croce uncinata
Il Führer e il prelato, cattolici con la svastica
L’apertura degli archivi del vescovo filonazista Alois Hudal, rettore per decenni del Collegio pangermanico di Santa Maria dell’Anima a Roma ripropone la necessità di una analisi in profondità dei rapporti tra la gerarchia cattolica tedesca e l’ideologia hitleriana
di Martino Patti (il manifesto, 06.10.2006)
Da tempo, ormai, il dibattito storiografico sui rapporti tra chiesa cattolica e Germania nazista sembra essersi impantanato sull’enigmatica figura di Pio XII. Ben sapendo che una porzione consistente delle carte resta ancora sotto chiave negli archivi vaticani (ognuno ha i suoi tempi, per carità) si continuano a costruire le ipotesi più fantasiose sui presunti silenzi del pontefice, sul suo presunto antisemitismo, sulle sue presunte responsabilità nelle vicende legate al secondo conflitto mondiale e all’Olocausto, quasi fosse questa la sola cosa essenziale. Certo il reality - vero o falso che sia - vende discretamente bene e a molti, in fondo, imbastire polemiche conviene.
Ma sul serio non c’è dell’altro? Sul serio, per comprendere in che modo - tanto per iniziare - il cattolicesimo tedesco reagì alla virulenta ondata hitleriana e alla demolizione definitiva della Repubblica, non possiamo prescindere dal povero Pacelli, e provare a ritagliare un numero esauriente di casi empirici, da cui dedurre - come richiederebbero le leggi più elementari della storiografia - situazioni, convergenze ricorrenti e eventualmente una prima interpretazione? «Guré, guré behet kalaja» recita un antico proverbio albanese: pietra su pietra, si fa il castello.
Un prelato arrivista
Gli spazi di lavoro, del resto, sono ampi e variegati. Talvolta, persino al di qua del Brennero: come ci dimostra il Collegio Pangermanico di Santa Maria dell’Anima in Roma, che con un doveroso gesto di coraggio (tardivo anch’esso, ma comunque ammirevole) inaugura oggi l’apertura agli studiosi degli archivi personali di monsignor Alois Hudal.
Il passaggio è di notevole importanza, anche se forse sull’infame Netzwerk Odessa saranno poche le sorprese. I novantasei faldoni hudaliani, infatti, oltre a gettare luce sulla personalità (contorta e arrivista) dell’autorevole prelato austriaco, a confermare in maniera non più discutibile le tristi immagini affrescate da Ernst Klee nei suoi brillanti reportage (tradotti in italiano in Chiesa e nazismo, Einaudi 1993) e a suggerire nuove piste di ricerca, mettono bene in risalto l’ingombranza fastidiosa dell’enorme piattaforma mentale e culturale offerta da ampi settori del cattolicesimo di ambientazione germanica alla presunta «rivoluzione nazionale» ventilata dal Führer e dal suo movimento.
Le simpatie di monsignor Hudal per il nazismo non sono una novità per nessuno né si dimentica che, ancora nei primi anni ’60, fu lo stesso rettore emerito del prestigioso istituto pontificio a ribadire con superbia, dall’esilio forzato di Grottaferrata, tra le righe dei Römische Tagebücher (i «Diari romani»), la sua tesi ributtante: sempre meglio Hitler che la paccottiglia giudeo-bolscevica, la democrazia socialdemocratica o per contro il capitalismo americano. E ai forni polacchi neanche un accenno, una allusione di pietà.
Trent’anni addietro, inoltre - al chiaro scopo di convincere le gerarchie ecclesiastiche e i cattolici più «illuminati», e tuttavia ancora timorosi, circa l’intrinseca bontà o recuperabilità in chiave cristiana del nazismo - Hudal aveva dato alle stampe il ponderoso trattato Die Grundlagen des Nationalsozialismus («I fondamenti spirituali del nazionalsocialismo», Lipsia-Vienna, 1936).
Condanne in contumacia
Nessuno sgomento, dunque, nel ritrovare, tra i forzieri rinascimentali dell’Anima, obbrobri clamorosi quali la dedica del volume al dittatore tedesco («Al Führer del Risorgimento tedesco. Al novello Sigfriedo della grandezza e della speranza della Germania - Adolf Hitler») o la copia del telegramma datato 15 luglio 1937, con cui Hudal, ormai vescovo titolare di Ela, esprimeva alla dirigenza del Reich le proprie cordiali congratulazioni per la buona riuscita dell’Anschluß. Di fronte a simili sbottate lo sdegno è sacrosanto.
E tuttavia, condannare in contumacia i monsignori - com’è d’uso da almeno mezzo secolo - basta davvero a far progredire la ricerca? Evidentemente no. Quel che serve, semmai, è afferrare le radici nel profondo, stabilire legami verosimili tra il presente e il passato - e poi, è ovvio, agire e contestare se necessario. È una questione anche di strategia: per poterlo sconfiggere, prima bisogna conoscerlo, il nemico.
Ma da questo punto di vista è desolante constatare quanto superficiale sia stato finora, in generale, l’approccio analitico al fenomeno del consenso cattolico nei confronti dei regimi autoritari fioriti in mezza Europa tra le due guerre mondiali. Che non si sia compreso come il sostegno di Hudal al nazismo, lungi dal rappresentare il singolare esito patologico di una qualche deviazione individuale, riassuma in miniatura una intera stagione teologico-intellettuale, e forse persino magistrale, precisamente questo è grave.
Ma cosa dicono le fonti? In realtà, le più recenti acquisizioni documentarie, e segnatamente gli scritti di monsignor Hudal, suggeriscono la netta impressione che, specie nei primi ventiquattro mesi di dittatura - sullo sfondo della modernità illuminista e liberale, della secolarizzazione, del Kulturkampf «d’infausta memoria» e della minacciosa rivoluzione d’Ottobre - sia scattata una sciagurata interferenza tra la profezia ideologica divulgata, e in parte poi inverata, dalla Nsdap (il partito nazista) e le correnti teologiche più avanzate dell’epoca.
Nella congiuntura di sofferta transizione scaturita da Versailles, contrassegnata dalla depressione economica e dal radicalizzarsi del conflitto sociale, la lezione aristotelico-tomista e agostiniana (mediata tra Otto e Novecento da pensatori neoscolastici del calibro di Josef Kleutgen, di Martin Grabmann, di Erich Przywara) sembra infatti aver fornito ai genî più volenterosi - tra cui Hudal in prima fila - il presupposto logico necessario per tradurre in certe istanze restaurative della condizione di Ordine la riproposizione del primato, tutto medievale, del dato oggettivo su quello soggettivo, dello stato (civitas) e dell’auctoritas sul contrattualismo illuminista, dell’unità responsabile sugli egoismi frammentari e particolaristici. In tal modo, la collaborazione con il nuovo stato avrebbe potuto concretizzarsi (e si concretizzò, sovente) intorno a quattro poli fondamentali.
La coscienza tedesca
Prima di tutto l’impero, perché l’unico schema politico-istituzionale in grado di salvaguardare l’ordine cristiano della creazione, l’ordine buono vero e giusto del reale (natürliche Weltordnung), era quello in cui l’autorità derivava da Dio e non dall’uomo, cioè dalla repubblica democratica: come del resto esigeva la migliore tradizione nazional-germanica che, a prescindere dalla volgare retorica hitleriana, contemplava già per conto suo il Führerprinzip autoritario.
Al riguardo, basti pensare al caso paradigmatico di Otto von Bismarck. In secondo luogo l’unità, perché del Kulturkampf, almeno una conseguenza non potrà mai esser posta in discussione dagli storici: aver approfondito l’infausta spaccatura ereditata da Lutero, frantumando ulteriormente la coscienza nazionale dei tedeschi e generando, nei cattolici, la sgradevole sensazione di essere, in fondo, una minorità ingiustamente perseguitata dallo Stato.
Ma cosa sventolava il buon Ottone redivivo, sotto il naso dei tedeschi, se non proprio la solenne immagine programmatica della Volksgemeinschaft, della Volkswerdung ossia dell’agognata riunificazione di tutti i Volksgenossen (termine che non si traduce in italiano con «cittadini», ma piuttosto con «membri» cioè «fratelli nel sangue, nella lingua e nella terra condivisa») nella ritrovata comunità nazionale ed ecclesiale?
Terzo punto, la totalità: sin dai tempi di Pio IX, il magistero ufficiale aveva adottato l’antica visione teologica, anche questa di chiara matrice patristica e aristotelico-tomista, secondo la quale, nei limiti della Creazione divina, la sfera politico-civile si vedrebbe destinata, secondo natura, ad armonizzarsi alla dimensione religiosa e sovrannaturale, pur restando entrambe ermeticamente separate.
Ed ecco, se da un lato la politica religiosa del regime in via di normalizzazione a nient’altro mirava che alla spoliticizzazione coatta delle chiese in quanto associazioni tra le tante, dall’altro lato larghi settori del cattolicesimo tedesco non disdegnarono affatto la formula del «cristianesimo positivo», che avrebbe permesso loro di affossare, insieme agli altri partiti d’epoca liberale, il Zentrum scellerato, riducendo la chiesa al suo più genuino ufficio spirituale.
Infine, il corporativismo organicista: con rara fermezza, nell’enciclica Quadragesimo anno, Pio XI aveva preso posizione contro «la lotta di classe fratricida fomentata dal bolscevismo marxista», invitando i cristiani a ristrutturare il corpo sociale in direzione sia della definitiva redemptio proletariorum sia, soprattutto, della berufsständische Volksordung. Questa espressione - legata per definizione ai concetti di natura (Natur), di ordine cosmico naturale (natürliche Ordnung) e di ordine stabilito da Dio (gottgewollte Ordnung) - non gode di una traduzione immediata in italiano ma è densa di significato perché sottende una forte valenza non solo metafisica, ma anche etica.
Stando alla lettera, infatti, essa raffigura per un verso quell’Ordine ideale, quell’articolazione «ontologica» che il Volk (che non vuol dire «popolo» quanto piuttosto «nazione», anch’essa creata nel sangue dalla mano paterna di Dio) tenderebbe ad assumere in ragione dell’attuazione da parte di ogni suo membro delle proprie doti naturali (natürliche Fahigkeiten) ma per un altro verso, anche, quella realtà comunitaria (Gemeinschaft, non Gesellschaft) che, strutturandosi per ceti o corporazioni professionali (Berufstände, berufsständische Körperschaften), esclude o congela la possibilità stessa della mobilità sociale: giacché, in quella prospettiva, «professione» significa né più né meno «risposta a una vocazione naturale» (si pensi a Max Weber).
Ma, quantomeno sul piano delle similitudini formali, non è possibile rilevare una certa contiguità tra questa visione ideale e l’impianto classista della riforma giuslavorista varata dai ministeri Schmitt-Mansfeld il 20 gennaio 1934 nel quadro più o meno emergenziale della nuova economia di guerra? Inoltre, se è vero che il dottor Angelico aveva sentenziato «Bonum commune melius est et divinius bono unius», non è altrettanto vero che Hitler e i suoi scherani inneggiavano nei discorsi ufficiali e negli scritti programmatici al primato del bene comune sull’interesse privato («Gemeinnutz vor Eigennutz!»)?
Sebbene sia ancora troppo presto per lanciarsi in categoriche asserzioni positive, alla luce di queste osservazioni si è comunque tentati di stabilire un paio di conclusioni. In primo luogo, dal punto di vista metodologico (come amava insegnare Edward Hallett Carr), colui che vuol spiegare la storia in tutta la sua complessità materiale deve non solo introdurre una gerarchia tra diverse cause in inter-relazione, ma anche rivivere interiormente ciò che avvenne nelle menti delle sue dramatis personae, ascoltando prima di giudicare. Ma nel nostro caso specifico questo può significare una cosa soltanto: abbandonare quell’ottica forzatamente laicizzante che da decenni ormai ci impedisce di discutere in maniera adeguata questioni le cui radici affondano anche in un humus palesemente storico-religioso e teologico.
Oltre le versioni ufficiali
In secondo luogo, premesso che in effetti sarebbe rischioso «anche solo supporre un atteggiamento univoco o unitario di tutta la Chiesa cattolica o di tutta la Curia romana nei confronti del nazionalsocialismo» (Hubert Wolf), e che certo vi è una differenza sostanziale tra la fase della Machtergreifung (30 gennaio 1933) e quella successiva - inaugurata il 30 giugno 1934 con la liquidazione del fronte conservativo: la cosidetta «notte dei lunghi coltelli» - viene da chiedersi se alla fine dei conti non sia ingenuo accettare la versione ufficiale dei fatti e credere che la «grande conciliazione» (Günter Lewy) dischiusa alle relazioni tra stato e chiesa cattolica in Germania dalla storica conferenza di Fulda (30 maggio-1 giugno 1933), con l’abolizione del divieto episcopale di adesione alla Nsdap ad esempio, sia stato il semplice risultato di una serie di circostanze accidentali e di eventi contingenti.
Non è forse arrischiato ridurre il concordato, siglato con il Reich nel luglio ’33, al provvidenziale strumento giuridico intessuto dall’astuta diplomazia pacelliana per attuare una improbabile opposizione al regime oppure per salvare il salvabile ed evitare il collasso letale - e niente più? Smettiamo di fare apologia, da una parte e dall’altra, e affrontiamo la realtà.
Molto probabilmente, nella misura in cui il nuovo Stato totale avesse conformato anche solo in via preliminare la propria politica interna a un modello rigido di tipo etico e organicista, lasciando intravedere la restaurazione, da operarsi anche manu militari, della Weltanschauung dell’Ordine naturale, il ripristino dell’Ordine della Creazione, la Chiesa avrebbe sostenuto senza troppo tergiversare e anzi con viva sollecitudine l’opera del Führer. E del resto, dato quel passato, dato quel presente, data quella mentalità, data quella sensibilità morale, non è verosimile pensare che, quantomeno a livello gerarchico e organizzativo, difficilmente sarebbe potuto accadere altrimenti?
A convegno
Nell’archivio di monsignor Hudal
In occasione dell’apertura degli archivi di monsignor Alois Hudal, rettore dal 1923 al 1952 del Collegio tedesco di S. Maria dell’Anima di Roma, l’Istituto storico austriaco organizza oggi e domani due giornate di studio. Nel corso del simposio, che si terrà presso la sede dell’Istituto pontificio di Santa Maria dell’Anima, studiosi di diverse aree e provenienze analizzeranno la figura controversa del vescovo austriaco, noto per le sue aperte simpatie hitleriane e per il ruolo giocato nel dopoguerra nella Ratline, la rete che consentì a numerosi criminali nazisti di scappare dall’Europa. Fra gli altri, Jure Kristo, dell’Istituto storico croato, che parlerà appunto dei rapporti fra Hudal e la Ratline, e Philippe Chenaux, che approfondirà il complesso intreccio di relazioni fra il prelato e la curia romana.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
FLS
FILOSOFIA E TEOLOGIA POLITICA DELL’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....
Hitler, un figlio dell’occidente
70 anni fa il futuro Fuhrer diventava cancelliere del Reich. Aveva già programmato tutto in "Mein Kampf".
Lo storico Giorgio Galli ha curato la ristampa del libro per Kaos: "Razzismo e antisemitismo non erano sue invezioni".
di Oreste Pivetta *
Settant’anni fa Adolf Hitler diventava cancelliere dei Reich. Era la mattina del 30 gennaio quando il presidente Paul Hindenburg gli affidò l’incarico. Hitler poteva contare su una coalizione di destra, ma quarantotto ore dopo l’investitura ottenne da Hindenburg lo scioglimento del parlamento. A febbraio il nuovo governo decretò la sospensione della libertà di stampa e i nazisti scatenarono un’ondata di violenze contro gli oppositori politici. Soprattutto i nazisti misero in moto la formidabile macchina della propaganda, diretta da Goebbels, mentre per decreto legge (a fine febbraio) venivano sospese le libertà costituzionali e proibito l’attivismo politico delle sinistre. Il giorno prima, il 27 febbraio, era stato dato alle fiamme il Reichstag. Dell’incendio fu accusato un cittadino olandese di presunte simpatie comuniste, Marinus van der Lubbe.
Cominciava così la più tragica avventura del nostro secolo, alla fine la guerra, le deportazioni, lo sterminio. Le idee che ispirarono tutto questo, stanno in un libro, Mein Kampf, che Hitler aveva dettato al suo segretario Rudolf Hess nell’anno di prigionia, nel carcere di Landsberg, tra l’11 novembre 1923 e il 20 dicembre 1924. Hitler era stato condannato per alto tradimento per il tentato putsh di Monaco, il putsh della birreria. Mein Kampf, scritto in forma prolissa e contorta, fu rivisto e corretto (anche dagli errori grammaticali) da un prete che era diventato giornalista antisemita, Bernhard Stempfle, e da Josef Czerny, di origine cèca, giornalista e poeta ugualmente antisemita. Il titolo era di Max Amman, che stava in carcere con Hitler ed era il direttore commerciale della casa editrice del partito nazionalsocialista.
Il libro ebbe all’inizio scarsa fortuna. Alla fine della guerra, al crollo del nazismo ne erano state vendute dieci milioni di copie. Veniva regalato ad ogni coppia di neo-sposi. In Italia fu Bompiani a pubblicare nel 1934 il secondo volume, quello dichiaratamente teorico, che si intitolava Il movimento nazional socialista. Il primo volume (Resoconto), più autobiografico, apparve sempre con Bompiani nel 1938. L’editore Kaos ristampa ora entrambi i volumi, a cura di Giorgio Galli, che ha scritto anche un’ampia introduzione (con una postfazione di Gianfranco Maris, presidente dell’Aned, associazione nazionale ex deportati).
Professor Galli, la prima domanda nasce dal disagio: il disagio, persino materiale di fronte a un oggetto come un libro, di chi ha sempre visto in «Mein Kampf» uno dei simboli della barbarie nazista. Un libro respinto dalla nostra coscienza. Perchè ristamparlo?
«Intanto perchè in una società aperta non dovrebbero esistere tabù. Poi perchè Mein Kampf non è mai scomparso: ne sono circolati estratti in una chiara logica apologetica e si sa che una cosa proibita esercita sempre una certa attrazione. Questa riedizione ha un dunque un senso: non accettare i tabù e offrire un testo storicamente collocato, un testo che può illuminare la figura di Hitler, che tante ambiguità, tante rimozioni e persino le censure possono avvolgere di un fascino sinistro... Proprio sere fa in un programma televisivo, padre Amorth, il prete esorcista del Vaticano, trattava Hitler al pari di un indemoniato. L’oscurità può sedurre: una indagine ha catalogato centocinquanta siti internet ispirati ad una sorta di mito hitleriano».
L’idea della follia è anche un’idea di alterità. Leggendo invece «Mein Kampf» si dovrebbe capire quanto Hitler viva invece nel solco della cultura del suo tempo?
«Mein Kampf è stato sempre giudicato un prodotto abbastanza singolare, sorprendente, quasi un incidente nei percorsi della storia politica occidentale. Non è vero. Hitler raccoglie idee che vengono da lontano. Mi rifaccio alle tesi di Poliakov e di Mosse. Il razzismo e l’antisemitismo non sono invenzioni di Hitler».
Raul Hilberg, nella «Distruzione degli ebrei d’Europa» (Einaudi), presenta addirittura le tavole comparative tra diritto canonico e misure naziste: dal divieto dei matrimoni misti (Sinodo di Elvira del 306) alla legge per la difesa del sangue e dell’onorabilità tedesca (15 settembre 1935), dalla proibizione per gli ebrei a rivestire cariche pubbliche (Sinodo di Clermont del 535) alla legge sulla riorganizzazione delle professioni burocratiche pubbliche (7 aprile 1933). Il distintivo di riconoscimento fu inventato dal Concilio Lateranense nel 1215. Scrive Hilberg: i nazisti non hanno rinnegato il passato, hanno costruito sulle vecchie fondamenta...
«Nel testo hitleriano il razzismo antigiudaico è l’approdo di una concezione razziale che affonda nella cultura occidentale. Hitler per esempio utilizza il francese Joseph-Arthur Gobineau e il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze. Ne ricava l’esecrazione per il "meticciato", che avrebbe portato alla degenerazione dell’umanità. Nel Mein Kampf si ritrovano le teorie eugenetiche dello psicologo inglese Francis Galton...».
Erano tutte letture di Hitler?
«Non letture dirette, ma non credo che la cultura di Hitler si limitasse a pochi opuscoli antisemiti. Conosceva Nietzsche e Schopenhauer. Ipotizzo che conoscesse anche Weber: nella concezione che Hitler manifesta del "capo carismatico", che dev’essere confermato dal successo e che è forte di una tradizione, vi è affinità con il pensiero del sociologo. Tra i dirigenti nazisti era popolare Gobineau».
La storiografia revisionista, che come scrive uno studioso che lei cita, Enzo Traverso, tende a espellere i crimini nazisti dalla traiettoria del mondo occidentale, spiegandoli come una reazione alla rivoluzione russa...
«Non fu l’antibolscevismo a indurre Hitler all’invasione dell’Unione Sovietica. L’operazione Barbarossa non fu il risultato di una contrapposizione ideologica, ma di una pretesa di "spazio vitale". Lo si legge appunto nel Mein Kampf: "Chiudiamo finalmente la politica coloniale e commerciale dell’anteguerra... quando oggi parliamo di nuovo territorio in Europa, dobbiamo pensare in primo luogo alla Russia o agli Stati marginali a essa soggetti. Sembra che il destino stesso ci voglia indicare queste regioni: consegnando la Russia al bolscevismo, rapì al popolo russo quel ceto di intellettuali che finora ne addusse e garantì l’esistenza statale...".
Come si spiega invece la simpatia per l’Inghilterra. Anche qui fa testo il «Mein Kampf», a proposito di Inghilterra e Italia: «La più grande Potenza mondiale e un giovane Stato nazionale offrirebbero ben altri elementi per una lotta in Europa, rispetto ai putridi cadaveri di Stati ai quali la Germania si alleò nell’ultima guerra».
«Sullo sfondo c’è sempre la missione della razza ariana. Secondo i nazisti da una parte della Manica stavano gli ariani di mare, dall’altra gli ariani di terra».
«Mein Kampf» definisce anche il ruolo dello stato. Che cosa rappresenta per Hitler lo stato?
«Lo stato è uno strumento. Scrive: "Lo stato non rappresenta un fine, ma un mezzo. Esso è la premessa della formazione di una civiltà umana superiore, ma non è la causa di questa...". Hitler ribalta le conclusioni di Gobineau: il meticciato non è irreversibile, l’ariano resiste, lo stato è solo il mezzo per invertire la tendenza alla degenerazione, da qui la politica eugenetica dedotta da Galton, teorizzata nel Mein Kampf, attuata dal Terzo Reich. Nella concezione hitleriana lo Stato non è dunque un oggetto di culto, ma uno strumento al servizio di una razza che si edifica in nazione e costruisce una civiltà».
Altro tema fondamentale del «Mein Kampf» è quello relativo alla concezione della classe politica...
«Di Weber appunto è l’idea del capo carismatico investito di una missione, attorno al quale si forma il primo nucleo dei fedeli e che deve essere confermato dal successo, "la inequivocabile prova del successo visibile, il quale, in fin dei conti darà sempre l’ultima conferma della giustezza di un’azione". I profeti disarmati non contano».
Siamo ancora nella tradizione occidentale?
«Tutti i politici anche i più moderati coltivano l’idea di essere investiti da una missione, coltivano la convinzione di avere un compito di pubblica utilità. Questo Weber lo coglie con lucidità. La storia politica dell’Occidente è costruita da personaggi di questo genere, da Cronwell a Napoleone. Hitler ha aggiunto la dimensione divina: capo politico e sacerdote del nuovo rito. Le sue oceaniche assemblee erano quasi cerimonie liturgiche: la massa dei sottoposti nel buio, la tribuna nella luce, il capo che arriva al culmine della rappresentazione. Non cita ovviamente una religione: Hitler si appella agli dei o a una provvidenza che non è mai la provvidenza cristiana... Hitler scrive: "Noi ci rivolgiamo a quelli che adorano non il denaro, ma altri Dei, ai quali votano la loro esistenza"».
«Mein Kampf» dunque sintesi della futura politica hitleriana. Singolare che non faccia cenno alle fonti...
«Mein Kampf esprime un progetto compiuto. Gli atti successivi sono rintracciabili in quelle pagine. Il nazismo si affermò sulla base di un disegno preciso e chiuso, al contrario del fascismo che procedette in modo molto più empirico. L’unica teorizzazione del fascismo sta in quella voce dell’enciclopedia Treccani scritta da Gentile e rivista da Mussolini... Per quanto riguarda le fonti, tacendole Hitler rivendicava l’originalità del proprio pensiero».
Non fu solo un progetto però ad assicurare il successo del nazismo... un movimento che fino al 1928 non aveva che il tre per cento dei voti dopo cinque anni andava al potere.
«Non fu l’ideologia ed anche questo smentisce i revisionisti. Furono sei milioni di disoccupati, con i quali il comunismo non aveva nulla a che fare. La crisi tedesca stava tutta all’interno del sistema liberal democratico. La classe politica della repubblica di Weimar si era mostrata incapace, non solo divisa. La soluzione venne da una medicina keynesiana, come quella adottata negli Stati Uniti, proposta a Hitler da Hjalmar Schacht, il presidente della Banca tedesca: investimenti pubblici per rilanciare l’economia. Il bello è che Schacht aveva presentato lo stesso piano al governo di Weimar, che l’aveva respinto. Fu il primo successo di Hitler: la disoccupazione di massa cancellata. Il "miracolo economico" consentì la seconda performance di Hitler: il riarmo. Nel 1933 la Germania aveva un esercito di centomila uomini, male armati, senza aerei. Nel 1938 la Germania era la prima potenza militare europea».
Mein Kampf, il libro di Hitler torna in vendita: “Meglio, l’ignoranza non aiuta mai. E i tedeschi hanno fatto i conti con la Storia. Non come l’Italia”
di Davide Turrini
Il volume in cui il Führer anticipava l’ideologia dello sterminio antisemita. Ilfatto.it ha intervistato un giornalista (Gad Lerner), un politologo (Piero Ignazi) e uno storico (Gian Enrico Rusconi). E sono tutti d’accordo: è giusto che quelle pagine tornino "libere" di circolare. "Edizione critica come questa ci aiuterà a capire cosa abbiamo imparato in questi 70 anni"
di Davide Turrini *
Duemila pagine, quasi 5mila note a margine, 4mila copie in prima tiratura, e 59 euro come prezzo di copertina. Il Mein Kampf di Adolf Hitler tornerà ufficialmente nelle librerie della Germania dopo 70 anni da gennaio 2016. L’iniziativa della pubblicazione di un edizione “critica” del testo scritto dal dittatore nazista in due volumi, tra il 1924 e il 1926 mentre era detenuto in carcere dopo il fallito Putsch del 1923, e dove venivano delineati i prodromi ideologici dello sterminio antisemita, è stata presa dal prestigioso Istituto di Storia Contemporanea di Monaco di Baviera. Secondo la legge tedesca la scadenza del copyright scatta a 70 anni dalla morte dell’autore (Hitler si suicidò nel bunker di Berlino il 30 aprile 1945).
E’ dal 1946 che il ministero delle Finanze del governo della Baviera detiene i diritti del libro che tra il 1933 e il 1945 aveva registrato 13 milioni di copie vendute. Il Land bavarese ne ha negato la pubblicazione a livello editoriale più volte nel corso dei decenni del dopoguerra, anche se non ha potuto fare nulla rispetto alle copie agiografiche circolate sottobanco in lingua inglese o francese (diverso il caso italiano che ha visto la pubblicazione di un volume “critico” di tutto rispetto edito in Italia da Kaos Edizioni e curato dal politologo Giorgio Galli).
Un’opposizione che però il ministero bavarese non potrà più esercitare per legge dal 31 dicembre 2015. Ed è qui che è entrato in gioco l’Ifz, con un team di validi e preparati storici tedeschi - Christian Hartmann, Thomas Vordermayer, Othmar Plöckinger, Roman Töppel -, a cui era già stata rifiutata a metà anni 1990 la pubblicazione del Mein Kampf dove aver dato alle stampe un volume contenente diversi discorsi hitleriani tenuti tra il 1925 e il 1933. “Il libro di Hitler è già ‘disponibile’ in una varietà di modi. L’obiettivo è quello di decostruire completamente la propaganda in maniera duratura e, quindi, di indebolirne l’ ancora vivo potere simbolico. In questo modo cerchiamo anche di contrastarne un uso improprio ideologico e propagandistica con fini commerciali”, viene spiegato sul sito dell’Istituto Storico di Monaco.
Sono stato di recente a visitare il serissimo istituto tedesco che ha ricevuto l’incarico di questa pubblicazione - racconta spiega Gad Lerner a ilfattoquotidiano.it - Ho parlato con i curatori che hanno molto ben presente la responsabilità che si assumono: l’alternativa è una circolazione clandestina dell’opera in forma apologetica venduta nei mercatini, mentre loro invece con grande senso di responsabilità ne fanno un’edizione critica, soprattutto come strumento di lavoro per studiosi, perfino poco maneggevole, oserei dire dissuasiva, costosissima, sovrastata di note, dove vengono denunciate molte delle falsità storiche contenute”. Secondo quanto spiega il giornalista, gli storici dell’Ifz “hanno avuto un confronto anche aspro con le personalità del mondo ebraico tedesco, che ha vissuto con fatica questa decisione. Però la scelta è stata veramente soppesata e non presa alla leggera. Non mi sento di criticarla anzi trovo positivo il fatto che questo tabù in Germania venga affrontato”.
In Germania “grazie ad un’opera di divulgazione storica avvenuta persino in prima serata sulla tv pubblica già dagli anni Novanta ci si è richiamati ad una responsabilità storica collettiva su quanto accaduto col nazismo - continua Lerner - Da questo punto di vista i tedeschi hanno fatto i conti con un buco nero della loro storia in modo ben più consapevole rispetto a quanto l’Italia ha fatto con il fascismo. La classe dirigente italiana ha adottato uno spirito di autoassoluzione e di reticenza culminata nella minimizzazione del ruolo di Mussolini su quegli avvenimenti, come nelle bestialità proferite da Berlusconi al memoriale del Binario 21 nel Giorno della Memoria nel 2013”.
“Era ora”, commenta il politologo Piero Ignazi che si è occupato in parecchi volumi delle origini dell’estrema destra in Europa. “Non sono per la censura dei libri in generale, come comprendo il problema che può vivere la Germania. Ma attenzione, di testi maledetti se ne trovano sempre come ad esempio alcuni di Rousseau che portano ai disastri della Rivoluzione francese. Questi sono documenti che servono per capire ancora meglio ciò che è accaduto. L’ignoranza non aiuta mai. Anche se più complessa e spiacevole è sempre meglio affrontare la realtà dei fatti”. “Dal punto di vista della propaganda partitica dei partiti di destra odierni, a parte qualche folkloristico gruppo neonazista, non c’è più nessuno che si richiama al fascismo storico - continua Ignazi - Anche il Front National per ricevere così tanti consensi ha avuto la capacità con la nuova leadership di distaccarsi dal filo conduttore sottile del passato francese dell’Oas e di Vichy, altrimenti avrebbero fatto la fine del Movimento Sociale Italiano”.
Per lo storico Gian Enrico Rusconi, esperto del Novecento tedesco, il ritorno alla pubblicazione del Mein Kampf “è un segno di maturità questa pubblicazione a cui i miei colleghi di Monaco pensavano da tempo. Non siamo ingenui: copie del Mein Kampf ne giravano da anni. Scientificamente e storicamente il capitolo lo reputo relativamente chiuso, mentre rimane aperto e diffuso un aspetto antropologico-culturale più sottile e presente prima e dopo la pubblicazione di questo libro, perché le radici profonde del volkisch erano già vive prima di Hitler”.
Quindi secondo Rusconi questo testo non va letto “in maniera deterministica”. La “radicalizzazione sterminatoria”, aggiunge, è un processo “che avviene lentamente in una cultura che ha trovato l’espressione di Hitler per realizzarla e che adesso magari trova altre scorciatoie dove incanalarsi.
Se non fossimo in questo clima xenofobo, dell’ostilità verso lo straniero, legato alle ondate migratorie dal Medio Oriente, non ne parleremmo neanche. Semmai cogliamo l’occasione della pubblicazione di un’edizione critica del Mein Kampf come questa per capire, paradossalmente, quali sono le forme con cui oggi si manifesta questo sentimento radicale di appartenenza nazionale e di patria, e cosa abbiamo imparato in questi 70 anni”.
Dalla saggezza al male assoluto il destino della svastica
La si ritrova in oriente e nella Grecia antica. Nel Medioevo è addirittura associata a Cristo
A settant’anni dalla fine del Terzo Reich, quel che resta di un simbolo pacifico snaturato per sempre dai nazisti
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 05.10.2015)
Esattamente centodieci anni fa, nel 1895, un monaco cistercense austriaco di vent’anni, Adolf Lanz, appassionato di occultismo, di neopaganesimo, di riti esoterici e di religione indiana, come un po’ tutti all’epoca ma forse con un ardore più sulfureo, fu espulso dalla facoltà di teologia della città dove viveva, Linz, sul Danubio, già celebre per l’omonima sinfonia di Mozart e per l’impareggiabile torta, e partì per l’India. Non lontano da Calcutta acquistò un anello che recava inciso un segno di estrema bellezza.
Si trattava di un tipo di croce, e la croce, si sa, è anzitutto un simbolo solare: il pagano imperatore Costantino lo aveva visto quando aveva guardato il sole accecante alla vigilia
della battaglia di Ponte Milvio, e di qui era nata l’improbabile leggenda eusebiana di una sua conversione al cristianesimo, da allora riflessa nell’arte occidentale fino agli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo. Ma, in particolare, l’emblema inciso sull’anello comprato da Adolf Lanz era una delle forme più notevoli di croce orizzontale: quella tracciata su un piano che per rappresentare la rotazione intorno a un centro fisso aggiunge alle estremità dei suoi rami, ad angolo retto, segmenti geometrici tangenti a un’invisibile circonferenza.
Quel segno in sanscrito era denominato swastika. Identificato da Guénon con il “segno del Polo”, il punto intorno cui verte la rotazione del mondo, assimilabile, nella caotica reductio ad unum dell’esoterismo massonico del tempo, all’Invariabile Mezzo della tradizione cinese come al Motore Immobile aristotelico, nel Simbolismo della croce è collegato direttamente alla cosiddetta Tradizione primordiale anzitutto perché presente fin dalle epoche più remote nelle zone più diverse del pianeta. Almeno questo è vero. L’orientalismo di fine Ottocento ha conosciuto lo swastika perché ancora molto diffuso in oriente, in Tibet, in Cina e in Giappone oltre che in India.
Nel mondo induista è emblema di Vishnu, nell’iconografia buddhista è impresso sul cuore del Buddha, nello zen l’ideogramma che lo rappresenta è immagine della coscienza iniziatica dell’eterno ritorno. Ma l’ancestrale graffito indoiranico, figura del principio ordinante che origina tutte le cose e cui tutte le cose tornano nel loro ciclico divenire, simbolo “eracliteo” come lo definì Georges Bataille, dilaga in ogni ansa del labirinto della storia dell’iconografia globale.
Lo si ritrova nella Grecia preellenica, in più varianti collegate al moto perperpetuo della greca; nei vasi e nelle ceramiche del mondo etrusco, sannitico, messapico, nuragico; nell’arte dell’antica Roma, nei mosaici delle domus italiche, nella valle dei templi ad Agrigento, a Paestum. È immortalato dalla lava a Pompei e Ercolano, scolpito in Sant’Ambrogio a Milano, associato ai gammadia protocristiani e alla cosiddetta Croce del Verbo, profuso nei mosaici bizantini, in San Vitale a Ravenna, nel mausoleo di Galla Placidia.
Nel medioevo occidentale è uno degli emblemi di Cristo, fiorisce nelle chiese e nelle cattedrali, si avvinghia ai simboli dell’ermetismo cristiano, in particolare carmelitano. Nel crepuscolo boreale, nei culti di Odino e di Thor, nei riti apotropaici dei popoli germanici oppressi dal tenebroso cielo nordico, ritorna simbolo solare, o augurale, come nell’arte popolare della Finlandia e dell’Estonia e sulle soglie delle case contadine della Lettonia e della Lituania, nei reperti preistorici dell’Ucraina e della koiné balcanica, dove serpeggia nei ritrovamenti neolitici della cultura Vinca. Corre a zigzag dall’uno all’altro polo, scavalca gli oceani, emerge tra i simboli sciamanici dei nativi americani, come i Navajo o i Cuna, che ancora negli anni ’20 del Novecento ne fecero letteralmente bandiera della lotta contro la colonizzazione.
Furono loro per primi, i fieri indiani d’America, a volerlo sopprimere quando nella seconda guerra mondiale quel simbolo di vita e di pacifica accettazione del corso del mondo fu snaturato da ciò che lo stesso Guénon chiama «l’uso artificiale e antitradizionale dello swastika da parte dei razzisti tedeschi, i quali, con il nome fantasioso e piuttosto ridicolo di Hakenkreuz o croce uncinata, ne fecero molto arbitrariamente un segno di antisemitismo, con il pretesto che questo emblema sarebbe stato peculiare della cosiddetta razza ariana, quando invece si tratta di un simbolo veramente universale».
Per capire come mai questo segno mistico legato alla vita, alla generazione e all’accettazione dell’essere sia diventato il micidiale logo novecentesco che ancora oggi ci agghiaccia dobbiamo tornare a quell’anno 1895 che segna il suo ingresso nell’ imagerie dei teosofi dal cui incerto e confuso bacino di riti, credenze e dilettantesche conoscenze nacque la mistica del Terzo Reich. Adolf Lanz utilizzò il segno inciso sull’anello come emblema della setta che fondò non appena tornò in Austria, l’Osthara, inizialmente formata per lo più da chierici protestanti rinnegati, che mescolava l’esoterismo orientalista a un antisemitismo radicale e predicava lo sterminio degli ebrei usando lo swastika come primo emblema documentato dell’ariosofia: l’esaltazione della razza ariana iperborea e del suo ruolo predestinato di purificatrice dell’umanità.
Fu da lì, dalla bandiera gialla pretenziosamente araldica di quei refoulés ecclesiastici nutriti di rivendicazioni aristocratiche e di popolani furori razziali, che la svastica divenne simbolo del neopaganesimo tedesco e poi della Thule Gesellschaft, dal cui bric-à-brac esoterico il diabolico istinto comunicatore del giovane Hitler la trasse inserendola nel 1920 nella bandiera del partito nazionalsocialista e stagliandola su fondo rosso, a imitazione di quello della contemporanea e rivale bandiera comunista.
Solo alcuni intellettuali allora si accorsero della gravità del sacrilegio. Fu peraltro in seguito che Georges Bataille diede voce al «disgusto per l’accaparramento» del simbolo di cui riconosceva con empatia il significato eracliteo. Quel reimpiego suggeriva una temibile sacralizzazione del movimento hitleriano, che gli era apparso, pour cause , «un tentativo schiavista di ricomposizione monocefala della società»; e capovolgeva perciò diametralmente l’originario messaggio “sacro” di filosofica meditazione sulla complessità del mondo.
Ma i simboli, come i miti, hanno una forza intrinseca che agisce sull’irrazionale. Proprio la semplicità e universalità della svastica, unita alla tenebrosa genialità comunicativa del nazismo, della sua estetica architettonica, della sua grafica che combinava la suggestione esotista- esoterista alle geometrie Novecento, resero quella bandiera, con la sua immensa svastica nera inscritta su tondo bianco in campo rosso, una delle più forti, suggestive e terrificanti della storia.
La trasformazione novecentesca di un simbolo di accettazione cosmica in un richiamo ipnotico di intolleranza, di sterminio e di morte si conclude nell’anno e nel momento stesso che estingue per sempre la storia del nazismo: la caduta di Berlino del 1945, data in cui la cronaca, o la leggenda, testimonia un evento speculare al viaggio in India da cui Lanz portò in occidente lo swastika. Il suicidio collettivo del misterioso corpo tibetano dell’esercito nazista, scoperto o favoleggiato da un’avanguardia di soldati russi tra i fumi della battaglia, chiude il cerchio con la risonanza rituale e sacrale del contrappasso storico.
Nel cinquantennio 1895-1945, di cui ricorre quest’anno il duplice anniversario, è racchiusa la parabola del simbolo più terribile del secolo breve, che ha la forza, come quasi sempre la storia, di un avvertimento. Non solo sul potere dei simboli, sulla loro potenzialità distruttiva che ogni guru o augure o sciamano conosce e contempla, simmetrica e inversa alla loro potenza vivificatrice, ma anche sulla pervicace tendenza della natura umana al fanatismo, che scatena il contrarsi del sapere sul passato in un credo univoco e trasforma i dati relativi della storia in assoluti ideologici, in un’ansia di purificazione della loro invincibile molteplicità, ambiguità, ibridità. Il secolo scorso ha visto lo swastika posato sul cuore del Buddha, la saggezza accettatrice dell’eterno ritorno del mondo, associarsi al nazismo; ma anche la falce di Diana, della Dea Bianca, della divinità femminile generatrice, già trasformata nella mezzaluna della conquista ottomana, affiancarsi su fondo rosso al martello operaio.
Il prelato tedesco Alois Hudal
La fede del vescovo nel nazismo buono
di Frediano Sessi (Corriere della Sera, 30.05.2015)
Nell’aprile del 1945, molti gerarchi nazisti, in fuga, trovarono a Roma, presso il Collegio teutonico di Santa Maria dell’Anima, un lembo di patria nazista, in cui ottenere aiuto, per sfuggire alla cattura. Grandi criminali di guerra, responsabili dello sterminio degli ebrei e di uccisioni sistematiche di civili, ebbero nel rettore dell’Anima, il vescovo Alois Hudal, un aiuto sicuro. Passaporti e identità immacolati, biglietti di viaggio e un imbarco dal porto di Genova, per l’espatrio, furono garantiti a tutti.
Il vescovo Hudal riuscì a nasconderli in case del Vaticano e a ottenere sui documenti il visto della Croce Rossa Internazionale. «Le anime degli uomini sono soggette solo al giudizio di Dio». Con questa ferma convinzione, il prelato tedesco Hudal, che pregava spesso per la salvezza dell’anima di Hitler e che vedeva in lui l’uomo mandato dalla provvidenza per combattere l’ateismo comunista e capitalista, e portare alla conquista l’Occidente cristiano, aiutò a nascondersi e a fuggire dagli Alleati: Joseph Mengele; Adolf Eichmann, l’organizzatore dei trasporti di ebrei verso lo sterminio; Gustav Wagner, comandante del Lager di eliminazione di Sobibor; Eduard Roschmann, lo spietato macellaio di Riga e molti altri ancora. Con il suo nuovo romanzo storico (L’anima del Fuhrer, Marsilio), Dario Fertilio ricostruisce in modo «critico» la storia controversa di questo servo del Vaticano, poco amato da Papa Pacelli, su cui, nel dopoguerra, è sceso il silenzio.
Il romanzo è costruito a partire da un materiale documentario e da fonti inedite (tra cui i libri e il diario scritti da Hudal) ed è sostenuto da una scrittura lucida e appassionata che conduce il lettore dentro la storia ma, insieme dentro le vite, i pensieri e i sentimenti dei protagonisti. Fertilio ricostruisce puntualmente i contesti in cui si svolgono i fatti e consente al lettore di entrare direttamente nei luoghi del racconto, di un’Europa distrutta dalla guerra, in cui era difficile sopravvivere anche se scampati al terrore dei bombardamenti o delle deportazioni.
Al tempo stesso si interroga sulle idee di Hudal, per il quale esisteva un nazismo buono, spirituale e uno malvagio. Per questo motivo, aiutando i gerarchi in fuga, restò coerente con la sua idea di convertire al cristianesimo i nazisti. E tuttavia, Fertilio, sottolinea come questa storia sia di per sé ambigua: chi aveva interesse a che Hudal agisse in tal modo? Il Vaticano e gli americani per continuare la lotta contro il comunismo? I sovietici che cercavano tra i nazisti scienziati per la loro nuova guerra contro l’occidente? Alla fine, restano aperti interrogativi inquietanti, su una storia non ancora risolta.
Un prete in camicia nera
«Non mollare mai»
di Luca Kocci (il manifesto, 15 ottobre 2013)
«Niemals aufgeben», ovvero «Non mollare mai». Ma forse, visto il destinatario dell’esortazione, la traduzione più appropriata sarebbe «Boia chi molla». Lo scriveva pochi mesi fa sul suo sito internet - dove è ancora leggibile - don Curzio Nitoglia, confessore e consigliere spirituale di Erich Priebke, che così augurava buon compleanno al boia delle Fosse Ardeatine, in occasione dei suoi cento anni, il 29 luglio 2013.
Insomma se il Vicariato di Roma ha negato il funerale religioso pubblico in una chiesa della capitale autorizzando solo una preghiera «in forma strettamente privata nella casa che ospitava le spoglie del defunto», qualche esponente dei settori più tradizionalisti del clero - in questo caso che gravita nella galassia dei lefebvriani - non solo non è d’accordo con la decisione del cardinal Vallini, ma continua ad esaltare Priebke.
Don Nitoglia infatti, all’indomani della morte dell’ex capitano della SS, ha ripubblicato sul suo sito la versione integrale dell’ultima intervista di Priebke, risalente allo scorso luglio. «La sua pubblicazione è al solo scopo informativo, per avere una piú ampia conoscenza del suo pensiero, occultato o distorto dalla maggior parte dei media», mette le mani avanti il prete, che però poi colloca in grande evidenza quella che probabilmente reputa essere il nucleo centrale dell’intervista: «Domanda: Sig. Priebke anni addietro lei ha dichiarato che non rinnegava il suo passato. Con i suoi cento anni di età lo pensa ancora? Risposta: Sì».
Intervista che è un condensato delle tesi razziste, negazioniste (le camere a gas? «Una falsificazione vergognosa») e antisemite (la Shoah? «Propaganda») della destra neofascista e del cattolicesimo integralista di cui Nitoglia non è che uno dei suoi esponenti sparsi per l’Italia: dalle riviste come Cristianità a personaggi come don Giulio Tam che, prima di essere sospeso a divinis e poi scomunicato, diceva «la mia tonaca è una camicia nera taglia XXL» (data anche la sua corporatura da peso massimo).
Don Nitoglia, dopo un percorso piuttosto accidentato sempre nell’orbita del tradizionalismo cattolico, è ora vicino alla Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da mons. Lefebvre, ai cui vertici nel 2009 papa Ratzinger ha revocato la scomunica (mentre è ancora aperto il confronto con la Santa Sede sul Concilio Vaticano II, che i lefebvriani non riconoscono: si vedrà cosa deciderà Bergoglio). Risiede a Velletri, presso le Discepole del Cenacolo - una delle comunità italiane della Fraternità - dove organizza ritiri spirituali sul Catechismo della Chiesa (il prossimo sarà il 10 novembre). Gira l’Italia tenendo conferenze sui “poteri forti contro la famiglia”, sulla Chiesa preconciliare e su Priebke, suo “figlio spirituale”, che difende fino ed oltre la morte. L’eccidio delle Fosse Ardeatine, una «crudele necessità di guerra», ha seguito equi criteri di «proporzionalità» rispetto all’«illegittimo attentato di via Rasella», scrive Nitoglia. «Quindi Priebke è vittima di una ingiustizia giuridica»
Chiesa anestetizzata dal fascismo
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 4 giugno 2013)
Il rapporto fra Chiesa e fascismo è questione storica di ovvia importanza. Appassiona i professionisti del mestiere così come lo studio delle relazioni tra cattolicesimo e Terzo Reich, ortodossia e Urss, clero e franchismo, o tra episcopati e giunte militari dell’America Latina.
Tuttavia nel rapporto Chiesa-fascismo del periodo 1921-1945 c’è qualcosa di più: perché ciò che si consuma riverbera nella storia italiana ben oltre la parabola della dittatura. Quasi che il cattolicesimo romano abbia allora acquisito mentalità che perdurano nell’Italia della guerra e in quella repubblicana, in quella democristiana e in quella postdemocristiana. Una cultura del nemico, una presunzione d’astuzia nel giudicare le situazioni, un agnosticismo istituzionale e costituzionale che si fida di interlocutori improbabili: purché capaci d’interpretare gli «interessi superiori» della Santa Sede, così come appaiono al fallibilissimo giudizio di chi se ne fa custode.
È per questo, a mio avviso, che non sbaglia chi dietro ai grandi disastri antichi e recenti della storia nazionale postula una qualche responsabilità ecclesiastica: mai univoca (il cattolicesimo porta sempre in sé gli anticorpi della riformabilità); mai generalizzabile (le opzioni sconfitte lasciano spesso le tracce di un possibile riscatto); mai priva di compensazioni (il lavoro di formazione delle coscienze fatto negli anni del «Du-ce, Du-ce» ha alimentato per decenni le scorte morali del Paese). Eppure una responsabilità reale: che dipende dalle posture politiche apprese durante il fascismo e con le quali la Chiesa italiana non si è mai misurata con la limpidità d’altri.
I vescovi tedeschi, all’indomani della sconfitta, avviarono edizioni e studi organici sul rapporto col nazismo; i vescovi argentini, per prendere un caso diverso ed ora a tutti noto, hanno accolto l’appello alla purificazione di Wojtyla e hanno fatto solenne ammenda della loro tiepidezza e complicità davanti alle sparizioni.
Il cattolicesimo italiano non ha fatto né l’uno né l’altro. Associatasi in nome di Pio XII defensor urbis al riscatto resistenziale, rigenerata nella sua credibilità politica dalla Dc di Dossetti e De Gasperi, la Chiesa ha rinviato, derubricandola a propaganda ostile, la domanda di fondo: perché un mondo capace di vedere i mali del regime, di elencarli nero su bianco, ne subisce la propaganda e la seduzione? E la ricerca storica, che quarant’anni fa aveva iniziato una riflessione su questo problema, s’è poi frantumata in molte analisi specialistiche tutte di pregio, ma di scarso costrutto.
Oggi le cose sono cambiate: l’apertura delle carte di Pio XI permette di progettare un «progetto culturale» degno di questo nome per rispondere alla domanda sul cattolicesimo; e la mancanza di un quadro rigoroso d’insieme è stata colmata dal ricchissimo volume di Lucia Ceci L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini (pp. 338, 22), in libreria per i tipi di Laterza.
A Lucia Ceci, punta di lancia dell’Università di Roma Tor Vergata, si dovevano già scoperte documentarie fondamentali su quell’assioma - il Papa non deve parlare - che poi deflagrerà durante la Seconda guerra mondiale e la Shoah.
In questa sua nuova fatica ripercorre invece i rapporti Chiesa-fascismo nella loro interezza, quasi a riprendere il filo d’un discorso lasciato interrotto da Pietro Scoppola quarant’anni fa: riconnette con intelligenza in una visione di insieme quasi tutti gli studi che avevano trovato, capito o equivocato, singoli episodi. L’opera è seria e profonda: ma insieme ha una leggibilità di tipo anglosassone (quanto mai apprezzabile in una storiografia come la nostra, che ritiene sgradevole rendersi comprensibili o, peggio che mai, interessanti) e si presta, se avrà le traduzioni che merita, a far conoscere fuori dall’orto italico lo spessore di una ricerca di cui è un frutto alto.
Nel concreto L’interesse superiore fa capire che la grande anestesia del cattolicesimo, davanti a un regime di cui volta a volta qualche voce riconosce la pericolosità e la bestialità liberticida, è la somma di una infinità di microanestesie locali: la paura dei rossi, il sogno di una restaurata cristianità, il trascinamento della predicazione del disprezzo antiebraico, l’anticomunismo, la dottrina del matrimonio, si mescolano e fin dalla prima apparizione di Mussolini sulla scena pubblica convincono i grandi opinion leader della Santa Sede a comparare costi e benefici.
Un sistema di cui alla fine della vita Pio XI percepisce la perversione: ma il tardivo pianto (quando pronuncia la frase sul «siamo tutti spiritualmente semiti», Papa Ratti piange) non muta l’atteggiamento di fondo.
Pio XII, nota giustamente Lucia Ceci, arriva a far sparire il discorso del predecessore sul Concordato non perché questo fosse particolarmente puntuto: ma solo perché avrebbe ridotto le capacità di interlocuzione che durano nel tempo, fino a poche ore dalla fucilazione di Dongo.
In questo volume appaiono le figure di questa interlocuzione: da quella meschina e viscida di Pietro Tacchi Venturi a quella contraddittoria di Ildefonso Schuster. Emergono i percorsi, da quello degli allucinati difensori del razzismo cattolico (quello «sano», che non offendeva gli ebrei convertiti) fino a quello dei Montini e dei De Gasperi.
Mentre viene mostrato il progressivo soffocamento dell’antifascismo alle origini del regime - oggetto di un non meno importante studio di Alberto Guasco in uscita dal Mulino - la riemersione di una ostilità al regime non viene censita con la stessa metodicità: e per un motivo ragionevole. È proprio la cultura della sottrazione - quella che pensa che la verità storica si ottenga sottraendo gli eroismi dei singoli agli errori delle istituzioni - che L’interesse superiore rifiuta: e in questa opzione mostra cosa sia stato, alla luce di una ricerca vasta ma prima d’ora dispersa, il rapporto fra la Chiesa e il regime, nel suo tempo e forse anche un po’ dopo.
La scelta di Benetetto XVI
Stepinac sarà santo nel segno della croce (uncinata)
di Marco Dolcetta (il Fatto, 13.07.2011)
Nell’ottobre 1998 Giovanni Paolo II decide la beatificazione di monsignor Alojzir Stepinac. A Zagabria, ai primi di giugno, papa Benedetto XVI, conferma di fronte ai suoi concittadini, la sua devozione a questo santo uomo, ma non tutti sono d’accordo.
Dice papa Benedetto XVI: “Intrepido pastore, un grande cristiano con grande zelo apostolico, un uomo di un umanesimo esemplare”, oggi lo vuole fare santo. Di chi si parla? di Alojzije Stepinac, figura controversa. Da una parte è accusato di collusione con il regime ustascia di Ante Pavelic (a cui però in una lettera definì, nel 1943, così il campo di concentramento di Jasenovac: “Vergognosa macchia per lo Stato indipendente croato”), dall’altra viene considerato un martire perseguitato dal regime comunista jugoslavo.
Viene citata a sua discolpa la sua capacità oratoria dall’altare negli anni bui dell’occupazione, in aiuto delle minoranze religiose, ma purtroppo niente di scritto... Nato a Krasic, centro non distante da Zagabria, come cittadino austro- ungarico, durante la prima guerra mondiale fu chiamato al servizio militare e dopo sei mesi di servizio divenne tenente e combatté sul fronte italiano. Diventa sacerdote a Roma nel 1930, il 7 dicembre 1937 diviene arcivescovo di Zagabria. Stepinac scrive nel rapporto inviato al primate alla segreteria di Stato vaticana nel maggio 1943: “Il governo croato lotta energicamente contro l’aborto che è principalmente suggerito da medici ebrei e ortodossi; ha proibito severamente tutte le pubblicazioni pornografiche, che erano anch’esse dirette da ebrei e serbi. Ha abolito la massoneria e fatto una guerra accanita al comunismo. Eminenza, se la reazione dei croati è a volte crudele, noi la condanniamo e deploriamo, ma è fuor di dubbio che questa reazione è stata provocata dai serbi”.
Per ordine dell’ordinariato episcopale le chiese ortodosse vennero trasformate in luoghi di culto cattolico oppure furono completamente distrutte. Il mese seguente vennero ammazzati oltre cento mila serbi: donne, vecchi, bambini. La chiesa di Glina venne trasformata in un mattatoio. A Zagabria, dove risiedevano il primate Stepinac e il nunzio apostolico Marcone, il metropolita ortodosso Dositej fu torturato al punto che divenne pazzo. Il 26 giugno 1941 Pavelic accolse in pompa magna l’episcopato cattolico guidato da Stepinac, cui promise “dedizione e collaborazione in vista dello splendido futuro della nostra patria”. Il primate di Croazia sorrideva.
Gli eccessi furono talmente virulenti che il generale Mario Roatta, comandante della Seconda armata italiana, minacciò di aprire il fuoco contro gli Ustascia che intendevano penetrare nei territori controllati da Roma, e gli stessi tedeschi, diplomatici, militari e uomini dei servizi segreti, inviarono proteste contro il terrore usta-scia al comando supremo della Wehrmacht e all’Ufficio esteri. Il 17 febbraio 1942 il capo dei Servizi di sicurezza scrisse al comando centrale delle Ss: “È possibile calcolare a circa 300 mila il numero degli ortodossi uccisi o torturati sadicamente a morte dai croati. In proposito è necessario notare che in fondo è la chiesa cattolica a favorire tali mostruosità con le sue misure a favore delle conversioni e con la sua politica delle conversioni coatte, perseguite con l’aiuto degli Ustascia. È un fatto che i serbi che vivono in Croazia e che si sono convertiti al cattolicesimo vivono indisturbati nelle proprie case. La tensione esistente fra Serbi e Croati è non da ultimo la lotta della chiesa cattolica contro quella ortodossa” (dagli archivi della Gestapo).
E questo accadde perché “le azioni degli Ustascia erano azioni della chiesa cattolica”, la quale collaborò fin dal principio col regime di Pavelic. Molti preti cattolici erano membri del partito Ustascia, come l’arcivescovo di Sarajevo Ivan Saric; vescovi e sacerdoti cattolici sedevano nel Sobor, il Parlamento croato, che apriva le sue sedute al canto del Veni creator spiritus; padri francescani comandavano i campi di concentramento e lo stesso Pavelic appare in centinaia di fotografie circondato da vescovi, preti, frati, suore e seminaristi. E Stepinac non lo sapeva? Veceslav Vilder, membro del governo jugoslavo in esilio a Londra, a sua volta affermava: “Intorno a Stepinac, arcivescovo di Zagabria, vengono perpetrate le più orribili nefandezze. Il sangue dei fratelli scorre a fiumi. e non sentiamo levarsi la voce sdegnata dell’arcivescovo. Al contrario leggiamo che prende parte alle parate dei nazisti e dei fascisti”.
Nel 1944 Stepinac venne decorato da Pavelic con la “Gran Croce con Stella” e il 7 luglio dello stesso anno sollecitò affinchè “tutti si ponessero a difesa dello Stato, per edificarlo e sostenerlo con sempre maggiore energia”.
Non è assolutamente credibile che Stepinac non sapesse cose che Radio Londra, la stampa alleata e persino alcuni giornali italiani avevano rese pubbliche; e sapeva tutto anche Pio XII, il quale tacque, come su Auschwitz e tante altre tragedie. In conclusione: dal 1941 al 1945 in Croazia vennero trucidate non meno di 600 mila persone (secondo il generale tedesco Rendulic), spesso direttamente ad opera di preti e frati.
Per le strade di Zagabria erano affissi i cartelli “Vietato a serbi, ebrei, zingari e cani”. La Croazia oggi venera Stepinac, il pastore che in pieno terrore ustascia osava denunciare il razzismo dall’altare, ma intanto nel privato del suo diario annotava: “Se vincerà la Germania sarà la rovina dei piccoli popoli. Se vincerà l’Inghilterra, rimarranno al potere la massoneria e gli ebrei, dunque l’immoralità e la corruzione. Se vincerà l’Urss, allora il mondo sarà dominato dal diavolo e precipiterà all’inferno”.
La dittatura nasce nelle parole di tutti i giorni
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 1 luglio 2011)
Sulla Germania hitleriana disponiamo ormai di una documentazione imponente, praticamente definitiva, in tutti suoi aspetti. Che cosa può dirci ancora la rilettura di uno dei libri classici sulla società tedesca nel cuore della dittatura totale? Il libro ci ricorda ancora una volta il ruolo decisivo del linguaggio politico e pubblico nella costruzione e nel mantenimento sino all’ultimo della identità e della struttura politica del regime nazista. Mi riferisco a LTI. La lingua del Terzo Reich di Victor Klemperer ripubblicato ora dall’editore Giuntina (pp. 418, euro 20) in una importante edizione riveduta e scrupolosamente annotata.
Si tratta di una straordinaria testimonianza e documentazione di come nel corso del dodicennio nazista la società tedesca sia stata ridotta a strumento passivo e consenziente - addirittura fanatico - della dittatura. Lo strumento,o forse sarebbe meglio dire l’oggetto primario di questa operazione è stato il linguaggio pubblico e privato. La sua manipolazione, la sua decostruzione e ricostruzione. L’acronimo LTI significa infatti Lingua Tertii Imperi: la lingua del Terzo Reich.
L’autore Victor Klemperer era un sofisticato studioso della letteratura francese, docente all’università di Dresda, licenziato in tronco dopo la presa del potere di Hitler per le sue origini ebree e sottoposto quindi a infinite angherie. È sopravvissuto grazie al fatto di avere una moglie «ariana», sottraendosi alla fine fortunosamente ad una morte certa all’indomani del bombardamento di Dresda. Negli anni della sua emarginazione e persecuzione ha registrato scrupolosamente tutto quello che vedeva attorno a sé - soprattutto nella comunicazione pubblica e politica. Ne esce un documento che è ad un tempo una profonda testimonianza umana e morale e una forte intuizione scientifica e politica: la funzione centrale della lingua nella costruzione dei sistemi politici totalitari.
La lingua è performativa: crea cioè comportamenti. Nel caso nazista si tratta di comportamenti inequivocabilmente malvagi: ma prima dell’orrore genocida culminante nella «soluzione finale», c’è la lenta, inesorabile distruzione quotidiana della lingua tedesca. E quindi della sua anima. Il male si annida nella «normalità» del quotidiano e nella metamorfosi delle parole: nei discorsi politici, assimilati nel lessico personale e familiare, nel nuovo modo di salutare, di vestire, di divertirsi, nella pubblicità commerciale e naturalmente nella stampa di regime e fiancheggiatrice.
La LTI è una lingua povera, monotona, fissata, ripetitiva - scrive Klemperer. «Il motivo di questa povertà sembra evidente: con un sistema tirannico estremamente pervasivo, si bada a che la dottrina del nazionalsocialismo rimanga inalterata in ogni sua parte, e così anche la sua lingua». Parlare di omologazione è un eufemismo: «Ogni lingua, se può muoversi liberamente, si presta a tutte le esigenze umane, alla ragione come al sentimento, è comunicazione e dialogo, soliloquio e preghiera, implorazione, comando ed esecrazione. La LTI si presta solo a quest’ultima. Che il tema riguardi un ambito pubblico o privato - ma no, sto sbagliando, la LTI non distingue un ambito privato da quello pubblico - tutto è allocuzione, tutto è pubblico. “Tu non sei nulla, il tuo popolo è tutto”, proclama uno dei suoi striscioni. Cioè: non sarai mai solo con te stesso, con i tuoi, starai sempre al cospetto del tuo popolo».
L’incredibile è che tutto questo ha funzionato. All’inizio, nei primi mesi del 1933 sembrano rimanere ancora spiragli di insofferenza se non di resistenza, che si esprimono magari in battute sarcastiche: a proposito di un collega costretto a portare la fascia con la croce uncinata, si dice: «Che ci vuoi fare? è come la fascia assorbente per le donne» (con un gioco di parole difficile da rendere in italiano).Ma il fanatismo, cui il libro dedica uno dei capitoli più importanti, è terribilmente serio e non tollera battute. Il fanatismo non è un semplice prodotto della manipolazione, ma è una corrispondenza di sentimenti latenti che finalmente esplodono.
Non a caso nel vocabolario della LTI dopo «fanatico» l’aggettivo preferito è «spontaneo». In questa sede possiamo trascurare il dibattito tra gli esperti sulla consapevolezza o meno di Klemperer circa la natura del suo lavoro - tra «filologia e diario» politico personale. Non ci interessano neppure le ragioni della differente fortuna del suo libro, subito altamente apprezzato nella Ddr dove l’autore ha passato il resto della sua vita sino alla morte nel 1960. Nella Germania federale invece è stato inizialmente guardato con qualche distacco (qualcuno si è rammaricato che Klemperer non avesse «visto» alcune imbarazzanti analogie con il passato totalitario nel linguaggio politico del regime comunista); poi negli Anni Novanta è arrivato il pieno riconoscimento dopo la pubblicazione dei suoi Diari. È seguita la riscoperta di Klemperer anticipatore della nuova linguistica sociale e culturale.
Ma io vorrei invitare ad una lettura «ingenua», per così dire, del libro, ricordando quanto scrive l’autore: «Il diario è stato continuamente per me il bilanciere per reggermi in equilibrio, senza il quale sarei precipitato mille volte. Nelle ore del disgusto e della disperazione, nella desolazione infinita del monotono lavoro in fabbrica, al letto degli ammalati e dei moribondi, presso le tombe, nelle angustie personali, nei momenti dell’estrema ignominia, quando il cuore si rifiutava di funzionare - sempre mi ha aiutato questo incitamento a me stesso: osserva, studia, imprimi nella memoria quel che accade, domani le cose appariranno diverse, domani sentirai diversamente: registra il modo in cui le cose si manifestano e operano. E ben presto poi questo appello a collocarmi al di sopra della situazione conservando la mia libertà interiore si condensò in una formula misteriosa e sempre efficace:LTI!LTI!».
Berlino 1921 qui si prepara la Shoah
di Andrea Cortellessa *
Non sempre gli atti di un convegno sono riservati agli specialisti. Lo dimostra Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, appena uscito da Viella (a cura di Marina Beer, Anna Foa e Isabella Iannuzzi, pp. 223, € 23), soprattutto rivolto ai giovani, prime vittime delle campagne neo-razziste oggi sfrontatamente proposte da certi media. Ci appaiono talmente folli, i paradigmi razzisti, che fatichiamo ad accorgerci di come facciano breccia nella cultura di massa (basti pensare agli slogan delle tifoserie calcistiche).
Il libro mostra come l’episodio più nefando della nostra storia recente - appunto le Leggi razziali con le quali il Fascismo privò dei loro diritti gli ebrei italiani - sia stato a lungo «rimosso» dalla nostra cultura (gli ultimi dispositivi correlati sono stati abrogati solo nel 1987!): dando così vita a un mito, quello del «buon italiano», che ci impedisce di fare i conti con le pagine più buie della nostra storia.
Fra i contributi spicca quello di Giorgio Fabre su Giulio De Benedetti: nel dopoguerra per due decenni mitico direttore della Stampa, ma già brillante columnist durante il Ventennio. Prima vezzeggiato poi malvisto dai gerarchi (si iscrive al Fascio nel 1927), cade definitivamente in disgrazia - com’è ovvio - con le Leggi razziali.
Ma in tempi non sospetti fu il primo giornalista ad avvisare dell’orrore antisemita che si andava preparando (fu anche tra i primi, in Europa, a intervistare il giovane Adolf Hitler, tuttavia sottovalutandolo). Fabre riporta una sua corrispondenza dalla Germania, uscita sulla Gazzetta del Popolo il 10 luglio 1921 con il titolo «La croce uncinata», che fa venire i brividi. Specie quando il leader antisemita di allora serenamente contempla, per gli ebrei, la prospettiva della «morte, del massacro, dell’espulsione e della confisca dei beni».
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Berlino 1921
I tedeschi cercano un capro espiatorio
di Giulio De Benedetti
Così il futuro direttore della Stampa, in anticipo sui tempi, denunciava i pericoli dell’escalation antisemita.
La Germania, dopo la rivoluzione, è diventata il centro del movimento antisemita. Da Berlino e da Monaco non si organizzano naturalmente i progroms [così nel testo, ndr] in Galizia e in Ucraina, ma si dirige questo movimento spirituale che ha millenni di storia e nell’interno del paese si è scatenata contemporaneamente una bassa e volgare agitazione come non ha esempio in nessun paese civile.
[...] La Germania ha perduto la guerra sui campi di battaglia. [...] Ciò non impedisce che vi siano diecine di quotidiani ed alcuni milioni di tedeschi sicuri che la sconfitta, il crollo dell’Impero, la rivoluzione e la pace di Versailles siano stati un’opera degli ebrei. Considerati questi principii, si comprende quali sono le basi del movimento politico antisemita che si svolge attualmente in Germania. [...]
Il conte Reventlow, uno dei capi riconosciuti di questo movimento, mi diceva giorni or sono in un lungo colloquio che ha avuto la cortesia di accordarmi: «Il nostro problema giudaico non rappresenta che una parte di quello mondiale. Esso non può trovare una soluzione radicale che in forma internazionale». Come risolverlo però il conte Reventlow non sa: la morte, il massacro, l’espulsione e la confisca dei beni sono misure di cui comprende le difficoltà. Spera in un miracolo: « [...] Innanzi tutto propagandare l’idea, poi, quanto ai mezzi, si vedrà». [...]
Nell’attesa di misure più energiche egli si accontenterebbe che si ponesse un limite alla loro attività riapplicando quella serie di misure restrittive che il soffio di libertà della seconda metà del secolo scorso aveva abbattuto in tutti i Paesi civili. Il conte Reventlow, sicuro di fare parte di una crociata per la liberazione del mondo, non vuole riconoscere insomma la legge morale che impone di giudicare ogni individuo per quello che è, per quello che fa e non dalla sua origine o dal luogo di nascita dei suoi antenati.
A fianco della lotta politica [...], si è scatenata in Germania una campagna brutale ed incosciente contro una minoranza. Vi sono diecine di quotidiani che eccitano i più bassi istinti della popolazione contro la razza semita, vi è una serie di giornali che non hanno altro programma di questa propaganda; si sono formate delle società, si pubblicano libri, opuscoli, riviste, settimanali che dimostrano come tutte le turpitudini, tutte le vergogne di questa disgraziata generazione ricadono sugli ebrei. [...] Si crea così nel Paese uno stato d’animo da progroms, malgrado il carattere civile del popolo tedesco faccia escludere questa possibilità, ma non è raro il caso di trovare tutta una strada segnata colla croce uncinata (incontrate quotidianamente centinaia di persone per le vie di Berlino che portano questo simbolo della lotta antisemita), o che gli ebrei siano assaliti nelle vie da studenti nazionalisti o da membri delle organizzazioni militari ora disciolte e quotidianamente si legge che in Università od in Scuole superiori si impedisce agli insegnanti israeliti di parlare. [...]
Ieri ancora la Deutsche Zeitung definiva il prof. Einstein, il creatore della teoria della relatività, come il più grande ciarlatano del secolo; un settimanale invitava anzi apertamente ad assassinarlo ed il direttore fu condannato a mille marchi di multa per eccitazione a delinquere. (Un esempio ancora tra i molti: in una scuola una maestra domanda ad una ragazza di tredici anni perché non è battezzata: «Mio padre è ebreo, mia madre è cristiana». Risposta della maestra: «Così la patria ha perduto una madre ed una figlia e fisicamente questo matrimonio può essere paragonato all’unione tra un Bulldog ed un S. Bernardo»).
Il tedesco è antisemita oggi come lo è sempre stato, ma nei periodi della miseria, come dimostra la sua storia, cerca più che mai un capro espiatorio alla sua collera impotente: perché è un popolo questo che manca di tolleranza, di fantasia e soprattutto ignora - non bisogna mai dimenticarlo - cosa sia la bontà.
* La Stampa, 22 marzo 2010
Il papa in sinagoga
di Piero Stefani
in “Koinonia-Forum” n. 185 del 27 gennaio 2010
La visita di Benedetto XVI al Tempio maggiore di Roma ha fornito un contributo decisivo a inscrivere nella prassi l’atto da parte dei papi di recarsi alla principale sinagoga della città di cui sono vescovi. La scelta della comunità ebraica romana (ricordata da Rav Di Segni nel suo discorso) di allestire una mostra dedicata ai pannelli settecenteschi con cui gli ebrei erano costretti a salutare il pontefice appena eletto nel suo percorso verso san Giovanni in Laterano appare, perciò, felicemente simbolica. A partire dalla svolta conciliare, si è progressivamente affermato un rovesciamento grazie al quale tocca al vescovo di Roma dare un omaggio non forzato alla comunità ebraica della sua città. Il semplice fatto di aver varcato la soglia del Tempio maggiore diviene, in Benedetto XVI, conferma piena della irreversibilità del cammino intrapreso con il Vaticano II.
La visita ha ribadito l’accettazione piena dell’esigenza, più volte ricordata da parte ebraica, secondo la quale il dialogo si svolge fra soggetti di pari dignità. Ciò è reso possibile solo riferendosi a qualcosa di comune. In questa luce va colto il richiamo ai Dieci Comandamenti (o Dieci Parole come ha ripetuto più volte il papa rifacendosi all’uso ebraico) declinati soprattutto in relazione a tre aspetti comuni: la lotta contro l’idolatria (e sullo sfondo di ciò va tenuta presente anche la denuncia dell’aberrazione nazista), la protezione della vita e la santità della famiglia. Ancor più corale è stato poi il richiamo all’impegno per la salvaguardia del creato. Su questo fronte la comune eredità biblica può giocare un ruolo di riferimento non ambiguo. Anzi, su queste basi, è ben ipotizzabile un allargamento nei confronti dell’islam o meglio di quelle sue componenti (alcune delle quali presenti per la prima volta tra gli ospiti della sinagoga) che accettano il confronto positivo con tradizioni, come quella ebraica e cristiana, che si presentano sempre più come custodi dell’antico ethos occidentale.
L’aver assunto questa linea ha condotto Benedetto XVI a riconquistare credito agli occhi degli ebrei e ad attenuare le punte polemiche legate sia alla nuova formulazione della preghiera del Venerdì Santo nel messale latino di Pio V, sia al processo di beatificazione di Pio XII. Il recupero di questa atmosfera più distesa ha però comportato il pagamento di alcuni prezzi, ivi compreso il consapevole mancato chiarimento di alcuni punti che, posti temporaneamente sotto il moggio, potranno, forse, riemergere in futuro e dar luogo a nuovi equivoci.
La volontà di presentare la visita come una normalizzazione ha condotto inevitabilmente alla precomprensione che essa fosse percepita da tutti sotto l’ombra protettiva di quella storica compiuta da Giovanni Paolo II nel 1986. Il richiamo in tale direzione è stato esplicito ancor prima che iniziassero i discorsi, (tutti peraltro concordi nel richiamarla). A renderlo evidente è stato l’incontro, avvenuto prima dell’ingresso nel Tempio, tra Benedetto XVI e il novantacinquenne rav Elio Toaff. Quel gesto ha assunto il ruolo quasi di chiave ermeneutica di tutto quanto sarebbe avvenuto dopo.
La visita di papa Ratzinger avrebbe potuto assumere un significato in se stesso pienamente storico solo se egli avesse rivendicato a se stesso a pieno titolo la propria appartenenza alla Germania. Se Benedetto XVI avesse imboccato questa via, egli non sarebbe stato colto come il secondo papa che visitava la sinagoga di Roma, ma come il primo papa tedesco a farlo. Questa linea però avrebbe comportato la scelta di affrontare senza reticenze il tema complesso e ambiguo dei rapporti tra Chiesa cattolica e regime nazista. A distanza di molti decenni, appare infatti sempre più netto che il giudizio sull’ideologia nazista espresso dalla Chiesa cattolica negli anni trenta non risolve in sé il problema dei rapporti effettivi sempre e comunque intrattenuti dalla S. Sede con il Terzo Reich.
Ogni discorso storico su Pio XII può sensatamente avvenire solo tenendo conto di questa parziale divaricazione. Situazione che non viene certo risolta appellandosi all’opera, unanimemente riconosciuta, di aiuto agli ebrei compiuto a opera di molti cattolici.
Benedetto XVI ha preferito non imprimere un forte segno personale sulla visita. In un certo senso, egli, per far crescere il dialogo tra ebrei e cristiani, ha voluto presentarsi come un semplice anello di una catena aperta in avanti. Per far ciò ha accettato che le due religioni fossero declinate in modo tale da confermare le loro identità attuali, fatto rivendicato con un certo orgoglio da parte ebraica, specie in relazione a un dichiarato aumento della pratica religiosa nel proprio seno. In particolare, non si è alzata alcuna parola precisa da parte del papa nei confronti della piena identificazione ebraica con lo Stato d’Israele. Questa posizione è stata articolata in linguaggio religioso da rav Di Segni - il quale ha giudicato lo stato una conseguenza diretta delle promesse bibliche - e in chiave politica (connotata in modo palesemente antislamico) dal presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici. In questo contesto, Benedetto XVI ha opportunamente richiamato l’appello alla pace da lui effettuato nel corso del suo viaggio in Israele nel maggio scorso; ma non ha detto nulla nei riguardi della distinzione tra promessa della terra e forma stato che pur si presenta conforme tanto all’autentica eredità biblica quanto alle stesse modalità in cui è avvenuto il riconoscimento dello stato d’Israele da parte della Santa Sede. Né il papa si trovava nelle condizioni di pronunciare parole precise sulla condizione dei palestinesi sia per denunciare le loro, spesso, drammatiche condizioni di vita, sia per alludere ai processi di degenerazione civile e politica presenti nell’intera area.
Il prezzo più significativo pagato da Benedetto XVI è stato però il suo silenzio teologico sui punti che da parte ebraica sono considerati limiti invalicabili per l’effettuazione dei dialogo. Si tratta in pratica proprio della questione, di cruciale importanza, che sta dietro alla formulazione della preghiera per gli ebrei contenuta nella liturgia latina del Venerdì Santo. Il problema in effetti non è quello della conversione intesa come invito agli ebrei di entrare nella Chiesa, ma quello di come affermare tanto l’azione universale di salvezza compiutasi in Gesù Cristo, cuore dell’annuncio evangelico, quanto il fatto che l’alleanza tra Dio e il popolo di Israele è perenne. Si tratta di un tema antico e contemporaneo, ma sconosciuto per tutti i lunghi secoli in cui la Chiesa ha pubblicamente dichiarato la revoca dell’alleanza e la possibilità di coniugare solo in un remoto passato l’elezione d’Israele. Temi di non minor difficoltà emergono in relazione ai rapporti tra i due Testamenti. Ratzinger ha più volte ripetuto che l’Antico Testamento non sarebbe un testo cristiano se non parlasse di Cristo. Sotto la cupola azzurra del Tempio maggiore doveva avvolgere questa sua convinzione nel silenzio.
Tutte le valutazioni fin qui compiute hanno una loro peso e una loro pertinenza; resta comunque la sensazione che, di fronte ai discorsi pronunciati domenica scorsa, alto sarebbe stato lo sconcerto di una persona mossa dalla convinzione - in linea di principio ben fondata - stando alla quale ebraismo e cristianesimo siano due religioni messianiche.
La sagrestia di Lambach, in Alta Austria, custodisce il segreto
Ecco la svastica che ispirò Hitler
Il futuro dittatore frequentò qui la terza elementare. I religiosi hanno interdetto l’accesso per impedire il pellegrinaggio di nostalgici. Quando i nazisti soppressero le case monastiche venne risparmiata solo quella
di Vittorio Messori (Corriere della Sera, 09.07.2009)
Per penetrare nel luogo proibito, ho dovuto giocare la carta del riconoscimento, mostrando il passaporto e alcune pubblicazioni recenti che avevo con me. Ho superato così la diffidenza del monaco guardiano, fortunatamente lettore delle traduzioni tedesche dei miei libri. Affidato a un sagrestano e aperta la grande porta barocca chiusa a chiave, mi sono stati concessi pochi minuti per scattare qualche istantanea con la mia macchinetta automatica. Alla fine, l’esortazione a «far buon uso» del privilegio accordato a me e negato categoricamente a tanti altri, da molti anni.
Tutto questo per accedere alla sagrestia di una chiesa non solo aperta al pubblico ma anche assai frequentata, essendo al contempo parrocchia e tempio della grande, antica abbazia di Lambach, nell’Alta Austria. Un monastero che, nella sua vita millenaria, ha vissuto anche una esperienza singolare: durante l’anno scolastico 1897/98 ospitò, per la terza classe elementare, un bambino di otto anni originario di Braunau am Inn. Bambino disciplinato, dal visetto grazioso (come mostra la ancora esistente foto della classe) ma ostinato e introverso. Il che non gli impedì di essere un diligente chierichetto e un buon elemento della corale di voci bianche, nonché un allievo attento delle lezioni di violino impartitegli da un Padre benedettino. Dopo l’aula della scuola nell’abbazia, la maggior parte del suo tempo lo trascorse, quell’anno, proprio nella sagrestia ora interdetta ai visitatori. Lì, infatti, aiutava i sacerdoti celebranti a indossare e a togliere i paramenti liturgici, lì lavava e riempiva le ampolle per l’acqua e per il vino, lì sistemava arredi e vesti negli armadi. Lì si radunava con gli altri bambini, ogni sabato pomeriggio, per le prove dei canti per la messa grande domenicale e si esercitava per le melodie previste per matrimoni, funerali, feste liturgiche varie.
Ebbene, quel vasto ambiente barocco è dominato da una sorta di grande cenotafio in marmi dai colori vivaci, che termina in uno stemma abbaziale, sovrastato da una mitria e da un pastorale in pietra rossa, forse di Verona. Nell’ovale del blasone, una svastica con gli uncini piegati, vistosamente dorata. La stessa doratura per la data (1869) e per le quattro lettere che circondano la croce: T.H.A.L. Cioè: Theoderic Hagn Abate (di) Lambach.
Per posizione, per imponenza, per policromia dei marmi pregiati, il cenotafio è il punto focale della sala, è impossibile non esserne attratti appena entrati. Dunque, in quell’anno scolastico di oltre 110 anni fa, attrasse anche gli occhi, avidamente curiosi, dell’allievo di terza classe della Volks-Schule, nonché chierichetto e corista. Il suo nome era Adolf Hitler.
L’anno a Lambach del futuro Führer è ovviamente ben noto agli storici, anche perché l’interessato gli dedicò una pagina del Mein Kampf, dove dice di non avere condiviso l’ideale di quei monaci ma di averne stimato la serietà e, soprattutto, di avere provato tali emozioni durante le solenni liturgie da sentirsi, lui che sarà sempre astemio, berauscht, ubriaco. Alcune biografie accennano anche alla svastica del monumento abbaziale ma, curiosamente, sono quasi inesistenti, per quanto sappia, le fotografie che appaghino la curiosità dei lettori. In ogni caso, le rare immagini sono di molti anni fa, in sfocato bianconero. In effetti, come io stesso ho constatato, i religiosi hanno deciso di interdire l’accesso alla sagrestia per troncare una sorta di pellegrinaggio, ove ai curiosi si aggiungevano, pare, anche inquietanti nostalgici se non dei pericolosi pazzoidi.
La gran maggioranza dei visitatori ignora che un’altra svastica, seppur di dimensioni minori, potrebbe risvegliare la curiosità. La seconda croce uncinata è sulla fontana nel giardino di fronte all’ingresso. Il piccolo Adolf vide pure questa tutti i giorni, giungendo al mattino in abbazia, ma nel dopoguerra è stata coperta da rampicanti e da vasi di fiori e per vederla bisogna conoscerne l’esistenza e spostare le piante. Anche questa è «firmata » da padre Theoderic Hagn, abate di Lambach nella seconda metà dell’Ottocento che per il suo stemma (ogni superiore di monastero benedettino ne ha uno, alla pari dei vescovi) scelse una svastica, forse perché segno dell’incontro tra la croce cristiana e la tradizione religiosa mondiale.
È noto, infatti, che sin da tempi preistorici la croce uncinata è presente come simbolo sacro in ogni continente, America precolombiana e Oceania incluse. Soltanto il giudaismo sembra non conoscerla, probabilmente perché è simbolo solare, mentre la tradizione ebraica, a cominciare dal calendario, è soprattutto lunare. Sta di fatto che anche per questo la Hakenkreuz, la «croce con gli uncini», fu dichiarata «segno ariano » e prediletta, tra Ottocento e Novecento, dai gruppi ispirati al nazionalismo germanico nonché all’esoterismo e all’antisemitismo in qualche modo «metafisico». Il giovane Hitler la conobbe (curiosamente, proprio nella forma «alla Lambach», con gli uncini piegati) presso la Thule-Gesellschaft, la società semisegreta le cui dottrine e i cui uomini alimentarono il nazionalsocialismo nascente.
Fu nel maggio del 1920 che il futuro Führer presentò l’insegna del movimento, da lui stesso (pittore frustrato) disegnata: una svastica, appunto, ma con i bracci raddrizzati e inclinata verso destra, per, disse, «dare l’idea di una valanga che travolga il mondo decadente».
Questa scelta del simbolo, tra tanti possibili, fu determinata anche dall’impressione ricavata dallo scolaro di terza elementare davanti alle svastiche dell’abate Hagn? Hitler non ne fece mai cenno, ma ci sono due episodi che fanno pensare. Quando invase l’Austria, nel 1938, pur pressato da mille impegni, si fece portare a Lambach (riservatamente, con Eva Braun, una foto lo mostra con un impermeabile bianco, da borghese) per rivedere l’abbazia e sostò nella sagrestia, davanti al vistoso cenotafio dove tante volte aveva lavorato e cantato. C’è di più: come già in Germania, i nazisti soppressero subito le case monastiche austriache, ma Lambach fu risparmiata e i religiosi furono allontanati soltanto nel 1942. Dopo tutto, non sfugga un particolare: attorno ai bracci della svastica dell’abate, stanno anche una A e una H. Proprio quelle iniziali che Adolf Hitler volle incise accanto alla Hakenkreuz.
News
Ansa» 2009-04-24 17:21
SACRESTANO CON SVASTICA, INTERVIENE LA DIOCESI
ROMA - Dopo la diffusione su alcuni siti della foto di un sacrestano di Vigevano ripreso davanti alla chiesa con una svastica al braccio, la diocesi di Vigevano informa con una nota su alcuni provvedimenti contro il sacrestano, il laico Anglo Idi della parrocchia di San Dionigi in Francesco. Questi, martedì scorso, nel giorno in cui Israele celebra la giornata della memoria, aveva accolto i fedeli davanti all’ingresso della chiesa con una svastica al braccio.
"In merito alla vicenda del Sacrestano della Parrocchia di San Dionigi in Francesco di Vigevano, che si è fatto fotografare con al braccio una fascia con il simbolo che richiama al nazismo - si legge nella nota - si rende noto che il vescovo di Vigevano, mons. Claudio Baggini, ha da subito avuto un incontro con il parroco, mons. Paolo Bonato, dalla cui parrocchia dipende il signor Angelo Idi e lo stesso parroco ha assicurato che sono già stati presi i provvedimenti del caso per il signor Idi".
"Il vescovo Mons. Baggini e il parroco Mons. Bonato - prosegue la nota - si dissociano da simile gesto, e valuteranno anche come salvaguardare l’immagine della diocesi lesa da questo dipendente che comunque è sottoposto alle norme del diritto del lavoro".
"Il vescovo di Vigevano - afferma ancora la diocesi - auspica che simile gesto, dovuto ad un caso isolato e personale, non condizioni le celebrazioni del 25 aprile, che richiamano quei valori di pace, di libertà e di democrazia che devono essere sempre difesi e testimoniati nella loro attualità, anche nel ricordo e nel rispetto di quelle persone che hanno offerto la loro vita per il ’bene comune’ della nostra Nazione".
Affinità elettive in nome dell’ordine
I rapporti tra chiesa cattolica e nazismo
di Alessandra Marani (il manifesto, 19.09.2008)
LIBRI :
MARTINO PATTI,
CHIESA CATTOLICA E TERZO REICH (1933-1934),
MORCELLIANA, PP. 368, EURO 25
Risalgono a poco più di un anno fa le tensioni fra il Vaticano e Israele per la didascalia posta sotto la foto di Pio XII nel museo dell’Olocausto a Gerusalemme che attribuisce al pontefice pesanti responsabilità per non avere condannato esplicitamente il nazismo. La posizione della chiesa cattolica nei confronti del Terzo Reich continua infatti a costituire un nodo problematico non risolto.
Anche la produzione storiografica è divisa tra chi sottolinea la netta contrapposizione dell’istituzione ecclesiastica al nazismo e chi mette in evidenza le radici profonde del consenso cattolico al nazionalsocialismo, come testimoniano il saggio di Giovanni Miccoli I dilemmi e i silenzi di Pio XII (Rizzoli, 2000) e la miscellanea Cattolicesimo e totalitarismo curata da Daniele Menozzi e Renato Moro (Morcelliana, 2004).
In Chiesa cattolica e terzo reich (1933-1934) Martino Patti pubblica adesso cinque saggi editi tra il 1933 e il 1934 dall’editore Aschendorff ad opera di altrettanti intellettuali cattolici tedeschi. Gli scritti dimostrano il solido fondarsi di questi studiosi in una stessa cultura che usava riferimenti filosofici, categorie di lettura del presente e del recente passato, modelli di relazione tra chiesa e società uniformi. Ma ognuno degli autori coniuga quei dati comuni con altre suggestioni provenienti dalla cultura filosofica tedesca e dà così un apporto specifico alla precisazione delle affinità tra cattolicesimo e nazionalsocialismo.
Nel saggio di Michael Schmaus - professore di dogmatica all’Università di Münster - sono presenti gli elementi propri di una cultura cattolica intransigente che si è opposta all’Illuminismo, al processo di laicizzazione dello stato, di secolarizzazione della società, che ha giudicato l’età moderna come l’età del «soggettivismo esasperato» e della scienza «priva di premesse morali fondate apriori» e che ha condannato il liberalismo, origine di tutti i mali successivi. Schmaus giudica il nazionalsocialismo la grande occasione per combattere il bolscevismo, per rigettare «l’inganno secondo cui la sapienza umana potrebbe forgiare da sé le leggi che regolano l’economia e la società» e per ricreare una società rispettosa dell’ordine naturale voluto a Dio: organica, fondata sui principi di autorità, ordine gerarchico, rispetto delle «differenze ontologiche» degli individui e che ripudia sia la concezione democratica che la pretesa di eguaglianza tra uomo e donna.
Nelle pagine del teologo, poi docente all’università di Monaco dal 1946 al 1956 e perito straordinario al Concilio Vaticano II, è presente anche la convinzione, derivata dalla filosofia di San Tommaso, che stato e chiesa si devono armonizzare per condurre gli uomini al conseguimento dei loro fini. Questa visione, unita all’affermazione che il bene dello stato viene prima del bene del singolo, spiega la necessità della limitazione della libertà individuale, giudicata tra l’altro in linea con la dottrina cattolica del peccato originale «che giustifica la diffidenza verso la libertà».
Infine il concetto di Volk (comunanza di «lingua, di sangue, di terra, di destino e di dovere») diventa il punto di incontro della concezione organicistica antiliberale con una concezione di Dio contaminata con categorie hegeliane, da cui deriva la convinzione che ad ogni Volk spetti una specifica missione e a quello tedesco «uno dei compiti più significativi».
Nel suo saggio Joseph Lortz - professore all’Accademia di Braunsberg e autore della Storia della Chiesa in una prospettiva di storia delle idee , che nel 1960 raggiunse la sua ventesima edizione tedesca - individua nel nazionalsocialismo ciò che permette alla chiesa di portare a compimento la sua evoluzione storica: il superamento della sua politicizzazione (necessaria nell’età liberale in cui lo stato laico non accettava più i fondamenti dell’ordine naturale), la diffusione capillare dell’etica cattolica e la realizzazione dell’unità ecclesiale dopo la spaccatura introdotta dalla Riforma di Lutero.
Il testo di Franz G. Taeschner, professore di storia orientale all’Università di Münster fino al 1956, consente poi di evidenziare come l’affermazione che il cristianesimo è portatore di una concezione totalitaria, alla quale corrisponde la conduzione autoritaria della chiesa, sia strettamente connessa con l’accettazione della dimensione totalitaria del nazionalsocialismo. L’autore afferma che il Terzo Reich si conforma alle leggi di natura proprio grazie alla concezione della nazione come «organismo vivente», basata sul fondamento razziale e in cui il singolo è un tassello della Volkgemeinschaft e alla concezione autoritaria dello stato. Per Taeschner, cattolicesimo e nazionalsocialismo sono allora due realtà assolutamente complementari.
Infine il saggio di Josef Pieper, dal 1959 professore di antropologia filosofica all’Università di Münster, sottolinea le concordanze tra i contenuti dell’enciclica di Pio XI del 15 maggio 1931 - che, condannando la lotta di classe, proponeva un modello di società organicistico e valutava positivamente il corporativismo - e il diritto del lavoro dello stato nazionalsocialista.
Il volume di Patti permette dunque importanti precisazioni circa i complessi sedimenti filosofici, teologici, ecclesiologici, economico-sociali che hanno condotto questo gruppo di intellettuali cattolici a interpretare il fenomeno del nazionalsocialismo come l’evento provvidenziale che consentiva il superamento degli errori della modernità e la via attraverso cui ristabilire l’ordine naturale voluto da Dio, di cui la chiesa cattolica si riteneva depositaria.
Spagna, nostalgia franchista. La Chiesa beatifica 500 fascisti
Zapatero: legge di condanna del regime
La chiesa spagnola ha nostalgia del fascismo, e il Vaticano le dà corda, accogliendo la decisione di beatificare quasi 500 fascisti spagnoli. Sono religiosi e laici che secondo i vescovi sono stati perseguitati durante la Repubblica e che vengono ora beatificati per rispondere ai tentativi del governo Zapatero di rifare i conti con il passato spagnolo. È una vera e propria battaglia a colpi di memoria, quella tra il Governo e la Chiesa spagnola. Da una lato, quindi, l’esecutivo guidato da Zapatero che si prepara a varare una legge in cui il franchismo venga finalmente condannato e in cui si dichiari l’illegittimità di ogni suo “strascico”, come ad esempio le sentenze emesse dai tribunali duranti il regime. Dall’altra invece la Chiesa spagnola che si prepara al 28 ottobre data in cui ha deciso di beatificare 498, tra religiosi e civili, «martiri della Repubblica». Racconta la vicenda El Pais, quotidiano progressista iberico.
Tra venti giorni, dunque, papa Benedetto XVI celebrerà la funzione in piazza San Pietro: mai prima d’ora si era verificata una beatificazione così numerosa, e il numero dei beati potrebbe anche salire. La Conferenza episcopale spagnola calcola che il numero di religiosi e laici, che sarebbero stati perseguitati e uccisi durante la guerra civile (1936-1939) che portò alla fine della Repubblica e all’avvento della dittatura del generale Francisco Franco, potrebbe oscillare tra i duemila e i diecimila. Numerosissimo anche il pubblico di pellegrini che la Chiesa prevede parteciperà alla funzione. «Piazza San Pietro - dicono dalla Cei iberica - non sembrerà vuota. Sarà una grande festa, perché grande è la pagina di storia che rappresenta». Non c’è dubbio.
«Nessuna megalomania» ribadiscono dal Vaticano, ma una risposta alla legge sulla Memoria Storica voluta dal governo. Il portavoce dei vescovi spagnoli, Martínez Camino, ci tiene a sottolineare la «persecuzione religiosa durante la Repubblica» subita dai futuri beati: «Non un caso isolato - insiste Camino - ma rientra nella grande persecuzione subita nel corso del XX secolo in Europa dai cristiani di tutte le confessioni». La cerimonia a Roma, conclude il portavoce «aiuterà l’opinione pubblica italiana conoscere una pagina incompresa della storia della Chiesa spagnola».
L’iniziativa dei vescovi iberici, è un nuovo capitolo della «memoria è rimasta in frigorifero» come l’ha definita su Le Monde Diplomatique lo scrittore Josè Manuel Fajardo: la democrazia spagnola rinata con la fine del franchismo «per evitare atti di violenza e di vendetta» avrebbe scartato «qualsiasi ipotesi di messa sotto accusa di coloro che avevano partecipato alla dittatura e ai suoi crimini». In questo senso, la legge sulla memoria servirà a «ridare dignità alle vittime tramite iniziative come la dichiarazione di nullità dei processi franchisti e l’esumazione dei cadaveri dei repubblicani sotterrati anonimamente in fosse comuni». Ma sta scatenando accese polemiche nella politica spagnola: per la sinistra è troppo timida, mentre la destra continua a boicottarla.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.10.07, Modificato il: 06.10.07 alle ore 15.52
POLONIA: CASO WIELGUS, CONFERENZA EPISCOPALE INVIA DOSSIER AL VATICANO. I 45 VESCOVI POLACCHI HANNO DISCUSSO NUOVO SISTEMA INDAGINI INTERNE
Varsavia, 13 gen. - (Adnkronos/Dpa) - Il Vaticano presto ricevera’ dai vertici della Chiesa polacca un dossier sulle attivita’ sospette compiute dai prelati polacchi durante l’era sovietica. Lo ha riferito monsignor Jozef Kloch, portavoce della Conferenza episcopale polacca.
Shoah, il Vaticano diserta il "Giorno della Rimembranza" *
Attrito diplomatico tra Israele e Vaticano. Il nunzio apostolico in Israele, monsignor Antonio Franco, si è rifiutato di partecipare all’annuale cerimonia di commemorazione della Shoah, alla quale presenzia tutto il corpo diplomatico, che si terrà la settimana prossima allo Yad Vashem, il museo dell’Olocausto a Gerusalemme.
Lo ha riferito per primo il quotidiano Yedioth Aharonoth nella sua edizione on-line Y-net. La decisione del nunzio è dovuta a una fotografia di papa Pio XII esposta in una delle sezioni del Museo con la scritta che egli è stato una personalità controversa in relazione al suo comportamento dinanzi al genocidio nazista degli ebrei.
«Mi fa male andare allo Yad Vashem e vedere Pio XII così presentato - ha detto il nunzio apostolico in Israele - si potrebbe togliere la foto o cambiare la didascalia». Mnsignor Antonio Franco ha poi confermato la sua decisione al Servizio informazione religiosa della Chiesa cattolica, parlando di una «dolorosa rinuncia».
La foto di Pio XII è stata esposta per la prima volta con l’apertura del nuovo museo Yad Vashem nel 2005 e già allora il precedente nunzio Pietro Sambi aveva chiesto che fosse modificata la dicitura.
Lo Yad Vashem aveva risposto che sarebbe stato lieto di esaminare il comportamento di Pio XII durante l’Olocausto se il Vaticano avesse acconsentito ad aprire i suoi archivi segreti, relativamente al periodo della seconda guerra mondiale, ai ricercatori del museo.
Lo Yad Vashem ha ufficialmente reagito alla decisione del nunzio con un comunicato, dichiarando: «Siamo sconvolti e delusi per la decisione del rappresentante del Vaticano di non rispettare la memoria dell’Olocausto e di non partecipare a una cerimonia ufficiale nella quale lo Stato di Israele e il popolo ebraico si uniscono nella memoria delle vittime. Ciò contraddice la dichiarazione del Papa durante la sua visita allo Yad Vashem sull’importanza di ricordare l’Olocausto e le sue vittime».
«Lo Yad Vashem - prosegue il comunicato - è dedicato alla ricerca storica e il museo dell’Olocausto presenta la verità storica su Pio XII così come è oggi nota agli studiosi. Lo Yad Vashem ha detto al rappresentante del Vaticano in Israele che è disposto a continuare a studiare la questione e ha fatto notare che se gli sarà consentito l’accesso sarà lieto di studiare gli archivi del Vaticano dall’epoca di Pio XII per eventualmente acquisire informazioni nuove e differenti da quanto è oggi noto».
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.07, Modificato il: 12.04.07 alle ore 14.36
in questo documento risulta che non ci sono prove attendibili sulla coniugazione del vaticano con il partito nazionalsocialista di Hitler e che le prove trovate negli archivi vaticani sono ancora vaste e quasi tutte da esaminare, ma che finora non risultano complicità come invece si era ipotizzato.
devo dire che l’intero testo è un insieme di condizionali e quindi di frasi che girano intorno al problema della quasi impossibilità di stabilire che cosa sia successo in realtà, ma che niente comprovi la partecipazione attiva del vaticano con il nazismo.. sono rimasta notevolmente infastidita per la evidente volontà di non andare al centro del problema. io stessa, per logica ho dedotto che sia impossibile un’assenza di complicità del vaticano e che esso ha tutto l’interesse di mettere a tacere invece questa plateale ipocrisia ... E’ logico che il vaticano abbia avuto parte in causa nella ideologia nazista essendo una lobby di potere internazionale.
Il dittatore pensava di poter contare sulla tradizione cristiana
Hitler, la chiesa e l’antisemitismo
La rarità di pubbliche voci di dissenso ecclesiastico verso la politica antiebraica confermavano ai nazisti che non ci sarebbe stata opposizione dell’episcopato
di Giovanni Miccoli (la Repubblica, 28.11.2008)
Il resoconto che monsignor Berning, vescovo di Osnabreck, scrisse per i suoi confratelli su ciò che Hitler aveva detto della «questione ebraica» nel corso di un incontro con una delegazione episcopale il 26 aprile 1933, attesta una sorta di sintonia di fondo con settori non irrilevanti del mondo cattolico (...):
«Hitler parlò con calore e calma, qua e là pieno di fervore. Contro la Chiesa non una parola, solo apprezzamento per i vescovi. Sono stato attaccato per il mio modo di trattare la questione ebraica. Per 1.500 anni la Chiesa ha considerato gli ebrei come esseri nocivi, li ha esiliati nel ghetto eccetera, in quanto ha riconosciuto ciò che gli ebrei sono. Al tempo del liberalismo non si è più visto questo pericolo. Io risalgo nel tempo e faccio ciò che si è fatto per 1.500 anni. Io non metto la razza al di sopra della religione, ma vedo nei membri di questa razza esseri nocivi per lo Stato e la Chiesa, e forse fornisco così al cristianesimo il più grande servizio; da qui il loro allontanamento dall’insegnamento e dagli impieghi statali».
Hitler non mentiva ma era solo reticente quando affermava di non mettere la razza al di sopra della religione: ne faceva infatti una componente costitutiva di essa, pur ironizzando sulle fumisterie dell’ideologia völkisch. Né aveva difficoltà a richiamarsi alla tradizione ecclesiastica per le misure adottate contro gli ebrei. (...) Non a caso Karl Lueger e le agitazioni di massa promosse contro gli ebrei a Vienna dai cristiano-sociali figurano nel Mein Kampf tra i suoi modelli, anche se il loro limite restava per lui di aver fondato il loro antisemitismo non sulla razza ma su una visione religiosa. E probabile che egli pensasse davvero di poter in qualche modo contare, nella lotta contro gli ebrei, sulla tradizione antiebraica cristiana. (...)
Il calcolo, entro certi limiti, non era sbagliato. Non è privo di significato il fatto che monsignor Berning non trovò difficoltà né avanzò obiezioni di fronte alle affermazioni e ai propositi di Hitler. (...) quei propositi non erano certo tali da poterlo particolarmente inquietare: per decenni voci autorevoli della pubblicistica cattolica avevano avanzato proposte non dissimili.
La rarità di pubbliche ed esplicite voci di dissenso da parte della Chiesa nei confronti della politica antiebraica (...) non potevano non confermare Hitler e i dirigenti nazisti nell’opinione che, su tali questioni, nessuna seria opposizione sarebbe venuta loro dall’episcopato. In quei primi mesi del potere nazista la Santa Sede e la Chiesa cattolica tedesca si mostrarono dunque concentrate soprattutto a tutelare la propria condizione in Germania.
(...) Non va dimenticato il ripetuto, esplicito riconoscimento espresso da Pio XI nei confronti di Hitler dopo la sua nomina a cancelliere il 30 gennaio 1933 e già prima della vittoria elettorale del 5 marzo: «Hitler è il primo e unico uomo di Stato che parla pubblicamente contro i bolscevichi. Finora era stato unicamente il papa». Meriterebbe da questo punto di vista analizzare con cura le informazioni contraddittorie sul nazionalsocialismo e le sue imprese che nei primissimi anni Trenta e anche dopo la sua conquista del potere pervenivano alla segreteria di Stato e di cui la documentazione vaticana offre ricca testimonianza. (...)
Spiaceva che con gli ebrei e l’ebraismo si colpissero e si rifiutassero capisaldi della tradizione cristiana come il Vecchio Testamento, spiacevano certi metodi di lotta, spiaceva soprattutto che le misure adottate si fondassero su premesse ideologiche che si ispiravano ad un razzismo estremo, sostanzialmente incompatibile con il credo cristiano. Nelle famose prediche dell’Avvento del 1933 il cardinale Faulhaber scese perciò in campo a difesa del Vecchio Testamento e della tradizione cristiana, Rosenberg e il suo Mythus des XX. Jahrhunderts, così come i maestri del neopaganesimo germanico, divennero il bersaglio di molta pubblicistica cattolica. Ma ci si guardò bene dal coinvolgere nella polemica e nella condanna l’antisemitismo.
Non erano del resto pochi a ritenere che, se vi era un antisemitismo razzistico vietato ai cattolici, ne esisteva un altro, spirituale ed etico («geistiger und ethischer»), che era «stretto dovere di coscienza di ogni cristiano consapevole», come scrisse il vescovo di Linz, monsignor Gfvllner, nel gennaio 1933, in una pastorale che ebbe larga diffusione negli ambienti cattolici europei.
Una croce fondata sulla P2
Nasce un movimento per la difesa del crocifisso: ispirato dal Venerabile
di Carlo Tecce e Giampiero Calapà (il Fatto, 03.07.2010)
Il crocifisso di legno cade tre volte dal trespolo di una lavagna. Le braccia dell’emozionato Roberto Mezzaroma che l’agitava, in quel momento mistico e (un po’) pacchiano, erano le protesi di Licio Gelli, il gran maestro della P2.
Il cosiddetto Venerabile ha ispirato il Movimento etico per la difesa internazionale del crocifisso (Medic), presentato nella sala congressi del Michelangelo di Roma, un albergo a pochi passi dal Vaticano. La politica è corsa a sostenere l’iniziativa: c’era Olimpia Tarzia, consigliere regionale Pdl, l’ex direttore del Tg1 Nuccio Fava, atteso invano l’ex mezzobusto del Tg1 Francesco Pionati (Adc) e sono stati annunciati telegrammi ricevuti (ma non letti) dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, dal presidente emerito Francesco Cossiga e dal “divo” Giulio Andreotti.
Il disegno dell’uomo P2
Per la Chiesa è un appuntamento imperdibile: don Walter Trovato, cappellano della polizia di Stato, è il primo a sedersi al tavolo degli oratori; l’anziano monsignore Antonio Silvestrelli è l’ultimo. Non è facile contare i collarini bianchi dei preti. Gelli ha scritto il codice etico e addirittura disegnato il simbolo dell’associazione: una sfera tagliata da cerchi concentrici su sfondo azzurro, una croce nera avvolta in una stretta di mano, quattro frecce ai bordi. Il Venerabile è nella sua Villa Wanda sulle colline di Arezzo: “Questa è la mia nuova battaglia - spiega al Fatto Quotidiano - e il colore scelto per il simbolo rimanda al mare, al cielo e al grembiule della Madonna, il resto a San Francesco e le frecce rappresentano i punti cardinali”.
L’età avanzata ha impedito a Gelli di officiare la cerimonia in una sala moderna, affollata di uomini e donne vestiti con abiti scuri da sera nel caldo di mezzogiorno. Un amico di Gelli ha rimpianto l’assenza del Venerabile, criticando “la gestione troppo rude della cerimonia del costruttore Mezzaroma”. Accenti che si mescolano, spillette che si confondono. Segni, simboli, messaggi più o meno occulti, più o meno massonici. Il secondo capitolo di uno Statuto suggellato da Gelli, più che a un piano di rinascita nazionale, somiglia a una crociata pop: difendere, coinvolgere, riconoscere.
“Medic vuole far emergere - declama Mezzaroma - le radici giudaico-cristiane del mondo occidentale e promuovere il significato autentico del crocifisso quale simbolo condiviso di amore assoluto; nasce con l’ambizione di essere un movimento trasversale, che raccoglie non solo cattolici ma anche ebrei, musulmani, atei, convinti che la croce abbraccia l’umanità intera”. Quasi un comizio, senza leggere, e un po’ fuori dal protocollo per un evento mondano in pieno giorno.
L’imprenditore Mezzaroma, ex europarlamentare di Forza Italia, è stato nominato segretario generale del Medic in una riunione a Villa Wanda che, diretta come è logico da Gelli, ha indicato presidente onoraria la duchessa d’Aosta, Silvia Paternò, dei marchesi di Regiovanni , dei conti di Prades, dei baroni di Spedalotto, appartenente al Sovrano Militare Ordine di Malta .
Una roba da far impallidire la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare di fantozziana memoria. Araldica pesante, insomma, tanto che “siamo già in 500: faccio politica per passione, sono iscritto al Pdl; stimo tantissimo Gel-li, ma non mi confido al telefono con nessuno” e attacca la cornetta Mezzaroma, contattato all’ultima forchettata di un banchetto fastoso. Il costruttore romano è un fan della prim’ora dei Circoli del buon governo di quel Marcello dell’Utri appena condannato a 7 anni in appello per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ex romanista parente di Lotito
Ex europarlamentare, responsabile del dipartimento “lotta alla povertà” del partito ai tempi di Forza Italia, Mezzaroma è lo zio della moglie di Claudio Lotito. Nel 2005 diventò il secondo azionista della Lazio vantandosi di “aver già salvato la Roma nel 1992 assieme ai miei fratelli, perché bisogna costruire non demolire”. E detto da lui vale un capitale, perché di cemento se ne intende. L’avventura con la Lazio è costata una condanna a un anno e 8 mesi, per un accordo definito “interpositorio” che permise a Mezzaroma di acquistare il 14,61% delle azioni biancocelesti di fatto per conto di Lotito, in modo da nascondere la titolarità del pacchetto completo con cui lo stesso Lotito avrebbe poi lanciato l’Opa. Aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza, per Lotito la condanna è di due anni.
Tra i padrini chiamati a battezzare il Medic, c’era anche monsignor Alberto Silvestrelli: un alto prelato che risponde all’invito di Licio Gelli. Esponente del governo Vaticano con l’incarico di sottosegretario alla Congregazione per il clero, oltre ad essere giudice di appello del Vicariato di Roma (il tribunale dei preti) e commissario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, si occupa di sociale: alcolismo e disabili. Ai tempi della gestione Ratzinger, monsignor Silvestrelli ha ricoperto incarichi anche nella Congregazione per la dottrina della fede, la moderna Inquisizione.
Il consigliere regionale (Lazio) Olimpia Tarzia, altra commensale, vanta un ampio curriculum tra fede e politica: fondatore (e segretario generale dal ‘97 al 2006) del Movimento per la vita, il cui successo più importante è stato il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita nel 2005. “Il crocifisso - ha affermato Tarzia - è simbolo di vita: si invoca lo Stato laico, ma lo Stato laico come democratico difende i diritti umani e il primodiquestidirittièquelloalla vita”.IlMedicèprontoadifendere il crocifisso “anche con azioni forti, a promuovere un referendum che rimetta al popolo italiano la decisione di continuare a riconoscersi in quei valori che hanno delineato i confini culturali e spirituali dell’Italia e dell’Europa”. A quei valori che affascinano Licio Gelli.
La pagina oscura di Lutero antisemita
Nel 1543 l’ex monaco scrisse un violento pamphlet contro la «piaga» giudaica, che fu poi usato dai gerarchi della croce uncinata
di VITO PUNZI (Avvenire, 27.10.2010)
A l dosato battage orchestrato da Bompiani per far crescere l’attesa per il nuovo romanzo di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, ha dato il proprio contributo anche la rivista
Pagine ebraiche , con un corposo dossier dedicato ai Protocolli dei savi anziani di Sion, il falso di cui periodicamente si torna a parlare. Il perché è presto detto: per quello che si sa, il Professore ha ambientato quest’ultimo libro nell’antico cimitero ebraico della città ceca, cioè nel luogo «dove alcuni grandi falsari dell’odio antiebraico hanno voluto immaginare si svolgessero le cospirazioni di ebrei intenzionati ad assumere il controllo del mondo» (così Guido Vitale, il direttore del mensile di cultura ebraica, nella presentazione del dossier).
L’idea di cogliere l’occasione del nuovo romanzo di Eco per ripercorrere la diffusione dell’antisemitismo nella cultura europea è certo lodevole. Ricordare l’odio antiebraico coltivato da autorevoli maestri del pensiero come Erasmo da Rotterdam, Schopenhauer, Kant, Hegel e Voltaire, come fa Donatella Di Cesare nel suo articolo «Quando il risentimento diventa filosofia», è semplicemente meritorio.
Così come è corretto rileggere i testi antisemiti dei citati umanisti e filosofi per tentare di comprendere l’humus nel quale ha potuto prendere forma la persecuzione sugli ebrei europei messa in atto nel secolo scorso dai nazisti. L’impressione, tuttavia, è che nel quadro generale disegnato da Di Cesare risulti minimizzato il ruolo antisemita svolto da Martin Lutero sul suolo tedesco. Già nel febbraio 2009 Giulio Busi, s’era avventurato nell’affermazione che i protestanti nei confronti degli ebrei «non hanno un corrispettivo tradizionalmente retrivo come quello cattolico». Lo studioso di giudaistica ignorò così, non si sa quanto coscientemente, il livoroso testo che Lutero scrisse nel 1543, Degli ebrei e delle loro menzogne , un libello di violenza inaudita nel quale, tra le altre nefandezze, si invitava a ripulire la Germania dalla «piaga» giudaica, dando «fuoco alle loro sinagoghe e alle loro scuole». Di Cesare da parte sua ricorda quel pamphlet,
indicandolo come «violento», e tuttavia evita di ricordare come solo le comunità protestanti attuali abbiano preso le distanze da quel testo. Gli stessi nazisti, più che negli scritti antisemiti di Hegel o di altri filosofi, trovarono materiale d’ispirazione per le proprie persecuzioni in quel terribile scritto luterano. Come non ricordare che la «notte dei cristalli», quando venne scatenato il pogrom in Germania, Austria e Cecoslovacchia, fu voluta proprio nel giorno che ricordava la nascita di Lutero? «Il 10 novembre 1938 - scriveva in quello stesso anno il vescovo evangelico-luterano di Eisenach, Martin Sasse, - bruciano in Germania le sinagoghe. Dal popolo tedesco viene finalmente distrutto il potere degli ebrei sulla nuova Germania e così viene finalmente incoronata la battaglia del Führer, benedetta da Dio, per la piena liberazione del nostro popolo». «In quest’ora - proseguiva Sasse - dev’essere ascoltata la voce dell’uomo che nel XVI secolo [Lutero, ndr ]
assunse il ruolo di profeta tedesco. Inizialmente come amico degli ebrei e tuttavia, spinto dalla propria coscienza, dall’esperienza e dalla realtà, sarebbe diventato il più grande antisemita del suo tempo, colui che lanciò al suo popolo l’allarme contro gli ebrei».
Come non ricordare poi che brani luterani trasudanti odio antiebraico vennero usati per manuali scolastici accanto a quelli di Hess, Göring, Goebbels e Hitler (vedi per esempio la parte settima di Hirts Deutsches Lesebuch, destinata alla classe 7, pubblicato nel 1940)? Il nazista Julius Streicher (giustamente citato da Di Cesare), a Norimberga, ebbe dunque un buon motivo per affermare che Lutero «oggi, sarebbe sicuramente al mio posto sul banco degli accusati».