IL MITO DI PROMETEO, NARRATO DA PROTAGORA (PLATONE)*
Nel "Protagora", il noto sofista di Abdera illustra la propria tesi col mito di Epimeteo e Prometeo: Zeus, per render loro possibile vivere in società, ha distribuito aidos e dike a tutti gli uomini. Gli uomini hanno bisogno della cultura e dell’organizzazione politica perché sono creature prive di doti naturali, come artigli, denti e corna, immediatamente funzionali ai loro bisogni. Tutti partecipano di queste due virtù "politiche". Ma esse non vanno viste come connaturate all’uomo, bensì come qualcosa di sopravvenuto, qualcosa che è stato trasmesso in maniera consapevole, e non semplicemente attribuito in un processo cieco, "epimeteico", del quale si può render conto soltanto ex post: per questo è possibile insegnare aidos e dike agli uomini, mentre non si può "insegnare" a un toro ad avere corna e zoccoli.
Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dei le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco. Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, gli dei ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali. Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione: "Dopo che avrò distribuito - disse - tu controllerai". Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. [321] Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi. Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue. In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie.
Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce.
Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco - infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco - e li donò all’uomo. All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. [322] Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo.
Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dei, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dei. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica). Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano.
Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini: «Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?»
«A tutti - rispose Zeus - e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia» [323]
Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici - naturalmente, dico io - se qualche profano vuole intromettersi. Quando invece deliberano sulla virtù politica - che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza - ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città. Questa è la spiegazione, Socrate. Ti dimostro che non ti sto ingannando: eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon auleta o esperto in qualcos’altro e poi dimostri di non esserlo, viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano come se fosse pazzo. Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra situazione ritenevano fosse saggezza - dire la verità - in questo caso la considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe della giustizia, oppure non appartiene al genere umano. Dunque gli uomini accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono che ognuno ne sia partecipe. Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini, derivano dalla natura o dal caso. Tutti provano compassione verso queste persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, viene biasimato, punito, rimproverato.
(Platone, Protagora, 320 C - 324 A)
Macché antipolitica, è iperpolitica
di Umberto Curi (Corriere La Lettura, 13.1.2013)
Dietro le polemiche più furibonde rivolte contro i partiti e le istituzioni rappresentative c’è la pretesa assolutamente irrealistica che lo Stato possa risolvere qualsiasi problema P iaccia o meno, è destinata ad essere una protagonista - se non la dominatrice assoluta - dell’imminente campagna elettorale, come già lo è stata nel recente scorcio della vita nazionale.
Detestata o invocata, criticata o esaltata, per riconoscimento unanime l’antipolitica è il nuovo soggetto che sta rubando la scena alle altre maschere della rappresentazione che celebra il suo rito supremo con le elezioni. Ma alla indiscussa centralità del fenomeno non corrisponde affatto una comprensione adeguata di quale ne sia la vera «natura», né di ciò che di essa è a fondamento, dal punto di vista storico e concettuale.
L’equivoco principale scaturisce da quella preposizione, «anti», che suggerisce un’idea totalmente fuorviante, tale per cui essa tenderebbe a negare frontalmente la politica. Mentre un’analisi meno superficiale può far emergere un dato sorprendente, e cioè che ciò con cui abbiamo a che fare non è la negazione, ma al contrario una variante iperpolitica della politica.
Nel libro IX dell’Odissea Omero riferisce un episodio singolare. La nave di Ulisse ha raggiunto un’isola solitaria e sconosciuta. Come è consuetudine, viene inviata a terra una piccola delegazione di uomini, per ottenere informazioni sugli abitanti dell’isola. Passano le ore, ma dei compagni mandati in ricognizione non si ha notizia. Verranno ritrovati - illesi - qualche ora più tardi. A differenza di ciò che si temeva, gli abitanti dell’isola non li avevano accolti in maniera ostile. Al contrario, avevano condiviso il loro alimento abituale, i frutti del loto. «Ed essi - racconta Omero - non volevano più ritornare, e volevano invece restare là, insieme ai Lotofagi, a mangiare loto, dimenticando il ritorno».
Nóstou lathéstai, «dimenticare il ritorno»: questo il pericolo più insidioso, fra le molte avversità affrontate da Ulisse e dai suoi compagni. Lo stesso pericolo, citando precisamente questo passo omerico, è indicato da Platone quale principio di degenerazione dell’individuo, nel passaggio dall’uomo oligarchico all’uomo democratico.
All’origine del processo di degrado, il cui esito più compiuto sarà l’instaurazione della tirannide, vi è una «dimenticanza», non meno esiziale di quella che ha minacciato i compagni di Ulisse. Come costoro, scampati miracolosamente a mille disavventure, rischiano di vedere vanificato il progetto del ritorno in patria per una semplice «dimenticanza», allo stesso modo da una «dimenticanza» trae origine la degenerazione degli individui, e dunque anche degli Stati.
In un altro contesto, Platone spiegherà più chiaramente quale sia il contenuto di un oblio così decisivo. Ciò che siamo irresistibilmente portati a di-menticare (letteralmente: a far «cadere dalla mente»), è quale sia la fonte da cui scaturisce la politica, e quindi anche quale ne sia il fondamento. La politica è un phármakon, e cioè - per rispettare rigorosamente l’irresolubile ambivalenza del termine greco - una medicina che intossica, un veleno che guarisce. Non è dunque, per restare non occasionalmente nel lessico farmacologico, una panacea, un toccasana capace di sanare ogni malattia, senza dar luogo ad alcun fenomeno collaterale. Si tratta, invece, di un rimedio limitato e imperfetto, necessario per fronteggiare la malattia dello Stato, ma al tempo stesso del tutto incapace di garantire una compiuta guarigione.
Ciò che troppo spesso siamo portati a dimenticare - scrive Platone nel dialogo intitolato Politico - è che il mondo in cui attualmente viviamo è un mondo che gira alla rovescia, nel quale tutti i processi fisici, cosmologici e biologici si muovono in senso contrario, rispetto alla direzione originaria. Un mondo, soprattutto, che è caratterizzato dal fatto che Dio ha abbandonato la barra del timone, e perciò non ci conduce più al pascolo, orientando la vita dell’intera comunità. Non siamo dunque più «gregge divino», ma dobbiamo piuttosto «badare a noi stessi», senza più poterci affidare alla guida della divinità.
Nella situazione di abbandono, e dunque di massima incertezza, nella quale attualmente ci siamo venuti a trovare, ci sono stati elargiti alcuni doni - primi fra tutti la tecnica e la politica - mediante i quali cercare di guadagnarci la nostra sopravvivenza. Pur essendo, fra tutte le technai, quella regia, fin dalla sua genesi la politica è solo questo: una medicina che intossica, un rimedio inevitabilmente parziale, un tentativo per compensare l’abbandono da parte di Dio.
Tutto ciò è altresì confermato dall’analisi platonica dello Stato. Illusorio sarebbe immaginare che uno Stato possa dirsi «sano» dopo la «grande catastrofe» che ha invertito il senso di tutti processi biologici e astronomici. Quale che ne sia la forma di governo, è inevitabile che quello in cui viviamo sia uno Stato «rigonfio» e dunque «ammalato». Ed è altresì inevitabile che, assecondando l’impulso che è all’origine dello Stato, compaia nell’orizzonte storico qualcosa che in precedenza era sconosciuto, e che invece da quella fase in poi accompagnerà il genere umano.
Nel passaggio dalla condizione di originaria «salute» dello Stato alla situazione attuale, sulla spinta di una «sconfinata brama di ricchezza», diventerà necessario «fare la guerra». Ancora una volta, il «realista» Platone, intercetta il meccanismo che è storicamente e concettualmente alla base della guerra, senza alcun affidamento esigenziale: «facciamo pure a meno di dire se la guerra sia fonte di male o di bene. Contentiamoci di dire che ne abbiamo scoperto la genesi» (Repubblica, II, 373, d-e).
Da tutto ciò dovrebbe risultare con evidenza che utopistica non è affatto la rappresentazione platonica dello Stato, come per negligenza o conformismo si continua acriticamente a ripetere. Utopistico sarebbe, al contrario, credere che l’uomo possa da sé procurarsi uno Stato nel quale dominino la «pace» (eiréne), il «rispetto reciproco» (aidós), una «buona legislazione» (eunomía) e la «giustizia non invidiosa» (aphtonía díkes), vale a dire ciò che solo la guida del «pastore del mondo» poteva assicurarci. Per la stessa ragione per la quale sarebbe stolto affidare alle capre il governo delle capre, «nessuna natura d’uomo è capace di governare tutte le cose umane con potere assoluto senza riempirsi di tracotanza e di ingiustizia» (Leggi, IV, 713 c-d).
In un contesto e con motivazioni differenti, Thomas Hobbes ribadirà a suo modo l’assunto platonico. Non vi è proprio nulla di «naturale», né ancor meno di «divino», nella politica. Ad essa ricorriamo solo perché ne siamo costretti dalla paura, perché tramite essa vogliamo sottrarci al rischio incombente di subire violenza, preservando la nostra incolumità. Il contratto fra lo Stato e i cittadini non scaturisce da una opzione positiva e non corrisponde ad alcuna prospettiva salvifica. È fondato piuttosto sul realistico riconoscimento che l’unica alternativa alla politica è la guerra, anzi: il bellum omnium contra omnes.
Ecco, dunque, ciò che non si deve «dimenticare», se si vuole evitare di fare la fine degli incauti compagni di Ulisse. Che siamo così lontani dal vivere in un mondo «bene ordinato», da poter perfino affermare di trovarci piuttosto in un mondo in cui tutto gira alla rovescia. Che quella creazione interamente artificiale che è lo Stato riproduce - né potrebbe essere diversamente - tutti i limiti degli uomini che di esso sono artefici, al punto da non poter essere concepito se non come organismo affetto da malattie mai definitivamente estirpabili. Che nella genesi stessa dello Stato è materialmente scritto lo sbocco bellico, come necessità insita nella sua stessa «natura». Che la politica, soprattutto, può agire soltanto come phármakon, come un rimedio imperfetto, come un beneficio che arreca nuove sofferenze.
La radice vera dell’antipolitica, nelle sue formulazioni meno becere, sta tutta in questa «dimenticanza». Consiste nel pretendere che la politica funzioni come rimedio «assoluto», come farmaco senza effetti tossici. L’antipolitico vive ancora nell’«incantamento» dell’età di Crono, si illude che i cittadini possano ancora essere «gregge divino». Esige che la politica sia ciò che non può essere, una panacea, anziché un phármakon. Si sente tradito perché la politica non è accompagnata dalla «buona legislazione» e dal «rispetto reciproco», e ancor meno dalla «pace» e dalla «giustizia». Appassionato amante deluso dal suo amato, l’antipolitico rimprovera alla politica di non corrispondere all’immagine che aveva ingenuamente vagheggiato. E vorrebbe starsene là, su quell’isola, con i Lotofagi, a mangiare loto, dimenticando il ritorno.
Origene, uomo senza qualità
di Giulio Busi (Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2012)
Quando nasce l’uomo senza qualità? Verrebbe da dire tra il 1930 e il 1932, gli anni in cui Robert Musil pubblica il suo romanzo-sfogo contro la società di massa. O forse è meglio risalire di qualche decennio indietro, quando l’ottimismo borghese dell’Ottocento comincia a sfiorire? Certo, il personaggio che non sa decidersi su se stesso è icona recente, espressione di crisi e smarrimento. Ma a ben guardare, ha un progenitore più antico e più nobile.
L’individuo senza qualità precede di molto il naufragio dell’età moderna. Spunta già nell’Orazione sulla dignità dell’uomo di Giovanni Pico, scritto emblematico del Rinascimento italiano. Per il Conte della Mirandola, solo l’uomo, tra tutte le creature, non ha un ruolo determinato, una natura prefissata a cui restare ancorato.
Trascinato dall’entusiasmo dei suoi 23 anni, Pico vede l’essere umano come un camaleonte, capace di trasformarsi senza posa. Può innalzarsi al cielo come un angelo o sprofondare in basso, a modo di belva o di demone: «L’uomo è animale di natura varia, multiforme e cangiante» solo a lui «è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole». La mancanza di qualità significa per Giovanni la massima libertà e il vero fondamento dell’autonomia dell’uomo.
Questo pensiero, nel 1486, parve pericoloso e valse al Conte una condanna pontificia. L’enfasi sulla capacità di giudizio autonomo non piacque a Innocenzo VIII e ai suoi inquisitori. E ancor meno piacquero i maestri da cui Pico aveva appreso ad amare l’amorfa potenzialità umana.
Uno fra tutti, tra i nomi citati nell’Orazione, destava i sospetti dell’ortodossia. Era quello di Origene, padre della chiesa censurato come eretico, e vero ispiratore di tratti decisivi dell’antropologia pichiana.
Probabilmente nessuno è stato tanto amato e odiato, letto e censurato come Origene. Il più grande teologo dell’età tardo antica (prima e accanto Agostino) condannato per le sue idee dal concilio di Costantinopoli del 533. Giustiniano ordinò che tutta la sua opera fosse distrutta. Fu un atto di barbarie che, secondo il teologo Henri de Lubac, getta sull’imperatore una macchia che neppure la costruzione di Santa Sofia basta a compensare. Per fortuna, Origene aveva scritto moltissimo, e parecchio si salvò dall’ardore distruttivo. Letto di nascosto, o spesso trasmesso in forma anonima, il pensiero di Origene ha lavorato durante il Medioevo come un lievito occulto.
Per districarsi dalle spire dello gnosticismo, Origine immaginò ciò che la filosofia greca non aveva ancora saputo fare. Ovvero una seconda natura, accanto a quella rigorosamente codificata dalle leggi fisiche. Le azioni degli uomini (e degli esseri celesti, a cui Origene credeva fermamente) sono determinate da un atto individuale di volontà. Per esempio, chi sceglie la menzogna, «non lo fa in obbedienza a una struttura preesistente, ma solo per decisione propria o, per dirla con una parola nuova, facendosi egli stesso natura».
In questa frase del commento al Vangelo di Giovanni, e nei molti passi paralleli sparsi per gli altri suoi libri, Origene costruisce la grandezza dell’essere senza qualità. Capace di sbagliare certo, e colpevole nel farlo, ma anche in grado di spezzare le catene del destino.
Questo fondamento metafisico della libertà nasceva dalla lotta contro gli gnostici, i quali propugnavano un soffocante determinismo, una gerarchia dell’essere che inchiodava ciascuno a un posto prefissato. Illuminati da una parte, schiavi della materia dall’altra, e poi angeli e demoni obbligati a ripetere in eterno azioni buone o malvage, in un perenne dejà vu.
Secondo Origene, invece, l’uomo, che di per sé non è nulla, può essere ciò che vuole, se solo lo vuole. D’altra parte, questa indeterminatezza rende reversibile ogni conquista (e ogni colpa). Il bene non è mai raggiunto una volta per tutte, così come il male non è dannazione eterna. Un’opinione, quest’ultima, che pesò molto nel dossier eretico a carico di Origene.
Nelle sue Conclusiones del 1486, Pico non fa mistero della propria simpatia per il vecchio eresiarca alessandrino e anzi, ne proclama a gran voce l’innocenza: «È più razionale ritenere che Origene sia salvo piuttosto che darlo per dannato». Con un colpo di teatro, il giovin signore di Mirandola pretende di sostituirsi ai Concili e al magistero della Chiesa, e non c’è da meravigliarsi se proprio su questa riabilitazione postuma, sostenuta da Pico, si siano concentrati gli strali della commissione papale incaricata di vagliare le Conclusiones.
Ma a parte il gusto per il paradosso e l’intenzione di stupire il proprio uditorio, nel farsi promotore di una rinascita origeniana Pico aveva precise ragioni filosofiche. Un solido filo intellettuale lega il Conte al teologo del III secolo. Un filo che si chiama libertà. È infatti proprio dagli scritti di Origene, che Pico attinge la particolare idea di uomo che è alla base del suo progetto di "dignitas".
Un nuovo libro, curato da Alfons Fürst e da Christian Hengestermann, percorre la carriera dell’uomo senza qualità in panni filosofici, attraverso un ambizioso progetto interdisciplinare tra storia del pensiero politico, teologia, filosofia e letteratura.
Se Pico fu il primo moderno ad accettare la sfida di una simile «teologia della liberazione» ante litteram, la filosofia dei secoli successivi ebbe in Origene un costante punto di riferimento. Da Erasmo ai platonici di Cambridge, a Shaftesbury e, attraverso di questi, a Kant e fino a Schelling, l’antropologia tra Cinque e Ottocento si nutre dell’universalismo origeniano. Riportata alla sua prima matrice storica, l’idea della dignità dell’uomo rivela inaspettate radici teologiche.
Anziché essere frutto esclusivo del secolarismo illuministico, la libertà come diritto inalienabile dell’individuo nasce piuttosto dalla rottura della gabbia cosmica intuita da Origene nel III secolo. È uno sguardo che ci fa riscoprire una corrente sopita del pensiero occidentale, a patto però di chiamare una simile teologia col nome che gli fu dato a suo tempo, tanto a proposito di Origene quanto di Pico: eresia.
Stimato compagno Alexis Tsipras,
Ti scriviamo come cittadine e cittadini di paesi europei, colpiti come la Grecia dall’offensiva “debitocratica” dei poteri finanziari e oligarchici di Europa.
Ci rivolgiamo a te, e attraverso te, alle migliaia di cittadine e cittadini della Grecia, che hanno affidato il loro voto alla vostra organizzazione politica, per esprimere la nostra gratitudine, la solidarietà e il nostro sostegno nei confronti della vostra resistenza, contro la devastazione neoliberista delle condizioni materiali di vita e delle condizioni politiche di convivenza, e nei confronti della vostra lotta per un’alternativa di giustizia, dignità e democrazia in favore del popolo greco e per tutti i popoli che compongono l’Unione europea.
Applaudiamo con entusiasmo al vostro risultato nelle ultime elezioni greche, come plaudiamo al modo con cui state gestendo questo risultato, e vi esortiamo ad insistere su questo impegno, che sta già costituendo un esempio e una speranza per milioni di donne ed uomini in tutta Europa.
Desideriamo condividere con te, con le donne e gli uomini della tua organizzazione e con le cittadine e i cittadini greci che, pur appartenendo ad altre organizzazioni politiche, sindacali o sociali, compartecipano al progetto di una convivenza di libertà e di solidarietà, le aspettative piene di speranza con cui, in tutta Europa, si contempla la possibilità che, in un breve lasso di tempo, un nuovo governo greco di unità popolare affronti la dittatura dei mercanti e dei burocrati di questa Europa sequestrata.
Noi consideriamo l’attuale congiuntura greca come un punto di svolta, che può condurre ad una trasformazione radicale dell’ordine politico ed economico europeo.
Abbiamo bisogno di una nuova Europa, che sia quella dei suoi cittadini ed abitanti e non di un’Europa delle brutali politiche di austerità, che assumono come prioritario il pagamento del debito odioso, illegale ed illegittimo, che impedisce l’umano sviluppo delle nostre comunità.
Questo è l’appello che lanciamo in questi giorni dalle nostre piazze di Europa, dalla Porta del Sol di Madrid a Piazza Syntagma di Atene, e da tante altre piazze distribuite dovunque nella carta geografica europea, piazze liberate, che sono sementi e fondamento costituente della democrazia reale che noi, donne e uomini di Europa, aspiriamo a costruire tutti insieme.
La lotta contro l’autoritarismo neoliberista, che ipoteca il presente e il futuro dei nostri popoli, può risultare vittoriosa a livello europeo. Sempre a livello europeo, è indispensabile dotarci di istituzioni veramente democratiche, che contribuiscano alla libertà e alla solidarietà dei diversi popoli di Europa, di fronte all’attuale Direttorio oligarchico neoliberista e al suo stato di eccezione economica e politica permanente.
“E dopo avere aspettato tanto, tanto / infine è arrivata l’ora di salpare”, così recita il vostro e il nostro poeta, cittadino Aléxandros Panagoulis.
Noi, donne e uomini d’Europa, abbiamo tanto sperato, e sopportato ancor di più. E una volta ancora, spetta al popolo greco, così avvezzo alle cose di mare, ma anche a quelle della libertà, la responsabilità di aprire la strada a questa nuova Europa, che intravediamo nelle nostre piazze e nelle nostre voci ribelli. Per questo, mettiamoci fianco a fianco, per intraprendere insieme, come assemblea di popoli fratelli, questa navigazione pericolosa, di lotta, ma anche tanto ricca di speranza.
Con un abbraccio pieno di riconoscenza e fraterno,
Seguono centinaia di firme di intellettuali, accademici e attivisti da tutta Europa.
Per aderire: cartatsipras.blogspot.it/p/lettera-aperta-alexis-tsipras.html
Per firmare questa lettera, scrivere una e-mail a cartatsipras@gmail.com indicando nome, cognome, luogo di residenza, attività ed appartenenza ad organizzazioni.
Questa lettera verrà diffusa sui media greci, con tutte le firme raccolte entro il 1 giugno 2012.
Una fanciulla rapita da Zeus
L’Europa inventata dai greci
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 19.05.2012)
L’Europa senza la Grecia: se ne parla come se fosse una possibilità, spiegando le tragiche conseguenze economiche che questo porterebbe con sé. Ma non solo di economia si tratta, quando si parla della Grecia. Si tratta anche del nostro presente e di quello che esso è grazie ai greci e alla loro storia: grazie a quella Grecia, vale a dire, la cui presenza è ancora parte essenziale della nostra vita, a cominciare come ben noto dal nostro vocabolario. Da dove vengono, se non da quella Grecia, parole come mito, teatro, diavolo, politica, democrazia, demografia, apoteosi, antropologia, geografia, psichiatria, telefono, diagnosi, terapia (solo alcuni tra gli innumerevoli esempi, pochi nomi a caso, tra i primi che vengono alla mente). Ma il lascito linguistico non è che una delle tante loro eredità che (anche se non lo sappiamo o non ci pensiamo) ci accompagnano nella vita quotidiana. Per ricordare le quali, o almeno parte delle quali, proviamo, in modo semiserio, a immaginare l’inimmaginabile: come sarebbe la nostra vita oggi, come e cosa sarebbe l’Europa se non fosse mai esistita «quella» Grecia? Quella di Omero e di Eschilo, della battaglia di Maratona e di Pericle, di Zeus, degli dèi dell’Olimpo e dei miti...
Per prima cosa, il nostro continente non si chiamerebbe Europa. A farci sapere perché ci chiamiamo europei, infatti, è un mito (ovviamente greco): quello della ragazza Europa, figlia di Antenore, re della città fenicia di Tiro, sulle coste dell’Asia minore. Un giorno, mentre giocava con le compagne sulla spiaggia, Europa venne rapita dal solito Zeus che, colpito dalla sua bellezza, assunse le sembianze di un bellissimo toro bianco, dalle corna così lucenti che sembravano spicchi di luna. Bello e apparentemente mansueto l’animale andò a sdraiarsi ai piedi di Europa che, fiduciosa, sedette sulla sua groppa. E subito Zeus-toro, rizzatosi sulle zampe, si gettò in mare, raggiungendo a nuoto le coste di Creta, ove si unì a Europa sotto dei platani cui, da quel giorno, fu concesso di non perdere mai le foglie. Potenza del mito: vicino alla città cretese di Gortina esiste un platano, ove tuttora i giovani sposi si recano in pellegrinaggio, la sera del matrimonio...
Ma prescindiamo pure dal nome. Difficile ricordare le infinite cose che mancherebbero alle nostre vite in una immaginaria Europa della quale Grecia non avesse contribuito a fare la storia: non potremmo leggere Omero, Saffo, la lirica, i grandi tragici, Erodoto e Tucidide, e non mi pare cosa da poco.
Non avremmo i templi di Paestum e di Selinunte. I musei (tutti, non solo quelli europei) sarebbero infinitamente più poveri: niente frontone del Partenone al British Museum, niente arte greca al Louvre e al Metropolitan, niente altare di Pergamo al Pergamon Museum di Berlino... Chissà se Frau Merkel lo ha mai visto. Non c’è momento e aspetto della nostra vita che non ci riconduca all’esistenza dei greci. Un solo esempio, la psicoanalisi (che ovviamente avrebbe un altro nome): come avrebbe fatto Freud a spiegare i misteri della nostra psiche senza Edipo? E per finire, ma solo per ragioni di spazio, e tralasciando, sempre per motivi di spazio, i loro lasciti in campo scientifico, come sarebbe l’Europa se nel 490 a.C. l’immane esercito persiano non fosse stato sconfitto nella piana di Maratona da Milziade a capo di 10.000 opliti ateniesi?
La storia non si fa con i se, lo sappiamo bene, ma una cosa è certa: i greci combatterono e vinsero per difendere la loro libertà di cittadini, per non essere sottomessi a un impero dove esistevano solo dei sudditi. E nel farlo consentirono a noi di conoscere e di ereditare la democrazia. Come sarebbe stata la nostra storia, se essi non l’avessero sperimentata e non ce ne avessero insegnato il valore? Come saremmo, oggi, se non ci avessero trasmesso l’orgoglio di essere noi, i cittadini, i titolari della sovranità?
Che mondo povero sarebbe il nostro, senza quella Grecia. Eppure, nel discutere la possibilità (pur cercando di scongiurarla) di escludere la Grecia di oggi dall’Eurozona, tutto quello cui si pensa è l’aspetto economico del problema. Che è, ovviamente, assolutamente fondamentale. Ma, accanto a esso, la Grecia non meriterebbe che venisse preso in qualche considerazione anche tutto quello che le dobbiamo? Quanta ingratitudine, oggi, per la ragazza Europa.
La preghiera di Aiace
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 16.05.2012)
Ci abituiamo talmente presto ai luoghi comuni che non ne vediamo più le perversità, e li ripetiamo macchinalmente quasi fossero verità inconfutabili: la loro funzione, del resto, è di metterti in riga. Il pericolo di divenire come la Grecia, per esempio: è una parola d’ordine ormai, e ci trasforma tutti in storditi spettatori di un rito penitenziale, dove s’uccide il capro per il bene collettivo.
Il diverso, il difforme, non ha spazio nella nostra pòlis, e se le nuove elezioni che sono state convocate non produrranno la maggioranza voluta dai partner, il destino ellenico è segnato. Lo sguardo di chi pronuncia la terribile minaccia azzittisce ogni obiezione, divide il mondo fra Noi e Loro. Quante volte abbiamo sentito i governanti insinuare, tenebrosi: «Non vorrai, vero?, far la fine della Grecia»? La copertina del settimanale Spiegel condensa il rito castigatore in un’immagine, ed ecco il Partenone sgretolarsi, ecco Atene invitata a scomparire dalla nostra vista invece di divenire nostro comune problema, da risolvere insieme come accade nelle vere pòlis.
L’espulsione dall’eurozona non è ammessa dai Trattati ma può essere surrettiziamente intimata, facilitata. In realtà Atene già è caduta nella zona crepuscolare della non-Europa, già è lupo mannaro usato per spaventare i bambini. Chi ha visto la serie Twilight zone conosce l’incipit: «C’è una quinta dimensione oltre a quelle che l’uomo già conosce. È senza limiti come l’infinito e senza tempo come l’eternità. È la regione intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette luminose del sapere». Lì sta la Grecia: lontana dalle vette luminose dell’eurozona, usata come clava contro altri.
L’editorialista di Kathimerini, Alexis Papahelas, ha detto prima delle elezioni: «Ci trasformeranno in capro espiatorio. Angela Merkel potrebbe punire la Grecia per meglio convincere il suo popolo ad aiutare paesi come Italia o Spagna». Il tracollo greco è «un’opportunità d’oro» per Berlino e la Bundesbank, secondo l’economista Yanis Varoufakis: nell’incontro di oggi tra la Merkel e Hollande, l’insolvenza delle Periferie europee (Grecia, e domani Spagna, Italia) «sarà usata per imporre a Parigi le idee tedesche su come debba funzionare il mondo». Agitare lo spauracchio ellenico è tanto più indispensabile, dopo la disfatta democristiana in Nord Reno-Westfalia e il trionfo di socialdemocratici e Verdi, pericolosamente vicini a Hollande. La speranza è che Berlino intuisca che la sua non è leadership, ma paura di cambiare paradigmi.
Può darsi che la secessione greca sia inevitabile, come recita l’articolo di fede, ma che almeno sia fatta luce sui motivi reali: se c’è ineluttabilità non è perché il salvataggio sia troppo costoso, ma perché la democrazia è entrata in conflitto con le strategie che hanno preteso di salvare il paese. Nel voto del 6 maggio, la maggioranza ha rigettato la medicina dell’austerità che il Paese sta ingerendo da due anni, senza alcun successo ma anzi precipitando in una recessione funesta per la democrazia: una recessione che ricorda Weimar, con golpe militari all’orizzonte. Costretti a rivotare in mancanza di accordo fra partiti, gli elettori dilateranno il rifiuto e daranno ancora più voti alla sinistra radicale, il Syriza di Alexis Tsipras. Anche qui, i luoghi comuni proliferano: Syriza è forza maligna, contraria all’austerità e all’Unione, e Tsipras è dipinto come l’antieuropeista per eccellenza.
La realtà è ben diversa, per chi voglia vederla alla luce. Tsipras non vuole uscire dall’Euro, né dall’Unione. Chiede un’altra Europa, esattamente come Hollande. Sa che l’80 per cento dei greci vuol restare nella moneta unica, ma non così: non con politici nazionali ed europei che li hanno impoveriti ignorando le vere radici del male: la corruzione dei partiti dominanti, lo Stato e il servizio pubblico servi della politica, i ricchi risparmiati. Tsipras è la risposta a questi mali - l’Italia li conosce - e tuttavia nessuno vuol scottarsi interloquendo con lui.
Neanche Hollande ha voluto incontrare il leader di Syriza, accorso a Parigi subito dopo il voto. E avete mai sentito le sinistre europee, che la solidarietà dicono d’averla nel sangue, solidarizzare con George Papandreou quando sostenne che solo europeizzando la crisi greca si sarebbe trovata la soluzione? Chi prese sul serio le parole che disse in dicembre ai Verdi tedeschi, dopo le dimissioni da Primo ministro? «Quello di cui abbiamo bisogno è di comunitarizzare il nostro debito, e anche i nostri investimenti: introducendo una tassa europea sulle transazioni finanziarie, e sulle energie che emettono biossido di carbonio. E abbiamo bisogno di eurobond per stimolare investimenti comuni». L’idea che espose resta ancor oggi la via aurea per uscire dalla crisi: «Agli Stati nazionali il rigore, all’Europa le necessarie politiche di crescita».
La parole di Papandreou, ascoltate solo dai Verdi, caddero nel vuoto: quasi fosse vergognoso oggi ascoltare un Greco. Quasi fosse senza conseguenze, l’ebete disinvoltura con cui vien tramutato in reietto il Paese dove la democrazia fu inaugurata, e le sue tragiche degenerazioni spietatamente analizzate. Sono le degenerazioni odierne: l’oligarchia, il regno dei mercati che è la plutocrazia, la libertà quando sprezza legge e giustizia.
Naturalmente le filiazioni dall’antichità son sempre bastarde. Anche la nostra filiazione da Roma lo è. Ma se avessimo un po’ di memoria capiremmo meglio l’animo greco. Capiremmo lo scrittore Nikos Dimou, quando nei suoi aforismi parla della sfortuna di esser greco: «Il popolo greco sente il peso terribile della propria eredità. Ha capito il livello sovrumano di perfezione cui son giunte le parole e le forme degli antichi. Questo ci schiaccia: più siamo fieri dei nostri antenati (senza conoscerli) più siamo inquieti per noi stessi». Ecco cos’è, il Greco: «un momento strano, insensato, tragico nella storia dell’umanità». Chi sproloquia di radici cristiane d’Europa dimentica le radici greche, e l’entusiasmo con cui Atene, finita la dittatura dei colonnelli nel 1974, fu accolta in Europa come paese simbolicamente cruciale.
Il non-detto dei nostri governanti è che la cacciata di Atene non sarà solo il frutto d’un suo fallimento. Sarà un fallimento d’Europa, una brutta storia di volontaria impotenza. Sarà interpretato comunque così. Non abbiamo saputo combinare le necessità economiche con quelle della democrazia. Non siamo stati capaci, radunando intelligenze e risorse, di sormontare la prima esemplare rovina dei vecchi Stati nazione. L’Europa non ha fatto blocco come fece il ministro del Tesoro Hamilton dopo la guerra d’indipendenza americana, quando decretò che il governo centrale avrebbe assunto i debiti dei singoli Stati, unendoli in una Federazione forte. Non ha fatto della Grecia un caso europeo. Non ha visto il nesso tra crisi dell’economia, della democrazia, delle nazioni, della politica. Per anni ha corteggiato un establishment greco corrotto (lo stesso ha fatto con Berlusconi), e ora è tutta stupefatta davanti a un popolo che rigetta i responsabili del disastro.
Le difficoltà greche sono state affrontate con quello che ci distrugge: con il ritorno alle finte sovranità assolute degli Stati nazione. È un modo per cadere tutti assieme fuori dall’Europa immaginata nel dopoguerra. Ci farà male, questa divaricazione creatasi fra Unione e democrazia, fra Noi e Loro. La loro morte sarebbe un po’ la nostra, ma è un morire cui manca il conosci te stesso che Atene ci ha insegnato. Non è la morte greca che Aiace Telamonio invoca nell’Iliade: «Una nebbia nera ci avvolge tutti, uomini e cavalli. Libera i figli degli Achei da questo buio, padre Zeus, rendi agli occhi il vedere, e se li vuoi spenti, spegnili nella luce almeno».
Il villano che da avvocato si conquistò il paradiso.
Un racconto francese medievale (Il testo originale è costituito da ottosillabi a rima baciata) *
Troviamo messa per iscritto
una meravigliosa avventura
capitata un tempo a un villano.
Morì un venerdì mattina,
e gli toccò quest’avventura:
né un angelo né un diavolo andò
da lui nell’ora della morte;
quando l’anima usci dal corpo
non trovò nessuno
che le facesse domande.
Ne fu molto angosciata, sappiatelo,
quell’anima che era così paurosa!
Guardò in alto, a destra, verso il cielo
e vide I’angelo san Michele
che guidava un’anima a gran festa.
S’incamminò da quella parte.
Era paurosa, ma tuttavia andò
dove lei voleva andare.
Seguì tanto I’angelo, sta scritto,
che entrò in Paradiso.
Seguendo quello entrò Iì dentro.
San Pietro, che aveva le chiavi in custodia,
accolse l’anima che I’angelo guidava,
poi tornò di nuovo alla porta
incontrò I’anima che era sola.
Le domandò con chi era venuta:
“Qui diamo ospitalità solo a chi
I’ottiene per giudizio divino,
e soprattutto, per sant’Alano,
noi non ci curiamo di un villano:
è un villano, allora qui non entra”.
“Più villani di voi non ce ne sono,
mio caro Pietro, - risponde I’anima, -
voi eravate più duro di una pietra!
Per il santo Padre Nostro,
fu uno stolto chi vi fece suo apostolo!
Ne ricavò ben poco onore!
Quando Nostro Signore fu tradito
ben poca fede aveste voi!
Lo avete rinnegato tre volte,
e sì che eravate suo discepolo!
Non siete degno di questa casa, vi odia
anzi, voi e la vostra sete di potere!
Non dovete averne le chiavi:
sei un falso e un traditore!
Io invece sono un galantuomo e leale
e ho diritto di essere ospitato”.
Strano, ma san Pietro provò onta
tornò indietro vergognoso e vinto
e andò a raccontare
del guaio a san Tommaso.
“Andrò io da lui, - fa san Tommaso, -
qui non resterà, Dio non voglia!”
Torna lì dov’era I’anima:
"Villano, - dice l’apostolo, -
questa dimora è proprietà nostra.
Visto che non sei né martire né confesso
dove ti sei acquistato merito
che credi di restare qui?
Un villano non ci può stare:
questa casa è per gente per bene!”
Tommaso, Tommaso, a rispondere
ti dilunghi più di un leguleio! -.
Non foste proprio voi a dire agli apostoli
(da chi lo si sarebbe saputo)
quando ebbero visto Dio,
dopo che fu risorto,
faceste iI vostro giuramento
che non ci avreste creduto
se non vedendo le piaghe
che il vostro maestro ebbe in croce.
Altro che in buona fede siete!
Bugiardo e miscredente foste!”
San Tommaso rinunciò subito
alla disputa e abbassò il capo.
Andò dritto da san Paolo
e gli raccontò di quell’accidente.
“Per la mia testa, ci andrò io, - disse, -
vedremo che risposta mi darà”.
L’anima non si curò di rispondergli
e andò ciondoloni per il Paradiso.
“Villano, - fa san Paolo, - chi vi guida?
Dove vi siete acquistato merito
per cui vi fu aperta la porta?
Fuori di qui, sciocco villano!”
“Cosa? - fa I’anima, - reverendo Paolo
il calvo, come siete bugiardo!
Foste un prepotente cosi ignobile voi!
Non vi sarà più uno così crudele!
Lo sperimentò santo Stefano
che voi faceste lapidare.
So raccontare bene la vostra vita!
Disdegnavate i santi sacramenti:
ovunque mettevate piede
erano morti tutti i santi uomini.
Dio perse la pazienza e vi diede
in ricompensa un bel ceffone.
Di quanti affari e strette di mano
dovete ancora pagare il vino!
Ecco che santo e che profeta siete!
Credete che io non vi conosca?”
San Paolo restò molto male;
voltò il passo cupo e mesto
e tornò da san Tommaso
che si consultava con san Pietro.
Racconta loro I’incredibile fatto
del villano che gli ha dato scacco.
“Per quanto mi riguarda il Paradiso
se l’è guadagnato: è suo”.
Vanno tutti e tre a protestare a Dio:
san Pietro gli racconta per bene
come il villano li ha oltraggiati:
“Con parole ci ha sconfitti,
io stesso ne sono confuso”.
“Andrò io a parlargli, - dice
Nostro Signore, - così sentirò
di persona questa novella, e
va dall’anima, la chiama
e le chiede com’è riuscita
a entrare lì dentro senza permesso.
Qui non è mai entrata anima
di uomo o di donna senza licenza:
come credi di rimanerci tu?"
“Signore, ho diritto di restare
quanto loro, se ottengo il giudizio:
io non vi ho mai rinnegato,
né ho mandato a morte un innocente.
Loro hanno commesso questo grave torto,
un tempo, quando erano in vita
e ora se ne stanno in Paradiso!
Finché io vissi al mondo,
ho fatto una vita onesta e pura.
Ho diviso il mio pane coi poveri,
di cuore, sera e mattina;
ai poveri offrivo un tetto
e davo loro alloggio volentieri
e li riscaldavo al mio fuoco;
ne ho curati molti finché morirono
e poi li ho portati in chiesa.
Di molte brache e molte camicie
li ho rivestiti quand’erano nudi!
Quando mi son visto colto dalla morte
mi sono confessato sinceramente,
ho ricevuto degnamente il vostro corpo
e ci insegnano che Dio perdona
i peccati a chi muore così.
Ora che sono qui, perché dovrei andarmene?
Andrei contro alle vostre parole,
perché avete concesso di sicuro
che chi entra qui dentro ci rimanga;
non vi smentirete certo per me!”
“Amico, - risponde Dio, - te lo concedo;
mi hai tanto accusato il Paradiso
che te lo sei guadagnato da avvocato!
Sai esporre bene i tuoi argomenti!”
Il villano dice in un proverbio:
va ben a scuola molta gente
che pur non è molto dotata.
L’educazione vince la natura,
la menzogna ha ucciso la giustizia,
il torto va avanti e il dritto sta fermo,
vale più I’ingegno della forza.
* Fabliaux. Racconti francesi medievali, Trad. it. di R. Brusegan, Einaudi, Torino 1980.
Madre Viviana, suor femminista: la Chiesa non apprezza il genio delle donne
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 7 maggio 2012)
Il genio femminile? Non sempre nella Chiesa sembra essere apprezzato. Suor Viviana Ballarin, presidente dell’Usmi, l’organismo dal quale dipendono tutti gli ordini religiosi femminili italiani, un esercito di circa 70 mila suore, riflette sulla mancanza di adeguati riconoscimenti da parte del Vaticano.
Non vuole parlare di maschilismo strisciante, né di discriminazione su base sessuale ma sul tappeto - effettivamente - restano diversi problemi insoluti. «Il cosiddetto genio femminile è una ricchezza per la società e anche per la Chiesa, ma molto spesso si ha paura del diverso; ciò che è diverso rappresenta per molti non tanto una ricchezza ma anche una minaccia e io credo che in gran parte per questo anche negli ambienti ecclesiastici si preferisce non confrontarsi con il diverso» dice.
Ecco che così iniziano i guai. «Allora si affidano alle donne, anche plurititolate, servizi e ruoli secondari ed esecutivi», afferma suor Viviana osservando la presenza di diverse religiose in curia e in altri organismi ecclesiali, con mansioni non adeguate per gli studi e la preparazione maturati nel corso degli anni. «E’ ancora piuttosto raro che vengano affidati nella Chiesa alle donne ruoli a più ampio respiro, intendo dire di responsabilità, di decisionalità. E’ abbastanza raro che possano sedere ai tavoli dove si pensa o si programma».
La questione che intende affrontare la presidente dell’Usmi è ampia e affonda le radici nella cultura del nostro tempo. «Quando nelle culture, nelle società e anche nella Chiesa non viene rispettato il progetto creazionale si cade o nel maschilismo o nel femminismo o altro. Gli ismi dicono sempre qualcosa di negativo».
Se ne deduce che il problema non è tanto della Chiesa ma di un influsso culturale che «volere o no influenza e condiziona anche la Chiesa degli uomini. Ma non la Chiesa di Cristo. Gesù, infatti, nella vita terrena ha dato esempi meravigliosi di rottura con leggi molto sfavorevoli nei confronti delle donne, pensiamo ad esempio al suo rapporto con la donna emorroissa, con la peccatrice in casa di Simone, con l’adultera, con la Samaritana e altre ancora».
Alla domanda se vorrebbe che il Papa introducesse il sacerdozio femminile, suor Viviana risponde subito di no. «Non sono smaniosa di rivendicazioni per quanto riguarda le questioni teologiche aperte. Come donna mi sento pienamente realizzata sia nella mia identità che nella mia missione. Se un giorno il sacerdozio e il diaconato verranno dati alle donne ben venga, mi pare però che ciò che conta veramente per ogni donna sia vivere quella diaconia e quel sacerdozio che sono stati impressi nella sua carne come fuoco il giorno in cui Dio l’ha voluta femmina e non maschio». Le religiose in Italia sono circa 70 mila secondo le ultime statistiche dell’Usmi.
Una catechesi per il Papa
di Mario Mariotti *
Chi glielo va a spiegare, al Papa, che con l’ostensorio in mano pensa di essere il padrone della Verità, che la pace passa per la giustizia, questa per la giustizia sociale, per 1’equa1izzazione delle condizioni di vita delle persone, che l’equalizzazione necessita di un’economia di comunione, che quest’ultima é un nome nuovo per quel socialismo, per quell’utopia della fratellanza, che era il segno di Dio per l’uomo, e che é stato tradito anche da coloro che, presieduti dal sopraddetto Papa, svolgono regolare e zelante servizio a sua santità mammona, ribattezzato col nome di Dio?
Chi glielo va a spiegare, a Sua Santità Benedetto, che il cristianesimo incarnato porterebbe strutturalmente al socialismo; che la globalizzazione non ha riguardato l’allevamento dei bachi da seta o delle trote, bensì quel cancro del capitalismo, quel1’idolo del “Beati gli indefinitamente ricchi”, che costituisce la più radicale bestemmia del progetto di Dio per l’uomo, fattoci conoscere da Gesù?
Chi glielo spiega, sempre allo stesso soggetto, che la vera condizione eucaristica è il lavoro, condizione nella quale la persona spende la propria vita per il bene comune, e che la difesa del posto di lavoro è la vera chiave per difendere la famiglia, che ha bisogno di stabilità, di avere il necessario garantito, per poter pianificare il proprio futuro, l’educazione dei figli e tutto il resto? Dato che la monotonia del pesto fisso é una condizione alla quale si adeguano più che volentieri sia i politici che i banchieri, ed i ricchi in generale, come mai Benedetto non ha spiegato al pres. Monti, andato da lui a baciare l’anello anche se ha fatto finta di non farlo, che é suo compito di estendere questa monotonia del posto fisso soprattutto a quei milioni di giovani che si ritrovano in un mondo che é accogliente solo per i ricchi, per i competitivi, per le persone di successo, e loro o li lascia fuori dalla porta, e li fa lavorare all’interno di quella f1essibilità e precarietà che, una volta, quando una parola aveva un unico significato, venivano definite "sfruttamento"?
E chi glielo spiega, a colui che pensa di essere il vicario di Dio sul pianeta Terra, e questo anche per merito di tutti coloro che dovranno rendere conto del fatto di aver concepito un concetto di Dio talmente squallido da vederlo compatibile con la sequenza dei papi, alcuni dei quali sono arrivati a stringere "concordati" anche con i più schifosi dittatori che abbiano insozzato la faccia del pianeta, chi glielo spiega, dicevo, a questo Vicario, che si muove in una scenografia faraonica ricoperto d’oro e di pietre preziose, che tutto quanto eccede il necessario, e quindi la ricchezza, costituisce sostanzialmente una bestemmia della vita, perché l’accumulo é non-condivisione, é omissione di solidarietà, é servizio al1’idolo mammona?
E chi dovrebbe spiegare alla casta sacerdotale, se non il Papa stesso e non solo alla casta, ma a tutte le pecore del gregge dei fedeli, che anche le piccole vite, gli agnellini e tutte le altre bestioline, sono tutte quante miracolose espressioni del miracolo della Vita, per cui la sensibilità dei "difensori della vita", oggi estesa anche alle cellule staminali, li dovrebbe portare ad essere tutti quanti vegetariani? E chi dovrà rendere conto a Dio, se non il Papa stesso, e poi giù giù fino alla base della piramide, di un concetto di Dio, quello de1l’Esodo, quello che ha fatto sgozzare gli agnellini e segnare le porte degli Ebrei in modo che l’Angelo sterminatore mandato da Lui facesse morire solo i figli degli Egizi, che continua a venir considerato compatibile col Dio che si é fatto conoscere in Gesù, paradigma di mitezza, di non-violenza, di accoglienza, di perdono incondizionato di amore per tutti i viventi?
E chi spiegherà ai cattolici che la frequenza alla messa domenicale, se non viene accompagnata da una conversione dall’uomo vecchio all’uomo nuovo, al "giusto che ama", costituisce un’aggravante in rapporto al giudizio negativo che si vedranno appioppare nell’al di là, perché a loro era stata più che ripetutamente mandata, "missa", 1a Parola, e loro ne hanno testimoniato l’inefficacia, non avendole fatto portare frutto?
Tutte queste cose sarebbe il Papa stesso che dovrebbe spiegarle al prossimo, come capo della Chiesa docente, ma é difficile che lo faccia, perché non le ha capite neanche lui.
Noi siamo nel 2012, ma lui, come cultura, é ancora all’anno 1000, e questa non e una calunnia, ma un effetto strutturale di una ben precisa causa: il meccanismo di elezione dei pontefici (termine che rivela la contiguità col pontifex maximus degli dei romani).
Dato che, fra i tanti valori bestemmiati dalla chiesa, il più bistrattato é stato ed é quello della democrazia, siccome il papa viene eletto dal concistoro dei cardinali, e questi ultimi vengono selezionati dal papa stesso perché la pensano come lui, ecco che lo Spirito Santo si trova sbarrata la porta, i papi che si succedono sono affini gli uni agli altri, il "nuovo" di Dio resta escluso, lo Spirito continua ad alitare dove vuole, meno che al vertice di S.R.Chiesa!
Come andrà a finire questa storia, nella quale i guerci, i fedeli-credenti, si lasciano guidare dai ciechi, la casta, a diventare ciechi come loro?
Capiremo mai che la religione è un cuneo messo fra Dio e l’uomo, che questo cuneo andrebbe rimosso, che noi siamo il confine fra lo Spirito, fra Dio-Spirito e la materia, il mondo, che il mondo aspetta il nostro "si“ all’amore ed alla condivisione, cioè a Dio, perché Lui, con le nostre mani, possa saziare tutti i viventi di necessario e di gioia?
Mario Mariotti
* Il Dialogo, Sabato 05 Maggio,2012