25 Giugno: salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Il 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)?
O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” [Amore - Charitas] e “Mammona” [Caro-Prezzo - Caritas] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemblea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore Charitas dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
DA RICORDARE:
Alla Costituente, su 556 eletti, 21 erano donne:
9 NEL GRUPPO DC, SU 207 MEMBRI - LAURA BIANCHINI, ELISABETTA CONCI, FILOMENA DELLI CASTELLI, MARIA IERVOLINO, MARIA FEDERICI AGAMBEN, ANGELA GOTELLI, ANGELA GUIDI CINGOLANI, MARIA NICOTRA, VITTORIA TITOMANLIO;
9 NEL GRUPPO PCI, SU 104 MEMBRI - ADELE BEI, NADIA GALLICO SPANO, NILDE IOTTI, TERESA MATTEI, ANGIOLA MINELLA, RITA MONTAGNANA TOGLIATTI, TERESA NOCE LONGO, ELETTRA POLLASTRINI, MARIA MADDALENA ROSSI;
2 NEL GRUPPO PSI, SU 115 MEMBRI - BIANCA BIANCHI, ANGELINA MERLIN;
1 NEL GRUPPO DELL’UOMO QUALUNQUE: OTTAVIA PENNA BUSCEMI.
Federico La Sala
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PIERO CALAMANDREI (Wikipedia)
LA LEZIONE DI CIAMPI: LA COSTITUZIONE, LA NOSTRA “BIBBIA CIVILE”
FLS
Bologna.
Il cardinale Zuppi scrive alla Costituzione: aiutaci a scegliere la direzione
Nella Lettera l’arcivescovo di Bologna richiama i limiti nell’esercizio del potere e il legame tra diritti e responsabilità collettive
di Redazione Catholica (Avvenire, giovedì 21 gennaio 2021)
«Cara Costituzione,
sento proprio il bisogno di scriverti una lettera, anzitutto per ringraziarti di quello che rappresenti da tempo per tutti noi. Hai quasi 75 anni, ma li porti benissimo! Ti voglio chiedere aiuto perché siamo in un momento difficile e quando l’Italia, la nostra patria, ha problemi, sento che abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare. E poi che cosa ci serve litigare quando si deve costruire?».
È con queste accorate parole che il cardinale arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi inizia una lettera alla Costituzione italiana.
Nel testo, diffuso ieri, il porporato fa riferimento a questo tempo doloroso segnato dalla pandemia. «Stiamo vivendo - scrive Zuppi - un periodo difficile. Dopo tanti mesi siamo ancora nella tempesta del Covid. Qualcuno non ne può più. Molti non ci sono più. All’inizio tanti pensavano non fosse niente, altri erano sicuri che si risolvesse subito, tanto da continuare come se il virus non esistesse, altri credevano che dopo un breve sforzo sarebbe finito, senza perseveranza e impegno costante. Quanta sofferenza, visibile, e quanta nascosta nel profondo dell’animo delle persone! Quanti non abbiamo potuto salutare nel loro ultimo viaggio! Che ferita non averlo potuto fare!».
«Quando penso - aggiunge il cardinale rivolgendosi alla Carta - a come ti hanno voluta, mi commuovo, perché i padri costituenti sono stati proprio bravi! Erano diversissimi, avversari, con idee molto distanti, eppure si misero d’accordo su quello che conta e su cui tutti - tutti - volevano costruire il nostro Paese».
Per il cardinale di Bologna «non si può vivere senza speranza» e quindi «non è possibile star bene da soli, perché possiamo star bene solo assieme». Infatti la Carta ci ricorda che «dobbiamo imparare che c’è un limite nell’esercizio del potere e che i diritti sono sempre collegati a delle responsabilità collettive», che «i diritti impongono dei doveri», che ognuno è «chiamato a pensarsi, progettarsi e immaginarsi sempre insieme agli altri». La Carta chiede «a tutti di mettere le proprie capacità a servizio della fraternità», perché la società «non è un insieme di isole ma una comunità fra persone, tra le nazioni e tra i popoli».
La lettera ripercorre poi i principi e i diritti fondamentali della Carta, richiamando vari articoli e sottolinea che «la libertà non è mai solo da qualcosa ma per qualcosa», e perché un’attività o una funzione concorra al progresso materiale o spirituale della società è chiamata a trasformarsi da «libertà da» in «libertà per». E ribadisce che «l’educazione, la casa e il lavoro sono indispensabili per vivere». Il cardinale Zuppi chiede di superare «gli interessi di parte» e di esprimere un nuovo e vero «amore politico», come richiama papa Francesco nell’enciclica “Fratelli tutti”.
E infine lancia un appello alla pace, al disarmo, riprendendo l’eredità storica di chi ha saputo unire dopo la guerra. «Avevi nel cuore - scrive Zuppi rivolgendosi sempre alla Carta - l’Europa unita perché avevi visto la tragedia della divisione. Senza questa eredità rischiamo di rendere di nuovo i confini dei muri e motivo di inimicizia, mentre sono ponti, unione con l’altro Paese».
LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.... *
Speranze e delusioni in un tornante decisivo del Novecento italiano
L’Orologio di Carlo Levi
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 02 dicembre 2020])
Il 29 novembre del 1902 nasceva a Torino uno degli intellettuali più brillanti e sottovalutati del Novecento italiano: Carlo Levi. Esponente di quella generazione di figli della buona borghesia del capoluogo piemontese che in tanti casi si sarebbe impegnata nel gruppo cittadino di Giustizia e Libertà sgominato dalla polizia politica fascista nel 1935 a causa della delazione di Dino “Pitigrilli” Segre, Levi fu per tutta la vita attivista politico della sinistra antifascista, ma anche scrittore e giornalista, osservatore con occhio quasi antropologico delle dinamiche sociali piccole e grandi di un Paese, del suo Mezzogiorno più profondo e di una classe politica, e soprattutto pittore molto apprezzato dai suoi contemporanei.
Tuttora, Levi deve la sua fama alle riflessioni nate nel periodo del confino in un villaggio della Lucania, e raccolte in Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e tradotto in tutto il mondo. Ormai quasi dimenticata è, invece, la sua opera letteraria forse più matura, L’Orologio, pubblicato sempre con la casa editrice torinese nel 1950. Eppure, esso rappresenta forse l’unico esempio riuscito, quantomeno tra i pochi applicati a materia relativa all’età repubblicana italiana, di un genere assai raramente praticato nella letteratura italiana, quello del “romanzo politico”.
Riletto oggi, di certo, il libro presenta al pubblico una difficoltà non da poco che pure deve essere affrontata per apprezzarlo, cioè la necessità di immaginarsi come all’epoca e nel contesto della sua stesura un protagonista degli eventi narrati, risalenti a cinque anni prima, potesse rileggerli e guardare criticamente al modo in cui li visse. Vale tuttavia la pena di provarci, per poter godere di una riflessione che ha ancora molto da dirci sull’attualità e sulle sue radici storiche.
L’Orologio, dunque, prende esplicitamente le mosse dalle conclusioni del Cristo si è fermato a Eboli, in alcune pagine citando esplicitamente il libro precedente. Nell’Italia fossilizzata su illusori contrasti all’interno della propria classe dirigente che in realtà celavano la realtà profonda della dialettica di sopraffazione sui “contadini” dei “donluigini”, occorreva ricostruire da zero una comunità nazionale realmente coesa, strutturata attorno a istituzioni davvero al servizio dei cittadini e capaci di accompagnarli nel loro sforzo di elevazione sociale, ma prima di tutto occorreva smantellare fino in fondo gli apparati amministrativi e burocratici dal precedente assetto strutturalmente ineguale. A quegli apparati burocratici i privilegiati di ogni livello, dai grandi imprenditori monopolisti ai piccoli titolari della concessione di una farmacia, erano avvinghiati per ottenere ciò che sanciva in modo inequivocabile la propria condizione di privilegio: una sinecura pubblica, una sovvenzione, una deroga, una norma spudoratamente favorevole.
Su questi rapporti istituzionali e politici malati, che pure lo precedevano di decenni negli interstizi della società italiana, si era retto per vent’anni il regime fascista, e allo smantellamento di questa patologia che era stata una delle basi portanti della dittatura doveva dedicarsi, per completare la sua opera, l’antifascismo vittorioso nel 1945. Era del resto questo l’obiettivo di quella che il Partito d’Azione, allora soggetto politico di riferimento di Carlo Levi nonché interprete più convinto dell’epopea resistenziale, intendeva raggiungere con quella che con un certo understatement era presentata come “riforma della pubblica amministrazione”, ma che in realtà doveva essere una rivoluzione culturale, un lavacro purificatore di tutti i germi socio-culturali alla radice del fascismo. Lavacro purificatore forse utopistico, ragione fondamentale per cui tanta parte delle culture politiche italiane, da quelle raccolte nei partiti di massa della sinistra marxista a quella del cattolicesimo organizzato di governo fino agli opinionisti liberal-conservatori a la Montanelli, avrebbe ricordato il Pda come un partito di anime belle, di illusi sospesi tra il desiderio di crogiolarsi nei loro sogni e la volontà di realizzarli con un colpo di mano giacobino, in definitiva figure storicamente inutili o peggio ancora (per chi guardava da destra) mosche cocchiere per utopie assai meglio armate.
Scrivendo L’Orologio nel 1950, Levi non rinnegava affatto quell’obiettivo ideale, ma in una certa misura ammetteva la necessità di riflettere su quanto esso fosse effettivamente realizzabile, poiché chiariva che esso poteva essere spiegato, e “fatto passare” al pubblico, solo nella forma del romanzo, della scrittura di finzione. Il canovaccio del racconto era però intessuto di fatti reali, poiché l’azione si svolgeva effettivamente tra il 22 e il 24 novembre del 1945, nelle convulse giornate in cui si consumò la crisi del governo guidato da Ferruccio Parri, l’esecutivo in cui gli azionisti avevano riposto le speranze di vedere realizzate le loro istanze di rinnovamento al soffio del “vento del Nord” dell’esperienza resistenziale. Allo stesso modo aveva radici nella realtà anche il ruolo del protagonista e voce narrante, direttore del quotidiano del partito che esprimeva “il Presidente”, proprio come nel novembre 1945 Levi era direttore dell’organo azionista “L’Italia libera”.
In fondo tutto il romanzo è la riflessione su quanto la compagine azionista ed ex-partigiana alla guida del governo chiede troppo a quel “vento del Nord”, per il quale era impossibile soffiare così forte da abbattere abitudini e necessità radicate troppo in profondità nel sentire del Paese, soprattutto delle sue zone più problematiche.
Questa riflessione si dipana, sul piano narrativo, nella forma di due viaggi.
Dapprima il protagonista-narratore si trova a compiere un giro per Roma alla ricerca di esponenti politici più o meno importanti, ma soprattutto alla scoperta di funzionari e impiegati passati dal pre-fascismo al post-fascismo senza mutare di una virgola il loro atteggiamento e il modo di interpretare il loro ruolo. Essi, ai suoi occhi, rappresentavano la vera forza materiale della conservazione, in quanto legati in maniera irremovibile a quei piccoli privilegi che di fatto non permettevano loro null’altro che di galleggiare appena sopra la miseria, ma senza i quali essi non sapevano neppure immaginarsi.
Al protagonista toccò poi compiere un viaggio di andata e ritorno per Napoli che assunse i caratteri di un’odissea tra strade bombardate e paesi ridotti all’inesistenza. Il viaggio di ritorno, in particolare, avverrà in automobile, privilegio che il direttore di un giornale di partito non si sarebbe mai potuto concedere se nel capoluogo campano non avesse ricevuto un passaggio da due esponenti di spicco dei due grandi partiti che si apprestavano a gestire in proprio il governo e il potere: Colombi (figura sotto cui si cela il democratico-cristiano Attilio Piccioni) e Tempesti (il comunista Emilio Sereni).
Proprio nel corso del viaggio due rappresentanti dei grandi partiti di massa, a cui simbolicamente sarebbe passata la responsabilità di guidare il Paese pochi giorni dopo con l’incarico di formare il governo affidato direttamente al leader della Dc Alcide De Gasperi, si rendono protagonisti di un dialogo di cui il protagonista è muto testimone, forse profetico per il dibattito pubblico degli anni successivi: un dialogo in cui moderati e sinistra si confrontano da posizioni opposte, ma portandolo avanti utilizzando le stesse parole e riconoscendo reciprocamente il ruolo l’uno dell’altro. Si manifestava insomma come inevitabile la conclusione che avrebbe condotto all’esito delle elezioni per la Costituente nel giugno 1946, ovvero quella per cui per avere successo nella politica italiana si doveva finire per accettare, e quasi per incorporare e rappresentare, ciò che nel Paese non funzionava, costruendo su tale comune accettazione la collaborazione e il conflitto.
Si chiudeva così la riflessione sul recente passato di Levi, che aveva accompagnato parole e pensieri del protagonista col pensiero ricorrente di un vecchio orologio di famiglia che aveva portato a riparare, ma che non avrebbe più ritirato anche perché nel frattempo gli eventi gliene avevano regalato uno nuovo, come a simboleggiare anche sul piano materiale una netta cesura nel suo percorso esistenziale di attivista politico antifascista che però si stagliava sulla continuità della verità destinata a uscire in modo più evidente dalle pagine del volume: «il nostro [Stato] è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte [...]. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello Stato non fanno parte».
Dopo settant’anni queste parole restano allo stesso modo suggestive, anche se l’effettiva partecipazione o meno alla “carità di Stato” si è fatta sempre meno facilmente intuibile.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" !
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
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Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
Lettera all’Europa.
Il Papa: ruolo dell’Europa ancor più rilevante al tempo del Covid
Nella lettera al cardinale Parolin sulla Unione Europea: “Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti”
di Redazione Internet (Avvenire, martedì 27 ottobre 2020)
L’Europa ha avuto e deve ancora avere "un ruolo centrale": lo sottolinea papa Francesco in una lettera al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione di alcuni anniversari: il 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea, il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e il 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.
"Tale ruolo - sottolinea il Pontefice parlando dell’Europa - diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme ed uniti si è più forti, che l’unità è superiore al conflitto e che la solidarietà può essere uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita".
"Nel nostro tempo che sta dando segno di ritorno indietro, in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia - dice il Papa - costituisce come uno spartiacque che costringe a operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella strada della fraternità, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman".
Il Papa lancia, quindi, un appello all’Europa affinché ritrovi sé stessa. "All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti - scrive il Papa nel messaggio al Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, per condividere con lui delle riflessioni in occasione delle celebrazioni di alcuni anniversari - a guardare al tuo passato come ad un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico".
"Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali - prosegue il Papa - che hanno radici profonde. Sii te stessa!"
"Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura".
"Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società" scrive ancora papa Francesco nella Lettera al cardinale Parolin.
"Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma - si spera - anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana. I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europa, per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società. Li esorto dunque ad impegnarsi con coraggio e determinazione a offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano".
Se il miglior interprete dei diritti non è la Corte ma il papa
Diritti. La pronuncia dei giudici costituzionali è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro legislatore
di Massimo Villone (il manifesto, 23.10.2020)
È davvero uno scherzo della storia leggere nello stesso giorno di Papa Francesco e della Corte costituzionale. Il Papa apre alle coppie gay, e chiede una legge sulle unioni civili. Non sembra dubbio che, senza toccare il sacramento del matrimonio, dalle sue parole derivi un riconoscimento con pienezza di diritti, inclusa la filiazione. Mentre la Corte quei diritti li amputa.
Il fatto. A una coppia di donne, unita civilmente, nasce in Italia un figlio a seguito di fecondazione eterologa all’estero. La registrazione allo stato civile viene rifiutata. Nel giudizio conseguente viene sollevata dal Tribunale di Venezia una questione di legittimità costituzionale della legge sulle unioni civili e del decreto sugli atti dello stato civile. Il diritto.
La Corte si orienta per l’inammissibilità delle questioni sollevate. Il riconoscimento dello status di genitore alla cd madre intenzionale “non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale”. E dunque il diritto non esiste.
Le secche parole del comunicato chiudono la strada anche a interpretazioni secundum Constitutionem.
Al momento abbiamo solo il comunicato, e vedremo poi in dettaglio le motivazioni. Intanto possiamo dire che la Corte sembra aver sviluppato una allergia per i temi eticamente sensibili, con eccezioni per la fecondazione assistita. Cappato insegna, e certo la Corte sa bene che il rinvio al legislatore può tradursi nell’inerzia del medesimo.
Dobbiamo poi cogliere che oggi la Corte va oltre.
Al rinvio al legislatore si aggiunge la contestuale negazione di un diritto costituzionalmente protetto. Sul tema la Corte ha già balbettato in passato. Nella sentenza 138/2010 lesse nel matrimonio di cui all’articolo 29 della Costituzione la disciplina del codice civile del 1942, che ovviamente conosceva soltanto la coppia formata da due persone di sesso diverso. Ben si poteva invece dare una lettura evolutiva, che tenesse conto del nuovo.
Un recupero parziale è venuto poi dalla sent. 170/2014, sul cosiddetto divorzio automatico o imposto nel caso di cambio di sesso di uno dei coniugi. La Corte ha rinviato al legislatore, dichiarando però la incostituzionalità e affermando il diritto a una piena tutela giuridica della coppia del medesimo sesso.
Quella pronuncia ha avuto poi riscontro nella tormentata legge sulle unioni civili. Ma la Corte tiene oggi a precisare che la coppia omosessuale, pur riconosciuta dalla legge nella forma dell’unione civile, non ha gli stessi diritti della coppia eterosessuale unita in matrimonio. La Costituzione non garantisce che li abbia.
Si faccia una ipotesi di scuola. Una legge che limitasse forzosamente il numero dei figli consentiti nel matrimonio sarebbe incostituzionale. Mentre una legge che ponesse lo stesso limite a una coppia omosessuale unita civilmente potrebbe non esserlo.
Che ne è del nucleo incomprimibile dei diritti, di cui tanto abbiamo letto nella giurisprudenza costituzionale? E della razionalità, intesa come tutela contro distinzioni discriminatorie? Il presidio costituzionale diventa evanescente. Forse la stessa legge sulle unioni civili sarebbe in principio reversibile, se “l’interprete del sentire della comunità nazionale”, e cioè il legislatore maggioritario, maturasse un umore avverso.
L’odierna pronuncia della Corte, magari al di là delle intenzioni, è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro il legislatore. E che dunque l’area della political question sottratta al suo scrutinio deve essere il più possibile ristretta.
“Il sentire della collettività” è sempre il pericolo più grande per i diritti e per le libertà, che sono appunto un argine contro quel sentire tradotto in potere politico e legislativo. Bisogna essere estremamente cauti nell’affermare che questa o quella fattispecie sfugge alla protezione costituzionale.
Non è un paese felice quello in cui ci si sente garantiti da un capo religioso piuttosto che dal massimo organo di giustizia costituzionale.
Ma potremmo suggerire che Papa Francesco tenga per i giudici della Corte un seminario di formazione, dal momento che più e meglio di loro si mostra consapevole del senso vero della Costituzione.
#COSTITUZIONE ED #EVANGELO: #DUESOLI. #PapaFrancesco apre la strada a #Dante2021: pagare il tributo a #Cesare «è un #dovere»; ma la #CorteCostituzionale con poco #spirito di #Salomone (di fronte a #due cittadine, unite civilmente, con bambino) fa "per viltade il #granrifiuto".
TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA: GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA! O NO?!
Il punto.
Coppie omosessuali, sì alla tutela civile ma niente confusione col matrimonio
Tante reazioni alle parole del Papa nel docufilm “Francesco”. Parla Fernández arcivescovo argentino: Sin da quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio ha distinto i due piani
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 23 ottobre 2020)
«Ciò che dobbiamo fare è una legge sulla convivenza civile, hanno diritto a una forma di tutela legale. L’ho già sostenuto». Al di là delle forzature mediatiche, l’opinione di Jorge Mario Bergoglio sulle coppie omosessuali non è cambiata negli ultimi dieci anni.
La frase riportata nel documentario di Evgeny Afineevsky ricalca quanto già espresso nel 2010 quando, come arcivescovo di Buenos Aires, si trovò ad affrontare l’infuocato dibattito sulle nozze gay, legge fortemente voluta dal governo dell’allora presidenta Cristina Fernández de Kirchner. A ricordarlo non sono solo accreditate fonti giornalistiche di quell’epoca, tra cui il biografo ufficiale Sergio Rubín.
Ieri, in un messaggio su Facebook, monsignor Victor Manuel Fernández, arcivescovo di La Plata, teologo e profondo conoscitore del pensiero bergogliano, ricostruisce la vicenda, sottolineando come per papa Francesco, prima e dopo l’elezione al soglio pontificio, si devono distinguere due piani.
Da una parte c’è il «matrimonio», termine con un significato preciso, applicabile solo a un’unione stabile tra una donna e un uomo, aperta alla vita. «Questa unione è unica, perché implica la differenza tra l’uomo e la donna, uniti da un rapporto di reciprocità e arricchiti da questa differenza, naturalmente capace di generare vita», spiega monsignor Fernández. Qualunque altra unione simile richiede, dunque, una denominazione differente.
Unioni o convivenza civile, appunto. «Jorge Mario Bergoglio ha sempre riconosciuto, pur senza necessità di definirli matrimonio, l’esistenza di legami molto stretti fra persone dello stesso sesso, che vanno al di là del mero piano sessuale, ma sono alleanze intense e stabili. Le persone si conoscono a fondo, condividono lo stesso tetto per molto tempo, si prendono cura e si sacrificano l’uno per l’altro», afferma l’arcivescovo di La Plata. In caso di malattia grave o morte, uno dei due può desiderare i suoi beni all’altro o che sia quest’ultimo ad essere consultato invece di un familiare. «Tutto ciò può essere contemplato da una legge» sulle «unioni civili o normativa di convivenza civile, non matrimonio».
A tal proposito, monsignor Fernández conferma quanto già riportato dai media dieci anni fa. Ovvero che, durante il dibattito sul cosiddetto matrimonio igualitario in Argentina, il cardinal Bergoglio sostenne tale posizione durante un incontro ad hoc con l’episcopato: la maggioranza, però, si oppose. La questione era già emersa subito il conclave del 2013. Da allora, il successore di Pietro ha sempre mostrato sensibilità e attenzione pastorale nei confronti delle persone omosessuali. Certo, nel docu-film di Afineevsky, Francesco torna espressamente sulla questione delle unioni civili e ripropone, da Papa, quanto già affermato dieci anni fa. Nemmeno questo, però, è un inedito assoluto.
Nel libro che raccoglie le conversazioni con il sociologo Dominique Wolton, pubblicato in Francia nel 2017 e in Italia l’anno successivo, c’è già un accenno al riguardo. «Matrimonio è un termine che ha una storia. Da sempre, nella storia dell’umanità e non solo della Chiesa, viene celebrato tra un uomo e una donna», afferma Francesco in Dio è un poeta, edito nel nostro Paese da Rizzoli. E aggiunge: «È una cosa che non si può cambiare. È la natura delle cose, è così. Chiamiamole unioni civili. Non scherziamo con la verità» .
Il documentario Francesco, insignito ieri, nei giardini vaticani, del premio Kinéo, non contiene, dunque, verità sconvolgenti.
Del resto non era questo l’obiettivo dell’autore, ebreo non praticante di origini russe. Attraverso la raccolta di testimonianze e immagini, il regista cerca di narrare le ferite del mondo: le guerre, l’esodo infinito a cui sono costrette migliaia di persone, i muri vecchi e nuovi, fisici e mentali che separano gli uni dagli altri. Il racconto segue il Papa nei suoi viaggi, da Lampedusa a Manila, da Ciudad Juárez a Santiago.
Il racconto su Francesco, spiega Afineevsky, però, piano piano, si è trasformato in un film «sull’umanità che commette errori, fatta di peccatori...». La chiave è contenuta in una frase di Oscar Wilde cara al Papa e riportata nel filmato: «Ogni santo ha un passato e ogni peccatore ha un futuro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA !!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
DUE SOLI.
La Costituzione, la "Monarchia" di Dante, e la indicazione di Papa Francesco...
Pagare il tributo a Cesare «è un dovere»! Con la precisazione evangelica sulla necessità di pagare le tasse allo Stato (secondo la Costituzione della Repubblica italiana), Papa Francesco apre la strada a Dante -2021 e, insieme, a una comprensione più precisa e contestualizzata della "misteriosa" figura che "fece per viltade il gran rifiuto".
Federico La Sala
Oltre la pillola.
Con le donne contro la clandestinità
di Giancarla Codrignani (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Gentile direttore,
« Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese». Ineccepibile : il ministro della Salute consente un aggiornamento della 194, imprevedibile solo da chi ha fatto conto di non capire che, se un farmaco è in grado di prevenire il concepimento, il tipo di procedimento farmacologico era in grado di arrivare a dosaggi tipo ’pillola del giorno dopo’ e pillola abortiva.
E siccome l’aborto chirurgico - tralasciando i risvolti psicologici che non possono mai essere dimenticati - significa pur sempre un intervento sanitario importante che rende ancor più traumatica la decisione della donna, sembra il minimo che le sia risparmiato un aggravio di sofferenza. D’altra parte le proteste dopo l’approvazione del testo ministeriale danno alle donne l’impressione di una volontà punitiva dei ’patriarchi’. Quindi, per una persona come me, credente e laica, che quando si rese conto del numero sterminato di aborti nel nostro Paese, in clandestinità, con interventi disperati e mortali, prese posizione favorevole a una regolamentazione per legge di una pratica disumana che vedeva colpevolizzata la donna, lasciata sola anche davanti al codice penale che voleva tale reato condannabile perché « contro l’integrità e la sanità della stirpe » (senza contare che lo stupro era reato non contro la persona, ma contro la morale ed era estinguibile con il ’matrimonio riparatore’), non ci sono obiezioni di merito. Tuttavia. Tuttavia, una pillola abortiva non è un analgesico o un integratore.
Non si può assumere un paio di volte all’anno. E mi sembra che, visto che non siamo ancora riusciti a conciliare la libertà e l’egoismo tra i due ’generi’, bisognerà porre in questione, laicamente, la relazione uomo-donna. L’art.1 della 194 dice che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Le parlamentari che votarono una legge difficile davano senso preciso a parole sostanzialmente inapplicate, ma poi non proseguì la discussione sulla cultura della legge. L’opposizione cattolica si curò solo di negarle legittimazione, nonostante la necessità di intervenire responsabilmente in una materia a cui nessuna donna ha mai dato valore positivo. Anche i più permissivi si fermano al ’sarebbe meglio non dovervi ricorrere’. Per giunta non è mai stata approvata l’educazione sessuale nelle scuole, anche se sappiamo che ormai i bambini di nove anni se la formano sui siti porno di internet : si suppone che, se una ragazzina di quindici anni è ’nei guai’, la famiglia la porti in un ambulatorio privato e non risulti nel conteggio della diminuzione degli aborti, praticati da sempre dalle coniugate, spesso anche recidive.
Quindi la pillola abortiva toglie dai problemi anche quanti vanno a pregare davanti alle cliniche ginecologiche. Ma a me, da cittadina, restano da chiarire i termini riferiti alla procreazione « cosciente e responsabile » e alla maternità libera e responsabile di cui parla la legge.
Supponendo che tutti sappiano come nascono i bambini, sia per il matrimonio, sia per la convivenza, sia per rapporti occasionali, chiedo : come vanno le relazioni tra la donna e l’uomo ? Motivazioni biologiche, sentimentali, avventurose a parte, sono relazioni ’vere’, in cui la gente si parla, dice le proprie esigenze, i propri desideri, compresa la disponibilità o meno di restare incinta ? Perché chi straparla solo di bambini dovrebbe sapere che il bambino deve essere ’voluto’. Si può indulgere su qualcuno che arriva ’per caso’, ma quando una donna ritiene di ’dover’ abortire quel rapporto era davvero ’libero e responsabile’, la donna, la moglie era consenziente ? Perché la donna ha diritto a decidere anche ’prima’, non solamente ’dopo’. Ma prima, oltre a parlare di sé e del loro entusiasmo, qual è stata la ’qualità’ del loro incontro intimo ?
Stando alla gestualità di uomini che picchiano e ammazzano le donne e al linguaggio sessista nei confronti di esseri umani femmine, stando al fatto che cantanti, sindache o parlamentari si attirano volgarità da cura psicanalitica urgente non appena aprono bocca, a letto non ci deve essere grande spreco di preliminari e galanterie. Lo dico dalla parte delle donne che, non so se ancora, ma certo ai tempi di discussione della 194 raccontavano dei loro disagi e delle paure di ’restarci’ che non permettevano grande condivisione.
Ma lo dico soprattutto per la pochezza maschile, che si contenta, a sentire le favole da bar, di potenza e numeri. Ma la qualità ? Va bene che anche a tavola spesso non siete un gran che, ma vedete che l’avanzamento della civiltà dal tempo delle ghiande si è evoluta : il pranzo e la cena sono riti, si invitano gli amici e, anche se la nostra non è la tavola di Versailles, usiamo tovaglie con i pizzi, porcellane e cristallerie anche quando in realtà sono piatti di coccio e vetri colorati, imbandiamo il meglio e dalla cucina escono vivande curate che finiscono in piatti accompagnati da posate e tovaglioli, magari di carta.
Le donne tengono ai ricami anche nei letti, ’poi’ magari anche loro non sono questa gran finezza, ma la maggioranza ai preliminari ci tiene, fa parte del rito del piacere ; voi uomini troppo spesso vi contentate delle pulsioni, i cattolici - poi - pensano al buon Dio e credono di sapere che cosa vuole anche lì, tutti o quasi in genere non percepiscono differenze tra l’erotismo e la pornografia.
Se ci fosse anche una semplice buona educazione non si verificherebbero ancora così tanti aborti. Perché la donna che non vuole un figlio vorrebbe essere rispettata se dice ’no’ a un uomo che la vuole ’prendere’. Perché un uomo deve anche domandarsi perché mai si sia sposato e non far prevalere il suo egoismo.
Se una donna resta incinta senza averlo voluto una qualche violenza ci sarà stata : anche solo di ignoranza della contraccezione. E da adesso in poi la Ru486 diventerà più ’facile’. Ma non è che d’ora in avanti si risparmiano le prevenzioni e, poi, la donna si mangia la sua pillola e l’uomo non ha più preoccupazione... Perché prendere un farmaco pesante tocca a lei : lui perde pure gli scrupoli morali, roba di lei, non me ne preoccupo. Perché potrebbe passare anche a lei una ’leggerezza’ per un problema sociale che tornerebbe a diventare clandestino. Come donne, come società, davvero ci sta bene ?
Giornalista, scrittrice direttrice di Server Donne già parlamentare della Repubblica italiana
Religiosità e criminalità.
Liberare la Madonna dalle mafie. Messaggio di papa Francesco
di Filippo Rizzi ed Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
La devozione mariana va salvaguardata da una religiosità fuorviata. Nel mirino «gli inchini» delle statue ai boss nelle processioni e la presenza dei clan nelle feste patronali
Liberare la Madonna dalla mafia. È il senso del nuovo intervento che papa Francesco ha voluto fare inviando un messaggio al francescano minore padre Stefano Cecchin presidente della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami), che ha deciso di porre il tema «religiosità e criminalità» al centro del proprio lavoro, dando vita a un Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio, a cui sono stati chiamati anche esperti esterni, rappresentati da magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile. È a loro che si rivolge il Papa nel messaggio inviato in vista del convegno che la Pami realizzerà il 18 settembre prossimo.
«La devozione mariana è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza - scrive Francesco nel suo messaggio datato significativamente 15 agosto, festa dell’Assunzione -, liberandolo da sovrastrutture, poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà, onestà e solidarietà».
Il riferimento, neppure troppo velato, è all’uso che le varie mafie fanno degli eventi religiosi - processioni e feste patronali in particolare - per mostrare la propria presenza sul territorio e anche per creare consenso facendo proprio leva attraverso la fede popolare. Negli anni passati accadeva spesso di leggere degli “inchini” che le statue della Madonna o del santo patrono, facevano verso la casa del boss locale, segno di omaggio e, nello stesso tempo, di riaffermazione del potere in quel territorio. Leggi anche
E il Pontefice, che già in passato ha fatto sentire la propria voce contro il crimine organizzato e le varie mafie, ribadisce con forza come sia «necessario che lo stile delle manifestazioni mariane sia conforme al messaggio del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa».
Ecco allora che uno «dei criteri per verificare ciò, è l’esempio di vita dei partecipanti a tali manifestazioni, i quali sono chiamati a rendere dappertutto una valida testimonianza cristiana mediante una sempre più salda adesione a Cristo e una generosa donazione ai fratelli, specialmente i più poveri». Insomma le comunità locali vigilino sulle feste patronali e soprattutto su coloro che in quelle occasioni si presentano come devoti, nascondendo intenti tutt’altro che devozionali. E ai fedeli, quelli veri, papa Francesco chiede di «assumere atteggiamenti che escludono una religiosità fuorviata e rispondano invece a una religiosità rettamente intesa e vissuta».
Invito che il Pontefice estende anche ai Santuari mariani, affinché «diventino sempre più cittadelle della preghiera, centri di azione del Vangelo, luoghi di conversioni, caposaldi di pietà mariana, a cui guardano con fede quanti sono alla ricerca della verità che salva». Dunque, conclude il Papa, ben venga questo lavoro che la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) intende avviare con la creazione del Dipartimento.
Un passo nuovo, che coinvolge anche le realtà del territorio non solo legate alle parrocchie o alle diocesi. Del resto queste ultime, in particolare nelle regioni con la maggior presenza delle organizzazioni di stampo mafioso, già da tempo sono intervenute con documenti e anche decisioni che hanno portato alla rottura con il passato.
Lo stesso papa Francesco, come abbiamo detto, ha espresso con forza l’impossibilità di far convivere una fede religiosa autentica e l’appartenenza alla mafia. Nella spianata di Sibari, durante la sua visita alla diocesi di Cassano all’Jonio il 21 giugno 2014, papa Bergoglio nell’omelia della Messa arrivò a dire che «coloro che seguono nella loro vita questa strada del male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati».
Concetto ribadito nell’omelia della Messa celebrata poco più di quattro anni dopo (il 15 settembre 2018) a Palermo in ricordo del beato don Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore».
Per questo «ai mafiosi dico: cambiate fratelli e sorelle. Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle. Io dico a voi mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».
E se, come disse nella visita a Napoli il 21 marzo 2015, «un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza», papa Francesco richiama tutti i credenti a essere vigilanti contro le distorsioni che della devozione mariana viene fatta. Un compito che richiama le coscienze di tutti all’impegno. E a non voltare le spalle quando si manifestano lungo i borghi della nostra Penisola queste deviate devozioni religiose.
Pami.
Culto mariano, un laboratorio per difendere la devozione dalla criminalità
Teologi, ma anche magistrati e giudici, nel Dipartimento creato nella Pontificia accademia Padre Roggio: studiare le cause delle deviazioni. Il criminologo Iadeluca: riti per odio e omertà
di Filippo Rizzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
Un dipartimento ad hoc all’interno della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) per studiare i fenomeni criminali e mafiosi e così «liberare la figura della Madonna dall’influsso delle organizzazioni malavitose». È quanto è allo studio di questa Istituzione pontificia per evitare di strumentalizzare la figura della Vergine da parte dei boss e dei clan criminali presenti nel nostro Paese: dalla Lombardia alla Calabria. Un centro studi sorto soprattutto sulla scorta dei recenti interventi di papa Francesco a questo riguardo: tra questi in particolare quello pronunciato, il 21 giugno del 2014, dove il Vescovo di Roma nella piana di Sibari in Calabria pronunciò parole inequivocabili: «La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati».
E il prossimo 18 settembre a Roma la Pami nel corso di un convegno traccerà le linee guida di questo nuovo Dipartimento che coinvolge (una trentina di persone): non solo teologi e mariologi ma anche magistrati (molto di loro della Dda, Direzione distrettuale antimafia), criminologi, avvocati, membri delle Forze dell’Ordine e sindaci di importanti città.
«Persone che ogni giorno - spiega il mariologo padre Gian Matteo Roggio, appartenente alla Congregazione dei missionari di Nostra Signora della Salette e tra i principali ispiratori di questa nuova sezione della Pami - si confrontano con il fenomeno mafioso, lo contrastano all’insegna della cultura della legalità. In un certo senso come recita il documento programmatico di questo nuovo dipartimento siamo chiamati tutti a un autentica “teologia della liberazione” dalle mafie».
Un evento assicurano gli organizzatori che ha anche il sostegno di papa Francesco. «Per il Convegno - racconta padre Roggio - il Papa ha inviato un messaggio chiaro e forte che porta la data del 15 agosto scorso. E caso singolare il documento reca la firma di Francesco dal palazzo del Laterano il luogo adiacente alla Cattedrale di Roma. In questo testo Francesco chiede a chi si professa autenticamente cristiano di salvaguardare la devozione mariana nella sua originaria purezza».
L’auspicio di questa task force di esperti è proprio quella di liberare anche idealmente luoghi simbolo come alcuni Santuari mariani del nostro Meridione - basti pensare - a quello della “Madonna di Polsi” nel cuore dell’Aspromonte dall’uso distorto di devozioni che ne fanno oggi le mafie odierne. «Il rito dell’iniziazione è la liturgia che accompagna l’ingresso del neofita nell’organizzazione.
È simile al “Battesimo” e deve essere considerata una “sorta di rinascita”, ovvero la nascita a nuova vita - spiega il criminologo Fabio Iadeluca -. Nella ’ndrangheta, in modo particolare rispetto a cosa nostra, alla camorra, alla sacra corona unita ed altre forme associative mafiose pugliesi, le forme rituali rappresentano l’essenza stessa dell’organizzazione e ne disciplina la vita dei suoi affiliati».
E aggiunge un dettaglio: «Monitorando questi episodi e intercettazioni ambientali a preoccuparci è stata l’adulterazione delle tradizionali venerazioni alla Madonna o ad importanti santi del Sud, penso in particolare a san Michele Arcangelo che con queste pratiche si trasformano in figure vendicatrici e cariche di odio; si tratta di usanze che servono a tutelare tutta una rete di omertà su cui si reggono queste realtà. Sono quasi sempre riti di iniziazione violenti con l’uso di santini e immagini sacre provenienti dal nostro patrimonio di fede cattolica».
Agli occhi di padre Roggio l’appuntamento di settembre servirà a fare chiarezza su quanto il magistero ecclesiale dice a riguardo. «Non è in discussione quanto da tempi non sospetti la Chiesa - è l’osservazione - si sia pronunciata per dire no a questi fenomeni e ribadire che tutto questo non appartiene alla corretta dottrina e spiritualità. Ma lo sforzo ulteriore che il nostro osservatorio vuole offrire è di andare alle radici culturali e antropologiche che fanno scaturire queste deviazioni religiose». Una sfida dunque di lungo termine.
«Penso che gli esempi di don Diana e don Puglisi e di come la Chiesa abbia mostrato proprio ai boss - è la riflessione finale - che questi miti sacerdoti erano dei modelli da imitare e non il contrario. Spesso viene usata dalla “cultura mafiosa” la figura della Vergine come un modello di obbedienza passiva di fronte al potere dominante. Essa viene raffigurata come una donna capace “oleograficamente” solo di piangere per la morte di un figlio. Bisogna dire basta a questo uso distorto dell’immagine della Madonna e ricordare attraverso la voce di tutti che ogni atto compiuto nella sua vita terrena e celeste è stato quello di essere in ascolto di tutti e in comunione fraterna con tutti gli uomini di buona volontà proprio come ci mostra il Vangelo quando ci parla di Lei a cominciare dal suo “fiat” all’arcangelo Gabriele».
Tina Anselmi, prima ministra donna nella storia repubblicana
di Caterina Segata (Il Mulino, 29 luglio 1976)
Il 29 luglio 1976 Tina Anselmi viene nominata ministra del Lavoro e della Previdenza Sociale nel terzo governo Andreotti, prima donna nella storia della Repubblica italiana. Una data che rappresenta una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione femminile in Italia, un percorso lento e sofferto verso una parità di genere che ancora oggi non si può certo dire sia un traguardo raggiunto nella famiglia, nel lavoro e nella vita politica.
Nei quarant’anni successivi a quella nomina, la quota di donne ministre è sempre stata minoritaria; mai una donna è stata presidente della Repubblica né presidente del Consiglio dei ministri, e in alcuni ruoli chiave dei governi le donne sono state finora assenti o quasi.
Tina Anselmi nella sua autobiografia, Storia di una passione politica, scritta nel 2006 insieme ad Anna Vinci, invita alla perseveranza: “Io ripeto sempre, a cominciare dalle mie nipotine, come lo dicevo alle filandiere del Veneto nel dopoguerra, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere, se viene meno la nostra vigilanza. Noi non possiamo abdicare, dobbiamo ogni giorno prenderci la nostra parte di responsabilità, perché solo così le vittorie che abbiamo ottenuto diventano permanenti” (p. 87).
La storia di Tina Anselmi è quella di una donna perseverante sin dall’adolescenza. Di una ragazza di diciassette anni partigiana, staffetta della Brigata autonoma Cesare Battisti, coraggiosa e forte, che dall’esperienza della guerra, della morte e della lotta contro il nazifascismo prese il coraggio per un impegno politico fondato sui valori della libertà e della democrazia. Quella storia ci racconta di una donna nata nel 1927 a Castelfranco Veneto e poi vissuta per gran parte della sua vita attiva a Roma, al fianco di Moro e Zaccagnini, suoi punti di riferimento insieme a De Gasperi. Ci racconta di una nomina a ministra meritata e motivata da un lungo percorso politico: sindacalista, incaricata nazionale dei giovani della Dc nel 1950, nel 1951 nel Consiglio nazionale del partito, eletta deputato nel 1968, Sottosegretaria al lavoro nel quinto governo Rumor e nel quarto e quinto governo Moro in continuità da marzo 1974 alla nomina a ministra. Un percorso che proseguirà con alti e bassi: la riforma sanitaria, la legge sulla parità nel lavoro, la riforma del diritto di famiglia ma anche gli anni di piombo, il rapimento Moro a pochi giorni dal suo secondo incarico ministeriale alla Sanità, gli attentati, le uccisioni che colpirono la classe dirigente di allora, fino all’incarico da lei considerato il più difficile a capo della Commissione parlamentare sulla P2 assunto il 9 dicembre 1981 e terminato il 10 luglio 1983, ben oltre i sei mesi inizialmente previsti dalla legge che la istituiva.
Nel libro La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi (Chiarelettere, 2016), sono riprodotti gli appunti che lei prendeva nel corso delle audizioni in commissione e negli incontri successivi, a partire da quello con Nilde Iotti il 30 ottobre 1981, in cui l’allora presidente della Camera le propose di assumere la presidenza della commissione inquirente. Ma riemergono alla memoria grazie alle pagine dei sui diari anche documenti come l’intervento di Tina Anselmi alla Camera dei deputati il 9 gennaio 1986, oltre ai contributi di Dacia Maraini, Giovanni Di Ciommo (segretario della commissione di inchiesta) e Giuliano Turone, il magistrato che insieme a Gherardo Colombo dispose la perquisizione che portò al ritrovamento dell’elenco degli aderenti alla P2, oltre 900 nomi riportati in appendice al libro. Quei diari ci riportano a tratti un mondo surreale, per quanto tristemente noto.
L’immagine che traspare è quella di una persona laboriosa, sobria, dedicata; quel genere di persona che fa la differenza attraverso l’impegno e il lavoro, intenta a bere un calice amaro: guardare in faccia e ascoltare le voci di uomini - pochissime le donne - che raccontano una storia parallela alla vita democratica, coperta, segreta, fatta di sotterfugi, di doppi giochi, di commistione tra potere politico, finanziario, imprenditoriale, giudiziario; guardare in faccia l’ombra, i depistaggi, le bugie, le macchine del fango, per portare alla luce i rischi per lo Stato. Suonano forti le parole dette alla Camera il 9 gennaio 1986 a poco meno di tre anni dalla conclusione dei lavori della Commissione: la Loggia P2 è stata un sistema sofisticato e occulto di controllo, condizionamento e manipolazione della democrazia.
La potremmo immaginare stanca, smarrita e disillusa, ma invece la ritroviamo salda nei suoi principi, perseverare nello sforzo e nell’impegno, spronare ancora negli anni a seguire le persone all’impegno e alla determinazione, anche in politica. Fede e ragion di Stato e un percorso lungo nelle istituzioni, di cui con ogni probabilità vedeva e si teneva salda ai punti di forza pur non negando i punti di debolezza. Emblematiche a questo proposito le parole di apertura dell’intervento parlamentare che sottintendono quanto e cosa Tina Anselmi si aspettasse davvero dalla classe politica che la stava ascoltando: “Onorevole Presidente, Onorevoli colleghi, signor Ministro, voglio esordire osservando che la vicenda della Loggia massonica P2 è stata per lungo tempo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica [...]; com’è altrettanto indubbio che, successivamente alla relazione, nessuno dei temi politici che in essa venivano enucleati e analizzati è stato oggetto di ulteriore riflessione e dibattito”.
Quei diari hanno il grande pregio di raccogliere le parole delle persone e cercare di dare il nome, che hanno, alle cose. Uno sforzo preciso, che richiama doti di coerenza tra pensiero e azione e appunto di perseveranza nell’azione politica anche davanti a un potere declinato al maschile che offre di sé la peggiore delle immagini.
Il valore che Tina Anselmi riconosceva alla libertà della persona e alla possibilità di autodeterminazione appare declinato nella sua vita politica con la moderazione, la laicità e l’accettazione della diversità di opinioni e di visioni del mondo, in una regolata e rispettosa dialettica democratica. Una fiducia nella forza delle istituzioni democratiche incrollabile e una buona dose di gioia di vivere: “Io non sono una che rimugina sul passato. O si lamenta. Fortunatamente la gioia di vivere mi è sempre stata alleata. Ieri come oggi. Chissà, oggi anche di più. Oggi che sono vecchia” (Storia di una passione politica, cit., p. 142).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DEMOCRAZIA, BUONA EDUCAZIONE, E RISPETTO PER LA REPUBBLICA. LA LEZIONE DI TINA ANSELMI.
FLS
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio... *
Un vescovo emerito scrive.
Evasori fiscali, non si tradiscono così Dio e la nazione
di Luigi Bettazzi (Avvenire, mercoledì 8 luglio 2020)
Egregi evasori fiscali,
(e-gregio vuol dire infatti "fuori, al di sopra del gregge", della gente comune) da vescovo più giovane e da presidente di Pax Christi, Movimento internazionale per la pace, m’era venuto di scrivere ai politici del tempo - ad esempio al democristiano Benigno Zaccagnini e al comunista Enrico Berlinguer - invitandoli a essere coerenti con le loro scelte politiche e convergenti al bene della nazione, ora, al termine della mia vita (ho ormai più di 96 anni), mi viene di scrivere una lettera a voi.
La pandemia che stiamo vivendo ci ha obbligati a vivere più ritirati, quindi più pensosi per la nostra vita personale e per il bene della collettività. Ed è così, ad esempio, che ci siamo resi conto del lavoro delle varie mafie che, attente a evitare situazioni più clamorose, come quelle che finiscono in uccisioni e stragi, sfruttano la situazione per aumentare le loro ricchezze, ad esempio con prestiti a usura a chi non riesce a trovare mezzi legali per sovvenire alla mancanza di danaro causata dalla limitazione del lavoro o dalla sua perdita. Al contrario, v’è chi arriva a frodare per avere sovvenzioni a cui non ha diritto.
Questo ci ha fatto pensare come le limitazioni, sia del sistema sanitario antecedente come dei provvedimenti per arginare l’espandersi della pandemia e frenare le crisi dell’industria e delle aziende, derivi anche dalle minori disponibilità economiche dovute anche a quanto viene evaso da chi non paga le tasse, soprattutto di chi, con la ricchezza, riesce a trovare i mezzi per portare i suoi beni nei cosiddetti paradisi fiscali. Questa è una grossa ingiustizia perché quanto viene portato fuori dalla nazione è stato raggranellato con il lavoro dei concittadini e utilizzando le leggi (e le sottigliezze) dello Stato. È triste pensare che la nazione vi abbia fatti crescere e sviluppare fino al punto di poterla tradire.
Non voglio pensare che tra voi ci siano quelli che formalmente figurano come rispettosi - o addirittura partecipi attivi - del cristianesimo che ha accompagnato la storia della nostra nazione, ma poi trasgrediscono il suo messaggio fondamentale, che è quello di non chiudersi nel proprio egoismo, ma di aprirsi agli altri, proprio cominciando dai più piccoli, dai più poveri, dai più emarginati.
Così fanno i boss delle varie mafie, che poi a copertura delle loro violenze proteggono le devozioni popolari e se ne fanno riverire, o quei politici che nel mondo ostentano oggetti e proteggono frange di strutture religiose per coprire le loro minori attenzioni umane. Non vorrei che anche voi, magari sovvenendo pubblicamente alcune opere di solidarietà, vogliate così "scontare" la vostra ingiustizia di fondo.
È vero che alle volte, nel mondo, le tassazioni possono sembrare eccessive o ingiuste. Ma, in democrazia, si devono trovare i mezzi, soprattutto da parte dei più abbienti come siete voi, per correggerle, non per avere un pretesto per evaderle, portando il proprio danaro negli... inferni fiscali.
Perché purtroppo il danaro diventa quasi una divinità, anzi la vera alternativa a Dio: aveva già detto chiaramente Gesù (usando un termine locale) che non si possono servire due padroni: o Dio o mammona (il danaro).
Non so se anche qualche parroco vi ha mai detto che l’evasione fiscale è peccato mortale: l’ha detto qualche tempo fa laicamente Romano Prodi, ve lo ripete oggi un vescovo, anche se emerito. Mi verrebbe da ripetere la frase forte che san Giovanni Paolo II proclamò, nella valle di Agrigento, contro le mafie: "Convertitevi! Un giorno dovrete risponderne di fronte a Dio". E allora non ci saranno pretesti e coperture.
Vi chiedo scusa se vi ho attaccati pubblicamente. Spero comunque di avervi fatto pensare.
Da vescovo, pregherò per voi, per le vostre famiglie e per le vostre attività, ovviamente purché siano oneste.
Vescovo emerito di Ivrea
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
VIVA L’ITALIA !!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?! *
A cento anni dalla nascita.
Giovanni Paolo II. «Totus tuus»: una vita per amore
Il suo sguardo fisso in Cristo ci ha insegnato che tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa Il suo amore per Maria è un faro vitale, una strada maestra ...
di Gualtiero Bassetti (Avvenire, domenica 3 maggio 2020)
Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II - Papa da otto anni, sempre più amato e popolare - animò ad Assisi la Giornata di preghiera interreligiosa per la pace, rimasta nella storia. In quella come in molte altre occasioni, le telecamere di tutto il pianeta lo immortalarono come lo ricordiamo: intimamente, quasi dolorosamente raccolto, in dialogo profondissimo con Dio, la cui volontà non può che essere il bene e la pace di tutti. Pochi furono i testimoni di un altro momento, intenso e dolcissimo, che precedette lo storico incontro.
Il giorno prima, 26 ottobre, il Papa visitò Perugia, oggi mia diocesi. Incontrò tutte le fasce di popolazione, in particolare gli amati giovani. In un saluto a braccio, seppe fondere la bellezza del genio italiano e cristiano - l’arte di una piazza tra le più belle d’Italia - col prorompente entusiasmo dei giovani che lo stavano festeggiando.
«Mi piace stare qui, mi piace molto!», non poté trattenersi dall’esclamare. A Perugia trascorse la notte, in una struttura diocesana fuori porta voluta da un mio predecessore, il vescovo mantovano Giovanni Battista Rosa. Chi salutò il Papa al mattino, alla partenza, ricorda il suo sguardo limpido affacciarsi dalla terrazza sulla valle assisana, dove stava recandosi. Avvolse in una lunga occhiata sia la bellezza quasi mistica di quel panorama, sia la pace che ne emanava, chiedendo forse a Dio, col Salmo 19, di tradurla in tutte le lingue del mondo. Ma solo una fu la testimone del suo ultimo sguardo: la Vergine Maria, raffigurata, in una semplice statua, su una colonna al centro della terrazza.
Totus tuus. La dedica a Maria nel motto apostolico di Karol Wojtyla è tratta da una frase di san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Tuus totus ego sum, et omnia mea tua sunt».
Non è, come chiarì lo stesso pontefice, una semplice formula di devozione: si radica nel mistero della Santissima Trinità. Alla potenza teologica unisce una vigorosa efficacia. San Giovanni Paolo II era uomo di pensiero quanto di azione; era abituato così, sia dalla sua storia personale, sia da quella del suo popolo. Un’assonanza, una comune origine scritturale, si coglie nella mia cattedrale in un gonfalone votivo di scuola peruginesca, realizzato nella pestilenza del 1526 - una delle tante che sconvolsero la città e l’Europa. In un cartiglio, il popolo, ai piedi dei santi e della Vergine, grida: “Salus nostra in manu tua est, et nos et terra nostra tui sumus”.
Altri approfondiranno le concordanze storico- artistiche: ci sono, a Dio piacendo, inediti filoni di bellezza di cui trovare origini e parentele, per scoprire, una volta di più, quanti canali uniscano l’umanità. A me interessa sottolineare l’efficacia della preghiera, quando davvero affida tutto l’essere. Siamo tuoi. La preghiera è universalità, coralità, unione fraterna, come ricorda papa Francesco; e pure intimità, sponsalità, unione mistica, come il Totus tuus di Wojtyla, che comunque, sulle labbra di un papa, sigilla l’offerta dell’intera umanità. Maria è via privilegiata al Cristo, di cui fu figlia e madre, come dice Dante con poesia incomparabile.
Madre di Gesù, madre di tutti, dalle nozze di Cana all’affidamento a Giovanni, ai piedi della Croce. Cristo è veramente risorto! E ci attende come attese Maria, con le sorprese della gioia. In questi giorni difficili, ho rinnovato, sia come supplica sia come ringraziamento, l’affidamento della città e del mondo alla Vergine Maria: le parole accorate che il popolo ha reiterato nei secoli. Tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa. È una delle eredità di san Giovanni Paolo II, forse la più significativa. Raccogliere e offrire a Dio, nella preghiera e nell’azione, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del mondo; gli aneliti alla pace, alla sicurezza, alla liberazione dai mali dell’anima e del corpo. Portare briciole di umanità dove dominano ancora barbarie, sopruso e ingiustizia, egoismo e indifferenza.
Annunciare amore in nome di Cristo, come faceva san Giovanni Paolo II, significa portare Cristo stesso.
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?!
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è) !
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! (Federico La Sala)
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso) : in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?»(Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?! Boh?! O no?!
Consulta.
Cartabia, "Costituzione bussola nell’emergenza. No a leggi speciali"
Nella relazione sull’attività della Corte costituzionale, la presidente sottolinea come "la chiave per superare la crisi" sia "la leale collaborazione di tutte le istituzioni"
di Antonio Maria Mira (Avvenire, martedì 28 aprile 2020)
"La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza". È uno dei passaggi principali della relazione della Presidente Marta Cartabia sull’attività della Corte costituzionale nel 2019. Solitamente letta alla presenza del Capo dello Stato, ma quest’anno diffusa solo online a causa dell’emergenza Covid-19, che trova molto spazio nel documento. La relazione si apre proprio con un "pensiero di sentita partecipazione al dolore per la scomparsa di migliaia di nostri concittadini e di sincera gratitudine" per tutti coloro che in questo "non facile frangente assicurano i servizi essenziali della Repubblica con competenza, coraggio e generosità". Parole molto sentite dalla presidente della Consulta che è stata contagiata ma è guarita.
E nella parte conclusiva Cartabia torna sul tema. Ricorda che "la Costituzione non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per “navigare per l’alto mare aperto” nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra i cittadini”. La nostra Repubblica ha attraversato varie situazioni di crisi, a partire dagli anni della lotta armata, "senza mai sospendere l’ordine costituzionale", ma modulando i principi sui criteri di "necessità , proporzionalità , bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità" .
E oggi "l’intera Repubblica e tutte le sue Istituzioni - politiche e giurisdizionali, statali, regionali, locali - stanno indefessamente lavorando nella cornice europea per il comune obiettivo di servire al meglio le esigenze dei singoli cittadini e dell’interacomunità".
Una strada che dev’essere assolutamente perseguita perchè "i momenti di emergenza richiedono un sovrappiù di responsabilità ad ogni autorità e in particolare agli operatori dell’informazione, che svolgono un ruolo decisivo per la vita sociale e democratica". Un indiretto riferimento all’attualità emerge anche nel passaggio relativo a giustizia e carcere. "Perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività , ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete". È il percorso che la presidente della Corte indica alla magistratura di sorveglianza. Parole particolarmente significative dopo le polemiche per le scarcerazioni di boss della mafia.
Bilanciamento e collaborazione sono concetti che ritornano più volte nella Relazione, in particolare nei confronti del Parlamento e delle Regioni. La presidente invita così a "recuperare una virtuosa collaborazione, nel rispetto dei rispettivi ambiti di competenza", tra la Consulta e il legislatore statale. Cartabia pone la sua attenzione su due casi emblematici: la legittimazione del singolo parlamentare a far valere i vizi del procedimento legislativo, attivando un giudizio per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, nel caso dell’approvazione della legge di bilancio; e la vicenda sul fine vita, su cui "la Corte costituzionale ha atteso per un anno che il necessario intervento arrivasse per via legislativa, per poi dover risolvere il caso autonomamente".
A questo proposito per la presidente "il terreno su cui si fa urgente, direi improcrastinabile, la cooperazione da parte del legislatore è quello delle cosiddette "sentenze monito", o più propriamente inviti". Infatti, ricorda,, "accade frequentemente che nelle motivazioni delle sentenze della Corte costituzionale di accoglimento, di rigetto o di inammissibilità, si incontrino espressioni che sollecitano il legislatore a intervenire su una determinata disciplina, allorché la Corte individui aspetti problematici che sfuggono alle sue possibilità di intervento e che richiedono invece un’azione delle Camere". Spesso, osserva Cartabia, "i "moniti" danno luogo al fenomeno delle cosiddette "doppie pronunce": in un primo momento, la Corte Costituzionale indica al Parlamento i punti problematici che richiederebbero una modifica legislativa; ma se il problema persiste e continua ad essere portato all’esame della Consulta, questa non può che porre essa stessa rimedio, utilizzando gli strumenti normativi a disposizione".
E un altro richiamo, molto attuale, è alla collaborazione fra Stato centrale e Regioni. "A volte - osserva criticamente Cartabia - tale collaborazione manca, altre volte arriva troppo tardi: molti giudizi di legittimità in via principale, portati all’esame della Corte costituzionale dallo Stato o dalle Regioni, si risolvono con la cessazione della materia del contendere o l’estinzione del giudizio, in seguito a modifiche apportate alla normativa impugnata durante la pendenza del giudizio spesso all’esito di negoziazioni tra Stato e Regioni. Ciò - ricorda - è accaduto ben 35 volte nel 2019". La Consulta "non può che rallegrarsi se, dopo che è sorta una controversia tra Stato e Regioni, si riesce a trovare una composizione politica in nome della collaborazione mancata in precedenza". Tuttavia, denuncia Cartabia, in questo modo il giudizio davanti alla Consulta "finisce per essere utilizzato come uno strumento di pressione in vista di ulteriori valutazioni ed eventuali accordi, con un inutile cospicuo investimento di tempo, energie e risorse" da parte della Corte.
Resistere ancora, a distanza di settantacinque anni
di Teresa Simeone *
La domanda, che ritorna ogni anno, con periodica vis polemica, “Che senso ha celebrare la Festa della Liberazione? E liberazione da cosa, se ormai viviamo in una democrazia?” chiama ancora in causa la nostra concezione di libertà e di società e rimanda a eventi che, sia pure storicamente collocati, continuano a interrogarci come cittadini e soggetti eticamente connotati.
Non è certo un falso il consenso altissimo di cui per lungo tempo il regime riuscì a godere, almeno fino al 1938, anche presso raffinati intellettuali della cui adesione si servì per legittimare, in campo internazionale, la propria continuità. Tale consenso poi, lentamente, iniziò a scendere per dissolversi nell’impietosa conta giornaliera dei morti in guerra: rinnegata dai suoi stessi capi in quel luglio del ’43, l’ideologia fascista non cessò di esistere ma si autoconfinò in un’area del Nord, lì ridotta a patetico ologramma del Terzo Reich. Dal tragico 8 settembre, com’è storia, iniziarono l’occupazione nazista, le massicce deportazioni di ebrei verso i campi di sterminio e si consumarono le stragi di civili più feroci che il territorio italiano abbia vissuto. Stragi che raggiunsero il culmine intorno alla metà del ’44, con il consolidarsi delle formazioni resistenziali, finalizzate a spezzare il legame tra la popolazione e i partigiani italiani, che avevano unito la propria alle voci dei migliaia che combattevano nel resto d’Europa. E, finalmente, quel 25 aprile, scelto come data simbolica della rinascita, si poté festeggiare.
Tre giorni dopo, ha scritto Norberto Bobbio, quando i partigiani entrarono a Torino e i tedeschi, seguiti dai fascisti, furono messi in fuga, “Fu come se un vento impetuoso avesse spazzato d’un colpo tutte le nubi e alzando gli occhi potessimo rivedere il sole di cui avevamo dimenticato lo splendore; o come se il sangue avesse ricominciato a scorrere in un cadavere, risuscitandolo. Un’esplosione di gioia si diffuse rapidamente in tutte le piazze, in tutte le vie, in tutte le case. Ci si guardava di nuovo negli occhi e si sorrideva.” Si poteva ricominciare a sperare. “Eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi.”[1]
Quella libertà, per tutti, per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro, come disse in seguito Arrigo Boldrini, non fu un regalo né un miracolo, ma la conquista di chi, contro ogni calcolo sulla sproporzione delle forze, aveva creduto nell’“ottimismo della volontà” e con coraggio aveva scelto da che parte stare. Lo fece in giorni bui, in cui decidere non era ininfluente per la propria vita. E questo avvenne in tutta Europa. Chi contesta la Resistenza dovrebbe dire, con onestà, cosa avrebbe fatto in quei giorni e cosa avrebbe voluto: la vittoria della Germania nazista? L’estensione del potere hitleriano sull’Europa intera? I campi di sterminio per quanti non rientrassero nel concetto di “normalità” fisica, sociale, religiosa, politica, stabilita dal fuhrer? O forse avrebbe preferito che non sorgesse, dalla coscienza dei popoli, un movimento di ribellione e che si lasciasse ai soli eserciti in campo la difesa della propria libertà? Che non si sentisse il dovere di reagire, quel dovere che solo ha consentito di salvare la dignità di cittadini e di esseri umani? Che permise ad Alcide De Gasperi nel ‘46, alla conferenza di Parigi, di non piegare la testa e di pronunciare parole autenticamente importanti perché di un antifascista convinto, portavoce di un paese che aveva saputo liberare se stesso dal regime e rivendicare una presenza proprio grazie alla lotta di liberazione. Facendo pesare, perché ce ne erano stati a migliaia, i morti di questa battaglia di civiltà.
Tanti uomini e tante donne vi avevano partecipato, ciascuno a suo modo: imbracciando le armi; organizzando la difesa; aiutando i gruppi partigiani; ciclostilando volantini; anche solo tacendo e non tradendo; nascondendo chi era braccato; procurandogli documenti falsi; rifiutando di allearsi con il nemico e di lavorare per lui, come fecero gli oltre 600.000 IMI, troppo a lungo ai margini della storiografia, forse perché simbolo di una sconfitta, di una tragedia che il paese voleva dimenticare in fretta, ma di cui la ricerca sui documenti sta faticosamente ricostruendo il dramma. Costoro, intenzionalmente non equiparati dai nazisti a prigionieri di guerra e dunque privati delle tutele loro dovute, “invitati” a collaborare, rifiutarono di arruolarsi nelle forze armate tedesche e repubblichine, pagando nei lager con condizioni durissime, spesso con la vita, la loro “resistenza passiva”.
Resistenza armata, Resistenza disarmata, Resistenza civile: forme diverse assunse la Resistenza, ma ci fu. E dev’essere ricordata perché fu storia di tanti. Non di tutti, certamente. E anche di questo non sarebbe giusto chiedere conto. Erano tempi difficili, di scelte tragiche cui, per fortuna, non siamo più chiamati: la massiccia e pervasiva azione d’indottrinamento fascista, dall’atto del concepimento (la campagna demografica entrava anche nelle stanze da letto) fino all’età adulta, con quella che Philip V. Cannistraro ha definito la fabbrica del consenso, il controllo dell’informazione e la repressione di ogni forma di dissenso e una liturgia che puntava all’adesione quasi religiosa, sicuramente mistica, rendeva gli effetti dell’apparato propagandistico difficilmente eludibili. La comprensione della difficoltà di sottrarvisi, però, non deve esonerarci dal chiederci “cosa sarebbe successo se...”. I denigratori della Resistenza tendono a sottovalutarne il peso e a riportare al solo contributo degli alleati la conquista della libertà. Questo non corrisponde al vero, ma solo a ciò che una parte politica non avrebbe voluto che fosse accaduto, e cioè la presa di coscienza di chi non accettava il fascismo.
In un celebre discorso che Gustavo Zagrebelsky tenne a Torino il 25 aprile del 2015, si chiese: “E se la guerra si fosse conclusa esclusivamente con la conquista da parte degli eserciti degli Alleati? Se le autorità militari anglo-americane non avessero avuto a che fare con il Corpo Volontari della Libertà, con i Comitati di Liberazione Nazionale e con i rinati partiti politici che ai Comitati avevano dato vita? La sconfitta del III Reich e della repubblica di Salò non fu certo determinata soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle forze della Resistenza interna. Ma, se questa non ci fosse stata, la parola adatta a descrivere la situazione del nostro Paese sarebbe “debellatio”, annichilimento. Gli Alleati trovarono un popolo che lottava per la sua identità, oltre che per il proprio onore e il proprio futuro.” E ancora: “In ogni caso, la Resistenza in Italia, a differenza di ciò che accadde in Germania, fu ciò che permise al nostro Paese di salvaguardare la propria autonomia, di sedere nel contesto internazionale tra le nazioni libere e di ricominciare a prendere nelle nostre mani l’opera della ricostruzione. Il primo passo fu l’Assemblea Costituente, il primo parlamento democratico, eletto a suffragio universale, del nostro Paese; il primo frutto fu la Costituzione.”
Ed è proprio intorno alla Costituzione che si è formato un nuovo concetto di identità e di comunanza nazionale, una memoria condivisa, un sentimento diffuso di appartenenza con la fedeltà che la Costituzione richiede, come ci ricorda il presidente emerito dell’ANPI , Carlo Smuraglia, in un omaggio che ha voluto farle nel libro “Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica.”, e come l’attuale presidente, Carla Nespolo, prima donna e prima non partigiana a ricoprire tale incarico, dopo la svolta di Chianciano del 2006, i quali, a più riprese, invitano all’unità e al dialogo tra le diverse voci che sono confluite nel testo fondativo della nostra Repubblica.
Se si resta al facile binomio, cui ricorrono pretestuosamente in molti, antifascista/comunista, si darà sempre spazio alle semplicistiche riduzioni ad unum di coloro che, per denigrare il moto resistenziale, preferiscono considerarlo un monolite comunista.
A smentire tale lettura è la semplice analisi dei gruppi che combatterono, dal momento che il CNL (al di fuori del quale è giusto ricordare altre brigate come quelle anarchiche), riuniva esponenti di tutti i partiti antifascisti che si erano organizzati nell’estate del ’43 e, oltre quelli del Partito comunista, del Partito liberale, del Partito repubblicano, del PSIUP, della Democrazia Cristiana, del Partito d’Azione, del Partito democratico del lavoro. Molte di tali formazioni, insieme ad altre che nacquero nel dopoguerra, confluirono nell’Assemblea Costituente.
La Costituzione, perciò, ha un’anima plurale. Ma, questo sì, irriducibilmente antifascista. Non c’è bisogno di citare un articolo preciso né far riferimento soltanto alla XII Disposizione transitoria, più correttamente finale, in essa contenuta. -Come ha chiaramente affermato il nostro presidente della Repubblica, Mattarella, in occasione del Giorno della Memoria di due anni fa: “La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo. La nostra Costituzione ne rappresenta, per i valori che proclama e per gli ordinamenti che disegna, l’antitesi più netta.”
Eppure si continua a evitare di pronunciare, in tante occasioni, il termine “antifascismo” perché divisivo. Divisivo? E certo che lo è: divide chi è a favore di una dittatura da chi non lo è! In realtà, anche quelle formazioni che fanno continuamente appello al rispetto della Costituzione, rivendicando per sé una libertà di espressione comodamente “elastica”, nel rifiutarsi di celebrare la Festa della Liberazione dimenticano questa indiscutibile verità. Non riconoscono, cioè, il significato civile di una giornata che ricorda la fine dell’oppressione e la rinascita alla dignità e alla libertà del popolo italiano, almeno del popolo che si riconosce in quei valori. Appunto.
In tale ottica, la Resistenza non è mai finita: se lo è come moto storico, continua a essere viva come resistenza civile a tutto ciò che degradi la condizione sociale a quella servile. E poiché tale pericolo esiste, sotto ogni latitudine e dentro ogni sistema politico e si slatentizza nelle situazioni di crisi in cui più forte è la tentazione di delegare i propri diritti personali, bisogna essere pronti a coglierne e interpretarne i segni, per neutralizzarne gli effetti. Le parole con cui Camus chiude La peste, efficace metafora del morbo nazifascista che contagiò l’Europa civile, e che ricordano come il bacillo si annidi, silente, negli armadi e tra gli indumenti, pronto a riattivarsi, restano un monito sempre valido per allertare alla vigilanza intelligenze e sensibilità.
Il fascismo è sempre presente nel tessuto della nostra società: lo è in forme diverse, è ovvio. Non più col fez e in camicia nera, ma in abiti civili. Un fascismo eterno, come l’ha definito Umberto Eco. Quotidiano e, per questo, più strisciante e insidioso, come è ampiamente trattato nel prossimo numero di Micromega, in uscita il 30 aprile.
Qual è la possibile copertura difensiva, al di là di un apparato legislativo potente quale quello contenuto nella citata Disposizione della Costituzione, nella legge Scelba del 1952 e nella legge Mancino del 1993? Probabilmente ancora una lenta, progressiva e paziente azione culturale, di ricerca storica e di studio faticoso, l’unica speranza di vivere onoratamente, come scrisse Gramsci, e di formarci una coscienza democratica che consenta la piena, irrinunciabile vita civile che ciascuno di noi ha il diritto di realizzare e il dovere di perfezionare.
[1] Norberto Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza, Einaudi, e-book, posiz. 325-330-335
* MicroMega, 24 aprile 2020.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Le lacrime sono il vino del godimento
di Enrico Spadaro (Ondaiblea, 09 aprile 2020)
È con sensazioni di triste gioia che sembra avvicinarsi questa Pasqua, in cui quasi tutti i cristiani non possono fisicamente partecipare ai riti della Settimana Santa. Sembra quasi un paradosso, un ossimoro pronunciare queste parole, “triste gioia”: “gioia” nell’imminente resurrezione di Cristo, “triste” perché forse non totalmente vissuta.
Eppure esiste un termine greco, che racchiude un concetto forse maggiormente conosciuto nel mondo cristiano ortodosso, “charmolypi” (χαρμολύπη), che esprime al tempo stesso sentimenti di gioia (hara) e di tristezza (lypi). Si ritrova tale termine negli scritti di San Giovanni Climaco (525/575-603/650), monaco che visse quasi tutta la vita presso il monastero del Sinai. Nella sua dottrina, e in particolare nel suo scritto più celebre, La Scala della divina ascesa, vengono prevalentemente esaltati coloro che dopo aver peccato si pentono, poiché i dolori patiti permettono loro - attraverso il pentimento - di accedere alla vera “gioia” del Paradiso. Questi peccatori redenti sembrano aver provato la morte per poi essere risorti come Cristo, sono stati abbandonati e infine salvati dal Padre. Le lacrime che hanno versato sono così benedette: “Beati i sofferenti, perché essi saranno consolati”. (Matteo 5,4).
Il concetto espresso da San Giovanni Climaco potrebbe rinviare ad un elemento essenziale delle fiabe secondo lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien (1892-1973), vale a dire la consolazione del lieto fine, per cui l’autore, nel suo saggio Sulle Fiabe (1939) conia il termine “eucatastrofe”, l’improvviso capovolgimento felice degli eventi, “ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore”.[1]
Con evangelium, Tolkien, fervente cattolico, non poteva che intendere il Vangelo, considerato come l’unica vera fiaba, e infatti continua il proprio saggio: “la Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia.”
L’immensa opera letteraria di Tolkien e soprattutto i due romanzi principali, Lo Hobbit (1937) e Il Signore degli Anelli (1954-55), sono pieni di momenti in cui si verifica un’eucatastrofe, ma forse uno di quelli più evocativi è rappresentato dagli istanti immediatamente successivi la distruzione dell’Unico Anello tra le fiamme del Monte Fato. Frodo e Sam si credono spacciati e svengono, ma vengono salvati dalle grandi aquile e si risvegliano a Gondor con Gandalf al loro capezzale.
Tolkien descrive il momento attraverso le sensazioni di Sam:
E qualche pagina dopo:
Gioia e dolore sembrano fondersi e le lacrime sono la via che porta alla gioia, secondo la teorizzazione tolkieniana dell’eucatastrofe, ma anche secondo il concetto di “charmolypi” di San Giovanni Climaco. Inoltre, occorre sottolineare la data della distruzione dell’Anello, il 25 marzo, che è sì il giorno dell’Annunciazione a Maria, ma nella tradizione medievale era anche il giorno della crocifissione, il Venerdì Santo, un giorno di dolore che anticipava la gioia della Pasqua.
I momenti d’eucatastrofe in Tolkien non saranno forse l’espressione totale di beautitudine, ma potrebbero essere una rappresentazione di gioia e dolore, che preannuncia la “Gioia” finale del Paradiso.
Enrico Spadaro
Note
[1] Tolkien. Il medioevo e il fantastico. Milano, Bompiani, p. 225.
[2] Tolkien. Il Signore degli Anelli. Milano, Bombiani, p. 1136.
[3] Ibid., p. 1139.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PASQUA: BUONA PASQUA DI RESURREZIONE E DI RISURREZIONE.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana”...
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Questo doloroso digiuno eucaristico che ci rende ancor più Chiesa
di Andrea Monda (Osservatore Romano, 14 marzo 2020)
Oggi per quasi tutti noi cattolici sarà una domenica senza messa, senza eucaristia. È la prima volta che ci capita nella vita, in precedenza quando è successo era stato in genere a causa delle nostre condizioni di salute ma ora è diverso, sono le messe e le chiese a trovarsi in pessime “condizioni di salute”.
Domenica scorsa siamo andati a messa, giusto in tempo perché poi è arrivata la decisione di sospendere le messe pubbliche. Quindi ora, nel mezzo della Quaresima, dovremo avviare, nostro malgrado, un inedito tipo di digiuno, quello eucaristico.
La cosa provoca sconcerto, dolore e dà a riflettere. E il pensiero si muove dal qui e ora e vola nello spazio e nel tempo. È uno dei vantaggi di essere cattolici secondo Chesterton («La Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo»), quello di appartenere ad una storia più grande di me, che mi precede e mi supera, che si estende nello spazio e nel tempo e quindi mi mantiene in una comunione con tutti i miei fratelli nella fede sparsi nel mondo e in ogni epoca: nella Chiesa è tutto sempre presente e contemporaneo.
Il pensiero dunque vola, ad esempio, in Amazzonia. Negli ultimi mesi questa regione così grande, così cruciale e così fragile, grazie all’iniziativa di Papa Francesco che ha indetto un Sinodo della Chiesa su di essa, è stata come “trasportata” e messa al centro del mondo e ci siamo così trovati noi stessi come trasportati in quelle terre dove, tra le altre cose, il digiuno eucaristico è spesso la regola. E non per una settimana o due, ma per lunghi mesi. C’è un modo per capire gli altri ed è soffrire con loro. Domenica forse capiremo un po’ di più i nostri fratelli abitanti dell’Amazzonia, e si tratta, ripeto, del digiuno di una sola domenica, la prima, speriamo di una serie non molto lunga. La discussione scaturita dal Sinodo sull’Amazzonia è stata per mesi molto accesa all’interno della Chiesa cattolica, ora forse è il momento di “sentire con la Chiesa” che si trova in Amazzonia.
Il pensiero vola anche nel tempo e ci conduce ai primi secoli del cristianesimo. In questi tempi di digiuno eucaristico e di chiese chiuse, i nostri pastori stanno esortando i fedeli a riscoprire la pratica religiosa all’interno delle case, la preghiera in famiglia, soprattutto del rosario. Così, ad esempio, la Chiesa italiana sta promuovendo un momento di preghiera per il Paese, invitando a recitare in casa il Rosario, i Misteri della luce, alla stessa ora: alle 21 del 19 marzo. In quella occasione si propone di esporre alle finestre un drappo bianco o una candela accesa. Quando nasce la Chiesa e per i primi secoli del suo cammino, le comunità non si riuniscono in luoghi pubblici di culto ma tutto si svolge nelle “chiese domestiche”. È con la fine delle persecuzioni sotto l’imperatore Costantino che le cose cambiano e si prende la decisione, tanto inevitabile quanto gravida di conseguenze, di convogliare il culto in edifici dedicati esclusivamente al culto.
Oggi da un certo punto di vista siamo tornati alla condizione dei primi secoli, alla riscoperta del senso della comunità credente all’interno delle mura domestiche dove, a causa della diffusione dell’epidemia, ci troviamo costretti a vivere. Alcuni studiosi e teologi hanno riflettuto, a partire dalla metà del secolo scorso, sul fatto che la Chiesa con la fine del potere temporale e soprattutto con il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana” in cui il percorso della Chiesa si era strettamente intrecciato e a volte confuso con quello dei poteri civili e politici. E molti vedono in Francesco il Papa che, proseguendo nella realizzazione del concilio, sta definitivamente chiudendo quella pagina storica cominciata con la svolta dell’imperatore vincitore a Ponte Milvio nel segno della croce.
Proprio Francesco il 21 dicembre scorso, citando Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha ricordato alla Curia romana che «non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede - specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente - non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Proprio per questo, dice il Papa: «Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti».
Oggi chi scrive si trova nella grande città di Roma, culla del cristianesimo come spesso viene chiamata, e sente che gli è chiesto un sforzo di fede creativa per sviluppare nuove “mappe”, il che vuol dire anche tornare alle sorgenti della fede, della propria storia, perché per il cristiano anzi è sempre così: tornare all’essenziale, alle radici, al Vangelo, perché lì si trova la vita. Da questo punto di vista la Quaresima è il tempo forte, è il kairòs, il momento opportuno per purificare la nostra fede, rianimare la speranza e allora anche l’inedito e doloroso digiuno eucaristico potrà diventare un’occasione per allargare il cuore, farci sentire in comunione con tutta la Chiesa, il popolo che Dio accompagna sin dall’eternità, in ogni luogo e in ogni tempo.
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
Perché il futuro è soprattutto una questione pedagogica
di Goffredo Fofi (Avvenire, venerdì 6 marzo 2020)
I due campi su cui dovrebbe mettersi alla prova una generazione di giovani intellettuali e artisti - oggi così frastornati fiacchi inconcludenti - sono a parere di molti quelli dell’ecologia e della pedagogia. La difesa dell’ambiente, delle stesse possibilità di sopravvivenza della vita sulla terra; e l’ingresso nella vita attiva delle nuove generazioni, dei nuovi nati.
Molti anni fa misi ad apertura di un mio inutile scritto la dedica “Ai nostri morti” e lo conclusi con quella “Ai nuovi nati”. Oggi, complice l’età, mi capita fin troppo spesso di pensare ai miei morti, noti e comuni, colti e analfabeti, e, diciamo così, di intrattenermi con loro ripensando quel che sono stati, quel che hanno hanno detto e fatto, e a quanto mi hanno dato con le loro parole e ancor più con il loro esempio, e questa compagnia è molto gratificante; mentre mi capita di pensare con angoscia al futuro dei bambini che conosco o incrocio nelle vie della città al seguito dei loro genitori o dei bambini di cui leggo sui giornali, quelli che muoiono nei barconi che affondano o vengono fatti affondare o, in tanti paesi, di fame e di guerra.
Ma forse quelli che mettono addosso un’ansia maggiore sono proprio i bambini privilegiati, i figli del benessere e della pace, consegnati ad adulti trasandati e ottusi, genitori o educatori che non sembrano davvero preoccupati del loro futuro e, se lo fanno, quelli che non sono afflitti dal bisogno e da altre pesantissime insicurezze lo fanno in termini materiali e di status. Ma se i genitori “non sono all’altezza” del tempo in cui vivono, non lo è neanche la maggioranza degli insegnanti, anche se è tra loro, più che tra i genitori, che incontro chi si dà pena per loro.
In altre epoche storiche, per esempio al tempo delle dittature come delle democrazie nate dalla Grande Guerra, fu lo Stato ad assumersi, consigliato da pedagogisti che fidavano più nell’educazione pubblica che in quella privata, la responsabilità della formazione dei “nuovi arrivati”. Nel bene e nel male, va da sé, e nel mentre che resisteva una pedagogia confessionale, teoricamente bene impostata ma troppo essenziale e ristretta.
Credo oggi, scandalizzando forse qualcuno, che si debba puntare sulla scuola piuttosto che sulla famiglia - anche se questo non esclude affatto il dovere e il bisogno di occuparsi della famiglia. E credo che gli insegnanti abbiano in genere più possibilità (più sapienza; meno egoismo e meno chiusure) nell’affrontare i problemi della trasmissione di un sistema di valori e di conoscenze da una generazione all’altra.
Ma la scuola langue, nonostante gli sforzi dei singoli, ed è piena di insegnanti infingardi ma soprattutto di insegnanti sfiduciati anche quando ostinati e coscienti dei loro enormi, pesanti doveri, ed è diretta in alto loco da politici mediocri e senza visione, gretti, spesso anche imbecilli.
È da dentro la scuola che un modo serio di lavorare con i “nuovi” può e deve anzitutto ripartire, e la pedagogia non è dunque meno importante dell’ecologia, nei nostri compiti presenti e futuri, nelle lotte che è nostro dovere proporre e affrontare.
Libera scelta, competizione, classifiche: le tante facce delle diseguaglianze di classe nella scuola italiana
Il classismo in classe
di Marco Romito (Il Mulino, 27 gennaio 2020)
È trascorsa circa una settimana da quando i media nazionali hanno rilanciato la notizia di una scuola romana che, presentandosi sul suo sito internet, avrebbe caratterizzato le sue tre sedi in termini classisti. Come in altre occasioni, quando la scuola entra nel faro d’attenzione del dibattito pubblico, prevalgono il tono scandalizzato e una scarsa capacità di contestualizzare ciò che si sta riportando.
La gran parte della stampa nazionale ha trattato la notizia lasciando intendere che la scuola di via Trionfale mettesse in atto un’esplicita politica classista separando gli alunni nei suoi tre plessi in base al censo: “Ecco la scuola che divide gli alunni in base alla classe sociale”.
Si è poi compreso che il riferimento alla condizione socioeconomica degli studenti era ripreso da un rapporto di autovalutazione (Rav) compilato seguendo le indicazioni del ministero. Le scuole sono accompagnate nella compilazione del Rav da alcune domande guida, alcune delle quali fanno riferimento al background familiare degli studenti. In questo non c’è nulla di scandaloso poiché si tratta di informazioni di cui occorre tenere conto per attuare politiche scolastiche inclusive.
Il problema, però, è che da qualche anno si è fatta largo l’idea che le scuole debbano essere trasparenti, che debbano dar conto di ciò che sono, di ciò che fanno, dei risultati raggiunti e così via. E così i Rav, assieme a molti altri indicatori, sono visibili sulla piattaforma governativa “Scuola in chiaro”. Questo è in linea con un approccio di impronta neoliberale, teso cioè a fare del sistema scolastico un mercato che si regola attraverso le scelte informate delle famiglie. I sostenitori di questo approccio ritengono che in questo modo le scuole saranno portate a migliorarsi per attrarre studenti. Tuttavia, come mostra la vicenda di via Trionfale, alcune informazioni possono fornire un’indicazione alle famiglie perché scelgano la scuola più conforme al proprio status.
Così, al coro dell’indignazione, hanno preso parte anche il sottosegretario all’istruzione De Cristoforo e la neoministra Azzolina, che hanno sostenuto sia un errore fornire informazioni sul background socioeconomico degli studenti. La descrizione, in ultimo, è stata rimossa. Ma si ha l’impressione che si sia alzato un gran polverone che nasconde ciò che dice di voler mettere in luce dietro una coltre di facili semplificazioni e dietro la colpevolizzazione dell’operato di una singola scuola. Si ha l’impressione, soprattutto, che la scuola italiana possa continuare a essere classista purché non nomini la classe.
Una scuola che nasconde i riferimenti alle condizioni socioeconomiche dei propri studenti non è meno classista di una che li rende pubblici. Le informazioni sulla qualità “sociale” di una scuola circolano informalmente nelle reti dei genitori e queste informazioni orientano le scelte in modi che rafforzano la segregazione scolastica. Non possiamo nasconderci che molti dei giornali che usano toni scandalizzati per descrivere la vicenda di via Trionfale rilanciano ogni anno la classifica sulla qualità formativa delle scuole pubblicata dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Questa classifica, pur utilizzando il concetto di qualità formativa, non è molto più di una classifica dello status socioeconomico delle scuole. Ecco, si può essere classisti, pur senza nominare la classe.
Può allora essere utile prendere questa vicenda come un’opportunità per mettere in fila qualche breve ragionamento a mente fredda. Senza farci distrarre dal dito che indica la luna, chiediamoci: in che modo la scuola italiana è classista?
Propongo un elenco, certamente non esaustivo, di pratiche e meccanismi che, lontano dai moti episodici di indignazione pubblica, riproducono il classismo nel banale scorrere della quotidianità scolastica. Ma una premessa è doverosa. Il classismo della scuola non è solo imputabile alla scuola, ma è l’esito di una complessa articolazione di problemi che riguardano più dimensioni. Per rimanere al caso della scuola di via Trionfale è evidente che il tema della segregazione scolastica è inscindibile da quello della segregazione abitativa. Così come è evidente che le disuguaglianze economiche, crescenti, non possono non accrescere il divario tra chi può permettersi un’istruzione di elevata qualità e chi no.
Nell’elenco che segue faccio però riferimento solo a ciò su cui può intervenire una politica strettamente scolastica, mi soffermo sugli aspetti che mi sembrano meno presenti nel dibattito pubblico e solo su ciò che è supportato dalla ricerca empirica.
Che la vicenda della scuola di via Trionfale ci aiuti allora a impostare il discorso nei giusti termini. Se non si vuole che la scuola sia classista, allora la classe occorre nominarla. E occorre nominarla ogni volta che in modi più o meno plateali si insinua nella vita scolastica creando separazioni e gerarchie.
Occorre nominare la classe per smantellare tutti i meccanismi attraverso cui produce disuguaglianza. Per farlo, occorre aprire un tavolo di discussione che chiami a raccolta tutte quelle realtà, associazioni, docenti, movimenti, che provano a praticare ogni giorno una scuola anti-classista. Queste realtà sono innumerevoli e si muovono nel contesto di una politica governativa che (finora?) si è caratterizzata per aver largamente ignorato il problema: o meglio, che negli ultimi decenni ha attuato riforme che sembrano aver esacerbato processi presenti da sempre.
Che si ricominci a parlare di classismo a scuola allora. Ma non per gridare al declino, allo scandalo, ma per avere coscienza della complessità e interconnessione tra le diverse dimensioni attraverso cui il classismo si produce e si impone.
Per la sua capacità di favorire gli studenti privilegiati, il nostro Paese spicca nei confronti internazionali. Questo può generare rabbia, al peggio sconforto, ma se la politica e la scuola italiana raccoglieranno la sfida potremmo avere innumerevoli spazi per agire, per iniziare ad applicare il dettato costituzionale e per fare della scuola una vera palestra di democrazia.
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
«Perché la storia continui». Appello per una Costituzione della Terra
Proposte. Appello per un nuovo costituzionalismo globale, una bussola etica e politica per salvare il mondo e i suoi abitanti dalla distruzione.
di Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, Raffaele Nogaro, Paolo Maddalena, Mariarosaria Guglielmi, Riccardo Petrella (il manifesto, 26.12.2019)
Nel pieno della crisi globale, nel 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana, Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, il vescovo Nogaro, Riccardo Petrella e molti altri lanciano il progetto politico di una Costituzione per la Terra e promuovono una Scuola, «Costituente Terra», che ne elabori il pensiero e prefiguri una nuova soggettività politica del popolo della Terra, «perché la storia continui». Pubblichiamo le parti essenziali del documento che esce domani, in data 27 dicembre 2019.
L’Amazzonia brucia e anche l’Africa, e non solo di fuoco, la democrazia è a pezzi, le armi crescono, il diritto è rotto in tutto il mondo. «Terra! Terra!» è il grido dei naufraghi all’avvistare la sponda, ma spesso la terra li respinge, dice loro: «i porti sono chiusi, avete voluto prendere il mare, fatene la vostra tomba, oppure tornate ai vostri inferni». Ma «Terra» è anche la parola oggi più amata e perduta dai popoli che ne sono scacciati in forza di un possesso non condiviso; dai profughi in fuga per la temperatura che aumenta e il deserto che avanza; dalle città e dalle isole destinate ad essere sommerse al rompersi del chiavistello delle acque, quando la Groenlandia si scioglie, i mari son previsti salire di sette metri sull’asciutto, e a Venezia già lo fanno di un metro e ottantasette. «Che si salvi la Terra» dicono le donne e gli uomini tutti che assistono spaventati e impotenti alla morte annunciata dell’ambiente che da millenni ne ospita la vita.
Ci sono per fortuna pensieri e azioni alternative, si diffonde una coscienza ambientale, il venerdì si manifesta per il futuro, donne coraggiose da Greta Thunberg a Carola Rackete fanno risuonare milioni di voci, anche le sardine prendono la parola, ma questo non basta. Se nei prossimi anni non ci sarà un’iniziativa politica di massa per cambiare il corso delle cose, se le si lascerà in balia del mercato della tecnologia o del destino, se in Italia, in Europa e nelle Case Bianche di tutti i continenti il fascismo occulto che vi serpeggia verrà alla luce e al potere, perderemo il controllo del clima e della società e si affacceranno scenari da fine del mondo, non quella raccontata nelle Apocalissi, ma quella prevista e monitorata dagli scienziati.
Il cambiamento è possibile
L’inversione del corso delle cose è possibile. Essa ha un nome: Costituzione della terra. Il costituzionalismo statuale che ha dato una regola al potere, ha garantito i diritti, affermato l’eguaglianza e assicurato la vita degli Stati non basta più, occorre passare a un costituzionalismo mondiale della stessa autorità ed estensione dei poteri e del denaro che dominano la Terra.
La Costituzione del mondo non è il governo del mondo, ma la regola d’ingaggio e la bussola di ogni governo per il buongoverno del mondo. Nasce dalla storia, ma deve essere prodotta dalla politica, ad opera di un soggetto politico che si faccia potere costituente. Il soggetto costituente di una Costituzione della Terra è il popolo della Terra, non un nuovo Leviatano, ma l’unità umana che giunga ad esistenza politica, stabilisca le forme e i limiti della sua sovranità e la eserciti ai fini di far continuare la storia e salvare la Terra.
Salvare la Terra non vuol dire solo mantenere in vita «questa bella d’erbe famiglia e d’animali», cantata dai nostri poeti, ma anche rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno sviluppo di tutte le persone umane.
Il diritto internazionale è già dotato di una Costituzione embrionale del mondo, prodotta in quella straordinaria stagione costituente che fece seguito alla notte della seconda guerra mondiale e alla liberazione dal fascismo e dal nazismo: la Carta dell’Onu del 1945, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, i due Patti internazionali del 1966 e le tante Carte regionali dei diritti, che promettono pace, sicurezza, garanzia delle libertà fondamentali e dei diritti sociali per tutti gli esseri umani. Ma non sono mai state introdotte le norme di attuazione di queste Carte, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati. Non è stato affatto costituito il nuovo ordine mondiale da esse disegnato. È come se un ordinamento statale fosse dotato della sola Costituzione e non anche di leggi attuative, cioè di codici penali, di tribunali, di scuole e di ospedali che «di fatto la realizzino».
È chiaro che in queste condizioni i diritti proclamati sono rimasti sulla carta, come promesse non mantenute. Riprendere oggi il processo politico per una Costituzione della Terra vuol dire tornare a prendere sul serio il progetto costituzionale formulato settant’anni fa e i diritti in esso stabiliti. E poiché quei diritti appartengono al diritto internazionale vigente, la loro tutela e attuazione non è soltanto un’urgente opzione politica, ma anche un obbligo giuridico in capo alla comunità internazionale e a tutti noi che ne facciamo parte.
Qui c’è un’obiezione formulata a partire dalla tesi di vecchi giuristi secondo la quale una Costituzione è l’espressione dell’«unità politica di un popolo»; niente popolo, niente Costituzione. E giustamente si dice che un popolo della Terra non c’è; infatti non c’era ieri e fino ad ora non c’è.
La novità è che adesso può esserci, può essere istituito; lo reclama la scena del mondo, dove lo stato di natura delle sovranità in lotta tra loro non solo toglie la «buona vita», ma non permette più neanche la nuda vita; lo reclama l’oceano di sofferenza in cui tutti siamo immersi; lo rende possibile oggi la vetta ermeneutica raggiunta da papa Francesco e da altre religioni con lui, grazie alla quale non può esserci più un dio a pretesto della divisione tra i popoli: «Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno» - hanno detto ad Abu Dhabi - non vuole essere causa di terrore per nessuno, mentre lo stesso «pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina con cui Dio ha creato gli esseri umani»; non c’è più un Dio geloso e la Terra stessa non è una sfera, ma un poliedro di differenze armoniose.
Per molti motivi perciò è realistico oggi porsi l’obiettivo di mettere in campo una Costituente della Terra, prima ideale e poi anche reale, di cui tutte le persone del pianeta siano i Padri e le Madri costituenti.
Una politica dalla parte della Terra
Di per sé l’istanza di una Costituzione della Terra dovrebbe essere perseguita da quello strumento privilegiato dell’azione politica che, almeno nelle democrazie, è il partito - nazionale o transnazionale che sia - ossia un artefice collettivo che, pur sotto nomi diversi, agisca nella forma partito. Oggi questo nome è in agonia perché evoca non sempre felici ricordi, ma soprattutto perché i grandi poteri che si arrogano il dominio del mondo non vogliono essere intralciati dal controllo e dalla critica dei popoli, e quindi cercano di disarmarli spingendoli a estirpare le radici della politica e dei partiti fin nel loro cuore. È infatti per la disaffezione nei confronti della politica a cui l’intera società è stata persuasa che si scende in piazza senza colori; ma la politica non si sospende, e ciò a cui comunque oggi siamo chiamati è a prendere partito, a prendere partito non per una Nazione, non per una classe, non “prima per noi”, ma a prendere partito per la Terra, dalla parte della Terra.
Ma ancor più che la riluttanza all’uso di strumenti già noti, ciò che impedisce l’avvio di questo processo costituente, è la mancanza di un pensiero politico comune che ne faccia emergere l’esigenza e ne ispiri modalità e contenuti.
Non manca certamente l’elaborazione teorica di un costituzionalismo globale che vada oltre il modello dello Stato nazionale, il solo nel quale finora è stata concepita e attuata la democrazia, né mancano grandi maestri che lo propugnino; ma non è diventato patrimonio comune, non è entrato nelle vene del popolo un pensiero che pensi e promuova una Costituzione della Terra, una unità politica dell’intera comunità umana, il passaggio a una nuova e rassicurante fase della storia degli esseri umani sulla Terra.
Eppure le cose vanno così: il pensiero dà forma alla realtà, ma è la sfida della realtà che causa il pensiero. Una “politica interna del mondo” non può nascere senza una scuola di pensiero che la elabori, e un pensiero non può attivare una politica per il mondo senza che dei soggetti politici ne facciano oggetto della loro lotta. Però la cosa è tale che non può darsi prima la politica e poi la scuola, né prima la scuola e poi la politica. Devono nascere insieme, perciò quello che proponiamo è di dar vita a una Scuola che produca un nuovo pensiero della Terra e fermenti causando nuove soggettività politiche per un costituzionalismo della Terra. Perciò questa Scuola si chiamerà «Costituente Terra».
«Costituente Terra»: una Scuola per un nuovo pensiero
Certamente questa Scuola non può essere pensata al modo delle Accademie o dei consueti Istituti scolastici, ma come una Scuola disseminata e diffusa, telematica e stanziale, una rete di scuole con aule reali e virtuali. Se il suo scopo è di indurre a una mentalità nuova e a un nuovo senso comune, ogni casa dovrebbe diventare una scuola e ognuno in essa sarebbe docente e discente. Il suo fine potrebbe perfino spingersi oltre il traguardo indicato dai profeti che volevano cambiare le lance in falci e le spade in aratri e si aspettavano che i popoli non avrebbero più imparato l’arte della guerra. Ciò voleva dire che la guerra non era in natura: per farla, bisognava prima impararla. Senonché noi l’abbiamo imparata così bene che per prima cosa dovremmo disimpararla, e a questo la scuola dovrebbe addestrarci, a disimparare l’arte della guerra, per imparare invece l’arte di custodire il mondo e fare la pace.
Molte sarebbero in tale scuola le aree tematiche da perlustrare:
1) le nuove frontiere del diritto, il nuovo costituzionalismo e la rifondazione del potere;
2) il neo-liberismo e la crescente minaccia dell’anomia;
3) la critica delle culture ricevute e i nuovi nomi da dare a eventi e fasi della storia passata;
4) il lavoro e il Sabato, un lavoro non ridotto a merce, non oggetto di dominio e alienato dal tempo della vita;
5) la «Laudato sì» e l’ecologia integrale;
6) il principio femminile, come categoria rigeneratrice del diritto, dal mito di Antigone alla coesistenza dei volti di Levinas, al legame tra donna e natura fino alla metafora della madre-terra;
7) l’Intelligenza artificiale (il Führer artificiale?) e l’ultimo uomo;
8) come passare dalle culture di dominio e di guerra alle culture della liberazione e della pace;
9) come uscire dalla dialettica degli opposti, dalla contraddizione servo-signore e amico-nemico per assumere invece la logica dell’ et-et, della condivisione, dell’armonia delle differenze, dell’ «essere per l’altro», dell’ «essere l’altro»;
10) il congedo del cristianesimo dal regime costantiniano, nel suo arco «da Costantino ad Hitler», e la riapertura nella modernità della questione di Dio;
11) il «caso Bergoglio», preannuncio di una nuova fase della storia religiosa e secolare del mondo.
Naturalmente molti altri temi potranno essere affrontati, nell’ottica di una cultura per la Terra alla quale nulla è estraneo d’umano. Tutto ciò però come ricerca non impassibile e fuori del tempo, ma situata tra due kairòs, tra New Delhi ed Abu Dhabi, due opportunità, una non trattenuta e non colta, la proposta di Gorbaciov e Rajiv Gandhi del novembre 1986 per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, e l’altra che ora si presenta di una nuova fraternità umana per la convivenza comune e la salvezza della Terra, preconizzata nel documento islamo-cristiano del 4 febbraio 2019 e nel successivo Comitato di attuazione integrato anche dagli Ebrei, entrato ora in rapporto con l’ONU per organizzare un Summit mondiale della Fratellanza umana e fare del 4 febbraio la Giornata mondiale che la celebri.
Partecipare al processo costituente iscriversi al Comitato promotore
Pertanto i firmatari di questo appello propongono di istituire una Scuola denominata «Costituente Terra» che prenda partito per la Terra, e a questo scopo hanno costituito un’associazione denominata «Comitato promotore partito della Terra». Si chiama così perché in via di principio non era stata esclusa all’inizio l’idea di un partito, e in futuro chissà. Il compito è oggi di dare inizio a una Scuola, «dalla parte della Terra», alle sue attività e ai suoi siti web, e insieme con la Scuola ad ogni azione utile al fine «che la storia continui»; e ciò senza dimenticare gli obiettivi più urgenti, il risanamento del territorio, la rifondazione del lavoro, l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, la firma anche da parte dell’Italia del Trattato dell’ONU per l’interdizione delle armi nucleari e così via.
I firmatari propongono che persone di buona volontà e di non perdute speranze, che esponenti di associazioni, aggregazioni o istituzioni già impegnate per l’ecologia e i diritti, si uniscano a questa impresa e, se ne condividono in linea generale l’ispirazione, si iscrivano al Comitato promotore di tale iniziativa all’indirizzo progettopartitodellaterra@gmail.com versando la relativa quota sul conto BNL intestato a “Comitato promotore del partito della Terra”,
IBAN IT94X0100503206000000002788 (dall’estero BIC BNLIITRR).
La quota annua di iscrizione, al Comitato e alla Scuola stessa, è libera, e sarà comunque gradita. Per i meno poveri, per quanti convengano di essere tra i promotori che contribuiscono a finanziare la Scuola, eventuali borse di studio e il processo costituente, la quota è stata fissata dal Comitato stesso nella misura significativa di 100 euro, con l’intenzione di sottolineare che la politica, sia a pensarla che a farla, è cosa tanto degna da meritare da chi vi si impegna che ne sostenga i costi, contro ogni tornaconto e corruzione, ciò che per molti del resto è giunto fino all’offerta della vita. Naturalmente però si è inteso che ognuno, a cominciare dai giovani, sia libero di pagare la quota che crede, minore o maggiore che sia, con modalità diverse, secondo le possibilità e le decisioni di ciascuno.
Nel caso che l’iniziativa non riuscisse, le risorse finanziarie mancassero e il processo avviato non andasse a buon fine, l’associazione sarà sciolta e i fondi eventualmente residui saranno devoluti alle ONG che si occupano dei salvataggi dei fuggiaschi e dei naufraghi nel Mediterraneo.
Un’assemblea degli iscritti al Comitato sarà convocata non appena sarà raggiunto un congruo numero di soci, per l’approvazione dello Statuto dell’associazione, la formazione ed elezione degli organi statutari e l’impostazione dei programmi e dell’attività della Scuola.
Roma, 27 dicembre 2019, 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana.
PROPONENTI E PRIMI ISCRITTI. Raniero La Valle, giornalista (Roma), Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto (Roma), Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale, Raffaele Nogaro, ex vescovo di Caserta, Paolo Maddalena, già vicepresidente della Corte Costituzionale, Mariarosaria Guglielmi, Segretaria generale di Magistratura Democratica, Riccardo Petrella, ecologo, promotore del Manifesto dell’acqua e dell’identità di “Abitante della Terra”, Domenico Gallo, magistrato, Francesco Carchedi, sociologo (Roma), Francesco Di Matteo, Comitati Dossetti per la Costituzione, Anna Falcone. avvocata, Roma, Pippo Civati, Politico, Piero Basso (Milano), Gianpietro Losapio, cooperatore sociale, direttore del Consorzio NOVA, Giacomo Pollastri, studente in Legge (Roma), Francesco Comina, giornalista (Bolzano), Roberto Mancini, filosofo (Macerata), Francesca Landini, informatica (Roma), Giancarlo Piccinni e la Fondazione don Tonino Bello (Alessano), Grazia Tuzi, antropologa, autrice di “Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della comunità del porcellino” (Roma), Guido Innocenzo Gargano osb cam., monaco (Roma), Felice Scalia, s. J, (Messina), Marina Graziosi, docente (Roma), Agata Cancelliere, insegnante, (Roma), Raul Mordenti, storico della critica letteraria, Politico (Roma), Salvatore Maira, scrittore (Roma), Marco Malagola, francescano, missionario, (Torino), Norma Lupi (Roma), Andrea Cantaluppi, sindacalista (Roma), Enrico Peyretti (Torino), Nino Mantineo, università di Catanzaro, Giacoma Cannizzo, già sindaca di Partinico, Filippo Grillo, artista (Palermo), Nicola Colaianni, già magistrato e docente all’Università di Bari, Stefania Limiti, giornalista (Roma), Domenico Basile (Merate, Lecco), Maria Chiara Zoffoli (Merate), Luigi Gallo (Bolzano), Antonio Vermigli, giornalista (Quarrata, Pistoia), Renata Finocchiaro, ingegnere (Catania), Liana D’Alessio (Roma), Lia Fava, ordinaria di letteratura (Roma), Paolo Pollastri, musicista (Roma), Fiorella Coppola, sociologa (Napoli), Dario Cimaglia, editore, (Roma), Luigi Spina, insegnante, ricercatore (Biella), Marco Campedelli, Boris Ulianich, storico, Università Federico II, Napoli, Gustavo Gagliardi, Roma, Paolo Scandaletti, scrittore di storia, Roma, Pierluigi Sorti, economista, Roma, Vittorio Bellavite, coordinatore di “Noi siamo Chiesa”, Agnés Deshormes, cooperatrice internazionale, Parigi, Anna Sabatini Scalmati, psicoterapeuta, Roma, Francesco Piva, Roma, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Tina Palmisano, Il Giardino Terapeutico sullo Stretto, Messina, Luisa Marchini, segretaria di “Salviamo la Costituzione”, Bologna, Maurizio Chierici, giornalista. Angelo Cifatte, formatore, Genova, Marco Tiberi, sceneggiatore, Roma, Achille Rossi e l’altrapagina, Città di Castello, Antonio Pileggi, ex Provveditore agli studi e dir. gen. INVALSI, Giovanni Palombarini, magistrato, Vezio Ruggieri, psicofisiologo (Roma) Bernardetta Forcella (insegnante (Roma), Luigi Narducci (Roma), Laura Nanni (Albano), Giuseppe Salmè, magistrato, Giovanni Bianco, giurista, Roma.
Marta Cartabia, il cuore di Salomone e la riserva della Repubblica
Preoccupazione umana nell’esercizio della funzione di giudice, rapporto molto stretto con il presidente Mattarella, profonda conoscenza del diritto internazionale e comparato. Tre figli, e in cuffia i Metallica. Profilo della prima presidente della Consulta
di Maria Antonietta Calabrò (HUFFPOST, 11/12/2019)
Precisa, puntuale, acuta. L’opinione pubblica ha conosciuto il suo nome e il suo volto incorniciato dal caschetto, quest’estate, a fine agosto quando - apertasi la crisi di governo gialloverde - il suo nome è stato fatto come possibile nuovo presidente del Consiglio. Ma dopo qualche giorno di rumors, Marta Cartabia, vicepresidente della Corte dal 2014 ha smentito l’ipotesi. “L’incarico alla Corte costituzionale, che mi è stato affidato otto anni fa e che si concluderà nel settembre 2020, richiede grande impegno e responsabilità e intendo portarlo a compimento per il valore che la Costituzione gli attribuisce per la vita del Paese e soprattutto per quella di ogni singola persona”, dichiarò allora.
Com’è noto, l’impegno di giudice di palazzo della Consulta dura nove anni, e lei, babyboomer , nata nel 1963, ordinario di diritto costituzionale a Milano Bicocca (relatore della sua tesi di laurea un altro presidente della Corte Valerio Onida), è stata nominata, lei cattolica, all’Alta Corte dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel settembre 2011.
Il nome di Cartabia come possibile premier non era uscito a caso, ma come quello di una personalità che avrebbe potuto garantire la discontinuità chiesta dal Pd per una possibile alleanza con il M5s.
Già nel 2018 aveva pensato alla giurista il Presidente Sergio Mattarella per guidare un governo neutrale per traghettare il Paese verso nuove elezioni.
Già da queste poche note emerge il primo tratto decisivo del nuovo presidente della Corte Costituzionale (che ha scritto un libro a quattro mani con Luciano Violante, “Giustizia e Mito”): una levatura altissima, al di sopra delle parti, centrata sui valori della Costituzione.
Ma la riga finale del suo comunicato di agosto, il riferimento ai valore che la “Costituzione attribuisce per la vita del Paese, e soprattutto per quella di ogni singola persona”, è indice di una sua preoccupazione umana costante nell’esercizio della sua funzione di giudice.
Il giudice non come asettica “bocca della legge”, ma il giudice “con il cuore di Salomone”, inteso come il mitico re biblico dell’Antico Testamento, esempio estremo di saggezza che per “scoprire” la vera madre di un neonato conteso tra due donne, ordinò di tagliare in due il bambino, sicuro, come poi avvenne, che la vera madre sarebbe stata quella che avrebbe lasciato suo figlio all’altra donna, affinché vivesse.
Tanto che Marta Cartabia ha curato un volume proprio dedicato a “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI” insieme ad Andrea Simoncini dell’Università di Firenze.
Un altro tratto distintivo della Cartabia è il rapporto molto stretto con il Presidente della Repubblica, Mattarella, nonostante siano quasi “opposti”. Lui, uomo, più anziano, siciliano, “cattolico democratico”.
Lei, la più giovane Presidente della Consulta, donna, lombarda, cattolica, vicina fin dall’Università, a CL.
Quella tra Cartabia e Mattarella è cementata dal fatto che, dopo la morte della moglie e prima dell’elezione al Quirinale, Mattarella ha vissuto nella foresteria della Corte Costituzionale, dove alloggiano il presidente e i vicepresidenti, tra cui la Cartabia appunto, quando sono a Roma, a due passi a piedi dal Palazzo della Consulta.
Per tre anni Cartabia è stata la sua vicina di pianerottolo in poco più di sessanta metri quadri. Due stanze (una camera da letto e una seconda camera adibita a studio), bagno, salotto con angolo cottura. Mobili di noce scuro, pareti sempre pulite e fresche di tinteggiatura, ma l’arredamento non ha niente di più che non sia l’essenziale. Quasi fosse studente fuori sede.
Il terzo tratto della Cartabia che vale la pena sottolineare è la conoscenza del diritto internazionale e comparato (tra l’altro è stata allieva di Joseph Weiler, eminente giurista ebreo, titolare della cattedra Jean Monnet della New York Law School), molto importante in questo periodo di transizione globale.
Già nel 2006 ha curato un volume (Rubettino) che ha pubblicato in Italia alcuni saggi di Mary Ann Glendon, docente di Harvard (che è stata professore anche dell’attuale Segretario di Stato americano, Mike Pompeo), “Tradizioni in subbuglio”, saggi comparsi su riviste giuridiche americane: riflessioni storiche e teoriche sulle condizioni per lo sviluppo della democrazia, sul ruolo dei giudici nei sistemi di civil law e di common law; sulle tematiche generali dei diritti umani alla libertà di religione e al diritto di famiglia.
Marta Cartabia ha 3 figli e ama la montagna (ad agosto, mentre di lei si parlava come possibile prima donna premier lei era impegnata nella scalata della vetta del Gran Paradiso), il trekking e la musica rock, e corre con nelle cuffie la musica dei Beatles e dei Metallica.
Ha sempre conciliato le responsabilità cui è stata chiamata, con la sua famiglia: “Penso che questo duplice aspetto della mia vita mi aiuti a mantenere un pizzico di equilibrio”, ha dichiarato di recente.
Tutte queste caratteristiche che fanno della Cartabia, il giudice gentile con il cuore del Re Salomone, a 56 anni, una vera e propria riserva della Repubblica.
BENEDETTO XVI/ Per fare politica occorre il “cuore” di Salomone
Ieri, presso la Biblioteca del Quirinale, è stato presentato il volume “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI”.
Ne parla ANDREA SIMONCINI *
L’idea di questo libro nasce da una constatazione: oggi la Chiesa è accusata spesso di entrare “a gamba tesa” nei dibattiti politici ovvero nelle discussioni di tipo giuridico; da più parti si ritiene che le gerarchie cattoliche pretendano di dettare ex cathedra i contenuti del dibattito democratico, distorcendo, così, tale dibattito. Un’accusa del genere è fondata? Questa obiezione nasce dalla vera posizione della Chiesa sulle questioni politiche e giuridiche? Davvero il Papa e la Chiesa intendono entrare in questi dibattiti “dettando” ai politici ed alle istituzioni cosa dovrebbero dire o fare?
Cosí è nato il progetto che Marta Cartabia ed io abbiamo curato, quello cioè di raccogliere assieme e ripubblicare cinque grandi discorsi pubblici che il Papa emerito Benedetto XVI ha tenuto dinanzi ad istituzioni civili, politiche o accademiche (Regensburg, Westminster, Collège des Bernardins, Nazioni Unite e Bundestag); chiedendo poi ad un gruppo di autorevoli esperti nel campo delle scienze giuridiche e politiche, espressivi delle più diverse sensibilità religiose, geografiche, culturali, accademiche e istituzionali, di proporne un commento.
Il risultato è andato al di là delle più ottimistiche previsioni. I nomi che hanno accettato di partecipare sono davvero tra gli studiosi più autorevoli e chi vorrà acquistare il libro potrà scorrerne l’elenco completo.
Cattolici, ebrei, protestanti, musulmani, agnostici, tutti hanno accettato di paragonarsi con questo pensiero. Alcuni hanno posto domande o sollevato interrogativi, altri hanno sottolineato la fecondità della posizione della Chiesa soprattutto dinanzi alle sfide che vive la società umana contemporanea. Tutti, comunque, hanno accettato questo dialogo con il Papa emerito come un interlocutore all’altezza delle sfide e dei valori in gioco, rifiutando così la riduzione caricaturale cui molto spesso viene sottoposta la posizione del magistero cattolico.
Ma il punto più interessante è che questo dialogo sta proseguendo oltre le pagine del libro.
La giornata di ieri lo dimostra: un panel d’eccezione ha accettato di proseguire la discussione lanciata dal volume, riprendendo le tesi di fondo del pontefice emerito e sviluppandone ulteriormente le potenzialità. Il dibattito è stato ricchissimo di contributi interessanti; un punto tra gli altri è emerso sinteticamente: le idee riguardanti il pensiero politico-giuridico della dottrina cattolica molto spesso sono stereotipi.
Per dimostrare questa conclusione proviamo un esperimento mentale: se oggi invitassimo un campione casuale di uomini politici o di responsabili di istituzioni pubbliche a stilare una lista dei temi toccati dal Papa emerito in questi suoi discorsi pubblici, prima di leggerli, è molto probabile che nell’elenco troveremmo: difesa della vita, eutanasia, contraccezione, divorzio, fecondazione assistita e così via. Rimarremmo, perciò, molto sorpresi nel non trovare nessuno di questi argomenti nei testi. Attenzione! Non che al Papa o alla Chiesa non interessino quei temi, anzi! Ma in questi discorsi, in cui il tema è il fondamento dell’ordine giuridico, il punto di attacco è molto più profondo e radicale. La preoccupazione non è dire alla politica cosa deve fare, ma − più alla radice − riconoscere da cosa nasce la politica.
«Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, maiun ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto - ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio».
In questo passaggio del discorso pronunciato al Bundestag di Berlino è racchiuso il cuore del pensiero di Benedetto XVI: non la rivelazione, ma «la ragione e la natura nella loro correlazione» costituiscono «la fonte giuridica valida per tutti».
Dunque, il problema non è dire ai governanti cosa debbono fare, ma come far sì che essi usino correttamente la propria ragione nelle scelte che debbono fare.
In questo senso è davvero sorprendente l’unitarietà della traiettoria che lega il Papa emerito a Papa Francesco. Questa battaglia per un’idea non ridotta di ragione e di verità che costituisce il più grande contributo civile e laico della Chiesa.
Come ha detto Papa Francesco nella lettera inviata ad Eugenio Scalfari, “Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la accoglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa”.
La verità, quindi, chiede umiltà e apertura e qui non possiamo non riconoscere la eco di quel “cuore docile, che sappia rendere giustizia al suo popolo e sappia distinguere il bene dal male” che chiede Salomone a Dio e che il papa emerito ha additato a modello per i politici di qualsiasi credo.
* Fonte: Il Sussidiario.net, 31.01.2014
"DUE SOLI" (DANTE): I "DUE PADRONI", I "DUE MONDI", E LA DEMOCRAZIA, OGGI.... *
Democrazia e cristianesimo
Per una democrazia inclusiva
di Dario Antiseri (L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2019)
In tema di democrazia una domanda ineludibile è la seguente: l’essere cristiano è compatibile con la laicità dello Stato? O, rovesciando l’interrogativo, lo Stato laico sarebbe stato possibile senza l’avvento del cristianesimo? Nella pratica politica, il relativismo - ha affermato qualche anno fa l’allora cardinale Joseph Ratzinger - è benvenuto perché ci vaccina dalla tentazione utopica. E novità essenziale del cristianesimo per la storia è che «fino a Cristo l’identificazione di religione e Stato, divinità e Stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo Stato. Poi l’islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità».
In realtà, «da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo Stato [...]. I padri hanno pregato per lo Stato riconoscendone la necessità, ma non hanno adorato lo Stato».
Questa, ad avviso di Ratzinger, è «la distinzione decisiva» - una distinzione che rappresenta uno straordinario punto di incontro tra il pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. «Io penso - afferma Ratzinger - che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando una nuova libertà. Lo Stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo Stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo Stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello Stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal-democratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa».
Il cristiano de-assolutizza, cioè relativizza, il potere politico; non può servire a due padroni: Dio e il dio-denaro; non può genuflettersi davanti all’altare di una ragione trasformata in dea. E dev’essere fedele al comandamento di amare il prossimo come se stesso. Ed è esattamente in base a questi princìpi che il messaggio cristiano, per dirla con Pëtr J. Čaadaev, «è più che storia, più che psicologia, è la fisiologia dell’uomo europeo». Thomas S. Eliot: «Un singolo europeo può non credere che la Fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice, e fa, scaturirà dalla parte di cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato». Per questo, è ancora Eliot a parlare, se il cristianesimo se ne va, è l’Europa che scompare: «Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura; e allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie».
In altre parole, la decadenza dell’Europa è una decadenza spirituale: è l’allontanarsi degli europei dalle idealità cristiane. E quando gli ideali della fede cristiana si sono spenti, l’Europa - annota Röpke - ne ha cercato «un surrogato nelle ideologie politico-sociali (le “religioni sociali”, come le ha definite Alfred Weber): il socialismo, il comunismo e, soprattutto, il nazionalsocialismo».
E oggi che cosa è rimasto nella mente di non pochi cittadini e soprattutto - e purtroppo - di non pochi dei nostri giovani, una volta lontani dalle idealità cristiane? Rimane l’idolatria del potere sugli altri, considerati e trattati come oggetti delle proprie voglie; rimane l’idolatria del denaro quale fonte perenne che alimenta la vasta fenomenologia della corruzione, con migliaia e migliaia di giovani e meno giovani che scorrazzano sul palcoscenico del gran teatro dell’illegalità; si impone una situazione dove alle ragioni della legge si sostituisce la ragione della forza o, più esattamente, la non-ragione di bande violente di intolleranti - di predoni divorati dalla brama di vestirsi da padroni - padroni del narcotraffico e, dunque, padroni della vita e della morte altrui.
di Dario Antiseri
Professore emerito di Epistemologia delle scienze sociali - luiss, Roma
L’Osservatore Romano, 23.10.2019.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Sul tema, bel sito, si cfr.:
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un governo per difendere la Costituzione
M5S-Lega. Il dovere delle forze democratiche è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni
di Luigi Ferrajoli (il manifesto, 25.08.2019)
C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».
L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.
Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.
Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.
Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi.
Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.
Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.
L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.
Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI... *
Dopo il discorso di Conte.
«Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase, pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente, in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza, soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente pensata e approfondita.
Non bisogna dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del ’nuovo umanesimo’ nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava ’In Cristo il nuovo umanesimo’. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in quell’occasione.
Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma ’nuovo umanesimo’, nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un autentico umanesimo radicato nella fede.
Oggi mi sembra proprio questo il contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha rilevato Conte).
Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al ’primato della persona’, come radice antropologica di ogni azione sociale, politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere - e qui il rammarico per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato -, la nozione di ’persona’, nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata) all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio.
Per la cultura pagana la persona era semplicemente la ’maschera’ (prosopon), ovvero rappresentava il ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la sua valenza giuridica.
Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato della sua ’Filosofia del diritto’, «la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato.
Ed è su tale base ’antropologica’ che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria del rapporto fra persone e fra gruppi di persone.
In questa prospettiva vanno letti gli autorevoli inviti - in particolare quello del presidente della Cei Gualtiero Bassetti - a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze.
Non possiamo non ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore (per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della persona, ossia la sua unicità.
Sonny, il protagonista artificiale del famoso film Io robot, allorché si scopre ’quasi umano’ e ne prende coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione, regione, cultura appartenga.
Ma, oltre che unicità, la persona dice anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza (Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit) che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger). E da questo senso della ’trascendenza’ dell’umano il pensiero credente non è certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso ideologicamente mitizzato - allorché afferma che «La natura dell’uomo non è di avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi» (fr. 318 ed. Brunschvicg) - e a mettere in guardia da una possibile deriva spiritualistica dell’antropologia: «L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia» (fr. 325 ed. Brunschvicg).
Il nuovo umanesimo, che non intenda esprimersi nella forma di un acritico antropocentrismo, chiede così di declinarsi e di realizzarsi attraverso autentiche alleanze, spesso purtroppo infrante, fra uomo e natura, fra i generi, fra le generazioni, fra il cittadino e le istituzioni, fra emozione e ragione, fra popoli e religioni. Una saggia fatica che certo non può essere il risultato di un programma di Governo, ma quel quel programma può ben ispirare e illuminare. E che richiede una visione culturale e antropologica alla quale i cristiani possono efficacemente contribuire.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’ORA. QUASI UN MINIMO PROGRAMMA DI GOVERNO (UN DISCORSO QUESTA MATTINA IN PIAZZA, RIASSUNTO IN POCHE PAROLE)
I. Finisca il tempo dell’odio
Finisca il tempo dell’odio e della follia
non mangino piu’ carne umana i ministri della repubblica
siano soccorsi tutti i naufraghi
siano liberati e portati in salvo tutti i prigionieri dei lager libici
sia dato aiuto e asilo a chi fugge dalle guerre e dalla fame
sia dato aiuto e asilo a chi fugge da dittature e schiavitu’
torni l’Italia alla civilta’
siano abrogate tutte le antileggi hitleriane
sia ripristinato il dovere di soccorrere chi e’ in pericolo
si condivida il pane tra sorelle e fratelli
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
II. Rinuncino a commettere ulteriori crimini
Rinuncino a commettere ulteriori crimini altri ebbri abominii
i ministri gia’ decaduti
in questi pochi giorni d’interregno
s’attengano finalmente al rispetto della Costituzione
gia’ tanti delitti hanno commesso per cui saranno giudicati in tribunale
non aggiungano in guisa di colpo di coda finale altri orrori
si ricordino almeno ora
della loro umanita’
dell’umanita’ di tutti gli esseri umani
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
III. Con la forza della verita’
Con la forza della verita’ con la scelta della nonviolenza
si riconquista il bene comune
con la forza della verita’ con la scelta della nonviolenza
l’umanita’ intera torna interamente umana
con la forza della verita’ con la scelta della nonviolenza
si abbattono i regimi totalitari
con la forza della verita’ con la scelta della nonviolenza
si salvano tutte le vite
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
IV. Qui e adesso
Qui e adesso occorre che ogni persona di volonta’ buona
insorga per salvare tutte le vite
qui e adesso occorre che la repubblica
torni ad essere una repubblica
qui e adesso valga finalmente
la legge che salva tutte le vite
qui e adesso
si riconoscano uguali io e tu
si facciano noi
vale per tutti dinanzi a ogni ingiustizia
il motto del resistente je me revolte donc nous sommes
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
V. E quasi un minimo programma di governo
1. abrogare immediatamente tutte le misure razziste e persecutorie imposte dal governo razzista teste’ caduto (ma anche le altre imposte dai governi precedenti che hanno aperto la strada all’inabissamento nella brutalita’ di quest’ultimo anno);
2. ripristinare l’adempimento del dovere di soccorrere chi e’ in pericolo;
3. escludere da ogni incarico di governo chi e’ stato complice dell’esecutivo razzista ora caduto;
4. ripristinare la legalita’ costituzionale che il governo della disumanita’ ha infranto;
5. riconoscere il diritto di voto e tutti gli altri diritti sociali, civili e politici a tutte le persone che vivono in Italia, facendo cessare l’effettuale regime di apartheid e di schiavitu’ di cui sono vittima milioni di nostri effettivi conterranei.
Ogni essere umano ha diritto alla vita alla dignita’ alla solidarieta’
siamo una sola umanita’ in quest’unico mondo vivente casa comune dell’umanita’ intera
il razzismo e’ un crimine contro l’umanita’
ogni vittima ha il volto di Abele
salvare le vite e’ il primo dovere
salvare le vite e’ il primo dovere
chi salva una vita salva il mondo
sii tu il buon samaritano
sii tu l’umanita’ come dovrebbe essere
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
* FONTE: "LA NONVIOLENZA CONTRO IL RAZZISMO. Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino" (anno XX). Numero 303 del 22 agosto 2019.
Conte si è dimesso, furia contro Salvini: "Irresponsabile". Al via le consultazioni
Il premier a palazzo Madama: ’Interessi di parte compromettono interesse Italia
di Redazione Ansa (21.08.2019)*
"L’azione del governo si arresta qui". E’ quasi a metà del suo intervento nell’aula di palazzo Madama che ieri il premier Giuseppe Conte ha messo la parola fine ai 14 mesi di governo gialloverde aprendo ufficialmente la crisi, con le dimissioni rassegnate al presidente Mattarella che ha avviato le consultazioni a partire dalle 16. Un intervento in cui il presidente del Consiglio difende quanto fatto - "abbiamo lavorato fino all’ultimo giorno" -, ricorda ancora il lavoro da fare, ma soprattutto ne approfitta per lanciare un duro affondo contro Matteo Salvini. Il premier è una furia e non usa giri di parole nel bollare Salvini come "irresponsabile" per aver aperto una crisi solo per "interessi personali e di partito". Un crescendo di accuse che arriva dopo mesi passati a dosare e mediare ogni parola.
Conte ora è senza filtri. Ripercorre i mesi del governo elencando tutti i problemi creati dal leader della Lega, ultimo appunto la decisione di aprire una crisi con il rischio, ricorda Conte, che senza un nuovo esecutivo il Paese andrà in esercizio provvisorio e ci sarà l’aumento dell’Iva: "I comportamenti del ministro dell’Interno rivelano scarsa sensibilità istituzionale e una grave carenza di cultura costituzionale". Il capo del governo che in diverse occasioni si rivolge a Salvini chiamandolo Matteo (Conte è seduto in mezzo ai due vicepremier) lo accusa di aver oscurato quanto fatto dall’esecutivo: "hai macchiato 14 mesi di attività mettendo in dubbio anche quanto fatto dai tuoi ministri". Ma ad un certo punto, il capo del governo arriva a definirsi "preoccupato" da chi "invoca piazze e pieni poteri". L’affondo non si ferma solo alla decisione di mettere fine all’esperienza gialloverde ma tocca anche dossier delicati come il Russiagate.
Conte gli imputa di non essere andato in Aula e di aver creato problemi allo stesso presidente del Consiglio. Il capo del governo non tiene fuori nulla dal suo intervento nemmeno il ricorso che Salvini all’uso di simboli religiosi. Si tratta per Conte di "uso incosciente di simboli religiosi".
L’INTERVENTO DI SALVINI - "Grazie e finalmente: rifarei tutto quello che ho fatto", ha detto il vicepremier, Matteo Salvini, intervenendo nell’Aula del Senato. "Non ho paura del giudizio degli italiani". Sono qua "con la grande forza di essere un uomo libero, quindi vuol dire che non ho paura del giudizio degli italiani, in questa aula ci sono donne e uomini liberi e donne e uomini un po’ meno liberi. Chi ha paura del giudizio del popolo italiano non è una donna o un uomo libero". "Se qualcuno da settimane, se non da mesi, pensava a un cambio di alleanza, molliamo quei rompipalle della Lega e ingoiamo il Pd, non aveva che da dirlo. Noi non abbiamo paura", ha detto ancora Salvini.
"La libertà non consiste nell’avere il padrone giusto ma nel non avere nessun padrone", ha detto Matteo Salvini citando Cicerone. "Non voglio una Italia schiava di nessuno, non voglio catene, non la catena lunga. Siamo il Paese più bello e potenzialmente più ricco del mondo e sono stufo che ogni decisione debba dipendere dalla firma di qualche funzionario eruopeo, siamo o non siamo liberi?". "Gli italiani non votano in base a un rosario, ma con la testa e con il cuore. La protezione del cuore immacolato di Maria per l’Italia la chiedo finchè campo, non me ne vergogno, anzi sono ultimo e umile testimone". "Voi citate Saviano, noi San Giovanni Paolo II.., lui diceva e scriveva che la fiducia non si ottiene con la sole dichiarazioni o con la forza ma con gesti e fatti concreti se volete completare le riforme noi ci siamo. Se volete governare con Renzi auguri...".
L’INTERVENTO DI RENZI - "Sarebbe facile assistere allo spettacolo sorridendo ma la situazione impone un surplus di responsabilità. Lei oggi presidente del consiglio si dimette ed il governo che lei ha definito populista ha fallito e tutta l’Ue ci dice che l’esperimento populista funziona in campagna elettorale ma meno bene quando si tratta di governare". "No si è mai votato in autunno, c’è da evitare l’aumento dell’Iva e serve un governo non perchè noi ci vogliamo tornare ma perchè l’aumento dell’Iva porta crisi dei consumi non è un colpo di Stato cambiare il governo ma un colpo di sole aprire la crisi ora ora, questo è il Parlamento non il Papeete". Le parole di Conte sono "da apprezzare" ma c’è il "rischio di una autoassoluzione", ha detto in una nota il Segretario del Pd Nicola Zingaretti. Per questo "qualsiasi nuova fase politica non può non partire dal riconoscimento di questi limiti strutturali di quanto avvenuto in questi mesi".
* http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/08/20/governo-in-senato-e-il-giorno-di-conte_57d1a36a-11ff-48b7-ba74-d2380fb14a93.html (ripresa parziale - sena immagini e allegati).
Intervista a Massimo Cacciari
A un’Europa vecchia e sterile serve il fertilizzante della Chiesa
· La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa ·
di Andrea Monda (L’Osservatore Romano, 18 luglio 2019)
Il cambiamento d’epoca di cui parla Papa Francesco è tale che ha colto impreparato l’Occidente. Da qui parte la riflessione di Massimo Cacciari che riprende la suggestione di Giuseppe De Rita sulle due autorità, civile e spirituale, e si concentra sulla prima, quella «che fa acqua un po’ da tutte le parti». Lo abbiamo incontrato in un caldo pomeriggio di luglio, è arrivato a piedi e se n’è andato a piedi, una sorta di Giovanni Battista inquieto e sempre pronto ad accendersi di una santa ira che non risparmia nessuno.
Qual è l’elemento più preoccupante della crisi attuale?
Il problema è che la parte laica, civile, è proprio quella che fa acqua, per una complessa serie di cause. Le grandi culture che hanno formato l’Europa del dopoguerra e che hanno dato consistenza alla politica italiana si sono mostrate inapte a comprendere e a dar forma alla nuova età. Sono cose che succedono nella storia, quando un mondo finisce. Il mondo del dopoguerra si è chiuso con la caduta del muro, con la fine dell’impero socialista, con le trasformazioni globali negli equilibri economici e politici, la nascita della nuova Cina e il decollo indiano. Siamo di fronte a una nuova età, come quella che segna la fine delle polis greche, come quella che segna la fine dell’età dell’impero romano. Barbari che compaiono, gente di cui non capisci la lingua, e le grandi famiglie culturali e politiche europee, che sono sostanzialmente quella socialdemocratica, quella cristiano-popolare e quella liberale, non comprendono la situazione, rimangono abbarbicate inerzialmente a determinati valori e giudizi, che sono diventati pregiudizi, dato il mutare della situazione. Questo vale in particolare per le culture liberali e socialdemocratiche: i primi diventano dei puri conservatori, mentre la socialdemocrazia rimane aggrappata a un modello di stato sociale e di idea di uguaglianza che non può più reggere rispetto ai fenomeni di globalizzazione. È tutto da reimpostare, da rivedere, in particolare in Italia, dove accanto a questa trasformazione globale c’è anche la catastrofe specifica che passa sotto il nome di tangentopoli, che invece è il crollo anche di tenuta etica e morale dei partiti del patto antifascista.
Qui De Rita direbbe che la mia lettura è tutta politicistica (io credo cultural-politicistica): secondo me non sono mai le trasformazioni semplicemente economiche che possano motivare quello che è successo in questo paese e in Europa. Accade dunque che le componenti fondamentali che hanno dato vita all’Unione europea entrano in un cono d’ombra totalmente subalterno ai modelli neoliberisti; anche l’euro nasce in questo clima: il mercato, la libera concorrenza... non c’è più il pilastro della solidarietà, della sussidiarietà, punti fondamentali per la cultura di uno Sturzo, di un De Gasperi. Tutti questi pilastri vengono meno. Rimane l’affannosa rincorsa a quelle che si presume essere le nuove forme di potere. E quando con la crisi vengono meno le possibilità di promettere ancora ulteriormente «magnifiche sorti e progressive», queste forze si spappolano.
Lo scenario che sta illustrando non è dei migliori...
Lo so, ma nel mio discorso non c’è niente di nostalgico. Il problema non è il venir meno di determinati valori, ma il fatto che questa Europa è vecchia, forse decrepita, e non si può chiedere a un vecchio di non aver paura, di essere audace. La domanda allora è: c’è la stoffa per ritessere un discorso politico, per riformare una élite politica in Italia, in Europa? Perché questi nazionalismi, i sovranismi sono nient’altro che l’effetto del disgregarsi di queste precedenti culture, che non sono state al passo con la trasformazione. Sono il segno che l’Europa è vecchia, che non produce più, che è un terreno sterile; bisogna quindi trovare nuovi fertilizzanti. E penso, da non credente (ma è da qui che nasce la mia attenzione al mondo cattolico) che forse il fertilizzante può venire proprio dalla Chiesa: discutendo, dialogando, dibattendo, polemizzando... È il mondo cattolico che può essere il segno di contraddizione, che può rimettere in movimento qualcosa. Se non da lì, da dove può venire? Certo, frange socialdemocratiche possono anche tentare un discorso sui temi economici, sui temi sociali... ma è da lì che può venire la spinta maggiore.
Eppure oggi quel mondo cattolico sembra silente o, il che forse è peggio, diviso al suo interno...
Ha ragione. Un esempio molto banale, visto da fuori. Io ero convintissimo che l’agitazione del crocifisso, del rosario in un comizio sarebbe costata cara in termini di consenso. Pensavo che era impossibile che passasse inosservata la blasfemia di gesti simili e invece mi dicono i miei amici sondaggisti e analisti che il gesto ha fatto guadagnare consenso, proprio dal mondo cattolico. Qui c’è un problema colossale e mi riferisco al problema educativo, alla formazione della classe dirigente, un ambito che oggi appare sterile. Gli intellettuali non esercitano più alcuna influenza. Le università hanno sempre esercitato in Europa un’egemonia culturale, ma tutto questo oggi sembra finito. E si fa fatica a pensare un’Europa senza cristianità.
Secondo l’espressione del Papa, non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca, che però ha trovato tutti impreparati.
Il modello è proprio quello del libro di Karl Polanyi, La grande trasformazione. Dove la trasformazione economica diventa trasformazione della testa della gente. Dobbiamo diventare consapevoli che abbiamo a che fare con un uomo diverso; il mutamento è culturale e antropologico, basta vedere i giovani, i ragazzi. Questo mutamento ha colto impreparate le culture che sono uscite dalla grande prova della guerra, che hanno avviato l’Unione europea e che hanno fatto le costituzioni, quelle costituzioni che avevano quel carattere tipicamente democratico, progressivo, come ad esempio la costituzione italiana. Il fatto è che sull’Europa ci sono stati e permangono molti equivoci. Ad esempio si cita il modello di Spinelli ma ho la sensazione che i tanti che lo citano non l’hanno mai letto. Quello era un modello totalmente neo-illuministico e sostanzialmente autoritario per cui è l’élite che fa l’Europa in barba alle diverse sovranità nazionali. Quindi quando parliamo di identità nazionale di cosa parliamo? Una identità liberale? Cosmopolita? Illuminista? Per come si sono sviluppate le vicende dell’Europa è evidente che si è perduto di vista l’elemento della sussidiarietà, che era fondamentale nel modello federalista autentico. In quel modello con la creazione dell’unione europea politica si superava, ma al tempo stesso si difendeva, l’identità nazionale, la si garantiva, dando peso politico al singolo stato membro, in un’unione che faceva la forza di ognuno. Non si è riuscito a spiegarlo, a comunicarlo in nessun modo. E ora è facile comunicare il messaggio opposto: Italy first e così via. Non si è riuscito a comunicarlo perché si è trasmessa sempre e costantemente l’impressione che l’obiettivo fosse il mero superamento dell’identità nazionale all’interno di un modello illuministico. Così come non si è compreso che la battaglia sull’Europa è decisiva per la cristianità. Si può certo dire “l’Europa vada come va, tanto noi, la Chiesa, siamo il mondo”. È giusto da una parte, dall’altra è sempre vero che urbs et orbis, la città e il mondo, come a dire che non può esserci un mondo senza centro, e qual è il centro? Washington? Pechino? Buenos Aires? Roma? Gerusalemme? Certo, il Mediterraneo, il centro è quello. Non si è ancora capito in nessun modo che il centro, bene o male, continua a essere questo. E invece assistiamo in Europa all’assenza e al fallimento totale di politiche mediterranee, perché non si ha questa visione storica, e agli errori tattico-politici che dipendono dall’incomprensione della dimensione di lungo periodo. Il Mediterraneo non era cruciale soltanto per evitare che diventasse il fossato, il muro che è diventato, ma lo era in quanto è esso stesso l’Europa che si gioca lì, in quelle acque che uniscono Atene e Gerusalemme con la prima e la seconda Roma.
La crisi assume i contorni di una mutazione antropologica. Penso all’impatto delle tecnologie, al grande innalzamento dell’età della vita e penso all’elemento che oggi sembra giocare un ruolo fondamentale anche a livello politico, quasi elettorale: la paura, che si trasforma in rancore.
Ritengo che la paura sia strettamente collegata all’invecchiamento. Organismi vecchi difficilmente affrontano le sfide con coraggio. Un organismo vecchio tende a difendersi, quando l’ambiente muta si chiude, questa è fisica. Questi fenomeni che avvertiamo ovunque in Europa derivano, secondo me, sostanzialmente da questo. Come nei secoli dell’Impero romano, mutatis mutandi, l’Europa ha bisogno di accogliere. Ma bisognava farlo per tempo. Perché era evidente che l’Europa avesse bisogno di sangue nuovo, e anche di intelligenza nuova, e che dovesse quindi affrontare questo meticciamento, come dice il cardinale Scola che lo aveva capito perfettamente e predicato in modo incessante. Ricordo quando era Patriarca a Venezia: non c’era manifestazione religiosa dove lui non ricordasse questo aspetto del meticciato. Per tempo era necessario che l’integrazione avvenisse attraverso politiche di cittadinanza, politiche economiche rivolte anche ai paesi da cui veniva questa gente, stringendo accordi commerciali, culturali, scambi con più paesi. Avremmo dovuto fare noi europei quello che in termini neocoloniali assoluti sta facendo la Cina. Questo è compito degli europei, come si fa a non capire? È lo stesso discorso del Mediterraneo di cui sopra: l’Europa è Euro-Africa. Qual è il tuo destino, Europa? A chi devi guardare se non ai due miliardi e mezzo che saranno tra un po’ gli africani, a chi altri devi guardare?
Se svolto per tempo e organizzato bene, quel lavoro politico di integrazione avrebbe dato vita a quel positivo meticciamento di cui parlava Scola. È certo che se non lo organizzi in alcun modo e improvvisamente, in base alla spinta delle guerre, dei cambiamenti climatici, della miseria, cominciano a precipitarti addosso enormi masse di rifugiati, esuli, poveretti, è chiaro che quei vecchi di cui sopra, soprattutto durante una crisi economica, diventano inevitabilmente la più facile preda di una propaganda di destra classica.
Hitler, che non c’entra niente con questo discorso, nel 1929, prima della crisi, prende il solo 2,8 per cento dei voti, e Stresemann e Briand, pochi giorni prima del crollo di Wall Street, s’incontrano, dicono ogni problema tra loro è risolto, che si metteranno d’accordo su tutto, fratelli per sempre, e che insieme Germania e Francia lavoreranno da domani per dar vita all’unione europea. Sei mesi dopo c’è la crisi e tre anni dopo c’è l’avvento di Hitler. Crisi non gestite, trasformazioni epocali non governate, possono produrre di tutto, come abbiamo visto quando sono crollati gli stati socialisti e c’è stata la guerra in Bosnia. Questa è la grande responsabilità che devono capire gli eredi di quelle culture, devono capirla, mettersi insieme e dire: cosa facciamo insieme?
Parliamo degli eredi di quella cultura che è quella cattolica, che lei, da laico, non credente, definisce un potenziale fertilizzante di una società vecchia.
La Chiesa è fondamentale, la forma politica della Chiesa ha dimostrato di essere quella forse più valida per affrontare problemi di questo genere. Però la domanda che io mi pongo sempre di più è: si capisce che la battaglia decisiva è qui in Europa?
Sono stato io a suggerire a monsignor Ravasi il motto episcopale quando fu ordinato: Praedica Verbum. Proprio come dovevano fare i professori di religione nelle scuole: evidenziare senza chiacchiere, senza spiegazioni. Semplicemente praedica Verbum, che però si rivela un segno di contraddizione, perché non sarai mai capace di seguire quel Verbo. Però - è questo è il punto - vedi che distanza c’è rispetto alla realtà. Misura la distanza, inquieta l’intelligenza dei tuoi interlocutori facendoli riflettere su questa distanza, senza tante chiacchiere, senza voler fare il maestro di nessuno. Questa parola indubitabilmente ha formato da due millenni l’Europa. Predicare il Verbo può avere, secondo me, effetti politici enormi ancora oggi come li ha avuti in passato.
Che cosa sono i movimenti di riforma se non tornare a quel breviloquio? Quel Verbo ha formato la testa della gente, proprio in momenti di crisi. Si tratta allora pascalianamente di scommettere di nuovo su questa forza.
Intervista a Massimo Cacciari....
di Andrea Monda (L’Osservatore Romano, 18 luglio 2019)
E i laici? Qual è il loro ruolo?
I laici devono riprendere un grande discorso di riforma dell’Unione, delle sue istituzioni con coraggio, con radicalità. Sono trent’anni che si insegue invece la moderazione, ma come vuoi risolvere moderatamente una situazione di grande trasformazione? Puoi essere benissimo un moderato, se si tratta di barcamenarsi, ma se affronti una tempesta devi abbandonare la moderazione. La Tempesta di Shakespeare si apre appunto con una tempesta per cui tutti i personaggi sono come annichiliti, ci sono pure i re, ma non contano niente adesso, il re non serve ora, ci vuole invece il nocchiere, ci vuole uno che governi nella tempesta: tu caro re non sei più sulla terraferma come prima. Questa è la sfida per i laici che devono provarsi per capire se sono in grado di governare nella tempesta. Allora potrebbero combinarsi, accordarsi con la dimensione spirituale. Se c’è una grande forza spirituale questo ha effetti civili, politici, sociali, ma ci vuole radicalità, in entrambi i campi, nel capire che qui in Europa si gioca una battaglia forse decisiva per la stessa cristianità.
Sul versante cattolico: da una parte c’è questo predicare il Verbo, anche in maniera molto essenziale, di Papa Francesco, dall’altra c’è quel dato preoccupante che lei prima citava, c’è qualcuno che sventola i simboli religiosi e accresce il suo consenso, magari incitando la folla a fischiare contro il Papa. Uno scollamento a dir poco inquietante.
Secondo me in questo momento difficile d’invecchiamento europeo, di crisi delle culture politiche di cui ho parlato, è stata coinvolta anche l’immagine della Chiesa, ridotta all’interno di un discorso di astratto cosmopolitismo: la Chiesa che s’interessa del mondo, s’interessa dei migranti, il Papa che va a Lampedusa... è stata data una lettura superficiale, complice anche il modo in cui il Papa è stato letto da laici e non credenti, in una chiave alla partito d’azione, alla Spinelli... Si è data questa immagine: un cosmopolitismo degli intellettuali.
Il che contrasta frontalmente con la realtà, se pensiamo, ad esempio, alla predicazione di Francesco che è il massimo della concretezza, della prossimità.
Sì, ma c’è stata questa lettura. E bisogna fare attenzione, perché appunto uno furbo come Salvini ha capito questo e si è inserito in questa situazione cercando in modo sottile di spaccare, mettendo i Papi uno contro l’altro, venerando per esempio la figura di Giovanni Paolo II, il Papa dell’identità cristiana, della lotta al comunismo....
L’identità è una parola che adesso è rispuntata fuori prepotentemente.
Questa è un’altra battaglia culturale formidabile da fare. Perché l’identità cristiana è l’identità che acquisisci facendoti prossimo, non esiste un’identità a sé. L’identità è pros eteron, per l’altro, la tua identità diviene nella misura in cui ti fai altro, diviene nella misura in cui ti approssimi, ti fai prossimo all’altro. Questo è fondamentale, non si tratta di un’identità astratta. Un’identità “suolo e sangue” semmai è quella del polites greco, l’identità cristiana non ha niente a che vedere con questo. Questa è una battaglia culturale grande, complessa e urgente. Potrebbe aiutare il recupero di un’etica classica di un certo tipo per questa battaglia da condurre insieme laici e cattolici. Sfida difficilissima in una condizione in cui l’Europa è in una situazione di estrema debolezza economica e demografica. Ci vorrebbe davvero una grande iniziativa, credibile sul piano delle riforme da attuare, delle riforme da svolgere, sul piano anche del ceto politico, della classe dirigente che la porta avanti, perché anche quello ha la sua importanza. L’autorevolezza del ceto politico è un elemento importante nell’azione politica e invece oggi è ai minimi storici.
Il suo libro su Maria, «Generare Dio», mi è venuto in mente perché prima parlava dell’Europa decrepita, che ha bisogno di un fertilizzante, che è in crisi di generatività.
In crisi come tutto l’Occidente che ha avuto il suo grande boom dalla metà del Settecento alla prima guerra mondiale, un grande boom demografico, e poi questo boom demografico si è spostato in Asia e Africa. Dipende da vari fattori, ma certo è un segno caratteristico del declino di un paese, di una stirpe. In questo contesto il tema di Maria è importantissimo, se s’intende in questa chiave. C’è stato un modo del tutto sbagliato con cui si sono affrontati in questi anni temi di questo genere come famiglia e procreazione. Con una posizione da parte della Chiesa non di attacco, ma di difesa. Errore devastante. Penso al tema della dignità della donna: io nel libro dico che quando la donna genera, genera Dio. E invece si è scelta la linea della difesa su vecchie frontiere riguardanti i diritti della donna, il diritto di famiglia... Il risultato è che oggi in regioni cattoliche come il Veneto nessuno più segue quello che gli dice Santa Romana Chiesa. Una forza politica può dare un’immagine di sé conservatrice, ma se la dà la Chiesa è spacciata. Alla riforma devi rispondere con la tua riforma, alla crisi rispondi con i santi, rispondi con San Francesco, con Sant’Ignazio, non puoi rispondere difendendo etiche e basta. L’idea di Maria per me è fondamentale, è l’idea di una donna che consapevolmente, liberamente, accoglie, malgrado il dubbio, malgrado il dolore, malgrado la sofferenza, accoglie e segue fino alla Croce.
Ritorno sul tema del rancore, da dove nasce questo risentimento?
Ci sono dei vizi nella nostra natura. Il realismo cristiano ce lo dice, chiamalo peccato originale, chiamalo come vuoi, ma la nostra natura è prigioniera. Ed ecco allora gli animali danteschi, i vizi capitali che oggi vengono esaltati in un sistema individualistico, penso all’invidia, all’avarizia. L’invidia è l’opposto della prossimità. Il cristiano dice di farsi prossimo, l’individualismo dice “io invidio”, sono due posizioni inconciliabili, drammaticamente contrapposte. L’avarizia, pleonexia dicevano i classici, è volere avere di più, tenere il mio e avere di più. Il risentimento allora può diventare odio, perché se io ho e voglio avere di più, se comincio ad avere di meno, c’è l’invidia, e l’invidia può diventare odio. Una dinamica opposta alla dinamica che i cristiani indicano nel termine caritas e che Aristotele diceva giustizia, dikaiosyne: il giusto non è soltanto colui che dà a ciascuno il suo, ma che vuole il bene dell’altro. Quindi già per Aristotele la giustizia è un atteggiamento per l’altro, pros eteron. Sono temi che poi la Chiesa eticamente recupera: San Tommaso quando parla di etica recupera questi elementi propri, che poi, nell’itinerario in Deum, vengono tutti valorizzati ancora di più, esaltati ancora di più e trasposti su un piano ancora più alto. Ora di nuovo siamo lì, siamo forse nella fase estrema del sistema individualistico. Sono venuti meno quegli organismi, quelle organizzazioni, quelle forme che metabolizzavano queste dinamiche proprie dell’individualismo. I partiti politici facevano una cosa di questo genere, le assumevano e le trasformavano, le metabolizzavano, le accordavano, e facevano venire fuori una specie di sintesi, ognuno per la sua parte sociale. La crisi dei partiti politici ha provocato anche questo. Nessuno dei partiti, anche l’unico che c’è che è la Lega, compie più questo lavoro, assolutamente. Mette insieme, fa un mucchio di tutte le istanze degli individui e le mette lì ma senza mediazione, senza sintesi. L’attuale governo è esemplare da questo punto di vista: ce n’è per tutti, meno tasse per chi vuole meno tasse, il reddito di cittadinanza per chi vuole il reddito di cittadinanza...
I partiti politici come i corpi intermedi sono entrati in crisi, anche perché, bisogna riconoscerlo, si sono “dimissionati”. Se i corpi intermedi per anni e anni sono andati avanti facendo clienti, non possono più avere credibilità.
La tecnologia come contribuisce a questo cambiamento d’epoca?
È chiaro che è fondamentale. Di per sé non è niente di nuovo, perché dalla rivoluzione industriale e ancora prima, scienza e tecnica sono elementi strettamente connessi. Ma ci sono grandi trasformazioni con dei veri “salti”, come quello dell’Ottocento. E così oggi assistiamo a un grande salto tecnologico, che però oggi può intervenire nella vita, nel determinarne le forme. La vita, questo è il punto. Secondo me, il tratto più spaventoso, più tremendo, più terribile proprio nel senso greco di meraviglioso e tremendo, cioè stupefacente, è che questo individuo è tutto fuorché l’individuo nascosto, è tutto esposto, tutto sulla scena, tutto a disposizione, tutto calcolabile; non è il singolo, è esattamente l’opposto del “singolo” di Kierkegaard. No, questo è proprio l’individuo, è un numero, ma sul palco, sulla scena. Esposto. È l’oscenità di quest’epoca, e sarà sempre peggio; con i big data che ci possono essere adesso tu individuo sei perfettamente quello che risulti in base a quello che acquisti: i libri che acquisti, i vestiti che acquisti, le telefonate che fai, i treni che prendi, quante volte usi il bancomat. Tutto questo è totalmente schedato, il data è la combinazione di tutte queste informazioni dalle quali viene fuori come risultato chi sei tu. E un domani potrebbe accadere benissimo che tu vai a chiedere lavoro a qualcuno: “il nome scusi? Vediamo, ah lei è questo”. Vede dove siamo arrivati? A una inquietante forma di uguaglianza, ciò che alcuni teorici della democrazia temevano, che l’uguaglianza potesse portare a questo, non a caso ci avevano aggiunto la fratellanza.
Che però è stata la grande dimenticata, a favore di libertà e uguaglianza.
Anche perché, come ricordava un vero grande sociologo e filosofo come Georg Simmel, libertà e uguaglianza per conto loro sono in assoluto opposizione e contrasto, sono la contraddizione logica, perché se sono libero non sono uguale a te. Quindi libertà e uguaglianza di per sé fanno l’individuo, ognuno libero contro l’altro. E dunque ci vuole la fratellanza. Come si produce questa fratellanza, questa amicizia? Come si produce? Chi la produce? E allora, di nuovo, organismi, corpi intermedi, partiti, sindacati, da “sin-ducere”, mettere insieme. Ci abbiamo provato in passato e in parte ci siamo riusciti. Ma ora se tutto questo si spappola non c’è niente da fare, ci sono i big data, c’è chi ne dispone, e a sua disposizione sono anche gli individui.
L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA [2008[ "NON CLASSIFICATA"!!! *
Demografia.
L’Europa è unita dalle culle vuote: ecco la vera crisi che non si affronta
I tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza che riguarda tutte le età e tutti i livelli di reddito
di Massimo Calvi (Avvenire, sabato 22 giugno 2019)
La recessione demografica che colpisce l’Italia, e che insieme al debito pubblico rappresenta uno dei maggiori elementi di preoccupazione per gli anni a venire, non è un fenomeno limitato ai confini nazionali. Nel lanciare l’ennesimo allarme, alla presentazione del rapporto annuale Istat, il presidente dell’istituto di statistica Giancarlo Blangiardo ha fatto un paragone con il crollo della popolazione registrato negli anni 1917-1918, quelli segnati dalla Grande Guerra oltre che dagli effetti dell’epidemia di Spagnola. Eppure il male italiano è anche un grande problema europeo. «L’inverno demografico che stiamo vivendo in Europa», di cui ha parlato anche papa Francesco a gennaio nell’Udienza generale per il viaggio a Panama in occasione della Giornata mondiale della gioventù 2019, merita di essere preso più seriamente di quanto la politica e le istituzioni non stiano facendo: l’immagine choc della Guerra non è così lontana dagli effetti che il Continente può dover sperimentare nei prossimi anni.
In Europa, i tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire più o meno dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza strutturale comune, che riguarda un po’ tutte le età e tutti i livelli di reddito. Paesi come la Francia sono passati da tassi superiori ai 2 figli per donna a 1,87 nel 2018, la "mitica" Svezia è scesa a 1,75 (era a 1,91 nel 2008), la Gran Bretagna è arrivata al record negativo da 10 anni a 1,76, la Spagna è crollata a 1,25 figli (da 1,44 nel 2008), persino in Finlandia gli allarmi si ripropongono anno dopo anno perché si ritarda sempre di più la messa al mondo del primo figlio e nascono sempre meno secondi e terzi. L’Italia ha un tasso di fecondità oggi di 1,32, ma aggravato dal fatto che il calo delle nascite dura da molti più anni rispetto ad altri Paesi, e questo ha ormai compromesso le possibilità di compensare con nuove nascite l’emorragia della popolazione.
Il primo problema all’origine dell’inverno demografico ovunque in Europa è proprio il calo del numero di donne in età riproduttiva, fenomeno che ha origine attorno agli anni 90. Meno donne che mettono al mondo meno figli è il "dato grezzo" della questione. In realtà, lo choc del 2008 sembra aver tracciato una linea netta oltre la quale è entrato probabilmente in gioco un cambiamento di mentalità delle nuove generazioni, unita al venire meno di molte certezze su lavoro, abitazione, prospettive e soprattutto sulla possibilità di migliorare la propria situazione rispetto alla generazione precedente. Non è una mancanza di desiderio di famiglia, ma più di condizioni da soddisfare in un contesto di politiche pubbliche che tende a premiare comportamenti individualistici e a scoraggiare la formazione di una famiglia. È vero in Italia, ma lo si incomincia a registrare un po’ ovunque nelle politiche di bilancio.
Il cambio della composizione demografica porta infatti con sé anche decisioni di spesa che rischiano di accentuare il problema della denatalità. In un recente saggio pubblicato sulla rivista Population & Avenir, il demografo francese Gerard-Francois Dumont ha dimostrato come salvo rarissime eccezioni i Paesi che più spendono per sostenere la natalità registrano anche i maggiori tassi di fecondità. Tuttavia, oggi l’aumento della popolazione anziana e il calo di quella in età da lavoro sta spingendo gli Stati ad aumentare le risorse a favore della componente più rilevante anche elettoralmente per mantenere gli standard di welfare, inteso come sanità e pensioni.
Secondo un recente rapporto della Fondazione Leone Moressa l’Italia avrà il 17% in meno di popolazione tra 32 anni, e oltre il 35% dei cittadini con più di 65 anni. Altre previsioni che riguardano invece l’Europa indicano che entro il 2060 le persone tra i 15-64 anni caleranno dal 67% attuale al 56%, gli "anziani" saliranno invece dal 18 al 30%. Da 4 persone in età attiva per ogni over-65 si passerà a sole 2.
Guardando avanti, in un Continente che oggi conta poco più di 510 milioni di persone, e che dovrebbe incominciare a conoscere un calo di popolazione dal 2035, si può immaginare un gruppo di Paesi che continuerà ad avere un saldo naturale positivo della popolazione: Francia, Gran Bretagna, Svezia, Irlanda, Danimarca...; un altro caratterizzato da un deciso declino demografico: Portogallo, Spagna, Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Polonia...; l’Italia e la Germania presentano invece prospettive molto negative nel bilancio nati-morti, ma la possibilità di tenuta dei livelli resta appesa alla capacità di continuare ad attrarre popolazione giovane.
Culle vuote e migrazioni mal gestite sono una bomba a orologeria per il Vecchio Continente. L’Europa ha bisogno disperatamente di più bambini e di più persone al lavoro che possano sostenere gli anziani a riposo o bisognosi di cure. Crudamente, ha bisogno di far venire alla luce nuove risorse e di attrarne di già disponibili. Spendere e investire per favorire le nascite purtroppo è una scelta che non piace ai governi in virtù di un banale calcolo statistico, considerato che proprio la tendenza demografica declinante richiede sempre maggiori risorse a favore della parte elettoralmente più rilevante della popolazione. Ma la tentazione della rendita è di per sé un indicatore evidente di declino e sconfitta.
Il fatto è che la recessione demografica porta con sé anche recessione economica, problemi sul debito e sulla sostenibilità dei servizi, maggiori difficoltà di spesa per sostenere le aree depresse.
Tutti gli studi sull’effetto dello choc demografico indicano che per Paesi del Centro e dell’Est-Europa, per la Germania Orientale, l’Italia del Sud, il Nord della Spagna e la Grecia, la prospettiva è quella di un futuro fatto di poche nascite, invecchiamento, emigrazione. E’ un circolo vizioso, insomma. Esattamente come quello che chiama in causa la questione delle migrazioni. I Paesi che riusciranno a tenere la posizione saranno quelli in grado di garantire due tipi di condizioni: uno sviluppo così elevato in termini di qualità della vita, del lavoro, delle retribuzioni, degli incentivi, della sicurezza e della sostenibilità futura, in grado di sostenere il desiderio di figli e famiglia; la capacità di offrire alle persone che emigrano lavoro, integrazione, educazione e un ambiente favorevole e dignitoso.
Non è una partita semplice perché l’inverno demografico è già qui e le tensioni che comporta questa trasformazione sono in atto e ben visibili. Di certo se la sfida è anche culturale, la soluzione non è più individualismo, ma migliore capacità di interpretare la solidarietà tra le generazioni e tra i popoli.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA - 2008 - "NON CLASSIFICATA"!!!
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Bufera sul Csm.
Mattarella: «Oggi si volta pagina»
Severo monito del capo dello Stato Sergio Mattarella, durante il plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura, dopo la bufera suscitata dall’inchiesta di Perugia su favori e nomine
di Vincenzo R. Spagnolo (Avvenire, venerdì 21 giugno 2019)
È un severo monito e, al tempo stesso, una scossa sferzante per il futuro quella che arriva dal capo dello Stato Sergio Mattarella, durante il plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura. Un plenum indetto per colmare le carenze in organico dopo le dimissioni di cinque consiglieri togati presenti a incontri con magistrati e politici per favorire le nomine in alcune procure. «Oggi si volta pagina nella vita del Csm», incalza il presidente della Repubblica, manifestando «grande preoccupazione. Quel che è emerso, da un’inchiesta in corso, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile».
L’inchiesta di Perugia
Il riferimento del capo dello Stato è alle indagini della procura di Perugia, che vedono indagati per corruzione il pm di Roma (ed ex consigliere del Csm) Luca Palamara, un imprenditore e un avvocato, e per rivelazione di segreto d’ufficio un altro pm capitolino, Stefano Rocco Fava, e un consigliere del Csm, Luigi Spina, ora dimessosi dall’incarico. Le intercettazioni hanno rivelato l’esistenza di cene e incontri serali in cui si discuteva di assegnazioni di incarichi di vertice - fra cui quello di procuratore di Roma - avvenute fra lo stesso Palamara, i deputati del Pd Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa) e Luca Lotti (ex ministro, indagato a Roma nell’inchiesta Consip) e almeno 5 consiglieri del Csm, ora dimissionari. «Quanto avvenuto - è la valutazione del presidente Mattarella - ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche il prestigio e l’autorevolezza dell’intero ordine giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica». Il capo dello Stato stigmatizza con forza quel «coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’ordine giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla magistratura».
La scossa del Colle
Nei giorni peggiori della bufera su Palazzo dei Marescialli, mentre le rivelazioni di fonte giudiziaria portavano all’autosospensione e poi alle dimissioni dei consiglieri coinvolti, il presidente della Repubblica (che secondo Costituzione presiede il Csm) non ha fatto mancare mai sostegno e consiglio al vicepresidente David Ermini. E anche adesso, nella sala intitolata a Vittorio Bachelet e davanti a sedie ancora vuote nel plenum, Mattarella non pronuncia solo parole di costernazione, ma anche di sprone e di fiducia nel necessario rafforzamento del Consiglio, che ha gli anticorpi necessari e che ora più che mai sarà chiamato ad essere una "casa di vetro": «La reazione del Consiglio ha rappresentato il primo passo per il recupero della autorevolezza e della credibilità cui ho fatto cenno e che occorre sapere restituire alla Magistratura italiana. Di essa i cittadini ricordano i grandi meriti e i pesanti sacrifici anche attraverso l’esempio di tanti suoi appartenenti e hanno il diritto di pretendere che quei meriti e quei sacrifici non siano offuscati».
Riforme necessarie e urgenti
Ora «viene annunciata una stagione di riforme sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario, in cui il Parlamento e il Governo saranno impegnati», osserva Mattarella (riferendosi alle modifiche normative annunciate dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede) «ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione». Il Quirinale seguirà l’evolversi del processo legislativo, ma nella consapevolezza che tocca «ad altre istituzioni discutere ed elaborare eventuali riforme che attengono a composizione e formazione del Csm». Nel frattempo, è la richiesta del capo dello Stato, il Consiglio non dovrà stare con le mani in mano: «Il Csm può - ed è, più che opportuno, necessario - provvedere ad adeguamenti delle proprie norme interne, di organizzazione e di funzionamento, per assicurare, con maggiore e piena efficacia, ritmi ordinati nel rispetto delle scadenze, regole puntuali e trasparenza delle proprie deliberazioni».
Ermini: «Basta con logiche spartitorie»
Dopo il capo dello Stato, sono intervenuti altri membri del Consiglio, ringraziandolo per il sostegno e la guida «irrinunciabile». Il vicepresidente David Ermini ha ricordato «la ferita profonda e dolorosa», derivante dall’inchiesta perugina e che «potrà guarire soltanto all’esito di un percorso lungo e faticoso». Ma si è detto «certo di poter affermare che essa non ha colpito le fondamenta del Consiglio superiore». Tuttavia, la pronta reazione alle condotte dei singoli componenti è stata necessaria, ma non è sufficiente. E «nel prossimo futuro il Csm sarà chiamato a dimostrare che in grado di affermare la propria legittimazione agli occhi della magistratura e dei cittadini», assumendo ogni determinazione nell’interesse generale della giurisdizione e «al riparo dall’influenza di interessi particolari e da logiche spartitorie e non trasparenti».
Le nuove nomine e il caso Roma
Il plenum ha convalidato l’elezione dei due nuovi consiglieri togati, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe (entrambi di Autonomia e Indipendenza, il gruppo di Piercamillo Davigo), che subentrano a Gianluigi Morlini e Corrado Cartoni, dimessisi dopo le rivelazioni su cene e incontri nel maggio scorso con Palamara e Lotti, in cui si discuteva anche di indicazioni sul possibile successore di Giuseppe Pignatone a capo della procura di Roma. Sempre a maggio, la commissione Direttivi del Csm ha assegnato, per la nomina in questione, 4 voti al pg di Firenze Marcello Viola e uno ciascuno a Giuseppe Creazzo e Francesco Lo Voi, attuali capi della procura fiorentina e di quella palermitana. La votazione della commissione «è valida», ha precisato il vicepresidente del Csm Ermini ai cronisti al termine del Consiglio, e dunque ora «passa al Plenum e il Plenum è sovrano».
L’EUROPA, LA COSTITUZIONE, E LA BANDIERA: LE RADICI CATTOLICHE DI MARIA ELENA (MADRE DI COSTANTINO) O LE RADICI CRISTIANE DI MARIA BEATRICE (MADRE DI DANTE)?! Al di là della trinità "edipica" e "mammonica" *
Europa.
Le radici cattoliche e mariane della bandiera dell’Unione Europea
Un saggio di Enzo Romeo ricostruisce la complessa genesi e la simbologia legata a Maria del vessillo di colore blu con il cerchio di dodici stelle, adottato dal Consiglio europeo nel 1955
di Edoardo Castagna (Avvenire, venerdì 14 giugno 2019)
Ogni identità ha bisogno di simboli ai quali guardare, per riconoscersi e per ispirarsi. Lo sanno bene i populisti di ieri e di oggi, che usano le identità come sciabole per dividere. In modo diametralmente opposto, tanto politicamente quanto moralmente, lo sapevano bene anche i padri fondatori dell’Unione Europea nella loro ricerca di una nuova identità capace di abbracciare, unire, includere.
L’identità europea si è costruita un poco alla volta negli ultimi sessant’anni e, anche se nell’ultimo periodo sembriamo a un punto di stallo, non possiamo non vedere quanto di grande e buono è stato fin qui costruito. Anche attorno ai simboli. Abbiamo un inno nella musica di Beethoven; e abbiamo una bandiera, ormai presenza famigliare sulle facciate degli edifici pubblici - e non solo, come le ultime elezioni europee hanno dimostrato: non pochi balconi hanno visto esporre il drappo azzurro con le dodici stelle.
Alla storia di questa bandiera ha dedicato il suo ultimo saggio Enzo Romeo (Salvare l’Europa. Il segreto delle dodici stelle; Ave, pagine 190, euro 12,00), nel quale la ricostruzione dei passaggi che portarono le istituzioni europee alla scelta definitiva si accompagna alla riscoperta del retroterra imprevisto che agì sui suoi creatori. Il disegno finale è attribuito a un lavoro collegiale, nel quale tuttavia spiccano i contributi del direttore dell’Ufficio d’informazione e stampa del Consiglio d’Europa, Paul Michel Gabriel Lévy, e soprattutto di Arsène Heitz, impiegato dell’Ufficio e autore di diversi bozzetti per la bandiera comune - tra i quali, con poche modifiche, quello infine adottato.
Cattolico e assai devoto alla Madonna, Heitz lavorò su simboli in apparenza del tutto laici: eppure l’azzurro, le dodici stelle come quelle della “medaglia miracolosa” che commemora le apparizioni mariane di rue du Bac a santa Caterina Labouré nel 1830, e che Heitz portava sempre con sé... una simbologia mariana agì, forse più come “mano invisibile” che come ispirazione cosciente, almeno fino a quando, molto più tardi, lo stesso Heitz non la esplicitò, forse prendendone consapevolezza egli stesso: «Mi sentii ispirato da Dio - avrebbe confidato Heitz a padre Pierre Caillon nel 1987, poco prima di morire - nel concepire un vessillo tutto azzurro su cui si stagliava un cerchio di stelle, come quello della medaglia miracolosa. Cosicché la bandiera europea è quella di Nostra Signora».
Quello di Heitz, d’altra parte, non fu l’unica delle proposte a contenere richiami alla simbologia cristiana, anche più espliciti: per esempio, l’austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, fondatore nel 1922 dell’Unione Paneuropea, suggerì un drappo blu con una croce rossa cerchiata di giallo; lo stesso Heitz propose una croce rossa in campo verde. Il verde fu tra i colori più ricorrenti nelle prime bozze: il francese Robert Bichet lanciò l’idea di quindici stelle verdi su campo bianco, il Movimento federalista europeo chiedeva che fosse adottato direttamente il proprio emblema, una “E” verde su campo bianco. Il blu fu comunque il colore più proposto, così come le stelle ebbero facilmente la meglio su altri simboli come i cerchi (un bozzetto a cerchi intrecciati fu bocciato perché ricordava troppo, a detta della commissione, una catena o la bandiera olimpica, se non addirittura la ghiera di un telefono...).
Le dodici stelle disposte a cerchio su fondo blu furono adottate dal Consiglio d’Europa (la bandiera identifica tanto questa istituzione quanto la successiva Unione Europea) nel 1955, con argomentazioni apparentemente anodine: il blu è quello del cielo dell’Occidente, le dodici stelle rappresentano tutti i popoli d’Europa nella loro diversità, il cerchio la loro unità. -Nessun riferimento, nei documenti ufficiali, a richiami mariani: ma, come nota giustamente Romeo, in questi casi «bisogna procedere su un piano assolutamente aconfessionale, evitando polemiche di sapore religioso o ideologico. Non si tratta di nascondere ipocritamente i segni della propria fede, ma di proporli su un piano universale, perché in questo caso essi trascendono l’appartenenza a una Chiesa e si trasformano nell’allegoria di un quadro valoriale comune». E, in effetti, ormai per mezzo miliardo di persone quelle stelle in campo blu hanno acquisito un po’ il colore di casa.
Anche se di una casa ancora in costruzione.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
Federico La Sala
ADAMO ED EVA, IL "FAMILISMO AMORALE", E L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI LABIRINTO... *
Etica pubblica.
Salvatore Natoli e la politica per la città nuova
Nel nuovo libro il filosofo riflette sull’attesa del Regno e su come l’agone sociale renda possibile la sua costruzione con la cura del bene comune
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 24 maggio 2019)
Aveva ragione Baudelaire, quando in uno dei suoi pensieri colse appieno l’essenza della Modernità: «Teoria della vera civiltà. Non consiste nel gas o nel vapore o nei tavolini parlanti, consiste nella dimenticanza del peccato originale». E se non esiste più questa coscienza della colpa, insita nell’uomo sin dall’inizio, sparisce completamente anche l’idea di salvezza, di redenzione. È questo uno dei presupposti del nuovo libro di Salvatore Natoli, Il fine della politica. Dalla teologia del regno al governo della contingenza (Bollati Boringhieri, pagine 130, euro 15) che sarà presentato lunedì prossimo al teatro Franco Parenti di Milano dall’autore con Davide Assael.
Il filosofo noto per i suoi saggi sul dolore e sulla felicità, nonché per le sue numerose interlocuzioni, da non credente, col mondo dei credenti (memorabili alcuni suoi confronti con personalità come il cardinal Martini, il biblista Sergio Quinzio o il monaco Enzo Bianchi), in questo volume si interroga sul destino della politica, ma in realtà la sua esplorazione riguarda tutto il percorso dell’umanità. A partire dall’idea di éschaton o éschata, “le cose future”, sorta nell’ambito del giudaismo ma riadattata dal cristianesimo e il cui influsso ha segnato in maniera decisiva tutta la storia dell’Occidente, dal Medioevo alla Modernità.
In realtà già Omero ne parla e se ne serve per definire «ciò che sta fuori», cioè «il più lontano, l’estremo». Nella Bibbia invece per i profeti designa la fine dei giorni e così nei Vangeli e in Paolo, ove emerge un concetto di tempo come promessa e compimento. I primi cristiani com’è noto attendevano un ritorno se non immediato assai ravvicinato di Gesù e si aspettavano che si compisse la promessa della salvezza e la cancellazione del male dalla faccia della terra. Commenta Natoli: «Il cristianesimo, nella sua essenza, non in altro consiste se non nell’annuncio del regno di Dio. Esso è già venuto con la venuta di Cristo nel mondo, tuttavia non si è ancora manifestato nella sua pienezza, (...) tant’è che il regno è ancora da invocare, anzi è la prima cosa da chiedere: venga il tuo regno».
L’éschaton è allora l’aver fede che nel futuro si adempirà quanto è stato promesso: di qui la felice formula “già e non ancora” che viene applicata alla Chiesa, che vive in sé la dimensione della salvezza ma ne attende la piena realizzazione. Col passare dei decenni e dei secoli, il tempo dell’attesa si è dilatato dato che la storia prosegue il suo corso, ed è esattamente questo il tempo della po-litica: inevitabile, da Paolo in poi, il tentativo di definire il rapporto fra la Chiesa e il potere, assieme alle prime formulazioni di una teologia della storia.
Natoli dedica diverse pagine alla questione del katéchon, quella potenza che trattiene il dilagare del male, ma al contempo impedisce il manifestarsi pieno del progetto di Dio sull’umanità. Già nell’antichità essa fu identificata da alcuni teologi con l’impero romano (c’è chi vide in Nerone l’Anticristo), ma perlopiù esso rimase, e rimane, un’entità misteriosa e indefinibile. Sta di fatto che i cristiani si trovarono sempre più immersi nel loro tempo e costretti a fare i conti con le potenze mondane.
Fu sant’Agostino a elaborare la prima vera e propria teologia della storia nel De civitate Dei. Il vescovo di Ippona vedeva il potere politico come una realtà che ha il compito preminente di contenimento del male, mentre Tommaso d’Aquino nei secoli successivi gli assegnerà una funzione positiva: il perseguimento del bene comune. In un saggio uscito in America nel 1949 e in Italia edito dal Saggiatore, Significato e fine della storia, il pensatore tedesco Karl Löwith scriveva: «L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo della storia profana sulla base della fede ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione. Ciò è confermato dal senso comune: infatti chi oserebbe pronunciare un giudizio definitivo sullo scopo e sul senso degli eventi contemporanei?».
Non molto diversamente sembra pensarla Natoli che però, pur prendendo atto del processo di secolarizzazione e della trasformazione dell’éschaton cristiano nell’utopia razionalistica e illuministica, continua a pensare che pure le società contemporanee abbiano una riserva di futuro, anche se ormai solo terreno. La legge del progresso, grazie alla quale si trasferiva all’operatività umana - alla scienza e alla tecnica in primis - la possibilità di progettare il futuro, già ai tempi di Voltaire si scontrava tuttavia con l’inesorabilità del destino: è noto lo sconcerto dei philosophes dinanzi alla tragedia del terremoto di Lisbona. E se è vero che la dimenticanza dell’éschaton è stata resa possibile in primo luogo per colpa della Chiesa, divenuta nei secoli passati sempre più «una grande macchina organizzativa che ha modellato la vita delle persone» perdendo di vista la dimensione spirituale, è altrettanto vero che l’utopia del cambiamento dell’uomo e della società ha generato mostri come i totalitarismi. Lo sguardo di Natoli si fa più disincantato: «Sono in tanti - scrive - a sostenere che il tempo della politica è, ormai, finito; e certamente lo è, se la politica la si pensa ancora in termini novecenteschi. Il Novecento, in particolare la prima metà, non è stato solo un tempo politico ma un tempo dell’iperpolitica».
Ciò nonostante, egli indica ancora una possibilità: «Se non c’è più alcuna “fine” da attendere, è necessario attendere alle cose del mondo, prendersele in carico». Compito della politica è allora la giustizia, la pace è moderare i conflitti, provvedere al benessere. Se essa ha perduto il senso dell’éschaton, mantiene un telos, vale a dire un fine. E questo può costituire un terreno di azione comune per credenti e non credenti che vogliano ancora impegnarsi nell’azione politica. Così Natoli può concludere: «È in forza della comune umanità, della pietas che lega tra loro uomini e popoli, che la specie mortale può salvarsi. Ora, cosa più della politica deve provvedere a ciò che è comune? Liberaci dal male è un’invocazione che si rivolge a Dio e per chi crede lo è ancora. Ma cos’altro è la realizzazione del regno, se non questo?».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DANTE, IL LETARGO DI SECOLI, E LA CRISI DELL’EUROPA - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
Iniziativa
Manifesto per l’Università: Manfredi (Crui), “educare i giovani ad affrontare il cambiamento con curiosità e attenzione agli altri”
Manifesto per l’Università è un documento molto importante che è stato condiviso alla Conferenza dei rettori e dalla Conferenza episcopale per definire una piattaforma di valori comuni intorno ai quali portare avanti l’educazione dei nostri giovani, a partire dal tema dell’inclusione, della tolleranza, della comprensione degli altri nella diversità, della democrazia, che sono valori fondanti della formazione, mettendo al centro l’uomo e l’attualità dell’umanità”. Lo dichiara al Sir Gaetano Manfredi, presidente della Crui (Conferenza dei rettori delle Università italiane) e rettore dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”, a margine della firma, oggi pomeriggio a Roma, del Manifesto per l’Università sottoscritto da Cei e Crui. “Oggi - aggiunge - sono in atto grandi trasformazioni culturali, digitali, geopolitiche. Dobbiamo educare i giovani ad affrontare il cambiamento con curiosità e attenzione agli altri. È necessaria quest’alleanza che parte dalla cultura”. Dicendosi molto fiducioso dei frutti che potrà dare l’iniziativa, Manfredi ricorda che a livello concreto la collaborazione con le Università cattoliche già esiste, ma adesso, grazie al Manifesto, diventerà ancora più efficace. (AgenSir, 15-05.2019)
Russo (Cei) e Manfredi (Crui).
Vescovi e rettori firmano un Manifesto per l’Università
Tra gli obiettivi la possibilità di stipulare accordi tra atenei e diocesi per percorsi formativi che pongano al centro la persona
Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 16 maggio 2019)
«Alleati» per affrontare le «nuove sfide» per offrire alle nuove generazioni una università che sia «comunità di studio, di ricerca e di vita». È il cuore del «Manifesto per l’università» che la Conferenza dei rettori italiani (Crui) e la Conferenza episcopale italiana (Cei) hanno sottoscritto ieri nella sede romana della Crui, presenti il presidente dei rettori italiani, Gaetano Manfredi (che guida la Federico II di Napoli) e il segretario generale della Cei, il vescovo Stefano Russo.
Un Manifesto che «esprimendo concordanza di vedute», vuole porre le basi per un lavoro di collaborazione con la «costruzione di reti, al fine di promuovere la cittadinanza globale e lo sviluppo sostenibile». Il documento, infatti, nella sua prima parte, declina alcuni punti di convergenza che Crui e Cei hanno individuato sull’essenza dell’Università. Del resto la Chiesa italiana da sempre è attenta al mondo della scuola, dell’università e della ricerca, ritenendolo fondamentale per la costruzione del futuro. Posizioni spesso espresse anche dalla Conferenza dei rettori, che si è trovata a dover guidare in questi ultimi decenni diverse fasi critiche e di riforma del settore accademico.
I nove punti del Manifesto, delineano con chiarezza l’idea di università che serve al Paese. Una università che garantisca «il diritto all’educazione e alla cultura per rispondere alle vocazioni e alle attitudini di ciascuno», in una realtà che deve «essere una comunità di studio, di ricerca e di vita, dove la persona sia al centro dei percorsi formativi». Questo porre la persona al centro, nasce dal fatto di «promuovere un umanesimo solidale». Non può mancare «una cultura del dialogo e della libertà», in un sistema dove funzioni «autonomia e sussidiarietà». Università che sappia «integrare competenze formali e quelle informali», sapendo creare «una rete globale che faciliti lo scambio culturale e la mobilità di studenti e docenti», adoperandosi per «uno sviluppo integrale e sostenibile», con attenzione alla «cultura digitale». In questo quadro, Crui e Cei si impegnano a «favorire lo scambio reciproco di esperienza e informazioni», inserendo «nei programmi per la formazione moduli che diano conto dell’unitarietà della dimensione spirituale e culturale». Il tutto «valorizzando una didattica attenta alla persona e orientata alla formazione di una coscienza critica e solidale». Anche per questo c’è l’impegno a «favorire la nascita di accordi e protocolli a livello territoriale tra atenei e singole diocesi, che sappiano promuovere quella che viene chiamata «la terza missione» dell’università: didattica, ricerca e applicazione concreta di quanto prodotto.
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
Il linguaggio della Costituzione
di Giovanni Sabbatucci (La Stampa, 26.04.2019)
«La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva». È uno dei passaggi centrali del discorso che Sergio Mattarella ha tenuto ieri a Vittorio Veneto, a conclusione delle celebrazioni del 25 aprile: l’ultimo di una serie di interventi in cui il presidente della Repubblica sembra aver tracciato una sorta di perimetro ideale della legittimità democratica e dell’etica repubblicana. Qualcosa di simile avevano fatto i suoi predecessori, soprattutto gli ultimi due. Ma in questo caso il riferimento è più puntuale e tutt’altro che neutro, visto che cade in una fase di accesa conflittualità politica: una fase in cui il dibattito pubblico tende a tracimare dall’alveo del fisiologico confronto fra idee e programmi per investire i principi di fondo in base ai quali siamo soliti definire le democrazie.
Vista in tale contesto, l’esortazione del capo dello Stato a non subordinare la difesa degli spazi di libertà alla ricerca di una maggiore tutela, o l’invito a non cedere alle sirene del nazionalismo sovranista (già evocato e condannato in numerosi interventi presidenziali) non possono non richiamare come modello negativo le democrazie illiberali e i regimi securitari dell’Est Europa. Ma il discorso suona anche come ammonimento implicito alle forze politiche italiane (Lega e Fratelli d’Italia) che a quei modelli dichiaratamente si ispirano.
Vanno nello stesso senso - anche se i destinatari politici del messaggio non coincidono specularmente - la condanna della violenza, seppur consumata in uno scenario bellico e in risposta ad altre violenze, e del ricorso alla giustizia sommaria, sempre incompatibile con la democrazia. Un accenno non casuale, in un discorso pronunciato nel giorno della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, in una terra di confine già teatro di conflitti e di violenze e in un paese che ricorda col suo nome la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, riproponendo quel filo di continuità (simbolica più che storica) fra Risorgimento, Grande Guerra e Resistenza che già fu caro a Carlo Azeglio Ciampi. Ma è difficile non cogliere in quella condanna anche un’eco delle recenti polemiche politiche sull’uso delle armi e sulla legittima difesa.
Non credo sia il caso di spingersi troppo oltre nella lettura in chiave politica degli ultimi interventi di Sergio Mattarella. O di ipotizzare anche per il suo settennato - come per quelli dei suoi predecessori, da Francesco Cossiga a Giorgio Napolitano - un secondo tempo di accentuato interventismo, che seguirebbe un primo tempo caratterizzato da stretto riserbo istituzionale. Certo la stessa situazione che l’Italia sta vivendo, segnata da una doppia conflittualità fra maggioranza e opposizione e all’interno della stessa maggioranza, potrebbe determinare, quasi per legge fisica, un ulteriore allargamento degli spazi di intervento presidenziale. Finora, però, Mattarella si è tenuto rigorosamente nei limiti del suo mandato. Ha espresso pareri e formulato giudizi anche gravi, ma sempre usando il lessico della democrazia liberale ed evitando ogni riferimento esplicito al confronto fra i partiti e all’azione di governo.
La Costituzione repubblicana, del resto, non si limita a condannare le dittature e i fascismi propriamente detti. Ma contiene in alcuni suoi articoli (vanno ricordati almeno il 9 sulle norme del diritto internazionale e sulla condizione degli stranieri e il 10 sulla guerra e sull’adesione agli organismi internazionali) norme difficilmente compatibili con i modelli nazionalisti e sovranisti. Finché non sarà cambiata, andrà rispettata nello spirito oltre che nella lettera.
DANTE, OGGI. PER UNA NUOVA "BUSSOLA TEOLOGICA" .... *
Classici.
Più fede nella politica, la lezione di Dante
La vicenda biografica e intellettuale del grande fiorentino si rivela di grande attualità ancora oggi, specie per quanto riguarda l’impegno dei credenti a favore del bene comune
di Gabriella M.Di Paola Dollorenzo (Avvenire, 17 febbraio 2019)
L’intervista al cardinale Gualtiero Bassetti (Avvenire, 9 dicembre 2018) ha riportato la nostra attenzione «sull’impegno concreto e responsabile dei cattolici in politica». Già nell’inchiesta del mensile Jesus sul «tempo del rammendo » (ottobre 2018), il presidente della Cei aveva rimarcato l’urgenza di ricostruire una presenza laicale che guardasse alla politica come a un’avventura positiva, nella necessità di una classe dirigente in grado di opporre alla sfiducia popolare un forte senso di concretezza e di responsabilità. Queste virtù o, per meglio dire, questi talenti ci permettono di richiamare la coerenza del pensiero politico di Dante così come ebbe a svilupparsi, sia negli anni di politica attiva sia dopo l’esilio e parallelamente allo svolgersi del suo pensiero teologico nella Commedia. Considerare l’architettura del suo pensiero, il rapporto tra teoria e prassi, l’utilizzo anzi l’interazione delle fonti (Sacre Scritture, autori grecolatini, testi arabi) può essere utile per individuare l’archetipo del cristiano impegnato nella realtà politica del proprio tempo, con l’ambizione di tradurre l’imitatio Christi nel concreto operare all’interno della res publica.
La vicenda umana del Poeta incardinato nella realtà politica del suo tempo, specialmente negli anni che vanno dalla morte di Beatrice (1290) alla condanna all’esilio (1302), ci permette di riflettere sul rapporto teologia- politica, così come fu duramente ma appassionatamente vissuto, in «un crescendo di temerarietà e di coerenza» (Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, 1993) e, nello stesso tempo, avendo ben salda la «coscienza della storia», quell’habitus morale in base al quale «gli avvenimenti non si confondono caoticamente nella memoria, ma sono collegati dalla coscienza della causa e dell’effetto, dell’iniziativa e della responsabilità» (Romano Guardini, Dante, 2008). Se accogliamo l’approccio euristico di Jürgen Moltmann (si veda in particolare Dio nel progetto del mondo moderno, edito da Queriniana nel 1999), possiamo capire in che senso la teologia può “binarizzarsi” con la politica determinando le scelte tra il bene e il male, nel concreto avvicendarsi della storia di una città, di una nazione, di un popolo. Non è un caso che la formazione filosofico-teologica di Dante preceda cronologicamente l’attività politica, anzi ne sia quasi il trampolino di lancio: «Io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocaboli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti » ( Convivio, II, xii, 5-7).
Dopo aver approfondito l’Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele (nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke e col commento di Tommaso d’Aquino), nel libro II del Convivio si rivendica il primato della morale. Dante va oltre Tommaso d’Aquino: se la metafisica è la scienza di Dio, l’uomo potrà cercare lo status felicitatis in questa vita e, dato che l’uomo è un animale sociale, in una politica regolata dalla morale. Pertanto non è conforme alla morale rinchiudersi nella contemplazione dell’intelligibile, quando l’odio e la violenza di parte sconvolgono la comunità in cui si vive.
Nel 1294, anno dell’elezione e successiva abdicazione di Celestino V, nonché dell’ascesa al papato di Bonifacio VIII, Dante ha un ruolo diplomatico- culturale di primo piano nella delegazione dei cavalieri destinati dal Comune al seguito dell’imperatore Carlo Martello. In seguito, con la stesura del Paradiso, Dante potrà immaginare un incontro con Carlo al cospetto di Dio; il dialogo tra i due, con esplicito richiamo alla Politica di Aristotele, ma anche al De Anima, ha una precisa connotazione teologica: «“Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?”. /E io: “Non già; ché impossibil veggio / che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi”. / Ond’ elli ancora: “Or dì: sarebbe il peggio /per l’omo in terra, se non fosse cive?”. / “Sì”, rispuos’ io; “e qui ragion non cheggio”. / “E puot’ elli esser, se giù non si vive /diversamente per diversi offici? / Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive”» ( Paradiso, VIII, 113-120).
Sarebbe un male per l’uomo sulla terra se non facesse parte di un ordine civile, di un organismo sociale? E può esistere un’organizzazione civile se i suoi membri non siano ordinati a vivere esercitando diverse funzioni? E Dante risponde “sì” alla prima domanda e “no” alla seconda. La naturale politicità dell’uomo si accompagna alla necessità di distinguere gli offici poiché Nihil frustra natura facit (Politica I, 2).
Il quinquennio successivo al 1294 segnerà intensamente la vita e l’opera di Dante proprio perché continuo sarà lo scambio tra teoria e prassi, una prassi in toga candida: dalla riflessione filosofica riguardo al primato della morale alla traduzione di ciò nella vita della polis, una sorta di ragion pratica kantiana ante litteram: impegno civile, riflessione morale, tenace inseguimento della giustizia.
Proprio quando Firenze è dilaniata da lotte sociali interne e lo stesso papato non è immune dalla brama di potere che assale i partiti politici, Dante tiene ben ferma la barra del suo operare cristiano, perché è fermamente convinto di agire nella direzione indicata dalla bussola teologica. In questo atteggiamento riconosciamo l’attualità del suo pensiero politico e del suo agire politico. Dopo la condanna, negli anni dell’esilio, Dante consegnerà alle pagine del Convivio, della Commedia, ma soprattutto del trattato Monarchia, la riflessione teorica frutto della sua esperienza politica. È un progetto in fieri perché dovrà fare i conti col divenire della storia, è un progetto politico voluto da Dio per il bene dell’umanità.
Dopo la fine del potere temporale dei Papi, la Chiesa, a partire dall’enciclica In praeclara summorum (1921) di Benedetto XV, fino al Messaggio al presidente del Pontificio Consiglio della cultura in occasione del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri (2015) di papa Francesco, ha pienamente rivendicato, si pensi alla mirabile Altissimi cantus, la lettera apostolica di Paolo VI, l’appartenenza di Dante alla Chiesa cattolica e alla fede di Cristo, proprio considerando la sua battaglia di cristiano impegnato nella vita politica del suo tempo e nella sua somma opera teologica.
Oggi l’umanesimo cristiano di Dante può essere una traccia da seguire nella comunicazione religiosa e laica che stiamo vivendo. Per la preparazione del laicato cattolico alla vita politica, il pensiero di Dante può diventare una “bussola teologica”. Il rapporto tra fede, morale e politica, vissuto alla luce dei valori cristiani, che fece di Dante il segno di contraddizione della sua epoca, oggi fa di lui un nostro contemporaneo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli
di Papa Francesco *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero. Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato - un’ipotesi
storica -, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16).
Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
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PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE -Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2019 (ripresa parziale).
A novant’anni dal Concordato firmato da Mussolini e Pio XI
Stato-Chiesa, i nodi irrisolti
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 11 febbraio 2019)
Sono trascorsi novant’anni da quando, l’11 febbraio 1929, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono stati regolati da un concordato. Un tempo sufficientemente lungo per consentire un bilancio e per verificare se non sia opportuna una nuova revisione, dopo quella operata nel febbraio 1984 sotto il governo Craxi, con la duplice parziale correzione sia dei Patti lateranensi sia del concordato vero e proprio. Una revisione e una correzione, peraltro, dagli esiti ambigui.
In primo luogo, ancora oggi rimane in vigore la norma secondo la quale - nel matrimonio concordatario - in caso di annullamento la norma canonica prevale su quella civile, nonostante i criteri (oltre che i giudici) che presiedono all’annullamento religioso siano difformi da quelli che presiedono all’annullamento civile.
Inoltre, l’eliminazione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato non ha eliminato affatto l’obbligo per lo Stato di garantire l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e, anzi, lo estendeva alle scuole materne, escludendo solo l’università. Il costo finanziario per lo Stato di tale obbligo - sotto forma di stipendi pagati a insegnanti reclutati non dallo Stato bensì dalla Chiesa cattolica - è stato stimato in 1,25 miliardi di euro l’anno. Per mantenere una schiera numerosa di insegnanti di religione a fronte di una crescente diminuzione di coloro che ne frequentano l’insegnamento, raramente viene utilizzata la possibilità, pure prevista dalle modifiche del 1984, di accorpare le classi.
Peraltro, anche la modifica da una condizione di obbligatorietà per gli studenti a partecipare alle lezioni di religione, salva una richiesta di esenzione, alla facoltà di decidere se avvalersene o meno è rimasta in condizione di ambiguità.
L’insegnamento di religione, infatti, fa parte a pieno titolo dell’orario scolastico e può essere collocato in qualsiasi posizione, a prescindere dal numero di studenti per classe che se ne avvale. L’insegnante di religione partecipa a pieno titolo al collegio dei docenti e il suo voto "fa media". Quanto agli studenti che scelgono di non frequentare religione, inclusi i bambini della scuola materna, sono loro a dover uscire di classe per partecipare ad attività alternative più o meno fasulle, lasciate alla discrezione e alla buona volontà dell’insegnante loro assegnato. Ma senza avere l’alternativa di un’ora di scuola in meno, salvo che casualmente l’ora di religione sia messa alla prima o all’ultima ora. Una situazione apparentemente migliore rispetto a quando gli "esonerati" passavano l’ora di religione in corridoio.
Di fatto, tuttavia, chi "non si avvale" dell’insegnamento della religione cattolica continua ad avere meno diritti, in termini di risorse dedicate, di chi "si avvale". Mentre i loro genitori - tramite le imposte - finanziano l’insegnamento della religione cattolica.
Del tutto in contrasto con l’obiettivo del finanziamento da parte dei fedeli si è rivelato il meccanismo dell’8 per mille. In linea di principio, il passaggio dalla congrua - ovvero dal sostentamento del clero direttamente a carico dello Stato, appunto al finanziamento da parte dei fedeli tramite la devoluzione di una quota delle imposte dovute - è stato molto positivo.
Tuttavia, la formulazione di questa norma si è prestata nel tempo e tuttora si presta a un enorme imbroglio a carico dei contribuenti.
In base alla legge 222/85, infatti, ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può scegliere la destinazione dell’8 per mille del proprio gettito Irpef a un’istituzione religiosa che con lo Stato ha stipulato vuoi, come nel caso della Chiesa cattolica, un concordato, vuoi un’intesa, oppure scegliere di destinarlo allo Stato. Mentre all’inizio l’opzione era ristretta a quella tra Stato e Chiesa cattolica, oggi si può scegliere tra tredici alternative: Stato (per scopi sociali e assistenziali), Chiesa cattolica, Unione chiese cristiane avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese metodiste e valdesi, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione comunità ebraiche Italiane, Unione buddhista, Unione induista, Chiesa apostolica, Sacra diocesi ortodossa d’Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e infine, dal 2017, l’istituto buddista italiano Soka gakkai.
Il problema è che non viene attribuita a ciascuna istituzione solo la quota dell’8 per mille per la quale i contribuenti hanno effettuato una scelta precisa - come avviene per il 5 per mille destinato a associazioni non profit - ma anche la quota non specificamente attribuita viene suddivisa in base alle percentuali delle scelte effettuate. Chi non sceglie, ritenendo ingenuamente che il suo 8 per mille rimanga allo Stato, di fatto subisce le preferenze di chi invece lo ha fatto. Stante che negli anni il numero di coloro che effettuano una scelta è progressivamente diminuito ma la priorità delle scelte è rimasta per la Chiesa Cattolica, questa si prende anche il grosso della quota di chi non ha inteso designarla come beneficiaria.
In base agli ultimi dati disponibili - riferiti alle dichiarazioni dei redditi effettuate nel 2015 - solo il 44% degli oltre quaranta milioni di contribuenti aveva espresso una scelta e solo il 35% per la Chiesa cattolica, la quale, tuttavia, in base a una distribuzione proporzionale dell’intero ammontare dell’8 per mille ne ha ricevuto l’81,21% , pari a 1.005.390.045 euro. Anche le altre Chiese ricevono beneficio da questo meccanismo a dir poco ambiguo, anche se si tratta di briciole. Si aggiunga che, a differenza di quanto fanno molte Chiese, lo Stato non pubblicizza neppure l’opzione a proprio favore, e tantomeno esplicita a che cosa destinerebbe l’eventuale gettito, contribuendo all’opacità del tutto e generando sfiducia.
Non vi è, inoltre, l’opzione di destinare il proprio 8 per mille ad associazioni che si battono per la laicità dello stato o che sostengono l’ateismo, mettendo, di nuovo, i cittadini in condizioni di disuguaglianza rispetto alla possibilità di sostenere finanziariamente il proprio orientamento rispetto al fenomeno religioso. Possono farlo solo destinando il 5 per mille, che è normato diversamente.
Alla luce di questi e altri aspetti altamente problematici per la laicità dello Stato, l’uguaglianza dei cittadini (anche minorenni), la trasparenza nei rapporti tra Stato e cittadini, in questi giorni un gruppo di 150 esponenti del mondo della cultura e difensori dei diritti civili ha firmato un appello al Parlamento, al governo, alle forze politiche, affinché - in attesa di tempi più favorevoli a una radicale revisione, se non al superamento, del Concordato - si intervenga per dare almeno piena attuazione alle finalità degli accordi del 1984, con l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica e la revisione degli attuali criteri di ripartizione della quota "non destinata" dell’8 per mille. A queste due richieste si aggiunge quella di un’azione determinata per dare attuazione alla recente sentenza della Corte europea, recuperando nella misura del possibile l’Ici non pagata in passato, 4-5 miliardi di euro. Si tratta, a me pare, di proposte civili e rispettose della reciproca autonomia tra Stato e Chiese. Ma sono sicura che - se non sepolte dal silenzio imbarazzato dei media "laici" - saranno oggetto di anatemi di vario tipo.
I cattolici in politica per costruire il futuro
Oggi come 100 anni fa, l’impegno non è rivolto al passato ma riguarda
la capacità di immaginare una via d’uscita dalla crisi delle società avanzate
di Mauro Magatti (Corriere della Sera, 06.02.2019)
Nelle ultime settimane, in occasione dei cento anni dell’Appello ai liberi e forti di Sturzo, si è riacceso il dibattito sul ruolo dei cattolici in politica (Galli della Loggia e Panebianco sul Corriere ). Comunque la si pensi, il tema è oggi rilevante per almeno due ragioni. In primo luogo perché nell’Italia a pezzi di oggi il variegato mondo cattolico, nonostante la secolarizzazione incalzante, continua a essere - seppur tra mille difficoltà - una delle poche presenze rilevanti. E in secondo luogo perché, nel cambio d’epoca che stiamo attraversando, il rapporto tra politica e religione è tornato centrale. Nel post-2008, in un mondo diventato multipolare, la ricerca di un nuovo equilibrio tra identità cultuali e sviluppo tecno-economico spinge le diverse aree del pianeta a posizionarsi secondo una logica che ricorda da vicino le tesi dello Scontro delle civiltà di Samuel Huntington. Dove la dimensione religiosa è necessariamente tirata in ballo.
Non a caso, in Occidente, le varie forme della nuova destra (da Trump a Orbán a Bolsonaro) sono sostenute dall’ala più conservatrice del mondo cristiano. Un’alleanza teorizzata da Bannon e costruita contro due «nemici»: la cultura progressista (che ha il torto di combinare la fede nella innovazione tecnoscientifica con i diritti individuali); e il mondo islamico, storico avversario oggi accusato di minacciare la cristianità attraverso l’immigrazione e il terrorismo. La «democrazia illiberale» di cui parla Orbán è il prodotto di una nuova «santa alleanza» tra politica e religione - da realizzare su base nazionale - per sconfiggere i due avversari sopra richiamati. La capacità di mobilitare i fermenti identitari di parte del mondo religioso costituisce un elemento importante nella spiegazione dell’avanzata dei nuovi partiti sovranisti. In Italia la presenza di papa Francesco - con i conseguenti orientamenti della Cei - ha finora limitato l’uso da parte di Salvini dei simboli religiosi. Ma sotto la cenere, la brace brucia.
Cento anni fa, col suo appello, Sturzo tentò di radunare le forze cattoliche per evitare la dissoluzione della democrazia, stretta tra le destre emergenti e le sterili convulsioni della sinistra. Oggi in Italia, in Europa, in Occidente, quel bisogno si ripropone: come allora, il disordine mondiale sta risucchiando gli strati popolari su posizioni estremiste. Col consenso di quella parte del mondo religioso che spera in una rivincita nei confronti della secolarizzazione.
Rispetto a 100 anni fa, si possono notare una somiglianza e una differenza. Sturzo fu il prodotto più maturo della lettura che l’Enciclica Rerum Novarum aveva offerto dei grandi cambiamenti prodotti dall’industrializzazione. Come allora, anche oggi il mondo cattolico ha a disposizione un testo (Laudato si’) che per ampiezza e ricchezza è in grado di fornire la cornice di riferimento per l’azione negli ambiti economico, sociale e politico. La differenza è che l’Appello a i liberi e forti arrivò dopo più di 20 anni spesi ad animare la presenza civile dei cattolici. Vero e proprio tirocinio nella carne delle società, che permise a Sturzo di maturare una concezione politica realista e vicina ai problemi reali delle persone.
Per quanto nel Paese ci sia molto di più di quello che emerge nella comunicazione pubblica, e per quanto molto di questo nuovo venga proprio dalla radice cattolica, c’è da domandarsi se sia già il tempo di serrare le fila o se non sia invece il momento di lavorare con più determinazione a innovare i processi dell’economia, della società, dei territori in modo da maturare i termini di una proposta adeguata ai tempi che viviamo.
Inutile cercare si rispondere in astratto a questa domanda. Quello che occorre fare è partire subito e comunque dalla società: ascoltando i bisogni e i sogni del «popolo» (termine caro a papa Francesco) e orientandoli nella direzione indicata dalla Laudato si’. E cercando poi di capire, strada facendo, quale siano i modi e le forme più adatte per contribuire al rilancio del Paese.
Quel che deve essere chiaro è che un impegno dei cattolici in politica, oggi come 100 anni fa, non riguarda la difesa di un’identità o di interessi di parte. Riguarda invece la capacità di questo sguardo sul mondo di immaginare una via d’uscita dalla crisi nella quale le società avanzate si trovano oggi. Nella convinzione che la radice cristiana abbia qualcosa da dire sul futuro e non solo sul passato.
Fu questa la grande sfida di Sturzo, che, nonostante le sue personali traversie politiche, alla fine portò frutti importanti. Il suo lavoro sul campo e la sua ispirazione politica furono infatti decisivi per la nascita dei partiti di ispirazione cristiana che, nel dopoguerra, ebbero un ruolo importante a livello internazionale.
Circa un eventuale ritorno dell’impegno dei cattolici in politica, sarà dunque di questo che si dovrà parlare: lo sguardo cristiano è capace di dire una parola nuova sulla crisi del mondo contemporaneo? Di costruire un consenso, ben al di là dei propri confini identitari, attorno alle linee tracciate dalla Laudato si’? Di essere voce di quei radicamenti concreti (nel mondo dell’impresa, della ricerca, delle professioni, del sociale e così via) da cui trarre anche quella classe dirigente di cui tutti sentono la mancanza?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il “sacro dovere” e l’erosione della costituzione
di Francesco Palermo *
La costituzione è il perimetro entro il quale si può muovere la politica con le sue scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee deve svolgersi secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata a degli arbitri, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il Presidente della Repubblica. È pertanto non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la costituzione può svolgersi la politica. La costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: non avrai altro Dio all’infuori di me. E non può esserci politica al di fuori della costituzione.
Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati ad interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’interno ha invocato l’articolo 52 della costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due pur diverse vicende della nave Diciotti da un lato e della nave Sea Watch dall’altro, il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul “sacro dovere” di ciascun cittadino alla “difesa della patria”, previsto appunto dall’articolo 52 della costituzione.
La disposizione non ha naturalmente nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della costituzione. Non a caso il testo definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della costituente. Erano tutti d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo. Il richiamo al “sacro dovere” della “difesa della Patria” ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione (“sacro dovere”), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti. Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’art. 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo ricollega a tale contesto, facendo intuire che “l’invasione” dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della costituzione, di eroderne il ruolo di limite e di parametro dell’attività politica. Un’erosione che continua da tempo, trasversalmente alle forze politiche, e di cui questo caso è solo l’esempio più recente. Così facendo si arriva però a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della costituzione. Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale. O forse sì. E infatti l’operazione funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della costituzione - il più importante - sfugga. Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che non è “solo” quella dei migranti, ma quella della costituzione. Su cui siamo imbarcati tutti...
* 31.01.2019 - "Il sacro dovere e la sua torsione populista" (Il Mulino)
Federico La Sala
Memoria
Massimo Castoldi, il libro
Il coraggio dei maestri antifascisti
La storia di dodici insegnanti che si opposero alla dittatura. Lo studioso porta alla luce per Donzelli esempi eroici di educatori perseguitati e uccisi dal regime di Mussolini
di CORRADO STAJANO *
Com’è importante la figura del maestro in una società civile. Sotto una dittatura, poi, quanto pesano la sua dignità, il suo coraggio per far sì che i bambini a lui affidati crescano nel rispetto delle regole dei rapporti umani cancellate dal regime, qualsiasi regime. È uscito da Donzelli un libro di Massimo Castoldi, professore di Filologia italiana all’Università di Pavia, studioso della memorialistica della Resistenza: Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti. Un libro amaro, doloroso, commovente, utile a far capire perché quel passato deve davvero passare per sempre, soprattutto oggi che il fascismo sembra venga guardato con indulgenza. (Sere fa, durante il programma di Lilli Gruber, Luciano Canfora spiegò con limpidezza a un giornalista di idee nerastre, ignorante anche nel linguaggio, che cosa significa la parola fascistoide, purtroppo tornata nel clima di una certa politica del nostro tempo).
Nei primi vent’anni del Novecento, scrive Massimo Castoldi, il maestro elementare aveva acquistato una centralità nella vita socio-culturale del Paese: era impegnato nella lotta contro l’analfabetismo, per un’istruzione sempre più diffusa, per cercar di sanare i mali dell’epoca, le malattie, la fame, la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie. Compito del maestro non era soltanto quello di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche a vivere meglio, a creare una comunità in cui gli uomini e le donne fossero rispettosi di se stessi e degli altri. Sono gli anni delle leghe contadine, delle Società di Mutuo soccorso, delle università popolari, dei circoli operai, delle cooperative, delle Camere del lavoro, delle casse rurali, del socialismo umanitario nascente.
Poi il fascismo che frantumò ogni idea di libertà: «I bimbi d’Italia si chiaman balilla». Piccoli soldati in uniforme, con moschettini modello ’38, forse fieri del loro dissennato giuramento d’obbligo: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista». Poveri bambini ignari. Coi maestri in orbace e il pugnaletto alla cintura.
Ma c’erano anche gli altri, i disubbidienti della libertà che spesso rischiavano il posto e anche la vita come Carlo Cammeo trucidato nel 1921 a Pisa sulla soglia della sua classe, come Salvatore Principato, fucilato dai fascisti della «Muti» in piazzale Loreto a Milano, per ordine dei tedeschi, nel 1944. Il libro non vuole fare un elenco di chi si oppose, vittima della dittatura fascista. È la storia di dodici maestri e maestre che seppero far fronte, ma è anche l’analisi di una società minuta e spesso sconosciuta.
Sono vicende tristi, quelle raccontate da Massimo Castoldi. Come la vita di Alda Costa, la maestra di cui scrisse Giorgio Bassani nelle Cinque storie ferraresi: la Costa è la Clelia Trotti del racconto, socialista riformista, appassionata alla condizione sociale dei bambini, contro la guerra, vittima delle persecuzioni dei fascisti che la insultavano sui loro giornali e a Bologna, nel 1922, l’aggredirono in trecento, le strapparono le vesti, le sputarono addosso, la costrinsero a bere l’olio di ricino perché si era rifiutata di inneggiare al fascismo. Fu denunziata, non rispettava l’obbligo del saluto romano e seguitava a rivendicare la sua fede socialista. Sospesa, licenziata, inviata al confino alle isole Tremiti per cinque anni, arrestata di nuovo quando il federale fascista Ghisellini fu giustiziato a Ferrara: la vicenda è narrata nel film La lunga notte del ’43.
Popolano il libro nomi di uomini e di donne che non sono passati alla storia, ma che spiegano nel profondo che cosa fu il fascismo. Anselmo Cessi, un maestro cattolico che infastidiva i fascisti per la sua appassionata azione sociale nel Mantovano, fu ucciso nel 1926 mentre passeggiava con la moglie a Castel Goffredo; Mariangela Maccioni, una maestra antifascista sarda - 90 alunni - angariata perché si era rifiutata di fare una lezione sul Duce, sospesa più volte dall’insegnamento. Alla sua morte scrisse sul «Ponte» Salvatore Cambosu: «C’era in lei la forza e la gentilezza antica dell’ulivo».
E poi Abigaille Zanetta, socialista, antimilitarista, comunista, espulsa dalla scuola dal podestà di Milano Ernesto Belloni, «per non sufficiente adattamento alle direttive politiche del governo», arrestata, incarcerata, cercò di sopravvivere con qualche lezione privata. Non ebbe neppure la gioia della Liberazione. Morì un mese prima.
Con il medesimo destino di perseguitati coraggiosi, tra gli altri, Fabio Maffi, Carlo Fontana, Aurelio Castoldi, Giuseppe Latronico, Anna Botto, la maestra di Vigevano che portò l’intera scolaresca alla messa funebre per il partigiano Carlo Alberto Crespi e finì poi a Ravensbrück nel forno crematorio, Salvatore Principato, già ricordato, uno dei quindici martiri di piazzale Loreto, intellettuale attivo nel lavoro culturale, partigiano socialista, dentro e fuori di prigione. Il suo nome resta, per sempre, nelle poesie di Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Franco Loi.
Quanto contano le parole nel far rivivere la memoria smarrita della libertà e della giustizia. Le pagine di questo libro lo documentano.
Oggi sarà una giornata eccezionale
Nel ricordo di un testimone *
di L’Osservatore Romano, 24 gennaio 2019
Uno dei pochi testimoni ancora in vita è Guido Gusso - in quel periodo “aiutante di camera” del Papa - che accompagnò Giovanni XXIII a San Paolo e assistette allo storico annuncio.
Ci racconta cosa è successo quel giorno?: una giornata eccezionale, nel ricordo di un testimone.
Ricordo proprio bene quel giorno, il 25 gennaio 1959. Ho dato una mano al Santo Padre a mettersi i paramenti, cioè il rocchetto e la mozzetta. E lui mi ha detto: «Guido, prendi il rocchetto più bello perché oggi sarà una giornata eccezionale, ché dovrò dare un grande annuncio». Allora ho messo a posto tutto, il mantello rosso, il cappello rosso e siamo scesi per prendere l’auto.
Guidava lei?
La portava il cavalier Angelo Stoppa, che era l’autista di Papa Pacelli. Durante il percorso, il Papa si era come assorto, non parlava. Normalmente, lui parlava sempre... ma quel giorno, quella mattina, tutto in silenzio. Siamo arrivati a San Paolo, c’è stata la cerimonia, e poi ha invitato tutti i cardinali ad andare nella “saletta”, una piccola aula. E là mi sono fermato anch’io, perché avevo il cappello, il mantello e la borsa. E lui ha annunciato che avrebbe fatto un sinodo, il Sinodo romano, che il Sinodo sarebbe quello per i preti. Già a Venezia l’aveva fatto, perché io stavo a Venezia con lui. Poi, dopo aver parlato un po’ del Sinodo disse: «Vi debbo dare un grande annuncio: indirò un Concilio». Al momento c’è stato un «ohhhhh!», e poi un silenzio di tomba. Nessuno ha più parlato. E poi c’è stato un brontolio generale... Lui ha spiegato... e poi ha detto anche che doveva fare un’altra cosa...
La riforma del Codice.
La riforma del Codice, ecco. Ha spiegato un po’, e tutti sono andati via, ognuno per conto suo. Il Papa è salito in macchina, serio. E disse: «Non l’hanno presa bene: questa cosa del Concilio a nessuno gli garbava». E basta. Poi siamo tornati a casa. Allora, in camera da letto, mentre si levava il rocchetto, la mozzetta e tutti i paramenti che aveva addosso, io gli chiesi: «Santità, io sono ignorante, non so che cosa sia questo Concilio». «Eh - diceva - come non lo sai?». «No - dissi - ma mi consola che quel cardinale che stava vicino a me ha chiesto al suo collega: “Di’ un po’, ma che è ‘st’affare del Concilio, che non so che cosa sia?”». Allora lui, con pazienza, mi ha fatto sedere nel suo studio e mi ha spiegato i Concili, incominciando dai primi Concili che facevano all’epoca, mi pare secondo o terzo secolo, per arrivare poi al Concilio di Trento e all’ultimo, il concilio Vaticano I, che poi è stato sospeso, perché c’è stata la presa di Roma con Pio IX.
Quindi, alla fine, quel giorno lui era contento o no?
Era contento, altroché contento! È stata un’ispirazione, diceva: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi». Questo era quello che voleva.
E si è meravigliato della reazione dei cardinali?
No... Lo sapeva... Mi ha detto: «Già incominciano a tirarmi le pietre. Stai attento, tu, nella vita ti può capitare come capita a me, che mi tirano i sassi. Non raccattarli, eh?». Era buono, era buono. E posso dire, dopo sessant’anni ci voleva un argentino come Francesco per valorizzare e dare impulso al grande Concilio fatto. È stato grande Paolo VI che l’ha portato avanti, perché credo che chiunque altro avrebbe messo da parte tutto.
Cos’altro disse durante il viaggio di ritorno in Vaticano?
Non ha detto «a»; non ha detto «a». Solo qualche parola con monsignor Capovilla. Però, posso dire che lui per il Concilio ha dato la vita. Poi, l’11 ottobre è stato grandioso: l’apertura, era contento! Lui sperava di poterlo anche chiudere. Purtroppo è morto, per un brutto male. Ha sofferto molto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Come la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su “Repubblica” di Alessandro Baricco
di EZIO MAURO (la Repubblica, 11 Gennaio 2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite [...].
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IN UNO "STATO" SONNAMBOLICO, IL CONTINUO RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI ITALIANI...
DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO, IL CIECO OMERO DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE. Un omaggio critico (8 dicembre 2004).
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
ITALIA!!! TUTTI. MOLTI. POCHI: E NESSUNA COGNIZIONE DELL’UNO, DELL’UNITA’!!! L’Italia e le classi dirigenti
Federico La Sala
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su "Repubblica" di Alessandro Baricco
di Ezio Mauro (la Repubblica, 12.01.2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate.
La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione.
Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il " pensiero" - e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia - della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea.
E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale - affinché nessuno si senta facilmente assolto - sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora - ognuno per la sua quota - dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi?
L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è " in" e ciò che è " out", deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi.
Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominantidominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica - tutta - fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione.
La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato.
Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura. Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe.
Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del " Punto Zero", dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere - ragiona l’uomo nuovo - non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso.
Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di " nuovo" diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra.
Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti.
È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia " sacrosantus" perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco » .`
Il Divo che commise il reato di associazione con la mafia
di Gian Carlo Caselli ( Il Fatto, 07.01.2019)
Subito dopo la morte di Falcone e Borsellino ho chiesto il trasferimento a Palermo. Ho avuto l’onore di guidare la procura di questa città per quasi sette anni. Nel contrasto all’ala militare di Cosa nostra i risultati sono stati imponenti: basti ricordare gli innumerevoli processi contro mafiosi “doc” conclusi con condanne per 650 ergastoli e un’infinità di anni di reclusione. Ma la mafia (tutti son bravi a dirlo, pochi a trarne le conseguenze sul piano investigativo) non è solo “coppola e lupara”. È anche complicità e collusioni assicurate da “colletti bianchi”. Ecco quindi vari processi contro imputati “eccellenti”. Fra gli altri Marcello Dell’Utri e Giulio Andreotti. Del primo (condannato in via definitiva a sette anni di reclusione) non si parla, se non quando vengon fuori i suoi problemi di salute. Del secondo è stata calpestata e fatta a pezzi la verità che emerge chiara dagli atti.
In primo grado c’è stata assoluzione, sia pure per insufficienza di prove. In Appello (mentre per i fatti successivi è stata confermata tale assoluzione) fino alla primavera del 1980 l’imputato è stato dichiarato colpevole, per aver commesso (sic!) il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra. Il reato commesso è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente commesso. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello e quindi anche la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980. Processualmente è questa la verità definitiva ed irrevocabile. Ed è evidente che chi parla di “assoluzione” è fuori della realtà. Non esiste in natura, è una bestemmia la formula “assolto per aver commesso il reato”.
La corte d’Appello si è basata su prove sicure e riscontrate. Ad esempio, ha ritenuto provati due incontri del senatore con il “capo dei capi” di allora , Stefano Bontade, per discutere il caso di Pier Santi Mattarella, integerrimo capo della Dc siciliana, che pagò con la vita il coraggio di essersi opposto a Cosa nostra. La corte sottolinea tra l’altro che l’imputato ha “omesso di denunziare elementi utili a far luce [sull’omicidio] di cui era venuto a conoscenza in dipendenza dei suoi diretti contatti con i mafiosi”. Secondo la corte d’Appello, Andreotti ha contribuito “al rafforzamento della organizzazione criminale , inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale. Così realizzando “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”.
Chi ha nascosto o stravolto la verità - oltre a truffare il popolo italiano in nome del quale si pronunziano le sentenze - non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come in una certa fase, almeno parzialmente, si è formato il consenso nel nostro Paese. Ma in questo modo si rende un pessimo servizio alla qualità della democrazia. Perché si finisce per legittimare (ieri, oggi e domani) la politica che ha rapporti con la mafia.
Il segno di Belzebù indelebile sul Paese
Imperitura memoria - L’impronta lasciata sul seggio di Palazzo Madama da Giulio Andreotti, in Senato dal ‘91 al 2013 dopo 45 anni passati alla Camera
di Pino Corrias (Il Fatto, 07.01.2019)
Come le mani disegnate in rosso sulle parete delle caverne ci dicono che l’uomo del Pleistocene passò da lì, così la gobba di Giulio Andreotti incisa sul cuoio della sua sedia al Senato ci ricorda che in un tempo remoto della Repubblica siamo stati tutti democristiani - volenti o nolenti, eretti o quadrumani - lungo un’era che gli archeologi del nostro tempo chiamano per l’appunto Andreottiana.
Il capostipite era più alto di quanto oggi si possa immaginare. Aveva un pallore da sagrestia su un volto senza labbra, le orecchie aguzze, il passo veloce e scivoloso. Dormiva poco. Usciva ogni mattina all’alba per la Messa. Faceva l’elemosina ai mendicanti raccolti sul sagrato. Mangiava in bianco. Vestiva oscuri completi Caraceni col panciotto. Soffriva di emicrania e di persistente disincanto. Nel raro tempo libero giocava a gin-rummy e collezionava campanelli. Nell’ampio tempo del lavoro accumulava nemici e segreti.
I nemici li ha seppelliti quasi tutti. I segreti invece sono diventati la nostra storia e il suo leggendario archivio, nutrito per molto più di mezzo secolo, da quando la sua giovinezza fu rinvenuta tra le mura vaticane da Alcide De Gasperi, futuro plenipotenziario della Democrazia Cristiana, più o meno mentre le bombe degli angloamericani violavano il sacro suolo di Roma città aperta, estate 1943, impolverando la stola di papa Pio XII.
A 24 anni Giulio stava già nel posto giusto, tra gli inchiostri dell’eterno potere e al cospetto della grande Storia, intraprendendone da allora i cospicui labirinti che lo condussero, tra maldicenze e applausi, a indossare 27 volte i panni di ministro, 7 volte la corona di presidente del Consiglio.
Per poi passare, a intermittenza, dalle luci dello statista alle ombre del grande vecchio, 27 volte inquisito dalla magistratura e 27 volte salvato dalle Camere che a maggioranza negavano l’autorizzazione a procedere. Salvo soffriggere, udienza dopo udienza, sul banco degli imputati del tribunale di Palermo, anno 1995, per il celebre bacio a Totò Riina, e poi su quello di Perugia, dove era accusato di essere il mandante dei quattro colpi di pistola con cui venne cancellato il giornalista romano Mino Pecorelli, suo acerrimo nemico, le sue imminenti rivelazioni sul caso Moro e su certi assegni finiti tra i velluti e i sughi della sua corrente, detta anche lei andreottiana.
Inciampi giudiziari mai davvero prescritti e che hanno nutrito la sua leggenda nera - passata per Piazza Fontana, i Servizi deviati, lo scandalo petroli, il Banco Ambrosiano, Gladio, la morte solitaria del generale Dalla Chiesa sull’asfalto di Palermo - ma anche il suo fatalismo romanesco di eterno sopravvissuto al suo stesso danno: “Preferisco tirare a campare che tirare le cuoia” come recitava la sua massima preferita, che poi era anche il cuore della sua politica, talmente malleabile da rendersi disponibile a destra e a sinistra, purché immobile sotto l’ombrello angloamericano e in cambio di un costante incasso elettorale che gli garantivano, guarda caso, i collegi del Lazio e della Sicilia. Oltre naturalmente alla benevolenza della Chiesa, i sette papi che conobbe in vita, lasciandosi ispirare da una fede mai troppo intransigente, disponibile all’umano peccato purché con l’Avemaria sempre incorporata. “Quando andavano insieme in chiesa - scrisse Montanelli - De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete”.
La zia, i libri, la chiesa e la proposta al cimitero
A dispetto del molto che avrebbe intrapreso, Giulio nasce fragile il 14 gennaio del 1919. Orfano di padre, cresce cagionevole aiutato da una vecchia zia e dalla piccola pensione della madre. Fa il chierichetto e lo studente modello. Si laurea in Giurisprudenza. Alla visita militare il medico lo scarta e gli pronostica sei mesi di vita. Racconterà: “Quando diventai la prima volta ministro gli telefonai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui”.
Diventa sottosegretario con De Gasperi nel 1947, entra in Parlamento l’anno dopo. Ci rimarrà per sempre. Sotto ai suoi governi è nata la Riforma sanitaria, è stato legalizzato l’aborto, firmato il Trattato di Maastricht. E dentro alla sua ombra l’Italia è diventata un Paese industriale, alfabetizzato, un po’ più europeo, un po’ meno cialtrone, al netto del clamoroso debito pubblico e delle quattro mafie.
A trent’anni si sposa, dichiarandosi a Donna Livia “mentre passeggiavamo in un cimitero”. Avrà quattro figli. Una sola segretaria, la mitica Enea. Una sola vocazione: “Non ama le vacanze - dirà la figlia Serena - non ama il mare, non ama le passeggiate. La verità è che se non fa politica si annoia”.
Amici scomodi e nemici uccisi sempre col sorriso
Diventandone il prototipo incorpora tutti i pregi e i difetti dei democristiani. Conosce la pazienza e la prudenza. Uccide gli avversari con estrema gentilezza e sorride per buona educazione. È in confidenza con Kissinger e ammira Arafat. Si commuove alla morte di Paolo VI e a quella di Alberto Sordi, che poi sarebbero il sacro e il profano della sua esistenza. Maneggia il potere in silenzio, come un gioco di prestigio. E i cattivi come fossero i buoni. Tra i banchieri d’avventura predilige il piduista Michele Sindona, quello del crack della Banca Privata, a cui aveva appena conferito il titolo di “salvatore della lira”, per poi guardarne imperturbabile il naufragio dentro a un caffè avvelenato, nella cella singola di San Vittore, detenuto per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.
Non ha amici, ma soci momentanei di cordata, mai Fanfani e De Mita, qualche volta Forlani, più spesso Cossiga che lo nominerà senatore a vita. Educa Gianni Letta a fargli da scudiero per poi affidargli il giovane pupillo piduista Luigi Bisignani. Tutti i suoi sottocapi sono tipi da prendere con le molle: Vittorio Sbardella, detto “lo squalo” mastica per lui il Lazio. Ciarrapico è il re del saluto romano, delle acque minerali e degli impicci da sbrogliare. Franco Evangelisti è il faccendiere di “A Fra’ chette serve?”. Cirino Pomicino, detto “’O ministro” digerirà a suo nome 42 processi e 40 assoluzioni. E naturalmente Salvo Lima, il suo alter ego in Sicilia, morto sparato tra i cassonetti di Mondello per ordine dei corleonesi, la mattina del 12 marzo 1992, alba della stagione delle stragi.
Esecuzione che cancellò il suo unico sogno inconcluso, quello di salire al Quirinale, indossare finalmente i panni di presidente della Repubblica e (forse) sistemare gli scheletri del suo notevole armadio. Cominciando dallo scandalo fondante, anno 1963, il tentato golpe di un certo generale De Lorenzo, capo dei servizi segreti, e la scomparsa dei fascicoli che aveva accumulato sui protagonisti della vita pubblica italiana. Archivio quanto mai avvelenato e formidabile arma di ricatto che proprio Andreotti, all’epoca ministro della Difesa, era incaricato di distruggere. E che invece sarebbe riemerso nelle molte nebbie future e persino nei dossier di Licio Gelli, il finto o vero titolare della loggia massonica P2, forse a fondamento di un suo potere sussidiario esercitato per conto (proprio) di chi li aveva maneggiati per primo.
Da Moro agli anni di B.: è lui il capo dei diavoli
“Livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria”, gli avrebbe scritto Aldo Moro dalla prigione brigatista, colmo di rancore e di rassegnazione per il nulla che il governo di solidarietà nazionale riuscì a fabbricare nei 55 giorni impiegati da Mario Moretti a eseguire la sentenza.
Bettino Craxi lo battezzo Belzebù, il capo dei diavoli. Lo temeva e forse lo ammirava, ma non imparò nulla dalla sua quieta imperturbabilità nelle aule di Giustizia e una volta inquisito da Mani pulite, strillò così tanto, da dichiararsi colpevole, pretendere l’impunità e finire latitante.
A differenza di quasi tutti, Andreotti non si lasciò sfiorare dalla volgarità delle tangenti, che lasciò volentieri alle mandibole dei suoi. Né dall’incantesimo delle notti romane. Una sola volta una nobildonna provò a trascinarlo sulla pista da ballo: “Non ho mai danzato con un presidente del Consiglio”, gli disse lei leziosa. “Neanch’io” rispose lui secco, allontanandosi. Non capì il bianco e nero di Berlinguer e non prese mai sul serio i troppi colori di Berlusconi. Sopravvisse alla morte della Dc e di due repubbliche. Scrisse migliaia di pagine senza mai rivelare un segreto. Sembrava eterno. Sembrava un destino. Invece anche lui, uscendo di scena a 94 anni, incollato alla sedia e in piena luce, è diventato un altro anniversario del nostro buio.
Mattarella debole e gli sfasciacarrozze della Costituzione
Governo/Parlamento. Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia
di Massimo Villone (il manifesto, 03.01.2019)
È risuonata alta la protesta contro l’incostituzionale bavaglio applicato al parlamento con l’approvazione della legge di stabilità. Come scrive Azzariti su queste pagine, nell’esperienza passata molto era già accaduto. E il voto imposto senza uno straccio di discussione è stato solo l’ultimo e più evidente strappo. Ma bisogna essere consapevoli che il più ampio rispetto del galateo parlamentare non avrebbe, con ogni probabilità, prodotto una legge significativamente diversa. La domanda è: come si può fare utilmente argine?
La forza di un’assemblea elettiva è data dalla forza dei soggetti politici collettivi che in essa entrano con i propri rappresentanti. La debolezza del parlamento oggi viene dalla debolezza complessiva del sistema dei partiti. Salvo uno: la Lega. E questo ne spiega la capacità di assumere una posizione dominante nella compagine di governo e il trend dei sondaggi. Non c’è competizione tra un partito vero con un progetto politico, e un non-partito che va a palazzo Chigi con un non-programma, ma con un paniere di proteste variamente raccolte.
Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia.
Terreno anche giuridicamente minato, come dimostra lo scontro in atto tra il sindaco Orlando e il ministro Salvini. Non si menziona l’attacco alla stampa e all’informazione. Si allude in modo del tutto criptico - richiamando l’unità della Repubblica come comune destino - alla secessione leghista strisciante attraverso l’art. 116. Eppure, l’attacco all’unità è ormai pubblicamente discusso e viene rafforzato da minacce di crisi di governo. Mentre la Costituzione chiama il Capo dello Stato a rappresentare l’unità nazionale (art. 87). Persino Conte si è auto-nominato garante.
Si può opporre che il Capo dello Stato si è anche già espresso altrove. Ma nel discorso di fine anno parla direttamente a tutti gli italiani. È un messaggio non mediato, di efficacia comunicativa non comparabile con l’esternazione in sedi più ristrette, come gli incontri con la stampa parlamentare o benemerite associazioni.
È possibile che il ruolo del Capo dello Stato, già difficile, lo diventi ancor più. Analoga considerazione vale per la Corte costituzionale. Il 9 gennaio deciderà preliminarmente sulla ammissibilità del ricorso Pd per la legge di stabilità, e potrebbe negarla. Ma è indiscutibile la indebita compressione della funzione dei parlamentari - non rileva se considerati individualmente o come gruppo - nelle ore convulse che hanno preceduto il voto sulla fiducia e l’approvazione. Quanto alla successiva decisione sul merito, però, un rigetto del ricorso - anche guardando ai precedenti - è più probabile, soprattutto per l’argomento che esistono garanzie e rimedi nell’ordinamento interno dell’assemblea. Nel confronto politico proprio di un’assemblea elettiva violazioni molteplici sono in ogni momento possibili, e una linea giurisprudenziale di apertura senza filtri rischierebbe di rendere la Corte sede di appello per contrasti e dissensi, individuali e di gruppo. Nel caso specifico, poi, potrebbe provocare uno tsunami politico, istituzionale e finanziario. Volendo scommettere, sì per l’ammissibilità, no nel merito del ricorso.
Bisogna rimanere in campo, ma sapendo che non ci sono scorciatoie o demiurghi. Il paese si rinsalda con soggetti politici stabilmente e solidamente strutturati, assemblee ampiamente rappresentative, parlamentari liberamente eletti e non vincolati al mandato di chicchessia.
Un percorso né facile né breve. Scalfari su Repubblica legge nel discorso di Mattarella la nazione perfetta. Più modestamente, noi vorremmo porre al riparo da strappi il tessuto artigianale complesso e raffinato della Costituzione, tornando ai fondamentali e fermando gli sfasciacarrozze.
Il messaggio di Mattarella.
Un discorso «all’Italia che ricuce»
Ecco le parole-chiave di Mattarella, che considera gli altri un valore e recupera il senso della comunità. Oltre l’invito a riportare il Parlamento al centro
di Angelo Picariello (Avvenire, martedì 1 gennaio 2019)
Un discorso all’«Italia che ricuce», che considera gli altri un valore e recupera il senso della comunità. Un tema, quest’ultimo, che Mattarella richiama sovente nei suoi interventi e che il presidente della Repubblica mette al centro anche di questo delicatissimo discorso di fine anno, che arriva all’indomani di una approvazione in tempo limite della legge di Bilancio, appena in tempo per evitare l’esercizio provvisorio. E proprio citando i social, i luoghi di una politica spesso incattivita e aggregata per rivalità, Mattarella parte: «Siamo - dice - nel tempo in cui molti vivono connessi in rete e comunicano di continuo ciò che pensano e anche quel che fanno nella vita quotidiana...». E proprio i social sono la più grande novità nei dati di ascolto. Sono stati oltre 10 milioni e mezzo i telespettatori in Tv, a fronte dei 9 milioni e 700mila dello scorso anno, per il messaggio del capo dello Stato, ma la vera notizia è il pieno raggiunto dal discorso sul Web, con un dato - in continua evoluzione - di circa 2 milioni e mezzo di visualizzazioni, praticamente triplicate rispetto allo scorso anno.
L’ITALIA CHE RICUCE. Un «augurio, caloroso», lo rivolge a papa Francesco: «Lo ringrazio, ancora una volta, per il suo magistero volto costantemente a promuovere la pace, la coesione sociale, il dialogo, l’impegno per il bene comune». Quello di Mattarella è soprattutto un grazie all’Italia impegnata a costruire, a unire, e non ad alimentare odi e paure, come una recente ricerca del Censis ha portato alla luce.
Un grazie a quell’«“Italia che ricuce” e che dà fiducia», lo rivolge, in chiara sintonia con le parole più volte usate dal presidente della Cei, il cardinale Gualtierio Bassetti. «Spesso - spiega - la società civile è arrivata, con più efficacia e con più calore umano, in luoghi remoti non raggiunti dalle pubbliche istituzioni». Ricorda chi «negli ospedali o nelle periferie e in tanti luoghi di solitudine e di sofferenza dona conforto e serenità».
IL SENSO DELLA COMUNITA’. Inaugurato da Luigi Einaudi «non è un rito formale», ricorda Mattarella, il messaggio di fine anno. E replica così in modo garbato e indiretto ai vari tentativi di contro-messaggi in atto. Sottolinea «l’esigenza di sentirsi e di riconoscersi come una comunità di vita», il «bisogno di unità, raffigurata da chi rappresenta la Repubblica che è il nostro comune destino», perché «“comunità” significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa “pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità».
SICUREZZA COME RISPETTO. Ma è sulla sicurezza che batte maggiormente, Mattarella. Per mettere in risalto che è proprio un ritrovato senso della comunità l’antidoto più efficace ai rischi che si manifestano per la tranquilla convivenza. «Battersi, come è giusto, per le proprie idee», rimarca. Ma, auspica, occorre «rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore». E, sottolinea, non è «retorica dei buoni sentimenti», non si può sostenere che «la realtà è purtroppo un’altra; che vi sono tanti problemi e che bisogna pensare soprattutto alla sicurezza». La sicurezza, insiste, non consiste in un difendersi dagli altri, ma si fonda proprio su questo sentirsi parte di un’unica comunità, di «un ambiente in cui tutti si sentano rispettati e rispettino le regole del vivere comune».
MAFIA: NO A ZONE FRANCHE. E, a pochi giorni da un inquietante segnale venuto da Pesaro con l’uccisione di uno stretto congiunto di un pentito di ‘ndrangheta, Mattarella torna su un altro tema a lui caro da sempre anche per ragioni di tragica biografia familiare: la lotta alla mafia. La vera insidia alla nostra sicurezza, ricorda, non viene da un elemento esterno al nostro Paese, ma dal male irrisolto della criminalità organizzata: «La domanda di sicurezza è particolarmente forte in alcune aree del Paese, dove la prepotenza delle mafie si fa sentire più pesantemente. E in molte periferie urbane dove il degrado favorisce il diffondersi della criminalità». E scandisce: «Non sono ammissibili zone franche dove la legge non è osservata e si ha talvolta l’impressione di istituzioni inadeguate, con cittadini che si sentono soli e indifesi».
NO A TASSE SULLA BONTA’. Poi, con nettezza, entra nel merito di una brutta polemica che ha caratterizzato il dibattito “strozzato” sulla Manovra: l’odioso raddoppio dell’Ires per gli enti Non profit. Il ripensamento che ne è venuto, anche dopo le prese di posizione chiare da parte della Chiesa italiana, per ora è solo un impegno. La misura è stata infatti inserita nella legge approvata dal Parlamento. «Vanno evitate “tasse sulla bontà”», avverte Mattarella. «Le realtà del Terzo Settore, del No profit rappresentano una rete preziosa di solidarietà», ricorda il presidente. «Realtà che hanno ben chiara la pari dignità di ogni persona e che meritano maggiore sostegno da parte delle istituzioni, anche perché, sovente, suppliscono a lacune o a ritardi dello Stato negli interventi in aiuto dei più deboli».
RIPORTARE IL PARLAMENTO AL CENTRO. Non c’era tempo di intervenire, per evitare l’esercizio provvisorio, ma è un impegno di tutti, ora, quello di riportare il Parlamento al centro, proprio a partire dal varo delle misure previste in Manovra. «Ieri sera - ricorda Mattarella - ho promulgato la legge di Bilancio nei termini utili a evitare l’esercizio provvisorio, pur se approvata in via definitiva dal Parlamento soltanto da poche ore». Bene il faticoso risultato raggiunto: «Avere scongiurato la apertura di una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea per il mancato rispetto di norme liberamente sottoscritte è un elemento che rafforza la fiducia e conferisce stabilità». Ma segnala «la grande compressione dell’esame parlamentare e la mancanza di un opportuno confronto con i corpi sociali». E formula un augurio, che è anche un monito, «che il Parlamento, il Governo, i gruppi politici trovino il modo di discutere costruttivamente su quanto avvenuto; e assicurino per il futuro condizioni adeguate di esame e di confronto».
LA VERA CITTADINANZA. Fra le piaghe da debellare, invece, quella degli «ultras violenti degli stadi di calcio, estremisti travestiti da tifosi». E «l’alto debito pubblico che penalizza lo Stato e i cittadini e pone una pesante ipoteca sul futuro dei giovani». Problemi complessi per risolvere i quali «non ci sono ricette miracolistiche», avverte, ma solo «il lavoro tenace, coerente, lungimirante produce risultati concreti», senza mettere a rischio i traguardi raggiunti dalle precedenti generazioni. Ricorda i quarant’anni del Servizio sanitario nazionale, «grande motore di giustizia, un vanto del sistema Italia. Che ha consentito di aumentare le aspettative di vita degli italiani, ai più alti livelli mondiali». E ricorda che «l’universalità e la effettiva realizzazione dei diritti di cittadinanza» su scuola, salute, assistenza, sono state «grandi conquiste della Repubblica».
UN’EUROPA SENZA CONFINI. Si rivolge ai familiari di Antonio Megalizzi, il giornalista morto nell’attentato di Strasburgo, per richiamare il senso di un’Europa amica, non ostile, che veda di nuovo l’Italia - Paese fondatore - come protagonista. «Come molti giovani si impegnava per un’Europa con meno confini e più giustizia. Un’Europa dei diritti, dei cittadini e dei popoli, della convivenza, della lotta all’odio, della pace». E il pensiero va all’imminente competizione europea: «Mi auguro che la campagna elettorale si svolga con serenità e sia l’occasione di un serio confronto sul futuro dell’Europa».
LE DIVISE SONO DI TUTTI. Quando poi ricorda il toccante episodio di Anna, la signora 90enne che la notte di Natale ha telefonato ai Carabinieri per chiedere compagnia, lo fa per richiamare il significato collettivo, sentito da tutti e non di parte, di quelle divise. «La loro divisa, come quella di tutte le Forze dell’ordine e quella dei Vigili del fuoco, è il simbolo di istituzioni al servizio della comunità. Si tratta di un patrimonio da salvaguardare perché appartiene a tutti i cittadini». Un grazie va a loro anche per l’aiuto fornito nelle recenti calamità naturali. Nel ricordare poi il grande contributo che i militari danno alla pace, si schiera, con un chiaro riferimento, con il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, contro l’ipotesi di un loro arruolamento per porre rimedio alle buche di Roma: «La loro funzione non può essere snaturata, destinandoli a compiti non compatibili con la loro elevata specializzazione», avverte.
IMMIGRATI “AMICI”. Nell’Italia-comunità gli immigrati, per Mattarella, sono una componente, non una realtà contrapposta. Un saluto finale Mattarella lo rivolge «ai cinque milioni che vivono, lavorano, vanno a scuola, praticano sport, nel nostro Paese». Chiude come aveva aperto, parlando di solidarietà e senso della comunità. E ricorda, citando i volontari del Centro di cura per l’autismo, di Verona i tanti «luoghi straordinari dove il rapporto con gli altri non è avvertito come un limite, ma come quello che dà senso alla vita».
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE: LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO .... *
«L’omelia del ’78 di Ratzinger:
Un mondo senza dolore non è umano»
«Ecco perche Marx aveva torto». Il tempo di Natale: Dio ha scelto di condividere con gli uomini il peso della vita
di Joseph Ratzinger (Corriere della Sera, 27.12.2018)
«Consolate, consolate il mio popolo!» (Is 40,1). Questo abbiamo appena ascoltato dalla voce del profeta Isaia. Queste grandi, antiche parole di speranza e di fiducia del popolo d’Israele, toccano sempre di nuovo il cuore. All’interno della storia dei profeti suonavano nuove: all’inizio, al tempo dei Re - a partire da Elia e, passando per Amos, Osea e Michea, fino a Isaia e Geremia - i profeti erano stati soprattutto ammonitori duri ed esigenti che, a difesa della causa dei dimenticati, delle vedove, degli orfani e dei poveri, scuotevano la coscienza degli ipocriti, potenti e sicuri di sé con la loro giustizia esteriore. Si ascoltavano parole inquietanti e sconvolgenti come queste: «Le vostre feste, le vostre preghiere non le posso più sentire, non posso più sopportare l’odore del vostro incenso. Il digiuno che voglio è piuttosto rendere giustizia all’orfano e alla vedova» (cfr. Is 1,11-17).
Geremia
Alla fine della lunga serie di ammonitori che scuotono, sta Geremia, il quale, contro l’ostinato nazionalismo che vuole appropriarsi di Dio e strumentalizzarlo, si leva con le ragioni della fede e diviene martire. Seguì il grande silenzio dell’esilio babilonese. Ma dopo settant’anni, dopo che Israele era stato schiacciato e sembrava quasi cancellato, si sente questa voce del tutto nuova! «Basta soffrire. La grande potenza, che vi ha deportato, non c’è più». Si riaprono le porte della patria. La steppa si muta in strada e ora i calpestati, i vinti, alla fine sono i veri vincitori. Dio si è ricordato di loro, ed egli è più potente delle grandi potenze di questo mondo, anche se è lui a scegliere il momento nel quale intervenire. «Consolate il mio popolo!». Dio non dimentica i sofferenti, ma li ama e li solleva.
Il cuore
Per quanto questo ci commuova e ci tocchi il cuore, permane in noi una qualche obiezione o perlomeno una domanda: questa consolazione non è troppo lontana nel tempo? E non ha forse ottenuto troppo poco? Ben presto Israele stesso è caduto di nuovo in disgrazia. E se oggi osserviamo il mondo, non mancano immagini di desolazione che ci toccano. Proprio quando vediamo come domini in mezzo ai popoli benestanti la desolazione, tanto più ci domandiamo: «Signore, dov’è la tua consolazione?». Ma forse tanto più comprendiamo che abbiamo bisogno della Chiesa, che con piena autorità oggi può pronunciare nel nome del Signore le parole di allora: «Consolate il mio popolo!». È lei che dà la vera consolazione.
Storia della salvezza
La Chiesa, nel corso del suo anno liturgico, ripercorre l’intera storia della salvezza. Per molte settimane si presenta a noi con l’atteggiamento di Osea o di Elia: e cioè ammonendoci, scuotendoci, esortandoci, volendo strapparci dal nostro egoismo, dalla nostra avidità, dal nostro autocompiacimento. Ma nell’Avvento giunge l’ora del Dio buono, del Dio che consola. Diviene evidente che la Chiesa non è solo un’agenzia morale, un’organizzazione umanitaria, che essa non esige solo il rispetto di vari precetti, indica bisogni e pone richieste, ma che è lo spazio della grazia, in cui Dio le va incontro soprattutto come colui che dona e che dà. Ma dove si trova questa consolazione? Dio come consola in realtà?
Luce e fede
Il primo livello consiste nel fatto che siamo chiamati. Egli desidera che irradiamo la luce della fede che ha posto nei nostri cuori e così riscaldiamo il mondo. Egli vuole consolare attraverso di noi e ci fa sapere che egli ama in particolar modo proprio gli afflitti, gli sconsolati, che s’identifica con loro e in essi attende noi e la nostra bontà. Il nome dello Spirito Santo è «Consolatore». Dio ci aiuta nello Spirito Santo tanto più quanto più siamo uomini che consolano, uomini di una bontà che consola. Questo significa anche che noi non dobbiamo essere come quelli per i quali la piccola consolazione della vita quotidiana è troppo poco e che dicono: no, questo sistema deve essere trasformato, abbiamo bisogno di un mondo nel quale la consolazione non sia più necessaria; ovvero, come ha detto Brecht esasperando il concetto: «Vogliamo un mondo nel quale non ci sia più bisogno di amore». Un mondo così, però, nel quale non c’è più bisogno di consolazione, sarebbe un mondo desolato; un mondo in cui l’amore non fosse più necessario, perché il sistema provvede già a tutto, sarebbe un mondo disumano. Dio vuole consolare attraverso di noi.
Solo parole
Ma invece, di continuo si solleva il sospetto che siano solo parole, promesse consolatorie. Chiediamoci allora: che cosa avviene quando un uomo consola un bambino a cui è morta la mamma? Non può annullare quella morte, non può cancellare il dolore da essa provocato, non può magicamente trasformare il mondo con ciò che esso ha di triste. Può però entrare nella solitudine generata dall’amore distrutto, che è l’autentico motivo del dolore, come uno che condivide il dolore e dà amore. Così, pur non potendo cancellare l’accaduto, non è un parolaio; se penetra, amando, nella solitudine dell’amore perduto, trasforma dall’interno, sana all’origine, sana l’essenziale. E non c’è alcun dubbio che, se egli veramente condivide il dolore e dà amore, allora le sue non saranno solo parole.
Cambiare il sistema
Dio non ha operato - come noi sogneremmo e come poi Karl Marx ha gridato a gran voce al mondo - in modo da far scomparire il dolore e cambiare il sistema, così che non ci sia più bisogno di consolazione. Questo significherebbe toglierci l’umanità. Ed è quello che nel segreto desideriamo. Sì, essere uomini ci è troppo pesante. Ma se ci venisse tolta la nostra umanità, smetteremmo di essere uomini e il mondo diverrebbe disumano. Dio non ha operato così. Ha scelto un modo più sapiente, più difficile, da un certo punto di vista, ma proprio per questo migliore, più divino. Egli non ci ha tolto la nostra umanità, ma la condivide con noi. Egli è entrato nella solitudine dell’amore distrutto come uno che condivide il dolore, come consolazione. Questo è il modo divino della redenzione. Forse possiamo capire nel modo migliore che cosa significhi cristianamente redenzione a partire da qui: non trasformazione magica del mondo, non che ci viene tolta la nostra umanità, ma che siamo consolati, che Dio condivide con noi il peso della vita e che ormai la luce del suo condividere l’amore e il dolore sta per sempre in mezzo a noi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. La lezione di Pirandello a Benedetto XV e a Benedetto XVI
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il mio regno non è di qui
di Piero Stefani ("Il Regno", 22/11/2018)
«Universo» è parola sconosciuta alla Bibbia. Per dire «il tutto», il primo versetto della Scrittura impiega l’espressione «il cielo e la terra» (Gen 1,1; cf. Ef 1,10). Il posto privilegiato che questo modo di dire riserva a ciò che noi definiamo «nostro pianeta» indica una distanza incolmabile tra l’immagine biblica del cosmo e quella attuale. Non ha senso logico definire un campo come fosse costituito da 100 ettari di terreno e da un granello di polvere. I tentativi di intrecciare teologicamente tra loro la visione cosmica biblica con quella odierna non portano da nessuna parte.
Meglio domandarsi allora perché il Nuovo Testamento, e in particolare Giovanni, precludono l’eventualità di qualificare la solennità odierna ricorrendo all’espressione «re del mondo».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: «Il mio regno non è di qui (enteuthen)» (Gv 18,36). Le due espressioni kosmos («mondo») ed enteuthen («qui») gravitano dalla stessa parte.
Kosmos è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27). Il mondo è amato da Dio (cf. Gv 1,29; 4,42) eppure odia Gesù, «perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14).
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna...); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine (cf. Gv 2,16; 7,3; 14,31).
Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che «il mio regno non è di qui» perché è «altrove», come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: «Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra (enteuthen kai enteuthen, una specie di «uno di qui e uno di qua»), e Gesù in mezzo» (Gv 19,18).
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto (cf. Gv 18,36); il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: «“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re» (Gv 18,37). Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22) è una specie di definitivo sigillo posto al «Tu lo dici» (Gv 18,37) rivolto da Gesù a Pilato. È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Il saggio "Perché è successo qui" di Maurizio Molinari
La frattura tra élite ed elettori da cui nasce il populismo
di Stefano Folli (la Repubblica, 26.10.2018)
Non è un libro rassicurante, questo di Maurizio Molinari sulle ragioni di fondo della rivoluzione populista in Italia. Ma è assai utile come guida nei tempi che viviamo. Non è rassicurante perché evita ogni risvolto convenzionale e si affida a un linguaggio scarno, al di là di ogni pseudo-verità di comodo. Ha lo stile dell’inchiesta giornalistica e il passo del saggio basato su fatti, dati, circostanze. Molinari, oggi direttore della Stampa di Torino e in precedenza corrispondente a lungo dagli Stati Uniti e da Israele, ha appreso le regole del miglior giornalismo: quello fondato su saldi valori morali, ma anche consapevole che l’obiettività assoluta non esiste e ciò che le si avvicina di più è l’onestà intellettuale di scavare nella cronaca senza pregiudizi al fine di ricavarne una tesi generale documentata e convincente.
L’esplorazione intorno al 4 marzo, giorno delle elezioni che hanno cambiato l’Italia, diventa allora un viaggio nell’Italia di oggi e nelle sue contraddizioni. Che sono sociali ed economiche. Hanno a che vedere con le nuove diseguaglianze economiche, con la devastazione dei ceti medi a cui sono state tolte le certezze, con le paure - in primo luogo l’immigrazione e l’Islam - tipiche di un Paese dal presente confuso e dal futuro avvolto nella nebbia. Lega e Cinque Stelle, due fenomeni politici complementari ma solo in parte sovrapponibili, non vengono da Marte né rappresentano l’invasione degli Hyksos aggiornata al nuovo secolo.
Sono la fotografia di una frattura verticale tra élite e popolo; o se si preferisce tra establishment e popolo. Nonché una risposta istintiva da parte di un’Italia irritata con le forze tradizionali che hanno in sostanza fallito la loro missione in una ben determinata contingenza storica.
Per meglio dire, i due soggetti vincitori il 4 marzo, nella loro mancanza di legami con la memoria collettiva e addirittura, si può dire, estranei al patto costituzionale, rappresentano il prodotto di un mutamento in atto non solo in Italia, ma che qui ha assunto quel carattere di anteprima senza precedenti di cui già altre volte, se vogliamo risalire indietro nei decenni, l’Italia è stata protagonista: dal fascismo a Tangentopoli, volendo semplificare. E non si capisce quello che è accaduto prima del marzo 2018 se non si collocano nella giusta prospettiva i passi falsi commessi nel corso degli anni da una dirigenza politica responsabile di approssimazione, inadeguatezza e calcoli sbagliati. Fino all’esito inevitabile: rappresentarsi come "casta" privilegiata e corrotta, anziché come classe dirigente responsabile, agli occhi del cittadino comune.
Le nuove povertà non sono un’invenzione polemica, ma risultano documentate dalle indagini Istat. Il senso di insicurezza nella vita quotidiana sarà pure solo "percepito", ma è talmente diffuso - anche a causa di orribili vicende di cronaca nera - da essere ormai il principale asso nella manica di uno dei due "populismi", quello improntato a destra dalla Lega. Il bisogno di protezione sociale è palpabile. Infine la "miopia" dei partiti tradizionali: un aspetto che va oltre i nostri confini, come si è visto con il declino dei socialisti francesi e persino dei socialdemocratici tedeschi (senza contare l’appannamento dei democristiani di Angela Merkel).
Da noi però la miopia è spinta alle soglie del suicidio, come si è visto nel caso del Pd che invece di affrontare i temi cruciali della diseguaglianza e della perdita di "status" delle classi medie si è incartato per mesi in un referendum costituzionale trasformato dal premier del momento in un velleitario plebiscito personale a cui gli italiani, pressati da altri problemi, hanno risposto "no".
Conclusione: si è accesa la miccia che ha fatto esplodere il quartier generale. Ora si tratta di capire fino a che punto ha ragione Steve Bannon, l’ideologo del "trumpismo", il singolare Che Guevara che vuole esportare in Europa la filosofia politica della Casa Bianca, quando dice a Molinari che l’Italia è ormai "la forza trainante del nazional-populismo". E non c’è dubbio che l’affermazione di Trump in America ha avuto conseguenze sconvolgenti in tutto il mondo occidentale. Se le prossime elezioni nell’Unione saranno cruciali, se la scommessa di Salvini coincide con la speranza di buttare all’aria i vecchi assetti a Bruxelles, questo lo si deve in buona misura all’avvento di Trump. Come pure al nuovo mito dell’"uomo forte" incarnato da Putin e dalla sua strategia "dello scompiglio" o della destabilizzazione: per la quale tutti i mezzi sono leciti, anche l’uso delle tecnologie del web.
Era dai tempi della guerra fredda che l’Italia non si trovava così al centro dell’attenzione internazionale. Molinari decifra il rebus con freddezza, mescolando l’analisi della dimensione locale con quella del quadro mondiale di cui ha sperimentata conoscenza. In attesa che i prossimi mesi sciolgano gli interrogativi di fondo: il populismo al governo è una svolta storica o una parentesi, per quanto rilevante?
Contro lo straniero e contro le élite due populismi diversi
Sinistra / governo. Questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista. Difficile dire quanto stabile si rivelerà, ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo
di Antonio Floridia (il manifesto, 13.06.2018)
«Del resto mia cara di che si stupisce/anche l’operaio vuole il figlio dottore/e pensi che ambiente che può venir fuori/non c’è più morale, Contessa». Torna in mente questa celebre canzone, a sentire certe reazioni di un’opinione pubblica colta e democratica, di fronte alla nascita del nuovo governo.
Un atteggiamento tra lo sconsolato e lo spocchioso, un sentimento di stupore e di estraneità: ma come si è potuti giungere fino a questo punto? E giù, poi, con le ironie sull’incompetenza di questi parvenu.
Alcuni settori politici, giornalistici e intellettuali, invece di chiedersi come mai il “popolo” non abbia dato loro minimamente retta, sembrano ritrarsi in una posizione di ripulsa, di denigrazione delle masse. Un vecchio riflesso condizionato, tipico dei conservatori del buon tempo antico, quando si pensava che il governo fosse una prerogativa naturale dei colti e delle èlites.
Ma appare assai dubbio che, in questo modo, si possa costruire un’opposizione efficace a questo governo e che si possa fare ricredere quei milioni di connazionali che hanno votato per queste forze “impresentabili”. Limitarsi a lanciare un grido allarmato sui “populisti al governo” non intacca il consenso di cui godono. Un’opposizione credibile presuppone un saldo “punto di vista” alternativo. Ed è questo che oggi manca del tutto: dire che “mancano le coperture” è un argomento assai fragile (e persino controproducente: un elettore che ha votato per questi partiti, può sempre pensare: “beh, allora gli obiettivi sono giusti, almeno ci stanno provando”).
Costruire una cornice politica e ideale che possa davvero insidiare l’egemonia populista presuppone, intanto, che si torni a praticare quella che un tempo si chiamava “analisi differenziata”.
E quindi, in primo luogo, occorre interrogarsi su che tipo di populismo abbiamo di fronte.
Possiamo assumere una definizione, minima ma essenziale, di populismo: il populismo è un modo di costruzione del discorso politico, un’operazione egemonica sugli schemi interpretativi della realtà sociale e del conflitto politico, fondata sulla creazione di una dicotomia che separa “noi” (il popolo”) da “loro” (gli “altri”). Possiamo dire allora che questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista: la prima identifica l’”altro” con lo “straniero”, la seconda con le “èlites”. Difficile dire quanto stabile si rivelerà questa convergenza: ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo.
Il primo passo per una controffensiva è quello di non “regalare” all’avversario anche il controllo sul linguaggio della politica, e su alcune parole, in particolare: “l’anti-elitismo” e la “sovranità popolare”. Le teorie elitistiche del potere sono sempre state un caposaldo del pensiero conservatore. Da Gaetano Mosca fino ad alcuni scienziati politici americani del Novecento, la critica alla democrazia di massa si è sempre fondata sull’idea che il “cittadino comune” è incompetente, incapace di avere una visione lungimirante dei propri stessi “veri” interessi: e sull’idea che, in fondo, l’apatia è un segno di consenso, o che un eccesso di “partecipazione” popolare è pericoloso. Ebbene, la sinistra, oggi, non dovrebbe recuperare una sana attitudine “anti-elitista”?
Ossia, individuare le vere oligarchie che dominano l’economia e la società e indicare le vie per contrastarne lo strapotere? E poi, la “sovranità popolare”: diamine, è un termine che appartiene alla storia del pensiero democratico e rivoluzionario! Possiamo ridurre tutto a “sovranismo” nazionalista? o non si dovrebbe ridare un senso all’idea di una sovranità democratica, a fronte del dominio cieco e impersonale di potenze economiche e finanziarie imperscrutabili e sfuggenti? Solo così, al M5S si potrà poi rivolgere un’obiezione cruciale: le “èlites” sono per voi sono solo le “caste” politiche? E come la mettete con la flat tax?
Se analizziamo la cultura politica del M5S troviamo un’idea ibrida di democrazia. Da una parte, più che di democrazia “diretta”, è giusto parlare di una sua visione immediata e “direttistica”: l’idea che la “volontà popolare”, univoca e indifferenziata, si possa tradurre senza filtri e mediazioni in una “volontà generale”; dall’altra, specie a livello locale, ci si appella invece ad un’idea di democrazia “partecipativa” che ha alimentato l’esperienza politica e associativa di molti attivisti (ad esempio, in molti programmi amministrativi del M5S, frequente è il richiamo al “bilancio partecipativo”). Una miscela contraddittoria: un’idea di democrazia “a binario unico”, che può condurre ad ignorare i principi cardine di un costituzionalismo democratico, ma che esprime anche, in forme distorte, un’idea di recupero della sovranità popolare, oggi comunemente sentita come svuotata, con un appello al protagonismo civico. Da qui anche la novità di un ministero alla “democrazia diretta” e l’inserimento nel “contratto” di alcune proposte di riforma dell’istituto referendario (su alcune delle quali si può discutere, mentre altre sono assai più problematiche). Ma anche in questo caso, è una sfida che può essere raccolta solo se la sinistra torna a proporre una visione ricca della democrazia rappresentativa, che sia fondata sulla partecipazione politica dei cittadini, e non su una mera selezione elettorale delle èlites.
Si può far leva su queste contraddizioni; ma come sarà possibile se, ad esempio, all’interno del Pd, ci sono ancora forze che pensano con nostalgia alla riforma costituzionale sconfitta al referendum, o a leggi elettorali simil-Italicum, che proprio ad una visione plebiscitaria della democrazia erano ispirate? Sembra oramai largamente condivisa l’idea che la crisi della sinistra sia nata dalla sua subalternità al neo-liberismo economico; meno frequente appare il richiamo ad un’altra, non meno grave, subalternità: quella ad una visione elitistico-competitiva della democrazia. Anche su questo terreno si dovrà misurare una possibile ricostruzione della sinistra.
NOTA 1 :
A Rossana Rossanda sono venuti i capelli bianchi il 4 novembre 1956, in seguito all’invasione sovietica deell’Ungheria *
A Rossana Rossanda sono venuti i capelli bianchi il 4 novembre 1956, in seguito all’invasione sovietica deell’Ungheria. Aveva trentadue anni, e rimase sconvolta dalla visione di una fotografia:
«Un funzionario appeso a un fanale, il collo spaccato e il volto scomposto dell’impiccato, mentre sotto di lui un paio di operai della grande fabbrica in rivolta ridevano. Fu la prima volta che mi dissi: ci odiano. Il povero e l’oppresso non hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto. E quello era un odio massiccio, sedimentato; non si arriva a questa enormità senza un’offesa lungamente patita».
* Cinquantamila.it, 07.02.2001
NOTA 2:
L’URLO DI ITALO CALVINO (1980). --- Quello scontro tra Di Vittorio e Togliatti sulla repressione del 1956 in Ungheria.
Per non dimenticare.
Viaggio nell’Italia delle leggi razziali
di Roberto I. Zanini (Avvenire, martedì 23 ottobre 2018)
«Vagoni merci chiusi dall’esterno. E dentro uomini, donne, bambini compressi senza pietà, come merce, in viaggio verso il nulla». La citazione è di Primo Levi, da Se questo è un uomo. Nella mostra multimediale voluta dal presidente Sergio Mattarella in alcune sale del Quirinale è pronunciata dalla voce narrante dell’attore Francesco Pannofino. Sottolinea uno dei passaggi più intensi: quello che il visitatore vive dall’interno di un vagone riscostruito con i piedi collocati su binari che vanno idealmente a collegarsi alla strada ferrata proiettata sulla parete in un video d’epoca, che conduce nel campo di Auschwitz attraverso il cancello principale.
Stiamo parlando di “1938: l’umanità negata. Dalle leggi razziali italiane ad Auschwitz”, mostra inaugurata ieri pomeriggio dal capo dello Stato alla presenza del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, che resterà aperta fino al 27 gennaio, Giorno della memoria.
Una mostra storica che utilizza con efficacia le moderne tecniche multimediali di ’realtà aumentata’. Ideata, scritta e curata da Giovanni Grasso e dal fisico Paco Lanciano (lui preferisce parlare di «realtà emotivamente orientata »), noto al grande pubblico per i suoi interventi scientifici a SuperQuark e autore di tutte le ricostruzioni ’virtuali’ delle trasmissioni di Piero Angela, è finanziata dal Miur e si avvale della collaborazione del Memoriale della Shoah di Milano, di Rai Storia, Istituto Luce e Treccani.
Un’iniziativa che, come hanno spiegato gli autori, è soprattutto diretta ai giovani e alle classi scolastiche con l’idea di offrire loro un’efficace ricostruzione, facendo anche intuire emotivamente il contesto di ’normalità’, sempre riproponibile, in cui si sono collocati quei fatti. Lo spunto è ancora una citazione di Levi da Se questo è un uomo: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre».
Ecco allora la suggestione del treno merci che entra fra le baracche di Auschwitz, ma soprattutto ecco la soluzione narrativa costruita sulla vita di due famiglie italiane, una ebrea e l’altra cattolica, delle quali sono giunte fino a noi le pellicole con le quali i due padri (Francesco cattolico, Bruno ebreo) hanno realmente documentato le ’quotidiane vite di normalità’ nella Roma fra gli anni Venti e Trenta: le mogli Giovanna e Sara, i figli Paolo, Anna e Daniele, il lavoro, la scuola... Un po’ come succederebbe oggi con le foto e i video fatti col telefonino, ma in bianco e nero.
Una storia che nella prima sala della mostra inizia con proiezioni su schermi che avvolgono il visitatore. E le prime immagini sono quelle che documentano le colonne di giovani soldati che vanno verso il fronte il 24 maggio 1915. Ragazzi da tutta Italia, cattolici, ebrei, protestanti, atei, che combattono per tre anni fianco a fianco e fraternizzano. Nel sangue e nel dolore di quelle trincee, si è sempre detto, si è costruita l’unità d’Italia.
E fra quei ragazzi in marcia, ripresi di spalle, la ricostruzione di Grasso e Lanciano estrae i volti di due che, casualmente si girano verso la macchina da presa. Sono loro i nostri Francesco e Bruno.
Due italiani fra tanti. Due italiani che dopo il 4 novembre 1918 tornano a casa e negli anni che seguono sono impegnati nella ricostruzione del Paese, due italiani che dopo la Marcia su Roma, come quasi tutti, diventano fascisti senza rendersi conto fino in fondo di quanto accade davvero in Italia e in Europa.
Due italiani dalle vite pressoché parallele, ma che dal 1938 in poi divergono spaventosamente così che Francesco e Bruno diventano nemici in forza di legge con la sequenza crescente fra settembre e novembre delle cosiddette leggi razziali. Poi ancora una guerra, l’armistizio, il rastrellamento nel ghetto di Roma dove vengono presi anche Bruno e la sua famiglia. La mostra racconta, facendola rivivere immersivamente, una sequenza di fatti che per quelle due famiglie ebbe un epilogo del tutto inatteso e che ancora oggi si stenta a crederlo come razionalmente possibile. «Le azioni compiute erano mostruose ma chi le compì era pressoché normale», scrisse a riguardo Hannah Arendt. E non mancano, con i filmati autentici, suggestivi documenti storici e prima pagine di giornale che collocano quelle vicende nel tempo e nello spazio raccontando, come ha detto Mattarella, «una lezione terribile» che invita a essere sempre vigili di fronte ai «focolai di odio, di intolleranza, di razzismo presenti nelle nostre società e in tante parti del mondo».
A chiudere il percorso, nell’ultima sala, una delle tre copie autentiche della Costituzione italiana con le firme, in data 27 dicembre 1947, di Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi, Umberto Terracini; quella spesso sottostimata conquista politica e sociale che all’articolo 3 recita: «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Nel 2019 è previsto che la mostra diventi itinerante, poi dovrebbe trovare una collocazione definitiva. Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, ’Binario 21’, ha spiegato a riguardo che si spera in una sistemazione definitiva in locali limitrofi alla Fondazione.
"LA CHIESA, CORPO DI CRISTO", LA PAROLA DEL PAPA, E LA NECESSITA’ DI UNA "UMILTA’ NUOVA". IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.... *
Pedofilia: la parola profonda e tagliente del Papa.
Se nella Chiesa c’è chi fa muto Dio
di Marina Corradi (Avvenire, sabato 15 settembre 2018)
C’è fra alcuni di noi una stanchezza. Gli episodi di pedofilia nella Chiesa emergono dal passato molto più numerosi di quanto li avremmo mai creduti. Si delinea un male sotterraneo, taciuto, e quasi, in certi ambienti, tollerato. È un’onda fangosa quella che si solleva dall’Irlanda, dagli Usa, dall’Australia e da altrove. Fa scandalo, come è giusto, e fa molto rumore. E appunto alcuni credenti, pure avviliti e addolorati, cominciano a avere una reazione tuttavia di insofferenza: non si sente parlare che di pedofilia, obiettano, non c’è solo questo, la Chiesa è ben altro. La Chiesa, dicono, è piena uomini e donne che fanno del bene senza fare rumore, è fatta anche di missionarie e missionari coraggiosi, di bravi parroci, di suore che curano i figli dei poveri, di laici generosi. È fatta la Chiesa, anche di sconosciuti santi, e di martiri.
Ed è tutto assolutamente vero. Eppure, il Papa giovedì scorso a dei vescovi di recente nomina, tornando sul dramma della pedofilia fra consacrati, ha detto parole drammatiche. Ha detto che le nostre risposte «saranno prive di futuro se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non metteranno a nudo il vuoto esistenziale che esse hanno alimentato. Se non riveleranno - ha proseguito - perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, così rimosso da un certo modo di vivere, come se non ci fosse».
Dio reso muto. Dio messo a tacere, come se non esistesse. Etsi non daretur. E hanno vissuto, e vivono, così persone consacrate. Taglia come un rasoio questa parola del Papa. Come il bisturi del chirurgo che, aprendo il petto di un paziente, scopre che è ampio, il male da asportare. Non minimizza il Papa, non si consola pensando a tutto il bene fatto dalla Chiesa. Sembra dirci che occorre prendere coscienza del male, tutto intero, di quanto profondo sia stato - tanto da ammutolire Dio.
Francesco ci fa stare davanti al peccato che ha intaccato la Chiesa, senza scappatoie. Un peccato che, nel dolore delle vittime, nel loro scandalo, riguarda anche noi. Coloro che parlavano a dei bambini di Dio erano gli stessi che ne abusavano: ingenerando in loro il pensiero che né degli uomini, né di Dio ci si può fidare. Pensiero che annienta, colpo di scure su giovani piante.
Dio reso muto, Dio rimosso, proprio da chi doveva insegnare ad amarlo. Il dito del Papa non smette di indicarci ciò che è stato. Noi, forse, avremmo la tentazione di dimenticarcene. D’accordo, lo sappiamo, basta adesso. Perché abbiamo il vizio di pensare che gli uomini e le istituzioni siano "buoni", oppure "cattivi". La Chiesa è "buona", e dunque non tolleriamo di constatare quanti abbiano potuto tradire, e nel modo peggiore, con dei bambini. Ci umilia troppo il ricordarlo.
Ma la Chiesa, corpo di Cristo, è fatta da uomini. Contiene in sé, come il cuore di ogni uomo, possibilità di luce e di buio, di generosità fedele e silenziosa, di eroismo, ma anche di diserzione vigliacca, sotto a ordinate apparenze. E chi conosce il labirinto del suo cuore, e a una certa età almeno bisognerebbe conoscerlo, può guadare allo scandalo che il Papa continua a indicarci, senza domandare che si parli d’altro.
Si può stare a viso aperto davanti a tanto male compiuto in mezzo a noi, solo se non ci si sente orgogliosamente "buoni", "onesti", intoccabili dalla miseria umana. Nessuno è buono, ci ha insegnato Gesù Cristo. Siamo tutti poveri, dei miserabili che mendicano la grazia di Dio. È quella grazia, domandata ogni mattina, che ci permette di fare del bene, che ci allontana dalla attrazione del male. Non un nostro essere "bravi".
«Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore» era la litania dei monaci della tradizione greco-bizantina, ripetuta come un respiro, come una domanda inesausta. In questa coscienza di mendicanti possiamo stare di fronte alle parole del Papa, al tragico Dio muto che ha evocato, e non perdere il coraggio. In un travaglio che potrebbe portarci a una umiltà nuova.
Nessuno è buono, e c’è in ciascuno di noi la possibilità del male. Bisogna ostinatamente domandare. Il peccato dentro la Chiesa che si leva alto come un’onda non ci travolge, se non lo censuriamo; ma, più coscienti del nostro e altrui male, ci ricordiamo che l’autentica santità, come ha concluso l’altro giorno Francesco, «è quella che Dio compie in noi».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
In campo l’ex stratega di Trump
La Chiesa a scuola di Bannon per creare una fronda anti-Papa
Al via un corso presso l’Istituto Dignitatis Humanae, presieduto dal cardinale Burke
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17.09.2018)
CITTÀ DEL VATICANO Piomba sul Vaticano alle prese con la stesura di una risposta al dossier dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò la notizia che l’ex stratega di Trump, Steve Bannon, sta organizzando in collaborazione con l’Istituto " Dignitatis Humanae" di Roma un corso di leadership per "politici cattolici conservatori", una vera e propria fazione populista, nazionalista e conservatrice che dall’intero del mondo cattolico va nella sostanza a contrastare il magistero di papa Bergoglio.
Bannon, cattolico su posizioni oltranziste e contrastanti al papato, legato al cardinale statunitense ultraconservatore Raymond Burke e al mondo che ha prodotto il dossier Viganò. E anche se apparentemente prende le distanze da Viganò dicendo che Francesco «non dovrebbe assolutamente dimettersi» perché «è il vicario di Cristo sulla terra», in realtà l’azione dei conservatori americani in opposizione a Francesco appare studiata e frontale e assume sempre più i contorni di una strategia studiata a tavolino. La volontà di Bannon di lasciare il Papa al suo posto sembra motivata più che altro dal fatto che così la leadership del vescovo di Roma si logora meglio. Bannon, non a caso, dice senza remore che la risposta del Papa sulla pedofilia è insufficiente e che «la gente deve capire la portata del danno inferto dalla e alla Chiesa cattolica » . Per questo invoca « un Tribunale indipendente dalla Chiesa» sulla pedofilia. Anche perché, dice, la convocazione a Roma a febbraio dei capi dell’episcopato mondiale «è troppo tardi».
L’Istituto " Dignitatis Humanae" non è fondazione neutrale. Compagine religiosa di orientamento conservatore, ha scelto come sua base di lavoro l’abazia di Trisulti, passata all’ala tradizionalista dopo che gli ultimi tre monaci ormai anziani sono rientrati a Casamari. L’antico convento, a un centinaio di chilometri a Sudest di Roma, potrà ospitare anche 250- 300 studenti alla volta e, secondo quanto ha dichiarato il direttore Benjamin Harnwell, porterà avanti i lavori di quello che è a tutti gli effetti un think tank di stampo catto- tradizionalista che vuole proteggere e promuovere la dignità umana sulla base della « verità antropologica » che l’uomo sia nato a immagine e somiglianza di Dio. L’obiettivo è di favorire questa visione sostenendo i cristiani nella vita pubblica «aiutandoli a presentare risposte efficaci e coerenti a sforzi crescenti per zittire la voce cristiana nella pubblica piazza » . Un’attività che viene svolta coordinando anche i gruppi di lavoro parlamentari «affiliati sulla dignità umana in tutto il mondo».
E forse non è un caso che una settimana fa il cardinale di riferimento Burke (presiederà il think tank) abbia scelto il Senato per presentare il suo ultimo libro «Chiesa Cattolica, dove vai? Una dichiarazione di fedeltà». Come a dire: è da qui che certi valori debbono essere annunciati. A soffiare contro il magistero di Bergoglio c’è anche quell’ala cattolica italiana che non ha remore a guardare a Salvini e al suo mondo. Bannon, lanciando a Roma " The Movement", ha dichiarato: « Salvini è un leader mondiale».
La scelta di un papa inquieto
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 11.10.2018)
«L’aborto è come affittare un sicario». E’ un’immagine pesante, non facilmente comprensibile e vagamente diffamatoria quella usata dal Papa. Ma l’aborto viene da lui senz’altro omologato al «disprezzo della vita» quale si esprime nel lungo elenco delle guerre, degli sfruttamenti di ogni genere, di tutti gli abusi per opportunismo. Si tratta di parole gravi che contano, pronunciate da un maestro della comunicazione diretta e coinvolgente come Papa Francesco.
Eppure sulla base della sua esperienza pastorale, il Pontefice dovrebbe sapere che l’aborto non è semplicisticamente riducibile a «un problema per risolvere il quale si fa fuori una vita umana». E’ un’esperienza angosciosa intima .
Soprattutto Bergoglio ignora che «il problema» o «il diritto» all’’interruzione della gravidanza è riconosciuto dalla legge secondo determinate e ben precise condizioni. Essa riguarda «una gravidanza che comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. L’accesso all’intervento abortivo è dalla legge garantito in quelle circostanze, cosicché parlare di libertà di aborto è una forzatura che la legge non consente». Così ha scritto qualche giorno fa su questo giornale Vladimiro Zagrebelsky, augurandosi che non si ritorni a contrapposizioni irragionevoli, aggressive e diffamatorie.
Invece ci risiamo, e proprio per bocca del Papa. Adesso ci manca solo l’intervento di Matteo Salvini.
E’ triste dover fare questa battuta. Ma ferme restando le ragioni di principio dell’opposizione del Pontefice e del mondo cattolico all’interruzione della gravidanza, è innegabile che essa risenta del mutamento del clima politico e culturale del Paese. E che ci sia la tentazione di approfittarne per riaprire una questione che sembrava risolta nel rispetto reciproco delle convinzioni etiche.
Questa tentazione è un segnale importante dell’ avanzare di una democrazia illiberale nel nostro Paese. Si fanno prepotenti i segnali di insofferenza della classe politica al governo per ridurre o condizionare gli spazi di libertà di espressione della stampa. In maniera più pasticciata e subdola vengono alterati i diritti costituzionalmente riconosciuti ai richiedenti asilo, ai profughi, ai migranti. A questo proposito però esiste il consenso detto e non detto della popolazione e dello stesso mondo cattolico - con l’eccezione di pochi gruppi che rischiano però di godere di una visibilità mediatica fine a se stessa.
In tema di migrazione, accoglienza e integrazione dei migranti la stessa voce del Papa così forte, insistente, perentoria e persino provocatoria sino ad un anno fa, sembra in qualche modo ridimensionata. Si è fatta più realistica. Spero che questa mia affermazione non venga maliziosamente fraintesa.
Papa Bergoglio si trova in una situazione eccezionalmente difficile dentro e fuori la Chiesa. Nei suoi contatti e comunicazioni esterne talvolta si ha l’impressione che, senza abbandonare la sua tipica giovialità, sia profondamente turbato.
Questo turbamento si esprime anche nel suo schietto linguaggio tradizionale che mette continuamente in guardia qui e ora contro la presenza e l’opera del demonio. In fondo è lui il sicario dell’aborto.
MA COME RAGIONANO GLI ITALIANI E LE ITALIANE?!
L’Italia e’ diventata la ’casa’ della menzogna... e della vergogna?!
di Federico La Sala *
Elementare!, Watson: Se, nel tempo della massima diffusione mediatica dellapropaganda loggika, l’ITALIA è ancora definita una repubblica democratica e "Forza Italia" (NB: ’coincidenza’ e sovrapposizione indebita con il Nome di tutti i cittadini e di tutte le cittadine d’ITALIA) è il nome di un partito della repubblica, e il presidente del partito "Forza Italia" è nello stesso tempo il presidente del consiglio dello Stato chiamato ITALIA (conflitto d’interesse), per FORZA (abuso di potere, logico e politico!) il presidente del partito, il presidente del consiglio, e il presidente dello Stato devono diventare la stessa persona.
E’ elementare: queste non sono ’le regole del gioco’ di una sana e viva democrazia, ma di un vero e proprio colpo di Stato! (Shemi EK O’KHOLMES).
Non solo gli ebrei. Così morì lo Stato
Commento di Anna Foa (la Repubblica, Robinson, 02.09.2018)
Nell’autunno 1938 il regime fascista emanò una serie di leggi, le cosiddette "leggi razziali", seguite da ulteriori circolari e disposizioni, che introducevano radicali discriminazioni fra i cosiddetti appartenenti alla "razza ariana" e i non ariani, in particolare gli ebrei. All’epoca, gli ebrei presenti in Italia erano 47.000, di cui 10.000 circa stranieri. Un ebreo ogni mille "ariani", quindi.
Le leggi razziali si abbatterono come un fulmine a ciel sereno sul mondo ebraico italiano, partecipe in larga misura del consenso generale al regime fascista. Le mille disposizioni con cui le leggi colpivano gli ebrei erano inaspettate, anche se fra il 1936 e il 1937 non erano mancate avvisaglie di una possibile svolta razzista, e se il sempre più stretto avvicinamento alla Germania hitleriana appariva a molti preoccupante.
Anche dopo l’emanazione delle leggi, però, il mondo ebraico italiano non ebbe piena consapevolezza della portata della catastrofe. Prevalse l’idea che poco a poco tutto sarebbe finito nel dimenticatoio, mentre molti tentavano la strada delle domande di "discriminazione" per meriti fascisti o altro, ossia l’esenzione individuale dalle norme razziste, per lo più respinte dal regime e che comunque non sarebbero riuscite più tardi ad evitare la deportazione dei "discriminati". Anche tra gli antifascisti, tranne poche voci, scarsa fu la consapevolezza della gravità di quanto accaduto. Il mondo stava precipitando verso la catastrofe e le leggi razziste furono generalmente sottovalutate anche dagli oppositori del regime. Fra gli "ariani" pochissimi reagirono.
Certo, c’era una dittatura che già si era sbarazzata dei suoi oppositori col carcere, l’esilio, il confino. Ma i non ebrei fecero tesoro della propaganda razzista diffusa a piene mani dal regime. I professori delle Università furono pronti ad occupare le cattedre liberate dai colleghi ebrei, gli insegnanti cacciarono da scuola gli studenti ebrei senza mostrare rammarico, un trauma rimasto nella memoria di quei bambini a tutt’oggi. Chi continuava a avere rapporti con gli ebrei era definito "pietista".
Nessuno allora comprese che con queste leggi era definitivamente morto lo Stato creato dal Risorgimento. Che la ferita più grande le leggi l’avevano inferta non agli ebrei, ma all’Italia.
Galante Garrone e Calamandrei: il senso della Costituzione
La storia intellettuale e morale di un uomo d’altri tempi, padre della Carta
di Furio Colombo (Il Fatto, 03.09.2018)
L’autore è Alessandro Galante Garrone, un nome che ha fatto da guida e da riferimento a tanti adolescenti torinesi dell’immediato dopoguerra, sul senso e il valore di essere antifacisti. Il libro è dedicato a Calamandrei (Biografia morale e intellettuale di un grande protagonista della nostra storia, Effepi Libri), il personaggio che - dopo avere partecipato alla scrittura della Costituzione - si è impegnato a guidare un’Italia nuova e pulita lungo un percorso nobile di solidarietà fraterna, un Paese senza odio e senza confini, dopo una guerra che ha attraversato le terre desolate della morte a milioni e del deliberato e bene organizzato sterminio di popoli.
Né Galante Garrone né Calamandrei si fidavano dello slancio spontaneo verso il bene di coloro che erano sopravvissuti a una guerra di stragi.
Galante Garrone ha preso subito la bandiera della democrazia, dimostrando che niente vive senza l’impegno (il dovere) e la partecipazione di ciascuno cittadino. Calamandrei ha spinto sulla scena ancora disadorna dell’Italia povera e incerta di allora, i diritti delle persone, i diritti della Costituzione, i diritti umani, i diritti civili che, in seguito, i partiti, con l’unica clamorosa eccezione di Marco Panella, di Emma Bonino, del Partito Radicale, avrebbero tralasciato come se fossero solo l’ornamento, non la materia prima della democrazia.
Ma l’imbarazzo deve essere grande, per chi prende in mano ora questo libro (che è una ristampa da un’Italia lontana) e lo confronti con l’Italia che stiamo vivendo adesso, dove i diritti umani di rom, migranti e poveri vengono non solo trascurati ma deliberatamente e fisicamente offesi perchè i più deboli non contano.
Governare con le false promesse, in un castello di illusioni e invenzioni, ha portato a precipitare in un triste retro-cortile senza cultura, senza storia, senza solidarietà, senza alcun interesse per sentimenti e diritti, dove conta solo il compiacimento del proprio personale potere.
Questo libro arriva dal passato in un tempo in cui si usa lo slogan “prima gli italiani”, che farebbe inorridire chiunque ha combattuto per la libertà, e ha scritto e insegnato la Costituzione italiana. Perciò Galante Garrone e Calamandrei servono oggi all’Italia come le navi ong e la Guardia costiera italiana servono a salvare migranti, benchè l’ordine di questa repubblica sia di voltare le spalle.
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.... *
Lettera.
Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche d--a tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE... *
Un banco di prova per tutti.
Genova e adesso fatti e stile
di Francesco Ognibene (Avvenire, venerdì 17 agosto 2018)
Non è faccenda che si archivia in fretta, questa di Genova, e non solo per la vastissima impressione suscitata dal crollo del ponte Morandi in un Paese appena entrato nella pacificante quiete ferragostana. Rimuovere le immani macerie, ricostruire la complicata trama delle possibili responsabilità, ipotizzare e mettere in opera un manufatto durevole che possa rimpiazzare il viadotto sventrato richiederà tempo, e per una ferita di questa portata è il caso di chiedere soluzioni certo solerti, ma non spicciative. Va dunque risolutamente accantonata l’illusione di poter archiviare nel giro di qualche giorno la tragedia di martedì relegando alla svelta la notizia nella categoria dei traumi violenti ma momentanei, o delle grane locali. Prendiamo bene le misure dell’accaduto. Quello che si è consumato non è un incidente casuale o naturale, è una sciagura scatenata da un manufatto umano, che oltre a mietere decine di vite in modo crudele ha travolto una struttura che pompa ossigeno da e verso un’area produttiva del Paese, col rischio di stringere il collo di uno dei porti più grandi del Mediterraneo, di una straordinaria città e di una buona metà della Liguria.
Ma c’è anche dell’altro che va colto dentro e attorno lo scenario d’apocalisse del Polcevera. È proprio ascoltando la profonda emozione diffusa tra gli italiani - un misto di cordoglio, angoscia, indignazione e interrogativi non liquidabili con risposte a buon mercato - che va cercato l’atteggiamento doveroso in questa situazione tanto aspra. Avvertiamo tutti il dovere - nostro, di chi ci rappresenta, di quanti sono più direttamente coinvolti nei molti snodi della vicenda - di essere all’altezza di giorni duri nei quali si sente gravare su tutti il peso di una tragedia che come altre volte nella nostra storia recente ci fa sentire più che mai comunità nazionale, solidali nel dolore con chi patisce una perdita, una ferita, la lacerazione di dover lasciare casa propria forse per sempre, l’incertezza sul lavoro e il domani. Genova soffre e l’Italia soffre con lei, la abbraccia e insieme ne scruta la reazione, come sempre sobria e operativa.
Le parole misurate degli sfollati e della gente, mai sopra le righe o genericamente recriminatorie, ma neppure rassegnate o irose, sembrano indicare al Paese in ogni sua componente che davanti all’inimmaginabile la sola risposta proporzionata è badare all’essenziale, tenendo alla larga le polemiche frontali e le dichiarazioni roboanti in cerca di fugace consenso (ancora troppe, però, e suonano offensive quando parenti in angoscia attendono che sia trovato il corpo di un loro caro). Silenzio, ci vuole, e misura e condivisione di un dolore che è di tutti. Chi rumoreggia in un campo e nell’altro (se ha un senso dividersi in ore come queste) pare rimuovere un dato che invece vorremmo vedere chiaramente compreso e interiorizzato, trasparente nei gesti e nelle parole, nelle strategie operative e nelle decisioni che ci attendono. La modernità di un Paese è giustamente evocata come il parametro che rende intollerabile il collasso di un’infrastruttura strategica costruita appena mezzo secolo fa, ma si misura non solo in trafori o ferrovie.
Altro serve per dirsi evoluti che la padronanza di tecnologie costruttive che peraltro da tempo vedono le nostre imprese spuntare in tutto il mondo appalti di opere ben più vertiginose. A Genova si tratta di affrontare un nuovo esame di maturità che è per tutti, ognuno in proporzione al proprio ruolo. E per superarlo è uno stile che ora serve, e che proviamo a riassumere in tre parole. Ci vuole anzitutto compostezza nel modo di accostarsi alla dimensione di un fatto che è insieme umano e materiale, sapendo unire comprensione delle ferite da sanare e capacità di vedere tutti gli aspetti di un problema che coinvolge vita quotidiana, mobilità, lavoro, economia, turismo. Impegnarsi a vedere oltre le macerie il futuro e ciò che occorre a costruirlo conferisce la serietà e il rigore adesso imprescindibili, e che mettono in fuori gioco protagonismi e recriminazioni.
Ci vuole anche concretezza nel saper cogliere ciò che va fatto davvero, un passo dopo l’altro, senza la furia di mostrarsi a conoscenza di soluzioni che tutti sappiamo complesse quanto l’immenso guaio che si è prodotto. È solo così che si sarà in grado di agire nei tempi giusti, con una visione progettuale, senza improvvisare e sapendo mettere insieme competenze e risorse di tutti quelli che possono contribuire, evitando esclusioni pregiudiziali, processi sommari e la caccia a scalpi da esibire sulla piazza.
Ci vuole, infine, consapevolezza della terra che abitiamo, frastagliata e vulnerabile come poche al mondo, e le scosse in Molise poche ore dopo il dramma di Genova e di nuovo ieri sera ce lo hanno bruscamente ricordato. Un territorio così, con una morfologia sofferta e una presenza umana diffusa e laboriosa pressoché ovunque, richiede una cura assoluta delle opere pubbliche soggette a degrado elevato e talora improvviso. È un posto fragile, l’Italia, possibile che siano i morti a dovercelo rammentare? Il Paese maturo che vogliamo abitare non può prescindere da questo stile. La tragedia di Genova può diventare uno di quei momenti in cui abbiamo dimostrato di saper girare al largo dallo sfiancante dedalo delle polemiche faziose per mostrarci capaci di quella forza che di una espressione geografica e politica fa una comunità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ITALIA , TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
"PERCHE’ NON POSSIAMO NON DIRCI CRISTIANI", 0GGI.. In memoria di (Benedetto Croce), alcune note a margine del discorso di Papa Francesco, all’Angelus del 12 agosto 2018 d. C. ...
PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 12 agosto 2018
Cari fratelli e sorelle e cari giovani italiani,
buongiorno!
Nella seconda Lettura di oggi, San Paolo ci rivolge un pressante invito: «Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione» (Ef 4,30).
Ma io mi domando: come si rattrista lo Spirito Santo? Tutti lo abbiamo ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, quindi, per non rattristare lo Spirito Santo, è necessario vivere in maniera coerente con le promesse del Battesimo, rinnovate nella Cresima. In maniera coerente, non con ipocrisia: non dimenticatevi di questo. Il cristiano non può essere ipocrita: deve vivere in maniera coerente. Le promesse del Battesimo hanno due aspetti: rinuncia al male e adesione al bene.
Rinunciare al male significa dire «no» alle tentazioni, al peccato, a satana. Più in concreto significa dire “no” a una cultura della morte, che si manifesta nella fuga dal reale verso una felicità falsa che si esprime nella menzogna, nella truffa, nell’ingiustizia, nel disprezzo dell’altro. A tutto questo, “no”. La vita nuova che ci è stata data nel Battesimo, e che ha lo Spirito come sorgente, respinge una condotta dominata da sentimenti di divisione e di discordia. Per questo l’Apostolo Paolo esorta a togliere dal proprio cuore «ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenza con ogni sorta di malignità» (v. 31). Così dice Paolo. Questi sei elementi o vizi, che turbano la gioia dello Spirito Santo, avvelenano il cuore e conducono ad imprecazioni contro Dio e contro il prossimo.
Ma non basta non fare il male per essere un buon cristiano; è necessario aderire al bene e fare il bene. Ecco allora che San Paolo continua: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (v. 32). Tante volte capita di sentire alcuni che dicono: “Io non faccio del male a nessuno”. E si crede di essere un santo. D’accordo, ma il bene lo fai? Quante persone non fanno il male, ma nemmeno il bene, e la loro vita scorre nell’indifferenza, nell’apatia, nella tiepidezza. Questo atteggiamento è contrario al Vangelo, ed è contrario anche all’indole di voi giovani, che per natura siete dinamici, appassionati e coraggiosi. Ricordate questo - se lo ricordate, possiamo ripeterlo insieme: “E’ buono non fare il male, ma è male non fare il bene”. Questo lo diceva Sant’Alberto Hurtado.
Oggi vi esorto ad essere protagonisti nel bene! Protagonisti nel bene. Non sentitevi a posto quando non fate il male; ognuno è colpevole del bene che poteva fare e non ha fatto. Non basta non odiare, bisogna perdonare; non basta non avere rancore, bisogna pregare per i nemici; non basta non essere causa di divisione, bisogna portare pace dove non c’è; non basta non parlare male degli altri, bisogna interrompere quando sentiamo parlar male di qualcuno: fermare il chiacchiericcio: questo è fare il bene. Se non ci opponiamo al male, lo alimentiamo in modo tacito. È necessario intervenire dove il male si diffonde; perché il male si diffonde dove mancano cristiani audaci che si oppongono con il bene, “camminando nella carità” (cfr 5,2), secondo il monito di San Paolo.
Cari giovani, in questi giorni avete camminato molto! Perciò siete allenati e posso dirvi: camminate nella carità, camminate nell’amore! E camminiamo insieme verso il prossimo Sinodo dei Vescovi. La Vergine Maria ci sostenga con la sua materna intercessione, perché ciascuno di noi, ogni giorno, con i fatti, possa dire “no” al male e “sì” al bene.
Dopo l’Angelus
Cari fratelli e sorelle,
rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini provenienti da tante parti del mondo.
In particolare saluto i giovani delle diocesi italiane, accompagnati dai rispettivi Vescovi, dai loro sacerdoti ed educatori. In questi giorni, avete riversato per le strade di Roma il vostro entusiasmo e la vostra fede. Vi ringrazio per la vostra presenza e per la vostra testimonianza cristiana! E ieri, nel ringraziare, ho dimenticato di dire una parola ai sacerdoti, che sono quelli che vi sono più vicini: ringrazio tanto i sacerdoti, ringrazio per quel lavoro che fanno giorno per giorno, ringrazio per quella pazienza - perché ci vuole pazienza per lavorare con voi! La pazienza dei sacerdoti ... - ringrazio tanto, tanto, tanto. E ho visto anche tante suore che lavorano con voi: anche alle suore, grazie tante.
E la mia gratitudine si estende alla Conferenza Episcopale Italiana - qui rappresentata dal Presidente Cardinale Gualtiero Bassetti - che ha promosso questo incontro dei giovani in vista del prossimo Sinodo dei Vescovi.
Cari giovani, facendo ritorno nella vostre comunità, testimoniate ai vostri coetanei, e a quanti incontrerete, la gioia della fraternità e della comunione che avete sperimentato in queste giornate di pellegrinaggio e di preghiera.
A tutti auguro una buona domenica. Un buon rientro a casa. E per favore, non dimenticate di pregare per me! Buon pranzo e arrivederci!
* Appunti di commento sul tema, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Quella buona educazione (anche fisica) che ci serve
di Mauro Berruto (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Agosto del 1918, esattamente cento anni fa. Mancano pochi mesi alla fine della Prima Guerra mondiale e l’Italia sta uscendo dalla spirale di un conflitto feroce. Le cicatrici, la rabbia, il dolore, il risentimento dominano il Paese. Antonio Gramsci, che tre anni più tardi sarebbe stato fra i fondatori del Partito comunista italiano, pubblica sul giornale torinese L’ordine nuovo un articolo, poi inserito in un volume intitolato Scritti sotto la Mole.
È una riflessione sullo sport e sul modo di intendere, da parte degli italiani, quel fenomeno. Il pezzo, che ha un vero e proprio senso didascalico, si intitola “Il calcio e lo scopone”. È un’analisi sociologica molto seria che, riletta cento anni dopo, fa ancora pensare.
Gramsci descrive la partita di calcio come l’emblema della democrazia, perché si disputa a cielo aperto e sotto gli occhi del pubblico. «Ci sono movimento, gara, lotta, ma regolate da una legge non scritta che si chiama lealtà che viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro». Insomma, l’agone è definito da regole certe che permettono di distinguere e apprezzare i calciatori grazie alle loro capacità.
Di tutt’altro spirito, sostiene Gramsci, è impregnata la cultura dello scopone: «Una partita allo scopone: clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell’avversario o del complice. Lavorio perverso del cervello. Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei piedi. Una legge? Dov’è la legge che bisogna rispettare? Essa varia di luogo in luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazione e litigi“. Per Gramsci «lo sport suscita anche in politica il concetto di “gioco leale”», mentre la cultura dello scopone è l’espressione più retrograda e anti-progressista della società: «Lo scopone è la forma di sport della società economicamente arretrata, politicamente e spiritualmente, dove la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, dal questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell’incompetenza, dal carrierismo (con relativi favori e grazie del deputato)».
Che sia specchio o struttura della nostra società civile, il nostro modo di intendere lo sport è oggi molto vicino al nostro atteggiamento verso le istituzioni, verso tutte le forme di convivenza o tolleranza a cui siamo chiamati.
Sono passati cent’anni dalle suggestioni di Gramsci e, ahimè, lo sport, compreso quel calcio un po’ idealizzato, ha spostato le sue dinamiche verso quelle dello scopone che, peraltro, non si gioca quasi più e ha, a sua volta, lasciato il passo a partite da bar che si giocano con quelle stesse “carte segnate” (oggi si chiamano fake news), diffidenza, contestazioni, urla e pugni sul tavolo. Quelle partite le “giochiamo” sui temi dell’immigrazione, sul diritto di asilo, sull’opportunità dei vaccini, sul diritto al lavoro e diventano territorio di fazioni, di tifo da stadio, di ultrà che parteggiano per una o per l’altra squadra senza nessun tipo di competenza o di riferimento a regole certe, tantomeno ad arbitri riconosciuti e rispettati come tali. Sono passati cent’anni, il calcio non è più quello idealizzato e suggerito come esperienza civile da Gramsci. Le non-regole dello scopone sono diventate la forma del nostro confronto politico e civile. O incivile, forse.
Certo lo sport non è un paradiso di virtù, ma uno sport capace di recuperare il senso di quelle origini sarebbe uno strumento capace di rendere più civili le strutture della nostra vita associata che, tuttavia, è la lente che ci fa leggere anche lo sport secondo i propri parametri. Un cortocircuito da disinnescare, insomma. Come?
C’è un’unica soluzione che richiede tempo e investimenti: la scuola. Il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, insegnante di educazione fisica ed ex allenatore di basket, lo aveva dichiarato al suo insediamento: avrebbe voluto finalmente portare lo sport in modo strutturale nella Scuola Primaria.
Purtroppo il ministro Bussetti e i suoi ottimi programmi sembrano travolti dalle dichiarazioni di alcuni suoi colleghi su porti da chiudere, troppi vaccini o legge Mancino da rivedere, e quella voce che sembrava davvero di “cambiamento” in meglio, non la sentiamo più, neanche in lontananza. Ministro Bussetti, certo sta lavorando, ma ci dia certezze, che qui tira un’aria pesante: ci stiamo imbruttendo come squallidi giocatori di scopone di inizio secolo. Abbiamo bisogno di un po’ di educazione. Anche fisica.
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
AL DI LA’ DEL ’FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO’, UN ESERCIZIO DI PARRHESIA EVANGELICA: PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’....*
Dibattito pubblico e cattolici.
L’esempio da dare
di Umberto Folena (Avvenire, martedì 7 agosto 2018)
Dimmi contro chi sei, e ti dirò se hai ragione, se sei mio amico, se possiedi la verità. Dimmi non chi sei e con chi sei, per che cosa lotti, qual è la tua mèta, chi sono i tuoi fratelli. No. Dimmi invece chi bisogna combattere e annichilire, usando ogni mezzo, perfino la manipolazione e la menzogna. Per quanto triste sia, questo sta cominciando ad accadere in settori non solo della società italiana, ma anche del plurale mondo cattolico.
Meglio parlare di "mondo" che di "comunità", perché quando ciò accade una comunità cessa di esistere, o almeno le manca l’aria ed entra in coma.
Tutto dipende da un equivoco sull’amore. Meraviglie e disastri sono causati dall’amore, diversamente interpretato. L’amore per la patria può tradursi in nobile patriottismo, ma anche in arido nazionalismo, o come si dice oggi in repulsivo sovranismo. In inclusione o in esclusione. L’amore è dono, libero di essere accettato o rifiutato; ma può anche mutarsi in possesso, privo di libertà, che sempre cova in sé una vena violenta.
Amore per Cristo, per la Chiesa. Per la verità (qui pudicamente con la minuscola), parola che racchiude, di volta in volta, il Vangelo o (più o meno) dettagliate norme morali; il comandamento che racchiude tutti gli altri, «Ama il prossimo tuo come te stesso», o infinite norme e codicilli. I guai cominciano forse proprio da qui, dal significato della parola amore.
I fratelli in Cristo, il popolo dei redenti, i battezzati non hanno mai, mai, mai avuto un unico pensiero su tutto lo scibile umano. Probabilmente ciò sarebbe disumano. Ma questo non dovrebbe comportare prendersi a parolacce, insulti, arrivando a dare dell’eretico perfino al Papa, con bombardamenti di citazioni più o meno dotte, raramente autorevoli, quasi sempre fuori contesto. Roba da appartenenti a una setta qualsiasi. Già, perché questo, per questa via, si rischia di diventare: un insieme di sette che "possiedono la verità" (ma non se ne fanno possedere), e insignorendosene la manipolano, la usano come un santo randello e restano imprigionati nelle (e dalle) loro costruzioni.
Restiamo tra i cattolici. Il problema è, oggi, soprattutto, nel modo in cui alcuni vivono la sacra missione, che si sono attribuiti da sé, di una apologetica del Terzo millennio. In genere l’apologetica, per affermare una verità, ha bisogno di muovere da un errore da confutare. Ottimo. Ma qui entra in gioco la qualità dell’interprete, se colto e raffinato e di fede generosa, oppure se schematico e banale. Nel secondo caso, la confusione è immediata: insieme al presunto errore si combatte il presunto errante; anzi, gli si dà addosso direttamente senza pietà, con una ferocia giustificata dal fatto che è nell’errore, e con chi sbaglia non si scende a patti: va spazzato via, con toni violenti e irridenti, e da parte dei più sbrigativi semplicemente appiccicandogli un epiteto, un’etichetta ritenuta infamante.
Anche Avvenire pare meritarsi sovente un simile "fraterno" trattamento, e chi fa un giornale mette in conto cose così, ma mai abbastanza.
Sfugge, infatti, a questi fratelli (e concittadini) che medium is the message, la forma è il primo contenuto; e i modi violenti, cattivi, feroci, sprezzanti, certo utilizzati per meglio condannare il presunto errore che è necessario combattere per affermare la presunta verità, rendono violenta e cattiva quella stessa "verità". I toni sprezzanti rivelano un’anima sprezzante. Simili toni, infine, convincono chi è già convinto, strappano applausi ai propri fan, ma non incidono minimamente sul cuore degli uomini che la pensano diversamente, sulla cultura del tempo, sui modi di pensare e di vivere.
A proposito dei fedeli laici che su singole questioni, anche politiche (a partire dalle migrazioni), maturano opinioni e passioni diverse, valga questa parola autorevole: «Cerchino sempre di illuminarsi vicendevolmente attraverso il dialogo sincero, mantenendo sempre la mutua carità e avendo cura in primo luogo il bene comune». È il Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 43c *. E magari almeno il Concilio potesse essere una solida base comune a partire dalla quale, pur della diversità di accenti e sensibilità, dare al mondo esempio e testimonianza di fraternità. Il «dialogo sincero» non prevede odio e nemmeno disprezzo.
* "Semper autem colloquio sincero se invicem illuminare satagant, mutuam caritatem servantes et boni communis imprimis solliciti" (Gaudium et Spes, 43 c) [fls].
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
iL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
VITA E FILOSOFIA. Per il ventennale della morte di Elvio Fachinelli (1928-1989).
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
DUE VOLTI (E DUE NARRAZIONI) DELL’ITALIA - E DELLA CHIESA. Quale avvenire? *
La deriva della xenofobia
Senza vergogna
di Marco Tarquinio (Avvenire, sabato 4 agosto 2018)
Stiamo attraversando un tempo difficile, duro e bello come ogni tempo difficile, amaro come ogni tempo in cui nel nome di una Legge solo proclamata e di doveri solo parolai, e che ignorano e stritolano i diritti dei più deboli, si mette in questione l’umanità e l’uguaglianza stessa degli esseri umani. Senza vergogna. Ma la fragilità e la dignità della vita, di ogni vita umana, non si riconoscono dal passaporto e non si possono prendere in alcun modo in ostaggio. E le leggi non si applicano solo per stanare e "fermare" lo straniero, ma come ha sottolineato anche la nostra lunga inchiesta sul caporalato per far sì che chi è straniero di origine e italiano di lavoro non venga incluso e integrato soltanto nel (e dal) "lato oscuro" del nostro Paese.
È in tempi proprio come questi che a noi cristiani è chiesto di dare ragione in modo più limpido della nostra speranza. Ma non è un dovere solo nostro. Perché a tutti - ma proprio a tutti - è laicamente chiesto, se vogliamo tener saldo il patto di civile convivenza e la misura comune che contiene le nostre differenze e le compone in armonia, di sentirci impegnati a tener care e preservare le radici (troppo a lungo negate o date per scontate) dell’umanesimo che dà linfa, forza e capacità inclusiva alla nostra civiltà comune.
Questo tempo italiano è specialmente difficile perché ci mette davanti a due volti (e due narrazioni) dell’Italia, che invece o è una o non è.
Perché sarebbe un’Italia umanamente fallita - e del default più sconvolgente: il default della cultura e della fede che l’hanno unita prima di ogni azione politica - quel Paese bifronte che ci si ostina a voler scolpire non nel marmo, ma in grevi nuvolaglie di slogan xenofobi da social network e di parole e atti violenti che si vorrebbe derubricare a «sciocchezze». La «goliardata» che ha sfigurato il viso di Daisy Osakue non è la controprova di un’Italia serena e vaccinata dal razzismo: per rendersene conto, basta leggere ciò che è stato scatenato addosso a questa giovane donna, cittadina italiana di origine nigeriana.
Inqualificabile. Io continuo a vergognarmene. Anche se suo padre, a quanto risulta, non è stato uno stinco di santo e ha pagato il suo debito con la giustizia. E me ne vergogno anche se i tre aggressori a colpi di uova sono "bulli" e non adepti di uno dei manipoli razzisti che sparlano, sputano, menano e sparano (grazie a Dio, quasi sempre a vuoto) in giro per l’Italia.
Non sono l’Italia e non la rappresentano l’Italia. Ma - come ho scritto - ne deturpano i lineamenti, sino a sfigurarli. E allora non si può far finta di niente. Di costoro e per costoro ci dovremmo vergognare tutti, e ancor di più visto che ci viene spiegato e quasi intimato di dire e scrivere che non esistono e che comunque sono la logica reazione alla "violenza portata dagli stranieri". Ma proprio come i poveri, i violenti non hanno passaporto e non hanno patria. Ai poveri patria e passaporto sono negati. Ai violenti interessano solo come arma, e perciò non interessano affatto.
L’Italia non può essere ridotta a un ring di risentimenti etnici. Chi ha responsabilità lavori per evitarlo.
P.S. A quanti in queste settimane hanno ritenuto di ricordarci che i buoni cattolici e i giornali di ispirazione cattolica, prima e invece che delle persone costrette a migrare, dovrebbero preoccuparsi della vita non nata e ancora troppe volte abortita in Italia e in Europa - vita nascente che da appassionati di umanità e di scienza amiamo e rispettiamo sin dal primo istante come testimoniano le pagine del giornale - mi sento di rispondere con parole più grandi di noi: se non siamo capaci di amare e di essere giusti con coloro che vediamo, come potremo mai amare ed essere giusti con coloro che (ancora) non vediamo?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA COSTITUZIONE ITALIANA, IL CRISTIANESIMO, E LA TRADIZIONE DELLA MENZOGNA CATTOLICO-ROMANA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
MEMORIA E STORIA. COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA....*
La legge proposta dai Sindaci. Educazione civica ora tocca ai cittadini
di Luciano Corradini (Avvenire, domenica 22 luglio 2018)
Caro direttore,
il termine indugio indica il ritardo, più o meno motivato, rispetto alla tempestività di un inizio o la regolarità di uno svolgimento. Si tratta di un termine illustre, indicato da un ordine del giorno votato all’unanimità dall’Assemblea Costituente l’11 dicembre 1947, primo firmatario Aldo Moro, per dire che la nuova Carta costituzionale doveva trovare «senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado». Ora i Sindaci invitano i cittadini a chiedere a Parlamentari e Ministri, in nome e con metodi previsti dalla Costituzione di rompere quegli indugi che hanno afflitto l’ultimo decennio. Il 20 luglio in diverse sedi comunali è stato dato avvio alla raccolta di firme per la ’proposta di legge di iniziativa popolare’, promossa dal sindaco Nardella di Firenze e fatta propria dall’Anci, presieduta dal sindaco Decaro di Bari, «sull’introduzione dell’educazione alla cittadinanza nei curricoli scolastici di ogni ordine e grado».
Entro sei mesi, si dovranno raccogliere le prescritte 50mila firme, con le modalità ricordate dal comunicato dell’Anci. Si chiede cioè che il Parlamento vari una legge in cui si dice, all’art. 2: «È istituita un’ora settimanale di educazione alla cittadinanza come disciplina autonoma con propria valutazione, nei curricoli e nei piani di studio di entrambi i cicli di istruzione. Sono conseguentemente da ritenersi modificati, in armonia con quanto disposto dal comma precedente, tutti gli articoli di legge che disciplinano i curricoli, i piani di studio e la loro articolazione. Il monte ore necessario (non inferiore alle 33 ore annuali) - ove non si preveda una modifica dei quadri orario che aggiunga l’ora di educazione alla cittadinanza - dovrà essere ricavato rimodulando gli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche».
Gli autori di questa proposta di legge non si nascondono la complessità dell’operazione e prevedono che il Parlamento dialoghi in certo senso con organi tecnici del Ministero dell’Istruzione. Si dice infatti all’art. 3: «È istituita presso il Miur una commissione ad hoc, che, sentito il comitato scientifico per le indicazioni nazionali e il Cspi, assuma: 1) il compito di elaborare entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, gli obiettivi specifici di apprendimento per i diversi cicli di istruzione, e di provvedere, entro il medesimo termine, alla corretta collocazione dell’insegnamento in seno ai curricula e ai piani di studio dei diversi cicli di istruzione, nonché di optare per l’aggiunta di un’ora ai curricula o per la sua individuazione nell’ambito degli orari di italiano, storia, filosofia, diritto, tenendo conto dei quadri orari e del numero di materie per ciascun tipo di scuola; 2) la decisione se optare per un’ora di nuova istituzione che si aggiunga in tutti o in alcuni cicli di istruzione e tipologie di indirizzo scolastico, o per un’ora da ricavare nell’ambito dei quadri orari esistenti».
Sotto il termine generale ’cittadinanza’, si precisa che «Gli obiettivi specifici di apprendimento dovranno necessariamente comprendere nel corso degli anni: lo studio della Costituzione, elementi di educazione civica, lo studio delle istituzioni dello Stato italiano e dell’Unione Europea, diritti umani, educazione digitale, educazione ambientale, elementi fondamentali del diritto e del diritto del lavoro, educazione alla legalità, oltre ai fondamentali princìpi e valori della società democratica, come i diritti e i doveri, la libertà e i suoi limiti, il senso civico, la giustizia». Nell’art. 4 si dice che «L’insegnamento potrà essere affidato ai docenti abilitati nelle classi di concorso che abilitano per l’italiano, la storia, la filosofia, il diritto, l’economia».
L’art. 5 aggiunge: «Sono istituiti percorsi di formazione dei docenti e azioni di sensibilizzazione sull’educazione digitale, ai sensi del comma 124 dell’art.1 legge 13.7.2015, n.107». A conclusione dell’art. 6 si dice: «Nell’ipotesi in cui si opti per l’aggiunta di un’ora agli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche, i maggiori oneri saranno a carico dei Fondi di riserva e speciali del bilancio dello Stato». A parere di chi scrive l’iniziativa, nonostante alcuni limiti che saranno affrontati in seguito, presenta caratteri di trasversalità, di necessità e urgenza, e non merita né ulteriori indugi né frettolose conclusioni. Intanto i ’cittadini praticanti’ dovrebbero impegnarsi a firmare entro i sei mesi previsti.
Professore emerito di Pedagogia generale nell’Università di Roma Tre,
già presidente del Consiglio superiore della Pubblica istruzione
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
MONDIALE 2018
Italia-Thailandia. Una "partita" di lunga durata e la palla-fiducia che bisogna saper passare **
Sul cavaliere della I-THAILANDIA....
di Federico La Sala *
Caro Direttore,
A mio parere, in tutte le discussioni e le analisi che sono portate avanti sulla situazione italiana è proprio l’analisi del berlusconismo che va approfondita e chiarita. Io non posso concepire, nemmeno in THAILANDIA (cfr. Piero Ottone, IL CAVALIERE DELLA THAILANDIA, La Repubblica del 26.04.2002: "Thaksin ha fondato un partito, Thai Rak Thai, il cui nome significa, a quanto sembra: I thailandesi amano i thailandesi") che in una nazione che si chiama ITALIA, ci possa essere un PARTITO che si chiama "Forza ITALIA"...
Il trucco del NOME ("Forza ITALIA") è da manualetto del... piccolo ipnotizzatore e da gioco da baraccone ...politico! E penso che aver lasciato fare questa operazione, io ritengo, sia stata la cosa più incredibile e pazzesca che mai un popolo (e soprattutto le sue Istituzioni e partiti) abbia potuto fare con se stesso e con i propri cittadini e le proprie cittadine: è vero che stiamo diventando tutti vecchi e vecchie, ma questa è roba da suicidio collettivo!
Questa la mia opinione, se si vuole, da semplice e analfabeta vecchio cittadino italiano e non da "sovietico" comunista della "fattoria degli animali" orwelliana. Mi trovo a condividere e sono più vicino alle opinioni e alla posizione della "mosca bianca" Franco Cordero, che non a quella di molti altri.
LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI: si tratta solo e sopratutto di non de-ragliare e, umanamente e politicamente, mantenerci (e possibilmente avanzare) sul filo e nel campo della democrazia. Non c’è nessuna demonizzazione da fare: si tratta solo di capire, e, anzi, io trovo la situazione - pur nella sua grande ambiguità e pericolosità - incredibilmente sollecitante nel senso di svegliarsi e reagire creativamente (come sembra che stia avvenendo) alla situazione determinatasi.
Il cavaliere ha lanciato la sua operazione e la sua sfida: possiamo leggere la cosa come una cartina di tornasole per tutta la nostra società. Vogliamo vivere o vogliamo morire: una cosa del genere più o meno, con altre parole, ci sta dicendo il Presidente CIAMPI da tempo.
Se ci facciamo togliere da sotto i piedi il fondamento costituzionale e si rompe la bilancia dei poteri della democrazia non ci sono più cittadini e cittadine ma pecore e lupi e riprende il gioco mai interrotto, come dice il vecchio saggio della giungla, del "chi pecora si fa il lupo se la mangia". Dentro questo clima, chiedere da anonimo stupido ingenuo e illuso e ’idealistico’ cittadino italiano di fare chiarezza e fermare il gioco (truccato, e pericolosamente surriscaldato e non lontano da clima di scontro civile) è solo un invito a tutte e due le parti e non a una sola a riconoscersi come parte della UNA e STESSA Italia.... e a ripristinare le regole del gioco!!!
M. cordiali saluti
Federico La Sala
*Il dialogo, Venerdì, 30 maggio 2003.
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Tito, Héctor e la palla-fiducia che bisogna saper passare
di Mauro Berruto ( Avvenire, mercoledì 11 luglio 2018)
«Tuya, Héctor!». Se vi trovate in Uruguay e qualcuno vi dice così, beh significa che siete degni di stima e fiducia. Colui che sta all’origine di questo modo di dire, è un calciatore, Héctor Pedro Scarone, soprannominato El Mago, primo destinatario di quella frase («Tua, Héctor!»), rivoltagli in un istante destinato a passare alla storia da un suo collega. Era il 13 giugno 1928, giorno della finale del torneo di calcio ai Giochi Olimpici di Amsterdam: Uruguay e Argentina, le finaliste, sono sull’1-1. In campo una parata di stelle fra le quali due, particolarmente brillanti, con la maglia celeste dell’Uruguay.
Si chiamano Héctor Scarone e Tito Borjas. Ragazzi che non conoscono ancora i loro destini: Scarone giocherà anche in Italia e, Giuseppe Meazza, suo compagno di squadra all’Inter dirà di lui che faceva cose che «noi potevamo solo immaginare». Borjas è un giocatore pazzesco, ma la sua carriera e la sua vita finiranno presto, solo tre anni dopo, quando disubbidendo ai medici che gli avevano imposto riposo assoluto dopo un forte dolore al petto sentito mentre giocava una partita, lasciò la propria abitazione per andare sugli spalti a vedere il match decisivo per il titolo dei suoi Wanderers Montevideo e al gol del vantaggio dei compagni di squadra venne stroncato da un infarto.
In quel giugno del 1928, ignari del loro futuro, Héctor e Tito stanno giocando, insieme, la finale olimpica. Tuttavia fra i due non scorre buon sangue, sono troppo forti per stare nella stessa metà campo. In realtà, Héctor e Tito non si parlano proprio, da tantissimo tempo, ma al 28° del secondo tempo, Tito ha la palla fra i piedi, vede Héctor arrivare con un razzo e decide di rompere quel silenzio. Passa la parla e gli urla: «Tua, Hectòr!», come a dire: "Vedi di farcela, voglio fidarmi di te". Héctor segna un gol straordinario da 40 metri.
L’Uruguay diventa campione olimpico ai danni degli odiati rivali argentini e da quel giorno, nel Paese, c’è un nuovo modo di dire quando si vuol trasmettere il senso di una fiducia incondizionata, che va oltre ogni divisione. Parole che vengono alla mente pensando alla incredibile vicenda dei 12 giovani calciatori thailandesi rimasti intrappolati in una caverna insieme ad Aek, il loro 25enne allenatore e liberati definitivamente ieri dopo 17 giorni passati all’inferno.
Si è mobilitato il mondo intero per questa vicenda e il risultato è stato raggiunto grazie a un’enorme capacità di condividere fiducia, anche quando le cose sembravano impossibili. Affidarsi a qualcuno, ci insegna questa storia di cui certamente qualche produttore hollywoodiano si approprierà, può portare alla perdizione e alla salvezza. Aek, l’allenatore orfano che ha passato la sua gioventù in un monastero buddhista aveva preso la decisione di portare i suoi ragazzi in quella grotta per meditare.
Stravolto dai sensi di colpa ha chiesto ripetutamente perdono per quell’idea che le piogge monsoniche stavano per trasformare in tragedia. I genitori di tutti i ragazzi lo hanno perdonato in tempi assolutamente non sospetti, ben prima del lieto fine della vicenda. Anzi, gli hanno ricordato che i loro ragazzi contavano su di lui, laggiù sottoterra come sul campo di calcio. Forse anche per questa iniezione di fiducia Aek è stato decisivo per tenere in vita i suoi ragazzi rinunciando per loro al suo stesso cibo, mantenendoli calmi e gestendo le loro emozioni e paure. E lasciando la grotta per ultimo, da vero coach.
«Sembra impossibile, finché non viene fatto», diceva Nelson Mandela e mentre, in superficie, squadre di calcio di fama planetaria lottano al Mondiale per non tornare a casa, la squadra per cui tutti si augurano il ritorno, finalmente, ce l’ha fatta grazie a una collaborazione di persone provenienti, letteralmente, da ogni parte del mondo. «Tuya, Héctor» anche in memoria di Saman Kunan, il soccorritore unica vittima di questa vicenda. Nel suo ultimo video lo si sente dire: «Porteremo i ragazzi a casa». Aveva ragione.
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
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Uno choc di egoismi: a questo assomiglia l’Europa posta davanti alla sfida migratoria
Le scorciatoie non esistono
di Mario Giro (Il mulino, 18 giugno 2018)
Da una parte la demografia galoppante dell’Africa ma soprattutto il cambiamento dei suoi giovani che sentono il diritto di spostarsi come inalienabile. Vogliono un futuro migliore e cercano di afferrare con tutti i mezzi possibili la “loro parte” delle opportunità nella globalizzazione. Anche a rischio della vita. È una forma di “intrapresa individuale”, di investimento sul futuro. Niente può trattenerli, sanno che il mondo è anche loro.
Dall’altra parte l’Europa: un mondo invecchiato e più impaurito, chiuso nel proprio benessere ma anche spaventato e colpito dal declassamento sociale, dalla diminuzione del Welfare e dalla mancanza di lavoro. Tutti lo sanno: se non c’è abbastanza lavoro è per la nuova redistribuzione della ricchezza e per l’innovazione tecnologica. Non potendo prendersela con la tecnologia, la reazione rabbiosa si concentra verso l’ultimo arrivato. Non vogliamo nessuno - si dice - non c’è spazio, la “barca è piena” come sostenevano gli svizzeri durante la seconda guerra mondiale respingendo ebrei...
La politica si adatta, si appiattisce senza colpi d’ala. Non si cercano soluzioni ma si annunciano apocalissi demografiche. Tutti parlano di “invasione” ma nessuno di integrazione, che è il nostro vero problema. A Bruxelles gli emendamenti al Trattato di Dublino - che disciplina le migrazioni e la concessione dei permessi - vanno verso l’indurimento. L’Italia ha posto il veto su un testo che costringeva il richiedente asilo di rimanere fino a 10 anni nel Paese di primo approdo: una follia.
Il nuovo governo italiano fa sentire la voce dello scontento italiano verso i partner che ci hanno riempiti di complimenti ma non hanno mosso un dito.
È scandaloso che una decisione del Consiglio (la relocation) non sia stata applicata senza conseguenze. Inutile girarci attorno: l’Unione ha perso credibilità. La politica migratoria italiana resta sostanzialmente la stessa: lavorare in Libia (e coi Paesi di origine e transito) per trattenere; limitare l’operatività delle Ong in mare; riprovare coi rimpatri.
Il tono però è cambiato: prima lo si faceva tenendo conto del “bon ton” internazionale, senza esacerbare le divergenze. Le critiche si facevano in privato, ora apertamente. Lo choc delle passioni potrebbe essere deflagrante. La polemica politica interna ora aggredisce le relazioni esterne. D’altra parte anche ai commissari Ue o al presidente Juncker, ogni tanto sfuggono commenti che mettono in luce i loro enormi pregiudizi. Dovremmo stare attenti: le parole sono pietre e alla fine colpiscono tutti. Vittimismi uno contro l’altro armati non portano a nessun risultato. Una delle caratteristiche del “metodo europeo” è ridurre i problemi a procedure e regole: si fa apposta per raffreddare i bollenti spiriti nazionali, sempre all’erta. È stata e rimane una scelta politica. I “sovranismi” non sono tutti uguali né potranno mai allearsi.
Le loro agende sono confliggenti: nessuno vuole aiutare l’altro o partecipare ai suoi sforzi: è lo sterile choc degli egoismi. Non esiste in natura (cioè in politica) una “alleanza dei sovranismi”: se sono sovranismi sono istintivamente contrapposti. Se invece si negozia - foss’anche da posizioni più dure - allora non si tratta di sovranismi ma di legittima strategia negoziale. Tutta un’altra cosa.
Certamente l’Italia ha ragione quando sostiene che nessuno l’ha aiutata in questi anni, a parte il lip service complimentoso, divenuto davvero fastidioso. D’altra parte scontrarsi e insultarsi a vicenda non porterà a nessuna soluzione. Le contese europee di questi giorni sono purtroppo tutte improntate a ragioni di politica interna. Questo rende lo scenario preoccupante: con l’inerzia della quotidianità, l’agenda interna tende ad “accecare” e a dirottare quella delle relazioni internazionali, pur essenziale.
I governi devono trovare un equilibrio nuovo tra esigenze interne, più pressanti, e relazioni esterne, comunque vitali: una nuova architettura di dialogo. Quest’ultimo non è mai un “embrassons-nous” facile: è trattativa, fatica, pazienza, ascolto, mediazione.
Dialogare non significa mai arrendersi ma trovare il giusto compromesso. Se si strappa il velo delle buone maniere, che talvolta cela anche l’ipocrisia, si ottiene solo un ambito di negoziato più aspro. Non conviene.
Ciò accade soprattutto ora, un tempo in cui le emozioni sono così importanti. Si parla di percezione della realtà piuttosto che di realtà dei fatti. “Percepire più che capire”: tale è il leitmotiv attuale. Sembra che la percezione vada oltre la comprensione e sia più veritiera: intuisca il “non detto”, anticipi l’occultato, richiami il rimosso. Uomini politici più abili nel “sentire” lo spirito del tempo e meno ingessati nei riti della politica, ne fanno la loro condotta. Ma una volta strappato il velo del politicamente corretto, la difficoltà sta poi nel creare un nuovo binario in cui canalizzare bisogni e risposte. Altrimenti si perde il controllo.
Da sempre il vero compito degli “homines novi” è proprio tale costruzione. Non è sufficiente evidenziare la contrapposizione e cavalcarla: occorre il talento di una nuova sintesi. In parole povere: chiudere porti e/o respingersi migranti a vicenda; lasciarli in balia di libici e/o schiavisti; far finta che l’Africa non esista: ciò rappresenta un nuovo quadro politico? Non sembra proprio, non regge e non ha prospettiva, troppo schiacciato sul qui ed ora, troppo elettoralmente condizionato.
La risposta non è facile. Se ci si attesta sulla linea emergenziale si mettono a rischio i valori fondamentali della democrazia, del diritto occidentale, delle libertà. Tali principi sono validi in quanto universali, cioè per tutti e non per qualcuno soltanto. Neppure si può cancellare il fatto che nel più profondo, alla radice del sentimento popolare, vi è sempre iscritta un’esigenza di pace: la gente semplice (la “povera gente” di La Pira) si somiglia ovunque e non odia nessuno. La gente semplice, se scorge il bisogno non dice mai “tutti sono troppi”.
L’Europa ha già in passato perso il controllo di sé in molte occasioni. Le polemiche sui migranti non sono nuove: la stessa scena della nave Aquarius l’abbiamo già vista nel 2009, nel 2010, nel 2013. Ciò che più importa è che al fondo delle controversie attuali esiste un tema ricorrente nella storia europea: la questione della cittadinanza. Da secoli in maniera periodica i popoli europei si chiedono quale sia la qualità (o le qualità) per far parte della propria comunità nazionale. Ci sono biblioteche su tale indagine e sulle possibili risposte: per scelta, legge, diritto, etnia, razza, cultura, lingua, storia comune, terra, usi e costumi ecc. La discussione sull’identità è questa: come si forma un’identità? Può mai dirsi definitiva?
Tale dibattito è ciclico e si riaccende virulento ogni qualvolta l’Europa subisce una fase lunga di crisi economica. Sono periodi di tempo in cui si sopportano meno “nuovi arrivi” o “nuovi apporti”, in specie se diversi. Sappiamo che su tale assillo hanno lavorato varie correnti ideologiche e numerose scuole di pensiero. L’importante è non trascinare mai il dibattito fuori dal quadro delle nostre conquiste giuridiche occidentali. Per noi i diritti sono universali, il valore supremo è la persona e la sua libertà, la responsabilità è sempre personale e mai collettiva, ogni giudizio necessita garanzie, il rispetto della “rule of law” e dello stato di diritto sono fondamentali. Per questo chiediamo a tutti di adeguarvisi.
Tra quadro giuridico e costituzionale delle leggi da un lato, ed emozioni, paure e percezioni dall’altro, sembra che vi debba essere per forza conflitto. Non è così.
Le leggi e le costituzioni servono proprio a ordinare ciò che non lo è, senza tradirlo e senza travalicarlo. È questo il risultato di tanti secoli di riflessione e maturazione che incalzano la storia, la interpretano e la riordinano alla luce di una sempre nuova coscienza e di nuove consapevolezze.
L’Unione europea, malgrado tutti i difetti, è la depositaria di tale tradizione giuridica euro-occidentale. I Trattati dell’Unione - i cui originali sono depositati e visibili alla Farnesina - sono complicatissimi, è vero, quasi illeggibili senza aiuto. Eppure contengono il distillato della nostra tradizione che ha avuto molte svolte nel corso della storia. In questo senso l’Ue è un superpower giuridico e normativo: garanzie di libertà e di diritti per tutti. È quello il luogo vero delle battaglie dell’Italia, il centro dove far valere le proprie ragioni. Una scorciatoia non c’è.
LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.... *
L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO
di don Paolo Farinella (la Repubblica, 10 giugno 2018)
«Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo (anche) le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo». Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu.
Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran 1203 - 1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, « Adamo » non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa « Umanità - Genere Umano » , senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale. L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di « civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
Due giorni fa, di mattina presto, un’amica mi ha inviato due video ripresi nei pressi della Regione Liguria dove dormivano persone per terra, « figlie di Adamo » , carne e sangue « della sua essenza » . Mi sono chiesto se la nostra civiltà non stia regredendo verso la preistoria, verso il nulla.
Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova sarà restaurata la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz. Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti.
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
La festa del 2 giugno
La democrazia a un bivio
di Guido Crainz (la Repubblica, 01.06.2018)
Mai come quest’anno il 2 giugno ci costringe a interrogarci sul nostro essere nazione e sulla tenuta della nostra democrazia, ed è difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a un bivio. Mai infatti, neanche nelle fasi più aspre, questa data ha cessato di essere la festa di tutti gli italiani: il momento in cui ribadiscono i fondamenti culturali, politici e civili del proprio vivere collettivo. Mai qualcuno aveva pensato di utilizzare il 2 giugno per contestare le nostre regole costituzionali. Mai, neanche per un attimo, era stata proposto di lacerare questa giornata con una manifestazione di parte volta a colpire proprio quelle regole, assieme alla figura istituzionale che ne è garante ( e il vulnus resta, anche se la miserevole proposta è crollata grazie alla alta e necessaria fermezza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella).
Non avvenne neppure nel clima teso della Guerra fredda, nonostante le profonde divisioni e contrapposizioni di allora. E non avvenne negli anni cupi della strategia della tensione e del terrorismo degli anni Settanta: la centralità del 2 giugno verrà appannata semmai dalla smemoratezza degli anni Ottanta, nel prolungarsi dell’abolizione della festività decisa nel 1977 (discutibile conseguenza di esigenze di “austerità”).
Quell’appannarsi era in realtà il sintomo dell’indebolimento civile del Paese, malamente mascherato dalle euforie di quel decennio, e alla vigilia del crollo della “ prima Repubblica” Giorgio Bocca evocava a contrasto, su queste pagine, l’Italia uscita dalla guerra: eravamo divisi in fazioni, scriveva, in un Paese distrutto, eppure «uniti nel vivere, liberali, cattolici, monarchici, comunisti, padroni, operai, tutti certi di essere padroni del nostro destino. Ma questa voglia di avere un’identità, di essere noi, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo? Che cosa significa essere italiani? » . In quella crisi il valore centrale del 2 giugno sembrò offuscarsi ancora e la sua decisa riaffermazione fu parte integrante della pedagogia civile avviata con forza dal presidente Ciampi e proseguita dai suoi successori.
Fu parte integrante del loro impegno a rifondare il “ patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva, collocandolo nella più ampia appartenenza europea e rafforzandone al tempo stesso i momenti simbolici e le date fondative. In primo luogo, appunto, la festa del 2 giugno, ripristinata da Ciampi nella sua interezza e accompagnata da una parata che poneva ora al centro l’impegno dell’esercito nelle calamità civili e nelle missioni di pace. Ciampi stesso ha ricordato: andai a quella prima, rinnovata sfilata «in una vettura scoperta, con al fianco il ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Eravamo circondati da una folla festosa che mi diceva di andare avanti, mi ringraziava, era contenta » . Quella ispirazione è andata via via arricchendosi e sono ancora vive le immagini di un anno fa, con la folta presenza di sindaci e con quell’enorme tricolore che calava sul Colosseo.
È forte dunque la sensazione di essere oggi di fronte a una possibile, inquietante divaricazione, e nei giorni scorsi lo abbiamo compreso in maniera traumatica: in essi infatti il fantasma del populismo è uscito definitivamente dal limbo delle definizioni astratte o da territori ancora lontani. È diventato forza corposa e devastante, con la lacerante contrapposizione fra una “ sovranità del popolo” arbitrariamente interpretata e le istituzioni che la fanno realmente vivere, svilite e calpestate assieme alle loro regole. Questo abbiamo vissuto e viviamo, e quelle lontane parole di Giorgio Bocca sembrano di nuovo drammaticamente attuali.
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico.... *
M5S, Lega e l’assalto alle istituzioni
I nuovi Proci e l’Italia
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 30.05.2018)
Anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco: figli che hanno avuto il coraggio di farsi avanti, di impugnare le sorti del loro destino, di impegnarsi in prima persona per cambiare l’avvenire del loro Paese. Ma politicamente essi - anche alla luce di questo ultimo tristissimo quanto drammatico episodio della loro lunga marcia verso il potere - sembrano assomigliare di più ai Proci. Sono i cosiddetti “pretendenti”, i giovani principi che nell’Odissea di Omero esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto, disperso in chissà quale mare. Nel poema essi rivendicano il loro pieno diritto di governare Itaca nonostante non abbiano mostrato alcun rispetto per le sue istituzioni democratiche. Qui il lettore può spaziare ampiamente nella sua memoria tra le infinite ingiurie leghiste e grilline alle nostre istituzioni: ma non è forse questo il cemento armato della loro più profonda convergenza?
L’atteggiamento dei Proci non è però solo antiparlamentare - interrompono con le armi lo svolgimento di un’assemblea convocata da Telemaco, saccheggiano e deturpano la reggia che li ospita - ma è offensivo verso la Legge stessa della città. Il vuoto di Legge che si è determinato con l’assenza di Ulisse li rende padroni assoluti. Evocare la morte di Ulisse significa infatti evocare la morte della politica che deve lasciare il posto all’arroganza di chi rivendica il proprio diritto inscalfibile alla successione.
L’anti-parlamentarismo si ribalta così in una spinta furiosa ad occupare le istituzioni parlamentari. Una differenza sostanziale differenzia però i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis. Hanno un mandato, il popolo è con loro, li sostiene. Tuttavia, la Legge della città ha il compito di ricordare loro che il diritto a governare non implica lo sconvolgimento delle regole democratiche della convivenza, non significa introdurre l’anti- parlamentarismo nelle istituzioni nel nome del popolo. Lo squadrismo fascista violava la vita democratica in nome del popolo. Ed è sempre, come è tristemente noto, in nome del popolo che si sono commesse le più grandi atrocità nella storia. I padri costituenti hanno affidato al presidente della Repubblica un ruolo di garanzia. Bisogna che qualcuno ricordi ai nuovi Proci le regole complesse di una democrazia. Il diritto a governare non può mai coincidere con il diritto a fare quello che si vuole, con il puro arbitrio. Leghismo e grillismo empatizzano facilmente tra loro perché sono le espressioni più radicali del populismo: oppongono la volontà del popolo alla vita della politica.
Di fronte al collasso senza precedenti della sinistra e del Pd, di fronte al vuoto della Legge della città che sembra prolungare all’infinito la lunga notte di Itaca, c’è voluto ancora una volta il volto di un padre simbolico a testimoniare che le istituzioni non sono proprietà di nessuno, che il diritto al governare non coincide con il diritto a cancellare i principi elementari di una democrazia rappresentativa. È stato necessario il gesto coraggioso di un padre per salvare le speranze di Telemaco, per ricordare ai nuovi Proci che Ulisse è ancora vivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico....
GLI ESEMPI TAROCCATI DI BARICCO E DI SCALFARI E L’ITALIA STRETTA NELL’ABBRACCIO MORTALE DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
Federico La Sala
Il caso italiano
Una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi: ma che conferma che la nostra Costituzione è ben presidiata
Il presidente garante
di Enzo Cheli (Il Mulino, 28.05.2018)
Nell’arco della nostra storia repubblicana nessun capo dello Stato si è trovato a dover gestire una vicenda istituzionale così difficile e complessa come quella che il presidente Mattarella ha dovuto affrontare nel corso dell’ultima settimana, conclusasi con la rinuncia da parte di Giuseppe Conte all’incarico di formare il nuovo governo. Una vicenda che sta suscitando polemiche e contrasti, ma che il Quirinale ha gestito con grande equilibrio e una forte attenzione al rispetto dei confini delle proprie prerogative costituzionali.
Ai sensi dell’articolo 92 della nostra Costituzione, tali prerogative affidano, com’è noto, al presidente della Repubblica il compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri su sua proposta (una proposta che la prassi non ha mai ritenuta vincolante) i ministri. Nella dichiarazione rilasciata dinanzi alle telecamere dopo la rinuncia del professor Conte, il presidente Mattarella ha ricostruito puntualmente i passaggi essenziali di questa vicenda che, dopo le elezioni del 4 marzo, ha preso l’avvio con il fallimento dei primi tentativi di trovare una maggioranza in grado di sostenere in Parlamento un governo politico; con l’incarico con riserva conferito a Giuseppe Conte su indicazione del Movimento 5 Stelle e della Lega che avevano raggiunto un accordo intorno a un inedito “contratto di governo”; con la condivisione da parte del presidente Mattarella di tutte le proposte per gli incarichi ministeriali formulata dal professor Conte, ad eccezione della proposta avanzata per il ministero dell’Economia, che veniva a investire un tecnico di sicura competenza e anche di antica fede europeista, ma oggi apertamente schierato a favore di una possibile uscita dall’euro del nostro Paese. Proposta che, trapelata nel corso delle trattative, non aveva mancato di allarmare i mercati europei e mondiali determinando una rischiosa e crescente pressione negativa sia sui titoli del debito pubblico sia sui titoli delle imprese quotate in borsa. Poteva il presidente Mattarella opporsi a questa designazione fino a determinare la rinuncia di Conte all’incarico ricevuto? È questo l’interrogativo che viene oggi a dividere l’opinione pubblica del nostro Paese.
A mio avviso è certo che, nell’opporsi alla proposta ricevuta, il capo dello Stato non ha invaso - come taluni affermano - la sfera dell’indirizzo politico di maggioranza, ma ha soltanto esercitato una competenza connessa alla sfera dei suoi poteri di controllo costituzionale su tale indirizzo, poteri che entrano in gioco - e che il capo dello Stato non solo è legittimato, ma anche tenuto a esercitare - ogni qualvolta l’azione del governo possa aprire la strada alla lesione di interessi di rilevanza costituzionale attinenti alla sfera dell’unità nazionale, come quelli afferenti, in particolare, alla politica estera, alla politica europea e alla politica della difesa, nonché alla politica di bilancio; tutte materie rispetto alle quali le competenze del capo dello Stato, ai sensi della Carta costituzionale, assumono un contenuto non solo formale, ma di sostanza.
Né va sottovalutato il fatto che il presidente Mattarella nel rifiutare la candidatura che gli veniva proposta non ha formulato una propria proposta, ma si è limitato a sollecitare le forze politiche impegnate nella definizione del nostro governo ad avanzare - attraverso il presidente del Consiglio incaricato - proposte alternative.
Cosa che non è avvenuta per l’irrigidimento di una delle forze in campo, particolarmente interessata a passare al più presto a nuove elezioni. Passaggio che viene, peraltro, anch’esso a collegarsi a una prerogativa fondamentale del presidente della Repubblica qual è lo scioglimento delle Camere e che il presidente Mattarella almeno sinora - e fino alla verifica parlamentare sull’assenza di qualunque maggioranza - non ha dato per scontato.
Siamo di fronte a una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi. Ma che ha dato la conferma che la nostra Costituzione risulta ancora oggi ben presidiata.
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
diGiovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
AL DI LA’ DEL POPULISMO ATEO E DEVOTO.... *
Napolitano dimesso dall’ospedale: andrà in clinica per la riabilitazione
Quattro settimane fa il presidente emerito della Repubblica era stato sottoposto a un intervento di sostituzione della valvola aortica
di CARLO PICOZZA (la Repubblica, 22 maggio 2018)
Il presidente emerito Giorgio Napolitano ha lasciato la Cardiochirurgia del San Camillo alla volta della clinica Villa Betania dove sarà sottoposto alla riabilitazione cardiorespiratoria e motoria. Era martedì 24 aprile, quattro settimane esatte fa, quando, in emergenza, il cardiochirurgo Francesco Musumeci ha sottoposto l’ex capo dello Stato alla sostituzione della valvola aortica e di un ampio tratto dell’aorta ascendente con reimpianto delle coronarie. Napolitano, nel pomeriggio di quel giorno, aveva avvertito dolori al torace mentre era in visita alla moglie Clio, ricoverata in una clinica della capitale. Si era allarmato e aveva subito avvertito il suo cardiologo di fiducia, Roberto Ricci, primario nell’ospedale Santo Spirito dove, visitato il paziente, la diagnosi non lasciava grandi speranze: "Dissecazione acuta dell’aorta ascendete". In altre parole, l’arteria maggiore rischiava di rompersi da un momento all’altro.
La conferma era giunta a stretto giro da Musumeci che, d’accordo con Ricci, indicava di trasportare con urgenza Napolitano al San Camillo per sottoporlo al delicato intervento chirurgico. L’operazione era durata tre ore e mezzo, dalle 22 all’1.30. E da subito, nella Terapia intensiva cardiochirurgica, i clinici avevano guardato con soddisfatto stupore alle capacità di recupero di Napolitano.
"Nonostante l’età, quasi 93 anni", spiega Musumeci, "il presidente emerito ha risposto bene, senza complicazioni e velocemente, alle nostre cure; un recupero eccellente". "L’intervento di Napolitano", aggiunge il cardiochirurgo che, nella Londra degli anni Ottanta, è stato allievo di uno dei maestri della Cardiochirurgia mondiale, Magdi Yacoub, "dimostra che è l’età biologica che conta, le buone condizioni cliniche del paziente e non il numero degli anni: le tecnologie oggi a disposizione consentono interventi impensabili fino ad alcuni anni fa". Ora Napolitano è affidato alle cure dei fisioterapisti che, nel quartiere Aurelio della capitale, metteranno a segno gli ultimi atti della sua riabilitazione.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
POPULISMO: IL ’GIOCO’ DEL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO. Come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" fosse identica al "tutto".
Monito del Presidente Napolitano: una democrazia sa sempre reagire "alle chiusure e al populismo".
Federico La Sala
L’ultima trappola della «Buona scuola»
Appello al Miur. L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero
Il Decreto legislativo 62/2017 stravolge tacitamente le disposizioni contenute nell’art. 185 comma 3 del Decreto 297 1994. Si tratta della sostituzione dell’elenco relativo alle materie all’Esame di Stato conclusivo della Scuola Secondaria di I°grado con la dicitura riferita a «tutti i docenti del Consiglio di Classe». Tra le materie indicate nel Decreto del 1994 non figurava l’Insegnamento della Religione Cattolica (Irc). È questa un’ultima trappola della legge denominata «Buona Scuola».
L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo - iniziato con il rinnovo del sistema concordatario - per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero. Solo con difficoltà sono state introdotte norme e istituti per rendere effettiva la nuova facoltatività con la formulazione delle quattro alternative fra cui la frequenza di una reale materia alternativa.
Nessuna promozione è stata fatta per informare le famiglie su tali alternative sulle quali, anche per la difficoltà a superare certe prassi e il timore di esporre i figli a discriminazioni, sono state esercitate, in particolare nella scuola primaria, ben poche opzioni. (...).
Le sottoscritte associazioni che si battono da anni per il rispetto della laicità della Scuola e dello Stato, si oppongono con forza a tale stravolgimento della Legge 121/1985, attuativa del Nuovo Concordato. Rivolgono pertanto al Miur la richiesta urgente di chiarimenti indispensabili per insegnanti e famiglie di alunni e alunne in procinto di affrontare la prova del citato Esame:
l’Irc sarà materia d’esame? Se non lo sarà, a qual fine la presenza del docente? L’eventuale presenza di un docente di a. a. non si configura come discriminante nei confronti di coloro che hanno scelto attività di studio o di ricerca individuali o la non presenza a scuola durante l’Irc?
nella prova d’esame, a differenza di quanto avviene nelle operazioni di scrutinio, i voti sono soltanto numerici: è quindi prevedibile una valutazione numerica dell’Irc?
il docente di Rc nella votazione per promozione o bocciatura si comporta come previsto nel DPR 202/1990, ossia non vota se il suo voto fosse determinante?
Queste sono solo alcune delle ambiguità da chiarire.
*** Comitato Nazionale Scuola e Costituzione, Comitato bolognese Scuola e Costituzione, Associazione Nazionale per la Scuola della Repubblica, Manifesto dei 500, Ass.Naz. Sostegno Attivo, Cogedeliguria, Ass.Naz. del Libero Pensiero “Giordano Bruno”, Coordinamento Genitori Democratici (Cgd), Comitato Genovese Scuola e Costituzione, Crides (Centro di iniziativa per la difesa dei diritti nella scuola), Movimento di Cooperazione Educativa (Mce), Uaar, Fnism, Cidi, Osservatorio diritti scuola, Fcei (Fed.Chiese Evangeliche It.), Comitato Insegnanti Evangelici Italiani, Comitato Democrazia Costituzionale -Roma
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre (la Repubblica, 05.05.2018)
Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro.
La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare.
Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe. È questo il momento giusto!
Ma quel giorno non fu un “giudizio di Dio”
di Giovanni De Luna (La Stampa, 17.04.2018)
Per gli italiani di allora, la giornata del 18 aprile 1948 fu una sorta di «giudizio di Dio». Le elezioni politiche furono vissute come una ordalìa tra il bene e il male, tra due mondi contrapposti, divisi su tutto: agli inizi della Guerra fredda, Usa contro Urss voleva dire anche capitalismo contro comunismo, democrazia contro dittatura, cristianità contro ateismo. A destra e a sinistra, soprattutto nella Dc e nel Pci, c’era un’attesa quasi messianica, un’ansia di misurarsi, resa più vibrante dalla riscoperta di una contesa elettorale finalmente libera da parte di un’opinione pubblica impaziente di scrollarsi di dosso venti anni di conformismo, di partiti unici, di plebisciti, di totalitarismo fascista.
Non c’è dubbio che oggi, a 70 anni di distanza, molte di quelle sensazioni appaiono ampiamente giustificate. La possibilità di finire - attraverso il voto - in uno o nell’altro dei due blocchi in cui si divideva il mondo bipolare uscito dalla Seconda guerra mondiale era terribilmente concreta. Votare per la Dc o votare per il Fronte - in cui si erano uniti comunisti e socialisti - era una scelta di campo che non ammetteva mediazioni.
Pure, oggi, in chiave storiografica, la dimensione emotiva che emerge nelle testimonianze dei protagonisti tende a lasciare il posto a considerazioni che possono giovarsi del «senno di poi» tipico degli studi storici. In questo senso, l’Italia del 1948 suggerisce l’immagine di uno di quei grattacieli che vengono demoliti con la dinamite: un attimo prima svettano intatti, un attimo dopo crollano rovinosamente. Per intenderci, dieci anni dopo, nel 1958, dell’Italia del 1948 non era rimasto quasi più niente.
La grande trasformazione legata al boom economico e allo sviluppo industriale ridisegnò la struttura economica del Paese, riplasmandone mode, abitudini, comportamenti politici, scelte individuali. Dal declino della piccola proprietà contadina risultarono stravolti anche tutti quei riferimenti ideologici «precapitalistici» che ne avevano sostenuto, insieme a un senso di chiusura esclusivistica, un forte sentimento di compattezza e di identità collettiva; i rapporti interpersonali, l’organizzazione familiare, i ruoli sessuali si decomposero contemporaneamente all’inserimento di migliaia di individui in situazioni lavorative e esistenziali completamente diverse da quelle originarie. Il passaggio brusco e repentino da Paese contadino a potenza industriale (la quinta nel mondo!) svuotò dall’interno molti dei riferimenti politici, sociali, culturali dell’Italia del 1948. Consegnando agli storici un’altra riflessione che non coincide con la sensazione dei testimoni di allora.
Oggi è infatti sempre più chiaro come, riferito al confronto tra il Pci e la Dc, quanto allora appariva ferocemente contrapposto nel «cielo» della politica, presentasse ampie «zone grigie» su terreni più legati alla quotidianità dei comportamenti collettivi. A fronteggiarsi erano, cioè, essenzialmente due centrali di propaganda. Ma quanto ci si allontanava dalla politica e ci si avvicinava alle scelte più private, le tinte dello scontro ideologico tendevano a stemperarsi e a sbiadire. Sulla famiglia, sul ruolo della donna, si registravano convergenze che ritornavano puntualmente su altri valori «di base», dai comportamenti sessuali alla concezione del matrimonio, a tutti quelli che segnavano in particolare il rapporto individuo-società.
Identica era, inoltre, una concezione edificante del lavoro che accomunava l’operaio «di mestiere» che si riconosceva nel Pci e il coltivatore diretto che votava per la Dc. In questa ottica, oggi si sottolinea nella forte, comune connotazione ideologica dell’impianto dei due partiti una sorta di funzione pedagogica e protettiva. Almeno fino alla fine degli Anni 50, i partiti avrebbero aderito ai contenuti e ai valori più tipici di una società ancora essenzialmente contadina, rispettandone ruoli e gerarchie consolidate e proteggendoli da ogni brusco mutamento; poi, entrambi avrebbero dovuto cambiare pelle per adeguarsi a un’Italia che di colpo alla frugalità aveva sostituito il superfluo e che, alla contrapposizione tra comunismo e anticomunismo, preferiva ormai la possibilità di sentirsi tutti figli dello stesso benessere.
1948-2018 Un estratto del saggio di Sabino Cassese sulla «Rivista trimestrale di diritto pubblico» (Giuffrè)
Tante impronte sulla Carta
Nella Costituzione idee cattoliche, liberali, marxiste. E tracce del fascismo
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 10.04.2018)
Nel 1995, Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che prepararono la Costituzione, riassumeva così la sua valutazione della Carta costituzionale del 1948: «Splendida per la prima parte (diritti-doveri), banale per la seconda (struttura dello Stato), che in effetti è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato». Da dove è stata attinta questa prima parte «splendida», quale è stata l’«officina di idee» che l’ha prodotta?
Piero Calamandrei ha fornito una chiave per individuare le fonti ideali delle norme costituzionali quando ha detto, nel 1955, che esse furono «il testamento di centomila morti, scritto con sangue di italiani nel tempo della Resistenza», ma anche «un punto di ripresa del pensiero politico-civile italiano, dove parlano le “grandi voci lontane” di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini».
La Costituzione ebbe una breve gestazione - non più di un triennio -, ma la sua maturazione ideale non fu altrettanto breve. Essa non nacque come Minerva armata dalla testa di Giove. Vi sono intessute culture, aspirazioni, esperienze, ideologie di diversa provenienza, di epoche differenti.
Di questo contenuto profondo dei principi costituzionali non posso fare qui che qualche esempio, e soltanto in forma interrogativa, avanzando ipotesi. Come arriva la diade della Costituzione termidoriana (non delle precedenti Costituzioni francesi rivoluzionarie) «diritti e doveri» negli articoli 2 e 4, nonché nel titolo della parte prima della Costituzione italiana? Non bisogna riconoscere dietro alla formula del secondo comma dell’articolo 3, quello sull’eguaglianza in senso sostanziale, la critica marxista della eguaglianza meramente formale affermata dalle Costituzioni borghesi e il successo che solo pochi anni prima, nel 1942, aveva avuto anche in Italia il «piano Beveridge» con la sua libertà dal bisogno? Come spiegare la circostanza che dei 1357 lemmi della Costituzione uno di quelli che hanno il maggior numero di occorrenze è «ordinamento», senza capire che «così dalla prima commissione la grande ombra di Santi Romano si estendeva all’Assemblea, come se il piccolo libro fosse stato scritto a favore dei Patti Lateranensi», come notato nel suo solito stile immaginifico da La Pira nel suo intervento sull’articolo 7?
Ed è possibile ignorare la lunga storia del cattolicesimo italiano e del suo rifiuto dello Stato (la «questione romana»), che si intreccia con l’idea romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici o ispira le norme dove si afferma, prima che lo Stato garantisca i diritti o promuova le autonomie, che questi vadano riconosciuti, e quindi, preesistono allo Stato, consolidando quindi il pensiero della corrente antipositivistica (perché lo Stato viene dopo le persone, le «formazioni sociali» e gli ordinamenti originari non statali)?
Si possono comprendere le norme costituzionali sul patrimonio storico e artistico e sulla scuola ignorando l’elaborazione, in periodo fascista, a opera di Giuseppe Bottai, di Santi Romano, di Mario Grisolia, della legislazione sulle cose d’arte e della «carta della scuola», quindi senza riconoscere che la Costituzione antifascista ha raccolto anche l’eredità del fascismo? Infine, come intendere la portata dei programmi economici per indirizzare a fini sociali l’impresa privata, senza considerare una duplice esperienza, quella della pianificazione economica sovietica e quella del New Deal rooseveltiano?
Nel melting pot costituente, furono raccolte, messe insieme, ordinate queste diverse idee, culture, esperienze, e altre ancora, che si mescolavano all’esigenza di riportare libertà e rispetto per i diritti nel Paese. La Costituzione rappresentò una reazione al regime illiberale fascista, ma fu anche il precipitato di ideali di epoche diverse (risorgimentale, liberaldemocratica, fascista), Paesi diversi (specialmente quelli che si dividevano il mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), aree diverse (quella cattolica, quella socialista e comunista, quella liberale), orientamenti dottrinali opposti (quello statalistico e quello pluralistico).
Calamandrei ebbe l’intelligenza di riconoscere questo sguardo lungo della Costituzione, ma - forse prigioniero dell’idea che la Resistenza fosse un secondo Risorgimento - si fermò alla segnalazione del contributo ideale di autori lontani, Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Nel discorso del 1955 tralasciò il contributo che proveniva da altri Paesi e da epoche più vicine, specialmente dal fascismo, un contributo che prova la lungimiranza degli autori della Costituzione, antifascisti che recuperarono l’eredità del fascismo (ma questo a sua volta aveva sviluppato ideali e proposte dell’età liberale).
Questo risultato non fu sempre positivo, come osservava Giannini, perché la seconda parte della Costituzione (o, meglio, quella relativa alla forma di governo) sembrò dimenticare proprio la lezione del passato, come alcuni costituenti dissero ai loro colleghi, ricordando che anche dalle debolezze del sistema parlamentare liberale era scaturito il fascismo. Ciò avrebbe richiesto un sistema di stabilizzazione dei governi, pure auspicato da molti (e anzi accettato in linea di principio dalla ampia maggioranza che votò l’ordine del giorno Perassi), secondo il quale il sistema parlamentare doveva avere «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare degenerazioni del parlamentarismo».
Come osservava Paolo Ungari molti anni or sono, «l’intera vicenda della cultura giuridica italiana fra le due guerre dovrebbe essere attentamente ripercorsa, e non solo al livello delle discussioni universitarie, per rendersi conto del patrimonio di idee e di tecniche degli uomini che sedettero nelle varie commissioni di studio del periodo intermedio, dalla commissione Forti a quella sulla “riorganizzazione dello Stato”, nonché alla Consulta e alla Costituente stessa».
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Diritto
Nel saggio di Daniele Menozzi (Carocci) la storia di come la Carta regolò i rapporti tra Stato e Chiesa
Nella Costituzione senza esserlo. Il destino ambiguo del Concordato
I tessitori. Dossetti e Togliatti con il liberale Lucifero trovarono la soluzione sancita nell’articolo 7
di Roberto Finzi (Corriere della Sera, 30.03.2018)
Non c’è dubbio che tra i «principi fondamentali» che reggono la nostra Repubblica racchiusi nei primi dodici articoli della Carta del 1948 (cui Carocci dedica una serie diretta da Pietro Costa e Mariuccia Salvati) il più controverso sia stato (in parte continui a essere) l’articolo 7 o meglio, e soprattutto, il primo asserto del suo secondo comma. Se, al di là delle sfumature, ogni forza politica e ogni cittadino, poteva ammettere che «lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» perplessità e opposizioni nascevano e continuarono dalla affermazione che seguiva: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi», firmati, come si sa, da Benito Mussolini e dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri l’11 febbraio 1929, regnante Achille Ratti, Papa Pio XI. Sanavano la «questione romana» apertasi con la presa di Roma. Con accordi e norme complicate tra cui due particolarmente odiose per un Paese che - dopo un decennio di guerre e la doppia occupazione nazista e alleata - si era scrollato di dosso la dittatura anche attraverso la Resistenza e stava lavorando non solo al ritorno delle civili libertà ma a una democrazia nuova, repubblicana come aveva decretato il voto del 2 giugno 1946.
Si trattava dell’asserto che quella cattolica era la religione «di Stato» e, per la sua pervasività, dell’attribuzione degli effetti civili al matrimonio religioso. Con il paradosso che chi riteneva il matrimonio un sacramento poteva, per le norme del diritto canonico, ottenerne la nullità, riconosciuta poi dallo Stato e chi invece aveva del matrimonio una concezione puramente civile era destinato a essere legato a vita, indissolubilmente, non per diretta conseguenza dei Patti, ma per la coincidenza nella visione della famiglia tra Chiesa e fascismo. Nel quadro per di più di un diritto di famiglia in cui era sancita una netta subordinazione della donna.
Nella sua ricostruzione del formarsi del dettame costituzionale e poi dei suoi effetti nella vita democratica italiana ( Art.7. Costituzione italiana ), Daniele Menozzi non nega le conseguenze negative del permanere di quelle norme specie nel quindicennio successivo alla emanazione della Carta Costituzionale. Ci offre però una chiave di lettura della formazione e del senso della norma più articolata, che affonda le sue radici nella complessità del problema cattolico nella storia dell’Italia unita e soprattutto a quel punto della vicenda del nostro Paese.
La Chiesa, lo dimostreranno le successive elezioni del 18 aprile 1948, aveva ancora un forte ascendente sulla popolazione ed era una Chiesa che, seppure - si vedrà di lì a poco - intimamente percorsa da interne pulsioni verso il nuovo, era ancora fortemente contraria al mondo moderno e alle sue forme politiche. In particolare a quelle di matrice socialista e comunista. Ora, si trattava, in sostanza - spiega Menozzi con precisione e acribia filologica - di attirare, per così dire, la Chiesa verso la accettazione piena di quella democrazia che si andava delineando nel lavoro della Costituente, cedendo in via formale alle sue richieste anche se nell’immediato contraddittorie con quella visione.
Protagonista di questa operazione complicata e sottile fu in primis Giuseppe Dossetti che univa alla sua profonda fede cristiana una visione non ierocratica della Chiesa, la competenza giuridica del canonista di vaglia, cristalline convinzioni democratiche, saldi legami con le altre culture politiche formatisi nella Resistenza. Dossetti trovò una sponda in Palmiro Togliatti, a lungo, e tutt’oggi, accusato di avere, in qualche modo permesso un inquinamento della Costituzione con il riconoscimento nel suo testo dei famigerati Patti Lateranensi.
L’atteggiamento del leader del Pci derivava dal convincimento che nella Repubblica dovessero riconoscersi per davvero tutti gli italiani e pure, dice Menozzi, da considerazioni più immediatamente politiche. Mentre stava costruendo il «partito nuovo» guardava alla possibilità di una adesione al Pci di cattolici. Così temuta dalla Chiesa pacelliana che nel 1949 il Papa scomunicherà i comunisti.
Io aggiungerei due aspetti. Togliatti era ben consapevole di quanto Milovan Gilas nelle sue Conversazioni con Stalin ricorda avergli detto il dittatore sovietico: «Questa guerra (...) è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale». E infine la lotta per l’egemonia all’interno della sinistra. In quel campo i socialisti, allora sotto la sigla Psiup, erano ancora, seppure non di molto, maggioritari rispetto al Pci.
Per ben intendere la vicenda al quadro manca un tassello. Decisivo. Si tratta della seconda parte del secondo comma dell’articolo 7 che recita: «Le modificazioni dei Patti (Lateranensi), accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». In tal modo si eliminava una delle più forti obiezioni all’inserimento dei Patti in Costituzione. Per tale via infatti non venivano «costituzionalizzati» ché la loro modifica poteva avvenire per legge ordinaria. L’artefice di questo accorgimento essenziale fu Roberto Lucifero, liberale e monarchico.
Così l’articolo, nota Menozzi, «appariva formulato con il concorso di tre diverse famiglie politiche: la democristiana, la comunista e la liberale».
La «non costituzionalizzazione» dei Patti - in un modo profondamente cambiato all’interno e soprattutto all’esterno della Chiesa - sarà uno degli elementi che permetterà all’Italia l’adozione formale, prima sul terreno parlamentare e quindi - con i referendum del 1974 e del 1981 - attraverso la conferma popolare di decisive riforme come il divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza. E del nuovo diritto di famiglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone (il manifesto, 28.12.2017)
Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta - per chi voglia raccoglierla seriamente - la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione - in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini - diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi - è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti - avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 - potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.
MUSICA, STORIA, E SOCIETA’: IL CANTO DEGLI ITALIANI. Goffredo Mameli, Giuseppe Verdi, il Risorgimento, la tradizione ebraica, il fascismo, e la Repubblica....
“Fratelli d’Italia” diventa ufficialmente inno nazionale
Scelto nel 1946 con un provvedimento provvisorio, nessuna legge lo aveva reso definitivo
Dopo 71 anni di provvisorietà l’Inno di Mameli, o meglio «Il canto degli Italiani», diventa ufficialmente l’Inno della Repubblica Italiana. Dopo svariati tentativi nelle precedenti legislature, il Senato ha approvato definitivamente la legge che rende ufficiale quell’inno che il Consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946 adottò provvisoriamente.
«Su proposta del Ministro della Guerra - si legge nel verbale di quel lontano Consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi - si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli». Nulla di più definitivo del provvisorio, come spesso accade in Italia, anche perché l’Inno di Mameli entra a tutti gli effetti nell’immaginario collettivo, grazie soprattutto alla nazionale Italiana di Calcio e ai successi che un tempo elargiva. Poi nella legislatura 2001-2005 ecco sia una proposta di legge ordinaria che una costituzionale, che però non vengono approvate. Lo stesso avvenne nelle due successive legislature (2006-2008 e 2008-2013). Curiosamente però una legge del 2012, nata per promuovere il senso di cittadinanza tra gli studenti, prevede che l’Inno di Mameli venga insegnato nelle scuole.
Anche l’attuale legislatura sembrava destinata allo stesso esito e invece la Commissione Affari costituzionali della Camera in poche settimane ha approvato in sede deliberante la legge attesa da anni (di iniziativa di alcuni deputati del Pd), imitata dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, che in due settimane ha dato il sì definitivo. «Abbiamo l’Inno» ha commentato Salvatore Torrisi, presidente della Commissione.
«La Repubblica - afferma la nuova legge - riconosce il testo del `Canto degli italiani’ di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale». Ciò significa che tutte e sei le strofe del testo di Mameli costituiscono l’Inno e non solo le prime due, che tutti conoscono per motivi calcistici. E appare quasi una beffa del destino il fatto che i tifosi non possano cantare l’Inno ai mondiali di calcio per la prima volta dopo 60 anni, proprio dopo la storica approvazione della legge attesa da 71 anni.
Comunque Mameli ha avuta vita difficile anche per la concorrenza di «Va pensiero» il coro dal Nabucco di Giuseppe Verdi, che in passato la Lega propose come Inno alternativo, anche perché esso non parla di Roma, come invece fa «Fratelli d’Italia». E proprio la Lega è stata assente sia al momento dell’approvazione della legge alla Camera che oggi al Senato, anche se Roberto Calderoli assicura che non sia una scelta politica, ma una semplice coincidenza di impegni dei senatori in più Commissioni.
* Fonte: La Stampa, 15/11/2017 (ripresa parziale - senza immagine).
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO , SI CFR.:
VIVA VERDI, VIVA PUCCINI: NESSUN DORMA!!!.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
Federico La Sala
Ius soli, parlamentari e insegnanti iniziano sciopero fame: "Per non doverci rammaricare"
Ampia la risposta all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma. Digiuno a partire da oggi
di VLADIMIRO POLCHI (la Repubblica, 03 ottobre 2017)
ROMA - Uno sciopero della fame tra i parlamentari "per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza". Deputati e senatori rispondono all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma dello ius soli. E dichiarano di essere pronti a digiunare a partire da oggi, assieme a 800 insegnanti a sostegno della legge sulla cittadinanza.
"Cara collega, caro collega - si legge nell’appello a cui aderiscono anche i Radicali italiani, il segretario Riccardo Magi e la presidente Antonella Soldo - vi scriviamo perché siete tra coloro che, dal primo momento e con maggiore determinazione, hanno sostenuto le buone ragioni della legge sullo ius soli. Ogni giorno lo spiraglio - pur esile, esilissimo - che sembra aprirsi sulle possibilità di una approvazione del testo, tende a chiudersi.
Qualcosa si deve pur fare per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza. Se, come tutto sembra indicare - e come segnalano anche le ripetute dichiarazioni del ministro Del Rio - questi sono giorni decisivi, proviamo a muoverci".
"Oggi, 3 ottobre - giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione - oltre 800 insegnanti attueranno uno sciopero della fame a sostegno della legge e informeranno i loro studenti del significato della propria azione. Potrebbe essere l’occasione, questa, per collegarsi a tale iniziativa rilanciandola nella nostra qualità di parlamentari. Si tratta di prendere una decisione immediatamente.
L’ipotesi è quella di un digiuno a staffetta a sostegno della richiesta della presentazione in Aula prima possibile del disegno di legge. Dunque, per tenere aperto questo spiraglio e provare a inserirci in esso in maniera attiva ed efficace, coinvolgendo il maggior numero di persone affinché il governo decida di porre la fiducia".
"I tempi potrebbero essere i seguenti: mercoledì 4 ottobre ci sarà il voto a maggioranza assoluta sulla nota di variazione di bilancio DEF. Dopo di ché si apre una sorta di finestra. Infatti la legge di stabilità arriverà in Senato (alle Commissioni) nell’ultima settimana di ottobre. Il calendario dei lavori dell’Aula si ferma a giovedì 19 ottobre. Occorrerà dunque una nuova Conferenza dei capigruppo. Ciò vuol dire che vi sono due settimane di tempo per ricercare i numeri necessari alla fiducia sul provvedimento relativo allo ius soli.
Si tenga conto che quello stesso periodo di tempo coincide con la fase conclusiva della campagna Ero straniero. L’umanità che fa bene e della relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della legge Bossi-Fini. I due obiettivi potrebbero sostenersi e incentivarsi a vicenda. Pensiamo, in ogni caso, che si tratti di una prova difficile ma che vale la pena affrontare".
"Le modalità del digiuno a staffetta, a sostegno di questo percorso, verranno precisate puntualmente nelle prossime ore. E si ricordi che il pomeriggio del 13 ottobre, a partire dalle 16, davanti a Montecitorio è prevista una manifestazione alla quale sarebbe opportuno che tutti noi partecipassimo, promossa dalla rete degli "Italiani senza cittadinanza".
Ti chiedo la tua adesione all’iniziativa nel più breve tempo possibile. Già una trentina di deputati si sono dichiarati disponibili a condividere con noi l’atto del digiuno. Aspettiamo la vostra adesione". Firmato: Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini.
Hanno aderito finora: Loredana De Petris, Vannino Chiti, Walter Tocci, Laura Fasiolo, Francesco Palermo, Sergio Lo Giudice, Stefano Vaccari, Claudio Micheloni, Monica Cirinnà, Daniela Valentini, Laura Puppato, Luis Alberto Orellana, Massimo Cervellini, Peppe De Cristofaro, Alessia Petraglia, Deputati Michele Piras, Sandra Zampa, Mario Marazziti, Franco Monaco, Luisa Bossa, Eleonora Cimbro, Florian Kronbichler, Paolo Fontanelli, Nello Formisano, Gianni Melilla, Lara Ricciatti, Pippo Zappulla, Marisa Nicchi, Michele Ragosta, Luigi Laquaniti, Giovanna Martelli, Donatella Duranti, Toni Matarrelli, Filiberto Zaratti, Franco Bordo, Filippo Fossati, Tea Albini, Delia Murer.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I DUE CORPI DEL RE, DEL PAPA, E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ... *
Emilio Gentile, la recita della democrazia
di Lelio Demichelis (Alfabeta2, 6 novembre 2016)
«La sovranità appartiene al popolo», recita l’articolo 1 della Costituzione più bella del mondo, quella italiana. Al popolo, cioè - in democrazia - al dèmos. Ma chi o cosa è il popolo e come esercita la sua sovranità? E, soprattutto, è davvero sovrano oppure la democrazia è solo una finzione, sia pure ben recitata? E ancora: perché spesso il dèmos sovrano rinuncia alla propria sovranità e si fa assente, indifferente o addirittura nichilista (o sadomasochista) e lascia che oligarchie, élites, supposte classi dirigenti, esperti e tecnici (tecnocrazie) di varia natura e populisti di vario colore, ma soprattutto il mercato e la tecnica, lo spoglino di potere e di sovranità? Dopo La Boétie, opportunamente, si torna a parlare di «servitù volontaria», ma perché abbiamo paura della libertà (con Kant ed Erich Fromm)? Tendenza del potere economico e tecnico a divenire autopoietico, quindi senza più bisogno di dèmos e di democrazia, l’autopoiesi essendo sovrana per autoregolazione e per autoreferenzialità? Oppure, istinto/bisogno animale di un capobranco/leader che ci liberi del peso delle scelte?
E dunque, siamo ancora in una democrazia, oggi che la democrazia sembra trionfare nel mondo e tutti invocano più democrazia? Oppure si perfezionerà ulteriormente la postdemocrazia, secondo il Colin Crouch che scriveva «anche se le elezioni continueranno a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche della persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi»; mentre «la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». Ci siamo dunque ormai adattati, come abbiamo scritto altrove, a una democrazia-non-più-democrazia (anche se 2.0), sottoposta alla sovranità del capitalismo oligopolistico e all’oligarchia degli immaginari collettivi e della fabbrica digitale globale dei signori del silicio?
Sintetizza lo storico Emilio Gentile, grande studioso del fascismo, dei rapporti tra capo e folla, di totalitarismi e di culti politici (ricordiamo alcuni dei molti eccellenti titoli al suo attivo: Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza 1993; Le origini dell’ideologia fascista, il Mulino 1996; La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci 2001; La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza 2006; Il capo e la folla, Laterza 2016): «Ora, tutte le informazioni di cui disponiamo [...] documentano una progressiva, accentuata discesa del popolo sovrano verso una condizione che lo vede sempre più lontano dalla politica, assente alle elezioni, ostile ai governanti, sprezzante o indifferente verso i partiti, deluso e sfiduciato verso le istituzioni fondamentali dello Stato democratico. In altre parole, è il popolo ad essere consapevole di non essere sovrano. E addirittura sembra che voglia rassegnarsi a non esserlo più».
Parole dure tratte dall’ultimo libro di Gentile, uscito nella collana Idòla di Laterza con un titolo provocatorio (ma nel segno della collana laterziana) e insieme riflessivo (che dovrebbe farci riflettere): In democrazia il popolo è sempre sovrano? Falso! Dove «falso» è appunto credere che in democrazia il dèmos sia sempre sovrano, quando non lo è mai veramente e non lo è stato neppure alle origini delle democrazie moderne. Perché quella di Gentile - scritta sotto forma di dialogo tra l’autore e il «Genio del libro» («stanco di essere un ricevitore passivo delle parole che l’Autore scrive sulle sue pagine») - è una riflessione densa e insieme appassionata sulla democrazia tra storia e attualità; tra democrazia dei greci e democrazia moderna, passando per Robespierre e Tocqueville, arrivando alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e poi ad Aron, a Crouch e Rosanvallon; e, ancora, tra democrazia e oligarchia («la sola forma di governo democratico», come ha incautamente scritto di recente Eugenio Scalfari).
Gentile parte definendo il concetto: «Democrazia significa potere del popolo. Se il potere appartiene al popolo, il popolo è il titolare della sovranità. Quindi, in uno Stato democratico, sovrano è il popolo e nessun governante può essere al di sopra del popolo o al di fuori del popolo. Dalla volontà dei governati deriva ogni autorità dei governanti». Ma democrazia è spesso solo una bella parola, oggi la democrazia è nuovamente in crisi (ma lo è stata altre volte nella sua breve storia), perché «per certi aspetti, vive in uno stato di crisi permanente, perché deve costantemente rinnovarsi per adeguarsi alle nuove situazioni, spesso impreviste, nelle quali il popolo sovrano si trova a vivere», e quindi anche la globalizzazione di questi ultimi trent’anni costituita dai poteri economici e finanziari, oltre che tecnologici, di ispirazione neoliberista.
Poteri senza dèmos ma che hanno deliberatamente svuotato la sovranità del dèmos e hanno altrettanto deliberatamente con-fuso mercato/rete con democrazia, facendoci credere che siano appunto il mercato e la rete le migliori formi di democrazia possibili. Portando la democrazia a un’ulteriore mutazione, il passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella che Gentile chiama democrazia recitativa, che ha «per palcoscenico lo Stato, come attore protagonista i governanti e come comparsa occasionale il popolo sovrano [...] per cui la sovranità dei popoli ha, in molti casi, la stessa consistenza delle scintillanti corone dei re nel Teatro dei Pupi». Una democrazia dove - sotto la maschera delle elezioni - si assiste al rafforzamento continuo del potere esecutivo (come avverrà, se approvata, con la riforma costituzionale su cui voteremo il 4 dicembre), secondo gli auspici e i voleri della neoliberista e oligarchica Commissione Trilaterale degli anni Settanta, preoccupata per gli eccessi di democrazia e di diritti sociali di quegli anni. Eccessi, in quanto tali, ovviamente da ridurre.
Scrive Gentile: «La mia valutazione è allora molto semplice: se la democrazia è il potere del popolo sovrano, e il popolo sovrano non ha più potere, la democrazia cessa di esistere o diventa altra cosa da quella che è stata finora. E altra cosa diventa anche il popolo sovrano». E dunque, oggi, crisi della democrazia. Di cui e paradossalmente si è ricominciato a parlare nel momento stesso in cui la storia finiva (secondo Fukuyama) con il trionfo della libertà e della democrazia, producendosi però e conseguentemente un crescente distacco del popolo sovrano dai suoi governanti. «O, per essere più precisi, un crescente distacco dei governanti dal popolo sovrano», chiosa Gentile.
I cambiamenti di questi ultimi trent’anni - quelli citati da Gentile ma soprattutto (aggiungiamo) l’individualizzazione (falsa anch’essa) prodotta dalle nuove tecnologie, il neoliberismo e l’ordoliberalismo come forme capitaliste diventate forme sociali, la scomposizione e l’individualizzazione del lavoro, il tempo reale e la morte del futuro e quindi l’incapacità o l’impossibilità collettiva (del demos) di fare discorsi sui fini - hanno accelerato, come scrive Gentile, «la trasformazione della democrazia [...], dove il popolo rimane sovrano nella retorica costituzionale ma nella realtà è desovranizzato». Cioè il potere non gli appartiene più anche perché (aggiungiamo ancora) e diversamente dal passato - quando la sovranità veniva personalizzata in un soggetto riconoscibile anche se astratto - la sovranità oggi appartiene a tecnica e mercato, cioè ad apparati impersonali, apparentemente ancora più astratti ma molto più concreti nei loro effetti sociali e politici. Che impongono al dèmos - come massima razionalità e come massima libertà che l’apparato gli concede - quella di adattarsi al cambiamento che l’apparato produce (e di farlo velocemente), rinunciando alla possibilità e alla capacità di governare l’apparato. Dunque, con Gentile, dire popolo sovrano è richiamare un «idolo», o un mito. Ieri, ma soprattutto oggi.
E allora inevitabili arrivano le domande: come contrastare la deriva antidemocratica (più che postdemocratica) di questi anni? Come dare sovranità vera al dèmos? - quel dèmos che è da sempre il nemico che ogni potere, ogni oligarchia e oggi ogni apparato vuole desovranizzare pur continuamente invocandolo, come oggi il popolo della rete: che non è popolo e non è sovrano della rete (per cui la rete è tutt’altro che democratica).
Gentile si definisce «un amico e non un amante della democrazia», perché gli amanti non vedono i difetti dell’amato/a mentre gli amici sanno essere sinceri, come lo è appunto l’autore con la democrazia. E però, e diversamente da Gentile - ma poco poco - a noi piacerebbe essere amici della democrazia perché ne vorremmo essere anche amanti. Perché la democrazia possa essere davvero (o almeno sempre più, invece che sempre meno) democrazia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
CITTADINANZA E "IUS SOLIS" (DIRITTO DEL SOLE). USCIRE DALLA CAVERNA, NON RINCHIUDERSI DENTRO .... *
Ius Soli
Figli nostri e figli dello Stato
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 28.09.2017)
LA RESISTENZA antropologica e psicologica, oltre che politica ed elettoralistica, allo Ius soli rende manifesta una tendenza sempre presente nella realtà umana: difendere il proprio status narcisistico, sociale e identitario dal rischio perturbante della contaminazione. È quella inclinazione autistica della vita umana che aveva condotto Freud a paragonare la sua condizione primordiale di esistenza a un guscio chiuso su se stesso e ostile per principio al mondo esterno, colpevole di essere “straniero e apportatore di stimoli”.
Questa concezione corazzata dell’identità nei tempi di crisi tende inevitabilmente a rafforzarsi e a sclerotizzarsi. La paura dello straniero incentiva l’edificazione di una versione dell’identità fobica, refrattaria allo scambio, iper-difensiva. I confini diventano muraglie, cessano di essere porosi, acquistano la consistenza del cemento armato. In un tempo dominato dal panico sociale generato dalla durezza della crisi economica, dal carattere anarchico e inarrestabile dei flussi migratori e dalla follia terrorista, la solidificazione dell’identità tende a configurarsi come una reazione giustificata alla minaccia incombente. I rigurgiti nazionalisti, etnici, populisti, sovranisti che caratterizzano la scena politica non solo nazionale ma internazionale cavalcano irresistibilmente questa onda. Ma la vita della città senza contaminazione è destinata all’imbarbarimento esaltato della setta, alla psicologia totalitaria delle masse. In questo senso dovrebbe essere chiaro a tutti che la partita dell’integrazione è il più grande antidoto ad ogni forma di violenza compresa quella del terrorismo.
Come non considerare che in questo mondo nuovo attraversato dall’esperienza inevitabile della contaminazione, del cosmopolitismo, dello scambio, della flessibilità dei confini, la nozione di cittadinanza deve essere radicalmente riformulata? Le situazioni di crisi non necessariamente sono destinate ad accentuare una difesa strenua contro quello che pare ingovernabile. È un insegnamento che proviene dalla vita psichica: il tempo di maggiore crisi - se elaborato nella direzione giusta - spesso coincide con il tempo delle trasformazioni più generative. L’attraversamento di una malattia non riporta mai la vita a com’era prima, ma la può rendere più ricca, più sensibile alla vita, più capace di vita. In questo senso la crisi può essere sempre un’occasione di apertura più che di chiusura.
La battaglia politica e culturale dello Ius soli potrebbe diventare un esempio luminoso. Alla tentazione della chiusura e del barricamento identitario vincolato al sangue e al particolarismo dell’etnia - che sono, in realtà, la faccia speculare della globalizzazione universalistica - si può rispondere ponendo con forza il tema della rifondazione positiva del senso di appartenenza alla vita della città. La psicoanalisi lo verifica quotidianamente nella sua pratica clinica: l’integrazione cura la dissociazione; l’esperienza del riconoscimento cura l’odio; la condivisione cura il senso di segregazione.
Il legame familiare, forse più di ogni altro, ci offre un esempio significativo di giusta cittadinanza. Non si diventa padri o madri perché si genera biologicamente una vita. La vita del figlio è tale solo se viene simbolicamente adottata al di là del sangue e della stirpe. C’è genitorialità solo se ci assumiamo la responsabilità illimitata che il prendersi cura della vita di un figlio comporta.
Questa nozione di responsabilità non è mai un fatto di sangue, ma implica un consenso, un atto, una decisione simbolica. Allo stesso modo lo Stato ha il dovere etico di adottare - di riconoscere come suoi figli - coloro che non solo e non tanto nascono nel suo territorio, ma si riconoscono come parte integrante di quello Stato contribuendo alla sua vita. Diversamente l’idea che la cittadinanza sia un diritto vincolato al sangue è un’idea fondamentale del Mein Kampf di Hitler. L’origine del razzismo e di ogni genere di fanatismo hanno sempre come loro fondamento l’ideale della purezza etnica che esclude il pluralismo.
La battaglia per lo Ius soli è una battaglia di Civiltà dal respiro ampio. Non riflette un colore politico. Per questa ragione i numeri non dovrebbero essere tutto. I partiti che la ritengono giusta dovrebbero mantenere il loro sguardo alto. In gioco non è un semplice guadagno elettorale ma il senso stesso del mondo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ... GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Inedito.
Giovanni Bianchi: «La resistenza sia senza odio»
A un mese dalla scomparsa del politico cattolico una riflessione dove descrive l’impegno partigiano, sull’esempio di Dossetti e Gorrieri, con lo spirito di chi al fucile antepone la risposta etica
di Giovanni Bianchi (Avvenire, 24 agosto 2017)
Aveva ragione Norberto Bobbio quando affermava che il nostro Paese era fatto di «diversamente credenti» dove i cattolici semmai hanno una caratteristica. Ho titolato il mio libro Resistenza senza fucile. I cattolici non è che fossero pacifisti, magari qualcuno sì. L’unico che ha partecipato a tutte le azioni disarmato è stato Giuseppe Dossetti sull’Appennino reggiano. Su quello modenese c’era Ermanno Gorrieri, sarà ministro del lavoro, che sparava cercando di mirare giusto. La differenza è in un’altra modalità di condurre la guerra, lo dice Gorrieri «Noi cercavamo di non fare stragi inutili e fare morti inutili».
Chi definisce meglio questa modalità dei cattolici, ma lo ripeto non è pacifismo, combattendo senza armi, a mani nude, è Ezio Franceschini (sarà rettore dell’Università Cattolica di Milano): «Noi cattolici abbiamo imparato a combattere senza odiare ». Non è che se prendi una pallottola da uno che non ti odia non ti fa secco, però è diversa la modalità, il modo di affrontare il nemico. Io avevo una grande amicizia con Sergio Zigliotti, uno dei capi sull’Appennino parmense, scomparso un anno fa e vice presidente dei partigiani cristiani. Faceva il liceo a Genova e trovandosi sull’Appennino parmense si è aggregato ai partigiani. Farà la maturità classica alla fine della lotta di Liberazione con un tema, che avrei voluto leggere, intitolato Dante partigiano cristiano. Questo per dire qual era l’animo.
Vado alla conclusione con un altro episodio raccontato dall’amico ebreo Stefano Levi Della Torre, grande architetto, uno dei rappresentanti della comunità ebraica milanese. Una volta mi spiegò, cosa che mi ha lasciato impressionato, che suo padre, partigiano in ’Giustizia e Libertà’, dopo la Liberazione si trovava con un amico delle brigate Garibaldi una volta al mese. Sapete cosa facevano? Una volta al mese uno sosteneva le ragioni dell’altro! Un esempio stupendo di che cosa può essere la democrazia, l’ascolto, la comprensione. Una di quelle modalità che, comunque collocate nella Resistenza, ci spiegano come quelle persone abbiano provato a combattere senza odio. Mi sembra davvero una cosa attorno alla quale riflettere.
Se poi si viene all’oggi in un periodo nel quale si vendono armi a gogò. Pensate al viaggio di Trump in Arabia Saudita, contratti iper miliardari e con una scelta molto precisa dei Sunniti wahabiti, ossia quelli che stanno con l’Isis. Per carità non è che gli Sciiti siano tutte brave persone. In una fase nella quale papa Francesco ci dice che è incominciata la terza guerra mondiale a pezzetti e capitoli. O questo papa dice barzellette ai funerali, o bisognerà prenderlo sul serio. Cos’è questa terza guerra mondiale? Mi viene in mente Carl Schmitt, grande giurista, perfino filo nazista, ma un’intelligenza acutissima, che negli anni ’60 disse «è incominciata la terza guerra mondiale ». Ed è una guerra civile combattuta da terroristi: è la radiografia.
Non voglio rovinare le notti a nessuno, ma quando uno va a scavare nella storia non è che si ferma a mettere un’altra lapide. Si chiede cosa stiamo costruendo, come è possibile. Chiudo con una bella immagine della piccola, ma importante, resistenza tedesca: ’La Rosa Bianca’. Questi ragazzi di Monaco di Baviera, studenti, che si ritrovano alla sera per leggere i classici tedeschi, hanno fatto sei volantini in tutto che mettevano in giro, all’Università, nelle guide delle cabine telefoniche. La cosa incredibile è questa: li prendono e il tribunale del popolo nazista di Monaco di Baviera li giudica alla mattina e li ghigliottinano nel pomeriggio, tale il timore che potesse il contagio attecchire.
Ma la cosa stupenda è che uno dei ragazzi che vanno alla ghigliottina si rivolge all’altro e dice «comunque ci rivediamo fra dieci minuti». Uno che ha il fegato di dire una cosa così testimonia una speranza, che non è l’ottimismo, ma un’altra cosa di estremamente positivo e motivante anche per l’oggi e per il futuro. Credo che riandare a vedere i fatti della Resistenza in questo modo ti arricchisce, non è soltanto fare memoria. La memoria è essenziale, ma è un modo per creare un punto di vista, per guardare la vicenda nella quale, a qualche titolo, siamo dentro, ma per andare avanti.
Il tempo presente del fascismo
di Claudio Vercelli (Patria Indipendente, 20 luglio 2017)
Le ragioni del fuoco di sbarramento al ddl Fiano. Lo «sdoganamento» del fascismo iniziato più di trent’anni fa, e il tentativo di affossamento dell’antifascismo. Non oscene nostalgie, ma la volontà di una dittatura presentata come visione alternativa della società. L’urgenza di ricostituire una linea di separazione tra lecito e illegittimo
Non può sorprendere il fuoco di sbarramento che si sta opponendo all’introduzione, nel nostro ordinamento penale, dell’articolo 239-bis, concernente il reato di propaganda «attiva» (attraverso il ricorso a gesti palesi, come il saluto romano; la distribuzione di oggettistica e la diffusione di immagini; il ricorso a strumenti informatici e di comunicazione di massa) «del regime fascista e nazifascista». Il primo firmatario della proposta di legge, che nella sua originaria stesura risale già a due anni fa, è Emanuele Fiano.
La discussione in Commissione Giustizia e gli echi nelle aule parlamentari hanno scatenato la furia di quanti si sono appellati a un’improbabile «libertà di pensiero», rimandando, in maniera volutamente distorta, alla lettera dello stesso articolo 21 della nostra Costituzione. Tra di essi, spiccano coloro che si sono espressi contro una norma che hanno bollato da subito come «liberticida». Immediatamente dietro costoro, si articola il vasto coro di quei pallidi liberali variamente assortiti e motivati nel loro comune rifiuto: da quanti hanno invocato la necessità di imporre una pari condanna contro il «comunismo», poiché anch’esso manifestazione di «totalitarismo», a coloro che nel tentativo di dimostrare quanto il rimando ai simboli del fascismo sia solo una sorta di ragazzata, hanno quindi colto l’occasione per ridimensionare ancora una volta il tragico lascito di quell’esperienza storica. Anche nel suo riproporsi nel corso del tempo, fino ai rigurgiti dei diversi gruppi che esplicitamente, e con raccapricciante orgoglio, ad oggi rivendicano apertamente la loro identità fascista. Ciliegina sulla torta rancida delle polemiche è il ripetere, da parte di polemisti perlopiù dello stesso colore politico, ossia tra un grigio e un nero sbianchettato all’occorrenza, di quello che si sta cercando di affermare come luogo comune, ovvero che l’antifascismo sarebbe un falso valore. Anzi, semmai un ostacolo alla «libertà» dei moderni, che dovrebbe quindi prescindere da «anacronistici divieti», nel nome di un’inverosimile parificazione e un’inaccettabile «pacificazione» tra le parti contrapposte. In quanto - sentenziano costoro - il fascismo non fece troppo male; semmai, esagerò un po’, ma non molto di più.
Detto questo, poiché ciò che è in corso è una battaglia politica, l’ennesima di una storia lunga quanto quella della nostra Repubblica, alcune considerazioni vanno richiamate. Occorre quindi fissare pochi ma netti punti nella discussione.
Il primo rimanda al fatto che la sostanza del rifiuto della norma che Fiano e altri parlamentari vorrebbero invece introdurre nella nostra giurisprudenza non ha a oggetto la tutela della libertà di giudizio, come della sua manifestazione in pubblico. Il vero obiettivo è semmai l’antifascismo organizzato, nel suo costituire ancora una delle ossature della democrazia. Le polemiche astiose e le invettive contro la proposta di legge, infatti, irridono in coro a esso, indicandolo come un ingombro da sotterrare una volta per sempre. Su questo passaggio è bene avere le idee molto chiare.
Lo «sdoganamento» del fascismo, che non data a questi ultimi tempi ma, di fatto, è iniziato più di trent’anni fa, corre su un binario parallelo all’affossamento dell’antifascismo, in tutte le sue manifestazioni. Si sia consapevoli di ciò: i neofascisti, e i loro amici, parlano di pacificazione per poi procedere all’azzeramento dei fondamenti antifascisti della nostra Costituzione.
Se si cede su un punto (legittimando il lascito storico del fascismo attraverso la sua relativizzazione morale, qualcosa del tipo “non era così male come invece lo si è dipinto”) ci si dovrà ben presto confrontare con l’inutilità dell’antifascismo.
Dopo di che, e si tratta del secondo passaggio, non è lo spettro del fascismo a dare corpo alle angosce del presente, ma sono le incongruenze del tempo corrente a dare nuovo fiato a un fascismo mai venuto meno in settant’anni e più di storia repubblicana, democratica e costituzionale. Nel corpo del nostro Paese così come anche in Europa. Poiché il problema è continentale e come tale va ragionato e affrontato. Partendo quindi dalla propria realtà nazionale, per poi estendere lo sguardo oltre se stessi. Se il regime mussoliniano è stato cancellato dalla storia, ovvero da coloro che vi si sono opposti a rischio della propria vita, non senza che una lunga e tragica guerra dilacerasse le nazioni, il fascismo come ideologia della sopraffazione, del primato razzista di Stato, della società di caste, dell’aristocraticismo dei potenti e della inibizione dei subalterni, del rifiuto della diversità e della varietà umana, dell’uso politico della paura per tacitare qualsiasi dissenso (insieme a molto altro) è invece più che mai presente. Non costituisce una ideologia politica tra le tante, anestetizzata e tacitata una volta per sempre dalla clamorosa sconfitta del 1945, bensì il concentrato del rifiuto della democrazia sociale. Una questione di nuovo urgente, dal momento in cui quest’ultima sta vivendo una crisi pericolosissima, dovuta soprattutto ai mutamenti che la globalizzazione ha introdotto nelle nostre società. Gli individui, all’atto in cui smarriscono l’orizzonte del futuro e la fiducia nel tempo che stanno vivendo, rischiano di cadere nelle trappole delle peggiori illusioni. Non per caso, quindi, il neofascismo si ripresenta con i falsi tratti, in sé purtroppo seducenti, di una visione alternativa della società. Dinanzi alla crisi degli ordinamenti liberali, dettata soprattutto dal dirompente ritorno delle diseguaglianze economiche - enfatizzate come un fatto tanto ovvio quanto naturale, quindi in sé “legittimo” perché immodificabile - il neofascismo afferma che la risposta ai problemi sta in un ordinamento non solo autoritario, ma basato sulla cancellazione della cittadinanza democratica.
A dovere impensierire - ed è il terzo punto - non sono quindi solo le oscene “nostalgie” di un qualche vecchio apologeta o le adunate degli irriducibili che non si sono convertiti alla democrazia, né tanto meno lo sgradevole “folclore” di certi personaggi, bensì il fatto che la galassia neofascista sia la punta di un iceberg dove, alla paccottiglia del Ventennio si accompagnano, si legano e si riordinano i miasmi antidemocratici che attraversano la nostra società. Il passato fascista, da questo punto di vista serve al presente delle cosiddette «post-democrazie»: sancisce che la partecipazione consapevole non serve più; dichiara che si deve dare a una ristretta élite la delega totale rispetto alle decisioni; stabilisce un nesso di dipendenza tra la vita dei più e il volere insindacabile di pochi, a partire da un capo carismatico; enfatizza l’imposizione come strumento di indirizzo nell’esistenza delle nostre società; semplifica e banalizza problemi complessi per poi offrire soluzioni di forza. L’elenco sarebbe molto lungo. Non abbiamo quindi a che fare con un’assenza di memoria e, men che meno, con l’eventuale “non conoscenza” della storia. Risparmiamoci le retoriche di circostanza.
Chi si rifà al fascismo in quanto modello non solo politico ma anche sociale e culturale, intendendolo come attuale e quindi riproponibile, ha una precisa idea del passato ma anche e soprattutto chiare intenzioni verso il futuro. Vuole una dittatura. Un tempo ciò sarebbe stato denunciato come inaccettabile mentre oggi rischia di entrare nel circuito dei giudizi di senso comune. Anzi, sarebbe il caso di dire, “nei pregiudizi” diffusi: la democrazia è un orpello, una zavorra di cui liberarsi.
Non è un caso, al riguardo, se esiste un doppio livello. Da una parte lo zoccolo duro delle organizzazioni neofasciste, che rivendicano per sé, apertamente, una tale identità. Non sono mai venute meno, dal 1945 in poi, adattandosi, di volta in volta, alle situazioni date. Sembrano periferiche, quasi marginali, consegnate al loro squallido radicalismo. Ma sono soprattutto un bacino di idee, di volti e anche di voti attraverso il quale introdurre nella discussione politica ciò che fino a non molto tempo fa sarebbe invece risultato impensabile poiché inaccettabile. Dall’altra parte, infatti, si collocano quei movimenti e partiti politici che, pur nella loro legittimità costituzionale, tuttavia ammiccano ai temi che il neofascismo rivendica esplicitamente per sé: a partire dallo svuotamento della rappresentanza democratica, passando attraverso il leaderismo esasperato per poi giungere al razzismo.
Punire il saluto romano non implica il solo osteggiare quei tragici pagliacci che lo ostentano provocatoriamente. Implica semmai il ricostituire una linea di separazione tra lecito e illegittimo, tra accettabile e inaccettabile. I simbolismi non sono mai delle ritualità fini a se stesse. Piuttosto sono dei precisi segnali attraverso i quali si comunicano volontà più ampie, poiché rivolte alla collettività. L’antifascismo, da questo punto di vista, è a un bivio. Dopo anni e anni di erosioni del suo patrimonio condiviso, deve riprendere l’iniziativa politica. Ne va non solo del suo destino ma di quello della democrazia. Laddove le due cose sono facce della medesima medaglia.
Claudio Vercelli, storico - Università cattolica del Sacro Cuore
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
Gianni Ferrara
Dov’è la dottrina comunista dello Stato
di Tommaso Edoardo Frosini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 16.07.2017)
A metà degli anni Settanta, Norberto Bobbio pubblicò un articolo nel quale poneva la domanda: esiste una dottrina marxista dello Stato? Per poi argomentare una risposta sostanzialmente negativa. Adesso, Gianni Ferrara, insigne costituzionalista e già deputato indipendente del Pci, pubblica un libretto che si fonda sulla seguente affermazione: è esistita una dottrina marxista della costituzione e della democrazia. Con specifico riferimento al caso italiano, e grazie al contributo di tre leader comunisti: Gramsci, Togliatti e Berlinguer.
Certo, non è una tardiva risposta alla domanda di Bobbio; ma non è nemmeno, come si sarebbe indotti a pensare, un déjà-vu: un libretto che rispolvera un passato nel tentativo di declinarlo al presente. Certo, c’è molta nostalgia nelle pagine di Ferrara e c’è anche l’orgoglio di sentirsi ancora parte di un mondo ideologico da tempo tramontato. Nella convinzione, giusta o sbagliata, che la lotta per la democrazia in Italia è stata, e tutta intera, la storia del Partito comunista italiano. Rivendicazione coraggiosa ma debole, che valorizza oltremodo una teoria politica ponendola in maniera egemone rispetto alle altre. Sebbene la storia abbia dato chiaramente indicazioni diverse. Sebbene le società siano cresciute e si siano sviluppate nel solco del liberalismo, quale teoria politica della società aperta.
La dottrina politica di Gramsci ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Direi proprio di no. L’idea dell’egemonia gramsciana, quale combinazione di forza e consenso e di direzione intellettuale e morale, si mostra come contrapposta al concetto di pluralismo e libertà, perché comprime lo sviluppo dell’individuo costringendolo in un perimetro ideologicamente chiuso, da rappresentarsi in forma diretta e solo per il tramite del partito politico, quale moderno principe. Vale la pena quantomeno di ricordare come, qualche anno prima, Tocqueville avesse chiaramente raccontato la democrazia come libero associazionismo.
La dottrina politica di Togliatti ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Pur senza negare il contributo fattivo del leader comunista ai lavori della Costituente e quindi al formarsi della Costituzione in Italia, anche qui esprimerei un giudizio di riserva. Ferrara afferma che Togliatti era un fine giurista, come Marx e come Lenin.
Dichiarazione tutta da dimostrare, se è vero come è vero, per dirla con le parole di Calamandrei, Togliatti avrebbe voluto una Costituzione come «un manifesto di propaganda ed anche un po’ predica». Innegabile il suo impegno per la ricerca del compromesso fra culture politiche, la sua ambizione a essere un “rivoluzionario costituente”, ma soprattutto la sua battaglia nel voler fare della democrazia italiana la via al socialismo, e quindi nella direzione generale di una trasformazione economica socialista. Il “fine” giurista, però, non seppe cogliere l’importanza della Corte costituzionale, che definì una “bizzarria”, e i suoi compagni di partito addirittura “un grave atto di lesa democrazia”, quale invece fondamentale baluardo contro la tirannia della maggioranza e per l’affermazione e tutela dei diritti di libertà. Sul punto, mi sembra che Ferrara sia un po’ sbrigativo.
La dottrina politica di Berlinguer ha davvero influenzato la nascita e lo sviluppo della democrazia in Italia? Qui la valutazione deve essere più ponderata. Per il suo apprezzabile impegno ad affermare il principio dell’assoluta indipendenza e sovranità di ogni Stato socialista e di ogni partito comunista. Che si risolse con un progressivo distacco del partito comunista italiano da quello sovietico. E nella costruzione di una democrazia italiana sempre più dinamica per favorire le condizioni per un graduale passaggio al socialismo, sebbene attraverso un “blocco storico”, ovvero la conquista del potere da parte di un blocco di forze politiche e sociali, di cui il partito è parte. Torna, qui, l’idea di egemonia oppositiva al pluralismo e alla libertà.
Ferrara la chiama, sulla scia di Togliatti, «democrazia progressiva»: concetto un po’ vago, a ben vedere, che si identifica con quello di forma di Stato, cioè l’insieme di apparato gius-politico e di comunità umana, come insieme di due entità collegate. Uniti nella lotta per la via italiana al socialismo, per una teoria politica del marxismo. Una lotta, come esplicitato nelle ultime pagine del libro, da muoversi contro la «cappa composta dai Trattati europei», contro un’Europa che si assume essere fonte di diseguaglianze e compressioni sociali. Senza tenere conto, però, che questa Europa, piaccia oppure no, ci ha finora dato la cosa più importante: la pace fra i popoli. E ci ha garantito la libertà: certo, anche economica. Alla domanda di Bobbio, esiste una dottrina marxista dello Stato?, si può oggi agevolmente rispondere che esiste solo una dottrina liberale dello Stato, che si chiama costituzionalismo.
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Il presente che nutre il fascismo
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 12.07.2017)
IL FASCISMO non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria. Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti).
Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico - le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario.
La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio.
Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata.
I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono. Un diritto è un abito di solitudine - definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate - senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale - essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali.
Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere.
Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica - la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato.
Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta.
Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria.
In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individualistica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie. Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato.
Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici.
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RIPENSARE L’UNO E I MOLTI ("UNO"), L’IDENTITA’ E LA DIFFERENZA!!! CONTIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ....
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ.
L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO FASCISMO...
La voglia di fascismo crescente e le nostre debolezze
di Piero Ignazi (la Repubblica, 10.07.2017)
NOSTALGIA del fascismo? Gli episodi degli ultimi tempi, dal raduno con braccia tese nel saluto romano al cimitero monumentale di Milano alla lista ispirata palesemente al fascismo nel comune mantovano di Sermide fanno pensare ad un ritorno di fiamma del passato.
LA realtà è più sfumata. Per prima cosa non si può dimenticare che, fino a vent’anni fa, c’era un partito al governo - Alleanza Nazionale - che affondava le proprie radici, non del tutto recise, nel (neo)fascismo. Infatti, quando Gianni Alemanno diventò sindaco di Roma nel 2008 fu salutato al Campidoglio da un manipolo di camerati con il saluto romano. E un beniamino dei tifosi della Lazio andò alla curva dello stadio per festeggiare il goal con la stessa modalità nostalgica (ovviamente senza nessuna sanzione).
C’è quindi un retroterra assai solido rispetto a questi ultimi episodi; e girando l’Italia si incontrano osti con il vino Benito, locali con scritte del ventennio, bancarelle con cimeli del Duce, fino al caso dello stabilimento balneare di Chioggia di cui dava conto Repubblica ieri. Il fascismo è stato un fenomeno di tale importanza, penetrato “totalitariamente” in ogni ganglio della società per due decenni, che non è bastato l’eroismo dei pochi che hanno combattuto per la libertà per estirparlo dalla cultura politica profonda del nostro paese.
Ancora una volta, “non è stata una parentesi”. Anzi, come diceva Piero Gobetti, narrava la nazione come ne fosse l ‘autobiografia. Con un lascito così ingombrante e senza aver fatto alcun esame di coscienza lasciando, o forse sperando,che si stendesse una coltre di oblio sul passato senza doverlo rinvangare, non sorprende che di tanto in tanto riemergano fenomeni di nostalgia. Ma questi sono solo la punta di un iceberg: ma non di un fascismo risorgente, quanto della debolezza della cultura liberale e democratica.
Gli ostacoli che ancora oggi vengono continuamente frapposti alla espansione dei diritti civili, un tempo non a caso sostenuti solo da sparute minoranze attive come quella dei radicali di Marco Pannella, sono un segno della difficoltà a far diventare moneta corrente i cardini dello stato di diritto. Separazione dei poteri, rispetto per le minoranze, accettazione (in ogni ambito) del dissenso, faticano ad infrangere il profondo desiderio per una figura di autorità che metta tutti a tacere. Sia la società civile, ripiegata a fare i propri interessi senza nessun senso dello Stato, che la politica, scissa tra incapacità a rispondere alle domande dei cittadini e pulsioni plebiscitarie stimolate da capi e capetti, favoriscono un allontanamento dai principi e dalle istituzioni democratiche.
È in questo contesto che matura l’insoddisfazione radicale verso “il sistema” e fanno breccia coloro che propongono visioni alternative e modalità diverse di agire politico. Il fenomeno Casa Pound, pur nella sua dimensione ancora limitata, è emblematico della capacità di attrazione che hanno riferimenti nostalgici mixati con quella domanda di identità e appartenenza che circola nella società italiana. Ancora più del pastiche ideologico di Casa Pound, attrae l’offerta di una militanza che si trasforma in comunità politica. Se movimenti come questo, e altri che ruotano nella galassia nera dell’estrema destra, si radicano in fasce giovanili è perché tutti i partiti hanno abbandonato il rapporto con la società civile, o lo attivano solo in maniera strumentale, senza quel coinvolgimento ideale e progettuale che rilancerebbe la loro immagine.
La democrazia necessita di continua manutenzione per non farla scadere a ritualità. Questi segnali di una ricerca di alternative radicali incrinano la certezza che le istituzioni e i principi che le governano siano al riparo da crisi più profonde.
Tra Croce e Marx. Quale terza via?
di Michele Martelli *
Molti gli articoli su giornali e settimanali in occasione dell’anniversario dell’assassinio per mano fascista di Carlo Rosselli e suo fratello Nello a Parigi nel 1937. E in tanti (Eugenio Scalfari in primis) hanno (ri)scoperto l’imperituro valore del liberalsocialismo, o liberalismo sociale, o sinistra liberale che dir si voglia, e, si può aggiungere, destra socialista, o socialdemocrazia, o liberaldemocrazia.
Che proprio la stessa cosa non sono, mi pare, dato che il significato è diverso, a seconda che si metta l’accento sul sostantivo (liberalismo, socialismo e democrazia, mi pare, non sono sinonimi) o sull’aggettivo (liberale non è uguale a sociale o a democratico). O che se ne ricostruisca le specifiche origini storiche, l’evoluzione e il valore ideologico.
«Un pasticcio», sentenziava Benedetto Croce, da respingere, perché sintomo di confusione di idee e di intellettualismo astratto. Giudizio che, sicuramente troppo severo e ingeneroso, si riferiva in particolare al liberalsocialismo italiano, una variegata corrente di pensiero filosofico-politico antifascista nata negli anni Trenta, e confluita poi nel Partito d’Azione (1942-1947). Gli esponenti di tale corrente furono infatti tra gli attori principali della lotta partigiana e della costruzione dell’Italia repubblicana: la loro teoria, quindi, non era slegata dalla prassi. Da una prassi coerentemente antifascista.
D’altronde, mentre Croce godeva, certo meritatamente, dell’aureola di «guida morale dell’antifascismo», Carlo Rosselli, autore del famoso opuscolo Socialismo liberale (1929), era però tra gli organizzatori della resistenza antifranchista in Spagna e da Radio Barcellona diffondeva la parola d’ordine: «Oggi in Spagna, domani in Italia!». Anche per questo fu barbaramente trucidato dai sicari fascisti.
All’antifascismo partigiano apparterranno poi, come si sa, i più noti intellettuali e filosofi liberalsocialisti italiani, tra cui Piero Calamandrei, Guido Calogero, Norberto Bobbio, Guido de Ruggero, Aldo Capitini, a cui diversi altri se ne potrebbero aggiungere. Né va dimenticato che Ferruccio Parri, membro azionista del CLN, sarà il primo Presidente del Consiglio (21 giugno-10 dicembre 1945) dell’Italia liberata. E che la Costituzione italiana del 1948 non sarebbe stata quella che è, una delle migliori al mondo, senza l’apporto decisivo degli esponenti del liberalsocialismo e dell’azionismo.
Questa temperie culturale, politica e filosofica viene scandagliata a fondo dal recente libro di Francesco Postorino, Croce e l’ansia di un’altra città, Milano, Mimesis, 2017. Il titolo può servire da bussola al lettore nella complessa problematica del volume, in cui il giovane e valente autore, dopo aver esposto, nella Prima parte, la sintesi del pensiero filosofico-politico di Croce, delle sue aporie e contraddizioni interne, ricostruisce con passione e intelligenza critica, nella Seconda e Terza parte, la fitta trama di relazioni di incontro-scontro tra Croce e gli intellettuali di cui sopra.
Comune era il riferimento ideale al valore insopprimibile del liberalismo. Ma notevoli le differenze. Per Croce il liberalismo era un concetto metapolitico, che, pur incarnandosi nella storia, era, in un certo senso, sovrastorico, e nulla aveva a che fare con la prassi partitica e la contingenza degli eventi: in fondo, un altro nome della sua «religione della libertà», della libertà assoluta dello Spirito e delle sue forme (arte, filosofia, economica e morale). Ipostatizzando una presunta «storia ideale eterna dello Spirito», Croce tuttavia finiva di fatto, senza volerlo, col rovesciare contraddittoriamente la Libertà in Necessità.
Due le conseguenze logiche. O tutto ciò che è accaduto e accade è opera dello Spirito, e allora nulla poteva e può accadere di diverso da ciò che è accaduto e accade; in tal caso il determinismo, seppur spirituale, regnerebbe sovrano, non la «Dea-Libertà». Oppure non tutto è opera dello Spirito, ma solo l’eterno e l’ideale, da distinguere dal contingente e dal particolare. Ma poiché il contingente e il particolare esistono, seppur in forma debole, resta da sapere: 1) da dove essi derivano, se non derivano dallo Spirito?; 2) poiché lo Spirito, fino a prova contraria, non parla né opera in prima persona, chi è il suo portavoce o sacerdote, a chi umanamente è da attribuire quel sacro potere di distinzione tra eterno e contingente? Non resterebbe che la strana ipotesi che quel sacerdote, dio sa con quale diritto, sia Croce medesimo: non a caso Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere lo chiama «una specie di papa laico» della cultura italiana e mondiale. E la parola del papa, come ogni credente sa, è infallibile.
Si spiegherebbe così perché, per esempio, il conservatore Croce abbia prima appoggiato l’ascesa del fascismo in chiave filoliberale e anticomunista, votando da senatore la fiducia al governo Mussolini anche dopo il delitto Matteotti, e poi l’abbia definito banalmente una «parentesi» nella storia d’Italia. E il nazismo? Un’altra parentesi? Di questo passo, la storia reale non sarebbe, in gran parte, che un succedersi ininterrotto di parentesi. Una storia parentetica.
Una sorta, diciamo così, di vacanza permanente dello Spirito. Con quali orribili conseguenze per milioni di poveri mortali, forse poco importa. Del resto, non sarà un risibile ducetto col moschetto e un anonimo imbianchino con la svastica ad arrestare l’inarrestabile marcia dello Spirito. E l’Urss? Il regno satanico dell’Orrore. Ma la fede nello Spirito non vacilla: cristianamente, portae inferi non praevalebunt! Il fatto è che, nonostante i continui e sofferti ripensamenti, Croce non mise mai in discussione i presupposti speculativi del suo pensiero.
All’assolutismo e al conservatorismo del «papa laico» gli intellettuali liberalsocialisti italiani, crociani o non crociani, eretici e dissidenti, si opporranno, in modi diversi, con idee filosofiche, giuridiche e politiche diverse, in un dibattito ricco e sfaccettato, come Postorino documenta nei vari capitoli dedicati al confronto tra la filosofia di Croce e le teorie di Calamandrei (umanesimo giuridico e principio di equità), Calogero (dialogica dell’«io», del «tu», e del «lui» che è un «tu»), de Ruggero (dialettica neoilluministica di ragione e storia), Bobbio (teoria procedurale della liberaldemocrazia) e Capitini (nonviolenza e omnicrazia).
Tutti accomunati dalla ricerca di una «terza via», caratterizzata, come Postorino a più riprese ribadisce, dalla tensione tra fatti e valori, essere (Sein) e dover essere (Sollen). Per sfuggire alle dure critiche mosse dal realismo conservatore crociano agli ideali liberalsocialisti (sulla scia delle critiche, ben più efficaci, di Hegel a Kant), occorrerebbe però una filosofia universalistica dei valori e del Sollen. Ma il problema è: «Si può fare?», per usare una frase oggi consueta. Ossia, come evitare di cadere in un nuovo assolutismo e dogmatismo? Oppure, per dirlo in positivo, come costruire, se «Dio è morto», un relativismo critico e al tempo stesso non nichilistico, ma propositivo e progettuale?
Un’ultima annotazione. Oggi ancor più di ieri, dato il trionfo globale del neoliberismo, il vertiginoso aumento delle disuguaglianze sociali e il fallimento delle «terze vie» più o meno clintoniane e blairiane (da noi tradotto, o non è molto, nel «terzismo» dalemian-bersaniano, rovesciatosi poi, per eterogenesi dei fini, nei disastrosi programmi neoliberisti e anticostituzionali del renzismo), a me sembra che «l’ansia di un’altra città» non possa prescindere dal misurarsi con Marx, con la sua teoria del Capitale e della lotta di classe (da assumere non come dogma, ma come strumento di ricerca, fallibile e rivedibile).
Croce l’aveva fatto nel lontano 1900, ma per sancire illusoriamente «la morte» definitiva «del marxismo teorico» (oggi, dopo più di un secolo, più vivo che mai nelle analisi di sociologi politici ed economisti di fama mondiale»). «Né con Marx né contro Marx», aveva dichiarato Bobbio: ma basta essere neutrali? Tutti gli altri liberali di cui sopra avevano sposato il socialismo senza Marx.
Probabilmente non sapevano dell’inaudita «svolta» filomarxista del loro capostipite, Carlo Rosselli, resosi conto, a quanto pare, nell’ultimo periodo della sua vita, che un «socialismo liberale» senza o contro Marx, a fronte della brutalità del capitalismo reale (rappresentato attualmente dal neoliberismo selvaggio di matrice angloamericana e dall’Ordoliberalismus austeritario di matrice germanica), rischia purtroppo di essere inane, monco o utopico.
MESSAGGIO EVANGELICO E COSTITUZIONE. L’ Amore (Charitas) non è lo zimbello del tempo e di Mammona (Caritas)!!!:
Papa Francesco: «Pregate perché io prenda esempio da don Milani»
Nelle parole del Papa l’abbraccio della Chiesa che don Lorenzo Milani ha desiderato fino alla morte, il riconoscimento del suo essere sacerdote, non solo maestro non solo pacifista. Un fatto storico, ecco perché
di Elisa Chiari *
«Pregate per me perché anche io sappia prendere esempio da questo bravo prete». Quel bravo prete è don Lorenzo Milani e più chiaro e diretto di così Papa Francesco non avrebbe potuto essere. Non c’era questa frase nel discorso preparato, non c’era la frase finale rivolta ai sacerdoti: "Prendete la fiaccola e portatela avanti». Le ha aggiunte a braccio.
Don Milani aveva ragione, quando nel suo tono sempre un po’ provocatorio diceva: «Mi capiranno tra 50 anni». Forse faceva un numero, per dirla con parole sue, «per dar forza al discorso». Ma la contingenza della storia ha voluto che fosse una cifra esatta, che servissero davvero 50 anni - don Milani è morto il 26 giugno del 1967 - perché un papa venisse quassù, a Barbiana - una Barbiana restaurata con la vasca azzurra come allora non era-, al margine del margine del mondo, nella parrocchia che doveva chiudere e che fu tenuta aperta per isolare un sacerdote che allora si diceva "scomodo" e che oggi papa Francesco dice «ha lasciato una traccia luminosa».
Per molto tempo, don Lorenzo Milani è stato raccontato come l’educatore, il maestro, l’obiettore di coscienza - non senza distorsioni e strumentalizzazioni da parti assortite -: quasi che fosse marginale nella sua presenza storica il suo essere prete. Lo si è raccontato lasciando nell’ombra il lato che a don Milani premeva di più, perché fondava il senso della sua esistenza cristiana: il riconoscimento del suo sacerdozio da parte della Chiesa.
Cinquant’anni dopo Papa Francesco sana, dichiarandolo esplicitamente, questa mancanza. Mette il punto più importante alla fine, Papa Francesco, quasi per lasciarne il significato scolpito - come a segnare un passaggio che chi studierà il rapporto tra don Lorenzo Milani e la Chiesa di qui in poi non potrà ignorare -: «Non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: "Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato...". Dal Cardinale Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani - non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco -, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: "Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui... quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio... Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto"».
Non per caso nelle parole del Papa emerge più di tutto il don Milani sacerdote: le definizioni che dà di don Milani lungo tutto lo snodo del discorso non sono scelte a caso. «Sono venuto a Barbiana» esordisce papa Francesco «per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve». Agli allievi dice: «Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione, nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato, con piena fedeltà al Vangelo e proprio per questo con piena fedeltà a ciascuno di voi, che il Signore gli aveva affidato». E ancora: «La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole».
Papa Francesco sottolinea l’attualità di don Milani: «Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso». Il papa parla esplicitamente di "umanizzazione", facendo riferimento a un concetto milaniano: la parola ai poveri non per farli diventare più ricchi, ma per farli diventare più uomini. Non per caso c’è più di Esperienze pastorali sotteso al discorso di don Milani a Barbiana di quanto non ci sia di Lettera a una professoressa. La cita, certo, quando parla agli educatori: ma al centro c’è il sacerdote non il maestro. «La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. Ma soprattutto è una missione. (...) Questo è un appello alla responsabilità. Un appello che riguarda voi, cari giovani, ma prima di tutto noi, adulti, chiamati a vivere la libertà di coscienza in modo autentico, come ricerca del vero, del bello e del bene, pronti a pagare il prezzo che ciò comporta. E questo senza compromessi».
Ai sacerdoti papa Francesco ricorda che «la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito. Sono note le parole della sua guida spirituale, don Raffaele Bensi, al quale hanno attinto in quegli anni le figure più alte del cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso, sotto il paterno ministero del venerabile Cardinale Elia Dalla Costa. Così ha detto don Bensi: "Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire". Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: "Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale". Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli". Don Lorenzo ci insegna anche a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni».
E ancora: «La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità».
Quelle ultime parole: «prendete e portate la fiaccola» sono l’abbraccio che don Lorenzo Milani ha desiderato una vita. Chi stava ascoltando sulle seggiole bianche di Barbiana lo sapeva, per aver vissuto con lui il dolore dell’incomprensione, e non per caso ha applaudito proprio i passaggi in cui ha sentito il riconoscimento atteso dal Priore per mezzo secolo.
Cittadinanza: Da 13 anni la discussione in Parlamento. Che fine ha fatto?
Ius soli in discussione in commissione Affari Costituzionali del Senato dopo l’ok della Camera oltre un anno fa
a cura di Alessandra Chini *
Si torna a discutere di cittadinanza dopo che Matteo Orfini, attuale numero uno del Pd dopo le dimissioni di Matteo Renzi, ipotizza che sulla proposta di legge che dovrebbe approdare in Aula al Senato il governo ponga la fiducia. Ipotesi respinta al mittente dai centristi che la vedono, anzi, come una provocazione atta a creare un casus belli nel governo.
Ma è da moltissimo tempo che il tema è all’ordine del giorno delle Camere e un anno e mezzo fa, a metà ottobre 2015, Montecitorio ha anche approvato un testo, finito, poi, però, nelle ’sabbie mobili’ in commissione a Palazzo Madama. A un anno dall’ok a quel testo un gruppo di giovani ha deciso di scrivere direttamente ai senatori e organizzare iniziative per porre l’accento sulla questione. Che tocca un milione di ragazzi. "Paula, Mohamed, Marwa - dice l’ex ministro Cecile Kyenge - sono i nomi dei compagni di scuola e degli amici che ogni giorno giocano con i nostri figli, crescono con loro ma non hanno i loro stessi diritti. Sono un milione, sono italiani, ma non per la legge italiana. Hanno il diritto di essere come noi, perché lo sono: italiani. Ogni giorno che passa è un giorno perso, anche per il Paese. Perché lo ius soli è un bene per il nostro Paese. Per questo deve diventare legge il più presto possibile. Ius soli subito".
La mobilitazione dei ragazzi, che hanno anche creato su Facebook un gruppo per spingere la proposta di legge li ha portati a un incontro con il presidente del Senato, Pietro Grasso che si è impegnato sul tema. "Ho incontrato i promotori della legge sulla cittadinanza - ha detto - e mi sono espresso sulla necessità che venga approvata al più presto. M’impegno a sollecitare la trattazione di questa proposta". "Purtroppo le Commissioni stabiliscono priorità - ha aggiunto Grasso - che sfuggono a quelle che possono essere le percezioni e le esigenze dei cittadini".
Approvato dalla Camera a metà ottobre del 2015, è da tempo sottoposto a vari stop and go in commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama. Intanto il 14 gennaio 2016 è stato approvato in via definitiva lo ’ius soli sportivo’. Una proposta di legge che prevede la possibilità di tesseramento in società sportive, dai 10 anni in avanti, di bimbi stranieri nati o residenti in Italia da quando sono piccoli.
E’ da tredici anni anni che in Parlamento si discute di una riforma in materia di cittadinanza.
LE TAPPE DEL PROVVEDIMENTO - Tra il 2003 e il 2004 la commissione Affari Costituzionali della Camera esamina diverse proposte parlamentari ed elabora un testo unificato che, dopo l’esame in commissione, approda in Aula ma viene rimandato in commissione il 16 maggio 2004. Nella XIV legislatura la Camera ci riprova. Se ne riparla a partire dal 3 agosto 2006 con una indagine conoscitiva. Nel gennaio 2008 per il testo sembrerebbe la ’volta buona’ dopo una discussione in commissione ma la legislatura si interrompe e l’iter deve ricominciare da capo. Anche la successiva legislatura mette all’ordine del giorno la questione ma il 12 gennaio 2010 il testo approda nuovamente in Aula e nuovamente viene rimandato in commissione per approfondimenti. Dal 14 giugno 2012 è partito un nuovo tentativo in commissione con l’esame di alcune proposte. Il 31 luglio 2012 si è concluso l’esame preliminare delle proposte di legge ma la commissione non è riuscita a elaborare un testo base e l’esame è stato interrotto l’8 novembre 2012. Dal 27 giugno del 2013 si riprende l’esame alla Camera ed è stato approvato a metà ottobre del 2015. Il provvedimento è da allora in discussione in commissione Affari Costituzionali in Senato.
ECCO COSA PREVEDE - Il testo contiene lo "Ius soli soft" che consentirà ai figli degli immigrati nati in Italia di ottenere la cittadinanza nel rispetto di alcuni paletti. In base alle nuove regole, i minori stranieri nati in Italia o residenti da anni nel Paese potranno ottenere la cittadinanza italiana, purché rispettino alcune condizioni come la frequenza scolastica o la residenza nel Paese da più anni da parte di uno dei genitori. Rispetto allo ius soli classico (quello adottato negli Usa e in molti paesi del Sudamerica che attribuisce la cittadinanza del Paese a chiunque nasce sul suolo nazionale), lo "Ius soli soft" pone alcune condizioni all’ottenimento della cittadinanza. I bambini figli di stranieri che nascono in Italia acquisiscono la cittadinanza se almeno uno dei due genitori "è residente legalmente in Italia, senza interruzioni, da almeno cinque anni, antecedenti alla nascita" o anche se uno dei due genitori, benché straniero, "è nato in Italia e ivi risiede legalmente, senza interruzioni, da almeno un anno". La cittadinanza italiana verrebbe assegnata automaticamente al momento dell’iscrizione alla anagrafe. I minori nati in Italia senza questi requisiti, e quelli arrivati in Italia sotto i 12 anni - in base al testo - potranno ottenere la cittadinanza se avranno "frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale". I ragazzi arrivati in Italia tra i 12 e i 18 anni, infine, potranno avere la cittadinanza dopo aver risieduto legalmente in Italia per almeno sei anni e aver frequentato "un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo".
UN INVITO ALLE FORZE POLITICHE ANTIFASCISTE. RICONOSCERE SUBITO IL DIRITTO DI VOTO A CINQUE MILIONI DI NOSTRI CONTERRANEI CUI OGGI E’ ASSURDAMENTE NEGATO
Ai gruppi dirigenti ed alle rappresentanze istituzionali delle forze politiche democratiche
Oggetto: Per contrastare le derive antidemocratiche una proposta di impegno corale e persuaso affinché nella prossima legge elettorale sia finalmente riconosciuto il diritto di voto a tutte le persone residenti in Italia e quindi effettualmente parte della popolazione italiana.
Gentili signore e gentili signori,
nelle dichiarazioni dei vostri gruppi dirigenti e dei vostri rappresentanti nelle istituzioni sovente è espresso il dovere di contrastare la temibile crescita delle organizzazioni razziste e neofasciste in Italia e in Europa, della loro propaganda di odio, del loro agire violento contro vittime inermi.
La vostra preoccupazione è anche la nostra.
Purtroppo in molti paesi europei, ed anche nel nostro, a più riprese sono stati varati dai governi ed avallati dai parlamenti inammissibili e sconcertanti provvedimenti che costituiscono un flagrante cedimento al razzismo, una flagrante violazione dei più basilari diritti umani.
Ogni persona ragionevole sa che la democrazia si difende con la democrazia; che i diritti umani si difendono riconoscendo e inverando i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Ogni persona ragionevole sa che i campi di concentramento e le deportazioni, la riduzione in schiavitù e l’apartheid, l’omissione di soccorso nei confronti di chi è in pericolo di vita, costituiscono dei crimini, e sono ovviamente incompatibili con la democrazia, con la legalità, con la civiltà.
Ai deliri neonazisti di chi parla di pulizia etnica, di rastrellamenti strada per strada, di ruspe al lavoro per abbattere umili ripari, di pattugliamenti navali per respingere sulle Sirti e nei lager libici vittime innocenti in fuga dall’orrore, ebbene, occorre opporre la forza della verità, la forza della legalità, la forza della democrazia, la forza della civiltà; occorre opporre la coscienza che ogni essere umano appartiene all’umanità, che ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignità, alla solidarietà; occorre opporre la volontà buona che salva le vite, che reca aiuto a chi è nel dolore e nella paura, che concretamente afferma l’eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani.
*
Molte autorevoli personalità della cultura e delle istituzioni, della riflessione morale e dell’impegno civile, hanno sottoscritto nelle scorse settimane un "Appello all’Italia civile: una persona, un voto", appello il cui fine è che nella prossima legge elettorale sia finalmente riconosciuto il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.
In questo appello si legge: "Vivono stabilmente in Italia oltre cinque milioni di persone non native, che qui risiedono, qui lavorano, qui pagano le tasse, qui mandano a scuola i loro figli che crescono nella lingua e nella cultura del nostro paese; queste persone rispettano le nostre leggi, contribuiscono intensamente alla nostra economia, contribuiscono in misura determinante a sostenere il nostro sistema pensionistico, contribuiscono in modo decisivo ad impedire il declino demografico del nostro paese; sono insomma milioni di nostri effettivi conterranei che arrecano all’Italia ingenti benefici ma che tuttora sono privi del diritto di contribuire alle decisioni pubbliche che anche le loro vite riguardano".
Ed ancora: "Il fondamento della democrazia è il principio Una persona, un voto; l’Italia essendo una repubblica democratica non può continuare a negare il primo diritto democratico a milioni di persone che vivono stabilmente qui".
UN INVITO ALLE FORZE POLITICHE ANTIFASCISTE. RICONOSCERE SUBITO IL DIRITTO DI VOTO A CINQUE MILIONI DI NOSTRI CONTERRANEI CUI OGGI E’ ASSURDAMENTE NEGATO
Ai gruppi dirigenti ed alle rappresentanze istituzionali delle forze politiche democratiche
Oggetto: Per contrastare le derive antidemocratiche una proposta di impegno corale e persuaso affinché nella prossima legge elettorale sia finalmente riconosciuto il diritto di voto a tutte le persone residenti in Italia e quindi effettualmente parte della popolazione italiana
Gentili signore e gentili signori,
nelle dichiarazioni dei vostri gruppi dirigenti e dei vostri rappresentanti nelle istituzioni sovente è espresso il dovere di contrastare la temibile crescita delle organizzazioni razziste e neofasciste in Italia e in Europa, della loro propaganda di odio, del loro agire violento contro vittime inermi.
La vostra preoccupazione è anche la nostra.
Purtroppo in molti paesi europei, ed anche nel nostro, a più riprese sono stati varati dai governi ed avallati dai parlamenti inammissibili e sconcertanti provvedimenti che costituiscono un flagrante cedimento al razzismo, una flagrante violazione dei più basilari diritti umani.
Ogni persona ragionevole sa che la democrazia si difende con la democrazia; che i diritti umani si difendono riconoscendo e inverando i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Ogni persona ragionevole sa che i campi di concentramento e le deportazioni, la riduzione in schiavitù e l’apartheid, l’omissione di soccorso nei confronti di chi è in pericolo di vita, costituiscono dei crimini, e sono ovviamente incompatibili con la democrazia, con la legalità, con la civiltà.
Ai deliri neonazisti di chi parla di pulizia etnica, di rastrellamenti strada per strada, di ruspe al lavoro per abbattere umili ripari, di pattugliamenti navali per respingere sulle Sirti e nei lager libici vittime innocenti in fuga dall’orrore, ebbene, occorre opporre la forza della verità, la forza della legalità, la forza della democrazia, la forza della civiltà; occorre opporre la coscienza che ogni essere umano appartiene all’umanità, che ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignità, alla solidarietà; occorre opporre la volontà buona che salva le vite, che reca aiuto a chi è nel dolore e nella paura, che concretamente afferma l’eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani.
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Molte autorevoli personalità della cultura e delle istituzioni, della riflessione morale e dell’impegno civile, hanno sottoscritto nelle scorse settimane un "Appello all’Italia civile: una persona, un voto", appello il cui fine è che nella prossima legge elettorale sia finalmente riconosciuto il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.
In questo appello si legge: "Vivono stabilmente in Italia oltre cinque milioni di persone non native, che qui risiedono, qui lavorano, qui pagano le tasse, qui mandano a scuola i loro figli che crescono nella lingua e nella cultura del nostro paese; queste persone rispettano le nostre leggi, contribuiscono intensamente alla nostra economia, contribuiscono in misura determinante a sostenere il nostro sistema pensionistico, contribuiscono in modo decisivo ad impedire il declino demografico del nostro paese; sono insomma milioni di nostri effettivi conterranei che arrecano all’Italia ingenti benefici ma che tuttora sono privi del diritto di contribuire alle decisioni pubbliche che anche le loro vite riguardano".
Ed ancora: "Il fondamento della democrazia è il principio Una persona, un voto; l’Italia essendo una repubblica democratica non può continuare a negare il primo diritto democratico a milioni di persone che vivono stabilmente qui".
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Gentili signore e gentili signori,
voi sapete perfettamente che il fondamento della democrazia è il principio "Una persona, un voto". E’ tempo di inverarlo pienamente almeno nel nostro paese.
*
Anni addietro con specifico riferimento alle elezioni amministrative l’Associazione Nazionale Comuni Italiani elaborò un progetto di legge recante "Norme per la partecipazione politica ed amministrativa e per il diritto di elettorato senza discriminazioni di cittadinanza e di nazionalità", progetto di legge che può costituire per più aspetti un punto di riferimento condiviso da tutte le forze politiche democratiche (con l’avvertenza che il lasso di tempo lì indicato andrebbe ricondotto ai normali tempi amministrativi per l’efficacia di un trasferimento di residenza ai fini dell’inclusione nelle liste elettorali: sei mesi di stabile residenza sarebbero un tempo più che congruo).
Aggiungiamo che mentre per le elezioni amministrative è sufficiente una legge ordinaria, per le elezioni politiche può essere necessaria una modifica costituzionale: ebbene, che venga questa modifica costituzionale che la parte più avvertita della popolazione italiana auspica ed attende da decenni, modifica costituzionale che sarebbe del tutto coerente con lo spirito della Costituzione e con la lettera dei suoi principi fondamentali (non vi è infatti dubbio che se all’indomani della Liberazione in Italia vi fosse stata una stabile presenza di milioni di persone non native ad esse sarebbe stato riconosciuto senza esitazione il diritto di voto nel paese in cui effettivamente vivevano; la democrazia è infatti indivisibile, se da essa si esclude una parte della popolazione, lì la democrazia cessa di esistere del tutto). Noi crediamo che riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese sia oggi un dovere e una necessità: un atto concreto di democrazia, ed in quanto tale anche di effettuale contrasto al razzismo e al neofascismo.
Auspicando un vostro impegno a tal fine, vogliate gradire distinti saluti.
Il "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo che coordina l’iniziativa dell’"Appello all’Italia civile: una persona, un voto"
Viterbo, 20 febbraio 2017
Mittente: "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it, centropacevt@gmail.com, centropaceviterbo@outlook.it
IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino***
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle “spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere” (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA “MORTE NERA” (cfr.: Massimo Palma,”Waler Benjamin, l’inquilino in nero; cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a “Infanzia salentina”, pagine del lavoro di Nicola Fanizza, “Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini” - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/) - E, NEMMENO, DEI PATTI LATERANENSI E TUTTO IL RESTO.
Tanto tempo, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: “Tutti i cretesi mentono”! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome “Forza Creta”, e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA “BATTUTA” FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: “GUAI AI VINTI”!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... “TUTTI I CRETESI MENTONO” ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
Le donne ancora ai margini della ricerca, si lavora per cambiare
Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza
di Redazione ANSA *
Grandi assenti dai vertici della ricerca, in Italia come in molti altri Paesi, le donne vivono ancora nell’ombra nei laboratori scientifici e nelle universita’. Nonostante molte ricercatrici siano esempi di eccellenza riconosciuti a livello internazionale, la maggior parte di esse non riesce ancora ad emergere come meriterebbe. E’ un problema sentito in tutto il mondo e che affonda le radici nella cultura. Fare in modo che il loro ruolo esca allo scoperto e che abbiano i riconoscimenti che meritano e’ l’obiettivo della Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza promossa dalle Nazioni Unite.
L’iniziativa e’ nata nel 2015 allo scopo di portare le donne ad ottenere parita’ di accesso e partecipazione nella scienza. Scienza e uguaglianza di genere sono infatti, secondo le Nazioni Unite, entrambe vitali per raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo concordati a livello internazionale, compresi quelli previsti dall’agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile.
"Donne e ragazze continuano ad essere escluse da una piena partecipazione nella scienza", rileva sul suo sito il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite. La conferma di questo scenario arriva da una ricerca condotta in 14 Paesi sulla carriera universitaria delle ragazze indica che solo il 18% consegue la laurea triennale, l’8% quella specialistica e appena il 2% arriva al dottorato di ricerca.
Se poi consideriamo in dettaglio la situazione in Italia il quadro e’ ancora meno edificante: una recente indagine europea condotta dalla Fondazione L’Oreal per le donne e la scienza ha indicato che l’Italia e’ il Paese europeo con piu’ pregiudizi nei confronti delle donne nella ricerca: addirittura 7 italiani su 10 sostengono che le donne non possiedano le capacita’ necessarie per accedere a occupazioni di alto livello in ambito scientifico.
In Italia come in molti altri Paesi la presenza delle donne negli studi scientifici segue un andamento a piramide, con una base nella quale fin dalle scuole superiori le ragazze rappresentano oltre il 50% degli studenti e che si assottiglia inesorabilmente procedendo verso il vertice: le disparita’ crescono man mano che si avanza verso posti di responsabilita’ e potere decisionale. E’ cosi’ che le donne sono il 30% dei professori associati, il 20% dei professori ordinari e fra gli 80 rettori le donne sono appena 4 o 5.
Per sollecitare il dibattito le Nazioni Unite hanno organizzato per domani, nel quartier generale dell’Onu, un forum nato dalla collaborazione tra il Royal Academy of Science International Trust (Rasit) e il Dipartimento dell’Onu per gli Affari economici e sociale della Divisione per la politica sociale e lo sviluppo (Desa-Dspd). Tra le iniziative in Italia, quella dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che decida alle studentesse delle scuole secondarie una mattinata in compagnia delle ricercatrici e dei ricercatori impegnati in un campo affascinante come la ricerca sulle particelle.
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA. Una nota *
PATTI LATERANENSI (11 FEBBRAIO 1929). A un’udienza concessa ai professori ed agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il 13 febbraio 1929, due giorni dopo la firma dei Patti Lateranensi, Pio XI così illustra il grande evento:
L’INCARICO DI PAPA BENEDETTO XV (1919) E LAPROVVIDENZA DI PIO XI (1929). Sul conseguimento di questo risultato (“conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti”), e sulla sua comprensione (sul meglio capire come sia stato possibile), gettano luce non solo i “grandi” fatti - ricordiamo che la strada era stata già aperta dal Papa precedente, Benedetto XV (morto nel gennaio 1922), che aveva abrogato nel 1919 il “non expedit” e favorito l’ingresso dei cattolici nella vita politica e la nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo - ma anche i “piccoli” fatti: in particolare, una lettera del 1919, inviata da una donna di Lecce a una sua amica pugliese di Mola di Bari.
In questa lettera, la donna salentina così scrive (“Lecce, 27-7-1919”):
MADDALENA SANTORO (1884-1944). Chi è Costei? Come mai di lei non c’è quasi traccia nei libri di storia? Questo documento apre la pista a infinite domande: fa parte di un "carteggio" sorprendente (32 lettere - dal 1919 al 1938) tra Maddalena Santoro e la sua amica Caterina Tanzarella, riportato nel lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare" (Edizioni Dal Sud, Bari 2016). Tale carteggio (pp. 109-154) è di grande rilevanza: mostra solo la punta di un gigantesco iceberg e sollecita a sapere di più e meglio di questa donna salentina, dirigente di primo piano dell’Azione Cattolica, intellettuale e scrittrice e, non ultimo, anche amante del fratello del Duce, "il fratello di un Grande Fratello", del quale sappiamo fondamentalmente poco (se "preferì restare nell’ombra", come scrive Indro Montanelli nel novembre del 2000 (cfr. "Il fascino di Arnaldo Mussolini"), non per questo deve continuare a restarvi).
ARNALDO MUSSOLINI (1885-1931). Sul lungo lavoro, finalizzato alla Conciliazione tra Regno d’Italia e Vaticano, svolto “nell’ombra” (p.38) da Arnaldo Mussolini e probabilmente, alla luce dei “precedenti”, dalla stessa Maddalena Santoro, una grande traccia è in “una lettera inviata, in data 1 gennaio 1927”, dal marito di Caterina Tanzarella, Piero Delfino Pesce a un suo amico. In un linguaggio “volutamente criptico”, così scrive: “La gente di corta vista, la maggioranza grandissima, guarda a Roma; io invece guardo a Fiesole, e so che a Roma impera assolutisticamente l’Abate Tacchi Venturi. (sic.) Questo il filo per intendere molte cose” (p. 38). Il riferimento (evidentemente “eco delle confidenze” della moglie Caterina) è alle trattative sul Concordato e agli incontri segreti in un convento di Fiesole, di Arnaldo con il gesuita Pietro Tacchi Venturi (1861 - 1956), presentato proprio da Arnaldo “a suo fratello Benito verso la fine del 1922”.
Il coraggioso e originale lavoro di Nicola Fanizza, sia per la qualità della sua scrittura sia della sua preziosa documentazione sulla "storia d’amore che il duce voleva cancellare", è una formidabile sollecitazione a riprendere anche una vecchia indicazione di Luisa Passerini (in una sua relazione nel convegno "Il regime fascista. Bilancio e prospettive di studio" Bologna 1993, ora in "Il regime fascista. Storia e storiografia", a c. di Angelo Del Boca, Massimo Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Bari 1995, pp. 498-506).): "coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione" e superare definitivamente la obsoleta prospettiva storiografica che voleva e vuole ancora "le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico". Riguardare l’intera storia della società (e dell’umanità intera) con due occhi, non con un occhio solo!
Da notare che in quello stesso convegno una sola volta è citato Arnaldo Mussolini (p.133), per il connubio tra affari e politica, e una sola volta è citata Rosa Maltoni (p. 504), la madre del "Grande Fratello" (e Arnaldo ed Edvige), la quale invece durante il fascismo fu oggetto di "un culto molto ampio".
In tale prospettiva va finalmente portata alla luce nella storia delle donne del Novecento non solo la complessa figura di Margherita Sarfatti, già oggetto di più ricostruzioni non solo come "amante del Duce", ma anche l’altrettanto complessa figura di Maddalena Santoro, non riducibile affatto a semplice amante del "fratello del Grande Fratello"!
L’UOMO DELLA PROVVIDENZA(1929). C’è da augurarsi allora che il lavoro di Nicola Fanizza cada nelle mani non solo di lettori e lettrici curiosi, ma anche di storici e storiche capaci di ricerche approfondite su queste due figure di grande importanza, specie in rapporto al fatto fondamentale della storia d’Italia che portò Regno, governo fascista e Chiesa cattolico-romana alla firma dei Patti Lateranensi quando, come diceva Papa Pio XI subito dopo ai professori e agli studenti dell’Università cattolica di Milano, “siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti... E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”. - (Federico La Sala 09.02.2017)
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
Il Comma 22 del sistema politico italiano
di Paolo Pombeni (Il Mulino, 06 febbraio 2017)
Vista dall’esterno la attuale situazione politica sembra descrivibile come il famoso Comma 22. Infatti da un lato ci sono quelli che invocano elezioni nel più breve tempo possibile, perché c’è una situazione in cui senza un saldo governo sono scarse le prospettive di avere reazioni efficaci per affrontare i molti problemi che ci affliggono. Dal lato opposto ci sono quelli che ci avvertono che il risultato di un ricorso rapido alle urne sarebbe un parlamento incapace di produrre qualsiasi governo dotato della necessaria saldezza. Il Comma 22 sta, come da tradizione, nel fatto che hanno ragione entrambi.
Come se ne esce? Questa sarebbe la vera domanda da porsi. Al momento si assiste solo a un estenuante gioco di tattica in cui i contendenti fanno più che altro delle «finte», giusto per ingannare gli avversari e per trarre profitto da questo.
Sul fatto che la situazione sia difficile, se non difficilissima, c’è un certo consenso. Del resto basta guardare all’economia, fra disoccupazione, crisi bancarie, conflitto sul bilancio con la Commissione europea. Come se tutto ciò non bastasse, c’è un ricco contorno di preoccupazioni, tanto sul fronte nazionale quanto su quello internazionale. Dunque che serva un governo in grado di farsene carico è pacifico.
L’attuale esecutivo può rispondere a queste sfide? Già qui la risposta si complica: in parte sì, in parte no. Sì, perché non mancano i ministri capaci, perché il presidente del Consiglio è persona equilibrata, perché ci sono in atto interventi che possono andare nella giusta direzione. No, perché non tutti i ministri sono capaci (prezzo pagato al continuismo con il governo Renzi), perché al presidente del Consiglio sembra mancare il guizzo di leadership necessario a dominare una platea indisciplinata, ma soprattutto perché non ha un sostegno convinto da parte di una maggioranza che è più impegnata a farsi una guerra intestina senza quartiere che a dare linfa all’azione riformatrice necessaria (e tacciamo di una opposizione che pensa solo allo sfascio, o a quello sfrontato alla Salvini-Grillo & Co., o a quello soft del tramonto berlusconiano).
Veniamo all’alternativa elettorale. I fari sono puntati su stucchevoli dibattiti circa le tecnicalità che potrebbero produrre una legge elettorale che facesse il miracolo di assestare la distribuzione del consenso. Sono piuttosto rari quelli che ricordano alla pletora dei nostri psefologi, professionisti o dilettanti che siano, che i sistemi elettorali possono organizzare la realtà, ma non sono in grado di crearne una diversa. Il problema infatti è, come si suol dire, nel manico. Infatti il sistema che produce opinione (parlare di cultura politica è eccessivo) è tutto preso nel vortice delle lotte di fazione e delle «narrazioni», o, se volete un termine più à la page, delle «post verità» che queste producono.
Che la diatriba fra renziani e antirenziani sia davvero un dibattito fra destra e sinistra fa sorridere e in ogni caso nessuno dei due campi spiega quale sarebbe il progetto di risoluzione dei nostri problemi che ha in mente. Quelle che sentiamo sono tautologie: noi siamo i buoni e di conseguenza diamo buone ricette che porteranno buoni frutti. Amen.
E che dire dei vari dibattiti dei grillini, dei cosiddetti «sovranisti», e via elencando? Ogni tanto vediamo che esibiscono qualche tecnico che fa calcoli economici. Noi siamo digiuni della materia, ma ci permettiamo di ricordare che non si fanno i calcoli senza l’oste, cioè che sono tutte argomentazioni che non tengono conto del fatto che intorno a noi c’è un mondo complicato che non ci lascerà agire come sarebbe meglio, ma che è molto intenzionato a farcela pagare (e qualche indizio ci sembra di coglierlo).
In queste condizioni il ricorso alle urne è ovviamente rischioso perché abbiamo davanti due scenari. Il primo è che continui il trend per cui il Paese si dividerà dietro tutte le varie narrazioni e post verità che gli stanno propinando, dando vita a un sistema corporativizzato e feudalizzato in perenne, endemico conflitto, dove decidere diventerà molto difficile se non impossibile. Il secondo è che i cittadini, stanchi o inorriditi da questa prospettiva, scelgano di mettersi nelle mani di qualcuno che abbia il potere per creare un unico punto di riferimento. È possibile. E in genere non viene scelto il migliore e il più saggio.
Per assurdo che possa sembrare, l’unica via d’uscita razionale, per quanto estremamente difficile sarebbe poter contare su un responsabile movimento di rigetto dell’universo di faide tra tribù politiche e populismi d’accatto che sembra in procinto, quello sì, di stabilizzarsi. Non si tratta astrattamente di contrapporre società civile e società politica, perché posta così la questione è evanescente. Si tratta di operare perché i ceti dirigenti di questo Paese riprendano in mano la formazione della coscienza collettiva costringendo la componente politica che hanno dentro a uscire dall’autoreferenzialità dei propri scontri e a produrre nuovi quadri capaci di mettersi su questa lunghezza d’onda (chi non è capace di farlo merita di essere rottamato).
Se non ci si riuscirà, non facciamoci illusioni: torneremo ad essere, come all’inizio del XVI secolo, il Paese che ha tante cose belle, ma che cadrà preda del mondo che ci circonda, con buona pace di tutti, dei sovranisti e di quelli che sono rimasti alla sinistra luddista.
COME ALL’INIZIO DEL XVI SECOLO ....
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
PAOLA CIONI, ELIANA DI CARO, ELENA DONI, CLAUDIA GALIMBERTI, LIA LEVI, MARIA SERENA PALIERI, FRANCESCA SANCIN, CRISTIANA DI SAN MARZANO, FEDERICA TAGLIAVENTI, CHIARA VALENTINI
Donne della Repubblica
Anteprima del testo delle prime cinque pagine a stampa del primo capitolo.
Ricordiamoci che la storia la raccontano sempre i vincitori. Ed è quella che rimane a testimonianza del passato. Vogliamo farci anche noi narratrici della nostra storia, per ricordare che oltre ai molti coraggiosi e valenti uomini italiani, ci sono state tante donne che hanno contribuito profondamente ai migliori cambiamenti del nostro Paese?
Dacia Maraini
Il 2 giugno 1946 si tennero le prime elezioni politiche per le quali votarono anche le donne. Un passaggio che segna l’affermazione di un nuovo protagonismo femminile nella società italiana. A restituirci la portata simbolica e politica di quella conquista, quattordici biografie esemplari di donne che con diversi talenti, in vari campi, hanno contribuito alla nascita della Repubblica e a cambiare l’immagine della donna. Non solo le politiche, che fin dai tempi del fascismo si erano battute per la democrazia, come Camilla Ravera, Teresa Noce, Lina Merlin, o le donne della resistenza, Tina Anselmi, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Marisa Ombra, Ada Gobetti, ma anche scrittrici come Alba de Céspedes, Fausta Cialente, Renata Viganò, un’attrice come Anna Magnani, la famosa sarta Biki, e la leggendaria Dama Bianca compagna di Fausto Coppi.
Le autrici del volume fanno parte di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini. Come opere collettive per il Mulino hanno pubblicato anche «Donne del Risorgimento» (2011) e «Donne nella Grande Guerra» (2014). Per altri editori: «Piccole italiane» (Anabasi, 1994), «Il Novecento delle italiane» (Editori Riuniti, 2001), «Amorosi assassini» (Laterza, 2008).
L’etica perduta della politica
di STEFANO RODOTÀ (la Repubblica, 17 Dicembre 2016)
TRA una politica che fatica a presentarsi in forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità.
Mai nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto.
Dobbiamo ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole “disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”. Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano, anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato da Silvio Spaventa.
Così la questione “morale” si presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una sua legittimazione sociale.
In questi anni il degrado politico e civile è aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.
Non ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati.
È stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta?
Il confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006
di Salvatore Settis (la Repubblica, 07.12.2016)
IL DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.
Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%.
Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte.
Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare.
Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.
La riforma Renzi-Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti.
Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
Smuraglia: è un No per attuare la Costituzione
"Al referendum non hanno vinto i partiti", dice il presidente dell’Anpi. "Leggere la vittoria referendaria del 4 dicembre solo sul terreno del confronto politico è un modo per ridimensionare il risultato popolare"
intervista di Andrea Fabozzi (il manifesto, 7.12.2016)
Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione nazionale partigiani, si aspettava questo successo del No?
Onestamente no. Immaginavo il paese spaccato a metà e speravo in una vittoria con il minimo distacco. Avevo indicazioni molto positive dalle nostre manifestazioni, in particolare l’ultima a Roma al teatro Brancaccio. Ma l’esperienza mi insegna a non fidarmi di quello che si vede nelle piazze e nei teatri, perché è la gente silenziosa che decide il risultato. E c’era da temere la propaganda del governo, le promesse, le proposte e le minacce del presidente del Consiglio, la complicità della stampa con il Sì...
E invece.
Mi ha sorpreso felicemente la grande partecipazione. Avevamo captato questo desiderio di capire e di partecipare, ma forse l’abbiamo persino sottovalutato. Evidentemente i cittadini che si sono informati sulla riforma, l’hanno compresa bene e giudicata male, sono stati la maggioranza. Anche se questa parte ragionata del No, adesso, mi pare messa del tutto tra parentesi, rimossa.
Non le piace come viene raccontata la vittoria del No?
Mi sorprende che tra le tante ragioni della sconfitta del Sì, la più elementare - e cioè che la riforma è stata bocciata nel merito - sia finita nell’ombra. Tutte le analisi sono sul terreno politico, tornano a farsi sentire come vincitori partiti che in campagna elettorale avevamo visto poco. Io credo che leggere il 4 dicembre esclusivamente sul terreno del confronto tra partiti sia un modo per ridimensionare lo straordinario risultato popolare.
Lei invece ci legge il segnale di una speranza? Si può ricominciare a parlare di attuazione della Costituzione?
Noi ne parliamo da sempre e lo abbiamo fatto anche in questa campagna elettorale. Alla fine dei miei incontri c’era sempre chi mi chiedeva “ma se vince il No cosa facciamo?”. E io rispondevo “Prima brindiamo, poi diciamo che invece di cambiarla la Costituzione bisogna attuarla”. A quel punto arrivava l’applauso più forte. Perché tutti vedono l’enorme contrasto che c’è tra i principi fondamentali della Carta e la realtà. Non voglio illudermi, ma credo che dentro questo 60% di No ci sia anche questa richiesta di attuazione.
Insieme a un voto contro il governo, non le pare?
Non per quanto ci ha riguardato. L’ho detto anche a Renzi nel nostro confronto di settembre a Bologna. Non ci è mai interessata la sorte del governo, volevamo solo difendere la Costituzione da uno strappo. Mi pare che lei non sia rimasto contento del modo in cui è stato raccontato quel confronto alla festa dell’Unità. Non sono rimasto contento che sia stato oscurato. Evidentemente non si era concluso come giornali e tv si auguravano, con la vittoria di Renzi.
Secondo lei, adesso, come si viene fuori dalle dimissioni del presidente del Consiglio?
La richiesta di votare presto mi pare infondata. Mancano molti presupposti, innanzitutto la legge elettorale: ne abbiamo due diverse per camera e senato e la prima è attesa al giudizio della Consulta. In più tutti i partiti dicono di volerla cambiare. La corsa alle urne è ingiustificata, il presidente della Repubblica, anche di fronte alle dimissioni di Renzi, ha molti strumenti prima di accettare le elezioni anticipate, provvederà con saggezza.
Questo No mette fine ai tentativi di riscrivere la Costituzione, almeno per un po’?
La Costituzione non è mai messa sufficientemente al riparo e bisogna stare sempre in guardia. Ma un No di questa entità ha anche un valore di ammonimento molto forte, si è capito che la Costituzione non è una legge ordinaria e non si può modificarla a cuor leggero, ma solo quando ce n’è effettivamente bisogno. E con il massimo di consenso.
In campagna elettorale si è parlato molto delle divisioni dell’Anpi. Vicenda chiusa? Lascerà qualche segno tra voi?
I segni sono stati più esterni che interni. Ogni piccola cosa è stata ingigantita e presa per buona, noi non abbiamo mai allontanato né sanzionato nessuno. Abbiamo solo chiesto ai nostri iscritti di non fare campagna per il Sì nel nome dell’Anpi, visto che la nostra posizione era opposta. La verità è che ha dato molto fastidio che l’Anpi si fosse schierata per il No. La nostra associazione è portatrice di valori in cui tutti devono riconoscersi, e dunque a molti abbiamo fatto fare almeno un pensierino.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
di Franco Berardi Bifo*
Non so a voi ma a me questo referendum mi dà un po’ di angoscia senza esagerare, intendiamoci. La vita mi sorride abbastanza, ma un po’ di angoscia questo referendum me la dà. Le ragioni sono molteplici e cerco di raccontar(me)le. I miei amici litigano fra loro astiosamente, si arriva al punto che qualcuno cancella da Facebook quelli che votano sì, o quelli che votano no. Potrei anche sopportarlo, se si trattasse di una disputa che davvero ci riguarda. Che ne so, se qualcuno votasse a favore del licenziamento degli operai dissenzienti di Pomigliano, se qualcuno votasse a favore della guerra di George Bush e Dick Cheney, beh allora d’accordo, io con un tipo così non ci voglio aver nulla a che fare, che vada a farsi fottere.
Ma qui mi pare che siamo tanto rissosi per la semplice ragione che siamo insicuri, non crediamo davvero a questo referendum a questo sì e a questo no, perciò alziamo tanto la voce, e ci ripetiamo che la costituzione non si tocca oppure che bisogna toccarla eccome.
Chi (come me) vota No non può non sapere che sta votando come Gianfranco Fini, e che se il No è maggioritario si va presto a nuove elezioni in un clima drammatico di collasso finanziario in cui vincitori probabili saranno razzisti ininterrotti come Salvini o razzisti a giorni alterni come Grillo. Chi vota Si non può non sapere che sta rafforzando il potere di un ammiratore di Tony Blair, criminale di guerra, e sta rafforzando il governo del voucher, non può non sapere che una riforma della costituzione non dovrebbe assolutamente essere varata da un governo che non è stato eletto da nessuno, e non può essere imposta alla metà del corpo elettorale.
Chi vota sì non può non sapere che una riforma costituzionale di questo genere spacca per sempre il paese, senza speranza di tornare indietro.
Il fatto è che questo referendum è una trappola costruita da un furbetto che era convinto di stravincere e avere poi tutto il potere con cui asfaltare del tutto i diritti dei lavoratori. Ma siccome il furbetto non è poi così intelligente come fa finta di essere ha fatto male i conti e a un certo punto si è reso conto che non siamo tutti come Letta a cui si può dire “Enrico stai sereno” che ti frego il posto appena ti volti. Una buona parte della popolazione ha deciso di non aspettare serenamente, e di votare no.
I contenuti di questa riforma sono risibili dal punto di vista specificamente costituzionale: nessuno può pensare davvero che il bicameralismo è il problema principale di un paese in cui gli studenti che vogliono studiare vanno all’estero, nessuno può credere che il risparmio di qualche spicciolo per i senatori sarà decisivo per le sorti economiche di un paese che ha perduto un quarto del sistema industriale negli ultimi dieci anni a causa del Fiscal compact e del debito che più lo paghi e più cresce. Questa riforma costituzionale miserella serviva nelle intenzioni del furbetto a sbaragliare ogni opposizione alla riforma vera, che è la riforma interminabile del mercato del lavoro, la privatizzazione infinita l’impoverimento illimitato della società (su questo tema vale la pena rileggere Come pensa la classe dominante di Raúl Zibechi, ndr).
Purtroppo il referendum è una trappola che scatterà in ogni caso. Se vince il sì la società è sbaragliata, e Marchionne ha vinto per sempre. Se vince il No si spalanca un abisso di instabilità finanziaria e politica. Ma se ci penso meglio poi mi rendo conto del fatto che se invece vince il sì l’abisso è solo rimandato di qualche mese, e in qualche mese lo spostamento a destra dell’elettorato è destinato ad accentuarsi.
È meglio saperlo, è meglio dirlo, invece di alzare la voce e cancellare gli amici. Siamo in una trappola, e la sola cosa che possiamo fare è impedire la (provvisoria) stabilizzazione del governo di un tizio che ammira il criminale di guerra Tony Blair e lo schiavista Marchionne.
Siamo in una trappola, e la sola cosa che possiamo fare è prepararci in ogni caso al peggio, e lavorare a un lungo periodo di ricostruzione della prospettiva europeista e anti-finanzista.
Siamo in una trappola, e la sola cosa che possiamo fare è non comportarci come i polli di Renzo Tramaglino, evitare di rompere amicizie in nome di una sconfitta in ogni caso assicurata.
L’inimicizia tra sconfitti (e lo siamo tutti, in ogni caso) è la peggiore delle cretinate.
Lidia Menapace: «Dopo la vittoria del NO, abroghiamo il Concordato»
di Donatella Coccoli (Left, 4 novembre 2016)
«Dopo la vittoria del no, voglio raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 della Costituzione, quello del Concordato tra Stato e Chiesa». Con un tono della voce molto deciso, Lidia Menapace, 92 anni, staffetta partigiana, pacifista ed esponente del movimento femminista nonché senatrice nel 2006 per Rifondazione comunista, espone tranquillamente i suoi progetti per il dopo referendum. Rappresentante del No a Bolzano, dove vive, Lidia non esita a rilanciare la posta, per nulla intimorita dal dispiegamento di forze del fronte del Sì, anche se sollecita i vari comitati del No ad estendere la lotta, con una mobilitazione più a tappeto. Una donna forte Lidia Menapace e una incrollabile certezza nella capacità di coinvolgere le “cittadine e i cittadini - nominiamole le donne, dice, se no non esistono” -.
Lidia, quali sono i punti inaccettabili della revisione costituzionale?
In generale è inaccettabile tutta la procedura. Questo è un testo giuridico fondamentale e quindi se ci fosse anche qualcosa di giusto, poiché la procedura è sbagliata, io la respingo. La procedura, ricordo, è garanzia. In questo caso, è confusa. Sono abbastanza vecchia per ricordarmi il dibattito sulla Costituzione, fu partecipatissimo, molto limpido, chiaro. Non è la stessa cosa adesso e la dimostrazione è che nonostante tutti i giochi di equilibrio - in cui è bravo -, Renzi non è riuscito a ottenere i voti che servivano perché la sua proposta diventasse legge immediatamente. Ha dovuto promuovere il referendum che, ricordo, è obbligatorio, non è stata una scelta.
Hai accennato al clima in cui è nata la Costituzione. Com’era, in particolare?
Tutti si immaginano che la Costituzione sia stata costruita da un bel gruppo di giuristi seduti attorno a un tavolo con la massa fuori tranquilla e ignara. Invece no. L’Italia era appena uscita dai bombardamenti, le città erano distrutte e la confusione era tanta. Ma ci fu una specie di passione collettiva, anche se non in nome della patria perché queste cose dopo il fascismo uscivano dalle orecchie. La passione dominante era quella dell’essere liberi, di questo si discuteva ovunque: nelle osterie, nei treni, per strada, nelle scuole. Le persone chiacchieravano, suggerivano che bisognava fare questa o quell’altra cosa. E poi leggevano i giornali e cercavano qualche riscontro con quello che stavano sancendo le madri e i padri costituenti. Mi ricordo che una volta il partito socialista e quello comunista votarono in modo diverso sull’articolo 7 del Concordato.
Te lo ricordi bene...
Certo, lo ricordo benissimo. I socialisti, più laici, votarono contro l’introduzione del Concordato nella Costituzione, mentre Togliatti in particolare pensava che non avrebbe potuto mantenere in Italia un Pci forte se non avesse trovato un accordo con il Vaticano. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di mettere il Concordato nella Costituzione e così ci ritroviamo questo articolo 7.
Tu che ne pensi a proposito dell’articolo 7?
Se mi si chiedesse di voler cambiare qualcosa nella Costituzione, ecco io direi sì, perché la Costituzione non è un dogma. E uno degli articoli che vorrei cambiare è proprio l’articolo 7. Mi piacerebbe cominciare a raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 subito dopo aver vinto con il no. Dei Concordati non c’è più bisogno dopo il Concilio Vaticano II, sono un relitto del passato. Io sono favorevolissima al massimo della libertà religiosa, ma l’idea che per paura che i cattolici non siano perseguitati in Italia li si mettano sotto la protezione di un altro Stato, veramente fa ridere e piangere insieme.
Con l’abrogazione del Concordato verrebbero meno anche molti privilegi fiscali di cui gode la Chiesa...
Sarebbe praticamente un riequilibrio, perché la Chiesa dovrebbe pagare l’affitto di tutti i palazzi che occupa dove ci sono anche i ristoranti e da cui ricava profitti senza pagare nemmeno le tasse perché basta mettere una statuina e farne un luogo di culto. È una vera vergogna. E poi in ogni Paese i cattolici mantengono i loro preti, con le offerte magari detraibili dal fisco però tutto è regolato e limpido invece da noi la Chiesa si prende l’8xmille anche da quelli che pensano di non darglielo: il Concordato è davvero una pecca in una Costituzione peraltro assai bella. Tolto quel cappello dell’articolo 7 che impedisce all’Italia di essere un Paese laico, si potrebbe vedere tutto l’inghippo della Chiesa nella società italiana. Questa è una cosa da correggere assolutamente. E per questo io raccoglierei subito le firme.
Che cosa c’è poi che non va nella revisione costituzionale?
Con questa revisione promossa da Renzi, si vorrebbe uno stato centralistico, che si riprende tutte le competenze delle regioni e questo non lo tollero. Preferisco uno stato fondato sulle autonomie che uno stato centralistico. Si dice che i consiglieri regionali rubano, perché, i governi no? Se mai si deve riuscire a trovare la maniera di tenere sotto controllo l’attività politica pubblica, senza cambiare la Costituzione.
A proposito delle donne, la ministra Boschi ha polemizzato qualche tempo fa sul fatto che ci sono poche donne nel comitato del No. Tu che sei stata femminista che nei pensi?
Io non sono stata femminista, sono femminista!
Perfetto! Ma che cosa rispondi, è vero che le donne non si interessano dei problemi costituzionali?
No, se mai è il comitato che non si interessa delle donne. Non è che il Comitato del Sì brilli per presenza rilevanti di donne, ma siccome è assolutamente dominato da Renzi, sia uomini che donne restano negli angolini bui perché lui occupa tutti gli spazi. Ma il Comitato del No deve essere più attivo nel coinvolgere le donne. Le donne sono più numerose degli uomini e se non sono rappresentate dai comitati resta fuori la maggioranza dell’elettorato.
Bisogna sensibilizzare di più le donne?
No, le donne sono sensibili, bisognerebbe sensibilizzare di più il comitato. Al di là dell’impostazione accademica, la cosa da fare sarebbe una mobilitazione a tappeto con volantini semplici ed efficaci, non con documenti di 20 pagine in stretto linguaggio giuridico. Bisogna fare riunioni di caseggiato e soprattutto ascoltare le donne. Se non si fa così, si perde. Tutti questi illustrissimi personaggi e uomini politici che si sono autonominati comitato nazionale si decidessero a fare un po’ di lavoro pratico.
Come vedi la partecipazione delle forze di sinistra e del M5s? Sono attivi?
Sì, anzì, noto che in un periodo di grande distrazione politica e assenza di interesse, questo referendum riesce a scuotere anche le aree più grigie. Quindi bisognerà, dopo la vittoria del No, non far ricominciare la morta gora. Io intanto ho già cominciato a buttare l’idea di raccogliere le firme per abrogare il concordato...
I valori penultimi delle democrazie
di Remo Bodei (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
Nella maggior parte delle cosiddette lingue indoeuropee (a partire dal sanscrito dva o dvi, che significa «due» e in analogia con il latino dubium o il tedesco Zweifel) il dubbio indica incertezza dinanzi ad alternative pratiche o teoriche, il trovarsi davanti a un dilemma o, come nel simbolo pitagorico Y, davanti a un bivio, graficamente rappresentato, quale simbolo della difficoltà di prendere decisioni.
Soppesare le scelte, non farsi trascinare dalle circostanze o dagli impulsi spontanei è stata - e continua a essere - una conquista che spetta a ogni persona e a ogni civiltà nel corso della propria evoluzione. Governare le passioni, non significa ancora, tuttavia, porsi dei dubbi di natura teorica. Ma il primo passo, quello dell’astrarsi dal contesto, del fermarsi a riflettere, è stato compiuto e lo spazio di perplessità creato e aperto.
Il ragionare prima di decidere la propria linea di condotta o di articolare il proseguimento dei propri pensieri è segno di raggiunta maturità. Certo, tutto ciò ancora non basta. Occorre evitare il pericolo più ovvio: che il dubbio si trasformi in paralisi, in alibi o in fatalistica pigrizia che lascia andare alla deriva i comportamenti, le idee, le fantasie. Per questo, quasi avesse bisogno di un’àncora, il dubbio è stato spesso diametralmente contrapposto non tanto alla verità logica o empirica (quella sottomessa al «tribunale della ragione» e capace di rettificare i suoi eventuali errori), quanto alla verità rivelata o imposta con la violenza.
I totalitarismi del secolo scorso hanno preteso che i loro capi (il Duce, il Führer, il Caudillo, il Conducator, il Piccolo Padre, il Grande Timoniere) incarnassero l’indiscutibile verità e l’esemplare moralità: «Il Duce ha sempre ragione» o «Agisci in modo che, se il Führer ti vedesse, approverebbe la tua azione». Ogni pensiero autonomo e ogni dubbio sono considerati sovversivi perché minano l’autorità del Capo o del Partito. Devono essere stroncati. Per fortuna, come disse Mussolini al giornalista tedesco Emil Ludwig, la disposizione dell’uomo moderno a credere ha dell’incredibile. Proprio per questo viene sollecitato il comportamento gregario, condensato nel motto delle SS («Il mio onore si chiama fedeltà») e, nell’ambito del fascismo italiano, nello slogan «Credere, obbedire e combattere» (dove, si noti, il «credere» occupa il primo posto).
Che le masse si lascino facilmente guidare, è convinzione profonda anche di Hitler: «È una bella fortuna per gli uomini di governo che le masse non pensino! Si pensa soltanto quando si tratta di impartire un ordine o di assicurarne l’esecuzione. Se fosse diversamente la società umana non potrebbe sussistere». Non potendo impartire ordini, ma soltanto riceverli, le folle non corrono il rischio del dubbio. Da qui l’invito - o, meglio, il comando - a praticare una «entusiastica intolleranza» non solo contro quanti dubitano, ma anche contro coloro che dimostrano troppa volontà di sapere, raffigurati come soggetti a ipertrofia intellettualistica. Il dubbio si trasforma in una malattia.
Giovanni Paolo II ha parlato, con espressione paradossale, di «dittatura del relativismo», per dire che, specie dopo la fine del comunismo, la democrazia occidentale, avrebbe esaurito le sue energie: marcet sine adversario virtus . Sarebbe cioè diventata più evidente la sua propensione a lasciare ai cittadini un’eccessiva libertà dai valori della tradizione, che sconfina nella licenza e nell’anarchia.
La democrazia però non è soltanto relativistica. È vero che le democrazie moderne nascono dall’onda lunga delle guerre di religione che hanno insanguinato il Cinquecento e il Seicento, facendo scorrere tanto sangue - secondo un contemporaneo - da far girare le ruote dei mulini e da mostrare un grado d’intolleranza che oggi noi attribuiamo ad altre culture e religioni. La stanchezza per il sangue versato ha, tuttavia, provocato un salutare passo indietro dai valori ultimi - assoluti, non negoziabili e, se è il caso, da imporre con la forza - ai valori penultimi, su cui fondare gli Stati. La democrazia relativistica perché ammette più fedi e più verità e ha proprio il dubbio come sua specifica virtù, ma vi è in essa qualcosa che non è relativistico: è la compatibilità interna tra i valori, garanzia di convivenza di tutti in uno spazio pubblico e neutro, sempre minacciato da ritorni di fiamma di intolleranza e prepotenza.
In questo senso, il richiamo che, negli anni della Guerra fredda, Norberto Bobbio rivolgeva agli intellettuali («seminare dubbi» piuttosto che «raccogliere certezze») costituisce l’antidoto a ogni schieramento ideologico a priori, perché, come lo stesso filosofo ha insistito più tardi, lo scopo di ogni persona ragionevole, e, in particolare, di chi sceglie l’intelligenza quale strumento di lavoro, dovrebbe essere «l’inquietudine per la ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose».
L’omicidio di Fermo è l’ultimo atto del profondo razzismo italiano
Igiaba Scego, scrittrice (Internazionale, 07 Lug 2016)
Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, è morto.
Quando ho letto la notizia mi è mancato il fiato.
Davvero è successo?
Davvero si può scappare da Boko haram, uno dei gruppi terroristici più efferati del mondo, e non sopravvivere all’Italia?
Davvero l’Italia è peggio di Boko haram?
Penso alla moglie che ha assistito impotente all’omicidio. Penso a quegli attimi prima della morte di Emmanuel. Mi immagino una coppia in una tranquilla sera di estate a Fermo, mano nella mano, progettando il futuro. E poi un uomo nel buio, il suo odio, la sua spranga, il sangue, il cervello che schizza tutto intorno, la paura, il dolore, la furia.
Dicono che è stato un ultrà. Che parola strana ultrà. Non ha un reale significato. Ti rimanda allo stadio, alle curve, al tifo. Però nasconde a volte anche altro. Nasconde il razzismo, il fascismo, un certo gusto di menar le mani. Ma dire ultrà, ripeterlo in tutti i telegiornali, è anche un modo di non prendersi le responsabilità di un atto efferato. È lui, solo lui, l’uomo con la spranga, il colpevole, sembrano giustificarsi tutti. Lui, un balordo, uno strano, un emarginato in fondo. Succede, sembra dire la vulgata pubblica, non è colpa nostra se ci sono certe bestie in giro. E ci dimentichiamo che una bestia non nasce per caso. Che anche un omicidio a sfondo razziale è terrorismo.
“Not in my name”, l’ho scritto e detto tante volte contro gli attentati jihadisti. Ci siamo schierati quando occorreva farlo e odiosamente nessuno lo ha notato. Il mondo islamico a cui appartengo sa di essere la prima vittima del terrorismo, ma sa anche che il terrorismo nasce dalle sue devianze. E anche il razzismo, l’odio di cui è avvolto tutto il paese, è roba nostra. Made in Italy. Non è un fatto isolato. E ora, dopo la morte di Emmanuel, non possiamo far finta di nulla. Dobbiamo capire da dove viene quest’odio, quali sono le cause profonde di questa sciagura.
Ed ecco che il nome di Emmanuel Chidi Namdi si mischia con tanti altri con Ahmed, Jerry, Abba, Samb.
Non è la prima volta che succede.
Il primo di cui ho memoria era un somalo, uno studente promettente caduto in disgrazia, di nome Ahmed Ali Giama.
Ahmed era arrivato a Roma nel 1978. Alle spalle aveva una borsa di studio in Unione Sovietica, la voglia di cambiare il mondo, un comunismo a cui credeva più di se stesso. Poi qualcosa andò storto nella sua vita. L’Unione Sovietica lo rimandò a casa, in Somalia, perché il suo comportamento era stato considerato inopportuno. La motivazione ufficiale era che “beveva troppo”. Ma Ahmed Ali Giama sapeva di non bere più degli altri, sicuramente non più di quanto si faceva in Russia. Si sentiva vittima di una profonda ingiustizia.
Ahmed arriva in Italia perché fugge da una dittatura militare, quella di Siad Barre, che gli sta stretta. Ma anche qui niente va bene. Una vita sempre più ai margini, tra i cartoni e le mense che offrono un po’ di cibo. E poi quella notte terribile, tra il 21 e il 22 maggio 1979, quattro ragazzi annoiati gli danno fuoco e lui muore senza un perché sotto l’arco del tempio della Pace, a Roma. I ragazzi erano fascisti? Uno aveva simpatie di destra, ma la ragazza era una che stava nei movimenti, una compagna. Un omicidio né di destra né di sinistra. Solo un grande squallore.
Poi c’è stato Giacomo Valent a Udine. Era uno studente brillante. Anche la sua famiglia era brillante. Una famiglia di quelle che si vedono nei telefilm americani. Il padre era stato cancelliere dell’ambasciata italiana in Jugoslavia e la madre era una splendida somala di nome Egal Ubax Osman. Una coppia che univa il bianco e il nero, con figli belli, eleganti, brillanti. A Udine una famiglia così non l’avevano mai vista. Le ragazze andavano in visibilio per quei Valent. Davvero erano fantascienza. Giacomo, poi, era di sinistra e questo lo rendeva ancora più bello, ancora più tosto. A volte a scuola discuteva con i compagni di destra. Qualcuno lo chiamava scimmia e usava il razzismo perché non aveva argomenti davanti a quel ragazzo così intelligente. Giacomo non si lamentava mai per le battutacce. Andava avanti a testa alta. Sapeva di valere.
Fu così che molti a Udine cominciarono a non sopportare quella famiglia troppo perfetta. Come si permetteva quel “negro” di frequentare una scuola friulana esclusiva? Dovevano dargli una lezione. E poi era troppo di sinistra. E così Giacomo pagò quell’odio strisciante. Due compagni di classe lo attirarono con una scusa in un capanno e lì giù botte e coltellate. Daniel P. (14 anni) e Andrea S. (16 anni) volevano dare una lezione a un diverso. E la lezione furono 63 coltellate che lasciarono Giacomo in un lago di sangue. Era il 1985.
L’Italia dell’apartheid
In seguito arrivò il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Era già da parecchi anni che giovani africani venivano usati dai caporali per la raccolta dei pomodori. Erano di fatto schiavi, pagati una miseria, per un lavoro faticoso ed estenuante. I ragazzi dormivano in baracche fatiscenti e anche se non c’era spazio per nulla, loro cercavano comunque di trovare un posticino per i loro sogni e il loro futuro che prima o poi sarebbe decollato. Stringevano i denti, “non sarà per sempre”. Lo deve aver pensato anche Jerry Maslo, un sudafricano scappato dall’apartheid. Jerry aveva tanti sogni. Soprattutto quello di poter camminare libero per le strade del suo paese, senza che nessuno gli dicesse dove poteva o non poteva passare. Sognava la fine dell’apartheid. Non mancava molto. Nelson Mandela aveva resistito così tanto in carcere anche per lui. Jerry lo sapeva, ci sperava.
Ma il giovane sudafricano non vide mai la fine del regime di segregazione razziale perché fu ucciso da chi odiava il colore della sua pelle. Non era il Sudafrica dell’apartheid, era l’Italia dell’apartheid. Quattro persone, con delle calze di nylon sulla testa, fecero irruzione nelle baracche dove dormivano gli africani e cominciarono quella mattanza insensata. Si impossessarono anche di due spiccioli. Ma non erano i soldi il motivo dell’incursione. Il motivo era lo stesso degli assassini di Giacomo Valent: dare una lezione al diverso. L’assassinio di Jerry Maslo fece capire all’Italia che il razzismo non era solo quello degli altri.
L’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Si parlò tanto di razzismo in quel 1989. Lo stesso grido di dolore, che oggi accompagna la morte di Emmanuel Chidi Namdi, accompagnò la salma di Jerry Maslo. Il funerale fu trasmesso in tv. L’Italia pianse, più per se stessa che per Jerry. Era stato un colpo scoprirsi razzista.
A quello di Jerry Maslo seguirono altri omicidi. Abdul Salam Guibre, detto Abba, un ragazzo italiano, una seconda generazione, originario del Burkina Faso preso a sprangate a Milano perché aveva rubato un pacco di biscotti. Lenuca Carolea, Menji Cloptar, Eva Cloptara, Danchiu Caldaran, bambini rom morti in un rogo a Livorno. Samb Modou e Diop Mor, uccisi a Firenze da un simpatizzante di Casa Pound . E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica? Torturato non a Raqqa, ma a Parma?
Ed ecco che improvvisamente ripenso alle parole sentite in uno spettacolo teatrale. In scena Mohamed Ba, attore e mediatore culturale senegalese. Mohamed il 31 maggio 2009 fu pugnalato mentre aspettava l’autobus a Milano. Un uomo gli si era avvicinato dicendo: “Qui c’è qualcosa che non va”. Poi arrivò quella pugnalata allo stomaco. Mohamed Ba è vivo per miracolo. Non fu soccorso subito. La gente non si fermò ad aiutarlo. L’odio era nella mano che lo aveva pugnalato, ma anche nello sguardo indifferente di chi non lo aveva soccorso mentre si stava dissanguando.
Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi molto simili ai nostri. Ed è proprio l’indifferenza per questo odio, che viene sparso ogni giorno da giornali, tv e leader politici, che uccide e tortura. Ci siamo abituati ai titoli razzisti e urlati dei mezzi d’informazione, alle battute politicamente scorrette e agli articoli “perbene” scritti da persone “insospettabili” che parlano di civiltà superiori, di occidente moderno contro selvaggi di diversa provenienza. E siamo indifferenti verso la storia di questa Italia che si è formata e costruita sul razzismo e sul solco che ha tracciato sulla pelle del diverso.
Dopo l’unità d’Italia si dovevano fare gli italiani, quante volte ce lo hanno detto a scuola? Nel 1861 gli italiani, di fatto, non esistevano. Esistevano i lombardi, i siciliani, i piemontesi, i toscani. L’Italia era pura astrazione. Per questo si cominciò a sottolineare l’idea di un italiano bianco ed europeo. Diverso dal suo meridione per prima cosa. Quindi prima si colonizzò il sud Italia, poi si colonizzò l’Africa per rimarcare questa unicità e diversità italiana. E il nero (ma anche il meridionale) divenne, di fatto, quello a cui l’Italia si doveva opporre.
Una giovane studiosa, Marta Villa, in un suo saggio (contenuto in Costruire una nazione) ricorda un episodio di goliardia tutta maschile legato all’impresa africana. In Calabria un bracciante disoccupato del luogo fu oggetto di uno scherzo a dir poco crudele. Il poveretto aveva il naso schiacciato, la bocca larga, la fronte bassa e un lungo mento che lo faceva somigliare all’imperatore d’Etiopia, contro cui l’Italia di Mussolini aveva non solo scatenato una guerra tra le più assurde del novecento, ma anche una campagna razzista allucinante. Il bracciante fu fatto ubriacare da alcuni abitanti del paese. Poi gli fu impiastricciata la faccia di nerofumo per farlo assomigliare ancora di più a un africano. Infine fu avvolto in un lenzuolo bianco e fu fatto montare su un asino. Così conciato venne portato in giro per il paese, che sfogò la sua violenza su di lui con sputi e cattiverie di ogni genere.
L’Africa, o almeno l’idea di un’Africa da conquistare e sottomettere, era “un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così incorporare finalmente l’immagine di una identità italiana condivisa”. I riferimenti alla violenza contro l’altro si ritrovano spesso nelle canzoni fasciste della conquista dell’Etiopia. In Stornelli neri viene detto: “Se l’abissino è nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!”. In Povero Selassié, invece, i camerati cantano: “Non piangere, mia cara, stringendomi sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!”.
In una canzone per bambini, Topolino va in Abissinia, c’è un Topolino fomentatissimo che vuol menare le mani e uccidere tutti. Imbrattare le sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita impunemente. Nella canzone Topolino dichiara candidamente che “appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus non gli basta. Topolino vuole massacrare tutti. E ha un motivo ben preciso, che spiega ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma sua madre non è l’unica ad avere bisogno di pelli. Topolino infatti aggiunge: “A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con quei cioccolatini”.
Topolino va in Abissinia, una canzone per bambini....
La macchina del razzismo
Gli omicidi a sfondo razziale in Italia non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo che non è stato mai sradicato. Sono atti quasi rituali, che si ripetono uguali a se stessi nel tempo, una rottura del quotidiano che sfoga su un elemento percepito come altro le frustrazioni di una società in crisi. Ecco perché il colonialismo e l’antisemitismo in Italia non sono fatti secondari, incidenti di percorso della nazione. Come ha detto Tatiana Petrovich Njegosh in Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia (in Parlare di razza, Ombre Corte), sono di fatto “eventi cruciali nella costruzione dell’identità nazionale italiana”.
Paola Tabet lo aveva già perfettamente spiegato nella prefazione di un volume fondamentale per capire il razzismo in Italia, La pelle giusta. L’antropologa aveva raccolto dei temi di bambini delle elementari dal titolo “Se i miei genitori fossero neri”. In questi temi i bambini scrivono cose come “se i miei genitori fossero neri li metterei in lavatrice con Dasch, Dasch Ultra, Omino Bianco, Atlas, Ace detersivo, Ava, Dixan 2000, Coccolino, Aiax così sarei sicuro che ritornerebbero normali”. I bambini sono razzisti allora? No, certamente. Ma hanno respirato un’aria tossica che considera una pelle giusta e l’altra sbagliata.
Per Paola Tabet il dispositivo xenofobo è “come un motore di un’automobile” che “può essere spento, può essere in folle, andare a cinquemila giri. Ma anche spento, è un insieme coordinato. Il sistema di pensiero razzista, che fa parte della cultura della nostra società, è come questo motore, costruito, messo a punto e non sempre in moto né spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento buono, in un momento di crisi, partire”.
Ed è ripartito a Fermo, città che già nel 2011 aveva visto l’aggressione di alcuni somali presi di mira da un commando squadrista. Occorre fermare quel ronzio di cui parla Paola Tabet. Un ronzio fatto di mezzi d’informazione che flirtano con il razzismo, di leader politici che incitano all’odio per una manciata di voti, di benpensanti che pensano male abbracciando apocalittici scontri di civiltà. Dobbiamo fermare quel ronzio. Perché l’Italia merita di vivere in armonia abbracciando tutti i suoi colori.
Il senso dell’onnipotenza
Dagli Usa a Fermo. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza
di Alessandro Portelli (il manifesto, 08.07.2016)
Chissà se in uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà “Devils and Dust”: “ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di sopravvivere - la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere....”E’ la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle crossoads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto intorno... E’ l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati).
Era “visibilmente nervoso” e spaventato il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro.
Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso - condonato, se non sotterraneamente condiviso, nella cultura delle istituzioni - che le persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling in a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo).
E infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico” compreso) che chiamare “orango” una donna nera (l’ex ministro Cécile Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere.
Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica.
E se il marito della donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza.
In Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di ricordarci che “Black lives matter”, le vita nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità - fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere.
Quei due libri in attesa di una sacra sentenza
Il processo ai giornalisti in Vaticano ricorda i tribunali sovietici
di Ezio Mauro (la Repubblica, 06.07.2016)
DA una parte la croce, incastonata nel legno che regge gli scranni della Corte. Dall’altra il busto severo di Pio XI, “professore di sacra eloquenza”, che sorveglia l’aula. Sul soffitto, il simbolo sacro delle chiavi di Pietro che normalmente aprono il regno dei cieli, ma oggi possono rinserrare anche la porta del carcere vaticano, perché qui, nel Tribunale della Santa Sede, si stanno celebrando gli ultimi atti del processo Vatileaks per la fuga di notizie riservate dai sacri palazzi.
Sulla panca degli imputati che ha sullo schienale un cordolo in rilievo, in modo che nessuno possa appoggiarsi ma tutti rimangano protesi verso la Corte, siedono due funzionari vaticani (monsignor Lucio Vallejo Balda, segretario della commissione nominata da Papa Francesco per l’indagine sulle finanze vaticane, il suo collaboratore Nicola Maio) e una donna, Francesca Immacolata Chaouqui, membro anche lei della commissione.
Nuzzi e Fittipaldi sono accusati del reato di «associazione criminale» per la rivelazione di notizie e documenti che riguardano interessi fondamentali dello Stato. Con loro, imputati di «concorso» nella divulgazione di documenti, due giornalisti, Emiliano Fittipaldi dell’Espresso e Gianluigi Nuzzi, conduttore televisivo. Ma sarebbe più giusto dire che sul banco degli imputati, nella grande sala al pianterreno del Tribunale, ci sono due libri, portati alla sbarra in mezzo all’Europa malandata e all’Occidente distratto del 2016, anno terzo dell’era Bergoglio.
Quei due libri, frutto di due separate inchieste giornalistiche, hanno in realtà molto poco a che fare con quelli che nelle democrazie vengono comunemente considerati gli «interessi fondamentali» dello Stato. Sia Via Crucis di Nuzzi che Avarizia di Fittipaldi riguardano invece la gestione disinvolta e per nulla trasparente dei fondi del Vaticano e degli istituti collegati alla Santa Sede, dai 70-80 milioni annui dell’obolo di San Pietro che finiscono ai poveri solo in minima parte, secondo la Commissione europea, alla fondazione Bambin Gesù che spende quasi mezzo milione di euro non per l’ospedale infantile ma per ristrutturare l’attico del cardinal Bertone, allo Ior che non dichiara a chi appartenevano quei quattromila conti che sono stati chiusi, e ha ancora oggi misteriosi laici intestatari dei suoi conti, al mercato delle case dei cardinali e all’immensa proprietà immobiliare della Santa Sede, al prezzo della cause di beatificazione dei santi, che arriva anche a 500mila euro per ogni anima venerabile canonizzata. Uno scandalo? Certo. Una materia che per la Curia doveva rimanere coperta, secondo quel culto del segreto avviato in Vaticano da Bonifacio VIII? Probabile. Ma cosa c’entrano la Patria e l’interesse nazionale con la denuncia del malgoverno delle sacre finanze?
In realtà due terrori congiunti pesano su San Pietro da quando sulla cupola della basilica, dove una volta nei mosaici s’innalzava immacolata la fenice, vola alto il corvo. La prima paura riguarda la dimensione dei guai economici della Santa Sede, strettamente legati alla gestione oscura di troppi interessi. La seconda paura è che la mancanza di trasparenza su questa materia favorisca un gioco incrociato di ricatti, vendette e avvertimenti, diventando strumento di lotte di potere interne, amplificate dal clamore profano che gonfia ogni rivelazione all’esterno, rimandandola ingigantita dentro i sacri palazzi: soprattutto in un momento in cui l’opera di rinnovamento di Papa Francesco incontra forti resistenze nella Chiesa. Quando La Curia al completo gli si è presentata davanti per gli auguri di Natale, il 23 dicembre di due anni fa, Francesco ha dato un posto d’onore a queste due “malattie” nelle 15 piaghe che affliggono la Chiesa: il «terrorismo delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi» che trasforma gli uomini in «seminatori di zizzania, simili a Satana» e l’accumulo di beni materiali per profitto mondano, «perché il sudario non ha tasche».
Bergoglio sa che nel suo mandato in conclave c’è il recupero del ruolo della Chiesa consumato attraverso gli scandali, i peccati contro il sesto e il settimo comandamento, la rete di ricatti che da tutto questo è cresciuta avviluppando il visibile e insidiando l’invisibile della sacralità vaticana fino a deturparne il volto, come ha denunciato lo stesso Ratzinger. Anche la rinuncia di Benedetto XVI è infatti un obbligo testamentario, perché denuncia la fragilità papale davanti al peso di una responsabilità di governo diventata intollerabile, quando manca «il vigore del corpo e dell’animo ».
Il nuovo Papa è dunque consapevole fin dall’apparizione sulla Loggia di essere stato eletto in un rovesciamento geografico del potere curiale, quasi a dire basta agli intrighi e ai ricatti italiani del Palazzo, tanto che appena quattro mesi dopo la sua elezione cerca di frenare il volo dei corvi e i piani dei loro addestratori. Lo fa mettendo mano al codice penale vaticano, in particolare al paragrafo sui “Delitti contro la Patria”, aggiungendo un nuovo articolo, il 116 bis. «Chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni - dice la norma - Se la condotta ha avuto a oggetto notizie o documenti concernenti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede o dello Stato, si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni».
Quando escono i due libri, l’indagine della Gendarmeria scopre una «squadra operativa» che si è formata proprio nella Prefettura per gli Affari Economici, con l’obiettivo di raccogliere materiali riservati e diffonderli all’estero. Il Promotore di Giustizia, cioè il Pubblico Ministero Vaticano, individua in Balda, Chaouqui e Maio il «sodalizio criminale organizzato col presupposto di una missione da seguire per realizzare la vera volontà del Papa», attraverso la raccolta e la diffusione di notizie e documenti sensibili. Con loro, finiscono a giudizio i due giornalisti, prima con l’ipotesi di minacce sui funzionari vaticani per avere i materiali, poi col sospetto di pressioni, infine semplicemente - e incredibilmente - soltanto per aver manifestato un interesse professionale alle notizie che dal Vaticano venivano fatte filtrare. Non potendo bloccare i libri (che hanno autori ed editori italiani, e sono tutelati e soggetti alle leggi italiane) si accusano i loro due autori di «concorso» con i tre principali imputati, accusati di «associazione criminale».
Poiché in Vaticano soffia lo Spirito santo, ma non esiste la Costituzione, non c’è nemmeno l’articolo 21 che nella nostra Carta tutela la libertà di espressione dei cittadini, in quanto «tutti hanno diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con parole, scritti e ogni altro mezzo di diffusione», mentre «la stampa non può essere oggetto di autorizzazione o censura ». Nel tribunale vaticano, così, lunedì i Promotori di Giustizia Gian Pietro Milano e Roberto Zannotti hanno potuto accusare Nuzzi e Fittipaldi di concorso morale nella divulgazione per «l’impulso psicologico » che con la loro «presenza e disponibilità » ha «contribuito a rafforzare il proposito della rivelazione delle notizie» nei funzionari vaticani. I Promotori hanno precisato che «chi riceve notizie normalmente non è punibile». Ma hanno aggiunto: «Lo diventa se rafforza il proposito di chi le rivela. I giornalisti sono stati una ragione essenziale per divulgare le notizie». Quindi siamo davanti a questo paradosso: due giornalisti sono portati in Tribunale perché con la loro semplice «presenza e disponibilità » hanno rafforzato la decisione di divulgare le carte da parte di un «sodalizio criminale» già organizzato a tal fine in Vaticano; la pura presenza diventa una colpa; la disponibilità a raccogliere notizie un comportamento da censurare. E il mestiere di giornalista finisce sotto accusa.
Quasi una vendetta per il passato, e un monito per il futuro: qui la libertà di stampa non esiste, fare giornalismo secondo le regole e i comandamenti di ogni democrazia dietro le mura leonine può diventare un reato. E infatti mentre per Fittipaldi il Promotore ha proposto l’assoluzione per insufficienza di prove, per Nuzzi ha chiesto la condanna a un anno, con sospensione condizionale. Per Chaouqui 3 anni e nove mesi, per Balda tre anni e un mese, per Maio un anno e nove mesi.
Così finisce lo strano processo in cui gli imputati non hanno potuto avere copia del fascicolo che li riguarda, per la difesa hanno dovuto obbligatoriamente scegliere due nomi nell’elenco presso la Santa Sede degli avvocati rotali, mentre monsignor Balda ha negato in aula di aver ricevuto qualsiasi minaccia dai giornalisti, nessuno ha presentato una querela per affermazioni non veritiere nei due libri, le fonti erano istituzionali. È l’ultimo paradosso di un processo in uno Stato straniero che vede coinvolti tutti cittadini italiani (giudici, Promotori e avvocati compresi) salvo il monsignore segretario della Prefettura per gli Affari Economici. Tanto che Nuzzi ha chiesto al premier Renzi «perché il governo italiano tace, visto che sono intervenute organizzazioni internazionali a tutela della libertà di stampa».
Resta una domanda: e il Papa? Francesco ha parlato due volte di Vatileaks. La prima all’Angelus dell’8 novembre 2015, festa di San Goffredo: «So che molti di voi sono turbati dalle notizie che riguardano documenti riservati della Santa Sede sottratti e pubblicati. Voglio dirvi che rubare questi documenti è un reato, è un atto deplorevole che non aiuta. E voglio assicurarvi che questo fatto non mi distoglie dal lavoro di riforma che sto portando avanti». La seconda il 30 novembre 2015, Sant’Andrea, rispondendo ai giornalisti: «La stampa libera laica e confessionale ma professionale (perché le notizie non devono essere manipolate) per me è importante, perché la denuncia delle ingiustizie e della corruzione è un bel lavoro. Ma la stampa deve dire tutto, senza cadere nei tre peccati più comuni: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione».
In questo caso non c’è calunnia, non c’è diffamazione, non c’è disinformazione. C’è una verità scomoda, che qualcuno dal Vaticano ha voluto far conoscere all’esterno, e che i giornalisti hanno ovviamente pubblicato, verificata la fonte. C’è la fattispecie surreale dell’«impulso psicologico », trasformata in un atto d’accusa. È bastato questo al direttore di Radio Maria, Padre Livio Fanzaga, per condannare con grande anticipo Nuzzi e Fittipaldi, il 6 novembre 2015: «Quelli che mi scandalizzano sono i giuda, i giornalisti dalla lingua e dalla penna biforcuta mi fanno nauseare. Mi fa fatica pregare per loro, perché io li impiccherei, quasi quasi».
Alla fine, restano due libri sugli scranni di un Tribunale, come nel processo sovietico ai romanzi di Sinjavsky e Daniel nel 1966, quando gli imputati provarono invano a spiegare in aula che a un libro non si possono applicare categorie giuridiche. Due libri, che aspettano ormai la sacra sentenza.
I volumi di Fittipaldi e Nuzzi sono frutto di inchieste giornalistiche: nessuno ha presentato querela per affermazioni non veritiere Poiché in Vaticano soffia lo Spirito santo ma non esiste la Costituzione non c’è nemmeno l’articolo 21 che tutela la libertà di espressione dei cittadini.
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 22.06.2016)
Come si può dimenticare la donna di Roma città aperta , il film di Roberto Rossellini, che corre corre, insegue il camion su cui i nazisti stanno portando via il suo uomo, grida «Francesco, Francesco» e finisce a terra falciata dalle mitragliatrici? Pina, la popolana, e Anna Magnani, l’attrice, sono tutt’uno in quella scena tragica che settant’anni dopo seguita a far male al cuore. La ricorda il bel libro Donne della Repubblica edito dal Mulino, opera di più autrici, Claudia Galimberti, Cristiana di San Marzano, Paola Cioni, Elena Di Caro, Chiara Valentini, Maria Serena Palieri, Francesca Sancin, Lia Levi, Federica Tagliaventi, Elena Doni. Qualcuna di loro, il vecchio gruppo di «Controparola», ha scritto nel libro più di un saggio su personaggi che hanno lasciato un segno nel Novecento: donne le autrici, donne le protagoniste, politiche, scrittrici, attrici e anche donne al centro di fatti che ebbero un rilievo nel far progredire il bigotto costume dell’epoca.
Come scrive Dacia Maraini nell’introduzione: «Il nostro sembra un Paese che prova sollievo nel dimenticare il passato, quasi ci fosse da vergognarsi, soprattutto quando si tratta di stabilire dei punti di riferimento etici, socialmente riconoscibili, che possano fare da modello per le prossime generazioni».
La memoria smarrita. Le donne di questi ritratti o, meglio, racconti verità, si sono impegnate nel nome della dignità, della giustizia, dell’eguaglianza e rappresentano il simbolo dei momenti alti del Paese, la minoritaria lotta clandestina contro il fascismo, la Resistenza partigiana, la Costituzione del ’47. Si sono poi impegnate per creare la tessitura necessaria alle leggi che hanno emancipato la comunità, i diritti di cittadinanza, il divorzio, l’eguaglianza non ancora del tutto raggiunta tra uomo e donna. Il libro serve anche a far capire come la lotta per la libertà e per il progresso sociale e civile non debbano mai avere sosta. Ci si immalinconisce se si fa un paragone tra la forza, la cultura, il coraggio di donne come Ada Gobetti, Camilla Ravera, Nilde Iotti, Tina Anselmi e le ministrine di oggi, insipide ma arroganti, attente, sembra, soprattutto al colore del loro tailleur.
La carrellata di questo libro è lunga e appassionata. Da Anna Magnani (Lia Levi), sciantosa, pescivendola e poi grande interprete - vinse nel 1955 l’Oscar per La rosa tatuata - donna ribelle, attrice di se stessa, a Teresa Noce, uno dei ritratti più belli del libro (Paola Cioni). Sembra una storia ottocentesca, la sua: la povertà inimmaginabile, la senza scuola che ama la cultura e sa conquistarla con lo studio appassionato, l’indipendenza di giudizio, la testardaggine, la durezza, la coerenza, la coscienza che per la sinistra l’unità è essenziale. La bambina che nasce in un miserrimo quartiere di Torino all’inizio del secolo passato conosce via via Gramsci, Togliatti, Terracini, è in prima linea nella lotta antifascista, partecipa alla Guerra civile spagnola, è fra i Francs-tireurs et Partisans della Resistenza francese e con la Liberazione approda al Comitato centrale e alla direzione del Pci che anni dopo la espelle. (Era la moglie di Luigi Longo, il vicesegretario, che si è risposato a San Marino con l’inganno ed è lei, divorziata a sua insaputa, a venire accusata dai burocrati del partito di aver violato le regole). Completamente emarginata, scrive libri. Fino alla morte, sola.
Un altro bel ritratto è quello di Tina Anselmi (Eliana Di Caro ed Elena Doni). Veneta di Castelfranco, il padre socialista, decide il suo destino nel 1944 quando - aveva 17 anni - fu obbligata dai nazifascisti ad assistere con i compagni di scuola all’impiccagione agli alberi in un viale del paese di giovani partigiani catturati sul Grappa. Diventa un’animosa staffetta partigiana. Poi si laurea in Lettere all’Università Cattolica, giovanissima dc, i suoi maestri sono De Gasperi, Dossetti, Moro, Zaccagnini. Deputata nel ’68, ministra del Lavoro nel ’76 (è sua la legge sull’eguaglianza di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), ministra della Sanità nel ’78, la sua grande avventura politica è la presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2, associazione segreta di cui hanno fatto parte ministri, capi dei Servizi segreti, generali dei Carabinieri e della Finanza, banchieri, magistrati, direttori di giornali e della Rai, parlamentari, esclusi i comunisti, i radicali, l’allora Pdup: i giudici istruttori di Milano sono arrivati a Gelli indagando sulla mafia in Sicilia e sull’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli. Dall’81 all ’84 Tina Anselmi regge la presidenza con rigore, la sua relazione finale, ineccepibile, rivela la presenza di uno Stato ombra che ha operato contro la legge e la Costituzione e rappresenta ancora «un pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico».
Viene almeno ringraziata la donna intemerata che sa reggere quella Commissione parlamentare? È messa invece da parte anche dal suo partito che le toglie il collegio dove è stata eletta da decenni. Viene insultata da più parti, vilipesa, offesa con un astio che sembra nascere dalle viscere più oscure. Si minimizza. La P2? Un normale comitato d’affari, «un club di gentiluomini» (Berlusconi), un falso complotto, una caccia alle streghe. (Anche se dall’inchiesta emergono connessioni con le stragi che hanno dilaniato il Paese e con le irrisolte questioni che hanno messo in pericolo la Repubblica democratica, da piazza Fontana all’Italicus al Banco Ambrosiano). Ultima a infierire, nel 2004, è una biografia indecente e gonfia d’odio a lei dedicata nel dizionario Italiane , tre volumetti editi dalla Presidenza del Consiglio e dall’allora ministra delle Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo. Ne hanno viste tante queste donne del Novecento. Mai assenti, mai indifferenti, sempre partecipi. Spesso hanno rischiato la vita. Le autrici le raccontano con amabilità, con rigore, senza retorica. Forse con un po’ di invidia.
Donne costituenti e diritti
di Eliana Di Caro (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.06.2016)
Il 10 marzo 1946 le donne italiane compiono un gesto rivoluzionario. È domenica, si mettono in fila accanto a mariti, fratelli o sconosciuti per prendere una scheda sulla quale tracceranno una X, esercitando per la prima volta lo stesso diritto fondamentale dei vicini di coda. Non c’è più distinzione di sesso nel partecipare alla cosa pubblica, attraverso il più classico degli strumenti: il voto.
Meno di tre mesi dopo, il 2 giugno, vanno ancora alle urne per l’appuntamento che abbiamo tutti appena festeggiato e che Patrizia Gabrielli, docente di Storia contemporanea e di genere all’Università di Siena-Arezzo, rievoca in Il primo voto. Lo fa marcando il salto di qualità, il passaggio dalle amministrative alle politiche e, soprattutto, dalla monarchia alla Repubblica. Una rivoluzione nella rivoluzione.
L’autrice ricorda tutto questo facendo rivivere quell’atmosfera, descrivendo l’approdo delle 21 costituenti al più alto livello della politica accanto a 535 uomini che le guardavano con un certo paternalismo. Preziosi sono i resoconti che calano il lettore nel dibattito di allora e dai quali emerge la tenacia delle protagoniste, destinate a scrivere la storia dei diritti delle donne.
Maria Federici, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Lina Merlin, Teresa Noce, per nominarne alcune, sono state determinanti nel disegnare l’architrave costituzionale che sancisce l’equità e la pari dignità uomo-donna. Basti pensare alla specificazione “di sesso” aggiunta nell’articolo 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua...»), che si deve alla cocciutaggine di Lina Merlin. O alla legge sulla maternità, una delle più avanzate del mondo, che porta la firma di Teresa Noce. O alla lunga e animata discussione dell’Assemblea sulla famiglia, di cui si definiscono i principî cardine, poi sviluppati nella riforma del 1975 per la quale fu in prima linea Nilde Iotti.
Proprio su quest’ultimo tema, sottolinea l’autrice, le divergenze furono forti tra i costituenti e all’interno della stessa «pattuglia femminile»: la famiglia rimane centrale, nel dopoguerra, indipendentemente dai colori politici.
Il concetto dell’indissolubilità del matrimonio, in un Paese come l’Italia, non sembrava superabile e invece per soli tre voti (complice una sospetta assenza di 32 democristiani) ne fu votata l’estromissione dalla Carta, aprendo la strada al percorso per il divorzio che nel 1970 adeguerà la nostra legislazione a quella dei maggiori Paesi occidentali.
Ma anche quando comuniste, cattoliche o socialiste erano in disaccordo, prevaleva la tensione verso una sintesi, un obiettivo comune. Fu così per «diritto al lavoro e accesso alle professioni, parità salariale e garanzie alla lavoratrice madre», scrive Gabrielli nel sottolineare l’approccio delle costituenti: «ribadirono concordi che non si trattava di definire norme di tutela, ispiratrici dell’assistenzialismo fascista, quanto di fondare un nuovo diritto».
Utili, nella seconda parte del volume, i brevi profili biografici di ciascuna di queste donne oggi così poco conosciute (14 di loro laureate, altre operaie e impiegate e dunque direttamente conoscitrici di molti problemi e iniquità) cui tutti siamo debitori.
Il paese spaesato che ancora s’interroga sulla sua Repubblica
Da una società sofferente, capace di sollevarsi e avviare uno sviluppo straordinario a un quotidiano in cui tante energie sono smarrite
di Guido Crainz (la Repubblica, 02.06.2016)
Con quali domande guardare ai settant’anni della nostra Repubblica? Con quali convinzioni, con quali dubbi? La sua conquista era apparsa a Piero Calamandrei «un miracolo della ragione» e Ignazio Silone aveva aggiunto: alle sue origini non c’è nessun vate o retore ma «il costume dei cittadini che l’ha voluta». «Una creatura povera, assistita da parenti poveri», per dirla con Corrado Alvaro, ma pervasa dalla volontà di risorgere. All’indomani della Liberazione Milano era in rovine, ha ricordato Carlo Levi, ma «le strade erano piene di una folla esuberante, curiosa e felice. Andavano a comizi, a riunioni, a passeggio, chissà dove».
Era anche profondamente divisa, quella Italia, e per la monarchia
votò molta parte di un Mezzogiorno che ancora a Levi era apparso «un altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato». Da qui siamo partiti, in questo quadro abbiamo costruito democrazia, ed essa non era un concetto del tutto scontato allora né per il Partito comunista né per la Chiesa di Pio XII.
Come si è passati dalla società sofferente e vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle macerie e protagonista poi di uno sviluppo straordinario, all’Italia di oggi? Spesso spaesata, confusa, incerta di se stessa. Come si è passati da un sistema dei partiti cui si affidava sostanzialmente con fiducia un Paese piagato ad un degradare che oggi ci appare quasi senza fine? Davvero in questo percorso tutte le nostre energie e le nostre “passioni di democrazia” sono andate disperse o smarrite?
Abbiamo attraversato tre mondi, in questi settant’anni: da quello largamente rurale del dopoguerra alla stagione dell’Italia industriale e sino agli scenari che dagli anni ottanta giungono sino ad oggi. Abbiamo attraversato anche climi politici e culturali molto diversi, passando presto dalla fase più aspra della “guerra fredda” alla felice stagione del “miracolo economico”.
Mutò volto allora l’Italia e si consolidò il suo esser Nazione (lo vedemmo nel primo centenario dell’Unità): il diffuso ottimismo fece sottovalutare però i moniti di chi - da Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi - avvertiva l’urgenza di porre mano a squilibri vecchi e nuovi del Paese, e di riformare profondamente le istituzioni. Avemmo così una trasformazione non governata, uno sviluppo senza guida, e anche per questo le effervescenze degli anni sessanta furono più forti che altrove.
Nel decennio successivo convissero poi reali processi riformatori e la cupezza feroce del terrorismo: dalla “strategia della tensione” alimentata dal neofascismo al terrorismo di sinistra degli “anni di piombo”. La Repubblica fu messa davvero alla prova in quegli anni e seppe rispondere: lo vedemmo a Milano, ai commossi funerali per le vittime di piazza Fontana, e a Brescia all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo vedemmo nei 55 lunghissimi giorni del rapimento di Aldo Moro e poi a Genova, ai funerali dell’operaio Guido Rossa.
E lo vedemmo nella mobilitazione civile di Bologna dopo la strage alla Stazione. Vi è lì, fra anni settanta e ottanta, un crinale decisivo: storici di differente ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come “funerali della Repubblica”, annuncio che una sua fase era terminata. E si riveda l’addio di popolo ad Enrico Berlinguer, sei anni dopo: esso ci appare oggi l’estremo saluto non solo a un leader ma anche ai grandi partiti del Novecento.
Inizia a mutare davvero il Paese allora, mentre il crollo sindacale alla Fiat annuncia il declinare dell’Italia industriale. Si scorgono al tempo stesso i primi segni di una corrosione che non è riconducibile solo ai Sindona e ai Gelli ma è rivelata da fenomeni molto più pervasivi.
Nel 1980 su queste pagine Italo Calvino proponeva uno splendido Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti («c’era un paese che si reggeva sull’illecito») mentre Massimo Riva vedeva profilarsi «il Fantasma della Seconda Repubblica »: ogni giorno che passa, scriveva, si attenua la speranza che possano farla nascere politici sagaci e democratici e «cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli ».
Parole inascoltate, nei “dorati anni ottanta”: negli affascinanti scenari del mondo post-industriale, nel progressivo scomporsi di classi e ceti sociali, nel dilagare di pulsioni al successo e all’arricchimento senza regole, contrastate sempre più debolmente da anticorpi civili e da culture solidaristiche. La modernità sembra divaricarsi ora dal progresso e dalla crescita dei diritti collettivi, e sembra identificarsi con l’euforia sociale e con l’affermazione individuale.
Inizia allora anche il declinare dei partiti basati sulla partecipazione e l’identità, nel primo profilarsi di “partiti personali” (a cominciare dal Psi di Craxi) e di quell’intreccio fra politica- spettacolo e tv che trasforma la comunità dei cittadini in una platea di telespettatori. Si forma sempre allora, nella crescente incapacità di governo della politica, quel colossale debito pubblico che ancora grava su di noi come un macigno: non solo economico ma etico, perché prende corpo così un Paese che spende oltre le proprie possibilità e lascia il conto da pagare ai figli. Un Paese che non sa prender atto della fine dell’“età dell’oro” dell’Occidente e non sa ripensare il welfare, elemento fondativo delle democrazie moderne.
Crollerà davvero il vecchio sistema dei partiti, nella bufera di Tangentopoli, e verrà davvero l’“avventuriero”, per dirla con Riva: eppure ci illudemmo che, liberata dal precedente ceto politico, una salvifica società civile avrebbe conquistato un luminoso avvenire. Dell’ultimo, quasi disperato Pasolini ricordammo le riflessioni sul degradare del Palazzo e rimuovemmo invece quelle sulla mutazione antropologica del Paese. Mancammo allora l’occasione per una rifondazione della politica capace di ridare fiducia nella democrazia, e da tempo abbiamo superato il livello di guardia: ce lo ricordano ogni giorno il crollare della partecipazione al voto e il dilagare di una corruzione che non ha neppure l’alibi di “ragioni politiche”.
C’è davvero molto su cui interrogarsi, a settant’anni da quel 2 giugno, e viene talora da chiedersi se siamo diventati davvero una Repubblica, nel senso più alto del termine. Così certo è stato ma vale anche per la Repubblica quel che Ernest Renan diceva della Nazione: non è mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”, una scelta da rinnovare ogni giorno. È forte la sensazione che da troppo tempo non rinnoviamo realmente quel plebiscito ed oggi esso ci appare sempre più necessario, e urgente.
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 02.06.2016)
LA festa del 2 Giugno non ha mai rappresentato motivo di scontro ideologico, nonostante le divergenze politiche profonde tra i protagonisti della nascita della Repubblica. Raccontano le cronache che i vincitori di quel referendum non volevano ostentare esagerazione nella vittoria «perché non volevano che questa suonasse offesa agli sconfitti » scrivono Daria Gabusi e Liviana Rocchi nel loro libro su Le feste della Repubblica.
Tutti gli italiani e le italiane, questa era la convinzione unanime, si erano fusi in un patto che era e doveva essere al di sopra di ogni forma istituzionale e che aveva il suo documento nell’unità del Paese, suggellato da una guerra anche fratricida. Tutti consapevoli che quel plebiscito di natalità era un atto di inizio non il testo della liquidazione del passato. E per questo, nei resoconti successivi alla vittoria della Repubblica nel referendum del 2 Giugno circolava addirittura un ossimoro per raccontare quegli eventi: pacata euforia; «l’inizio della nuova Italia era non nella baldoria, me nel silenzio, nella serietà e nella compostezza». Qualcuno si lamenta, scrisse Ignazio Silone, «per l’assenza di un vate in un momento così eccezionale della Storia italiana». La democrazia era nata senza vati e senza capi, senza parole roboanti che parlassero di “momento storico”, anche se quello era certamente un momento storico. Ma un atto di liberazione non roboante e pacato era per Silone «un atto di modernità», un vero atto di nascita, di festa, di letizia. E per sottolineare questa modernità di seria e corale responsabilità Piero Calamandrei parlò di un «miracolo della ragione».
Il “miracolo della ragione” era manifestato proprio dalla forza dei numeri con cui venne proclamata la Repubblica. Il 10 giugno ne diedero lettura davanti ai giudici togati, racconta l’allora ministro degli Interni, Romita: la comunicazione alla Corte di Cassazione con i togati in piedi era semplicemente questa, «per la Repubblica 12.672.767 voti; per la Monarchia 10.688.905». Niente altro. Commenta Romita: «Una svolta veramente storica, la semplicità direi quasi la pudica modestia, era la più peculiare caratteristica della cerimonia ». I numeri soltanto, la ragione democratica per eccellenza, prendevano la scena; da soli bastavano. Dovevano bastare per dar legittimità di una differenza non davvero grande, eppure enorme.
Il patto che ne scaturì fu un patto di unione che andava ben oltre i due milioni di voti di distacco. Un patto che ha reso possibile settant’anni di vita civile. La Costituzione ha unito il Paese, e lo ha fatto nel rispetto delle differenze, molte e spesso radicali. Come una grammatica comune, ha consentito al pluralismo delle idee e dei progetti di essere leva di una dinamica libertà, di unire i diversi. È a questo del resto che le Costituzioni servono: a dare regole condivise da tutti perché ciascuno possa liberamente contribuire con le proprie idee e i propri interessi al governo della cosa pubblica, con la parola e il voto, con l’elezione dei rappresentanti e la formazione delle maggioranze.
L’impianto anti-retorico e di “pacata euforia” della Repubblica che celebrava se stessa con quel referendum era un inizio felice, un atto sia legale che pedagogico. Come a voler abituare gli italiani e le italiane a un succedersi di vittorie e sconfitte, ma sempre sentendo quel fatto fondamentale un bene di tutti, non di chi aveva vinto.
Per il modo come l’attuale campagna referendaria si sta svolgendo vi è da temere che la Costituzione che ne uscirà non abbia la stessa forza legittimante unitaria. Quale che sia l’esito. Come ha scritto Alfredo Reichlin su questo giornale qualche giorno fa, vi è da temere che la Costituzione sia vissuta, dai vincitori come dai vinti, come una norma di parte contro parte. Se resterà questa Costituzione come pure se passerà la sua revisione. In entrambi i casi l’esito di un referendum così aspro potrebbe essere questo - e questo è il più grande rischio che corre il Paese. Comunque finirà, i vinti non si sentiranno con molta probabilità parte della stessa impresa e i vincitori.
I padri costituenti decisero di distruggere le minute delle loro lunghe discussioni alla fine dei lavori dell’Assemblea costituente - perché sapevano che nell’atto volontario di oblio delle divisioni stava la condizione per cominciare e sentire la Carta come un patto di unità. Un gesto saggio. Come si può dimenticare una lotta a tratti furiosa nel linguaggio, combattuta per di più non ad armi pari poiché una parte ha già da ora più esposizione e più attenzione dell’altra? Come cementare un’unità nella diversità se la diversità è, da ora, vissuta come un problema? Una lotta così cruenta quando le ideologie non ci sono più a dividere è un fatto difficile da comprendere e spiegare. E tuttavia il rischio concreto sarà proprio quello di giungere, dopo settant’anni di unione, ad una Costituzione che divide ed è divisiva, sentita come bene di parte, di alcuni contro altri. Di questo dovremmo preoccuparci.
I tre anniversari del 2 giugno
di Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi
Da tempo contestiamo che il 2 giugno possa risolversi in una parata militare o poco più. Abbiamo, nel tempo, accentuato il connotato di anniversario fondamentale per la vita del Paese; in seguito, abbiamo collegato al 2 giugno il tema della Costituzione, dando luogo anche a manifestazioni molto partecipate, d’ intesa con la CGIL.
Quest’anno, è impossibile celebrare il 2 giugno senza ricordare che nel 2016 si concentrano ben tre anniversari: la Repubblica, il voto alle donne e la nascita della Costituente. Tre anniversari che imprimono un carattere particolarmente significativo ad una Festa che, per noi, ha sempre avuto un’importanza del tutto particolare. A fronte di un interrogativo che alcuni si sono posti, se il 2 giugno abbia rappresentato il punto di arrivo della crisi che portò il Paese fuori dal fascismo e dalla guerra, oppure il primo passo di un nuovo possibile cambiamento, ho personalmente ritenuto - sempre - che il tema fosse mal posto, perché in realtà, la vera fase conclusiva del periodo della dittatura fu l’8 settembre, che segnò anche l’inizio della fase di riscatto. Il 2 giugno fu il giorno della scelta decisiva, influenzata solo in parte dal comportamento dei Savoia: la scelta se restare ancorati ai modelli del periodo prefascista, oppure avviare con determinazione il cammino, magari non facile, verso una democrazia, in cui i cittadini assumessero finalmente il ruolo - chiave, attraverso la partecipazione.
Per chi ha partecipato alla Resistenza, una simile scelta non aveva alternative, perché in realtà ciò che si era voluto, tutti, era la fine della dittatura e la nascita di un sistema democratico, che andasse oltre, anche rispetto all’esperienza del periodo liberale.
Molti di noi, il 2 giugno 1946, non ebbero dubbi, sembrandoci impossibile non trarre le conseguenze logiche e necessarie dell’esperienza che avevamo vissuto e dei sogni che avevamo coltivato. Del resto, nelle famose ”aree libere”, quando vi fu la possibilità concreta di sperimentare la democrazia, talora in forma poco più che primitiva, la definizione a cui si pensò, fu quella di “repubblica partigiana”. La Repubblica fu, dunque, per molti, la speranza di un futuro diverso, nel quale non ci fosse più posto per qualsiasi forma di autoritarismo e tanto meno di “sudditanza” dovendo il popolo diventare, finalmente, il vero protagonista della scena politica.
Non a caso, del resto, nel 1946, si decise, finalmente, di riconoscere alle donne il diritto di votare e di essere elette; ed anche questo era frutto di un’aspirazione certo lontana nel tempo (i movimenti femministi risalgono alla fine dell’800 ed alla parte iniziale del ‘900), ma consolidata con l’irruzione delle donne sulla scena politica, negli anni della seconda guerra mondiale e soprattutto tra il 1943 e il 1945, con l’assunzione di inedite responsabilità e compiti, come staffette, come partigiane, come protagoniste della Resistenza non armata, infine come componenti dei “gruppi di difesa della donna”.
È nel 1946 che si concretizza quello che per molto tempo era stato il sogno impossibile e che ora, dopo la Resistenza, appariva come imprescindibile, al di là di ogni pregiudizio e di ogni timore. E non è un caso, che sempre nel 1946, e proprio a seguito del voto del 2 giugno, fu eletta l’Assemblea Costituente, si diede vita - cioè - al percorso che doveva creare le condizioni di vita e di rapporti politici e sociali (anch’essi sognati nella Resistenza e finalmente avviati alla realizzazione ) creando la struttura di quella che diventerà poi la nostra Costituzione, destinata a durare nel tempo.
Per tutto questo, oggi il 2 giugno non può essere festeggiato solo come l’anniversario di una scelta, pur decisiva, ma deve essere considerato nel contesto di tutti gli anniversari che si celebrano nel 2016, perché fra di essi vi è un legame strettissimo e indissolubile (Repubblica, voto alle donne, Costituente), riconducibile ad un’unica matrice, la Resistenza ed alla volontà di riscatto del popolo italiano.
Forse, nella mente dei vincitori del voto del 2 giugno, vi fu solo in parte questa consapevolezza complessiva; forse si coltivavano perfino speranze eccessive, al limite delle illusioni. Ma intanto il dado era tratto, con la forma di Stato, col riconoscimento del diritto universale di voto, con le basi gettate - con la Costituente - per una Costituzione radicalmente innovativa, che fosse di rottura netta col passato, ma anche di premessa ed impegno per un futuro socialmente, politicamente e democraticamente diverso.
Tutto questo significa, dunque, oggi, il 2 giugno; e come tale lo festeggeremo, anche se attraversiamo una fase non facile ed anche se è in atto uno scontro proprio sulla Costituzione. Ma siamo intenti a “celebrare” la ricorrenza, non tanto sulla base del ricordo storico, quanto e soprattutto sulla base della conoscenza e della riflessione: per capire meglio chi siamo e da dove veniamo e per guardare ad un futuro che potrà essere ancora incerto, ma non potrà mai prescindere dalle scelte di settant’anni fa e di ciò che hanno rappresentato e rappresentano tuttora nella vita e nei sentimenti del nostro Paese.
Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi
* ANPI, 31 Maggio 2016
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
Un miracolo della ragione
Una Repubblica destinata a durare nei secoli, secondo Calamandrei. Ma civismo, valori e ideali non si sono radicati
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.05.2016)
La repubblica italiana compie settanta anni il 2 giugno 2016. Il 9 giugno 1946, sette giorni dopo il referendum con il quale la maggioranza degli elettori italiani, uomini e donne, aveva deciso la fine della monarchia, Piero Calamandrei affermò: «Una Repubblica nata così è destinata a durare nei secoli». La nascita della repubblica in Italia appariva al grande giurista un «miracolo della ragione», il miracolo, cioè, di una «realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza sommossa e senza guerra civile nella pratica ordinaria della Costituzione».
Nonostante un ventennio di regime totalitario legittimato dalla monarchia, seguito da cinque anni di disastroso coinvolgimento dell’Italia in una guerra mondiale, con gli ultimi due anni insanguinati da una spietata guerra civile fra italiani politicamente divisi in due Stati nemici, alleati, su fronti opposti, con eserciti invasori che si combattevano ferocemente nella penisola coprendola di cadaveri e di rovine - il 2 giugno 1946 con il referendum istituzionale il popolo italiano attuò pacificamente una rivoluzione democratica. «Mai nella storia è avvenuto né mai ancora avverrà, che una Repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re», affermò Calamandrei.
La campagna elettorale fra i partiti fautori della repubblica o della monarchia suscitò una appassionata partecipazione popolare, ed ebbe toni accesi e minacciosi: con la scelta della repubblica ci sarebbero stati salti nel buio o dispotismo comunista; con la scelta della monarchia ci sarebbero stati colpi di Stato reazionari o insurrezioni armate. A fomentare la polemica sopravvenne il 9 maggio l’annuncio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto, con l’intento di favorire così la causa monarchica dissociandola dalle colpe del sovrano compromesso col fascismo. Tuttavia, la rottura della “tregua istituzionale” non fu drammatizzata dal governo dei partiti antifascisti presieduto da Alcide De Gasperi, e non mise in pericolo il pacifico svolgimento delle elezioni. Dalle province i prefetti comunicarono che le votazioni si erano svolte «nella massima calma e serenità». I commenti della stampa, sia repubblicana sia monarchica, lo confermarono: «Le votazioni si sono svolte nel più perfetto ordine e nella più perfetta legalità», scrisse il 4 giugno il giornale monarchico «Italia nuova».
Il referendum fu la più ampia votazione democratica fino allora attuata nella storia dell’Italia unita. 28.005.409 di elettori e di elettrici, pari al 67,1% della popolazione complessiva, si recarono alla urne per scegliere la forma di Stato e per eleggere i componenti dell’Assemblea costituente. Nelle ultime elezioni libere, che si erano svolte in Italia nel 1921, gli elettori, allora solo maschi, erano stati 11.477.210 (il 28,7% della popolazione). Inoltre, nel referendum del 2 giugno la percentuale dei votanti fu dell’89,1%, rispetto al 58,4 del 1921.
Le partecipazione elettorale, per le sue dimensioni, fu l’evento decisivo della pacifica rivoluzione democratica che diede vita allo Stato repubblicano. L’altro evento radicalmente innovativo fu la partecipazione al voto delle donne, alle quali per la prima volta nella storia italiana era riconosciuto il diritto elettorale attivo e passivo. Le donne votanti furono 1.216.241 in più degli uomini, smentendo così quanti avevano previsto, sperato o paventato, un ampio astensionismo delle elettrici. Furono 21 le donne elette all’Assemblea costituente, su un totale di 556 eletti. Prima del 2 giugno, le donne avevano già partecipato, fra marzo e aprile, alle elezioni amministrative in 5.722 comuni, dove il numero delle votanti (8.441.537) era stato già superiore al numero degli uomini (7.862.743). Più di 2000 donne furono elette nei consigli comunali.
La repubblica fu generata in Italia da uomini e donne in parità di cittadinanza. Dalle urne, uscirono 12.718.000 voti per la repubblica e 10.719mila per la monarchia. Il tentativo dei monarchici e dello stesso re Umberto di invalidare il risultato elettorale provocò dimostrazioni e scontri violenti - ci furono cinque morti a Napoli - ma il 13 giugno il re, dichiarando di voler evitare una guerra civile, partì per l’esilio. L’elezione del monarchico Enrico De Nicola a capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano, votato dall’Assemblea costituente il 28 giugno 1946, valse a disinnescare il pericolo di nuovi scontri fra monarchici e repubblicani. I partiti monarchici che nacquero dopo la fine della monarchia operarono nel parlamento repubblicano per alcuni decenni, prima di estinguersi definitivamente.
A settanta anni dalla fine della monarchia, nessun pretendente al trono che fu dei Savoia insidia la repubblica italiana; tuttavia, nessuno può sapere se durerà nei secoli. La repubblica nata il 2 giugno non ha creato una propria tradizione di valori e di ideali, con salde radici nella coscienza del popolo italiano. Neppure la giornata della sua nascita è divenuta una festa nazionale collettivamente sentita e partecipata, come è il 4 luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. Addirittura nel 1977 la festa nazionale del 2 giugno fu abolita di fatto, per essere ripristinata soltanto nel 2000, senza però iniettare nel popolo italiano la vitalità del civismo repubblicano.
A settanta anni la repubblica nata il 2 giugno 1946 non gode in effetti una buona salute. Anzi, secondo talune formule coniate negli ultimi tre decenni dalla pubblicistica politica, e assurte forse frettolosamente a categorie storiografiche, la repubblica istituita settanta anni fa è deceduta nel 1992, trapassando alla storia come la Prima repubblica. Nel ventennio successivo, c’è stata una Seconda repubblica, che a sua volta è ora in agonia o prossima al decesso, mentre sembra che proprio nell’anno in cui ricorre l’anniversario della nascita della Prima repubblica, stia per nascere una Terza repubblica.
Questa sequela di repubbliche rivela l’esistenza di un male costante che da mezzo secolo almeno affligge lo Stato repubblicano italiano, esplodendo periodicamente in forme gravi. Per guarire la repubblica italiana dal suo male attuale, è forse necessario un altro «miracolo della ragione». Ma nessun miracolo potrà mai avvenire, senza l’intervento del popolo sovrano, che sappia però comportarsi da sovrano repubblicano.
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
La zona grigia nel nuovo Stato
di Raffaele Liucci (Il Sole-24 ore, 29.05.2016)
Per Primo Levi, la «zona grigia» era l’ambigua terra di nessuno fra bene e male, emersa nei campi di sterminio, ove «quanto più dura è l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Ma la categoria della «zona grigia» sarà in tempi più recenti adottata anche dagli storici, per inquadrare quanti avevano vissuto da spettatori la Resistenza del 1943-45, con la speranza che la «nuttata» passasse presto. Una massa di attendisti, destinata a esercitare un peso elettorale maggioritario nella nuova repubblica, antifascista soltanto sulla carta.
Ora Carlo Greppi, giovane studioso torinese, presenta un suggestivo case study, incentrato sulla città sabauda nel 1943-45. Attorno alla lugubre caserma-prigione di via Asti, luogo deputato a fucilazioni e torture indicibili, ruotano diverse storie. Storie di vittime, di carnefici, ma soprattutto di «uomini in grigio», moralmente impreparati ad affrontare la tempesta addensatasi sulle loro teste. Vorremmo tutti identificarci nella cristallina biografia di Bruno Segre, partigiano oggi quasi centenario. Ma a incarnare l’Italia profonda era soprattutto il brigadiere Antonio M., il vero protagonista di queste pagine. Ultima ruota del carro nell’apparato repressivo repubblichino, costui tenne sempre il piede in due scarpe, barcamenandosi sino alla fine tra aguzzini e resistenti (nell’autunno del ’45, una Corte straordinaria di Assise lo condannerà a dieci anni di reclusione per «aiuto al nemico nei suoi disegni politici»).
Come valutare il volume di Greppi? Da un lato, non si può non apprezzare lo scavo compiuto dall’autore (memorie, documenti giudiziari, epistolari inediti), per riportare alla luce questa varia umanità. Possiamo così contemplare un panorama assai più problematico di quelli cui ci avevano abituati sia la mistica della lotta di Liberazione sia il reducismo di Salò, entrambi restii ad ammettere che la guerra civile fosse stata combattuta da due opposte minoranze, davanti a una platea di «imboscati». Invece, piaccia o meno, uno dei pilastri della nostra identità nazionale risiede proprio nella «zona grigia»: come dimostrerà il successo riscosso nel dopoguerra dall’«apota» Montanelli, il quale nel romanzo autobiografico Qui non riposano (settembre 1945) vergherà un esplicito elogio del colore grigio, «appunto perché non è né bianco né nero».
Dall’altro lato, suscita qualche perplessità il «montaggio» effettuato da Greppi. C’erano due modi per valorizzare questa messe documentaria: o con un libro pienamente narrativo e avvincente, alla Corrado Stajano, in grado di catapultarci nel clima plumbeo dell’epoca; oppure con un saggio storiografico in senso stretto, forse più arido ma anche più scrupoloso. Greppi ha scelto una via di mezzo, sfornando un lavoro né carne né pesce. Un intarsio aggrovigliato di storie, delle quali il lettore fatica a seguire il bandolo. Peccato, perché la carne da mettere sul fuoco era molta.
di Andrea Colombo (il manifesto, 27.05.2016)
Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni, in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con mesi di anticipo.
Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono «liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il cui perverso esito è stato «l’immobilismo».
Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi, anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno trovato ascolto alle orecchie del gran capo.
Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.
Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella media.
Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.
I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un libero Parlamento.
Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa da chi deve decidere per tutti.
Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.
Cattolici e laici per un nuovo patto
di Agostino Giovagnoli (la Repubblica, 14.05.2016)
«HO giurato sulla Costituzione e non sul Vangelo», ha ricordato Matteo Renzi. Con lo stesso giuramento, però, si è anche impegnato «ad esercitare le sue funzioni nell’interesse esclusivo della nazione ». E nazione vuol dire tante forze diverse e tanti settori differenti che trovano la loro unità in una volontà comune e in un futuro condiviso, come scriveva Ernest Renan.
È in questo spirito che, nel marzo 1947, Alcide De Gasperi intervenne in Assemblea costituente per sostenere che la Chiesa doveva impegnare i vescovi a giurare fedeltà alla Repubblica e a seguire «la legge costituzionale dello Stato». «Non siamo in Italia così solidificati, così cristallizzati nella forma del regime da poter rinunziare con troppa generosità a simili impegni così solennemente presi ». Aggiunse però: «alla lealtà della Chiesa io credo che la Repubblica debba rispondere con lealtà».
De Gasperi temeva contraddizioni o conflitti laceranti per la duplice appartenenza del cittadino credente alla Chiesa e allo Stato e per la sua duplice fedeltà al Vangelo e alla Costituzione. Cercava perciò - uomo di profonda spiritualità, ma anche con grande senso storico - la conciliazione tra Chiesa e Stato soprattutto negli impegni concreti degli uomini. Credeva poco, infatti, nei principi astratti o in compromessi giuridici, cui cedettero invece Pio XI e Mussolini quando stipularono i Patti Lateranensi nel 1929 e a cui si affidarono ancora Pio XII e Dossetti per confermarli attraverso l’art. 7 della Costituzione.
Non lo spingeva una logica confessionale in difesa dei principi o degli interessi cattolici, ma una preoccupazione laica per lo Stato. È il sentimento di fondo che ha animato l’impegno complessivo dei cattolici nella stesura della Costituzione che, prima ancora di essere stata un compromesso sulle parole o sulle formule, è stata il frutto di un eccezionale sforzo costituente animato dall’incontro tra le grandi forze popolari.
È questa la preoccupazione che ha ispirato costituzionalisti cattolici come Mortati e Tosato, loro eredi illustri come Leopoldo Elia, e che ispira anche oggi tanti cattolici mentre si interrogano sulla riforma costituzionale. Proprio la larga condivisione del patto costituente, infatti, ha reso per decenni la Costituzione un riferimento fondamentale per tutti.
Ricordando di aver giurato fedeltà alla Costituzione, Renzi ha risposto a quelli che oggi minacciano il referendum sulle unioni civili o che vorrebbero bocciare la riforma costituzionale per ritorsione contro queste unioni. Sono i nostalgici dei “valori non negoziabili”, che nella Chiesa di papa Francesco hanno perso importanti sponde ecclesiastiche (anche se non tutte). Ma questioni più profonde vengono oggi sollevate soprattutto da uomini e donne che non sono lontani da Renzi e che vengono dalla sua stessa tradizione religiosa e culturale. Molti di questi ne apprezzano tante iniziative e l’orientamento di fondo. Sono però pure preoccupati non solo per questioni di merito - dal disinteresse per le autonomie locali all’ostilità verso i corpi intermedi - ma anche di metodo. Si può cambiare profondamente la Costituzione senza un ampio accordo costituente tra forze diverse? E si può trasformare l’esame di una materia così complessa in un plebiscito pro o contro chi governa?
La situazione in cui ci troviamo non è stata creata da Renzi, ma dalla logica del bipolarismo conflittuale di cui Berlusconi è stato il principale benché non unico responsabile. Nella Seconda Repubblica, la spinta divisiva si è estesa anche sul terreno costituzionale, come mostrano il fallimento della Commissione bicamerale per le riforme, voluto dal centro-destra (1998); le modifiche del titolo V, approvate dal solo centro-sinistra (2001); l’ampia riforma costituzionale, votata dal solo centro-destra (2005) e poi bocciata dal referendum confermativo (2006); la nuova riforma costituzionale approvata dal solo centro-sinistra (2016).
Intanto, sotto la spinta dell’antipolitica, lo strumento del referendum da quesito sul merito di una specifica legge si è trasformato sempre più in mezzo per mettere in difficoltà chi governa. Matteo Renzi non è responsabile di tutto questo e ha cercato di superare le trappole della contrapposizione esasperata, con scelte audaci come il patto del Nazareno, che gli ha attirato tante critiche. Ma poi è stato spinto anche lui verso una riforma costituzionale a maggioranza. Una scelta legittima, forse necessaria, ma certamente senza la forza di un nuovo patto costituente.
È probabile che, comunque vada, il prossimo referendum non costituirà l’ultima parola: dopo, ci sarà da riprendere uno sforzo forse ancora più decisivo, per un nuovo patto costituente condiviso da forze, culture e identità diverse.
Settant’anni di voto alle donne
di Giulia Siviero (Il Post, 10 marzo 2016)
Dire alle mie figlie che quando la loro nonna è nata le donne non potevano votare mi fa sempre una certa impressione. Nella classifica mondiale dei paesi che per primi approvarono il suffragio femminile, in testa c’è la Nuova Zelanda, 1893, poi l’Australia e i paesi scandinavi, la Russia (con la Rivoluzione d’Ottobre), la Gran Bretagna e la Germania dopo la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti nel 1920. In Italia le donne furono considerate cittadine al pari degli uomini solo alla fine dell’ultima guerra, il 10 marzo di settant’anni fa.
La conquista dei diritti politici non fu, come spesso si dice e si legge, una progressiva concessione o un’estensione dei principi liberali e democratici, ma il risultato di una lunga e dura battaglia. La rivendicazione dell’accesso alla sfera pubblica - che fin da Aristotele era stata costruita e definita sulla base dell’espulsione delle donne - provocò una tenacissima resistenza per uno specifico motivo: l’esclusione delle donne dalla vita pubblica era legata al loro assoggettamento nella sfera privata. Per questo il diritto di voto fu negato alle donne per più di un secolo e mezzo. E per questo la loro battaglia per quello specifico diritto andò ben al di là di esso.
La storia di questa battaglia inizia con un paradosso: Francia, 1789, rivoluzione. Le donne borghesi e le donne del popolo partecipano alla presa della Bastiglia, protestano, muoiono. E parlano. A teatro Olympe de Gouges mette in scena gli eventi rivoluzionari contemporanei e nel 1791 propone di rendere universali i diritti proclamati all’Assemblea nazionale estendendoli anche alle donne («Uomo, sei capace di essere giusto? È una donna che ti pone la domanda»). Nel 1793 finisce sulla ghigliottina. Nel momento fondativo dei sistemi rappresentativi moderni fu immediatamente chiaro che l’universalismo in base al quale erano stati dichiarati i diritti non era affatto universale, ma riguardava solo gli uomini. Il nuovo mondo aveva qualcosa in comune con il vecchio: il manteniment