equiparare lager gulag e foibe. Un atteggiamento in molti casi frutto di convenienze accademiche dovute al potere culturale che in diversi paesi europei esercitavano i partiti comunisti.
Certo la risoluzione, richiamando anche la Russia ai suoi doveri di democrazia, e quindi a fare la sua parte per ciò che riguarda il riconoscimento delle responsabilità del comunismo e la necessità del superamento dei suoi residui nelle istituzioni e nella politica, si proietta in avanti, verso la necessità di uno sguardo storico comune dell’Europa a ciò che ora la unisce, nel superamento di quanto l’ha divisa in maniera sanguinosa e tragica per quasi tutto il Novecento.
E quel che la unisce è certamente il rifiuto dei totalitarismi nelle diverse forme storiche in cui si sono presentati e nell’evitare che si ripropongano, nella convinzione e nell’auspicio, però ancora tutto da realizzare, che non se ne riproducano di nuovi e di incogniti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Cosa significa Gesù per me
di Mohandas Karamchand Gandhi *
Benché io abbia dedicato gran parte della mia vita allo studio della religione e alla discussione con i capi religiosi di tutte le fedi, riconosco molto bene di non poter non sembrare presuntuoso nel momento in cui mi accingo a scrivere di Gesù Cristo e a cercare di spiegare ciò che Lui significa per me. (...)
... Egli è stato sicuramente il più alto esempio di chi ha desiderato di dare tutto senza chiedere in cambio niente e senza interessarsi a quale sarebbe stato il credo che avrebbe professato il ricevente. Sono sicuro che se Lui in questo momento vivesse tra gli uomini, Egli benedirebbe le vite di molti di coloro che forse non hanno mai sentito il Suo nome, se soltanto le loro vite incarnassero le virtù delle quali Lui è stato l’esempio vivente sulla terra, la virtù di amare il prossimo come se stessi e del fare del bene e della carità tra i propri simili.
Allora, cosa può significare per me Gesù? Per me Egli è stato uno dei più grandi maestri che l’umanità abbia mai conosciuto. Secondo i Suoi credenti Egli è stato l’Unigenito Figlio di Dio. Ma il fatto che io accetti o meno questa convinzione può far sì che Gesù abbia maggiore o minore influenza nella mia vita? È forse che tutta la grandezza dei Suoi insegnamenti e della Sua dottrina devono essermi vietati? Non posso crederci.
Per me ciò implica una nascita spirituale. In altre parole, la mia interpretazione è che nella vita di Gesù vi è la chiave della Sua vicinanza a Dio e che Egli espresse, come nessun altro ha saputo fare, lo spirito e la volontà di Dio. È in questo senso che io Lo vedo e Lo riconosco come Figlio di Dio.
(...)
E poiché la vita di Gesù ha quel senso e quella trascendenza ai quali io ho alluso, credo che Egli appartenga non soltanto al cristianesimo ma al mondo intero, a tutte le razze e a tutti i popoli, poco importa sotto quale bandiera, nome o dottrina essi possano lavorare o professare una fede o adorare un dio ereditato dai propri avi.[1]
*
[1] Mohandas Karamchand Gandhi, Cosa significa Gesù per me, «Modern Review», ottobre 1941. Pubblicato in Mohandas Karamchand Gandhi, La forza della verità. Scritti etici e politici, Edizioni Sonda, Torino 1991, vol. I, pp. 458-460 .
Udienza.
Papa Francesco: non c’è evangelizzazione senza Spirito Santo, senza gioia
L’invito del Papa: l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola *
"Lo Spirito Santo è il protagonista dell’evangelizzazione". Lo ha ribadito papa Francesco nell’udienza generale, dedicata anche oggi alla catechesi sul libro degli Atti degli Apostoli.
"’Padre, io vado a evangelizzare’ - ha esemplificato il Pontefice a braccio -. ’Sì, cosa fai?’, ’Ah, io annuncio il Vangelo e dico chi è Gesù, cerco di convincere la gente che Gesù è Dio’. ’Caro, questa non è evangelizzazione, se non c’è lo Spirito Santo non c’è evangelizzazione. Questo può essere proselitismo, può essere pubblicità, ma l’evangelizzazione è lasciarti spingere dallo Spirito Santo, che sia lui a spingerti all’annuncio: all’annuncio con la testimonianza, anche con il martirio, e con la Parola".
"Ho detto che protagonista dell’evangelizzazione è lo Spirito Santo - ha quindi ribadito, sempre a braccio -. E qual è il segno che tu, cristiano o cristiana, sei un evangelizzatore? La gioia, anche nel martirio". "Che lo Spirito - ha concluso Francesco - faccia di tutti noi battezzati uomini e donne che annunciano il Vangelo per attirare gli altri non a sé ma a Cristo, che sanno fare spazio all’azione di Dio, che sanno rendere gli altri liberi e responsabili dinanzi al Signore".
"Non basta leggere la Scrittura, occorre comprenderne il senso, trovare il ’succo’ andando oltre la ’scorza’, attingere lo Spirito che anima la lettera".
In uno dei passaggi della catechesi odierna "Come disse Papa Benedetto all’inizio del Sinodo sulla Parola di Dio - ha continuato -, ’l’esegesi, la vera lettura della Sacra Scrittura, non è solamente un fenomeno letterario... È il movimento della mia esistenza’. Entrare nella Parola di Dio è essere disposti a uscire dai propri limiti per incontrare Dio e conformarsi a Cristo che è la Parola vivente del Padre", ha aggiunto Francesco.
* Avvenire, mercoledì 2 ottobre 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO DEI VESCOVI 2008. L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?! Fatto sta che la prima enciclica di Papa Benedetto XVI (Deus caritas est, 2006) è per Mammona.
LA GRAZIA DEL DIO DI GESU’ E’ "BENE COMUNE" DELL’INTERA UMANITA’, MA IL VATICANO LA GESTISCE COME SE FOSSE UNA SUA PROPRIETA’.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Idee.
Kasper: «Chiesa e modernità: da nemici a alleati per il futuro della democrazia»
Le difficoltà della Chiesa di riconoscersi nelle democrazie moderne hanno prodotto un Occidente secolarizzato. Ma la crisi democratica può trovare una soluzione attraverso la missione della Chiesa
di Walter Kasper (Avvenire, domenica 29 settembre 2019)
Dopo il crollo del muro di Berlino e della Cortina di ferro lo sguardo si è aperto ben oltre l’Europa, e si è sviluppato il sogno di un mondo unito. Si è sviluppata una "globalizzazione", cioè una rete internazionale mondiale a livello economico, finanziario, dei mezzi di comunicazione, della tecnologia e del turismo. Ma questo nuovo universalismo è rimasto a livello materiale, funzionale, economico, tecnico; è mancato un universalismo più profondo, spirituale e solidale. Così la vittoria della libertà è divenuta una vittoria della mentalità dello sviluppo economico e del capitalismo talvolta feroce e aggressivo nell’emisfero Sud, che ha portato come reazione a movimenti di antiglobalizzazione, anch’essi talvolta violenti.
La globalizzazione è una realtà complessa e ambigua. Da un lato porta nuovi vantaggi economici e di comunicazione, ma dall’altro la nuova libertà ha creato anche nuove interdipendenze politiche ed economiche complesse, che la gente “normale” fatica a cogliere. Poiché ora le decisioni si prendono a livelli internazionali lontani dal normale cittadino, l’uomo medio non si sente più a casa in un modo globalizzato, dove tutto cambia in modo sempre più accelerato. Ma è soprattutto nel movimento migratorio, oggi un segno dei tempi universale, che si mostra il lato negativo dell’universalismo globalizzato. La gente vi ravvede il pericolo di una perdita della propria patria e dell’identità ereditata dalla propria storia e cultura. Vede nei migranti una crisi dell’Europa come l’hanno conosciuta finora.
Tale situazione crea lo spazio per un populismo che dà risposte facili a domande estremamente difficili e complesse. Questo populismo non è un’ideologia coerente, ma è frutto della paura e della strumentalizzazione della paura. Le sue risposte spesso sono verità parziali, se non vere e proprie fake news.
Per tutelarsi da questo mondo nuovo, molti si ritirano o desiderano farlo nel mondo passato e così conservare la propria identità. Ma un’identità chiusa ed esclusiva, avversa a tutto ciò che è straniero, un’identità identitaria e xenofoba che conduca a un nuovo nazionalismo e sovranismo, nel mondo globalizzato non solo è illusoria, ma anche pericolosissima per la pace. L’uomo è per sua natura un essere sociale. Pertanto un’identità racchiusa è un’identità debole e malata. Un’identità forte è un’identità aperta, un’identità in scambio, che si lascia arricchire nell’incontro con altre identità.
Per la Bibbia tutta l’umanità è una grande unità, è il genere umano, una grande famiglia, una fratellanza. Il cristianesimo dunque non è mai un’identità chiusa in se stessa, ma un’identità universalmente aperta verso gli altri e per gli altri, soprattutto per i poveri e bisognosi e per profughi e perseguitati da altri Paesi e culture. Pertanto bisogna essere consapevoli che l’antiglobalizzazione e l’antieuropeismo sono solo un movimento antiuniversale, e in questo senso un movimento antimoderno e antilluminista, ma che si presenta con la maschera conservatrice del cristianesimo.
L’antiglobalizzazione, che si propone come tutela e difesa del cristianesimo, è in realtà un cristianesimo divenuto ideologia. Il vero cristianesimo non costruisce muri, ma ponti.
Questa identità è stata ed è la grandezza d’Europa, che in tutta la sua storia non è mai stata una realtà unitaria e identitaria: dal suo inizio e in tutta la sua storia l’Europa è stata un crocevia, uno spazio e un processo d’incontri e di mutua penetrazione di culture diverse (nel passato le culture ebraica, greca, romana, celtica, germanica, slava, normanna, senza dimenticare la cultura araba musulmana e dell’illuminismo moderno). L’Europa non è mai stata monoetnica; l’impero medioevale non fu sicuramente una realtà pluralista nel senso moderno, tuttavia costituì un’unità composta da popoli, principati e regni diversi, città imperiali e monasteri indipendenti.
Lo stato nazionale e soprattutto il nazionalismo sono nati solo in tempi relativamente recenti nel Sette e Ottocento, e poi nel Novecento nei sistemi fascisti e nazionalsocialisti sono divenuti la rovina dell’Europa e ci hanno portato alla catastrofe della Seconda guerra mondiale e alla Shoah.
Certo, dopo tutte queste crisi e disastri non possiamo ricostruire l’unità spirituale medioevale. Oggi in modo nuovo siamo di fronte alla necessità di mantenere e arricchire l’identità dell’Europa attraverso un incontro tra le diverse civiltà non europee, che non diventi uno «scontro di civiltà» (S. Huntington).
La nostra sfida è conservare e rinnovare i valori fondamentali che hanno fatto grande l’Europa e realizzare questi valori nella nuova situazione della globalizzazione, con lo stesso coraggio che hanno mostrato i nostri antenati. Certo è un compito molto complesso, nel quale non si può accontentare tutti, ma a cui bisogna invitare la grande maggioranza della gente di buona volontà; un compito la cui realizzazione richiede l’arte politica, una politica che è l’arte del possibile (O. von Bismarck). (Purtroppo, talvolta anche l’arte di fare l’impossibile). C’è il famoso detto di Wolfgang Böckenförde, stimato giurista e già presidente della Corte costituzionale tedesca: «Lo stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso stesso non è in grado di garantire». Non li può estorcere, se non vuole abdicare al suo carattere di stato libero, che rispetta la libertà e riconosce la libertà religiosa. In tal senso lo stato democratico non è uno stato neutro riguardo ai valori fondamentali, che esso presuppone e di cui vive.
Così la democrazia presuppone che la stragrande maggioranza della popolazione riconosca i valori costitutivi della democrazia, cioè la dignità della persona a prescindere dalla cultura, dalla religione, dalla provenienza, dalla nazionalità, dal sesso e dal colore della pelle; riconosca la libertà di coscienza e di parola, la libertà dell’altro, la giustizia non solo commutativa ma anche sociale, la tolleranza, soprattutto la tolleranza religiosa e per altre visioni del mondo. Il riconoscimento maggioritario di tali valori è il sine qua non della democrazia.
Questi valori fondamentali sono valori che risalgono alla tradizione cristiana e alla sua sintesi con i valori fondamentali della cultura grecoromana. In ultima analisi questi valori sono fondati nella creazione dell’uomo a immagine di Dio (Gen 1,27).
Già dopo la svolta di Costantino nel monachesimo in reazione contro una concezione imperiale della Chiesa si trovano forme democratiche (per esempio nella forma della partecipazione della comunità alle decisioni dell’abate, dell’elezione dei superiori a tempo ecc.). I teologi dell’Università di Salamanca all’inizio del Seicento (quasi duecento anni prima della Rivoluzione francese!) furono i primi a sviluppare sulla base della teologia di Tommaso d’Aquino il diritto dei popoli (Völkerrecht) e il fondamento dei diritti dell’uomo, anche degli indigeni nelle colonie, un’idea che la Rivoluzione francese ha risolutamente negato. I monaci e i teologi erano più avanti!
Ma la tragedia della storia moderna è che la Chiesa in Europa (anche le Chiese luterane) per lungo tempo non è stata in grado di riconoscere i suoi propri valori e idee nella democrazia moderna. A lungo ha sollevato critiche sui diritti umani e la democrazia. Così i moderni diritti dell’uomo sono stati sviluppati contro la Chiesa in un modo secolarizzato. Solo e molto tardi il Concilio Vaticano II, dopo lunghe controversie, è stato in grado di riconoscere i diritti dell’uomo e il diritto alla libertà religiosa. A causa di questo fallimento, la Chiesa e le Chiese luterane sono divenute corresponsabili della secolarizzazione della civiltà europea moderna.
D’altra parte a causa della secolarizzazione i diritti dell’uomo, e insieme a essi il fondamento della democrazia, sono stati staccati dalle loro radici cristiane, e staccati dalle radici - come ogni pianta - si sono indeboliti, e ora sono in crisi. Tale indebolimento e crisi hanno aperto la porta ai populisti e alla loro propaganda antidemocratica, antimoderna e anticristiana.
Durante gran parte dell’Ottocento e nella prima parte del Novecento, l’argomento sostenuto dalla Chiesa era che l’autorità dello stato è derivata da Dio. E questo escludeva il riconoscimento della democrazia, in cui tutta l’autorità deriva dal popolo. Oggi questa argomentazione è superata. Già papa Pio XII, nel suo messaggio per il Natale 1942, riconosceva che la democrazia come struttura statale era un sistema oggigiorno adeguato.
Il Concilio Vaticano II si è espresso definitivamente in questo senso. Secondo il Concilio l’autorità secolare dello Stato deriva da Dio, ma l’ordinamento concreto dello Stato, che sia democratico o monarchico, va affidato alla decisione del popolo. Pertanto il Concilio non esprime alcuna opzione in favore né della monarchia, né della democrazia o di un altro ordinamento dello Stato. Il criterio del riconoscimento non pertiene alla struttura, ma se in qualsiasi struttura democratica siano rispettati i diritti umani fondamentali, soprattutto il diritto fondamentale della libertà religiosa e la giustizia sociale. Teonomia del mondo e dello stato da un lato e autonomia della libertà umana e politica d’altra non sono contrastanti, ma vanno insieme. Di più, la teonomia non solo non esclude i diritti dell’uomo, ma li garantisce e li difende.
In conclusione, poiché la democrazia vive di valori, che originariamente sono valori cristiani, la crisi d’Europa è molto più di una crisi istituzionale strutturale: è crisi dei valori costitutivi per l’Europa e per la sua democrazia per effetto della secolarizzazione, anche a causa della Chiesa. O l’Europa scoprirà di nuovo le sue radici cristiane, o l’Europa e la sua cultura non saranno più l’Europa e la cultura dell’Europa come le abbiamo conosciute finora. Il futuro della democrazia dipende molto dalla formazione delle nuove generazioni, ma dipende soprattutto dalla presenza pastorale e dalla missione della Chiesa.
70 anni di comunismo. Cina, l’ultima «rivoluzione» per essere centro del mondo
L’apertura economica senza svolta politica: così da Mao a Xi si è consolidato il potere di Pechino
di Vittorio E. Parsi (Avvenire, martedì 1 ottobre 2019)
Pochi altri Paesi al mondo sono cambiati così tanto in 70 anni da risultare sostanzialmente irriconoscibili, pur mantenendo lo stesso regime politico, come la Cina. La Cina uscita dalla rivoluzione di Mao Zedong e quella del presidente Xi Jinping vedono sempre saldamente al vertice del potere il Partito comunista, la repubblica continua a essere denominata Repubblica popolare cinese e la sua bandiera è ancora la bandiera rossa. Già durante la lunga stagione della leadership personale di Mao, la Cina aveva conosciuto l’alternanza di stagioni più "aperturiste" ("i cento fiori") ad altre decisamente più repressive ("la rivoluzione culturale" che tanto entusiasmò molta intellettualità nostrana cieca agli aspetti totalitari).
Ma nulla è paragonabile alla svolta provocata da Deng Xiaoping, succeduto a Mao dopo la sanguinaria parentesi della "banda dei quattro", capeggiata dalla vedova del "Grande timoniere". Sopravvissuto ai violenti tornanti della vicenda del maoismo, Deng inventò un apparente ossimoro (il socialismo di mercato, o socialismo con caratteristiche cinesi) che, a tanti, parve un tentativo di guidare la transizione della Cina dal comunismo e dal dominio assoluto del Partito, verso una qualche forma asiatica di paternalismo associato al capitalismo: una specie di Singapore moltiplicata per cento.
E invece il già vecchio Deng azzeccò la quadra: l’accoppiata tra la continuità nel monopolio del potere politico del Partito comunista e la trasformazione dell’economia cinese da un sistema collettivista e pauperista in un capitalismo perfettamente inserito nell’economia globalizzata e finanziarizzata del XXI secolo. Chiarì perfettamente che l’apertura economica non implicava alcuna concessione politica, con la feroce repressione da lui stesso ordinata, e a tal scopo richiamato straordinariamente al potere - in una sorta di riedizione dell’epopea di Cincinnato - del movimento degli studenti di piazza Tienanmen nel cruciale 1989.
E la perfetta continuità, l’ordinata trasmissione del potere di generazione in generazione da Deng a Xi, sempre nel mantenimento della continuità ideale (non senza vistose forzature e contorsioni) con il mito di Mao, è il tratto politicamente più notevole di questa Cina che oggi celebra i 70 della nascita della Repubblica Popolare fondata dal Grande Timoniere. L’Unione Sovietica, la patria del comunismo realizzato (accusata di revisionismo dalla Cina maoista), è scomparsa nel 1991 e al suo posto e tornata l’edizione 2.0 della Russia imperiale, che, atomiche a parte, è comunque una pallida riedizione della prima e della seconda. La Repubblica popolare cinese è invece sempre lì, inossidabile e irriconoscibile. Ad attestarci che il mantenimento del potere è un collante formidabile, tanto più forte se per conservarlo si è disposti a compiere qualunque sacrificio (a cominciare dalle vite altrui). Ma d’altra parte, da sempre, in Cina chi controlla il potere detiene le ricchezze del Paese: un motivo in più per mantenere salda la presa.
Girare per le strade di Pechino o Shanghai, ma in realtà anche per i tanti altri milionari capoluoghi di provincia, e ormai da diversi lustri, offre uno spettacolo urbanistico, di mobilità e di costume lontano anni luce dalle maree di uomini e donne vestiti in pigiama blu, che a piedi e in bicicletta (o al massimo a bordo di camion e autobus sgangherati) si muovevano per andare al lavoro nei campi, in fabbrica o a scuola. La seconda dimensione più importante del cambiamento cinese è proprio quella scientifica e tecnologica: i treni superveloci, i telefonini cellulari e la rete 5G, i computer e l’impiego massiccio di robot (record mondiale) e di strumenti di videosorveglianza, i satelliti spaziali. Certo un progresso realizzato non certo senza enormi e crudeli contraddizioni e muovendosi "sulle spalle dei giganti". Eppure, ormai si tratta di un progresso di cui la Cina è anche protagonista.
Oggi la Cina si appresta a lanciare la sua sfida all’ordine incardinato sull’egemonia statunitense. Lo fa con arguzia. Cercando di modificare a suo vantaggio le politiche e le prassi di tutte le istituzioni esistenti di quell’ordine internazionale la cui legittimità contestava frontalmente fino agli anni 70 del secolo scorso.
E allo stesso tempo predisponendo le infrastrutture materiali e immateriali che dovranno fare di Pechino e della Cina il nuovo centro del mondo, e della cui logica fa parte anche la Belt and Road Initiative, destinata a unificare, e se necessario contrapporre, un Emisfero orientale (euro-asiatico-africano) all’Emisfero occidentale (le Americhe).
Tutte le strade portano a Roma, si diceva a proposito delle vie consolari e poi di quelle imperiali. Chissà come si dice in mandarino la prima parte della massima latina, perché di sicuro Roma oggi si traduce "Bejing".
Profezia è storia / 15.
L’infinito valore del «no»
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 settembre 2019)
Nella Bibbia, e nella grande letteratura, ogni tanto si incontrano pagine che hanno la stessa forza morale di una lapide. Le storie di Uria l’Ittita, della figlia di Iefte, di Agar, Dina, Rispa, Tamar, Giobbe, Abele, il servo di YHWH, il crocifisso. Spesso passiamo oltre in cerca di pagine più edificanti. Qualcuno invece prova misericordia. Si ferma, si raccoglie, ricorda, prega, piange, se ne prende cura. La storia di Nabot e della sua vigna è una di queste pagine-lapide, un monumento eretto a una vittima innocente. La vigna di Nabot è un esercizio etico, sociale, economico, spirituale che nei secoli ha generato sentimenti morali, leggi, costituzioni. Ci ha insegnato lo sdegno, ci ha fatto gridare "non è giusto!", "ah, scellerato, scellerata", "ci deve essere giustizia in questo mondo", "perché, Dio? dove sei?", "mai più". Ha migliorato l’uomo, ha migliorato Dio.
«Nabot di Izreèl possedeva una vigna vicino al palazzo di Acab. Acab disse a Nabot: "Cedimi la tua vigna; ne farò un orto, perché è confinante con la mia casa. Al suo posto ti darò una vigna migliore di quella, oppure, se preferisci, te la pagherò in denaro al prezzo che vale". Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"» (1 Re 21,1-3). Acab vede la terra di Nabot, la desidera, vuole averla per farne un orto. Parla con Nabot e gli propone un contratto. Un contratto apparentemente equo e vantaggioso, al prezzo di mercato. Ma Nabot rifiuta, in nome di un valore diverso da quello economico: quella vigna è eredità dei padri.
La Legge di Mosè aveva una legislazione speciale per la terra: «Le terre non si potranno vendere per sempre perché la terra è mia» (Lv 25,23). La terra non era una merce come le altre. Se alienata per bisogni economici, poteva essere riscattata da un parente (goel), e nell’anno giubilare tornava al vecchio proprietario. La terra ereditata dalla famiglia, poi, era sottoposta a vincoli ancora maggiori. Nabot rispetta YHWH e la sua Legge e non accetta l’offerta. Inoltre, il re gli annuncia la volontà di cambiare la destinazione d’uso di quel terreno - vuole smantellare la vigna per piantare un orto.
Nella Bibbia la vigna non è un terreno qualsiasi. È simbolo profetico dell’alleanza (Isaia), è immagine del popolo di Israele. Per queste ragioni, e magari per altre, Nabot non accetta il denaro del re. Non vende, non cede, decide che quella terra non è sul mercato. Quel bene per lui è inalienabile, è un valore non negoziabile. Non vendendo dice che la sua dignità non è in vendita.
«Acab se ne andò a casa amareggiato e sdegnato per le parole dettegli da Nabot di Izreèl, che aveva affermato: "Non ti cederò l’eredità dei miei padri!". Si coricò sul letto, voltò la faccia da un lato e non mangiò niente» (21,4). Il re Acab di fronte a quel rifiuto ha una reazione a dir poco esagerata. Entra in uno stato depressivo che ricorda quello di Elia sotto la ginestra (cap.19).
La Bibbia conosce anche le depressioni sbagliate. La crisi di Elia, generata dalla persecuzione di Gezabele, fu causa di due incontri con l’angelo e poi del sussurro dell’Oreb. Questa depressione di Acab, originata da un rifiuto legittimo, produrrà solo menzogna e morte. Chi, per compito o per vocazione, si trova ad aiutare persone in crisi deve assolutamente distinguere la depressione di Elia da quella di Acab. Hanno una fenomenologia simile, ma la natura, le ragioni e le conseguenze sono completamente diverse.
Se al posto di sua moglie Acab avesse avuto un consigliere onesto, questo gli avrebbe dovuto suggerire di accettare la realtà del rifiuto, elaborare il suo (piccolo) lutto e trovare un altro luogo per il suo orto. Ma, purtroppo per lui (e per Nabot), accanto ad Acab abbiamo sua moglie Gezabele, la figura più torbida di questa storia: «Entrò da lui la moglie Gezabele e gli domandò: "Perché mai il tuo animo è tanto amareggiato e perché non vuoi mangiare?"». Acab le racconta del rifiuto di Nabot. Allora Gezabele gli disse: «Tu governi così su Israele? Àlzati, mangia e il tuo cuore gioisca. Te la farò avere io la vigna di Nabot» (21,5-7).
In queste parole della regina rivediamo Erodiade, Lady Macbeth, e altre donne di potenti che, in quelle frequenti inversioni di ruoli,
prendono saldamente in mano la situazione e cercano rapidamente una soluzione per i mariti deboli. Una Abigail all’incontrario, un comandante Ioab al femminile.
Gezabele, forse per salvare l’onore del marito ("Tu governi così su Israele?"), in nome di una concezione di potere molto diverso da quello voluto da YHWH per i suoi re, trova la peggiore via d’uscita: «Ella scrisse lettere con il nome di Acab, le sigillò con il suo sigillo, quindi le spedì agli anziani e ai notabili della città. Nelle lettere scrisse: "Bandite un digiuno e fate sedere Nabot alla testa del popolo. Di fronte a lui fate sedere due uomini perversi, i quali l’accusino: ’Hai maledetto Dio e il re!’. Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia"» (21,8-10).
Con un solo atto vìola tre comandamenti della Legge - non uccidere, non desiderare la roba d’altri, non dare falsa testimonianza. Una immagine nitida della peggiore faccia del potere, mai scomparsa dalla terra.
In queste pagine rivive il peccato di Davide con Betsabea, quello dei due anziani che cercarono di violentare Susanna, e tutti i peccati e i delitti dei potenti che interpretano il loro potere come eliminazione della barriera che separa la loro parte dal tutto. Il vizio più profondo e tremendo del potere è pensare che non esista nessun limite invalicabile, che tutto diventi possibile.
La Bibbia ha combattuto questa idea di potere. La sua polemica verso la monarchia è una critica sistematica verso questa idea di potere come onnipotenza, che diventa immediatamente critica all’idolatria; perché ogni volta che un potente si comporta da onnipotente si auto-proclama dio. Ecco perché Gezabele è idolatra, uccide i profeti di YHWH, e uccide Nabot che aveva osato porre un limite al potere suo e del marito.
Nabot dicendo il suo no, aveva detto ad Acab: tu non sei Dio. È questa la lotta più vera tra ogni potere assoluto e Dio. I poteri assoluti combattono le religioni perché vogliono essere loro dio. E uccidono profeti e uomini giusti perché essi negano la loro divinità - Nabot nel NuovoTestamento rivive anche in Giovanni Battista, e l’uno e l’altro ci dicono che la vera ragione della loro morte non è di tipo etico né economico ma teologico, perché si oppongono all’onnipotenza dei potenti che quindi li uccidono.
In questo racconto colpisce, poi, la complicità degli "anziani e notabili" della città, silenti di fronte alla lettera della regina che esplicitamente contiene peccati e delitti - «Gli anziani e i notabili che abitavano nella sua città, fecero come aveva ordinato loro Gezabele» (21, 11). Quei notabili e quegli anziani, che fino all’attimo prima di ricevere la lettera e poi di mettere in pratica le sue raccomandazioni potevano essere persone per bene (e forse lo erano), nel momento in cui eseguono quell’ordine diventano immediatamente complici e colpevoli, al pari di Gezabele. Quante volte lo abbiamo visto e lo vediamo. La Bibbia, sottolineando questa complicità, ci dice che chi obbedisce agli ordini sbagliati dei potenti condivide la loro stessa colpa. Se è vero che chi aiuta i profeti ha la stessa ricompensa del profeta (come la vedova con Elia), è altrettanto vero che chi aiuta un potente assassino condivide la sua stessa colpa.
La Bibbia è coronata da molti, splendidi sì: quelli dei profeti, quello di Maria. Senza questi sì non avremmo avuto la storia della salvezza, non avremmo vocazioni, non avremmo alcune delle cose più sublimi sotto il sole. Nabot però ci ricorda il grande valore del no, e il disvalore dei sì sbagliati. Questo racconto è abbuiato da molti sì perversi, e illuminato da un solo no giusto. Quante persone salvano e salvano sé stesse perché hanno la forza di pronunciare un no. Potrebbero dire sì, la virtù della prudenza e il calcolo costi-benefici spingerebbero a vendere quel campo. Vedono chiaramente novantanove ragioni per vendere, e trovano quella sola ragione imprudente per dire no. Perché quella sola ragione è di un’altra qualità, vola in un’altra traiettoria, ha un altro timbro di voce nell’anima. Se fossero mancati i no dei molti Nabot della storia, se mancassero i no dei Nabot presenti ancora oggi in mezzo a noi, la terra sarebbe un luogo indegno dove vivere. I no dei Nabot sono il lievito e il sale della terra, senza di essi avremmo solo pane azzimo e sciapo.
Nabot fu ucciso: «Giunsero i due uomini perversi... Costoro accusarono Nabot davanti al popolo affermando: "Nabot ha maledetto Dio e il re". Lo condussero fuori della città e lo lapidarono ed egli morì» (21,12-13). Ecco la lapide.
Mentre Acab scende nella vigna per prenderne possesso, il profeta Elia riceve questa parola di Dio: «Su, scendi incontro ad Acab..., è nella vigna di Nabot. Poi parlerai a lui dicendo: "Così dice YHWH: Hai assassinato e ora usurpi!". Gli dirai anche: "Nel luogo ove lambirono il sangue di Nabot, i cani lambiranno anche il tuo sangue"» (21,18-19).
I profeti sono anche questo: in un mondo dove Nabot continua a essere ucciso, dove nessuno denuncia i delitti perché tutti complici e correi, loro - Elia o Natan - per vocazione gridano: "Hai assassinato". Compito meraviglioso. Ma Nabot è morto. La parola di Elia e la punizione che YHWH promette per Acab, sua moglie e la sua stirpe non riescono a far risorgere Nabot. Resta solo la sua lapide, che è lì per noi, e continua a chiamarci.
Geremia, in una delle sue pagine più belle, dà un grande messaggio profetico comprando un campo; qui Nabot ci dà un altro grande messaggio rifiutandosi di vendere un campo. Anche oggi ci sono contratti che salvano e ci sono non-contratti che salvano ancora di più.
il Il nostro capitalismo per troppo tempo è riuscito a comprare ogni vigna desiderata in cambio di denaro. Non ha trovato Nabot a dirgli di no. E il nostro pianeta sta cambiando destinazione. Ci salveremo se saremo capaci di fare del nostro tempo il tempo di Nabot. Se impareremo presto a dire di no ai nuovi potenti che oggi più che mai col loro denaro infinito si sentono onnipotenti. Perché tutta la terra è eredità: «Nabot rispose ad Acab: "Mi guardi YHWH dal cederti l’eredità dei miei padri"».
Papa. Francesco: ecco perché ho donato le reliquie di san Pietro a Bartolomeo I
di Mimmo Muolo (Avvenire, venerdì 13 settembre 2019)
In una lettera al Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Francesco spiega il motivo che lo ha indotto a consegnare nove frammenti ossei. E’ bene che Pietro stia accanto a suo fratello Andrea
È bene che i fratelli stiano insieme. Si potrebbe descrivere così la volontà espressa dal Papa in una lettera al patriarca Bartolomeo I di donare alcuni frammenti delle reliquie di san Pietro alla Chiesa di Costantinopoli. «Nella pace che nasce dalla preghiera, ho sentito che avrebbe avuto un significato importante che alcuni frammenti delle reliquie dell’Apostolo Pietro fossero poste accanto alle reliquie dell’Apostolo Andrea». Le reliquie furono consegnate da Francesco il 29 giugno scorso, al termine della Messa nella solennità dei santi Pietro e Paolo, al capo della delegazione del patriarcato, l’arcivescovo Job di Telmessos.
Ora dunque il Pontefice spiega il significato di quel gesto. «Ho creduto - ricorda infatti il Papa - che questo pensiero mi sia venuto dallo Spirito Santo, che in così tanti modi sollecita i cristiani a ritrovare quella piena comunione» per la quale Gesù aveva pregato alla vigilia della Passione. Un gesto, prosegue papa Bergoglio, «che vuole essere una conferma del cammino che le nostre Chiese hanno compiuto per avvicinarsi tra di loro: un cammino a volte impegnativo e difficile, eppure accompagnato da evidenti segni della grazia di Dio».
«Continuare questo cammino - scrive ancora il Papa a Bartolomeo I - richiede soprattutto una conversione spirituale e una rinnovata fedeltà al Signore, che vuole da parte nostra un maggiore impegno e passi nuovi e coraggiosi». Tutti gli ostacoli sul cammino dell’unità, aggiunge quindi, non devono distoglierci «dal nostro dovere e dalla nostra responsabilità di cristiani», soprattutto come pastori della Chiesa, davanti a Dio e alla storia. Ecco perché la riunificazione delle reliquie dei due fratelli apostoli «potrà essere anche un richiamo costante e un incoraggiamento perché, in questo cammino che continua, le nostre divergenze non siano più un ostacolo alla nostra testimonianza comune e alla nostra missione evangelizzatrice al sevizio della famiglia umana, che oggi è tentata di costruire un futuro puramente mondano, un futuro senza Dio».
Il Pontefice spiega infine quali sono e da dove provengono le reliquie donate. Sono frammenti che, sottolinea il Pontefice, «vennero posti in un reliquiario di bronzo con l’iscrizione Ex ossibus quae in Archibasilicae Vaticanae hypogeo inventa Beati Petri apostoli esse putantur (ossa trovate nella terra sotto la Basilica Vaticana, ritenute le ossa di San Pietro Apostolo)». Sono per la precisione nove frammenti che san Paolo VI volle conservare nella cappella privata dell’appartamento papale nel Palazzo Apostolico. Essi vennero rinvenuti nella famosa nicchia funeraria, scoperta nel 1952, accostata a un muro rosso risalente all’anno 150 e coperta di numerosi, preziosi graffiti, compreso uno di importanza fondamentale che recita, in greco «Pietro è qui».
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Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio 2020 personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Sul tema, bel sito, si cfr.:
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Video.
Francesco ai mauriziani: avete tante lingue, ma quella del Vangelo è l’amore *
Quella a Port Louis, capitale della Repubblica di Maurizio, sarà l’ultima tappa del viaggio del Papa in Africa, il 9 settembre, dopo quelle in Mozambico e Madagascar.
In un videomessaggio letto in italiano, il Papa sottolinea che “Sarà una gioia per me annunciare il Vangelo in mezzo al vostro popolo, che si distingue per essersi formato dall’incontro di diverse etnie, e che quindi gode della ricchezza di varie tradizioni culturali e anche religiose”. Anche se la Chiesa “parla tutte le lingue del mondo” ricorda Francesco, “la lingua del Vangelo è l’amore”.
Ecco il testo integrale del messaggio
Cari fratelli e sorelle di Mauritius!
È vicino ormai il viaggio apostolico che mi porterà anche sulla vostra bella Isola. Già da qui, da Roma vi rivolgo il mio saluto con tanto affetto, e dico un grande “grazie” perché so che vi state preparando da tempo a questo incontro.
Sarà una gioia per me annunciare il Vangelo in mezzo al vostro popolo, che si distingue per essersi formato dall’incontro di diverse etnie, e che quindi gode della ricchezza di varie tradizioni culturali e anche religiose.
La Chiesa Cattolica, fin dalle origini, è inviata a tutte le genti, e parla tutte le lingue del mondo. Ma la lingua del Vangelo - voi lo sapete - è l’amore. Il Signore, per intercessione della Vergine Maria, mi conceda di annunciarvi il Vangelo con la forza dello Spirito Santo, così che tutti possiate comprenderlo e accoglierlo.
Vi chiedo per favore di aumentare in questi giorni la vostra preghiera, mentre io già vi porto nel cuore e prego per voi. Grazie e a presto!
*Avvenire, 03.09.2019 (ripresa parziale, senza "video")
Riflessione.
Una nuova scommessa per la Chiesa di oggi
di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti (Avvenire, giovedì 22 agosto 2019)
Duemila anni di storia, un miliardo e trecento milioni di fedeli in continua crescita grazie alla spinta demografica dei paesi del Sud del mondo. Da un certo punto di vista, la Chiesa cattolica gode di ottima salute. Eppure, dietro la facciata rassicurante dei numeri, si odono scricchiolii allarmanti che non possono essere sottovalutati. Crollo della partecipazione religiosa nelle società più avanzate; difficoltà particolarmente forti tra i giovani e i ceti più istruiti; sensibile riduzione delle vocazioni. Sintomi eloquenti, ai quali si aggiunge la perdita di reputazione causata dagli scandali finanziari e dagli abusi sessuali.
Lo spostamento del baricentro in aree economicamente, politicamente e socialmente più arretrate è dunque una buona notizia solo a metà. In quei paesi - dove il livello istituzionale è meno evoluto e il rapporto con le persone più diretto - la Chiesa gioca su un terreno che le è più congeniale. Ma il timore è che le cose siano destinate a cambiare rapidamente anche in quei contesti. Difficile immaginare un futuro se la Chiesa rinuncia a dialogare con la parte più avanzata del mondo.
Almeno in Europa la Chiesa si trova di fronte a uno snodo generazionale senza precedenti: nella popolazione che ha meno di 30 anni, coloro che non credono semplicemente perché si sentono del tutto indifferenti e apatici rispetto alla «questione Dio» (i cosiddetti nones) sono netta maggioranza. Come se la cosa non li riguardasse, come se non riuscissero neppure a cogliere il senso della domanda: credi tu? Di Dio sembra proprio non sentirsi la necessità.
Oggetto di un discorso ormai superato, residuo di tradizioni che sconfinano nella superstizione o bandiera di fondamentalismi che sfociano nella violenza: è questo il registro in cui la questione della fede viene oggi rubricata in Europa da buona parte della popolazione, specie giovanile. Quando la generazione di chi oggi ha 70 anni e più passerà, la Chiesa europea, già assottigliata, si ritroverà con un numero assai esiguo di fedeli. C’è una questione organizzativa: la struttura della Chiesa - burocratizzata e gerarchica - appare inadatta a stare al passo con un mondo diventato veloce e plurale. Manca la consapevolezza che non è più possibile parlare dell’esperienza religiosa oggi usando lo stesso discorso di quando la fede era un’evidenza sociale.
Occorrerebbero, piuttosto, parole in cammino, che cerchino di dare voce e forma al diffuso senso di precarietà. Parole capaci di trasmettere l’esperienza della fede dove, con Michel de Certeau, «la sola stabilità è spingere il pellegrinaggio più in là», alla ricerca di nuove vie di presenza e narrazione. Ma sembra difficile, quasi impossibile, trovarle. C’è ancora spazio per la «buona novella» cristiana nel mondo di oggi? Ci può essere ancora una domanda che non trova risposta in ciò che già c’è, o nelle promesse di un progresso della scienza, della tecnica, dell’economia nel quale si ripongono ormai tutte le speranze di salvezza?
Facciamo un passo indietro. Se il messaggio del Vangelo, la buona notizia dell’amore che salva e vince la morte, è arrivato fino a noi è perché ha saputo parlare al profondo del cuore degli uomini e delle donne lungo i venti secoli che ci hanno preceduti. Riuscendo così a ispirare il modo di pensare e di vivere di intere società. Questa forza che ha attraversato la storia si è fondata su almeno tre pilastri, che sono però oggi tutti soggetti a una profonda erosione, sotto la spinta di cambiamenti storico-culturali di enorme portata.
Il primo pilastro ha a che fare con lo spinosissimo nodo dell’onnipotenza. Prendendo le distanze dalle religioni che l’avevano preceduta - nelle quali la potenza del sacro si manifestava al di là di qualunque limite -, quella cristiana è sempre stata molto attenta a evitare di farsi schiacciare dall’onnipotenza di Dio. In questo modo, essa ha potuto garantire una scansione tra ordine religioso e ordine politico, aprendo una dialettica che nel corso della storia si è rivelata straordinariamente fruttuosa. È per il fatto impensabile di essere una religione in cui è Dio che si sacrifica per l’uomo - e non viceversa - che quella cristiana ha potuto essere grembo per l’affermazione della soggettività moderna. Persino Nietzsche ha riconosciuto che proprio «grazie al cristianesimo l’individuo acquistò un’importanza così grande, fu posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare».
E tuttavia, come in altre epoche, anche oggi - dentro e fuori la Chiesa - questo «scandalo» evangelico fatica a trovare ascolto: come far capire all’uomo contemporaneo - affascinato dai miti dell’efficienza, della performance, della (onni) potenza tecnica o all’opposto attratto da una divinità a cui semplicemente sottomettersi - il significato liberatorio di un Dio che, con le parole di Hölderlin, «crea l’uomo come il mare la terra: ritirandosi»?
E che mostra la propria «potenza» incarnandosi in un bambino e facendosi appendere a una croce? Il secondo pilastro riguarda la salvezza personale, tema essenziale per ogni grande religione. Dio salva la vita di ciascuno. Nella storia del cristianesimo ci sono state, come è naturale, molte oscillazioni attorno a questo tema, in una continua tensione fra terra e cielo, corpo e anima. Con la modernità, come sappiamo, sul piano culturale il baricentro si è spostato dalla salvezza eterna al successo mondano, dalla cura dell’anima al benessere materiale. Di quale salvezza si può dunque parlare oggi, quando la tecnica arriva addirittura a immaginare di poter promettere l’«immortalità»? Il terzo pilastro tocca il tema della universalità.
La Chiesa ha sempre riconosciuto e coltivato la propria vocazione universale, consapevole della necessità di parlare a tutti. Condizione per essere chiesa, appunto, anziché setta, piccolo gruppo di duri e puri ripiegati su sé stessi e separati dal resto del mondo. Sappiamo che la relazione tra fede e ragione, ereditata dalla tradizione greca e latina, è stata di enorme importanza. Sin dall’inizio la Chiesa ha intuito che il proprio destino sarebbe stato legato a quello della ragione. Ma il problema è che nel corso degli ultimi secoli si sono modificati i termini stessi della questione. Da una parte, il restringimento alla sola dimensione strumentale (vero è ciò che è certo, e dunque ciò che funziona e realizza rapidamente le promesse) ha di molto diminuito la capacità della ragione di essere guida sicura all’agire umano. Diventata tecnica, l’ambito principio in cui la ragione sembra applicarsi è il problem solving e il suo obiettivo il superamento del limite, di ogni limite.
Così, ciò che oggi sembra unificare il mondo è il grande sistema tecno/economico che, con la sua neutralità etica e le sue pretese di controllo, vorrebbe rendere superflua la stessa questione religiosa. Ma è realistico un tale progetto? Dall’altra parte, se oggi, come dicono le stime dell’autorevole Pew Research Institute, su dieci abitanti della terra tre sono cristiani, cosa vuol dire pensarsi come «universali »? In un pianeta diventato piccolo, senza più terre da esplorare, ma dove le diverse tradizioni religiose - che pure si delocalizzano e si innestano un po’ dappertutto - hanno sedimenti ormai consolidati, come sviluppare il dialogo interreligioso?
Questione che a maggior ragione investe l’ecumenismo: quale ruolo il cattolicesimo romano può e deve giocare rispetto alle altre confessioni cristiane, numericamente più deboli ma custodi di ricchezze da rimettere in gioco, a vantaggio dei cattolici stessi e del mondo intero? In questa cornice, all’inizio del XXI secolo, la scommessa cattolica non è allora né quella di rincorrere qualcosa che starebbe davanti - la piena affermazione della modernità, con tutti i suoi successi - né di inseguire un sogno di restaurazione e rinnovata centralità - cullandosi nella nostalgia di un passato ormai perduto. Si tratta, piuttosto, di muovere i primi passi di una via nuova, recuperando la consapevolezza di avere qualcosa di inaudito da dire. Qualcosa che manca a questo tempo. Qualcosa di prezioso per il nostro futuro comune.
A proposito del documento con cui Ratzinger si congeda dalla Chiesa
Un canto del cigno triste e inopportuno
di Marcello Neri (Il Mulino, 15 aprile 2019)
Inadeguato e inopportuno, così è il recente testo di Ratzinger sulla genesi sociale e culturale degli abusi nella Chiesa cattolica. Inadeguato non solo rispetto al tema che si vuole trattare, ma anche alla logica interna che si vorrebbe perseguire. Un affastellarsi di frasi, memorie personali, giudizi, osservazioni, senza un principio argomentativo che renda coerente l’impianto. Inopportuno per i tempi, le maniere, gli esiti prodotti.
Dalla storia, in cui a diritto l’aveva fatto entrare la scelta spirituale delle sue dimissioni da pontefice romano, Ratzinger ha iniziato a uscire quasi subito dopo: troppa devota obbedienza nominale al successore e troppe parole che andavano in altra direzione.
Ratzinger, volente o nolente, ha contribuito ad alimentare il mito di un «doppio» canonicamente e teologicamente mai esistito, reso possibile solo dalla logica mediatica e dalla perfidia di coloro che hanno piegato a essa il lento declino di un uomo che per mezzo secolo ha avuto in mano le sorti della Chiesa cattolica. Fino al punto di dover riconoscere, in un momento di folgorante obbedienza ecclesiale, di non esserne stato all’altezza.
L’ultimo scritto è quello di un uomo solo con i suoi demoni e i suoi conti da regolare, senza un amico che lo consigli saggiamente di tenere per sé le annotazioni su cui è stata costruita una vera e propria campagna di delegittimazione della Chiesa cattolica (dal Vaticano II all’analisi delle ragioni strutturali da parte di Francesco degli abusi sessuali).
Non solo, ma anche lo scritto di un uomo usato da amici privi di quel rispetto e di quella devozione con i quali, come Bibbia e sapienza popolare ci insegnano, dobbiamo circondare il tempo finale dei nostri vecchi. L’ethos uscito dal Sessantotto sarà traballante, finanche scanzonato e ignaro del prezzo che avrebbe fatto pagare alle generazioni future. Ma l’ethos che ha fatto di una «senile» prova di Ratzinger un piano di battaglia per imbrattare i muri del Vaticano II e ostacolare ancora una volta il percorso intrapreso dalla Chiesa sotto la mano severa di Francesco non è altro che il risentimento della rivalsa per il potere perduto.
Entrare nel merito dell’articolo di Ratzinger è quasi imbarazzante. Mi chiedo, d’altro lato, se si possa assistere inermi all’autodistruzione di una mente che ha fatto della propria personale visione del cristianesimo lo schema di base dell’ortodossia cattolica a livello globale.
Agghiacciante la parte che elabora le ragioni della dimissione dallo stato clericale dell’abusatore comprovato. Il crimine lede la fede dogmatica e per questa ragione deve essere perseguito in maniera implacabile. Le vittime nel testo di Ratzinger non esistono, ridotte al silenzio più assordante e alla dimenticanza del non venire nominate neanche en passant. Esse sono solo lo strumento mediante il quale il perpetratore violenta l’innocenza originaria e la perfezione perpetua della fede.
In questo momento, addebitare in toto le ragioni degli abusi nella Chiesa cattolica ai processi sociali e culturali di cambiamento degli assetti relazionali tra le generazioni, le persone, i singoli e le autorità costituite è semplicemente indice di cattivo gusto - anche nel caso uno sia profondamente convinto di ciò. Non si può dire, semplicemente perché si è visto che non è vero.
Distorsioni indebite e legittimazioni improprie del potere che circola nella Chiesa non possono essere ricondotte alla caduta morale di alcuni, neanche di molti dei suoi; si tratta piuttosto - come ha ricordato poco tempo fa monsignor Heiner Wilmer, vescovo di Hildesheim - di qualcosa che appartiene al dna della Chiesa stessa e come tale va trattato.
Non a tutti è concessa una platea globale per il proprio canto del cigno. Quando questo accade si dovrebbe raccogliere presso di sé le poche forze rimaste e prendere congedo con dignità dalla Chiesa che è di tutti. Altro è stato con Ratzinger, che si è lasciato avvincere da ancestrali paure e da una vendicatività di basso profilo, a uso e consumo di una combriccola di filibustieri che non provano un briciolo di sentimento per lui.
Che «un Dio che inizia con noi una storia d’amore e vuole includere in essa tutta la creazione» sia l’orizzonte ultimo da cui prende le mosse questo testo, così come esso si è prodotto e con gli effetti intenzionali che ha messo in circolo, è la piegatura drammatica del canto del cigno di Ratzinger.
Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli
di Papa Francesco *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero. Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato - un’ipotesi
storica -, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16).
Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
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PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE -Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2019 (ripresa parziale).
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA" *
Il caso.
Il cardinale Müller pubblica un "Manifesto della fede" senza citare il Papa
Il porporato spiega il documento come una risposta a quella che definisce la crescente confusione dottrinaria. Il testo diffuso per primo dal sito web Usa che diede risalto alle accuse di Viganò
di Mimmo Muolo (Avvenire, domenica 10 febbraio 2019)
Un elenco ragionato di alcune verità della fede cattolica, tratte dal Catechismo. Si presenta così il “Manifesto della fede” scritto dal cardinale Gerhard Ludwig Müller (fino al 2017 prefetto della Congregazione per la dottrina delle fede), diffuso sabato da un sito web Usa (che diede voce alle accuse rivolte al Pontefice da monsignor Carlo Maria Viganò) e nel quale diversi commentatori hanno voluto vedere (forse troppo frettolosamente?) un attacco a Francesco, mai citato. L’estensore del documento esordisce affermando che «dinanzi a una sempre più diffusa confusione nell’insegnamento della fede, molti vescovi, sacerdoti, religiosi e laici della Chiesa cattolica mi hanno invitato a dare pubblica testimonianza verso la Verità della rivelazione». Nei successivi cinque punti in cui è articolato il “Manifesto” (più un appello finale), vengono toccati altrettanti argomenti fondamentali: «Dio uno e trino, rivelato in Gesù Cristo; la Chiesa; l’ordine sacramentale; la legge morale; e la vita eterna».
«L’epitome della fede di tutti i cristiani risiede nella confessione della Santissima Trinità - scrive il cardinale -. La differenza delle tre persone nell’unità divina segna una differenza fondamentale rispetto alle altre religioni. Riconosciuto Gesù Cristo, i fantasmi scompaiono. Egli è vero Dio e vero uomo. Il Verbo fatto carne, il Figlio di Dio è l’unico Salvatore del mondo e l’unico mediatore tra Dio e gli uomini». Perciò «è con chiara determinazione che occorre affrontare la ricomparsa di antiche eresie che in Gesù Cristo vedevano solo una brava persona, un fratello e un amico, un profeta e un esempio di vita morale». Anche il Papa mette spesso in guardia dalla ricomparsa di antiche eresie (il pelagianesimo, ad esempio) e fin dall’inizio del Pontificato ha detto che una Chiesa senza la Croce corre il rischio di diventare una Ong.
A proposito della Chiesa, Müller ricorda che «Gesù Cristo ha fondato la Chiesa come segno visibile e strumento di salvezza, che sussiste nella Chiesa cattolica» e che «diede alla sua Chiesa, che “è nata dal cuore trafitto di Cristo morto sulla croce”, una struttura sacramentale che rimarrà fino al pieno compimento del Regno».
Quanto all’ordine sacramentale, «la Chiesa è in Gesù Cristo il sacramento universale della salvezza». Dunque, scrive il porporato, «non è un’associazione creata dall’uomo, la cui struttura può essere modificata dai suoi membri a proprio piacimento». Il riferimento è anche all’Eucaristia, «fonte e culmine di tutta la vita cristiana» e alle condizioni per riceverla in modo degno. Chi è in peccato grave deve prima accedere alla confessione. «Dalla logica interna del sacramento - afferma il prefetto emerito dell’ex Sant’Uffizio - si capisce che i divorziati risposati civilmente, il cui matrimonio sacramentale davanti a Dio è ancora valido, come anche tutti quei cristiani che non sono in piena comunione con la fede cattolica e pure tutti coloro che non sono debitamente disposti, non ricevano l’Eucaristia». Müller infine invita i pastori a ricordare anche le verità ultime della fede, la vita eterna e il giudizio dopo la morte con «la terribile possibilità che una persona, fino alla fine, resti in contraddizione con Dio: rifiutando definitivamente il Suo amore, essa “si dannerà immediatamente per sempre”». «Tacere su queste e altre verità di fede oppure insegnare il contrario è il peggiore inganno contro cui il Catechismo ammonisce vigorosamente», conclude il porporato.
La carità è una e ha più forme
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 10 febbraio 2019)
Confusione e divisione nella Chiesa sono due termini ricorrenti nei media, che spesso travisano quanto accade nella vigna del Signore. Il testo diffuso sabato 9 febbraio a firma del cardinal Gerhard Müller mi sembra un contributo alla riflessione aperto a successivi approfondimenti per la fede dei credenti, eppure è stato presentato come un intervento, anzi un vero e proprio "manifesto della fede", contro il magistero del Papa e, dunque, contro l’unità della Chiesa. Un’operazione grave e greve.
Parafrasando il beato Antonio Rosmini potremmo dire che nel testo pubblicato ieri da alcuni siti internet di vari Paesi si cerca di declinare la carità intellettuale/dottrinale in conflitto con quella che lo stesso Rosmini denomina «carità pastorale», culmine delle tre forme di carità: temporale (per i bisogni immediati), intellettuale (per la sete di verità), pastorale (per il dono di sé incondizionato). Ora se il cardinale teologo esercita la seconda di queste forme in maniera autentica, non può in nessun modo contrapporsi alla forma suprema di carità, che il Vescovo di Roma esprime nell’oggi della storia.
Ricordare la dottrina, purché non si intenda ritenere che il cristianesimo sia esclusivamente "dottrinale", è un servizio per tutta la Chiesa. Esercitare il servizio della carità pastorale è imprescindibile e necessario in un mondo in cui i gesti valgono più delle parole e i fatti più delle teorie.
La Chiesa di oggi non ha alcun bisogno di divisioni e di contrapposizioni, ma di concordia e di unità: quella unità di cui il Papa è segno. Nonostante una minuscola, ma insistente, campagna di deliberato fraintendimento, le verità della Rivelazione che Müller richiama trovano serena espressione nel magistero dell’attuale pontefice, anche in materia "morale" e in particolare per quanto riguarda la logica sacramentale e il rapporto fra i sacramenti dell’eucaristia e del matrimonio.
A questo riguardo il cardinale scrive: «Dalla logica interna del sacramento si capisce che i divorziati risposati civilmente, il cui matrimonio sacramentale davanti a Dio è ancora valido, come anche tutti quei cristiani che non sono in piena comunione con la fede cattolica e pure tutti coloro che non sono debitamente disposti, non ricevano la santa Eucaristia fruttuosamente, perché in tal modo essa non li conduce alla salvezza. Metterlo in evidenza corrisponde a un’opera di misericordia spirituale». Né va dimenticato che, in un testo particolarmente significativo a tale riguardo, Müller aveva affermato: «Se il secondo legame fosse valido davanti a Dio, i rapporti matrimoniali dei due partner non costituirebbero nessun peccato grave, ma piuttosto una trasgressione contro l’ordine pubblico ecclesiastico, quindi un peccato lieve». E tutto ciò è in perfetta coincidenza con il dettato dell’Amoris laetitia.
La confusione e la divisione sono l’arma diabolica utilizzata non da uomini di Chiesa, autenticamente in ricerca e animati dalle migliori intenzioni, ma da vecchi e nuovi media propensi al sensazionalismo, lobby laiciste e manipoli di ipercritici "interni" che sembrano non avere altro interesse che il discredito su quanto lo Spirito opera nell’attuale momento che la Chiesa cattolica vive. Ecco perché il nostro cuore e la nostra mente non sono affatto turbati da simili operazioni (Gv 14,1), in quanto radicati nella convinzione che la comunità ecclesiale non è, nemmeno in questi anni, guidata da un uomo, ma dallo Spirito, perché:
«La Chiesa ha in sé del divino e dell’umano. Divino è il suo eterno disegno; divino il principal mezzo onde quel disegno viene eseguito, cioè l’assistenza del Redentore; divina finalmente la promessa che quel mezzo non mancherà mai, che non mancherà mai alla santa Chiesa e lume a conoscere la verità della fede, e grazia a praticarne la santità, e una suprema Providenza che tutto dispone in sulla terra in ordine a lei. Ma dopo ciò, oltre a quel mezzo principale, umani sono altri mezzi che entrano ad eseguire il disegno dell’Eterno: perciocché la Chiesa è una società composta di uomini, e, fino che sono in via, di uomini soggetti alle imperfezioni e miserie dell’umanità. Indi è che questa società, nella parte in cui ella è umana, ubbidisce nel suo sviluppamento e nei suoi progressi a quelle leggi comuni che presiedono all’andamento di tutte le altre umane società. E tuttavia queste leggi, a cui le umane società sono sommesse nel loro svolgersi, non si possono applicare interamente alla Chiesa, appunto perché questa non è una società al tutto umana, ma in parte divina» (Antonio Rosmini, Delle cinque piaghe della Santa Chiesa). E in essa la verità si fa nella carità, ovvero nell’unità (cf Ef 4,15).
Professore ordinario di Teologia fondamentale
Sul tema, nel sito, si cfr.:
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DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Oggi sarà una giornata eccezionale
Nel ricordo di un testimone *
di L’Osservatore Romano, 24 gennaio 2019
Uno dei pochi testimoni ancora in vita è Guido Gusso - in quel periodo “aiutante di camera” del Papa - che accompagnò Giovanni XXIII a San Paolo e assistette allo storico annuncio.
Ci racconta cosa è successo quel giorno?: una giornata eccezionale, nel ricordo di un testimone.
Ricordo proprio bene quel giorno, il 25 gennaio 1959. Ho dato una mano al Santo Padre a mettersi i paramenti, cioè il rocchetto e la mozzetta. E lui mi ha detto: «Guido, prendi il rocchetto più bello perché oggi sarà una giornata eccezionale, ché dovrò dare un grande annuncio». Allora ho messo a posto tutto, il mantello rosso, il cappello rosso e siamo scesi per prendere l’auto.
Guidava lei?
La portava il cavalier Angelo Stoppa, che era l’autista di Papa Pacelli. Durante il percorso, il Papa si era come assorto, non parlava. Normalmente, lui parlava sempre... ma quel giorno, quella mattina, tutto in silenzio. Siamo arrivati a San Paolo, c’è stata la cerimonia, e poi ha invitato tutti i cardinali ad andare nella “saletta”, una piccola aula. E là mi sono fermato anch’io, perché avevo il cappello, il mantello e la borsa. E lui ha annunciato che avrebbe fatto un sinodo, il Sinodo romano, che il Sinodo sarebbe quello per i preti. Già a Venezia l’aveva fatto, perché io stavo a Venezia con lui. Poi, dopo aver parlato un po’ del Sinodo disse: «Vi debbo dare un grande annuncio: indirò un Concilio». Al momento c’è stato un «ohhhhh!», e poi un silenzio di tomba. Nessuno ha più parlato. E poi c’è stato un brontolio generale... Lui ha spiegato... e poi ha detto anche che doveva fare un’altra cosa...
La riforma del Codice.
La riforma del Codice, ecco. Ha spiegato un po’, e tutti sono andati via, ognuno per conto suo. Il Papa è salito in macchina, serio. E disse: «Non l’hanno presa bene: questa cosa del Concilio a nessuno gli garbava». E basta. Poi siamo tornati a casa. Allora, in camera da letto, mentre si levava il rocchetto, la mozzetta e tutti i paramenti che aveva addosso, io gli chiesi: «Santità, io sono ignorante, non so che cosa sia questo Concilio». «Eh - diceva - come non lo sai?». «No - dissi - ma mi consola che quel cardinale che stava vicino a me ha chiesto al suo collega: “Di’ un po’, ma che è ‘st’affare del Concilio, che non so che cosa sia?”». Allora lui, con pazienza, mi ha fatto sedere nel suo studio e mi ha spiegato i Concili, incominciando dai primi Concili che facevano all’epoca, mi pare secondo o terzo secolo, per arrivare poi al Concilio di Trento e all’ultimo, il concilio Vaticano I, che poi è stato sospeso, perché c’è stata la presa di Roma con Pio IX.
Quindi, alla fine, quel giorno lui era contento o no?
Era contento, altroché contento! È stata un’ispirazione, diceva: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi». Questo era quello che voleva.
E si è meravigliato della reazione dei cardinali?
No... Lo sapeva... Mi ha detto: «Già incominciano a tirarmi le pietre. Stai attento, tu, nella vita ti può capitare come capita a me, che mi tirano i sassi. Non raccattarli, eh?». Era buono, era buono. E posso dire, dopo sessant’anni ci voleva un argentino come Francesco per valorizzare e dare impulso al grande Concilio fatto. È stato grande Paolo VI che l’ha portato avanti, perché credo che chiunque altro avrebbe messo da parte tutto.
Cos’altro disse durante il viaggio di ritorno in Vaticano?
Non ha detto «a»; non ha detto «a». Solo qualche parola con monsignor Capovilla. Però, posso dire che lui per il Concilio ha dato la vita. Poi, l’11 ottobre è stato grandioso: l’apertura, era contento! Lui sperava di poterlo anche chiudere. Purtroppo è morto, per un brutto male. Ha sofferto molto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
COME IL BUON-GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").... *
Messaggio.
Il Papa: ecco la Rete che vogliamo. Per liberare, non intrappolare
Oggi, memoria di san Francesco di Sales, pubblicato il Messaggio di papa Francesco per la Giornata mondiale delle Comunicazioni Sociali che sarà celebrata il 2 giugno
di Gianni Cardinale (Avvenire, giovedì 24 gennaio 2019)
Internet «rappresenta una possibilità straordinaria di accesso al sapere», ma è anche «uno dei luoghi più esposti alla disinformazione e alla distorsione consapevole e mirata dei fatti e delle relazioni interpersonali, che spesso assumono la forma del discredito». La rete poi «è un’occasione per promuovere l’incontro con gli altri», ma «può anche potenziare il nostro autoisolamento, come una ragnatela capace di intrappolare». Ecco quindi che il web deve essere fatto non «per intrappolare, ma per liberare».
Lo scrive papa Francesco nel Messaggio, diffuso oggi, per la 53ma Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali che quest’anno si celebra, in molti Paesi, domenica 2 giugno, Solennità dell’Ascensione del Signore.
Il Messaggio del Pontefice è pubblicato come da tradizione nel giorno in cui la Chiesa celebra la memoria liturgica di san Francesco di Sales, patrono dei giornalisti. Ed ha come titolo «’Siamo membra gli uni degli altri’ (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana» (IL TESTO INTEGRALE).
Nel testo il Pontefice denuncia l’uso dei social per fomentare "spirali di odio" e "ogni tipo di pregiudizio", nonché i rischi del cyberbullismo, del narcisismo e dell’autoisolamento che porta al fenomeno degli "eremiti sociali". Papa Francesco inoltre ribadisce che la rete deve fondarsi "sulla verità" e non "sui like".
Per Papa Francesco «le reti sociali, se per un verso servono a collegarci di più, a farci ritrovare e aiutare gli uni gli altri, per l’altro si prestano anche ad un uso manipolatorio dei dati personali, finalizzato a ottenere vantaggi sul piano politico o economico, senza il dovuto rispetto della persona e dei suoi diritti». Senza contare che «tra i più giovani le statistiche rivelano che un ragazzo su quattro è coinvolto in episodi di cyberbullismo».
Usando la metafora della rete come comunità, il Pontefice osserva come «nello scenario attuale, la social network community non sia automaticamente sinonimo di comunità». Infatti «nei casi migliori le community riescono a dare prova di coesione e solidarietà, ma spesso rimangono solo aggregati di individui che si riconoscono intorno a interessi o argomenti caratterizzati da legami deboli».
Come ritrovare allora «la vera identità comunitaria nella consapevolezza della responsabilità che abbiamo gli universo gli altri anche nella rete online?».
Una possibile risposta, scrive papa Francesco, «può essere abbozzata» a partire da un’altra metafora, quella del corpo e delle membra, che san Paolo usa nella Lettera agli Efesini «per parlare della relazione di reciprocità tra le persone, fondata in un organismo che le unisce». Infatti «l’essere membra gli uni degli altri è la motivazione profonda, con la quale l’Apostolo esorta a deporre la menzogna e a dire la verità: l’obbligo a custodire la verità nasce dall’esigenza di non smentire la reciproca relazione di comunione».
Per il Pontefice «l’immagine del corpo e delle membra ci ricorda che l’uso del social web è complementare all’incontro in carne e ossa, che vive attraverso il corpo, il cuore, gli occhi, lo sguardo, il respiro dell’altro». Così quando «la rete è usata come prolungamento o come attesa di tale incontro, allora non tradisce se stessa e rimane una risorsa per la comunione». Quando «una famiglia usa la rete per essere più collegata, per poi incontrarsi a tavola e guardarsi negli occhi, allora è una risorsa». Quando «una comunità ecclesiale coordina la propria attività attraverso la rete, per poi celebrare l’Eucaristia insieme, allora è una risorsa». Quando “la rete è occasione per avvicinarmi a storie ed esperienze di bellezza o di sofferenza fisicamente lontane da me, per pregare insieme e insieme cercare il bene nella riscoperta di ciò che ci unisce, allora è una risorsa”.
La «rete che vogliamo» conclude papa Francesco è «la strada al dialogo, all’incontro, al sorriso, alla carezza...». Una rete insomma «non fatta per intrappolare, ma per liberare, per custodire una comunione di persone libere». E la Chiesa stessa «è una rete tessuta dalla comunione eucaristica, dove l’unione non si fonda sui ‘like’, ma sulla verità, sull’’amen’, con cui ognuno aderisce al Corpo di Cristo, accogliendo gli altri».
Il Messaggio del Pontefice ha raccolto il plauso di Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione della Stampa: "È un’esortazione e un invito alla riflessione".
Vedi anche: Ecco la nuova App Cei per restare informati sulla vita della Chiesa e non solo
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.
Federico La Sala
Il cielo si apre
Siamo tutti figli di Dio nel Figlio
di Ermes Ronchi ( Avvenire, giovedì 10 gennaio 2019)
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il Battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
«Viene dopo di me colui che è più forte di me". In che cosa consiste la forza di Gesù? Lui è il più forte perché parla al cuore. Tutte le altre sono voci che vengono da fuori, la sua è l’unica che suona in mezzo all’anima. E parla parole di vita. «Lui vi battezzerà...» La sua forza è battezzare, che significa immergere l’uomo nell’oceano dell’Assoluto, e che sia imbevuto di Dio, intriso del suo respiro, e diventi figlio: a quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio (Gv 1,12). La sua è una forza generatrice («sono venuto perché abbiano la vita in pienezza», Gv 10,10), forza liberante e creativa, come un vento che gonfia le vele, un fuoco che dona un calore impensato. «Vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Il respiro vitale e il fuoco di Dio entrano dentro di me, a poco a poco mi modellano, trasformano pensieri, affetti, progetti, speranze, secondo la legge dolce, esigente e rasserenante del vero amore. E poi mi incalzano a passare nel mondo portando a mia volta vento e fuoco, portando libertà e calore, energia e luce. Gesù stava in preghiera ed ecco, il cielo si aprì. La bellezza di questo particolare: il cielo che si apre. La bellezza della speranza! E noi che pensiamo e agiamo come se i cieli si fossero rinchiusi di nuovo sulla nostra terra. Ma i cieli sono aperti, e possiamo comunicare con Dio: alzi gli occhi e puoi ascoltare, parli e sei ascoltato.
E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». La voce annuncia tre cose, dette per Gesù e per ciascuno di noi: “Figlio” è la prima parola: Dio è forza di generazione, che come ogni seme genera secondo la propria specie. Siamo tutti figli di Dio nel Figlio, frammenti di Dio nel mondo, specie della sua specie, abbiamo Dio nel sangue e nel respiro.
“Amato” è la seconda parola. Prima che tu agisca, prima di ogni merito, che tu lo sappia o no, ogni giorno ad ogni risveglio, il tuo nome per Dio è “amato”. Immeritato amore, incondizionato, unilaterale, asimmetrico. Amore che anticipa e che prescinde da tutto.
“Mio compiacimento” è la terza parola. Che nella sua radice contiene l’idea di una gioia, un piacere che Dio riceve dai suoi figli. Come se dicesse a ognuno: figlio mio, ti guardo e sono felice. Se ogni mattina potessi immaginare di nuovo questa scena: il cielo che si apre sopra di me come un abbraccio, un soffio di vita e un calore che mi raggiungono, il Padre che mi dice con tenerezza e forza: figlio, amore mio, mia gioia, sarei molto più sereno, sarei sicuro che la mia vita è al sicuro nelle sue mani, mi sentirei davvero figlio prezioso, che vive della stessa vita indistruttibile e generante.
(Letture: Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 103; Tito 2,11-14;3,4-7; Luca 3, 15-16.21-22).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE: LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO .... *
«L’omelia del ’78 di Ratzinger:
Un mondo senza dolore non è umano»
«Ecco perche Marx aveva torto». Il tempo di Natale: Dio ha scelto di condividere con gli uomini il peso della vita
di Joseph Ratzinger (Corriere della Sera, 27.12.2018)
«Consolate, consolate il mio popolo!» (Is 40,1). Questo abbiamo appena ascoltato dalla voce del profeta Isaia. Queste grandi, antiche parole di speranza e di fiducia del popolo d’Israele, toccano sempre di nuovo il cuore. All’interno della storia dei profeti suonavano nuove: all’inizio, al tempo dei Re - a partire da Elia e, passando per Amos, Osea e Michea, fino a Isaia e Geremia - i profeti erano stati soprattutto ammonitori duri ed esigenti che, a difesa della causa dei dimenticati, delle vedove, degli orfani e dei poveri, scuotevano la coscienza degli ipocriti, potenti e sicuri di sé con la loro giustizia esteriore. Si ascoltavano parole inquietanti e sconvolgenti come queste: «Le vostre feste, le vostre preghiere non le posso più sentire, non posso più sopportare l’odore del vostro incenso. Il digiuno che voglio è piuttosto rendere giustizia all’orfano e alla vedova» (cfr. Is 1,11-17).
Geremia
Alla fine della lunga serie di ammonitori che scuotono, sta Geremia, il quale, contro l’ostinato nazionalismo che vuole appropriarsi di Dio e strumentalizzarlo, si leva con le ragioni della fede e diviene martire. Seguì il grande silenzio dell’esilio babilonese. Ma dopo settant’anni, dopo che Israele era stato schiacciato e sembrava quasi cancellato, si sente questa voce del tutto nuova! «Basta soffrire. La grande potenza, che vi ha deportato, non c’è più». Si riaprono le porte della patria. La steppa si muta in strada e ora i calpestati, i vinti, alla fine sono i veri vincitori. Dio si è ricordato di loro, ed egli è più potente delle grandi potenze di questo mondo, anche se è lui a scegliere il momento nel quale intervenire. «Consolate il mio popolo!». Dio non dimentica i sofferenti, ma li ama e li solleva.
Il cuore
Per quanto questo ci commuova e ci tocchi il cuore, permane in noi una qualche obiezione o perlomeno una domanda: questa consolazione non è troppo lontana nel tempo? E non ha forse ottenuto troppo poco? Ben presto Israele stesso è caduto di nuovo in disgrazia. E se oggi osserviamo il mondo, non mancano immagini di desolazione che ci toccano. Proprio quando vediamo come domini in mezzo ai popoli benestanti la desolazione, tanto più ci domandiamo: «Signore, dov’è la tua consolazione?». Ma forse tanto più comprendiamo che abbiamo bisogno della Chiesa, che con piena autorità oggi può pronunciare nel nome del Signore le parole di allora: «Consolate il mio popolo!». È lei che dà la vera consolazione.
Storia della salvezza
La Chiesa, nel corso del suo anno liturgico, ripercorre l’intera storia della salvezza. Per molte settimane si presenta a noi con l’atteggiamento di Osea o di Elia: e cioè ammonendoci, scuotendoci, esortandoci, volendo strapparci dal nostro egoismo, dalla nostra avidità, dal nostro autocompiacimento. Ma nell’Avvento giunge l’ora del Dio buono, del Dio che consola. Diviene evidente che la Chiesa non è solo un’agenzia morale, un’organizzazione umanitaria, che essa non esige solo il rispetto di vari precetti, indica bisogni e pone richieste, ma che è lo spazio della grazia, in cui Dio le va incontro soprattutto come colui che dona e che dà. Ma dove si trova questa consolazione? Dio come consola in realtà?
Luce e fede
Il primo livello consiste nel fatto che siamo chiamati. Egli desidera che irradiamo la luce della fede che ha posto nei nostri cuori e così riscaldiamo il mondo. Egli vuole consolare attraverso di noi e ci fa sapere che egli ama in particolar modo proprio gli afflitti, gli sconsolati, che s’identifica con loro e in essi attende noi e la nostra bontà. Il nome dello Spirito Santo è «Consolatore». Dio ci aiuta nello Spirito Santo tanto più quanto più siamo uomini che consolano, uomini di una bontà che consola. Questo significa anche che noi non dobbiamo essere come quelli per i quali la piccola consolazione della vita quotidiana è troppo poco e che dicono: no, questo sistema deve essere trasformato, abbiamo bisogno di un mondo nel quale la consolazione non sia più necessaria; ovvero, come ha detto Brecht esasperando il concetto: «Vogliamo un mondo nel quale non ci sia più bisogno di amore». Un mondo così, però, nel quale non c’è più bisogno di consolazione, sarebbe un mondo desolato; un mondo in cui l’amore non fosse più necessario, perché il sistema provvede già a tutto, sarebbe un mondo disumano. Dio vuole consolare attraverso di noi.
Solo parole
Ma invece, di continuo si solleva il sospetto che siano solo parole, promesse consolatorie. Chiediamoci allora: che cosa avviene quando un uomo consola un bambino a cui è morta la mamma? Non può annullare quella morte, non può cancellare il dolore da essa provocato, non può magicamente trasformare il mondo con ciò che esso ha di triste. Può però entrare nella solitudine generata dall’amore distrutto, che è l’autentico motivo del dolore, come uno che condivide il dolore e dà amore. Così, pur non potendo cancellare l’accaduto, non è un parolaio; se penetra, amando, nella solitudine dell’amore perduto, trasforma dall’interno, sana all’origine, sana l’essenziale. E non c’è alcun dubbio che, se egli veramente condivide il dolore e dà amore, allora le sue non saranno solo parole.
Cambiare il sistema
Dio non ha operato - come noi sogneremmo e come poi Karl Marx ha gridato a gran voce al mondo - in modo da far scomparire il dolore e cambiare il sistema, così che non ci sia più bisogno di consolazione. Questo significherebbe toglierci l’umanità. Ed è quello che nel segreto desideriamo. Sì, essere uomini ci è troppo pesante. Ma se ci venisse tolta la nostra umanità, smetteremmo di essere uomini e il mondo diverrebbe disumano. Dio non ha operato così. Ha scelto un modo più sapiente, più difficile, da un certo punto di vista, ma proprio per questo migliore, più divino. Egli non ci ha tolto la nostra umanità, ma la condivide con noi. Egli è entrato nella solitudine dell’amore distrutto come uno che condivide il dolore, come consolazione. Questo è il modo divino della redenzione. Forse possiamo capire nel modo migliore che cosa significhi cristianamente redenzione a partire da qui: non trasformazione magica del mondo, non che ci viene tolta la nostra umanità, ma che siamo consolati, che Dio condivide con noi il peso della vita e che ormai la luce del suo condividere l’amore e il dolore sta per sempre in mezzo a noi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. La lezione di Pirandello a Benedetto XV e a Benedetto XVI
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
L’esilio e la promessa...
Ricordare è verbo di futuro
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 1 dicembre 2018)
Sono i segni religiosi quelli che più incidono la terra e dicono il carattere di una cultura. Templi, altari, edicole, croci, steli separano nel territorio il sacro dal profano, rivelano e danno nomi e vocazioni alle terre, trasformano gli spazi in luoghi. La terra porta iscritte nelle sue ferite i nostri vizi e le nostre virtù. Accoglie mite le nostre tracce, si lascia, mansueta, associare alle nostre sorti, e con una sua misteriosa e reale reciprocità comunica con noi. Tra le note della profezia c’è anche la capacità di interpretate il linguaggio della creazione, di raccontarcelo, di parlare al nostro posto e in nostro nome. Cosa direbbero, oggi, i profeti di fronte piaghe che stiamo producendo nel nostro pianeta? Quali parole di fuoco pronunzierebbero di fronte alle nostre "alture" popolate di idoli? Come profetizzerebbero davanti alle nostre miopie e ai nostri egoismi collettivi? Forse griderebbero, comporrebbero nuovi poemi, canterebbero, cantano, Laudato si’.
«Mi fu quindi rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell’uomo, volgiti verso i monti d’Israele e profetizza contro di essi: Monti d’Israele, udite la parola del Signore Dio. Così dice il Signore Dio ai monti e alle colline, alle gole e alle valli: Ecco, manderò sopra di voi la spada e distruggerò le vostre alture"» (Ezechiele 6,1-3). Ezechiele profetizza contro i monti, resi complici innocenti delle infedeltà del popolo. Quelle colline, quelle valli e gole sono anche simbolo di quella creazione che "geme" in attesa di esseri umani suoi degni custodi. Sono gli animali, piante, suolo e sottosuolo, oceani e mari, che ogni giorno, e ogni giorno di più, subiscono le conseguenze della trasformazione della nostra vocazione da accudimento in tirannia. I profeti parlano anche per loro e al loro posto - ancora in mezzo tra terra e uomo, tra uomini e cielo, mediatori inchiodati su croci come messaggi di carne.
Fn dal suo primo insediamento in Caanan, il popolo di Israele ha sentito costantemente la seduzione dei culti cananei. Forte era il fascino di quegli dèi semplici, naturali, scanditi dai ritmi e dalle immagini della fertilità, e che si potevano vedere, raffigurare, toccare, ha avvertito la tentazione della loro prostituzione sacra che, sulle alture, offriva vie immediate di unione con le divinità. E se non ci fossero stati i profeti, YHWH, il nome del loro Dio diverso e unico, con il passare del tempo sarebbe diventato uno dei tanti nomi uno dei tanti dèi dei molti pantheon dei popoli vicini e vincitori. I profeti sono amici di Dio e amici dell’uomo, che ripetono: l’uomo è diverso perché Dio è diverso. Tengono alto e trascendente Dio per tenere più alto possibile l’uomo, per non ridurlo a consumatore-consumato di idoli manufatti. I profeti fanno sì che la naturale contaminazione che una fede riceve dall’incontro con gli altri popoli, non superi una soglia critica e faccia perdere il filo rosso dell’alleanza e dell’anima collettiva.
Senza il contagio religioso con Babilonia, con l’Egitto e coi popoli cananei, non avremmo molte pagine, bellissime, della Bibbia. Ma se quella fertilizzazione mutua fosse entrata nelle midolla e nel cuore della Promessa, del Sinai, della Legge e del Patto, quel popolo diverso dalla fede diversa sarebbe stato riassorbito nelle religioni naturali del Vicino Oriente. Il profeta è sentinella anche perché suona la tromba e dà l’allarme quando la contaminazione supera il punto critico e diventa assimilazione e sincretismo. E sa che c’è un luogo dove queste contaminazioni non possono e non devono entrare: il tempio, il luogo che custodisce la nostra storia più intima, l’altare del patto, il cuore del nostro nome. E, come conseguenza, il popolo di Israele non deve entrare nei templi degli altri popoli e adorare le loro divinità. Non solo perché quei popoli sono adoratori di idoli (Israele non ha sempre pensato che tutti gli altri dèi fossero idoli), ma perché il giorno che un popolo inizia a entrare e pregare in più di un tempio sta dicendo che, in fondo, non crede davvero a nessun dio (come quell’uomo che dicendo "ti amo" a più di una donna, in realtà sta dicendo che non ne ama davvero nessuna). Ecco perché la lotta dei profeti ai santuari delle alture ci dice, in poesia, cose molto serie - la poesia dice sempre cose molto serie.
Quando, ad esempio, le comunità nate da un carisma attraversano grandi crisi, la tentazione non sta l’eliminazione o la cancellazione del "Dio" della prima alleanza, ma nell’introduzione nel proprio tempio di altre divinità che iniziano ad affiancarsi al primo "culto". Si importano preghiere, canzoni, pratiche più vicine allo spirito del tempo, più semplici e comprensibili, che rispondono meglio ai gusti dei "consumatori". Entro un certo limite, questi arrivi possono aiutare e arricchire. Ma se queste pratiche estranee entrano dentro "il tempio", e se noi iniziamo a frequentare i templi degli altri senza distinguerli più dal nostro, la contaminazione inizia a minare il patto e la promessa; e arriverà presto il giorno in cui ci troveremo a parlare con il nostro primo Dio in templi tutti uguali, e non accadrà più nulla - molte crisi esistenziali, individuali e comunitarie, nascono da operazioni di affollamento del luogo del primo incontro, che diventa così fitto da non riuscire vedere né udire più nulla.
Ma i santuari e i templi erano anche i luoghi dei sacrifici di animali e di bambini. Dietro alla critica dei culti cananei e babilonesi c’è sempre, nei profeti grandi, la critica all’uso del sacrificio come moneta per commerciare con un Dio commerciante.
La polemica durissima dei profeti contro l’oro e l’argento, non è una critica economica né etica al denaro usato per i commerci umani; è una critica teologica e quindi antropologica, è una condanna ad una visione economica della fede e quindi della vita.
L’oro è pericolosissimo perché diventa il materiale con cui si fabbricano gli idoli: le statuette di Baal o di Astarte ieri, oggi i prodotti e i beni che, come nuovi idoli, ci vendono una sottospecie di eterna giovinezza. Più oro si possiede più grande è il prezzo che possiamo pagare per i nostri sacrifici.
I ladri che profanano il luogo santo non sono allora ladri di cose o di denaro; sono ladri religiosi, che sottraggono all’uomo la sua dignità e lo riducono a servo di idoli: «Getteranno l’argento per le strade e il loro oro si cambierà in immondizia, con esso non si sfameranno, non si riempiranno il ventre... Della bellezza dei loro gioielli fecero oggetto d’orgoglio e fabbricarono con essi le abominevoli statue dei loro idoli. Per questo li tratterò come immondizia... Sarà profanato il mio tesoro [tempio], vi entreranno i ladri e lo profaneranno» (7,19-22). Il denaro e l’oro sono immondizia quando non sono usati per vivere ma per fabbricare ogni sorta di idolo. Questa natura profonda delle ricchezze si rivela in pienezza soltanto alla fine («Viene la fine, viene la fine su di te»: 7,6).
Alla fine della vita, quando sarà evidente la differenza radicale tra le ricchezze (materiali e non) che abbiamo usato per sfamare e sfamarci, e le altre che abbiamo usato per creare o comprare idoli venditori di illusioni. Oppure nelle altre "fini", quando dentro una grossa crisi, malattia, depressione, capiamo che potremo ricominciare solo se impariamo a riconoscere altre ricchezze che ancora non abbiamo visto, in noi e attorno a noi.
Al centro di queste parole durissime che il profeta alza contro le alture, gli idoli e le infedeltà del popolo, ci raggiunge come raggio di sole aurorale un altro brano di teologia del resto (la Bibbia potrebbe essere raccontata come storia del resto fedele): «Tuttavia farò sopravvivere in mezzo alle nazioni alcuni di voi scampati alla spada, quando vi disperderò nei vari paesi. I vostri scampati si ricorderanno di me fra le nazioni in mezzo alle quali saranno deportati ... Sapranno allora che io sono il Signore» (6,8-10).
Tuttavia: i profeti amano molto questo avverbio, perché completa e addolcisce le loro parole di giudizio. I falsi profeti non conoscono i tuttavia, perché sono ideologici e ruffiani. Tuttavia è anche l’avverbio dei bravi educatori, degli insegnanti, dei responsabili di comunità, che dopo aver avuto la forza del giudizio di verità riescono ad aggiungere il "tuttavia" della mansuetudine e della pietas, che è sale e il lievito della pasta che stanno impastando.
Questo brano sul resto ci dice qualcosa di essenziale. Quando negli esili vogliamo provare a ricominciare veramente, sono due le cose davvero necessarie. A ricominciare non è il tutto, ma una parte, un piccolo resto vivo. Avevamo formato una famiglia, fatto nascere una comunità, un’impresa. Poi è arrivata la crisi, e quindi la deportazione e l’esilio. Ci siamo dispersi e contaminati con molti popoli. Se un giorno vorremo continuare la stessa prima storia dobbiamo vincere la nostalgia dell’intero, non lasciarci sedurre dal richiamo fortissimo del tutto, perché, semplicemente, quell’intero e quel tutto non ci sono più. Ma possiamo continuare veramente la nostra storia su quella piccola parte rimasta viva: due lavoratori della fabbrica, un bambino, quella sola parola buona che si è salvata dalle tante cattiverie che ci siamo detti.
La seconda cosa riguarda il significato del bellissimo verbo biblico ricordare ("si ricorderanno di me"). Nell’umanesimo biblico ricordare non è il verbo del passato, è il verbo di futuro. Si ricorda nel deserto, nei campi di mattoni, nell’esilio, e si ricorda per continuare a credere nella promessa che deve venire e verrà. Nel deserto dove ci ha gettato il tradimento del nostro patto matrimoniale, non si ricomincia celebrando un nuovo patto su un nuovo altare, ma ricordando che quelle parole erano state vere, perché una parte vera del nostro cuore non era mai uscita da quella chiesa e da quel primo altare. È imparando a ricordare che si inizia a risorgere.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
L’INDICAZIONE DI MANDELA....
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA ...
iL "PADRE NOSTRO"?! Alcune pagine dalla "Querela pacis" (1517)
di Erasmo *
Pochi anni fa, quando il mondo era travolto a prendere le armi da non so quale peste esiziale, alcuni araldi del Vangelo, frati Minori e Predicatori, dal sacro pulpito davano fiato ai corni di guerra e ancor piú infervoravano chi già propendeva per quella follia. In Inghilterra aizzavano contro i Francesi, in Francia animavano contro gli Inglesi, ovunque spronavano alla guerra. Alla pace non incitava nessuno tranne uno o due, a cui costò quasi la vita l’aver soltanto pronunciato il mio nome.
Prelati consacrati scorrazzavano un po’ dovunque dimentichi della loro dignità e dei loro voti, e inasprivano con la loro opera il morbo universale, istigando ora il pontefice romano Giulio, ora i monarchi ad affrettare la guerra, quasi che non fossero già abbastanza folli per conto loro. Eppure questa patente pazzia noi l’avvolgemmo in splendidi titoli.
A tal fine sono da noi distorte con somma impudenza - dovrei dire con sacrilegio - le leggi dei padri, gli scritti di uomini santi, le parole della Sacra Scrittura. Le cose sono giunte a tal punto che risulta sciocco e sacrilego pronunciarsi contro la guerra ed elogiare l’unica cosa elogiata dalla bocca di Cristo. Appare poco sollecito del bene del popolo e tiepido sostenitore del sovrano chi consiglia il massimo dei benefici e scoraggia dalla massima delle pestilenze.
Ormai i sacerdoti seguono perfino le armate, i vescovi le comandano, abbandonando le loro chiese per occuparsi degli affari di Bellona. Ormai la guerra produce addirittura sacerdoti, prelati, cardinali ai quali il titolo di legato al campo sembra onorifico e degno dei successori degli Apostoli. Per cui non fa meraviglia se hanno spirito marziale coloro che Marte ha generato. Per rendere poi il male insanabile, coprono un tale sacrilegio col sacro nome della religione. Sugli stendardi sventola la croce.
Armigeri spietati e ingaggiati per poche monete a compiere macelli spaventosi innalzano l’insegna della croce, e simboleggia la guerra il solo simbolo che dalla guerra poteva dissuadere.
Che hai a che fare con la croce, scellerato armigero? I tuoi sentimenti, i tuoi misfatti convenivano ai draghi, alle tigri, ai lupi. -Quel simbolo appartiene a Colui che non combattendo ma morendo colse la vittoria, salvò e non distrusse; da lí soprattutto potevi imparare quali sono i tuoi nemici, se appena sei cristiano, e con quale tattica devi vincere.
Tu innalzi l’insegna della salvezza mentre corri alla perdizione del fratello, e fai perire con la croce chi dalla croce fu salvato?
Ma che! Dai sacri e adorabili misteri trascinati anch’essi per gli accampamenti, da queste somme raffigurazioni della concordia cristiana si corre alla mischia, si avventa il ferro spietato nelle viscere del fratello e sotto gli occhi di Cristo si dà spettacolo della piú scellerata delle azioni, la piú gradita ai cuori empi: se pure Cristo si degni di essere là. Colmo poi dell’assurdo, in entrambe le armate, in entrambi gli schieramenti brilla il segno della croce, in entrambe si celebra il sacrificio. -Quale mostruosità è questa? La croce in conflitto con la croce, Cristo in guerra con Cristo. È un simbolo fatto per atterrire i nemici della cristianità: perché adesso combattono quello che adorano? Uomini degni non di quest’unica croce, ma della croce patibolare.
Ditemi, come il soldato può recitare il “Padre nostro” durante queste messe? Bocca insensibile, osi invocare il Padre mentre miri alla gola del tuo fratello? “Sia santificato il tuo nome”: come si potrebbe sfregiare il nome di Dio piú che con queste vostre risse? “Venga il tuo regno”: cosí preghi tu che su tanto sangue erigi la tua tirannide? “Sia fatta la tua volontà, come in cielo, cosí anche in terra”: Egli vuole la pace, tu prepari la guerra.
“Il pane quotidiano” chiedi al Padre comune mentre abbruci le messi del fratello e preferisci che vadano perse anche per te piuttosto che giovare a lui?
Infine come puoi pronunciare con la lingua le parole “e rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” mentre ti lanci a un fratricidio? Scongiuri il rischio della tentazione mentre con tuo rischio getti nel rischio il fratello. “Dal male” chiedi di essere liberato mentre ti proponi di causare il massimo male al fratello?
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Erasmo da Rotterdam, Il lamento della pace, Einaudi, Torino, 1990, pagg. 51-55.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
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Federico La Sala
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E "LATINORUM" ...
Assemblea dei vescovi.
La Cei approva la nuova traduzione di Padre nostro e Gloria
Il documento finale dell’Assemblea generale straordinaria. Lotta alla pedofilia, nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
di Redazione Internet (Avvenire, giovedì 15 novembre 2018)
L’Assemblea generale della Cei ha approvato la traduzione italiana della terza edizione del Messale Romano, a conclusione di un percorso durato oltre 16 anni. In tale arco di tempo, si legge nel comunicato finale dell’Assemblea generale straordinaria della Cei (12-15 novembre), vescovi ed esperti hanno lavorato al miglioramento del testo sotto il profilo teologico, pastorale e stilistico, nonché alla messa a punto della Presentazione del Messale, che aiuterà non solo a una sua proficua recezione, ma anche a sostenere la pastorale liturgica nel suo insieme.
Il testo della nuova edizione sarà ora sottoposto alla Santa Sede per i provvedimenti di competenza, ottenuti i quali andrà in vigore anche la nuova versione del Padre nostro («non abbandonarci alla tentazione») e dell’inizio del Gloria («pace in terra agli uomini, amati dal Signore»).
Riconsegnare ai fedeli il Messale Romano con un sussidio
Nell’intento dei vescovi, la pubblicazione della nuova edizione costituisce l’occasione per contribuire al rinnovamento della comunità ecclesiale nel solco della riforma liturgica. Di qui la sottolineatura, emersa nei lavori assembleari, relativa alla necessità di un grande impegno formativo. In quest’ottica «si coglie la stonatura di ogni protagonismo individuale, di una creatività che sconfina nell’improvvisazione, come pure di un freddo ritualismo, improntato a un estetismo fine a se stesso». La liturgia, hanno evidenziato i vescovi, coinvolge l’intera assemblea nell’atto di rivolgersi al Signore: «Richiede un’arte celebrativa capace di far emergere il valore sacramentale della Parola di Dio, attingere e alimentare il senso della comunità, promuovendo anche la realtà dei ministeri. Tutta la vita, con i suoi linguaggi, è coinvolta nell’incontro con il Mistero: in modo particolare, si suggerisce di curare la qualità del canto e della musica per le liturgie». Per dare sostanza a questi temi, si è evidenziata l’opportunità di preparare una sorta di «riconsegna al popolo di Dio del Messale Romano» con un sussidio che rilanci l’impegno della pastorale liturgica.
Nasce un Servizio nazionale per la tutela dei minori
Riguardo alla lotta alla pedofilia, dall’Assemblea generale emerge che le Linee guida che la Commissione della Cei per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili sta formulando «chiederanno di rafforzare la promozione della trasparenza e anche una comunicazione attenta a rispondere alle legittime domande di informazioni». La Commissione - che sottoporrà il risultato del suo lavoro alla valutazione della Commissione per la Tutela dei minori della Santa Sede e soprattutto della Congregazione per la dottrina della fede - ha l’impegno di portare le Linee guida all’approvazione del Consiglio permanente, per arrivare a presentarle alla prossima Assemblea generale.
Si intende, quindi, portarle sul territorio, anche negli incontri delle Conferenze episcopali regionali per facilitare un’assimilazione diffusa di una mentalità nuova, nonché di un pensiero e una prassi comuni.
I vescovi hanno approvato due proposte, che consentono di dare concretezza al cammino. È stata condivisa, innanzitutto, la creazione presso la Cei di un Servizio nazionale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili, con un proprio Statuto, un regolamento e una segreteria stabile, in cui laiche e laici, presbiteri e religiosi esperti saranno a disposizione dei vescovi diocesani. Il Servizio sosterrà nel compito di avviare i percorsi e le realtà diocesani - o inter-diocesani o regionali - di formazione e prevenzione. Inoltre, «potrà offrire consulenza alle diocesi, supportandole nei procedimenti processuali canonici e civili, secondo lo spirito delle norme e degli orientamenti che saranno contenuti nelle nuove Linee guida».
La seconda proposta approvata riguarda le Conferenze episcopali regionali. Si tratta di individuare, diocesi per diocesi, uno o più referenti, da avviare a un percorso di formazione specifica a livello regionale o interregionale, con l’aiuto del Centro per la tutela dei minori dell’Università Gregoriana.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IL PADRE NOSTRO: BIBBIA, INTERPRETAZIONE, E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO.
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO, HENRI DE LUBAC, E LA POSTERITÀ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
EUROPA 1918 - EUROPA 2018. Noi pregustiamo la dolcezza di quel giorno, non più lontano, in cui la carità tornerà a regnare ....
EPISTOLA
DOPO GLI ULTIMI
DEL PAPA BENEDETTO XV
AL CARDINALE DI SANTA ROMANA CHIESA
PIETRO GASPARRI,
SEGRETARIO DI STATO,
IN OCCASIONE DELLA FIRMA DELL’ARMISTIZIO
FRA ITALIA E AUSTRIA *
Signor Cardinale, dopo gli ultimi fortunati successi delle armi italiane, i nemici di questa Sede Apostolica, fermi nel loro proposito di sfruttare a suo danno tanto i tristi quanto i lieti avvenimenti, hanno procurato e procurano di eccitare contro di essa l’opinione pubblica italiana esultante per la ottenuta vittoria, quasi che il Sommo Pontefice ne fosse invece in cuor suo dispiacente.
Ella, signor Cardinale, ben conosce per quotidiana consuetudine i Nostri sentimenti, come altresì quale sia la prassi e la dottrina della Chiesa in simili circostanze. Nella lettera del 1° agosto 1917 ai Capi delle diverse Potenze belligeranti Noi facemmo voti, ripetuti poi anche in altre occasioni, perché le questioni territoriali fra l’Austria e l’Italia ricevessero soluzione conforme alle giuste aspirazioni dei popoli; e recentemente abbiamo dato istruzione al Nostro Nunzio in Vienna di porsi in amichevoli rapporti colle diverse nazionalità dell’Impero Austro-Ungarico che ora si sono costituite in Stati indipendenti. Egli è che la Chiesa, società perfetta, che ha per unico fine la santificazione degli uomini di ogni tempo e di ogni paese, come si adatta alle diverse forme di Governo, così accetta senza veruna difficoltà le legittime variazioni territoriali e politiche dei popoli.
Crediamo che se questi Nostri giudizi ed apprezzamenti fossero più generalmente conosciuti, nessuna persona assennata vorrebbe insistere nell’attribuirci un rammarico che non ha fondamento.
Non possiamo peraltro negare che una nube turba ancora la serenità nell’animo Nostro, perché non sono cessate dovunque le ostilità, ed il fragore delle armi cagiona ancora in più luoghi e preoccupazioni e timori. Ma, sperando che la lieta aurora di pace, spuntata anche sul Nostro diletto paese, non tardi ormai a rallegrare gli altri popoli belligeranti, Noi pregustiamo la dolcezza di quel giorno, non più lontano, in cui la carità tornerà a regnare fra gli uomini e la universale concordia stringerà le Nazioni in lega feconda di bene.
Ci è caro intanto di confermare a lei, signor Cardinale, la Nostra particolare benevolenza, e vogliamo che di questa Le sia nuovo pegno la Benedizione Apostolica che le impartiamo con effusione di specialissimo affetto.
*
Dal Vaticano, 8 novembre 1918.
BENEDICTUS PP. XV
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
Ottobre.
Il Papa: preghiamo con il rosario per la Chiesa attaccata dal demonio
Papa Francesco chiede a tutti i fedeli di recitare quotidianamente il Rosario nel mese mariano di ottobre. E di concludere con due invocazioni
Papa Francesco ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Madonna e a san Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi. Lo rende noto un comunicato della Santa Sede.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici - ricorda la Santa Sede - il Papa ha incontrato padre Fréderic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa, e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione Sub Tuum Praesidium, e con la preghiera a san Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera, aveva osservato il Pontefice l’11 settembre in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe, è l’arma contro il Grande accusatore che «gira per il mondo cercando come accusare». Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione recita così:
Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Papa chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Madonna ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
La preghiera a san Michele Arcangelo
Il Papa ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII, che recita così:
Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].
* Avvenire, 29.09.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
“Siamo sotto attacco di Satana”
L’appello del Papa
di Andrea Tornielli (La Stampa, 30.09.2018)
Con un appello che non ha precedenti Papa Francesco chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare il rosario nel mese di ottobre per «proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi». Lo fa rimettendo in auge due antiche preghiere, una alla Madonna e una allo stesso San Michele.
È un’iniziativa che indica quanta sia la preoccupazione del Vescovo di Roma per la piaga degli abusi sui minori, ma anche per l’innalzarsi del livello degli attacchi contro lo stesso Papa e i vescovi, usando in modo strumentale lo scandalo pedofilia per combattere battaglie di potere nella Chiesa e mettere in stato d’accusa il Pontefice, come ha fatto un mese fa, con la sua clamorosa richiesta delle dimissioni papali, l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, ex nunzio apostolico negli Stati Uniti.
«Il Santo Padre - ha scritto la Sala Stampa vaticana in un comunicato diffuso a mezzogiorno di ieri - ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Santo Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre; e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Santa Madre di Dio e a San Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi».
Papa Francesco invita tutti i fedeli «a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione “Sub Tuum Praesidium”, e con la preghiera a San Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male». La preghiera - aveva affermato Bergoglio lo scorso 11 settembre, in un’omelia a Santa Marta - «è l’arma contro il Grande accusatore che gira per il mondo cercando come accusare».
«Con questa richiesta di intercessione - spiega ancora la Sala Stampa - il Santo Padre chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Santa Madre di Dio, ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga». Il Papa ha chiesto anche che la recita del rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII: «San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio».
"UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia). La fine della dominazione maschile... *
Un cambiamento epocale
di Lucetta Scaraffia (Osservatore Romano, 12 settembre 2018)
La fine della dominazione maschile - trasformazione storica alla quale stiamo assistendo nel mondo occidentale - costituisce senza dubbio un evento sociale di specie rara, che tocca la società nel profondo, cioè nella maniera in cui si costituisce e si perpetua. Queste le considerazioni del filosofo francese Marcel Gauchet, che in un recente saggio affronta il tema nella sua complessità, mettendo in evidenza, innanzi tutto, che abbiamo la possibilità «per la prima volta nell’avventura umana, di entrare nelle ragioni che hanno presieduto questa organizzazione arci-millenaria dei ruoli sessuali», talmente radicata che ha potuto passare per un tempo immemorabile come iscritta nell’ordine delle cose.
Talmente radicata che, scrive il filosofo, «esiste un legame intimo fra dominazione maschile e religione». Come hanno modellato insieme, a livelli diversi, l’esistenza collettiva, così oggi stanno subendo una profonda crisi che le coinvolge entrambe. Entrambe rispondevano a una esigenza profonda, quella di garantire l’esistenza di una società, assicurando la continuità della sua cultura e l’identità della sua organizzazione al di là del rinnovo dei suoi membri.
Le donne detengono il potere di assicurare la riproduzione fisica del gruppo umano, gli uomini quella culturale: nelle società tradizionali la potenza di procreare era controbilanciata da una potenza equivalente, ma la superiorità dell’ordine culturale - trascendente rispetto alla precarietà della vita biologica - diventava la base della dominazione maschile. L’essenza della mascolinità stava nella possibilità di elevarsi al di sopra del suo sesso per raggiungere lo statuto di individuo universale.
Questo tipo di organizzazione ha cessato di esistere, provocando trasformazioni radicali sia nelle condizioni della riproduzione biologica sia in quelle della riproduzione culturale, cambiando radicalmente i riferimenti al maschile e al femminile. -Oggi la dimensione culturale esplicita e consapevole è stata assorbita da quella implicita del processo sociale. Come lucidamente osserva Gauchet, «quello che è fondamentalmente cambiato è il modo in cui le società assicurano la loro traversata nel tempo». La dominazione maschile ha perduto la sua ragione d’essere, e proprio per questo i fondamentalismi insistono tanto sul rapporto fra i sessi, tema che sembrerebbe periferico rispetto a una visione religiosa del mondo.
Il lucidissimo saggio suggerisce nuove e importanti linee interpretative del cambiamento in atto nella società e nella famiglia, ma rispetto alla religione Gauchet cade nell’errore di considerare tutte le forme religiose come patriarcali: per quanto riguarda il cattolicesimo, ha certo ragione se pensiamo all’istituzione, ma non ce l’ha se pensiamo al suo fondamento sacro, i vangeli. Lì la testimonianza di Gesù rovescia in mille modi la stratificazione patriarcale in cui vive, con modalità che hanno influito potentemente sullo sviluppo storico dell’occidente. Se, come sosteneva il teologo ortodosso Ignazio Hazim, poi patriarca di Antiochia, la missione di tutte le Chiese «è quella di essere la coscienza viva e profetica del dramma di questo tempo» oggi un ritorno più consapevole al testo evangelico può consentire alla Chiesa di presentarsi nuovamente come messaggio profetico, diventando così il laboratorio nel quale saranno concepite le basi culturali della nuova società. Donne e uomini insieme.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
"UN UOMO PIÙ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia). LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
In campo l’ex stratega di Trump
La Chiesa a scuola di Bannon per creare una fronda anti-Papa
Al via un corso presso l’Istituto Dignitatis Humanae, presieduto dal cardinale Burke
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17.09.2018)
CITTÀ DEL VATICANO Piomba sul Vaticano alle prese con la stesura di una risposta al dossier dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò la notizia che l’ex stratega di Trump, Steve Bannon, sta organizzando in collaborazione con l’Istituto " Dignitatis Humanae" di Roma un corso di leadership per "politici cattolici conservatori", una vera e propria fazione populista, nazionalista e conservatrice che dall’intero del mondo cattolico va nella sostanza a contrastare il magistero di papa Bergoglio.
Bannon, cattolico su posizioni oltranziste e contrastanti al papato, legato al cardinale statunitense ultraconservatore Raymond Burke e al mondo che ha prodotto il dossier Viganò. E anche se apparentemente prende le distanze da Viganò dicendo che Francesco «non dovrebbe assolutamente dimettersi» perché «è il vicario di Cristo sulla terra», in realtà l’azione dei conservatori americani in opposizione a Francesco appare studiata e frontale e assume sempre più i contorni di una strategia studiata a tavolino. La volontà di Bannon di lasciare il Papa al suo posto sembra motivata più che altro dal fatto che così la leadership del vescovo di Roma si logora meglio. Bannon, non a caso, dice senza remore che la risposta del Papa sulla pedofilia è insufficiente e che «la gente deve capire la portata del danno inferto dalla e alla Chiesa cattolica » . Per questo invoca « un Tribunale indipendente dalla Chiesa» sulla pedofilia. Anche perché, dice, la convocazione a Roma a febbraio dei capi dell’episcopato mondiale «è troppo tardi».
L’Istituto " Dignitatis Humanae" non è fondazione neutrale. Compagine religiosa di orientamento conservatore, ha scelto come sua base di lavoro l’abazia di Trisulti, passata all’ala tradizionalista dopo che gli ultimi tre monaci ormai anziani sono rientrati a Casamari. L’antico convento, a un centinaio di chilometri a Sudest di Roma, potrà ospitare anche 250- 300 studenti alla volta e, secondo quanto ha dichiarato il direttore Benjamin Harnwell, porterà avanti i lavori di quello che è a tutti gli effetti un think tank di stampo catto- tradizionalista che vuole proteggere e promuovere la dignità umana sulla base della « verità antropologica » che l’uomo sia nato a immagine e somiglianza di Dio. L’obiettivo è di favorire questa visione sostenendo i cristiani nella vita pubblica «aiutandoli a presentare risposte efficaci e coerenti a sforzi crescenti per zittire la voce cristiana nella pubblica piazza » . Un’attività che viene svolta coordinando anche i gruppi di lavoro parlamentari «affiliati sulla dignità umana in tutto il mondo».
E forse non è un caso che una settimana fa il cardinale di riferimento Burke (presiederà il think tank) abbia scelto il Senato per presentare il suo ultimo libro «Chiesa Cattolica, dove vai? Una dichiarazione di fedeltà». Come a dire: è da qui che certi valori debbono essere annunciati. A soffiare contro il magistero di Bergoglio c’è anche quell’ala cattolica italiana che non ha remore a guardare a Salvini e al suo mondo. Bannon, lanciando a Roma " The Movement", ha dichiarato: « Salvini è un leader mondiale».
"LA CHIESA, CORPO DI CRISTO", LA PAROLA DEL PAPA, E LA NECESSITA’ DI UNA "UMILTA’ NUOVA". IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.... *
Pedofilia: la parola profonda e tagliente del Papa.
Se nella Chiesa c’è chi fa muto Dio
di Marina Corradi (Avvenire, sabato 15 settembre 2018)
C’è fra alcuni di noi una stanchezza. Gli episodi di pedofilia nella Chiesa emergono dal passato molto più numerosi di quanto li avremmo mai creduti. Si delinea un male sotterraneo, taciuto, e quasi, in certi ambienti, tollerato. È un’onda fangosa quella che si solleva dall’Irlanda, dagli Usa, dall’Australia e da altrove. Fa scandalo, come è giusto, e fa molto rumore. E appunto alcuni credenti, pure avviliti e addolorati, cominciano a avere una reazione tuttavia di insofferenza: non si sente parlare che di pedofilia, obiettano, non c’è solo questo, la Chiesa è ben altro. La Chiesa, dicono, è piena uomini e donne che fanno del bene senza fare rumore, è fatta anche di missionarie e missionari coraggiosi, di bravi parroci, di suore che curano i figli dei poveri, di laici generosi. È fatta la Chiesa, anche di sconosciuti santi, e di martiri.
Ed è tutto assolutamente vero. Eppure, il Papa giovedì scorso a dei vescovi di recente nomina, tornando sul dramma della pedofilia fra consacrati, ha detto parole drammatiche. Ha detto che le nostre risposte «saranno prive di futuro se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non metteranno a nudo il vuoto esistenziale che esse hanno alimentato. Se non riveleranno - ha proseguito - perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, così rimosso da un certo modo di vivere, come se non ci fosse».
Dio reso muto. Dio messo a tacere, come se non esistesse. Etsi non daretur. E hanno vissuto, e vivono, così persone consacrate. Taglia come un rasoio questa parola del Papa. Come il bisturi del chirurgo che, aprendo il petto di un paziente, scopre che è ampio, il male da asportare. Non minimizza il Papa, non si consola pensando a tutto il bene fatto dalla Chiesa. Sembra dirci che occorre prendere coscienza del male, tutto intero, di quanto profondo sia stato - tanto da ammutolire Dio.
Francesco ci fa stare davanti al peccato che ha intaccato la Chiesa, senza scappatoie. Un peccato che, nel dolore delle vittime, nel loro scandalo, riguarda anche noi. Coloro che parlavano a dei bambini di Dio erano gli stessi che ne abusavano: ingenerando in loro il pensiero che né degli uomini, né di Dio ci si può fidare. Pensiero che annienta, colpo di scure su giovani piante.
Dio reso muto, Dio rimosso, proprio da chi doveva insegnare ad amarlo. Il dito del Papa non smette di indicarci ciò che è stato. Noi, forse, avremmo la tentazione di dimenticarcene. D’accordo, lo sappiamo, basta adesso. Perché abbiamo il vizio di pensare che gli uomini e le istituzioni siano "buoni", oppure "cattivi". La Chiesa è "buona", e dunque non tolleriamo di constatare quanti abbiano potuto tradire, e nel modo peggiore, con dei bambini. Ci umilia troppo il ricordarlo.
Ma la Chiesa, corpo di Cristo, è fatta da uomini. Contiene in sé, come il cuore di ogni uomo, possibilità di luce e di buio, di generosità fedele e silenziosa, di eroismo, ma anche di diserzione vigliacca, sotto a ordinate apparenze. E chi conosce il labirinto del suo cuore, e a una certa età almeno bisognerebbe conoscerlo, può guadare allo scandalo che il Papa continua a indicarci, senza domandare che si parli d’altro.
Si può stare a viso aperto davanti a tanto male compiuto in mezzo a noi, solo se non ci si sente orgogliosamente "buoni", "onesti", intoccabili dalla miseria umana. Nessuno è buono, ci ha insegnato Gesù Cristo. Siamo tutti poveri, dei miserabili che mendicano la grazia di Dio. È quella grazia, domandata ogni mattina, che ci permette di fare del bene, che ci allontana dalla attrazione del male. Non un nostro essere "bravi".
«Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore» era la litania dei monaci della tradizione greco-bizantina, ripetuta come un respiro, come una domanda inesausta. In questa coscienza di mendicanti possiamo stare di fronte alle parole del Papa, al tragico Dio muto che ha evocato, e non perdere il coraggio. In un travaglio che potrebbe portarci a una umiltà nuova.
Nessuno è buono, e c’è in ciascuno di noi la possibilità del male. Bisogna ostinatamente domandare. Il peccato dentro la Chiesa che si leva alto come un’onda non ci travolge, se non lo censuriamo; ma, più coscienti del nostro e altrui male, ci ricordiamo che l’autentica santità, come ha concluso l’altro giorno Francesco, «è quella che Dio compie in noi».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Santa Sede.
Lotta agli abusi, il Papa convoca i capi dei vescovi di tutto il mondo
L’annuncio al termine della riunione dei 9 Cardinali. L’incontro sarà in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019. Sul tavolo il tema della protezione dei minori e della prevenzione degli abusi
di Riccardo Maccioni (Avvenire, mercoledì 12 settembre 2018)
Una decisione forte, che esprime la volontà fermissima di fare verità su una piaga che va sanata al più presto. Papa Francesco sentito il Consiglio di cardinali, ha deciso di convocare una riunione con i presidenti delle Conferenze episcopali della Chiesa cattolica sul tema della protezione dei minori e degli adulti vulnerabili.
L’annuncio è contenuto nel comunicato che conclude la XXVI riunione del cosiddetto C9, il gruppo di porporati cui lo stesso Pontefice ha affidato il compito di aiutarlo nella riforma della Curia e nel governo della Chiesa universale. Un tema quello degli abusi, rilanciato dal recente dossier sulla diocesi della Pennsylvania e dal caso McCarrick, ampiamente trattato, come recita la nota finale, nella riunione di cardinali, iniziata lunedì per concludersi stamani.
Il vertice con i tutti i leader degli episcopati rilancia una volta di più la volontà di adottare misure idonee alla prevenzione e alla tutela delle vittime e, allo stesso tempo rappresenta una presa d’atto di come il problema si ancora drammaticamente caldo. Il tutto si svolgerà nella linea della tolleranza zero, che Bergoglio ha adottato sin dall’inizio del suo pontificato, proseguendo la rotta indicata da papa Ratzinger.
Domani l’incontro con i vertici dell’Episcopato Usa
Un anticipo dell’appuntamento di febbraio si avrà comunque già domani, giovedì. quando saranno ricevuti in Vaticano i vertici della Conferenza episcopale statunitense. In particolare il Papa incontrerà il cardinale Daniel DiNardo, arcivescovo di Galveston-Houston e presidente dei vescovi Usa, il cardinale Sean Patrick O’Malley, arcivescovo di Boston e presidente della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, monsignor José Horacio Gomez arcivescovo di Los Angeles, vicepresidente dell’episcopato e il segretario generale monsignor Brian Bransfield.
Non imminente un ricambio nel C9
Naturalmente il C9 ha affrontato ha anche gli argomenti per cui è nato. Come ha sottolineato la vicedirettrice della Sala Stampa vaticana, Paloma Garcia Ovejero, «gran parte dei lavori del Consiglio e stata dedicata agli ultimi aggiustamenti della bozza della nuova Costituzione Apostolica della Curia romana, il cui titolo provvisorio e “Praedicate evangelium”. Il Consiglio di cardinali ha già consegnato, in proposito, il testo provvisorio che, comunque, e destinato ad una revisione stilistica e ad una rilettura canonistica».
Inoltre come comunicato lunedì scorso, durante la prima sessione di questa XXVI riunione, il C9 «ha chiesto al Papa una riflessione sul lavoro, la struttura e la composizione dello stesso Consiglio, tenendo anche conto dell’età avanzata di alcuni membri». In proposito la vicedirettrice della Sala Stampa ha detto che «per dicembre non ci saranno nuovi membri del C9» aggiungendo che «se ci saranno cambiamenti, vedremo». Procedendo nei lavori per la riforma della Curia romana infine il Consiglio che «ancora una volta ha espresso piena solidarietà a papa Francesco per quando accaduto nelle ultime settimane», vedi dossier Viganò, «si è concluso con la rilettura dei testi già preparati facendo motivo di attenzione la cura pastorale per il personale che vi lavora». Dei 9 porporati che costituiscono il C9 mancavano il cardinale australiano George Pell, l’85 enne cardinale cileno Francisco Javier Errazuriz e il quasi 79enne cardinale africano Laurent Monsengwo Pasinya.
«Il Santo Padre, come di consueto, informa il comunicato finale del C9, ha partecipato ai lavori, anche se e stato assente in tre momenti: lunedì in fine mattinata, per l’udienza al cardinale Beniamino Stella; martedì mattina, per la visita ad limina apostolorum della Conferenza episcopale Venezuela e questa mattina per l’Udienza generale».
La Cei: non per fermarsi all’abuso
E sempre in tema di abusi, il sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per la comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana cita l’incontro, annunciato nei giorni scorsi dal C9 e svoltosi ieri. «Ascolto delle vittime, impegno di educazione, formazione e comunicazione, stesura di Linee guida e di norme per la tutela dei minori e degli adulti vulnerabili. Sono questi - scrive don Ivan Maffeis - i temi approfonditi nell’incontro che ieri - martedì 11 settembre - ha visto insieme la Pontificia Commissione per la tutela dei minori con la corrispondente Commissione della Cei. Una collaborazione fattiva, che mira soprattutto all’elaborazione di proposte, iniziative e strumenti di prevenzione da offrire alle diocesi. Per non fermarsi a condannare l’abuso e promuovere una cultura della persona e della sua dignità».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE".
L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al doloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
"ADAMO", "ABRAMO", I TRE MONOTEISMI, L’ONU, E LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE ... *
Aquarius: se io fossi Papa, scomunicherei Matteo Salvini
di Paolo Farinella, sacerdote (Il Fatto quotidiano, 12 giugno 2018)
Finita la civiltà occidentale, è iniziata l’inciviltà di Salvini Matteo, segretario della Lega non più secessionista ma a vocazione planetaria, (vice)Presidente del Consiglio dei ministri in atto e cattolico «coerente» (l’ha detto lui medesimo in persona!), in risposta al cardinal Gianfranco Ravasi che twittava il Vangelo di Matteo al capitolo 25,43: «Ero straniero e non mi avete accolto». La motivazione della coerenza cristiana di Matteo Salvini: «Ho il rosario in tasca, io coerente con gl’insegnamenti del Vangelo».
È il capovolgimento di ogni ordine e principio. Se avere un oggetto in tasca è segno di coerenza, chi porta le «Madonne ripiene» di Lourdes, le immagini dei Padri Pii e armamentari di questo genere, cosa è? Un padre/madre eterno in terra?
Se io fossi Papa, lo scomunicherei in forza delle sue stesse parole che sono un insulto a tutto l’insegnamento evangelico, tenuto conto che per un ministro della Repubblica Italiana, fresco di giuramento «di servire con disciplina e onore», dovrebbe essere ininfluente l’aspetto, finto o vero che sia, della religione perché bastano e avanzano i principi della Costituzione che anche Salvini difese nel referendum del 2016, le leggi e i trattati internazionali, sottoscritti dall’Italia e la legge della coscienza che su tutto fa prevalere l’umanità e il pericolo imminente di vita.
Nella creazione, «Dio separò la luce dalle tenebre. Dio chiamò la luce giorno, mentre chiamò le tenebre notte» (Gen 1,4-5), ora le tenebre prendono il posto del giorno come se niente fosse.
Mi ribello a questa ignominia che, come scrive Lucia Annunziata su Huffington Post, ci riporta indietro di 72 anni minimo alla vergogna della nave ebraica «Exodus». In questi giorni, nella mia parrocchia, abbiamo pubblicato tutti i bilanci e gli aiuti che diamo a oltre un centinaio di persone/famiglie (50% italiani e 50% di origine non italiana), provengono unicamente da contribuzioni volontarie di circa 150 persone.
Non un soldo pubblico, non un contributo politico che non vogliamo perché abbiamo un senso di dignità che esige la compartecipazione e il sentimento umano. La «pacchia» la rimandiamo indietro al mittente perché è lui che lucra elettoralmente e politicamente dalla disgrazia dei migranti.
A Salvini e a Di Maio che ho votato per scardinare l’immondo sodalizio «Renzi/Berlusconi» e non per trovarmi i fascisti al governo, nonostante la Costituzione, dedico queste parole nelle quali mi riconosco io e il meglio del popolo italiano:
Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu. Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran1203-1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, «Adamo» non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa «Umanità - Genere Umano», senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale.
L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di «civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
La nostra civiltà sta regredendo verso la preistoria, verso il nulla. Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: -***«Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova il Comune ha deciso di restaurare la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova, in Italia, in Europa e nel Mondo si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa, gusci vuoti d’ideali, ma pieni di interessi miopi. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz.
Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti. Se non ci si chiede la ragione per cui i poveri aumentano, i senza casa aumentano, gli sbandati crescono esponenzialmente e i migranti africani chiedono il conto, siamo colpevoli di assassinio della civiltà, non salveremo noi, ma ci votiamo destiniamo alla distruzione.
Berthold Brecht (1898-1956), poeta e drammaturgo, nelle Poesie di Svendborg (1933-1938), 1937 (traduzione di E. Castellani-R. Fertonani) ne ha una col titolo «Germania», atto di accusa al sopruso del forte sul debole, all’arroganza del sistema sulla persona. A sessant’anni della sua morte, Germania è nome simbolico, sostituibile con Italia, Ungheria, Polonia, Austria, Olanda, Genova, Torino Milano, Roma, Io, Tu, Egli, Noi, Voi e Loro: -***«Parlino altri della propria vergogna, / io parlo della mia. /O Germania, pallida madre! / come insozzata siedi / fra i popoli! / Fra i segnati d’infamia /tu spicchi. / Dai tuoi figli il più povero/ è ucciso. / Quando la fame sua fu grande / gli altri tuoi figli / hanno levato la mano su lui. / ... Perché ti pregiano gli oppressori, tutt’intorno, ma / ti accusano gli oppressi? / Gli sfruttati / ti mostrano a dito, ma / gli sfruttatori lodano il sistema / che in casa tua è stato escogitato! / E invece tutti ti vedono / celare l’orlo della veste, insanguinato / dal sangue del migliore / dei tuoi figli. / O Germania, pallida madre! / Come t’hanno ridotta i tuoi figli, / che tu in mezzo ai popoli sia / o derisione o spavento!» (Berthold Brecht).
Possano la Poesia e la Memoria rinsavire Ragione e Dignità. Salvini, la Lega, Di Maio e l’illusione passeranno, l’umanità sopravvivrà e i poveri porteranno fiori sulle loro tombe. È la Storia, bellezza! È la Storia!
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi". Il lavoro di Emilio Gentile
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
"Le donne non possono essere prete": lo stop di Ladaria
Il cardinale prefetto dell’ex Sant’Uffizio: "La dottrina è definitiva, sbagliato creare dubbi tra i fedeli. Cristo conferì il sacramento ai 12 apostoli, tutti uomini"
di PAOLO RODARI (la Repubblica, 29 maggio 2018)
CITTÀ DEL VATICANO - Si tratta "di una verità appartenente al deposito della fede", nonostante sorgano "ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina". A ribadire il "no" del Vaticano all’ipotesi dell’ordinazione presbiterale femminile è il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il neo-cardinale gesuita Luis Ladaria, in un lungo e argomentato articolo pubblicato sull’Osservatore Romano. Intitolato "Il carattere definitivo della dottrina di ’Ordinatio sacerdotalis’", il testo è scritto per fugare "alcuni dubbi" in proposito.
Evidentemente, il ritorno di proposte aperturiste circa le donne-prete avanzate soprattutto in alcuni paesi sudamericani in vista del Sinodo dei vescovi di ottobre dedicato all’Amazzonia, ha allarmato la Santa Sede che attraverso la sua massima autorità gerarchica ha voluto ribadire ciò che anche per Francesco sembra essere assodato: "Sull’ordinazione di donne nella Chiesa l’ultima parola chiara è stata data da Giovanni Paolo II, e questa rimane", ha detto Papa Bergoglio tornando nel novembre del 2016 dal suo viaggio lampo in Svezia.
Durante il Sinodo sull’Amazzonia uno dei temi centrali sarà quello della carenza di preti. Come superare il problema? In proposito, da tempo, si parla dell’opportunità di ordinare i cosiddetti viri probati, uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa nelle comunità che, appunto, hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un prete possa recarsi con regolarità. Altri uomini di Chiesa fanno altre proposte: propongono, come ad esempio ha recentemente fatto monsignor Erwin Krautler della prelatura territoriale di Xingu in Amazzonia, che oltre ai viri probati si proceda con l’ordinazione delle diaconesse. Mentre altri ancora, invece, hanno parlato direttamente di donne-prete.
Ladaria ricorda che "Cristo ha voluto conferire questo sacramento ai dodici apostoli, tutti uomini, che, a loro volta, lo hanno comunicato ad altri uomini". E che per questo motivo la Chiesa si è riconosciuta "sempre vincolata a questa decisione del Signore", la quale esclude "che il sacerdozio ministeriale possa essere validamente conferito alle donne".
Già Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis del 22 maggio 1994, disse che "la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa". Mentre la Congregazione per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che "si tratta di una verità appartenente al deposito della fede".
Chi vuole le donne-prete argomenta che la dottrina in merito non è stata definita ex cathedra e che, quindi, una decisione posteriore di un futuro Papa o concilio potrebbe rovesciarla. Dice, tuttavia, Ladaria che "seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli" perché, Denzinger-Hünermann alla mano (l’autorevole volume che raccoglie simboli di fede, decisioni conciliari, provvedimenti di sinodi provinciali, dichiarazioni e scritti dottrinali dei Pontefici dalle origini del cristianesimo all’epoca contemporanea) la Chiesa riconosce che l’impossibilità di ordinare delle donne appartiene alla "sostanza del sacramento" dell’ordine. Una sostanza, dunque, che la Chiesa non può cambiare. "Se la Chiesa non può intervenire - dice ancora Ladaria - è perché in quel punto interviene l’amore originario di Dio".
Ladaria parla anche dell’infallibilità e del suo significato. Essa non riguarda solo pronunciamenti solenni di un concilio o del Papa quando parla ex cathedra, "ma anche l’insegnamento ordinario e universale dei vescovi sparsi per il mondo, quando propongono, in comunione tra loro e con il Papa, la dottrina cattolica da tenersi definitivamente". A questa infallibilità si è riferito Giovanni Paolo II in "Ordinatio sacerdotalis?, un testo che Wojtyla scrisse dopo un’ampia consultazione portata avanti a a Roma "con i presidenti delle conferenze episcopali che erano seriamente interessati a tale problematica". "Tutti, senza eccezione - ricorda Ladaria - hanno dichiarato, con piena convinzione, per l’obbedienza della Chiesa al Signore, che essa non possiede la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale".
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! .... *
Pregare, questione di umiltà. Il modello? È il Padre Nostro
Castellucci: Il Signore ci insegna la logica del "noi".
L’arcivescovo di Modena-Nonantola: «La preghiera di domanda, con le formule imparate a memoria, non è di serie B rispetto a espressioni più alte della vita dello Spirito» .
Intervista di Riccardo Maccioni (Avvenire, domenica 3 giugno 2018)
La preghiera come dialogo d’amore, che non ha bisogno di frasi mirabolanti o immagini di alta poesia, perché cresce nel rapporto cuore a cuore. L’umiltà e la disponibilità come condizioni necessarie per aprirsi all’azione della grazia, per accettare la logica della salvezza che viene da Dio. E si realizza, per così dire è resa possibile, dal rapporto con gli altri. Un atteggiamento di fiducia, di legame filiale tra la creatura e il Creatore che trova semplice e al tempo stesso profonda sintesi nel libretto ”Chi prega si salva”, in cui sono raccolte le preghiere più note della tradizione cristiana. A partire dalla famosa espressione, di sant’Alfonso Maria de’ Liguori scelta come titolo. E che nella sua formulazione completa suona un tantino inquietante: chi prega si salva, chi non prega si danna.
«Credo che sant’Alfonso non intenda proporre, con questa espressione, una “teoria universale” riguardante la salvezza o la condanna, ma muoversi dentro all’orizzonte del credente - spiega monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola e neo presidente della Commissione episcopale Cei per la dottrina della fede, la catechesi e l’annuncio -. In altre parole, il suo interesse è concentrato sul cristiano: in questo senso chi prega si salva e chi non prega si danna. Chi prega, cioè, mantiene quell’apertura umile e disponibile al Signore che è il requisito fondamentale per lasciare entrare nel cuore la grazia. Chi non prega, si illude di tenere in mano la propria vita da solo, si chiude ermeticamente all’amore di Dio, crede di salvarsi da solo. Papa Francesco direbbe che cade nel pelagianesimo ».
Nel libretto sono raccolte le preghiere più semplici della vita cristiana, quelle che impariamo da bambini, in famiglia i più fortunati o al catechismo. Perché è importante “frequentarle” anche da adulti?
La memoria orante, come quella liturgica, rappresenta per l’essere umano un punto di riferimento costante nella vita. Tante persone, che poi nemmeno proseguono nella pratica della fede cristiana, continuano quotidianamente a recitare almeno in qualche circostanza le preghiere imparate da bambini. È come il recupero costante di quella dimensione fanciullesca che abita sempre dentro di noi, anche a ottant’anni; e che mantiene viva la condizione posta da Gesù per «entrare nel regno dei cieli»: diventare come bambini. Di nuovo è questione di umiltà e disponibilità.
Quindi la preghiera di domanda, con le formule imparate a memoria, non è di serie B rispetto a espressioni più alte della vita dello Spirito, come l’adorazione o la preghiera del cuore.
Nella preghiera non ci sono le categorie, come nel calcio. Niente serie A, B o C. Piuttosto c’è un modello, al quale ogni preghiera si riconduce: il Padre Nostro, che i padri della Chiesa chiamavano oratio dominica, la preghiera del Signore. In quella breve preghiera, che tutti conoscono a memoria, Gesù suggerisce ben quattro domande: il pane quotidiano, il perdono dei peccati, la custodia dalle tentazioni e la liberazione dal male. Richieste per il corpo, la mente e lo spirito. Queste richieste sono precedute dalla lode, per mettere in evidenza che non sono richieste fatte dagli schiavi al padrone o dai clienti al negoziante, ma dai figli al Padre. Chiedere, quindi, è da figli: purché avvenga nel rispetto della grandezza del Padre. Se siamo figli, dobbiamo chiedere umilmente.
Nella prefazione alla nuova edizione del libro il Papa cita anche una buona preparazione al sacramento della Confessione. Troppe volte abbiamo quasi paura di essere perdonati.
È vero. Forse la difficoltà di prepararci dipende anche dalla sensazione sgradevole che ciascuno di noi prova di fronte ai propri limiti e peccati. Prepararsi significa riflettere, concen-trarsi, calarsi nella propria condizione fragile: e questo dà fastidio. Ma è necessario, se vogliamo sperimentare la misericordia di Dio e correggere i nostri difetti.
Come preparazione al confessionale, che cosa consiglia?
Prima di tutto di ripetere lentamente il “Padre Nostro”, che rappresenta quasi un esame di coscienza: non è infatti la preghiera dell’io, ma la preghiera del noi. «Dacci», «rimetti i nostri debiti », «non ci indurre», «liberaci». È la preghiera di una comunità: mentre dunque chiedo per me, chiedo per noi. E mi interrogo su come io mi rapporto agli altri. Se domando il perdono dei miei debiti, so poi rimetterli ai miei debitori? Se domando il pane per me, so poi condividerlo con gli altri, con quelli che insieme a me formano il “noi” e hanno diritto come me al pane quotidiano?
E per imparare a pregare da dove si comincia?
Si comincia dal cuore, non dalla carta. O meglio, la preghiera scritta e imparata a memoria deve diventare preghiera del cuore, relazione con il Signore. Quando uno si innamora, non si preoccupa di andare a cercare su Internet le frasi giuste da dire. Sarà la relazione a suggerirle. Bastano poche formule - ripeto, Gesù ce ne ha data una esemplare e la Chiesa ce ne offre alcune essenziali - ma occorre molto affetto. Le preghiere stesse incentivano l’affetto, perché l’espressione dell’amore aumenta il grado stesso dell’amore. Se io voglio bene a una persona, ma non glielo dico mai, non scatta la relazione e facilmente quell’amore si raffredda. Così con Dio: non resiste e serve a poco una fede “intellettuale”, fredda, che non si rivolga mai a lui.
Se posso permettermi... c’è una preghiera che lei sente particolarmente “sua’” che la accompagna da sempre?
A questo punto è chiaro che la mia preferita è il Padre Nostro. Dico spesso anche l’Ave Maria. Fin da piccolo ho imparato la preghiera del Rosario, che recito ogni giorno. È come una ripetuta professione d’amore verso la Madre. Quando, insomma, ci si rivolge a Dio come Padre e a Maria come Madre, ci si sente ben custoditi e spronati ad essere paterni e materni verso i fratelli.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?! Un resoconto dell’incontro, con note
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Federico La Sala
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
di Giovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
Il Papa, la fede e il primato sul marxismo
Dipendiamo da Dio, il marxismo sbaglia a negarlo
Francesco presenta il libro di Ratzinger su fede e politica
“Il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo”
di papa Francesco (La Stampa, 06.05.2018)
Il rapporto tra fede e politica è uno dei grandi temi da sempre al centro dell’attenzione di Joseph Ratzinger/Benedetto XVI e attraversa l’intero suo cammino intellettuale e umano. L’esperienza diretta del totalitarismo nazista lo porta sin da giovane studioso a riflettere sui limiti dell’obbedienza allo Stato a favore della libertà dell’obbedienza a Dio: «Lo Stato - scrive in questo senso in uno dei testi proposti - non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello Stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno Stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di Stato. Lo Stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Lo Stato romano era falso e anticristiano proprio perché voleva essere il totum delle possibilità e delle speranze umane. Così esso pretende ciò che non può; così falsifica ed impoverisce l’uomo. Con la sua menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico».
Successivamente, anche proprio su questa base, a fianco di San Giovanni Paolo II egli elabora e propone una visione cristiana dei diritti umani capace di mettere in discussione a livello teorico e pratico la pretesa totalitaria dello Stato marxista e dell’ideologia atea sulla quale si fondava.
Il marxismo
Perché l’autentico contrasto tra marxismo e cristianesimo per Ratzinger non è certo dato dall’attenzione preferenziale del cristiano per i poveri: «Dobbiamo imparare - ancora una volta, non solo a livello teorico, ma nel modo di pensare e di agire - che accanto alla presenza reale di Gesù nella Chiesa e nel sacramento, esiste quell’altra presenza reale di Gesù nei più piccoli, nei calpestati di questo mondo, negli ultimi, nei quali egli vuole essere trovato da noi» scrive Ratzinger già negli anni Settanta con una profondità teologica e insieme immediata accessibilità che sono proprie del pastore autentico. E quel contrasto non è dato nemmeno, come egli sottolinea alla metà degli anni Ottanta, dalla mancanza nel Magistero della Chiesa del senso di equità e solidarietà; e, di conseguenza, «nella denuncia dello scandalo delle palesi disuguaglianze tra ricchi e poveri - si tratti di disuguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri oppure di disuguaglianze tra ceti sociali nell’ambito dello stesso territorio nazionale che non è più tollerato».
Il profondo contrasto, nota Ratzinger, è dato invece - e prima ancora che dalla pretesa marxista di collocare il cielo sulla terra, la redenzione dell’uomo nell’aldiquà- dalla differenza abissale che sussiste riguardo al come la redenzione debba avvenire: «La redenzione avviene per mezzo della liberazione da ogni dipendenza, oppure l’unica via che porta alla liberazione è la completa dipendenza dall’amore, dipendenza che sarebbe poi anche la vera libertà?».
E così, con un salto di trent’anni, egli ci accompagna alla comprensione del nostro presente, a testimonianza dell’immutata freschezza e vitalità del suo pensiero. Oggi infatti, più che mai, si ripropone la medesima tentazione del rifiuto di ogni dipendenza dall’amore che non sia l’amore dell’uomo per il proprio ego, per «l’io e le sue voglie»; e, di conseguenza, il pericolo della «colonizzazione» delle coscienze da parte di una ideologia che nega la certezza di fondo per cui l’uomo esiste come maschio e femmina ai quali è assegnato il compito della trasmissione della vita; quell’ideologia che arriva alla produzione pianificata e razionale di esseri umani e che - magari per qualche fine considerato «buono» - arriva a ritenere logico e lecito eliminare quello che non si considera più creato, donato, concepito e generato ma fatto da noi stessi.
I «diritti apparenti»
Questi apparenti «diritti» umani che sono tutti orientati all’autodistruzione dell’uomo - questo ci mostra con forza ed efficacia Joseph Ratzinger - hanno un unico comune denominatore che consiste in un’unica, grande negazione: la negazione della dipendenza dall’amore, la negazione che l’uomo è creatura di Dio, fatto amorevolmente da Lui a Sua immagine e a cui l’uomo anela come la cerva ai corsi d’acqua (Sal 41). Quando si nega questa dipendenza tra creatura e creatore, questa relazione d’amore, si rinuncia in fondo alla vera grandezza dell’uomo, al baluardo della sua libertà e dignità.
L’uomo e Dio
Così la difesa dell’uomo e dell’umano contro le riduzioni ideologiche del potere passa oggi ancora una volta dal fissare l’obbedienza dell’uomo a Dio quale limite dell’obbedienza allo Stato. Raccogliere questa sfida, nel vero e proprio cambio d’epoca in cui oggi viviamo, significa difendere la famiglia. D’altronde già San Giovanni Paolo II aveva ben compreso la portata decisiva della questione: a ragione chiamato anche il «Papa della famiglia», non a caso sottolineava che «l’avvenire dell’umanità passa attraverso la famiglia» (Familiaris consortio, 86). E su questa linea anche io ho ribadito che «il bene della famiglia è decisivo per il futuro del mondo e della Chiesa» (Amoris laetitia, 31).
Così sono particolarmente lieto di potere introdurre questo secondo volume dei testi scelti di Joseph Ratzinger sul tema «fede e politica». Insieme alla sua poderosa Opera omnia, essi possono aiutare non solo tutti noi a comprendere il nostro presente e a trovare un solido orientamento per il futuro, ma anche essere vera e propria fonte d’ispirazione per un’azione politica che, ponendo la famiglia, la solidarietà e l’equità al centro della sua attenzione e della sua programmazione, veramente guardi al futuro con lungimiranza.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ...
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 28.04.2018)
Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione [...] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro - scrive Marx - e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale.
Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO". Il ’sonnambulismo’ di Hannah Arendt prima e di Emil Fackenheim dopo.
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.... *
Discussione
L. Steffens, Moses in Red. The Revolt of Israel as a Typical Revolution Dorrance and Company 1926
di Guido Bartolucci ( Lo Sguardo - rivista di filosofia, "Rivoluzione: un secolo dopo", N. 25, 2017.)
Non sempre gli anniversari sono occasioni per pubblicare e recensire nuovi libri, sono anche momenti utili per riscoprire vecchi autori e testi. È il caso di Lincoln Steffens (1866-1936) e del suo Moses in red, un libro unico nel suo genere, perché fu il primo a riconoscere nel racconto biblico dell’Esodo, le tracce di una ‘teoria’ della rivoluzione che aveva trovato la sua realizzazione negli eventi russi del 1917. «Il libro che ho appena finito», scriverà all’amico Gilbert Roe nel 1925, «è la storia di Mosè raccontata alla luce della rivoluzione, un classico esempio di come la rivolta di un popolo avviene. Jehova simbolizza la natura; Mosè, il riformatore e il leader; il faraone, il re o il padrone capitalista; Aronne l’oratore e gli ebrei sono il popolo. Il parallelo con la Russia o ogni altra rivoluzione è strettissimo».
Quando il libro uscì, nel 1926, Steffens era stato in Russia già tre volte, spettatore degli eventi e intervistatore dei principali protagonisti, come Lenin: una prima, nell’estate del 1917, dopo la rivoluzione di aprile; la seconda, nel 1919 a seguito della missione di pace guidata da William C. Bullitt; la terza nel 1923, durante il periodo della NEP. Fino a quel momento egli era stato quello che negli Stati Uniti si chiamava un muckrakers, cioè un giornalista d’inchiesta che aveva aperto il fronte, nella società americana, della aperta critica al sistema liberale. Ma Steffens non era rimasto chiuso nei confini statunitensi, aveva allargato i suoi orizzonti intellettuali in Europa alla fine dell’800, studiando teoria sociale e psicologia, e assistendo ai primi tentativi di costruire una scienza dell’organizzazione e del comportamento umano. Egli era convinto che la società fosse soggetta a leggi che potevano essere studiate come quelle che regolavano la natura.
Se in un primo momento della sua carriera Steffens aveva creduto nella possibilità che bastasse rendere evidente il legame corruttivo tra politica e affari per riformare la società, dopo l’incontro con la rivoluzione bolscevica si fece strada in lui l’idea che l’unico modo per trasformare la comunità degli uomini era la rivoluzione, che in Messico, in cui era stato tra il 1915 e il 1916 aveva avuto un suo primo momento, ma che in Russia aveva trovato la sua piena realizzazione.
Il libro dell’ Esodo agli occhi di Steffens, rappresenta la possibilità di raccontare a un pubblico che conosce bene gli avvenimenti narrati nel testo veterotestamentario, le tappe attraverso le quali si è sviluppata la rivoluzione russa e le ragioni che hanno mosso i suoi leader a specifiche azioni e politiche.Dopo una lunga introduzione e un breve capitolo preliminare, Steffens articola la sua trattazione in nove parti, che seguono gli avvenimenti narrati nel libro dell’ Esodo.
Il secondo capitolo è dedicato alla figura di Mosè e alla sua trasformazione in leader del popolo oppresso (pp. 51-59). Gli ebrei erano schiavi in Egitto dopo le politiche di Giuseppe, che avevano provocato l’odio degli egiziani verso il suo popolo. Fu necessario, dunque, che sorgesse un leader capace di guidare gli ebrei fuori dalla schiavitù e quest’uomo si impose perché poteva contare su una formazione unica. Scrive Steffens: «Mosè, nato schiavo, divenne un aristocratico nei sentimenti, nel comportamento e nell’aspetto. Egli era libero, impulsivo, fiero, diretto, audace, e senza legge. Egli si liberò della psicologia servile del suo popolo, ma non perse il senso della razza, che, nel suo caso, era la coscienza di classe. E fu l’unione di questi due tratti, la nobiltà egiziana e la lealtà alla razza che fecero di lui un grande leader ebreo dei lavoratori». (p. 57).
Dopo la formazione del leader, Steffens descrive la strategia, che passa attraverso la cospirazione contro il padrone, il faraone. Mosè si comporta come un classico agitatore politico, un leader dei lavoratori: invece di pretendere qualcosa d’irrealizzabile e difficilmente ottenibile, si limita a domandare un piccolo miglioramento, apparentemente facilmente realizzabile. È Dio, che per il giornalista americano rappresenta la natura, che propone a Mosè di andare dal faraone e chiedere di lasciare andare il popolo nel deserto per tre giorni per organizzare un sacrificio in onore della propria divinità. I leader, scrive Steffens, muovono i lavoratori a chiedere una minima riduzione dell’orario o un piccolo aumento della paga, ma in realtà «gli agitatori vogliono tutto ciò che il lavoratore produce» (p. 63). Allo stesso modo, prima della grande rivoluzione, nel 1907 il popolo fu spinto a chiedere allo zar una modesta partecipazione in un governo costituzionale.
La ragione di tutto ciò è evidente, scrive Steffens: uno dei problemi centrali per un movimento rivoluzionario è convincere e muovere le masse. Le piccole richieste a cui le autorità normalmente rispondono con un netto rifiuto e una violenta reazione hanno la funzione di innescare la rivolta: il primo esempio di questa strategia fu la cospirazione organizzata da Dio e Mosè. Steffens scrive: «I rivoluzionari che hanno studiato la storia, dichiarano che i rivoluzionari non possono fare una rivoluzione, solo il governo e i faraoni possono provocare un tale stato di crisi, e così accadde nella rivoluzione russa» (p. 88).
Ma uno degli aspetti più misteriosi del racconto dell’Esodo, continua il giornalista americano, è la ragione per cui gli ebrei, una volta usciti dall’Egitto non entrarono direttamente nella terra promessa, ma vagarono per quarant’anni nel deserto; la stessa cosa accadde anche in Russia: il popolo non ‘entrò’ direttamente nel nuovo stato comunista, ma si fermò, si voltò indietro, vagò per il deserto del dubbio e del compromesso. I leader della rivoluzione, infatti, sostennero che era necessario un cambio radicale nelle persone, perché la vecchia generazione che aveva conosciuto gli antichi mali dello zar doveva necessariamente essere superata.L’attraversamento del deserto, dunque, contiene al suo interno i passaggi più drammatici della fase rivoluzionaria. Il primo è la strage di parte degli adoratori del vitello d’oro ai piedi del monte Oreb: «c’è una certa legge naturale che governa i terrori. Quando una grande massa di persone ha paura, è incline a diventare crudelissima; quando una nazione sta organizzando un nuovo sistema di leggi e costumi, ecco che si ha un terrore rosso; quando sta difendendo un vecchio sistema ecco che c’è un terrore bianco. Ciò non è bene, ma è chiaramente naturale, e dunque è divino, come Mosè sapeva, o pensava» (p. 108).
Questo momento conferma che il popolo uscito dalla schiavitù, dimostrando di essere ancora legato alla vita in Egitto ha ancora paura e non accetta facilmente i cambiamenti imposti da Dio. È per questa ragione che dopo la strage si afferma la dittatura di Mosè, attraverso la quale si impongono le nuove leggi. Ma non è sufficiente, la paura continua a stringere il popolo, tanto che, una volta che gli esploratori mandati da Mosè sono tornati dalla terra promessa e hanno raccontato ai capi tribù che il paese è occupato da popolazioni bellicose, la maggior parte degli ebrei si rifiuta di entrare e pretende di tornare in Egitto. È in questo momento che l’ultimo insegnamento esodico si rivela ai rivoluzionari: la vecchia generazione deve morire affinché la nuova sia pronta a costruire la nuova nazione.
Sta in questa ragione l’errare degli ebrei per quarant’anni nel deserto, un momento che fu un periodo di transizione e di selezione della nuova generazione. La dittatura di Mosè e il terrore rosso sono necessari per la rivoluzione e per la costruzione di un nuovo popolo, capace, una volta attraversato il Giordano, di fondare una nuova nazione. È questo, secondo Steffens, l’insegnamento dell’ Esodo e che ne fa nelle sue varie tappe, una storia esemplare per tutti i rivoluzionari. Ma non basta: il libro di Mosè ha anche un’altra funzione. Sfeffens fu un ‘pragmatista’, il suo interesse per la rivoluzione doveva passare necessariamente per l’esperienza, sia messicana, che russa, ma al fine di costruire una teoria universale.
L’esaltazione delle politiche leniniste, della dittatura e del terrore, della rivoluzione bolscevica in cui egli riconosceva il futuro del genere umano, non certificano un’adesione acritica al comunismo. Il suo scopo era di indagare e isolare i modi attraverso i quali la rivoluzione operava, come esempio di una nuova strategia di configurazione del potere all’interno della società. Le ‘leggi’ che egli aveva riconosciuto nella storia russa erano ora riproposte al pubblico attraverso un racconto che era alla base di molte delle narrazioni fondative della società americana, come dimostrava, per esempio, l’uscita in quegli anni (1923) del film The Ten Comandments di Charles B. DeMille. Il libro dunque era sì un’operazione propagandistica, ma non esclusivamente rivolta all’esaltazione del bolscevismo (o almeno non solo), ma piuttosto a riconoscere nella rivoluzione l’unica strada per cambiare radicalmente la società americana.
Il libro, pubblicato nel 1926, non ebbe alcun successo e non circolò per il paese, anche se Lincoln Steffens non cessò mai di propagandare nei suoi articoli e nelle sue conferenze tenute in ogni angolo degli Stati Uniti la forza della rivoluzione russa. Ma nonostante la scarsa circolazione, il testo di Steffens conquistò lungo i decenni un ruolo di rilievo nelle riflessioni politiche attorno al testo biblico.
Il primo a riattivare le riflessioni del giornalista americano fu Aaron Wildavsky nel suo The Nursing Father: Moses as a Politica Leader, (1984), ma il testo riacquistò un ruolo centrale nel 1985, quando uscì Exodus and rivolution di Michael Walzer. Proprio questo lavoro parte dalla riflessione di Steffens, ne amplia l’esemplarità storica, riconoscendo il ruolo del racconto esodico per la rivoluzione inglese, e per l’analisi della tradizione politica ebraica.
Il binomio Esodo e rivoluzione, dunque, è diventato un classico della riflessione politica, anche se declinato in prospettive diverse, e ha trovato in Steffens un interprete di rara efficacia interpretativa. «I have seen the future, and it works», scriverà Steffens nel 1919 al ritorno dal secondo viaggio in Russia, e attraverso la storia di Mosè e del popolo ebraico voleva accompagnare il popolo americano proprio nel futuro che aveva pensato di intravedere durante la rivoluzione.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
A Mikhail Gorbaciov e a Karol J. Wojtyla ... per la pace e il dialogo, quello vero!!!
"AVREMMO BISOGNO DI DIECI FRANCESCO DI ASSISI". LA RIVOLUZIONE EVANGELICA, LA RIVOLUZIONE RUSSA, E L’ "AVVENIRE" DELL’UNIONE SOVIETICA E DELLA CHIESA CATTOLICA. Le ultime riflessioni di Lenin raccolte da Viktor Bede
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
COLLOQUIO. Nasceva duecento anni fa l’autore del «Manifesto del partito comunista»: sul suo pensiero abbiamo interpellato il sociologo Immanuel Wallerstein, che ne rivendica l’attualità. Non può fare a meno di lui una sinistra globale che voglia rappresentare l’80% più povero degli abitanti della terra
«Il capitalismo non è eterno. E Marx è ancora necessario»
conversazione tra Marcello Musto e Immanuel Wallerstein (Corriere della Sera, La Lettura, 08.06.2018)
Immanuel Wallerstein, senior research scholar alla Yale University (New Haven, Usa) è considerato uno dei più grandi sociologi viventi. I suoi scritti sono stati molto influenzati dalle opere di Karl Marx ed egli è uno degli studiosi più adatti per riflettere sul perché quel pensiero sia ritornato, ancora una volta, di attualità
MARCELLO MUSTO - Professor Wallerstein, quasi trent’anni dopo la fine del cosiddetto «socialismo reale», in quasi tutto il globo tantissimi dibattiti, pubblicazioni e conferenze hanno come tema la persistente capacità da parte di Marx di spiegare le contraddizioni del presente. Lei ritiene che le idee di Marx continueranno ad avere rilevanza per quanti ritengono necessario ripensare un’alternativa al capitalismo?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Esiste una vecchia storia su Marx che dice che ogni volta che si cerca di buttarlo fuori dalla porta, lui rientra dalla finestra. È quanto sta accadendo in questi anni. Marx è ancora fondamentale per quanto scrisse a proposito del capitalismo. Le sue osservazioni furono molto originali e completamente diverse da ciò che affermarono altri autori. Oggi affrontiamo problemi rispetto ai quali egli ha ancora molto da insegnarci e tanti editorialisti e studiosi - non certo solo io - trovano il pensiero di Marx particolarmente utile in questa fase di crisi economica e sociale. Ecco perché, nonostante quanto era stato predetto nel 1989, assistiamo alla sua rinnovata popolarità.
MARCELLO MUSTO - La caduta del Muro di Berlino ha liberato Marx dalle catene degli apparati statali dei regimi dell’Est Europa e da un’ideologia sideralmente lontana dalla sua concezione di società. Qual è il motivo centrale che suscita ancora tanta attenzione verso l’interpretazione del mondo di Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Io credo che, se chiedessimo a quanti conoscono Marx di riassumere in una sola idea la sua concezione del mondo, la maggior parte di essi risponderebbe «la lotta di classe». Io leggo Marx alla luce del presente e per me «lotta di classe» significa il perenne conflitto tra quella che io chiamo la «sinistra globale» - che ritengo possa ambire a rappresentare l’80% più povero della popolazione mondiale - e la «destra globale» - che rappresenta l’1% più ricco. Per vincere questo scontro bisogna conquistare il restante 19%; bisogna cercare di portarlo nel proprio campo e sottrarlo a quello dell’avversario. Viviamo in un’era di crisi strutturale del sistema mondo. Credo che il capitalismo non sopravvivrà, anche se nessuno sa con certezza da che cosa potrà essere sostituito. Io sono convinto che vi siano due possibilità. Una prima è rappresentata da quello che chiamo lo «spirito di Davos». L’obiettivo del Forum economico mondiale di Davos è quello di imporre un sistema sociale nel quale permangano le peggiori caratteristiche del capitalismo: le gerarchie sociali, lo sfruttamento e, soprattutto, il dominio incontrastato del mercato con la conseguente polarizzazione della ricchezza. L’alternativa è, invece, un sistema più democratico e più egualitario di quello esistente. Per tornare a Marx, dunque, la lotta di classe costituisce lo strumento fondamentale per influire sulla costruzione di ciò che, in futuro, sostituirà il capitalismo.
MARCELLO MUSTO - Le sue riflessioni circa la contesa per ricevere il sostegno politico della classe media ricordano Antonio Gramsci e il suo concetto di egemonia. Tuttavia, credo che per le forze di sinistra la questione prioritaria sia come ritornare a parlare alle masse popolari, ovvero quell’80% a cui lei fa riferimento, e come rimotivarle alla lotta politica. Questo è particolarmente urgente nel «Sud globale», dove è concentrata la maggioranza della popolazione mondiale e dove, negli ultimi tre decenni, a dispetto del drammatico aumento delle diseguaglianze prodotte dal capitalismo, partiti e movimenti progressisti si sono indeboliti. Lì l’opposizione alla globalizzazione neoliberista è spesso guidata dai fondamentalismi religiosi e da partiti xenofobi, un fenomeno in crescita anche in Europa. La domanda è se Marx può aiutarci in questo scenario. Libri di recente pubblicazione offrono nuove interpretazioni della sua opera. Essi rivelano un autore che fu capace di esaminare le contraddizioni della società capitalista ben oltre il conflitto tra capitale e lavoro. Marx dedicò molte energie allo studio delle società extra-europee e al ruolo distruttivo del colonialismo nelle periferie del sistema. Allo stesso modo, smentendo le interpretazioni che assimilano la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, l’interesse per la questione ecologica presente nell’opera di Marx fu ampio e rilevante. Infine, egli si occupò in modo approfondito di numerose tematiche che molti studiosi spesso sottovalutano o ignorano quando parlano di lui. Tra queste figurano le potenzialità emancipatrici della tecnologia, la critica dei nazionalismi, la ricerca di forme di proprietà collettive non controllate dallo Stato, o la centralità politica della libertà individuale nella sfera economica e politica: tutte questioni fondamentali dei nostri giorni. Accanto a questi «nuovi profili» di Marx - che suggeriscono come il rinnovato interesse per il suo pensiero sia un fenomeno destinato a proseguire nei prossimi anni - potrebbe indicare tre delle idee più conosciute di Marx a causa delle quali questo autore non può essere accantonato?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Innanzitutto, Marx ci ha insegnato meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società. Già in Miseria della filosofia , pubblicato quando aveva solo 29 anni, schernì gli economisti che sostenevano che le relazioni capitalistiche si fondavano su «leggi naturali, indipendenti dall’influenza del tempo». Marx scrisse che gli economisti avevano riconosciuto il ruolo svolto dagli esseri umani nella storia quando avevano analizzato le «istituzioni feudali, nelle quali si trovavano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese». Tuttavia, essi mancarono di storicizzare il modo di produzione da loro difeso e presentarono il capitalismo come «naturale ed eterno». Nel mio libro Il capitalismo storico ho tentato di chiarire che il capitalismo è un sistema sociale storicamente determinato, contrariamente a quanto impropriamente sostenuto da alcuni economisti. Ho più volte affermato che non esiste un capitalismo che non sia capitalismo storico e, a tal proposito, dobbiamo molto a Marx. In secondo luogo, vorrei sottolineare l’importanza del concetto di «accumulazione originaria», ossia l’espropriazione della terra dei contadini che fu alla base del capitalismo. Marx capì benissimo che si trattava di un processo fondamentale per la costituzione del dominio della borghesia. È un fenomeno che persiste ancora oggi. Infine, inviterei a riflettere di nuovo sul tema «proprietà privata e comunismo». In Unione Sovietica, in particolare durante il periodo staliniano, lo Stato deteneva la proprietà dei mezzi di produzione. Ciò non impedì, però, che le persone fossero sfruttate e oppresse. Tutt’altro. Ipotizzare la costruzione del «socialismo in un solo Paese», come fece Stalin, costituì una novità mai considerata in precedenza, men che mai da Marx. La proprietà pubblica dei beni di produzione rappresenta una delle alternative possibili, ma non è l’unica. Esiste anche l’opzione della proprietà cooperativa. Tuttavia, se vogliamo costruire una società migliore, è necessario sapere chi produce e chi riceve il «plusvalore» - altro pilastro fondamentale della teoria di Marx. È questo il tema centrale. Va completamente mutato quanto si viene a determinare nei rapporti capitalistici di produzione.
MARCELLO MUSTO - Il 2018 coincide con il bicentenario della nascita di Marx e nuovi libri e film vengono dedicati alla sua vita. Quali sono gli episodi della biografia di Marx che lei considera più significativi?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Marx trascorse una vita molto difficile, in perenne lotta contro una povertà terribile. Fu molto fortunato ad avere incontrato un compagno come Friedrich Engels, che lo aiutò a sopravvivere. Marx non ebbe nemmeno una vita affettiva semplice e la sua tenacia nel portare a compimento la missione che aveva assegnato alla propria esistenza - ovvero la comprensione del meccanismo di funzionamento del capitalismo - è davvero ammirevole. Marx non pretese né di spiegare l’antichità, né di definire come avrebbe dovuto essere la futura società socialista. Volle comprendere il suo presente, il sistema capitalistico nel quale viveva.
MARCELLO MUSTO - Nel corso della sua vita, Marx non fu soltanto lo studioso isolato dal mondo tra i libri del British Museum; fu un rivoluzionario sempre impegnato nelle lotte della sua epoca. Da giovane, a causa della sua militanza politica, egli venne espulso dalla Francia, dal Belgio e dalla Germania e, quando le rivoluzioni del 1848 vennero sconfitte, fu costretto all’esilio in Inghilterra. Fondò quotidiani e riviste e appoggiò, in tutti i modi, le lotte del movimento operaio. Inoltre, dal 1864 al 1872 fu il principale animatore dell’Associazione internazionale dei lavoratori, la prima organizzazione transnazionale della classe operaia, e nel 1871 difese strenuamente la Comune di Parigi, il primo esperimento socialista della storia.
IMMANUEL WALLERSTEIN - Sì, è vero, è essenziale ricordare la militanza politica di Marx. Egli ebbe un’influenza straordinaria nell’Internazionale, un’organizzazione composta da lavoratori fisicamente distanti tra loro, in un’epoca in cui non esistevano mezzi che potessero agevolare la comunicazione. Marx fece politica anche attraverso il giornalismo, impiego che svolse per tanta parte della sua vita. Certo, lavorò come corrispondente del «New-York Daily Tribune» prima di tutto per avere un reddito, ma considerò i propri articoli - che raggiunsero un pubblico molto vasto - come parte della sua attività politica. Essere neutrale non aveva alcun senso ai suoi occhi - il che non vuol dire che mancò di rigore nelle sue analisi. Fu sempre un giornalista impegnato e critico.
MARCELLO MUSTO - Lo scorso anno, in occasione del centesimo anniversario della rivoluzione russa, alcuni studiosi sono ritornati a discutere sulle distanze tra Marx e alcuni suoi autoproclamatisi epigoni che sono stati al potere nel XX secolo. Qual è la maggiore differenza tra loro e Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Gli scritti di Marx sono illuminanti e molto più sottili e raffinati di molte interpretazioni semplicistiche delle sue idee. È sempre bene ricordare che fu lo stesso Marx, con una famosa boutade , ad affermare dinanzi ad alcune interpretazioni del suo pensiero: «Quel che è certo è che io non sono marxista». Marx, a seguito dei suoi continui studi, non di rado mutò idee e opinioni. Si concentrò sui problemi che esistevano nella società del suo tempo e, a differenza di tanti che si sono richiamati al suo pensiero, fu profondamente antidogmatico. Questa è una delle ragioni per le quali Marx è una guida ancora così valida e utile.
MARCELLO MUSTO - Per concludere, che messaggio le piacerebbe trasmettere a quanti, nella nuova generazione, non hanno ancora letto Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - La prima cosa che vorrei dire ai più giovani è di leggere direttamente gli scritti di Marx. Non leggete su Marx, ma leggete Marx. Solo pochi - fra tutti quelli che parlano di lui - hanno veramente letto le opere di Marx. È una considerazione che, peraltro, vale anche per Adam Smith. In genere, con la speranza di risparmiare tempo, molte persone preferiscono leggere a proposito dei classici del pensiero politico ed economico e, dunque, finiscono per conoscerli attraverso i resoconti di altri. È solo uno spreco di tempo! Bisogna leggere direttamente i giganti del pensiero moderno e Marx è, senza dubbio, uno dei principali studiosi del XIX e XX secolo. Nessuno gli è pari, né per la molteplicità delle tematiche da lui trattate, né per la qualità della sua analisi. Alle giovani generazioni dico che è indispensabile conoscere Marx e che per farlo bisogna leggere, leggere e leggere direttamente i suoi scritti. Leggete Karl Marx!
DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! GIOACCHINO DA FIORE, LA SORPRENDENTE “CARITÀ”, E IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO. ..
"È nostro altissimo dovere tenere sempre presenti e diligentemente imitare i luminosi esempi della ammirabile carità ...": "Mirae caritatis. De sanctissima eucharistia", della "Ammirabile Carità. La santa eucarestia", così è intitolata e così è tradotta la "Lettera enciclica" di Leone XIII, del 1902:
Se si tiene presente che nel 1183, con grande chiarezza e consapevolezza, Gioacchino da Fiore nel suo "Liber de Concordia Novi ac Veteris Testamenti" così scriveva:
si può ben pensare che le preoccupazioni di una tradizione e di una trasmissione corretta del messaggio evangelico e, con esso, del "luminoso esempio" dello stesso Gioacchino da Fiore, non siano state affatto al primo posto del magistero della Chiesa cattolico-romana, né ieri né oggi.
Di Gioacchino se si è conservato memoria del suo lavoro come del suo messaggio, lo si deve sicuramente alla sua "posterità spirituale" - è da dire con H. De Lubac, ma contro lo stesso De Lubac, che ha finito per portare acqua al mulino del sonnambulismo ateo-devoto dell’intera cultura ’cattolica’,.
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il coraggio della disobbedienza
di Alex Zanotelli*
Nel maggio del 2017 ho lanciato un appello alle Chiese, Sanctuary Movement, che rimetto di nuovo in circolazione visto l’aggravarsi della situazione dei migranti nel nostro paese. L’appello è un invito alle Chiese (cattolica, valdese, luterana, anglicana, evangelica) di iniziare, come avviene negli Usa, ad offrire le nostre chiese come “santuario” per asilo politico per coloro che sono destinati alla deportazione nei loro paesi, non perché criminali, ma perché privi di documenti.
Quell’appello non ha avuto alcun riscontro positivo da parte delle Chiese in Italia.
Sanctuary Movement
Negli Usa al contrario lo scorso anno il Sanctuary Movement ha visto raddoppiare il numero di chiese che offrono rifugio e asilo politico per i migranti minacciati di deportazione. Non tutte le chiese offrono ospitalità a tali persone, ma tutte si impegnano a sostenere i minacciati di deportazione sia offrendo assistenza legale, ma soprattutto con l’impegno da parte di pastori o preti, di accompagnare queste persone in tribunale o dalla polizia. Ma anche, quando necessario, con sit-in o pray-in davanti ai tribunali. Ci auguriamo che questo Movimento possa presto sbocciare anche nelle Chiese in Italia.
Infatti Bruxelles intende deportare un milione di migranti irregolari. Un’operazione quasi impossibile, oltre che costosa, ma che rivela quale politica la Ue stia perseguendo. «È vero che siamo una civiltà che non fa figli - ha commentato qualche tempo fa papa Francesco - ma anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio». E Bruxelles chiede ai ventisette stati membri di mettere mano alla propria legislazione per una politica più restrittiva nei confronti dei migranti.
L’Italia ha prontamente risposto con il decreto Orlando-Minniti, il cosiddetto Pacchetto Sicurezza. Il decreto, approvato dal parlamento il 12 aprile 2017 con il ricatto della fiducia, stabilisce che il rifiuto di riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Commissione territoriale non è reclamabile se non in Cassazione. Non c’è quindi per il rifugiato la possibilità di un appello in tribunale. Respinta la domanda, al rifugiato non resta che andare in un Centro permanente per il rifugiato, per poi essere espulso nell’inferno da cui è fuggito.
Atto di coraggio
E questo sta avvenendo non solo in Europa, ma anche negli Usa con Trump, che minaccia di espellere undici milioni di clandestini, in buona parte latinos. Infatti Trump, oltre al muro tra gli Usa e il Messico, che gli costerà un miliardo di dollari, ha iniziato ad espellere ogni settimana settecento clandestini. Per rispondere a questa tragedia, alcune Chiese hanno rilanciato il Sanctuary Movement (il movimento che offre asilo, rifugio, “santuario” a chi è ricercato dalla polizia per essere espulso, perché considerato “clandestino”).
È un movimento che si rifà alla tradizione biblica (Num. 35,9-34), ripresa poi nel Medioevo, per cui chi riesce a trovare rifugio in un luogo sacro o in una città asilo aveva il diritto di essere protetto. Questo movimento ha avuto inizio negli Usa negli anni Ottanta, quando Reagan deportava i rifugiati ai loro paesi come il Salvador o il Nicaragua dove li aspettava la morte. Più di cinquecento chiese si erano costituite “santuari” di asilo politico. Molti si sono salvati così.
Ora, con Trump, oltre mille istituzioni (fra queste, anche città, università e contee) hanno iniziato a dare rifugio politico a chi rischia di essere espulso. I responsabili religiosi si rifiutano di aprire le chiese alla polizia, quando viene per arrestare i clandestini. «Le chiese devono aprire i loro battenti per accogliere coloro che Trump vuole deportare - afferma nella rivista ecumenica Sojourners, B. Packnett. Se Trump decidesse di deportare undici milioni di clandestini, dobbiamo chiedere una massiccia disobbedienza civile. La resistenza è un lavoro sacro. Ecco perché è il nostro lavoro”.
Alle chiese si sono aggiunte anche alcune università, città e contee. Alle “città santuario” il 25 gennaio Trump ha deciso di tagliare i fondi federali. Ma ora è lo stesso stato della California a dichiararsi “stato-santuario”, attirandosi i fulmini di Trump. Questo movimento è uno straordinario stimolo per le sonnolente Chiese d’Europa. Data la gravità della situazione dei migranti in Europa, diventa pressante un appello anche alle Chiese in Italia perché lancino nel nostro paese il movimento delle ‘chiese santuario’!
Disobbedienza civile
È un atto di coraggio che la Chiesa cattolica in Italia deve fare: diocesi e parrocchie, comunità cristiane e conventi. È il coraggio della disobbedienza civile per la difesa della vita umana! E lo stesso coraggio lo devono avere le Chiese valdesi, luterane, battiste, metodiste, evangeliche presenti sul nostro territorio. Se le chiese dessero l’esempio, anche città, comuni, municipalità e università potrebbero seguirne l’esempio.
«Sogno un’Europa in cui essere migrante non è un delitto», ha detto papa Francesco parlando alle massime autorità della Ue. Questo è anche il nostro sogno e il nostro impegno.
*Missionario comboniano
* Fonte: Comune-info, 21 gennaio 2018 (ripresa parziale - senza immagini).
Gerusalemme, città unica, indivisibile e inappropriabile
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 11.12.2017)
Unica, indivisibile, inappropriabile, impossibile da capitalizzare, Gerusalemme è la città che si sottrae all’ordine degli Stati-nazione. Ne eccede la ripartizione, la trascende, la interdice. Contro questo scoglio, o meglio, contro questa rocca, sono naufragati tutti i tentativi che, in un’ottica statocentrica e nazionale, hanno mirato solo a frazionarla e segmentarla. Smacco della diplomazia e, ancor più, fallimento di una politica che procede con il metro e con il calcolo.
Gerusalemme non divide; al contrario, unisce. Ed è proprio questa unità la sfida che non è stata raccolta. Perché già da tempo avrebbe dovuto essere immaginata una nuova forma politica di governo capace di rispondere alla sovranità verticale di questa città straordinaria, di rispondere alla sua costitutiva apertura orizzontale.
Qui sta il punto della questione, ma nulla di ciò è avvenuto. Piuttosto si è fatta valere l’ipotesi, oramai sempre più lontana, di due Stati separati da confini incerti, precari, minacciosi.
Non sarebbe stata, non è, anzi, più saggia, seppure inedita, la via di due comunità confederate? Sono oramai molti a crederlo.
Città degli stranieri, culla dei monoteismi, residenza dell’Altro sulla terra, anche per i laici, Gerusalemme è quel luogo dell’ospitalità che resiste a una forzata e artificiosa spartizione.
Yerushalaim, capitale di Israele - chi potrebbe non riconoscerlo? - ma anche soglia che Israele è chiamato a oltrepassare. Come ha già fatto - è bene ricordarlo - con la libertà di culto. Ogni rivendicazione nazionalistica, da ambo le parti, è fuori luogo.
Qui dove si richiederebbero mitezza, prudenza, perspicacia, l’atto arrogante e fragoroso del trumpismo danneggia sia israeliani sia palestinesi. E tuttavia, proprio perché è lo scoglio teologico contro cui urta la politica, Gerusalemme può divenire modello extrastatale e banco di prova di future lungimiranti relazioni fra i popoli.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
CHI E’ DIO? CHI E’ IL "PADRE NOSTRO"?! Chi è il Papa? Chi induce in tentazione .... *
A
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
B
GUGLIELMO DI OCKHAM
Chi è il Papa? Un eretico
di Armando Torno (Il Sole-24 Ore, 13 settembre 2015)
Chi avesse cercato, magari in una biblioteca, l’edizione del Dialogo sul papa eretico di Guglielmo di Ockham, si sarebbe visto recapitare un volume ponderoso, in un latino non da parroco. In Rete l’ipotetico lettore qualcosa avrebbe trovato, rischiando però di peggiorare la comprensione: se fosse finito, putacaso, nel sito della Bayerische Staatsbibliothek, dove c’è la riproduzione digitale dell’editio princeps di Parigi del 1476, alle difficoltà della lingua avrebbe aggiunto quelle per la lettura dell’incunabolo. Aggirare l’ostacolo con una versione? Eccolo in un vicolo cieco: non ci sono traduzioni integrali in una lingua moderna. Eppure se il solerte bibliotecario avesse, per esempio, mostrato l’edizione di Francoforte del 1614, la curiosità sarebbe arrivata alle stelle, ché l’editore a pagina 957 aggiunse un Compendio degli errori di papa Giovanni XXII. Un’altra opera di Ockham, d’accordo, ma ne rafforzava le tesi.
Da qualche giorno tali preoccupazioni fanno parte del passato: Alessandro Salerno ha tradotto integralmente per la prima volta nella serie «Il pensiero occidentale» di Bompiani, con il testo latino a fronte, il Dialogo sul papa eretico di Ockham, che morì nel 1349 o nel 1350. Con tutta l’acutezza e la conoscenza di cui disponeva (era noto come il Doctor invincibilis), il celebre francescano tentò di dimostrare - senza allontanarsi dai punti fermi del cristianesimo - la possibilità dell’eresia del vicario di Cristo, mettendo in discussione tutte le relazioni tra papato e impero. La questione non era di poca importanza, giacché il sovrano diventava giudice naturale del pontefice, anzi avrebbe addirittura potuto invocare la difesa della fede per giustificare il suo intervento negli affari della Chiesa.
Certo, il papa a cui frate Guglielmo guardava, ovvero Giovanni XXII sedente in Avignone, non era una mammoletta e i francescani mal lo sopportavano. Basti ricordare che nel 1322, durante il suo pontificato, la disputa sulla povertà di Cristo e degli Apostoli appassionava dotti e semplici fedeli, tanto che un professore del convento dei minori di Narbona, Berengario, difese con forza un tale accusato di aver sostenuto che Cristo e i suoi seguaci nulla possedevano, né in comune né in proprio. Quando fu invitato a ritrattare, decise addirittura di appellarsi alla Santa Sede. Berengario invocò la decretale Exiit qui seminat di Nicola III (agosto 1279), nella quale la tesi era anzi obbligatoria. Giovanni XXII fece arrestare l’entusiasta difensore appena giunto ad Avignone; propose pubblicamente la questione della povertà di Cristo e, siccome Nicola III aveva comminato la scomunica per chi avesse cercato di intenderla in altro modo, con la bolla del 26 marzo di quell’anno, Quia quorundam, sospese la restrizione. La cosa andò avanti e nel dicembre successivo revocò la decretale del predecessore. Bonagrazia da Bergamo, anch’egli francescano, cercò di impugnare tali decisioni: finì a sua volta in prigione.
In un simile contesto nasce il Dialogo di Ockham, in sette libri, scambio di idee tra un maestro e un discepolo. L’opera pone questioni quali «A chi spetta definire la verità cattolica o l’eresia?» o «Esiste un giudice del papa?». Le domande sono radicali e tutto il sesto libro è dedicato alla condanna del pontefice eretico con pagine che recarono grande gioia all’imperatore. Due quesiti (meglio leggerli senza punto di domanda): «Il papa deve essere sottomesso all’autorità come lo fu Cristo» o «Se il papa oppone resistenza all’indagine sul suo conto, è lecito arrestarlo, detenerlo e metterlo in catene». Nella sua introduzione, poco meno di 200 pagine, Alessandro Salerno inquadra l’opera e offre un’analisi del sintagma «papa eretico» (compare circa 1200 volte a partire dal libro quinto). Pone in evidenza ironie e maschere, esamina i concetti di verità e potere, propone considerazioni sull’infallibilità.
Il “papa eretico” riapparirà nella storia della Chiesa con accusatori che non avranno l’acume di Ockham. Qualche storico chiamerà così Alessandro VI, e lo stesso Savonarola lo vide tale; altri, come il presbitero e teologo tedesco Ignaz von Döllinger, lo sussurrarono dopo la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia con Pio IX. Ma questi sono dettagli. Ockham, scomunicato, accolto dall’imperatore Ludovico il Bavaro, passò la parte finale della vita a combattere i papi avignonesi con i suoi trattati. I quali, anche se non furono graditi o odoravano di zolfo, restano dei capolavori di intelligenza.
IL MAGISTERO DI MENZOGNA DELLA CHIESA CATTOLICA: IL "PADRE NOSTRO" CHE INDUCE IN TENTAZIONE. Una nota di Henri Tincq - con premessa.
IL NOME DI DIO. L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" CATTOLICO-ROMANO... *
A)
Dubbi sul Padre Nostro
Alcuni lettori ci scrivono.
"Non ci indurre in tentazione", il vero significato
Risponde il teologo Giuseppe Pulcinelli (Avvenire, 13.09.2017)
Nell’originale greco c’è il verbo eisenenkes che significa “immettere”, “introdurre”. Ma si vuol forse dire che Dio spinge l’uomo verso il male (la tentazione) e quindi gli si chiede di non farlo?
In realtà, alla luce di altri passi della Scrittura (cfr. Gc 1,13: «Dio non tenta nessuno»), si può e si deve dare un’altra spiegazione. Il verbo greco probabilmente traduce - in modo approssimativo - un originale semitico che va compreso in base a testi come il Salmo 140 (141),4: «Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori».
Il senso dell’invocazione è dunque: «Non ci lasciare entrare e soccombere nella tentazione». Speriamo che presto venga adottata anche nella liturgia la versione ufficiale della Cei (2008), che ha corretto con «non abbandonarci alla tentazione».
B)
Chiedi al teologo
Non abbandonarci «alla» o «nella» tentazione?
di Luigi Lorenzetti (Famiglia Cristiana, 02/06/2017)
Nella nuova traduzione della Bibbia Cei (2008) la dizione «Non c’indurre in tentazione», è cambiata in «Non abbandonarci alla tentazione». La tentazione mette la libertà-responsabilità della persona di fronte a un bivio: il bene e il male. Ad esempio, aiutare il prossimo o lasciarlo perdere? Per scegliere il bene, è necessario l’aiuto di Dio che, d’altra parte, non lo impone a nessuno. Da qui la consapevolezza d’averne bisogno e di chiederlo fiduciosi nella preghiera.
Il significato della nuova dizione è tutto nell’invocazione «Non abbandonarci» alla (traduzione ufficiale) o (il che è lo stesso) nella tentazione. Nell’una come nell’altra versione, è chiara la distinzione tra «essere tentati» e «consentire ». È consolante pensare e credere che Dio è sempre presente alla (o nella) tentazione, così da vincerla, anzi, trasformarla in conferma nella scelta del bene.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL "PADRE NOSTRO" NON E’ QUELLO DI PAPA BENEDETTO XVI. IL "DIO" DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI NON CI INDUCE IN TENTAZIONE!!!
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. il sogno del "regno di dio" in un solo Paese è finito... *
Nel nuovo “Credo” la chiesa del dialogo
Al patriarca Bartholomeos verrà donata oggi una diversa traduzione della preghiera che supera le divisioni fra Occidente e Oriente
di Alberto Melloni (la Repubblica, 13.09.2017)
Mancano otto anni (sembra tanto, ma è il tempo dedicato all’attesa del grande giubileo) al centenario del concilio di Nicea del 325. Il primo detto “ecumenico”. Quello che con la sua “esposizione della fede” (“il Credo” diciamo noi) ha segnato la storia cristiana facendo della sinodalità una esperienza che certo non appartiene alla “essenza” della Chiesa, ma è lo strumento con cui essa cerca di restare fedele al Vangelo nel tempo.
Quel concilio doveva garantire a Costantino l’unità dottrinale dell’impero e sedare un conflitto teologico lacerante sul modo di pensare Dio e dunque sul modo di pensare la natura del potere. La teologia di Ario, infatti, affermava una ineguaglianza fra il Padre e il Figlio: non era una quisquilia per teologi, ma la tesi che avrebbe permesso ad ogni potere di sacralizzare il proprio sistema discendente di dominazione come specchio dell’ordine divino. Il concilio, invece, fece la scelta più difficile: e disse che al cuore del mistero di Dio vi è la relazione e fece della dottrina trinitaria il cuore della fede cristiana.
La «esposizione della fede dei 316 padri» approvata a Nicea fu ampliata nel successivo concilio di Costantinopoli ed è diventata parte della vita liturgica di tutte le chiese cristiane fino ad oggi. Essa ha assorbito una questione che ha pesato come un macigno nei rapporti fra Oriente e Occidente. Il simbolo niceno-costantinopolitano, infatti, non ammetteva ritocchi. La sua immobilità segnalava un paradosso: per dire ciò che è essenzialissimo alla fede di e in Gesù servono parole e organi (il credo e il concilio) a lui ignote.
Ciò nonostante l’Occidente introdusse nella versione latina del Credo, le parole “e dal Figlio” - il Filioque - là dove i padri costantinopolitani aveva detto che lo Spirito si avventura (l’ekporesis è il cammino di chi lascia una città) procedendo “dal Padre”. Una addizione d’origine iberica che l’Occidente difese spiegando che significava “attraverso il Figlio”, lasciando dunque intatta la fede nicena. E che invece molti Orientali considerarono o considerano intollerabile: fino a giudicare i patriarchi che hanno abbracciato il papa come troppo indulgenti verso “l’eretico di Roma”.
Fatto sta che il Filioque è stato oggetto di conflitto, ora attutito ora riacutizzato: ma è anche un’occasione per chiedersi come l’Occidente tradurrebbe oggi nelle lingue vive il testo greco del simbolo. Non certo per illudersi di aggirare l’ostacolo della divisione con una furbizia filologica, ma per chiedersi quale sia il nesso che esiste fra il male del mondo, condannato dalle chiese con giusta energia, e la loro divisione, troppo spesso derubricata a questione tecnico-teologica. Così diciotto secoli dopo, il Credo domanda alle chiese se hanno memoria o meno dell’unità di fede - premessa che decide della celebrazione comune dell’eucarestia - che quel testo enunciava.
L’Occidente infatti s’è legato a una traduzione latina, che ha il Filioque e che soprattutto organizza in strofe a cui il canto aggiunge un po’ di trionfalismo tonale. Ma non ha mai perso il testo greco, con una metrica interna tutta diversa e del quale la Chiesa cattolica ha sempre riconosciuto, da ultimo con un atto del 1995 della Santa Sede, la intangibilità.
L’Occidente dunque ha conservato il diritto di recitare il Credo in greco (lo hanno fatto anche i papi) e anche quello di tradurlo: specie ora, in una liturgia fatta di lingue vive, che nascono da traduzioni sulle quali il papa ha ridato da pochi giorni alle conferenze episcopali e ai vescovi i poteri che loro competono.
Da questa constatazione deriva l’ipotesi o l’esperimento di una traduzione - che come insegna Tullio Gregory è il ponte da cultura a cultura - del Credo: una traduzione nuova, “dal basso”, e come si vedrà, desiderosa di conservare in una sola parola ciò che il greco dice in una parola, anche a costo di alterare la memorizzazione oggi più diffusa. È stata confezionata in occasione della visita che il Patriarca Ecumenico Bartholomeos farà oggi a Bologna, e alla fondazione dove Giuseppe Alberigo e Giuseppe Dossetti hanno seminato l’amore per lo studio e per i concili: non è una proposta, è un dono.
Ruminata per molto tempo fra alcuni dotti, discussa con una filologa del calibro di Silvia Ronchey, nota a pochissime ma autorevoli figure delle chiese d’Oriente e d’Occidente, questa traduzione lascia il Credo latino alla sua storia: e cerca di far rivivere le rime nascoste della fede comune e il battere di quell’“uno” che sembra un ritornello: il Dio uno, il Figlio uno, la chiesa una, il battesimo uno.
A otto anni dal centenario di Nicea si contenta di dire che scoprire l’unità della fede vissuta dalle chiese e la sinodalità che ha permesso loro di conservare la fedeltà al vangelo sono ancora lì, come un eredità, come un traguardo, come un seme di pace di cui il mondo battuto dalla violenza attende i germogli.
Crediamo in un Dio Uno Padre, Onnipotente, Fattore del cielo e della terra, dei visibili e degli invisibili
E [crediamo] in un Signore Uno, Gesù Cristo, il Figlio di Dio, l’Unigenito, il Generato dal Padre prima di tutti i secoli, [Dio da Dio], luce da luce, Dio vero da Dio vero generato non fatto, consustanziale al Padre per mezzo del quale tutto fu creato.
Lui [che] per noi, gli uomini, e per la salvezza nostra discese dai cieli e s’incarnò di Spirito Santo e da Maria Vergine s’inumanò.
Il Crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, Lui [che] morì e fu sepolto e risorse il terzo giorno, secondo le Scritture e ascese nei cieli, e intronizzato alla destra del Padre e di nuovo tornerà nella gloria giudicante i vivi e i morti, Lui, il cui Regno non avrà fine.
E [ crediamo] nello Spirito Santo il Signore e il Vivificante che si diparte dal Padre e con il Padre e il Figlio il Conadorato e Conglorificato il Parlante per mezzo dei Profeti.
[Crediamo] la chiesa Una, Santa, Cattolica e Apostolica
Confessiamo un battesimo Uno per la remissione delle colpe, attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del secolo futuro
Amen.
*
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un gesto che ferisce la comunità ecclesiale e l’impegno civile per la pace.
di Sergio Paronetto (presidente Centro Studi di Pax Christi Italia) *
Tristezza, sconcerto e anche indignazione. Che paradosso proclamare papa Giovanni XXIII patrono dell’esercito!
E’ come dichiarare Francesco d’Assisi patrono del sistema finanziario o madre Teresa patrona delle multinazionali.
Le ragioni del patronato sono biograficamente riduttive, forzate o parziali, tutte legate alla sua esperienza di cappellano militare durante la prima guerra mondiale “inutile strage”. Ma Roncalli non è morto in quegli anni. Proclamarlo patrono per le sue doti di cappellano militare vuol dire snaturarne il messaggio, inchiodarlo a un’esperienza discussa e tremenda che ha superato approdando ad altre argomentazioni, ad altri orizzonti (Concilio, Pacem in terris) così come ha fatto Primo Mazzolari.
Già all’indomani della fine della prima guerra mondiale, Roncalli affermava: «Ciò che vale veramente e soprattutto non è la forza delle spade e dei cannoni, ma la forza della giustizia davanti al cielo e alla terra, la forza del diritto e insieme della umana e divina fraternità degli uomini, il senso dell’onore. In queste cose sta il progresso verace degli individui e delle nazioni» (omelia 17 novembre 1918, chiesa di Santo Spirito, Bergamo).
Nel giugno 1940 osservava che “la guerra è un periculum enorme. Per un cristiano che crede in Gesù e nel suo vangelo un’iniquità e una contraddizione”.
Nella Pacem in terris del 1963 invita tutti al “disarmo integrale” considerando la guerra moderna come “l’incubo di un uragano” e un fenomeno assurdo, “alienum a ratione” (60, 61, 67).
E’ di guerre, infatti, che si parla quando si parla di esercito.
Ultimamente, le guerre in Iraq, in Serbia, in Libia, in Afghanistan sono state le azioni scellerate (e controproducenti) che i governi italiani hanno promosso riuscendo sia ad aggirare l’articolo 11 della Costituzione, sia ad arricchire i fabbricanti di armi, complici dei Parlamenti che rinnovano esorbitanti finanziamenti per sistemi d’arma, bombe, missili, aerei e navi da guerra tanto da non avere più denaro per curare i malati, istruire i giovani, sconfiggere le marginalità sociali, contrastare il dissesto idrogeologico, prevenire le calamità.
Le missioni militari cosiddette di pace raramente sono dentro un’ampia strategia ONU di contrasto alle violenze con forme adeguate di polizia internazionale. Oggi “il libro bianco della difesa” prefigura interventi contrari alla Costituzione della Repubblica, colpisce il fondamento giuridico della nostra carta fondamentale che intende ripudiare le guerre e prevenire i conflitti senza l’uso della guerra.
Ezio Bolis, su “l’Osservatore romano” (11 settembre 2017), osserva che tale scelta potrebbe essere “una provvidenziale occasione per riflettere in modo ponderato sul significato e l’opportunità di una presenza, quella dei cappellani militari, all’interno di un’istituzione qual è l’esercito”. Con azzardo utopistico potremmo aggiungere addirittura che la riflessione su papa Giovanni potrebbe ridimensionare lo stesso esercito, allontanarlo dalla Nato, limitarlo a una funzione rigorosamente difensiva.
Magari fosse così. Le dinamiche economiche, politiche e militari vanno in altre direzioni (distruttive e devastanti). Occorre molto realismo per vincere il rischio di ingenuità o di ipocrisia!. In realtà siamo davanti a due tristi operazioni: alla cattura burocratica-castale di un papa noto al mondo per la sua azione di pace e per averci donato la Pacem un terris; al tentativo di imbrigliare e ostacolare il magistero di pace di papa Francesco, ritenuto troppo audace e scomodo, spesso in contrasto con alcune pratiche o silenzi dei vescovi italiani (vedere i suoi interventi al Convegno ecclesiale di Firenze del novembre 2015 o quelli alla CEI nel maggio del 2015 e 2017).
Forse per molti ecclesiastici la via della nonviolenza, indicata da Francesco nel messaggio del 1 gennaio 2017, è ritenuta impossibile e pericolosa. Forse molti ritengono assurdo parlare di terza guerra mondiale a pezzi.
Continuo a ritenere con Francesco che la via per la pace può essere solo una via di pace (come ha detto in Colombia il 10 settembre 2017), un’arte da esercitare, un impegno non proclamato a parole ma di fatto negato con strategie di dominio supportate da scandalose spese per armamenti mentre troppe persone sono prive del necessario per vivere. Il magistero di pace dei papi non si merita simile trattamento!
*Bocche Scucite, 12/9/17 (ripresa parziale - senza immagini).
Chi ha paura di Jorge Mario Bergoglio
di Riccardo Cristiano (Articolo 21, 1 settembre 2017)
Le anticipazioni di un libro intervista che contiene la trascrizione di dodici dialoghi con il sociologo Dominique Wolton (titolo: “Politique et sociétéˮ, edizioni L’Observatoire) riferiscono che Papa Francesco ha detto di essere andato per alcuni mesi da una psicanalista. In queste ore non sono pochi i giornali che riferiscono le condanne preconciliari della psicanalisi. Forse è il bisogno di trovare qualcosa di “inaudito” in quanto ha detto Bergoglio. Eppure a partire da Pio XII, passando attraverso gli apprezzamenti positivi del Vaticano II nei confronti della psicologia del profondo, si è giunti al riconoscimento di Paolo VI - nella Sacerdotalis coelibatus (1967) - della possibile necessità di un aiuto psicanalitico per i sacerdoti in difficoltà. Questa evoluzione è stata facilitata da una schiera di psicoanalisti dichiaratamente cattolici.
C’è un saggio, ad esempio, del professor Bresciani sul debito della Chiesa verso la psicoanalisi e Sigmund Freud nel quale possiamo leggere: “Freud, nonostante proponesse una vera e propria antropologia, militava decisamente per l’alleanza terapeutica con il malato; mettendosi a livello del sofferente si prestava ad un ascolto profondo e ad una partecipazione alla sua vita emotiva. [Un studio del professor] Ancona vede qui un Freud vicino alla pedagogia cristiana più di quanto egli stesso pensasse. Il suo ideale di uomo come colui che è capace di «amare e lavorare», la sua posizione sulla possibilità di sublimazione della sessualità, la conclusione della sua opera di ricerca con l’affermazione che la coscienza «resta la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida», erano posizioni passibili di sviluppi meno conflittuali.”
Passa in ombra così l’usuale coraggio di Jorge Mario Bergoglio, che anche in questa “confessione” di essere andato per sei mesi da una psicanalista ebrea, che lo ha molto aiutato, sembra stare in questo: anch’io sono un uomo, e tutti gli uomini hanno bisogno di aiuto. Lo dice lui, noi lo diciamo molto più difficilmente. -L’epoca buia dello scontro tra religione e psicanalisi è andata in soffitta da tempo. Ma siccome siamo in un’epoca che si fa nuovamente buia, intrisa di odio per l’altro, di pregiudizio, fondamentalmente di paura, sono moltissime le affermazioni fatte da Papa Francesco che colpiscono. E che per leggere bene dovremmo avere il suo stesso coraggio, cioè quello di toglierci il paraocchi e leggere per quel che sono. Un invito ad andare oltre gli steccati di oggi, oltre quei confini che ci chiudono in ghetti tanti asfittici quanto rassicuranti.
Leggiamo alcuni altri passaggi fondamentali delle sue riflessioni, partendo dall’ Africa e i migranti.
“[...]L’Europa ha sfruttato l’Africa ... non so se possiamo dirlo! Ma alcune colonizzazioni europee... sì, hanno sfruttato. Ho letto che un capo di stato africano appena eletto come primo atto di governo ha presentato al Parlamento una legge per il rimboschimento del suo paese - ed è stata promulgata. Le potenze economiche del mondo avevano tagliato tutti gli alberi. Rimboschire. La terra è secca per essere stata sfruttata e non c’è più lavoro. La prima cosa da fare, come ho detto alle Nazioni Unite, al Consiglio d’Europa in tutto il mondo, è trovare qui fonti per creare di posti di lavoro, investire. È vero che l’Europa deve investire anche a casa propria. Anche qui esiste un problema di disoccupazione. L’altro motivo per la migrazione è la guerra. Possiamo investire, le persone avranno una fonte di lavoro e non dovranno partire, ma se c’è guerra, dovranno ancora fuggire. Ora chi fa la guerra? Chi dà le armi? Noi.”
Per un uomo come Papa Francesco generalizzare è sempre difficile, ma se proprio deve farlo non generalizza sulle “razze”, ma sulle azioni degli Stati e le loro conseguenze. Per condannare? No, per esortare a invertire tendenza, a non cercare scorciatoie, a non vedere nelle vittime degli esseri inferiori, ma delle vittime.
Passiamo a Laicità e religioni. “Lo stato laico è una cosa sana. C’è una laicità sana. [...] Credo che la Francia - questo è il mio parere personale, non quello ufficiale della Chiesa - dovrebbe “elevareˮ un po’ il livello della laicità, nel senso che deve dire che anche le religioni sono parte della cultura. Come esprimerlo in modo laico? Attraverso l’apertura alla trascendenza. Ognuno può trovare la sua forma di apertura.” Come si vede, come si legge, qui non c’è una pretesa di superiorità del credente, ma la rivendicazione della spiritualità dell’uomo, del suo bisogno “naturale” di trascendenza.
Quarto punto, l’Europa. “Non vedo più Schumann, non vedo più Adenauer... L’Europa, in questo momento, ha paura. Chiude, chiude, chiude... L’Europa ha una storia di integrazione culturale, multiculturale come dice lei, molto forte. I Longobardi, i nostri Longobardi oggi, sono barbari che sono arrivati molto tempo fa... E poi tutto si fonde e abbiamo la nostra cultura. Ma qual è la cultura europea? Come definirei oggi la cultura europea? Sì, ha importanti radici cristiane, è vero. Ma non è sufficiente per definirla. Ci sono tutte le nostre capacità. Queste capacità per integrarsi, per ricevere gli altri. C’è anche la lingua nella cultura. Nella nostra lingua spagnola, il 40% delle parole è arabo. Perché? Perché erano lì per sette secoli. E hanno lasciato il segno... Credo che l’Europa abbia delle radici cristiane, ma non sono le uniche. Ci sono altre che non possono essere negati. Tuttavia, credo che sia stato un errore non citare le “radici cristianeˮ nel documento dell’Unione europea sulla prima Costituzione, e questo è stato anche commesso dai governi. Era un errore non vedere la realtà. Questo non significa che l’Europa debba essere interamente cristiana. Ma è un patrimonio, un patrimonio culturale, che abbiamo ricevuto.”
C’è qualcosa di enorme in queste parole, in questa capacità di ricordarci che quel che è stato vero ieri è vero anche oggi. Non esiste purezza, esiste contaminazione. La purezza è delle pietre, la contaminazione è della vita. Anche se non vogliamo più capirlo qualcuno, per fortuna, ce lo ripete.
L’insistenza sulla morale «sotto la cintura». “Ma noi cattolici, come insegniamo la moralità? Non puoi insegnarla con precetti del tipo: “Non puoi farlo, devi farlo, devi, non devi, puoi, non puoiˮ. La morale è una conseguenza dell’incontro con Gesù Cristo. È una conseguenza della fede, per noi cattolici. E per altri, la moralità è una conseguenza dell’incontro con un ideale, o con Dio, o con se stessi, ma con la parte migliore di se stessi. La morale è sempre una conseguenza... C’è un grande pericolo per i predicatori, quello di cadere nella mediocrità. Condannare solo la morale - la prego di perdonare l’espressione - “sotto la cinturaˮ. Ma degli altri peccati, quali l’odio, l’invidia, l’orgoglio, la vanità, l’uccisione dell’altro, prendere la vita, non se ne parla. Entrare nella mafia, fare accordi clandestini...”
Il Vaticano, se posso dir così, è apparso a lungo strabico: l’etica vista dalla Città del Vaticano sembrava riguardare l’inizio e la fine della vita, la morale limitata alla sfera sessuale... Ora l’etica torna a riguardare tutta la vita, dal momento in cui si concepisce a quando si muore, passando però per tutti i momenti della nostra esistenza: da quando sfruttiamo a quando veniamo sfruttati, da quando siamo vittime a quando facciamo nostra vittima un altro. Poco?
Amoris laetitia e rigidità. “La tentazione è sempre quella dell’uniformità delle regole... Prenda ad esempio l’esortazione apostolica Amoris laetitia. Quando parlo di famiglie in difficoltà, dico: “Dobbiamo accogliere, accompagnare, discernere, integrare...ˮ e poi ciascuno vedrà le porte aperte. Quello che sta realmente accadendo è che le persone sentono dire la gente: “Non possono fare la comunione”, “Non possono farlo”: la tentazione della Chiesa è lì. Ma “noˮ, “noˮ e “noˮ!”
Papa Francesco parla di uniformità delle regole, si potrebbe dire che allora la sua Chiesa non si pensa un giudice eterno ed esterno alla storia. Poco?
«L’aborto rimane un peccato grave». “ L’estensione del potere di assolvere il peccato dell’aborto a tutti i sacerdoti, «attenzione, questo non significa banalizzare l’aborto. L’aborto è grave, è un peccato grave. È l’omicidio di un innocente. Ma se c’è peccato, è necessario facilitare il perdono.” Un papa non poteva fare un esempio più rilevante e drammatico per indicare la portata rivoluzionaria della misericordia. Che non è “cancellare il peccato”, ma rigenerare la vita del peccatore. La misericordia così appare la vera cultura alternativa all’odio e, quindi, al terrorismo.
Reciprocità con i musulmani. “Non accettano il principio della reciprocità. Alcuni paesi del Golfo sono aperti e ci aiutano a costruire chiese. Perché sono aperti? Perché hanno lavoratori filippini, cattolici, indiani... Il problema in Arabia Saudita è che è davvero una questione di mentalità. Con l’Islam, comunque, il dialogo sta andando bene, perché non so se lo sa, ma l’Imam di Al-Azhar è venuto a trovarmi. E ci sarà incontro: vado. Penso che farebbe bene a loro fare uno studio critico sul Corano, come abbiamo fatto con le nostre Scritture. Il metodo storico e critico di interpretazione li farà evolvere.”
E’ questo il punto per me più importante, più forte. Senza nessuna pretesa di superiorità, né religiosa né culturale, Bergoglio indica la strada della salvezza dell’islam, in una parola: ermeneutica. Non esita a far presente ai suoi interlocutori il punto decisivo, il punto “critico”, ma lo fa per il bene dell’islam, dei musulmani. E questo, francamente, è commovente.
SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
EUROPA ED EVANGELO. LA ’CROCE’ DI CRISTO ("X" = lettera alfabeto greco) NON HA NIENTE A CHE FARE CON IL "CROCIFISSO" DELLA TRADIZIONE COSTANTINIANA E CATTOLICO-ROMANA.
Francesco e Bartolomeo: che Dio ci aiuti a salvare la sua creazione
Il Papa e il Patriarca ecumenico di Costantinopoli firmano insieme il messaggio in occasione della Giornata di preghiera per la Salvaguardia del creato. Ricordano che i primi a pagare le devastazioni ambientali sono «i popoli più vulnerabili» e quelli che vivono in povertà «in ogni angolo del mondo». Appello ai potenti: non ci può essere soluzione alla crisi ecologica se la risposta non è concertata e collettiva
di Gianni Valente (La Stampa, 01/09/2017)
Città del Vaticano. La terra ci è stata affidata dal Creatore come un dono mirabile. Ma lo «scenario moralmente decadente» che segna la storia del mondo si è manifestato anche nel nostro «insaziabile desiderio di manipolare e controllare le limitate risorse del pianeta», cedendo all’ingordigia per i «profitti illimitati» promessi dal mercato. Così ci siamo allontanati dal «disegno originale della creazione», e i primi a fare le spese di questo tradimento del disegno di Dio sono quelli che «vivono poveramente in ogni angolo del globo». Per questo serve pregare Dio per ringraziarlo del dono della Creazione, ma anche per chiedere a lui di sostenere l’impegno per la cura e la protezione del Creato. E occorre anche che chi ha responsabilità politiche, economiche e sociali ascolti «il grido della terra» e la supplica dei milioni che implorano la guarigione del «creato ferito».
Non è un semplice manifesto green, ma un vero grido di preghiera il messaggio che Papa Francesco e il Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I hanno sottoscritto insieme per chiedere a «tutte le persone di buona volontà» di dedicare tempo a pregare per l’ambiente venerdì 1° settembre, Giornata mondiale di preghiera per la Cura del Creato. Il testo, che del primo settembre porta anche la data, era stato anticipato ieri in una traduzione italiana curata dall’agenzia Asia News, rilanciata quasi integralmente dall’Ansa.
Il Successore di Pietro e il Successore di Andrea invitano a riconoscere che le vicende del mondo si intrecciano col mistero della creazione e col mistero della natura umana, ferita dal peccato originale. E nel contempo - e forse proprio per questo - suggeriscono anche uno sguardo critico originale sul modello di sviluppo trionfante e sulle responsabilità di ha il potere.
Un dono tradito
La Sacra Scrittura - sottolineano Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo nelle prime righe del loro messaggio - rivela che fin dal principio Dio volle che l’umanità cooperasse nelle custodia e nella protezione del creato. «All’inizio, come leggiamo in Genesi (2,5), “nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo”. La terra ci venne affidata come un dono sublime e come eredità della quale tutti condividiamo la responsabilità finché, “alla fine”, tutte le cose in cielo e in terra saranno ricapitolate in Cristo».
Ma a dispetto di questo disegno buono, la storia del mondo ha fatto emergere uno contesto diverso, segnato da «uno scenario moralmente decadente», dove l’attitudine degli uomini verso il creato ha progressivamente oscurato la vocazione degli uomini a essere «collaboratori di Dio». La pulsione a spezzare i «delicati ed equilibrati ecosistemi del mondo», l’insaziabile desiderio «di manipolare e controllare le limitate risorse del pianeta, l’avidità nel trarre dal mercato profitti illimitati: tutto questo ci ha alienato dal disegno originale della creazione». Adesso - proseguono Bartolomeo e Papa Francesco - «non rispettiamo più la natura come un dono condiviso; la consideriamo invece un possesso privato. Non ci rapportiamo più con la natura per sostenerla; spadroneggiamo piuttosto su di essa per alimentare le nostre strutture».
Pagano i poveri
Le conseguenze di questo processo di alienazione - si legge nel messaggio sottoscritto da Papa Bergoglio e dal Patriarca ecumenico - sono «tragiche e durevoli. L’ambiente umano e quello naturale si stanno deteriorando insieme, e tale deterioramento del pianeta grava sulle persone più vulnerabili. L’impatto dei cambiamenti climatici si ripercuote, innanzitutto su quanti vivono poveramente in ogni angolo del globo. Il nostro dovere a usare responsabilmente dei beni della terra - scrivono Papa e Patriarca - implica il riconoscimento e il rispetto di ogni persona e di tutte le creature viventi. La chiamata e la sfida urgenti a prenderci cura del creato costituiscono un invito per tutta l’umanità ad adoperarsi per uno sviluppo sostenibile e integrale ».
Il Signore e il cuore dei potenti
Davanti allo scenario descritto, i due pastori cristiani, uniti anche «dalla medesima preoccupazione per il creato di Dio, e riconoscendo che la terra è un bene in comune», invitano con fervore tutte le persone di buona volontà «a dedicare, il 1° settembre, un tempo di preghiera per l’ambiente». Una preghiera per ringraziare «il benevolo Creatore per il magnifico dono del Creato», ma anche per chiedergli di sostenere un rinnovato impegno per la cura e la preservazione di quel dono: «Alla fine, sappiamo che ci affatichiamo invano se il Signore non è a nostro fianco».
A Dio, Bartolomeo e Papa Francesco chiedono di cambiare il modo con cui gli uomini si relazionano con il mondo. E la preghiera rivolta a Dio, affinché tocchi i cuori di tutti, è implicitamente connessa all’appello che Papa Francesco e Bartolomeo, nel loro messaggio, rivolgono a chi gestisce il potere: « Noi rivolgiamo, a quanti occupano una posizione di rilievo in ambito sociale, economico, politico e culturale» scrivono i due pastori «un urgente appello a prestare responsabilmente ascolto al grido della terra e ad attendere ai bisogni di chi è marginalizzato, ma soprattutto a rispondere alla supplica di tanti e a sostenere il consenso globale perché venga risanato il creato ferito. Siamo convinti - aggiungono - che non ci possa essere soluzione genuina e duratura alla sfida della crisi ecologica e dei cambiamenti climatici senza una risposta concertata e collettiva, senza una responsabilità condivisa e in grado di render conto di quanto operato, senza dare priorità alla solidarietà e al servizio».
La sollecitudine del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli per la cura del creato si è accresciuta con manifestazioni più accentuate a partire dalla fine dagli anni Ottanta del secolo scorso. È la prima volta che Papa e Patriarca co-firmano una dichiarazione comune sull’ambiente, ma il Patriarcato di Costantinopoli già nel 1989 ha fissato al 1° settembre la Giornata di Preghiera per la salvaguardia della natura. Anche per questo appare fuori luogo ogni lettura dell’appello di Papa Francesco e Bartolomeo come strumento di polemiche politiche di corto respiro.
Nel settembre 1995, intervenendo al simposio internazionale su “Apocalisse e Ambiente”, organizzato dallo stesso Patriarcato ecumenico e dal Wwf, Bartolomeo già aveva invitato uomini di Chiesa e scienziati a dialogare sulla questione ambientale, pur ribadendo che su questo terreno «le esortazioni moraleggianti in nome del bene comune hanno scarsa utilità». Nella sensibilità ortodossa, oggi abbracciata con tanto entusiasmo da Papa Francesco, anche la devastazione del creato è un segno della generale dimenticanza del Mistero che fa tutte le cose. Così come l’amore vero ai doni della creazione appare connaturale a chi «diviene una nuova creatura in Cristo»
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL. Un’intervista a John Chryssavgis di Chiara Santomiero
Doomsday Clock.... Fine della Storia o della "Preistoria"?
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. PER LA PACE PERPETUA.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito. UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
"Legge Morale"
e
"Cielo stellato"
sulla tomba dell’EUROPA
Napoleone-Hegel-Heidegger?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE....
La misericordia per i peccatori, spiegata nel Corano, avvicina il Dio dell’Islam a quello del cristianesimo
Perché l’essenza di Allah è nel perdono
Come dice il libro sacro: lui è “il Primo e l’Ultimo, il Manifesto e l’Occulto”
Non somiglia a niente. Eppure somiglia all’uomo e al mondo e questi gli assomigliano
di Pietro Citati (la Repubblica, 10.07.2017)
In nessuna religione, mai, l’unicità di Dio ha avuto un ruolo così intenso, violento ed esasperato come nell’Islam. “Non vi è divinità all’infuori di Dio”: vale a dire; “non vi è nulla che esiste all’infuori di Dio”. Come dice al-Ghazali (1058-1110), all’inizio del “Rinnovamento delle scienze religiose” (“Scritti scelti”, a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, Utet), “nella sua essenza egli è Uno senza socio, Singolo senza simile, Signore senza oppositore, Solo senza rivali, Eterno senza un prima, Perpetuo senza un principio, Perenne senza un ultimo, Sempiterno senza fine, Sussistente senza cessazione, Continuo senza interruzione”.
Allah è “il Primo e l’Ultimo, il Manifesto e l’Occulto”, dice il Corano. Non è un corpo con una forma, né una sostanza con limite e misura. Non è simile a cosa alcuna: misure non lo limitano, né lo contengono spazi. Egli è: non lo circoscrivono lati: non lo racchiudono terre né cieli; è seduto sul Trono senza contatto, assestamento, insediamento, dimora, spostamento. Egli non abita in cosa alcuna, né alcuna cosa abita in lui: è troppo elevato perché lo possano contenere luoghi, troppo puro perché lo possano limitare tempi; anzi Egli era prima di creare tempi e luoghi. Egli è l’Unico che non ha contrari, il Signore che non ha opposti, il Ricco che non ha bisogno, il Potente che fa ciò che vuole, il Sussistente, il Dominatore delle cose inerti, degli animali e delle piante, Colui che ha la grazia, la maestà, lo splendore e la perfezione. Se un uomo è rinchiuso nell’inferno, basta che egli conosca l’unicità di Dio perché lasci l’inferno. Come disse Maometto: “Chiunque dice: ‘non vi è Iddio se non Iddio, entrerà in Paradiso’”.
Nel suo bel libro L’esoterismo islamico (Adelphi), Alberto Ventura esplora Allah, senza cessare di paragonarlo alle figure divine nella Qabbalah, nel Tao, nella cultura indiana e in pseudo-Dionigi l’Areopagita. Non possiamo che implorare Allah: “O Dio, dice al-Ghazali, ti chiedo una grazia totale, una protezione continua, una misericordia completa, un’esistenza felice: ti chiedo beneficio perfetto e favore completo, generosità dolcissima, bontà affabile. O Dio sii con noi e non contro di noi. Attua largamente le nostre speranze, congiungi i nostri mattini e le nostre sere, versa in gran copia il tuo perdono sulle nostre colpe, accordaci il favore di correggere i nostri difetti, o Potente, o Perdonatore, o Generoso, o Sapiente, o Onnipotente. O Primo dei primi, o Ultimo degli ultimi, o più Misericordioso della misericordia”.
Al-Ghazali insegue tutti gli aspetti di Dio. Allah è oltre ogni nome e attributo, oltre ogni condizione e relazione, oltre tutte le apparenze e gli occultamenti, oltre ogni palesarsi e nascondersi, oltre ogni congiungimento e separazione, oltre tutte le contemplazioni e le intuizioni, oltre ogni cosa pensata e immaginata. Egli è oltre l’oltre, e poi oltre l’oltre, e poi ancora oltre l’oltre. Egli è il Principio infinito, incondizionato e immortale, che non può venire racchiuso entro i confini della ragione umana. È l’essere e il non-essere, il manifestato e il non manifestato, il suono e il silenzio. La sua immagine più adeguata è una notte tenebrosissima, nella quale non si può scorgere nulla di determinato e preciso.
Allah non somiglia a niente: nessuna cosa gli somiglia; la sua mano non somiglia alle altre mani, né la sua penna alle altre penne, né la sua parola alle altre parole, né la sua scrittura alle altre scritture. Eppure somiglia al mondo e all’uomo e il mondo e l’uomo gli assomigliano: “se non ci fossero le somiglianze, l’uomo non potrebbe elevarsi dalla conoscenza di sé stesso alla conoscenza del creatore”. Allah determina tutte le cose. Non avviene, nel mondo inferiore e in quello superiore, batter di ciglio, balenar di pensiero, subitaneo volgere di sguardo, se non per decreto, potere e volontà di Dio. Da lui proviene il male e il bene, l’utilità e il danno, l’Islam e la miscredenza, la conoscenza e la sconoscenza, il successo e la perdita, il vero e il falso, l’obbedienza e la disobbedienza, il politeismo e la fede. Anche il male - insiste al-Ghazali - e gli atti di ribellione umana non accadono per volontà di Satana ma di Dio. A volte egli proibisce ciò che vuole, e ordina ciò che non vuole. Non ha scopi, mentre gli uomini hanno scopi precisi. Desidera ciò che desidera senza alcun timore; e decide e fa quello che vuole, senza timore. Se ti fa perire, egli ha già fatto perire un numero infinito di tuoi simili e non ha smesso di tormentarli. “Sorveglia i tuoi respiri e i tuoi sguardi - dice al-Ghazali - e sta bene attento a non distrarti da Dio un solo istante”. A volte egli ci protegge da ogni tribolazione e malattia: ma egli non ha mai, in nessun momento, obblighi verso di noi o verso il mondo, di cui non ha assolutamente bisogno.
Come diceva Ali Bakr, la nostra assoluta incapacità di comprendere Dio è il nostro modo supremo di comprenderlo: sapere che noi siamo esclusi da lui è la nostra vera vicinanza. “Lode a colui che ha stabilito per le creature una via alla sua comprensione attraverso l’incapacità di comprenderlo”. Quando Dio entra nel cuore umano, la luce vi risplende, il petto si allarga, scopriamo il mistero del mondo, la grazia della misericordia cancella il velo dell’errore, e brilla in noi la realtà delle cose divine. Il cuore ripete il nome di Dio, fino a quando la lingua lo pronuncia incessantemente, senza essere comandata. Da principio è un rapido baleno che non permane, poi ritorna, si ritira, passa, ritorna. Tuttavia nemmeno in questo istante esiste in al-Ghazali quella identificazione con Dio, che altri mistici islamici (come al-Hal- laj) esperimentano e di cui parlano inebriati.
Al-Ghazali preferisce parlare di annientamento dell’uomo: anzi di annientamento dell’annientamento, “perché il fedele si è annientato rispetto a sé stesso, e si è annientato rispetto al proprio annientamento: in quello stato egli è incosciente di sé stesso e incosciente della propria incoscienza”. Rispetto al Principio supremo, ogni elemento della realtà, se viene considerato in sé e per sé, è quasi insignificante, quasi illusorio, quasi un puro nulla. Ma al tempo stesso esso è significante perché è capace di riflettere l’Assoluto increato. Allora il molteplice manifesta l’essenza, e il passaggio dal molteplice all’uno e dall’uno al molteplice è istantaneo. Così il mare, dice Ibn Arabi, si moltiplica nella forma delle onde, pur rimanendo sé stesso. Dio è altro rispetto alle cose: ma non così altro da escludere ogni somiglianza; dunque è insieme altro e simile. Se qualcuno dicesse: “non conosco che Dio eccelso” direbbe la verità; ma se dicesse “non conosco Dio eccelso”, direbbe ugualmente il vero. Questa - sottolinea Alberto Ventura - è la profonda doppiezza, ambiguità e ricchezza della vita e della cultura islamica.
Quando l’intelletto umano è libero dagli inganni della fantasia e dell’immaginazione, esso può vedere le cose come sono. È quella che al-Ghazali chiama la condizione profetica: nella quale rifulgono le tavole dell’invisibile, le leggi dell’Altra vita, le conoscenze su Dio che vanno oltre la portata dello spirito intellettivo. Dio dunque si può vedere. Ci sono persone che vedono le cose tramite lui, e altre che vedono le cose e tramite le cose vedono lui. I primi hanno una visione diretta di Dio: i secondi lo deducono dalle sue opere; i primi appartengono alla categoria dei giusti, i secondi a quella dei sapienti. Talvolta Dio si manifesta così intensamente e in modo così esorbitante, che viene occultato. Come dice il Corano, Dio è nascosto dietro settanta (o settecento o settemila) veli di luce e di tenebra: se egli li rimuovesse, il suo sublime splendore brucerebbe chiunque sia giunto vicino a lui con lo sguardo. Dio si nasconde dietro sé stesso. La sua luce è il suo velo.
Secondo una tradizione raccontata dal Al-Ghazali, Dio ha detto: “Se il mio servo commette un peccato grande come la terra, io lo accolgo con un perdono grande come la terra”. Quando l’uomo pecca, l’angelo tiene sollevata la penna per sei ore: se l’uomo si pente e chiede perdono, l’angelo non registra il peccato a suo carico; se continua a peccare, registra il suo peccato soltanto come una cattiva azione. Dio non si stanca di perdonare finché il suo servo non si stanca di chieder perdono. Se il fedele si propone una buona azione, l’angelo la segna prima che egli l’abbia compiuta e, se la compie, gliene vengono registrate dieci. Quindi Dio la moltiplica fino a settecento volte.
Allah perdona sopratutto i grandi peccatori. Come dice Maometto: “Io ho la facoltà di intercedere per i grandi peccatori. Credi forse che userei questa facoltà per gli uomini obbedienti e timorati? No, essa riguarda soltanto gli insozzati dalla mente confusa”. Ibrahim, figlio di un emiro della Battriana, racconta: “Mentre una volta giravo intorno alla Ka’ba, in una notte piovigginosa e scura, mi fermai presso la porta e dissi: ‘mio Signore preservami dal peccato, affinché mai io mi ribelli a Te’. Una voce proveniente dalla Ka’ba mi sussurrò: ‘O Ibrahim mi chiedi di preservarti dal peccato e tutti i miei servi mi chiedono questo. Se io preservassi te e loro dal peccato, su cosa riverserei la mia grazia e chi perdonerei?’”. Il perdono di Dio: sia per gli islamici sia per i cristiani, questa è l’essenza della rivelazione di Allah.
LETTERA a Paolo VI - Abbattere i muri, costruire i ponti
di Giorgio La Pira *
Beatissimo Padre,
in questi giorni sto leggendo (e per una ragione storica, politica e religiosa evidente ed urgente) Chiesa e Stato attraverso i secoli: il problema del mondo, oggi, è questo: «rivedere» -vedere «riemergere» in questa età nuovissima del mondo- la Chiesa quale soggetto essenziale dell’ordine storico, giuridico e politico mondiale: quale essenziale protagonista (il più importante, in certo senso) della edificazione del nuovo universo delle nazioni: quello che si costituisce in questa età della inevitabile unificazione e pacificazione delle nazioni!
Bisogna riprendere coscienza di questa «soggettività» eminente della Chiesa Cattolica (romana!) nell’ordine giuridico e politico del mondo: soggettività che i secoli, -la storia!- chiaramente indicano (essa, in un certo senso, la creatrice dell’ordine giuridico internazionale) e che costituisce il problema fondamentale dell’attuale situazione storica e politica delle nazioni.
Il problema del concordato sta tutto qui: «l’altra parte» (la Chiesa) è un soggetto giuridico e in certo senso politico che regge, insieme con lo Stato (con gli Stati) l’ordine totale e la storia totale del mondo! Leone XIII vide questa realtà con tanta luce! «Immortale Dei». Quello del concordato non è un piccolo, marginale, problema: esso si eleva proprio a questa alternativa: la Chiesa suprema oggetto giuridico e politico, centro di gravità dell’universo delle nazioni! «La Chiesa, il vessillo elevato sulle Nazioni».
Ecco, Beatissimo Padre, il grande problema storico e politico di oggi: -«chi dicono gli uomini che io sia?» Questa è la domanda che la Chiesa, ripetendo le parole del Signore proprio oggi -in questa età nuovissima, atomica, spaziale, demografica, millenaria, scientifica ecc.- invita i popoli e le nazioni (non solo i singoli) a porsi questa domanda, ed a trarre da essa tutte le implicazioni storiche, politiche, culturali, spirituali etc. che essa comporta!
La «fiacchezza» della polemica occidentale (postconciliare, come si dice) sta nel mettere «in disparte» (per così dire) questa soggettività giuridica e politica della Chiesa: questa soggettività che fa di essa il «pernio» dell’equilibrio delle nazioni, il punto unificante del mondo!
Bisogna rimeditare tutta la storia della Chiesa: da Paolo che «punta» sulla casa di Cesare, a S. Silvestro che «negozia» con Costantino, a Leone Magno che «negozia» con Attila etc. etc. sino a Paolo VI che parla all’ONU e che si volge a Pekino! Unificare il mondo: ecco il problema - unico - di oggi: unificarlo facendo ovunque ponti ed abbattendo ovunque muri: ebbene, questa unificazione non è possibile -quasi non ha senso- se non passa (in certo modo) da Pietro: se, cioè, questa unificazione giuridica e politica fra gli Stati non è accompagnata dal rapporto unificante -giuridico e politico (in senso profondo)- fra gli Stati e la Chiesa!
Questo il grande problema di oggi: rivedere la Chiesa come centro di gravità delle nazioni e come soggetto «l’altra parte» essenziale dell’ordinamento giuridico e politico del nuovo universo dei popoli e delle nazioni.
Ecco, allora, Beatissimo Padre, l’immenso valore -la grande attualità ed urgenza- dei contatti e dei rapporti della Chiesa con tutto il mondo «dell’Est» e «del Sud»: qui essa trova i nuovi interlocutori, «l’altra parte», capace -malgrado «l’ateismo ufficiale»- di vederne la struttura storica e giuridica, politica e spirituale, destinata a fare da «ossatura» al corpo delle nazioni.
A me pare che la Chiesa vincerà la Sua grande battaglia odierna (anche interna) proprio all’Est ed al Sud: solo «attraverso i barbari» essa potrà ricomporre (per così dire) «l’impero romano in decadenza» e potrà ricomporre (per così dire) «il nuovo impero», «l’unità nuova dei popoli»! Forse queste non sono illusioni: forse è questo il punto della storia -Pace inevitabile, unificazione del mondo inevitabile; emergenza dell’Est e del Sud inevitabile- nel quale avrà luogo la grande riemergenza storica, giuridica e politica della Chiesa: «la Chiesa il vessillo elevato sulle nazioni». Filialmente nel Signore
La Pira
27-2-70 S. Pier Damiani!
Preparo alla luce di questo «tessuto storico e giuridico e politico» il mio viaggio (in aprile) a Mosca! Queste cose, del resto, da vario tempo esplicitamente e vigorosamente dico nei miei rapporti (a tutti i livelli) con i paesi dell’Est (Germania, Cina, Urss, Ungheria, Polonia etc.).
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http://www.giorgiolapira.org/it/content/paolo-vi-abbattere-i-muri-costruire-i-ponti
Intervista a Zygmunt Baumann
UNA NUOVA POLITICA
di Alessandro Lanni (Reset Nov 2008) *
«Lo stato sociale è finito, è ora di costruire il “Pianeta Sociale”». Solo così, spiega Zygmunt Baumann, si potrà uscire dalla crisi globale che il mondo contemporaneo sta vivendo. La politica deve avere la forza di reinventarsi su scala planetaria per affrontare l’emergenza ambientale o il divario crescente tra ricchi e poveri. Altrimenti è con-dannata alla marginalità in una dimensione locale, con stru¬menti obsoleti adatti a un mondo che non esiste più. L’inventore della "società liquida" non crede in una capacità di auto-riforma della politica, «meglio costruire un’opinione pubblica globale e affidarsi a organizzazioni cosmopolite, extraterritoriali e non governative».
I nostri politici ce la faranno a cambiare paradigma, passan¬do dal locale al globale?
«Io non conterei molto sui governi - di nessun paese, piccolo o grande che sia - e ancor meno sui loro tentativi di collaborazione, che finiscono regolarmente in una poesia di nobili intenzioni piuttosto che in una prosa di concreta realtà. I poteri che decidono sulla qualità della vita umana e sul futuro del pianeta sono oggi globali e dunque, dal punto di vista dei governi, sono extraterritoriali ed esenti dalla loro sovranità locale. Finché non innalziamo la politica ai livelli ormai raggiunti dal potere, le probabilità di arrestare gli sviluppi catastrofici cui stiamo conducendo la nostra vita sul pianeta sono, quantomeno, scarse».
Dunque, di quali strumenti alternativi dovrebbe dotarsi la politica per affrontare le grandi emergenze del nuovo mondo globale?
«L’obiettivo di arrestare le ineguaglianze globali che tendono a divenire rapidamente più profonde non compare tra le priorità delle agende politiche degli Stati-nazione più potenti, nonostante le tante promesse fatte al riguardo. Contemporaneamente, mancano ancora un’ "agenda politica planetaria" e delle istituzioni politiche globali efficaci e dotate di risorse che gli permettano di perseguire simili obiettivi rendendoli operativi. Le prerogative territoriali degli Stati-nazione ostacolano la creazione di tale agenda e di tali istituzioni e rendono ancora più difficile il tentativo di mitigare il processo di polarizzazione».
Gli Stati da soli non possono farcela. I singoli cittadini hanno qualche possibilità in più di mettere mano ai disagi che avvertono, per organizzare un’azione collettiva?
«Qui interviene quel fattore che è stato ampiamente descritto con il termine "individualizzazione". Con il progressivo abbassarsi della condizione di difesa mantenuta contro le paure esistenziali, e con il venir meno di accordi per l’autodifesa comune, come per esempio i sindacati o altri strumenti di contrattazione collettiva, depotenziati della competizione imposta dal mercato, spetta ai singoli trovare e mettere in pratica soluzioni individuali a problemi prodotti dalla società nel suo complesso. Ma fare tutto questo da soli e con strumenti per forza limitati risulta palesemente inadeguato al compito prefisso».
Anche il climate change è tra le grandi paure e insicurezze che l’uomo occidentale deve fronteggiare.
«L’insicurezza deriva dal divario tra la nostra generale interdipendenza planetaria e la natura meramente locale, a portata di mano, dei nostri strumenti di azione concertata e di controllo. I problemi più terribili e spaventosi che ci tormentano e che ci spingono a provare una sensazione di insicurezza e incertezza riguardo a tutto ciò che ci cir-conda hanno origine nello spazio globale che è al di là della portata di qualsiasi istituzione politica ora esistente; tuttavia questi problemi sono scaricati sulle entità locali - città, province e Stati - dove si pretende che vengano risolti con quei mezzi disponibi¬li a livello locale: un compito praticamente impossibile».
Eppure in molti sostengono che alcune questioni relative all’inquinamento, alla produzione d’energia, ai rifiuti, possono essere affrontate a livello «micro», di città, di governi locali.
«L’inquinamento atmosferico e la mancanza di acqua potabile sono questioni che traggono origine nello spazio globale, ma sono poi le istituzioni locali a doverle gestire. Lo stesso principio si applica al problema delle migrazioni, del traffico di droga e armi, del terrorismo, della criminalità organizzata, dell’incontrollata mobilità dei capitali, dell’instabilità e della flessibilità del mercato del lavoro, della crescita dei prezzi dei beni di consumo e così via. La sfera politica locale è sovraccarica di compiti e non è abbastanza forte o abbastanza dotata di risorse per svolgerli. Solo istituzioni politiche e giuridiche internazionali - finora assenti - potrebbero tenere a bada le forze planetarie attualmente sregolate e raggiungere le radici dell’insicurezza globale».
E un governo planetario che salverà il mondo?
«Allo stadio di sviluppo a cui è ormai giunta la globalizzazione dei capitali e dei beni di consumo, non esiste nessun governo che possa permettersi, singolarmente o di concerto con altri, di pareggiare i conti - e, senza che si pareggino i conti, è impensabile che si possano effettivamente mettere in atto le misure tipiche dello Stato sociale, volte a ridurre alla radice la povertà e a prevenire che l’ineguaglianza continui a crescere a piede libero. E’ altrettanto difficile immaginare governi capaci di imporre limiti sui consumi e aumentare le tasse locali ai livelli necessari perché lo Stato possa continuare a erogare servizi sociali, con la stessa intensità o con maggior vigore».
La globalizzazione cancella anche lo Stato sociale. Professor Bauman, non lascia speran¬za per un briciolo di giustizia e di eguaglianza nel mondo del XXI secolo?
«Non esiste una maniera adeguata attraverso la quale uno solo o più Stati territoriali insieme possano tirarsi fuori dalla logica di interdipendenza dell’umanità. Lo Stato sociale non costituisce più una valida alternativa; soltanto un "Pianeta sociale" potrebbe recuperare quelle funzioni che, non molto tempo fa, lo Stato cercava di svolgere, con fortune alterne. Credo che ciò che può essere in grado di veicolarci verso questo immaginario "Pianeta sociale" non siano gli Stati territoriali e sovrani, ma piuttosto le organizzazioni e le associazioni extra-territoriali, cosmopolite e non-governative, tali da raggiungere in maniera diretta chi si trova in una condizione di bisogno, sorvolando le competenze dei governi locali e sovrani e impedendogli di interferire».
* Segnalazione di don Aldo Antonelli.
DANTE: IL PARADISO TERRESTRE, UN PROGRAMMA PER I POSTERI. Note per una rilettura del "De vulgari eloquentia" e della "Monarchia"
31 ottobre 1517
Rivoluzionario per caso
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica 08 Gennaio 2017)
Quando affisse le sue 95 tesi sulla porta della Schlosskirche di Wittenberg il 31 ottobre 1517, vigilia di Ognissanti, Martin Lutero non aveva nessuna intenzione di provocare lo sconquasso che ne sarebbe seguito. Era un pio monaco agostiniano, educato a una fede e immerso in una teologia ancora tutte medievali. Era entrato in monastero per onorare un voto pronunciato in un momento di paura e smarrimento, e aveva studiato sui testi della tarda scolastica la dottrina che insegnava dalla sua cattedra universitaria.
Lontanissime da lui erano le raffinatezze letterarie e filologiche della grande cultura umanistica che dall’Italia irradiava in tutta Europa e trovava in Erasmo il suo più illustre maestro. Sempre più però quella fede e quella teologia gli erano apparse inadeguate a rispondere alle sue inquietudini religiose, alla devastante convinzione che mai e poi mai, per quanto si impegnasse nella più severa disciplina ascetica e penitenziale, egli avrebbe potuto essere degno della giustizia di Dio e quindi conseguire l’eterna salvezza.
Per anni Lutero si tormentò su questo nodo cruciale, finché trovò la risposta nelle lettere di san Paolo che leggeva nei suoi corsi: «Iustus ex fide vivit» (Rom. I, 17; Gal. III, 11), «il giusto vivrà per la fede». Nulla che l’uomo possa fare è in grado di renderlo giusto agli occhi di Dio, ma nella sua infinita misericordia Dio dona («imputa») la sua giustizia agli uomini, purché essi credano nel valore salvifico del sacrificio di Cristo sulla croce. Nessuna opera buona, nessuna penitenza può diventare un merito agli occhi di Dio, e anzi illudersi di conquistare il regno dei cieli con le proprie forze è una sicura strada di perdizione. Non sono le opere buone a rendere giusto l’uomo, ma è l’uomo reso giusto dalla fede a compiere opere buone.
Si comprende quindi l’indignazione di Lutero per la brutale rozzezza con cui il domenicano Johann Tetzel predicava le indulgenze, di fatto mettendo in vendita pezzi di carta che - grazie all’inesauribile patrimonio dei meriti di Cristo custodito dalla Chiesa - avrebbero consentito ai fedeli di conquistarsi il perdono di Dio o di liberare i propri cari dalle pene del purgatorio. Uno sconcio mercimonio simoniaco, insomma, a sua volta frutto di una complicata operazione finanziaria tra la curia romana e l’arcivescovo di Magonza, Alberto di Hohenzollern, i cui frutti erano destinati a rimpinguare l’insaziabile scarsella di papa Leone X e a finanziare la costruzione della basilica di San Pietro.
Fu la sua esperienza di pastore e confessore a fargli capire il pericolo in cui tante anime ignare venivano gettate da quelle spregiudicate menzogne. «Su tutto questo io non potevo tacere più oltre», ebbe il coraggio di scrivere allo stesso arcivescovo, ammonendolo severamente per quanto avveniva nella sua diocesi: «Di ciò dovrai rendere duramente conto e il conto sale ogni giorno».
Per questo decise di affiggere le tesi, che tuttavia non intendevano incendiare il mondo, ma solo sfidare i teologi alla discussione accademica e mettere un argine dottrinale agli eccessi del Tetzel, anche se vi si potevano leggere affermazioni dirompenti. Per esempio che «qualunque vero cristiano, sia vivo che morto, ha la parte datagli da Dio a tutti i beni di Cristo e della Chiesa, anche senza lettere di indulgenza» (37); che «chi vede un bisognoso, e trascurandolo dà per le indulgenze, si merita non l’indulgenza del papa ma l’indignazione di Dio» (45); che «se il papa conoscesse le esazioni dei predicatori di indulgenze, preferirebbe che la basilica di San Pietro andasse in cenere piuttosto che essere edificata sulla pelle, la carne e le ossa delle sue pecorelle» (50); che «chi si oppone alla cupidigia e alla licenza del parlare del predicatore di indulgenze, sia benedetto» (72).
Lo stesso monaco sassone fu ben lungi dal percepire subito tutte le conseguenze della giustificazione per fede. Se solo quest’ultima, infatti, è in grado di salvare gli uomini ed essi non sono in grado di fare alcunché per ottenerla, ne consegue che solo Dio donando la fede decide, o per meglio dire ha deciso ab aeterno, chi si salva e chi no: con tutti gli inesorabili labirinti e le antinomie in cui sfocia la dottrina della predestinazione.
E se solo la fede è in grado di salvare gli uomini, si esaurisce ogni funzione della Chiesa visibile come mediatrice carismatica tra il popolo cristiano e Dio. Non più istituzione gerarchica, la Chiesa diventa solo la comunità dei credenti, senza più un clero distinto dal laicato in virtù dell’unzione sacerdotale, e quindi non più vincolato all’obbligo del celibato, e la sua tradizione magisteriale perde ogni legittimazione, perché la dottrina cristiana è affidata esclusivamente alla parola di Dio.
Sola fides e sola Scriptura diventeranno così i due fondamenti della Chiesa luterana. Ne conseguiranno l’abolizione della messa, la riduzione dei sacramenti a battesimo ed eucarestia, il rifiuto dei voti monastici, del purgatorio, del culto dei santi, della venerazione delle immagini, dei digiuni.
Insinuandosi tra i molteplici conflitti interni di una Germania immensa e frammentata, dove debolissima era l’autorità imperiale, la parola infiammata di Lutero non tardò a diffondersi con la straordinaria rapidità garantita dalla nuova arte della stampa. I conventi e i monasteri cominciarono a svuotarsi, mentre diffuse tensioni profetiche e millenariste sarebbero poi sfociata nella sanguinosa guerra dei contadini del 1524-25.
Lo stesso Lutero intorno al 1519 si convinse che la fine dei tempi era ormai imminente e che pertanto il papa romano, invenzione di Satana, era né più né meno che l’Anticristo che la annunciava. In breve tempo gli spazi di accordo e di mediazione si esaurirono. I grandi trattati di Lutero apparsi nel ’20, veri e propri testi fondativi della Riforma, La libertà del cristiano, La cattività babilonese della Chiesa di Roma e Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca accompagnarono la coeva scomunica proclamata da Leone X con la bolla Exsurge Domine, che il riformatore sassone diede alle fiamme insieme con il codice di diritto canonico sulla piazza di Wittenberg.
Convocato alla dieta di Worms, al cospetto del giovane Carlo V d’Asburgo, re di Spagna, principe di Borgogna e sacro romano imperatore, Lutero si rifiutò di ritrattare una sola parola dei suoi scritti se non gli fosse stato dimostrato Bibbia alla mano dove e perché sbagliava. Messo al bando dall’Impero, si rifugiò in una castello dell’elettore di Sassonia, dove tradusse la Bibbia in tedesco, offrendo così a tutta la Germania la lingua comune in cui veniva predicata la parola di Dio.
È bene tener presente che abolire il clero e la Chiesa papale significava cancellare il pilastro più solido e antico dell’ordine politico e sociale, un formidabile potere materiale e morale, fondato sulla sacralità della religione, dei suoi riti, delle sue parole, delle sue gerarchie, su enormi risorse fondiarie e finanziarie, su un prestigio radicato in un millennio e mezzo di cristianesimo, diventato modo di essere e sentire, di capire e giudicare, di temere e sperare.
Non stupisce dunque che le città e i principi tedeschi fossero rapidamente coinvolti nelle vicende della Riforma, impadronendosi di quel messaggio religioso e di quelle ricchezze per liberarsi per sempre dal potere imperiale.
È bene ricordare che il lungo e faticoso processo storico che nell’Ottocento avrebbe dato vita a uno Stato unitario tedesco non si sviluppò intorno agli Asburgo, eredi di Carlo Magno e di Carlo V, ma intorno a uno dei principali beneficiari della secolarizzazione dei beni ecclesiastici, quel margravio del Brandeburgo di casa Hohenzollern, che con il tempo sarebbe diventato duca e poi re di Prussia e infine Kaiser del Reich.
Del resto, fu solo dove principi e sovrani aderirono alla Riforma che essa ebbe duraturo successo, come in Danimarca, in Svezia, in Inghilterra, mentre ciò non avvenne in Francia e in Spagna, dove un forte potere sovrano era già riuscito ad assumere il controllo della Chiesa e delle sue risorse economiche.
Tra le molte battaglie che Lutero dovette affrontare, particolarmente insidiosa fu quella con Erasmo che, dopo aver taciuto per anni lasciando che Eleutherium audacem combattesse la sua battaglia contro una curia romana corrotta e una fede oggettualizzata e superstiziosa, lo attaccò in difesa del libero arbitrio, fondamento della responsabilità morale di ogni uomo, costringendolo a difendere la tesi contraria e con essa la predestinazione, a contrapporre a un cristianesimo etico tutto fondato sull’ispirazione di fratellanza e carità del vangelo, il suo cristianesimo teologico tutto fondato sulla lettera della parola di Dio.
Negli anni seguenti egli potrà infine vedere il successo in tutta l’Europa del Nord delle nuove Chiese scaturite dal suo magistero, tutte sottoposte al potere dei principi e fondate sul testo della confessione presentata nel ‘30 alla dieta di Augusta (la confessio Augustana, appunto) che per secoli avrebbe costituito il fondamento della dottrina luterana.
Sarebbe morto il 18 febbraio 1546, a 63 anni, circondato dall’affetto della moglie, Katharina von Bora, sposata nel ’25, dei numerosi figli avuti da lei, da nugoli di discepoli adoranti, compiaciuto di quanto aveva fatto, ma attribuendone il merito solo al volere di Dio: «Io mi sono schierato contro tutti i papisti; mi sono costituito oppositore implacabile del papa e delle indulgenze. Ma io non ho fatto appello alla forza, alla persecuzione, alla ribellione. Io non ho fatto altro che diffondere, predicare, inculcare la parola di Dio: altro non ho fatto. Di modo che quando io dormivo e quando bevevo la birra a Wittenberg [...] la parola di Dio ha operato di cotali cose che il papato è caduto, come nessun principe e nessun imperatore avrebbero potuto farlo cadere. Nulla io feci: la parola di Dio ha determinato il successo della mia predicazione». Tutto in lui era fede, o meglio la sua fede, anche la dirompente violenza con cui seppe proporla, lasciando una traccia indelebile sull’intera storia europea.
Con la nascita della Chiesa luterana si esauriva definitivamente la respublica christiana, sempre più frammentata dai processi di confessionalizzazione che a fianco e dopo Lutero videro affacciarsi sulla storia europea altri e ancor più radicali riformatori, Zwingli, Calvino, le Chiese svizzere e olandesi, gli anabattisti e gli antitrinitari poi diventati sociniani, i puritani, i quaccheri, l’irriducibile mondo settario e radicale che durante la rivoluzione inglese avrebbe indotto qualcuno a denunciare la Gangraena delle mille eresie che avevano invaso la Chiesa anglicana.
Nato da una ribellione, insomma, il mondo protestante non avrebbe potuto impedire nuove ribellioni al suo interno e sarebbe diventato, anche a dispetto dei suoi padri fondatori, un mondo plurale in cui convinzioni e pratiche religiose sono libere e in cui gli uomini hanno via via imparato a convivere anche se hanno opinioni diverse su Dio e i suoi precetti e lo onorano in modo differente, o magari non credono in alcun Dio.
Quella che nel 1688 Jacques Benigne Bossuet denunciava come l’eterna condanna del mondo riformato a dividersi e frantumarsi, una volta venuto meno il fondamento ultimo dell’autorità papale, in una perenne Histoire de variations des Églises protestantes, sarebbe diventata col tempo una ricchezza e una risorsa. Eterogenesi dei fini, come sempre nella storia.
Oggi i teologi cattolici e luterani si armano di nuove utopie ecumeniche per sottoscrivere formule di concordia sulle questioni religiose che mezzo millennio fa divisero l’Europa lungo aspri confini religiosi e politici segnati da guerre, stragi, persecuzioni e violenze d’ogni sorta. Vivaddio, meglio la pace della guerra, la tolleranza che l’intolleranza, ma è bene non dimenticare quelle persecuzioni e violenze, anche per non trattare la storia (e la teologia) come un’ondivaga bandierina che ogni volta si ridipinge per adattarla alle esigenze del presente.
Scenario
Dobbiamo superare le reticenze sull’islam
L’Isis ha dichiarato la sua guerra contro cristiani e pagani. I suoi messaggi non vanno elusi né liquidati come «deliranti», ma studiati per contrattaccare
di Roberto Calasso *
La ritrosia dei giornali a pubblicare i proclami e le rivendicazioni dei terroristi mi è sempre sembrata stolta. L’argomento secondo cui la pubblicazione equivarrebbe a una involontaria propaganda delle loro idee mi sembra ancora più stolto - e offensivo verso i lettori dei giornali stessi, come se questi avessero bisogno delle parafrasi dei giornalisti per capire qualcosa. Mentre non c’è nulla che possa sostituire la conoscenza diretta. E per conoscere qualcuno essenziale è sapere come parla e come scrive.
Se Mein Kampf, che oltre tutto è un libro ben anteriore alla presa del potere da parte di Hitler, fosse stato letto e commentato subito con la dovuta attenzione e scrupolo filologico, sarebbe stato molto più chiaro con chi il mondo aveva a che fare.
Oggi, più che dichiarazioni del genere: «Non ci fate paura», servirebbero analisi secche e puntuali delle parole usate dai terroristi. Perciò ogni volta che leggo di «rivendicazioni deliranti», la cui lettera non viene riportata, sento un’invincibile irritazione e frustrazione. Se davvero «deliri» sono, si tratta di materiale prezioso da analizzare. Freud fondò la sua teoria della paranoia sull’analisi di un singolo delirio, quello del presidente Schreber, che si manifestava in un libro di 516 pagine.
Stando così le cose, è d’obbligo contentarsi di minuscole schegge che qualche giornalista osa riprodurre fra virgolette. Ma a volte anche le schegge possono essere molto eloquenti.
Nella rivendicazione dell’Isis per l’attentato al Reina di Istanbul si dice che l’azione ha colpito «dove i cristiani stavano celebrando la loro festa pagana».
Poche parole, ma dovrebbero bastare, almeno per capire un dato essenziale: l’Isis è una setta islamica che vuole colpire gli infedeli in quanto tali - fatto non privo di precedenti nella storia. La novità è la composizione degli infedeli, identificati con l’Occidente. E l’Occidente in una sua notevole parte si dichiara cristiano: perciò è assimilabile ai Crociati, nemici da secoli. Ma l’Isis ben sa che l’Occidente non è tutto cristiano. In vasta parte è secolare, privo di affiliazioni religiose. Anzi, il suo apparato tecnico e la macchina dei suoi poteri è tutta secolare.
Ma per chi ha avviato, come la setta dell’Isis (e di Al Qaida), una guerra di religione, non c’è nulla che non dipenda da una religione. Quale sarà allora quella dei secolari? In verità, sarebbero tutti pagani. È questo che l’Isis ha scoperto - e i secolari stessi non lo sanno. In un club dove si celebra la festa pagana del Capodanno, la setta avrà l’occasione di uccidere insieme cristiani e pagani. Quindi la totalità degli infedeli, se si eccettuano gli Ebrei, che sono demograficamente irrilevanti, anche se hanno il privilegio di occupare il primo posto fra gli infedeli e sono perciò meritevoli di un odio specifico ed esemplare.
La rivendicazione dell’Isis non potrebbe essere più chiara. E mostra un tratto euforico nell’osservare l’opportunità dell’occasione per l’attacco. Era ora, si lascia intendere, che i secolari capissero chi sono: semplicemente pagani, camuffati sotto altro nome. Tutti i fieri laici occidentali, convinti di essersi liberati di ogni impaccio religioso, ora dovranno rassegnarsi a riconoscere di essere soltanto dei vecchi pagani. Perciò passibili di essere colpiti non meno dei cristiani, nella nuova guerra di religione.
Perché di questo - e solo di questo - si tratta, anche se la Chiesa e i governi fanno di tutto per evitare l’espressione. E una peculiarità di questa guerra di religione è che avviene in anni dove il sentimento religioso si è ridotto al minimo, in Oriente come in Occidente. Ma bisogna pur sempre ricordare che la guerra di religione è la forma primordiale della guerra. Le guerre politiche, fra nazioni, sono una breve eccezione nella storia, durata meno di tre secoli, dalla pace di Vestfalia allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Però dire oggi guerra di religione significa dire anche da quale religione è promossa - e questo obbligherebbe a usare la parola «islamico» (intendendo tutto ciò che si appella ad Allah). E oggi non c’è parola che la Chiesa e i governi evitino con maggiore cura. Davanti a una persecuzione in atto di cristiani in quanto cristiani, che va da larghe zone dell’Africa all’intero Medio Oriente, non basta che il Papa si dichiari «vicino» a chi soffre. Ci si aspetterebbe che nominasse chi fa soffrire.
Così come, durante la Seconda guerra mondiale, non si poteva dire di essere «vicini» agli Ebrei perseguitati senza dire che erano i nazisti a perseguitarli. Spetta a ogni Papa proteggere tutti i cristiani, anche i venticinque copti che sono stati uccisi mentre assistevano alla Messa al Cairo. Certo, il Papa dispone solo della parola, ma è una parola potente. E allora il Papa non potrebbe evitare la parola proibita: «islamico». E non potrebbe neppure più rifugiarsi nella deprecazione del «Dio denaro». Certamente l’Isis e Al Qaida non sono una questione di poveri incattiviti che si rivoltano contro ricchi sopraffattori occidentali.
Non meno pavidi sono stati, sino a oggi, i governi europei e occidentali in genere. Ma la posizione della Chiesa spicca maggiormente, perché l’odio della Croce torna costantemente nei proclami dei terroristi. Che fare, allora? Rispondere combattendo a una guerra dichiarata, come sempre è avvenuto nella storia. E innanzitutto studiare il nemico, non temere di osservare le sue parole e i suoi argomenti, in tutti i dettagli. E non parlare più di un «sedicente» Stato Islamico, così come anni fa si parlava delle «sedicenti» Brigate rosse, facendo intendere che dietro c’era qualcos’altro. Il punto più duro da capire è appunto questo: ciò che i terroristi dicono di essere. Che cosa essi poi siano, lo mostrano i fatti.
Corriere della Sera, 4 gennaio 2017 (modifica il 4 gennaio 2017
Gli 80 anni del papa
Papa Francesco che cammina sulle tracce di Agostino
di EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 17 dicembre 2016)
COMPIE ottant’anni papa Francesco e li porta molto bene, sia fisicamente e sia spiritualmente. Viaggia continuamente nel mondo intero e nelle parrocchie romane. Di Roma è vescovo e questa qualifica la rivendica spesso perché gli consente di definirsi come “primus inter pares” e lui è consapevole di quanto sia utile a quella Chiesa missionaria da lui realizzata.
Personalmente ho avuto la fortuna di diventargli amico ancorché io non sia un credente. Papa Francesco aveva bisogno di un non credente che approvasse la predicazione di quello che lui chiama Gesù Cristo ed io chiamo Gesù di Nazareth figlio di Maria e di Giuseppe della tribù di David, cioè era figlio dell’uomo e non di Dio. Ma su questo modo di considerare Cristo papa Francesco è d’accordo: il Figlio di Dio quando decide di incarnarsi diventa realmente un uomo con tutte le passioni, le debolezze, le virtù d’un uomo. Francesco racconta spesso la settimana della Passione che ha il suo inizio con l’ingresso quasi trionfale di Gesù a Gerusalemme, seguito da molti dei suoi fedeli e naturalmente dei suoi apostoli. Ma a Gerusalemme trova anche quelli che lo temono e lo odiano. Soprattutto la gerarchia ebraica del Tempio che si sente minacciata nei suoi privilegi.
A quell’epoca Israele era sotto la "protezione" dell’impero di Roma e l’imperatore era Tiberio che nulla sapeva di quanto avvenisse in province assai lontane. Papa Francesco ricorda gli ultimi giorni di quella che poi fu chiamata la "Via Crucis", l’ultima cena e poi quel che avvenne nell’orto di Getsemani. Gli apostoli a quella cena erano tredici ma uno di loro, Giuda Iscariota, lo aveva già tradito e quando Gesù cominciò a parlare abbandonò quel tavolo e andò via. Restarono in dodici e fu lì che Gesù condivise il pane e il vino identificandoli con il suo corpo e il suo sangue. Il Signore era già stato battezzato da Giovanni nelle acque del Giordano e battesimo ed eucarestia furono i soli due Sacramenti; gli altri vennero dopo. La natura umana del Cristo si ha nei racconti dei Vangeli, nel Getsemani e poi sulla Croce. Nell’orto, dove sarà poi arrestato dai soldati romani guidati dall’Iscariota, Gesù entra in contatto con il Padre e dice: «Se tu puoi allontana da me questo amaro calice ma se non vuoi lo berrò fino in fondo». Sulla Croce, negli ultimi istanti prima della morte dice: «Padre, perché mi hai abbandonato?». Quindi era un uomo, l’incarnazione era stata reale.
Papa Francesco è affascinato da questi racconti. Mi sono chiesto e gli ho chiesto il perché del fascino che esercitano su di lui e la risposta è stata che nel mistero trinitario Cristo rappresenta l’amore in tutte le sue manifestazioni. L’amore verso Dio che si trasforma in amore verso il prossimo. «Ama il prossimo tuo come te stesso» è una legittimazione dell’amore all’individuo e alla comunità, in cerchi concentrici: la famiglia, il luogo dove vive e soprattutto la specie cui appartiene.
Francesco indica i poveri, i bisognosi, gli ammalati, i migranti. Francesco sa bene quello che dice la Bibbia: «I ricchi e i potenti debbono passare per la cruna d’un ago per guadagnare il Paradiso». Occorre dunque che i popoli si integrino con gli altri popoli. Si va verso un meticciato universale che sarà un beneficio, avvicinerà i costumi, le religioni. Il Dio unico sarà finalmente una realtà. È questo che Francesco auspica. «È ovvio che sia unico, ma finora non è stato così. Ciascuno ha il suo Dio e questo alimenta il fondamentalismo, le guerre, il terrorismo. Perfino i cristiani si sono differenziati, gli Ortodossi sono diversi dai Luterani, i protestanti si dividono in migliaia di diverse confessioni, gli scismi hanno accresciuto queste divisioni. Del resto noi cattolici siamo stati invasi dal temporalismo, a cominciare dalle Crociate e dalle guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa e l’America del Nord e del Sud. Il fenomeno della schiavitù e la tratta degli schiavi, la loro vendita alle aste. Questa è stata la realtà che ha deturpato la storia del mondo».
Quando papa Francesco ha partecipato alla celebrazione di Martin Lutero e della sua Riforma ha colto l’essenza delle tesi luterane: l’identificazione dei fedeli con Dio non ha bisogno dell’intermediazione del clero ma avviene direttamente. Questo ci conduce al Dio unico e assegna al sacerdozio un ruolo secondario. Così avveniva nei primi secoli del cristianesimo, quando i Sacramenti erano direttamente celebrati dai fedeli e i presbiteri facevano soltanto il servizio. Francesco è d’accordo su queste tesi luterane che coincidono con quanto avvenne nei primi secoli.
Ma quali sono i Santi che il nostro Papa predilige? Gliel’ho chiesto e lui mi ha risposto così: «Il primo è naturalmente Paolo. È lui ad aver costruito la nostra religione. La Comunità di Gerusalemme guidata da Pietro si definiva ebraico-cristiana, ma Paolo consigliò che bisognava abbandonare l’ebraismo e dedicarsi alla diffusione del cristianesimo tra i Gentili, cioè ai pagani. Pietro lo seguì in questa sua concezione anche se Paolo non aveva mai visto Gesù. Non era un apostolo, eppure si considerò tale e Pietro lo riconobbe. Il secondo è San Giovanni Evangelista, che scrisse il quarto Vangelo, il più bello di tutti. Il terzo è Gregorio, l’esponente della Patristica e della liturgia.
Il quarto è Agostino, vescovo di Ippona, educato adeguatamente da Ambrogio vescovo di Milano. Agostino parlò della Grazia, che tocca tutte le anime e le predispone al bene compatibilmente con il libero arbitrio. La libertà accresce il valore del bene e condiziona il suo eventuale abbandono.
Ebbene, sembrerà che io esageri ma ne sono fermamente convinto: dopo Agostino viene papa Francesco. L’intervallo temporale è enorme, ma la sostanza è quella. L’ho definito, quando l’ho conosciuto, rivoluzionario e profetico ma anche modernissimo.
In uno dei nostri incontri gli chiesi se pensava di convocare un nuovo Concilio e lui rispose: «Un Concilio no: il Vaticano II, avvenuto cinquant’anni fa, ha lasciato una precettistica che in buona parte è stata applicata da Giovanni Paolo II, da Paolo VI e da Benedetto XVI. Ma c’è un punto che non ha fatto passi avanti ed è quello che riguarda il confronto con la modernità. Spetta a me colmare questa lacuna. La Chiesa deve modernizzarsi profondamente nelle sue strutture ed anche nella sua cultura».
Santità - ho obiettato io - la modernità non crede nell’Assoluto. Non esiste la verità assoluta. Lei dovrà dunque confrontarsi con il relativismo. «Infatti. Per me esiste l’Assoluto, la nostra fede ci porta a credere nel Dio trascendente, creatore dell’Universo. Tuttavia ciascuno di noi ha un relativismo personale, i cloni non esistono. Ognuno di noi ha una propria visione dell’Assoluto da questo punto di vista il relativismo c’è e si colloca a fianco della nostra fede».
Buoni ottant’anni, caro Francesco. Continuo a pensare che dopo Agostino viene Lei. È una ricchezza spirituale per tutti, credenti o non credenti che siano.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Né con Roma né con Lutero
L’amore di Erasmo per Cicerone non gli impedì di stilare un pamphlet contro la retorica della curia con la quale fu persino più duro dei protestanti
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04.12.2016)
Il dialogo Ciceronianus di Erasmo fu pubblicato a Basilea nel marzo del 1528; l’anno dopo ne comparvero altre due edizioni e una quarta nel ’30. Un immediato successo, come in genere accadeva a tutti gli scritti del grande umanista olandese, maestro delle bonae litterae in ogni angolo d’Europa. Lo era da tempo, del resto, almeno dalla pubblicazione degli Adagia (1500), la raccolta di proverbi antichi più volte arricchita e ristampata, come molti dei suoi scritti, cui erano poi seguiti l’ Enchridion militis christiani (1503), l’Elogio della Follia (1511), il testo critico del nuovo Testamento in greco e l’ Institutio principis christiani (1516), i Colloquia (1517), la Querela pacis (1521), i commenti biblici, le monumentali edizioni dei Padri della Chiesa, le antologie di lettere, per citare solo le opere più celebri.
Tutto era cambiato però negli ultimi dieci anni, dopo che nel 1517 Martin Lutero aveva affisso sulla porta del castello di Wittenberg le sue 95 tesi. L’unità della respublica christiana, vale a dire lo stesso spazio fisico, storico, culturale e religioso del magistero erasmiano, si veniva infatti disgregando in un crescendo di polemiche, di controversie, di odii inestinguibili, di condanne, di persecuzioni. Lo stesso Erasmo aveva finito con il trovarsi nell’occhio del ciclone, accusato dagli uni di essere stato la gallina che aveva deposto le uova poi covate da Lutero, e dagli altri di aver vilmente rinunciato al suo impegno per la riforma della Chiesa e di essersi alla fin fine schierato a fianco di quei monaci corrotti, di quei frati ignoranti, di quel papato simoniaco che in passato non aveva perso occasione di mettere alla gogna.
In realtà, dopo la comparsa in scena di quel monaco sassone sempre più irruento e tonante, lontanissimo dal suo modo di essere e di pensare, Erasmo aveva taciuto, aveva lasciato correre, aveva fatto finta di non vedere, consapevole che contribuire a spegnerne gli ardori avrebbe anche comportato la fine di ogni speranza di riforma della Chiesa. Per questo non aveva preso posizione quando Lutero aveva pubblicato i suoi grandi trattati del 1520, anche quando aveva denunciato nel pontefice di Roma la bestia dell’Apocalisse, né quando aveva dato alle fiamme la bolla di condanna di Leone X e il Corpus iuris canonici nel ’21, né quando - sempre in quell’anno - aveva rifiutato di piegarsi e ritrattare le sue dottrine di fronte a Carlo V.
Aveva aspettato sino al ’24, senza intervenire sulle questioni che più infervoravano gli animi da ambo le parti, sulle indulgenze, sul ruolo dei preti, sul purgatorio, sui sacramenti. Per sfidare Lutero aveva scelto la questione tutta umanistica del libero arbitrio, e con essa della dignità dell’uomo: una questione cruciale che investiva il modo stesso di essere cristiani, contrapponendo a una fede tutta teologica, fondata sulla parola di Dio e i suoi insondabili misteri, una fede tutta morale, fondata invece sulla capacità del vangelo di ispirare carità, giustizia, concordia. Fu Lutero stesso, che pure detestava con tutte le sue forze quel raffinato letterato, incapace di capire e accettare lo scandalo della fede, a riconoscerne la grandezza, dandogli atto di essere stato il solo capace di morderlo alla gola.
Tutto ciò, naturalmente resta tra le righe del Ciceronianus, ma ne costituisce al tempo stesso una cornice imprescindibile. Contribuisce cioè a far capire come Erasmo, grande ammiratore di Cicerone, decidesse poi di prenderne le distanze. Non perché avesse cambiato idea, tutt’altro, anzi proprio per essere fedele al modello autentico di Cicerone, alla sua capacità di mettere l’eloquenza al servizio degli obiettivi che perseguiva, e dunque di adattarsi alle circostanze, di mirare all’utile e all’efficace, tutt’altro che bloccata in un algido purismo che ne tradiva profondamente lo spirito.
Non era Cicerone, insomma, l’obiettivo polemico di questo libro, ma i ciceroniani, e in particolare i letterati romani che quello stile avevano eretto a modello esclusivo non solo delle esercitazioni retoriche con cui celebravano la Roma papale quale erede della Roma imperiale e la esaltavano come Geusalemme eterna in cui si era realizzata una sorta di suprema sintesi tra civiltà classica e cristianesimo di cui essi erano i rappresentanti e i sacerdoti.
Una cultura sterile e vacua, tanto compiaciuta di se stessa da ignorare la torbida decadenza in capite et in membris che infettava la Chiesa a partire dalla curia papale, insensibile a ogni proposta di rinnovamento e sorda alle istanze religiose che trovavano in Erasmo e Lutero due pur diversi rappresentanti. Una cultura tutta letteraria, ridotta a pedissequa imitazione e quindi incapace di rinnovamento, intrisa di neopaganesimo, che presumeva di aver raggiunto il culmine nel riprodurre nella lingua di Cicerone la stessa dottrina cristiana, i suoi misteri, le sue liturgie, dando vita a quella che è stata definita come una «teologia retorica», intessuta di citazioni classiche, come nel Liber sententiarum di Paolo Cortesi (1504), per esempio, in cui i santi diventavano heroes, Tommaso d’Aquino l’Apollo christianorum, i sacerdoti flamines, l’inferno Orcus e così via.
Primo volume di una collana Corona Patrum Erasmiana (di cui altri sono imminenti) promossa dal Centro europeo di studi umanistici «Erasmo da Rotterdam», questa eccellente traduzione con testo latino a fronte e un dotto commento in apparato si apre con un’introduzione che contestualizza finemente lo scritto erasmiano sia negli sviluppi del suo pensiero e del suo modo di intendere valore e significato della cultura sia nella specifica tradizione umanistica cui faceva riferimento (Ermolao Barbaro, Lorenzo Valla, Angelo Poliziano, Giovan Francesco Pico) e quindi delle polemiche che investivano il presente.
Se proprio in quegli anni il grande successo della stampa, l’affermarsi degli Stati assoluti, la frattura religiosa in atto contribuivano all’inarrestabile affermazione delle lingue volgari, Erasmo rimaneva fedele a quel latino che era e restava lo strumento linguistico di una comunicazione europea; ma lungi dall’imbalsamarlo in un vacuo perfezionismo formale, lo riproponeva come una lingua viva e vitale, talora anche frettolosa proprio in quanto funzionale anzitutto ai contenuti che trasmetteva, ai principi che difendeva, agli scopi che si proponeva, all’azione concreta che stimolava nei termini propriamente politici di una appassionata militanza culturale e religiosa. Di qui i continui interventi di Erasmo sulle nuove edizioni dei suoi scritti, per migliorarli e correggerli laddove necessario, e soprattutto per riproporne un continuo aggiornamento in funzione delle esigenze del presente.
Per capire il Ciceronianus, del resto, occorre tener presente che esso fu scritto all’indomani del terribile sacco di Roma del 1527, quando i lanzi imperiali avevano fatto scempio della città papale in un indicibile crescendo di violenze, saccheggi, sopraffazioni, atrocità d’ogni genere. Segnò la fine della grande stagione rinascimentale dei pontificati borgiani, rovereschi e medicei, delle Stanze di Raffaello e della Sistina di Michelangelo. L’Europa tutta ne restò sconvolta, e dovunque si volle vedere in quella tragedia una giusta punizione di Dio per la corruzione della curia papale.
Ma tra i letterati si diffuse anche lo sgomento per i danni incalcolabili che quei soldatacci avrebbero potuto arrecare all’ineguagliabile patrimonio culturale di cui Roma era erede. Lo stesso braccio destro di Lutero a Wittenberg, Filippo Melantone, si disse preoccupatissimo per le biblioteche romane, custodi di un sapere e di una civiltà cui la Germania stessa era debitrice.
Al contrario il mite Erasmo da Rotterdam, anziché deprecare quanto era accaduto volle pubblicare quel Ciceronianus che condannava senza appello i letterati romani, «più ricchi di letteratura che di pietà». Non proprio un Erasmo moderato, insomma, un Erasmo convinto apologeta del cattolicesimo romano, un Erasmo opportunista e infingardo, «anguilla», «vir duplex», come lo definì Lutero e come ancora molti lo presentano; ma un Erasmo tanto coraggioso da combattere le sue battaglie culturali e religiose sull’uno e sull’altro fronte in difesa di un cristianesimo serio, operoso, moralmente responsabile, avverso al fasto mondanizzato della gerarchia ecclesiastica così come alle inutili dispute teologiche, utili solo a creare divisioni e conflitti. «Summa nostrae religionis est pax et unanimitas», scriveva nel ’23. Si capisce benissimo, quindi, perché i luterani lo detestassero cordialmente e i cattolici si affrettassero a inserire nell’Indice dei libri proibiti i suoi Opera omnia.
Pasquino nel cielo papistico
Un nuovo studio sul bestseller del primo ’500: sotto accusa la corruzione della Chiesa cattolica e l’armamentario di vuote pratiche devozionali
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.04.2018)
Sempre apparso anonimo, il Pasquillus extaticus fu un vero e proprio best seller dei primi anni quaranta del Cinquecento, come testimoniano tre edizioni in latino con numerose varianti e tre in italiano (in due diverse versioni), destinate alla circolazione europea le prime e al proselitismo riformato al di qua delle Alpi le altre. Di queste esistono anche numerosi manoscritti che ne documentano ulteriormente la larga diffusione, attestata anche da una coeva traduzione tedesca e una più tarda traduzione olandese. A scriverlo e a raccogliere i testi che vi compaiono fu Celio Secondo Curione, un letterato piemontese convertitosi alla Riforma e rifugiatosi nel 1542 dopo varie peripezie in Svizzera, a Basilea, dove si sarebbe infine avvicinato a dottrine radicali, sempre più distanti dall’ortodossia calvinista.
È merito di questo studio aver stabilito con buona certezza che il testo latino fu pubblicato per la prima volta a Basilea nel 1541, quando il suo autore non aveva ancora preso la via della fuga oltralpe, all’indomani della quale fu stampata a Venezia la prima edizione italiana, che fu quindi successiva. Sono queste due editiones principes ad essere qui pubblicate con introduzioni storiche e testuali, note di commento e apparato critico. Non stupisce che il Sant’Ufficio romano giudicasse «perniciosissimo» il libello constatandone il successo nell’ambito dei gruppi e movimenti filoriformati in Italia.
Con il Beneficio di Cristo, l’Alfabeto cristiano, la Tragedia del libero arbitrio, la Medicina dell’anima, testi anch’essi apparsi negli anni quaranta del secolo, sullo sfondo delle prime convocazioni del concilio di Trento, il libro fu uno dei più presenti sui piccoli scaffali clandestini di cui si nutriva una nuova identità religiosa sempre più costretta agli artifici della dissimulazione.
In quelle pagine, infatti, la pungente satira delle pasquinate romane dei primi decenni del secolo si spersonalizzava, non investiva più singoli personaggi, ma un’intera istituzione, la Chiesa cattolica, passando dalla beffa morale alla polemica religiosa per denunciarne la corruzione e arricchire l’arsenale delle armi con cui combattere la battaglia per l’abbattimento dell’Anticristo papale.
Non più versi satirici fatti di insulti e più o meno triviali allusioni, ma un dialogo umanistico e pedagogico tra Pasquino e Marforio, sulla base di evidenti modelli erasmiani, che si propone come «una grandiosa ricapitolazione secolare in grado di mostrare al lettore come i tempi della rovina definitiva della Chiesa romana fossero ormai maturi» (p. 23).
Un’opera militante, dunque, in cui il racconto fatto da Pasquino di un viaggio nel cielo papistico (un demoniaco e infernale cielo alla rovescia) offre lo spunto per investire di una critica feroce frati e monache, confessori e martiri, scalzando dalle radici l’imponente edificio della Chiesa visibile e l’infausto armamentario di pratiche sacramentali, liturgiche e devozionali da essa proposto ai fedeli, spingendoli nell’abisso di una pietà farisaica e superstiziosa. -Venerazione delle immagini, purgatorio, voti, pellegrinaggi, digiuni, celibato ecclesiastico, messe di suffragio, indulgenze, miracoli, tutto veniva triturato nella macchina antipapale del Pasquillus curioniano, che investiva non solo e non tanto i comportamenti, ma soprattutto le dottrine erronee che li legittimavano, sì da configurare il discorso come una sintesi della teologia riformata.
Per esempio, se la denuncia dei «fratacci» che, anziché fuggire il mondo «lo portano seco ne’ monasterii, [...] dove non si vede già altro che passioni d’animo e mere pazzie, con che cercano di scacciarsi l’un l’altro o di innalzarsi» (p. 212), poteva rifarsi all’erasmiano «monachatus non est pietas», è evidente il magistero della Riforma laddove si criticavano coloro che preferivano lasciare il monopolio delle cose sacre ai presunti «gran teologi», perché credere «semplicemente» non significa credere «ignorantemente» e ogni cristiano ha il dovere di conoscere la Scrittura (p. 217).
Se la denuncia del cielo papale come un empio «mercato» simoniaco (p. 230) ripropone antiche invettive anticuriali, di chiara matrice eterodossa sono gli strali contro il culto dei santi (vero e proprio pantheon neopagano), i «novi e orribili riti» e le infinite superstizioni popolari di cui si nutriva, per esortare invece a porre ogni speranza di salvezza solo e soltanto nella fede in Cristo (pp. 232-33), unico «advocato nostro» (p. 244), senza «tanti miracoli fatti a mano, tante fraterie, tanti publichi mercati di meriti e buone opere» (p. 237).
Un cielo tuttavia, quello papistico, sempre più gravemente insidiato da moderni guastatori, «bravi uomini», in massima parte tedeschi, ma anche «assaissimi italiani et franzesi» che ne preparavano il definitivo crollo scavandone le malcerte fondamenta, fatte di «cappucci, rosari, vesti succide, capelli tagliati, veli di monache e mille fogge di vesti, mille di scarpe, mille di berette, mille di colori, [...] pesci fradici, erbaggi, ligumi, lasagne, mitre pontificali», e sostenute dai muri ormai pericolanti della Superstizione, della Persuasione, dell’Ignoranza e dell’Ipocrisia (pp. 229-30).
I tempi stavano cambiando rapidamente, scriveva Curione, evocando con grande violenza verbale quanti avevano ormai «comminciato a caccar nei capucci, a forbirsi il culo coi rosarii, a farsi beffe dei pelegrinaggi, ad aver a scherzo quelle putanesche astinenze e ad aver in somma abominazione tutte le superstizioni» (p. 235).
Una violenza che scaturiva dal suo sentirsi schierato in prima linea nella guerra in corso tra verità ed errore, Riforma e papismo, evocata anche dai nomi di numerosi personaggi che compaiono in queste pagine, illustri riformatori come Zwingli, Melantone, Butzer e non meno illustri cardinali come Sadoleto, Aleandro, Carafa, o grandi sovrani europei in guerra tra loro.
Tra di essi figura anche Erasmo da Rotterdam, rappresentato come una vela esposta a ogni vento perché «non si seppe mai, né dai suoi scritti si può sapere, s’ei s’appressasse più al ciel divino o al papistico» (p. 268). Un giudizio severo dal quale lo stesso Curione non tarderà a prendere le distanze, ispirandosi al De immensa Dei misericordia per il suo scritto più celebre, il De amplitudine beati regni Dei, pubblicato nel 1554.
500 anni dopo Lutero
Parmentier: «La riconciliazione parla con voce di donna»
Parla la teologa luterana Elisabeth Parmentier: «A favorire l’ecumenismo è anche l’atteggiamento sempre più materno assunto dalla Chiesa nella società»
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 14.11.2016)
Qualche anno fa, invitata a parlare sul futuro dell’Unione Europea, la teologa luterana Elisabeth Parmentier aveva proposto una similitudine che molti ancora ricordano. È come se una donna fosse incinta di due gemelle, spiegava: una si chiama Paura, l’altra Speranza. Tutto sta a vedere chi avrà la meglio. Ora come ora la pastora Parmentier sembra un po’ meno ottimista: «La mia impressione - dice - è che in Europa e nel mondo sia la paura a prevalere. Ma questa può essere un’opportunità per i cristiani. Anzi, è un invito a proseguire con convinzione ancora maggiore nel cammino del dialogo ecumenico».
Docente di Teologia pratica alla Faculté de théologie di Ginevra, Elisabeth Parmentier è nota anche al lettore italiano grazie ai saggi editi nel nostro Paese da Edb (La Scrittura viva, 2007) e Qiqajon (Donne in concorrenza?, sull’episodio evangelico di Marta e Maria, 2014). Nei giorni scorsi ha partecipato al convegno su “Giubileo della Misericordia, giubileo della Riforma: una prossimità feconda?”, organizzato a Padova dalla Facoltà teologica del Triveneto. Un’occasione di studio resa straordinariamente attuale dal viaggio di papa Francesco in Svezia, durante il quale è stata sottoscritta a Lund la Dichiarazione congiunta tra la Chiesa cattolica e Chiese luterane: «Abbiamo imparato - si legge nello storico documento - che ciò che ci unisce è più importante di ciò che ci divide». Detto altrimenti, quello che un tempo divideva oggi può unire. La lettura della Parola di Dio, per esempio.
«È vero - ammette la professoressa Parmentier - per un lungo periodo l’interpretazione della Scrittura ha rappresentato un elemento di scontro fra le Chiese, ma in questo momento è diventata finalmente luogo di incontro e di confronto. Questo non significa che l’avventura dell’interpretazione possa considerarsi conclusa. Al contrario, la Scrittura, in quanto realtà viva, resta sempre in discussione. Distinzioni e sottolineature differenti si riscontrano ancora oggi e, per paradossale che possa apparire, risultano più accentuate all’interno del mondo protestante».
A che cosa si riferisce?
«Al letteralismo che contraddistingue alcune confessioni evangelicali e che si risolve spesso in un atteggiamento di tipo esclusivamente morale. È come se, per ribadire l’autorità della Scrittura, si volesse rinunciare al patrimonio della critica storica e filologica. Bisogna evitare le generalizzazioni, è chiaro. Ma non possiamo dimenticare come il dialogo attuale affondi le sue radici nella tradizione dell’Umanesimo, dal quale ci viene la capacità di leggere in chiave critica il testo biblico».
Qualcosa che divide cattolici e protestanti però c’è ancora. Di che cosa si tratta?
«A mio avviso il problema fondamentale è costituito dalla visione della Chiesa. Da parte delle denominazioni protestanti si potrebbe anche arrivare al riconoscimento del Papa come primus inter pares, ma questo passo dovrebbe essere preceduto da una revisione della struttura ecclesiale da parte cattolica. Non è solo questione di organizzazione gerarchica, ma di articolazione e visione della Chiesa. Ed è precisamente da questo che discende la possibilità di instaurare un dialogo ecumenico capace di arrivare a un accordo più vasto e puntuale».
Il discrimine, dunque, non sta più nella dottrina sulla giustificazione?
«Su questo la controversia si è chiusa definitivamente nel 1999, con la Dichiarazione congiunta sottoscritta da cattolici e luterani. Da allora siamo consapevoli che tra i cristiani non esiste più alcun disaccordo in merito alla natura e alla portata della salvezza. Lo stesso tema della misericordia, che tanta rilevanza ha avuto quest’anno nella Chiesa cattolica per via del Giubileo, appartiene fin dalle origini alla spiritualità protestante. Sul versante sacramentale, poi, la consonanza è ormai completa non solo per quanto riguarda il Battesimo, ma anche per l’Eucaristia, nella quale anche i luterani, pur non adottando la definizione cattolica di transustanziazione, riconoscono comunque la vera presenza di Cristo».
Eppure l’ordinazione ministeriale rimane un punto critico.
«Per il motivo che sottolineavo in precedenza, ossia la diversa visione di Chiesa che ci caratterizza. Il pastore luterano non ha alcuna investitura sacramentale e questo non può non porre un problema di reciprocità nei confronti del cattolicesimo».
Anche la valorizzazione del carisma femminile va considerata in questa prospettiva?
«La mia convinzione è che già adesso, all’interno della Chiesa cattolica, molte donne svolgano un servizio pastorale al di fuori del ministero ordinato. Sarà proprio questa esperienza concreta a far progredire la coscienza dell’importanza della donna in ambito ecclesiale, probabilmente attraverso la strada del diaconato. Più complesso è semmai il discorso del celibato sacerdotale, che per i cattolici costituisce una componente molto forte e direi quasi irrinunciabile della propria identità simbolica».
Quali sono le novità introdotte da papa Francesco nel dialogo ecumenico?
«Bergoglio ha il carisma di una grande intelligenza teologica. La sua è una visione radicalmente cristologica della realtà, che lo porta a trasformare in messaggio di riconciliazione la sua stessa persona e le sue stesse azioni. In questo mi pare evidente il portato degli Esercizi spirituali ignaziani e, nella fattispecie, dalla pratica del discernimento, che porta a distinguere continuamente fra ciò che è prudente e ciò che è urgente, nell’ecumenismo così come nella Chiesa cattolica».
In che modo il contesto della secolarizzazione influisce sulla riconciliazione fra i cristiani?
«Negli ultimi decenni i cambiamenti sociali hanno fatto sì che la Chiesa assumesse una funzione diversa. Al riferimento normativo del passato è subentrato un atteggiamento che definirei terapeutico, diaconale, materno. Più femminile, se così vogliamo considerarlo. Questo, lo ripeto, dipende da una domanda sempre più diffusa, che sicuramente ha nella solitudine prodotta dalla secolarizzazione una della sue motivazioni più riconoscibili. A ben pensarci, però, anche gli obiettivi primari indicati dalla Dichiarazione congiunta di Lund, come la cura dell’ambiente e l’accoglienza dei migranti, chiamano in causa questa dimensione terapeutica e materna, squisitamente femminile, della Chiesa».
Ma per lei, personalmente, che cosa significa essere luterana?
«Per me la libertà del cristiano sta al cuore della spiritualità di Lutero. È un dono straordinario e, in quanto tale, non va frainteso. Non si traduce nella licenza di fare tutto quello che si vuole, ma implica la consapevolezza di essere stati liberati, una volta per tutte, dalla preoccupazione di noi stessi. Questo induce a vivere nella gratitudine e, nello stesso tempo, permette di rivolgersi agli altri senza più timore. Nei suoi scritti Lutero insiste molto nella presenza del diavolo, del peccato e della morte nelle nostre esistenze. Il suo è il linguaggio dell’epoca, ma il messaggio rimane inalterato nel tempo. La separazione tra Dio e l’uomo oggi assume l’aspetto di una solitudine assoluta, che induce a un’assoluta disperazione. Essere luterana, per me, significa sapere di non essere mai sola, nella certezza che perfino la morte, l’ultimo nemico, è già stata sconfitta da Cristo».
Dalla donna ideale alle donne inquietanti: le cristiane rivelatrici di crisi d’identità e iniziatrici di cambiamenti di Elisabeth Parmentier, teologa e pastora luterana francese, professoressa di teologia pratica alla Facoiltà dio teologia protestante di Strasburgo.
500 anni dopo Lutero.
Padre Puglisi: «Una sola lingua per cattolici e luterani»
L’esperto di ecumenismo padre James Puglisi: «Uno dei nodi principali resta il reciproco riconoscimento dei ministri ordinati. Ma le incomprensioni di cinque secoli oggi possono essere superate»
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 15.11.2016)
Per padre James Puglisi l’ecumenismo è, alla lettera, una questione di famiglia. «Mia nonna era nata anglicana - ricorda il religioso originario della cittadina di Amsterdam, nello Stato di New York - e solo in seguito divenne cattolica». Proprio come è accaduto all’altra famiglia, religiosa, di cui padre Puglisi fa parte: i francescani dell’Atonement, ossia delle redenzione. Il nome, ispirato a un brano della Lettera ai Romani, fu scelto alla fine dell’Ottocento dal pastore episcopaliano statunitense Lewis Wattson, iniziatore dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani. Poco tempo più tardi, nel 1909, Wattson passò al cattolicesimo e la congregazione da lui fondata fu ammessa alla piena comunione con la Chiesa di Roma. Attualmente i francescani dell’Atonement animano il centro Pro Unione di Roma (www.prounione.urbe.it), attivissimo nelle promozione del dialogo ecumenico. Padre Puglisi, che lo dirige, è considerato un’autorità in materia: a lui si deve, tra l’altro, la cura dell’Enchiridion Oecumenicum pubblicato in numerosi volumi fin dalla metà degli anni Ottanta. «Il quinto centenario della Riforma - dice - può segnare una tappa importante, se non altro per il riconoscimento dei progressi compiuti negli ultimi decenni».
In quale direzione: pastorale o teologica?
«Mi pare indubbio che sul piano dottrinale si sia ormai superato ogni equivoco tra cattolici e luterani. E questo già dal 1999, dalla firma della Dichiarazione congiunta sulla giustificazione, grazie alla quale siamo arrivati a una nuova comprensione degli elementi che ci avevano diviso in passato. I cattolici riconoscono che i luterani non sono più soggetti all’anatema del Concilio di Trento e, nello stesso tempo, i luterani ammettono che i cattolici non sono più estranei alla giusta comprensione del mistero centrale della fede in Cristo. Quanto sta accadendo in questi mesi, compreso lo storico viaggio di papa Francesco in Svezia, si pone nel segno di questa continuità».
Quali potrebbero essere i prossimi passi?
«Mi rifaccio a un documento che si intitola appunto On the way, “In cammino”, sottoscritto di recente negli Stati Uniti da cattolici e luterani. Lì sono indicati tre aspetti particolarmente rilevanti per il dialogo: la Chiesa, l’Eucaristia, il ministero. Per ciascuno di questi ambiti vengono valutati gli elementi di accordo e di disaccordo. Sull’Eucaristia le differenze sono ridotte al minimo, dato che anche i luterani concordano sulla vera presenza di Cristo, per la quale pure forniscono una spiegazione alternativa rispetto a quella in uso nella teologia cattolica. Più complessa è la questione della Chiesa, nella quale i luterani sono ancora restii a riconoscere uno strumento per l’opera di salvezza. Ma il vero punto critico, alla fine, è costituito dal riconoscimento reciproco del ministero. Fino a quando non verrà superato questo ostacolo, l’unità non potrà dirsi raggiunta».
Si riferisce all’ordinazione delle donne?
«Nel mondo luterano le donne ordinate sono molto numerose, ma la Chiesa cattolica non contempla questa possibilità: come pensare, allora, di arrivare a un’effettiva reciprocità? Sono convinto che nei prossimi anni la teologia cattolica dovrà molto riflettere su questo snodo, considerando con grande serietà le obiezioni che vengono da parte protestante».
Quali?
«Il fatto che nulla, nel Nuovo Testamento, esclude espressamente il sacerdozio femminile. Gli apostoli erano tutti uomini, si ripete. Ma se è per questo erano anche ebrei, circostanza che non ha impedito l’ingresso dei gentili nella Chiesa. La riflessione, a questo punto, deve andare in un’altra direzione, approfondendo la dimensione del sacerdozio comune dei fedeli. Il legame, insomma, non è tra sacerdozio e ordinazione, ma tra Battesimo e sacerdozio».
Non sarà un percorso facile.
«Più che altro non può essere un percorso imposto dall’alto, come si tentò a fare nel Quattrocento con il fallimentare Concilio di Ferrara e Firenze che mirava a ricomporre lo scisma d’Oriente. Il dialogo ecumenico, al contrario, ottiene i risultati migliori quando si configura come un movimento dal basso. Ecco perché bisognerebbe insistere sulla formazione dei ministri nelle varie Chiese. L’ecumenismo non può essere considerata soltanto una materia di studio da affiancare alle altre, ma deve diventare anche una visione trasversale, capace di informare di sé tutta l’azione pastorale. Del resto, è l’azione che ci unisce, prima ancora della dottrina. Mi pare che sia questo, da ultimo, il significato più profondo dell’ecumenismo praticato da papa Francesco, nella cui riflessione è centrale il riconoscimento del comune Battesimo ricevuto dai cristiani».
Ma lo scisma di mezzo millennio fa poteva essere evitato?
«La mia impressione è che alla base della rottura ci sia stata una forte incomprensione linguistica. La forma mentis di Lutero era di tipo settentrionale, direi quasi anglosassone, ma si esprimeva attraverso le formule della Scolastica latina, finendo così per irrigidirsi ancora di più. Ogni lingua ha in sé la sua logica, infatti, e la transizione da un contesto all’altro non avviene in modo indolore. Nella fattispecie, Lutero non ha mai rinunciato al procedimento binario della reciproca esclusione. Per lui l’Eucaristia, per esempio, non può essere nello stesso tempo sacrificio e rendimento di grazie, perché una definizione viene a contraddire l’altra e questo impedisce di raggiungere la sintesi del sacrificium laudis. Questo, peraltro, vale anche per la posizione assunta da Lutero sull’ordinazione. Per strano che possa apparire, fu proprio l’eredità della Scolastica a rendere impossibile la riconciliazione nei primi anni della Riforma. Adesso spetta a noi trovare un linguaggio e un pensiero veramente innovativi».
Per dizionario Oxford ’post-verità’ è parola del 2016
Scelta fatta sullo sfondo di elezioni Usa e referendum Brexit
di Redazione Ansa *
LONDRA E’ ’post verità’, in inglese ’post-truth’, il neologismo dell’anno secondo gli esperti di Oxford Dictionaries. La scelta e’ quella di un’espressione che secondo un comitato di esperti ha segnato profondamente la scena politica internazionale durante il 2016, con riferimento in particolare alle polemiche legate alla campagna referendaria britannica sfociata a giugno nella vittoria della Brexit (il divorzio dall’Ue) e a quella americana per le presidenziali appena culminata nel trionfo di Donald Trump.
L’annuncio è arrivato in queste ore, riporta la Bbc: ’post-truth’ ha prevalso in una short list finale che comprendeva anche termini come ’Brexiteer’ (sostenitore della Brexit). Si tratta, ha sentenziato Casper Grathwohl, fra i curatori dei prestigiosi dizionari editi a Oxford, "di una di quelle parole che definiscono il nostro tempo".
THEILARD DE CHARDIN. La “Messa sul mondo” e la suggestione di un’Eucarestia cosmica ...:
CHIESA
Dimensione eucaristica
La Messa della vita
di EDMONDO CESARINI*
Nell’Ultima Cena, Cristo ai discepoli offrì il pane (che può essere preso a simbolo della materialità e miseria umana), esortandoli a parteciparne, perché “quello era il Suo Corpo”. Poi offrì loro il vino (che può essere preso a simbolo della sofferenza e vitalità umana) invitandoli ad accettarlo, perché “quello era il Suo Sangue” .
La nostra vita è spesso tessuta di materia e miseria, sofferenza ed impegno, e spesso ci allontana dalla dimensione religiosa. Ma la partecipazione all’eucarestia sull’altare deve insegnarci ed indurci invece a fare della nostra stessa vita una “Messa”, in cui la nostra umanità - “frutto della natura e delle esperienze dell’uomo” - diviene corpo di Cristo. (1Cor 12,27), formando così la pienezza del Corpo di Lui (Ef, 1,23) che cresce appunto mediante l’attività di ognuno nella carità (Ef 4,16).
Questo è il nostro compito di cristiani: sotto l’azione dello Spirito, attuare la pienezza del corpo. Oserei dire che tutta la materialità, la sofferenza, l’impegno della vita umana è la materia - il pane ed il vino - del sacramento cosmico con cui l’umanità è chiamata a divenire corpo di Cristo.
La “Messa sul mondo” di Teilhard de Chardin continua ad affascinare generazioni di cristiani, con la sua suggestione di un’Eucarestia cosmica; ma si potrebbe riflettere anche sull’espressione “Messa del mondo” o meglio ancora “Messa della vita”.
L’unica riflessione seria sull’essere o non essere cristiani è quella sulla “dimensione eucaristica”, che è sempre meno nel rito e sempre più nella vita.
In effetti noi siamo sacerdoti chiamati ed impegnati a transustanziare la realtà d’ogni giorno nella realtà metastorica del Corpo di Cristo.
Ma affinché sia parte di una celebrazione eucaristica, ogni nostro momento di vita va anzitutto “offerto”. Offerto al Padre, alla sua Volontà, al suo Progetto di amore su di noi, anche se spesso non ne abbiamo coscienza, o addirittura lo rifiutiamo.
Quest’offerta non è facile, perché la dinamica dell’offerta implica saper accettare e poi saper rinunciare all’oggetto della nostra offerta. Accettare la vita, i suoi problemi, le sofferenze, le limitazioni, la malattia, i fallimenti, ecc. è difficile, a volte sembra impossibile. Per questo ci arrabbiamo, ci deprimiamo, ci disperiamo, evadiamo con varie “droghe”, rifiutiamo la nostra vita, noi stessi, ci ribelliamo, non la “accettiamo”.
Ma anche per i momenti vissuti come “belli”, quelli di godimento, soddisfazione, successo, ecc. è difficile “l’accettazione”, cioè il sentirli “come un dono” dal Padre, dalle vicende della vita, dalle relazioni col prossimo; piuttosto crediamo che siano “cosa nostra”, il nostro tesoro geloso, guai a chi ce lo tocca... Insomma, in genere, gli eventi della vita cerchiamo o di rifiutarli o di appropriarcene. Raramente di accettarli: ma non si può offrire se non quello che si è accettato.
Solo sulla parte della nostra vita che sappiamo “offrire” possiamo pronunciare l’epiclesi, e può verificarsi la discesa dello Spirito. Lo Spirito è l’amore, lo Spirito è il vero, e opera negli eventi della nostra vita spingendoci ad agire la carità nella verità (e non c’è comunque l’una senza l’altra).
Ogni nostro evento di vita ha una sua Verità (cioè il progetto esistenziale di crescita cui è destinato) e questa va attuata con la carità.
Celebrare la Messa della vita implica l’attribuzione di sacralità e progettualità ad ogni momento dell’esistenza, affinché vivendolo nella carità possa partecipare alla costituzione di quella realtà metastorica che è la Chiesa, il Corpo di Cristo.
È naturalmente la ricerca costante della gioia nel crescere umanamente (“affinché la vostra gioia sia piena”) piuttosto che del piacere nel godimento momentaneo, un impegno costante ad utilizzare le opere ed i giorni per costruire, un’attenzione costante a vincere il tempo che passa, radicando gli atti vitali in una dimensione “su cui la morte non ha vittoria”.
Celebrare l’Eucarestia della vita “cambia la sostanza stessa della realtà”, diceva s. Giovanni Crisostomo: la “transustanzia”...
Occorre fare della propria vita una celebrazione eucaristica, per cui la nostra umanità si rende disponibile ad esprimere l’amore, diventando così corpo di Cristo.
Per fare questo, siamo nati. Ogni atto relazionale, ogni rapporto tra esseri umani può essere una “celebrazione eucaristica”. In ogni incontro “di due o tre in Suo nome” è presente Cristo e da ogni incontro può venire l’impegno ad un reciproco miglioramento, che è lo scopo del suo corpo, la Chiesa.
Si può cioè agire la consacrazione e la comunione. Noi riusciamo - in genere - a partecipare una volta a settimana all’eucarestia sull’altare, fondamento di tutte le relazioni umane, ma siamo ancora molto lontani dal partecipare all’eucarestia in ognuna delle relazioni umane, che pure ne sono l’effettiva sostanza. Dovremmo sempre ricordare “la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità” insite in ogni rapporto umano.
Celebrare l’eucaristia nella vita è agire il perdono e l’amore. Con il perdono, il male che è stato non è stato più, cambia sostanza, diventa bene, come nella consacrazione in cui il pane div