25 Giugno: salviamo la Costituzione e la Repubblica che è in noi
di Federico La Sala (Libertà - quotidiano di Piacenza, 08.06.2006, p. 35)
Il 60° anniversario della nascita della Repubblica italiana e dell’Assemblea Costituente, l’Avvenire (il giornale dei vescovi della Chiesa cattolico-romana) lo ha commentato con un “editoriale” di Giuseppe Anzani, titolato (molto pertinentemente) “Primato della persona. La repubblica in noi” (02 giugno 2006), in cui si ragiona in particolar modo degli articoli 2 e 3 del Patto dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti.
Salvo qualche ’battuta’ ambigua, come quando si scrive e si sostiene che “il baricentro dell’equilibrio resta il primato della persona umana di cui è matrice la cultura cattolica” - dove non si comprende se si parla della cultura universale, di tutto il genere umano o della cultura che si richiama alla particolare istituzione che si chiama Chiesa ’cattolica’ (un po’ come se si parlasse in nome dell’Italia e qualcuno chiedesse: scusa, ma parli come italiano o come esponente di un partito che si chiama “forza...Italia”!?), - il discorso è tuttavia, per lo più, accettabile...
Premesso questo, si può certamente condividere quanto viene sostenuto, alla fine dell’editoriale, relativamente al “diritto alla vita” (“esso sta in cima al catalogo ’aperto’ dell’articolo 2, sta in cima alla promessa irretrattabile dell’art. 3”) e alla necessità di una responsabile attenzione verso di essa (“Non declini mai la difesa della vita; senza di essa è la Repubblica che declina”).
Ma, detto questo, l’ambiguità immediatamente ritorna e sollecita a riporsi forti interrogativi su che cosa stia sostenendo chi ha scritto quanto ha scritto, e da dove e in nome di Chi parla?!
Parla un uomo che parla, con se stesso e con un altro cittadino o con un’altra cittadina, come un italiano comune (- universale, cattolico) o come un esponente del partito ’comune’ (’universale’, ’cattolico’)?
O, ancora, come un cittadino di un partito che dialoga col cittadino o con la cittadina di un altro partito per discutere e decidere su quali decisioni prendere per meglio seguire l’indicazione della Costituzione, della Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ che ci ha fatti - e invita a volerci! - uomini liberi e donne libere, cittadini-sovrani e cittadine-sovrane?!
Nonostante tante sollecitazioni a sciogliere i nodi e chiarirsi le idee da ogni parte - dentro e fuori le istituzioni cattoliche, c’è ancora molta confusione nel cielo del partito ’cattolico’ italiano: non hanno affatto ben capito né la unità-distinzione tra la “Bibbia civile” e la “Bibbia religiosa”, né tantomeno la radicale differenza che corre tra “Dio” [Amore - Charitas] e “Mammona” [Caro-Prezzo - Caritas] o, che è lo stesso, tra la Legge del Faraone o del Vitello d’oro e la Legge di Mosè!!! E non hanno ancora ben-capito che Repubblica dentro di noi ... non significa affatto Monarchia o Repubblica ’cattolica’ né dentro né fuori di noi, e nemmeno Repubblica delle banane in noi o fuori di noi!!!
Il messaggio del patto costituzionale, come quello del patto eu-angelico ...e della montagna è ben-altro!!! La Costituzione è - ripetiamo: come ha detto e testimoniato con il lavoro di tutto il suo settennato il nostro Presidente, Carlo A. Ciampi - la nostra “Bibbia civile”, la Legge e il Patto di Alleanza dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ Costituenti (21 cittadine-sovrane presero parte ai lavori dell’Assemblea), e non la ’Legge’ di “mammasantissima” e del “grande fratello” ... che si spaccia per eterno Padre nostro e Sposo della Madre nostra: quale cecità e quanta zoppìa nella testa e nel cuore, e quale offesa nei confronti della nostra Legge dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’- di tutti e tutte noi, e anche dei nostri cari italiani cattolici e delle nostre care italiane cattoliche!!!
Nel 60° Anniversario della nascita della Repubblica italiana, e della Assemblea dei nostri ’Padri e delle nostre ’Madri’ Costituenti, tutti i cittadini e tutte le cittadine di Italia non possono che essere memori, riconoscenti, e orgogliosi e orgogliose di essere cittadine italiane e cittadini italiani, e festeggiare con milioni di voci e con milioni di colori la Repubblica e la Costituzione di Italia, e cercare con tutto il loro cuore, con tutto il loro corpo, e con tutto il loro spirito, di agire in modo che sia per loro stessi e stesse sia per i loro figli e le loro figlie ... l’ “avvenire” sia più bello, degno di esseri umani liberi, giusti, e pacifici! Che l’Amore Charitas dei nostri ’Padri’ e delle nostre ’Madri’ illumini sempre il cammino di tutti gli italiani e di tutte le italiane...
Viva la Costituzione, Viva l’Italia!!!
Federico La Sala
DA RICORDARE:
Alla Costituente, su 556 eletti, 21 erano donne:
9 NEL GRUPPO DC, SU 207 MEMBRI - LAURA BIANCHINI, ELISABETTA CONCI, FILOMENA DELLI CASTELLI, MARIA IERVOLINO, MARIA FEDERICI AGAMBEN, ANGELA GOTELLI, ANGELA GUIDI CINGOLANI, MARIA NICOTRA, VITTORIA TITOMANLIO;
9 NEL GRUPPO PCI, SU 104 MEMBRI - ADELE BEI, NADIA GALLICO SPANO, NILDE IOTTI, TERESA MATTEI, ANGIOLA MINELLA, RITA MONTAGNANA TOGLIATTI, TERESA NOCE LONGO, ELETTRA POLLASTRINI, MARIA MADDALENA ROSSI;
2 NEL GRUPPO PSI, SU 115 MEMBRI - BIANCA BIANCHI, ANGELINA MERLIN;
1 NEL GRUPPO DELL’UOMO QUALUNQUE: OTTAVIA PENNA BUSCEMI.
Federico La Sala
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PIERO CALAMANDREI (Wikipedia)
LA LEZIONE DI CIAMPI: LA COSTITUZIONE, LA NOSTRA “BIBBIA CIVILE”
"CARITAS IN VERITATE: "55.[...] La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali (133). Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità [caritatis] e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano » (134), porta in se stesso un simile criterio.
56 La religione cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo « statuto di cittadinanza » (135) della religione cristiana. La negazione del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative sul vero sviluppo."(Benedetto XVI, 29 giugno 2009).
FLS
LE 21 DONNE DELLA COSTITUENTE |
LA STORIA, LA LETTERATURA, I "SEGNI DEI TEMPI", E LA "SOLLECITAZIONE" DI#DANTE ALIGHIERI AD ANGELO GIUSEPPE RONCALLI, PAPA #GIOVANNI XXIII, A PORTARSI OLTRE LO #SPIRITO DELLA #TRAGEDIA. Alcuni appunti sul tema...
A) - «DANTE E I #PAPI. L’influsso dell’Alighieri sul magistero di Giovanni XXIII: "[...] Dante è una delle fonti del pensiero teologico di Angelo Roncalli. Pertanto indichiamo tre cause, ma anche conseguenze, di questa affermazione: la formazione teologica e spirituale, la scelta del nome Giovanni XXIII, la ri-fondazione della cattedra di Teologia dantesca (a.a. 1961/1962), in coincidenza con la fase preparatoria del concilio. [...]"» (cfr. Gabriella M. Di Paola Dollorenzo, "Una delle fonti del pensiero teologico", L’Osservatore Romano, 14 dicembre 2020)
B) - UNA SVOLTA EPOCALE: DA "GIOVANNI XXII" (Jacques Duèze) A "GIOVANNI XXIII" (Angelo Giuseppe Roncalli ).
C) - I SEGNI DEI TEMPI: "L’espressione segni dei tempi fu usata per la prima volta ufficialmente nella bolla di Giovanni XXIII Humanae salutis (25.12.1961) con cui convocava il Concilio. Nell’enciclica Pacem in terris (11.4.1963) dello stesso Pontefice, diventa una categoria fondamentale. In modo chiaro, vengono in essa indicati #quattro segni dei tempi contemporanei: la socializzazione, l’emancipazione delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica, la libertà dei popoli oppressi. [...]" (cfr. C. Floristán, "Dizionario sintetico di pastorale").
D) - ANTROPOLOGIA E CRISTIANESIMO, AL DI LÀ DEL PAOLINISMO: #DANTE #ALIGHIERI. «La #FenomenologiadelloSpirito... dei “#DueSoli”. Ipotesi di rilettura della “#DivinaCommedia”» (cfr. Federico La Sala, "IL DIALOGO/Quaderni di teologia", 24 luglio 2007).
STORIA, STORIOGRAFIA, E TEOLOGIA-POLITICA.
"COSTANTINO" E "COSTANTINISMO"- IL NODO DA SCIOGLIERE:
FLS
LA "DIVINA COMMEDIA" E LA TEOLOGIA-POLITICA DEL FAMOSO «CINQUECENTO E DIECI E CINQUE, MESSO DI DIO» (Purg. XXXIII 43-44) ANCORA PENSATA, CONTRO DANTE E LA SUA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI", ALL’INTERNO DELLA LOGICA ("IN HOC SIGNO VINCES") DELL’IMMAGINARIO DELL’IMPERATORE COSTANTINO (NICEA 325-2025):
B) Memoria, Storia e Filologia:#Dantedi (#25marzo 2025). Un’indicazione per uscire dal " #sottosuolo" (Don DeLillo, "Underworld", 1997): «Trasumanar significar per verba / non si porìa; però l’essemplo basti / a cui esperienza grazia serba.» (#DanteAlighieri, Par. I, 70-71)..
ANTROPOLOGIA #FILOLOGIA #ARCHEOLOGIA E "#CHARITAS":
IL "TONDO DONI" (#MICHELANGELO #BUONARROTI).
SE SI PENSA, COME SI CREDE ( «I Papi Giovanni XXIII e Francesco “sognatori” come san Giuseppe» ), CHE "secondo le Scritture i “#sognatori” sono «gli unici capaci di far andare avanti la storia», facendola «uscire dai vicoli ciechi creati dagli uomini». E san Giuseppe è il #modello «di ogni credente chiamato a essere un sognatore: uomini e donne che fanno la volontà di Dio; giusti che ascoltano la sua parola» [...]" (cfr. L’Osservatore Romano, 21 marzo 2025), ALLORA NON RESTA CHE "#SOGNARE", FARE IL #SOGNO DI TUTTI I BAMBINI E DI TUTTE LE BAMBINE DEL "MONDO", E, RICONOSCERE E RESTITUIRE A #GIUSEPPE, ACCANTO A #MARIA, E, A MARIA ACCANTO A GIUSEPPE, #DIGNITA’, #ONORE E #GLORIA.
Federico La Sala
ANTROPOLOGIA, #INTERPRETAZIONE DEI #SOGNI, E FILOLOGIA DI #PRIMAVERA: EARTHRISE (#20MARZO 2025)
UNA NOTA SUL "COME NASCONO I BAMBINI" E SUL "BUON-MESSAGGIO".
Alla #luce dell’aria primaverile, e del presente storico corrente, forse, è proprio bene ricordare che #Giuseppe, lo #sposo di #Maria, anche senza capire tutto, seppe bene #interpretare il suo #sogno: al #Bambino, "egli pose #nome #Gesù"! (Mt. 1. 25).
DIVINA COMMEDIA. I #Profeti, come le #Sibille (come quelle, legate alla tradizione dei #Carmelitani scalzi e delle Carmelitane scalze di #Teresa d’#Avila, presenti nella Chiesa dedicata alla "#MadonnadelCarmine" nel 1613 di #ContursiTerme: https://www.ildialogo.org/cultura/AppelliInterventi_1331650525.htm ), non si erano affatto sbagliati e sbagliate nel dire quello che avevano detto: è l’#amore "che move il sole e le altre stelle" (#DanteAlighieri, Par. XXXIII, 145).
LA STORIA (TEATRO), L’ARATRO (TERRA), LO STILO (SCRITTURA ALFABETICA), LO STORYTELLING ("GLOBE THEATRE"), E L’ANTROPOLOGIA DELLA "INTELLIGENZA ARTIFICIALE" (AI=IA).
CONSIDERANDO la storia dell’ "agricoltura" e l’importanza dell’invenzione dell’aratro per la seminagione del grano e del suo mito fondante connesso al rapimento di Persefone/Proserpina, la figlia di Demetra /Cerere, da parte di Ade/Plutone, si comprende meglio quale "matrimonio" impone la Legge della antica Grecia e cosa "nasconde" la nascita della tragedia: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (Eschilo, "Eumenidi", 657 ss.). #Shakespeare insegna: "The time is out of joint" ("Hamlet", I.5).
TRACCE PER UNA SVOLTA ANTROPOLOGICA. A reimpostare, antropologicamente e matematicamentre, la questione, è da dire che aveva ragione #Whitehead (con #BertrandRussell, autore dei "Principia Mathematica"): "Tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine a #Platone".
Se è vero, come è stato scritto, che "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1978), che fare, oggi, se non andare oltre l’antico programma, codificato nella "macchina" di "scrittura" della tragedia, e portarsi fuori dal rapporto sociale di produzione "cinematografico" platonico?
A mio parere, la "question" è epocalmente hamletica - alla Shakespeare (#Freud): antropologica. Il nodo è che la narrazione della intelligenza artificiale (AI = IA) di questa odierna "società elettronica" è fondata sul codice di una "immaginazione sociologica" (vale a dire, alla Karl #Marx e alla Charles Wright Mills, su un "rapporto sociale di produzione"), proprio e ancora di quello della tragedia (Eschilo, Sofocle, Euripide) della Grecia antica (cfr. Jesper Svenbro, "Phrasikleia, anthropologie de la lecture en Grèce ancienne", Paris 1988).
DIVINA COMMEDIA E CREATIVITA’. Il grande racconto cosmoteandrico di un "mondo come volontà e rappresentazione" di un #Autore - #Sovrano, a tutti i livelli, è finito, e, se non si vuole finire asfissiati nella sua "caverna", non si può non seguire #DanteAlighieri e cercare di ritrovare la "diritta via" della #Commedia!
Meglio riprendere con "Il Nome della rosa (#UmbertoEco), il filo del "maestro di color che sanno" (Inf., IV, 131), #Aristotele, rileggere criticamente "La sposa meccanica" (Marshall McLuhan), e, dopo millenni, uscire dallo storico inferno epistemologico e riequilibrare la teoria del campo cosmo-politico e antropologico: "il resto è silenzio" ("Amleto", V.2).
#Dantedì, #25marzo 2025
INDIVIDUO E SOCIETA’: COME NASCE LO STATO?
LA "ROBINSONATA" DI UN "PLATONISMO" DI MILLENNI: SOCRATE RISPONDE ALLA DOMANDA SUL COME NASCE LA SOCIETA’, MA NON ANCHE SUL COME NASCE L’INDIVIDUO.
UNA "CITAZIONE" DALL’OPERA DI PLATONE, "REPUBBLICA ["POLITEIA"]" (II, 368-371):
ANTROPOLOGIA #PSICOANALISI E #STORIA D’#EUROPA (#8MARZO 2024 / #10MARZO 2025): RICORDANDO DANTE ALIGHIERI E I #DUESOLI DELLA SUA #MONARCHIA,
RIPENSARE L’UNO, ri-#pensare l’#ONU - a partire da #Due, "almeno due" (Gregory Bateson) - e uscire dall’ orizzonte della #tragedia.
"DIVINA COMMEDIA": CON #DANTE (#25MARZO 2025), OLTRE #VERSAILLES E OLTRE L’ ANDROCENTRISMO DI NAPOLEONE: LA #FRANCIA, CON UN PASSO DECISIVO, SI E’ PORTATA (E IN-#VITA A PORTARSI) COSTITUZIONAL-#MENTE OLTRE L’ORIZZONTE DEMIURGICO DELL’#ANDROCENTRISMO "MAMMONICO" DELLA #TRAGEDIA E HA RESTITUITO ALLA #DONNA LA SUA "KANTIANA" FACOLTA’ DI #GIUDIZIO.
PER UNA STORIA CRITICA DELL’ARITMETICA E DELLA GEOMETRIA DELLA "SOLITUDINE".... E DEL "CONTRATTO SOCIALE" TEOLOGICO-POLITICO DEL TRAGICO PRESENTE "PREISTORICO"! *
ANTROPOLOGIA MATEMATICA LINGUISTICA COSTITUZIONE e PEDAGOGIA...
A LEZIONE DI JEAN PAUL (E DI SAUSSURE):
"PER MANCANZA DEL DUE
NON [SI] PUO’ CONTARE
FINO A UNO"
(JEAN PAUL RICHTER, "Levana", 1807)
*
ARCHEOLOGIA, FILOLOGIA, FILOSOFIA, COSTITUZIONE ("LOGOS"), E PARTITI ("LOGO"), OGGI...
CHI LO SA, LO SA; CHI NON LO SA, NON LO SA, MA ORMAI LO SANNO TUTTI E TUTTE. CHE OGGI SI STIA PERDENDO DEFINITIVAMENTE LA DISTINZIONE TRA LA #VEGLIA E IL #SONNO, TRA LA #LEGGE #FONDAMENTALE (le "regole del gioco" nel #campo e del campo di tutta la società ) E I "LOGO" (i "marchi", i "nomi", i "simboli" dei vari Partiti, delle varie Aziende, delle varie Lobbies atee e devote), dovrebbe preoccupare prima di tutto e soprattutto filologi e filologhe, oltre che filosofi e filosofe!
Il problema del "ripescaggio" geologico dal fondo del #pozzo in cui è caduto lo #spirito della Legge è un nodo antropologico e teologico-politico di lunga durata: "essere, o non essere" (#Shakespeare, "#Amleto"). E’ ancora il tempo della discussione sul tema della "dotta ignoranza" (1440) e sull’autenticità della cosiddetta "Donazione di Costantino" (1440).
ANTROPOLOGIA E #STORIA. CON IL SUO "ELOGIO DEI GIUDICI scritto da un avvocato" (1959), Piero Calamandrei mette chiaramente il #ditonellapiaga ("Quid est veritas?") e sollecita a non addormentarsi, come già la "memoria" di #Eraclito di #Efeso (e #Immanuel #Kant di Koenisberg, l’attuale #Kaliningrad): "Bisogna dunque seguire ciò è comune. Ma pur essendo questo lógos comune, la maggior parte degli uomini vive come se avesse un propria e particolare saggezza" (fr. 2).
VITA E FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, E TEOLOGIA-POLITICA:
PER UN’ALTRA CONCEZIONE DEL CONCETTO (E DEL CONCEPITO).
UNA "VECCHIA" SOLLECITAZIONE AD USCIRE DALL’ORIZZONTE DELLA TRAGEDIA E DEL PLATONISMO. "Sàpere aude": riprendere il "programma" di Kant, e, con Helmholtz, orientarsi meglio nel pensiero e nell’azione...
Ubuntu: una parola da e per non dimenticare.
Una nota a margine della Lettera enciclica SULL’ EUCARISTIA (del 17.04.2003):
"[...] La storia sembra finita: la Chiesa non permette a Milingo di essere sposato . .. e Maria promette di seguirlo nella sua missione. Che peccato e che confusione! A questo punto credo che sia necessario e doveroso mettere in evidenza il terreno e le radici da cui è nato e nasce lo scandalo. La questione ruota intorno alla parola-chiave padre o, se si vuole, abate (cfr. l’omonima voce del Dizionario filosofico di #Voltaire), e mette in gioco non tanto e solo la vita interna della Chiesa ma la libertà e la dignità di tutti gli uomini e di tutte le donne in carne ed ossa. Il cardinale Milingo è stato quello che è stato ed è quello che è, ma ora e in questo caso il suo Partito, quello dell’Uomo-Dio, se ha vinto un’altra battaglia, ha perso la faccia e la guerra. E per gli uomini dell’Apparato le parole di Voltaire saranno ancora e sempre più all’ordine del giorno: "badate che non venga il giorno della ragione".
[...] è da dire che è proprio dall’#Africa e, in particolare, dal #Sudafrica di Mandela, De Klerk e Tutu, che è venuta alla luce una grande novità - la fine dell’apartheid e la fondazione di una nuova repubblica democratica, e ci viene una bella indicazione. In occasione della giornata ONU alla memoria in onore dei milioni e milioni di esseri umani ridotti in schiavitù, Desmond Tutu ha ricordato a tutti e a tutte che nella lingua del Sudafrica hanno da sempre una parola-bussola per non perdersi nella disumanità e nella barbarie: ubuntu - le persone diventano persone attraverso altre persone. Forse vale la pena fissarla per sempre. Così sapremo orientarci sia nel pensiero sia nel mondo, ed evitare a noi stessi e a noi stesse come ai vari Milingo e alle varie Marie di vendere la propria anima, di rinnegare il rinnegamento della propria dignità di esseri umani, e costruire una società - come esortava don Milani - che sappia dire ai suoi giovani e alle sue giovani che sono tutti e tutte sovrani e sovrane o, che è lo stesso, figli e figlie del Dio di Maria e di Giuseppe.... non figli e figlie di Nessuno! Non cè alcuno che è sapiente o buono come Dio, così ha insegnato Socrate e così ha insegnato Gesù: perché continuare a confondere le idee e impedire il dialogo ... e l’eucaristia tra tutti gli esseri umani? ("Il dialogo.org", 30 aprile 2003)
* Pietro Barbetta: "Gilles Deleuze, matematiche dinamiche. Il testo di Andrea de Donato Morfogenesi del concetto. Matematica e stile a partire da Deleuze, immanenza e molteplicità, edito da Orthotes, fornisce un importante contributo per ripensare la matematica dal punto di vista filosofico. [...]
A partire dal libro di de Donato, potremmo sostenere che i sistemi patologici sono sistemi assiomatici, come la geometria euclidea" (PietroBarbetta, "Gilles Deleuze, matematiche dinamiche", Doppiozero 1 dicembre 2024).
L’ALBERO DI NATALE NELL’EUROPA MODERNA E IL "SIDEREUS NUNCIUS" DI GALILEO GALILEI: LA PUNTA DI UN ICEBERG DELL’IMMAGINARIO OCCIDENTALE
UNA NOTA sulla considerazione che "Nella sua concezione moderna, l’albero di Natale casalingo sarebbe stato creato quasi casualmente da una nobildonna tedesca nel 1611, desiderosa di illuminare un angolo vuoto della casa, la duchessa di Brieg." (cfr. Elisa Chiari, "Albero di Natale, la vera storia dalle radici antiche a noi", "Famiglia cristiana", 18.12.2024 )
CULTURA E SOCIETA’. Tenendo conto di quanto sta succedendo nella società europea, a partire dalla #RiformaProtestante (1517), e dal "Sacco di Roma" dei lanzichenecchi al soldo dell’imperatore Carlo V (1527), dalla #Riforma #Anglicana (1534), dalla stampa dell’opera di #Astronomia di #Copernico (1543) e dell’opera di #Anatomia di #Vesalio (1543), dalla #Controriforma Cattolica (#ConciliodiTrento,1545-1563), e, ancora, dalla introduzione del #CalendarioGregoriano del 1582 (non accettato né dalla Germania e dall’Olanda fino al 1700, né dall’Inghilterra fino al 1752), e, al contempo, dall’attacco della cattolicissima "Invincibile Armada" spagnola di Filippo II all’Inghilterra di Regina Elisabetta I d’Inghilterra (1588), si può comprendere meglio (e subito) perché all’#Amleto di #Shakespeare non piaccia il "#presepe" della "Danimarca" cattolica, e, al contempo, nella Germania protestante si comincia a diffondere in occasione del Natale la tradizione dell’#albero, sia come critica della tradizione religiosa cattolico-spagnola sia come sollecitazione a ripensare all’albero del #Paradisoterrestre e anche a un rinnovato legame matrimoniale tra "#Adamo ed #Eva" (come già indicato e fatto da Lutero e da #EnricoVIII, padre della regina Elisabetta).
"SIDEREUS NUNCIUS" (GALILEO GALILEI, 1610). Alla #luce di questa "contestualizzazione" relativa al diffondersi della tradizione dell’ Albero di Natale nei Paesi Protestanti, forse, è bene ricordare che l’Annuncio Sidereo (il "Sidereus Nuncius"), relativo alla "scoperta" della #Luna come la Terra e della #Terra come la Luna, di Galileo Galilei è del 1610 ed è salutato da #Keplero proprio nel 1611 con parole augurali che fanno tremare ancora oggi di "paura" tutta la teologia-politica cattolico-costantiniana dell’epoca: "Vicisti, Galilaee!" (Hai vinto, o Galileo!).
PIANETA TERRA: SPERANZA. Forse, oggi, alla fine del 2024, la navigazione nell’#oceano celeste (come da indicazione e sollecitazione dello stesso Keplero al Galileo, nella lettera del 1611) può riprendere.
#Buonanno, #Buon2025.
PIANETA TERRA: UN PANTHEON DA RIPENSARE E IL SOLSTIZIO D’INVERNO. UNA TRACCIA PER UN "RIORIENTAMENTO GESTALTICO" E UNA "#SVOLTA_ANTROPOLOGICA": APRIRE LA "PORTA" DELLA "#TERRA" ALLA #LUCE DEL #SOLE...
ARCHITETTURA ECOLOGIA FILOSOFIA E OCULISTICA. Una nota sull’#occhio del Pantheon:
"[...] L’Oculus è un’apertura nel soffitto della cupola, realizzata con un diametro di oltre 8 metri, e rappresenta l’unica fonte di luce naturale all’interno dell’edificio. La sua creazione risale al I secolo d.C., quando l’imperatore romano Adriano fece ristrutturare l’antico Pantheon, che originariamente risaliva al 1 a.C.
Questo misterioso occhio circolare non solo illumina con la luce del sole l’interno del Pantheon, ma ha anche una funzione simbolica e mistica. L’Oculus rappresenta una connessione tra l’edificio e il cielo, come se un raggio di luce divina scendesse in quel santuario dedicato agli dei.
Inoltre, l’Oculus è stato progettato in modo tale da favorire una perfetta distribuzione dei pesi della cupola, che ha contribuito alla straordinaria stabilità e durevolezza di questo monumento. La cupola è in cemento e la sua costruzione fu una straordinaria opera di ingegneria per l’epoca.
L’Oculus del Pantheon offre anche un affascinante spettacolo naturale durante i giorni di pioggia. La pioggia che entra dal foro forma un effetto suggestivo, simile ad una cascata rovesciata, creando un’atmosfera mistica all’interno del tempio. [...]" (cfr. Accademia Studio Italia, "Il misterioso occhio del Pantheon: un buco nel paradiso!").
ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA FILOSOFICA, MEDICINA, FISICA E METAFISICA:
DIALOGO CON UN AMICO IN OCCASIONE DEL SUO ONOMASTICO NEL GIORNO DELLA MEMORIA DI SAN FRANCESCO SAVERIO:
a) "Messaggio (inoltrato)":
Memoria di san Francesco Saverio, sacerdote della Compagnia di Gesù, evangelizzatore delle Indie, che, nato in Navarra, fu tra i primi compagni di sant’Ignazio. Spinto dall’ardente desiderio di diffondere il #Vangelo, annunciò con impegno Cristo a innumerevoli popolazioni in India, nelle isole Molucche e in altre ancora, in Giappone convertì poi molti alla fede e morì, infine, in Cina nell’isola di Sancian, stremato dalla malattia e dalle fatiche.
è il mio onomastico quindi...
b) Risposta:
Ma "Gesù" non aveva nessuna "Compagnia" ... e la compagnia che lo seguiva lo portava là dove si "va-n-gelo".
Francesco I, per or-goglio, si richiama a Ignazio di Loyola, è un "gesuita" non un "cristiano" né un "francescano". È tempo di rifare il presepe e restituire a Giuseppe e Maria, il loro ", Bambino...
Molti auguri e buon compleanno, a te e ai tuoi genitori, "Giuseppe e Maria" ... E padre di Andrea, ginecologo.
La X dell’Apostolo Andrea richiama X di "IXTHUS", "Christos", non dell’ "Ictus", così la Caritas, da non confondere con "caritas" ("mammona"). Buona ri-nascita e buon onomastico ... Buona giornata.
c) Risposta
Dante aspetta ancora. Dalla tragedia "divina" alla "divina" Commedia
d) Messaggio dell’Amico:
La vita dei continui passaggi, per metterla in filosofia, del continuo divenire di Eraclito. Senza la tragedia( il negativo assoluto) non ammireremmo neanche la Bellezza e la Bontà.
e) Risposta:
Infatti! Eraclito era di Efeso ed è suo il principio ripreso e rilanciato dall’ Apostolo Giovanni (non dal Paolo, Saulo di Tarso): il Logos. Il Logos, non è il logo di un’azienda, di una setta,o di un partito: è "l’amore che move il sole e le altre stelle" (Dante Alighieri). Della Terra, il brillante colore...
UNA HAMLETICA QUESTIONE FILOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA DI #LUNGADURATA E
UN GRANDE SEGNAVIA PER USCIRE DALL’INFERNO, CON #DANTE E #PASOLINI...
Per Pasolini «chi ama è egoista, e vorrebbe tutta per sé la persona amata» (cfr. Emanuela Monini, "Tu sai che chi ama è egoista", "insula europea", 17 novembre 2024 ); ma, pur avendo capito, come scrive nel sonetto 110, che
HA difficoltà ad andare oltre sé stesso e riconoscere che "quel qualcosa che non aveva prezzo" è solo la "gaiezza" sua, non della "persona amata".
Il grande #dono della sua vita, forse, sta nel segnalare il "tradizionale" #nodo tragico del non riconoscere alla "persona amata" (gr."#Filomena") la sua #autonomia e la sua #libertà di #amare (gr. "#Filousa").
La sua passione per #DanteAlighieri lo ha portato, oltre la "#ego-logica" di san Paolo, sulla stessa strada e, deposto il suo "vorrebbe", gli ha permesso di giungere a consapevolezza della #dirittavia e a proseguire coraggiosamente il suo viaggio.
A ben distinguere e a ben unire, non è possibile confondere antropologicamente e filologicamente l’amore "prezzolato" (quello con il suo "#caro-prezzo"), la "#caritas", con quell’#amore, quel "qualcosa che non aveva prezzo, / ed era unico: non c’era codice né Chiesa / che lo classificasse", la "#charitas". Un grande segnavia, a mio parere, per uscire con Dante dall’inferno.
"COME TI CHIAMI?": LA QUESTIONE DEL NOME, A TUTTI I LIVELLI.
UN "SAUSSURE" DI ANTROPOLOGIA CHIASMATICA ("#CRISTOLOGIA"), #FILOLOGIA, #STORIA, #PSICOANALISI, #PSICHIATRIA, E #LINGUISTICA...
“Bisogna delirare un po’ per trovare il nome giusto”, scrive Pietro Barbetta nel libro "#Follia e #creazione. Il caso clinico come esperienza letteraria" (Mimesis Edizioni, 2012). #Anna Stefi, nella sua recensione (cfr. "Pietro Barbetta. Follia e creazione", "Doppiozero", 13 marzo 2013 ), muove dal #nodo fondamentale del discorso:
Una indicazione e una sottolineatura formidabile, a mio parere, un segnavia per venir fuori dall’orizzonte della tragedia, della #claustrofilia (Elvio Fachinelli, 1983), e aprire la strada a "una #schizofrenia della #salute" (#Rubina Giorgi)!
#STORIAELETTERATURA E #METATEATRO: "THE MOUSETRAP" (#SHAKESPEARE). Questo è il problema amletico su cui riflettere: ne va del proprio "essere, o non essere" ("#Amleto").
CREATIVITA’ E #MENTE ACCOGLIENTE: #COMENASCONOIBAMBINI? Freud dice: "La psicoanalisi è una mia #creatura". Ma "Chi", #Chi (lettera dell’ alfabeto greco: "X"), ha dato il nome a "#PietroBarbetta": al "#bambino" (a tutti gli "esseri" del "mondo")?!
ANTROPOGENESI FILOLOGIA E FILOSOFIA: CHE GRANDE "PREISTORIA" DELL’INTERA #UMANITA’ DEL PIANETA TERRA!
RIPARTIRE DA CAPO, E IMPARARE A #CONTARE, A #CALCOLARE...
INDIVIDUO E SPECIE: "L’ONTOGENESI RICAPITOLA LA FILOGENESI" (ERNST #HAECKEL).
MA QUALE "RICAPITOLAZIONE", COME DA #ANTROPOLOGIA COSMICA, QUALE QUELLA DI #DANTE ALIGHIERI ("L’#AMOR CHE MUOVE IL #SOLE E LE ALTRE #STELLE") O COME QUELLA (DELL’ATTUALE #PRESENTE STORICO) DA #ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DA "#CAVERNA" PLATONICA E PAOLINA)?!
"SAPERE AUDE!" (#KANT, 1784). NON E’ IL CASO DI CORRERE AI RIPARI E, FINALMENTE, uscire dall’orizzonte della #tragedia e dal #letargo epistemologico e #correggere un’operazione #matematica "sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (#Franca Ongaro #Basaglia, 1978)!!!
COSMOTEANDRIA E STORIA. LA LEZIONE DI PAOLO DI TARSO:
"Diventate miei imitatori [gr.: mimetaí mou gínesthe], come io lo sono di Cristo. Vi lodo perché in ogni cosa vi ricordate di me e conservate le tradizioni così come ve le ho trasmesse. Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo [ἀνήρ], e capo di Cristo è Dio [ ὅτι παντὸς ἀνδρὸς ἡ κεφαλὴ ὁ Χριστός ἐστιν, κεφαλὴ δὲ γυναικὸς ὁ ἀνήρ, κεφαλὴ δὲ ⸀τοῦ Χριστοῦ ὁ θεός.]"(1 Cor. 11, 1-3).
ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E COSMOTEANDRIA...
Il caso.
Le parole del Papa sulle donne (e l’insolita nota dell’Università di Lovanio)
di Gianni Cardinale, inviato a Bruxelles (Avvenire, sabato 28 settembre 2024)
Papa Francesco incontra gli studenti e i docenti dell’Université Catholique di Louvain-la Neuve, la sezione francofona dell’antica Lovanio che nel 1968 dovette lasciare la casa madre in seguito alle proteste dei nazionalisti fiamminghi che ne reclamavano la soppressione. Ma di questa vicenda nessuno ha fatto cenno sia nella visita a Leuven, né a Louvain. Gli argomenti sono altri. Con una sorprendente contestazione dell’ateneo alle parole del Pontefice. Ma andiamo per ordine.
Il Papa viene accolto dal saluto della rettrice Francoise Smets. E poi gli viene letta una lettera di studenti e professori che prendendo spunto dalla Laudato si’ afferma in modo netto che «l’appello allo sviluppo integrale ci sembra incompatibile con le posizioni sull’omosessualità e sul posto delle donne nella Chiesa cattolica».
Il Papa non risponde direttamente a queste osservazioni, ma nel suo discorso oltre ad affrontare il tema del cristianesimo e l’ecologia («non siamo padroni, siamo ospiti e pellegrini sulla terra») affronta anche tale questione.
«Pesano qui - spiega - violenze e ingiustizie, insieme a pregiudizi ideologici». Perciò «bisogna ritrovare il punto di partenza: chi è la donna e chi è la Chiesa». La Chiesa «è il popolo di Dio, non un’azienda multinazionale». La donna, «nel popolo di Dio, è figlia, sorella, madre. Come io sono figlio, fratello, padre».
Per Francesco «ciò che è caratteristico della donna, ciò che è femminile, non viene sancito dal consenso o dalle ideologie». Ma «la dignità è assicurata da una legge originaria, non scritta sulla carta, ma nella carne». La dignità è «un bene inestimabile, una qualità originaria, che nessuna legge umana può dare o togliere».
A braccio ricorda che «la Chiesa è donna», e poi aggiunge: «La donna è più importante dell’uomo ma è brutto quando vuole fare l’uomo». E infine, sempre a braccio, invita a «non entrare nelle lotte con delle dicotomie ideologiche».
"VICISTI, GALILAEE" (L’IMPERATORE GIULIANO): STORIA, METASTORIA, E LAVORI STORIOGRAFICI IN CORSO.
CULTURA E SOCIETA’. Alla luce dell’approssimarsi del 17mo #anniversario del I Concilio di Nicea (325 - 2025), guIdato dall’imperatore Costantino, FORSE, è BENE RICORDARE anche e unitariamente le "dimissioni" date dall’ultimo imperatore romano non cristiano, Flavius Claudius Julianus, ovvero Giuliano l’Apostata e riorganizzare e verificare le attuali "carte nautiche" per ben #navigare con il #PianetaTerra nell’#oceanoceleste, come da omaggio e "sollecitazioni" di #Keplero a #Galileo #Galilei (1611).
P. S. - SVEGLIARSI DAL SONNO DOGMATICO (#KANT, 1724-2024). "GALILEO, HAI VINTO" ("VICISTI, GALILAEE"): PER KEPLERO (1611), LA VITTORIA DI GALILEO NON SOLO E’ SCIENTIFICA, MA E’ ANCHE LA VITTORIA "RELIGIOSA" DEL "GALILEO" ("CRISTO") - CONTRO LA CHIESA ATEA E DEVOTA ("APOSTATA") DELL’#EUROPA DEL #TEMPO! «This was sometime a paradox, but now the time gives it proof» (#Shakespeare, "#Amleto", III. 1).
PIANETA TERRA E COSMOTEANDRIA:
TRACCIA PER UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA (KANT, 1724- 2024).
STORIA DELLA #CIVILTA’ E #FILOLOGIA: COME IL #PRINCIPIO ANTROPOLOGICO (TEOLOGICO E COSMOLOGICO) E’ STATO DECLINATO DALL’ANDROCENTRISMO (PLATONICO-PAOLINO ED HEGELIANO), NEI SECOLI DEI SECOLI, FINO A DIVENTARE PRINCIPIO "ANTROPICO", IN UNA SINTETICA "#PIRAMIDE" PROPOSTA DAL "#SAPIENTE" (1510) DI #BOVILLUS (v. allegato).
PSICOANALISI DELLA SOCIETA’ CONTEMPORANEA: I GIGANTI SULLE SPALLE DEI BAMBINI E "LA SOCIETA’ SANA" ("THE SANE SOCIETY", 1955).
UNA NOTA SUL "TEMPO FUORI DAI CARDINI" E L’ANSIA DELLA "DE-GENERAZIONE" DELLO STORICO PRESENTE
SOCIOLOGIA, PEDAGOGIA, E PRAGMATICA DELLA COMUNICAZIONE. SE DA MOLTI DECENNI I #PIFFERAI GIGANTI dei "mass-media" e dei "social media" (veri e propri "cavalieri dell’apocalisse"), a cui "abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi" (come denunciava McLuhan), si sono ormai seduti sulle spalle dei "#bambini" e degli stessi "#genitori", non è forse il caso di uscire, con Dante Alighieri, dal #letargo e dall’#inferno, e cercare di ripensare e chiarirsi le idee, con "Amleto" (III.2), sulla "trappola per topi" ("The Mousetrap"), e portare sulla scena il "giogo" del "pifferaio" dello "#stato di Danimarca" planetario"? Se non ora, quando?!
P.S. - IL #BAMBINO SULLE SPALLE DEL GIGANTE: SAN CRISTOFORO.
STORIA #ANTROPOLOGIA #FILOLOGIA E #TEOLOGIA DELLA CHIESA: ALBINO #LUCIANI, #PAPA #GIOVANNI PAOLO I , E IL PRIMATO DELLA #CARITA ’ ("CHARITAS") SUL GIURIDISMO. In memoria di #Simone Weil ...
"ANNIVERSARIO. Beato Giovanni Paolo I, oggi prima #memoria liturgica:
NOTE:
VITA E FILOSOFIA, STORIOGRAFIA, #FILOLOGIA, E "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO): IN #PRINCIPIO ERA LA VITA, NON LA MORTE.
FISICA E #METAFISICA. CON #KANT (#DANTE #MARX E #HUSSERL), RICORDANDO LA LEZIONE DI #EPICURO:
"[...] Abítuati a pensare che nulla è per noi la morte, poiché ogni bene e ogni male è nella sensazione, e la morte è privazione di questa. Per cui la retta conoscenza che niente è per noi la morte rende gioiosa la mortalità della vita; non aggiungendo infinito tempo, ma togliendo il desiderio dell’immortalità. Niente c’è infatti di temibile nella vita per chi è veramente convinto che niente di temibile c’è nel non vivere piú. Perciò stolto è chi dice di temere la morte non perché quando c’è sia dolorosa ma perché addolora l’attenderla; ciò che, infatti, presente non ci turba, stoltamente ci addolora quando è atteso. Il piú terribile dunque dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono piú. Ma i piú, nei confronti della morte, ora la fuggono come il piú grande dei mali, ora come cessazione dei mali della vita la cercano. Il saggio invece né rifiuta la vita né teme la morte; perché né è contrario alla vita, né reputa un male il non vivere. E come dei cibi non cerca certo i piú abbondanti, ma i migliori, cosí del tempo non il piú durevole, ma il piú dolce si gode. Chi esorta il giovane a viver bene e il vecchio a ben morire è stolto, non solo per quel che di dolce c’è nella vita, ma perché uno solo è l’esercizio a ben vivere e ben morire. Peggio ancora chi dice: “bello non esser nato, / ma, nato, passare al piú presto le soglie dell’Ade”. [...]" (Epicuro, "Opere", "Epistola a Meneceo", Einaudi, Torino, 1970, pp. 62-63).
NOTE:
L’ITALIA, IL "VENI, CREATOR SPIRITUS" E L’ ASSEMBLEA COSTITUENTE (11 MARZO 1947): LO SPIRITO DI UNA SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE, LA CRITICA DEI "CATTOLICISMI" DELLE "ANIME PIE", E L’ULTIMA LEZIONE DI BENEDETTO CROCE.
"BENEDETTO CROCE SULLA MORTE. La riflessione che trascrivo è stata scritta da Croce il 25 febbraio 1952, nove mesi prima di morire (20 novembre 1952):
ECCO "PERCHE’ NON POSSIAMO NON DIRCI «CRISTIANI»" (BENEDETTO CROCE,1942): "qui occorre osservare che con Dio siamo e dobbiamo essere a contatto in tutta la vita, e niente di straordinario ora [nell’ultima fase della vita] accade che c’imponga una pratica inconsueta" (B. CROCE, 1952).
TEATRO E METATEATRO:
AD AMLETO, IL "PRESEPE" DELLO "STATO DI DANIMARCA" NON PIACE!
SHAKESPEARE, IL #MOSCHETTIERE DELL’INGHILTERRA DELLA REGINA ELISABETTA ("HONI SOIT QUI MAL Y PENSE", "Sia vituperato chi ne pensa male"), SULLE ALI DI #GIORDANO BRUNO E #TOMMASO #CAMPANELLA, IN UN ORIZZONTE ELIOCENTRICO, SOLARE E COPERNICANO, CERCA DI SOLLECITARE LA CULTURA EUROPEA AD #APRIREGLIOCCHI (#FREUD).
STORIA E #METASTORIA. ALLA LUCE DELLA "RIVELAZIONE" DELLO #SPIRITO DEL #PADRE E #RE, il "programma" del Figlio e Principe Amleto ("moschettiere" della #Legge del Re Amleto e della #Regina #Gertrude), a ben riflettere in una #Europa segnata dalla #Riforma Protestante (e dal #matrimonio di Lutero e di Katharina von Bora) e della #Riforma Anglicana (e dal matrimonio di EnricoVIII e Anna Bolena), appare essere ("O my prophetic soul! My uncle?": I.5) uno straordinario corso di lezioni contro la "cattolica" Accademia di Platone (v. la "Scuola di Atene" di #Raffaello, 1509-1511; e, ancor più precisamente, la cosmoteandrica "piramide" del "Sapiente" di #Bovillus, 1509-1510): ad Amleto, il "presepe" non piace! Proprio per disinnescare la "trappola per i topi" ("The #Mousetrap") in terra (nello "stato di Danimarca") e in cielo (tra le "nuvole"), il Principe e il Figlio del "vecchio" Re ribalta il tavolo e rilancia con la sua rappresentazione-trappola ("L’assassinio di Gonzago", dove il #nipote uccide lo #zio), e, coraggiosamente, fa di tutto per rimettere il #tempo in sesto e riuscire a rendere possibile una conclusione positiva al "racconto di inverno" ("The Winter’s Tale", 1611).
NOTA:
STORIA, LETTERATURA, E TEATRO: EDUARDO DE FILIPPO, "NATALE IN CASA CUPIELLO... [...] Tommasino, alla domanda che suo padre gli rivolge in punto di morte, «Te piace ’o presepio?» ("Ti piace il presepe?"), alla quale egli in precedenza aveva sempre risposto di no con stizzita protervia, finalmente si "scioglie" e tra le lacrime gli sussurra un laconico sì, proprio mentre suo padre sembra entrare nella gioiosa allucinazione di un "enorme presepe nei cieli" [...]".
#ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT, 1724-2024), #STORIA, E #TEOLOGIA: "N. S. #MONTE #CARMELO", "MADONNA DEL #CARMINE, #16LUGLIO. Un filo di memoria e di tradizione culturale europea e mediterranea, carico di teoria, che tocca nel profondo la #questione antropologica dell’attuale #presentestorico , e richiama l’eccezionale intervento "critico" e "cristico" di #TeresadAvila (1515-1582) e, al contempo, dell’opera del filosofo e teologo Jakob #Boehme (Jacob #Böhme, 1575-1624).
I CARMELITANISCALZI NEL #REGNODINAPOLI (VICEREAME SPAGNOLO) E L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’#ECUMENISMO RINASCIMENTALE. Nel mio paese d’origine (#ContursiTerme, #Salerno), nella "vecchia" Chiesa della #MadonnadelCarmine, dedicata con i #CarmelitaniScalzi alla B.V. del Monte Carmelo (nel 1613), con una pala d’altare del 1608 (v. allegato), sono riemerse dopo il #terremoto del 1980 e il restauro completato nel 1989), le figure di 12 #Sibille (un richiamo forte ed esplicito alla lezione umanistico-rinascimentale, e a #Michelangelo #Buonarroti e alla sua "Sacra Famiglia" - il #TondoDoni).
NOTE:
CON DANTE ALIGHIERI, UN PASSO FUORI DALLA RAGNATELA "OLIMPICA" DELLA #TRAGEDIA...
ANTROPOLOGIA, ARTE, COMUNICAZIONE, LINGUISTICA, PSICOANALISI, E FILOSOFIA. Quella di Louise Bourgeois è, a mio parere, una lezione di #antropologia culturale che manda in frantumi la piramide "androcentrica" del #Sapiente (1509-1510) di #Bovillus (v. allegato), e, con essa, in "pensione" la "#ScuoladiAtene" di #Raffaello (1509-1511), grandi "manifesti" di "propaganda e fede" della tradizione teologico-politica occidentale (e non solo) e sollecita a riequilibrare il campo della #relazione antropologica e a rendere giustizia alla arte critica di ogni mitica "Aracne" (#Ovidio, "Metamorfosi").
DIVINA COMMEDIA. Dante Alighieri aveva capito: "In principio era il #Logos", non un #Logo, ed è "l’amor che move il Sole e le altre stelle" (Pd. XXXIII, 145).
NOTE:
TEATRO E METATEATRO: "REMEMBER ME" (SHAKESPEARE, "HAMLET", I.5). MEMORIA STORIA LETTERATURA E FILOLOGIA (2 LUGLIO 2024).
PER AMLETO, LA "CASA DEL PADRE" (IL "RE DEL MONDO", L’ AMORE) CON LE SUE "MOLTE DIMORE" (Gv. 14, 2) E’ DIVENTATA UNA "PRISON" (PRIGIONE):
PSICOANALISI E STORIOGRAFIA. COME IL #LOGOS DEL PRINCIPIO (#ARCHE’) DI #ERACLITO DI EFESO E DELL’APOSTOLO GIOVANNI (Gv. 1.1) DIVENNE UN #LOGO E LE ENCLOSURES (RECINZIONI) SI DIFFUSERO SU TUTTA LA TERRA:
Sigmund Freud, che ha scavato a lungo, e continuò a scavare nei sotterranei della cultura greca, ebraica, e cattolico-romana fino alla morte (Londra, 1939), e conosceva molto bene non solo la "tragedia" di "Edipo Re" (Sofocle), ma anche del principe "Amleto" (Shakespeare), nel 1929, così scrive: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’#amore #universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
ARTE E TEOLOGIA. Alla luce del sempre più "brillante" presente storico, forse, è bene tenere conto dell’analisi di Freud, rimeditare sulla hamlet-ica "Mousetrap" (III.2) di Shakespeare, e, al contempo, riflettere sulla enigmatica figura del futuro #padre di Gesù, #Giuseppe ("De domo David"), che prepara una "trappola per #topi" nello straordinario "Trittico di Mérode", dedicato al tema dell’#Annunciazione, di Robert Campin.
Nota:
STORIA DELL’ARTE, DELLA RELIGIONE, DELLA FILOSOFIA:
FEDE E PROPAGANDA DELL’ANDROCENTRISMO RINASCIMENTALE (PLATONICO-PAOLINO).
"DE HOMINIS DIGNITATE" (PICO DELLA MIRANDOLA, 1496). Se la cultura europea (laica e religiosa) continua, ieri come oggi, a orientarsi nel pensiero e nella realtà, secondo l’instaurazione teologico-politica "olimpica" (al seguito di #Apollo e di #Atena), «non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (Eschilo, "Eumenidi"), e a celebrare acriticamente la tradizione filosofica della "Scuola di Atene" (Raffaello Sanzio, 1509-1511) e la "mappa mentale" del "De Sapiente" (1510) di Charles de Bovelles - Bovillus, come è possibile uscire dall’orizzonte "edipico" della tragedia e, con la sollecitazione e la guida dell’eretico #DanteAlighieri, uscire dallo storico inferno (antropologico ed epistemologico, teologico e politico) "dell’autunno del medioevo" e dell’ uomo del rinascimento?!
ANTROPOLOGIA, PSICOANALISI, E DIRITTO (COSTITUZIONE). Se è vero, come riconosce Sigmund Freud nel 1909 (nell’affrontare il caso dell’«uomo dei topi»), che "un gran progresso della civiltà si compì il giorno in cui l’uomo decise di avvalersi, accanto alla testimonianza dei sensi, della deduzione logica e di passare dal #matriarcato al #patriarcato", è altrettanto vero, come aveva già pensato e anticipato Bachofen nel 1861 (nell’anno stesso della Proclamazione del Regno d’Italia e del primo anniversario dell’Unità d’Italia, come da sottolineatura di Eva Cantarella), che, "[...] svincolandosi da ogni zavorra o mistura materiale, il diritto diventa #amore. Proprio l’amore è il diritto supremo, la legge più alta" (J. J. Bachofen, "Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici").
Note:
"Avrei voluto con mio honore poter lasciar questo capitolo, accioche non diventassero le Donne più superbe di quel, che sono, sapendo, che elleno hanno anchora i testicoli, come gli uomini; e che non solo sopportano il travaglio di nutrire la creatura dentro suoi corpi, come si mantiene qual si voglia altro seme nella terra, ma che anche vi pongono la sua parte, e non manco fertile, che quella degli uomini, poi che non mancano loro le membra, nelle quali si fa; pure sforzato dall’historia medesima non ho potuto far altro. Dico adunque che le Donne non meno hanno testicoli, che gli huomini, benche non si veggiano per esser posti dentro del corpo [...]: così inizia il cap. 15 del Libro III dell’ Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della Donna” (p. 91).
"SHAKESPEARE GLOBE", ELIOCENTRISMO, E "RIVOLUZIONE COPERNICANA" (KANT): FILOSOFIA (GIUSTIZIA - LOGOS), CRISTIANESIMO (AMORE - "AGAPE"), E CATTOLICESIMO (NICEA 325 -2025). Con (Parmenide ed Eraclito e) Aristotele, oltre: "In principio era il Logos" (Gv. I.1) - non un Logo.
PREMESSO CHE la #question #hamletica è storica e storiografica e che, per comprendere il lavoro di Shakespeare, forse, è opportuno pensare il rapporto tra "Shakespeare, Christianity, and Aristotele’s Poetics" all’interno di un contesto europeo segnato dalla Riforma Protestante, dalla Riforma Anglicana, e dell’attacco cattolico-spagnolo all’Inghilterra della Regina e Papessa, Elisabetta I, figlia di Enrico VIII, e dalla Rivoluzione astronomica e scientifica, aperta dall’opera di Copernico, e rilanciata alla grande da Tommaso Campanella e da Giordano Bruno, condannato come eretico e bruciato sul rogo (17 febbraio 1600).
CONSIDERANDO IL CONTRIBUTO (ASSOLUTAMENTE "MODERNO", COME HA SCRITTO UNA VOLTA LO STORICO DELLA FILOSOFIA GILSON) DEL COSIDDETTO #MEDIOEVO DELLA "PRIMA #RINASCITA" (GRAZIE A FRANCESCO D’ASSISI, GIOACCHINO DA FIORE, E DANTE ALIGHIERI) E IL RAPPORTO DI DANTE CON "IL #MAESTRO DI COLOR CHE SANNO" (Inf. IV, 131), c’è da dire e da pensare che tra Aristotele e Shakespeare (come con lo stesso Dante) c’è molta amicizia, nello spirito dell’antico e nuovo Logos (e non del #Logo di una azienda personale).
NEL PORRE AL CENTRO DELL’#AMLETO la questione antropologica (e cristologica), Shakespeare pone "aristotelicamente" un problema di #legalità e di #giustizia e di #verità: la #critica al "nuovo" Re e Padre, che è un impostore, un mentitore, e un assassino, e l’introduzione nell’opera teatrale moderna (lo stesso "Hamlet") di un’opera teatrale "aristotelica", "The Mousetrap" ("La trappola per topi"). La Rivoluzione inglese è già iniziata...
SCIOLTO QUESTO NODO E, DANDO A SHAKESPEARE CIO’ CHE DI SHAKESPEARE E DI ARISTOTELE CIO’ CHE E DI ARISTOTELE, e, ancora, chiarito che il principe "Amleto" è figlio del "Re Amleto" e della "Regina Gertrude", si può senz’altro condividere l’opinione che "[...] for Aristotle, tragedy is amoral: it’s like the process of legal discovery that occurs in a court of law." (Patrick Grey).
NOTA:
COSMOLOGIA, STORIA E LETTERATURA, E (DISAGIO DELLA) CIVILTA’: GIACOMO LEOPARDI, NELL’ORIZZONTE COPERNICANO DI KANT E DI FREUD. Una nota a sua memoria...
RICORDARE che Giacomo Leopardi (Recanati, 29 giugno 1798 - Napoli, 14 giugno 1837 ), a introduzione del testo della "Ginestra o il fiore del deserto" (1836), abbia premesso le parole riprese dall’evangelo di Giovanni (III,19) "Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἂνθρωποι/ μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς ("E gli uomini amarono/ piuttosto le tenebre che la luce" (Giovanni III, 19), è una valutazione radicale di denuncia della scelta fatta.
Il "giudizio" della "lenta ginestra" sull’umanità che ha amato (v. "ἠγάπησαν") le tenebre e non la luce, dice di una #negazione dell’ ἀγάπη, dello stesso «amore» cristiano, che in qualche modo richiama le considerazioni fatte da Kant nella "Fine di tutte le cose" ) e, al contempo, anche le riflessioni di Freud sulla svolta data da Paolo di Tarso nella "gestione" del messagio evangelico: "[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori" (S. Freud, "Disagio della civiltà", 1929).
NOTE:
"DITELO" CON LE PIANTE ("CAESALPINIA PULCHERRIMA"). ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E BOTANICA: RIPRENDERE IL FILO DEL RINASCIMENTO E DELLA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA.
ANDROCENTRISMO, GEOCENTRISMO, ED ELIOCENTRISMO: TRACCE PER UNA #SVOLTA_ANTROPOLOGICA. Considerato che ancora oggi la cultura "accademica" (atea e devota") ha la "#forma #mentis" condizionata (algoritmicamente) dall’#immagine mitizzata della "Scuola di Atene" (Raffaello, 1509 -1511) e della "piramide" (v. allegato) del "Sapiente" (Bovillus, 1509-1510), la rilettura e lo studio dell’opera di Andrea Cesalpino è più che mai fondamentale e #salutare (allegati nei commenti).
NOTE:
QUALE "NESSO"* TRA IL MITO E LA STORIA DELL’EUROPA? UNA IPOTESI DI CHIARIMENTO A MARGINE DEI "SOGNI DI UN VISIONARIO CHARITI CON I SOGNI DELLA METAFISICA".
DEL #PIANETATERRA E DEL SUO BRILLANTECOLORE: IL #CORPOMISTICO DELL’#ANDROCENTRISMO TEOLOGICO-POLITICO DI PLATONE E COSTANTINO (#NICEA 325-2025) BLOCCA DA MILLENNI LA #NAVIGAZIONE NELL’#OCEANOCELESTE (#KEPLERO, 1611) DEL #GALILEO #GALILEI "CHE HA VINTO" SIA SUL PIANO CELESTE SIA SUL PIANO TERRESTRE E, ancora oggi (#2giugno2024) RENDE DIFFICILE CAPIRE UN’ #ACCA E PORTARSI FUORI DALL’ORIZZONTE DI #MAMMONA ("CARITAS").
"COME NASCONO I BAMBINI": INCARNAZIONE (#MENSCHWERDUNG), ANTROPOLOGIA, E #FILOLOGIA. Riprendendo il filo della "#Charitas" di #GioacchinodaFiore e #DanteAlighieri, forse, è meglio uscire dal "letargo" (Par. XXXIII, 94), e con il #Boehme della "De incarnatione Verbi" riflettere sulla "Charis" (gr. #Xapis") e sul Cristogramma.
NOTA: IL "TRATTATO" DEL "MASTRILLO" (#MAASTRICT), E LA "DIRITTA VIA" (DANTE ALIGHIERI). L’amicizia e l’amore della parola sono decisivi e fondamentali: senza filologia non si va da nessuna parte e non si comprende più il #nesso tra il #prima e il #dopo, si dimentica che "in #principio era il #Logos", e tutti gli erculei esseri umana finiscono per indossare le camicie con il "logo" di #NESSunO.
DIVINA COMMEDIA E LETTERATURA. Rileggere i "Tre Moschettieri" con Beniamino Placido (1994)... per imparare a ben distinguere il "giglio" di "Milady" dal giglio della Firenze e di (Maria) Beatrice (di Dante Alighieri). *
IL GIGLIO DI MILADY
di Beniamino Placido ["la Repubblica", 8 settembre 1994] **
Ci sono delle buone ragioni per rileggere, d’ estate, I tre moschettieri? Certo che ce ne sono. Tanto per cominciare, non è poi mica così sicuro che l’ abbiamo veramente mai letto (e quindi tantomeno riletto). Non è improbabile che la nostra prima, appassionata ma approssimativa, conoscenza di quei personaggi sia avvenuta per merito (e demerito insieme) di qualche edizione per ragazzi. Dove la traduzione era abborracciata, la vicenda raccorciata, i nomi scarabocchiati male. Non è improbabile che tutto quel che sappiamo di Athos, Porthos, Aramis e d’ Artagnan, sia dovuto al cinema (il film di George Sidney e Gene Kelly, il film di Richard Lester) piuttosto che al romanzo di Dumas.
Il quale romanzo (seconda ragione per affrontarlo) fu pubblicato a puntate su Le Siècle giusto centocinquant’ anni fa: fra l’ undici marzo e l’ undici luglio del 1844. Abbiamo celebrato, ed onorato di scritti commemorativi, tanti anniversari letterari. Sembra giusto celebrare anche questo.
Tanto più (terza ragione) che di buona letteratura si tratta. Si dà il caso che l’ Editore Adelphi abbia ripubblicato quest’ anno La Poesia di Benedetto Croce. Dandoci modo di rileggere il giudizio che il severo, austero don Benedetto ebbe ad esprimere in proposito: "Da parte mia, non provo il rossore di cui altri sentirebbe inondato il volto nel dire che mi piacciono e giudico condotti con grande brio e spigliatezza i Trois mousquetaires di Alessandro Dumas padre. Ancora molti li leggono e li godono senza nessun’ offesa della poesia, ma nascondendo in seno il loro compiacimento come si fa per gli illeciti diletti, ed è bene incoraggiarli a deporre la loro falsa vergogna e il loro congiunto imbarazzo".
La quarta, la quinta, la sesta, l’ ennesima ragione (ci sono anche quelle) aspettano il loro turno, se mai verrà. Ma una ragione addizionale, e tuttavia fondamentale, per una lettura-rilettura estiva va esplicitata subito. Quest’ estate è stata molto calda. Insopportabilmente calda. Informatevene da chi è rimasto in città, voi che eravate invece ai monti o al mare: ve lo confermeranno.
Quando il termometro sfiora i quaranta gradi ci si fa furbi, bisogna pur sopravvivere. Si trova subito una scusa per mettere da parte i faticosi studi progettati, le serissime letture programmate in gennaio, e raccontare a se stessi: sai che ti dico? Adesso mi leggo o rileggo I tre moschettieri. Anche Benedetto Croce me ne dà il permesso.
Così ho fatto. L’ ho affrontato in una ottima edizione francese - peraltro anche economica, anche maneggevole - della "Pocket" (Parigi, 1993) dotata di tutto. Note, contronote, tavole cronologiche, indice dei luoghi, dei nomi, dei personaggi storici. Dossier fotografico e documentario.
Perché in francese? Intanto, per continuare a tentare di imparare quella lingua. In modo da essere in grado di chiedere senza arrossire: "Che cos’ è questo palazzo?" ("Qu’ est-ce que c’ est que cet édifice?") la prossima volta, a Parigi. E poi lo so per esperienza, che c’ è sempre un premio per chi si sobbarca alla fatica di leggere un libro nell’ originale. Per ricompensarti l’ autore - lusingato - ti offre una, due cose in più da capire.
Per esempio. Tutti lo sappiamo che al centro di questo romanzo ci sono loro quattro, i tre moschettieri Athos, Porthos, Aramis, più d’ Artagnan. E il Re Luigi XIII, quel Re fatuacchione, perennemente annoiato (grazie, non faceva niente tutto il giorno); e il Cardinale Richelieu; e la Regina Anna (fedele? infedele?); e il Duca di Buckingham; ed altre persone ancora.
Ma sappiamo che c’ è soprattutto lei, Milady. La seconda parte del romanzo ne è totalmente dominata. Lei l’ angelica (in apparenza) la perfida, la dolce, la seducente, la spietata, la crudele Milady. Degnamente interpretata da Lana Turner nel film di Sidney e Kelly, che è del 1948. Degnamente interpretata da Faye Dunaway nel film di Richard Lester, che è del 1975.
E’ lei che cerca di far morire tutti (quasi tutti) i personaggi maschili e femminili che le capitano fra le mani - dopo averli variamente sedotti - e quasi sempre ci riesce. E pensare che basta guardarle - con la dovuta ammirazione - le bellissime spalle per capire chi veramente è. Sulla spalla sinistra lei porta impresso a fuoco il marchio del disonore, il giglio di Francia. Che la qualifica - malgrado il fascino, le moine, le lusinghe - come una volgare delinquente.
Così per seicento e passa pagine. Finalmente, al capitolo sessantacinquesimo, quello che comincia con la frase proverbiale, celeberrima: "Era una notte buia e tempestosa" ("C’ était une nuit orageuse et sombre") eccola lì smascherata - finalmente! - e condannata, che sta per essere giustiziata sulle rive della Lys.
Ciò che a un italiano non dice niente. Si trattasse delle rive della Senna, sarebbe per noi assolutamente la stessa cosa.
Ma per un lettore francese, per un lettore del testo originale, in francese, no. Non è la stessa cosa. Perché in francese giglio si dice "lis" (scritto a volte anche "lys"). E questo suggerisce una corrispondenza che sa di contrappasso. Tu, marchiata dal giglio ("lis" o "lys") di Francia sulle rive della Lys dovrai morire, brutta mascalzona.
Corrispondenza rafforzata da alte ricorrenze foniche. Il boia incaricato dell’ esecuzione è il boia di Lilla. Il paese che deve attraversare per raggiungere il luogo dell’ esecuzione si chiama Lillers. E poi c’ è tutto un gioco sottilissimo organizzato intorno al verbo "flétrir" ("far appassire" e insieme "macchiare"); intorno al sostantivo "flétrissure" ("appassimento, avvizzimento", e insieme "marchio d’ infamia").
Come a dire: un giglio, tu? Ma tu sarai tutt’ al più un giglio avvizzito, appassito, maleodorante. Il tuo destino è quello di decomporti adesso, sulle rive della Lys. Un destino che è però anche una resa dei conti, una vendetta. Tutti i personaggi del romanzo, e insieme a loro tutti i lettori del medesimo, si vendicano della perfida donna che li ha tanto sedotti. Tanto insidiati. Che ha fatto morire l’ adorabile Constanza Bonacieux, fidanzata di d’ Artagnan. Che ha tentato di far fuori anche d’ Artagnan. Che ci ha - confessiamolo - sedotti e abbandonati (quando non ammazzati): tutti.
Dove si vede che Alessandro Dumas padre è qualcosa di più del romanziere divertente, spregiudicato (e superficiale?) presentato con benevolenza da Benedetto Croce. Non possiede brio e spigliatezza soltanto. Sa anche giocare con corrispondenze ed assonanze significative, in modo raffinato.
Di più: sa giocare - come nessun altro prima, nessun altro prima di lui - con un tema esplosivo, il tema della vendetta. Lo si vede ne Il Conte di Montecristo, scritto nello stesso periodo. Lo si vede ne I tre moschettieri. Di recente lo scrittore Sebastiano Vassalli ha sostenuto proprio su queste pagine (la Repubblica, 27 luglio 1994) che "Odio ergo sum". Che finché ci sarà odio, in questo mondo, ci sarà il romanzo. L’ odio soltanto? E’ sicuro che basti? Non ci vuole anche - per scrivere un romanzo o per raggiungere, da lettore, la pace dei sentimenti leggendolo - anche un certo appagamento dell’ odio, nella forma di una bella vendetta?
Il romanzo I tre moschettieri è una serie ininterrotta di vendette, dal principio alla fine. C’ è una vendetta ad ogni pagina. Ogni tanto, una esaltazione tutta esplicita della vendetta, definita qualche volta come "le plaisir des dieux", il piacere degli Dei. Addirittura.
Il piacere della vendetta - che alberghiamo dentro, evidentemente - è così intenso da consentire ad Alessandro Dumas un clamoroso colpo di mano, un gioco di prestigio spericolato: ai nostri danni. C’ è un momento, un momento cruciale del racconto in cui ci prende in giro, ci mena per il naso. Spudoratamente.
Ho cominciato a sospettarlo verso la fine. Quando più insistente si faceva la pressione del romanziere sul tema del giglio di Francia e sul gioco di parole fra "lis" e "Lys". Dev’ essere stato il caldo, che rende insofferenti e sospettosi. Dev’ essere stata l’ euforia estiva, che ti mette in testa l’ idea di un incontro sorprendente. Nel mio caso l’ idea di un incontro filologicamente sorprendente con un "luogo" testuale trascurato da altri. Che nessuno si spaventi. Si tratta di filologia estiva, stagionale. E provvisoria, come ho doverosamente avvertito nel precedente articolo dedicato alla biblica storia di Giuseppe (la Repubblica, 1 settembre 1994).
Ma tornate con me a metà del romanzo, al capitolo ventisettesimo. Ecco la svolta. Athos racconta a d’ Artagnan la storia tragica della sua vita. Non è mica nato moschettiere, lui. Lui era un gran nobile un tempo. Era il conte de La Fère. Un giorno nel villaggio che le sue proprietà dominavano si affacciò una fanciulla. Capelli biondi, occhi azzurri, ciglia e sopracciglia nere. Bellissima. Un angelo.
Tu mi capisci d’ Artagnan, avrei potuto averla senza sposarla, ero il signore del luogo; ma me ne innamorai perdutamente, volli sposarla. Quand’ ecco che una mattina, andando a caccia, lei cadde da cavallo e svenne. Corsi a soccorrerla, e siccome la vedevo in affanno le lacerai le vesti con la punta del pugnale, le scoprii una spalla e cosa mi apparve? Mi apparve, impresso sulla di lei spalla il marchio del disonore: il giglio di Francia. Quell’ angelo era un demonio; tu mi capisci, d’ Artagnan.
Stropicciatevi pure gli occhi. Rileggete ancora una volta, se lo ritenete necessario. Ma è proprio così. Dumas vuol darci ad intendere, per i suoi biechi interessi narrativi, che quel marito di nome Athos aveva bisogno dell’ incidente di caccia, della caduta da cavallo, della conseguente difficoltà respiratoria della moglie per guardarle - finalmente - le spalle e scoprire che cosa c’ era stampato sopra. E prima, non aveva avuto nessuna occasione di guardarle, di ammirarle (non oso dire: di toccarle) quelle spalle?
Da quel momento in poi è stata un’ estate di fuoco, nel vero senso del termine. Ho preso a tenzonare con i miei amici francesisti, ne conosco di giovani e bravissimi: e dunque, mi sapete spiegare come mai nessun lettore se ne accorge, se n’ è accorto? Siccome questi accalorati seminari di filologia si svolgevano generalmente intorno ad un tavolo di pizzeria, la sera, vi venivano implicate anche le mogli dei francesisti suddetti.
Che pudicamente suggerivano: forse a quel tempo le donne non si presentavano mai completamente svestite, nemmeno ai mariti. Specie le spalle, le coprivano sempre. E promettevano di interpellare - col dovuto tatto - le loro mamme, le nonne, le bisnonne, le trisavole. Le quali mandavano a dire, dopo qualche giorno, che ai loro tempi effettivamente era tutta un’ altra cosa, tutto un altro senso del pudore.
Suvvia, nonne bisnonne trisavole: nemmeno voi ce la contate giusta. E quando andava a ballare, Milady, anche lì con le spalle rigorosamente coperte? E quando faceva il bagno (ne avrà fatto qualcuno) sotto l’ occhio vigile della "femme de chambre" (o cameriera), e quando si vestiva con l’ aiuto della "femme de charge" (o guardarobiera) e quando si svestiva in compagnia della "suivante" (o dama di compagnia, confidente) e quando si faceva pettinare i lunghi capelli biondi dalla "coiffeuse" (o pettinatrice) nessuno, nessuna se ne accorgeva di quel marchio di infamia sulla spalla? Oltretutto, se il Re di Francia gliel’ aveva fatto imprimere addosso era perché facilmente si vedesse, e denunciasse la portatrice: com’ è che è così facile nasconderlo?
Credo che Alessandro Dumas lo sapesse, di avere la coda di paglia. Difatti in un capitolo successivo, il trentottesimo, prova a mettere le mani avanti. Quel fiore di giglio era - chissà, forse - quasi cancellato ("comme effacée") dagli strati di pomata ("les couches de pate") che Milady ci applicava sopra. Quasi cancellato, non proprio del tutto...
Niente da fare. A noi non la si fa, quando leggiamo i libri nell’ atmosfera irritata, sospettosa dell’ estate. Niente da fare. Al centro nevralgico de I tre moschettieri c’ è un vistoso buco logico, un sostanzioso ammanco di verosimiglianza narrativa.
Perché non ce ne accorgiamo? Perché non vogliamo accorgercene. Perché siamo troppo interessati alla storia, vogliamo che continui, malgrado tutto. Vogliamo goderci tutte le perfidie, tutte le diaboliche seduzioni di Milady, fingendo di detestarle. Vogliamo subito dopo, ma non tanto presto, liberarcene. Condannarla alla decapitazione sulle rive di quel fiume ("Lys") che porta il nome del giglio di Francia ("lis") stampato sulla sua sinistra spalla.
L’ autore lo sa. Ci conosce benissimo. "Hypocrite lecteur!" ci dice. So di poterti portare dove voglio, sfruttando le tue viltà, le tue debolezze. Per concludere, e per quanto mi riguarda: con queste letture, accompagnate da filologici sospetti, è stata una bella estate, malgrado tutto. Adesso mi propongo di continuare ad essere un lettore sospettoso anche d’ inverno. Se proprio è necessario, mi aiuterò alzando al massimo il riscaldamento di casa.
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ANTROPOLOGIA FILOLOGIA E PEDAGOGIA: "SAPERE AUDE!" (ORAZIO-KANT). Ripartire dalla Costituzione e dalle lezioni delle 21 "Moschettrici" dell’Assemblea Costituente: "Avere il coraggio di dire ai nostri giovani che sono tutti sovrani" (don Lorenzo Milani).
FILOLOGIA STORIOGRAFIA, E "VITA NUOVA": USCIRE DALL’INFERNO.
Premesso che la “donna mia” di “Tanto gentile” vale “signora” (del cuore)”, come è possibile continuare a pensare, oggi, anche dopo i maestri del sospetto (Marx, Nietzsche, e Freud), che Dante ami Beatrice, tradisca Gemma Donati, i figli, e la figlia Antonia, suor Beatrice?
Sul tema, si cfr. L’Arca dell’ Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech. La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”.Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
«NON MANGIARE TROPPO»: IL "BANCHETTO" DI SWEDENBORG, I "SOGNI DEL VISIONARIO" ("AEGRI SOMNIA") DELL’«ARTE POETICA» DI #ORAZIO (VENOSA) E LA INTERPRETAZIONE DI KANT (KOENIGSBERG, 1766) DELLA TEOLOGIA-POLITICA DELL’#UOMOSUPREMO "EUROPEO".
A) "TEATRO DEL #SONNO": LA VISIONE DI SWEDENBORG. «Ero a Londra e stavo pranzando nel mio abituale ristorante. Ero affamato e mangiavo con grande appetito. Verso la fine del pasto mi accorsi che una specie di nebbia mi si faceva davanti agli occhi. La nebbia divenne più fitta e io vidi il pavimento della stanza coperto dei più orribili animali striscianti, serpenti, rospi e simili. Io ero stupefatto, perché ero in piena coscienza. Poi l’oscurità divenne più completa per sparire infine completamente, e ora in un angolo della stanza vidi seduto un uomo che mi terrorizzò con le sue parole. Mi disse infatti: «Non mangiare tanto!».
Poi tutto si oscurò di nuovo, ma di colpo si rifece luce e mi ritrovai solo nella stanza. Questa visione mi indusse a tornare rapidamente a casa. Durante la notte mi si ripresentò lo stesso uomo, il quale mi disse che era Dio, il creatore del mondo e redentore, e che mi aveva scelto per spiegare agli uomini il senso spirituale delle Sacre Scritture; lui stesso mi avrebbe dettato quello che avrei dovuto scrivere su questo soggetto. In quella stessa notte, per convincermi, mi fu mostrato il mondo spirituale, l’inferno e il cielo, dove incontrai parecchie persone di mia conoscenza e di tutti i ceti sociali. Da quel giorno rinunciai a ogni interesse scientifico terreno e lavorai soltanto alle cose spirituali, secondo quello che il Signore mi aveva ordinato. In seguito il Signore aprì gli occhi del mio spirito, così che mi trovai in grado di vedere mentre ero pienamente desto quello che avviene nell’altro mondo, e di parlare con gli angeli e gli spiriti» (cfr. Emanuele Swedernborg, "Cielo e Inferno L’Aldilà descritto da un grande veggente", a c. di Paola Giovetti, Edizioni Mediterrane, Roma 2005; e, anche, cfr. Guido Almansi - Claude Béguin, "Teatro del sonno. Antologia dei sogni letterari", Oscar Mondadori, Milano 1991).
B). L’ARCHIVIO DEGLI ERRORI: L’ "IO SONO" DI KANT E L’ "IO SONO" DELL’"UOMO SUPREMO" (cfr. "Kant, Freud, e la banalità del male", 2010).
ANTROPOLOGIA, TEOLOGIA, ARTE E STORIA:
"Le #Sibille, secondo lo schema varroniano, sono #dieci (cinque per ogni navata) e derivano il loro nome dai luoghi di pertinenza geografica: la Sibilla Persica, l’Ellespontica, l’Eritrea, la Frigia, la Samia, la Delfica per quanto riguarda il mondo orientale e greco; la Libica per l’Africa; e poi quelle occidentali (con riferimento all’Italia): la Cumea o Cimmeria, la Cumana (virgiliana) e la Tiburtina." (https://operaduomo.siena.it/pavimento/).
LA "STORIA" DEL "CAPRO ESPIATORIO" (RENE’ GIRARD): COME UN ARIETE, UN MONTONE, DIVENNE UN "CAPRONE".
PRIMAVERA2024, #21MARZO: UNA "NOTA" SULLE "COSE NASCOSTE SIN DALL’ORIGINE DELLA FONDAZIONE DEL MONDO" (Mt. 13, 35).
Ariete ♈️: #25marzo (#Dantedì). Considerando (e accogliendo) astrologicamente che da #oggi "il segno dell’Ariete, simbolo per eccellenza dell’#Equinozio di Primavera", è il #segno "che ci accompagnerà fino al 20 aprile, e che la sua "figura mitologica si collega al Dio primaverile che nelle varie culture poteva rappresentare colui che apre l’anno, colui che abita il bosco sacro, il guardiano del Ponte #Arcobaleno, colui che si sacrifica, ecc." e, ancora, che l’ Ariete "è un segno cardinale di fuoco, governato da #Marte e opposto al segno della #Bilancia" (#LeaCimino, "#Calendariopagano"), forse, è opportuno ricordare che l’Ariete ė una delle figure centrali della storia dell’immaginario occidentale, decisiva per la comprensione stessa non solo dell’importanza dell’ impresa di #Giasone alla ricerca del "Vello d’Oro", come della fuga di #Ulisse dall’antro di #Polifemo, ma anche e soprattutto della "Divina #Commedia" di #DanteAlighieri (e della stessa possibilità di uscita dall’orizzonte della tragedia e dall’inferno, a tutti i livelli).
ARCHEOLOGIA FILOLOGICA A E ANTROPOLOGICA. BENCHE’ SULLA IMPORTANZA DELLA FIGURA DELL’ARIETE SI SIA IN UNA CONFUSIONE "BESTIALE", E SI FACCIA FINTA DI NULLA, FORSE, VALE LA PENA PRENDERE ATTO DI UNA ELOQUENTE "RISPOSTA" DELL’ANTROPOLOGO RENE’ GIRARD.
Per Girard (ma così per tutte le storiche Accademie della tradizione culturale europea), un capro, un "capro espiatorio», non è altro che l’«#agnello di Dio», il #Figlio del "Padre Nostro":
"DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929). René Girard confonde ’ciecamente’ i livelli e nega l’immortale acquisizione di Sigmund Freud. L’ "edipo completo" permette di capire la rivalità dei #fratelli (e delle #sorelle) e lo stesso messaggio evangelico, non viceversa. L’incomprensione della lezione di Freud spinge ad una cieca apologia del cattolicesimo costantiniano (#Nicea 325 - 2025): il #cristianesimo non è un cattolicismo... e in #Principio non c’era un #Logo (altrimenti, si cade e si ricade sempre e ancora tra le "braccia" del ’tragico’ #caprone)!
USCIRE DALL’#INFERNO DELLA #RIPETIZIONE E DAL #LETARGO DI MILLENNI (Par. XXX, III, 94).
Storia, filosofia, filologia, #psicoanalisi: una nota su una "ignota" #svolta_antropologica in corso...
IL PROGRAMMA DI #DANTEALIGHIERI ALL’ORDINE DEL GIORNO (#25MARZO 2024: #Dantedì).
Riprendere il cammino di "#Ulisse" e portarsi oltre il "Convivio", il #Simposio, di #Platone e del suo "socratico" #amore (#Eros), avido e cupìdo, #figlio nato dalla astuta alleanza (#Metis) dell’#uomo-#Ingegno (gr. #Poros) e della #donna-#Povertà (gr. #Penia). La lezione di Platone appare essere la chiara codificazione di una fenomenologia dello spirito della #tragedia e la sua parola una versione della #Legge del #Figlio di Dio (#Zeus) , #Apollo: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (#Eschilo, #Eumenidi, 657 ss.): : un ’#cattolicesimo’ platonico.
ARTE, #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA E #TEOLOGIA:
LA "STORICA" #LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E DELLA #NARRAZIONE DELLA #VOLTA DELLA #CAPPELLASISTINA: DUE PROFETI E #DUE SIBILLE "INDICANO" LO #SPAZIOTEMPO DELLA #NASCITA DEL #FIGLIO DI #MARIAEGIUSEPPE. Come mai gli esperti della #GalleriadegliUffizi "insistono" a sostenere che nella "cornice del Tondo [...] sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti"?!
USCIRE DALL’#INFERNO DELLA #RIPETIZIONE E DAL #LETARGO DI MILLENNI (Par. XXX, III, 94).
Storia, filosofia, filologia, #psicoanalisi: una nota su una "ignota" #svolta_antropologica in corso...
IL #PROGRAMMA DI #DANTEALIGHIERI ALL’ORDINE DEL GIORNO (#25MARZO 2024: #Dantedì).
Riprendere il cammino di "#Ulisse" e portarsi oltre il "Convivio", il #Simposio, di #Platone e del suo "socratico" #amore (#Eros), avido e cupìdo, #figlio nato dalla astuta alleanza (#Metis) dell’#uomo-#Ingegno (gr. #Poros) e della #donna-#Povertà (gr. #Penia). La lezione di Platone appare essere la chiara codificazione di una fenomenologia dello spirito della #tragedia e la sua parola una versione della #Legge del #Figlio di Dio (#Zeus) , #Apollo: "«non è la madre la generatrice di quello che è chiamato suo figlio; ella è la nutrice del germe in lei inseminato. Il generatore è colui che la feconda...» (#Eschilo, #Eumenidi, 657 ss.): : un ’#cattolicesimo’ platonico.
ARTE, #ANTROPOLOGIA, #FILOLOGIA E #TEOLOGIA:
LA "STORICA" #LEZIONE ANTROPOLOGICA DELLA #CORNICE LIGNEA DEL #TONDODONI (E DELLA #NARRAZIONE DELLA #VOLTA DELLA #CAPPELLASISTINA: DUE PROFETI E #DUE SIBILLE "INDICANO" LO #SPAZIOTEMPO DELLA #NASCITA DEL #FIGLIO DI #MARIAEGIUSEPPE. Come mai gli esperti della #GalleriadegliUffizi "insistono" a sostenere che nella "cornice del Tondo [...] [sono raffigurate la testa di Cristo e quelle di #quattro profeti https://www.uffizi.it/opere/sacra-famiglia-detta-tondo-doni]"?!
PIANETA TERRA: L’ HAMLETICA QUESTIONE ANTROPOLOGICA (SHAKESPEARE, 1600; KANT, 1800) E LA "INTRODUZIONE DEL 1857" (K. MARX).
Con Il lungo processo storico che in Europa e nel mondo, almeno dal XVIII secolo, ha innescato la contrapposizione delle diverse forme del contesto sociale all’individuo come un puro strumento per i suoi scopi privati, non solo «Dio è morto» (#Nietzsche) ma anche l’#Uomo (#MichelFoucault) della #tradizione edipico-androcentrica (platonica, paolina, hegeliana, ed heideggeriana):
#EARTHRISE (1968). In principio era il Logos (dell’#Efeso di #Eraclito e dell’evangelista Giovanni, non il #logo dello "apostolo" Paolo di Tarso) e uscire dall’#inferno (#Dantedì, #25marzo 2024) è possibile!
*
ARTE RELIGIONE STORIA ANTROPOLOGIA E FILOLOGIA DEL RINASCIMENTO:
LORENZO LOTTO (1480-1556).
A MIO PARERE, LORENZO LOTTO MERITA ATTENZIONE CULTURALE E STORIOGRAFICA: LA LUNGA ONDA DELL’#INTERPRETAZIONE UMANISTICO-RINASCIMENTALE DEL MESSAGGIO EVANGELICO, COME DI UN #CAMMINO #PARALLELO DI #PROFETI E #SIBILLE, CHE ARRIVA MAGISTRALMENTE CON [MICHELANGELO BUONARROTI FINO IN CIMA ALLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA, E, CON LORENZO LOTTO, GIUNGE CON I PROFETI E LE SIBILLE DELLA "CAPPELLA SUARDI", NELLE OPERE DEL "CICLO LAURETANO", ALLA SANTA CASA DI LORETO, ALLA CASA DI MARIA E GIUSEPPE, E ALLA "ADORAZIONE DEL BAMBINO".
*
L’EDITORIALE
Quando il diavolo ci mette lo zampino
di Paola Militano (Corriere della Calabria, 02/03/2024)
Perché la ‘ndrangheta dovrebbe avvelenare il mite parroco di San Nicola di Pannaconi, popolato da mille anime appena o minacciare quello giovanissimo nella vicina Cessaniti? E perché a distanza di qualche giorno, nonostante, il clamore suscitato dagli episodi criminali (deprecabili e da condannare senza riserve), alzare il tiro e senza indugi, puntare dritto al vescovo della diocesi, quasi a voler svelare il vero obiettivo del clima intimidatorio?
Come nei gialli di Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». La risposta è da ricercare, evidentemente, all’interno della Diocesi di Mileto-Nicotera-Tropea, messa a dura prova dalla rinuncia al governo pastorale, (dopo 14anni) di mons. Luigi Renzo, il vescovo che “cancella” la Fondazione di Natuzza Evolo, finita nel gennaio 2023, al centro dell’operazione Olimpo. E tra i motivi dell’abbandono e del trasferimento dell’arcivescovo di Catanzaro Squillace, Vincenzo Bertolone.
Da qui (non mi pare poco) la nomina e l’ingresso del vescovo palmese Attilio Nostro con il compito di ricordare che «la Chiesa, pur agitata e scossa per le vicende della storia, non crolla, perché è fondata sulla pietra, da cui Pietro deriva il suo nome» e di ricondurre alla fede, una comunità scossa dagli avvicendamenti. E c’è chi è pronto a giurare, che sono proprio i trasferimenti di tutti i parroci «mai visti da nord a sud della provincia», messi in atto dall’alto prelato, il male all’origine di tutti i mali.
E forse non è un caso se Papa Francesco, recentemente a Roma, nella Sala del Concistoro dove incontra la Conferenza Episcopale Calabra, avverte:
E rivolgendosi ai Vescovi chiede:
In attesa che la giustizia faccia il suo corso, smilitarizziamo i cuori.
CITTADINANZA ATTIVA, FACOLTA’ DI GIUDIZIO, E ANTROPOLOGIA: #SAPEREAUDE! (#KANT2024).
LA LINGUA (LA COSTITUZIONE) BATTE DOVE I DENTI (I PARTITI) DOLGONO. *
Tutte le articolazioni del "corpo mistico" della democratica società italiana scricchiolano alla grande, a tutti i livelli, e da tempo: e la radice è non solo locale, ma globale (antropologica, teologica, e cosmologica)!
*
STORIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DELLA FAMIGLIA E IL NEPOTISMO DEL CATTOLICESIMO DELL’ETA’ MODERNA.
IL CATTOLICESIMO "COSTANTINIANO" (NICEA, 325-2025) E L’INDICAZIONE "ERETICA" DI #DANTEALIGHIERI: PARTENDO DALLA RICERCA SU "Le donne dei papi in età moderna. Un altro sguardo sul nepotismo (1492-1655)" di Maria Antonietta Visceglia (Viella Editrice, Roma 2023), FORSE, SI PUO’ OSSERVARE MEGLIO LA RADICALE SVOLTA "COSTANTINIANA" DELLA VITA DELLO "STATO" DELLA CHIESA CATTOLICA, GIA’ E SUBITO PRIMA DELLA #CADUTA DI #COSTANTINOPOLI (1453) IN MANO TURCA, CON IL SINTOMATICO PASSAGGIO DI NICCOLO’ #CUSANO ( L’AUTORE DIVENTATO CARDINALE, PER I MERITI DELLA POCO EVANGELICA "DOTTA IGNORANZA" DEL 1440 E DELLA "PACE DELLA #FEDE" DEL 1453) DA SOSTENITORE DEL "PARTITO" DELLA SOVRANITA’ DEL #CONCILIO A SOSTENITORE DEL POTERE SUPREMO DEL #PAPA, E, NELLO STESSO TEMPO, CON IL SILENZIAMENTO E LA NEUTRALIZZAZIONE DEL LAVORO CRITICO DI LORENZO VALLA SULLA FALSA "DONAZIONE DI COSTANTINO" (1440).
ALL’INTERNO DI QUESTO ORIZZONTE, MIO PARERE, SI COMPRENDE MEGLIO LA SPECULARE LOTTA DELLO STATO DELLA CHIESA CON LO STATO DELLA SPAGNA (DOPO LA RICONQUISTA DI #GRANADA, 1492) PER L’EGEMONIA TEOLOGICO-POLITICA EUROPEA; E, UNITARIAMENTE, L’INCAPACITA’ AD ACCOGLIERE LA "INAUDITA" ED "ERETICA" INDICAZIONE DELLA "#MONARCHIA" DEI "#DUESOLI" DI DANTE ALIGHIERI E, INFINE, LE SUCCESSIVE SOLLECITAZIONI TEOLOGICHE E ANTROPOLOGICHE DELLA #RIFORMA PROTESTANTE (1517) PRIMA E DELLA RIFORMA ANGLICANA (1534) POI, ECC.
DANTE ALIGHIERI E MERCURINO ARBORIO DI GATTINARA. Sul tema, è bene ricordare, mi sia lecito, la lezione magistrale di #KarlBrandi che, a conclusione della sua "lettura" della biografia di "Carlo V" (1935), rievoca (con le seguenti testuali parole) la figura del "gran cancelliere Mercurino di Gattinara, il cui ideale imperiale non era stato diverso dal sogno imperiale di Dante; e aveva espresso la fede in un ordinamento del mondo retto dall’Impero e dal Papato, ciascuno nella sua sfera, l’uno e l’altro pienamente e sovranamente responsabili verso l’intera umanità" (Einaudi, Torino 2001); e, ancora, che Ernst H. #Kantorowicz, nel suo lavoro su "I due corpi del re" (1957), intitola e dedica l’intero ultimo capitolo a "La regalità antropocentrica: Dante" (Einaudi, Torino 2012).
P. S. - #MACHIAVELLI CON DANTE ALIGHIERI CONTRO IL #FAMILISMO TEOLOGICO-POLITICO. NICCOLO’ MACHIAVELLI, “DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA DI TITO LIVIO”:
"Della religione de’ Romani. (...) gli regni i quali dipendono solo dalla virtù d’uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come prudentemente Dante dice:
Non è, adunque, la salute di una republica o d’uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l’ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. (...)" (“DISCORSI”, Libro I, cap. XI).
LA BILANCIA E LA NASCITA...
DIRITTO, DOVERE, E COSTITUZIONE: UNA QUESTIONE DI FILOLOGIA E DI ANTROPOLOGIA (DA PORRE ALL’ORDINE DEL GIORNO, PER EVITARE... UN ARROSSIMENTO GENERALE).
La #bilancia della #giustizia e l’urgenza epocale di una #equilibrazione del #rapportosociale di ri-#produzione: "un’operazione #matematica ritenuta abitualmente sbagliata: un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia, 1978).
#SAPEREAUDE! (#KANT2024). LIBERARE la #Giustizia dalla benda (v. allegato) è un programma di uscita dallo "stato di minorità" (#Kant, 1784), una sollecitazione antropologica a servirsi della propria facoltà di giudizio, di avere il coraggio di #apriregliocchi (ricordare la difficoltà di #Freud, a riguardo) e di non #giudicare né con gli occhi chiusi né con un solo occhio.
Riconoscere l’#identità e la #differenza di sé con sé, di sé con l’altro da sé, di sé con l’altra da sé, l’#uguaglianza e la #diversità, è proprio una questione di "equilibrazione", di bilancia: ne va della nostra stessa #nascita e della nostra stessa #vita.
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, "RELIGIONE DEL DOVERE", E "DIVINA COMMEDIA":
BENEDETTO CROCE E LA PUNTA FILOSOFICA DI UN ICEBERG COSMOTEANDRICO.
Sul "lascito morale di Benedetto Croce", forse, è opportuno ricordare storiograficamente (filologicamente e antropologicamente) che "la lingua batte dove il dente duole": può essere condivisibile, oggi, la considerazione che “ciò che si richiede e che si ubbidisca ad una necessità morale. La quale comanda che si attenda con ogni rischio, a tutelare gli umani valori e le umane virtù, il rispetto della personalità, il dir no al male e sì al bene, ciò che si chiama insomma il culto della libertà; la quale è il principio direttivo a cui sempre deve si deve far ricorso. Quale che sia lo schema di ciò verso cui il mondo va, quello schema sarà riempito da uomini e sarà reale solo nei pensieri, nei sentimenti e negli atti degli uomini, e avrà quella realtà che essi gli daranno, e tanto migliore quanto migliori quegli uomini. Non vi date dunque pensiero di dove vada il mondo, ma dove bisogna che andiate voi, per non calpestare cinicamente la vostra coscienza, per non vergognarvi di voi stessi” (cfr. Tito Lucrezio Rizzo, "Il lascito morale di Benedetto Croce", L’Opinione delle Libertà, 08 febbraio 2024)?!
All’interno dell’attuale presente storico (dell’Europa del 2024), proprio per non vergognarsi di sé e ri-accogliere come indicazione antropologica piena l’affermazione che «L’uomo morale - affermerà nuovamente il #Croce - è il "Vir bonus agendi peritus", chiamato ad operare nel quotidiano sorretto da una retta #coscienza che ne ispirava l’agire concreto, perseguendo i fini di utilità generale da raggiungere e di cui farsi strumento» (T. L. Rizzo, cit.), non è , forse, necessario re-interrogarsi e re-interpretare il rapporto tra la tradizione greco-romana e la tradizione cristiana (con spirito critico, con le famose "virgolette" crociane, del saggio del 1942), proprio a partire da questa "ovvia" (ma indebita) generalizzazione, in cui l’uomo (#Vir) vale immediatamente come l’Uomo (#Homo), come il #genereumano nella sua totalità (cioè, per l’#uomo e per la #donna, per "Adamo ed Eva", e per "Giuseppe e Maria")?
Non è bene riprendere il filo almeno dalla "Divina Commedia" e reinterrogarsi non solo sul significato della lezione di #Beatrice a #Dante sul senso di quel "sarai meco sanza fine cive / di quella #Roma onde #Cristo è romano" (Purg. XXXII, 101-102), ma anche sul "Tu devi" kantiano, sul problema dell’imperativo categorico di Immanuel Kant, se si vuole vivere secondo Coscienza, cioè secondo la Costituzione della Repubblica italiana?
Federico La Sala
COSMOLOGIA #ARTE #ANTROPOLOGIA E DIVINA COMMEDIA: MEMORIA DELLO "SPOSALIZIO DI GIUSEPPE E MARIA" (#23GENNAIO) E UN "VECCHIO" INVITO AD ACCOGLIERE IL "MORMORIO SOTTILE" DELL’OPERA DI DANTE ALIGHIERI.
STORIA E LETTERATURA: #RICAPITOLAZIONE E #POESIA. Dopo le sollecitazioni "#cosmicomiche" (#ItaloCalvino) di #DanteAlighieri a uscire dal "#letargo" (Par. XXXIII, 94), forse, è proprio il tempo di riaprire la #Commedia e non rinchiuderla per sempre nell’orizzonte del "#Boccaccio" e del "#Petrarca"; e, togliendo le virgolette al "Perché non possiamo non dirci «cristiani»"(Benedetto Croce, 1942), comprendere antropologicamente, che, come MARIA: "FIGLIA DEL TUO FIGLIO", così GIUSEPPE: "FIGLIO DEL TUO FIGLIO": e, riprendere proprio quel filo perduto (quel "#paradigma perduto") che collega benevolmente e cosmologicamente il passato e il presente, l’alto e il basso, il sopra e il sotto, e #cielo e la #terra: in principio era il #Logos...
#FILOLOGIA E #AMORE (#CHARITAS), NON #MAMMONA (#CARITAS)! Dante non "cantò i #mosaici" dei "faraoni", ma soprattutto la Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri". L’Amore "che muove il Sole e le altre stelle".
NOTE:
L’EUROPA, "L’ELOGIO DELLA FOLLIA" (1511) E L’UTOPIA (1516). CULTURA E SOCIETÀ: "LA MONTAGNA INCANTATA" (1924) e "IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (1929).
Una nota a margine di una "citazione" di una lettera di #Tommaso Moro a #Erasmo di Rotterdam:
«Non puoi immaginarti quanto ora io m’imbaldanzisca, quanto mi gonfi, quanto mi tenga più su. Immagino di continuo che i miei Utopiani mi vorranno eleggere loro sovrano perpetuo, tanto che mi vedo già incedere del diadema di frumento, mi vedo cospicuo nel paludamento francescano, mi vedo portare lo scettro venerabile di un covone di messi. Circondato da un’insigne accolta di cittadini di Amauroto, mi vedo, in pompa solenne, andare incontro agli ambasciatori e ai principi delle genti straniere, ben miseri al nostro confronto, pieni di sciocca superbia, perché ornati fanciullescamente, pieni di vanità femminile, carichi di disprezzabile oro, ridicoli per la porpora, per le gemme, per altre bazzecole.» (Cfr. E. Scelza, "LE CITAZIONI: il sogno ad occhi aperti di Tommaso Moro", "Gente e Territorio", 15 novembre 2023).
SE SI CONSIDERA CHE TOMMASO MORO (1478-1535) scrive quello che scrive ad ErasmodiRotterdam (1469-1536) il 4 dicembre 1516, e che, al contempo, Martin #Lutero (1483-1546) nell’ottobre del 1517 diffonde le sue #95Tesi, c’è da pensare che ognuno sognasse un proprio #sogno ad occhi aperti e non avessero affatto un #mondo "unico e comune" (#Eraclito) : questo spiega, soprattutto da parte di Erasmo e Moro, anche la loro presa di distanza dalle sollecitazioni di riforma della Chiesa da parte di Lutero.
Non è un caso che, pochi anni dopo (al tempo di Carlo V, dopo il Sacco di Roma nel maggio del 1527), la richiesta di un tentativo di edizione della "#Monarchia" di #DanteAlighieri, fatto da Alonzo de #Valdès (1490 - 1532) e Mercurino di #Gattinara (1465-1530), è lasciato cadere nel vuoto da Erasmo da Rotterdam (nel marzo del 1527), e, ancora e purtroppo, di lì a poco c’è la rottura di #EnricoVIII con Chiesa cattolica e l’avvio della Riforma Anglicana (1534).
All’indomani della Prima Guerra Mondiale, alla fine della sua "Montagna Incantata" (#Zauberberg, 1924), #ThomasMann scrive: "Chi sa se anche da questa mondiale sagra della morte, anche dalla febbre maligna che incendia tutt’intorno il cielo piovoso di questa sera, sorgerà un giorno l’amore?" (trad. di E. Pocar).
Nel 1929, in Italia, la Chiesa Cattolica e lo Stato italiano sottoscrivono il "Concordato" (#PattiLateranensi, 11 febbraio 1929): a Vienna, intanto, #SigmundFreud porta avanti il suo lavoro e pubblica il risultato delle sue ricerche e delle sue riflessioni sul "Disagio della civiltà" (e nella civiltà).
P.S. - STATO ITALIANO E STATO PONTIFICIO (CHIESA CATTOLICA): LA QUESTIONE ROMANA E IL "#20SETTEMBRE 1870" (Festa della liberazione della capitale e dell’unificazione nazionale, abolita dal Fascismo). #BENEDETTOCROCE, NELLA "STORIA D’ITALIA DAL 1871 AL 1915" (1928), A PROPOSITO DEL PERSONAGGIO "LUDOVICO SETTEMBRINI" DELLA "MONTAGNA INCANTATA" ("DER ZAUBERBERG", 1924) DI THOMAS MANN, COSI’ SCRIVE:
L’ AMLETICA “QUESTION” DI ELISABETTA I (REGINA D’INGHILTERRA E PAPA DELLA CHIESA ANGLICANA), LA LEZIONE SULLA “VISIBILITA” (“VISIBILITY”) DI ITALO CALVINO, E IL PROBLEMA DEL “MODELLO PATRIARCALE”.
A MARGINE E A PROPOSITO DELL’ “USO PERSUASIVO E PROPAGANDISTICO DELLA FAMIGLIA” (DEL “PRESEPE”) E DEGLI ANTROPOMORFISMI MESSI IN LUCE NELLA RIFLESSIONE SUL “BENTORNATO MASCHIO” (Gianfranco Pellegrino, "Le parole e le cose", 26 ottobre 2023), FORSE, non sarebbe male se la sollecitazione a riflettere venisse accolta soprattutto dalle antropologhe, dalle filosofe, dalle psicoanaliste, e dalle teologhe:
*
VISTO CHE il “modello patriarcale” come strumento di analisi fa acqua da tutte le parti, almeno dal tempo della “dialettica” di Hegel, e, ancor di più, dopo Freud e la sua indicazione a muoversi ad usare il “modello edipico completo”, è più che augurabile fare qualche passo avanti teorico e pensare a un modello “patriarcale-matriarcale” (padrone-serva e padrona-servo), alla luce delle “Lezioni americane” (non solo la quarta, la “Visibilità”) e del “Castello dei destini incrociati” (in particolare, del capitolo della seconda parte, “La taverna dei destini incrociati”, col titolo “Anch’io cerco di dire la mia”).
Federico La Sala
P. S. - LETTERATURA E PSICOANALISI: “IL CASTELLO DEI #DESTINI INCROCIATI” (ITALO CALVINO). L’INCONTRO CON “SIGISMONDO DI VINDIBONA” [VIENNA] NELLA “TAVERNA DEI DESTINI INCROCIATI”. Una “presentazione” del mito di Edipo con le carte dei Tarocchi:
“ANCH’IO CERCO DI DIRE LA MIA. [...] Tutto questo è come un sogno che la parola porta in sé e che passando attraverso chi scrive si libera e lo libera. Nella scrittura ciò che parla è il represso. E allora Il Papa dalla barba bianca potrebbe essere il gran pastore d’anime e interprete di sogni Sigismondo di Vindobona, e per averne conferma non c’è che verificare se da qualche parte del quadrato dei tarocchi si riesce a leggere la storia che, a quanto insegna la sua dottrina, si nasconde nell’ordito di tutte le storie. [...]” (cfr. I. Calvino, “Anch’io cerco di dire la mia”, “Romanzi e racconti” II, Meridiani, Mondadori, 1992, pp. 592-595).
Federico La Sala
P. S. 2 - ARCHEOLOGIA FILOSOFICA, MATEMATICA, E FILOLOGIA...
“Bentornato maschio”( v. sopra) non è solo una chiamata in causa di intellettuali di ogni genere e di ogni specie, ma anche, e prima di tutto, è un segnavia “storico” per ogni cittadino e ogni cittadina per dare alla amletica “question” teologico-politica posta da Shakespeare, in stretto collegamento alla presenza sul trono d’Inghilterra di Elisabetta I, regina e papessa della Chiesa anglicana, una propria risposta all’altezza dell’attuale “presente storico” - è una chiamata ad uscire dall’epocale “stato di minorità”, personale e politico (Immanuel Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984) !
“DUE SOLI” (DANTE ALIGHIERI). Re-interrogarsi alla Kantorowicz sulla “regalità antropocentrica: Dante”, sui “due corpi del re” e, ovviamente, anche sui “due corpi della regina”, forse, può essere una buona occasione per svegliarsi dal sonno dogmatico e portarsi fuori dalla cosmoteandria, atea e devota! Se non ora, quando?!
QUESTIONE MATEMATICA E ANTROPOLOGICA. Per approfondimenti, volendo accogliere alcune indicazioni sul tema, si potrebbe ricominciare a contare da almeno da due o, meglio da “Quattro”, dal poema di Italo Testa (“Le parole e le cose”, 3 Settembre 2021).
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA ("ECCE HOMO"), E CRISTOLOGIA (OLTRE L’ORIZZONTE DELL’ANDROCENTRISMO).
"Non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia". Una intervista degna di attenzione da L’Osservatore Romano (del 27 luglio 2023): al centro una rinnovata e forte attenzione al rapporto e alla relazione (di "Adamo ed Eva" e) di "Maria e Giuseppe":
QUESTIONE ANTROPOLOGICA: "[...] Il tema della relazione uomo-donna è paradigmatico. Per dirla un po’ provocatoriamente, penso che oggi più che una “questione femminile” ci troviamo ad affrontare una “questione maschile”! Mi riferisco alla perdita d’identità dell’uomo maschio, che non riesce ad adeguarsi all’emancipazione irreversibile - e benedetta! - del femminile. Il maschio era abituato a idealizzare - e imprigionare - la donna: nei ruoli della madre, della sorella, della sposa o... dell’amante, e in tutti i casi, troppo spesso, della serva. E lui gestiva questi ruoli. Ma non si relazionava con la donna come amica. La straordinaria bellezza della categoria dell’amicizia, meravigliosamente evocata nel #Canticodeicantici, non rientrava nello schema dei rapporti tra i sessi. Oggi la donna finalmente si rifiuta d’essere ingabbiata dentro questo schema riduttivo e persino distorto, approntato dai soli maschi. E l’uomo non sa più che pesci prendere. -Occorre ritrovare e implementare la dimensione originaria della reciprocità. Che è più e altro dalla complementarietà. È uno stato di crisi, quello attuale, che influisce sull’opacità e indeterminatezza dell’identità sessuale. Recuperare la freschezza e gioia della reciprocità da ambedue i sessi, dunque, per recuperare la pienezza della persona nel vivere affetti, libertà e solidarietà.
La nostra arretratezza nel leggere questo fenomeno viene erroneamente attribuita alla fissità anacronistica di una idealizzazione della “sacra famiglia”. Che in verità rappresenta piuttosto un modello che, liberato dalle incrostazioni devozionali che gli abbiamo ritagliato addosso, riluce come lo scrigno delle relazioni umane fondate sull’affettività, la libertà e solidarietà.
Non scordiamo che Gesù non solo assume la sua umanità da Maria ma la matura anche dalla relazione con Giuseppe. Queste considerazioni valgono non solo per la famiglia, ma anche per le comunità di vita religiosa: che non sono meno in crisi delle famiglie. La famiglia di Nazareth è modello per tutti, chi è sposato e chi vive la verginità, entrambi nella logica dell’avvento del Regno. L’evanescenza del ruolo paterno che registriamo è oggi spesso penetrata anche tra i chierici, che non sanno più essere padri, essendo figli e fratelli.
Uno dei meriti di Papa Francesco è quello di suggerire uno sguardo nuovo sulla presenza della figura di Giuseppe padre e di Maria madre nella nostra vita di discepoli. Ma c’è molto cammino da fare. [...]" ( cfr. "Non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia". Riflessioni sul rinnovamento teologico. A colloquio con monsignor Piero Coda, segretario della Commissione teologica internazionale, di Andrea Monda e Roberto Cetera).
Cordoglio del Presidente Mattarella per la scomparsa di Silvio Berlusconi
Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato la seguente dichiarazione: *
«Apprendo con profonda tristezza la notizia della morte di Silvio Berlusconi, fondatore e leader di Forza Italia, protagonista di lunghe stagioni della politica italiana e delle istituzioni repubblicane.
Berlusconi è stato un grande leader politico che ha segnato la storia della nostra Repubblica, incidendo su paradigmi, usi e linguaggi. In una stagione di profondi rivolgimenti, la sua “discesa in campo”, con un partito di nuova fondazione, ottenne consensi così larghi da poter comporre subito una maggioranza e un governo.
La leadership di Berlusconi ha contribuito a plasmare una nuova geografia della politica italiana, consentendogli di assumere per quattro volte la carica di presidente del Consiglio. In queste vesti ha affrontato eventi di portata globale, come la crisi aperta dall’attentato alle Torri Gemelle, la lotta al terrorismo internazionale e gli sconvolgimenti finanziari alla fine del primo decennio del nuovo secolo.
Ha progressivamente integrato il movimento politico da lui fondato nella famiglia popolare europea favorendo continuità nell’indirizzo atlantico ed europeista della nostra Repubblica.
E’ stato una persona dotata di grande umanità e un imprenditore di successo, un innovatore nel suo campo. Ha conquistato posizioni di assoluto rilievo nell’industria televisiva e nel settore dei media, ben prima del proprio impegno diretto nelle istituzioni.
E’ stato artefice di importanti successi nel mondo dello sport italiano.
Desidero esprimere il mio cordoglio e la mia solidarietà ai figli, a tutti i familiari, al suo partito, a coloro che più gli sono stati vicini nella vita e nell’ultima battaglia contro la malattia, combattuta con coraggio ed esemplare ottimismo».
Fonte: Sito della PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
LA MADRE DEL PARTIGIANO
Sulla neve bianca bianca
c’è una macchia color vermiglio;
è il sangue, il sangue di mio figlio,
morto per la libertà
Quando il sole la neve scioglie
un fiore rosso vedi spuntare:
o tu che passi, non lo strappare,
è il fiore della libertà
Quando scesero i partigiani
a liberare le nostre case,
sui monti azzurri mio figlio rimase
a far la guardia alla libertà.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#FILOLOGIA E #CRISTOLOGIA ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE.
La grande eroica ricerca di #Nietzsche è stata quella di rispondere alla domanda già di #Shakespeare , alla #question di Amleto, e portare il discorso oltre #Wittenberg (la #RiformaProtestante ), e chiarirsi e chiarire le idee relative all’ #essere degli esseri umani, figli e figlie del "#Re dei Re", di "Dio", e di andare oltre la tragica #logica del "sapere di non sapere" platonica, del #mentitore, e dell’ #adulterio e dell’#incesto ("Così parlò #Zarathustra ", parte IV). Egli, a mio parere, ha aperto la strada e dato indicazioni per sciogliere il nodo e non nella direzione del #supeuomo cosmoteandrico (cfr. Federico La Sala , "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica ", Roma 1991).
#ANTROPOLOGIA O #ANDROLOGIA? #Gesù, chi era? Quello del "parto maschio del tempo" di san #Paolo e #Costantino (e #Bacone ), o quello del tempo di san #Francesco ("Cantico delle #Creature " o "Cantico di Frate #Sole ") e #DanteAlighieri ("l’amor che muove il sole e le altre stelle") e di ogni #essereumano nato di donna e di uomo nel pianeta Terra?
FILOLOGIA E STORIOGRAFIA DELLA STORIA D’ITALIA E "LA GENTE DALLA DOPPIA TESTA" (PARMENIDE).
DI COSA PARLANO GLI STORICI E LE STORICHE DELL’ITALIA QUANDO PARLANO E SCRIVONO DI STORIA D’ITALIA?
Parlano di "Dio" o di Dio, di "Patria" o di Patria, di "Famiglia" o di Famiglia? Siamo fratelli tutti, ma di quale famiglia, di quale patria e di quale Dio - quello di Italia o di "Italia"?
Archeologia, Antropologia, Giustizia, e Costituzione: "Homo pontifex" (MichelSerres). Per uscire dall’orizzonte del mentitore, forse, è opportuno ritornare a Elea e rivisitare la città di Parmenide e Zenone: la cosiddetta "Porta Rosa" non è affatto una "porta", ma è un viadotto, un ponte...
Il discorso della senatrice a vita Liliana Segre
L’apertura della seduta a Palazzo Madama per il voto del presidente
di Redazione Ansa*
***
Ecco il testo del discorso della senatrice a vita Liliana Segre che ha aperto a Palazzo Madama la seduta per il voto del presidente
Colleghe Senatrici, Colleghi Senatori,
rivolgo il più caloroso saluto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e a quest’Aula. Con rispetto, rivolgo il mio pensiero a Papa Francesco.
Certa di interpretare i sentimenti di tutta l’Assemblea, desidero indirizzare al Presidente Emerito Giorgio Napolitano, che non ha potuto presiedere la seduta odierna, i più fervidi auguri e la speranza di vederlo ritornare presto ristabilito in Senato.
Il Presidente Napolitano mi incarica di condividere con voi queste sue parole: “Desidero esprimere a tutte le senatrici ed i senatori, di vecchia e nuova nomina, i migliori auguri di buon lavoro, al servizio esclusivo del nostro Paese e dell’istituzione parlamentare ai quali ho dedicato larga parte della mia vita”.
Rivolgo ovviamente anch’io un saluto particolarmente caloroso a tutte le nuove Colleghe e a tutti i nuovi Colleghi, che immagino sopraffatti dal pensiero della responsabilità che li attende e dalla austera solennità di quest’aula, così come fu per me quando vi entrai per la prima volta in punta di piedi.
Come da consuetudine vorrei però anche esprimere alcune brevi considerazioni personali.
Incombe su tutti noi in queste settimane l’atmosfera agghiacciante della guerra tornata nella nostra Europa, vicino a noi, con tutto il suo carico di morte, distruzione, crudeltà, terrore...una follia senza fine.
Mi unisco alle parole puntuali del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “la pace è urgente e necessaria. La via per ricostruirla passa da un ristabilimento della verità, del diritto internazionale, della libertà del popolo ucraino”.
Oggi sono particolarmente emozionata di fronte al ruolo che in questa giornata la sorte mi riserva.
In questo mese di ottobre nel quale cade il centenario della Marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio ad una come me assumere momentaneamente la presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica.
Ed il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché, vedete, ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre; ed è impossibile per me non provare una sorta di vertigine ricordando che quella stessa bambina che in un giorno come questo del 1938, sconsolata e smarrita, fu costretta dalle leggi razziste a lasciare vuoto il suo banco delle scuole elementari, oggi si trova per uno strano destino addirittura sul banco più prestigioso del Senato!
Il Senato della diciannovesima legislatura è un’istituzione profondamente rinnovata, non solo negli equilibri politici e nelle persone degli eletti, non solo perché per la prima volta hanno potuto votare anche per questa Camera i giovani dai 18 ai 25 anni, ma soprattutto perché per la prima volta gli eletti sono ridotti a 200.
L’appartenenza ad un così rarefatto consesso non può che accrescere in tutti noi la consapevolezza che il Paese ci guarda, che grandi sono le nostre responsabilità ma al tempo stesso grandi le opportunità di dare l’esempio.
Dare l’esempio non vuol dire solo fare il nostro semplice dovere, cioè adempiere al nostro ufficio con “disciplina e onore”, impegnarsi per servire le istituzioni e non per servirsi di esse.
Potremmo anche concederci il piacere di lasciare fuori da questa assemblea la politica urlata, che tanto ha contribuito a far crescere la disaffezione dal voto, interpretando invece una politica “alta” e nobile, che senza nulla togliere alla fermezza dei diversi convincimenti, dia prova di rispetto per gli avversari, si apra sinceramente all’ascolto, si esprima con gentilezza, perfino con mitezza.
Le elezioni del 25 settembre hanno visto, come è giusto che sia, una vivace competizione tra i diversi schieramenti che hanno presentato al Paese programmi alternativi e visioni spesso contrapposte. E il popolo ha deciso.
È l’essenza della democrazia.
La maggioranza uscita dalle urne ha il diritto-dovere di governare; le minoranze hanno il compito altrettanto fondamentale di fare opposizione. Comune a tutti deve essere l’imperativo di preservare le Istituzioni della Repubblica, che sono di tutti, che non sono proprietà di nessuno, che devono operare nell’interesse del Paese, che devono garantire tutte le parti.
Le grandi democrazie mature dimostrano di essere tali se, al di sopra delle divisioni partitiche e dell’esercizio dei diversi ruoli, sanno ritrovarsi unite in un nucleo essenziale di valori condivisi, di istituzioni rispettate, di emblemi riconosciuti.
In Italia il principale ancoraggio attorno al quale deve manifestarsi l’unità del nostro popolo è la Costituzione Repubblicana, che come disse Piero Calamandrei non è un pezzo di carta, ma è il testamento di 100.000 morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti.
Il popolo italiano ha sempre dimostrato un grande attaccamento alla sua Costituzione, l’ha sempre sentita amica.
In ogni occasione in cui sono stati interpellati, i cittadini hanno sempre scelto di difenderla, perché da essa si sono sentiti difesi.
E anche quando il Parlamento non ha saputo rispondere alla richiesta di intervenire su normative non conformi ai principi costituzionali - e purtroppo questo è accaduto spesso - la nostra Carta fondamentale ha consentito comunque alla Corte Costituzionale ed alla magistratura di svolgere un prezioso lavoro di applicazione giurisprudenziale, facendo sempre evolvere il diritto.
Naturalmente anche la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede all’art. 138), ma consentitemi di osservare che se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione - peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi - fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.
Il pensiero corre inevitabilmente all’art. 3, nel quale i padri e le madri costituenti non si accontentarono di bandire quelle discriminazioni basate su “sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”, che erano state l’essenza dell’ancien regime.
Essi vollero anche lasciare un compito perpetuo alla “Repubblica”: “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Non è poesia e non è utopia: è la stella polare che dovrebbe guidarci tutti, anche se abbiamo programmi diversi per seguirla: rimuovere quegli ostacoli !
Le grandi nazioni, poi, dimostrano di essere tali anche riconoscendosi coralmente nelle festività civili, ritrovandosi affratellate attorno alle ricorrenze scolpite nel grande libro della storia patria.
Perché non dovrebbe essere così anche per il popolo italiano? Perché mai dovrebbero essere vissute come date “divisive”, anziché con autentico spirito repubblicano, il 25 Aprile festa della Liberazione, il 1° Maggio festa del lavoro, il 2 Giugno festa della Repubblica?
Anche su questo tema della piena condivisione delle feste nazionali, delle date che scandiscono un patto tra le generazioni, tra memoria e futuro, grande potrebbe essere il valore dell’esempio, di gesti nuovi e magari inattesi.
Altro terreno sul quale è auspicabile il superamento degli steccati e l’assunzione di una comune responsabilità è quello della lotta contro la diffusione del linguaggio dell’odio, contro l’imbarbarimento del dibattito pubblico, contro la violenza dei pregiudizi e delle discriminazioni.
Permettetemi di ricordare un precedente virtuoso: nella passata legislatura i lavori della “Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza” si sono conclusi con l’approvazione all’unanimità di un documento di indirizzo. Segno di una consapevolezza e di una volontà trasversali agli schieramenti politici, che è essenziale permangano.
Concludo con due auspici.
Mi auguro che la nuova legislatura veda un impegno concorde di tutti i membri di questa assemblea per tenere alto il prestigio del Senato, tutelare in modo sostanziale le sue prerogative, riaffermare nei fatti e non a parole la centralità del Parlamento.
Da molto tempo viene lamentata da più parti una deriva, una mortificazione del ruolo del potere legislativo a causa dell’abuso della decretazione d’urgenza e del ricorso al voto di fiducia. E le gravi emergenze che hanno caratterizzato gli ultimi anni non potevano che aggravare la tendenza.
Nella mia ingenuità di madre di famiglia, ma anche secondo un mio fermo convincimento, credo che occorra interrompere la lunga serie di errori del passato e per questo basterebbe che la maggioranza si ricordasse degli abusi che denunciava da parte dei governi quando era minoranza, e che le minoranze si ricordassero degli eccessi che imputavano alle opposizioni quando erano loro a governare.
Una sana e leale collaborazione istituzionale, senza nulla togliere alla fisiologica distinzione dei ruoli, consentirebbe di riportare la gran parte della produzione legislativa nel suo alveo naturale, garantendo al tempo stesso tempi certi per le votazioni.
Auspico, infine, che tutto il Parlamento, con unità di intenti, sappia mettere in campo in collaborazione col Governo un impegno straordinario e urgentissimo per rispondere al grido di dolore che giunge da tante famiglie e da tante imprese che si dibattono sotto i colpi dell’inflazione e dell’eccezionale impennata dei costi dell’energia, che vedono un futuro nero, che temono che diseguaglianze e ingiustizie si dilatino ulteriormente anziché ridursi. In questo senso avremo sempre al nostro fianco l’Unione Europea con i suoi valori e la concreta solidarietà di cui si è mostrata capace negli ultimi anni di grave crisi sanitaria e sociale.
Non c’è un momento da perdere: dalle istituzioni democratiche deve venire il segnale chiaro che nessuno verrà lasciato solo, prima che la paura e la rabbia possano raggiungere i livelli di guardia e tracimare.
Senatrici e Senatori, cari Colleghi, buon lavoro!
* Fonte: ANSA, 13 ottobre 2022 (ripresa parziale, senza immagini).
IL PROBLEMA DELL’UNO (DELL’ONU) E DEI MOLTI: USCIRE DAL LETARGO.
PARMENIDE, IL PONTE DI ELEA, E LA COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA.
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS": UNA QUESTIONE LOGICA EPOCALE...
Costituzione e Società. Se in una Repubblica democratica (dove "tutti i giornali sono uguali" o "tutti i partiti sono uguali") viene fondato e registrato un giornale (o un partito) con un Nome più "uguale degli altri giornali" o, anche, "più uguale degli altri partiti" (es. "La Repubblica", "La Nazione", "La Verità", ecc.), già #solo il Nome non dice qualcosa di ermetico del programma comunicativo o politico di un tale giornale o di un tale partito?
Filosofia e ... Archeologia. "Cum grano salis", una domanda: ma non c’è un vizio logico-politico e psicoanalitico nel mettersi dietro lo scudo di un giornale battezzato "la Repubblica" (!) e raccontare a chi legge la storiella che la propria porta (in senso spaziale e figurato), attraverso cui passa l’acqua di un fiume di opinioni, sia il ponte repubblicano e costituzionale che permette di attraversarlo?
Non è meglio ritornare a Elea-Velia (da Parmenide e Zenone), seguire le inDICazioni della Giustizia (DIKe). e riprendere il cammino sul viadotto, sul ponte della cosiddetta "Porta Rosa" (https://it.wikipedia.org/wiki/Porta_Rosa)?
Federico La Sala
Messaggio di fine anno del Presidente Mattarella *
Care concittadine, cari concittadini,
ho sempre vissuto questo tradizionale appuntamento di fine anno con molto coinvolgimento e anche con un po’ di emozione.
Oggi questi sentimenti sono accresciuti dal fatto che, tra pochi giorni,come dispone la Costituzione, si concluderà il mio ruolo di Presidente.
L’augurio che sento di rivolgervi si fa, quindi, più intenso perché,alla necessità di guardare insieme con fiducia e speranza al nuovo anno, si aggiunge il bisogno di esprimere il mio grazie a ciascuno di voi per aver mostrato, a più riprese, il volto autentico dell’Italia: quello laborioso, creativo, solidale.
Sono stati sette anni impegnativi, complessi, densi di emozioni: mi tornano in mente i momenti più felici ma anche i giorni drammatici, quelli in cui sembravano prevalere le difficoltà e le sofferenze.
Ho percepito accanto a me l’aspirazione diffusa degli italiani a essere una vera comunità, con un senso di solidarietà che precede, e affianca, le molteplici differenze di idee e di interessi.
In questi giorni ho ripercorso nel pensiero quello che insieme abbiamo vissuto in questi ultimi due anni: il tempo della pandemia che ha sconvolto il mondo e le nostre vite.
Ci stringiamo ancora una volta attorno alle famiglie delle tante vittime: il loro lutto è stato, ed è, il lutto di tutta Italia.
Dobbiamo ricordare, come patrimonio inestimabile di umanità,l’abnegazione dei medici, dei sanitari, dei volontari. Di chi si è impegnato per contrastare il virus. Di chi ha continuato a svolgere i suoi compitinonostante il pericolo.
I meriti di chi, fidandosi della scienza e delle istituzioni, ha adottato le precauzioni raccomandate e ha scelto di vaccinarsi: la quasi totalitàdegli italiani, che voglio, ancora una volta, ringraziare per la maturità e per il senso di responsabilità dimostrati.
In queste ore in cui i contagi tornano a preoccupare e i livelli di guardia si alzano a causa delle varianti del virus - imprevedibili nelle mutevoli configurazioni - si avverte talvolta un senso di frustrazione.
Non dobbiamo scoraggiarci. Si è fatto molto.
I vaccini sono stati, e sono, uno strumento prezioso, non perché garantiscano l’invulnerabilità ma perché rappresentano la difesa checonsente di ridurre in misura decisiva danni e rischi, per sé e per gli altri.
Ricordo la sensazione di impotenza e di disperazione che respiravamo nei primi mesi della pandemia di fronte alle scene drammatiche delle vittime del virus. Alle bare trasportate dai mezzi militari. Al lungo, necessario confinamento di tutti in casa. Alle scuole, agli uffici, ai negozi chiusi. Agli ospedali al collasso.
Cosa avremmo dato, in quei giorni, per avere il vaccino?
La ricerca e la scienza ci hanno consegnato, molto prima di quanto si potesse sperare, questa opportunità. Sprecarla è anche un’offesa a chi non l’ha avuta e a chi non riesce oggi ad averla.
I vaccini hanno salvato tante migliaia di vite, hanno ridotto di molto- ripeto - la pericolosità della malattia.
Basta pensare a come l’anno passato abbiamo trascorso le festività natalizie e come invece è stato possibile farlo in questi giorni, sia pure con prudenza e limitazioni.
La pandemia ha inferto ferite profonde: sociali, economiche, morali. Ha provocato disagi per i giovani, solitudine per gli anziani, sofferenze per le persone con disabilità. La crisi su scala globale ha causato povertà,esclusioni e perdite di lavoro. Sovente chi già era svantaggiato è stato costretto a patire ulteriori duri contraccolpi.
Eppure ci siamo rialzati. Grazie al comportamento responsabile degli italiani - anche se tra perduranti difficoltà che richiedono di mantenere adeguati livelli di sicurezza - ci siamo avviati sulla strada della ripartenza;con politiche di sostegno a chi era stato colpito dalla frenata dell’economia e della società e grazie al quadro di fiducia suscitato dai nuovi strumenti europei.
Una risposta solidale, all’altezza della gravità della situazione, che l’Europa è stata capace di dare e a cui l’Italia ha fornito un contributo decisivo.
Abbiamo anche trovato dentro di noi le risorse per reagire, per ricostruire. Questo cammino è iniziato. Sarà ancora lungo e non privo di difficoltà. Ma le condizioni economiche del Paese hanno visto un recupero oltre le aspettative e le speranze di un anno addietro. Un recupero che è stato accompagnato da una ripresa della vita sociale.
Nel corso di questi anni la nostra Italia ha vissuto e subito altre gravi sofferenze. La minaccia del terrorismo internazionale di matrice islamista, che ha dolorosamente mietuto molte vittime tra i nostri connazionali all’estero. I gravi disastri per responsabilità umane, i terremoti, le alluvioni. I caduti, militari e civili, per il dovere. I tanti morti sul lavoro.Le donne vittime di violenza.
Anche nei momenti più bui, non mi sono mai sentito solo e ho cercato di trasmettere un sentimento di fiducia e di gratitudine a chi era in prima linea. Ai sindaci e alle loro comunità. Ai presidenti di Regione, a quanti hanno incessantemente lavorato nei territori, accanto alle persone.
Il volto reale di una Repubblica unita e solidale.
È il patriottismo concretamente espresso nella vita della Repubblica.
La Costituzione affida al Capo dello Stato il compito di rappresentare l’unità nazionale.
Questo compito - che ho cercato di assolvere con impegno - è stato facilitato dalla coscienza del legame, essenziale in democrazia, che esiste tra istituzioni e società; e che la nostra Costituzione disegna in modo così puntuale.
Questo legame va continuamente rinsaldato dall’azione responsabile,dalla lealtà di chi si trova a svolgere pro-tempore un incarico pubblico, a tutti i livelli. Ma non potrebbe resistere senza il sostegno proveniente dai cittadini.
Spesso le cronache si incentrano sui punti di tensione e sulle fratture. Che esistono e non vanno nascoste. Ma soprattutto nei momenti di grave difficoltà nazionale emerge l’attitudine del nostro popolo a preservare la coesione del Paese, a sentirsi partecipe del medesimo destino.
Unità istituzionale e unità morale sono le due espressioni di quel che ci tiene insieme. Di ciò su cui si fonda la Repubblica.
Credo che ciascun Presidente della Repubblica, all’atto della sua elezione, avverta due esigenze di fondo: spogliarsi di ogni precedente appartenenza e farsi carico esclusivamente dell’interesse generale, del bene comune come bene di tutti e di ciascuno. E poi salvaguardare ruolo,poteri e prerogative dell’istituzione che riceve dal suo predecessore e che - esercitandoli pienamente fino all’ultimo giorno del suo mandato - deve trasmettere integri al suo successore.
Non tocca a me dire se e quanto sia riuscito ad adempiere a questo dovere. Quel che desidero dirvi è che mi sono adoperato, in ogni circostanza, per svolgere il mio compito nel rispetto rigoroso del dettato costituzionale.
È la Costituzione il fondamento, saldo e vigoroso, della unità nazionale. Lo sono i suoi principi e i suoi valori che vanno vissuti dagli attori politici e sociali e da tutti i cittadini.
E a questo riguardo, anche in questa occasione, sento di dover esprimere riconoscenza per la leale collaborazione con le altre istituzioni della Repubblica.
Innanzitutto con il Parlamento, che esprime la sovranità popolare.
Nello stesso modo rivolgo un pensiero riconoscente ai Presidenti del Consiglio e ai Governi che si sono succeduti in questi anni.
La governabilità che le istituzioni hanno contribuito a realizzare hapermesso al Paese, soprattutto in alcuni passaggi particolarmente difficili e impegnativi, di evitare pericolosi salti nel buio.
Ci troviamo dentro processi di cambiamento che si fanno sempre più accelerati.
Occorre naturalmente il coraggio di guardare la realtà senza filtri di comodo. Alle antiche diseguaglianze la stagione della pandemia ne ha aggiunte di nuove. Le dinamiche spontanee dei mercati talvolta produconosquilibri o addirittura ingiustizie che vanno corrette anche al fine di un maggiore e migliore sviluppo economico. Una ancora troppo diffusa precarietà sta scoraggiando i giovani nel costruire famiglia e futuro. La forte diminuzione delle nascite rappresenta oggi uno degli aspetti più preoccupanti della nostra società.
Le transizioni ecologica e digitale sono necessità ineludibili, e possono diventare anche un’occasione per migliorare il nostro modello sociale.
L’Italia dispone delle risorse necessarie per affrontare le sfide dei tempi nuovi.
Pensando al futuro della nostra società, mi torna alla mente lo sguardo di tanti giovani che ho incontrato in questi anni. Giovani che si impegnano nel volontariato, giovani che si distinguono negli studi, giovani che amano il proprio lavoro, giovani che - come è necessario - si impegnano nella vita delle istituzioni, giovani che vogliono apprendere e conoscere, giovani che emergono nello sport, giovani che hanno patito a causa di condizioni difficili e che risalgono la china imboccando una strada nuova.
I giovani sono portatori della loro originalità, della loro libertà. Sono diversi da chi li ha preceduti. E chiedono che il testimone non venga negato alle loro mani.
Alle nuove generazioni sento di dover dire: non fermatevi, non scoraggiatevi, prendetevi il vostro futuro perché soltanto così lo donerete alla società.
Vorrei ricordare la commovente lettera del professor Pietro Carmina, vittima del recente, drammatico crollo di Ravanusa. Professore di filosofia e storia, andando in pensione due anni fa, aveva scritto ai suoi studenti: “Usate le parole che vi ho insegnato per difendervi e per difendere chi quelle parole non le ha. Non siate spettatori ma protagonisti della storia che vivete oggi. Infilatevi dentro, sporcatevi le mani, mordetela la vita, non adattatevi, impegnatevi, non rinunciate mai a perseguire le vostre mete, anche le più ambiziose, caricatevi sulle spalle chi non ce la fa. Voi non siete il futuro, siete il presente. Vi prego: non siate mai indifferenti, non abbiate paura di rischiare per non sbagliare...”.
Faccio mie - con rispetto - queste parole di esortazione così efficaci, che manifestano anche la dedizione dei nostri docenti al loro compito educativo.
Desidero rivolgere un augurio affettuoso e un ringraziamento sincero a Papa Francesco per la forza del suo magistero, e per l’amore che esprime all’Italia e all’Europa, sottolineando come questo Continente possa svolgere un’importante funzione di pace, di equilibrio, di difesa dei diritti umani nel mondo che cambia.
Care concittadine e cari concittadini, siamo pronti ad accogliere il nuovo anno, ed è un momento di speranza. Guardiamo avanti, sapendo che il destino dell’Italia dipende anche da ciascuno di noi.
Tante volte abbiamo parlato di una nuova stagione dei doveri. Tante volte, soprattutto negli ultimi tempi, abbiamo sottolineato che dalle difficoltà si esce soltanto se ognuno accetta di fare fino in fondo la parte propria.
Se guardo al cammino che abbiamo fatto insieme in questi sette anni nutro fiducia.
L’Italia crescerà. E lo farà quanto più avrà coscienza del comune destino del nostro popolo, e dei popoli europei.
Buon anno a tutti voi!
E alla nostra Italia!
Roma, 31/12/2021
*
Fonte: Presidenza della Repubblica.
Politica
Stato-mafia, se trattativa c’è stata «non è un reato»
Ribaltando la sentenza di primo grado la Corte d’Assise d’appello di Palermo assolve l’ex senatore dell’Utri e gli ex ufficiali dei Ros
di Red. Int. (il manifesto, 24.09.2021)
ROMA. Se c’è stata una trattativa tra lo Stato e la mafia per mettere fine alle stragi dei primi anni ’90, non è un reato. Tre anni dopo la decisione con cui la Corte d’Assise di Palermo aveva accolto le richieste dell’accusa riconoscendo l’esistenza di un «patto scellerato» tra una parte delle istituzioni e i boss mafiosi, la Corte d’Assise d’appello del capoluogo siciliano capovolge quella sentenza e assolve gli uomini delle istituzioni. A partire dagli ex ufficiali dei Ros Mario Mori, Antonio Subranni, condannati in primo grado a 12 anni, e Giuseppe De Donno (8 anni), assolti con la formula perché il «fatto non costituisce reato» e dall’ex senatore di Forza Italia Marcello dell’Utri (12 anni in primo grado) «per non aver commesso il fatto». Confermate, invece, le condanne per il boss Leoluca Bagarella (27 anni invece dei 28 del primo grado) e del capomafia Nino Cinà (12 anni). Confermata anche la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca.
«Sono soddisfatto e commosso. E’ un peso che ci togliamo. Il sistema giudiziario funziona», è stato il commento di Dell’Utri dopo la lettura della sentenza. Per l’avvocato Basilio Milo, che difende il generale Mori, «la sentenza stabilisce che la trattativa non esiste. E’ una bufala, un falso storico». Secco, invece, il commento del procuratore generale Giuseppe Fici: «Aspettiamo le motivazioni e leggeremo il dispositivo».
Per la procura di Palermo tra il 1992 e il 1993 gli uomini dello Stato avrebbero trattato con i vertici di Cosa nostra al fine di mettere fine alla stagione delle stragi cominciata con l’attentato ai giudici Falcone e Borsellino e proseguita poi con le bombe a Roma, Milano e Firenze. Sempre secondo l’accusa, rappresentata nel processo di primo grado dai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia e Vittorio Teresi, «i carabinieri dei Ros avevano avviato una prima trattativa con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, che avrebbe consegnato un ’papello’ con le richieste di Totò Riina per fermare le stragi». Accusa sempre respinta dagli imputati.
Diversa la posizione di Marcello Dell’Utri. Le accuse all’ex senatore di Forza Italia facevano riferimento al periodo del governo Berlusconi, ovvero il 1994. Secondo i pm, inoltre, il dialogo che gli ufficiali dei Ros, tramite Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento dell’azione di contrasto alla mafia.
Diverse, e di segno opposto, le reazioni. «Rispetto il giudizio dei magistrati - ha detto il sindaco di Palermo Leoluca Orlando - , tuttavia questa sentenza rischia di non diradare, anche in virtù di una sentenza di primo grado che ha messo in fila fatti inquietanti, le tante zone d’ombra su uno dei periodi più oscuri della nostra Repubblica e sul rapporto perverso tra mafia, politica e istituzioni che ha scandito a suon di bombe la storia italiana».
Soddisfazione per l’esito del processo d’appello è stata espressa invece sia da Matteo Renzi che da Matteo Salvini. Per il leader di Italia viva «oggi si scrive una pagina di storia giudiziaria decisiva. Viene condannato il mafioso e assolti i rappresentanti delle istituzioni. Ciò che i giustizialisti hanno fatto credere in talk show e giornali era falso: non c’è reato. Ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo». Amaro, infine, il commento di Salvatore Borsellino: «In Italia non c’è giustizia», ha detto il fratello del giudice assassinato dalla mafia.
Trattativa Stato-mafia: assolti carabinieri e Dell’Utri
Pena ridotta al boss Bagarella, condannato il capomafia Cinà *
La corte d’assise d’appello di Palermo ha assolto al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno e il senatore Marcello Dell’Utri, accusati di minaccia a Corpo politico dello Stato. In primo grado erano stati tutti condannati a pene severissime.
Dichiarate prescritte le accuse al pentito Giovanni Brusca. Pena ridotta al boss Leoluca Bagarella. Confermata la condanna del capomafia Nino Cinà.
Per Bagarella i giudici hanno riqualificato il reato in tentata minaccia a Corpo politico dello Stato, dichiarando le accuse parzialmente prescritte. Ciò ha comportato una lieve riduzione della pena passata da 28 a 27 anni. Confermati i 12 anni a Cinà. Gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno sono stati assolti con la formula perché il "fatto non costituisce reato", mentre Dell’Utri "per non aver commesso il fatto". Confermata la prescrizione delle accuse al pentito Giovanni Brusca. L’appello, nel corso del quale è stata riaperta l’istruttoria dibattimentale, è cominciato il 29 aprile del 2019. Nel corso del processo è uscito di scena, per la prescrizione dei reati, un altro imputato, Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo Vito, che rispondeva di calunnia aggravata all’ex capo della polizia Gianni De Gennaro e concorso in associazione mafiosa.
A rappresentare l’accusa in aula sono stati i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera che hanno chiesto la conferma della sentenza di primo grado. Al termine del primo dibattimento, la Corte d’Assise aveva inflitto 28 anni a Bagarella, 12 a Dell’Utri, Mori, Subranni e Cinà e 8 a De Donno e Ciancimino. Vennero poi dichiarate prescritte le accuse rivolte al pentito Giovanni Brusca. Sotto processo, ma per il reato di falsa testimonianza, era finito anche l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino che venne assolto. La Procura non presentò appello e quindi l’assoluzione diventò definitiva. Per la cosiddetta trattativa è stato, infine, processato separatamente e assolto, in abbreviato, l’ex ministro Dc Calogero Mannino. "Uomini delle istituzioni, apparati istituzionali deviati dello Stato, hanno intavolato una illecita e illegittima interlocuzione con esponenti di vertice di Cosa nostra per interrompere la strategia stragista.
La celebrazione del presente giudizio ha ulteriormente comprovato l’esistenza di una verità inconfessabile, di una verità che è dentro lo Stato, della trattativa Stato-mafia che, tuttavia, non scrimina mandanti ed esecutori istituzionali perché o si sta contro la mafia o si è complici. Non ci sono alternative", aveva detto l’accusa durante la requisitoria del processo d’appello, al termine della quale aveva chiesto la conferma di tutte le condanne del primo grado. Secondo i pm, il dialogo che gli ufficiali del Ros, tramite i Ciancimino e godendo di coperture istituzionali, avviarono con Cosa nostra durante gli anni delle stragi per interrompere la stagione degli attentati, avrebbe rafforzato i clan spingendoli a ulteriori azioni violente contro lo Stato. Sul piatto della trattativa, in cambio della cessazione delle stragi, sarebbero state messe concessioni carcerarie ai mafiosi detenuti al 41 bis e un alleggerimento nell’azione di contrasto alla mafia. Il ruolo di Mori e i suoi, dopo il ’93, sempre nella ricostruzione dell’accusa, sarebbe stato assunto da Dell’Utri che nella sentenza di primo grado venne definito "cinghia di trasmissione" tra i clan e gli interlocutori istituzionali.
"E’ un film, una cosa inventata totalmente - dice Marcello Dell’Utri, in una telefonata con Bruno Vespa a Porta a Porta -. Io questo processo non l’ho neanche seguito. Mi sono sentito quando sono andato a Palermo all’udienza come un turco alla predica, non capivo di cosa stessero parlando. Questa cosa era inesistente però purtroppo avevo paura che potessero avallare queste cose inventate servendosi dei soliti pentiti che hanno bisogno di dire cose per avere vantaggi, e di molta stampa che affianca le procure e soprattutto la procura di Palermo. Questo mi preoccupava, ma speravo intimamente nell’assoluzione".
"Non abbiamo mai dubitato dell’estraneità del Generale Mario Mori e degli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni e Giuseppe De Donno alla vicenda per la quale per anni sono stati inchiodati e additati come traditori dello Stato. Questa sentenza ci obbliga ad una lettura radicale della narrazione di questi anni. La riforma della giustizia e in particolare la responsabilità civile sono una impellente necessità". Lo dichiarano Maurizio Turco e Irene Testa, Segretario e Tesoriere del Partito Radicale.
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, MESSAGGIO EVANGELICO, COSTITUZIONE, E SIMBOLI.... *
I simboli e i singoli, laicità e buon senso.
Ma la libertà non è negativa
di Giuseppe Anzani (Avvenire, venerdì 10 settembre 2021)
Il crocifisso torna davanti ai giudici. È toccato alla Corte suprema di Cassazione a Sezioni unite dire se quel simbolo può stare appeso o no alle pareti di un’aula scolastica. Regolamenti, leggi, sentenze? L’orizzonte si apre a temi più grandi, irrompono parole come libertà religiosa, laicità dello Stato, cultura e tradizione e comune sentire e individuale dissentire; e infine sullo sfondo, volere o no, resta quel mistero immenso che due millenni fa ha spaccato in due la storia del mondo.
E dire che l’origine del caso è un episodio in apparenza banale: l’assemblea di classe degli studenti delibera l’esposizione del crocifisso nell’aula, un docente non lo vuole e lo stacca fisicamente durante le sue ore di lezione; riceve una sanzione disciplinare, la impugna. La causa percorre tutti i gradi e approda alle Sezioni unite, che decidono sostanzialmente così: l’aula può accogliere il crocifisso, quando la comunità scolastica decide in autonomia di esporlo; ciò non comporta discriminazione; il docente dissenziente non ha nessun potere di veto; deve tuttavia cercarsi una soluzione che rispetti la sua «libertà negativa di religione». Come a dire, in sottinteso, da ultimo: usate il buon senso.
L’avversione al crocifisso scoppia episodicamente per iniziativa solitaria di individui dei quali è difficile capire se soffrano di allergia al senso religioso altrui o perseguano un disegno demolitore. Sono casi rari, ma eclatanti.
Quello dello scrutatore elettorale, quello del giudice che rifiutava di tenere udienza, quello della donna atea che per far togliere il crocifisso dalla scuola portò il caso fino alla Corte europea dei Diritti umani (2011); e ne ebbe sentenza che l’esposizione del crocifisso «non è sufficiente a condizionare e comprimere la libertà di soggetti adulti e a ostacolare l’esercizio della funzione docente».
Bisognerà dunque riflettere sulla autenticità di simili dichiarate ’allergie’; la legge fondamentale sulla scuola (decreto legislativo n. 297/1994) garantisce ai docenti «autonomia didattica e libera espressione culturale», ma nel «rispetto della coscienza civile e morale degli alunni». Sono gli alunni, infatti, il corpo vivo della comunità scolastica; è in funzione di loro che si fanno cattedre, e non viceversa. Il gesto di togliere a forza, da sé, il crocifisso voluto dagli alunni non pare esattamente un atto educativo.
Libertà? Colpisce la frase «libertà negativa» usata dalla Corte. Se ne intuisce l’intento protettivo, ma il rispetto del ’negativo’ può imporre di azzerare ogni positivo? La libertà del no può annientare la libertà altrui del sì? Libertà è essenzialmente una dimensione positiva della persona umana, è un «agere licere».
La libertà è espressione, non compressione. Se ha un limite, esso è dato dalle contigue libertà, e il suo traguardo è l’armonia. Così la libertà religiosa trova presidio in un concetto di laicità che è tutto il contrario di una asfaltatura dei simboli religiosi per non turbare gli irreligiosi. Chi non s’intona al canto è libero di non cantare, ma non può pretendere di zittire il coro. Una laicità castrante non è nella nostra civiltà, non è nella nostra legge, non è nella nostra libertà. Ma infine, per chi ha fede, il nocciolo non è neppure il crocifisso-arredo. È il Crocifisso, il Vivente, e nessuno può toglierlo dal mondo, e nessuno ce lo stacca dal cuore.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
Storia /
Dal Milite Ignoto all’altare della Patria
Centenario della traslazione 4 novembre 1921- 4 novembre 2021 per ricordare tutti i caduti in guerra d’Europa.
di Riccardo Radi (FiloDiritto, 08 Luglio 2021)
Il 4 novembre 1921, anniversario della fine della Prima guerra mondiale, la bara del Milite Ignoto, portata a spalla da 12 decorati di Medaglia d’oro al valor militare ed accompagnata dalle bandiere di guerra dei 355 Reggimenti che avevano partecipato al conflitto, venne deposta nella cripta ai piedi della statua della Dea Roma, situata al monumento del Vittoriano di Roma e al caduto ignoto fu conferita la Medaglia d’oro al valor militare.
Il monumento del Milite Ignoto è dedicato ai 651.000 mila caduti italiani del Primo conflitto mondiale, in particolare a coloro dei quali non è stato possibile pervenire all’identificazione, al fine di dedicare loro una degna sepoltura e il riconoscimento di tutti gli onori.
Dei tantissimi giovani che persero la vita in quel conflitto, in un Paese agricolo come era l’Italia nei primi del Novecento, molti provenivano dalle campagne e dal Mezzogiorno, chiamati dalla coscrizione obbligatoria a combattere nel Nord d’Italia e con commilitoni che condividevano la comune cittadinanza italiana ma sovente lingue e idiomi diversi.
La legge 11 agosto 1921, n. 1075, recante “la sepoltura in Roma, sull’Altare della Patria, della salma di un soldato ignoto caduto in Guerra”, all’articolo 1, disponeva, a cura dello Stato, la solenne tumulazione al Vittoriano della salma di un soldato sconosciuto caduto in combattimento nella guerra 1915-1918.
Un secolo dopo, il senso profondo del Milite Ignoto acquista nuovi contenuti ponendosi a monito per le nuove generazioni secondo l’articolo 11 della Costituzione che recita: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali [...] promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Pertanto, anche lo stesso sorgere dell’Unione europea che ha unito i popoli che durante la Prima guerra mondiale si combatterono, rappresenta un lascito importante nel ricordo dei caduti nei due conflitti mondiali del nostro Continente.
La Commissione Difesa della Camera dei deputati ha approvato il 31 marzo 2021 la risoluzione n. 7-00604 che impegna il Governo a organizzare un viaggio della memoria con un treno d’epoca, nella composizione più possibile fedele, che compia un identico percorso con le stesse tappe e gli stessi tempi del treno che portò il Milite Ignoto a Roma.
Il ricordo del Milite Ignoto è un momento che accomuna tutti gli Stati membri dell’Unione europea. Stati che, alla fine dei due conflitti mondiali che hanno segnato profondamente il Novecento, hanno rinunciato a una parte della loro sovranità a favore dell’Unione e hanno conferito a quest’ultima parte dei propri poteri, al fine di creare un contesto stabile e di pace.
La commemorazione del Milite Ignoto è diffusa tra i Paesi membri dell’Unione europea e Alleati. A partire dal 1920-21, la costruzione di tombe e monumenti per la commemorazione della figura del Milite Ignoto si diffuse anche all’estero. Sarebbe auspicabile un ricordo comune per tutti per i caduti del Primo conflitto mondiale unendo i Militi Ignoti d’Europa in un abbraccio corale che ricordi l’unità raggiunta e i valori costituenti della pace e della fratellanza tra i popoli, e tutti i caduti in guerra.
DANTE (1321-2021): L’ANTROPOLOGIA, L’ANDROLOGIA, E LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" ... *
I 100 anni di Pax Romana.
Quel fertile e globale luogo di dialogo tra chiesa e società
di Stefano Ceccanti (Avvenire, mercoledì 21 luglio 2021)
I cento anni di Pax Romana, associazione internazionale degli universitari cattolici. Caro direttore, una vecchia foto sul sito di Pax Romana ci riporta al luglio 1921, quando nacque l’associazione internazionale degli universitari cattolici. Per la Fuci c’era Giuseppe Spataro, di lì a poco ai vertici del Ppi. In quel primo periodo fu molto attivo anche Pier Giorgio Frassati, che vedeva in questa apertura delle associazioni e delle istituzioni un vaccino importante rispetto ai nazionalismi.
Il nome riecheggiava il verso di Dante che richiamava all’universalità del cristianesimo («quella Roma onde Cristo è Romano») oltre a ricordare i circa duecento anni di pace in cui si collocò anche la nascita di Gesù. Pax Romana svolse un primo congresso a Bologna nel 1925, insieme a quello della Fuci. Un terreno minato: quattro anni prima della Conciliazione la Fuci lo aveva posto sotto il patrocinio del Re per proteggersi dalle minacce fasciste, ma ciò creò un serio problema col Vaticano, che si risolse affidando a Giovanni Battista Montini e a Igino Righetti la guida della Federazione, Per gli anni successivi vi fu una grande prudenza sui rapporti internazionali per non sfidare il regime nazionalista. Però Montini ebbe lo stesso un’influenza chiave, insieme a Maritain. L’impostazione era quella che troviamo nel volumetto del 1930 ’Coscienza Universitaria’.
La Chiesa aveva perso influenza nelle università e nel mondo della cultura; se voleva riacquisirla doveva pensare in termini di rapporto biunivoco, ossia essa aveva certo da dare a questi ambienti, ma aveva anche da ricevere. In particolare ciò richiedeva un attento discernimento dei vari aspetti della modernità e una rilettura positiva della democrazia. «La verità non è folgorazione d’un lampo; è progressivo, graduale, quasi inavvertito albeggiare di luce», scriveva Montini. E per Maritain andava superata «la scissione fra principio democratico e principio cristiano in Europa, dove gli animi sono divisi tra un cristianesimo irriducibilmente formato nella sua struttura e nella sua dottrina, ma per troppi anni isolato dalla vita del popolo, e l’infedeltà aperta e militante o l’odio per la religione». Nel 1947, seguendo lo stesso schema italiano che aveva fatto sorgere dalla Fuci il Movimento Laureati, Pax Romana si arricchì di un secondo ramo.
Nelle giornate fondative, Étienne Gilson pose come obiettivo quello di «organizzare nel mondo intero la fraternità degli spiriti che pongono l’intelligenza al servizio di Dio», ribadendo il collegamento tra fede e ragione e l’apertura internazionalista. Non fu quindi per caso se persone con questa impostazione e che si erano abituate ad assemblee internazionali, utilizzando più lingue e con complesse procedure democratiche, si siano trovate al centro dei lavori conciliari: sia gran parte degli uditori laici (lo spagnolo Ruiz-Giménez, l’esule catalano Sugranyes de Franch, l’australiana Goldie) sia molti teologi che erano stati assistenti (Guano, Murray) o comunque vicini (Chenu, Congar, il neo-cardinale Journet). Lo stesso per l’impegno politico nelle nuove democrazie: per limitarci solo alla guida dei Governi europei sia in Portogallo (Pintasilgo e poi Antonio Guterres, attualmente segretario Onu) sia in Polonia (Mazowiecky) erano stati esponenti di primo piano di Pax Romana. Anche nella Chiesa del postconcilio il contributo è stato ampio e universale: basti solo pensare al Perù, dove sono stati assistenti nazionali Gutierrez e l’attuale arcivescovo di Lima, Castillo. Questi sono alcuni dei nomi più noti, ma molti sono stati coloro che si sono posti come nani sulle spalle dei giganti, tra Chiesa e società, in tutto il mondo.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". Con la morte di Giovanni Paolo II, il Libro è stato chiuso. Si ri-apre la DIVINA COMMEDIA, finalmente!!!
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
#EDUCAZIONE CIVICA
#EDUCAZIONE SESSUALE.
#Memoria della
#Legge di #Apollo
(#Eschilo):
«non è la madre
la #generatrice di quello che è chiamato suo figlio;
ella è la nutrice del germe in lei inseminato.
Il #generatore è colui che la feconda».
Il caso.
Quando Hitler "rubò Dante" e venne beffato
Nel 1944 Hitler aveva affidato a Speer la costruzione di un Pantheon che avrebbe dovuto accogliere le ossa di grandi personaggi e fra questi Dante. Ma don Mesini le salvò nascondendole in casa
di Franco Gàbici (Avvenire, domenica 4 luglio 2021)
Da sette secoli Ravenna conserva gelosamente le ossa di Dante e per proteggere questo prezioso tesoro ha fatto di tutto, disubbidendo perfino a papa Leone X che nel 1519 aveva autorizzato l’Accademia medicea a recarsi a Ravenna per prelevare le ossa e portarle a Firenze. Tutti sanno come andò a finire la storia. Prima dell’arrivo a Ravenna della delegazione fiorentina i frati Francescani, che si sono sempre considerati custodi delle spoglie del poeta, a notte fonda praticarono un buco nella tomba e nascosero le ossa nell’attiguo convento. Nel 1810, a seguito delle soppressioni napoleoniche degli ordini religiosi, dovettero abbandonare il convento e prima di lasciare la città nascosero la cassetta delle ossa nella cavità di un muro. Qui vennero ritrovate per caso da un muratore alla fine di maggio del 1865 durante i lavori di restauro della zona in occasione del sesto centenario della nascita del poeta. Ci fu grande festa in città per questo ritrovamento, definito l’evento del secolo, e le ossa ritornarono nella tomba.
Ora, secondo un articolo del ravennate Sergio Roncucci pubblicato il 1° luglio sulla rivista ’Pen Italia’ la vicenda delle ossa di Dante si arricchisce di un nuovo capitolo che si discosta dalle versioni ufficiali a suo tempo fornite. Nel 1944 Hitler aveva affidato all’architetto del regime Albert Speer la costruzione di un Pantheon che avrebbe dovuto accogliere le ossa di grandi personaggi e fra questi Dante. L’Oss, il servizio segreto statunitense precursore della Cia, viene a conoscenza del progetto e informa l’Organizzazione per la Resistenza italiana che faceva capo a Raimondo Craveri, genero di Benedetto Croce. Essendo in ballo le ossa di Dante, Croce mette al corrente l’illustre grecista Manara Valgimigli e quest’ultimo, che alcuni anni dopo sarebbe stato chiamato a dirigere la Biblioteca Classense di Ravenna, informa don Giovanni Mesini che subito prende le contromisure.
Don Mesini, conosciuto come ’il prete di Dante’, insieme a Bruno e a Giorgio Roncucci, padre e fratello di Sergio, e del custode della tomba Antonio Fusconi, si reca al cimitero di Ravenna, preleva le ossa da una tomba abbandonata e nella notte fra il 23 e il 24 marzo del 1944 le sistema al posto di quelle del Poeta.
Sergio Roncucci, che all’epoca aveva dieci anni, ricorda che don Mesini si era recato a casa sua portando la cassetta con le ossa del Poeta e alle domande legittime dei familiari aveva risposto col dito indice sulle labbra. «Zitti tutti!». Nel frattempo, sempre secondo Roncucci, le Ss trafugano le ossa di Dante e le portano a Berlino. Quando si accorgono della beffa è tardi, la guerra è ormai alla fine e hanno altro a cui pensare. La storia, dunque, si ripete. E come all’inizio del Cinquecento i Francescani, disobbedendo a papa Leone X, trafugarono le ossa del poeta, allo stesso modo don Mesini e i suoi amici beffarono Hitler.
#BIBBIA CIVILE E #MAGISTERO ANTROPOLOGICO:
#COME NASCONO I BAMBINI?
#Divina Commedia:
#Dante2021.
se #Maria è #madre e #maestra.. #Giuseppe non è #padre e #maestro?!
Per un’altra #fenomenologiadellospirito:
IO, dall’#AMORE di #Due IO.
Report . Ventiquattro matrimoni forzati in due anni. Un terzo ha coinvolto minorenni
Il Viminale ha pubblicato il primo rapporto sulle donne costrette a un’unione che non vogliono. Nove casi si sono verificati nei soli primi cinque mesi di quest’anno. In tante come Saman Abbas
di Silvia Guzzetti (Avvenire, lunedì 28 giugno 2021)
Quante sono le Saman in Italia? Ovvero quante ragazze sono costrette a matrimoni forzati o uccise perché non vogliono accettarli? È questa una delle domande alle quali cerca di rispondere il primo "Report sulla costrizione o induzione al matrimonio in Italia", curato dal Viminale, secondo il quale dal 9 agosto 2019 al 31 maggio 2021 sono 24 i casi di matrimoni forzati registrati nel nostro Paese, 9 dei quali nei soli primi cinque mesi di quest’anno. È proprio al 9 agosto 2019, infatti, che risale l’entrata in vigore del "Codice rosso", che ha introdotto uno specifico reato con lo scopo di contrastare proprio il fenomeno delle "spose bambine",
Dietro la definizione un po’ arida di "matrimonio precoce" come di una "unione formale nella quale viene coinvolto un minorenne, considerato forzato se quest’ultimo non è in grado di esprimere compiutamente e consapevolmente il proprio consenso non solo per le responsabilità che ci si assume con quell’atto ma anche per il fatto che la sua età le impedisce il raggiungimento della piena maturità e capacità di agire", che è contenuta nel rapporto del Viminale, vi sono anche tante storie tragiche simili a quella di Saman Abbas. La diciottenne, di origine pakistana, abitante a Novellara, è scomparsa dalla fine di aprile e gli inquirenti, che stanno indagando per omicidio e occultamento di cadavere il padre e la madre della ragazza, sospettano che sia stata la famiglia a ucciderla e farla scomparire.
LA SCOMPARSA DI SAMAN
Saman è stata vista per l’ultima volta l’11 aprile quando si è allontanta dal centro protetto nei pressi di Bologna dove viveva dallo scorso dicembre. Aveva voluto tornare a casa sua, forse per prendere alcuni documenti, e non ha più fatto ritorno. Agli assistenti sociali che la stavano seguendo e le avevano garantito un rifugio lontano dall’ambiente oppressivo della sua famiglia, aveva raccontato che i genitori volevano costringerla a un matrimonio forzato con un cugino residente in Pakistan. Papà e mamma non riuscivano a perdonare alla figlia di volersi costruire un futuro diverso che comprendesse andare a scuola, viaggiare, lavorare. Le immagini delle telecamere di sorveglianza poste nei pressi dell’azienda in cui lavorava il padre della ragazza mostrano, la sera del 29 aprile, tre persone provviste di un secchio, un sacco nero per la spazzatura e una pala dirigersi verso il campo che circonda l’abitazione di Saman.
CHE COS’E’ IL MATRIMONIO FORZATO
Storie simili vengono suggerite dalle parole usate dal Report del Viminale. "Il fenomeno del matrimonio forzato ha radici storiche, culturali e talvolta religiose. L’emersione di questo reato non è facile perché spesso si consuma tra le mura domestiche e le vittime sono quasi sempre ragazze giovani, costrette ad abbandonare la scuola, talvolta obbligate a rimanere chiuse in casa nell’impossibilità di denunciare anche per paura di ritorsioni".
È sempre il Report ad ammettere che "i dati, inevitabilmente, fotografano una situazione sottodimensionata rispetto a quella reale".
Insomma le statistiche senz’altro sottostimano l’incidenza di questo reato. Il rapporto, che è stato curato dalla direzione centrale della Polizia criminale del Dipartimento della pubblica sicurezza, parla di un 85% dei reati, sempre tra agosto di due anni fa e maggio scorso, riguardanti donne. In un terzo dei casi le vittime sono minorenni (il 9% hanno meno di 14 anni e il 27% hanno tra i 14 e i 17 anni). Ci sono poi le straniere, che sono il 59%, in maggioranza pachistane, seguite dalle albanesi mentre per Romania, Nigeria, Croazia, India, Polonia e Bangladesh si registra una sola vittima.
Nel 73% dei casi gli autori del reato sono stati uomini, anche in questo caso più frequentemente pachistani, seguiti da albanesi, bengalesi e bosniaci. Nel 40% dei casi i responsabili erano di età compresa tra 35 e 44 anni mentre il 27% aveva tra 45 e 54 anni. Il 15% aveva tra 25 e 34 anni.
LA PANDEMIA HA PEGGIORATO LA SITUAZIONE
Sempre il Report del Viminale getta anche uno sguardo globale su questo fenomeno, ricordando che, nel 2020, per effetto delle conseguenze economiche della pandemia, per la prima volta, dopo anni di progressi, si è registrato un peggioramento dell’incidenza dei matrimoni forzati che stanno coinvolgendo molte adolescenti, soprattutto nell’Asia meridionale, nell’Africa centrale e nell’America Latina.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
FLS
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mc 12,29-30)
#Questione Antropologica.
La cit. di Mc 12, 29-30 ha un senso andrologico (e cosmo-te-andrico) o antropologico,
come il #Padre di ogni essere umano (#PonzioPilato: #Ecce homo),
quell’#Amore (di #Dante Alighieri),
che muove il #sole e le altre #stelle -
e anche la #Terra?!
(BEATO ANGELICO, 1437-1446).
#PONZIO PILATO
(«#Ecce #homo»: gr. «idou ho #anthropos»),
#PAOLO DI TARSO
("di ogni uomo il capo è Cristo, e
#capo della donna è l’uomo [«uomo»: gr. ἀνήρ, ἀνδρός], e
capo di Cristo è Dio" - 1Cor. 11, 1-3),
e
(LEONARDO DA VINCI).
Il Vaticano, il ddl Zan e il Concordato da abolire
L’entrata a gamba tesa del Vaticano nella discussione sul ddl Zan non sorprende e mostra come lo statuto privilegiato che lo Stato italiano accorda alla Chiesa può seriamente minarne l’indipendenza e la laicità.
di Cinzia Sciuto (MicroMega, 23 Giugno 2021)
Lo stracciarsi di vesti in seguito alla nota verbale del Vaticano sul Ddl Zan è francamente incomprensibile. Dal 1929 (pieno regime fascista), grazie ai Patti lateranensi, la Chiesa cattolica - una sorta di monstrum metà Stato (con tanto di governo, ministri, ambasciatori, leggi, giudici ecc.) e metà ente religioso (con tanto di testo sacro, dogmi, riti e una rete di parrocchie e diocesi e preti e suore estesa su tutto il globo terracqueo) - gode di uno statuto privilegiato nei rapporti con lo Stato italiano, che francamente non si capisce perché non dovrebbe sfruttare (se non per suo opportunismo).
La Repubblica nata nel 1946 ha confermato in tutto e per tutto questo statuto privilegiato, parzialmente modificato solo con la revisione del Concordato del 1984 che ha fatto un passo importante, senza però tirarne le dovute e logiche conseguenze: dal momento in cui infatti, la religione cattolica non è più religione di Stato (come invece stabiliva il Concordato in vigore fino a quel momento), viene meno il fondamento su cui questo statuto privilegiato si fondava. -Uno Stato laico non può infatti per definizione avere rapporti privilegiati con una religione (tanto più che questa si presenta come quel monstrum metà Stato e metà ente religioso di cui sopra). (Per inciso: uno Stato davvero laico non può avere rapporti privilegiati con le religioni in generale, ma questo è un altro tema).
Antonio Gramsci osservava che il Concordato rappresenta di fatto una limitazione unilaterale della sovranità dello Stato italiano nel proprio stesso territorio: “Mentre il concordato limita l’autorità statale di una parte contraente, nel suo proprio territorio, e influisce e determina la sua legislazione e la sua amministrazione, nessuna limitazione è accennata per il territorio dall’altra parte. [...] Il concordato è dunque il riconoscimento esplicito di una doppia sovranità in uno stesso territorio statale”[1]. Altro che libera Chiesa in libero Stato.
Prendiamo per esempio l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica italiana. Come stabilisce il protocollo addizionale all’accordo di modifica del Concordato del 1984, questo insegnamento ha per legge carattere confessionale, in quanto impartito da insegnanti indicati dall’autorità religiosa e con contenuti non storico-critici ma dogmatici: “L’insegnamento della religione cattolica [...] è impartito - in conformità alla dottrina della Chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni - da insegnanti che siano riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati, d’intesa con essa, dall’autorità scolastica” (corsivi miei).
Se le cose stanno così, dunque, è del tutto inutile, e anche francamente un po’ penoso, frignare e implorare la Chiesa di essere un po’ meno invadente. La Chiesa fa la Chiesa, e a seconda delle contingenze storico-politiche sceglie gli strumenti che più le sono utili per raggiungere i suoi scopi, apparendo talvolta più conciliante ma sapendo tirar fuori gli artigli quando si sente seriamente minacciata. Artigli che però le abbiamo affilato noi.
Purtroppo non possiamo neanche lontanamente sperare che questa occasione venga colta per recidere finalmente l’unico legame della nostra Repubblica con il regime fascista e completare il percorso per rendere questo Paese compiutamente laico. Stando alle anticipazioni della stampa Draghi oggi dirà che «dovranno essere valutati gli aspetti segnalati da uno Stato con cui abbiamo rapporti diplomatici», mentre Letta - il segretario di quello che dovrebbe essere il partito erede di Gramsci - si è già messo sull’attenti, dichiarando di essere “pronto al dialogo sui nodi giuridici”. Nodi giuridici che sono stati sollevati già da diverse realtà non reazionarie e non cattoliche, le quali però non hanno goduto dell’attenzione invece riservata al Vaticano.
Il ddl Zan è, come tutte le proposte di legge in un Paese laico e democratico, aperto alla discussione e agli apporti critici di tutta la cittadinanza. Solo che ci sono cittadini che a disposizione hanno solo gli strumenti della libera discussione politica, attraverso i partiti e la società civile. E poi ci sono cittadini più uguali degli altri che possono contare su quell’animale mitologico metà Stato e metà ente religioso che, quando la lotta si fa dura, tira fuori l’asso nella manica sparigliando le carte.
[1] A. Gramsci, Quaderni del carcere [1932-1935], edizione critica a cura di V. Gerratana, 4 voll., Einaudi, Torino 2007, vol. III, quaderno 16 (XXII), p. 1866.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA (2008) "NON CLASSIFICATA"!!!
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità femminile *
Le cellule riproduttive femminili (ovociti), a differenza di quelle maschili (spermatozoi), vengono prodotte prima della nascita, durante lo sviluppo degli organi genitali.
Nel corso della vita questa "riserva" si riduce poi progressivamente mensilmente fino ad esaurirsi del tutto (menopausa). Ogni donna nasce con 1-2 milioni di follicoli e alla pubertà ne rimangono 500.000. Solo 500 di questi escono dall’ovaio e gli altri si distruggono.
Il sistema riproduttivo femminile dipende dal ciclico reclutamento follicolare, dalla selezione di un unico follicolo dominante, dall’ovulazione e dalla formazione del corpo luteo. Se la fecondazione e di conseguenza l’impianto non avvengono, il corpo luteo scompare, l’endometrio si sfalda e compare la mestruazione.
Dalla pubertà alla menopausa, circa ogni mese, quindi, il corpo femminile si prepara ad un’eventuale gravidanza. Se questa non avviene, compare una nuova mestruazione. Il ciclo mestruale ha una durata variabile tra i 21 e i 35 giorni. Mediamente è di 28 giorni, ma nell’adolescente può essere spesso irregolare.
Dal secondo giorno dall’inizio delle mestruazioni, comincia la cosiddetta fase follicolare: i follicoli che portano a maturazione la cellula uovo si attivano nuovamente, sia per far maturare l’ovocita sia per provvedere alla sintesi degli ormoni (estrogeni e progesterone) necessari per ricostituire l’endometrio.
Intorno al 14° giorno avviene invece l’ovulazione, momento in cui possono avvenire la fecondazione e il concepimento. Il periodo fertile dura circa due giorni (durata in vita della cellula uovo).
Gli spermatozoi sopravvivono invece nel corpo femminile molto di più, anche fino a 4 giorni, per cui un rapporto sessuale avvenuto anche 3 o 4 giorni prima dell’ovulazione può portare alla fecondazione. Per tutto il periodo fertile, quindi, la fecondazione è possibile. Dopo l’uscita della cellula uovo il follicolo si trasforma nel corpo luteo, che produce progesterone, per predisporre l’utero a ricevere l’impianto della cellula uovo fecondata.
Questa fase del ciclo si chiama fase luteale o secretiva. In caso di mancata fecondazione l’uovo viene espulso con la mestruazione. La perfetta sincronia della fisiologia femminile è peraltro continuamente minacciata da insulti o da difetti ad esempio patologie endocrine ovariche od extraovariche che possono ad esempio inficiare l’ovulazione rendendo pertanto la donna infertile o subfertile.
Con l’aumentare dell’età, nella donna si verifica non solo una progressiva riduzione del patrimonio follicolare ma anche un aumento percentuale di ovociti con alterazioni cromosomiche, che mensilmente vengono messi a disposizione dell’ovaio stesso.
Anche l’utero subisce un deterioramento funzionale che riduce la capacità dell’endometrio di interagire con l’embrione e favorisce la possibilità di aborti spontanei; inoltre si registra un incremento dell’incidenza di patologie quali endometriosi e fibromi che ulteriormente riducono la fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
SALUTE RIPRODUTTIVA
Fertilità maschile
Lo spermatozoo è la cellula riproduttrice dell’uomo, fondamentale per la sua fertilità, in quanto incontrandosi con l’ovocita femminile da origine all’embrione.
La spermatogenesi e la produzione di testosterone sono regolati da un sistema integrato di controllo. L’ipotalamo, attraverso la secrezione pulsatile dell’ormone rilasciante le gonadotropine (GnRH), controlla la secrezione ipofisaria dell’ormone follicolo-stimolante (FSH) e dell’ormone luteinizzante (LH) i quali a loro volta stimolano il testicolo a produrre rispettivamente gli spermatozoi e il testosterone.
Il testicolo è costituito da due compartimenti distinti, anche per funzioni: quello tubulare dove si trovano le cellule di Sertoli e gli spermatozoi in diversi stadi di maturazione, e quello interstiziale con le cellule di Leydig deputate alla produzione di testosterone. La spermatogenesi è un processo complesso che culmina con la produzione degli spermatozoi maturi e ha una durata di circa 74 giorni.
Le cellule di Sertoli sono importanti per il sostentamento delle cellule della linea seminale e per la loro normale maturazione.
Gli spermatozoi da stadi più immaturi progrediscono dalla base al centro del tubulo seminifero (lume) secondo i diversi stadi di maturazione (spermatogonio, spermatocita, spermatide e spermatozoo).
Gli spermatozoi lasciano i testicoli attraverso un sistema di dotti:
e raggiungono le vescichette seminali che, con le loro caratteristiche secrezioni, insieme alla prostata, contribuiscono alla formazione di gran parte del volume finale dell’eiaculato e fungono anche da contenitore tra un’eiaculazione e la successiva. Chiaramente una qualsiasi disfunzione o blocco della spermatogenesi o danno di queste strutture può comportare alterazioni della fertilità.
FONTE: [MINISTERO DELLA SALUTE. Data ultimo aggiornamento 17 settembre 2020. (ripresa parziale, senza immagine).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907 - con una nota introduttiva....
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
VIVA L’ITALIA!!! Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione della cerimonia per la Festa della Repubblica
Palazzo del Quirinale, 02/06/2021 *
Sono passati settantacinque anni da quando, con il voto nel referendum del 2 giugno 1946, gli italiani, scegliendo la Repubblica, cominciarono a costruire una nuova storia.
Anche oggi siamo a un tornante del nostro cammino dopo le due grandi crisi globali, quella economico finanziaria e quella provocata dalla pandemia.
Come lo fu allora, questo è tempo di costruire il futuro.
Con la scelta repubblicana, si apriva una storia di libertà, dopo il ventennio della dittatura fascista. Storia di democrazia. Storia di pace, dopo la tragedia, i lutti e le devastazioni della guerra e dell’occupazione nazista.
La nuova stagione era stata preparata negli anni più bui, dalle donne e dagli uomini che avevano mostrato il coraggio di resistere e di lottare. E che avevano iniziato, nello stesso tempo, a pensare come dar forma all’Italia libera. Da dove ricominciare, per rimettere in piedi un Paese dilaniato, ferito, isolato agli occhi della comunità internazionale.
Non fu un inizio facile, settantacinque anni fa. L’Italia era divisa: la Repubblica aveva prevalso per due milioni di voti, ma il risultato non era stato omogeneo e, in un Paese in ginocchio, c’era il rischio di una spaccatura tra il Mezzogiorno e il Settentrione.
Fu proprio la scelta repubblicana il presupposto che rese possibile radicare, nel sentimento profondo del popolo, le ragioni di una unità e di una coesione più forti, favorendo il dispiegarsi di nuove energie, di nuovi protagonisti nella vita pubblica.
Questa vitalità animò e sostenne la straordinaria stagione costituente, capace di cogliere e interpretare le speranze, le attese, le aspirazioni degli italiani.
Per celebrare la Repubblica dobbiamo partire da qui: dalle donne e dagli uomini della Costituente, dalla loro lungimiranza, dal coraggio con cui seppero cercare e trovare i punti di sintesi.
Cos’è la Repubblica? Sono i suoi principi fondativi. Le sue istituzioni. Le sue leggi, la sua organizzazione. Certo, è tutto questo.
Ma a me sta oggi a cuore porre l’accento su ciò che viene prima. Quel che precede il significato, pur fondamentale, degli ordinamenti. Parlo della vita delle donne e degli uomini di questo nostro Paese. Dei loro valori, dei loro sentimenti. Del loro impegno quotidiano. Della loro laboriosità. Del contributo, grande o piccolo, che ciascuno di loro ha dato a questi decenni di storia comune.
La Repubblica è, anzitutto, la storia degli italiani e della loro libertà.
È la storia del lavoro, motore della trasformazione del nostro Paese. È la storia della Ricostruzione, delle fatiche, dei sacrifici, spesso delle sofferenze, di tanti che si trasferirono da Sud a Nord, dalle campagne alle città, animando uno straordinario periodo di sviluppo.
È la storia del formarsi e del crescere di una comunità.
Un bel brano di De Gregori dice “la storia siamo noi”, “nessuno si senta escluso”.
Proviamo a leggere così questi settantacinque anni di vita repubblicana: da una prospettiva diversa che ci consente di cogliere i profili di soggetti che spesso sono rimasti nell’ombra, sullo sfondo. E che invece hanno riempito la scena, colmato vuoti, dato senso e tradotto in atti concreti parole come dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà. Parole che altrimenti sarebbero rimaste astratte aspirazioni.
Le persone: donne, uomini, giovani che sono state al centro della nostra storia, volendovi esservi e contare. Volendo partecipare. Partecipazione civile, politica, sociale. La volontà di cambiare il mondo. Perché il mondo di prima aveva prodotto la guerra, l’ingiustizia, la fame, le distruzioni.
L’Italia è stata ricostruita dalle macerie. La Costituzione ha indicato alla Repubblica la strada da percorrere.
Questa è l’idea fondante della Repubblica, di una Costituzione viva, che si invera ogni giorno nei comportamenti, nelle scelte, nell’assunzione di responsabilità dei suoi cittadini, a tutti i livelli e in qualunque ruolo.
La democrazia è qualcosa di più di un insieme di regole: è un continuo processo in cui si cerca la composizione possibile delle aspirazioni e dei propositi, nella consapevolezza della centralità delle persone, più importanti degli interessi.
In questo cammino un ruolo fondamentale lo giocano i partiti, le forze sociali, i soggetti della società civile.
A volte le istituzioni possono sembrare fragili, esposte a sfide inedite.
Accadde, ad esempio, negli anni bui della violenza terroristica di varia matrice. Gli attentati, le stragi, i ferimenti, gli omicidi. Sono state tante le vittime della ferocia di chi voleva sovvertire lo Stato con le bombe o con le armi.
Nei cinquantacinque giorni dopo l’eccidio di via Fani e il rapimento di Aldo Moro la Repubblica visse il suo momento più difficile. La risposta degli apparati dello Stato per molti aspetti apparve incerta di fronte all’attacco terroristico.
A salvare la democrazia in quel passaggio drammatico, stringendosi intorno alle istituzioni democratiche, fu prima di tutto la straordinaria mobilitazione popolare. Il no alla violenza netto, forte, determinato dei partiti, dei sindacati, dei cittadini.
Le piazze piene di persone di ogni età e di differente orientamento culturale e politico. Il coraggio di chi, come l’operaio e sindacalista Guido Rossa, scelse di denunciare i terroristi e per questo pagò con la vita. Il senso del dovere di magistrati e forze di polizia. Una risposta di popolo che spazzò via le ambiguità di chi teorizzava assurde e intollerabili equidistanze tra lo Stato e i terroristi.
Il terrorismo è stato sconfitto e lo Stato ha prevalso con gli strumenti del diritto.
Anche per questo possiamo dire: la Repubblica è libertà e democrazia.
Come possiamo dire: la Repubblica è legalità.
E mentre lo diciamo avvertiamo il dovere di fare memoria di chi ha pagato con la vita il proprio impegno contro le mafie. Quelli noti e quelli meno ricordati. Uomini dello Stato, semplici cittadini, esponenti politici, sacerdoti, giornalisti, che con il loro sacrificio hanno saputo dare speranza e fiducia a chi non si rassegna alla prepotenza criminale.
La Repubblica è solidarietà.
La solidarietà che scattò all’indomani dell’alluvione del Polesine che colpì le province venete, nel novembre del 1951, con quasi cento vittime e più di 180.000 sfollati, soccorsi e ospitati spontaneamente da tantissime famiglie in tutto il Paese.
Oppure la indimenticabile mobilitazione degli angeli del fango: migliaia di giovani che nel novembre del ’66 corsero a Firenze, provenienti da ogni parte d’Italia, per dare aiuto alla città messa in ginocchio dall’alluvione per porre in salvo centinaia di opere d’arte.
E così è avvenuto ogni volta che il Paese è stato ferito da catastrofi naturali, alluvioni, terremoti. Dal Vajont al Belice al Friuli all’Irpinia, ai tragici eventi che più di recente hanno colpito l’Emilia e l’Italia centrale. Ogni volta abbiamo visto quanto sia forte il legame di solidarietà e di fraternità che unisce i nostri territori e il nostro popolo.
La Repubblica è umanità e difesa della pace e della vita.
Sempre e ovunque. Come testimonia l’impegno della nostra Guardia costiera e della Marina militare per salvare la vita di persone spinte dalla disperazione alla deriva nel Mediterraneo. E va ricordato il contributo prezioso fornito, da molti anni a questa parte, dai nostri militari nelle missioni internazionali, impegnati per la sicurezza e la pace, a fianco delle popolazioni che incontrano sulle loro strade, dimostrando sempre amicizia e umanità. Che nel mondo si parli di un “modello italiano” delle missioni è motivo di grande orgoglio per il nostro Paese. Voglio ricordare con commozione tutti i caduti: a loro va la riconoscenza della Repubblica.
Affermare i grandi principi, evocarli in formulazioni astratte non basta. Perché essi abbiano concreta applicazione, concreta incidenza sulla storia, dunque, bisogna viverli.
Non è sempre facile. L’esito non è mai scontato.
C’è un articolo, in particolare, della nostra Costituzione, quello sull’uguaglianza, che suggerisce una riflessione su quanto sia lungo, faticoso e contrastato il cammino per tradurre nella realtà un diritto pur solennemente sancito.
Questo principio, vero pilastro della nostra Carta, ha rappresentato e continua a rappresentare una meta da conquistare. Con difficoltà, talvolta al prezzo di dure battaglie. Per molti aspetti un cammino ancora incompiuto.
Penso alle differenze economiche, sociali, fra territori.
Penso alla condizione femminile, all’impegno delle donne per una effettiva affermazione del diritto all’uguaglianza.
Desidero ricordare la figura di una donna, Lina Merlin, pioniera della dignità femminile.
Rammento la norma che precludeva alle donne l’accesso a molti importanti uffici pubblici, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale nel 1960. Una storia che forse i giovani non conoscono e che oggi non può che sembrar loro inconcepibile
Così come è inconcepibile - non soltanto per i giovani - apprendere che il diritto di votare delle donne, nel 1946, è stato una conquista.
Si comprende allora come l’elezione a Presidente della Camera, nel 1979, di un’altra donna della Repubblica, Nilde Iotti, sia stata un passo decisivo nell’affermazione del protagonismo delle donne nella vita delle istituzioni.
Non siamo ancora al traguardo di una piena parità. Soprattutto riguardo alla condizione delle donne nel mondo del lavoro, al loro numero, al trattamento economico, alle prospettive di carriera, alla tutela della maternità, alla conciliazione dei tempi. Permangono disparità mentre cresce l’inaccettabile violenza contro di loro.
Lo stesso lento, accidentato cammino abbiamo vissuto per la piena affermazione della dignità della persona e dei suoi diritti, combattendo una difficile battaglia per sradicare ogni forma di discriminazione. Possiamo dire con orgoglio che, su questo versante, l’Italia di oggi, anche sul piano dei diritti civili, è più matura e consapevole, migliore di quella di settantacinque anni fa.
Lo è anche grazie al valore della memoria raccontata da persone come Liliana Segre, instancabile testimone di civiltà e umanità.
La Repubblica da quel 2 giugno a oggi. Possiamo farne un bilancio. Possiamo e dobbiamo chiederci a che punto è il nostro cammino.
I più anziani tra noi concittadini ricordano bene da dove siamo partiti.
Un Paese che era stato trascinato in guerra, ridotto in povertà, senza risorse, con tanti italiani che pativano la fame.
Le grandi riforme ne hanno cambiato il profilo.
La riforma agraria, i piani casa con l’edilizia popolare, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la realizzazione a tempi di record di grandi e decisive opere infrastrutturali, la riforma tributaria, gli interventi per il Mezzogiorno.
E poi la grande stagione delle riforme sociali.
Lo statuto dei lavoratori, le riforme della scuola, in particolare l’istituzione della scuola media unica e l’innalzamento dell’obbligo scolastico, il nuovo diritto di famiglia, l’istituzione, nel 1978, del Servizio sanitario nazionale, ad opera - va sottolineato - di un’altra donna, la prima a diventare ministra, Tina Anselmi.
La fotografia dell’Italia di oggi propone l’immagine di un Paese profondamente diverso, cambiato, progredito.
Abbiamo vissuto, probabilmente senza esserne sempre pienamente consapevoli, una straordinaria rivoluzione sociale.
Certo, la nostra Repubblica è imperfetta, come ogni costruzione che rifletta i limiti e le contraddizioni della vita.
Ancora troppe ingiustizie. Ancora diseguaglianze. Ancora condizioni non sopportabili per la coscienza collettiva, come l’evasione fiscale o le morti sul lavoro.
Il ricordo del sorriso di Luana D’Orazio impegni tutti al dovere di affrontare il tema della sicurezza dei lavoratori con determinazione e con rigore.
Alcune storture hanno cause antiche, e richiedono impegno serio per rimuoverle. Ma la storia repubblicana è tutt’altro che una sequela di insuccessi: è la storia di una democrazia ben radicata e di successo.
Risollevare il Paese, sgomberando le macerie materiali e morali che la Repubblica aveva trovato, portandolo a essere una delle principali realtà economiche e industriali del mondo, è stata una grande impresa.
Un’impresa collettiva, risultato dello sforzo di tanti. Politici, imprenditori, lavoratori, donne e uomini di ogni ruolo e condizione: hanno avuto come orientamento il loro senso del dovere, la responsabilità verso se stessi, verso le loro famiglie e verso la comunità; l’amore per la Patria. La forza di credere in un futuro migliore. La disponibilità al sacrificio per realizzare qualcosa di importante per i propri figli e nipoti.
Qualcuno, a volte, manifesta l’impressione che questo spirito, che animò i costruttori di allora, sia andato smarrito. Che il Paese si sia fermato, imbrigliato da inerzie e pigrizie, bloccato da rendite di posizione, dall’illusione di poter sopravvivere seguendo la logica emergenziale del “giorno per giorno”.
Il Paese non è fermo.
Affiora talvolta la tentazione di rinchiudersi nel presente, trascurando il futuro.
Ma non può essere così.
Quando diciamo che nulla sarà come prima sappiamo che il cambiamento è già in atto. Ed è veloce.
Sono cambiati gli stili di vita; le sensibilità delle persone. Alle domande relative alla sicurezza del proprio futuro, al lavoro, alla casa, si affiancano le preoccupazioni per la salute, per la vivibilità e la sostenibilità ambientale. E, inevitabilmente, cambiano le priorità nelle agende della politica e dell’economia globale.
La Repubblica possiede valori e risorse per affrontare queste sfide a viso aperto.
Ha potenzialità straordinarie. L’ineguagliabile patrimonio di arte e cultura, che affonda le sue radici nel passato e che continua a esprimersi e a parlare al mondo grazie a interpreti e intelligenze ammirate ovunque.
Ha creatività. Competenze. Capacità che ci rendono in tanti settori un Paese all’avanguardia. Ne sono esempio tante nostre aziende che esprimono la qualità italiana, motore di sviluppo e di benessere in questi decenni. Ne sono esempio donne e uomini impegnati nella ricerca e nei settori dell’innovazione e delle tecnologie più avanzate. Un’altra donna italiana oggi ci rende orgogliosi: Samantha Cristoforetti, prima europea chiamata a comandare la stazione spaziale internazionale.
L’Italia, la nostra Patria, ha le carte in regola per farcela.
Un valore - che vorrei ancora una volta sottolineare - sarà più di ogni altro decisivo: la connessione della Repubblica con i suoi cittadini.
Lo abbiamo visto anche nella lotta alla pandemia. Tra lutti e sofferenze, che mai dimenticheremo, abbiamo riscoperto il senso civico di chi si è trovato a operare nella frontiera più esposta, quella degli ospedali e delle strutture sanitarie, abbiamo apprezzato il sacrificio di chi ha lavorato nei servizi, per la pubblica sicurezza, nelle catene alimentari. Ci è apparso ancora una volta, in tutta la sua evidenza, il valore della scienza e la conseguente necessità di promuoverla e sostenerla.
Ognuno di noi ha ricevuto la solidarietà di altri italiani. Lo abbiamo rimarcato celebrando il 2 giugno, l’anno scorso, a Codogno.
Ciascuno ha bisogno degli altri.
Le cure che la Repubblica è riuscita ad assicurare a tanti italiani, ci pongono adesso di fronte alla necessità, comune, di avere cura della Repubblica. Perché così potremo compiere quei passi in avanti, nel modello sociale, nello sviluppo sostenibile, nelle opportunità di lavoro e di studio, che sentiamo come un’ambizione e come un dovere.
Abbiamo una risorsa, grande, che proprio la Repubblica ha fatto crescere in questi decenni, muovendo dalla coscienza del male che è stato causa delle guerre e delle dittature. Questa risorsa, questo orizzonte, si chiama Europa. Una costruzione faticosa, che si è sviluppata in modo non sempre lineare. Talvolta minacciata da regressioni per illusori interessi particolari ma, nei passaggi più critici, capace di grandi rilanci. Come sta avvenendo.
L’Unione Europea è essa stessa - per noi - figlia della scelta repubblicana. L’Europa è il compimento del destino nazionale. E’ luogo e presidio di sovranità democratica. È un’oasi di pace in un mondo di guerre e tensioni. Il filo tessuto con il Risorgimento e la Resistenza ricompone qui la tela di una civiltà democratica che sa parlare al mondo, senza essere in balia di forze e potenze che la sovrastano.
I doveri verso i giovani - di cui c’è qui un’ampia rappresentanza assai gradita - a cui passeremo il testimone della vita, sono ineludibili.
La priorità è garantire ai giovani eguali diritti di cittadinanza, anche digitale, senza i quali la disparità delle opportunità diverrebbe causa di nuove, gravi, inaccettabili povertà. Le famiglie hanno avvertito, in questi mesi, l’urgenza di questa condizione.
Si presenta una nuova generazione che è pronta, chiede spazio e ha voglia di impegnarsi.
Ai giovani vorrei chiedere: impegnatevi nelle sfide nuove, a cominciare da quella della transizione verso un pianeta fondato sul rispetto dell’ambiente e delle persone come unica possibilità di futuro.
Adoperatevi per trasmettere valori e cultura attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. Per promuovere un uso dei social che avvicini le persone e le faccia crescere dal punto di vista umano e sociale, combattendo con determinazione la subcultura dell’odio, del disprezzo dell’altro.
Ai ragazzi che oggi sono qui e a quelli che avranno modo di ascoltare queste parole vorrei dire: la storia di questi settantacinque anni è stato il risultato, il mosaico di tante storie piccole e grandi, di protagonisti conosciuti e di testimonianze meno note. Tocca a voi ora scrivere la storia della Repubblica. Scegliete gli esempi, i volti, i modelli, le tante cose positive da custodire di questa nostra Italia. E poi preparatevi a vivere i capitoli nuovi di questa storia, ad essere voi protagonisti del nostro futuro.
Viva il Popolo Italiano, viva la Repubblica!
* Fonte: Presidenza della Repubblica.
Al di là della cosmoteandria.
DanteAlighieri: la #DivinaCommedia ("l’#amor che muove il Sole e le altre stelle"),
l’#antropologia,
e le ventuno "madri della #Costituzione"
Con Il Sole 24 Ore dal 1° giugno in edicola il libro: “Le madri della Costituzione” *
Il 2 giugno del 1946 gli italiani scelsero la Repubblica e il 25 giugno si insediò l’Assemblea Costituente, composta da 556 membri, 21 dei quali donne: nove comuniste, nove democristiane, due socialiste, una del Fronte dell’Uomo Qualunque. Un’avanguardia esigua, il 3,7 per cento, ma fondamentale nella stesura della Carta: cinque di loro furono designate nella Commissione dei 75 (Maria Agamben Federici, Angela Gotelli, Nilde Iotti, Lina Merlin, Teresa Noce).
La loro presenza, come espressione della componente femminile del popolo sovrano, era una novità assoluta, in quell’anno di novità e di svolta epocale in cui le italiane andarono per la prima volta alle urne per elezioni storiche (dopo il turno delle amministrative a marzo). Le ventuno elette erano differenti per generazione, estrazione sociale, formazione, professione, ideologia. Quattordici erano laureate, geograficamente rappresentavano l’intera penisola. Contribuirono a rendere più democratica la costituzione della nuova Italia, conquistando alle donne la piena cittadinanza, senza più alcuna discriminazione. E spesso dovettero far fronte ai pregiudizi contro la donna, persistenti nei loro stessi colleghi di partito.
«Senza le loro battaglie, diversi articoli della Costituzione, compresi i principi fondamentali, non sarebbero gli stessi», afferma l’autrice del libro Eliana Di Caro, giornalista del supplemento Domenica del Sole 24 Ore, sottolineando il ruolo decisivo nel riconoscere i principi che sanciscono la parità nell’ambito della famiglia e del lavoro, e più in generale nel fare in modo che la società di questo Paese si aprisse alla modernità.
Oggi queste ventuno donne sono dimenticate dai più. Ma le loro vite - tra la Resistenza, l’attivismo politico, le lotte sindacali, l’impegno nella scuola - parlano da sole: per questo bisogna conoscerle.
Il libro è in edicola dal 1° giugno per un mese con Il Sole 24 Ore al prezzo di € 12.90, mentre è disponibile in libreria dal 17 giugno € 14,90 e in formato elettronico a € 9,99.
L’autrice
Eliana Di Caro. Nata a Matera, è giornalista al Sole 24 Ore dal 2000: dopo aver lavorato al mensile Ventiquattro e alla redazione Esteri del quotidiano, dal 2012 è al supplemento della Cultura “Domenica”, nel ruolo di vice caposervizio e curatrice delle sezioni di Storia ed Economia e società. È tra le autrici di Donne della Repubblica (il Mulino, 2016), Basilicata d’autore (Manni, 2017), Donne nel 68 (il Mulino, 2018), Donne al futuro (il Mulino, 2021). Ha pubblicato Andare per Matera e la Basilicata (il Mulino, 2019) e Le vittoriose (Il Sole 24 Ore, 2020). Scrive dei temi legati alle donne - dei loro diritti e dell’emancipazione femminile - e della terra lucana. Appassionata di tennis, ogni tanto recensisce qualche libro sull’argomento.
Dati
Titolo: LE MADRI DELLA COSTITUZIONE
Autore: Eliana Di Caro
Editore: Il Sole 24 ORE
Tipologia: Libro cartaceo
Pagine: 224
Formato: 14×21 cm
* Si cfr. Davide Falco (Dentro la notizia, 30 Maggio 2021.)
PER UN "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") COSTITUZIONALE ....
SE E’ VERO CHE, "ANCORA UNA VOLTA, chi trova soluzioni alternative al neoliberismo è bandito dalla stanza dei bottoni", è ALTRETTANTO VERO CHE RIPETERE CON Adorno e Horkheimer, che “la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”, porta tutti e tutte ancor di più nel buio dell’inferno.
Si è mai chiarito perché il Marx del "Capitale. Critica dell’economia politica", come il Marx della "Prefazione" a "Per la critica dell’economia politica", richiami Dante (è solo l’eco mnemonico di letture giovanili?) o, ancora, in un "banale" ritornello nei suoi lavori associ alla parola "economia politica" sempre la parola "critica"?! Non è perché il suo discorso ha qualche legame con il lavoro del Kant della "Critica della Ragion Pura", "Critica della Ragion Pratica", "Critica del Giudizio"!?
Se "Oggi tutti sono pazzi per Draghi", forse, c’è qualche motivo - per esempio, un motivo storico-costituzionale di lunga durata: "Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge: richiede che siano garantite parità di condizioni competitive tra generi. Intendiamo lavorare in questo senso, puntando a un riequilibrio del gap salariale e un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia o lavoro" (Mario Draghi, discorso al Senato, 17.02.2021)!
DRAGHI, UN MESSIA "TECNICO"?! NON è TEMPO, FORSE, DI CHIARIRSI LE IDEE SU "CHI SIAMO IN REALTà" e, finalmente, riprendere con Marx la via della CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA. O no?!
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Controparola/
Donne al futuro
di Francesca Rigotti (Doppiozero, 20 marzo 2021)
Da quando ho scoperto che nella grammatica esistono termini marcati e termini non marcati - me li ha spiegati un illustre linguista amico di tastiera - non dico che non dormo di notte ma quasi. I termini non marcati, se ho capito bene, sono dominanti e includenti: per esempio il termine «giorno», che comprende il giorno e la notte; notte invece è un termine marcato, giacché designa soltanto il tempo dell’oscurità. Non marcato è uomo (ci avviciniamo al tema) in quanto comprende se stesso e anche la donna, la quale invece, guardacaso, è marcata quale «soltanto» donna.
Dovevo ripensare a questa disparità grammaticale nel leggere Donne al futuro, raccolta di saggi di donne che parlano «soltanto» di altre donne, uscito per il Mulino a cura delle amiche di Controparola. Si tratta di un gruppo di scrittrici e giornaliste, nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini, che ha pubblicato diversi libri sulle donne tra i quali Donne del Risorgimento, Donne nella Grande Guerra, nella Repubblica, nel Sessantotto e ora al futuro. Sono Paola Cioni, Eliana Di Caro, Paola Gaglianone, Dina Lauricella, Lia Levi, Dacia Maraini, Cristiana Palazzoni, Maria Serena Palieri, Valeria Papitto, Linda Laura Sabbadini, Francesca Sancin, Cristiana di San Marzano, Mirella Serri, cui si deve Donne al futuro (il Mulino, Bologna 2021). Sempre e soltanto donne. O donne sole, si potrebbe anche dire, che è un’espressione un po’ deprimente ma anche molto divertente, a leggerla con ironia, e con la quale si intendono donne in compagnia di altre donne ma non di uomini. Mentre la dicitura per soli uomini sta per luoghi e/o attività in cui le donne non possono entrare e a cui non devono partecipare (e così è intitolata l’eccellente analisi statistica Per soli uomini. Il maschilismo dei dati, dalla ricerca scientifica al design, appena pubblicata da Codice Edizioni e condotta dalla giornalista Emanuela Griglié e del collega Guido Romeo).
Le donne al futuro di questo libro, soltanto donne marcate nella loro donnità, sono di fatto figure straordinarie, proiettate, come dice il titolo, al futuro o declinate al futuro, visto che siamo partiti dalla grammatica (che innocentemente mi costringe qui a scrivere al maschile benché io sia donna che scrive di donne che scrivono di donne. La lingua sarà anche colpevole ma non nel modo semplificato e a tratti oltraggioso che le attribuiscono le interpretazioni corrive, come spiega puntualmente l’amico linguista il cui nome adesso svelo, Nunzio La Fauci, ma la dice lunga). Donne giovani che lavorano per fabbricare il futuro con l’arte e la musica, l’architettura e l’astrofisica; con l’impegno civile e umanitario (donnitario?), con la ricerca medica, l’economia, la pratica sportiva e l’insegnamento.
Le elenco qui tutte in fila in ordine alfabetico: Alice Pasquini (AliCè), Paola Antonelli, Marica Branchesi, Francesca Bria, Ilaria Capua, Silvia Colasanti, Ilaria Cucchi, Emma Dante, Sara Gama, Rita Giaretta, Giuseppina Multari, Eliana La Ferrara, Laila Abi Ahmed e Isabella Mancini, Barbara Riccardi, Fulvia Signani e le altre, Beatrice Vio. Un ricordo è dedicato alla cittadina del mondo Agitu Ideo Gudeta, uccisa nel dicembre scorso in Trentino, dove si era trasferita e portava avanti la sua attività di imprenditrice.
Non potendo parlare di tutte ho scelto di citarne una sola, l’unica tra l’altro che mi era del tutto ignota, lo confesso e chiedo venia: Sara Gama. Sara Gama, classe 1989, madre triestina e padre congolese, capitana della Nazionale azzurra femminile di calcio nonché vicepresidente dell’Assocalciatori (termine non marcato che comprende anche le calciatrici mentre le calciatrici, marcate dall’essere soltanto donne, non comprendono i calciatori).
Sara Gama, ho scoperto, non soltanto gioca al calcio femminile da quando era una bambinetta ma rivendica anche, per quel calcio di donne, assicurazione sanitaria, previdenze, stipendio e soprattutto dignità. Studentessa liceale, studentessa universitaria - sulla storia del calcio femminile in Europa ha anche scritto la tesi - Sara Gama, che nell’immagine di copertina sembra, coi suoi bei capelli ricci, l’Italia turrita, nel discorso del 4 luglio 2019 al Quirinale, di fronte al presidente Mattarella, ha ricordato l’articolo 3 della Costituzione che sancisce la dignità di tutti i cittadini «senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».
E questo grazie alle donne della Costituzione, le madri costituient, che contro l’opinione di alcuni padri della costituzione insistettero affinché nell’art. 3 venisse inserita la specificazione «di sesso», perché senza quella la conquista della parità sarebbe stata ancor più difficile di quanto già lo sia.
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E COSTITUZIONALE, CIVILE E RELIGIOSA. IL CUORE DELLA LEGGE E LA LEGGE DEL CUORE:
La #Costituzione è la nostra #Bibbiacivile. Ricordiamo i nostri #Padri e le nostre #Madri
#Costituenti:
"Una vera parità di genere non significa un farisaico rispetto di quote rosa richieste dalla legge"
(Mario Draghi).
L’iniziativa.
Il 19 marzo al via l’Anno della famiglia. «Uniti da San Giuseppe»
Sedici congregazioni religiose danno vita a un Comitato per iniziative comuni. Primo appuntamento un triduo online in preparazione alla festa del 19 marzo
di Enrico Lenzi (Avvenire, domenica 14 marzo 2021)
Sedici congregazioni tra maschili e femminili, diverse per storia, carisma, luogo di nascita e diffusione, ma unite dal riconoscere in san Giuseppe il proprio patrono o il santo ispiratore dell’azione della famiglia religiosa. È uno dei frutti del lavoro che già da qualche anno tre di queste famiglie religiose (i Giuseppini del Murialdo, gli Oblati di san Giuseppe e la Federazione italiana suore di san Giuseppe) stanno compiendo per diffondere non tanto la devozione, quanto la conoscenza dell’opera e del ruolo del Custode del Redentore.
Complice anche l’Anno di san Giuseppe indetto lo scorso 8 dicembre da papa Francesco, il nucleo iniziale di questa collaborazione ha deciso di invitare anche le altre famiglie religiose che pongono san Giuseppe all’interno del proprio carisma. Nasce così il Comitato San Giuseppe, che «in questo anno ha deciso di dare vita a un calendario di incontri e iniziative - spiega uno dei coordinatori, padre Luigi Testa, Oblato di san Giuseppe, congregazione nata ad Asti nel 1878 grazie a san Giuseppe Marello -, alla luce della Lettera apostolica «Patris corde» che papa Francesco ha diffuso proprio l’8 dicembre 2020 a 150 anni dalla proclamazione di san Giuseppe a patrono della Chiesa universale ».
E proprio da quel documento papale sono tratte le riflessioni che caratterizzeranno il triduo in preparazione alla memoria liturgica di san Giuseppe (19 marzo), che si svolgerà online sul canale YouTube denominato «Comitato San Giuseppe» il 16, 17 e 18 marzo prossimi alle 15.
A quell’ora, infatti, sarà possibile seguire le riflessioni che tre religiosi e tre religiose, alternandosi, faranno prendendo ciascuno un aspetto della Patris corde.
Si inizia il 16 marzo con un collegamento dalla Basilica di san Giuseppe al Trionfale a Roma in cui si rifletterà sull’aspetto del «padre nella tenerezza» e in quello «nell’obbedienza».
Il giorno successivo, dal Santuario San Giuseppe a San Giuseppe Vesuviano (Napoli) si rifletterà sul Custode del Redentore come «padre nell’accoglienza » e «padre del coraggio creativo».
Infine il 18, dal Santuario San Giuseppe ad Asti, si affronterà la figura come «padre lavoratore » e «padre nell’ombra».
Ma il triduo «è l’appuntamento più ravvicinato del programma che stiamo elaborando insieme - spiega padre Testa -. Il 29 aprile abbiamo una iniziativa che coinvolgerà le scuole superiori. Si intitola “Nel laboratorio di Giuseppe. I giovani e il lavoro tra paura e speranza”, a cui è legato anche un concorso («Domani è un’altra impresa») che assegnerà alcune borse di studio». L’evento sarà in streaming e avrà come sede principale il Collegio Artigianelli di Torino dei Giuseppini del Murialdo e vi saranno collegamenti con Roma e Lucera.
Già fissato anche l’evento che si lega alla conclusione dell’Anno di San Giuseppe: sarà a Roma dal 6 all’8 dicembre. «Stiamo studiando programma, relatori e modalità di realizzazione - aggiunge padre Testa -, ma intendiamo viverlo non come momento finale di un percorso, bensì come occasione per rilanciare l’attività di conoscenza e di studio anche teologico sulla figura di san Giuseppe». Insomma «ci domanderemo come continuare il percorso anche dopo il 2021».
Ricordiamo i nostri #Padri e le nostre #Madri #Costituenti:
"Una vera #paritàdigenere non significa un farisaico rispetto di #quoterosa richieste dalla #legge"
(#MarioDraghi).
e
dall’#immaginario
di una zoppa e cieca #antropologia.
A #ContursiTerme (#Salerno), almeno del 1989 è ripreso
il dibattito sulla #paritadigenere
grazie alla #memoria
di #Michelangelo e di #TeresadAvila
Quale sovranità?
C’è chi chiede più sovranità, intendendo più autonomia di decisione, ma anche chi vorrebbe più iniziativa collettiva
di Andrea Ruggeri (Il Mulino, 04 marzo 2021)
E se fossimo tutti sovranisti? C’è chi inarcherebbe il sopracciglio al solo pensiero di essere paragonato ai sovranisti nazionalisti. Ma c’è confusione su cosa si intende per sovranità. Sia chiaro, quest’ambiguità non è né strettamente un fenomeno italiano, né di sviluppo recentissimo.
Queste note esplorano due domande, una analitica - cosa intendiamo per sovranità? - e una critica - possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi?
Boris Johnson e Donald Trump - ma anche Matteo Salvini con il suo «prima gli italiani» - sono sovranisti che sostengono che «riprendersi il controllo» del processo decisionale sia sufficiente per tornare a essere pienamente sovrani e dare forma in maniera autonoma al futuro del proprio Paese. Sovranità intesa, dunque, come mantenimento delle decisioni dentro i confini nazionali: si è sovrani, se si è indipendenti nel decidere. E poi c’è chi crede che la sovranità si debba declinare come controllo delle politiche e degli effetti delle stesse. Per loro non è centrale il luogo ove si decide, ma essere sovrani è governare la politica o almeno influenzarla. Dunque, per (ri)prendere il controllo si deve non solo partecipare, ma anche pesare, nelle organizzazioni sovranazionali e multilaterali. Macron e Draghi potrebbero dunque rappresentare coloro che interpretano la sovranità anche come condivisone della stessa.
Ma, dunque, cosa intendiamo per sovranità? Nello studio della politica internazionale il concetto di sovranità è centrale, ma la sua ambiguità è palese, non solo poiché spesso si usa il termine per descrivere azioni sia di politica interna sia di politica estera, ma anche perché alcuni pensano che la sovranità si possa unicamente delegare, mentre altri che la si possa anche condividere. Alcuni si illudono che il concetto di sovranità sia chiaro e netto, per via del «mito fondativo» della sovranità legato alla pace di Vestfalia (1648). La sovranità vestfaliana, forse all’insaputa di molti oratori, è quella più utilizzata nei discorsi pubblici e che tendiamo a etichettare frettolosamente come sovranismo. Stephen Krasner definiva questa forma di sovranità come «un assetto istituzionale per l’organizzazione della vita politica che si basa sulla territorialità e sull’autonomia. Gli Stati esistono in territori specifici. All’interno di questi territori, le autorità politiche nazionali sono gli unici arbitri del comportamento legittimo». Altre caratteristiche chiave, spesso riportate, configurano la sovranità come eguaglianza formale fra Stati e indivisibilità della stessa.
Tuttavia, tantissimi autori hanno evidenziato come eguaglianza e indivisibilità della sovranità sono sfidati quotidianamente nel campo delle relazioni internazionali. David Lake, infatti, scrive che «la sovranità è divisibile e dividerla in passato non ha portato a un’erosione inesorabile del principio». Però, Krasner ha notato come oltre al concetto vestfaliano di sovranità, vi siano almeno altri tre concetti di sovranità, prossimi ma diversi. Primo, il grado di controllo esercitato dagli enti pubblici e dall’organizzazione dell’autorità entro i confini territoriali. Se l’autorità statale non riesce a proiettare il potere centrale, non c’è sovranità. Secondo, il grado di controllo esercitato dall’autorità interna sui movimenti transfrontalieri. L’incapacità di regolare il flusso di merci, persone e idee attraverso i confini territoriali è stata descritta come una perdita di sovranità. Terzo, la sovranità intesa come diritto di alcuni attori a concludere accordi internazionali, concetto sviluppato e utilizzato principalmente dagli studiosi di diritto internazionale. Gli Stati sovrani possono stipulare trattati. Ecco un’ambiguità analitica: la sovranità può essere intesa come controllo della politica interna, ma anche come relazione esterna fra entità sovrane. Tuttavia, John Agnew, coniando il termine «la trappola territoriale», faceva giustamente notare che la politica interna, e dunque la sovranità interna, non è indipendente dalla politica esterna ed estera: ci illudiamo che i confini possano difenderci da scelte esterne e cadiamo nella fallacia di dividere nettamente tra politica interna ed estera.
Kenneth Waltz, acuto analiticamente ma con un punto di vista parziale e profondamente americano, scriveva che fra Stati sovrani «nessuno ha il diritto di comandare; nessuno deve per forza obbedire». Ma quest’eguaglianza è chiaramente solo formale. Un fatto è dirsi sovrano perché si hanno personalità giuridica e organi decisionali, un altro è essere liberi dalle scelte e dalle politiche adottate da altri Paesi. Infatti, sebbene l’istituzione della sovranità affermi il principio di non intervento negli affari di altri Stati, l’intervento è sempre stato una caratteristica degli affari internazionali. Dunque, Krasner definì la sovranità vestfaliana come un’«ipocrisia organizzata», una pratica contraddittoria dove si afferma l’inviolabilità dei confini territoriali, ma si continua a intervenire negli affari altrui. Questa sovranità ipocrita, in un mondo meno globalizzato e con alleanze internazionali ben salde, era meno problematica per Paesi come l’Italia. Oggi, invece, l’influenza e gli effetti di soggetti esteri sono più forti, soprattutto se si rimane ancorati solamente a una visione della sovranità vestfaliana.
David Lake sottolinea un’ulteriore differenza analitica importante: si può delegare sovranità a un’organizzazione internazionale, ma vi può anche essere il raggruppamento della sovranità in sede internazionale. Nel delegare sovranità alle organizzazioni internazionali, gli Stati concedono loro porzioni di sovranità per eseguire determinati compiti limitati. Mettendo in comune l’autorità - raggruppamento della sovranità - all’interno delle organizzazioni internazionali, gli Stati trasferiscono l’autorità di prendere decisioni vincolanti da se stessi a un corpo collettivo di Stati all’interno del quale possono esercitare più o meno influenza. Oggi, secondo Lake, gran parte delle preoccupazioni riguarda la messa in comune di sovranità, piuttosto che la sua delega. E aggiunge che quando si parla di Unione europea più che cedere sovranità, si raggruppa sovranità.
A scopo esplicativo, per elaborare quanto scritto sopra sul concetto di sovranità, riprendo alcuni interventi recenti nel dibattito pubblico da parte di due presidenti del consiglio: Giuseppe Conte e Mario Draghi. Nel suo discorso alla Camera per la fiducia nel giugno del 2018, Conte dichiarava: «Le forze politiche che integrano la maggioranza di governo sono state accusate di essere populiste e antisistema. Se populismo è attitudine ad ascoltare i bisogni della gente, allora lo rivendichiamo». Per Conte il nodo centrale della sovranità è dove essa risiede, nel popolo. Nel suo discorso di fronte all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York nel settembre 2018, Conte, per respingere alcune accuse contro il governo giallo-verde, ribadiva l’importanza di chi detiene la sovranità: «quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall’articolo 1 della Costituzione italiana, ed è in quella previsione che interpreto il concetto di sovranità e il suo esercizio da parte del popolo». Dimenticava, Conte, la seconda parte dell’articolo 1, «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Dove i membri della costituente chiaramente intesero, dopo un tragico conflitto mondiale, la possibilità e necessità di poter delegare sovranità per guadagnarne in cooperazione. Conte espresse allora un sostegno al concetto di sovranità come indipendenza decisionale, focalizzandosi sull’aspetto procedurale - chi decide e dove - ma recentissimamente ha condiviso l’idea che vi sono situazione e circostanze in cui si può cedere sovranità a organizzazioni sovranazionali.
Conte, nella sua lectio all’ateneo fiorentino del 26 febbraio 2021, sembra dunque parzialmente rivedere cosa si debba fare con la sovranità: «Abbiamo sempre più integrato i nostri sistemi economici, i nostri modelli educativi, le nostre legislazioni sociali, cedendo spazi di sovranità e trasferendo competenze via via sempre più importanti dagli Stati all’Unione». La sovranità rimane nazionale, ma parziali deleghe possono avvenire per poter affrontate sfide contemporanee. Non è dunque esplicitata una necessità di sovranità collettiva, ma un’esigenza -dato il contesto - semmai di delega.
Draghi, invece, è tetragono sul valore di una sovranità condivisa, o, come Lake direbbe, di «raggruppamento della sovranità», che si concentra di più sul risultato delle politiche, anziché sul processo decisionale. Draghi, nel suo discorso a Bologna nel 2019 per il conferimento di una laurea ad honorem, così definiva chiaramente la sua idea di sovranità: «La vera sovranità si riflette non nel potere di fare leggi - come vorrebbe una definizione giuridica - ma nella capacità di controllare i risultati e rispondere ai bisogni fondamentali delle persone. [...] La capacità di prendere decisioni indipendenti non garantisce ai Paesi tale controllo. In altre parole, l’indipendenza non garantisce la sovranità».
Ed ecco che il passaggio succinto sulla sovranità nel suo discorso per la fiducia del suo esecutivo, forse in questo contesto può guadagnare ulteriore chiarezza: «Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa [...] Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere».
Sembra chiaro che il vulnus stia nel credere che «riprendere il controllo» e poter decidere indipendentemente si traducano nel poter plasmare il proprio futuro. In questo caso la sovranità viene declinata essenzialmente come processo decisionale, interno ai confini nazionali, anziché come effetto delle decisioni stesse. Ci si illude che potendo dire quel che si vorrebbe fare od ottenere - senza confrontarsi con altri - porti a fare e ottenere ciò che si vuole. Oggi, un’Italia che mirasse a una sovranità solitaria, in realtà non sarebbe sovrana perché sarebbe alla mercé della potenza egemone di turno. Oggi gli Stati Uniti, domani forse la Cina.
Se un sovranismo vestfaliano, di stampo indipendentista o nazionalista, è solamente frutto di un’ambiguità analitica o di un malinteso storico - o al massimo di una miopia retorica e strumentale- possiamo illuderci che una sovranità condivisa, anziché solitaria, non abbia rischi? L’interdipendenza economica di oggi è una realtà consolidata e le sfide globali, dal terrorismo transnazionale alle pandemie globali, fino al cambiamento climatico, non possono essere risolte dai singoli Paesi. Dunque, si può puntare al rafforzamento della sovranità - intesa come capacità di controllare i risultati - raggruppando autorità e risorse in organizzazioni sovranazionali, in primis, come l’Unione europea.
Tuttavia, anche in questo caso si rischia di cadere in una fallacia sovranista, ma di delega. La politica e dunque l’importanza della sovranità, è decidere «chi ottiene cosa, quando e come», come sosteneva Harold Lasswell. E dunque mettere insieme risorse per affrontare un’arena internazionale sempre più complessa e attori sempre più competitivi non può giustificare una delega in bianco, senza sviluppare al contempo e ulteriormente istituzioni e strumenti di controllo e partecipazione da parte della cittadinanza. Ma devono essere chiari ai cittadini quali benefici e politiche si potranno guadagnare e perseguire attraverso questa sovranità condivisa. E i benefici ottenuti dovranno essere diffusi e condivisi. La questione centrale non è dunque essere per il sovranismo o essere contro di esso, ma quale sovranità si vuole ottenere e come gestirla collettivamente, non solo in Europa, ma anche in qualità di cittadini.
La Consulta: "Il cognome del padre è retaggio patriarcale, basta disparità"
"Non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna"
di Redazione ANSA*
ROMA L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre? Con questo dubbio, la Corte ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità dell’articolo 262, primo comma, del Codice civile, che detta la disciplina dei figli nati fuori dal matrimonio. L’ordinanza n. 18 depositata oggi (relatore il vicepresidente Giuliano Amato) spiega perché la risposta a questo dubbio sia pregiudiziale rispetto a quanto chiedeva il Tribunale di Bolzano.
L’attuale sistema di attribuzione del cognome paterno ai figli "è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia", e di "una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna". Lo sottolinea, riprendendo una sua pronuncia del 2006, la Consulta, nell’ordinanza con cui ha sollevato davanti a se’ stessa la questione sulla legittimità costituzionale dell’articolo 262 del Codice civile che stabilisce come regola l’assegnazione ai figli del solo cognome paterno.
La crisi.
Convocato al Quirinale. Nuova missione per «Supermario», ecco chi è Draghi
Caratterialmente è riservato e cordiale, fermo - ne sanno qualcosa persino i "falchi tedeschi"-, ma non freddo. E profondo conoscitore dei meccanismi della finanza internazionale
di Marco Girardo (Avvenire, mercoledì 3 febbraio 2021)
È già passato alla storia, non solo economica, per aver salvato con quell’ormai famoso «whatever it takes» la moneta unica e quindi l’Europa. Ora Mario Draghi proverà a tenere insieme l’Italia. Ci si sofferma sempre sulla prima parte della frase pronunciata il 26 luglio 2012, a Londra, durante una conferenza dall’allora presidente della Bce; ma tutto il credito istituzionale che il banchiere centrale poteva allora sfoderare stava in quello che disse subito dopo: «And believe me, it will be enough», «e credetemi, sarà abbastanza».
Un conto è difendere l’euro dalla speculazione fosse anche geopoliticamente pilotata, altro un Paese come il nostro dalle sue fragilità politiche. Ci proverà con il suo curriculum non politico, ma da servitore civile, l’unico abito che Draghi si sente di indossare e che può indossare.
Di quei panni un po’ più larghi di quelli da tecnico puro si é vestito per larga parte della sua vita professionale. Nato nel 1947 (ha 73 anni), studi al prestigioso istituto Massimiliano Massimo, la severa scuola dei gesuiti della capitale dove come tutti giocava anche a calcio (istituto che ha formato anche figure come l’imprenditore Luca Cordero di Montezemolo e l’ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro), allievo di Federico Caffè alla Sapienza di Roma e specializzazione al Mit di Boston, negli anni Novanta entra ai vertici tecnici del Tesoro come direttore generale e poi, dopo un breve passaggio alla Goldman Sachs, nel 2005 diventa il nono governatore di Bankitalia, succedendo ad Antonio Fazio, costretto alle dimissioni.
Ha ricoperto i ruoli di presidente del Financial Stability Board e del Financial stability forum, mentre dal 2011 al 2019, ultimo incarico di altissimo prestigio, ha guidato la Banca centrale europea diventando, nelle cronache economiche, "super Mario".
Keynesiano di formazione e profondo conoscitore dei meccanismi della finanza internazionale per professione, Mario Draghi é caratterialmente riservato e cordiale, fermo - ne sanno qualcosa persino i "falchi tedeschi"-, ma non freddo.
Al chiuso della sua casa ai Parioli, quartiere elegante di Roma, ha sempre lasciato trapelare poco della sua vita privata, a partire dalla giovane età in cui perse entrambi i genitori e si prese cura dei fratelli. Anche se fece apparire la moglie in una celebre battuta che fece lasciando la Bce alla guida della Lagarde: «Il futuro? Chiedete a mia moglie, ne sa di più lei», disse; ovvero chiedete a Maria Serenella Cappello, esperta di letteratura inglese, pare di origini nobili (è imparentata alla lontana con i granduchi di Toscana). La coppia ha due figli: Federica e Giacomo, ambedue laureati. In casa c’è poi un bracco ungherese, il cane a cui Draghi è molto affezionato.
Defilatissimo rispetto alla politica, il banchiere ha la capacità di mantenere grande equilibrio, senza mai nascondere le sue opinioni. La sua maturità precoce ne ha sviluppato la personalissima religione del lavoro in cui la puntualità é un comandamento: il suo orologio, come racconta la biografia di Jana Randow e Alessandro Speciale, é regolato con cinque minuti di anticipo.
Non basteranno certo le lancette di Draghi a garantire che l’Italia rispetti il suo appuntamento con il Next generation Ue, ma é sicuro che il civil servant convocato dal presidente della Repubblica per l’alto e arduo compito di salvaguardare la tenuta economica e sociale del Paese nel bel mezzo dell’emergenza pandemica farà «whatever it takes».
QUI IL SUO INTERVENTO AL MEETING DI RIMINI DEL 2020
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! --- NUOVE SFIDE. “In Europa si va avanti insieme nella libertà”. Il discorso integrale di Mario Draghi ("Premio De Gasperi") (13.09.2016).
FLS
Dichiarazione del Presidente Mattarella al termine dell’incontro con il Presidente della Camera Fico *
«Ringrazio il Presidente della Camera dei Deputati per l’espletamento - impegnato, serio e imparziale - del mandato esplorativo che gli avevo affidato.
Dalle consultazioni al Quirinale era emersa, come unica possibilità di governo a base politica, quella della maggioranza che sosteneva il Governo precedente. La verifica della sua concreta realizzazione ha dato esito negativo.
Vi sono adesso due strade, fra loro alternative.
Dare, immediatamente, vita a un nuovo Governo, adeguato a fronteggiare le gravi emergenze presenti: sanitaria, sociale, economica, finanziaria. Ovvero quella di immediate elezioni anticipate.
Questa seconda strada va attentamente considerata, perché le elezioni rappresentano un esercizio di democrazia.
Di fronte a questa ipotesi, ho il dovere di porre in evidenza alcune circostanze che, oggi, devono far riflettere sulla opportunità di questa soluzione.
Ho il dovere di sottolineare, come il lungo periodo di campagna elettorale - e la conseguente riduzione dell’attività di governo - coinciderebbe con un momento cruciale per le sorti dell’Italia.
Sotto il profilo sanitario, i prossimi mesi saranno quelli in cui si può sconfiggere il virus oppure rischiare di esserne travolti. Questo richiede un governo nella pienezza delle sue funzioni per adottare i provvedimenti via via necessari e non un governo con attività ridotta al minimo, come è inevitabile in campagna elettorale.
Lo stesso vale per lo sviluppo decisivo della campagna di vaccinazione, da condurre in stretto coordinamento tra lo Stato e le Regioni.
Sul versante sociale - tra l’altro - a fine marzo verrà meno il blocco dei licenziamenti e questa scadenza richiede decisioni e provvedimenti di tutela sociale adeguati e tempestivi, molto difficili da assumere da parte di un Governo senza pienezza di funzioni, in piena campagna elettorale.
Entro il mese di aprile va presentato alla Commissione Europea il piano per l’utilizzo dei grandi fondi europei; ed è fortemente auspicabile che questo avvenga prima di quella data di scadenza, perché quegli indispensabili finanziamenti vengano impegnati presto. E prima si presenta il piano, più tempo si ha per il confronto con la Commissione. Questa ha due mesi di tempo per discutere il piano con il nostro Governo; con un mese ulteriore per il Consiglio Europeo per approvarlo. Occorrerà, quindi, successivamente, provvedere tempestivamente al loro utilizzo per non rischiare di perderli.
Un governo ad attività ridotta non sarebbe in grado di farlo. Per qualche aspetto neppure potrebbe. E non possiamo permetterci di mancare questa occasione fondamentale per il nostro futuro.
Va ricordato che dal giorno in cui si sciolgono le Camere a quello delle elezioni sono necessari almeno sessanta giorni. Successivamente ne occorrono poco meno di venti per proclamare gli eletti e riunire le nuove Camere. Queste devono, nei giorni successivi, nominare i propri organi di presidenza. Occorre quindi formare il Governo e questo, per operare a pieno ritmo, deve ottenere la fiducia di entrambe le Camere. Deve inoltre organizzare i propri uffici di collaborazione nei vari Ministeri.
Dallo scioglimento delle Camere del 2013 sono trascorsi quattro mesi. Nel 2018 sono trascorsi cinque mesi.
Si tratterebbe di tenere il nostro Paese con un governo senza pienezza di funzioni per mesi cruciali, decisivi, per la lotta alla pandemia, per utilizzare i finanziamenti europei e per far fronte ai gravi problemi sociali.
Tutte queste preoccupazioni sono ben presenti ai nostri concittadini, che chiedono risposte concrete e rapide ai loro problemi quotidiani.
Credo che sia giusto aggiungere un’ulteriore considerazione: ci troviamo nel pieno della pandemia. Il contagio del virus è diffuso e allarmante; e se ne temono nuove ondate nelle sue varianti.
Va ricordato che le elezioni non consistono soltanto nel giorno in cui ci si reca a votare ma includono molte e complesse attività precedenti per formare e presentare le candidature.
Inoltre la successiva campagna elettorale richiede - inevitabilmente - tanti incontri affollati, assemblee, comizi: nel ritmo frenetico elettorale è pressoché impossibile che si svolgano con i necessari distanziamenti.
In altri Paesi in cui si è votato - obbligatoriamente, perché erano scadute le legislature dei Parlamenti o i mandati dei Presidenti - si è verificato un grave aumento dei contagi.
Questo fa riflettere, pensando alle tante vittime che purtroppo continuiamo ogni giorno - anche oggi - a registrare.
Avverto, pertanto, il dovere di rivolgere un appello a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché conferiscano la fiducia a un Governo di alto profilo, che non debba identificarsi con alcuna formula politica
Conto, quindi, di conferire al più presto un incarico per formare un Governo che faccia fronte con tempestività alle gravi emergenze non rinviabili che ho ricordato.
Grazie e buon lavoro».
* FONTE: QUIRINALE.
Editoriale
Arriva Draghi. Missione compiuta
di Norma Rangeri (il manifesto, 03.02.2021)
Missione fallita, missione compiuta.
Matteo Renzi ha ottenuto l’obiettivo che si era prefisso: distruggere la maggioranza di governo, annientare il centrosinistra e tirare la volata a un governo di unità nazionale, consegnando il paese nelle mani di un salvatore della patria che ha un nome e cognome: Mario Draghi, incaricato, ieri sera, dal presidente Mattarella, di formare un ministero di salute pubblica.
Sono ore drammatiche, sottolineate dal tono e dalle parole del Capo dello Stato che, parlando in diretta televisiva, ha informato il paese delle sue determinazioni.
Mattarella ha spiegato perché le elezioni anticipate non sono ritenute un’alternativa possibile in questo momento e perché è invece necessario avere subito un governo capace di affrontare la situazione sanitaria e dunque di centrare l’obiettivo del Recovery fund.
Siamo di fronte se non a un azzeramento certamente a una micidiale riduzione degli spazi democratici, a un vero e proprio commissariamento del paese, come capitò con Monti e come non capita in nessun paese europeo, e segnatamente in una congiuntura storica come quella che stiamo vivendo.
Si annullano le differenze politiche e si affidano le sorti del nostro paese a un illustre economista. Che solo il paravento di una falsa coscienza può definire un tecnico.
E quando la politica fa un passo indietro per lasciare il campo a uomini della finanza, vuol dire che la democrazia gode di una cattiva, pessima salute.
Un motivo in più per tenere alta la guardia.
#ANTROPOLOGIA #FILOSOFIA #ARTE. IL #CANTICODEICANTICI E LE #DUEALI DELLA CELESTE #MUSICA.
#Caravaggio: #MariaeGiuseppe con il loro #figlio in un momento di "#Riposo durante la #fugainEgitto"
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#ARCHEOLOGIA #FILOSOFIA #FILOLOGIA #ARTE, #OGGI, NELL’ANNO #DANTE2021: "#AMORE è più’ FORTE DI #morte (Ct. 8.6).
FLS
Bologna.
Il cardinale Zuppi scrive alla Costituzione: aiutaci a scegliere la direzione
Nella Lettera l’arcivescovo di Bologna richiama i limiti nell’esercizio del potere e il legame tra diritti e responsabilità collettive
di Redazione Catholica (Avvenire, giovedì 21 gennaio 2021)
«Cara Costituzione,
sento proprio il bisogno di scriverti una lettera, anzitutto per ringraziarti di quello che rappresenti da tempo per tutti noi. Hai quasi 75 anni, ma li porti benissimo! Ti voglio chiedere aiuto perché siamo in un momento difficile e quando l’Italia, la nostra patria, ha problemi, sento che abbiamo bisogno di te per ricordare da dove veniamo e per scegliere da che parte andare. E poi che cosa ci serve litigare quando si deve costruire?».
È con queste accorate parole che il cardinale arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi inizia una lettera alla Costituzione italiana.
Nel testo, diffuso ieri, il porporato fa riferimento a questo tempo doloroso segnato dalla pandemia. «Stiamo vivendo - scrive Zuppi - un periodo difficile. Dopo tanti mesi siamo ancora nella tempesta del Covid. Qualcuno non ne può più. Molti non ci sono più. All’inizio tanti pensavano non fosse niente, altri erano sicuri che si risolvesse subito, tanto da continuare come se il virus non esistesse, altri credevano che dopo un breve sforzo sarebbe finito, senza perseveranza e impegno costante. Quanta sofferenza, visibile, e quanta nascosta nel profondo dell’animo delle persone! Quanti non abbiamo potuto salutare nel loro ultimo viaggio! Che ferita non averlo potuto fare!».
«Quando penso - aggiunge il cardinale rivolgendosi alla Carta - a come ti hanno voluta, mi commuovo, perché i padri costituenti sono stati proprio bravi! Erano diversissimi, avversari, con idee molto distanti, eppure si misero d’accordo su quello che conta e su cui tutti - tutti - volevano costruire il nostro Paese».
Per il cardinale di Bologna «non si può vivere senza speranza» e quindi «non è possibile star bene da soli, perché possiamo star bene solo assieme». Infatti la Carta ci ricorda che «dobbiamo imparare che c’è un limite nell’esercizio del potere e che i diritti sono sempre collegati a delle responsabilità collettive», che «i diritti impongono dei doveri», che ognuno è «chiamato a pensarsi, progettarsi e immaginarsi sempre insieme agli altri». La Carta chiede «a tutti di mettere le proprie capacità a servizio della fraternità», perché la società «non è un insieme di isole ma una comunità fra persone, tra le nazioni e tra i popoli».
La lettera ripercorre poi i principi e i diritti fondamentali della Carta, richiamando vari articoli e sottolinea che «la libertà non è mai solo da qualcosa ma per qualcosa», e perché un’attività o una funzione concorra al progresso materiale o spirituale della società è chiamata a trasformarsi da «libertà da» in «libertà per». E ribadisce che «l’educazione, la casa e il lavoro sono indispensabili per vivere». Il cardinale Zuppi chiede di superare «gli interessi di parte» e di esprimere un nuovo e vero «amore politico», come richiama papa Francesco nell’enciclica “Fratelli tutti”.
E infine lancia un appello alla pace, al disarmo, riprendendo l’eredità storica di chi ha saputo unire dopo la guerra. «Avevi nel cuore - scrive Zuppi rivolgendosi sempre alla Carta - l’Europa unita perché avevi visto la tragedia della divisione. Senza questa eredità rischiamo di rendere di nuovo i confini dei muri e motivo di inimicizia, mentre sono ponti, unione con l’altro Paese».
LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.... *
Speranze e delusioni in un tornante decisivo del Novecento italiano
L’Orologio di Carlo Levi
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 02 dicembre 2020])
Il 29 novembre del 1902 nasceva a Torino uno degli intellettuali più brillanti e sottovalutati del Novecento italiano: Carlo Levi. Esponente di quella generazione di figli della buona borghesia del capoluogo piemontese che in tanti casi si sarebbe impegnata nel gruppo cittadino di Giustizia e Libertà sgominato dalla polizia politica fascista nel 1935 a causa della delazione di Dino “Pitigrilli” Segre, Levi fu per tutta la vita attivista politico della sinistra antifascista, ma anche scrittore e giornalista, osservatore con occhio quasi antropologico delle dinamiche sociali piccole e grandi di un Paese, del suo Mezzogiorno più profondo e di una classe politica, e soprattutto pittore molto apprezzato dai suoi contemporanei.
Tuttora, Levi deve la sua fama alle riflessioni nate nel periodo del confino in un villaggio della Lucania, e raccolte in Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e tradotto in tutto il mondo. Ormai quasi dimenticata è, invece, la sua opera letteraria forse più matura, L’Orologio, pubblicato sempre con la casa editrice torinese nel 1950. Eppure, esso rappresenta forse l’unico esempio riuscito, quantomeno tra i pochi applicati a materia relativa all’età repubblicana italiana, di un genere assai raramente praticato nella letteratura italiana, quello del “romanzo politico”.
Riletto oggi, di certo, il libro presenta al pubblico una difficoltà non da poco che pure deve essere affrontata per apprezzarlo, cioè la necessità di immaginarsi come all’epoca e nel contesto della sua stesura un protagonista degli eventi narrati, risalenti a cinque anni prima, potesse rileggerli e guardare criticamente al modo in cui li visse. Vale tuttavia la pena di provarci, per poter godere di una riflessione che ha ancora molto da dirci sull’attualità e sulle sue radici storiche.
L’Orologio, dunque, prende esplicitamente le mosse dalle conclusioni del Cristo si è fermato a Eboli, in alcune pagine citando esplicitamente il libro precedente. Nell’Italia fossilizzata su illusori contrasti all’interno della propria classe dirigente che in realtà celavano la realtà profonda della dialettica di sopraffazione sui “contadini” dei “donluigini”, occorreva ricostruire da zero una comunità nazionale realmente coesa, strutturata attorno a istituzioni davvero al servizio dei cittadini e capaci di accompagnarli nel loro sforzo di elevazione sociale, ma prima di tutto occorreva smantellare fino in fondo gli apparati amministrativi e burocratici dal precedente assetto strutturalmente ineguale. A quegli apparati burocratici i privilegiati di ogni livello, dai grandi imprenditori monopolisti ai piccoli titolari della concessione di una farmacia, erano avvinghiati per ottenere ciò che sanciva in modo inequivocabile la propria condizione di privilegio: una sinecura pubblica, una sovvenzione, una deroga, una norma spudoratamente favorevole.
Su questi rapporti istituzionali e politici malati, che pure lo precedevano di decenni negli interstizi della società italiana, si era retto per vent’anni il regime fascista, e allo smantellamento di questa patologia che era stata una delle basi portanti della dittatura doveva dedicarsi, per completare la sua opera, l’antifascismo vittorioso nel 1945. Era del resto questo l’obiettivo di quella che il Partito d’Azione, allora soggetto politico di riferimento di Carlo Levi nonché interprete più convinto dell’epopea resistenziale, intendeva raggiungere con quella che con un certo understatement era presentata come “riforma della pubblica amministrazione”, ma che in realtà doveva essere una rivoluzione culturale, un lavacro purificatore di tutti i germi socio-culturali alla radice del fascismo. Lavacro purificatore forse utopistico, ragione fondamentale per cui tanta parte delle culture politiche italiane, da quelle raccolte nei partiti di massa della sinistra marxista a quella del cattolicesimo organizzato di governo fino agli opinionisti liberal-conservatori a la Montanelli, avrebbe ricordato il Pda come un partito di anime belle, di illusi sospesi tra il desiderio di crogiolarsi nei loro sogni e la volontà di realizzarli con un colpo di mano giacobino, in definitiva figure storicamente inutili o peggio ancora (per chi guardava da destra) mosche cocchiere per utopie assai meglio armate.
Scrivendo L’Orologio nel 1950, Levi non rinnegava affatto quell’obiettivo ideale, ma in una certa misura ammetteva la necessità di riflettere su quanto esso fosse effettivamente realizzabile, poiché chiariva che esso poteva essere spiegato, e “fatto passare” al pubblico, solo nella forma del romanzo, della scrittura di finzione. Il canovaccio del racconto era però intessuto di fatti reali, poiché l’azione si svolgeva effettivamente tra il 22 e il 24 novembre del 1945, nelle convulse giornate in cui si consumò la crisi del governo guidato da Ferruccio Parri, l’esecutivo in cui gli azionisti avevano riposto le speranze di vedere realizzate le loro istanze di rinnovamento al soffio del “vento del Nord” dell’esperienza resistenziale. Allo stesso modo aveva radici nella realtà anche il ruolo del protagonista e voce narrante, direttore del quotidiano del partito che esprimeva “il Presidente”, proprio come nel novembre 1945 Levi era direttore dell’organo azionista “L’Italia libera”.
In fondo tutto il romanzo è la riflessione su quanto la compagine azionista ed ex-partigiana alla guida del governo chiede troppo a quel “vento del Nord”, per il quale era impossibile soffiare così forte da abbattere abitudini e necessità radicate troppo in profondità nel sentire del Paese, soprattutto delle sue zone più problematiche.
Questa riflessione si dipana, sul piano narrativo, nella forma di due viaggi.
Dapprima il protagonista-narratore si trova a compiere un giro per Roma alla ricerca di esponenti politici più o meno importanti, ma soprattutto alla scoperta di funzionari e impiegati passati dal pre-fascismo al post-fascismo senza mutare di una virgola il loro atteggiamento e il modo di interpretare il loro ruolo. Essi, ai suoi occhi, rappresentavano la vera forza materiale della conservazione, in quanto legati in maniera irremovibile a quei piccoli privilegi che di fatto non permettevano loro null’altro che di galleggiare appena sopra la miseria, ma senza i quali essi non sapevano neppure immaginarsi.
Al protagonista toccò poi compiere un viaggio di andata e ritorno per Napoli che assunse i caratteri di un’odissea tra strade bombardate e paesi ridotti all’inesistenza. Il viaggio di ritorno, in particolare, avverrà in automobile, privilegio che il direttore di un giornale di partito non si sarebbe mai potuto concedere se nel capoluogo campano non avesse ricevuto un passaggio da due esponenti di spicco dei due grandi partiti che si apprestavano a gestire in proprio il governo e il potere: Colombi (figura sotto cui si cela il democratico-cristiano Attilio Piccioni) e Tempesti (il comunista Emilio Sereni).
Proprio nel corso del viaggio due rappresentanti dei grandi partiti di massa, a cui simbolicamente sarebbe passata la responsabilità di guidare il Paese pochi giorni dopo con l’incarico di formare il governo affidato direttamente al leader della Dc Alcide De Gasperi, si rendono protagonisti di un dialogo di cui il protagonista è muto testimone, forse profetico per il dibattito pubblico degli anni successivi: un dialogo in cui moderati e sinistra si confrontano da posizioni opposte, ma portandolo avanti utilizzando le stesse parole e riconoscendo reciprocamente il ruolo l’uno dell’altro. Si manifestava insomma come inevitabile la conclusione che avrebbe condotto all’esito delle elezioni per la Costituente nel giugno 1946, ovvero quella per cui per avere successo nella politica italiana si doveva finire per accettare, e quasi per incorporare e rappresentare, ciò che nel Paese non funzionava, costruendo su tale comune accettazione la collaborazione e il conflitto.
Si chiudeva così la riflessione sul recente passato di Levi, che aveva accompagnato parole e pensieri del protagonista col pensiero ricorrente di un vecchio orologio di famiglia che aveva portato a riparare, ma che non avrebbe più ritirato anche perché nel frattempo gli eventi gliene avevano regalato uno nuovo, come a simboleggiare anche sul piano materiale una netta cesura nel suo percorso esistenziale di attivista politico antifascista che però si stagliava sulla continuità della verità destinata a uscire in modo più evidente dalle pagine del volume: «il nostro [Stato] è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte [...]. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello Stato non fanno parte».
Dopo settant’anni queste parole restano allo stesso modo suggestive, anche se l’effettiva partecipazione o meno alla “carità di Stato” si è fatta sempre meno facilmente intuibile.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" !
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
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Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
Lettera all’Europa.
Il Papa: ruolo dell’Europa ancor più rilevante al tempo del Covid
Nella lettera al cardinale Parolin sulla Unione Europea: “Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti”
di Redazione Internet (Avvenire, martedì 27 ottobre 2020)
L’Europa ha avuto e deve ancora avere "un ruolo centrale": lo sottolinea papa Francesco in una lettera al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione di alcuni anniversari: il 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea, il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e il 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.
"Tale ruolo - sottolinea il Pontefice parlando dell’Europa - diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme ed uniti si è più forti, che l’unità è superiore al conflitto e che la solidarietà può essere uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita".
"Nel nostro tempo che sta dando segno di ritorno indietro, in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia - dice il Papa - costituisce come uno spartiacque che costringe a operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella strada della fraternità, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman".
Il Papa lancia, quindi, un appello all’Europa affinché ritrovi sé stessa. "All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti - scrive il Papa nel messaggio al Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, per condividere con lui delle riflessioni in occasione delle celebrazioni di alcuni anniversari - a guardare al tuo passato come ad un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico".
"Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali - prosegue il Papa - che hanno radici profonde. Sii te stessa!"
"Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura".
"Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società" scrive ancora papa Francesco nella Lettera al cardinale Parolin.
"Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma - si spera - anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana. I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europa, per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società. Li esorto dunque ad impegnarsi con coraggio e determinazione a offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano".
Se il miglior interprete dei diritti non è la Corte ma il papa
Diritti. La pronuncia dei giudici costituzionali è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro legislatore
di Massimo Villone (il manifesto, 23.10.2020)
È davvero uno scherzo della storia leggere nello stesso giorno di Papa Francesco e della Corte costituzionale. Il Papa apre alle coppie gay, e chiede una legge sulle unioni civili. Non sembra dubbio che, senza toccare il sacramento del matrimonio, dalle sue parole derivi un riconoscimento con pienezza di diritti, inclusa la filiazione. Mentre la Corte quei diritti li amputa.
Il fatto. A una coppia di donne, unita civilmente, nasce in Italia un figlio a seguito di fecondazione eterologa all’estero. La registrazione allo stato civile viene rifiutata. Nel giudizio conseguente viene sollevata dal Tribunale di Venezia una questione di legittimità costituzionale della legge sulle unioni civili e del decreto sugli atti dello stato civile. Il diritto.
La Corte si orienta per l’inammissibilità delle questioni sollevate. Il riconoscimento dello status di genitore alla cd madre intenzionale “non risponde a un precetto costituzionale ma comporta una scelta di così alta discrezionalità da essere per ciò stesso riservata al legislatore, quale interprete del sentire della collettività nazionale”. E dunque il diritto non esiste.
Le secche parole del comunicato chiudono la strada anche a interpretazioni secundum Constitutionem.
Al momento abbiamo solo il comunicato, e vedremo poi in dettaglio le motivazioni. Intanto possiamo dire che la Corte sembra aver sviluppato una allergia per i temi eticamente sensibili, con eccezioni per la fecondazione assistita. Cappato insegna, e certo la Corte sa bene che il rinvio al legislatore può tradursi nell’inerzia del medesimo.
Dobbiamo poi cogliere che oggi la Corte va oltre.
Al rinvio al legislatore si aggiunge la contestuale negazione di un diritto costituzionalmente protetto. Sul tema la Corte ha già balbettato in passato. Nella sentenza 138/2010 lesse nel matrimonio di cui all’articolo 29 della Costituzione la disciplina del codice civile del 1942, che ovviamente conosceva soltanto la coppia formata da due persone di sesso diverso. Ben si poteva invece dare una lettura evolutiva, che tenesse conto del nuovo.
Un recupero parziale è venuto poi dalla sent. 170/2014, sul cosiddetto divorzio automatico o imposto nel caso di cambio di sesso di uno dei coniugi. La Corte ha rinviato al legislatore, dichiarando però la incostituzionalità e affermando il diritto a una piena tutela giuridica della coppia del medesimo sesso.
Quella pronuncia ha avuto poi riscontro nella tormentata legge sulle unioni civili. Ma la Corte tiene oggi a precisare che la coppia omosessuale, pur riconosciuta dalla legge nella forma dell’unione civile, non ha gli stessi diritti della coppia eterosessuale unita in matrimonio. La Costituzione non garantisce che li abbia.
Si faccia una ipotesi di scuola. Una legge che limitasse forzosamente il numero dei figli consentiti nel matrimonio sarebbe incostituzionale. Mentre una legge che ponesse lo stesso limite a una coppia omosessuale unita civilmente potrebbe non esserlo.
Che ne è del nucleo incomprimibile dei diritti, di cui tanto abbiamo letto nella giurisprudenza costituzionale? E della razionalità, intesa come tutela contro distinzioni discriminatorie? Il presidio costituzionale diventa evanescente. Forse la stessa legge sulle unioni civili sarebbe in principio reversibile, se “l’interprete del sentire della comunità nazionale”, e cioè il legislatore maggioritario, maturasse un umore avverso.
L’odierna pronuncia della Corte, magari al di là delle intenzioni, è pericolosa, perché indebolisce il principio che la Corte è argine ultimo e necessario proprio contro il legislatore. E che dunque l’area della political question sottratta al suo scrutinio deve essere il più possibile ristretta.
“Il sentire della collettività” è sempre il pericolo più grande per i diritti e per le libertà, che sono appunto un argine contro quel sentire tradotto in potere politico e legislativo. Bisogna essere estremamente cauti nell’affermare che questa o quella fattispecie sfugge alla protezione costituzionale.
Non è un paese felice quello in cui ci si sente garantiti da un capo religioso piuttosto che dal massimo organo di giustizia costituzionale.
Ma potremmo suggerire che Papa Francesco tenga per i giudici della Corte un seminario di formazione, dal momento che più e meglio di loro si mostra consapevole del senso vero della Costituzione.
#COSTITUZIONE ED #EVANGELO: #DUESOLI. #PapaFrancesco apre la strada a #Dante2021: pagare il tributo a #Cesare «è un #dovere»; ma la #CorteCostituzionale con poco #spirito di #Salomone (di fronte a #due cittadine, unite civilmente, con bambino) fa "per viltade il #granrifiuto".
TEOLOGIA E ANTROPOLOGIA: GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA! O NO?!
Il punto.
Coppie omosessuali, sì alla tutela civile ma niente confusione col matrimonio
Tante reazioni alle parole del Papa nel docufilm “Francesco”. Parla Fernández arcivescovo argentino: Sin da quando era cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio ha distinto i due piani
di Lucia Capuzzi (Avvenire, venerdì 23 ottobre 2020)
«Ciò che dobbiamo fare è una legge sulla convivenza civile, hanno diritto a una forma di tutela legale. L’ho già sostenuto». Al di là delle forzature mediatiche, l’opinione di Jorge Mario Bergoglio sulle coppie omosessuali non è cambiata negli ultimi dieci anni.
La frase riportata nel documentario di Evgeny Afineevsky ricalca quanto già espresso nel 2010 quando, come arcivescovo di Buenos Aires, si trovò ad affrontare l’infuocato dibattito sulle nozze gay, legge fortemente voluta dal governo dell’allora presidenta Cristina Fernández de Kirchner. A ricordarlo non sono solo accreditate fonti giornalistiche di quell’epoca, tra cui il biografo ufficiale Sergio Rubín.
Ieri, in un messaggio su Facebook, monsignor Victor Manuel Fernández, arcivescovo di La Plata, teologo e profondo conoscitore del pensiero bergogliano, ricostruisce la vicenda, sottolineando come per papa Francesco, prima e dopo l’elezione al soglio pontificio, si devono distinguere due piani.
Da una parte c’è il «matrimonio», termine con un significato preciso, applicabile solo a un’unione stabile tra una donna e un uomo, aperta alla vita. «Questa unione è unica, perché implica la differenza tra l’uomo e la donna, uniti da un rapporto di reciprocità e arricchiti da questa differenza, naturalmente capace di generare vita», spiega monsignor Fernández. Qualunque altra unione simile richiede, dunque, una denominazione differente.
Unioni o convivenza civile, appunto. «Jorge Mario Bergoglio ha sempre riconosciuto, pur senza necessità di definirli matrimonio, l’esistenza di legami molto stretti fra persone dello stesso sesso, che vanno al di là del mero piano sessuale, ma sono alleanze intense e stabili. Le persone si conoscono a fondo, condividono lo stesso tetto per molto tempo, si prendono cura e si sacrificano l’uno per l’altro», afferma l’arcivescovo di La Plata. In caso di malattia grave o morte, uno dei due può desiderare i suoi beni all’altro o che sia quest’ultimo ad essere consultato invece di un familiare. «Tutto ciò può essere contemplato da una legge» sulle «unioni civili o normativa di convivenza civile, non matrimonio».
A tal proposito, monsignor Fernández conferma quanto già riportato dai media dieci anni fa. Ovvero che, durante il dibattito sul cosiddetto matrimonio igualitario in Argentina, il cardinal Bergoglio sostenne tale posizione durante un incontro ad hoc con l’episcopato: la maggioranza, però, si oppose. La questione era già emersa subito il conclave del 2013. Da allora, il successore di Pietro ha sempre mostrato sensibilità e attenzione pastorale nei confronti delle persone omosessuali. Certo, nel docu-film di Afineevsky, Francesco torna espressamente sulla questione delle unioni civili e ripropone, da Papa, quanto già affermato dieci anni fa. Nemmeno questo, però, è un inedito assoluto.
Nel libro che raccoglie le conversazioni con il sociologo Dominique Wolton, pubblicato in Francia nel 2017 e in Italia l’anno successivo, c’è già un accenno al riguardo. «Matrimonio è un termine che ha una storia. Da sempre, nella storia dell’umanità e non solo della Chiesa, viene celebrato tra un uomo e una donna», afferma Francesco in Dio è un poeta, edito nel nostro Paese da Rizzoli. E aggiunge: «È una cosa che non si può cambiare. È la natura delle cose, è così. Chiamiamole unioni civili. Non scherziamo con la verità» .
Il documentario Francesco, insignito ieri, nei giardini vaticani, del premio Kinéo, non contiene, dunque, verità sconvolgenti.
Del resto non era questo l’obiettivo dell’autore, ebreo non praticante di origini russe. Attraverso la raccolta di testimonianze e immagini, il regista cerca di narrare le ferite del mondo: le guerre, l’esodo infinito a cui sono costrette migliaia di persone, i muri vecchi e nuovi, fisici e mentali che separano gli uni dagli altri. Il racconto segue il Papa nei suoi viaggi, da Lampedusa a Manila, da Ciudad Juárez a Santiago.
Il racconto su Francesco, spiega Afineevsky, però, piano piano, si è trasformato in un film «sull’umanità che commette errori, fatta di peccatori...». La chiave è contenuta in una frase di Oscar Wilde cara al Papa e riportata nel filmato: «Ogni santo ha un passato e ogni peccatore ha un futuro».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
A FREUD (Freiberg, 6 maggio 1856 - Londra, 23 settembre 1939), GLORIA ETERNA !!! IN DIFESA DELLA PSICOANALISI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala
DUE SOLI.
La Costituzione, la "Monarchia" di Dante, e la indicazione di Papa Francesco...
Pagare il tributo a Cesare «è un dovere»! Con la precisazione evangelica sulla necessità di pagare le tasse allo Stato (secondo la Costituzione della Repubblica italiana), Papa Francesco apre la strada a Dante -2021 e, insieme, a una comprensione più precisa e contestualizzata della "misteriosa" figura che "fece per viltade il gran rifiuto".
Federico La Sala
Oltre la pillola.
Con le donne contro la clandestinità
di Giancarla Codrignani (Avvenire, martedì 1 settembre 2020)
Gentile direttore,
« Le nuove linee guida, basate sull’evidenza scientifica, prevedono l’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico in day hospital e fino alla nona settimana. È un passo avanti importante nel pieno rispetto della 194 che è e resta una legge di civiltà del nostro Paese». Ineccepibile : il ministro della Salute consente un aggiornamento della 194, imprevedibile solo da chi ha fatto conto di non capire che, se un farmaco è in grado di prevenire il concepimento, il tipo di procedimento farmacologico era in grado di arrivare a dosaggi tipo ’pillola del giorno dopo’ e pillola abortiva.
E siccome l’aborto chirurgico - tralasciando i risvolti psicologici che non possono mai essere dimenticati - significa pur sempre un intervento sanitario importante che rende ancor più traumatica la decisione della donna, sembra il minimo che le sia risparmiato un aggravio di sofferenza. D’altra parte le proteste dopo l’approvazione del testo ministeriale danno alle donne l’impressione di una volontà punitiva dei ’patriarchi’. Quindi, per una persona come me, credente e laica, che quando si rese conto del numero sterminato di aborti nel nostro Paese, in clandestinità, con interventi disperati e mortali, prese posizione favorevole a una regolamentazione per legge di una pratica disumana che vedeva colpevolizzata la donna, lasciata sola anche davanti al codice penale che voleva tale reato condannabile perché « contro l’integrità e la sanità della stirpe » (senza contare che lo stupro era reato non contro la persona, ma contro la morale ed era estinguibile con il ’matrimonio riparatore’), non ci sono obiezioni di merito. Tuttavia. Tuttavia, una pillola abortiva non è un analgesico o un integratore.
Non si può assumere un paio di volte all’anno. E mi sembra che, visto che non siamo ancora riusciti a conciliare la libertà e l’egoismo tra i due ’generi’, bisognerà porre in questione, laicamente, la relazione uomo-donna. L’art.1 della 194 dice che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Le parlamentari che votarono una legge difficile davano senso preciso a parole sostanzialmente inapplicate, ma poi non proseguì la discussione sulla cultura della legge. L’opposizione cattolica si curò solo di negarle legittimazione, nonostante la necessità di intervenire responsabilmente in una materia a cui nessuna donna ha mai dato valore positivo. Anche i più permissivi si fermano al ’sarebbe meglio non dovervi ricorrere’. Per giunta non è mai stata approvata l’educazione sessuale nelle scuole, anche se sappiamo che ormai i bambini di nove anni se la formano sui siti porno di internet : si suppone che, se una ragazzina di quindici anni è ’nei guai’, la famiglia la porti in un ambulatorio privato e non risulti nel conteggio della diminuzione degli aborti, praticati da sempre dalle coniugate, spesso anche recidive.
Quindi la pillola abortiva toglie dai problemi anche quanti vanno a pregare davanti alle cliniche ginecologiche. Ma a me, da cittadina, restano da chiarire i termini riferiti alla procreazione « cosciente e responsabile » e alla maternità libera e responsabile di cui parla la legge.
Supponendo che tutti sappiano come nascono i bambini, sia per il matrimonio, sia per la convivenza, sia per rapporti occasionali, chiedo : come vanno le relazioni tra la donna e l’uomo ? Motivazioni biologiche, sentimentali, avventurose a parte, sono relazioni ’vere’, in cui la gente si parla, dice le proprie esigenze, i propri desideri, compresa la disponibilità o meno di restare incinta ? Perché chi straparla solo di bambini dovrebbe sapere che il bambino deve essere ’voluto’. Si può indulgere su qualcuno che arriva ’per caso’, ma quando una donna ritiene di ’dover’ abortire quel rapporto era davvero ’libero e responsabile’, la donna, la moglie era consenziente ? Perché la donna ha diritto a decidere anche ’prima’, non solamente ’dopo’. Ma prima, oltre a parlare di sé e del loro entusiasmo, qual è stata la ’qualità’ del loro incontro intimo ?
Stando alla gestualità di uomini che picchiano e ammazzano le donne e al linguaggio sessista nei confronti di esseri umani femmine, stando al fatto che cantanti, sindache o parlamentari si attirano volgarità da cura psicanalitica urgente non appena aprono bocca, a letto non ci deve essere grande spreco di preliminari e galanterie. Lo dico dalla parte delle donne che, non so se ancora, ma certo ai tempi di discussione della 194 raccontavano dei loro disagi e delle paure di ’restarci’ che non permettevano grande condivisione.
Ma lo dico soprattutto per la pochezza maschile, che si contenta, a sentire le favole da bar, di potenza e numeri. Ma la qualità ? Va bene che anche a tavola spesso non siete un gran che, ma vedete che l’avanzamento della civiltà dal tempo delle ghiande si è evoluta : il pranzo e la cena sono riti, si invitano gli amici e, anche se la nostra non è la tavola di Versailles, usiamo tovaglie con i pizzi, porcellane e cristallerie anche quando in realtà sono piatti di coccio e vetri colorati, imbandiamo il meglio e dalla cucina escono vivande curate che finiscono in piatti accompagnati da posate e tovaglioli, magari di carta.
Le donne tengono ai ricami anche nei letti, ’poi’ magari anche loro non sono questa gran finezza, ma la maggioranza ai preliminari ci tiene, fa parte del rito del piacere ; voi uomini troppo spesso vi contentate delle pulsioni, i cattolici - poi - pensano al buon Dio e credono di sapere che cosa vuole anche lì, tutti o quasi in genere non percepiscono differenze tra l’erotismo e la pornografia.
Se ci fosse anche una semplice buona educazione non si verificherebbero ancora così tanti aborti. Perché la donna che non vuole un figlio vorrebbe essere rispettata se dice ’no’ a un uomo che la vuole ’prendere’. Perché un uomo deve anche domandarsi perché mai si sia sposato e non far prevalere il suo egoismo.
Se una donna resta incinta senza averlo voluto una qualche violenza ci sarà stata : anche solo di ignoranza della contraccezione. E da adesso in poi la Ru486 diventerà più ’facile’. Ma non è che d’ora in avanti si risparmiano le prevenzioni e, poi, la donna si mangia la sua pillola e l’uomo non ha più preoccupazione... Perché prendere un farmaco pesante tocca a lei : lui perde pure gli scrupoli morali, roba di lei, non me ne preoccupo. Perché potrebbe passare anche a lei una ’leggerezza’ per un problema sociale che tornerebbe a diventare clandestino. Come donne, come società, davvero ci sta bene ?
Giornalista, scrittrice direttrice di Server Donne già parlamentare della Repubblica italiana
Religiosità e criminalità.
Liberare la Madonna dalle mafie. Messaggio di papa Francesco
di Filippo Rizzi ed Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
La devozione mariana va salvaguardata da una religiosità fuorviata. Nel mirino «gli inchini» delle statue ai boss nelle processioni e la presenza dei clan nelle feste patronali
Liberare la Madonna dalla mafia. È il senso del nuovo intervento che papa Francesco ha voluto fare inviando un messaggio al francescano minore padre Stefano Cecchin presidente della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami), che ha deciso di porre il tema «religiosità e criminalità» al centro del proprio lavoro, dando vita a un Dipartimento di analisi, studio e monitoraggio, a cui sono stati chiamati anche esperti esterni, rappresentati da magistrati, esponenti delle forze dell’ordine e della società civile. È a loro che si rivolge il Papa nel messaggio inviato in vista del convegno che la Pami realizzerà il 18 settembre prossimo.
«La devozione mariana è un patrimonio religioso-culturale da salvaguardare nella sua originaria purezza - scrive Francesco nel suo messaggio datato significativamente 15 agosto, festa dell’Assunzione -, liberandolo da sovrastrutture, poteri o condizionamenti che non rispondono ai criteri evangelici di giustizia, libertà, onestà e solidarietà».
Il riferimento, neppure troppo velato, è all’uso che le varie mafie fanno degli eventi religiosi - processioni e feste patronali in particolare - per mostrare la propria presenza sul territorio e anche per creare consenso facendo proprio leva attraverso la fede popolare. Negli anni passati accadeva spesso di leggere degli “inchini” che le statue della Madonna o del santo patrono, facevano verso la casa del boss locale, segno di omaggio e, nello stesso tempo, di riaffermazione del potere in quel territorio. Leggi anche
E il Pontefice, che già in passato ha fatto sentire la propria voce contro il crimine organizzato e le varie mafie, ribadisce con forza come sia «necessario che lo stile delle manifestazioni mariane sia conforme al messaggio del Vangelo e agli insegnamenti della Chiesa».
Ecco allora che uno «dei criteri per verificare ciò, è l’esempio di vita dei partecipanti a tali manifestazioni, i quali sono chiamati a rendere dappertutto una valida testimonianza cristiana mediante una sempre più salda adesione a Cristo e una generosa donazione ai fratelli, specialmente i più poveri». Insomma le comunità locali vigilino sulle feste patronali e soprattutto su coloro che in quelle occasioni si presentano come devoti, nascondendo intenti tutt’altro che devozionali. E ai fedeli, quelli veri, papa Francesco chiede di «assumere atteggiamenti che escludono una religiosità fuorviata e rispondano invece a una religiosità rettamente intesa e vissuta».
Invito che il Pontefice estende anche ai Santuari mariani, affinché «diventino sempre più cittadelle della preghiera, centri di azione del Vangelo, luoghi di conversioni, caposaldi di pietà mariana, a cui guardano con fede quanti sono alla ricerca della verità che salva». Dunque, conclude il Papa, ben venga questo lavoro che la Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) intende avviare con la creazione del Dipartimento.
Un passo nuovo, che coinvolge anche le realtà del territorio non solo legate alle parrocchie o alle diocesi. Del resto queste ultime, in particolare nelle regioni con la maggior presenza delle organizzazioni di stampo mafioso, già da tempo sono intervenute con documenti e anche decisioni che hanno portato alla rottura con il passato.
Lo stesso papa Francesco, come abbiamo detto, ha espresso con forza l’impossibilità di far convivere una fede religiosa autentica e l’appartenenza alla mafia. Nella spianata di Sibari, durante la sua visita alla diocesi di Cassano all’Jonio il 21 giugno 2014, papa Bergoglio nell’omelia della Messa arrivò a dire che «coloro che seguono nella loro vita questa strada del male, come sono i mafiosi, non sono in comunione con Dio: sono scomunicati».
Concetto ribadito nell’omelia della Messa celebrata poco più di quattro anni dopo (il 15 settembre 2018) a Palermo in ricordo del beato don Pino Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia: «Non si può credere in Dio ed essere mafiosi. Chi è mafioso non vive da cristiano, perché bestemmia con la vita il nome di Dio-amore».
Per questo «ai mafiosi dico: cambiate fratelli e sorelle. Smettete di pensare a voi stessi e ai vostri soldi. Convertitevi al vero Dio di Gesù Cristo, cari fratelli e sorelle. Io dico a voi mafiosi: se non fate questo, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte».
E se, come disse nella visita a Napoli il 21 marzo 2015, «un cristiano che lascia entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano, puzza», papa Francesco richiama tutti i credenti a essere vigilanti contro le distorsioni che della devozione mariana viene fatta. Un compito che richiama le coscienze di tutti all’impegno. E a non voltare le spalle quando si manifestano lungo i borghi della nostra Penisola queste deviate devozioni religiose.
Pami.
Culto mariano, un laboratorio per difendere la devozione dalla criminalità
Teologi, ma anche magistrati e giudici, nel Dipartimento creato nella Pontificia accademia Padre Roggio: studiare le cause delle deviazioni. Il criminologo Iadeluca: riti per odio e omertà
di Filippo Rizzi (Avvenire, giovedì 20 agosto 2020)
Un dipartimento ad hoc all’interno della Pontificia accademia mariana internazionale (Pami) per studiare i fenomeni criminali e mafiosi e così «liberare la figura della Madonna dall’influsso delle organizzazioni malavitose». È quanto è allo studio di questa Istituzione pontificia per evitare di strumentalizzare la figura della Vergine da parte dei boss e dei clan criminali presenti nel nostro Paese: dalla Lombardia alla Calabria. Un centro studi sorto soprattutto sulla scorta dei recenti interventi di papa Francesco a questo riguardo: tra questi in particolare quello pronunciato, il 21 giugno del 2014, dove il Vescovo di Roma nella piana di Sibari in Calabria pronunciò parole inequivocabili: «La Chiesa deve dire di no alla ‘ndrangheta. I mafiosi sono scomunicati».
E il prossimo 18 settembre a Roma la Pami nel corso di un convegno traccerà le linee guida di questo nuovo Dipartimento che coinvolge (una trentina di persone): non solo teologi e mariologi ma anche magistrati (molto di loro della Dda, Direzione distrettuale antimafia), criminologi, avvocati, membri delle Forze dell’Ordine e sindaci di importanti città.
«Persone che ogni giorno - spiega il mariologo padre Gian Matteo Roggio, appartenente alla Congregazione dei missionari di Nostra Signora della Salette e tra i principali ispiratori di questa nuova sezione della Pami - si confrontano con il fenomeno mafioso, lo contrastano all’insegna della cultura della legalità. In un certo senso come recita il documento programmatico di questo nuovo dipartimento siamo chiamati tutti a un autentica “teologia della liberazione” dalle mafie».
Un evento assicurano gli organizzatori che ha anche il sostegno di papa Francesco. «Per il Convegno - racconta padre Roggio - il Papa ha inviato un messaggio chiaro e forte che porta la data del 15 agosto scorso. E caso singolare il documento reca la firma di Francesco dal palazzo del Laterano il luogo adiacente alla Cattedrale di Roma. In questo testo Francesco chiede a chi si professa autenticamente cristiano di salvaguardare la devozione mariana nella sua originaria purezza».
L’auspicio di questa task force di esperti è proprio quella di liberare anche idealmente luoghi simbolo come alcuni Santuari mariani del nostro Meridione - basti pensare - a quello della “Madonna di Polsi” nel cuore dell’Aspromonte dall’uso distorto di devozioni che ne fanno oggi le mafie odierne. «Il rito dell’iniziazione è la liturgia che accompagna l’ingresso del neofita nell’organizzazione.
È simile al “Battesimo” e deve essere considerata una “sorta di rinascita”, ovvero la nascita a nuova vita - spiega il criminologo Fabio Iadeluca -. Nella ’ndrangheta, in modo particolare rispetto a cosa nostra, alla camorra, alla sacra corona unita ed altre forme associative mafiose pugliesi, le forme rituali rappresentano l’essenza stessa dell’organizzazione e ne disciplina la vita dei suoi affiliati».
E aggiunge un dettaglio: «Monitorando questi episodi e intercettazioni ambientali a preoccuparci è stata l’adulterazione delle tradizionali venerazioni alla Madonna o ad importanti santi del Sud, penso in particolare a san Michele Arcangelo che con queste pratiche si trasformano in figure vendicatrici e cariche di odio; si tratta di usanze che servono a tutelare tutta una rete di omertà su cui si reggono queste realtà. Sono quasi sempre riti di iniziazione violenti con l’uso di santini e immagini sacre provenienti dal nostro patrimonio di fede cattolica».
Agli occhi di padre Roggio l’appuntamento di settembre servirà a fare chiarezza su quanto il magistero ecclesiale dice a riguardo. «Non è in discussione quanto da tempi non sospetti la Chiesa - è l’osservazione - si sia pronunciata per dire no a questi fenomeni e ribadire che tutto questo non appartiene alla corretta dottrina e spiritualità. Ma lo sforzo ulteriore che il nostro osservatorio vuole offrire è di andare alle radici culturali e antropologiche che fanno scaturire queste deviazioni religiose». Una sfida dunque di lungo termine.
«Penso che gli esempi di don Diana e don Puglisi e di come la Chiesa abbia mostrato proprio ai boss - è la riflessione finale - che questi miti sacerdoti erano dei modelli da imitare e non il contrario. Spesso viene usata dalla “cultura mafiosa” la figura della Vergine come un modello di obbedienza passiva di fronte al potere dominante. Essa viene raffigurata come una donna capace “oleograficamente” solo di piangere per la morte di un figlio. Bisogna dire basta a questo uso distorto dell’immagine della Madonna e ricordare attraverso la voce di tutti che ogni atto compiuto nella sua vita terrena e celeste è stato quello di essere in ascolto di tutti e in comunione fraterna con tutti gli uomini di buona volontà proprio come ci mostra il Vangelo quando ci parla di Lei a cominciare dal suo “fiat” all’arcangelo Gabriele».
Tina Anselmi, prima ministra donna nella storia repubblicana
di Caterina Segata (Il Mulino, 29 luglio 1976)
Il 29 luglio 1976 Tina Anselmi viene nominata ministra del Lavoro e della Previdenza Sociale nel terzo governo Andreotti, prima donna nella storia della Repubblica italiana. Una data che rappresenta una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione femminile in Italia, un percorso lento e sofferto verso una parità di genere che ancora oggi non si può certo dire sia un traguardo raggiunto nella famiglia, nel lavoro e nella vita politica.
Nei quarant’anni successivi a quella nomina, la quota di donne ministre è sempre stata minoritaria; mai una donna è stata presidente della Repubblica né presidente del Consiglio dei ministri, e in alcuni ruoli chiave dei governi le donne sono state finora assenti o quasi.
Tina Anselmi nella sua autobiografia, Storia di una passione politica, scritta nel 2006 insieme ad Anna Vinci, invita alla perseveranza: “Io ripeto sempre, a cominciare dalle mie nipotine, come lo dicevo alle filandiere del Veneto nel dopoguerra, che nessuna vittoria è irreversibile. Dopo aver vinto possiamo anche perdere, se viene meno la nostra vigilanza. Noi non possiamo abdicare, dobbiamo ogni giorno prenderci la nostra parte di responsabilità, perché solo così le vittorie che abbiamo ottenuto diventano permanenti” (p. 87).
La storia di Tina Anselmi è quella di una donna perseverante sin dall’adolescenza. Di una ragazza di diciassette anni partigiana, staffetta della Brigata autonoma Cesare Battisti, coraggiosa e forte, che dall’esperienza della guerra, della morte e della lotta contro il nazifascismo prese il coraggio per un impegno politico fondato sui valori della libertà e della democrazia. Quella storia ci racconta di una donna nata nel 1927 a Castelfranco Veneto e poi vissuta per gran parte della sua vita attiva a Roma, al fianco di Moro e Zaccagnini, suoi punti di riferimento insieme a De Gasperi. Ci racconta di una nomina a ministra meritata e motivata da un lungo percorso politico: sindacalista, incaricata nazionale dei giovani della Dc nel 1950, nel 1951 nel Consiglio nazionale del partito, eletta deputato nel 1968, Sottosegretaria al lavoro nel quinto governo Rumor e nel quarto e quinto governo Moro in continuità da marzo 1974 alla nomina a ministra. Un percorso che proseguirà con alti e bassi: la riforma sanitaria, la legge sulla parità nel lavoro, la riforma del diritto di famiglia ma anche gli anni di piombo, il rapimento Moro a pochi giorni dal suo secondo incarico ministeriale alla Sanità, gli attentati, le uccisioni che colpirono la classe dirigente di allora, fino all’incarico da lei considerato il più difficile a capo della Commissione parlamentare sulla P2 assunto il 9 dicembre 1981 e terminato il 10 luglio 1983, ben oltre i sei mesi inizialmente previsti dalla legge che la istituiva.
Nel libro La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi (Chiarelettere, 2016), sono riprodotti gli appunti che lei prendeva nel corso delle audizioni in commissione e negli incontri successivi, a partire da quello con Nilde Iotti il 30 ottobre 1981, in cui l’allora presidente della Camera le propose di assumere la presidenza della commissione inquirente. Ma riemergono alla memoria grazie alle pagine dei sui diari anche documenti come l’intervento di Tina Anselmi alla Camera dei deputati il 9 gennaio 1986, oltre ai contributi di Dacia Maraini, Giovanni Di Ciommo (segretario della commissione di inchiesta) e Giuliano Turone, il magistrato che insieme a Gherardo Colombo dispose la perquisizione che portò al ritrovamento dell’elenco degli aderenti alla P2, oltre 900 nomi riportati in appendice al libro. Quei diari ci riportano a tratti un mondo surreale, per quanto tristemente noto.
L’immagine che traspare è quella di una persona laboriosa, sobria, dedicata; quel genere di persona che fa la differenza attraverso l’impegno e il lavoro, intenta a bere un calice amaro: guardare in faccia e ascoltare le voci di uomini - pochissime le donne - che raccontano una storia parallela alla vita democratica, coperta, segreta, fatta di sotterfugi, di doppi giochi, di commistione tra potere politico, finanziario, imprenditoriale, giudiziario; guardare in faccia l’ombra, i depistaggi, le bugie, le macchine del fango, per portare alla luce i rischi per lo Stato. Suonano forti le parole dette alla Camera il 9 gennaio 1986 a poco meno di tre anni dalla conclusione dei lavori della Commissione: la Loggia P2 è stata un sistema sofisticato e occulto di controllo, condizionamento e manipolazione della democrazia.
La potremmo immaginare stanca, smarrita e disillusa, ma invece la ritroviamo salda nei suoi principi, perseverare nello sforzo e nell’impegno, spronare ancora negli anni a seguire le persone all’impegno e alla determinazione, anche in politica. Fede e ragion di Stato e un percorso lungo nelle istituzioni, di cui con ogni probabilità vedeva e si teneva salda ai punti di forza pur non negando i punti di debolezza. Emblematiche a questo proposito le parole di apertura dell’intervento parlamentare che sottintendono quanto e cosa Tina Anselmi si aspettasse davvero dalla classe politica che la stava ascoltando: “Onorevole Presidente, Onorevoli colleghi, signor Ministro, voglio esordire osservando che la vicenda della Loggia massonica P2 è stata per lungo tempo al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica [...]; com’è altrettanto indubbio che, successivamente alla relazione, nessuno dei temi politici che in essa venivano enucleati e analizzati è stato oggetto di ulteriore riflessione e dibattito”.
Quei diari hanno il grande pregio di raccogliere le parole delle persone e cercare di dare il nome, che hanno, alle cose. Uno sforzo preciso, che richiama doti di coerenza tra pensiero e azione e appunto di perseveranza nell’azione politica anche davanti a un potere declinato al maschile che offre di sé la peggiore delle immagini.
Il valore che Tina Anselmi riconosceva alla libertà della persona e alla possibilità di autodeterminazione appare declinato nella sua vita politica con la moderazione, la laicità e l’accettazione della diversità di opinioni e di visioni del mondo, in una regolata e rispettosa dialettica democratica. Una fiducia nella forza delle istituzioni democratiche incrollabile e una buona dose di gioia di vivere: “Io non sono una che rimugina sul passato. O si lamenta. Fortunatamente la gioia di vivere mi è sempre stata alleata. Ieri come oggi. Chissà, oggi anche di più. Oggi che sono vecchia” (Storia di una passione politica, cit., p. 142).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DEMOCRAZIA, BUONA EDUCAZIONE, E RISPETTO PER LA REPUBBLICA. LA LEZIONE DI TINA ANSELMI.
FLS
Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio... *
Un vescovo emerito scrive.
Evasori fiscali, non si tradiscono così Dio e la nazione
di Luigi Bettazzi (Avvenire, mercoledì 8 luglio 2020)
Egregi evasori fiscali,
(e-gregio vuol dire infatti "fuori, al di sopra del gregge", della gente comune) da vescovo più giovane e da presidente di Pax Christi, Movimento internazionale per la pace, m’era venuto di scrivere ai politici del tempo - ad esempio al democristiano Benigno Zaccagnini e al comunista Enrico Berlinguer - invitandoli a essere coerenti con le loro scelte politiche e convergenti al bene della nazione, ora, al termine della mia vita (ho ormai più di 96 anni), mi viene di scrivere una lettera a voi.
La pandemia che stiamo vivendo ci ha obbligati a vivere più ritirati, quindi più pensosi per la nostra vita personale e per il bene della collettività. Ed è così, ad esempio, che ci siamo resi conto del lavoro delle varie mafie che, attente a evitare situazioni più clamorose, come quelle che finiscono in uccisioni e stragi, sfruttano la situazione per aumentare le loro ricchezze, ad esempio con prestiti a usura a chi non riesce a trovare mezzi legali per sovvenire alla mancanza di danaro causata dalla limitazione del lavoro o dalla sua perdita. Al contrario, v’è chi arriva a frodare per avere sovvenzioni a cui non ha diritto.
Questo ci ha fatto pensare come le limitazioni, sia del sistema sanitario antecedente come dei provvedimenti per arginare l’espandersi della pandemia e frenare le crisi dell’industria e delle aziende, derivi anche dalle minori disponibilità economiche dovute anche a quanto viene evaso da chi non paga le tasse, soprattutto di chi, con la ricchezza, riesce a trovare i mezzi per portare i suoi beni nei cosiddetti paradisi fiscali. Questa è una grossa ingiustizia perché quanto viene portato fuori dalla nazione è stato raggranellato con il lavoro dei concittadini e utilizzando le leggi (e le sottigliezze) dello Stato. È triste pensare che la nazione vi abbia fatti crescere e sviluppare fino al punto di poterla tradire.
Non voglio pensare che tra voi ci siano quelli che formalmente figurano come rispettosi - o addirittura partecipi attivi - del cristianesimo che ha accompagnato la storia della nostra nazione, ma poi trasgrediscono il suo messaggio fondamentale, che è quello di non chiudersi nel proprio egoismo, ma di aprirsi agli altri, proprio cominciando dai più piccoli, dai più poveri, dai più emarginati.
Così fanno i boss delle varie mafie, che poi a copertura delle loro violenze proteggono le devozioni popolari e se ne fanno riverire, o quei politici che nel mondo ostentano oggetti e proteggono frange di strutture religiose per coprire le loro minori attenzioni umane. Non vorrei che anche voi, magari sovvenendo pubblicamente alcune opere di solidarietà, vogliate così "scontare" la vostra ingiustizia di fondo.
È vero che alle volte, nel mondo, le tassazioni possono sembrare eccessive o ingiuste. Ma, in democrazia, si devono trovare i mezzi, soprattutto da parte dei più abbienti come siete voi, per correggerle, non per avere un pretesto per evaderle, portando il proprio danaro negli... inferni fiscali.
Perché purtroppo il danaro diventa quasi una divinità, anzi la vera alternativa a Dio: aveva già detto chiaramente Gesù (usando un termine locale) che non si possono servire due padroni: o Dio o mammona (il danaro).
Non so se anche qualche parroco vi ha mai detto che l’evasione fiscale è peccato mortale: l’ha detto qualche tempo fa laicamente Romano Prodi, ve lo ripete oggi un vescovo, anche se emerito. Mi verrebbe da ripetere la frase forte che san Giovanni Paolo II proclamò, nella valle di Agrigento, contro le mafie: "Convertitevi! Un giorno dovrete risponderne di fronte a Dio". E allora non ci saranno pretesti e coperture.
Vi chiedo scusa se vi ho attaccati pubblicamente. Spero comunque di avervi fatto pensare.
Da vescovo, pregherò per voi, per le vostre famiglie e per le vostre attività, ovviamente purché siano oneste.
Vescovo emerito di Ivrea
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
VIVA L’ITALIA !!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?! *
A cento anni dalla nascita.
Giovanni Paolo II. «Totus tuus»: una vita per amore
Il suo sguardo fisso in Cristo ci ha insegnato che tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa Il suo amore per Maria è un faro vitale, una strada maestra ...
di Gualtiero Bassetti (Avvenire, domenica 3 maggio 2020)
Il 27 ottobre 1986, Giovanni Paolo II - Papa da otto anni, sempre più amato e popolare - animò ad Assisi la Giornata di preghiera interreligiosa per la pace, rimasta nella storia. In quella come in molte altre occasioni, le telecamere di tutto il pianeta lo immortalarono come lo ricordiamo: intimamente, quasi dolorosamente raccolto, in dialogo profondissimo con Dio, la cui volontà non può che essere il bene e la pace di tutti. Pochi furono i testimoni di un altro momento, intenso e dolcissimo, che precedette lo storico incontro.
Il giorno prima, 26 ottobre, il Papa visitò Perugia, oggi mia diocesi. Incontrò tutte le fasce di popolazione, in particolare gli amati giovani. In un saluto a braccio, seppe fondere la bellezza del genio italiano e cristiano - l’arte di una piazza tra le più belle d’Italia - col prorompente entusiasmo dei giovani che lo stavano festeggiando.
«Mi piace stare qui, mi piace molto!», non poté trattenersi dall’esclamare. A Perugia trascorse la notte, in una struttura diocesana fuori porta voluta da un mio predecessore, il vescovo mantovano Giovanni Battista Rosa. Chi salutò il Papa al mattino, alla partenza, ricorda il suo sguardo limpido affacciarsi dalla terrazza sulla valle assisana, dove stava recandosi. Avvolse in una lunga occhiata sia la bellezza quasi mistica di quel panorama, sia la pace che ne emanava, chiedendo forse a Dio, col Salmo 19, di tradurla in tutte le lingue del mondo. Ma solo una fu la testimone del suo ultimo sguardo: la Vergine Maria, raffigurata, in una semplice statua, su una colonna al centro della terrazza.
Totus tuus. La dedica a Maria nel motto apostolico di Karol Wojtyla è tratta da una frase di san Luigi Maria Grignion de Montfort: «Tuus totus ego sum, et omnia mea tua sunt».
Non è, come chiarì lo stesso pontefice, una semplice formula di devozione: si radica nel mistero della Santissima Trinità. Alla potenza teologica unisce una vigorosa efficacia. San Giovanni Paolo II era uomo di pensiero quanto di azione; era abituato così, sia dalla sua storia personale, sia da quella del suo popolo. Un’assonanza, una comune origine scritturale, si coglie nella mia cattedrale in un gonfalone votivo di scuola peruginesca, realizzato nella pestilenza del 1526 - una delle tante che sconvolsero la città e l’Europa. In un cartiglio, il popolo, ai piedi dei santi e della Vergine, grida: “Salus nostra in manu tua est, et nos et terra nostra tui sumus”.
Altri approfondiranno le concordanze storico- artistiche: ci sono, a Dio piacendo, inediti filoni di bellezza di cui trovare origini e parentele, per scoprire, una volta di più, quanti canali uniscano l’umanità. A me interessa sottolineare l’efficacia della preghiera, quando davvero affida tutto l’essere. Siamo tuoi. La preghiera è universalità, coralità, unione fraterna, come ricorda papa Francesco; e pure intimità, sponsalità, unione mistica, come il Totus tuus di Wojtyla, che comunque, sulle labbra di un papa, sigilla l’offerta dell’intera umanità. Maria è via privilegiata al Cristo, di cui fu figlia e madre, come dice Dante con poesia incomparabile.
Madre di Gesù, madre di tutti, dalle nozze di Cana all’affidamento a Giovanni, ai piedi della Croce. Cristo è veramente risorto! E ci attende come attese Maria, con le sorprese della gioia. In questi giorni difficili, ho rinnovato, sia come supplica sia come ringraziamento, l’affidamento della città e del mondo alla Vergine Maria: le parole accorate che il popolo ha reiterato nei secoli. Tutto ciò che è umano ci riguarda, come cristiani e come Chiesa. È una delle eredità di san Giovanni Paolo II, forse la più significativa. Raccogliere e offrire a Dio, nella preghiera e nell’azione, le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce del mondo; gli aneliti alla pace, alla sicurezza, alla liberazione dai mali dell’anima e del corpo. Portare briciole di umanità dove dominano ancora barbarie, sopruso e ingiustizia, egoismo e indifferenza.
Annunciare amore in nome di Cristo, come faceva san Giovanni Paolo II, significa portare Cristo stesso.
MESSAGGIO EVANGELICO, FILIAZIONE DIVINA E IMITAZIONE DI CRISTO: CRISTO-FARO O CRISTO-FORO?!
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è) !
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa"!) è già "oggi necessaria", ora e subito! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, «suprema fatica e suprema gioia», è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino"! O no?! (Federico La Sala)
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ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso) : in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?»(Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?! Boh?! O no?!
Consulta.
Cartabia, "Costituzione bussola nell’emergenza. No a leggi speciali"
Nella relazione sull’attività della Corte costituzionale, la presidente sottolinea come "la chiave per superare la crisi" sia "la leale collaborazione di tutte le istituzioni"
di Antonio Maria Mira (Avvenire, martedì 28 aprile 2020)
"La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, Governo, Regioni, Giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza". È uno dei passaggi principali della relazione della Presidente Marta Cartabia sull’attività della Corte costituzionale nel 2019. Solitamente letta alla presenza del Capo dello Stato, ma quest’anno diffusa solo online a causa dell’emergenza Covid-19, che trova molto spazio nel documento. La relazione si apre proprio con un "pensiero di sentita partecipazione al dolore per la scomparsa di migliaia di nostri concittadini e di sincera gratitudine" per tutti coloro che in questo "non facile frangente assicurano i servizi essenziali della Repubblica con competenza, coraggio e generosità". Parole molto sentite dalla presidente della Consulta che è stata contagiata ma è guarita.
E nella parte conclusiva Cartabia torna sul tema. Ricorda che "la Costituzione non contempla un diritto speciale per i tempi eccezionali, e ciò per una scelta consapevole, ma offre la bussola anche per “navigare per l’alto mare aperto” nei tempi di crisi, a cominciare proprio dalla leale collaborazione fra le istituzioni, che è la proiezione istituzionale della solidarietà tra i cittadini”. La nostra Repubblica ha attraversato varie situazioni di crisi, a partire dagli anni della lotta armata, "senza mai sospendere l’ordine costituzionale", ma modulando i principi sui criteri di "necessità , proporzionalità , bilanciamento, giustiziabilità e temporaneità" .
E oggi "l’intera Repubblica e tutte le sue Istituzioni - politiche e giurisdizionali, statali, regionali, locali - stanno indefessamente lavorando nella cornice europea per il comune obiettivo di servire al meglio le esigenze dei singoli cittadini e dell’interacomunità".
Una strada che dev’essere assolutamente perseguita perchè "i momenti di emergenza richiedono un sovrappiù di responsabilità ad ogni autorità e in particolare agli operatori dell’informazione, che svolgono un ruolo decisivo per la vita sociale e democratica". Un indiretto riferimento all’attualità emerge anche nel passaggio relativo a giustizia e carcere. "Perseguire le finalità rieducative del condannato, senza trascurare, al tempo stesso, le esigenze della sicurezza della collettività , ma calibrando ogni decisione sul percorso di ciascun detenuto, alla luce di tutte le circostanze concrete". È il percorso che la presidente della Corte indica alla magistratura di sorveglianza. Parole particolarmente significative dopo le polemiche per le scarcerazioni di boss della mafia.
Bilanciamento e collaborazione sono concetti che ritornano più volte nella Relazione, in particolare nei confronti del Parlamento e delle Regioni. La presidente invita così a "recuperare una virtuosa collaborazione, nel rispetto dei rispettivi ambiti di competenza", tra la Consulta e il legislatore statale. Cartabia pone la sua attenzione su due casi emblematici: la legittimazione del singolo parlamentare a far valere i vizi del procedimento legislativo, attivando un giudizio per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, nel caso dell’approvazione della legge di bilancio; e la vicenda sul fine vita, su cui "la Corte costituzionale ha atteso per un anno che il necessario intervento arrivasse per via legislativa, per poi dover risolvere il caso autonomamente".
A questo proposito per la presidente "il terreno su cui si fa urgente, direi improcrastinabile, la cooperazione da parte del legislatore è quello delle cosiddette "sentenze monito", o più propriamente inviti". Infatti, ricorda,, "accade frequentemente che nelle motivazioni delle sentenze della Corte costituzionale di accoglimento, di rigetto o di inammissibilità, si incontrino espressioni che sollecitano il legislatore a intervenire su una determinata disciplina, allorché la Corte individui aspetti problematici che sfuggono alle sue possibilità di intervento e che richiedono invece un’azione delle Camere". Spesso, osserva Cartabia, "i "moniti" danno luogo al fenomeno delle cosiddette "doppie pronunce": in un primo momento, la Corte Costituzionale indica al Parlamento i punti problematici che richiederebbero una modifica legislativa; ma se il problema persiste e continua ad essere portato all’esame della Consulta, questa non può che porre essa stessa rimedio, utilizzando gli strumenti normativi a disposizione".
E un altro richiamo, molto attuale, è alla collaborazione fra Stato centrale e Regioni. "A volte - osserva criticamente Cartabia - tale collaborazione manca, altre volte arriva troppo tardi: molti giudizi di legittimità in via principale, portati all’esame della Corte costituzionale dallo Stato o dalle Regioni, si risolvono con la cessazione della materia del contendere o l’estinzione del giudizio, in seguito a modifiche apportate alla normativa impugnata durante la pendenza del giudizio spesso all’esito di negoziazioni tra Stato e Regioni. Ciò - ricorda - è accaduto ben 35 volte nel 2019". La Consulta "non può che rallegrarsi se, dopo che è sorta una controversia tra Stato e Regioni, si riesce a trovare una composizione politica in nome della collaborazione mancata in precedenza". Tuttavia, denuncia Cartabia, in questo modo il giudizio davanti alla Consulta "finisce per essere utilizzato come uno strumento di pressione in vista di ulteriori valutazioni ed eventuali accordi, con un inutile cospicuo investimento di tempo, energie e risorse" da parte della Corte.
Resistere ancora, a distanza di settantacinque anni
di Teresa Simeone *
La domanda, che ritorna ogni anno, con periodica vis polemica, “Che senso ha celebrare la Festa della Liberazione? E liberazione da cosa, se ormai viviamo in una democrazia?” chiama ancora in causa la nostra concezione di libertà e di società e rimanda a eventi che, sia pure storicamente collocati, continuano a interrogarci come cittadini e soggetti eticamente connotati.
Non è certo un falso il consenso altissimo di cui per lungo tempo il regime riuscì a godere, almeno fino al 1938, anche presso raffinati intellettuali della cui adesione si servì per legittimare, in campo internazionale, la propria continuità. Tale consenso poi, lentamente, iniziò a scendere per dissolversi nell’impietosa conta giornaliera dei morti in guerra: rinnegata dai suoi stessi capi in quel luglio del ’43, l’ideologia fascista non cessò di esistere ma si autoconfinò in un’area del Nord, lì ridotta a patetico ologramma del Terzo Reich. Dal tragico 8 settembre, com’è storia, iniziarono l’occupazione nazista, le massicce deportazioni di ebrei verso i campi di sterminio e si consumarono le stragi di civili più feroci che il territorio italiano abbia vissuto. Stragi che raggiunsero il culmine intorno alla metà del ’44, con il consolidarsi delle formazioni resistenziali, finalizzate a spezzare il legame tra la popolazione e i partigiani italiani, che avevano unito la propria alle voci dei migliaia che combattevano nel resto d’Europa. E, finalmente, quel 25 aprile, scelto come data simbolica della rinascita, si poté festeggiare.
Tre giorni dopo, ha scritto Norberto Bobbio, quando i partigiani entrarono a Torino e i tedeschi, seguiti dai fascisti, furono messi in fuga, “Fu come se un vento impetuoso avesse spazzato d’un colpo tutte le nubi e alzando gli occhi potessimo rivedere il sole di cui avevamo dimenticato lo splendore; o come se il sangue avesse ricominciato a scorrere in un cadavere, risuscitandolo. Un’esplosione di gioia si diffuse rapidamente in tutte le piazze, in tutte le vie, in tutte le case. Ci si guardava di nuovo negli occhi e si sorrideva.” Si poteva ricominciare a sperare. “Eravamo ridiventati uomini con un volto solo e un’anima sola. Eravamo di nuovo completamente noi stessi. Ci sentivamo di nuovo uomini civili. Da oppressi eravamo ridiventati uomini liberi.”[1]
Quella libertà, per tutti, per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro, come disse in seguito Arrigo Boldrini, non fu un regalo né un miracolo, ma la conquista di chi, contro ogni calcolo sulla sproporzione delle forze, aveva creduto nell’“ottimismo della volontà” e con coraggio aveva scelto da che parte stare. Lo fece in giorni bui, in cui decidere non era ininfluente per la propria vita. E questo avvenne in tutta Europa. Chi contesta la Resistenza dovrebbe dire, con onestà, cosa avrebbe fatto in quei giorni e cosa avrebbe voluto: la vittoria della Germania nazista? L’estensione del potere hitleriano sull’Europa intera? I campi di sterminio per quanti non rientrassero nel concetto di “normalità” fisica, sociale, religiosa, politica, stabilita dal fuhrer? O forse avrebbe preferito che non sorgesse, dalla coscienza dei popoli, un movimento di ribellione e che si lasciasse ai soli eserciti in campo la difesa della propria libertà? Che non si sentisse il dovere di reagire, quel dovere che solo ha consentito di salvare la dignità di cittadini e di esseri umani? Che permise ad Alcide De Gasperi nel ‘46, alla conferenza di Parigi, di non piegare la testa e di pronunciare parole autenticamente importanti perché di un antifascista convinto, portavoce di un paese che aveva saputo liberare se stesso dal regime e rivendicare una presenza proprio grazie alla lotta di liberazione. Facendo pesare, perché ce ne erano stati a migliaia, i morti di questa battaglia di civiltà.
Tanti uomini e tante donne vi avevano partecipato, ciascuno a suo modo: imbracciando le armi; organizzando la difesa; aiutando i gruppi partigiani; ciclostilando volantini; anche solo tacendo e non tradendo; nascondendo chi era braccato; procurandogli documenti falsi; rifiutando di allearsi con il nemico e di lavorare per lui, come fecero gli oltre 600.000 IMI, troppo a lungo ai margini della storiografia, forse perché simbolo di una sconfitta, di una tragedia che il paese voleva dimenticare in fretta, ma di cui la ricerca sui documenti sta faticosamente ricostruendo il dramma. Costoro, intenzionalmente non equiparati dai nazisti a prigionieri di guerra e dunque privati delle tutele loro dovute, “invitati” a collaborare, rifiutarono di arruolarsi nelle forze armate tedesche e repubblichine, pagando nei lager con condizioni durissime, spesso con la vita, la loro “resistenza passiva”.
Resistenza armata, Resistenza disarmata, Resistenza civile: forme diverse assunse la Resistenza, ma ci fu. E dev’essere ricordata perché fu storia di tanti. Non di tutti, certamente. E anche di questo non sarebbe giusto chiedere conto. Erano tempi difficili, di scelte tragiche cui, per fortuna, non siamo più chiamati: la massiccia e pervasiva azione d’indottrinamento fascista, dall’atto del concepimento (la campagna demografica entrava anche nelle stanze da letto) fino all’età adulta, con quella che Philip V. Cannistraro ha definito la fabbrica del consenso, il controllo dell’informazione e la repressione di ogni forma di dissenso e una liturgia che puntava all’adesione quasi religiosa, sicuramente mistica, rendeva gli effetti dell’apparato propagandistico difficilmente eludibili. La comprensione della difficoltà di sottrarvisi, però, non deve esonerarci dal chiederci “cosa sarebbe successo se...”. I denigratori della Resistenza tendono a sottovalutarne il peso e a riportare al solo contributo degli alleati la conquista della libertà. Questo non corrisponde al vero, ma solo a ciò che una parte politica non avrebbe voluto che fosse accaduto, e cioè la presa di coscienza di chi non accettava il fascismo.
In un celebre discorso che Gustavo Zagrebelsky tenne a Torino il 25 aprile del 2015, si chiese: “E se la guerra si fosse conclusa esclusivamente con la conquista da parte degli eserciti degli Alleati? Se le autorità militari anglo-americane non avessero avuto a che fare con il Corpo Volontari della Libertà, con i Comitati di Liberazione Nazionale e con i rinati partiti politici che ai Comitati avevano dato vita? La sconfitta del III Reich e della repubblica di Salò non fu certo determinata soltanto, e nemmeno prevalentemente, dalle forze della Resistenza interna. Ma, se questa non ci fosse stata, la parola adatta a descrivere la situazione del nostro Paese sarebbe “debellatio”, annichilimento. Gli Alleati trovarono un popolo che lottava per la sua identità, oltre che per il proprio onore e il proprio futuro.” E ancora: “In ogni caso, la Resistenza in Italia, a differenza di ciò che accadde in Germania, fu ciò che permise al nostro Paese di salvaguardare la propria autonomia, di sedere nel contesto internazionale tra le nazioni libere e di ricominciare a prendere nelle nostre mani l’opera della ricostruzione. Il primo passo fu l’Assemblea Costituente, il primo parlamento democratico, eletto a suffragio universale, del nostro Paese; il primo frutto fu la Costituzione.”
Ed è proprio intorno alla Costituzione che si è formato un nuovo concetto di identità e di comunanza nazionale, una memoria condivisa, un sentimento diffuso di appartenenza con la fedeltà che la Costituzione richiede, come ci ricorda il presidente emerito dell’ANPI , Carlo Smuraglia, in un omaggio che ha voluto farle nel libro “Con la Costituzione nel cuore. Conversazioni su storia, memoria e politica.”, e come l’attuale presidente, Carla Nespolo, prima donna e prima non partigiana a ricoprire tale incarico, dopo la svolta di Chianciano del 2006, i quali, a più riprese, invitano all’unità e al dialogo tra le diverse voci che sono confluite nel testo fondativo della nostra Repubblica.
Se si resta al facile binomio, cui ricorrono pretestuosamente in molti, antifascista/comunista, si darà sempre spazio alle semplicistiche riduzioni ad unum di coloro che, per denigrare il moto resistenziale, preferiscono considerarlo un monolite comunista.
A smentire tale lettura è la semplice analisi dei gruppi che combatterono, dal momento che il CNL (al di fuori del quale è giusto ricordare altre brigate come quelle anarchiche), riuniva esponenti di tutti i partiti antifascisti che si erano organizzati nell’estate del ’43 e, oltre quelli del Partito comunista, del Partito liberale, del Partito repubblicano, del PSIUP, della Democrazia Cristiana, del Partito d’Azione, del Partito democratico del lavoro. Molte di tali formazioni, insieme ad altre che nacquero nel dopoguerra, confluirono nell’Assemblea Costituente.
La Costituzione, perciò, ha un’anima plurale. Ma, questo sì, irriducibilmente antifascista. Non c’è bisogno di citare un articolo preciso né far riferimento soltanto alla XII Disposizione transitoria, più correttamente finale, in essa contenuta. -Come ha chiaramente affermato il nostro presidente della Repubblica, Mattarella, in occasione del Giorno della Memoria di due anni fa: “La Repubblica Italiana, nata dalla Resistenza, si è definita e sviluppata in totale contrapposizione al fascismo. La nostra Costituzione ne rappresenta, per i valori che proclama e per gli ordinamenti che disegna, l’antitesi più netta.”
Eppure si continua a evitare di pronunciare, in tante occasioni, il termine “antifascismo” perché divisivo. Divisivo? E certo che lo è: divide chi è a favore di una dittatura da chi non lo è! In realtà, anche quelle formazioni che fanno continuamente appello al rispetto della Costituzione, rivendicando per sé una libertà di espressione comodamente “elastica”, nel rifiutarsi di celebrare la Festa della Liberazione dimenticano questa indiscutibile verità. Non riconoscono, cioè, il significato civile di una giornata che ricorda la fine dell’oppressione e la rinascita alla dignità e alla libertà del popolo italiano, almeno del popolo che si riconosce in quei valori. Appunto.
In tale ottica, la Resistenza non è mai finita: se lo è come moto storico, continua a essere viva come resistenza civile a tutto ciò che degradi la condizione sociale a quella servile. E poiché tale pericolo esiste, sotto ogni latitudine e dentro ogni sistema politico e si slatentizza nelle situazioni di crisi in cui più forte è la tentazione di delegare i propri diritti personali, bisogna essere pronti a coglierne e interpretarne i segni, per neutralizzarne gli effetti. Le parole con cui Camus chiude La peste, efficace metafora del morbo nazifascista che contagiò l’Europa civile, e che ricordano come il bacillo si annidi, silente, negli armadi e tra gli indumenti, pronto a riattivarsi, restano un monito sempre valido per allertare alla vigilanza intelligenze e sensibilità.
Il fascismo è sempre presente nel tessuto della nostra società: lo è in forme diverse, è ovvio. Non più col fez e in camicia nera, ma in abiti civili. Un fascismo eterno, come l’ha definito Umberto Eco. Quotidiano e, per questo, più strisciante e insidioso, come è ampiamente trattato nel prossimo numero di Micromega, in uscita il 30 aprile.
Qual è la possibile copertura difensiva, al di là di un apparato legislativo potente quale quello contenuto nella citata Disposizione della Costituzione, nella legge Scelba del 1952 e nella legge Mancino del 1993? Probabilmente ancora una lenta, progressiva e paziente azione culturale, di ricerca storica e di studio faticoso, l’unica speranza di vivere onoratamente, come scrisse Gramsci, e di formarci una coscienza democratica che consenta la piena, irrinunciabile vita civile che ciascuno di noi ha il diritto di realizzare e il dovere di perfezionare.
[1] Norberto Bobbio, Eravamo ridiventati uomini. Testimonianze e discorsi sulla Resistenza, Einaudi, e-book, posiz. 325-330-335
* MicroMega, 24 aprile 2020.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
Le lacrime sono il vino del godimento
di Enrico Spadaro (Ondaiblea, 09 aprile 2020)
È con sensazioni di triste gioia che sembra avvicinarsi questa Pasqua, in cui quasi tutti i cristiani non possono fisicamente partecipare ai riti della Settimana Santa. Sembra quasi un paradosso, un ossimoro pronunciare queste parole, “triste gioia”: “gioia” nell’imminente resurrezione di Cristo, “triste” perché forse non totalmente vissuta.
Eppure esiste un termine greco, che racchiude un concetto forse maggiormente conosciuto nel mondo cristiano ortodosso, “charmolypi” (χαρμολύπη), che esprime al tempo stesso sentimenti di gioia (hara) e di tristezza (lypi). Si ritrova tale termine negli scritti di San Giovanni Climaco (525/575-603/650), monaco che visse quasi tutta la vita presso il monastero del Sinai. Nella sua dottrina, e in particolare nel suo scritto più celebre, La Scala della divina ascesa, vengono prevalentemente esaltati coloro che dopo aver peccato si pentono, poiché i dolori patiti permettono loro - attraverso il pentimento - di accedere alla vera “gioia” del Paradiso. Questi peccatori redenti sembrano aver provato la morte per poi essere risorti come Cristo, sono stati abbandonati e infine salvati dal Padre. Le lacrime che hanno versato sono così benedette: “Beati i sofferenti, perché essi saranno consolati”. (Matteo 5,4).
Il concetto espresso da San Giovanni Climaco potrebbe rinviare ad un elemento essenziale delle fiabe secondo lo scrittore britannico J.R.R. Tolkien (1892-1973), vale a dire la consolazione del lieto fine, per cui l’autore, nel suo saggio Sulle Fiabe (1939) conia il termine “eucatastrofe”, l’improvviso capovolgimento felice degli eventi, “ed è in quanto tale un evangelium, che fornisce una visione fuggevole della Gioia, quella Gioia oltre le muraglie del mondo, intensa come il dolore”.[1]
Con evangelium, Tolkien, fervente cattolico, non poteva che intendere il Vangelo, considerato come l’unica vera fiaba, e infatti continua il proprio saggio: “la Nascita di Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Uomo. La Resurrezione è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa storia comincia e finisce nella gioia.”
L’immensa opera letteraria di Tolkien e soprattutto i due romanzi principali, Lo Hobbit (1937) e Il Signore degli Anelli (1954-55), sono pieni di momenti in cui si verifica un’eucatastrofe, ma forse uno di quelli più evocativi è rappresentato dagli istanti immediatamente successivi la distruzione dell’Unico Anello tra le fiamme del Monte Fato. Frodo e Sam si credono spacciati e svengono, ma vengono salvati dalle grandi aquile e si risvegliano a Gondor con Gandalf al loro capezzale.
Tolkien descrive il momento attraverso le sensazioni di Sam:
E qualche pagina dopo:
Gioia e dolore sembrano fondersi e le lacrime sono la via che porta alla gioia, secondo la teorizzazione tolkieniana dell’eucatastrofe, ma anche secondo il concetto di “charmolypi” di San Giovanni Climaco. Inoltre, occorre sottolineare la data della distruzione dell’Anello, il 25 marzo, che è sì il giorno dell’Annunciazione a Maria, ma nella tradizione medievale era anche il giorno della crocifissione, il Venerdì Santo, un giorno di dolore che anticipava la gioia della Pasqua.
I momenti d’eucatastrofe in Tolkien non saranno forse l’espressione totale di beautitudine, ma potrebbero essere una rappresentazione di gioia e dolore, che preannuncia la “Gioia” finale del Paradiso.
Enrico Spadaro
Note
[1] Tolkien. Il medioevo e il fantastico. Milano, Bompiani, p. 225.
[2] Tolkien. Il Signore degli Anelli. Milano, Bombiani, p. 1136.
[3] Ibid., p. 1139.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PASQUA: BUONA PASQUA DI RESURREZIONE E DI RISURREZIONE.
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
Il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana”...
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Questo doloroso digiuno eucaristico che ci rende ancor più Chiesa
di Andrea Monda (Osservatore Romano, 14 marzo 2020)
Oggi per quasi tutti noi cattolici sarà una domenica senza messa, senza eucaristia. È la prima volta che ci capita nella vita, in precedenza quando è successo era stato in genere a causa delle nostre condizioni di salute ma ora è diverso, sono le messe e le chiese a trovarsi in pessime “condizioni di salute”.
Domenica scorsa siamo andati a messa, giusto in tempo perché poi è arrivata la decisione di sospendere le messe pubbliche. Quindi ora, nel mezzo della Quaresima, dovremo avviare, nostro malgrado, un inedito tipo di digiuno, quello eucaristico.
La cosa provoca sconcerto, dolore e dà a riflettere. E il pensiero si muove dal qui e ora e vola nello spazio e nel tempo. È uno dei vantaggi di essere cattolici secondo Chesterton («La Chiesa Cattolica è la sola capace di salvare l’uomo dallo stato di schiavitù in cui si troverebbe se fosse soltanto il figlio del suo tempo»), quello di appartenere ad una storia più grande di me, che mi precede e mi supera, che si estende nello spazio e nel tempo e quindi mi mantiene in una comunione con tutti i miei fratelli nella fede sparsi nel mondo e in ogni epoca: nella Chiesa è tutto sempre presente e contemporaneo.
Il pensiero dunque vola, ad esempio, in Amazzonia. Negli ultimi mesi questa regione così grande, così cruciale e così fragile, grazie all’iniziativa di Papa Francesco che ha indetto un Sinodo della Chiesa su di essa, è stata come “trasportata” e messa al centro del mondo e ci siamo così trovati noi stessi come trasportati in quelle terre dove, tra le altre cose, il digiuno eucaristico è spesso la regola. E non per una settimana o due, ma per lunghi mesi. C’è un modo per capire gli altri ed è soffrire con loro. Domenica forse capiremo un po’ di più i nostri fratelli abitanti dell’Amazzonia, e si tratta, ripeto, del digiuno di una sola domenica, la prima, speriamo di una serie non molto lunga. La discussione scaturita dal Sinodo sull’Amazzonia è stata per mesi molto accesa all’interno della Chiesa cattolica, ora forse è il momento di “sentire con la Chiesa” che si trova in Amazzonia.
Il pensiero vola anche nel tempo e ci conduce ai primi secoli del cristianesimo. In questi tempi di digiuno eucaristico e di chiese chiuse, i nostri pastori stanno esortando i fedeli a riscoprire la pratica religiosa all’interno delle case, la preghiera in famiglia, soprattutto del rosario. Così, ad esempio, la Chiesa italiana sta promuovendo un momento di preghiera per il Paese, invitando a recitare in casa il Rosario, i Misteri della luce, alla stessa ora: alle 21 del 19 marzo. In quella occasione si propone di esporre alle finestre un drappo bianco o una candela accesa. Quando nasce la Chiesa e per i primi secoli del suo cammino, le comunità non si riuniscono in luoghi pubblici di culto ma tutto si svolge nelle “chiese domestiche”. È con la fine delle persecuzioni sotto l’imperatore Costantino che le cose cambiano e si prende la decisione, tanto inevitabile quanto gravida di conseguenze, di convogliare il culto in edifici dedicati esclusivamente al culto.
Oggi da un certo punto di vista siamo tornati alla condizione dei primi secoli, alla riscoperta del senso della comunità credente all’interno delle mura domestiche dove, a causa della diffusione dell’epidemia, ci troviamo costretti a vivere. Alcuni studiosi e teologi hanno riflettuto, a partire dalla metà del secolo scorso, sul fatto che la Chiesa con la fine del potere temporale e soprattutto con il concilio Vaticano II ha di fatto concluso la cosiddetta “età costantiniana” in cui il percorso della Chiesa si era strettamente intrecciato e a volte confuso con quello dei poteri civili e politici. E molti vedono in Francesco il Papa che, proseguendo nella realizzazione del concilio, sta definitivamente chiudendo quella pagina storica cominciata con la svolta dell’imperatore vincitore a Ponte Milvio nel segno della croce.
Proprio Francesco il 21 dicembre scorso, citando Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ha ricordato alla Curia romana che «non siamo nella cristianità, non più! Oggi non siamo più gli unici che producono cultura, né i primi, né i più ascoltati. Abbiamo pertanto bisogno di un cambiamento di mentalità pastorale, che non vuol dire passare a una pastorale relativistica. Non siamo più in un regime di cristianità perché la fede - specialmente in Europa, ma pure in gran parte dell’Occidente - non costituisce più un presupposto ovvio del vivere comune, anzi spesso viene perfino negata, derisa, emarginata e ridicolizzata». Proprio per questo, dice il Papa: «Nelle grandi città abbiamo bisogno di altre “mappe”, di altri paradigmi, che ci aiutino a riposizionare i nostri modi di pensare e i nostri atteggiamenti».
Oggi chi scrive si trova nella grande città di Roma, culla del cristianesimo come spesso viene chiamata, e sente che gli è chiesto un sforzo di fede creativa per sviluppare nuove “mappe”, il che vuol dire anche tornare alle sorgenti della fede, della propria storia, perché per il cristiano anzi è sempre così: tornare all’essenziale, alle radici, al Vangelo, perché lì si trova la vita. Da questo punto di vista la Quaresima è il tempo forte, è il kairòs, il momento opportuno per purificare la nostra fede, rianimare la speranza e allora anche l’inedito e doloroso digiuno eucaristico potrà diventare un’occasione per allargare il cuore, farci sentire in comunione con tutta la Chiesa, il popolo che Dio accompagna sin dall’eternità, in ogni luogo e in ogni tempo.
L’ECCE HOMO, L’8 MARZO AL TEMPO DEL “CORONA VIRUS”, E LA MEMORIA DI CHRISTINE DE PIZAN ...
ALLA LUCE DEL CHIARIMENTO DEL SIGNIFICATO DELLE PAROLE DI PONZIO PILATO: “ECCE HOMO”(cfr. sopra : https://www.fondazioneterradotranto.it/2020/02/26/dialetti-salentini-piticinu/#comment-269838), si comprende meglio anche il significato delle parole di Christine de Pizan, l’autrice della “Città delle dame” : «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, “dalla parte del torto”, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
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ASTREA ! “IAM REDIT ET VIRGO” ...
CARO ARMANDO... RICORDANDO DI NUOVO E ANCORA IL TUO PREGEVOLISSIMO LAVORO SU- GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA (si cfr. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/07/08/gli-arcadi-di-terra-dotranto-premessa-1-x/#comment-238474), E LA TUA CONNESSIONE TRA LA “PIZANA” CAPACE DI “CONDURRE LE NAVI” CON LA FIERA E NOBILE Carola Rackete, A SUO E TUO OMAGGIO, riprendo qui una breve scheda su:
Buon 8 marzo 2020 - e buon lavoro...
Perché il futuro è soprattutto una questione pedagogica
di Goffredo Fofi (Avvenire, venerdì 6 marzo 2020)
I due campi su cui dovrebbe mettersi alla prova una generazione di giovani intellettuali e artisti - oggi così frastornati fiacchi inconcludenti - sono a parere di molti quelli dell’ecologia e della pedagogia. La difesa dell’ambiente, delle stesse possibilità di sopravvivenza della vita sulla terra; e l’ingresso nella vita attiva delle nuove generazioni, dei nuovi nati.
Molti anni fa misi ad apertura di un mio inutile scritto la dedica “Ai nostri morti” e lo conclusi con quella “Ai nuovi nati”. Oggi, complice l’età, mi capita fin troppo spesso di pensare ai miei morti, noti e comuni, colti e analfabeti, e, diciamo così, di intrattenermi con loro ripensando quel che sono stati, quel che hanno hanno detto e fatto, e a quanto mi hanno dato con le loro parole e ancor più con il loro esempio, e questa compagnia è molto gratificante; mentre mi capita di pensare con angoscia al futuro dei bambini che conosco o incrocio nelle vie della città al seguito dei loro genitori o dei bambini di cui leggo sui giornali, quelli che muoiono nei barconi che affondano o vengono fatti affondare o, in tanti paesi, di fame e di guerra.
Ma forse quelli che mettono addosso un’ansia maggiore sono proprio i bambini privilegiati, i figli del benessere e della pace, consegnati ad adulti trasandati e ottusi, genitori o educatori che non sembrano davvero preoccupati del loro futuro e, se lo fanno, quelli che non sono afflitti dal bisogno e da altre pesantissime insicurezze lo fanno in termini materiali e di status. Ma se i genitori “non sono all’altezza” del tempo in cui vivono, non lo è neanche la maggioranza degli insegnanti, anche se è tra loro, più che tra i genitori, che incontro chi si dà pena per loro.
In altre epoche storiche, per esempio al tempo delle dittature come delle democrazie nate dalla Grande Guerra, fu lo Stato ad assumersi, consigliato da pedagogisti che fidavano più nell’educazione pubblica che in quella privata, la responsabilità della formazione dei “nuovi arrivati”. Nel bene e nel male, va da sé, e nel mentre che resisteva una pedagogia confessionale, teoricamente bene impostata ma troppo essenziale e ristretta.
Credo oggi, scandalizzando forse qualcuno, che si debba puntare sulla scuola piuttosto che sulla famiglia - anche se questo non esclude affatto il dovere e il bisogno di occuparsi della famiglia. E credo che gli insegnanti abbiano in genere più possibilità (più sapienza; meno egoismo e meno chiusure) nell’affrontare i problemi della trasmissione di un sistema di valori e di conoscenze da una generazione all’altra.
Ma la scuola langue, nonostante gli sforzi dei singoli, ed è piena di insegnanti infingardi ma soprattutto di insegnanti sfiduciati anche quando ostinati e coscienti dei loro enormi, pesanti doveri, ed è diretta in alto loco da politici mediocri e senza visione, gretti, spesso anche imbecilli.
È da dentro la scuola che un modo serio di lavorare con i “nuovi” può e deve anzitutto ripartire, e la pedagogia non è dunque meno importante dell’ecologia, nei nostri compiti presenti e futuri, nelle lotte che è nostro dovere proporre e affrontare.
Libera scelta, competizione, classifiche: le tante facce delle diseguaglianze di classe nella scuola italiana
Il classismo in classe
di Marco Romito (Il Mulino, 27 gennaio 2020)
È trascorsa circa una settimana da quando i media nazionali hanno rilanciato la notizia di una scuola romana che, presentandosi sul suo sito internet, avrebbe caratterizzato le sue tre sedi in termini classisti. Come in altre occasioni, quando la scuola entra nel faro d’attenzione del dibattito pubblico, prevalgono il tono scandalizzato e una scarsa capacità di contestualizzare ciò che si sta riportando.
La gran parte della stampa nazionale ha trattato la notizia lasciando intendere che la scuola di via Trionfale mettesse in atto un’esplicita politica classista separando gli alunni nei suoi tre plessi in base al censo: “Ecco la scuola che divide gli alunni in base alla classe sociale”.
Si è poi compreso che il riferimento alla condizione socioeconomica degli studenti era ripreso da un rapporto di autovalutazione (Rav) compilato seguendo le indicazioni del ministero. Le scuole sono accompagnate nella compilazione del Rav da alcune domande guida, alcune delle quali fanno riferimento al background familiare degli studenti. In questo non c’è nulla di scandaloso poiché si tratta di informazioni di cui occorre tenere conto per attuare politiche scolastiche inclusive.
Il problema, però, è che da qualche anno si è fatta largo l’idea che le scuole debbano essere trasparenti, che debbano dar conto di ciò che sono, di ciò che fanno, dei risultati raggiunti e così via. E così i Rav, assieme a molti altri indicatori, sono visibili sulla piattaforma governativa “Scuola in chiaro”. Questo è in linea con un approccio di impronta neoliberale, teso cioè a fare del sistema scolastico un mercato che si regola attraverso le scelte informate delle famiglie. I sostenitori di questo approccio ritengono che in questo modo le scuole saranno portate a migliorarsi per attrarre studenti. Tuttavia, come mostra la vicenda di via Trionfale, alcune informazioni possono fornire un’indicazione alle famiglie perché scelgano la scuola più conforme al proprio status.
Così, al coro dell’indignazione, hanno preso parte anche il sottosegretario all’istruzione De Cristoforo e la neoministra Azzolina, che hanno sostenuto sia un errore fornire informazioni sul background socioeconomico degli studenti. La descrizione, in ultimo, è stata rimossa. Ma si ha l’impressione che si sia alzato un gran polverone che nasconde ciò che dice di voler mettere in luce dietro una coltre di facili semplificazioni e dietro la colpevolizzazione dell’operato di una singola scuola. Si ha l’impressione, soprattutto, che la scuola italiana possa continuare a essere classista purché non nomini la classe.
Una scuola che nasconde i riferimenti alle condizioni socioeconomiche dei propri studenti non è meno classista di una che li rende pubblici. Le informazioni sulla qualità “sociale” di una scuola circolano informalmente nelle reti dei genitori e queste informazioni orientano le scelte in modi che rafforzano la segregazione scolastica. Non possiamo nasconderci che molti dei giornali che usano toni scandalizzati per descrivere la vicenda di via Trionfale rilanciano ogni anno la classifica sulla qualità formativa delle scuole pubblicata dalla Fondazione Giovanni Agnelli. Questa classifica, pur utilizzando il concetto di qualità formativa, non è molto più di una classifica dello status socioeconomico delle scuole. Ecco, si può essere classisti, pur senza nominare la classe.
Può allora essere utile prendere questa vicenda come un’opportunità per mettere in fila qualche breve ragionamento a mente fredda. Senza farci distrarre dal dito che indica la luna, chiediamoci: in che modo la scuola italiana è classista?
Propongo un elenco, certamente non esaustivo, di pratiche e meccanismi che, lontano dai moti episodici di indignazione pubblica, riproducono il classismo nel banale scorrere della quotidianità scolastica. Ma una premessa è doverosa. Il classismo della scuola non è solo imputabile alla scuola, ma è l’esito di una complessa articolazione di problemi che riguardano più dimensioni. Per rimanere al caso della scuola di via Trionfale è evidente che il tema della segregazione scolastica è inscindibile da quello della segregazione abitativa. Così come è evidente che le disuguaglianze economiche, crescenti, non possono non accrescere il divario tra chi può permettersi un’istruzione di elevata qualità e chi no.
Nell’elenco che segue faccio però riferimento solo a ciò su cui può intervenire una politica strettamente scolastica, mi soffermo sugli aspetti che mi sembrano meno presenti nel dibattito pubblico e solo su ciò che è supportato dalla ricerca empirica.
Che la vicenda della scuola di via Trionfale ci aiuti allora a impostare il discorso nei giusti termini. Se non si vuole che la scuola sia classista, allora la classe occorre nominarla. E occorre nominarla ogni volta che in modi più o meno plateali si insinua nella vita scolastica creando separazioni e gerarchie.
Occorre nominare la classe per smantellare tutti i meccanismi attraverso cui produce disuguaglianza. Per farlo, occorre aprire un tavolo di discussione che chiami a raccolta tutte quelle realtà, associazioni, docenti, movimenti, che provano a praticare ogni giorno una scuola anti-classista. Queste realtà sono innumerevoli e si muovono nel contesto di una politica governativa che (finora?) si è caratterizzata per aver largamente ignorato il problema: o meglio, che negli ultimi decenni ha attuato riforme che sembrano aver esacerbato processi presenti da sempre.
Che si ricominci a parlare di classismo a scuola allora. Ma non per gridare al declino, allo scandalo, ma per avere coscienza della complessità e interconnessione tra le diverse dimensioni attraverso cui il classismo si produce e si impone.
Per la sua capacità di favorire gli studenti privilegiati, il nostro Paese spicca nei confronti internazionali. Questo può generare rabbia, al peggio sconforto, ma se la politica e la scuola italiana raccoglieranno la sfida potremmo avere innumerevoli spazi per agire, per iniziare ad applicare il dettato costituzionale e per fare della scuola una vera palestra di democrazia.
CREATIVITÀ E IMMAGINAZIONE COSMOTEANDRICA (cosmologia, teologia, e antropo-logia!). QUALE DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")? QUALE MADRE: "MARIA-EVA" O "MARIA-MARIA"?!....*
SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI MARIA SS.MA MADRE DI DIO
LIII GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
CAPPELLA PAPALE
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Mercoledì, 1° gennaio 2020
«Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» (Gal 4,4). Nato da donna: così è venuto Gesù. Non è apparso nel mondo adulto ma, come ci ha detto il Vangelo, è stato «concepito nel grembo» (Lc 2,21): lì ha fatto sua la nostra umanità, giorno dopo giorno, mese dopo mese. Nel grembo di una donna Dio e l’umanità si sono uniti per non lasciarsi mai più: anche ora, in cielo, Gesù vive nella carne che ha preso nel grembo della madre. In Dio c’è la nostra carne umana!
Nel primo giorno dell’anno celebriamo queste nozze tra Dio e l’uomo, inaugurate nel grembo di una donna. In Dio ci sarà per sempre la nostra umanità e per sempre Maria sarà la Madre di Dio. È donna e madre, questo è l’essenziale. Da lei, donna, è sorta la salvezza e dunque non c’è salvezza senza la donna. Lì Dio si è unito a noi e, se vogliamo unirci a Lui, si passa per la stessa strada: per Maria, donna e madre. Perciò iniziamo l’anno nel segno della Madonna, donna che ha tessuto l’umanità di Dio. Se vogliamo tessere di umanità le trame dei nostri giorni, dobbiamo ripartire dalla donna.
Nato da donna. La rinascita dell’umanità è cominciata dalla donna. Le donne sono fonti di vita. Eppure sono continuamente offese, picchiate, violentate, indotte a prostituirsi e a sopprimere la vita che portano in grembo. Ogni violenza inferta alla donna è una profanazione di Dio, nato da donna. Dal corpo di una donna è arrivata la salvezza per l’umanità: da come trattiamo il corpo della donna comprendiamo il nostro livello di umanità. Quante volte il corpo della donna viene sacrificato sugli altari profani della pubblicità, del guadagno, della pornografia, sfruttato come superficie da usare. Va liberato dal consumismo, va rispettato e onorato; è la carne più nobile del mondo, ha concepito e dato alla luce l’Amore che ci ha salvati! Oggi pure la maternità viene umiliata, perché l’unica crescita che interessa è quella economica. Ci sono madri, che rischiano viaggi impervi per cercare disperatamente di dare al frutto del grembo un futuro migliore e vengono giudicate numeri in esubero da persone che hanno la pancia piena, ma di cose, e il cuore vuoto di amore.
Nato da donna. Secondo il racconto della Bibbia, la donna giunge al culmine della creazione, come il riassunto dell’intero creato. Ella, infatti, racchiude in sé il fine del creato stesso: la generazione e la custodia della vita, la comunione con tutto, il prendersi cura di tutto. È quello che fa la Madonna nel Vangelo oggi. «Maria - dice il testo - custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (v. 19). Custodiva tutto: la gioia per la nascita di Gesù e la tristezza per l’ospitalità negata a Betlemme; l’amore di Giuseppe e lo stupore dei pastori; le promesse e le incertezze per il futuro. Tutto prendeva a cuore e nel suo cuore tutto metteva a posto, anche le avversità. Perché nel suo cuore sistemava ogni cosa con amore e affidava tutto a Dio.
Nel Vangelo questa azione di Maria ritorna una seconda volta: al termine della vita nascosta di Gesù si dice infatti che «sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (v. 51). Questa ripetizione ci fa capire che custodire nel cuore non è un bel gesto che la Madonna faceva ogni tanto, ma la sua abitudine. È proprio della donna prendere a cuore la vita. La donna mostra che il senso del vivere non è continuare a produrre cose, ma prendere a cuore le cose che ci sono. Solo chi guarda col cuore vede bene, perché sa “vedere dentro”: la persona al di là dei suoi sbagli, il fratello oltre le sue fragilità, la speranza nelle difficoltà; vede Dio in tutto.
Mentre cominciamo il nuovo anno chiediamoci: “So guardare col cuore? So guardare col cuore le persone? Mi sta a cuore la gente con cui vivo, o le distruggo con le chiacchiere? E soprattutto, ho al centro del cuore il Signore? O altri valori, altri interessi, la mia promozione, le ricchezze, il potere?”. Solo se la vita ci sta a cuore sapremo prendercene cura e superare l’indifferenza che ci avvolge. Chiediamo questa grazia: di vivere l’anno col desiderio di prendere a cuore gli altri, di prenderci cura degli altri. E se vogliamo un mondo migliore, che sia casa di pace e non cortile di guerra, ci stia a cuore la dignità di ogni donna. Dalla donna è nato il Principe della pace. La donna è donatrice e mediatrice di pace e va pienamente associata ai processi decisionali. Perché quando le donne possono trasmettere i loro doni, il mondo si ritrova più unito e più in pace. Perciò, una conquista per la donna è una conquista per l’umanità intera.
Nato da donna. Gesù, appena nato, si è specchiato negli occhi di una donna, nel volto di sua madre. Da lei ha ricevuto le prime carezze, con lei ha scambiato i primi sorrisi. Con lei ha inaugurato la rivoluzione della tenerezza. La Chiesa, guardando Gesù bambino, è chiamata a continuarla. Anch’ella, infatti, come Maria, è donna e madre, la Chiesa è donna e madre, e nella Madonna ritrova i suoi tratti distintivi. Vede lei, immacolata, e si sente chiamata a dire “no” al peccato e alla mondanità. Vede lei, feconda, e si sente chiamata ad annunciare il Signore, a generarlo nelle vite. Vede lei, madre, e si sente chiamata ad accogliere ogni uomo come un figlio.
Avvicinandosi a Maria la Chiesa si ritrova, ritrova il suo centro, ritrova la sua unità. Il nemico della natura umana, il diavolo, cerca invece di dividerla, mettendo in primo piano le differenze, le ideologie, i pensieri di parte e i partiti. Ma non capiamo la Chiesa se la guardiamo a partire dalle strutture, a partire dai programmi e dalle tendenze, dalle ideologie, dalle funzionalità: coglieremo qualcosa, ma non il cuore della Chiesa. Perché la Chiesa ha un cuore di madre. E noi figli invochiamo oggi la Madre di Dio, che ci riunisce come popolo credente. O Madre, genera in noi la speranza, porta a noi l’unità. Donna della salvezza, ti affidiamo quest’anno, custodiscilo nel tuo cuore. Ti acclamiamo: Santa Madre di Dio. Tutti insieme, per tre volte, acclamiamo la Signora, in piedi, la Madonna Santa Madre di Dio: [con l’assemblea] Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio!
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!!
Federico La Sala
COSTITUZIONE, MESSAGGIO EVANGELICO, CATTOLICESIMO ROMANO, E FILOLOGIA... *
Sala: “La fede mi guida. Ma da divorziato soffro senza la comunione”
La lettera del sindaco di Milano. Riflessione sul rapporto con la religione: “Mi aiuta nell’impegno a favore dei più deboli. Altrimenti la parola di Dio rimane scritta solo nei libri e non nei nostri cuori”
di GIUSEPPE SALA (la Repubblica, 24 dicembre 2019)
Caro direttore, sono un uomo fortunato perché la fede è per me qualcosa di irrinunciabile. È un dono fondamentale che apprezzo ancor di più adesso, dopo i sessant’anni, con tanta vita alle spalle. Ho avuto momenti di stanchezza, ho vissuto dubbi e contraddizioni ma non ho mai smesso di ricercare il Signore. Tra tante vicende della vita sento di non potere fare a meno del confronto con il Mistero e, in definitiva, con me stesso.
Ed è proprio da questa esperienza che conosco i miei limiti. Non mi sono mai sentito così profondo da potermi nutrire solo di fede, di farmi “bastare” l’intima relazione con Dio. Penso spesso che la mia fede non reggerebbe senza la pratica, senza la possibilità di entrare in un luogo di culto, senza la Messa della domenica. Ho bisogno della Messa, di sentire la voce, più o meno ispirata, di un pastore e di misurarmi con Gesù e con il suo Vangelo. Pur nella consapevolezza dell’ineluttabilità del confronto che nasce in me e ritorna in me.
La Messa della domenica è un momento di pace e di verità. Mi fa star bene, mi aiuta a sentire la mia umanità, i miei dolori, la mia essenza. La gratitudine e la precarietà. Sono solo a disagio rispetto al momento della comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento. Amo stare insieme agli altri, condividere quel senso di solitudine e, allo stesso tempo, di comunione che la Messa ti dà. La liturgia ci insegna l’umiltà di essere come (e peggio) degli altri, di condividere la speranza, di far ammenda delle nostre miserie.
Si deve essere popolo anche fuori dalle porte della Chiesa. Tra tante urla, la ricerca della verità e della giustizia è l’impegno che dà senso alla mia fede, quella fede che mi dà l’energia giorno per giorno per rendere concreto il mio cammino sulla via dell’equità, del rispetto e dell’accoglienza soprattutto verso i più deboli e i più abbandonati. Altrimenti la parola di Dio rischia di rimanere scritta solo nei libri e non nei nostri cuori.
Per tutto ciò amo parlare di religione, ma ne aborro l’ostentazione. Sorrido pensando che ne sto scrivendo, ma è come se stessi parlando a me stesso.
I divorziati e l’eucarestia.
La lettera del sindaco Sala e le risposte che dà la Chiesa
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il primo cittadino di Milano lo ha fatto rivelando un’adesione di fede e una ferita
di Luciano Moia (Avvenire, sabato 28 dicembre 2019)
È raro che un politico parli della sua vita di fede. Il sindaco Beppe Sala lo ha fatto rivelando un’adesione e una ferita. Un atto di coraggio e di chiarezza. Che non può che essere apprezzato da chi, come noi, da anni è impegnato a divulgare e promuovere la svolta pastorale voluta da papa Francesco all’insegna dell’accoglienza e della misericordia. Nella confessione spirituale che ha affidato, la vigilia di Natale, alle pagine de "la Repubblica", il sindaco di Milano rivela «di non poter fare a meno del confronto con il Mistero» e di partecipare regolarmente alla Messa domenicale, ma di sentirsi «a disagio rispetto al momento della Comunione, essendo divorziato e in uno stato che non mi consente di accostarmi al Sacramento».
Se una persona seria e preparata come Sala, è costretta ad ammettere un disorientamento spirituale per la sua condizione di divorziato risposato, significa che la strada per trasformare in consapevolezza diffusa le indicazioni uscite dal doppio Sinodo sulla famiglia (2014 e 2015) voluto da papa Francesco e poi dall’esortazione apostolica Amoris laetitia, è ancora lunga.
In quel testo il Papa scrive in modo esplicito che nessuno deve sentirsi condannato per sempre e che la Chiesa è chiamata ad offrire a tutti, compresi i divorziati risposati a cui è dedicato un intero capitolo - l’VIII - la possibilità di vivere pienamente il proprio cammino di fede. In questo cammino si può comprendere anche l’aiuto dei sacramenti (nota 351).
Non è un’opinione. È quanto emerso da un cammino sinodale proseguito per oltre tre anni che il Papa ha sancito con la sua parola. Poi, di fronte alle critiche e ai distinguo, Francesco ha voluto che l’interpretazione da lui considerata più efficace, quella dei vescovi della regione di Buenos Aires, fosse inserita nei cosiddetti Acta apostolica sedis - gli atti ufficiali della Santa Sede - a ribadire che indietro non si torna e che tutte le diocesi del mondo devono incamminarsi lungo quella strada.
Milano non fa eccezione. Inutile far riferimento al rito ambrosiano e alle aperture del cardinale Carlo Maria Martini, che su questi aspetti non ci sono state, in quanto scelte che non si potevano e non si possono pretendere da una singola Chiesa locale.
Francesco, come detto, ha ritenuto necessarie due assemblee mondiali dei vescovi per gettare i semi del cambiamento. Una persona divorziata e risposata che desidera riaccostarsi alla Comunione - spiega il Papa - può chiedere l’aiuto di un sacerdote preparato per avviare un serio esame di coscienza sulle proprie scelte esistenziali.
Sei, in rapidissima sintesi, i punti da non trascurare: quali sforzi sono stati fatti per salvare il precedente matrimonio e ci sono stati tentativi di riconciliazione? La separazione è stata voluta o subita? Che rapporto c’è con il precedente coniuge? Quale comportamento verso i figli? Quali ripercussioni ha avuto la nuova unione sul resto della famiglia? E sulla comunità? Domande spesso laceranti e risposte non codificabili, che possono richiedere anche lunghi tempi di elaborazione e da cui non derivano conseguenze uguali per tutti. Ma anche modalità pastorali efficaci per metterle in pratica.
Trovare e attuare queste buone prassi è faticoso e Sala, con le sue parole, ha dato voce a un disagio e una sofferenza spirituale, ma anche a una speranza, che condivide con tanti altri credenti, divorziati e risposati.
*SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
FLS
«Perché la storia continui». Appello per una Costituzione della Terra
Proposte. Appello per un nuovo costituzionalismo globale, una bussola etica e politica per salvare il mondo e i suoi abitanti dalla distruzione.
di Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, Raffaele Nogaro, Paolo Maddalena, Mariarosaria Guglielmi, Riccardo Petrella (il manifesto, 26.12.2019)
Nel pieno della crisi globale, nel 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana, Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Valerio Onida, il vescovo Nogaro, Riccardo Petrella e molti altri lanciano il progetto politico di una Costituzione per la Terra e promuovono una Scuola, «Costituente Terra», che ne elabori il pensiero e prefiguri una nuova soggettività politica del popolo della Terra, «perché la storia continui». Pubblichiamo le parti essenziali del documento che esce domani, in data 27 dicembre 2019.
L’Amazzonia brucia e anche l’Africa, e non solo di fuoco, la democrazia è a pezzi, le armi crescono, il diritto è rotto in tutto il mondo. «Terra! Terra!» è il grido dei naufraghi all’avvistare la sponda, ma spesso la terra li respinge, dice loro: «i porti sono chiusi, avete voluto prendere il mare, fatene la vostra tomba, oppure tornate ai vostri inferni». Ma «Terra» è anche la parola oggi più amata e perduta dai popoli che ne sono scacciati in forza di un possesso non condiviso; dai profughi in fuga per la temperatura che aumenta e il deserto che avanza; dalle città e dalle isole destinate ad essere sommerse al rompersi del chiavistello delle acque, quando la Groenlandia si scioglie, i mari son previsti salire di sette metri sull’asciutto, e a Venezia già lo fanno di un metro e ottantasette. «Che si salvi la Terra» dicono le donne e gli uomini tutti che assistono spaventati e impotenti alla morte annunciata dell’ambiente che da millenni ne ospita la vita.
Ci sono per fortuna pensieri e azioni alternative, si diffonde una coscienza ambientale, il venerdì si manifesta per il futuro, donne coraggiose da Greta Thunberg a Carola Rackete fanno risuonare milioni di voci, anche le sardine prendono la parola, ma questo non basta. Se nei prossimi anni non ci sarà un’iniziativa politica di massa per cambiare il corso delle cose, se le si lascerà in balia del mercato della tecnologia o del destino, se in Italia, in Europa e nelle Case Bianche di tutti i continenti il fascismo occulto che vi serpeggia verrà alla luce e al potere, perderemo il controllo del clima e della società e si affacceranno scenari da fine del mondo, non quella raccontata nelle Apocalissi, ma quella prevista e monitorata dagli scienziati.
Il cambiamento è possibile
L’inversione del corso delle cose è possibile. Essa ha un nome: Costituzione della terra. Il costituzionalismo statuale che ha dato una regola al potere, ha garantito i diritti, affermato l’eguaglianza e assicurato la vita degli Stati non basta più, occorre passare a un costituzionalismo mondiale della stessa autorità ed estensione dei poteri e del denaro che dominano la Terra.
La Costituzione del mondo non è il governo del mondo, ma la regola d’ingaggio e la bussola di ogni governo per il buongoverno del mondo. Nasce dalla storia, ma deve essere prodotta dalla politica, ad opera di un soggetto politico che si faccia potere costituente. Il soggetto costituente di una Costituzione della Terra è il popolo della Terra, non un nuovo Leviatano, ma l’unità umana che giunga ad esistenza politica, stabilisca le forme e i limiti della sua sovranità e la eserciti ai fini di far continuare la storia e salvare la Terra.
Salvare la Terra non vuol dire solo mantenere in vita «questa bella d’erbe famiglia e d’animali», cantata dai nostri poeti, ma anche rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono il pieno sviluppo di tutte le persone umane.
Il diritto internazionale è già dotato di una Costituzione embrionale del mondo, prodotta in quella straordinaria stagione costituente che fece seguito alla notte della seconda guerra mondiale e alla liberazione dal fascismo e dal nazismo: la Carta dell’Onu del 1945, la Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, i due Patti internazionali del 1966 e le tante Carte regionali dei diritti, che promettono pace, sicurezza, garanzia delle libertà fondamentali e dei diritti sociali per tutti gli esseri umani. Ma non sono mai state introdotte le norme di attuazione di queste Carte, cioè le garanzie internazionali dei diritti proclamati. Non è stato affatto costituito il nuovo ordine mondiale da esse disegnato. È come se un ordinamento statale fosse dotato della sola Costituzione e non anche di leggi attuative, cioè di codici penali, di tribunali, di scuole e di ospedali che «di fatto la realizzino».
È chiaro che in queste condizioni i diritti proclamati sono rimasti sulla carta, come promesse non mantenute. Riprendere oggi il processo politico per una Costituzione della Terra vuol dire tornare a prendere sul serio il progetto costituzionale formulato settant’anni fa e i diritti in esso stabiliti. E poiché quei diritti appartengono al diritto internazionale vigente, la loro tutela e attuazione non è soltanto un’urgente opzione politica, ma anche un obbligo giuridico in capo alla comunità internazionale e a tutti noi che ne facciamo parte.
Qui c’è un’obiezione formulata a partire dalla tesi di vecchi giuristi secondo la quale una Costituzione è l’espressione dell’«unità politica di un popolo»; niente popolo, niente Costituzione. E giustamente si dice che un popolo della Terra non c’è; infatti non c’era ieri e fino ad ora non c’è.
La novità è che adesso può esserci, può essere istituito; lo reclama la scena del mondo, dove lo stato di natura delle sovranità in lotta tra loro non solo toglie la «buona vita», ma non permette più neanche la nuda vita; lo reclama l’oceano di sofferenza in cui tutti siamo immersi; lo rende possibile oggi la vetta ermeneutica raggiunta da papa Francesco e da altre religioni con lui, grazie alla quale non può esserci più un dio a pretesto della divisione tra i popoli: «Dio non ha bisogno di essere difeso da nessuno» - hanno detto ad Abu Dhabi - non vuole essere causa di terrore per nessuno, mentre lo stesso «pluralismo e le diversità di religione sono una sapiente volontà divina con cui Dio ha creato gli esseri umani»; non c’è più un Dio geloso e la Terra stessa non è una sfera, ma un poliedro di differenze armoniose.
Per molti motivi perciò è realistico oggi porsi l’obiettivo di mettere in campo una Costituente della Terra, prima ideale e poi anche reale, di cui tutte le persone del pianeta siano i Padri e le Madri costituenti.
Una politica dalla parte della Terra
Di per sé l’istanza di una Costituzione della Terra dovrebbe essere perseguita da quello strumento privilegiato dell’azione politica che, almeno nelle democrazie, è il partito - nazionale o transnazionale che sia - ossia un artefice collettivo che, pur sotto nomi diversi, agisca nella forma partito. Oggi questo nome è in agonia perché evoca non sempre felici ricordi, ma soprattutto perché i grandi poteri che si arrogano il dominio del mondo non vogliono essere intralciati dal controllo e dalla critica dei popoli, e quindi cercano di disarmarli spingendoli a estirpare le radici della politica e dei partiti fin nel loro cuore. È infatti per la disaffezione nei confronti della politica a cui l’intera società è stata persuasa che si scende in piazza senza colori; ma la politica non si sospende, e ciò a cui comunque oggi siamo chiamati è a prendere partito, a prendere partito non per una Nazione, non per una classe, non “prima per noi”, ma a prendere partito per la Terra, dalla parte della Terra.
Ma ancor più che la riluttanza all’uso di strumenti già noti, ciò che impedisce l’avvio di questo processo costituente, è la mancanza di un pensiero politico comune che ne faccia emergere l’esigenza e ne ispiri modalità e contenuti.
Non manca certamente l’elaborazione teorica di un costituzionalismo globale che vada oltre il modello dello Stato nazionale, il solo nel quale finora è stata concepita e attuata la democrazia, né mancano grandi maestri che lo propugnino; ma non è diventato patrimonio comune, non è entrato nelle vene del popolo un pensiero che pensi e promuova una Costituzione della Terra, una unità politica dell’intera comunità umana, il passaggio a una nuova e rassicurante fase della storia degli esseri umani sulla Terra.
Eppure le cose vanno così: il pensiero dà forma alla realtà, ma è la sfida della realtà che causa il pensiero. Una “politica interna del mondo” non può nascere senza una scuola di pensiero che la elabori, e un pensiero non può attivare una politica per il mondo senza che dei soggetti politici ne facciano oggetto della loro lotta. Però la cosa è tale che non può darsi prima la politica e poi la scuola, né prima la scuola e poi la politica. Devono nascere insieme, perciò quello che proponiamo è di dar vita a una Scuola che produca un nuovo pensiero della Terra e fermenti causando nuove soggettività politiche per un costituzionalismo della Terra. Perciò questa Scuola si chiamerà «Costituente Terra».
«Costituente Terra»: una Scuola per un nuovo pensiero
Certamente questa Scuola non può essere pensata al modo delle Accademie o dei consueti Istituti scolastici, ma come una Scuola disseminata e diffusa, telematica e stanziale, una rete di scuole con aule reali e virtuali. Se il suo scopo è di indurre a una mentalità nuova e a un nuovo senso comune, ogni casa dovrebbe diventare una scuola e ognuno in essa sarebbe docente e discente. Il suo fine potrebbe perfino spingersi oltre il traguardo indicato dai profeti che volevano cambiare le lance in falci e le spade in aratri e si aspettavano che i popoli non avrebbero più imparato l’arte della guerra. Ciò voleva dire che la guerra non era in natura: per farla, bisognava prima impararla. Senonché noi l’abbiamo imparata così bene che per prima cosa dovremmo disimpararla, e a questo la scuola dovrebbe addestrarci, a disimparare l’arte della guerra, per imparare invece l’arte di custodire il mondo e fare la pace.
Molte sarebbero in tale scuola le aree tematiche da perlustrare:
1) le nuove frontiere del diritto, il nuovo costituzionalismo e la rifondazione del potere;
2) il neo-liberismo e la crescente minaccia dell’anomia;
3) la critica delle culture ricevute e i nuovi nomi da dare a eventi e fasi della storia passata;
4) il lavoro e il Sabato, un lavoro non ridotto a merce, non oggetto di dominio e alienato dal tempo della vita;
5) la «Laudato sì» e l’ecologia integrale;
6) il principio femminile, come categoria rigeneratrice del diritto, dal mito di Antigone alla coesistenza dei volti di Levinas, al legame tra donna e natura fino alla metafora della madre-terra;
7) l’Intelligenza artificiale (il Führer artificiale?) e l’ultimo uomo;
8) come passare dalle culture di dominio e di guerra alle culture della liberazione e della pace;
9) come uscire dalla dialettica degli opposti, dalla contraddizione servo-signore e amico-nemico per assumere invece la logica dell’ et-et, della condivisione, dell’armonia delle differenze, dell’ «essere per l’altro», dell’ «essere l’altro»;
10) il congedo del cristianesimo dal regime costantiniano, nel suo arco «da Costantino ad Hitler», e la riapertura nella modernità della questione di Dio;
11) il «caso Bergoglio», preannuncio di una nuova fase della storia religiosa e secolare del mondo.
Naturalmente molti altri temi potranno essere affrontati, nell’ottica di una cultura per la Terra alla quale nulla è estraneo d’umano. Tutto ciò però come ricerca non impassibile e fuori del tempo, ma situata tra due kairòs, tra New Delhi ed Abu Dhabi, due opportunità, una non trattenuta e non colta, la proposta di Gorbaciov e Rajiv Gandhi del novembre 1986 per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, e l’altra che ora si presenta di una nuova fraternità umana per la convivenza comune e la salvezza della Terra, preconizzata nel documento islamo-cristiano del 4 febbraio 2019 e nel successivo Comitato di attuazione integrato anche dagli Ebrei, entrato ora in rapporto con l’ONU per organizzare un Summit mondiale della Fratellanza umana e fare del 4 febbraio la Giornata mondiale che la celebri.
Partecipare al processo costituente iscriversi al Comitato promotore
Pertanto i firmatari di questo appello propongono di istituire una Scuola denominata «Costituente Terra» che prenda partito per la Terra, e a questo scopo hanno costituito un’associazione denominata «Comitato promotore partito della Terra». Si chiama così perché in via di principio non era stata esclusa all’inizio l’idea di un partito, e in futuro chissà. Il compito è oggi di dare inizio a una Scuola, «dalla parte della Terra», alle sue attività e ai suoi siti web, e insieme con la Scuola ad ogni azione utile al fine «che la storia continui»; e ciò senza dimenticare gli obiettivi più urgenti, il risanamento del territorio, la rifondazione del lavoro, l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, la firma anche da parte dell’Italia del Trattato dell’ONU per l’interdizione delle armi nucleari e così via.
I firmatari propongono che persone di buona volontà e di non perdute speranze, che esponenti di associazioni, aggregazioni o istituzioni già impegnate per l’ecologia e i diritti, si uniscano a questa impresa e, se ne condividono in linea generale l’ispirazione, si iscrivano al Comitato promotore di tale iniziativa all’indirizzo progettopartitodellaterra@gmail.com versando la relativa quota sul conto BNL intestato a “Comitato promotore del partito della Terra”,
IBAN IT94X0100503206000000002788 (dall’estero BIC BNLIITRR).
La quota annua di iscrizione, al Comitato e alla Scuola stessa, è libera, e sarà comunque gradita. Per i meno poveri, per quanti convengano di essere tra i promotori che contribuiscono a finanziare la Scuola, eventuali borse di studio e il processo costituente, la quota è stata fissata dal Comitato stesso nella misura significativa di 100 euro, con l’intenzione di sottolineare che la politica, sia a pensarla che a farla, è cosa tanto degna da meritare da chi vi si impegna che ne sostenga i costi, contro ogni tornaconto e corruzione, ciò che per molti del resto è giunto fino all’offerta della vita. Naturalmente però si è inteso che ognuno, a cominciare dai giovani, sia libero di pagare la quota che crede, minore o maggiore che sia, con modalità diverse, secondo le possibilità e le decisioni di ciascuno.
Nel caso che l’iniziativa non riuscisse, le risorse finanziarie mancassero e il processo avviato non andasse a buon fine, l’associazione sarà sciolta e i fondi eventualmente residui saranno devoluti alle ONG che si occupano dei salvataggi dei fuggiaschi e dei naufraghi nel Mediterraneo.
Un’assemblea degli iscritti al Comitato sarà convocata non appena sarà raggiunto un congruo numero di soci, per l’approvazione dello Statuto dell’associazione, la formazione ed elezione degli organi statutari e l’impostazione dei programmi e dell’attività della Scuola.
Roma, 27 dicembre 2019, 72° anniversario della promulgazione della Costituzione italiana.
PROPONENTI E PRIMI ISCRITTI. Raniero La Valle, giornalista (Roma), Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto (Roma), Valerio Onida, già presidente della Corte Costituzionale, Raffaele Nogaro, ex vescovo di Caserta, Paolo Maddalena, già vicepresidente della Corte Costituzionale, Mariarosaria Guglielmi, Segretaria generale di Magistratura Democratica, Riccardo Petrella, ecologo, promotore del Manifesto dell’acqua e dell’identità di “Abitante della Terra”, Domenico Gallo, magistrato, Francesco Carchedi, sociologo (Roma), Francesco Di Matteo, Comitati Dossetti per la Costituzione, Anna Falcone. avvocata, Roma, Pippo Civati, Politico, Piero Basso (Milano), Gianpietro Losapio, cooperatore sociale, direttore del Consorzio NOVA, Giacomo Pollastri, studente in Legge (Roma), Francesco Comina, giornalista (Bolzano), Roberto Mancini, filosofo (Macerata), Francesca Landini, informatica (Roma), Giancarlo Piccinni e la Fondazione don Tonino Bello (Alessano), Grazia Tuzi, antropologa, autrice di “Quando si faceva la Costituzione. Storia e personaggi della comunità del porcellino” (Roma), Guido Innocenzo Gargano osb cam., monaco (Roma), Felice Scalia, s. J, (Messina), Marina Graziosi, docente (Roma), Agata Cancelliere, insegnante, (Roma), Raul Mordenti, storico della critica letteraria, Politico (Roma), Salvatore Maira, scrittore (Roma), Marco Malagola, francescano, missionario, (Torino), Norma Lupi (Roma), Andrea Cantaluppi, sindacalista (Roma), Enrico Peyretti (Torino), Nino Mantineo, università di Catanzaro, Giacoma Cannizzo, già sindaca di Partinico, Filippo Grillo, artista (Palermo), Nicola Colaianni, già magistrato e docente all’Università di Bari, Stefania Limiti, giornalista (Roma), Domenico Basile (Merate, Lecco), Maria Chiara Zoffoli (Merate), Luigi Gallo (Bolzano), Antonio Vermigli, giornalista (Quarrata, Pistoia), Renata Finocchiaro, ingegnere (Catania), Liana D’Alessio (Roma), Lia Fava, ordinaria di letteratura (Roma), Paolo Pollastri, musicista (Roma), Fiorella Coppola, sociologa (Napoli), Dario Cimaglia, editore, (Roma), Luigi Spina, insegnante, ricercatore (Biella), Marco Campedelli, Boris Ulianich, storico, Università Federico II, Napoli, Gustavo Gagliardi, Roma, Paolo Scandaletti, scrittore di storia, Roma, Pierluigi Sorti, economista, Roma, Vittorio Bellavite, coordinatore di “Noi siamo Chiesa”, Agnés Deshormes, cooperatrice internazionale, Parigi, Anna Sabatini Scalmati, psicoterapeuta, Roma, Francesco Piva, Roma, Sergio Tanzarella, storico del cristianesimo, Tina Palmisano, Il Giardino Terapeutico sullo Stretto, Messina, Luisa Marchini, segretaria di “Salviamo la Costituzione”, Bologna, Maurizio Chierici, giornalista. Angelo Cifatte, formatore, Genova, Marco Tiberi, sceneggiatore, Roma, Achille Rossi e l’altrapagina, Città di Castello, Antonio Pileggi, ex Provveditore agli studi e dir. gen. INVALSI, Giovanni Palombarini, magistrato, Vezio Ruggieri, psicofisiologo (Roma) Bernardetta Forcella (insegnante (Roma), Luigi Narducci (Roma), Laura Nanni (Albano), Giuseppe Salmè, magistrato, Giovanni Bianco, giurista, Roma.
Marta Cartabia, il cuore di Salomone e la riserva della Repubblica
Preoccupazione umana nell’esercizio della funzione di giudice, rapporto molto stretto con il presidente Mattarella, profonda conoscenza del diritto internazionale e comparato. Tre figli, e in cuffia i Metallica. Profilo della prima presidente della Consulta
di Maria Antonietta Calabrò (HUFFPOST, 11/12/2019)
Precisa, puntuale, acuta. L’opinione pubblica ha conosciuto il suo nome e il suo volto incorniciato dal caschetto, quest’estate, a fine agosto quando - apertasi la crisi di governo gialloverde - il suo nome è stato fatto come possibile nuovo presidente del Consiglio. Ma dopo qualche giorno di rumors, Marta Cartabia, vicepresidente della Corte dal 2014 ha smentito l’ipotesi. “L’incarico alla Corte costituzionale, che mi è stato affidato otto anni fa e che si concluderà nel settembre 2020, richiede grande impegno e responsabilità e intendo portarlo a compimento per il valore che la Costituzione gli attribuisce per la vita del Paese e soprattutto per quella di ogni singola persona”, dichiarò allora.
Com’è noto, l’impegno di giudice di palazzo della Consulta dura nove anni, e lei, babyboomer , nata nel 1963, ordinario di diritto costituzionale a Milano Bicocca (relatore della sua tesi di laurea un altro presidente della Corte Valerio Onida), è stata nominata, lei cattolica, all’Alta Corte dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel settembre 2011.
Il nome di Cartabia come possibile premier non era uscito a caso, ma come quello di una personalità che avrebbe potuto garantire la discontinuità chiesta dal Pd per una possibile alleanza con il M5s.
Già nel 2018 aveva pensato alla giurista il Presidente Sergio Mattarella per guidare un governo neutrale per traghettare il Paese verso nuove elezioni.
Già da queste poche note emerge il primo tratto decisivo del nuovo presidente della Corte Costituzionale (che ha scritto un libro a quattro mani con Luciano Violante, “Giustizia e Mito”): una levatura altissima, al di sopra delle parti, centrata sui valori della Costituzione.
Ma la riga finale del suo comunicato di agosto, il riferimento ai valore che la “Costituzione attribuisce per la vita del Paese, e soprattutto per quella di ogni singola persona”, è indice di una sua preoccupazione umana costante nell’esercizio della sua funzione di giudice.
Il giudice non come asettica “bocca della legge”, ma il giudice “con il cuore di Salomone”, inteso come il mitico re biblico dell’Antico Testamento, esempio estremo di saggezza che per “scoprire” la vera madre di un neonato conteso tra due donne, ordinò di tagliare in due il bambino, sicuro, come poi avvenne, che la vera madre sarebbe stata quella che avrebbe lasciato suo figlio all’altra donna, affinché vivesse.
Tanto che Marta Cartabia ha curato un volume proprio dedicato a “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI” insieme ad Andrea Simoncini dell’Università di Firenze.
Un altro tratto distintivo della Cartabia è il rapporto molto stretto con il Presidente della Repubblica, Mattarella, nonostante siano quasi “opposti”. Lui, uomo, più anziano, siciliano, “cattolico democratico”.
Lei, la più giovane Presidente della Consulta, donna, lombarda, cattolica, vicina fin dall’Università, a CL.
Quella tra Cartabia e Mattarella è cementata dal fatto che, dopo la morte della moglie e prima dell’elezione al Quirinale, Mattarella ha vissuto nella foresteria della Corte Costituzionale, dove alloggiano il presidente e i vicepresidenti, tra cui la Cartabia appunto, quando sono a Roma, a due passi a piedi dal Palazzo della Consulta.
Per tre anni Cartabia è stata la sua vicina di pianerottolo in poco più di sessanta metri quadri. Due stanze (una camera da letto e una seconda camera adibita a studio), bagno, salotto con angolo cottura. Mobili di noce scuro, pareti sempre pulite e fresche di tinteggiatura, ma l’arredamento non ha niente di più che non sia l’essenziale. Quasi fosse studente fuori sede.
Il terzo tratto della Cartabia che vale la pena sottolineare è la conoscenza del diritto internazionale e comparato (tra l’altro è stata allieva di Joseph Weiler, eminente giurista ebreo, titolare della cattedra Jean Monnet della New York Law School), molto importante in questo periodo di transizione globale.
Già nel 2006 ha curato un volume (Rubettino) che ha pubblicato in Italia alcuni saggi di Mary Ann Glendon, docente di Harvard (che è stata professore anche dell’attuale Segretario di Stato americano, Mike Pompeo), “Tradizioni in subbuglio”, saggi comparsi su riviste giuridiche americane: riflessioni storiche e teoriche sulle condizioni per lo sviluppo della democrazia, sul ruolo dei giudici nei sistemi di civil law e di common law; sulle tematiche generali dei diritti umani alla libertà di religione e al diritto di famiglia.
Marta Cartabia ha 3 figli e ama la montagna (ad agosto, mentre di lei si parlava come possibile prima donna premier lei era impegnata nella scalata della vetta del Gran Paradiso), il trekking e la musica rock, e corre con nelle cuffie la musica dei Beatles e dei Metallica.
Ha sempre conciliato le responsabilità cui è stata chiamata, con la sua famiglia: “Penso che questo duplice aspetto della mia vita mi aiuti a mantenere un pizzico di equilibrio”, ha dichiarato di recente.
Tutte queste caratteristiche che fanno della Cartabia, il giudice gentile con il cuore del Re Salomone, a 56 anni, una vera e propria riserva della Repubblica.
BENEDETTO XVI/ Per fare politica occorre il “cuore” di Salomone
Ieri, presso la Biblioteca del Quirinale, è stato presentato il volume “La legge di Salomone. Ragione e diritto nei discorsi di Benedetto XVI”.
Ne parla ANDREA SIMONCINI *
L’idea di questo libro nasce da una constatazione: oggi la Chiesa è accusata spesso di entrare “a gamba tesa” nei dibattiti politici ovvero nelle discussioni di tipo giuridico; da più parti si ritiene che le gerarchie cattoliche pretendano di dettare ex cathedra i contenuti del dibattito democratico, distorcendo, così, tale dibattito. Un’accusa del genere è fondata? Questa obiezione nasce dalla vera posizione della Chiesa sulle questioni politiche e giuridiche? Davvero il Papa e la Chiesa intendono entrare in questi dibattiti “dettando” ai politici ed alle istituzioni cosa dovrebbero dire o fare?
Cosí è nato il progetto che Marta Cartabia ed io abbiamo curato, quello cioè di raccogliere assieme e ripubblicare cinque grandi discorsi pubblici che il Papa emerito Benedetto XVI ha tenuto dinanzi ad istituzioni civili, politiche o accademiche (Regensburg, Westminster, Collège des Bernardins, Nazioni Unite e Bundestag); chiedendo poi ad un gruppo di autorevoli esperti nel campo delle scienze giuridiche e politiche, espressivi delle più diverse sensibilità religiose, geografiche, culturali, accademiche e istituzionali, di proporne un commento.
Il risultato è andato al di là delle più ottimistiche previsioni. I nomi che hanno accettato di partecipare sono davvero tra gli studiosi più autorevoli e chi vorrà acquistare il libro potrà scorrerne l’elenco completo.
Cattolici, ebrei, protestanti, musulmani, agnostici, tutti hanno accettato di paragonarsi con questo pensiero. Alcuni hanno posto domande o sollevato interrogativi, altri hanno sottolineato la fecondità della posizione della Chiesa soprattutto dinanzi alle sfide che vive la società umana contemporanea. Tutti, comunque, hanno accettato questo dialogo con il Papa emerito come un interlocutore all’altezza delle sfide e dei valori in gioco, rifiutando così la riduzione caricaturale cui molto spesso viene sottoposta la posizione del magistero cattolico.
Ma il punto più interessante è che questo dialogo sta proseguendo oltre le pagine del libro.
La giornata di ieri lo dimostra: un panel d’eccezione ha accettato di proseguire la discussione lanciata dal volume, riprendendo le tesi di fondo del pontefice emerito e sviluppandone ulteriormente le potenzialità. Il dibattito è stato ricchissimo di contributi interessanti; un punto tra gli altri è emerso sinteticamente: le idee riguardanti il pensiero politico-giuridico della dottrina cattolica molto spesso sono stereotipi.
Per dimostrare questa conclusione proviamo un esperimento mentale: se oggi invitassimo un campione casuale di uomini politici o di responsabili di istituzioni pubbliche a stilare una lista dei temi toccati dal Papa emerito in questi suoi discorsi pubblici, prima di leggerli, è molto probabile che nell’elenco troveremmo: difesa della vita, eutanasia, contraccezione, divorzio, fecondazione assistita e così via. Rimarremmo, perciò, molto sorpresi nel non trovare nessuno di questi argomenti nei testi. Attenzione! Non che al Papa o alla Chiesa non interessino quei temi, anzi! Ma in questi discorsi, in cui il tema è il fondamento dell’ordine giuridico, il punto di attacco è molto più profondo e radicale. La preoccupazione non è dire alla politica cosa deve fare, ma − più alla radice − riconoscere da cosa nasce la politica.
«Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, maiun ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto - ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio».
In questo passaggio del discorso pronunciato al Bundestag di Berlino è racchiuso il cuore del pensiero di Benedetto XVI: non la rivelazione, ma «la ragione e la natura nella loro correlazione» costituiscono «la fonte giuridica valida per tutti».
Dunque, il problema non è dire ai governanti cosa debbono fare, ma come far sì che essi usino correttamente la propria ragione nelle scelte che debbono fare.
In questo senso è davvero sorprendente l’unitarietà della traiettoria che lega il Papa emerito a Papa Francesco. Questa battaglia per un’idea non ridotta di ragione e di verità che costituisce il più grande contributo civile e laico della Chiesa.
Come ha detto Papa Francesco nella lettera inviata ad Eugenio Scalfari, “Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la accoglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa”.
La verità, quindi, chiede umiltà e apertura e qui non possiamo non riconoscere la eco di quel “cuore docile, che sappia rendere giustizia al suo popolo e sappia distinguere il bene dal male” che chiede Salomone a Dio e che il papa emerito ha additato a modello per i politici di qualsiasi credo.
* Fonte: Il Sussidiario.net, 31.01.2014
"DUE SOLI" (DANTE): I "DUE PADRONI", I "DUE MONDI", E LA DEMOCRAZIA, OGGI.... *
Democrazia e cristianesimo
Per una democrazia inclusiva
di Dario Antiseri (L’Osservatore Romano, 23 ottobre 2019)
In tema di democrazia una domanda ineludibile è la seguente: l’essere cristiano è compatibile con la laicità dello Stato? O, rovesciando l’interrogativo, lo Stato laico sarebbe stato possibile senza l’avvento del cristianesimo? Nella pratica politica, il relativismo - ha affermato qualche anno fa l’allora cardinale Joseph Ratzinger - è benvenuto perché ci vaccina dalla tentazione utopica. E novità essenziale del cristianesimo per la storia è che «fino a Cristo l’identificazione di religione e Stato, divinità e Stato, era quasi necessaria per dare stabilità allo Stato. Poi l’islam ritorna a questa identificazione tra mondo politico e religioso, col pensiero che solo con il potere politico si può anche moralizzare l’umanità».
In realtà, «da Cristo stesso troviamo subito la posizione contraria: Dio non è di questo mondo, non ha legioni, così dice Cristo, Stalin dice non ha divisioni. Non ha un potere mondano, attira l’umanità a sé non con un potere esterno, politico, militare ma solo col potere della verità che convince, dell’amore che attrae. Egli dice “attirerò tutti a me”. Ma lo dice proprio dalla croce. E così crea questa distinzione tra imperatore e Dio, tra il mondo dell’imperatore al quale conviene lealtà, ma una lealtà critica, e il mondo di Dio, che è assoluto. Mentre non è assoluto lo Stato [...]. I padri hanno pregato per lo Stato riconoscendone la necessità, ma non hanno adorato lo Stato».
Questa, ad avviso di Ratzinger, è «la distinzione decisiva» - una distinzione che rappresenta uno straordinario punto di incontro tra il pensiero cristiano e cultura liberal-democratica. «Io penso - afferma Ratzinger - che la visione liberal-democratica non potesse nascere senza questo avvenimento cristiano che ha diviso i due mondi, così creando una nuova libertà. Lo Stato è importante, si deve ubbidire alle leggi, ma non è l’ultimo potere. La distinzione tra lo Stato e la realtà divina crea lo spazio di una libertà in cui una persona può anche opporsi allo Stato. I martiri sono una testimonianza per questa limitazione del potere assoluto dello Stato. Così è nata una storia di libertà. Anche se poi il pensiero liberal-democratico ha preso le sue strade, l’origine è proprio questa».
Il cristiano de-assolutizza, cioè relativizza, il potere politico; non può servire a due padroni: Dio e il dio-denaro; non può genuflettersi davanti all’altare di una ragione trasformata in dea. E dev’essere fedele al comandamento di amare il prossimo come se stesso. Ed è esattamente in base a questi princìpi che il messaggio cristiano, per dirla con Pëtr J. Čaadaev, «è più che storia, più che psicologia, è la fisiologia dell’uomo europeo». Thomas S. Eliot: «Un singolo europeo può non credere che la Fede cristiana sia vera, e tuttavia tutto ciò che egli dice, e fa, scaturirà dalla parte di cultura cristiana di cui è erede, e da quella trarrà significato». Per questo, è ancora Eliot a parlare, se il cristianesimo se ne va, è l’Europa che scompare: «Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura; e allora si dovranno attraversare molti secoli di barbarie».
In altre parole, la decadenza dell’Europa è una decadenza spirituale: è l’allontanarsi degli europei dalle idealità cristiane. E quando gli ideali della fede cristiana si sono spenti, l’Europa - annota Röpke - ne ha cercato «un surrogato nelle ideologie politico-sociali (le “religioni sociali”, come le ha definite Alfred Weber): il socialismo, il comunismo e, soprattutto, il nazionalsocialismo».
E oggi che cosa è rimasto nella mente di non pochi cittadini e soprattutto - e purtroppo - di non pochi dei nostri giovani, una volta lontani dalle idealità cristiane? Rimane l’idolatria del potere sugli altri, considerati e trattati come oggetti delle proprie voglie; rimane l’idolatria del denaro quale fonte perenne che alimenta la vasta fenomenologia della corruzione, con migliaia e migliaia di giovani e meno giovani che scorrazzano sul palcoscenico del gran teatro dell’illegalità; si impone una situazione dove alle ragioni della legge si sostituisce la ragione della forza o, più esattamente, la non-ragione di bande violente di intolleranti - di predoni divorati dalla brama di vestirsi da padroni - padroni del narcotraffico e, dunque, padroni della vita e della morte altrui.
di Dario Antiseri
Professore emerito di Epistemologia delle scienze sociali - luiss, Roma
L’Osservatore Romano, 23.10.2019.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi".
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
Federico La Sala
Messaggio.
Umanità più fraterna, il Papa invita i Grandi per un nuovo patto educativo *
L’appuntamento il 20 maggio nell’Aula Paolo VI per una "società più accogliente". L’annuncio della Congregazione per l’educazione cattolica. Francesco: dialoghiamo su come costruire il futuro
Il Papa convoca a Roma per il 14 maggio personalità di tutto il mondo insieme ai giovani per una serie di iniziative, dibattiti, tavole rotonde per una "società più accogliente". La Congregazione per l’Educazione Cattolica spiega il motivo di questo evento mondiale che si svolgerà in Vaticano nell’Aula Paolo VI: "Sono invitate a prendere parte all’iniziativa proposta le personalità più significative del mondo politico, culturale e religioso, ed in particolare i giovani ai quali appartiene il futuro. L’obiettivo è di suscitare una presa di coscienza e un’ondata di responsabilità per il bene comune dell’umanità, partendo dai giovani e raggiungendo tutti gli uomini di buona volontà".
"L’iniziativa - spiega ancora la Congregazione per l’Educazione Cattolica in una nota - è la risposta ad una richiesta. In occasione di incontri con alcune personalità di varie culture e appartenenze religiose è stata manifestata la precisa volontà di realizzare una iniziativa speciale con il Santo Padre, considerato una delle più influenti personalità a livello mondiale e, tra i temi più rilevanti, è stato da subito individuato quello del Patto educativo, richiamato più volte dal Papa nei suoi documenti e discorsi. Il quinto anniversario dell’enciclica Laudato sì, con il richiamo all’ecologia integrale e culturale, si offre come piattaforma ideale per tale evento".
In un messaggio il Pontefice rinnova "l’invito a dialogare sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta e sulla necessità di investire i talenti di tutti, perché ogni cambiamento ha bisogno di un cammino educativo per far maturare una nuova solidarietà universale e una società più accogliente". Ricorda ancora Bergoglio che "in un percorso di ecologia integrale, viene messo al centro il valore proprio di ogni creatura, in relazione con le persone e con la realtà che la circonda, e si propone uno stile di vita che respinga la cultura dello scarto. Un altro passo è il coraggio di investire le migliori energie con creatività e responsabilità".
Sul tema, bel sito, si cfr.:
Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un governo per difendere la Costituzione
M5S-Lega. Il dovere delle forze democratiche è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni
di Luigi Ferrajoli (il manifesto, 25.08.2019)
C’è una ragione di fondo che impone alla sinistra la formazione di un governo giallo-rosso: la necessità, prima di porre termine alla legislatura, di disintossicare la società italiana dai veleni in essa immessi da oltre un anno di politiche ferocemente disumane contro i migranti. La Lega di Salvini intende «capitalizzare il consenso» ottenuto a tali politiche pretendendo nuove elezioni e chiedendo al popolo «pieni poteri».
L’idea elementare della democrazia sottostante a questa pretesa - poco importa se per analfabetismo istituzionale o per programmatico disprezzo delle regole - è la concezione anticostituzionale dell’assenza di limiti alla volontà popolare incarnata dalla maggioranza e, di fatto, dal suo capo: dunque, l’esatto contrario di quanto voluto dalla Costituzione, cioè la negazione del sistema di vincoli, di controlli e contrappesi da essa istituito a garanzia dei diritti fondamentali delle persone e contro il pericolo di poteri assoluti e selvaggi.
Non dimentichiamo quanto scrisse Hans Kelsen contro questa tentazione del governo degli uomini, e di fatto di un capo, in alternativa al governo delle leggi: «la democrazia», egli scrisse, «è un regime senza capi», essendo l’idea del capo al tempo stesso non rappresentativa della complessità sociale e del pluralismo politico, e anti-costituzionale perché in contrasto con la soggezione alla legge e alla Costituzione di qualunque titolare di pubblici poteri.
Di fronte a queste pretese, il dovere delle forze democratiche - di tutte quelle che si riconoscono non già nell’idea dell’onnipotenza delle maggioranze ma in quella dei limiti e dei vincoli ad esse imposte dalla Costituzione - è quello di dar vita a un governo che ripari i guasti prodotti proprio da chi quelle politiche velenose contro la vita e la dignità delle persone ha praticato e intende riproporre con più forza ove vincesse le elezioni.
Dunque un governo di disintossicazione dall’immoralità di massa generata dalla paura, dal rancore e dall’accanimento - esibito, ostentato - contro i più deboli e indifesi.
Non un governo istituzionale o di transizione, che si presterebbe all’accusa di essere un governo delle poltrone, ma al contrario un governo di esplicita e dichiarata difesa della Costituzione che ristabilisca i fondamenti elementari della nostra democrazia costituzionale: la pari dignità delle persone, senza differenze di etnia o di nazionalità o di religione, il diritto alla vita, il rispetto delle regole del diritto internazionale, prima tra tutte il dovere di salvare le vite umane in mare, il valore dei diritti umani e della solidarietà, il rifiuto della logica del nemico, come sempre identificato con i diversi e i dissenzienti e immancabilmente accompagnato dal fastidio per la libera stampa e per i controlli della magistratura sull’esercizio illegale dei poteri.
Su questa base non ha nessun senso condizionare il governo di svolta a un no a un Conte-bis o alla riduzione del numero dei parlamentari.
L’alternativa possibile è un governo Salvini, preceduta dalla riduzione dei parlamentari ad opera di una rinnovata alleanza giallo-verde, e poi chissà quante altre e ben più gravi riforme in tema di giustizia, di diritti e di assetto costituzionale.
Una probabile maggioranza verde-nera eleggerebbe il proprio capo dello Stato e magari promuoverebbe la riforma della nostra repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. Di fronte a questi pericoli non c’è spazio per calcoli o interessi di partito.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI... *
Dopo il discorso di Conte.
«Nuovo umanesimo» in politica: è tempo di dirlo e di farlo
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, domenica 1 settembre 2019)
«Molto spesso, negli interventi pubblici sin qui pronunciati, ho evocato la formula di un nuovo umanesimo. Non ho mai pensato che fosse lo slogan di un governo. Ho sempre pensato che fosse l’orizzonte ideale per un intero Paese». Questa frase, pronunziata giovedì al Quirinale da Giuseppe Conte nel discorso con cui ha accettato di verificare la possibilità di formare un nuovo esecutivo, è stata ripresa dai media in modo spesso superficiale e talvolta in maniera irridente, in alcuni casi come esclusivo supporto alla cultura dell’accoglienza, soprattutto verso i migranti, e tuttavia, ha bisogno di essere ulteriormente pensata e approfondita.
Non bisogna dimenticare che la Chiesa italiana, nel suo V convegno nazionale, celebrato a Firenze nel 2015, è stata chiamata a riflettere sul tema del ’nuovo umanesimo’ nel suo radicamento cristologico. Il titolo di quell’evento recitava ’In Cristo il nuovo umanesimo’. E papa Francesco nella riflessione che ha proposto ai vescovi italiani nell’Assemblea generale del maggio scorso ha richiamato, in particolare con riferimento alla sinodalità, il discorso che aveva pronunziato in quell’occasione.
Nell’arduo tentativo di declinare teologicamente il sintagma ’nuovo umanesimo’, nella mia relazione a Firenze, io stesso avevo richiamato la categoria fondamentale, decisamente biblica, dell’alleanza come cifra di un autentico umanesimo radicato nella fede.
Oggi mi sembra proprio questo il contributo decisivo che i cattolici italiani possono offrire al Paese in questo frangente, ma non solo. E si tratta di un orizzonte culturale, piuttosto che di un’indicazione programmatica per l’azione di un Governo (come giustamente ha rilevato Conte).
Richiamando la Costituzione, si è fatto riferimento al ’primato della persona’, come radice antropologica di ogni azione sociale, politica, culturale. Come tutti sanno, o dovrebbero sapere - e qui il rammarico per averlo troppo spesso tralasciato e dimenticato -, la nozione di ’persona’, nella sua pregnanza ontologica, è stata consegnata (o, meglio, donata) all’Occidente dalle vicende delle dispute cristologiche e trinitarie dei primi secoli, messe in atto in ambito cristiano. Si è pensato l’umano a partire dall’identità di Cristo e dal mistero di Dio.
Per la cultura pagana la persona era semplicemente la ’maschera’ (prosopon), ovvero rappresentava il ruolo, che in ambito teatrale veniva assunto e interpretato dall’attore. Oltre la funzione pubblica, il cristianesimo, invita a considerare l’uomo nel suo rapporto con l’essere, piuttosto che col fare o col rappresentarsi. La trasposizione in ambito politico del concetto di persona passa attraverso la sua valenza giuridica.
Come Antonio Rosmini aveva efficacemente dichiarato della sua ’Filosofia del diritto’, «la persona ha nella sua stessa natura tutti i costitutivi del diritto: essa è dunque il diritto sussistente, l’essenza del diritto». Questa preziosa indicazione consente il superamento sia di un crudo giusnaturalismo, sia del contrattualismo, imperante soprattutto nella concezione hobbesiana e rousseauniana dello Stato.
Ed è su tale base ’antropologica’ che si innesta la categoria dell’alleanza come modalità propria del rapporto fra persone e fra gruppi di persone.
In questa prospettiva vanno letti gli autorevoli inviti - in particolare quello del presidente della Cei Gualtiero Bassetti - a fondare un’autentica prospettiva politica non su dei semplici contratti, spesso frutto di miopi compromessi, che prima o poi esplodono, determinando la catastrofe del rapporto, ma su una visione programmatica, basata appunto su vere e proprie alleanze.
Non possiamo non ricordare che la prospettiva rosminana si rifà alla definizione di Giovanni Duns Scoto, che a sua volta radicalizza la visione di Riccardo di San Vittore (per il quale la persona è intellectualis naturae incommunicabilis existentia) fino a definirla ultima solitudo. Il Roveretano infatti afferma che la persona è una sostanza spirituale dotata di un principio incomunicabile. Così possiamo cogliere la caratteristica fondamentale della persona, ossia la sua unicità.
Sonny, il protagonista artificiale del famoso film Io robot, allorché si scopre ’quasi umano’ e ne prende coscienza, afferma con stupore: «Io sono unico». La macchina si produce, la persona si genera. Questa unicità rende preziosa ogni persona e determina un’etica della sua salvaguardia a qualsiasi classe, cultura, religione, regione, cultura appartenga.
Ma, oltre che unicità, la persona dice anche ulteriorità. Un aforisma che ci giunge dall’antica sapienza (Seneca, Naturales quaestiones) recita: «Oh quam contempta res est homo, nisi supra humana surrexerit», che cosa misera è l’umanità se non si sa elevare oltre l’umano... In questa breve espressione si sintetizza in maniera mirabile l’ulteriorità della condizione umana, espressa peraltro col verbo (surrexerit) che fa riferimento alla risurrezione. Quell’«essere della lontananza » che è l’uomo, infatti, proprio a partire dalla sua distanza originaria e dal suo oltrepassamento realizza la più piena prossimità alle cose (Martin Heidegger). E da questo senso della ’trascendenza’ dell’umano il pensiero credente non è certo assente, anzi lo afferma, per esempio in un famoso frammento di Blaise Pascal, che viene a stemperare il facile ottimismo di un progresso ideologicamente mitizzato - allorché afferma che «La natura dell’uomo non è di avanzare sempre; ha i suoi alti e bassi» (fr. 318 ed. Brunschvicg) - e a mettere in guardia da una possibile deriva spiritualistica dell’antropologia: «L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia» (fr. 325 ed. Brunschvicg).
Il nuovo umanesimo, che non intenda esprimersi nella forma di un acritico antropocentrismo, chiede così di declinarsi e di realizzarsi attraverso autentiche alleanze, spesso purtroppo infrante, fra uomo e natura, fra i generi, fra le generazioni, fra il cittadino e le istituzioni, fra emozione e ragione, fra popoli e religioni. Una saggia fatica che certo non può essere il risultato di un programma di Governo, ma quel quel programma può ben ispirare e illuminare. E che richiede una visione culturale e antropologica alla quale i cristiani possono efficacemente contribuire.
Teologo, Pontificia Università Lateranense
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’ORA. QUASI UN MINIMO PROGRAMMA DI GOVERNO (UN DISCORSO QUESTA MATTINA IN PIAZZA, RIASSUNTO IN POCHE PAROLE)
I. Finisca il tempo dell’odio
Finisca il tempo dell’odio e della follia
non mangino piu’ carne umana i ministri della repubblica
siano soccorsi tutti i naufraghi
siano liberati e portati in salvo tutti i prigionieri dei lager libici
sia dato aiuto e asilo a chi fugge dalle guerre e dalla fame
sia dato aiuto e asilo a chi fugge da dittature e schiavitu’
torni l’Italia alla civilta’
siano abrogate tutte le antileggi hitleriane
sia ripristinato il dovere di soccorrere chi e’ in pericolo
si condivida il pane tra sorelle e fratelli
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
II. Rinuncino a commettere ulteriori crimini
Rinuncino a commettere ulteriori crimini altri ebbri abominii
i ministri gia’ decaduti
in questi pochi giorni d’interregno
s’attengano finalmente al rispetto della Costituzione
gia’ tanti delitti hanno commesso per cui saranno giudicati in tribunale
non aggiungano in guisa di colpo di coda finale altri orrori
si ricordino almeno ora
della loro umanita’
dell’umanita’ di tutti gli esseri umani
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
III. Con la forza della verita’
Con la forza della verita’ con la scelta della nonviolenza
si riconquista il bene comune
con la forza della verita’ con la scelta della nonviolenza
l’umanita’ intera torna interamente umana
con la forza della verita’ con la scelta della nonviolenza
si abbattono i regimi totalitari
con la forza della verita’ con la scelta della nonviolenza
si salvano tutte le vite
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
IV. Qui e adesso
Qui e adesso occorre che ogni persona di volonta’ buona
insorga per salvare tutte le vite
qui e adesso occorre che la repubblica
torni ad essere una repubblica
qui e adesso valga finalmente
la legge che salva tutte le vite
qui e adesso
si riconoscano uguali io e tu
si facciano noi
vale per tutti dinanzi a ogni ingiustizia
il motto del resistente je me revolte donc nous sommes
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
V. E quasi un minimo programma di governo
1. abrogare immediatamente tutte le misure razziste e persecutorie imposte dal governo razzista teste’ caduto (ma anche le altre imposte dai governi precedenti che hanno aperto la strada all’inabissamento nella brutalita’ di quest’ultimo anno);
2. ripristinare l’adempimento del dovere di soccorrere chi e’ in pericolo;
3. escludere da ogni incarico di governo chi e’ stato complice dell’esecutivo razzista ora caduto;
4. ripristinare la legalita’ costituzionale che il governo della disumanita’ ha infranto;
5. riconoscere il diritto di voto e tutti gli altri diritti sociali, civili e politici a tutte le persone che vivono in Italia, facendo cessare l’effettuale regime di apartheid e di schiavitu’ di cui sono vittima milioni di nostri effettivi conterranei.
Ogni essere umano ha diritto alla vita alla dignita’ alla solidarieta’
siamo una sola umanita’ in quest’unico mondo vivente casa comune dell’umanita’ intera
il razzismo e’ un crimine contro l’umanita’
ogni vittima ha il volto di Abele
salvare le vite e’ il primo dovere
salvare le vite e’ il primo dovere
chi salva una vita salva il mondo
sii tu il buon samaritano
sii tu l’umanita’ come dovrebbe essere
ogni essere umano ha diritto alla vita
salvare le vite e’ il primo dovere
* FONTE: "LA NONVIOLENZA CONTRO IL RAZZISMO. Supplemento de "La nonviolenza e’ in cammino" (anno XX). Numero 303 del 22 agosto 2019.
Conte si è dimesso, furia contro Salvini: "Irresponsabile". Al via le consultazioni
Il premier a palazzo Madama: ’Interessi di parte compromettono interesse Italia
di Redazione Ansa (21.08.2019)*
"L’azione del governo si arresta qui". E’ quasi a metà del suo intervento nell’aula di palazzo Madama che ieri il premier Giuseppe Conte ha messo la parola fine ai 14 mesi di governo gialloverde aprendo ufficialmente la crisi, con le dimissioni rassegnate al presidente Mattarella che ha avviato le consultazioni a partire dalle 16. Un intervento in cui il presidente del Consiglio difende quanto fatto - "abbiamo lavorato fino all’ultimo giorno" -, ricorda ancora il lavoro da fare, ma soprattutto ne approfitta per lanciare un duro affondo contro Matteo Salvini. Il premier è una furia e non usa giri di parole nel bollare Salvini come "irresponsabile" per aver aperto una crisi solo per "interessi personali e di partito". Un crescendo di accuse che arriva dopo mesi passati a dosare e mediare ogni parola.
Conte ora è senza filtri. Ripercorre i mesi del governo elencando tutti i problemi creati dal leader della Lega, ultimo appunto la decisione di aprire una crisi con il rischio, ricorda Conte, che senza un nuovo esecutivo il Paese andrà in esercizio provvisorio e ci sarà l’aumento dell’Iva: "I comportamenti del ministro dell’Interno rivelano scarsa sensibilità istituzionale e una grave carenza di cultura costituzionale". Il capo del governo che in diverse occasioni si rivolge a Salvini chiamandolo Matteo (Conte è seduto in mezzo ai due vicepremier) lo accusa di aver oscurato quanto fatto dall’esecutivo: "hai macchiato 14 mesi di attività mettendo in dubbio anche quanto fatto dai tuoi ministri". Ma ad un certo punto, il capo del governo arriva a definirsi "preoccupato" da chi "invoca piazze e pieni poteri". L’affondo non si ferma solo alla decisione di mettere fine all’esperienza gialloverde ma tocca anche dossier delicati come il Russiagate.
Conte gli imputa di non essere andato in Aula e di aver creato problemi allo stesso presidente del Consiglio. Il capo del governo non tiene fuori nulla dal suo intervento nemmeno il ricorso che Salvini all’uso di simboli religiosi. Si tratta per Conte di "uso incosciente di simboli religiosi".
L’INTERVENTO DI SALVINI - "Grazie e finalmente: rifarei tutto quello che ho fatto", ha detto il vicepremier, Matteo Salvini, intervenendo nell’Aula del Senato. "Non ho paura del giudizio degli italiani". Sono qua "con la grande forza di essere un uomo libero, quindi vuol dire che non ho paura del giudizio degli italiani, in questa aula ci sono donne e uomini liberi e donne e uomini un po’ meno liberi. Chi ha paura del giudizio del popolo italiano non è una donna o un uomo libero". "Se qualcuno da settimane, se non da mesi, pensava a un cambio di alleanza, molliamo quei rompipalle della Lega e ingoiamo il Pd, non aveva che da dirlo. Noi non abbiamo paura", ha detto ancora Salvini.
"La libertà non consiste nell’avere il padrone giusto ma nel non avere nessun padrone", ha detto Matteo Salvini citando Cicerone. "Non voglio una Italia schiava di nessuno, non voglio catene, non la catena lunga. Siamo il Paese più bello e potenzialmente più ricco del mondo e sono stufo che ogni decisione debba dipendere dalla firma di qualche funzionario eruopeo, siamo o non siamo liberi?". "Gli italiani non votano in base a un rosario, ma con la testa e con il cuore. La protezione del cuore immacolato di Maria per l’Italia la chiedo finchè campo, non me ne vergogno, anzi sono ultimo e umile testimone". "Voi citate Saviano, noi San Giovanni Paolo II.., lui diceva e scriveva che la fiducia non si ottiene con la sole dichiarazioni o con la forza ma con gesti e fatti concreti se volete completare le riforme noi ci siamo. Se volete governare con Renzi auguri...".
L’INTERVENTO DI RENZI - "Sarebbe facile assistere allo spettacolo sorridendo ma la situazione impone un surplus di responsabilità. Lei oggi presidente del consiglio si dimette ed il governo che lei ha definito populista ha fallito e tutta l’Ue ci dice che l’esperimento populista funziona in campagna elettorale ma meno bene quando si tratta di governare". "No si è mai votato in autunno, c’è da evitare l’aumento dell’Iva e serve un governo non perchè noi ci vogliamo tornare ma perchè l’aumento dell’Iva porta crisi dei consumi non è un colpo di Stato cambiare il governo ma un colpo di sole aprire la crisi ora ora, questo è il Parlamento non il Papeete". Le parole di Conte sono "da apprezzare" ma c’è il "rischio di una autoassoluzione", ha detto in una nota il Segretario del Pd Nicola Zingaretti. Per questo "qualsiasi nuova fase politica non può non partire dal riconoscimento di questi limiti strutturali di quanto avvenuto in questi mesi".
* http://www.ansa.it/sito/notizie/politica/2019/08/20/governo-in-senato-e-il-giorno-di-conte_57d1a36a-11ff-48b7-ba74-d2380fb14a93.html (ripresa parziale - sena immagini e allegati).
Intervista a Massimo Cacciari
A un’Europa vecchia e sterile serve il fertilizzante della Chiesa
· La crisi della società italiana e il ruolo della Chiesa ·
di Andrea Monda (L’Osservatore Romano, 18 luglio 2019)
Il cambiamento d’epoca di cui parla Papa Francesco è tale che ha colto impreparato l’Occidente. Da qui parte la riflessione di Massimo Cacciari che riprende la suggestione di Giuseppe De Rita sulle due autorità, civile e spirituale, e si concentra sulla prima, quella «che fa acqua un po’ da tutte le parti». Lo abbiamo incontrato in un caldo pomeriggio di luglio, è arrivato a piedi e se n’è andato a piedi, una sorta di Giovanni Battista inquieto e sempre pronto ad accendersi di una santa ira che non risparmia nessuno.
Qual è l’elemento più preoccupante della crisi attuale?
Il problema è che la parte laica, civile, è proprio quella che fa acqua, per una complessa serie di cause. Le grandi culture che hanno formato l’Europa del dopoguerra e che hanno dato consistenza alla politica italiana si sono mostrate inapte a comprendere e a dar forma alla nuova età. Sono cose che succedono nella storia, quando un mondo finisce. Il mondo del dopoguerra si è chiuso con la caduta del muro, con la fine dell’impero socialista, con le trasformazioni globali negli equilibri economici e politici, la nascita della nuova Cina e il decollo indiano. Siamo di fronte a una nuova età, come quella che segna la fine delle polis greche, come quella che segna la fine dell’età dell’impero romano. Barbari che compaiono, gente di cui non capisci la lingua, e le grandi famiglie culturali e politiche europee, che sono sostanzialmente quella socialdemocratica, quella cristiano-popolare e quella liberale, non comprendono la situazione, rimangono abbarbicate inerzialmente a determinati valori e giudizi, che sono diventati pregiudizi, dato il mutare della situazione. Questo vale in particolare per le culture liberali e socialdemocratiche: i primi diventano dei puri conservatori, mentre la socialdemocrazia rimane aggrappata a un modello di stato sociale e di idea di uguaglianza che non può più reggere rispetto ai fenomeni di globalizzazione. È tutto da reimpostare, da rivedere, in particolare in Italia, dove accanto a questa trasformazione globale c’è anche la catastrofe specifica che passa sotto il nome di tangentopoli, che invece è il crollo anche di tenuta etica e morale dei partiti del patto antifascista.
Qui De Rita direbbe che la mia lettura è tutta politicistica (io credo cultural-politicistica): secondo me non sono mai le trasformazioni semplicemente economiche che possano motivare quello che è successo in questo paese e in Europa. Accade dunque che le componenti fondamentali che hanno dato vita all’Unione europea entrano in un cono d’ombra totalmente subalterno ai modelli neoliberisti; anche l’euro nasce in questo clima: il mercato, la libera concorrenza... non c’è più il pilastro della solidarietà, della sussidiarietà, punti fondamentali per la cultura di uno Sturzo, di un De Gasperi. Tutti questi pilastri vengono meno. Rimane l’affannosa rincorsa a quelle che si presume essere le nuove forme di potere. E quando con la crisi vengono meno le possibilità di promettere ancora ulteriormente «magnifiche sorti e progressive», queste forze si spappolano.
Lo scenario che sta illustrando non è dei migliori...
Lo so, ma nel mio discorso non c’è niente di nostalgico. Il problema non è il venir meno di determinati valori, ma il fatto che questa Europa è vecchia, forse decrepita, e non si può chiedere a un vecchio di non aver paura, di essere audace. La domanda allora è: c’è la stoffa per ritessere un discorso politico, per riformare una élite politica in Italia, in Europa? Perché questi nazionalismi, i sovranismi sono nient’altro che l’effetto del disgregarsi di queste precedenti culture, che non sono state al passo con la trasformazione. Sono il segno che l’Europa è vecchia, che non produce più, che è un terreno sterile; bisogna quindi trovare nuovi fertilizzanti. E penso, da non credente (ma è da qui che nasce la mia attenzione al mondo cattolico) che forse il fertilizzante può venire proprio dalla Chiesa: discutendo, dialogando, dibattendo, polemizzando... È il mondo cattolico che può essere il segno di contraddizione, che può rimettere in movimento qualcosa. Se non da lì, da dove può venire? Certo, frange socialdemocratiche possono anche tentare un discorso sui temi economici, sui temi sociali... ma è da lì che può venire la spinta maggiore.
Eppure oggi quel mondo cattolico sembra silente o, il che forse è peggio, diviso al suo interno...
Ha ragione. Un esempio molto banale, visto da fuori. Io ero convintissimo che l’agitazione del crocifisso, del rosario in un comizio sarebbe costata cara in termini di consenso. Pensavo che era impossibile che passasse inosservata la blasfemia di gesti simili e invece mi dicono i miei amici sondaggisti e analisti che il gesto ha fatto guadagnare consenso, proprio dal mondo cattolico. Qui c’è un problema colossale e mi riferisco al problema educativo, alla formazione della classe dirigente, un ambito che oggi appare sterile. Gli intellettuali non esercitano più alcuna influenza. Le università hanno sempre esercitato in Europa un’egemonia culturale, ma tutto questo oggi sembra finito. E si fa fatica a pensare un’Europa senza cristianità.
Secondo l’espressione del Papa, non è un’epoca di cambiamenti, ma un cambiamento d’epoca, che però ha trovato tutti impreparati.
Il modello è proprio quello del libro di Karl Polanyi, La grande trasformazione. Dove la trasformazione economica diventa trasformazione della testa della gente. Dobbiamo diventare consapevoli che abbiamo a che fare con un uomo diverso; il mutamento è culturale e antropologico, basta vedere i giovani, i ragazzi. Questo mutamento ha colto impreparate le culture che sono uscite dalla grande prova della guerra, che hanno avviato l’Unione europea e che hanno fatto le costituzioni, quelle costituzioni che avevano quel carattere tipicamente democratico, progressivo, come ad esempio la costituzione italiana. Il fatto è che sull’Europa ci sono stati e permangono molti equivoci. Ad esempio si cita il modello di Spinelli ma ho la sensazione che i tanti che lo citano non l’hanno mai letto. Quello era un modello totalmente neo-illuministico e sostanzialmente autoritario per cui è l’élite che fa l’Europa in barba alle diverse sovranità nazionali. Quindi quando parliamo di identità nazionale di cosa parliamo? Una identità liberale? Cosmopolita? Illuminista? Per come si sono sviluppate le vicende dell’Europa è evidente che si è perduto di vista l’elemento della sussidiarietà, che era fondamentale nel modello federalista autentico. In quel modello con la creazione dell’unione europea politica si superava, ma al tempo stesso si difendeva, l’identità nazionale, la si garantiva, dando peso politico al singolo stato membro, in un’unione che faceva la forza di ognuno. Non si è riuscito a spiegarlo, a comunicarlo in nessun modo. E ora è facile comunicare il messaggio opposto: Italy first e così via. Non si è riuscito a comunicarlo perché si è trasmessa sempre e costantemente l’impressione che l’obiettivo fosse il mero superamento dell’identità nazionale all’interno di un modello illuministico. Così come non si è compreso che la battaglia sull’Europa è decisiva per la cristianità. Si può certo dire “l’Europa vada come va, tanto noi, la Chiesa, siamo il mondo”. È giusto da una parte, dall’altra è sempre vero che urbs et orbis, la città e il mondo, come a dire che non può esserci un mondo senza centro, e qual è il centro? Washington? Pechino? Buenos Aires? Roma? Gerusalemme? Certo, il Mediterraneo, il centro è quello. Non si è ancora capito in nessun modo che il centro, bene o male, continua a essere questo. E invece assistiamo in Europa all’assenza e al fallimento totale di politiche mediterranee, perché non si ha questa visione storica, e agli errori tattico-politici che dipendono dall’incomprensione della dimensione di lungo periodo. Il Mediterraneo non era cruciale soltanto per evitare che diventasse il fossato, il muro che è diventato, ma lo era in quanto è esso stesso l’Europa che si gioca lì, in quelle acque che uniscono Atene e Gerusalemme con la prima e la seconda Roma.
La crisi assume i contorni di una mutazione antropologica. Penso all’impatto delle tecnologie, al grande innalzamento dell’età della vita e penso all’elemento che oggi sembra giocare un ruolo fondamentale anche a livello politico, quasi elettorale: la paura, che si trasforma in rancore.
Ritengo che la paura sia strettamente collegata all’invecchiamento. Organismi vecchi difficilmente affrontano le sfide con coraggio. Un organismo vecchio tende a difendersi, quando l’ambiente muta si chiude, questa è fisica. Questi fenomeni che avvertiamo ovunque in Europa derivano, secondo me, sostanzialmente da questo. Come nei secoli dell’Impero romano, mutatis mutandi, l’Europa ha bisogno di accogliere. Ma bisognava farlo per tempo. Perché era evidente che l’Europa avesse bisogno di sangue nuovo, e anche di intelligenza nuova, e che dovesse quindi affrontare questo meticciamento, come dice il cardinale Scola che lo aveva capito perfettamente e predicato in modo incessante. Ricordo quando era Patriarca a Venezia: non c’era manifestazione religiosa dove lui non ricordasse questo aspetto del meticciato. Per tempo era necessario che l’integrazione avvenisse attraverso politiche di cittadinanza, politiche economiche rivolte anche ai paesi da cui veniva questa gente, stringendo accordi commerciali, culturali, scambi con più paesi. Avremmo dovuto fare noi europei quello che in termini neocoloniali assoluti sta facendo la Cina. Questo è compito degli europei, come si fa a non capire? È lo stesso discorso del Mediterraneo di cui sopra: l’Europa è Euro-Africa. Qual è il tuo destino, Europa? A chi devi guardare se non ai due miliardi e mezzo che saranno tra un po’ gli africani, a chi altri devi guardare?
Se svolto per tempo e organizzato bene, quel lavoro politico di integrazione avrebbe dato vita a quel positivo meticciamento di cui parlava Scola. È certo che se non lo organizzi in alcun modo e improvvisamente, in base alla spinta delle guerre, dei cambiamenti climatici, della miseria, cominciano a precipitarti addosso enormi masse di rifugiati, esuli, poveretti, è chiaro che quei vecchi di cui sopra, soprattutto durante una crisi economica, diventano inevitabilmente la più facile preda di una propaganda di destra classica.
Hitler, che non c’entra niente con questo discorso, nel 1929, prima della crisi, prende il solo 2,8 per cento dei voti, e Stresemann e Briand, pochi giorni prima del crollo di Wall Street, s’incontrano, dicono ogni problema tra loro è risolto, che si metteranno d’accordo su tutto, fratelli per sempre, e che insieme Germania e Francia lavoreranno da domani per dar vita all’unione europea. Sei mesi dopo c’è la crisi e tre anni dopo c’è l’avvento di Hitler. Crisi non gestite, trasformazioni epocali non governate, possono produrre di tutto, come abbiamo visto quando sono crollati gli stati socialisti e c’è stata la guerra in Bosnia. Questa è la grande responsabilità che devono capire gli eredi di quelle culture, devono capirla, mettersi insieme e dire: cosa facciamo insieme?
Parliamo degli eredi di quella cultura che è quella cattolica, che lei, da laico, non credente, definisce un potenziale fertilizzante di una società vecchia.
La Chiesa è fondamentale, la forma politica della Chiesa ha dimostrato di essere quella forse più valida per affrontare problemi di questo genere. Però la domanda che io mi pongo sempre di più è: si capisce che la battaglia decisiva è qui in Europa?
Sono stato io a suggerire a monsignor Ravasi il motto episcopale quando fu ordinato: Praedica Verbum. Proprio come dovevano fare i professori di religione nelle scuole: evidenziare senza chiacchiere, senza spiegazioni. Semplicemente praedica Verbum, che però si rivela un segno di contraddizione, perché non sarai mai capace di seguire quel Verbo. Però - è questo è il punto - vedi che distanza c’è rispetto alla realtà. Misura la distanza, inquieta l’intelligenza dei tuoi interlocutori facendoli riflettere su questa distanza, senza tante chiacchiere, senza voler fare il maestro di nessuno. Questa parola indubitabilmente ha formato da due millenni l’Europa. Predicare il Verbo può avere, secondo me, effetti politici enormi ancora oggi come li ha avuti in passato.
Che cosa sono i movimenti di riforma se non tornare a quel breviloquio? Quel Verbo ha formato la testa della gente, proprio in momenti di crisi. Si tratta allora pascalianamente di scommettere di nuovo su questa forza.
Intervista a Massimo Cacciari....
di Andrea Monda (L’Osservatore Romano, 18 luglio 2019)
E i laici? Qual è il loro ruolo?
I laici devono riprendere un grande discorso di riforma dell’Unione, delle sue istituzioni con coraggio, con radicalità. Sono trent’anni che si insegue invece la moderazione, ma come vuoi risolvere moderatamente una situazione di grande trasformazione? Puoi essere benissimo un moderato, se si tratta di barcamenarsi, ma se affronti una tempesta devi abbandonare la moderazione. La Tempesta di Shakespeare si apre appunto con una tempesta per cui tutti i personaggi sono come annichiliti, ci sono pure i re, ma non contano niente adesso, il re non serve ora, ci vuole invece il nocchiere, ci vuole uno che governi nella tempesta: tu caro re non sei più sulla terraferma come prima. Questa è la sfida per i laici che devono provarsi per capire se sono in grado di governare nella tempesta. Allora potrebbero combinarsi, accordarsi con la dimensione spirituale. Se c’è una grande forza spirituale questo ha effetti civili, politici, sociali, ma ci vuole radicalità, in entrambi i campi, nel capire che qui in Europa si gioca una battaglia forse decisiva per la stessa cristianità.
Sul versante cattolico: da una parte c’è questo predicare il Verbo, anche in maniera molto essenziale, di Papa Francesco, dall’altra c’è quel dato preoccupante che lei prima citava, c’è qualcuno che sventola i simboli religiosi e accresce il suo consenso, magari incitando la folla a fischiare contro il Papa. Uno scollamento a dir poco inquietante.
Secondo me in questo momento difficile d’invecchiamento europeo, di crisi delle culture politiche di cui ho parlato, è stata coinvolta anche l’immagine della Chiesa, ridotta all’interno di un discorso di astratto cosmopolitismo: la Chiesa che s’interessa del mondo, s’interessa dei migranti, il Papa che va a Lampedusa... è stata data una lettura superficiale, complice anche il modo in cui il Papa è stato letto da laici e non credenti, in una chiave alla partito d’azione, alla Spinelli... Si è data questa immagine: un cosmopolitismo degli intellettuali.
Il che contrasta frontalmente con la realtà, se pensiamo, ad esempio, alla predicazione di Francesco che è il massimo della concretezza, della prossimità.
Sì, ma c’è stata questa lettura. E bisogna fare attenzione, perché appunto uno furbo come Salvini ha capito questo e si è inserito in questa situazione cercando in modo sottile di spaccare, mettendo i Papi uno contro l’altro, venerando per esempio la figura di Giovanni Paolo II, il Papa dell’identità cristiana, della lotta al comunismo....
L’identità è una parola che adesso è rispuntata fuori prepotentemente.
Questa è un’altra battaglia culturale formidabile da fare. Perché l’identità cristiana è l’identità che acquisisci facendoti prossimo, non esiste un’identità a sé. L’identità è pros eteron, per l’altro, la tua identità diviene nella misura in cui ti fai altro, diviene nella misura in cui ti approssimi, ti fai prossimo all’altro. Questo è fondamentale, non si tratta di un’identità astratta. Un’identità “suolo e sangue” semmai è quella del polites greco, l’identità cristiana non ha niente a che vedere con questo. Questa è una battaglia culturale grande, complessa e urgente. Potrebbe aiutare il recupero di un’etica classica di un certo tipo per questa battaglia da condurre insieme laici e cattolici. Sfida difficilissima in una condizione in cui l’Europa è in una situazione di estrema debolezza economica e demografica. Ci vorrebbe davvero una grande iniziativa, credibile sul piano delle riforme da attuare, delle riforme da svolgere, sul piano anche del ceto politico, della classe dirigente che la porta avanti, perché anche quello ha la sua importanza. L’autorevolezza del ceto politico è un elemento importante nell’azione politica e invece oggi è ai minimi storici.
Il suo libro su Maria, «Generare Dio», mi è venuto in mente perché prima parlava dell’Europa decrepita, che ha bisogno di un fertilizzante, che è in crisi di generatività.
In crisi come tutto l’Occidente che ha avuto il suo grande boom dalla metà del Settecento alla prima guerra mondiale, un grande boom demografico, e poi questo boom demografico si è spostato in Asia e Africa. Dipende da vari fattori, ma certo è un segno caratteristico del declino di un paese, di una stirpe. In questo contesto il tema di Maria è importantissimo, se s’intende in questa chiave. C’è stato un modo del tutto sbagliato con cui si sono affrontati in questi anni temi di questo genere come famiglia e procreazione. Con una posizione da parte della Chiesa non di attacco, ma di difesa. Errore devastante. Penso al tema della dignità della donna: io nel libro dico che quando la donna genera, genera Dio. E invece si è scelta la linea della difesa su vecchie frontiere riguardanti i diritti della donna, il diritto di famiglia... Il risultato è che oggi in regioni cattoliche come il Veneto nessuno più segue quello che gli dice Santa Romana Chiesa. Una forza politica può dare un’immagine di sé conservatrice, ma se la dà la Chiesa è spacciata. Alla riforma devi rispondere con la tua riforma, alla crisi rispondi con i santi, rispondi con San Francesco, con Sant’Ignazio, non puoi rispondere difendendo etiche e basta. L’idea di Maria per me è fondamentale, è l’idea di una donna che consapevolmente, liberamente, accoglie, malgrado il dubbio, malgrado il dolore, malgrado la sofferenza, accoglie e segue fino alla Croce.
Ritorno sul tema del rancore, da dove nasce questo risentimento?
Ci sono dei vizi nella nostra natura. Il realismo cristiano ce lo dice, chiamalo peccato originale, chiamalo come vuoi, ma la nostra natura è prigioniera. Ed ecco allora gli animali danteschi, i vizi capitali che oggi vengono esaltati in un sistema individualistico, penso all’invidia, all’avarizia. L’invidia è l’opposto della prossimità. Il cristiano dice di farsi prossimo, l’individualismo dice “io invidio”, sono due posizioni inconciliabili, drammaticamente contrapposte. L’avarizia, pleonexia dicevano i classici, è volere avere di più, tenere il mio e avere di più. Il risentimento allora può diventare odio, perché se io ho e voglio avere di più, se comincio ad avere di meno, c’è l’invidia, e l’invidia può diventare odio. Una dinamica opposta alla dinamica che i cristiani indicano nel termine caritas e che Aristotele diceva giustizia, dikaiosyne: il giusto non è soltanto colui che dà a ciascuno il suo, ma che vuole il bene dell’altro. Quindi già per Aristotele la giustizia è un atteggiamento per l’altro, pros eteron. Sono temi che poi la Chiesa eticamente recupera: San Tommaso quando parla di etica recupera questi elementi propri, che poi, nell’itinerario in Deum, vengono tutti valorizzati ancora di più, esaltati ancora di più e trasposti su un piano ancora più alto. Ora di nuovo siamo lì, siamo forse nella fase estrema del sistema individualistico. Sono venuti meno quegli organismi, quelle organizzazioni, quelle forme che metabolizzavano queste dinamiche proprie dell’individualismo. I partiti politici facevano una cosa di questo genere, le assumevano e le trasformavano, le metabolizzavano, le accordavano, e facevano venire fuori una specie di sintesi, ognuno per la sua parte sociale. La crisi dei partiti politici ha provocato anche questo. Nessuno dei partiti, anche l’unico che c’è che è la Lega, compie più questo lavoro, assolutamente. Mette insieme, fa un mucchio di tutte le istanze degli individui e le mette lì ma senza mediazione, senza sintesi. L’attuale governo è esemplare da questo punto di vista: ce n’è per tutti, meno tasse per chi vuole meno tasse, il reddito di cittadinanza per chi vuole il reddito di cittadinanza...
I partiti politici come i corpi intermedi sono entrati in crisi, anche perché, bisogna riconoscerlo, si sono “dimissionati”. Se i corpi intermedi per anni e anni sono andati avanti facendo clienti, non possono più avere credibilità.
La tecnologia come contribuisce a questo cambiamento d’epoca?
È chiaro che è fondamentale. Di per sé non è niente di nuovo, perché dalla rivoluzione industriale e ancora prima, scienza e tecnica sono elementi strettamente connessi. Ma ci sono grandi trasformazioni con dei veri “salti”, come quello dell’Ottocento. E così oggi assistiamo a un grande salto tecnologico, che però oggi può intervenire nella vita, nel determinarne le forme. La vita, questo è il punto. Secondo me, il tratto più spaventoso, più tremendo, più terribile proprio nel senso greco di meraviglioso e tremendo, cioè stupefacente, è che questo individuo è tutto fuorché l’individuo nascosto, è tutto esposto, tutto sulla scena, tutto a disposizione, tutto calcolabile; non è il singolo, è esattamente l’opposto del “singolo” di Kierkegaard. No, questo è proprio l’individuo, è un numero, ma sul palco, sulla scena. Esposto. È l’oscenità di quest’epoca, e sarà sempre peggio; con i big data che ci possono essere adesso tu individuo sei perfettamente quello che risulti in base a quello che acquisti: i libri che acquisti, i vestiti che acquisti, le telefonate che fai, i treni che prendi, quante volte usi il bancomat. Tutto questo è totalmente schedato, il data è la combinazione di tutte queste informazioni dalle quali viene fuori come risultato chi sei tu. E un domani potrebbe accadere benissimo che tu vai a chiedere lavoro a qualcuno: “il nome scusi? Vediamo, ah lei è questo”. Vede dove siamo arrivati? A una inquietante forma di uguaglianza, ciò che alcuni teorici della democrazia temevano, che l’uguaglianza potesse portare a questo, non a caso ci avevano aggiunto la fratellanza.
Che però è stata la grande dimenticata, a favore di libertà e uguaglianza.
Anche perché, come ricordava un vero grande sociologo e filosofo come Georg Simmel, libertà e uguaglianza per conto loro sono in assoluto opposizione e contrasto, sono la contraddizione logica, perché se sono libero non sono uguale a te. Quindi libertà e uguaglianza di per sé fanno l’individuo, ognuno libero contro l’altro. E dunque ci vuole la fratellanza. Come si produce questa fratellanza, questa amicizia? Come si produce? Chi la produce? E allora, di nuovo, organismi, corpi intermedi, partiti, sindacati, da “sin-ducere”, mettere insieme. Ci abbiamo provato in passato e in parte ci siamo riusciti. Ma ora se tutto questo si spappola non c’è niente da fare, ci sono i big data, c’è chi ne dispone, e a sua disposizione sono anche gli individui.
L’intervento
Dante, simbolo dell’Italia molto prima della sua unità
Il presidente della Società Dante Alighieri sostiene l’iniziativa di una Giornata dedicata al poeta della «Commedia». Il Dantedì sarà una festa per gli italiani e chi ama l’Italia
di ANDREA RICCARDI *
La proposta di dedicare a Dante una giornata celebrativa, avanzata da Paolo Di Stefano sul «Corriere della Sera», incontra l’interesse di tanti. Dante dà nome alla Società Dante Alighieri, fondata nel 1889 da Giosue Carducci per difendere l’identità degli emigrati nel mondo. La Società lavora in questo senso da 130 anni e conta oggi circa 400 comitati e tante scuole ovunque. La sua missione resta l’insegnamento dell’italiano non solo agli emigrati e ai loro figli, ma anche a chi è attratto dalla lingua e dal vivere all’italiana.
Abbiamo sempre festeggiato la Giornata di Dante in tutti i nostri comitati il 29 maggio, scegliendo questa tra le possibili date di nascita del poeta, uno degli ultimi giorni del mese indicato nel commentario di Boccaccio. Questi afferma che Dante morì dopo aver passato il cinquantaseiesimo anno «dal preterito maggio». Ma la data non è importante. Quel che conta è l’esperienza positiva di una giornata dedicata al Sommo Poeta da parte della nostra Società lungo gli anni.
Sono quindi d’accordo sul Dantedì. Infatti Dante è un simbolo del «mondo italiano», molto prima dell’unità politica del Paese, che però si proietta verso il futuro e rappresenta un giacimento di poesia, umanità e mondo spirituale, ancora in parte da esplorare. È simbolo, in qualche modo, di «preveggenza», di un rapporto positivo tra passato e futuro: il poeta immagina la redenzione del Purgatorio, dando forma letteraria alla speranza di poter «rimediare» agli errori e ai limiti, in un modo che pochi decenni prima non esisteva. Dante ha fondato la visione di un’umanità più giusta e positiva. È una visione «italiana» in senso profondo. Del resto si celebrano le identità culturali associate alla grande poesia di autori come Cervantes o Shakespeare.
Dante è con Shakespeare nel cosiddetto «canone poetico occidentale». Molti lo conoscono. Tuttavia bisogna conoscerlo sempre meglio, perché la ricchezza letteraria della sua opera non si esaurisce e non si sintetizza. È come una Bibbia, che va letta e riletta: allora si scoprono messaggi e significati nuovi. Insegna una lettura che è un metodo per fare cultura, anche per i non specialisti. Lo si vede nel Paradiso, summa delle conoscenze concluse nel simbolo della rosa candida, che è un raffinato esempio di come insegnamenti alti e complessi possano essere incastonati in un testo poetico e letterario. La rosa, simbolo caro a poeti e mistici, è il fiore del mese di maggio, quando celebriamo la Giornata di Dante.
Qualunque sarà la data prescelta, la proposta di un Dantedì non deve cadere nel vuoto. La giornata sarà significativa non solo per la Dante Alighieri, da cinque generazioni impegnata nella salvaguardia della cultura italiana nel mondo. Sarà soprattutto una «festa» per gli italiani e per quanti guardano con simpatia al «mondo italiano» in tutto il suo spessore. Questo mondo vive anche fuori dalla penisola. Abbiamo dato come titolo al nostro prossimo congresso di Buenos Aires, che raccoglie italiani e amici dell’italiano: Italia, Argentina, mondo: l’italiano ci unisce. La nostra lingua non è egemonica, non s’impone ma attrae: unisce i tanti «pezzi d’Italia», come diceva il manifesto fondatore della nostra Società, guardando agli italiani e ai simpatizzanti per l’Italia nel mondo.
Dante non è solo il simbolo dell’Italia. È voce mondiale e patrimonio dell’umanità. L’Italia (e forse l’Europa) non sarebbero quel che sono nella cultura e nel seguir «virtute e canoscenza», se non ci fosse stato Dante, il quale non è solo, come molti credono, la sintesi del Medioevo, ma è l’anticipatore dell’umanesimo ancora prima di Petrarca, grazie al colloquio fertile con i classici, nonché il profeta del futuro con una visione moderna dell’esistenza e in una simbiosi di vita e arte, mai così intensa prima né dopo di lui. Per questo il Dantedì rappresenta, in questo sconfinato mondo globale dei nostri tempi, una salda radice e un’apertura al futuro.
L’Emilia-Romagna appoggio al progetto e l’evento a Ravenna al festival Dante2021
La regione Emilia-Romagna sostiene la mobilitazione per il Dantedì. In una risoluzione il consigliere Gianni Bessi (Partito Democratico) impegna la giunta «ad attivarsi presso il governo e il parlamento affinché si istituisca, tramite percorsi legislativi e normativi, anche formalmente la giornata del Dantedì». Al progetto di una Giornata mondiale per Dante è dedicato un evento del festival Dante2021 a Ravenna il prossimo 13 settembre. Con lo scrittore e giornalista Paolo Di Stefano, che in un articolo del 24 aprile sul «Corriere» aveva lanciato il Dantedì, intervengono il sindaco della città Michele de Pascale, Carlo Ossola (presidente del Comitato nazionale per i 700 anni dalla morte di Dante), Francesco Sabatini (presidente onorario dell’Accademia della Crusca), Wafaa El Beih (direttrice del dipartimento di Italianistica dell’Università di Helwan-Il Cairo), i traduttori René de Ceccatty e José María Micó e il tedesco Harro Stammerjohann, socio straniero della Crusca.
* Corriere della Sera, 15.07.2019 (ripresa parzale - senza immagini).
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA [2008[ "NON CLASSIFICATA"!!! *
Demografia.
L’Europa è unita dalle culle vuote: ecco la vera crisi che non si affronta
I tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza che riguarda tutte le età e tutti i livelli di reddito
di Massimo Calvi (Avvenire, sabato 22 giugno 2019)
La recessione demografica che colpisce l’Italia, e che insieme al debito pubblico rappresenta uno dei maggiori elementi di preoccupazione per gli anni a venire, non è un fenomeno limitato ai confini nazionali. Nel lanciare l’ennesimo allarme, alla presentazione del rapporto annuale Istat, il presidente dell’istituto di statistica Giancarlo Blangiardo ha fatto un paragone con il crollo della popolazione registrato negli anni 1917-1918, quelli segnati dalla Grande Guerra oltre che dagli effetti dell’epidemia di Spagnola. Eppure il male italiano è anche un grande problema europeo. «L’inverno demografico che stiamo vivendo in Europa», di cui ha parlato anche papa Francesco a gennaio nell’Udienza generale per il viaggio a Panama in occasione della Giornata mondiale della gioventù 2019, merita di essere preso più seriamente di quanto la politica e le istituzioni non stiano facendo: l’immagine choc della Guerra non è così lontana dagli effetti che il Continente può dover sperimentare nei prossimi anni.
In Europa, i tassi di fecondità sono molto diversi tra Paese e Paese, tuttavia a partire più o meno dal 2008 il crollo delle nascite è diventata una tendenza strutturale comune, che riguarda un po’ tutte le età e tutti i livelli di reddito. Paesi come la Francia sono passati da tassi superiori ai 2 figli per donna a 1,87 nel 2018, la "mitica" Svezia è scesa a 1,75 (era a 1,91 nel 2008), la Gran Bretagna è arrivata al record negativo da 10 anni a 1,76, la Spagna è crollata a 1,25 figli (da 1,44 nel 2008), persino in Finlandia gli allarmi si ripropongono anno dopo anno perché si ritarda sempre di più la messa al mondo del primo figlio e nascono sempre meno secondi e terzi. L’Italia ha un tasso di fecondità oggi di 1,32, ma aggravato dal fatto che il calo delle nascite dura da molti più anni rispetto ad altri Paesi, e questo ha ormai compromesso le possibilità di compensare con nuove nascite l’emorragia della popolazione.
Il primo problema all’origine dell’inverno demografico ovunque in Europa è proprio il calo del numero di donne in età riproduttiva, fenomeno che ha origine attorno agli anni 90. Meno donne che mettono al mondo meno figli è il "dato grezzo" della questione. In realtà, lo choc del 2008 sembra aver tracciato una linea netta oltre la quale è entrato probabilmente in gioco un cambiamento di mentalità delle nuove generazioni, unita al venire meno di molte certezze su lavoro, abitazione, prospettive e soprattutto sulla possibilità di migliorare la propria situazione rispetto alla generazione precedente. Non è una mancanza di desiderio di famiglia, ma più di condizioni da soddisfare in un contesto di politiche pubbliche che tende a premiare comportamenti individualistici e a scoraggiare la formazione di una famiglia. È vero in Italia, ma lo si incomincia a registrare un po’ ovunque nelle politiche di bilancio.
Il cambio della composizione demografica porta infatti con sé anche decisioni di spesa che rischiano di accentuare il problema della denatalità. In un recente saggio pubblicato sulla rivista Population & Avenir, il demografo francese Gerard-Francois Dumont ha dimostrato come salvo rarissime eccezioni i Paesi che più spendono per sostenere la natalità registrano anche i maggiori tassi di fecondità. Tuttavia, oggi l’aumento della popolazione anziana e il calo di quella in età da lavoro sta spingendo gli Stati ad aumentare le risorse a favore della componente più rilevante anche elettoralmente per mantenere gli standard di welfare, inteso come sanità e pensioni.
Secondo un recente rapporto della Fondazione Leone Moressa l’Italia avrà il 17% in meno di popolazione tra 32 anni, e oltre il 35% dei cittadini con più di 65 anni. Altre previsioni che riguardano invece l’Europa indicano che entro il 2060 le persone tra i 15-64 anni caleranno dal 67% attuale al 56%, gli "anziani" saliranno invece dal 18 al 30%. Da 4 persone in età attiva per ogni over-65 si passerà a sole 2.
Guardando avanti, in un Continente che oggi conta poco più di 510 milioni di persone, e che dovrebbe incominciare a conoscere un calo di popolazione dal 2035, si può immaginare un gruppo di Paesi che continuerà ad avere un saldo naturale positivo della popolazione: Francia, Gran Bretagna, Svezia, Irlanda, Danimarca...; un altro caratterizzato da un deciso declino demografico: Portogallo, Spagna, Grecia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Polonia...; l’Italia e la Germania presentano invece prospettive molto negative nel bilancio nati-morti, ma la possibilità di tenuta dei livelli resta appesa alla capacità di continuare ad attrarre popolazione giovane.
Culle vuote e migrazioni mal gestite sono una bomba a orologeria per il Vecchio Continente. L’Europa ha bisogno disperatamente di più bambini e di più persone al lavoro che possano sostenere gli anziani a riposo o bisognosi di cure. Crudamente, ha bisogno di far venire alla luce nuove risorse e di attrarne di già disponibili. Spendere e investire per favorire le nascite purtroppo è una scelta che non piace ai governi in virtù di un banale calcolo statistico, considerato che proprio la tendenza demografica declinante richiede sempre maggiori risorse a favore della parte elettoralmente più rilevante della popolazione. Ma la tentazione della rendita è di per sé un indicatore evidente di declino e sconfitta.
Il fatto è che la recessione demografica porta con sé anche recessione economica, problemi sul debito e sulla sostenibilità dei servizi, maggiori difficoltà di spesa per sostenere le aree depresse.
Tutti gli studi sull’effetto dello choc demografico indicano che per Paesi del Centro e dell’Est-Europa, per la Germania Orientale, l’Italia del Sud, il Nord della Spagna e la Grecia, la prospettiva è quella di un futuro fatto di poche nascite, invecchiamento, emigrazione. E’ un circolo vizioso, insomma. Esattamente come quello che chiama in causa la questione delle migrazioni. I Paesi che riusciranno a tenere la posizione saranno quelli in grado di garantire due tipi di condizioni: uno sviluppo così elevato in termini di qualità della vita, del lavoro, delle retribuzioni, degli incentivi, della sicurezza e della sostenibilità futura, in grado di sostenere il desiderio di figli e famiglia; la capacità di offrire alle persone che emigrano lavoro, integrazione, educazione e un ambiente favorevole e dignitoso.
Non è una partita semplice perché l’inverno demografico è già qui e le tensioni che comporta questa trasformazione sono in atto e ben visibili. Di certo se la sfida è anche culturale, la soluzione non è più individualismo, ma migliore capacità di interpretare la solidarietà tra le generazioni e tra i popoli.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA - 2008 - "NON CLASSIFICATA"!!!
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA. PERDERE LA COSCIENZA DELLA LINGUA ("LOGOS") COSTITUZIONALE ED EVANGELICA GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI ... *
Politica.
Che cos’è il populismo? L’inganno della parte che vuole essere il tutto
Il politologo Yves Mény: le democrazie rappresentative si fondano sul popolo ma lo relegano a osservatore. Ma non c’è reale alternativa: un vero potere popolare finirebbe nelle mani dell’uomo forte
di Yves Mény (Avvenire, giovedì 20 giugno 2019)
Le democrazie sono al centro del desiderio politico. O almeno lo sono state per molto tempo e si sono identificate con la libertà, l’autonomia, l’auto-governo, con la vittoria della maggioranza e del numero sul singolo sovrano. La democrazia è, potremmo dire in sintesi, il desiderio della multitudine di sostituirsi al re, al dittatore o a un gruppo ristretto ma dominante, alle élites, alla casta, all’establishment. Ma la folla, le masse, l’aggregazione dei singoli, si trova di fronte ad un impasse, che nel mio recente libro pubblicato dal Mulino, Popolo ma non troppo ho denominato “malinteso democratico”.
Come unire infatti tutti questi atomi, attraversati da aspirazioni, interessi, emozioni cosi diversi da impedire loro di fatto di unirsi? Nel corso della storia molti sono stati i tentativi: ridurre, ad esempio, la dimensione territoriale della città per rendere possibile la conoscenza e l’unione di tutti. È il sogno greco, rivisto da Rousseau; ma non possiamo scordare la deriva delle colonie greche di Sicilia dove il despota finisce per incarnare il demos.
Una variante diversa è offrire una visione alternativa del popolo. È il realismo senza pietà di Hobbes dove il sovrano, sulla copertina del suo libro, è rappresentato da mille corpi di cittadini assorbiti, ingoiati e capovolti per dar corpo all’unità. C’è poi il sogno-incubo della rivoluzione russa di dare il potere a una classe unica al prezzo di eliminare qualche privilegiato; e c’è il realismo all’inglese che “inventa” il principio rappresentativo per incanalare le aspirazioni di molti nella fattibilità pratica del governo di pochi; e c’è la non meno realistica e fredda osservazione di Gaetano Mosca sull’ineluttabilità delle élites, la doccia fredda sul desiderio.
"Unirsi in un popolo" è il desiderio che continuamente si ripresenta di trasformare la diversità in una unità metafisica. «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» constatava Massimo d’Azeglio; Eugen Weber descrive la trasformazione dei francesi di fine Ottocento «da contadini a cittadini»; Benedict Anderson evoca la nazione come «comunità sognata». Per farla breve, il “popolo” non smette di desiderare di diventare anche una realtà sociale e non soltanto un’utopia magica.
Purtroppo la contraddizione interna è sempre in agguato: il popolo come concetto è indispensabile per legittimare l’accesso al potere. Anche le dittature pretendono di governare in nome e per il bene del popolo. E questo popolo che le democrazie hanno posto sul piedestallo per poi relegarlo nel ruolo di osservatore degli atti dei governanti si rivolta sempre di più per far avverare l’utopia di Lincoln «Government of the people, by the people, for the people».
In altre parole, il popolo americano, ma anche tutti gli altri, fanno proprie le tre prime parole della costituzione americana «We the People...», che è una splendida frase per parlare di legittimazione, ma è una pia illusione quando si tratta di governare.
Si potrebbe ricordare la reazione di un francese chiamato ad approvare la costituzione scritta da Napoleone: «Che c’è nella costituzione?» E la risposta fu «Bonaparte»...
Non c’è alternativa alla necessità della rappresentanza: non vi è mai stato un “vero” potere popolare e se ci fosse si correrebbe il rischio di radunarsi di fatto sotto le ali di un uomo forte, di un salvatore. Dio ci salvi da questa fatalità! Il desiderio di sentirsi uniti in un popolo non è soltanto forte, inganna, inebria.
Qualunque gruppo può pretendere di essere il popolo anche quando si tratta di una parte di popolo molto ridotta, come quella che vota sulla piattaforma Rousseau o quando i Gilets jaunes che da sei mesi pretendono di essere il «popolo» prendono più o meno 1,5% dei voti alle elezioni europee. La parte pretende cioè di essere il tutto.
Ovviamente ci sono anche buone ragioni per portare avanti le proprie rivendicazioni perché il sistema rappresentativo è sempre (al meglio) il governo della maggioranza o, più spesso, appoggia su una minoranza sociologica trasformata in maggioranza politica grazie ai miracoli dei sistemi elettorali. La situazione non sembra particolarmente felice.
Ma bisogna essere lucidi: l’unanimità, che sulla carta sembra il sistema più rispettoso della volontà del popolo è un sistema “blocca-tutto” ed esiste soltanto nelle piccole tribù primitive, benché sia attivo anche là dove la ricerca del consenso si trasforma in molteplici veti incrociati: l’Italia ne sa qualche cosa...
Ricordiamoci che l’unanimismo sfocia nella dittatura e soprattutto nella dittatura delle menti. Il populismo, «l’ideologia del popolo» rischia quindi di essere una grande illusione e un inganno. Riconosciamogli però un merito: rimescola le carte e spesso pone fine a quello che il poeta Paul Eluard chiamava «il duro desiderio di durare».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
MESSAGGIO EVANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER (E DI TUTTI I PAPI).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Bufera sul Csm.
Mattarella: «Oggi si volta pagina»
Severo monito del capo dello Stato Sergio Mattarella, durante il plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura, dopo la bufera suscitata dall’inchiesta di Perugia su favori e nomine
di Vincenzo R. Spagnolo (Avvenire, venerdì 21 giugno 2019)
È un severo monito e, al tempo stesso, una scossa sferzante per il futuro quella che arriva dal capo dello Stato Sergio Mattarella, durante il plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura. Un plenum indetto per colmare le carenze in organico dopo le dimissioni di cinque consiglieri togati presenti a incontri con magistrati e politici per favorire le nomine in alcune procure. «Oggi si volta pagina nella vita del Csm», incalza il presidente della Repubblica, manifestando «grande preoccupazione. Quel che è emerso, da un’inchiesta in corso, ha disvelato un quadro sconcertante e inaccettabile».
L’inchiesta di Perugia
Il riferimento del capo dello Stato è alle indagini della procura di Perugia, che vedono indagati per corruzione il pm di Roma (ed ex consigliere del Csm) Luca Palamara, un imprenditore e un avvocato, e per rivelazione di segreto d’ufficio un altro pm capitolino, Stefano Rocco Fava, e un consigliere del Csm, Luigi Spina, ora dimessosi dall’incarico. Le intercettazioni hanno rivelato l’esistenza di cene e incontri serali in cui si discuteva di assegnazioni di incarichi di vertice - fra cui quello di procuratore di Roma - avvenute fra lo stesso Palamara, i deputati del Pd Cosimo Ferri (magistrato in aspettativa) e Luca Lotti (ex ministro, indagato a Roma nell’inchiesta Consip) e almeno 5 consiglieri del Csm, ora dimissionari. «Quanto avvenuto - è la valutazione del presidente Mattarella - ha prodotto conseguenze gravemente negative per il prestigio e per l’autorevolezza non soltanto di questo Consiglio ma anche il prestigio e l’autorevolezza dell’intero ordine giudiziario; la cui credibilità e la cui capacità di riscuotere fiducia sono indispensabili al sistema costituzionale e alla vita della Repubblica». Il capo dello Stato stigmatizza con forza quel «coacervo di manovre nascoste, di tentativi di screditare altri magistrati, di millantata influenza, di pretesa di orientare inchieste e condizionare gli eventi, di convinzione di poter manovrare il Csm, di indebita partecipazione di esponenti di un diverso potere dello Stato, si manifesta in totale contrapposizione con i doveri basilari dell’ordine giudiziario e con quel che i cittadini si attendono dalla magistratura».
La scossa del Colle
Nei giorni peggiori della bufera su Palazzo dei Marescialli, mentre le rivelazioni di fonte giudiziaria portavano all’autosospensione e poi alle dimissioni dei consiglieri coinvolti, il presidente della Repubblica (che secondo Costituzione presiede il Csm) non ha fatto mancare mai sostegno e consiglio al vicepresidente David Ermini. E anche adesso, nella sala intitolata a Vittorio Bachelet e davanti a sedie ancora vuote nel plenum, Mattarella non pronuncia solo parole di costernazione, ma anche di sprone e di fiducia nel necessario rafforzamento del Consiglio, che ha gli anticorpi necessari e che ora più che mai sarà chiamato ad essere una "casa di vetro": «La reazione del Consiglio ha rappresentato il primo passo per il recupero della autorevolezza e della credibilità cui ho fatto cenno e che occorre sapere restituire alla Magistratura italiana. Di essa i cittadini ricordano i grandi meriti e i pesanti sacrifici anche attraverso l’esempio di tanti suoi appartenenti e hanno il diritto di pretendere che quei meriti e quei sacrifici non siano offuscati».
Riforme necessarie e urgenti
Ora «viene annunciata una stagione di riforme sui temi della giustizia e dell’ordinamento giudiziario, in cui il Parlamento e il Governo saranno impegnati», osserva Mattarella (riferendosi alle modifiche normative annunciate dal ministro della Giustizia Alfonso Bonafede) «ritenute opportune e necessarie, in conformità alla Costituzione». Il Quirinale seguirà l’evolversi del processo legislativo, ma nella consapevolezza che tocca «ad altre istituzioni discutere ed elaborare eventuali riforme che attengono a composizione e formazione del Csm». Nel frattempo, è la richiesta del capo dello Stato, il Consiglio non dovrà stare con le mani in mano: «Il Csm può - ed è, più che opportuno, necessario - provvedere ad adeguamenti delle proprie norme interne, di organizzazione e di funzionamento, per assicurare, con maggiore e piena efficacia, ritmi ordinati nel rispetto delle scadenze, regole puntuali e trasparenza delle proprie deliberazioni».
Ermini: «Basta con logiche spartitorie»
Dopo il capo dello Stato, sono intervenuti altri membri del Consiglio, ringraziandolo per il sostegno e la guida «irrinunciabile». Il vicepresidente David Ermini ha ricordato «la ferita profonda e dolorosa», derivante dall’inchiesta perugina e che «potrà guarire soltanto all’esito di un percorso lungo e faticoso». Ma si è detto «certo di poter affermare che essa non ha colpito le fondamenta del Consiglio superiore». Tuttavia, la pronta reazione alle condotte dei singoli componenti è stata necessaria, ma non è sufficiente. E «nel prossimo futuro il Csm sarà chiamato a dimostrare che in grado di affermare la propria legittimazione agli occhi della magistratura e dei cittadini», assumendo ogni determinazione nell’interesse generale della giurisdizione e «al riparo dall’influenza di interessi particolari e da logiche spartitorie e non trasparenti».
Le nuove nomine e il caso Roma
Il plenum ha convalidato l’elezione dei due nuovi consiglieri togati, Giuseppe Marra e Ilaria Pepe (entrambi di Autonomia e Indipendenza, il gruppo di Piercamillo Davigo), che subentrano a Gianluigi Morlini e Corrado Cartoni, dimessisi dopo le rivelazioni su cene e incontri nel maggio scorso con Palamara e Lotti, in cui si discuteva anche di indicazioni sul possibile successore di Giuseppe Pignatone a capo della procura di Roma. Sempre a maggio, la commissione Direttivi del Csm ha assegnato, per la nomina in questione, 4 voti al pg di Firenze Marcello Viola e uno ciascuno a Giuseppe Creazzo e Francesco Lo Voi, attuali capi della procura fiorentina e di quella palermitana. La votazione della commissione «è valida», ha precisato il vicepresidente del Csm Ermini ai cronisti al termine del Consiglio, e dunque ora «passa al Plenum e il Plenum è sovrano».
L’EUROPA, LA COSTITUZIONE, E LA BANDIERA: LE RADICI CATTOLICHE DI MARIA ELENA (MADRE DI COSTANTINO) O LE RADICI CRISTIANE DI MARIA BEATRICE (MADRE DI DANTE)?! Al di là della trinità "edipica" e "mammonica" *
Europa.
Le radici cattoliche e mariane della bandiera dell’Unione Europea
Un saggio di Enzo Romeo ricostruisce la complessa genesi e la simbologia legata a Maria del vessillo di colore blu con il cerchio di dodici stelle, adottato dal Consiglio europeo nel 1955
di Edoardo Castagna (Avvenire, venerdì 14 giugno 2019)
Ogni identità ha bisogno di simboli ai quali guardare, per riconoscersi e per ispirarsi. Lo sanno bene i populisti di ieri e di oggi, che usano le identità come sciabole per dividere. In modo diametralmente opposto, tanto politicamente quanto moralmente, lo sapevano bene anche i padri fondatori dell’Unione Europea nella loro ricerca di una nuova identità capace di abbracciare, unire, includere.
L’identità europea si è costruita un poco alla volta negli ultimi sessant’anni e, anche se nell’ultimo periodo sembriamo a un punto di stallo, non possiamo non vedere quanto di grande e buono è stato fin qui costruito. Anche attorno ai simboli. Abbiamo un inno nella musica di Beethoven; e abbiamo una bandiera, ormai presenza famigliare sulle facciate degli edifici pubblici - e non solo, come le ultime elezioni europee hanno dimostrato: non pochi balconi hanno visto esporre il drappo azzurro con le dodici stelle.
Alla storia di questa bandiera ha dedicato il suo ultimo saggio Enzo Romeo (Salvare l’Europa. Il segreto delle dodici stelle; Ave, pagine 190, euro 12,00), nel quale la ricostruzione dei passaggi che portarono le istituzioni europee alla scelta definitiva si accompagna alla riscoperta del retroterra imprevisto che agì sui suoi creatori. Il disegno finale è attribuito a un lavoro collegiale, nel quale tuttavia spiccano i contributi del direttore dell’Ufficio d’informazione e stampa del Consiglio d’Europa, Paul Michel Gabriel Lévy, e soprattutto di Arsène Heitz, impiegato dell’Ufficio e autore di diversi bozzetti per la bandiera comune - tra i quali, con poche modifiche, quello infine adottato.
Cattolico e assai devoto alla Madonna, Heitz lavorò su simboli in apparenza del tutto laici: eppure l’azzurro, le dodici stelle come quelle della “medaglia miracolosa” che commemora le apparizioni mariane di rue du Bac a santa Caterina Labouré nel 1830, e che Heitz portava sempre con sé... una simbologia mariana agì, forse più come “mano invisibile” che come ispirazione cosciente, almeno fino a quando, molto più tardi, lo stesso Heitz non la esplicitò, forse prendendone consapevolezza egli stesso: «Mi sentii ispirato da Dio - avrebbe confidato Heitz a padre Pierre Caillon nel 1987, poco prima di morire - nel concepire un vessillo tutto azzurro su cui si stagliava un cerchio di stelle, come quello della medaglia miracolosa. Cosicché la bandiera europea è quella di Nostra Signora».
Quello di Heitz, d’altra parte, non fu l’unica delle proposte a contenere richiami alla simbologia cristiana, anche più espliciti: per esempio, l’austriaco Richard Nikolaus di Coudenhove-Kalergi, fondatore nel 1922 dell’Unione Paneuropea, suggerì un drappo blu con una croce rossa cerchiata di giallo; lo stesso Heitz propose una croce rossa in campo verde. Il verde fu tra i colori più ricorrenti nelle prime bozze: il francese Robert Bichet lanciò l’idea di quindici stelle verdi su campo bianco, il Movimento federalista europeo chiedeva che fosse adottato direttamente il proprio emblema, una “E” verde su campo bianco. Il blu fu comunque il colore più proposto, così come le stelle ebbero facilmente la meglio su altri simboli come i cerchi (un bozzetto a cerchi intrecciati fu bocciato perché ricordava troppo, a detta della commissione, una catena o la bandiera olimpica, se non addirittura la ghiera di un telefono...).
Le dodici stelle disposte a cerchio su fondo blu furono adottate dal Consiglio d’Europa (la bandiera identifica tanto questa istituzione quanto la successiva Unione Europea) nel 1955, con argomentazioni apparentemente anodine: il blu è quello del cielo dell’Occidente, le dodici stelle rappresentano tutti i popoli d’Europa nella loro diversità, il cerchio la loro unità. -Nessun riferimento, nei documenti ufficiali, a richiami mariani: ma, come nota giustamente Romeo, in questi casi «bisogna procedere su un piano assolutamente aconfessionale, evitando polemiche di sapore religioso o ideologico. Non si tratta di nascondere ipocritamente i segni della propria fede, ma di proporli su un piano universale, perché in questo caso essi trascendono l’appartenenza a una Chiesa e si trasformano nell’allegoria di un quadro valoriale comune». E, in effetti, ormai per mezzo miliardo di persone quelle stelle in campo blu hanno acquisito un po’ il colore di casa.
Anche se di una casa ancora in costruzione.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
"NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
Federico La Sala
ADAMO ED EVA, IL "FAMILISMO AMORALE", E L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI LABIRINTO... *
Etica pubblica.
Salvatore Natoli e la politica per la città nuova
Nel nuovo libro il filosofo riflette sull’attesa del Regno e su come l’agone sociale renda possibile la sua costruzione con la cura del bene comune
di Roberto Righetto (Avvenire, venerdì 24 maggio 2019)
Aveva ragione Baudelaire, quando in uno dei suoi pensieri colse appieno l’essenza della Modernità: «Teoria della vera civiltà. Non consiste nel gas o nel vapore o nei tavolini parlanti, consiste nella dimenticanza del peccato originale». E se non esiste più questa coscienza della colpa, insita nell’uomo sin dall’inizio, sparisce completamente anche l’idea di salvezza, di redenzione. È questo uno dei presupposti del nuovo libro di Salvatore Natoli, Il fine della politica. Dalla teologia del regno al governo della contingenza (Bollati Boringhieri, pagine 130, euro 15) che sarà presentato lunedì prossimo al teatro Franco Parenti di Milano dall’autore con Davide Assael.
Il filosofo noto per i suoi saggi sul dolore e sulla felicità, nonché per le sue numerose interlocuzioni, da non credente, col mondo dei credenti (memorabili alcuni suoi confronti con personalità come il cardinal Martini, il biblista Sergio Quinzio o il monaco Enzo Bianchi), in questo volume si interroga sul destino della politica, ma in realtà la sua esplorazione riguarda tutto il percorso dell’umanità. A partire dall’idea di éschaton o éschata, “le cose future”, sorta nell’ambito del giudaismo ma riadattata dal cristianesimo e il cui influsso ha segnato in maniera decisiva tutta la storia dell’Occidente, dal Medioevo alla Modernità.
In realtà già Omero ne parla e se ne serve per definire «ciò che sta fuori», cioè «il più lontano, l’estremo». Nella Bibbia invece per i profeti designa la fine dei giorni e così nei Vangeli e in Paolo, ove emerge un concetto di tempo come promessa e compimento. I primi cristiani com’è noto attendevano un ritorno se non immediato assai ravvicinato di Gesù e si aspettavano che si compisse la promessa della salvezza e la cancellazione del male dalla faccia della terra. Commenta Natoli: «Il cristianesimo, nella sua essenza, non in altro consiste se non nell’annuncio del regno di Dio. Esso è già venuto con la venuta di Cristo nel mondo, tuttavia non si è ancora manifestato nella sua pienezza, (...) tant’è che il regno è ancora da invocare, anzi è la prima cosa da chiedere: venga il tuo regno».
L’éschaton è allora l’aver fede che nel futuro si adempirà quanto è stato promesso: di qui la felice formula “già e non ancora” che viene applicata alla Chiesa, che vive in sé la dimensione della salvezza ma ne attende la piena realizzazione. Col passare dei decenni e dei secoli, il tempo dell’attesa si è dilatato dato che la storia prosegue il suo corso, ed è esattamente questo il tempo della po-litica: inevitabile, da Paolo in poi, il tentativo di definire il rapporto fra la Chiesa e il potere, assieme alle prime formulazioni di una teologia della storia.
Natoli dedica diverse pagine alla questione del katéchon, quella potenza che trattiene il dilagare del male, ma al contempo impedisce il manifestarsi pieno del progetto di Dio sull’umanità. Già nell’antichità essa fu identificata da alcuni teologi con l’impero romano (c’è chi vide in Nerone l’Anticristo), ma perlopiù esso rimase, e rimane, un’entità misteriosa e indefinibile. Sta di fatto che i cristiani si trovarono sempre più immersi nel loro tempo e costretti a fare i conti con le potenze mondane.
Fu sant’Agostino a elaborare la prima vera e propria teologia della storia nel De civitate Dei. Il vescovo di Ippona vedeva il potere politico come una realtà che ha il compito preminente di contenimento del male, mentre Tommaso d’Aquino nei secoli successivi gli assegnerà una funzione positiva: il perseguimento del bene comune. In un saggio uscito in America nel 1949 e in Italia edito dal Saggiatore, Significato e fine della storia, il pensatore tedesco Karl Löwith scriveva: «L’impossibilità di elaborare un sistema progressivo della storia profana sulla base della fede ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano significativo della storia mediante la ragione. Ciò è confermato dal senso comune: infatti chi oserebbe pronunciare un giudizio definitivo sullo scopo e sul senso degli eventi contemporanei?».
Non molto diversamente sembra pensarla Natoli che però, pur prendendo atto del processo di secolarizzazione e della trasformazione dell’éschaton cristiano nell’utopia razionalistica e illuministica, continua a pensare che pure le società contemporanee abbiano una riserva di futuro, anche se ormai solo terreno. La legge del progresso, grazie alla quale si trasferiva all’operatività umana - alla scienza e alla tecnica in primis - la possibilità di progettare il futuro, già ai tempi di Voltaire si scontrava tuttavia con l’inesorabilità del destino: è noto lo sconcerto dei philosophes dinanzi alla tragedia del terremoto di Lisbona. E se è vero che la dimenticanza dell’éschaton è stata resa possibile in primo luogo per colpa della Chiesa, divenuta nei secoli passati sempre più «una grande macchina organizzativa che ha modellato la vita delle persone» perdendo di vista la dimensione spirituale, è altrettanto vero che l’utopia del cambiamento dell’uomo e della società ha generato mostri come i totalitarismi. Lo sguardo di Natoli si fa più disincantato: «Sono in tanti - scrive - a sostenere che il tempo della politica è, ormai, finito; e certamente lo è, se la politica la si pensa ancora in termini novecenteschi. Il Novecento, in particolare la prima metà, non è stato solo un tempo politico ma un tempo dell’iperpolitica».
Ciò nonostante, egli indica ancora una possibilità: «Se non c’è più alcuna “fine” da attendere, è necessario attendere alle cose del mondo, prendersele in carico». Compito della politica è allora la giustizia, la pace è moderare i conflitti, provvedere al benessere. Se essa ha perduto il senso dell’éschaton, mantiene un telos, vale a dire un fine. E questo può costituire un terreno di azione comune per credenti e non credenti che vogliano ancora impegnarsi nell’azione politica. Così Natoli può concludere: «È in forza della comune umanità, della pietas che lega tra loro uomini e popoli, che la specie mortale può salvarsi. Ora, cosa più della politica deve provvedere a ciò che è comune? Liberaci dal male è un’invocazione che si rivolge a Dio e per chi crede lo è ancora. Ma cos’altro è la realizzazione del regno, se non questo?».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETÀ. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
DANTE, IL LETARGO DI SECOLI, E LA CRISI DELL’EUROPA - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
Federico La Sala
Iniziativa
Manifesto per l’Università: Manfredi (Crui), “educare i giovani ad affrontare il cambiamento con curiosità e attenzione agli altri”
Manifesto per l’Università è un documento molto importante che è stato condiviso alla Conferenza dei rettori e dalla Conferenza episcopale per definire una piattaforma di valori comuni intorno ai quali portare avanti l’educazione dei nostri giovani, a partire dal tema dell’inclusione, della tolleranza, della comprensione degli altri nella diversità, della democrazia, che sono valori fondanti della formazione, mettendo al centro l’uomo e l’attualità dell’umanità”. Lo dichiara al Sir Gaetano Manfredi, presidente della Crui (Conferenza dei rettori delle Università italiane) e rettore dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”, a margine della firma, oggi pomeriggio a Roma, del Manifesto per l’Università sottoscritto da Cei e Crui. “Oggi - aggiunge - sono in atto grandi trasformazioni culturali, digitali, geopolitiche. Dobbiamo educare i giovani ad affrontare il cambiamento con curiosità e attenzione agli altri. È necessaria quest’alleanza che parte dalla cultura”. Dicendosi molto fiducioso dei frutti che potrà dare l’iniziativa, Manfredi ricorda che a livello concreto la collaborazione con le Università cattoliche già esiste, ma adesso, grazie al Manifesto, diventerà ancora più efficace. (AgenSir, 15-05.2019)
Russo (Cei) e Manfredi (Crui).
Vescovi e rettori firmano un Manifesto per l’Università
Tra gli obiettivi la possibilità di stipulare accordi tra atenei e diocesi per percorsi formativi che pongano al centro la persona
Enrico Lenzi (Avvenire, giovedì 16 maggio 2019)
«Alleati» per affrontare le «nuove sfide» per offrire alle nuove generazioni una università che sia «comunità di studio, di ricerca e di vita». È il cuore del «Manifesto per l’università» che la Conferenza dei rettori italiani (Crui) e la Conferenza episcopale italiana (Cei) hanno sottoscritto ieri nella sede romana della Crui, presenti il presidente dei rettori italiani, Gaetano Manfredi (che guida la Federico II di Napoli) e il segretario generale della Cei, il vescovo Stefano Russo.
Un Manifesto che «esprimendo concordanza di vedute», vuole porre le basi per un lavoro di collaborazione con la «costruzione di reti, al fine di promuovere la cittadinanza globale e lo sviluppo sostenibile». Il documento, infatti, nella sua prima parte, declina alcuni punti di convergenza che Crui e Cei hanno individuato sull’essenza dell’Università. Del resto la Chiesa italiana da sempre è attenta al mondo della scuola, dell’università e della ricerca, ritenendolo fondamentale per la costruzione del futuro. Posizioni spesso espresse anche dalla Conferenza dei rettori, che si è trovata a dover guidare in questi ultimi decenni diverse fasi critiche e di riforma del settore accademico.
I nove punti del Manifesto, delineano con chiarezza l’idea di università che serve al Paese. Una università che garantisca «il diritto all’educazione e alla cultura per rispondere alle vocazioni e alle attitudini di ciascuno», in una realtà che deve «essere una comunità di studio, di ricerca e di vita, dove la persona sia al centro dei percorsi formativi». Questo porre la persona al centro, nasce dal fatto di «promuovere un umanesimo solidale». Non può mancare «una cultura del dialogo e della libertà», in un sistema dove funzioni «autonomia e sussidiarietà». Università che sappia «integrare competenze formali e quelle informali», sapendo creare «una rete globale che faciliti lo scambio culturale e la mobilità di studenti e docenti», adoperandosi per «uno sviluppo integrale e sostenibile», con attenzione alla «cultura digitale». In questo quadro, Crui e Cei si impegnano a «favorire lo scambio reciproco di esperienza e informazioni», inserendo «nei programmi per la formazione moduli che diano conto dell’unitarietà della dimensione spirituale e culturale». Il tutto «valorizzando una didattica attenta alla persona e orientata alla formazione di una coscienza critica e solidale». Anche per questo c’è l’impegno a «favorire la nascita di accordi e protocolli a livello territoriale tra atenei e singole diocesi, che sappiano promuovere quella che viene chiamata «la terza missione» dell’università: didattica, ricerca e applicazione concreta di quanto prodotto.
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
Il linguaggio della Costituzione
di Giovanni Sabbatucci (La Stampa, 26.04.2019)
«La storia insegna che quando i popoli barattano la propria libertà in cambio di promesse di ordine e di tutela, gli avvenimenti prendono sempre una piega tragica e distruttiva». È uno dei passaggi centrali del discorso che Sergio Mattarella ha tenuto ieri a Vittorio Veneto, a conclusione delle celebrazioni del 25 aprile: l’ultimo di una serie di interventi in cui il presidente della Repubblica sembra aver tracciato una sorta di perimetro ideale della legittimità democratica e dell’etica repubblicana. Qualcosa di simile avevano fatto i suoi predecessori, soprattutto gli ultimi due. Ma in questo caso il riferimento è più puntuale e tutt’altro che neutro, visto che cade in una fase di accesa conflittualità politica: una fase in cui il dibattito pubblico tende a tracimare dall’alveo del fisiologico confronto fra idee e programmi per investire i principi di fondo in base ai quali siamo soliti definire le democrazie.
Vista in tale contesto, l’esortazione del capo dello Stato a non subordinare la difesa degli spazi di libertà alla ricerca di una maggiore tutela, o l’invito a non cedere alle sirene del nazionalismo sovranista (già evocato e condannato in numerosi interventi presidenziali) non possono non richiamare come modello negativo le democrazie illiberali e i regimi securitari dell’Est Europa. Ma il discorso suona anche come ammonimento implicito alle forze politiche italiane (Lega e Fratelli d’Italia) che a quei modelli dichiaratamente si ispirano.
Vanno nello stesso senso - anche se i destinatari politici del messaggio non coincidono specularmente - la condanna della violenza, seppur consumata in uno scenario bellico e in risposta ad altre violenze, e del ricorso alla giustizia sommaria, sempre incompatibile con la democrazia. Un accenno non casuale, in un discorso pronunciato nel giorno della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, in una terra di confine già teatro di conflitti e di violenze e in un paese che ricorda col suo nome la vittoria italiana nella prima guerra mondiale, riproponendo quel filo di continuità (simbolica più che storica) fra Risorgimento, Grande Guerra e Resistenza che già fu caro a Carlo Azeglio Ciampi. Ma è difficile non cogliere in quella condanna anche un’eco delle recenti polemiche politiche sull’uso delle armi e sulla legittima difesa.
Non credo sia il caso di spingersi troppo oltre nella lettura in chiave politica degli ultimi interventi di Sergio Mattarella. O di ipotizzare anche per il suo settennato - come per quelli dei suoi predecessori, da Francesco Cossiga a Giorgio Napolitano - un secondo tempo di accentuato interventismo, che seguirebbe un primo tempo caratterizzato da stretto riserbo istituzionale. Certo la stessa situazione che l’Italia sta vivendo, segnata da una doppia conflittualità fra maggioranza e opposizione e all’interno della stessa maggioranza, potrebbe determinare, quasi per legge fisica, un ulteriore allargamento degli spazi di intervento presidenziale. Finora, però, Mattarella si è tenuto rigorosamente nei limiti del suo mandato. Ha espresso pareri e formulato giudizi anche gravi, ma sempre usando il lessico della democrazia liberale ed evitando ogni riferimento esplicito al confronto fra i partiti e all’azione di governo.
La Costituzione repubblicana, del resto, non si limita a condannare le dittature e i fascismi propriamente detti. Ma contiene in alcuni suoi articoli (vanno ricordati almeno il 9 sulle norme del diritto internazionale e sulla condizione degli stranieri e il 10 sulla guerra e sull’adesione agli organismi internazionali) norme difficilmente compatibili con i modelli nazionalisti e sovranisti. Finché non sarà cambiata, andrà rispettata nello spirito oltre che nella lettera.
DANTE, OGGI. PER UNA NUOVA "BUSSOLA TEOLOGICA" .... *
Classici.
Più fede nella politica, la lezione di Dante
La vicenda biografica e intellettuale del grande fiorentino si rivela di grande attualità ancora oggi, specie per quanto riguarda l’impegno dei credenti a favore del bene comune
di Gabriella M.Di Paola Dollorenzo (Avvenire, 17 febbraio 2019)
L’intervista al cardinale Gualtiero Bassetti (Avvenire, 9 dicembre 2018) ha riportato la nostra attenzione «sull’impegno concreto e responsabile dei cattolici in politica». Già nell’inchiesta del mensile Jesus sul «tempo del rammendo » (ottobre 2018), il presidente della Cei aveva rimarcato l’urgenza di ricostruire una presenza laicale che guardasse alla politica come a un’avventura positiva, nella necessità di una classe dirigente in grado di opporre alla sfiducia popolare un forte senso di concretezza e di responsabilità. Queste virtù o, per meglio dire, questi talenti ci permettono di richiamare la coerenza del pensiero politico di Dante così come ebbe a svilupparsi, sia negli anni di politica attiva sia dopo l’esilio e parallelamente allo svolgersi del suo pensiero teologico nella Commedia. Considerare l’architettura del suo pensiero, il rapporto tra teoria e prassi, l’utilizzo anzi l’interazione delle fonti (Sacre Scritture, autori grecolatini, testi arabi) può essere utile per individuare l’archetipo del cristiano impegnato nella realtà politica del proprio tempo, con l’ambizione di tradurre l’imitatio Christi nel concreto operare all’interno della res publica.
La vicenda umana del Poeta incardinato nella realtà politica del suo tempo, specialmente negli anni che vanno dalla morte di Beatrice (1290) alla condanna all’esilio (1302), ci permette di riflettere sul rapporto teologia- politica, così come fu duramente ma appassionatamente vissuto, in «un crescendo di temerarietà e di coerenza» (Giorgio Petrocchi, Vita di Dante, 1993) e, nello stesso tempo, avendo ben salda la «coscienza della storia», quell’habitus morale in base al quale «gli avvenimenti non si confondono caoticamente nella memoria, ma sono collegati dalla coscienza della causa e dell’effetto, dell’iniziativa e della responsabilità» (Romano Guardini, Dante, 2008). Se accogliamo l’approccio euristico di Jürgen Moltmann (si veda in particolare Dio nel progetto del mondo moderno, edito da Queriniana nel 1999), possiamo capire in che senso la teologia può “binarizzarsi” con la politica determinando le scelte tra il bene e il male, nel concreto avvicendarsi della storia di una città, di una nazione, di un popolo. Non è un caso che la formazione filosofico-teologica di Dante preceda cronologicamente l’attività politica, anzi ne sia quasi il trampolino di lancio: «Io che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocaboli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti » ( Convivio, II, xii, 5-7).
Dopo aver approfondito l’Etica Nicomachea e la Politica di Aristotele (nella traduzione latina di Guglielmo di Moerbeke e col commento di Tommaso d’Aquino), nel libro II del Convivio si rivendica il primato della morale. Dante va oltre Tommaso d’Aquino: se la metafisica è la scienza di Dio, l’uomo potrà cercare lo status felicitatis in questa vita e, dato che l’uomo è un animale sociale, in una politica regolata dalla morale. Pertanto non è conforme alla morale rinchiudersi nella contemplazione dell’intelligibile, quando l’odio e la violenza di parte sconvolgono la comunità in cui si vive.
Nel 1294, anno dell’elezione e successiva abdicazione di Celestino V, nonché dell’ascesa al papato di Bonifacio VIII, Dante ha un ruolo diplomatico- culturale di primo piano nella delegazione dei cavalieri destinati dal Comune al seguito dell’imperatore Carlo Martello. In seguito, con la stesura del Paradiso, Dante potrà immaginare un incontro con Carlo al cospetto di Dio; il dialogo tra i due, con esplicito richiamo alla Politica di Aristotele, ma anche al De Anima, ha una precisa connotazione teologica: «“Vuo’ tu che questo ver più ti s’imbianchi?”. /E io: “Non già; ché impossibil veggio / che la natura, in quel ch’è uopo, stanchi”. / Ond’ elli ancora: “Or dì: sarebbe il peggio /per l’omo in terra, se non fosse cive?”. / “Sì”, rispuos’ io; “e qui ragion non cheggio”. / “E puot’ elli esser, se giù non si vive /diversamente per diversi offici? / Non, se ’l maestro vostro ben vi scrive”» ( Paradiso, VIII, 113-120).
Sarebbe un male per l’uomo sulla terra se non facesse parte di un ordine civile, di un organismo sociale? E può esistere un’organizzazione civile se i suoi membri non siano ordinati a vivere esercitando diverse funzioni? E Dante risponde “sì” alla prima domanda e “no” alla seconda. La naturale politicità dell’uomo si accompagna alla necessità di distinguere gli offici poiché Nihil frustra natura facit (Politica I, 2).
Il quinquennio successivo al 1294 segnerà intensamente la vita e l’opera di Dante proprio perché continuo sarà lo scambio tra teoria e prassi, una prassi in toga candida: dalla riflessione filosofica riguardo al primato della morale alla traduzione di ciò nella vita della polis, una sorta di ragion pratica kantiana ante litteram: impegno civile, riflessione morale, tenace inseguimento della giustizia.
Proprio quando Firenze è dilaniata da lotte sociali interne e lo stesso papato non è immune dalla brama di potere che assale i partiti politici, Dante tiene ben ferma la barra del suo operare cristiano, perché è fermamente convinto di agire nella direzione indicata dalla bussola teologica. In questo atteggiamento riconosciamo l’attualità del suo pensiero politico e del suo agire politico. Dopo la condanna, negli anni dell’esilio, Dante consegnerà alle pagine del Convivio, della Commedia, ma soprattutto del trattato Monarchia, la riflessione teorica frutto della sua esperienza politica. È un progetto in fieri perché dovrà fare i conti col divenire della storia, è un progetto politico voluto da Dio per il bene dell’umanità.
Dopo la fine del potere temporale dei Papi, la Chiesa, a partire dall’enciclica In praeclara summorum (1921) di Benedetto XV, fino al Messaggio al presidente del Pontificio Consiglio della cultura in occasione del 750° anniversario della nascita di Dante Alighieri (2015) di papa Francesco, ha pienamente rivendicato, si pensi alla mirabile Altissimi cantus, la lettera apostolica di Paolo VI, l’appartenenza di Dante alla Chiesa cattolica e alla fede di Cristo, proprio considerando la sua battaglia di cristiano impegnato nella vita politica del suo tempo e nella sua somma opera teologica.
Oggi l’umanesimo cristiano di Dante può essere una traccia da seguire nella comunicazione religiosa e laica che stiamo vivendo. Per la preparazione del laicato cattolico alla vita politica, il pensiero di Dante può diventare una “bussola teologica”. Il rapporto tra fede, morale e politica, vissuto alla luce dei valori cristiani, che fece di Dante il segno di contraddizione della sua epoca, oggi fa di lui un nostro contemporaneo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Catechesi sul “Padre nostro”: 7. Padre che sei nei cieli
di Papa Francesco *
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
L’udienza di oggi si sviluppa in due posti. Prima ho fatto l’incontro con i fedeli di Benevento, che erano in San Pietro, e adesso con voi. E questo è dovuto alla delicatezza della Prefettura della Casa Pontificia che non voleva che voi prendeste freddo: ringraziamo loro, che hanno fatto questo. Grazie.
Proseguiamo le catechesi sul “Padre nostro”. Il primo passo di ogni preghiera cristiana è l’ingresso in un mistero, quello della paternità di Dio. Non si può pregare come i pappagalli. O tu entri nel mistero, nella consapevolezza che Dio è tuo Padre, o non preghi. Se io voglio pregare Dio mio Padre incomincio il mistero. Per capire in che misura Dio ci è padre, noi pensiamo alle figure dei nostri genitori, ma dobbiamo sempre in qualche misura “raffinarle”, purificarle. Lo dice anche il Catechismo della Chiesa Cattolica, dice così: «La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio» (n. 2779).
Nessuno di noi ha avuto genitori perfetti, nessuno; come noi, a nostra volta, non saremo mai genitori, o pastori, perfetti. Tutti abbiamo difetti, tutti. Le nostre relazioni di amore le viviamo sempre sotto il segno dei nostri limiti e anche del nostro egoismo, perciò sono spesso inquinate da desideri di possesso o di manipolazione dell’altro. Per questo a volte le dichiarazioni di amore si tramutano in sentimenti di rabbia e di ostilità. Ma guarda, questi due si amavano tanto la settimana scorsa, oggi si odiano a morte: questo lo vediamo tutti i giorni! E’ per questo, perché tutti abbiamo radici amare dentro, che non sono buone e alle volte escono e fanno del male.
Ecco perché, quando parliamo di Dio come “padre”, mentre pensiamo all’immagine dei nostri genitori, specialmente se ci hanno voluto bene, nello stesso tempo dobbiamo andare oltre. Perché l’amore di Dio è quello del Padre “che è nei cieli”, secondo l’espressione che ci invita ad usare Gesù: è l’amore totale che noi in questa vita assaporiamo solo in maniera imperfetta. Gli uomini e le donne sono eternamente mendicanti di amore, - noi siamo mendicanti di amore, abbiamo bisogno di amore - cercano un luogo dove essere finalmente amati, ma non lo trovano. Quante amicizie e quanti amori delusi ci sono nel nostro mondo; tanti!
Il dio greco dell’amore, nella mitologia, è quello più tragico in assoluto: non si capisce se sia un essere angelico oppure un demone. La mitologia dice che è figlio di Poros e di Penía, cioè della scaltrezza e della povertà, destinato a portare in sé stesso un po’ della fisionomia di questi genitori. Di qui possiamo pensare alla natura ambivalente dell’amore umano: capace di fiorire e di vivere prepotente in un’ora del giorno, e subito dopo appassire e morire; quello che afferra, gli sfugge sempre via (cfr Platone, Simposio, 203). C’è un’espressione del profeta Osea che inquadra in maniera impietosa la congenita debolezza del nostro amore: «Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (6,4). Ecco che cos’è spesso il nostro amore: una promessa che si fatica a mantenere, un tentativo che presto inaridisce e svapora, un po’ come quando al mattino esce il sole e si porta via la rugiada della notte.
Quante volte noi uomini abbiamo amato in questa maniera così debole e intermittente. Tutti ne abbiamo l’esperienza: abbiamo amato ma poi quell’amore è caduto o è diventato debole. Desiderosi di voler bene, ci siamo poi scontrati con i nostri limiti, con la povertà delle nostre forze: incapaci di mantenere una promessa che nei giorni di grazia ci sembrava facile da realizzare. In fondo anche l’apostolo Pietro ha avuto paura e ha dovuto fuggire. L’apostolo Pietro non è stato fedele all’amore di Gesù. Sempre c’è questa debolezza che ci fa cadere. Siamo mendicanti che nel cammino rischiano di non trovare mai completamente quel tesoro che cercano fin dal primo giorno della loro vita: l’amore.
Però, esiste un altro amore, quello del Padre “che è nei cieli”. Nessuno deve dubitare di essere destinatario di questo amore. Ci ama. “Mi ama”, possiamo dire. Se anche nostro padre e nostra madre non ci avessero amato - un’ipotesi
storica -, c’è un Dio nei cieli che ci ama come nessuno su questa terra ha mai fatto e potrà mai fare. L’amore di Dio è costante. Dice il profeta Isaia: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato» (49,15-16).
Oggi è di moda il tatuaggio: “Sulle palme delle mie mani ti ho disegnato”. Ho fatto un tatuaggio di te sulle mie mani. Io sono nelle mani di Dio, così, e non posso toglierlo. L’amore di Dio è come l’amore di una madre, che mai si può dimenticare. E se una madre si dimentica? “Io non mi dimenticherò”, dice il Signore. Questo è l’amore perfetto di Dio, così siamo amati da Lui. Se anche tutti i nostri amori terreni si sgretolassero e non ci restasse in mano altro che polvere, c’è sempre per tutti noi, ardente, l’amore unico e fedele di Dio.
Nella fame d’amore che tutti sentiamo, non cerchiamo qualcosa che non esiste: essa è invece l’invito a conoscere Dio che è padre. La conversione di Sant’Agostino, ad esempio, è transitata per questo crinale: il giovane e brillante retore cercava semplicemente tra le creature qualcosa che nessuna creatura gli poteva dare, finché un giorno ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. E in quel giorno conobbe Dio. Dio che ama.
L’espressione “nei cieli” non vuole esprimere una lontananza, ma una diversità radicale di amore, un’altra dimensione di amore, un amore instancabile, un amore che sempre rimarrà, anzi, che sempre è alla portata di mano. Basta dire “Padre nostro che sei nei Cieli”, e quell’amore viene.
Pertanto, non temere! Nessuno di noi è solo. Se anche per sventura il tuo padre terreno si fosse dimenticato di te e tu fossi in rancore con lui, non ti è negata l’esperienza fondamentale della fede cristiana: quella di sapere che sei figlio amatissimo di Dio, e che non c’è niente nella vita che possa spegnere il suo amore appassionato per te.
*
PAPA FRANCESCO - UDIENZA GENERALE -Aula Paolo VI
Mercoledì, 20 febbraio 2019 (ripresa parziale).
A novant’anni dal Concordato firmato da Mussolini e Pio XI
Stato-Chiesa, i nodi irrisolti
di Chiara Saraceno (Il Mulino, 11 febbraio 2019)
Sono trascorsi novant’anni da quando, l’11 febbraio 1929, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica sono stati regolati da un concordato. Un tempo sufficientemente lungo per consentire un bilancio e per verificare se non sia opportuna una nuova revisione, dopo quella operata nel febbraio 1984 sotto il governo Craxi, con la duplice parziale correzione sia dei Patti lateranensi sia del concordato vero e proprio. Una revisione e una correzione, peraltro, dagli esiti ambigui.
In primo luogo, ancora oggi rimane in vigore la norma secondo la quale - nel matrimonio concordatario - in caso di annullamento la norma canonica prevale su quella civile, nonostante i criteri (oltre che i giudici) che presiedono all’annullamento religioso siano difformi da quelli che presiedono all’annullamento civile.
Inoltre, l’eliminazione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato non ha eliminato affatto l’obbligo per lo Stato di garantire l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche e, anzi, lo estendeva alle scuole materne, escludendo solo l’università. Il costo finanziario per lo Stato di tale obbligo - sotto forma di stipendi pagati a insegnanti reclutati non dallo Stato bensì dalla Chiesa cattolica - è stato stimato in 1,25 miliardi di euro l’anno. Per mantenere una schiera numerosa di insegnanti di religione a fronte di una crescente diminuzione di coloro che ne frequentano l’insegnamento, raramente viene utilizzata la possibilità, pure prevista dalle modifiche del 1984, di accorpare le classi.
Peraltro, anche la modifica da una condizione di obbligatorietà per gli studenti a partecipare alle lezioni di religione, salva una richiesta di esenzione, alla facoltà di decidere se avvalersene o meno è rimasta in condizione di ambiguità.
L’insegnamento di religione, infatti, fa parte a pieno titolo dell’orario scolastico e può essere collocato in qualsiasi posizione, a prescindere dal numero di studenti per classe che se ne avvale. L’insegnante di religione partecipa a pieno titolo al collegio dei docenti e il suo voto "fa media". Quanto agli studenti che scelgono di non frequentare religione, inclusi i bambini della scuola materna, sono loro a dover uscire di classe per partecipare ad attività alternative più o meno fasulle, lasciate alla discrezione e alla buona volontà dell’insegnante loro assegnato. Ma senza avere l’alternativa di un’ora di scuola in meno, salvo che casualmente l’ora di religione sia messa alla prima o all’ultima ora. Una situazione apparentemente migliore rispetto a quando gli "esonerati" passavano l’ora di religione in corridoio.
Di fatto, tuttavia, chi "non si avvale" dell’insegnamento della religione cattolica continua ad avere meno diritti, in termini di risorse dedicate, di chi "si avvale". Mentre i loro genitori - tramite le imposte - finanziano l’insegnamento della religione cattolica.
Del tutto in contrasto con l’obiettivo del finanziamento da parte dei fedeli si è rivelato il meccanismo dell’8 per mille. In linea di principio, il passaggio dalla congrua - ovvero dal sostentamento del clero direttamente a carico dello Stato, appunto al finanziamento da parte dei fedeli tramite la devoluzione di una quota delle imposte dovute - è stato molto positivo.
Tuttavia, la formulazione di questa norma si è prestata nel tempo e tuttora si presta a un enorme imbroglio a carico dei contribuenti.
In base alla legge 222/85, infatti, ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può scegliere la destinazione dell’8 per mille del proprio gettito Irpef a un’istituzione religiosa che con lo Stato ha stipulato vuoi, come nel caso della Chiesa cattolica, un concordato, vuoi un’intesa, oppure scegliere di destinarlo allo Stato. Mentre all’inizio l’opzione era ristretta a quella tra Stato e Chiesa cattolica, oggi si può scegliere tra tredici alternative: Stato (per scopi sociali e assistenziali), Chiesa cattolica, Unione chiese cristiane avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle chiese metodiste e valdesi, Chiesa evangelica luterana in Italia, Unione comunità ebraiche Italiane, Unione buddhista, Unione induista, Chiesa apostolica, Sacra diocesi ortodossa d’Italia, Unione cristiana evangelica battista d’Italia e infine, dal 2017, l’istituto buddista italiano Soka gakkai.
Il problema è che non viene attribuita a ciascuna istituzione solo la quota dell’8 per mille per la quale i contribuenti hanno effettuato una scelta precisa - come avviene per il 5 per mille destinato a associazioni non profit - ma anche la quota non specificamente attribuita viene suddivisa in base alle percentuali delle scelte effettuate. Chi non sceglie, ritenendo ingenuamente che il suo 8 per mille rimanga allo Stato, di fatto subisce le preferenze di chi invece lo ha fatto. Stante che negli anni il numero di coloro che effettuano una scelta è progressivamente diminuito ma la priorità delle scelte è rimasta per la Chiesa Cattolica, questa si prende anche il grosso della quota di chi non ha inteso designarla come beneficiaria.
In base agli ultimi dati disponibili - riferiti alle dichiarazioni dei redditi effettuate nel 2015 - solo il 44% degli oltre quaranta milioni di contribuenti aveva espresso una scelta e solo il 35% per la Chiesa cattolica, la quale, tuttavia, in base a una distribuzione proporzionale dell’intero ammontare dell’8 per mille ne ha ricevuto l’81,21% , pari a 1.005.390.045 euro. Anche le altre Chiese ricevono beneficio da questo meccanismo a dir poco ambiguo, anche se si tratta di briciole. Si aggiunga che, a differenza di quanto fanno molte Chiese, lo Stato non pubblicizza neppure l’opzione a proprio favore, e tantomeno esplicita a che cosa destinerebbe l’eventuale gettito, contribuendo all’opacità del tutto e generando sfiducia.
Non vi è, inoltre, l’opzione di destinare il proprio 8 per mille ad associazioni che si battono per la laicità dello stato o che sostengono l’ateismo, mettendo, di nuovo, i cittadini in condizioni di disuguaglianza rispetto alla possibilità di sostenere finanziariamente il proprio orientamento rispetto al fenomeno religioso. Possono farlo solo destinando il 5 per mille, che è normato diversamente.
Alla luce di questi e altri aspetti altamente problematici per la laicità dello Stato, l’uguaglianza dei cittadini (anche minorenni), la trasparenza nei rapporti tra Stato e cittadini, in questi giorni un gruppo di 150 esponenti del mondo della cultura e difensori dei diritti civili ha firmato un appello al Parlamento, al governo, alle forze politiche, affinché - in attesa di tempi più favorevoli a una radicale revisione, se non al superamento, del Concordato - si intervenga per dare almeno piena attuazione alle finalità degli accordi del 1984, con l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica e la revisione degli attuali criteri di ripartizione della quota "non destinata" dell’8 per mille. A queste due richieste si aggiunge quella di un’azione determinata per dare attuazione alla recente sentenza della Corte europea, recuperando nella misura del possibile l’Ici non pagata in passato, 4-5 miliardi di euro. Si tratta, a me pare, di proposte civili e rispettose della reciproca autonomia tra Stato e Chiese. Ma sono sicura che - se non sepolte dal silenzio imbarazzato dei media "laici" - saranno oggetto di anatemi di vario tipo.
I cattolici in politica per costruire il futuro
Oggi come 100 anni fa, l’impegno non è rivolto al passato ma riguarda
la capacità di immaginare una via d’uscita dalla crisi delle società avanzate
di Mauro Magatti (Corriere della Sera, 06.02.2019)
Nelle ultime settimane, in occasione dei cento anni dell’Appello ai liberi e forti di Sturzo, si è riacceso il dibattito sul ruolo dei cattolici in politica (Galli della Loggia e Panebianco sul Corriere ). Comunque la si pensi, il tema è oggi rilevante per almeno due ragioni. In primo luogo perché nell’Italia a pezzi di oggi il variegato mondo cattolico, nonostante la secolarizzazione incalzante, continua a essere - seppur tra mille difficoltà - una delle poche presenze rilevanti. E in secondo luogo perché, nel cambio d’epoca che stiamo attraversando, il rapporto tra politica e religione è tornato centrale. Nel post-2008, in un mondo diventato multipolare, la ricerca di un nuovo equilibrio tra identità cultuali e sviluppo tecno-economico spinge le diverse aree del pianeta a posizionarsi secondo una logica che ricorda da vicino le tesi dello Scontro delle civiltà di Samuel Huntington. Dove la dimensione religiosa è necessariamente tirata in ballo.
Non a caso, in Occidente, le varie forme della nuova destra (da Trump a Orbán a Bolsonaro) sono sostenute dall’ala più conservatrice del mondo cristiano. Un’alleanza teorizzata da Bannon e costruita contro due «nemici»: la cultura progressista (che ha il torto di combinare la fede nella innovazione tecnoscientifica con i diritti individuali); e il mondo islamico, storico avversario oggi accusato di minacciare la cristianità attraverso l’immigrazione e il terrorismo. La «democrazia illiberale» di cui parla Orbán è il prodotto di una nuova «santa alleanza» tra politica e religione - da realizzare su base nazionale - per sconfiggere i due avversari sopra richiamati. La capacità di mobilitare i fermenti identitari di parte del mondo religioso costituisce un elemento importante nella spiegazione dell’avanzata dei nuovi partiti sovranisti. In Italia la presenza di papa Francesco - con i conseguenti orientamenti della Cei - ha finora limitato l’uso da parte di Salvini dei simboli religiosi. Ma sotto la cenere, la brace brucia.
Cento anni fa, col suo appello, Sturzo tentò di radunare le forze cattoliche per evitare la dissoluzione della democrazia, stretta tra le destre emergenti e le sterili convulsioni della sinistra. Oggi in Italia, in Europa, in Occidente, quel bisogno si ripropone: come allora, il disordine mondiale sta risucchiando gli strati popolari su posizioni estremiste. Col consenso di quella parte del mondo religioso che spera in una rivincita nei confronti della secolarizzazione.
Rispetto a 100 anni fa, si possono notare una somiglianza e una differenza. Sturzo fu il prodotto più maturo della lettura che l’Enciclica Rerum Novarum aveva offerto dei grandi cambiamenti prodotti dall’industrializzazione. Come allora, anche oggi il mondo cattolico ha a disposizione un testo (Laudato si’) che per ampiezza e ricchezza è in grado di fornire la cornice di riferimento per l’azione negli ambiti economico, sociale e politico. La differenza è che l’Appello a i liberi e forti arrivò dopo più di 20 anni spesi ad animare la presenza civile dei cattolici. Vero e proprio tirocinio nella carne delle società, che permise a Sturzo di maturare una concezione politica realista e vicina ai problemi reali delle persone.
Per quanto nel Paese ci sia molto di più di quello che emerge nella comunicazione pubblica, e per quanto molto di questo nuovo venga proprio dalla radice cattolica, c’è da domandarsi se sia già il tempo di serrare le fila o se non sia invece il momento di lavorare con più determinazione a innovare i processi dell’economia, della società, dei territori in modo da maturare i termini di una proposta adeguata ai tempi che viviamo.
Inutile cercare si rispondere in astratto a questa domanda. Quello che occorre fare è partire subito e comunque dalla società: ascoltando i bisogni e i sogni del «popolo» (termine caro a papa Francesco) e orientandoli nella direzione indicata dalla Laudato si’. E cercando poi di capire, strada facendo, quale siano i modi e le forme più adatte per contribuire al rilancio del Paese.
Quel che deve essere chiaro è che un impegno dei cattolici in politica, oggi come 100 anni fa, non riguarda la difesa di un’identità o di interessi di parte. Riguarda invece la capacità di questo sguardo sul mondo di immaginare una via d’uscita dalla crisi nella quale le società avanzate si trovano oggi. Nella convinzione che la radice cristiana abbia qualcosa da dire sul futuro e non solo sul passato.
Fu questa la grande sfida di Sturzo, che, nonostante le sue personali traversie politiche, alla fine portò frutti importanti. Il suo lavoro sul campo e la sua ispirazione politica furono infatti decisivi per la nascita dei partiti di ispirazione cristiana che, nel dopoguerra, ebbero un ruolo importante a livello internazionale.
Circa un eventuale ritorno dell’impegno dei cattolici in politica, sarà dunque di questo che si dovrà parlare: lo sguardo cristiano è capace di dire una parola nuova sulla crisi del mondo contemporaneo? Di costruire un consenso, ben al di là dei propri confini identitari, attorno alle linee tracciate dalla Laudato si’? Di essere voce di quei radicamenti concreti (nel mondo dell’impresa, della ricerca, delle professioni, del sociale e così via) da cui trarre anche quella classe dirigente di cui tutti sentono la mancanza?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il “sacro dovere” e l’erosione della costituzione
di Francesco Palermo *
La costituzione è il perimetro entro il quale si può muovere la politica con le sue scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee deve svolgersi secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata a degli arbitri, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il Presidente della Repubblica. È pertanto non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la costituzione può svolgersi la politica. La costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: non avrai altro Dio all’infuori di me. E non può esserci politica al di fuori della costituzione.
Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati ad interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’interno ha invocato l’articolo 52 della costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due pur diverse vicende della nave Diciotti da un lato e della nave Sea Watch dall’altro, il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul “sacro dovere” di ciascun cittadino alla “difesa della patria”, previsto appunto dall’articolo 52 della costituzione.
La disposizione non ha naturalmente nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della costituzione. Non a caso il testo definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della costituente. Erano tutti d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo. Il richiamo al “sacro dovere” della “difesa della Patria” ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione (“sacro dovere”), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti. Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’art. 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo ricollega a tale contesto, facendo intuire che “l’invasione” dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della costituzione, di eroderne il ruolo di limite e di parametro dell’attività politica. Un’erosione che continua da tempo, trasversalmente alle forze politiche, e di cui questo caso è solo l’esempio più recente. Così facendo si arriva però a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della costituzione. Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale. O forse sì. E infatti l’operazione funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della costituzione - il più importante - sfugga. Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che non è “solo” quella dei migranti, ma quella della costituzione. Su cui siamo imbarcati tutti...
* 31.01.2019 - "Il sacro dovere e la sua torsione populista" (Il Mulino)
Federico La Sala
Memoria
Massimo Castoldi, il libro
Il coraggio dei maestri antifascisti
La storia di dodici insegnanti che si opposero alla dittatura. Lo studioso porta alla luce per Donzelli esempi eroici di educatori perseguitati e uccisi dal regime di Mussolini
di CORRADO STAJANO *
Com’è importante la figura del maestro in una società civile. Sotto una dittatura, poi, quanto pesano la sua dignità, il suo coraggio per far sì che i bambini a lui affidati crescano nel rispetto delle regole dei rapporti umani cancellate dal regime, qualsiasi regime. È uscito da Donzelli un libro di Massimo Castoldi, professore di Filologia italiana all’Università di Pavia, studioso della memorialistica della Resistenza: Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti. Un libro amaro, doloroso, commovente, utile a far capire perché quel passato deve davvero passare per sempre, soprattutto oggi che il fascismo sembra venga guardato con indulgenza. (Sere fa, durante il programma di Lilli Gruber, Luciano Canfora spiegò con limpidezza a un giornalista di idee nerastre, ignorante anche nel linguaggio, che cosa significa la parola fascistoide, purtroppo tornata nel clima di una certa politica del nostro tempo).
Nei primi vent’anni del Novecento, scrive Massimo Castoldi, il maestro elementare aveva acquistato una centralità nella vita socio-culturale del Paese: era impegnato nella lotta contro l’analfabetismo, per un’istruzione sempre più diffusa, per cercar di sanare i mali dell’epoca, le malattie, la fame, la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie. Compito del maestro non era soltanto quello di insegnare a leggere e a scrivere, ma anche a vivere meglio, a creare una comunità in cui gli uomini e le donne fossero rispettosi di se stessi e degli altri. Sono gli anni delle leghe contadine, delle Società di Mutuo soccorso, delle università popolari, dei circoli operai, delle cooperative, delle Camere del lavoro, delle casse rurali, del socialismo umanitario nascente.
Poi il fascismo che frantumò ogni idea di libertà: «I bimbi d’Italia si chiaman balilla». Piccoli soldati in uniforme, con moschettini modello ’38, forse fieri del loro dissennato giuramento d’obbligo: «Giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista». Poveri bambini ignari. Coi maestri in orbace e il pugnaletto alla cintura.
Ma c’erano anche gli altri, i disubbidienti della libertà che spesso rischiavano il posto e anche la vita come Carlo Cammeo trucidato nel 1921 a Pisa sulla soglia della sua classe, come Salvatore Principato, fucilato dai fascisti della «Muti» in piazzale Loreto a Milano, per ordine dei tedeschi, nel 1944. Il libro non vuole fare un elenco di chi si oppose, vittima della dittatura fascista. È la storia di dodici maestri e maestre che seppero far fronte, ma è anche l’analisi di una società minuta e spesso sconosciuta.
Sono vicende tristi, quelle raccontate da Massimo Castoldi. Come la vita di Alda Costa, la maestra di cui scrisse Giorgio Bassani nelle Cinque storie ferraresi: la Costa è la Clelia Trotti del racconto, socialista riformista, appassionata alla condizione sociale dei bambini, contro la guerra, vittima delle persecuzioni dei fascisti che la insultavano sui loro giornali e a Bologna, nel 1922, l’aggredirono in trecento, le strapparono le vesti, le sputarono addosso, la costrinsero a bere l’olio di ricino perché si era rifiutata di inneggiare al fascismo. Fu denunziata, non rispettava l’obbligo del saluto romano e seguitava a rivendicare la sua fede socialista. Sospesa, licenziata, inviata al confino alle isole Tremiti per cinque anni, arrestata di nuovo quando il federale fascista Ghisellini fu giustiziato a Ferrara: la vicenda è narrata nel film La lunga notte del ’43.
Popolano il libro nomi di uomini e di donne che non sono passati alla storia, ma che spiegano nel profondo che cosa fu il fascismo. Anselmo Cessi, un maestro cattolico che infastidiva i fascisti per la sua appassionata azione sociale nel Mantovano, fu ucciso nel 1926 mentre passeggiava con la moglie a Castel Goffredo; Mariangela Maccioni, una maestra antifascista sarda - 90 alunni - angariata perché si era rifiutata di fare una lezione sul Duce, sospesa più volte dall’insegnamento. Alla sua morte scrisse sul «Ponte» Salvatore Cambosu: «C’era in lei la forza e la gentilezza antica dell’ulivo».
E poi Abigaille Zanetta, socialista, antimilitarista, comunista, espulsa dalla scuola dal podestà di Milano Ernesto Belloni, «per non sufficiente adattamento alle direttive politiche del governo», arrestata, incarcerata, cercò di sopravvivere con qualche lezione privata. Non ebbe neppure la gioia della Liberazione. Morì un mese prima.
Con il medesimo destino di perseguitati coraggiosi, tra gli altri, Fabio Maffi, Carlo Fontana, Aurelio Castoldi, Giuseppe Latronico, Anna Botto, la maestra di Vigevano che portò l’intera scolaresca alla messa funebre per il partigiano Carlo Alberto Crespi e finì poi a Ravensbrück nel forno crematorio, Salvatore Principato, già ricordato, uno dei quindici martiri di piazzale Loreto, intellettuale attivo nel lavoro culturale, partigiano socialista, dentro e fuori di prigione. Il suo nome resta, per sempre, nelle poesie di Salvatore Quasimodo, Alfonso Gatto, Franco Loi.
Quanto contano le parole nel far rivivere la memoria smarrita della libertà e della giustizia. Le pagine di questo libro lo documentano.
Oggi sarà una giornata eccezionale
Nel ricordo di un testimone *
di L’Osservatore Romano, 24 gennaio 2019
Uno dei pochi testimoni ancora in vita è Guido Gusso - in quel periodo “aiutante di camera” del Papa - che accompagnò Giovanni XXIII a San Paolo e assistette allo storico annuncio.
Ci racconta cosa è successo quel giorno?: una giornata eccezionale, nel ricordo di un testimone.
Ricordo proprio bene quel giorno, il 25 gennaio 1959. Ho dato una mano al Santo Padre a mettersi i paramenti, cioè il rocchetto e la mozzetta. E lui mi ha detto: «Guido, prendi il rocchetto più bello perché oggi sarà una giornata eccezionale, ché dovrò dare un grande annuncio». Allora ho messo a posto tutto, il mantello rosso, il cappello rosso e siamo scesi per prendere l’auto.
Guidava lei?
La portava il cavalier Angelo Stoppa, che era l’autista di Papa Pacelli. Durante il percorso, il Papa si era come assorto, non parlava. Normalmente, lui parlava sempre... ma quel giorno, quella mattina, tutto in silenzio. Siamo arrivati a San Paolo, c’è stata la cerimonia, e poi ha invitato tutti i cardinali ad andare nella “saletta”, una piccola aula. E là mi sono fermato anch’io, perché avevo il cappello, il mantello e la borsa. E lui ha annunciato che avrebbe fatto un sinodo, il Sinodo romano, che il Sinodo sarebbe quello per i preti. Già a Venezia l’aveva fatto, perché io stavo a Venezia con lui. Poi, dopo aver parlato un po’ del Sinodo disse: «Vi debbo dare un grande annuncio: indirò un Concilio». Al momento c’è stato un «ohhhhh!», e poi un silenzio di tomba. Nessuno ha più parlato. E poi c’è stato un brontolio generale... Lui ha spiegato... e poi ha detto anche che doveva fare un’altra cosa...
La riforma del Codice.
La riforma del Codice, ecco. Ha spiegato un po’, e tutti sono andati via, ognuno per conto suo. Il Papa è salito in macchina, serio. E disse: «Non l’hanno presa bene: questa cosa del Concilio a nessuno gli garbava». E basta. Poi siamo tornati a casa. Allora, in camera da letto, mentre si levava il rocchetto, la mozzetta e tutti i paramenti che aveva addosso, io gli chiesi: «Santità, io sono ignorante, non so che cosa sia questo Concilio». «Eh - diceva - come non lo sai?». «No - dissi - ma mi consola che quel cardinale che stava vicino a me ha chiesto al suo collega: “Di’ un po’, ma che è ‘st’affare del Concilio, che non so che cosa sia?”». Allora lui, con pazienza, mi ha fatto sedere nel suo studio e mi ha spiegato i Concili, incominciando dai primi Concili che facevano all’epoca, mi pare secondo o terzo secolo, per arrivare poi al Concilio di Trento e all’ultimo, il concilio Vaticano I, che poi è stato sospeso, perché c’è stata la presa di Roma con Pio IX.
Quindi, alla fine, quel giorno lui era contento o no?
Era contento, altroché contento! È stata un’ispirazione, diceva: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi». Questo era quello che voleva.
E si è meravigliato della reazione dei cardinali?
No... Lo sapeva... Mi ha detto: «Già incominciano a tirarmi le pietre. Stai attento, tu, nella vita ti può capitare come capita a me, che mi tirano i sassi. Non raccattarli, eh?». Era buono, era buono. E posso dire, dopo sessant’anni ci voleva un argentino come Francesco per valorizzare e dare impulso al grande Concilio fatto. È stato grande Paolo VI che l’ha portato avanti, perché credo che chiunque altro avrebbe messo da parte tutto.
Cos’altro disse durante il viaggio di ritorno in Vaticano?
Non ha detto «a»; non ha detto «a». Solo qualche parola con monsignor Capovilla. Però, posso dire che lui per il Concilio ha dato la vita. Poi, l’11 ottobre è stato grandioso: l’apertura, era contento! Lui sperava di poterlo anche chiudere. Purtroppo è morto, per un brutto male. Ha sofferto molto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Come la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su “Repubblica” di Alessandro Baricco
di EZIO MAURO (la Repubblica, 11 Gennaio 2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite [...].
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IN UNO "STATO" SONNAMBOLICO, IL CONTINUO RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI ITALIANI...
DALL’ILIADE ALL’ODISSEA: ALESSANDRO BARICCO, IL CIECO OMERO DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE. Un omaggio critico (8 dicembre 2004).
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
ITALIA!!! TUTTI. MOLTI. POCHI: E NESSUNA COGNIZIONE DELL’UNO, DELL’UNITA’!!! L’Italia e le classi dirigenti
Federico La Sala
Così l’Uomo Nuovo abbatte il sapere delle élite decadute
Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su "Repubblica" di Alessandro Baricco
di Ezio Mauro (la Repubblica, 12.01.2019)
La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate.
La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione.
Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il " pensiero" - e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia - della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea.
E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale - affinché nessuno si senta facilmente assolto - sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora - ognuno per la sua quota - dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi?
L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è " in" e ciò che è " out", deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi.
Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominantidominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica - tutta - fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione.
La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato.
Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura. Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe.
Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del " Punto Zero", dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere - ragiona l’uomo nuovo - non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso.
Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di " nuovo" diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra.
Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti.
È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia " sacrosantus" perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco » .`
Il Divo che commise il reato di associazione con la mafia
di Gian Carlo Caselli ( Il Fatto, 07.01.2019)
Subito dopo la morte di Falcone e Borsellino ho chiesto il trasferimento a Palermo. Ho avuto l’onore di guidare la procura di questa città per quasi sette anni. Nel contrasto all’ala militare di Cosa nostra i risultati sono stati imponenti: basti ricordare gli innumerevoli processi contro mafiosi “doc” conclusi con condanne per 650 ergastoli e un’infinità di anni di reclusione. Ma la mafia (tutti son bravi a dirlo, pochi a trarne le conseguenze sul piano investigativo) non è solo “coppola e lupara”. È anche complicità e collusioni assicurate da “colletti bianchi”. Ecco quindi vari processi contro imputati “eccellenti”. Fra gli altri Marcello Dell’Utri e Giulio Andreotti. Del primo (condannato in via definitiva a sette anni di reclusione) non si parla, se non quando vengon fuori i suoi problemi di salute. Del secondo è stata calpestata e fatta a pezzi la verità che emerge chiara dagli atti.
In primo grado c’è stata assoluzione, sia pure per insufficienza di prove. In Appello (mentre per i fatti successivi è stata confermata tale assoluzione) fino alla primavera del 1980 l’imputato è stato dichiarato colpevole, per aver commesso (sic!) il reato di associazione a delinquere con Cosa nostra. Il reato commesso è stato dichiarato prescritto, ma resta ovviamente commesso. La Cassazione ha confermato la sentenza d’appello e quindi anche la penale responsabilità dell’imputato fino al 1980. Processualmente è questa la verità definitiva ed irrevocabile. Ed è evidente che chi parla di “assoluzione” è fuori della realtà. Non esiste in natura, è una bestemmia la formula “assolto per aver commesso il reato”.
La corte d’Appello si è basata su prove sicure e riscontrate. Ad esempio, ha ritenuto provati due incontri del senatore con il “capo dei capi” di allora , Stefano Bontade, per discutere il caso di Pier Santi Mattarella, integerrimo capo della Dc siciliana, che pagò con la vita il coraggio di essersi opposto a Cosa nostra. La corte sottolinea tra l’altro che l’imputato ha “omesso di denunziare elementi utili a far luce [sull’omicidio] di cui era venuto a conoscenza in dipendenza dei suoi diretti contatti con i mafiosi”. Secondo la corte d’Appello, Andreotti ha contribuito “al rafforzamento della organizzazione criminale , inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale. Così realizzando “una vera e propria partecipazione all’associazione mafiosa apprezzabilmente protrattasi nel tempo”.
Chi ha nascosto o stravolto la verità - oltre a truffare il popolo italiano in nome del quale si pronunziano le sentenze - non ha voluto elaborare la memoria di ciò che è stato, perché teme il giudizio storico su come in una certa fase, almeno parzialmente, si è formato il consenso nel nostro Paese. Ma in questo modo si rende un pessimo servizio alla qualità della democrazia. Perché si finisce per legittimare (ieri, oggi e domani) la politica che ha rapporti con la mafia.
Il segno di Belzebù indelebile sul Paese
Imperitura memoria - L’impronta lasciata sul seggio di Palazzo Madama da Giulio Andreotti, in Senato dal ‘91 al 2013 dopo 45 anni passati alla Camera
di Pino Corrias (Il Fatto, 07.01.2019)
Come le mani disegnate in rosso sulle parete delle caverne ci dicono che l’uomo del Pleistocene passò da lì, così la gobba di Giulio Andreotti incisa sul cuoio della sua sedia al Senato ci ricorda che in un tempo remoto della Repubblica siamo stati tutti democristiani - volenti o nolenti, eretti o quadrumani - lungo un’era che gli archeologi del nostro tempo chiamano per l’appunto Andreottiana.
Il capostipite era più alto di quanto oggi si possa immaginare. Aveva un pallore da sagrestia su un volto senza labbra, le orecchie aguzze, il passo veloce e scivoloso. Dormiva poco. Usciva ogni mattina all’alba per la Messa. Faceva l’elemosina ai mendicanti raccolti sul sagrato. Mangiava in bianco. Vestiva oscuri completi Caraceni col panciotto. Soffriva di emicrania e di persistente disincanto. Nel raro tempo libero giocava a gin-rummy e collezionava campanelli. Nell’ampio tempo del lavoro accumulava nemici e segreti.
I nemici li ha seppelliti quasi tutti. I segreti invece sono diventati la nostra storia e il suo leggendario archivio, nutrito per molto più di mezzo secolo, da quando la sua giovinezza fu rinvenuta tra le mura vaticane da Alcide De Gasperi, futuro plenipotenziario della Democrazia Cristiana, più o meno mentre le bombe degli angloamericani violavano il sacro suolo di Roma città aperta, estate 1943, impolverando la stola di papa Pio XII.
A 24 anni Giulio stava già nel posto giusto, tra gli inchiostri dell’eterno potere e al cospetto della grande Storia, intraprendendone da allora i cospicui labirinti che lo condussero, tra maldicenze e applausi, a indossare 27 volte i panni di ministro, 7 volte la corona di presidente del Consiglio.
Per poi passare, a intermittenza, dalle luci dello statista alle ombre del grande vecchio, 27 volte inquisito dalla magistratura e 27 volte salvato dalle Camere che a maggioranza negavano l’autorizzazione a procedere. Salvo soffriggere, udienza dopo udienza, sul banco degli imputati del tribunale di Palermo, anno 1995, per il celebre bacio a Totò Riina, e poi su quello di Perugia, dove era accusato di essere il mandante dei quattro colpi di pistola con cui venne cancellato il giornalista romano Mino Pecorelli, suo acerrimo nemico, le sue imminenti rivelazioni sul caso Moro e su certi assegni finiti tra i velluti e i sughi della sua corrente, detta anche lei andreottiana.
Inciampi giudiziari mai davvero prescritti e che hanno nutrito la sua leggenda nera - passata per Piazza Fontana, i Servizi deviati, lo scandalo petroli, il Banco Ambrosiano, Gladio, la morte solitaria del generale Dalla Chiesa sull’asfalto di Palermo - ma anche il suo fatalismo romanesco di eterno sopravvissuto al suo stesso danno: “Preferisco tirare a campare che tirare le cuoia” come recitava la sua massima preferita, che poi era anche il cuore della sua politica, talmente malleabile da rendersi disponibile a destra e a sinistra, purché immobile sotto l’ombrello angloamericano e in cambio di un costante incasso elettorale che gli garantivano, guarda caso, i collegi del Lazio e della Sicilia. Oltre naturalmente alla benevolenza della Chiesa, i sette papi che conobbe in vita, lasciandosi ispirare da una fede mai troppo intransigente, disponibile all’umano peccato purché con l’Avemaria sempre incorporata. “Quando andavano insieme in chiesa - scrisse Montanelli - De Gasperi parlava con Dio, Andreotti con il prete”.
La zia, i libri, la chiesa e la proposta al cimitero
A dispetto del molto che avrebbe intrapreso, Giulio nasce fragile il 14 gennaio del 1919. Orfano di padre, cresce cagionevole aiutato da una vecchia zia e dalla piccola pensione della madre. Fa il chierichetto e lo studente modello. Si laurea in Giurisprudenza. Alla visita militare il medico lo scarta e gli pronostica sei mesi di vita. Racconterà: “Quando diventai la prima volta ministro gli telefonai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui”.
Diventa sottosegretario con De Gasperi nel 1947, entra in Parlamento l’anno dopo. Ci rimarrà per sempre. Sotto ai suoi governi è nata la Riforma sanitaria, è stato legalizzato l’aborto, firmato il Trattato di Maastricht. E dentro alla sua ombra l’Italia è diventata un Paese industriale, alfabetizzato, un po’ più europeo, un po’ meno cialtrone, al netto del clamoroso debito pubblico e delle quattro mafie.
A trent’anni si sposa, dichiarandosi a Donna Livia “mentre passeggiavamo in un cimitero”. Avrà quattro figli. Una sola segretaria, la mitica Enea. Una sola vocazione: “Non ama le vacanze - dirà la figlia Serena - non ama il mare, non ama le passeggiate. La verità è che se non fa politica si annoia”.
Amici scomodi e nemici uccisi sempre col sorriso
Diventandone il prototipo incorpora tutti i pregi e i difetti dei democristiani. Conosce la pazienza e la prudenza. Uccide gli avversari con estrema gentilezza e sorride per buona educazione. È in confidenza con Kissinger e ammira Arafat. Si commuove alla morte di Paolo VI e a quella di Alberto Sordi, che poi sarebbero il sacro e il profano della sua esistenza. Maneggia il potere in silenzio, come un gioco di prestigio. E i cattivi come fossero i buoni. Tra i banchieri d’avventura predilige il piduista Michele Sindona, quello del crack della Banca Privata, a cui aveva appena conferito il titolo di “salvatore della lira”, per poi guardarne imperturbabile il naufragio dentro a un caffè avvelenato, nella cella singola di San Vittore, detenuto per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli.
Non ha amici, ma soci momentanei di cordata, mai Fanfani e De Mita, qualche volta Forlani, più spesso Cossiga che lo nominerà senatore a vita. Educa Gianni Letta a fargli da scudiero per poi affidargli il giovane pupillo piduista Luigi Bisignani. Tutti i suoi sottocapi sono tipi da prendere con le molle: Vittorio Sbardella, detto “lo squalo” mastica per lui il Lazio. Ciarrapico è il re del saluto romano, delle acque minerali e degli impicci da sbrogliare. Franco Evangelisti è il faccendiere di “A Fra’ chette serve?”. Cirino Pomicino, detto “’O ministro” digerirà a suo nome 42 processi e 40 assoluzioni. E naturalmente Salvo Lima, il suo alter ego in Sicilia, morto sparato tra i cassonetti di Mondello per ordine dei corleonesi, la mattina del 12 marzo 1992, alba della stagione delle stragi.
Esecuzione che cancellò il suo unico sogno inconcluso, quello di salire al Quirinale, indossare finalmente i panni di presidente della Repubblica e (forse) sistemare gli scheletri del suo notevole armadio. Cominciando dallo scandalo fondante, anno 1963, il tentato golpe di un certo generale De Lorenzo, capo dei servizi segreti, e la scomparsa dei fascicoli che aveva accumulato sui protagonisti della vita pubblica italiana. Archivio quanto mai avvelenato e formidabile arma di ricatto che proprio Andreotti, all’epoca ministro della Difesa, era incaricato di distruggere. E che invece sarebbe riemerso nelle molte nebbie future e persino nei dossier di Licio Gelli, il finto o vero titolare della loggia massonica P2, forse a fondamento di un suo potere sussidiario esercitato per conto (proprio) di chi li aveva maneggiati per primo.
Da Moro agli anni di B.: è lui il capo dei diavoli
“Livido, assente, chiuso nel suo cupo sogno di gloria”, gli avrebbe scritto Aldo Moro dalla prigione brigatista, colmo di rancore e di rassegnazione per il nulla che il governo di solidarietà nazionale riuscì a fabbricare nei 55 giorni impiegati da Mario Moretti a eseguire la sentenza.
Bettino Craxi lo battezzo Belzebù, il capo dei diavoli. Lo temeva e forse lo ammirava, ma non imparò nulla dalla sua quieta imperturbabilità nelle aule di Giustizia e una volta inquisito da Mani pulite, strillò così tanto, da dichiararsi colpevole, pretendere l’impunità e finire latitante.
A differenza di quasi tutti, Andreotti non si lasciò sfiorare dalla volgarità delle tangenti, che lasciò volentieri alle mandibole dei suoi. Né dall’incantesimo delle notti romane. Una sola volta una nobildonna provò a trascinarlo sulla pista da ballo: “Non ho mai danzato con un presidente del Consiglio”, gli disse lei leziosa. “Neanch’io” rispose lui secco, allontanandosi. Non capì il bianco e nero di Berlinguer e non prese mai sul serio i troppi colori di Berlusconi. Sopravvisse alla morte della Dc e di due repubbliche. Scrisse migliaia di pagine senza mai rivelare un segreto. Sembrava eterno. Sembrava un destino. Invece anche lui, uscendo di scena a 94 anni, incollato alla sedia e in piena luce, è diventato un altro anniversario del nostro buio.
Mattarella debole e gli sfasciacarrozze della Costituzione
Governo/Parlamento. Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia
di Massimo Villone (il manifesto, 03.01.2019)
È risuonata alta la protesta contro l’incostituzionale bavaglio applicato al parlamento con l’approvazione della legge di stabilità. Come scrive Azzariti su queste pagine, nell’esperienza passata molto era già accaduto. E il voto imposto senza uno straccio di discussione è stato solo l’ultimo e più evidente strappo. Ma bisogna essere consapevoli che il più ampio rispetto del galateo parlamentare non avrebbe, con ogni probabilità, prodotto una legge significativamente diversa. La domanda è: come si può fare utilmente argine?
La forza di un’assemblea elettiva è data dalla forza dei soggetti politici collettivi che in essa entrano con i propri rappresentanti. La debolezza del parlamento oggi viene dalla debolezza complessiva del sistema dei partiti. Salvo uno: la Lega. E questo ne spiega la capacità di assumere una posizione dominante nella compagine di governo e il trend dei sondaggi. Non c’è competizione tra un partito vero con un progetto politico, e un non-partito che va a palazzo Chigi con un non-programma, ma con un paniere di proteste variamente raccolte.
Le convulsioni del dopo 4 marzo accentuano la centralità degli organi di equilibrio e garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale. Per questo il discorso di fine anno di Mattarella è condivisibile, ma non del tutto soddisfacente. Ha un senso di ordinaria amministrazione, in un contesto per nulla ordinario. È minimale il richiamo alle forze politiche a ridiscutere a cose fatte sulla legge di stabilità, anche se capiamo la pressione per promulgare comunque. È un equilibrismo il richiamo alla sicurezza e agli immigrati, ma non all’accusa di violare i diritti umani che molti hanno rivolto all’Italia.
Terreno anche giuridicamente minato, come dimostra lo scontro in atto tra il sindaco Orlando e il ministro Salvini. Non si menziona l’attacco alla stampa e all’informazione. Si allude in modo del tutto criptico - richiamando l’unità della Repubblica come comune destino - alla secessione leghista strisciante attraverso l’art. 116. Eppure, l’attacco all’unità è ormai pubblicamente discusso e viene rafforzato da minacce di crisi di governo. Mentre la Costituzione chiama il Capo dello Stato a rappresentare l’unità nazionale (art. 87). Persino Conte si è auto-nominato garante.
Si può opporre che il Capo dello Stato si è anche già espresso altrove. Ma nel discorso di fine anno parla direttamente a tutti gli italiani. È un messaggio non mediato, di efficacia comunicativa non comparabile con l’esternazione in sedi più ristrette, come gli incontri con la stampa parlamentare o benemerite associazioni.
È possibile che il ruolo del Capo dello Stato, già difficile, lo diventi ancor più. Analoga considerazione vale per la Corte costituzionale. Il 9 gennaio deciderà preliminarmente sulla ammissibilità del ricorso Pd per la legge di stabilità, e potrebbe negarla. Ma è indiscutibile la indebita compressione della funzione dei parlamentari - non rileva se considerati individualmente o come gruppo - nelle ore convulse che hanno preceduto il voto sulla fiducia e l’approvazione. Quanto alla successiva decisione sul merito, però, un rigetto del ricorso - anche guardando ai precedenti - è più probabile, soprattutto per l’argomento che esistono garanzie e rimedi nell’ordinamento interno dell’assemblea. Nel confronto politico proprio di un’assemblea elettiva violazioni molteplici sono in ogni momento possibili, e una linea giurisprudenziale di apertura senza filtri rischierebbe di rendere la Corte sede di appello per contrasti e dissensi, individuali e di gruppo. Nel caso specifico, poi, potrebbe provocare uno tsunami politico, istituzionale e finanziario. Volendo scommettere, sì per l’ammissibilità, no nel merito del ricorso.
Bisogna rimanere in campo, ma sapendo che non ci sono scorciatoie o demiurghi. Il paese si rinsalda con soggetti politici stabilmente e solidamente strutturati, assemblee ampiamente rappresentative, parlamentari liberamente eletti e non vincolati al mandato di chicchessia.
Un percorso né facile né breve. Scalfari su Repubblica legge nel discorso di Mattarella la nazione perfetta. Più modestamente, noi vorremmo porre al riparo da strappi il tessuto artigianale complesso e raffinato della Costituzione, tornando ai fondamentali e fermando gli sfasciacarrozze.
Il messaggio di Mattarella.
Un discorso «all’Italia che ricuce»
Ecco le parole-chiave di Mattarella, che considera gli altri un valore e recupera il senso della comunità. Oltre l’invito a riportare il Parlamento al centro
di Angelo Picariello (Avvenire, martedì 1 gennaio 2019)
Un discorso all’«Italia che ricuce», che considera gli altri un valore e recupera il senso della comunità. Un tema, quest’ultimo, che Mattarella richiama sovente nei suoi interventi e che il presidente della Repubblica mette al centro anche di questo delicatissimo discorso di fine anno, che arriva all’indomani di una approvazione in tempo limite della legge di Bilancio, appena in tempo per evitare l’esercizio provvisorio. E proprio citando i social, i luoghi di una politica spesso incattivita e aggregata per rivalità, Mattarella parte: «Siamo - dice - nel tempo in cui molti vivono connessi in rete e comunicano di continuo ciò che pensano e anche quel che fanno nella vita quotidiana...». E proprio i social sono la più grande novità nei dati di ascolto. Sono stati oltre 10 milioni e mezzo i telespettatori in Tv, a fronte dei 9 milioni e 700mila dello scorso anno, per il messaggio del capo dello Stato, ma la vera notizia è il pieno raggiunto dal discorso sul Web, con un dato - in continua evoluzione - di circa 2 milioni e mezzo di visualizzazioni, praticamente triplicate rispetto allo scorso anno.
L’ITALIA CHE RICUCE. Un «augurio, caloroso», lo rivolge a papa Francesco: «Lo ringrazio, ancora una volta, per il suo magistero volto costantemente a promuovere la pace, la coesione sociale, il dialogo, l’impegno per il bene comune». Quello di Mattarella è soprattutto un grazie all’Italia impegnata a costruire, a unire, e non ad alimentare odi e paure, come una recente ricerca del Censis ha portato alla luce.
Un grazie a quell’«“Italia che ricuce” e che dà fiducia», lo rivolge, in chiara sintonia con le parole più volte usate dal presidente della Cei, il cardinale Gualtierio Bassetti. «Spesso - spiega - la società civile è arrivata, con più efficacia e con più calore umano, in luoghi remoti non raggiunti dalle pubbliche istituzioni». Ricorda chi «negli ospedali o nelle periferie e in tanti luoghi di solitudine e di sofferenza dona conforto e serenità».
IL SENSO DELLA COMUNITA’. Inaugurato da Luigi Einaudi «non è un rito formale», ricorda Mattarella, il messaggio di fine anno. E replica così in modo garbato e indiretto ai vari tentativi di contro-messaggi in atto. Sottolinea «l’esigenza di sentirsi e di riconoscersi come una comunità di vita», il «bisogno di unità, raffigurata da chi rappresenta la Repubblica che è il nostro comune destino», perché «“comunità” significa condividere valori, prospettive, diritti e doveri. Significa “pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme. Significa responsabilità».
SICUREZZA COME RISPETTO. Ma è sulla sicurezza che batte maggiormente, Mattarella. Per mettere in risalto che è proprio un ritrovato senso della comunità l’antidoto più efficace ai rischi che si manifestano per la tranquilla convivenza. «Battersi, come è giusto, per le proprie idee», rimarca. Ma, auspica, occorre «rifiutare l’astio, l’insulto, l’intolleranza, che creano ostilità e timore». E, sottolinea, non è «retorica dei buoni sentimenti», non si può sostenere che «la realtà è purtroppo un’altra; che vi sono tanti problemi e che bisogna pensare soprattutto alla sicurezza». La sicurezza, insiste, non consiste in un difendersi dagli altri, ma si fonda proprio su questo sentirsi parte di un’unica comunità, di «un ambiente in cui tutti si sentano rispettati e rispettino le regole del vivere comune».
MAFIA: NO A ZONE FRANCHE. E, a pochi giorni da un inquietante segnale venuto da Pesaro con l’uccisione di uno stretto congiunto di un pentito di ‘ndrangheta, Mattarella torna su un altro tema a lui caro da sempre anche per ragioni di tragica biografia familiare: la lotta alla mafia. La vera insidia alla nostra sicurezza, ricorda, non viene da un elemento esterno al nostro Paese, ma dal male irrisolto della criminalità organizzata: «La domanda di sicurezza è particolarmente forte in alcune aree del Paese, dove la prepotenza delle mafie si fa sentire più pesantemente. E in molte periferie urbane dove il degrado favorisce il diffondersi della criminalità». E scandisce: «Non sono ammissibili zone franche dove la legge non è osservata e si ha talvolta l’impressione di istituzioni inadeguate, con cittadini che si sentono soli e indifesi».
NO A TASSE SULLA BONTA’. Poi, con nettezza, entra nel merito di una brutta polemica che ha caratterizzato il dibattito “strozzato” sulla Manovra: l’odioso raddoppio dell’Ires per gli enti Non profit. Il ripensamento che ne è venuto, anche dopo le prese di posizione chiare da parte della Chiesa italiana, per ora è solo un impegno. La misura è stata infatti inserita nella legge approvata dal Parlamento. «Vanno evitate “tasse sulla bontà”», avverte Mattarella. «Le realtà del Terzo Settore, del No profit rappresentano una rete preziosa di solidarietà», ricorda il presidente. «Realtà che hanno ben chiara la pari dignità di ogni persona e che meritano maggiore sostegno da parte delle istituzioni, anche perché, sovente, suppliscono a lacune o a ritardi dello Stato negli interventi in aiuto dei più deboli».
RIPORTARE IL PARLAMENTO AL CENTRO. Non c’era tempo di intervenire, per evitare l’esercizio provvisorio, ma è un impegno di tutti, ora, quello di riportare il Parlamento al centro, proprio a partire dal varo delle misure previste in Manovra. «Ieri sera - ricorda Mattarella - ho promulgato la legge di Bilancio nei termini utili a evitare l’esercizio provvisorio, pur se approvata in via definitiva dal Parlamento soltanto da poche ore». Bene il faticoso risultato raggiunto: «Avere scongiurato la apertura di una procedura di infrazione da parte dell’Unione Europea per il mancato rispetto di norme liberamente sottoscritte è un elemento che rafforza la fiducia e conferisce stabilità». Ma segnala «la grande compressione dell’esame parlamentare e la mancanza di un opportuno confronto con i corpi sociali». E formula un augurio, che è anche un monito, «che il Parlamento, il Governo, i gruppi politici trovino il modo di discutere costruttivamente su quanto avvenuto; e assicurino per il futuro condizioni adeguate di esame e di confronto».
LA VERA CITTADINANZA. Fra le piaghe da debellare, invece, quella degli «ultras violenti degli stadi di calcio, estremisti travestiti da tifosi». E «l’alto debito pubblico che penalizza lo Stato e i cittadini e pone una pesante ipoteca sul futuro dei giovani». Problemi complessi per risolvere i quali «non ci sono ricette miracolistiche», avverte, ma solo «il lavoro tenace, coerente, lungimirante produce risultati concreti», senza mettere a rischio i traguardi raggiunti dalle precedenti generazioni. Ricorda i quarant’anni del Servizio sanitario nazionale, «grande motore di giustizia, un vanto del sistema Italia. Che ha consentito di aumentare le aspettative di vita degli italiani, ai più alti livelli mondiali». E ricorda che «l’universalità e la effettiva realizzazione dei diritti di cittadinanza» su scuola, salute, assistenza, sono state «grandi conquiste della Repubblica».
UN’EUROPA SENZA CONFINI. Si rivolge ai familiari di Antonio Megalizzi, il giornalista morto nell’attentato di Strasburgo, per richiamare il senso di un’Europa amica, non ostile, che veda di nuovo l’Italia - Paese fondatore - come protagonista. «Come molti giovani si impegnava per un’Europa con meno confini e più giustizia. Un’Europa dei diritti, dei cittadini e dei popoli, della convivenza, della lotta all’odio, della pace». E il pensiero va all’imminente competizione europea: «Mi auguro che la campagna elettorale si svolga con serenità e sia l’occasione di un serio confronto sul futuro dell’Europa».
LE DIVISE SONO DI TUTTI. Quando poi ricorda il toccante episodio di Anna, la signora 90enne che la notte di Natale ha telefonato ai Carabinieri per chiedere compagnia, lo fa per richiamare il significato collettivo, sentito da tutti e non di parte, di quelle divise. «La loro divisa, come quella di tutte le Forze dell’ordine e quella dei Vigili del fuoco, è il simbolo di istituzioni al servizio della comunità. Si tratta di un patrimonio da salvaguardare perché appartiene a tutti i cittadini». Un grazie va a loro anche per l’aiuto fornito nelle recenti calamità naturali. Nel ricordare poi il grande contributo che i militari danno alla pace, si schiera, con un chiaro riferimento, con il ministro della Difesa Elisabetta Trenta, contro l’ipotesi di un loro arruolamento per porre rimedio alle buche di Roma: «La loro funzione non può essere snaturata, destinandoli a compiti non compatibili con la loro elevata specializzazione», avverte.
IMMIGRATI “AMICI”. Nell’Italia-comunità gli immigrati, per Mattarella, sono una componente, non una realtà contrapposta. Un saluto finale Mattarella lo rivolge «ai cinque milioni che vivono, lavorano, vanno a scuola, praticano sport, nel nostro Paese». Chiude come aveva aperto, parlando di solidarietà e senso della comunità. E ricorda, citando i volontari del Centro di cura per l’autismo, di Verona i tanti «luoghi straordinari dove il rapporto con gli altri non è avvertito come un limite, ma come quello che dà senso alla vita».
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE: LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO .... *
«L’omelia del ’78 di Ratzinger:
Un mondo senza dolore non è umano»
«Ecco perche Marx aveva torto». Il tempo di Natale: Dio ha scelto di condividere con gli uomini il peso della vita
di Joseph Ratzinger (Corriere della Sera, 27.12.2018)
«Consolate, consolate il mio popolo!» (Is 40,1). Questo abbiamo appena ascoltato dalla voce del profeta Isaia. Queste grandi, antiche parole di speranza e di fiducia del popolo d’Israele, toccano sempre di nuovo il cuore. All’interno della storia dei profeti suonavano nuove: all’inizio, al tempo dei Re - a partire da Elia e, passando per Amos, Osea e Michea, fino a Isaia e Geremia - i profeti erano stati soprattutto ammonitori duri ed esigenti che, a difesa della causa dei dimenticati, delle vedove, degli orfani e dei poveri, scuotevano la coscienza degli ipocriti, potenti e sicuri di sé con la loro giustizia esteriore. Si ascoltavano parole inquietanti e sconvolgenti come queste: «Le vostre feste, le vostre preghiere non le posso più sentire, non posso più sopportare l’odore del vostro incenso. Il digiuno che voglio è piuttosto rendere giustizia all’orfano e alla vedova» (cfr. Is 1,11-17).
Geremia
Alla fine della lunga serie di ammonitori che scuotono, sta Geremia, il quale, contro l’ostinato nazionalismo che vuole appropriarsi di Dio e strumentalizzarlo, si leva con le ragioni della fede e diviene martire. Seguì il grande silenzio dell’esilio babilonese. Ma dopo settant’anni, dopo che Israele era stato schiacciato e sembrava quasi cancellato, si sente questa voce del tutto nuova! «Basta soffrire. La grande potenza, che vi ha deportato, non c’è più». Si riaprono le porte della patria. La steppa si muta in strada e ora i calpestati, i vinti, alla fine sono i veri vincitori. Dio si è ricordato di loro, ed egli è più potente delle grandi potenze di questo mondo, anche se è lui a scegliere il momento nel quale intervenire. «Consolate il mio popolo!». Dio non dimentica i sofferenti, ma li ama e li solleva.
Il cuore
Per quanto questo ci commuova e ci tocchi il cuore, permane in noi una qualche obiezione o perlomeno una domanda: questa consolazione non è troppo lontana nel tempo? E non ha forse ottenuto troppo poco? Ben presto Israele stesso è caduto di nuovo in disgrazia. E se oggi osserviamo il mondo, non mancano immagini di desolazione che ci toccano. Proprio quando vediamo come domini in mezzo ai popoli benestanti la desolazione, tanto più ci domandiamo: «Signore, dov’è la tua consolazione?». Ma forse tanto più comprendiamo che abbiamo bisogno della Chiesa, che con piena autorità oggi può pronunciare nel nome del Signore le parole di allora: «Consolate il mio popolo!». È lei che dà la vera consolazione.
Storia della salvezza
La Chiesa, nel corso del suo anno liturgico, ripercorre l’intera storia della salvezza. Per molte settimane si presenta a noi con l’atteggiamento di Osea o di Elia: e cioè ammonendoci, scuotendoci, esortandoci, volendo strapparci dal nostro egoismo, dalla nostra avidità, dal nostro autocompiacimento. Ma nell’Avvento giunge l’ora del Dio buono, del Dio che consola. Diviene evidente che la Chiesa non è solo un’agenzia morale, un’organizzazione umanitaria, che essa non esige solo il rispetto di vari precetti, indica bisogni e pone richieste, ma che è lo spazio della grazia, in cui Dio le va incontro soprattutto come colui che dona e che dà. Ma dove si trova questa consolazione? Dio come consola in realtà?
Luce e fede
Il primo livello consiste nel fatto che siamo chiamati. Egli desidera che irradiamo la luce della fede che ha posto nei nostri cuori e così riscaldiamo il mondo. Egli vuole consolare attraverso di noi e ci fa sapere che egli ama in particolar modo proprio gli afflitti, gli sconsolati, che s’identifica con loro e in essi attende noi e la nostra bontà. Il nome dello Spirito Santo è «Consolatore». Dio ci aiuta nello Spirito Santo tanto più quanto più siamo uomini che consolano, uomini di una bontà che consola. Questo significa anche che noi non dobbiamo essere come quelli per i quali la piccola consolazione della vita quotidiana è troppo poco e che dicono: no, questo sistema deve essere trasformato, abbiamo bisogno di un mondo nel quale la consolazione non sia più necessaria; ovvero, come ha detto Brecht esasperando il concetto: «Vogliamo un mondo nel quale non ci sia più bisogno di amore». Un mondo così, però, nel quale non c’è più bisogno di consolazione, sarebbe un mondo desolato; un mondo in cui l’amore non fosse più necessario, perché il sistema provvede già a tutto, sarebbe un mondo disumano. Dio vuole consolare attraverso di noi.
Solo parole
Ma invece, di continuo si solleva il sospetto che siano solo parole, promesse consolatorie. Chiediamoci allora: che cosa avviene quando un uomo consola un bambino a cui è morta la mamma? Non può annullare quella morte, non può cancellare il dolore da essa provocato, non può magicamente trasformare il mondo con ciò che esso ha di triste. Può però entrare nella solitudine generata dall’amore distrutto, che è l’autentico motivo del dolore, come uno che condivide il dolore e dà amore. Così, pur non potendo cancellare l’accaduto, non è un parolaio; se penetra, amando, nella solitudine dell’amore perduto, trasforma dall’interno, sana all’origine, sana l’essenziale. E non c’è alcun dubbio che, se egli veramente condivide il dolore e dà amore, allora le sue non saranno solo parole.
Cambiare il sistema
Dio non ha operato - come noi sogneremmo e come poi Karl Marx ha gridato a gran voce al mondo - in modo da far scomparire il dolore e cambiare il sistema, così che non ci sia più bisogno di consolazione. Questo significherebbe toglierci l’umanità. Ed è quello che nel segreto desideriamo. Sì, essere uomini ci è troppo pesante. Ma se ci venisse tolta la nostra umanità, smetteremmo di essere uomini e il mondo diverrebbe disumano. Dio non ha operato così. Ha scelto un modo più sapiente, più difficile, da un certo punto di vista, ma proprio per questo migliore, più divino. Egli non ci ha tolto la nostra umanità, ma la condivide con noi. Egli è entrato nella solitudine dell’amore distrutto come uno che condivide il dolore, come consolazione. Questo è il modo divino della redenzione. Forse possiamo capire nel modo migliore che cosa significhi cristianamente redenzione a partire da qui: non trasformazione magica del mondo, non che ci viene tolta la nostra umanità, ma che siamo consolati, che Dio condivide con noi il peso della vita e che ormai la luce del suo condividere l’amore e il dolore sta per sempre in mezzo a noi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL PRESEPE E LA NOTTE DI NATALE. La lezione di Pirandello a Benedetto XV e a Benedetto XVI
LA TEOLOGIA DI "MAMMONA" ("caritas"), LA LEZIONE DI MARX, E IL MESSAGGIO EVANGELICO ("Charitas").
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Il mio regno non è di qui
di Piero Stefani ("Il Regno", 22/11/2018)
«Universo» è parola sconosciuta alla Bibbia. Per dire «il tutto», il primo versetto della Scrittura impiega l’espressione «il cielo e la terra» (Gen 1,1; cf. Ef 1,10). Il posto privilegiato che questo modo di dire riserva a ciò che noi definiamo «nostro pianeta» indica una distanza incolmabile tra l’immagine biblica del cosmo e quella attuale. Non ha senso logico definire un campo come fosse costituito da 100 ettari di terreno e da un granello di polvere. I tentativi di intrecciare teologicamente tra loro la visione cosmica biblica con quella odierna non portano da nessuna parte.
Meglio domandarsi allora perché il Nuovo Testamento, e in particolare Giovanni, precludono l’eventualità di qualificare la solennità odierna ricorrendo all’espressione «re del mondo».
«Il mio regno non è di questo mondo» (Gv 18,36), risponde Gesù a Pilato. Subito dopo Gesù aggiunge: «Il mio regno non è di qui (enteuthen)» (Gv 18,36). Le due espressioni kosmos («mondo») ed enteuthen («qui») gravitano dalla stessa parte.
Kosmos è una parola frequente nel quarto Vangelo. Essa è contraddistinta da una forte ambiguità. Il mondo rappresenta la scena sulla quale si svolge il dramma della redenzione: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17; cf. Gv 10,36; 11,27). Il mondo è amato da Dio (cf. Gv 1,29; 4,42) eppure odia Gesù, «perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive» (Gv 7,7; cf. Gv 15,18-19; 17,14).
Il Vangelo di Giovanni è caratterizzato da un lessico fortemente duale (luce-tenebre; vita-morte; amore-odio; verità-menzogna...); tuttavia alcuni termini, come appunto «mondo», più che colti in contrapposizione al loro opposto, vanno intesi in relazione a una tensione che sussiste tra vari significati attribuiti alla stessa parola: il mondo è amato e salvato, eppure odia Gesù. «Il mio regno non è di questo mondo» ma io sono venuto a salvare il mondo.
La contraddizione sembra insuperabile. Per cercare di scioglierla è di qualche aiuto seguire l’altro, e assai meno importante, termine: «qui». In effetti esso ricorre poche volte in Giovanni e nella maggior parte dei casi ha un semplice valore spaziale, secondo il senso comune del termine (cf. Gv 2,16; 7,3; 14,31).
Nella risposta a Pilato le cose stanno diversamente. Non ha significato alcuno affermare che «il mio regno non è di qui» perché è «altrove», come se si estendesse su un altro territorio. Tuttavia, guardando all’ultima occasione nella quale Giovanni fa ricorso al termine, si apre all’improvviso uno squarcio. Ciò avviene se nella traduzione, a differenza del solito, si ricorre all’avverbio «qui»: «Lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra (enteuthen kai enteuthen, una specie di «uno di qui e uno di qua»), e Gesù in mezzo» (Gv 19,18).
È solo un cenno, non più di una spia; tuttavia appare calzante pensare a un richiamo tra le due scene; come se si volesse far dire a Gesù: il mio regno non è «qui», ma è sulla croce. Non ci si muove nella logica dei poteri mondani, il tal caso qualcuno avrebbe combattuto (cf. Gv 18,36); il regno si trova invece nella forza attrattiva e salvifica della croce: «“E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire» (Gv 12,32-33).
Gesù afferma che il suo regno non è di qui, egli però rivendica pienamente la propria condizione regale: «Tu lo dici, io sono re» (Gv 18,37). Si tratta di una regalità diversa da quella mondana. «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» sarebbe stata la frase scritta sulla croce in ebraico, latino e greco, e che Pilato non volle mutare. «Quel che ho scritto ho scritto» (Gv 19,22) è una specie di definitivo sigillo posto al «Tu lo dici» (Gv 18,37) rivolto da Gesù a Pilato. È sulla croce che si dispiega la regalità «altra» e salvifica di Gesù.
*Sul tema, nel sito, si cfr.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Il saggio "Perché è successo qui" di Maurizio Molinari
La frattura tra élite ed elettori da cui nasce il populismo
di Stefano Folli (la Repubblica, 26.10.2018)
Non è un libro rassicurante, questo di Maurizio Molinari sulle ragioni di fondo della rivoluzione populista in Italia. Ma è assai utile come guida nei tempi che viviamo. Non è rassicurante perché evita ogni risvolto convenzionale e si affida a un linguaggio scarno, al di là di ogni pseudo-verità di comodo. Ha lo stile dell’inchiesta giornalistica e il passo del saggio basato su fatti, dati, circostanze. Molinari, oggi direttore della Stampa di Torino e in precedenza corrispondente a lungo dagli Stati Uniti e da Israele, ha appreso le regole del miglior giornalismo: quello fondato su saldi valori morali, ma anche consapevole che l’obiettività assoluta non esiste e ciò che le si avvicina di più è l’onestà intellettuale di scavare nella cronaca senza pregiudizi al fine di ricavarne una tesi generale documentata e convincente.
L’esplorazione intorno al 4 marzo, giorno delle elezioni che hanno cambiato l’Italia, diventa allora un viaggio nell’Italia di oggi e nelle sue contraddizioni. Che sono sociali ed economiche. Hanno a che vedere con le nuove diseguaglianze economiche, con la devastazione dei ceti medi a cui sono state tolte le certezze, con le paure - in primo luogo l’immigrazione e l’Islam - tipiche di un Paese dal presente confuso e dal futuro avvolto nella nebbia. Lega e Cinque Stelle, due fenomeni politici complementari ma solo in parte sovrapponibili, non vengono da Marte né rappresentano l’invasione degli Hyksos aggiornata al nuovo secolo.
Sono la fotografia di una frattura verticale tra élite e popolo; o se si preferisce tra establishment e popolo. Nonché una risposta istintiva da parte di un’Italia irritata con le forze tradizionali che hanno in sostanza fallito la loro missione in una ben determinata contingenza storica.
Per meglio dire, i due soggetti vincitori il 4 marzo, nella loro mancanza di legami con la memoria collettiva e addirittura, si può dire, estranei al patto costituzionale, rappresentano il prodotto di un mutamento in atto non solo in Italia, ma che qui ha assunto quel carattere di anteprima senza precedenti di cui già altre volte, se vogliamo risalire indietro nei decenni, l’Italia è stata protagonista: dal fascismo a Tangentopoli, volendo semplificare. E non si capisce quello che è accaduto prima del marzo 2018 se non si collocano nella giusta prospettiva i passi falsi commessi nel corso degli anni da una dirigenza politica responsabile di approssimazione, inadeguatezza e calcoli sbagliati. Fino all’esito inevitabile: rappresentarsi come "casta" privilegiata e corrotta, anziché come classe dirigente responsabile, agli occhi del cittadino comune.
Le nuove povertà non sono un’invenzione polemica, ma risultano documentate dalle indagini Istat. Il senso di insicurezza nella vita quotidiana sarà pure solo "percepito", ma è talmente diffuso - anche a causa di orribili vicende di cronaca nera - da essere ormai il principale asso nella manica di uno dei due "populismi", quello improntato a destra dalla Lega. Il bisogno di protezione sociale è palpabile. Infine la "miopia" dei partiti tradizionali: un aspetto che va oltre i nostri confini, come si è visto con il declino dei socialisti francesi e persino dei socialdemocratici tedeschi (senza contare l’appannamento dei democristiani di Angela Merkel).
Da noi però la miopia è spinta alle soglie del suicidio, come si è visto nel caso del Pd che invece di affrontare i temi cruciali della diseguaglianza e della perdita di "status" delle classi medie si è incartato per mesi in un referendum costituzionale trasformato dal premier del momento in un velleitario plebiscito personale a cui gli italiani, pressati da altri problemi, hanno risposto "no".
Conclusione: si è accesa la miccia che ha fatto esplodere il quartier generale. Ora si tratta di capire fino a che punto ha ragione Steve Bannon, l’ideologo del "trumpismo", il singolare Che Guevara che vuole esportare in Europa la filosofia politica della Casa Bianca, quando dice a Molinari che l’Italia è ormai "la forza trainante del nazional-populismo". E non c’è dubbio che l’affermazione di Trump in America ha avuto conseguenze sconvolgenti in tutto il mondo occidentale. Se le prossime elezioni nell’Unione saranno cruciali, se la scommessa di Salvini coincide con la speranza di buttare all’aria i vecchi assetti a Bruxelles, questo lo si deve in buona misura all’avvento di Trump. Come pure al nuovo mito dell’"uomo forte" incarnato da Putin e dalla sua strategia "dello scompiglio" o della destabilizzazione: per la quale tutti i mezzi sono leciti, anche l’uso delle tecnologie del web.
Era dai tempi della guerra fredda che l’Italia non si trovava così al centro dell’attenzione internazionale. Molinari decifra il rebus con freddezza, mescolando l’analisi della dimensione locale con quella del quadro mondiale di cui ha sperimentata conoscenza. In attesa che i prossimi mesi sciolgano gli interrogativi di fondo: il populismo al governo è una svolta storica o una parentesi, per quanto rilevante?
Contro lo straniero e contro le élite due populismi diversi
Sinistra / governo. Questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista. Difficile dire quanto stabile si rivelerà, ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo
di Antonio Floridia (il manifesto, 13.06.2018)
«Del resto mia cara di che si stupisce/anche l’operaio vuole il figlio dottore/e pensi che ambiente che può venir fuori/non c’è più morale, Contessa». Torna in mente questa celebre canzone, a sentire certe reazioni di un’opinione pubblica colta e democratica, di fronte alla nascita del nuovo governo.
Un atteggiamento tra lo sconsolato e lo spocchioso, un sentimento di stupore e di estraneità: ma come si è potuti giungere fino a questo punto? E giù, poi, con le ironie sull’incompetenza di questi parvenu.
Alcuni settori politici, giornalistici e intellettuali, invece di chiedersi come mai il “popolo” non abbia dato loro minimamente retta, sembrano ritrarsi in una posizione di ripulsa, di denigrazione delle masse. Un vecchio riflesso condizionato, tipico dei conservatori del buon tempo antico, quando si pensava che il governo fosse una prerogativa naturale dei colti e delle èlites.
Ma appare assai dubbio che, in questo modo, si possa costruire un’opposizione efficace a questo governo e che si possa fare ricredere quei milioni di connazionali che hanno votato per queste forze “impresentabili”. Limitarsi a lanciare un grido allarmato sui “populisti al governo” non intacca il consenso di cui godono. Un’opposizione credibile presuppone un saldo “punto di vista” alternativo. Ed è questo che oggi manca del tutto: dire che “mancano le coperture” è un argomento assai fragile (e persino controproducente: un elettore che ha votato per questi partiti, può sempre pensare: “beh, allora gli obiettivi sono giusti, almeno ci stanno provando”).
Costruire una cornice politica e ideale che possa davvero insidiare l’egemonia populista presuppone, intanto, che si torni a praticare quella che un tempo si chiamava “analisi differenziata”.
E quindi, in primo luogo, occorre interrogarsi su che tipo di populismo abbiamo di fronte.
Possiamo assumere una definizione, minima ma essenziale, di populismo: il populismo è un modo di costruzione del discorso politico, un’operazione egemonica sugli schemi interpretativi della realtà sociale e del conflitto politico, fondata sulla creazione di una dicotomia che separa “noi” (il popolo”) da “loro” (gli “altri”). Possiamo dire allora che questo nuovo governo nasce da una parziale convergenza tra due diverse forme di discorso populista: la prima identifica l’”altro” con lo “straniero”, la seconda con le “èlites”. Difficile dire quanto stabile si rivelerà questa convergenza: ma in ogni caso, è su questa linea di frattura che dovrebbe insinuarsi un discorso democratico alternativo.
Il primo passo per una controffensiva è quello di non “regalare” all’avversario anche il controllo sul linguaggio della politica, e su alcune parole, in particolare: “l’anti-elitismo” e la “sovranità popolare”. Le teorie elitistiche del potere sono sempre state un caposaldo del pensiero conservatore. Da Gaetano Mosca fino ad alcuni scienziati politici americani del Novecento, la critica alla democrazia di massa si è sempre fondata sull’idea che il “cittadino comune” è incompetente, incapace di avere una visione lungimirante dei propri stessi “veri” interessi: e sull’idea che, in fondo, l’apatia è un segno di consenso, o che un eccesso di “partecipazione” popolare è pericoloso. Ebbene, la sinistra, oggi, non dovrebbe recuperare una sana attitudine “anti-elitista”?
Ossia, individuare le vere oligarchie che dominano l’economia e la società e indicare le vie per contrastarne lo strapotere? E poi, la “sovranità popolare”: diamine, è un termine che appartiene alla storia del pensiero democratico e rivoluzionario! Possiamo ridurre tutto a “sovranismo” nazionalista? o non si dovrebbe ridare un senso all’idea di una sovranità democratica, a fronte del dominio cieco e impersonale di potenze economiche e finanziarie imperscrutabili e sfuggenti? Solo così, al M5S si potrà poi rivolgere un’obiezione cruciale: le “èlites” sono per voi sono solo le “caste” politiche? E come la mettete con la flat tax?
Se analizziamo la cultura politica del M5S troviamo un’idea ibrida di democrazia. Da una parte, più che di democrazia “diretta”, è giusto parlare di una sua visione immediata e “direttistica”: l’idea che la “volontà popolare”, univoca e indifferenziata, si possa tradurre senza filtri e mediazioni in una “volontà generale”; dall’altra, specie a livello locale, ci si appella invece ad un’idea di democrazia “partecipativa” che ha alimentato l’esperienza politica e associativa di molti attivisti (ad esempio, in molti programmi amministrativi del M5S, frequente è il richiamo al “bilancio partecipativo”). Una miscela contraddittoria: un’idea di democrazia “a binario unico”, che può condurre ad ignorare i principi cardine di un costituzionalismo democratico, ma che esprime anche, in forme distorte, un’idea di recupero della sovranità popolare, oggi comunemente sentita come svuotata, con un appello al protagonismo civico. Da qui anche la novità di un ministero alla “democrazia diretta” e l’inserimento nel “contratto” di alcune proposte di riforma dell’istituto referendario (su alcune delle quali si può discutere, mentre altre sono assai più problematiche). Ma anche in questo caso, è una sfida che può essere raccolta solo se la sinistra torna a proporre una visione ricca della democrazia rappresentativa, che sia fondata sulla partecipazione politica dei cittadini, e non su una mera selezione elettorale delle èlites.
Si può far leva su queste contraddizioni; ma come sarà possibile se, ad esempio, all’interno del Pd, ci sono ancora forze che pensano con nostalgia alla riforma costituzionale sconfitta al referendum, o a leggi elettorali simil-Italicum, che proprio ad una visione plebiscitaria della democrazia erano ispirate? Sembra oramai largamente condivisa l’idea che la crisi della sinistra sia nata dalla sua subalternità al neo-liberismo economico; meno frequente appare il richiamo ad un’altra, non meno grave, subalternità: quella ad una visione elitistico-competitiva della democrazia. Anche su questo terreno si dovrà misurare una possibile ricostruzione della sinistra.
NOTA 1 :
A Rossana Rossanda sono venuti i capelli bianchi il 4 novembre 1956, in seguito all’invasione sovietica deell’Ungheria *
A Rossana Rossanda sono venuti i capelli bianchi il 4 novembre 1956, in seguito all’invasione sovietica deell’Ungheria. Aveva trentadue anni, e rimase sconvolta dalla visione di una fotografia:
«Un funzionario appeso a un fanale, il collo spaccato e il volto scomposto dell’impiccato, mentre sotto di lui un paio di operai della grande fabbrica in rivolta ridevano. Fu la prima volta che mi dissi: ci odiano. Il povero e l’oppresso non hanno sempre ragione. Ma i comunisti che si fanno odiare hanno sempre torto. E quello era un odio massiccio, sedimentato; non si arriva a questa enormità senza un’offesa lungamente patita».
* Cinquantamila.it, 07.02.2001
NOTA 2:
L’URLO DI ITALO CALVINO (1980). --- Quello scontro tra Di Vittorio e Togliatti sulla repressione del 1956 in Ungheria.
Per non dimenticare.
Viaggio nell’Italia delle leggi razziali
di Roberto I. Zanini (Avvenire, martedì 23 ottobre 2018)
«Vagoni merci chiusi dall’esterno. E dentro uomini, donne, bambini compressi senza pietà, come merce, in viaggio verso il nulla». La citazione è di Primo Levi, da Se questo è un uomo. Nella mostra multimediale voluta dal presidente Sergio Mattarella in alcune sale del Quirinale è pronunciata dalla voce narrante dell’attore Francesco Pannofino. Sottolinea uno dei passaggi più intensi: quello che il visitatore vive dall’interno di un vagone riscostruito con i piedi collocati su binari che vanno idealmente a collegarsi alla strada ferrata proiettata sulla parete in un video d’epoca, che conduce nel campo di Auschwitz attraverso il cancello principale.
Stiamo parlando di “1938: l’umanità negata. Dalle leggi razziali italiane ad Auschwitz”, mostra inaugurata ieri pomeriggio dal capo dello Stato alla presenza del ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, che resterà aperta fino al 27 gennaio, Giorno della memoria.
Una mostra storica che utilizza con efficacia le moderne tecniche multimediali di ’realtà aumentata’. Ideata, scritta e curata da Giovanni Grasso e dal fisico Paco Lanciano (lui preferisce parlare di «realtà emotivamente orientata »), noto al grande pubblico per i suoi interventi scientifici a SuperQuark e autore di tutte le ricostruzioni ’virtuali’ delle trasmissioni di Piero Angela, è finanziata dal Miur e si avvale della collaborazione del Memoriale della Shoah di Milano, di Rai Storia, Istituto Luce e Treccani.
Un’iniziativa che, come hanno spiegato gli autori, è soprattutto diretta ai giovani e alle classi scolastiche con l’idea di offrire loro un’efficace ricostruzione, facendo anche intuire emotivamente il contesto di ’normalità’, sempre riproponibile, in cui si sono collocati quei fatti. Lo spunto è ancora una citazione di Levi da Se questo è un uomo: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre».
Ecco allora la suggestione del treno merci che entra fra le baracche di Auschwitz, ma soprattutto ecco la soluzione narrativa costruita sulla vita di due famiglie italiane, una ebrea e l’altra cattolica, delle quali sono giunte fino a noi le pellicole con le quali i due padri (Francesco cattolico, Bruno ebreo) hanno realmente documentato le ’quotidiane vite di normalità’ nella Roma fra gli anni Venti e Trenta: le mogli Giovanna e Sara, i figli Paolo, Anna e Daniele, il lavoro, la scuola... Un po’ come succederebbe oggi con le foto e i video fatti col telefonino, ma in bianco e nero.
Una storia che nella prima sala della mostra inizia con proiezioni su schermi che avvolgono il visitatore. E le prime immagini sono quelle che documentano le colonne di giovani soldati che vanno verso il fronte il 24 maggio 1915. Ragazzi da tutta Italia, cattolici, ebrei, protestanti, atei, che combattono per tre anni fianco a fianco e fraternizzano. Nel sangue e nel dolore di quelle trincee, si è sempre detto, si è costruita l’unità d’Italia.
E fra quei ragazzi in marcia, ripresi di spalle, la ricostruzione di Grasso e Lanciano estrae i volti di due che, casualmente si girano verso la macchina da presa. Sono loro i nostri Francesco e Bruno.
Due italiani fra tanti. Due italiani che dopo il 4 novembre 1918 tornano a casa e negli anni che seguono sono impegnati nella ricostruzione del Paese, due italiani che dopo la Marcia su Roma, come quasi tutti, diventano fascisti senza rendersi conto fino in fondo di quanto accade davvero in Italia e in Europa.
Due italiani dalle vite pressoché parallele, ma che dal 1938 in poi divergono spaventosamente così che Francesco e Bruno diventano nemici in forza di legge con la sequenza crescente fra settembre e novembre delle cosiddette leggi razziali. Poi ancora una guerra, l’armistizio, il rastrellamento nel ghetto di Roma dove vengono presi anche Bruno e la sua famiglia. La mostra racconta, facendola rivivere immersivamente, una sequenza di fatti che per quelle due famiglie ebbe un epilogo del tutto inatteso e che ancora oggi si stenta a crederlo come razionalmente possibile. «Le azioni compiute erano mostruose ma chi le compì era pressoché normale», scrisse a riguardo Hannah Arendt. E non mancano, con i filmati autentici, suggestivi documenti storici e prima pagine di giornale che collocano quelle vicende nel tempo e nello spazio raccontando, come ha detto Mattarella, «una lezione terribile» che invita a essere sempre vigili di fronte ai «focolai di odio, di intolleranza, di razzismo presenti nelle nostre società e in tante parti del mondo».
A chiudere il percorso, nell’ultima sala, una delle tre copie autentiche della Costituzione italiana con le firme, in data 27 dicembre 1947, di Enrico De Nicola, Alcide De Gasperi, Umberto Terracini; quella spesso sottostimata conquista politica e sociale che all’articolo 3 recita: «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Nel 2019 è previsto che la mostra diventi itinerante, poi dovrebbe trovare una collocazione definitiva. Roberto Jarach, presidente della Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, ’Binario 21’, ha spiegato a riguardo che si spera in una sistemazione definitiva in locali limitrofi alla Fondazione.
"LA CHIESA, CORPO DI CRISTO", LA PAROLA DEL PAPA, E LA NECESSITA’ DI UNA "UMILTA’ NUOVA". IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO.... *
Pedofilia: la parola profonda e tagliente del Papa.
Se nella Chiesa c’è chi fa muto Dio
di Marina Corradi (Avvenire, sabato 15 settembre 2018)
C’è fra alcuni di noi una stanchezza. Gli episodi di pedofilia nella Chiesa emergono dal passato molto più numerosi di quanto li avremmo mai creduti. Si delinea un male sotterraneo, taciuto, e quasi, in certi ambienti, tollerato. È un’onda fangosa quella che si solleva dall’Irlanda, dagli Usa, dall’Australia e da altrove. Fa scandalo, come è giusto, e fa molto rumore. E appunto alcuni credenti, pure avviliti e addolorati, cominciano a avere una reazione tuttavia di insofferenza: non si sente parlare che di pedofilia, obiettano, non c’è solo questo, la Chiesa è ben altro. La Chiesa, dicono, è piena uomini e donne che fanno del bene senza fare rumore, è fatta anche di missionarie e missionari coraggiosi, di bravi parroci, di suore che curano i figli dei poveri, di laici generosi. È fatta la Chiesa, anche di sconosciuti santi, e di martiri.
Ed è tutto assolutamente vero. Eppure, il Papa giovedì scorso a dei vescovi di recente nomina, tornando sul dramma della pedofilia fra consacrati, ha detto parole drammatiche. Ha detto che le nostre risposte «saranno prive di futuro se non raggiungeranno la voragine spirituale che, in non pochi casi, ha permesso scandalose debolezze, se non metteranno a nudo il vuoto esistenziale che esse hanno alimentato. Se non riveleranno - ha proseguito - perché mai Dio è stato così reso muto, così messo a tacere, così rimosso da un certo modo di vivere, come se non ci fosse».
Dio reso muto. Dio messo a tacere, come se non esistesse. Etsi non daretur. E hanno vissuto, e vivono, così persone consacrate. Taglia come un rasoio questa parola del Papa. Come il bisturi del chirurgo che, aprendo il petto di un paziente, scopre che è ampio, il male da asportare. Non minimizza il Papa, non si consola pensando a tutto il bene fatto dalla Chiesa. Sembra dirci che occorre prendere coscienza del male, tutto intero, di quanto profondo sia stato - tanto da ammutolire Dio.
Francesco ci fa stare davanti al peccato che ha intaccato la Chiesa, senza scappatoie. Un peccato che, nel dolore delle vittime, nel loro scandalo, riguarda anche noi. Coloro che parlavano a dei bambini di Dio erano gli stessi che ne abusavano: ingenerando in loro il pensiero che né degli uomini, né di Dio ci si può fidare. Pensiero che annienta, colpo di scure su giovani piante.
Dio reso muto, Dio rimosso, proprio da chi doveva insegnare ad amarlo. Il dito del Papa non smette di indicarci ciò che è stato. Noi, forse, avremmo la tentazione di dimenticarcene. D’accordo, lo sappiamo, basta adesso. Perché abbiamo il vizio di pensare che gli uomini e le istituzioni siano "buoni", oppure "cattivi". La Chiesa è "buona", e dunque non tolleriamo di constatare quanti abbiano potuto tradire, e nel modo peggiore, con dei bambini. Ci umilia troppo il ricordarlo.
Ma la Chiesa, corpo di Cristo, è fatta da uomini. Contiene in sé, come il cuore di ogni uomo, possibilità di luce e di buio, di generosità fedele e silenziosa, di eroismo, ma anche di diserzione vigliacca, sotto a ordinate apparenze. E chi conosce il labirinto del suo cuore, e a una certa età almeno bisognerebbe conoscerlo, può guadare allo scandalo che il Papa continua a indicarci, senza domandare che si parli d’altro.
Si può stare a viso aperto davanti a tanto male compiuto in mezzo a noi, solo se non ci si sente orgogliosamente "buoni", "onesti", intoccabili dalla miseria umana. Nessuno è buono, ci ha insegnato Gesù Cristo. Siamo tutti poveri, dei miserabili che mendicano la grazia di Dio. È quella grazia, domandata ogni mattina, che ci permette di fare del bene, che ci allontana dalla attrazione del male. Non un nostro essere "bravi".
«Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore» era la litania dei monaci della tradizione greco-bizantina, ripetuta come un respiro, come una domanda inesausta. In questa coscienza di mendicanti possiamo stare di fronte alle parole del Papa, al tragico Dio muto che ha evocato, e non perdere il coraggio. In un travaglio che potrebbe portarci a una umiltà nuova.
Nessuno è buono, e c’è in ciascuno di noi la possibilità del male. Bisogna ostinatamente domandare. Il peccato dentro la Chiesa che si leva alto come un’onda non ci travolge, se non lo censuriamo; ma, più coscienti del nostro e altrui male, ci ricordiamo che l’autentica santità, come ha concluso l’altro giorno Francesco, «è quella che Dio compie in noi».
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
In campo l’ex stratega di Trump
La Chiesa a scuola di Bannon per creare una fronda anti-Papa
Al via un corso presso l’Istituto Dignitatis Humanae, presieduto dal cardinale Burke
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17.09.2018)
CITTÀ DEL VATICANO Piomba sul Vaticano alle prese con la stesura di una risposta al dossier dell’ex nunzio a Washington Carlo Maria Viganò la notizia che l’ex stratega di Trump, Steve Bannon, sta organizzando in collaborazione con l’Istituto " Dignitatis Humanae" di Roma un corso di leadership per "politici cattolici conservatori", una vera e propria fazione populista, nazionalista e conservatrice che dall’intero del mondo cattolico va nella sostanza a contrastare il magistero di papa Bergoglio.
Bannon, cattolico su posizioni oltranziste e contrastanti al papato, legato al cardinale statunitense ultraconservatore Raymond Burke e al mondo che ha prodotto il dossier Viganò. E anche se apparentemente prende le distanze da Viganò dicendo che Francesco «non dovrebbe assolutamente dimettersi» perché «è il vicario di Cristo sulla terra», in realtà l’azione dei conservatori americani in opposizione a Francesco appare studiata e frontale e assume sempre più i contorni di una strategia studiata a tavolino. La volontà di Bannon di lasciare il Papa al suo posto sembra motivata più che altro dal fatto che così la leadership del vescovo di Roma si logora meglio. Bannon, non a caso, dice senza remore che la risposta del Papa sulla pedofilia è insufficiente e che «la gente deve capire la portata del danno inferto dalla e alla Chiesa cattolica » . Per questo invoca « un Tribunale indipendente dalla Chiesa» sulla pedofilia. Anche perché, dice, la convocazione a Roma a febbraio dei capi dell’episcopato mondiale «è troppo tardi».
L’Istituto " Dignitatis Humanae" non è fondazione neutrale. Compagine religiosa di orientamento conservatore, ha scelto come sua base di lavoro l’abazia di Trisulti, passata all’ala tradizionalista dopo che gli ultimi tre monaci ormai anziani sono rientrati a Casamari. L’antico convento, a un centinaio di chilometri a Sudest di Roma, potrà ospitare anche 250- 300 studenti alla volta e, secondo quanto ha dichiarato il direttore Benjamin Harnwell, porterà avanti i lavori di quello che è a tutti gli effetti un think tank di stampo catto- tradizionalista che vuole proteggere e promuovere la dignità umana sulla base della « verità antropologica » che l’uomo sia nato a immagine e somiglianza di Dio. L’obiettivo è di favorire questa visione sostenendo i cristiani nella vita pubblica «aiutandoli a presentare risposte efficaci e coerenti a sforzi crescenti per zittire la voce cristiana nella pubblica piazza » . Un’attività che viene svolta coordinando anche i gruppi di lavoro parlamentari «affiliati sulla dignità umana in tutto il mondo».
E forse non è un caso che una settimana fa il cardinale di riferimento Burke (presiederà il think tank) abbia scelto il Senato per presentare il suo ultimo libro «Chiesa Cattolica, dove vai? Una dichiarazione di fedeltà». Come a dire: è da qui che certi valori debbono essere annunciati. A soffiare contro il magistero di Bergoglio c’è anche quell’ala cattolica italiana che non ha remore a guardare a Salvini e al suo mondo. Bannon, lanciando a Roma " The Movement", ha dichiarato: « Salvini è un leader mondiale».
La scelta di un papa inquieto
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 11.10.2018)
«L’aborto è come affittare un sicario». E’ un’immagine pesante, non facilmente comprensibile e vagamente diffamatoria quella usata dal Papa. Ma l’aborto viene da lui senz’altro omologato al «disprezzo della vita» quale si esprime nel lungo elenco delle guerre, degli sfruttamenti di ogni genere, di tutti gli abusi per opportunismo. Si tratta di parole gravi che contano, pronunciate da un maestro della comunicazione diretta e coinvolgente come Papa Francesco.
Eppure sulla base della sua esperienza pastorale, il Pontefice dovrebbe sapere che l’aborto non è semplicisticamente riducibile a «un problema per risolvere il quale si fa fuori una vita umana». E’ un’esperienza angosciosa intima .
Soprattutto Bergoglio ignora che «il problema» o «il diritto» all’’interruzione della gravidanza è riconosciuto dalla legge secondo determinate e ben precise condizioni. Essa riguarda «una gravidanza che comporti un serio pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in relazione al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. L’accesso all’intervento abortivo è dalla legge garantito in quelle circostanze, cosicché parlare di libertà di aborto è una forzatura che la legge non consente». Così ha scritto qualche giorno fa su questo giornale Vladimiro Zagrebelsky, augurandosi che non si ritorni a contrapposizioni irragionevoli, aggressive e diffamatorie.
Invece ci risiamo, e proprio per bocca del Papa. Adesso ci manca solo l’intervento di Matteo Salvini.
E’ triste dover fare questa battuta. Ma ferme restando le ragioni di principio dell’opposizione del Pontefice e del mondo cattolico all’interruzione della gravidanza, è innegabile che essa risenta del mutamento del clima politico e culturale del Paese. E che ci sia la tentazione di approfittarne per riaprire una questione che sembrava risolta nel rispetto reciproco delle convinzioni etiche.
Questa tentazione è un segnale importante dell’ avanzare di una democrazia illiberale nel nostro Paese. Si fanno prepotenti i segnali di insofferenza della classe politica al governo per ridurre o condizionare gli spazi di libertà di espressione della stampa. In maniera più pasticciata e subdola vengono alterati i diritti costituzionalmente riconosciuti ai richiedenti asilo, ai profughi, ai migranti. A questo proposito però esiste il consenso detto e non detto della popolazione e dello stesso mondo cattolico - con l’eccezione di pochi gruppi che rischiano però di godere di una visibilità mediatica fine a se stessa.
In tema di migrazione, accoglienza e integrazione dei migranti la stessa voce del Papa così forte, insistente, perentoria e persino provocatoria sino ad un anno fa, sembra in qualche modo ridimensionata. Si è fatta più realistica. Spero che questa mia affermazione non venga maliziosamente fraintesa.
Papa Bergoglio si trova in una situazione eccezionalmente difficile dentro e fuori la Chiesa. Nei suoi contatti e comunicazioni esterne talvolta si ha l’impressione che, senza abbandonare la sua tipica giovialità, sia profondamente turbato.
Questo turbamento si esprime anche nel suo schietto linguaggio tradizionale che mette continuamente in guardia qui e ora contro la presenza e l’opera del demonio. In fondo è lui il sicario dell’aborto.
MA COME RAGIONANO GLI ITALIANI E LE ITALIANE?!
L’Italia e’ diventata la ’casa’ della menzogna... e della vergogna?!
di Federico La Sala *
Elementare!, Watson: Se, nel tempo della massima diffusione mediatica dellapropaganda loggika, l’ITALIA è ancora definita una repubblica democratica e "Forza Italia" (NB: ’coincidenza’ e sovrapposizione indebita con il Nome di tutti i cittadini e di tutte le cittadine d’ITALIA) è il nome di un partito della repubblica, e il presidente del partito "Forza Italia" è nello stesso tempo il presidente del consiglio dello Stato chiamato ITALIA (conflitto d’interesse), per FORZA (abuso di potere, logico e politico!) il presidente del partito, il presidente del consiglio, e il presidente dello Stato devono diventare la stessa persona.
E’ elementare: queste non sono ’le regole del gioco’ di una sana e viva democrazia, ma di un vero e proprio colpo di Stato! (Shemi EK O’KHOLMES).
Non solo gli ebrei. Così morì lo Stato
Commento di Anna Foa (la Repubblica, Robinson, 02.09.2018)
Nell’autunno 1938 il regime fascista emanò una serie di leggi, le cosiddette "leggi razziali", seguite da ulteriori circolari e disposizioni, che introducevano radicali discriminazioni fra i cosiddetti appartenenti alla "razza ariana" e i non ariani, in particolare gli ebrei. All’epoca, gli ebrei presenti in Italia erano 47.000, di cui 10.000 circa stranieri. Un ebreo ogni mille "ariani", quindi.
Le leggi razziali si abbatterono come un fulmine a ciel sereno sul mondo ebraico italiano, partecipe in larga misura del consenso generale al regime fascista. Le mille disposizioni con cui le leggi colpivano gli ebrei erano inaspettate, anche se fra il 1936 e il 1937 non erano mancate avvisaglie di una possibile svolta razzista, e se il sempre più stretto avvicinamento alla Germania hitleriana appariva a molti preoccupante.
Anche dopo l’emanazione delle leggi, però, il mondo ebraico italiano non ebbe piena consapevolezza della portata della catastrofe. Prevalse l’idea che poco a poco tutto sarebbe finito nel dimenticatoio, mentre molti tentavano la strada delle domande di "discriminazione" per meriti fascisti o altro, ossia l’esenzione individuale dalle norme razziste, per lo più respinte dal regime e che comunque non sarebbero riuscite più tardi ad evitare la deportazione dei "discriminati". Anche tra gli antifascisti, tranne poche voci, scarsa fu la consapevolezza della gravità di quanto accaduto. Il mondo stava precipitando verso la catastrofe e le leggi razziste furono generalmente sottovalutate anche dagli oppositori del regime. Fra gli "ariani" pochissimi reagirono.
Certo, c’era una dittatura che già si era sbarazzata dei suoi oppositori col carcere, l’esilio, il confino. Ma i non ebrei fecero tesoro della propaganda razzista diffusa a piene mani dal regime. I professori delle Università furono pronti ad occupare le cattedre liberate dai colleghi ebrei, gli insegnanti cacciarono da scuola gli studenti ebrei senza mostrare rammarico, un trauma rimasto nella memoria di quei bambini a tutt’oggi. Chi continuava a avere rapporti con gli ebrei era definito "pietista".
Nessuno allora comprese che con queste leggi era definitivamente morto lo Stato creato dal Risorgimento. Che la ferita più grande le leggi l’avevano inferta non agli ebrei, ma all’Italia.
Galante Garrone e Calamandrei: il senso della Costituzione
La storia intellettuale e morale di un uomo d’altri tempi, padre della Carta
di Furio Colombo (Il Fatto, 03.09.2018)
L’autore è Alessandro Galante Garrone, un nome che ha fatto da guida e da riferimento a tanti adolescenti torinesi dell’immediato dopoguerra, sul senso e il valore di essere antifacisti. Il libro è dedicato a Calamandrei (Biografia morale e intellettuale di un grande protagonista della nostra storia, Effepi Libri), il personaggio che - dopo avere partecipato alla scrittura della Costituzione - si è impegnato a guidare un’Italia nuova e pulita lungo un percorso nobile di solidarietà fraterna, un Paese senza odio e senza confini, dopo una guerra che ha attraversato le terre desolate della morte a milioni e del deliberato e bene organizzato sterminio di popoli.
Né Galante Garrone né Calamandrei si fidavano dello slancio spontaneo verso il bene di coloro che erano sopravvissuti a una guerra di stragi.
Galante Garrone ha preso subito la bandiera della democrazia, dimostrando che niente vive senza l’impegno (il dovere) e la partecipazione di ciascuno cittadino. Calamandrei ha spinto sulla scena ancora disadorna dell’Italia povera e incerta di allora, i diritti delle persone, i diritti della Costituzione, i diritti umani, i diritti civili che, in seguito, i partiti, con l’unica clamorosa eccezione di Marco Panella, di Emma Bonino, del Partito Radicale, avrebbero tralasciato come se fossero solo l’ornamento, non la materia prima della democrazia.
Ma l’imbarazzo deve essere grande, per chi prende in mano ora questo libro (che è una ristampa da un’Italia lontana) e lo confronti con l’Italia che stiamo vivendo adesso, dove i diritti umani di rom, migranti e poveri vengono non solo trascurati ma deliberatamente e fisicamente offesi perchè i più deboli non contano.
Governare con le false promesse, in un castello di illusioni e invenzioni, ha portato a precipitare in un triste retro-cortile senza cultura, senza storia, senza solidarietà, senza alcun interesse per sentimenti e diritti, dove conta solo il compiacimento del proprio personale potere.
Questo libro arriva dal passato in un tempo in cui si usa lo slogan “prima gli italiani”, che farebbe inorridire chiunque ha combattuto per la libertà, e ha scritto e insegnato la Costituzione italiana. Perciò Galante Garrone e Calamandrei servono oggi all’Italia come le navi ong e la Guardia costiera italiana servono a salvare migranti, benchè l’ordine di questa repubblica sia di voltare le spalle.
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE". L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.... *
Lettera.
Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche d--a tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
Federico La Sala
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE... *
Un banco di prova per tutti.
Genova e adesso fatti e stile
di Francesco Ognibene (Avvenire, venerdì 17 agosto 2018)
Non è faccenda che si archivia in fretta, questa di Genova, e non solo per la vastissima impressione suscitata dal crollo del ponte Morandi in un Paese appena entrato nella pacificante quiete ferragostana. Rimuovere le immani macerie, ricostruire la complicata trama delle possibili responsabilità, ipotizzare e mettere in opera un manufatto durevole che possa rimpiazzare il viadotto sventrato richiederà tempo, e per una ferita di questa portata è il caso di chiedere soluzioni certo solerti, ma non spicciative. Va dunque risolutamente accantonata l’illusione di poter archiviare nel giro di qualche giorno la tragedia di martedì relegando alla svelta la notizia nella categoria dei traumi violenti ma momentanei, o delle grane locali. Prendiamo bene le misure dell’accaduto. Quello che si è consumato non è un incidente casuale o naturale, è una sciagura scatenata da un manufatto umano, che oltre a mietere decine di vite in modo crudele ha travolto una struttura che pompa ossigeno da e verso un’area produttiva del Paese, col rischio di stringere il collo di uno dei porti più grandi del Mediterraneo, di una straordinaria città e di una buona metà della Liguria.
Ma c’è anche dell’altro che va colto dentro e attorno lo scenario d’apocalisse del Polcevera. È proprio ascoltando la profonda emozione diffusa tra gli italiani - un misto di cordoglio, angoscia, indignazione e interrogativi non liquidabili con risposte a buon mercato - che va cercato l’atteggiamento doveroso in questa situazione tanto aspra. Avvertiamo tutti il dovere - nostro, di chi ci rappresenta, di quanti sono più direttamente coinvolti nei molti snodi della vicenda - di essere all’altezza di giorni duri nei quali si sente gravare su tutti il peso di una tragedia che come altre volte nella nostra storia recente ci fa sentire più che mai comunità nazionale, solidali nel dolore con chi patisce una perdita, una ferita, la lacerazione di dover lasciare casa propria forse per sempre, l’incertezza sul lavoro e il domani. Genova soffre e l’Italia soffre con lei, la abbraccia e insieme ne scruta la reazione, come sempre sobria e operativa.
Le parole misurate degli sfollati e della gente, mai sopra le righe o genericamente recriminatorie, ma neppure rassegnate o irose, sembrano indicare al Paese in ogni sua componente che davanti all’inimmaginabile la sola risposta proporzionata è badare all’essenziale, tenendo alla larga le polemiche frontali e le dichiarazioni roboanti in cerca di fugace consenso (ancora troppe, però, e suonano offensive quando parenti in angoscia attendono che sia trovato il corpo di un loro caro). Silenzio, ci vuole, e misura e condivisione di un dolore che è di tutti. Chi rumoreggia in un campo e nell’altro (se ha un senso dividersi in ore come queste) pare rimuovere un dato che invece vorremmo vedere chiaramente compreso e interiorizzato, trasparente nei gesti e nelle parole, nelle strategie operative e nelle decisioni che ci attendono. La modernità di un Paese è giustamente evocata come il parametro che rende intollerabile il collasso di un’infrastruttura strategica costruita appena mezzo secolo fa, ma si misura non solo in trafori o ferrovie.
Altro serve per dirsi evoluti che la padronanza di tecnologie costruttive che peraltro da tempo vedono le nostre imprese spuntare in tutto il mondo appalti di opere ben più vertiginose. A Genova si tratta di affrontare un nuovo esame di maturità che è per tutti, ognuno in proporzione al proprio ruolo. E per superarlo è uno stile che ora serve, e che proviamo a riassumere in tre parole. Ci vuole anzitutto compostezza nel modo di accostarsi alla dimensione di un fatto che è insieme umano e materiale, sapendo unire comprensione delle ferite da sanare e capacità di vedere tutti gli aspetti di un problema che coinvolge vita quotidiana, mobilità, lavoro, economia, turismo. Impegnarsi a vedere oltre le macerie il futuro e ciò che occorre a costruirlo conferisce la serietà e il rigore adesso imprescindibili, e che mettono in fuori gioco protagonismi e recriminazioni.
Ci vuole anche concretezza nel saper cogliere ciò che va fatto davvero, un passo dopo l’altro, senza la furia di mostrarsi a conoscenza di soluzioni che tutti sappiamo complesse quanto l’immenso guaio che si è prodotto. È solo così che si sarà in grado di agire nei tempi giusti, con una visione progettuale, senza improvvisare e sapendo mettere insieme competenze e risorse di tutti quelli che possono contribuire, evitando esclusioni pregiudiziali, processi sommari e la caccia a scalpi da esibire sulla piazza.
Ci vuole, infine, consapevolezza della terra che abitiamo, frastagliata e vulnerabile come poche al mondo, e le scosse in Molise poche ore dopo il dramma di Genova e di nuovo ieri sera ce lo hanno bruscamente ricordato. Un territorio così, con una morfologia sofferta e una presenza umana diffusa e laboriosa pressoché ovunque, richiede una cura assoluta delle opere pubbliche soggette a degrado elevato e talora improvviso. È un posto fragile, l’Italia, possibile che siano i morti a dovercelo rammentare? Il Paese maturo che vogliamo abitare non può prescindere da questo stile. La tragedia di Genova può diventare uno di quei momenti in cui abbiamo dimostrato di saper girare al largo dallo sfiancante dedalo delle polemiche faziose per mostrarci capaci di quella forza che di una espressione geografica e politica fa una comunità.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ITALIA , TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA.
"PERCHE’ NON POSSIAMO NON DIRCI CRISTIANI", 0GGI.. In memoria di (Benedetto Croce), alcune note a margine del discorso di Papa Francesco, all’Angelus del 12 agosto 2018 d. C. ...
PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 12 agosto 2018
Cari fratelli e sorelle e cari giovani italiani,
buongiorno!
Nella seconda Lettura di oggi, San Paolo ci rivolge un pressante invito: «Non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione» (Ef 4,30).
Ma io mi domando: come si rattrista lo Spirito Santo? Tutti lo abbiamo ricevuto nel Battesimo e nella Cresima, quindi, per non rattristare lo Spirito Santo, è necessario vivere in maniera coerente con le promesse del Battesimo, rinnovate nella Cresima. In maniera coerente, non con ipocrisia: non dimenticatevi di questo. Il cristiano non può essere ipocrita: deve vivere in maniera coerente. Le promesse del Battesimo hanno due aspetti: rinuncia al male e adesione al bene.
Rinunciare al male significa dire «no» alle tentazioni, al peccato, a satana. Più in concreto significa dire “no” a una cultura della morte, che si manifesta nella fuga dal reale verso una felicità falsa che si esprime nella menzogna, nella truffa, nell’ingiustizia, nel disprezzo dell’altro. A tutto questo, “no”. La vita nuova che ci è stata data nel Battesimo, e che ha lo Spirito come sorgente, respinge una condotta dominata da sentimenti di divisione e di discordia. Per questo l’Apostolo Paolo esorta a togliere dal proprio cuore «ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenza con ogni sorta di malignità» (v. 31). Così dice Paolo. Questi sei elementi o vizi, che turbano la gioia dello Spirito Santo, avvelenano il cuore e conducono ad imprecazioni contro Dio e contro il prossimo.
Ma non basta non fare il male per essere un buon cristiano; è necessario aderire al bene e fare il bene. Ecco allora che San Paolo continua: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (v. 32). Tante volte capita di sentire alcuni che dicono: “Io non faccio del male a nessuno”. E si crede di essere un santo. D’accordo, ma il bene lo fai? Quante persone non fanno il male, ma nemmeno il bene, e la loro vita scorre nell’indifferenza, nell’apatia, nella tiepidezza. Questo atteggiamento è contrario al Vangelo, ed è contrario anche all’indole di voi giovani, che per natura siete dinamici, appassionati e coraggiosi. Ricordate questo - se lo ricordate, possiamo ripeterlo insieme: “E’ buono non fare il male, ma è male non fare il bene”. Questo lo diceva Sant’Alberto Hurtado.
Oggi vi esorto ad essere protagonisti nel bene! Protagonisti nel bene. Non sentitevi a posto quando non fate il male; ognuno è colpevole del bene che poteva fare e non ha fatto. Non basta non odiare, bisogna perdonare; non basta non avere rancore, bisogna pregare per i nemici; non basta non essere causa di divisione, bisogna portare pace dove non c’è; non basta non parlare male degli altri, bisogna interrompere quando sentiamo parlar male di qualcuno: fermare il chiacchiericcio: questo è fare il bene. Se non ci opponiamo al male, lo alimentiamo in modo tacito. È necessario intervenire dove il male si diffonde; perché il male si diffonde dove mancano cristiani audaci che si oppongono con il bene, “camminando nella carità” (cfr 5,2), secondo il monito di San Paolo.
Cari giovani, in questi giorni avete camminato molto! Perciò siete allenati e posso dirvi: camminate nella carità, camminate nell’amore! E camminiamo insieme verso il prossimo Sinodo dei Vescovi. La Vergine Maria ci sostenga con la sua materna intercessione, perché ciascuno di noi, ogni giorno, con i fatti, possa dire “no” al male e “sì” al bene.
Dopo l’Angelus
Cari fratelli e sorelle,
rivolgo il mio saluto a tutti voi, romani e pellegrini provenienti da tante parti del mondo.
In particolare saluto i giovani delle diocesi italiane, accompagnati dai rispettivi Vescovi, dai loro sacerdoti ed educatori. In questi giorni, avete riversato per le strade di Roma il vostro entusiasmo e la vostra fede. Vi ringrazio per la vostra presenza e per la vostra testimonianza cristiana! E ieri, nel ringraziare, ho dimenticato di dire una parola ai sacerdoti, che sono quelli che vi sono più vicini: ringrazio tanto i sacerdoti, ringrazio per quel lavoro che fanno giorno per giorno, ringrazio per quella pazienza - perché ci vuole pazienza per lavorare con voi! La pazienza dei sacerdoti ... - ringrazio tanto, tanto, tanto. E ho visto anche tante suore che lavorano con voi: anche alle suore, grazie tante.
E la mia gratitudine si estende alla Conferenza Episcopale Italiana - qui rappresentata dal Presidente Cardinale Gualtiero Bassetti - che ha promosso questo incontro dei giovani in vista del prossimo Sinodo dei Vescovi.
Cari giovani, facendo ritorno nella vostre comunità, testimoniate ai vostri coetanei, e a quanti incontrerete, la gioia della fraternità e della comunione che avete sperimentato in queste giornate di pellegrinaggio e di preghiera.
A tutti auguro una buona domenica. Un buon rientro a casa. E per favore, non dimenticate di pregare per me! Buon pranzo e arrivederci!
* Appunti di commento sul tema, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Quella buona educazione (anche fisica) che ci serve
di Mauro Berruto (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Agosto del 1918, esattamente cento anni fa. Mancano pochi mesi alla fine della Prima Guerra mondiale e l’Italia sta uscendo dalla spirale di un conflitto feroce. Le cicatrici, la rabbia, il dolore, il risentimento dominano il Paese. Antonio Gramsci, che tre anni più tardi sarebbe stato fra i fondatori del Partito comunista italiano, pubblica sul giornale torinese L’ordine nuovo un articolo, poi inserito in un volume intitolato Scritti sotto la Mole.
È una riflessione sullo sport e sul modo di intendere, da parte degli italiani, quel fenomeno. Il pezzo, che ha un vero e proprio senso didascalico, si intitola “Il calcio e lo scopone”. È un’analisi sociologica molto seria che, riletta cento anni dopo, fa ancora pensare.
Gramsci descrive la partita di calcio come l’emblema della democrazia, perché si disputa a cielo aperto e sotto gli occhi del pubblico. «Ci sono movimento, gara, lotta, ma regolate da una legge non scritta che si chiama lealtà che viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro». Insomma, l’agone è definito da regole certe che permettono di distinguere e apprezzare i calciatori grazie alle loro capacità.
Di tutt’altro spirito, sostiene Gramsci, è impregnata la cultura dello scopone: «Una partita allo scopone: clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell’avversario o del complice. Lavorio perverso del cervello. Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei piedi. Una legge? Dov’è la legge che bisogna rispettare? Essa varia di luogo in luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazione e litigi“. Per Gramsci «lo sport suscita anche in politica il concetto di “gioco leale”», mentre la cultura dello scopone è l’espressione più retrograda e anti-progressista della società: «Lo scopone è la forma di sport della società economicamente arretrata, politicamente e spiritualmente, dove la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, dal questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell’incompetenza, dal carrierismo (con relativi favori e grazie del deputato)».
Che sia specchio o struttura della nostra società civile, il nostro modo di intendere lo sport è oggi molto vicino al nostro atteggiamento verso le istituzioni, verso tutte le forme di convivenza o tolleranza a cui siamo chiamati.
Sono passati cent’anni dalle suggestioni di Gramsci e, ahimè, lo sport, compreso quel calcio un po’ idealizzato, ha spostato le sue dinamiche verso quelle dello scopone che, peraltro, non si gioca quasi più e ha, a sua volta, lasciato il passo a partite da bar che si giocano con quelle stesse “carte segnate” (oggi si chiamano fake news), diffidenza, contestazioni, urla e pugni sul tavolo. Quelle partite le “giochiamo” sui temi dell’immigrazione, sul diritto di asilo, sull’opportunità dei vaccini, sul diritto al lavoro e diventano territorio di fazioni, di tifo da stadio, di ultrà che parteggiano per una o per l’altra squadra senza nessun tipo di competenza o di riferimento a regole certe, tantomeno ad arbitri riconosciuti e rispettati come tali. Sono passati cent’anni, il calcio non è più quello idealizzato e suggerito come esperienza civile da Gramsci. Le non-regole dello scopone sono diventate la forma del nostro confronto politico e civile. O incivile, forse.
Certo lo sport non è un paradiso di virtù, ma uno sport capace di recuperare il senso di quelle origini sarebbe uno strumento capace di rendere più civili le strutture della nostra vita associata che, tuttavia, è la lente che ci fa leggere anche lo sport secondo i propri parametri. Un cortocircuito da disinnescare, insomma. Come?
C’è un’unica soluzione che richiede tempo e investimenti: la scuola. Il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, insegnante di educazione fisica ed ex allenatore di basket, lo aveva dichiarato al suo insediamento: avrebbe voluto finalmente portare lo sport in modo strutturale nella Scuola Primaria.
Purtroppo il ministro Bussetti e i suoi ottimi programmi sembrano travolti dalle dichiarazioni di alcuni suoi colleghi su porti da chiudere, troppi vaccini o legge Mancino da rivedere, e quella voce che sembrava davvero di “cambiamento” in meglio, non la sentiamo più, neanche in lontananza. Ministro Bussetti, certo sta lavorando, ma ci dia certezze, che qui tira un’aria pesante: ci stiamo imbruttendo come squallidi giocatori di scopone di inizio secolo. Abbiamo bisogno di un po’ di educazione. Anche fisica.
LA PARABOLA DEi "TALENTI", I "DUE CRISTIANESIMI", E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO.... *
Destinazione sinodo/18.
Dall’ascolto all’incontro. È la gioventù del Papa
di Stefania Falasca (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Una generazione fa, nell’estate del 2013, di fronte alla marea di più di tre milioni di giovani assiepati sulla spiaggia di Copacabana per la Giornata mondiale della gioventù di Rio, papa Francesco era rimasto per un attimo in silenzio spaziando con lo sguardo su quella sconfinata folla di ragazzi sul bordo dell’oceano. Gli parve di vedere «guardando il mare, la spiaggia e tutti voi», disse, quel momento dell’inizio della storia cristiana sulla riva del mare di Galilea quando i primi due, alle quattro del pomeriggio, avevano incontrato Gesù. Gli erano andati dietro attratti da lui. E Gesù a questi due ragazzi - Andrea era sposato, quindi avrà avuto qualche anno di più, ma Giovanni era proprio un ragazzino -, voltandosi aveva domandato: «Che cosa cercate?». E questi non gli risposero ’cerchiamo la verità’, o ’cerchiamo la felicità’, non gli dissero neppure ’cerchiamo il Messia’. Quello che il cuore cercava lo avevano davanti. Allora a quella domanda - «Che cosa cercate?» - risposero chiedendo l’unica cosa che si può domandare: «Maestro dove abiti?», cioè ’dove rimani?’, dove rimani perché possiamo stare con te?
Sono passati cinque anni da quell’esordio vis-à-vis di Papa Francesco con i giovani di tutto il mondo in Brasile, e l’attualità ne resta intatta, anche se è cambiata nel frattempo la generazione dei «nati liquidi», come titola l’opera postuma di Zygmunt Bauman dedicata a queste ultime generazioni considerate sempre più «come bidone dei rifiuti per l’industria dei consumi» e «come un ulteriore fardello sociale», giovani che «hanno smesso di essere inclusi dalla promessa di un futuro migliore», sempre più «parte di una popolazione smaltibile la cui presenza minaccia di richiamare alla mente memorie collettive rimosse della responsabilità adulta». «Vuoti a perdere» a rischio «rottamazione», quelli che escono dalla lucida analisi dell’autore della società liquida, «gli scartati dall’impero del Dio denaro» da parte di chi divora la dignità umana e di cui gli Stati nascondono le stime crescenti dei suicidi. Giovani che sempre più non sanno cosa sia la Chiesa, anzi, che sempre più sono figli e nipoti di generazioni che non sanno più niente della religione.
Ma il dialogo intrapreso da Francesco da quel primo incontro sulla spiaggia di Copacabana si è fatto in questi anni serrato, spesso confidente, nel quale ai sermoni il Papa ha preferito domande e risposte a braccio come espressione di conversazioni dirette, di incontri. «Anche le migliori analisi sul mondo giovanile, pur essendo utili - sono utili -, non sostituiscono la necessità dell’incontro faccia a faccia. Parlano della gioventù d’oggi. Cercate per curiosità in quanti articoli, quante conferenze si parla della gioventù di oggi. Vorrei dirvi una cosa. La gioventù non esiste, esistono i giovani», ha detto di recente Francesco, tanto per essere chiaro. «Esistono le singole storie, i volti, gli sguardi, le illusioni, esistono i giovani... tu, tu.... Parlare della gioventù - ha ripreso in altra occasione - è facile: si fanno astrazioni, percentuali», invece «bisogna interloquire con loro», incontrarli «a tu per tu». Sono ormai decine i colloqui intrapresi non solo nell’ultima Gmg a Cracovia come in ogni viaggio apostolico nel mezzo delle crisi del mondo.
Forse anche da questi dialoghi è nata la decisione di un Sinodo non su ma dei giovani, per andare insieme. Camminando in controtendenza ha aperto le porte. E ha rotto la divisione noi-voi:
«Nella Chiesa - sono convinto - non dev’essere così: chiudere la porta, non sentire. Il Vangelo ce lo chiede: il suo messaggio di prossimità invita a incontrarci e confrontarci, ad accoglierci e amarci sul serio, a camminare insieme e condividere senza paura» ha ribadito anche nell’ultima riunione in vista del Sinodo di ottobre. «Questa riunione presinodale - ha aggiunto - vuol essere segno di qualcosa di grande: la volontà della Chiesa di mettersi in ascolto di tutti i giovani, nessuno escluso.
E questo non per fare politica. Non per un’artificiale ’giovano-filia’, no, non per adeguarsi, ma perché abbiamo bisogno di capire meglio quello che Dio e la storia ci stanno chiedendo. Se mancate voi, ci manca parte dell’accesso a Dio».
E se ha tenuto conto di tutte le realtà, il Papa più volte ha ribadito la volontà di lasciarsi interpellare da loro e di vederli protagonisti: «Siamo insieme parte della Chiesa, anzi, diventiamo costruttori della Chiesa e protagonisti della storia. Ragazzi e ragazze, per favore: non mettetevi nella ’coda’ della storia. Siate protagonisti. Costruite un mondo migliore, un mondo di fratelli, un mondo di giustizia, di amore, di pace, di fraternità, di solidarietà».
Ma perché la richiesta di questo protagonismo? «In tanti momenti della storia della Chiesa, così come in numerosi episodi biblici, Dio ha voluto parlare per mezzo dei più giovani: penso, ad esempio, a Samuele, a Davide e a Daniele. A me piace tanto la storia di Samuele, quando sente la voce di Dio. La Bibbia dice: ’In quel tempo non c’era l’abitudine di sentire la voce di Dio. Era un popolo disorientato’. È stato un giovane ad aprire quella porta. Nei momenti difficili, il Signore fa andare avanti la storia con i giovani. Dicono la verità, non hanno vergogna».
E se nella storia della salvezza il Signore si fida dei giovani, nell’incontro pre-sinodale del 19 marzo il Papa ha anche detto che il Sinodo di ottobre sarà anche un appello rivolto alla Chiesa, perché «riscopra un rinnovato dinamismo giovanile». Così come nell’udienza del gennaio 2017 ai partecipanti a un convegno dell’Ufficio Cei per la pastorale delle vocazioni aveva ripetuto che «sono le nostre testimonianze quelle che attirano i giovani. È la testimonianza: che vedano in voi vivere quello che predicate. Quello che vi ha portato a diventare preti, suore, anche laici che lavorano con forza nella Casa del Signore. E non gente che cerca sicurezza, che chiude le porte, che spaventa gli altri, che parla di cose che non interessano, che annoiano, che non hanno tempo... No. Ci vuole una testimonianza grande!».
Ritorniamo così all’inizio, all’incontro dei primi due discepoli con Gesù. Anche questa dinamica di come si diventa e si rimane cristiani percorre tutto il magistero di Francesco, ed è sempre la stessa - sempre nuova - che attraversa i tempi, le crisi e le generazioni, così che quell’episodio di Giovanni e Andrea raccontato a Copacabana è ripetuto ancora nell’ultimo intervento per il Sinodo di ottobre. E affinché l’assemblea non si trasformi in occupazione momentanea per monsignori forse sarà necessario non lasciarsi andare a una banale sociologia, e assumere invece queste intramontabili provocazioni evangeliche.
Sabato e domenica ci sarà l’incontro del Papa con i giovani delle diverse diocesi d’Italia. In molti sono già in cammino verso Roma per il pellegrinaggio, si parla di 40mila ragazzi. Marta, parte di un gruppo di universitari milanesi, parlando davanti a una pizza insieme agli altri dice che non le interessa niente dei discorsi sui giovani, e che non parte per sentire discorsi ma spinta da un incontro, che l’ha attirata e vuole vedere. Papa Francesco ha fatto sentire più volte come anche duemila anni fa un ragazzo e una ragazza, Giuseppe e Maria, hanno visto Dio con gli occhi e non in una visione mistica. Maria l’ha partorito, Giuseppe e lei lo hanno guardato. È iniziata così la storia cristiana. Sono stati lì a guardare Dio.
Francesco ha messo bene in evidenza come sia la grazia che crea la fede. Per questo la vita cristiana è semplice. La fede è il riconoscimento di questa attrattiva, di un incontro. E la grazia crea la fede non solo quando la fede inizia ma per ogni momento in cui la fede rimane. In ogni momento, non solo all’inizio, l’iniziativa è Sua, dice sant’Agostino. Solo a partire da questo cuore la Chiesa ringiovanisce e attrae. Il prossimo incontro con i giovani a Roma, come anche il Sinodo, può essere l’occasione per chiedere, per ciascuno, che questo avvenga e continui ad accadere.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?!
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola?
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?
Federico La Sala
AL DI LA’ DEL ’FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO’, UN ESERCIZIO DI PARRHESIA EVANGELICA: PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’....*
Dibattito pubblico e cattolici.
L’esempio da dare
di Umberto Folena (Avvenire, martedì 7 agosto 2018)
Dimmi contro chi sei, e ti dirò se hai ragione, se sei mio amico, se possiedi la verità. Dimmi non chi sei e con chi sei, per che cosa lotti, qual è la tua mèta, chi sono i tuoi fratelli. No. Dimmi invece chi bisogna combattere e annichilire, usando ogni mezzo, perfino la manipolazione e la menzogna. Per quanto triste sia, questo sta cominciando ad accadere in settori non solo della società italiana, ma anche del plurale mondo cattolico.
Meglio parlare di "mondo" che di "comunità", perché quando ciò accade una comunità cessa di esistere, o almeno le manca l’aria ed entra in coma.
Tutto dipende da un equivoco sull’amore. Meraviglie e disastri sono causati dall’amore, diversamente interpretato. L’amore per la patria può tradursi in nobile patriottismo, ma anche in arido nazionalismo, o come si dice oggi in repulsivo sovranismo. In inclusione o in esclusione. L’amore è dono, libero di essere accettato o rifiutato; ma può anche mutarsi in possesso, privo di libertà, che sempre cova in sé una vena violenta.
Amore per Cristo, per la Chiesa. Per la verità (qui pudicamente con la minuscola), parola che racchiude, di volta in volta, il Vangelo o (più o meno) dettagliate norme morali; il comandamento che racchiude tutti gli altri, «Ama il prossimo tuo come te stesso», o infinite norme e codicilli. I guai cominciano forse proprio da qui, dal significato della parola amore.
I fratelli in Cristo, il popolo dei redenti, i battezzati non hanno mai, mai, mai avuto un unico pensiero su tutto lo scibile umano. Probabilmente ciò sarebbe disumano. Ma questo non dovrebbe comportare prendersi a parolacce, insulti, arrivando a dare dell’eretico perfino al Papa, con bombardamenti di citazioni più o meno dotte, raramente autorevoli, quasi sempre fuori contesto. Roba da appartenenti a una setta qualsiasi. Già, perché questo, per questa via, si rischia di diventare: un insieme di sette che "possiedono la verità" (ma non se ne fanno possedere), e insignorendosene la manipolano, la usano come un santo randello e restano imprigionati nelle (e dalle) loro costruzioni.
Restiamo tra i cattolici. Il problema è, oggi, soprattutto, nel modo in cui alcuni vivono la sacra missione, che si sono attribuiti da sé, di una apologetica del Terzo millennio. In genere l’apologetica, per affermare una verità, ha bisogno di muovere da un errore da confutare. Ottimo. Ma qui entra in gioco la qualità dell’interprete, se colto e raffinato e di fede generosa, oppure se schematico e banale. Nel secondo caso, la confusione è immediata: insieme al presunto errore si combatte il presunto errante; anzi, gli si dà addosso direttamente senza pietà, con una ferocia giustificata dal fatto che è nell’errore, e con chi sbaglia non si scende a patti: va spazzato via, con toni violenti e irridenti, e da parte dei più sbrigativi semplicemente appiccicandogli un epiteto, un’etichetta ritenuta infamante.
Anche Avvenire pare meritarsi sovente un simile "fraterno" trattamento, e chi fa un giornale mette in conto cose così, ma mai abbastanza.
Sfugge, infatti, a questi fratelli (e concittadini) che medium is the message, la forma è il primo contenuto; e i modi violenti, cattivi, feroci, sprezzanti, certo utilizzati per meglio condannare il presunto errore che è necessario combattere per affermare la presunta verità, rendono violenta e cattiva quella stessa "verità". I toni sprezzanti rivelano un’anima sprezzante. Simili toni, infine, convincono chi è già convinto, strappano applausi ai propri fan, ma non incidono minimamente sul cuore degli uomini che la pensano diversamente, sulla cultura del tempo, sui modi di pensare e di vivere.
A proposito dei fedeli laici che su singole questioni, anche politiche (a partire dalle migrazioni), maturano opinioni e passioni diverse, valga questa parola autorevole: «Cerchino sempre di illuminarsi vicendevolmente attraverso il dialogo sincero, mantenendo sempre la mutua carità e avendo cura in primo luogo il bene comune». È il Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, 43c *. E magari almeno il Concilio potesse essere una solida base comune a partire dalla quale, pur della diversità di accenti e sensibilità, dare al mondo esempio e testimonianza di fraternità. Il «dialogo sincero» non prevede odio e nemmeno disprezzo.
* "Semper autem colloquio sincero se invicem illuminare satagant, mutuam caritatem servantes et boni communis imprimis solliciti" (Gaudium et Spes, 43 c) [fls].
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
iL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
VITA E FILOSOFIA. Per il ventennale della morte di Elvio Fachinelli (1928-1989).
METTERSI IN GIOCO, CORAGGIOSAMENTE. PIER ALDO ROVATTI INCONTRA ELVIO FACHINELLI.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
Federico La Sala
DUE VOLTI (E DUE NARRAZIONI) DELL’ITALIA - E DELLA CHIESA. Quale avvenire? *
La deriva della xenofobia
Senza vergogna
di Marco Tarquinio (Avvenire, sabato 4 agosto 2018)
Stiamo attraversando un tempo difficile, duro e bello come ogni tempo difficile, amaro come ogni tempo in cui nel nome di una Legge solo proclamata e di doveri solo parolai, e che ignorano e stritolano i diritti dei più deboli, si mette in questione l’umanità e l’uguaglianza stessa degli esseri umani. Senza vergogna. Ma la fragilità e la dignità della vita, di ogni vita umana, non si riconoscono dal passaporto e non si possono prendere in alcun modo in ostaggio. E le leggi non si applicano solo per stanare e "fermare" lo straniero, ma come ha sottolineato anche la nostra lunga inchiesta sul caporalato per far sì che chi è straniero di origine e italiano di lavoro non venga incluso e integrato soltanto nel (e dal) "lato oscuro" del nostro Paese.
È in tempi proprio come questi che a noi cristiani è chiesto di dare ragione in modo più limpido della nostra speranza. Ma non è un dovere solo nostro. Perché a tutti - ma proprio a tutti - è laicamente chiesto, se vogliamo tener saldo il patto di civile convivenza e la misura comune che contiene le nostre differenze e le compone in armonia, di sentirci impegnati a tener care e preservare le radici (troppo a lungo negate o date per scontate) dell’umanesimo che dà linfa, forza e capacità inclusiva alla nostra civiltà comune.
Questo tempo italiano è specialmente difficile perché ci mette davanti a due volti (e due narrazioni) dell’Italia, che invece o è una o non è.
Perché sarebbe un’Italia umanamente fallita - e del default più sconvolgente: il default della cultura e della fede che l’hanno unita prima di ogni azione politica - quel Paese bifronte che ci si ostina a voler scolpire non nel marmo, ma in grevi nuvolaglie di slogan xenofobi da social network e di parole e atti violenti che si vorrebbe derubricare a «sciocchezze». La «goliardata» che ha sfigurato il viso di Daisy Osakue non è la controprova di un’Italia serena e vaccinata dal razzismo: per rendersene conto, basta leggere ciò che è stato scatenato addosso a questa giovane donna, cittadina italiana di origine nigeriana.
Inqualificabile. Io continuo a vergognarmene. Anche se suo padre, a quanto risulta, non è stato uno stinco di santo e ha pagato il suo debito con la giustizia. E me ne vergogno anche se i tre aggressori a colpi di uova sono "bulli" e non adepti di uno dei manipoli razzisti che sparlano, sputano, menano e sparano (grazie a Dio, quasi sempre a vuoto) in giro per l’Italia.
Non sono l’Italia e non la rappresentano l’Italia. Ma - come ho scritto - ne deturpano i lineamenti, sino a sfigurarli. E allora non si può far finta di niente. Di costoro e per costoro ci dovremmo vergognare tutti, e ancor di più visto che ci viene spiegato e quasi intimato di dire e scrivere che non esistono e che comunque sono la logica reazione alla "violenza portata dagli stranieri". Ma proprio come i poveri, i violenti non hanno passaporto e non hanno patria. Ai poveri patria e passaporto sono negati. Ai violenti interessano solo come arma, e perciò non interessano affatto.
L’Italia non può essere ridotta a un ring di risentimenti etnici. Chi ha responsabilità lavori per evitarlo.
P.S. A quanti in queste settimane hanno ritenuto di ricordarci che i buoni cattolici e i giornali di ispirazione cattolica, prima e invece che delle persone costrette a migrare, dovrebbero preoccuparsi della vita non nata e ancora troppe volte abortita in Italia e in Europa - vita nascente che da appassionati di umanità e di scienza amiamo e rispettiamo sin dal primo istante come testimoniano le pagine del giornale - mi sento di rispondere con parole più grandi di noi: se non siamo capaci di amare e di essere giusti con coloro che vediamo, come potremo mai amare ed essere giusti con coloro che (ancora) non vediamo?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA COSTITUZIONE ITALIANA, IL CRISTIANESIMO, E LA TRADIZIONE DELLA MENZOGNA CATTOLICO-ROMANA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
IL SONNO MORTIFERO DELL’ITALIA. In Parlamento (ancora!) il Partito al di sopra di tutti i partiti.
Federico La Sala
MEMORIA E STORIA. COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA....*
La legge proposta dai Sindaci. Educazione civica ora tocca ai cittadini
di Luciano Corradini (Avvenire, domenica 22 luglio 2018)
Caro direttore,
il termine indugio indica il ritardo, più o meno motivato, rispetto alla tempestività di un inizio o la regolarità di uno svolgimento. Si tratta di un termine illustre, indicato da un ordine del giorno votato all’unanimità dall’Assemblea Costituente l’11 dicembre 1947, primo firmatario Aldo Moro, per dire che la nuova Carta costituzionale doveva trovare «senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado». Ora i Sindaci invitano i cittadini a chiedere a Parlamentari e Ministri, in nome e con metodi previsti dalla Costituzione di rompere quegli indugi che hanno afflitto l’ultimo decennio. Il 20 luglio in diverse sedi comunali è stato dato avvio alla raccolta di firme per la ’proposta di legge di iniziativa popolare’, promossa dal sindaco Nardella di Firenze e fatta propria dall’Anci, presieduta dal sindaco Decaro di Bari, «sull’introduzione dell’educazione alla cittadinanza nei curricoli scolastici di ogni ordine e grado».
Entro sei mesi, si dovranno raccogliere le prescritte 50mila firme, con le modalità ricordate dal comunicato dell’Anci. Si chiede cioè che il Parlamento vari una legge in cui si dice, all’art. 2: «È istituita un’ora settimanale di educazione alla cittadinanza come disciplina autonoma con propria valutazione, nei curricoli e nei piani di studio di entrambi i cicli di istruzione. Sono conseguentemente da ritenersi modificati, in armonia con quanto disposto dal comma precedente, tutti gli articoli di legge che disciplinano i curricoli, i piani di studio e la loro articolazione. Il monte ore necessario (non inferiore alle 33 ore annuali) - ove non si preveda una modifica dei quadri orario che aggiunga l’ora di educazione alla cittadinanza - dovrà essere ricavato rimodulando gli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche».
Gli autori di questa proposta di legge non si nascondono la complessità dell’operazione e prevedono che il Parlamento dialoghi in certo senso con organi tecnici del Ministero dell’Istruzione. Si dice infatti all’art. 3: «È istituita presso il Miur una commissione ad hoc, che, sentito il comitato scientifico per le indicazioni nazionali e il Cspi, assuma: 1) il compito di elaborare entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, gli obiettivi specifici di apprendimento per i diversi cicli di istruzione, e di provvedere, entro il medesimo termine, alla corretta collocazione dell’insegnamento in seno ai curricula e ai piani di studio dei diversi cicli di istruzione, nonché di optare per l’aggiunta di un’ora ai curricula o per la sua individuazione nell’ambito degli orari di italiano, storia, filosofia, diritto, tenendo conto dei quadri orari e del numero di materie per ciascun tipo di scuola; 2) la decisione se optare per un’ora di nuova istituzione che si aggiunga in tutti o in alcuni cicli di istruzione e tipologie di indirizzo scolastico, o per un’ora da ricavare nell’ambito dei quadri orari esistenti».
Sotto il termine generale ’cittadinanza’, si precisa che «Gli obiettivi specifici di apprendimento dovranno necessariamente comprendere nel corso degli anni: lo studio della Costituzione, elementi di educazione civica, lo studio delle istituzioni dello Stato italiano e dell’Unione Europea, diritti umani, educazione digitale, educazione ambientale, elementi fondamentali del diritto e del diritto del lavoro, educazione alla legalità, oltre ai fondamentali princìpi e valori della società democratica, come i diritti e i doveri, la libertà e i suoi limiti, il senso civico, la giustizia». Nell’art. 4 si dice che «L’insegnamento potrà essere affidato ai docenti abilitati nelle classi di concorso che abilitano per l’italiano, la storia, la filosofia, il diritto, l’economia».
L’art. 5 aggiunge: «Sono istituiti percorsi di formazione dei docenti e azioni di sensibilizzazione sull’educazione digitale, ai sensi del comma 124 dell’art.1 legge 13.7.2015, n.107». A conclusione dell’art. 6 si dice: «Nell’ipotesi in cui si opti per l’aggiunta di un’ora agli orari delle discipline storicofilosofico- giuridiche, i maggiori oneri saranno a carico dei Fondi di riserva e speciali del bilancio dello Stato». A parere di chi scrive l’iniziativa, nonostante alcuni limiti che saranno affrontati in seguito, presenta caratteri di trasversalità, di necessità e urgenza, e non merita né ulteriori indugi né frettolose conclusioni. Intanto i ’cittadini praticanti’ dovrebbero impegnarsi a firmare entro i sei mesi previsti.
Professore emerito di Pedagogia generale nell’Università di Roma Tre,
già presidente del Consiglio superiore della Pubblica istruzione
Sul tema, nel sito, si cfr.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico.
TRE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA SENZA "PAROLA", E I FURBASTRI CHE SANNO (COSA SIGNIFICA) GRIDARE "FORZA ITALIA". In memoria di Sandro Pertini e di Gioacchino da Fiore, alcuni appunti per i posteri
Federico La Sala
MONDIALE 2018
Italia-Thailandia. Una "partita" di lunga durata e la palla-fiducia che bisogna saper passare **
Sul cavaliere della I-THAILANDIA....
di Federico La Sala *
Caro Direttore,
A mio parere, in tutte le discussioni e le analisi che sono portate avanti sulla situazione italiana è proprio l’analisi del berlusconismo che va approfondita e chiarita. Io non posso concepire, nemmeno in THAILANDIA (cfr. Piero Ottone, IL CAVALIERE DELLA THAILANDIA, La Repubblica del 26.04.2002: "Thaksin ha fondato un partito, Thai Rak Thai, il cui nome significa, a quanto sembra: I thailandesi amano i thailandesi") che in una nazione che si chiama ITALIA, ci possa essere un PARTITO che si chiama "Forza ITALIA"...
Il trucco del NOME ("Forza ITALIA") è da manualetto del... piccolo ipnotizzatore e da gioco da baraccone ...politico! E penso che aver lasciato fare questa operazione, io ritengo, sia stata la cosa più incredibile e pazzesca che mai un popolo (e soprattutto le sue Istituzioni e partiti) abbia potuto fare con se stesso e con i propri cittadini e le proprie cittadine: è vero che stiamo diventando tutti vecchi e vecchie, ma questa è roba da suicidio collettivo!
Questa la mia opinione, se si vuole, da semplice e analfabeta vecchio cittadino italiano e non da "sovietico" comunista della "fattoria degli animali" orwelliana. Mi trovo a condividere e sono più vicino alle opinioni e alla posizione della "mosca bianca" Franco Cordero, che non a quella di molti altri.
LA LEGGE E’ UGUALE PER TUTTI: si tratta solo e sopratutto di non de-ragliare e, umanamente e politicamente, mantenerci (e possibilmente avanzare) sul filo e nel campo della democrazia. Non c’è nessuna demonizzazione da fare: si tratta solo di capire, e, anzi, io trovo la situazione - pur nella sua grande ambiguità e pericolosità - incredibilmente sollecitante nel senso di svegliarsi e reagire creativamente (come sembra che stia avvenendo) alla situazione determinatasi.
Il cavaliere ha lanciato la sua operazione e la sua sfida: possiamo leggere la cosa come una cartina di tornasole per tutta la nostra società. Vogliamo vivere o vogliamo morire: una cosa del genere più o meno, con altre parole, ci sta dicendo il Presidente CIAMPI da tempo.
Se ci facciamo togliere da sotto i piedi il fondamento costituzionale e si rompe la bilancia dei poteri della democrazia non ci sono più cittadini e cittadine ma pecore e lupi e riprende il gioco mai interrotto, come dice il vecchio saggio della giungla, del "chi pecora si fa il lupo se la mangia". Dentro questo clima, chiedere da anonimo stupido ingenuo e illuso e ’idealistico’ cittadino italiano di fare chiarezza e fermare il gioco (truccato, e pericolosamente surriscaldato e non lontano da clima di scontro civile) è solo un invito a tutte e due le parti e non a una sola a riconoscersi come parte della UNA e STESSA Italia.... e a ripristinare le regole del gioco!!!
M. cordiali saluti
Federico La Sala
*Il dialogo, Venerdì, 30 maggio 2003.
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Tito, Héctor e la palla-fiducia che bisogna saper passare
di Mauro Berruto ( Avvenire, mercoledì 11 luglio 2018)
«Tuya, Héctor!». Se vi trovate in Uruguay e qualcuno vi dice così, beh significa che siete degni di stima e fiducia. Colui che sta all’origine di questo modo di dire, è un calciatore, Héctor Pedro Scarone, soprannominato El Mago, primo destinatario di quella frase («Tua, Héctor!»), rivoltagli in un istante destinato a passare alla storia da un suo collega. Era il 13 giugno 1928, giorno della finale del torneo di calcio ai Giochi Olimpici di Amsterdam: Uruguay e Argentina, le finaliste, sono sull’1-1. In campo una parata di stelle fra le quali due, particolarmente brillanti, con la maglia celeste dell’Uruguay.
Si chiamano Héctor Scarone e Tito Borjas. Ragazzi che non conoscono ancora i loro destini: Scarone giocherà anche in Italia e, Giuseppe Meazza, suo compagno di squadra all’Inter dirà di lui che faceva cose che «noi potevamo solo immaginare». Borjas è un giocatore pazzesco, ma la sua carriera e la sua vita finiranno presto, solo tre anni dopo, quando disubbidendo ai medici che gli avevano imposto riposo assoluto dopo un forte dolore al petto sentito mentre giocava una partita, lasciò la propria abitazione per andare sugli spalti a vedere il match decisivo per il titolo dei suoi Wanderers Montevideo e al gol del vantaggio dei compagni di squadra venne stroncato da un infarto.
In quel giugno del 1928, ignari del loro futuro, Héctor e Tito stanno giocando, insieme, la finale olimpica. Tuttavia fra i due non scorre buon sangue, sono troppo forti per stare nella stessa metà campo. In realtà, Héctor e Tito non si parlano proprio, da tantissimo tempo, ma al 28° del secondo tempo, Tito ha la palla fra i piedi, vede Héctor arrivare con un razzo e decide di rompere quel silenzio. Passa la parla e gli urla: «Tua, Hectòr!», come a dire: "Vedi di farcela, voglio fidarmi di te". Héctor segna un gol straordinario da 40 metri.
L’Uruguay diventa campione olimpico ai danni degli odiati rivali argentini e da quel giorno, nel Paese, c’è un nuovo modo di dire quando si vuol trasmettere il senso di una fiducia incondizionata, che va oltre ogni divisione. Parole che vengono alla mente pensando alla incredibile vicenda dei 12 giovani calciatori thailandesi rimasti intrappolati in una caverna insieme ad Aek, il loro 25enne allenatore e liberati definitivamente ieri dopo 17 giorni passati all’inferno.
Si è mobilitato il mondo intero per questa vicenda e il risultato è stato raggiunto grazie a un’enorme capacità di condividere fiducia, anche quando le cose sembravano impossibili. Affidarsi a qualcuno, ci insegna questa storia di cui certamente qualche produttore hollywoodiano si approprierà, può portare alla perdizione e alla salvezza. Aek, l’allenatore orfano che ha passato la sua gioventù in un monastero buddhista aveva preso la decisione di portare i suoi ragazzi in quella grotta per meditare.
Stravolto dai sensi di colpa ha chiesto ripetutamente perdono per quell’idea che le piogge monsoniche stavano per trasformare in tragedia. I genitori di tutti i ragazzi lo hanno perdonato in tempi assolutamente non sospetti, ben prima del lieto fine della vicenda. Anzi, gli hanno ricordato che i loro ragazzi contavano su di lui, laggiù sottoterra come sul campo di calcio. Forse anche per questa iniezione di fiducia Aek è stato decisivo per tenere in vita i suoi ragazzi rinunciando per loro al suo stesso cibo, mantenendoli calmi e gestendo le loro emozioni e paure. E lasciando la grotta per ultimo, da vero coach.
«Sembra impossibile, finché non viene fatto», diceva Nelson Mandela e mentre, in superficie, squadre di calcio di fama planetaria lottano al Mondiale per non tornare a casa, la squadra per cui tutti si augurano il ritorno, finalmente, ce l’ha fatta grazie a una collaborazione di persone provenienti, letteralmente, da ogni parte del mondo. «Tuya, Héctor» anche in memoria di Saman Kunan, il soccorritore unica vittima di questa vicenda. Nel suo ultimo video lo si sente dire: «Porteremo i ragazzi a casa». Aveva ragione.
CON DECENZA PARLANDO: LA PRIVATIZZAZIONE DEL NOME "ITALIA" E IL POPULISMO. "Ghe Pensi Mi"!
Una nota*
SICCOME QUI SI TOCCANO TEMI di tranquillizzazione politica (con tutti i suoi risvolti teologici e costituzionali) e di "superomismo" populistico ("stai sereno!" - "scuscitatu" vale come "senza pensieri, senza preoccupazioni": cioè, "Ghe Pensi Mi"), e c’è da svegliarsi e riappropriarsi della propria *dignità* (politica e *costituzionale*, e non solo economica) di cittadini e di cittadine, è bene ricordare che per "stare sereni" troppo e troppo a lungo, come cittadini italiani e cittadine italiane, abbiamo perso la stessa possibilità di "tifare" per noi stessi e stesse, per se stessi e per se stesse, sia sul piano sportivo sia sul piano *costituzionale*: non solo perché la nostra NAZIONALE è fuori dai MONDIALI DI CALCIO ma, anche e soprattutto, perché il NOME della NAZIONE (di tutti e di tutte) è diventato il "Logo" della "squadra" di un Partito e di un’Azienda.
IL LUNGO SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE CONTINUA ...
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Uno choc di egoismi: a questo assomiglia l’Europa posta davanti alla sfida migratoria
Le scorciatoie non esistono
di Mario Giro (Il mulino, 18 giugno 2018)
Da una parte la demografia galoppante dell’Africa ma soprattutto il cambiamento dei suoi giovani che sentono il diritto di spostarsi come inalienabile. Vogliono un futuro migliore e cercano di afferrare con tutti i mezzi possibili la “loro parte” delle opportunità nella globalizzazione. Anche a rischio della vita. È una forma di “intrapresa individuale”, di investimento sul futuro. Niente può trattenerli, sanno che il mondo è anche loro.
Dall’altra parte l’Europa: un mondo invecchiato e più impaurito, chiuso nel proprio benessere ma anche spaventato e colpito dal declassamento sociale, dalla diminuzione del Welfare e dalla mancanza di lavoro. Tutti lo sanno: se non c’è abbastanza lavoro è per la nuova redistribuzione della ricchezza e per l’innovazione tecnologica. Non potendo prendersela con la tecnologia, la reazione rabbiosa si concentra verso l’ultimo arrivato. Non vogliamo nessuno - si dice - non c’è spazio, la “barca è piena” come sostenevano gli svizzeri durante la seconda guerra mondiale respingendo ebrei...
La politica si adatta, si appiattisce senza colpi d’ala. Non si cercano soluzioni ma si annunciano apocalissi demografiche. Tutti parlano di “invasione” ma nessuno di integrazione, che è il nostro vero problema. A Bruxelles gli emendamenti al Trattato di Dublino - che disciplina le migrazioni e la concessione dei permessi - vanno verso l’indurimento. L’Italia ha posto il veto su un testo che costringeva il richiedente asilo di rimanere fino a 10 anni nel Paese di primo approdo: una follia.
Il nuovo governo italiano fa sentire la voce dello scontento italiano verso i partner che ci hanno riempiti di complimenti ma non hanno mosso un dito.
È scandaloso che una decisione del Consiglio (la relocation) non sia stata applicata senza conseguenze. Inutile girarci attorno: l’Unione ha perso credibilità. La politica migratoria italiana resta sostanzialmente la stessa: lavorare in Libia (e coi Paesi di origine e transito) per trattenere; limitare l’operatività delle Ong in mare; riprovare coi rimpatri.
Il tono però è cambiato: prima lo si faceva tenendo conto del “bon ton” internazionale, senza esacerbare le divergenze. Le critiche si facevano in privato, ora apertamente. Lo choc delle passioni potrebbe essere deflagrante. La polemica politica interna ora aggredisce le relazioni esterne. D’altra parte anche ai commissari Ue o al presidente Juncker, ogni tanto sfuggono commenti che mettono in luce i loro enormi pregiudizi. Dovremmo stare attenti: le parole sono pietre e alla fine colpiscono tutti. Vittimismi uno contro l’altro armati non portano a nessun risultato. Una delle caratteristiche del “metodo europeo” è ridurre i problemi a procedure e regole: si fa apposta per raffreddare i bollenti spiriti nazionali, sempre all’erta. È stata e rimane una scelta politica. I “sovranismi” non sono tutti uguali né potranno mai allearsi.
Le loro agende sono confliggenti: nessuno vuole aiutare l’altro o partecipare ai suoi sforzi: è lo sterile choc degli egoismi. Non esiste in natura (cioè in politica) una “alleanza dei sovranismi”: se sono sovranismi sono istintivamente contrapposti. Se invece si negozia - foss’anche da posizioni più dure - allora non si tratta di sovranismi ma di legittima strategia negoziale. Tutta un’altra cosa.
Certamente l’Italia ha ragione quando sostiene che nessuno l’ha aiutata in questi anni, a parte il lip service complimentoso, divenuto davvero fastidioso. D’altra parte scontrarsi e insultarsi a vicenda non porterà a nessuna soluzione. Le contese europee di questi giorni sono purtroppo tutte improntate a ragioni di politica interna. Questo rende lo scenario preoccupante: con l’inerzia della quotidianità, l’agenda interna tende ad “accecare” e a dirottare quella delle relazioni internazionali, pur essenziale.
I governi devono trovare un equilibrio nuovo tra esigenze interne, più pressanti, e relazioni esterne, comunque vitali: una nuova architettura di dialogo. Quest’ultimo non è mai un “embrassons-nous” facile: è trattativa, fatica, pazienza, ascolto, mediazione.
Dialogare non significa mai arrendersi ma trovare il giusto compromesso. Se si strappa il velo delle buone maniere, che talvolta cela anche l’ipocrisia, si ottiene solo un ambito di negoziato più aspro. Non conviene.
Ciò accade soprattutto ora, un tempo in cui le emozioni sono così importanti. Si parla di percezione della realtà piuttosto che di realtà dei fatti. “Percepire più che capire”: tale è il leitmotiv attuale. Sembra che la percezione vada oltre la comprensione e sia più veritiera: intuisca il “non detto”, anticipi l’occultato, richiami il rimosso. Uomini politici più abili nel “sentire” lo spirito del tempo e meno ingessati nei riti della politica, ne fanno la loro condotta. Ma una volta strappato il velo del politicamente corretto, la difficoltà sta poi nel creare un nuovo binario in cui canalizzare bisogni e risposte. Altrimenti si perde il controllo.
Da sempre il vero compito degli “homines novi” è proprio tale costruzione. Non è sufficiente evidenziare la contrapposizione e cavalcarla: occorre il talento di una nuova sintesi. In parole povere: chiudere porti e/o respingersi migranti a vicenda; lasciarli in balia di libici e/o schiavisti; far finta che l’Africa non esista: ciò rappresenta un nuovo quadro politico? Non sembra proprio, non regge e non ha prospettiva, troppo schiacciato sul qui ed ora, troppo elettoralmente condizionato.
La risposta non è facile. Se ci si attesta sulla linea emergenziale si mettono a rischio i valori fondamentali della democrazia, del diritto occidentale, delle libertà. Tali principi sono validi in quanto universali, cioè per tutti e non per qualcuno soltanto. Neppure si può cancellare il fatto che nel più profondo, alla radice del sentimento popolare, vi è sempre iscritta un’esigenza di pace: la gente semplice (la “povera gente” di La Pira) si somiglia ovunque e non odia nessuno. La gente semplice, se scorge il bisogno non dice mai “tutti sono troppi”.
L’Europa ha già in passato perso il controllo di sé in molte occasioni. Le polemiche sui migranti non sono nuove: la stessa scena della nave Aquarius l’abbiamo già vista nel 2009, nel 2010, nel 2013. Ciò che più importa è che al fondo delle controversie attuali esiste un tema ricorrente nella storia europea: la questione della cittadinanza. Da secoli in maniera periodica i popoli europei si chiedono quale sia la qualità (o le qualità) per far parte della propria comunità nazionale. Ci sono biblioteche su tale indagine e sulle possibili risposte: per scelta, legge, diritto, etnia, razza, cultura, lingua, storia comune, terra, usi e costumi ecc. La discussione sull’identità è questa: come si forma un’identità? Può mai dirsi definitiva?
Tale dibattito è ciclico e si riaccende virulento ogni qualvolta l’Europa subisce una fase lunga di crisi economica. Sono periodi di tempo in cui si sopportano meno “nuovi arrivi” o “nuovi apporti”, in specie se diversi. Sappiamo che su tale assillo hanno lavorato varie correnti ideologiche e numerose scuole di pensiero. L’importante è non trascinare mai il dibattito fuori dal quadro delle nostre conquiste giuridiche occidentali. Per noi i diritti sono universali, il valore supremo è la persona e la sua libertà, la responsabilità è sempre personale e mai collettiva, ogni giudizio necessita garanzie, il rispetto della “rule of law” e dello stato di diritto sono fondamentali. Per questo chiediamo a tutti di adeguarvisi.
Tra quadro giuridico e costituzionale delle leggi da un lato, ed emozioni, paure e percezioni dall’altro, sembra che vi debba essere per forza conflitto. Non è così.
Le leggi e le costituzioni servono proprio a ordinare ciò che non lo è, senza tradirlo e senza travalicarlo. È questo il risultato di tanti secoli di riflessione e maturazione che incalzano la storia, la interpretano e la riordinano alla luce di una sempre nuova coscienza e di nuove consapevolezze.
L’Unione europea, malgrado tutti i difetti, è la depositaria di tale tradizione giuridica euro-occidentale. I Trattati dell’Unione - i cui originali sono depositati e visibili alla Farnesina - sono complicatissimi, è vero, quasi illeggibili senza aiuto. Eppure contengono il distillato della nostra tradizione che ha avuto molte svolte nel corso della storia. In questo senso l’Ue è un superpower giuridico e normativo: garanzie di libertà e di diritti per tutti. È quello il luogo vero delle battaglie dell’Italia, il centro dove far valere le proprie ragioni. Una scorciatoia non c’è.
LA STORIA DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.... *
L’ORIZZONTE DELLA CIVILTÀ E I DRAMMI CON CUI CONVIVIAMO
di don Paolo Farinella (la Repubblica, 10 giugno 2018)
«Tutti i figli di Adamo formano un solo corpo, sono della stessa essenza. Quando il tempo affligge con il dolore una parte del corpo (anche) le altre parti soffrono. Se tu non senti la pena degli altri, non meriti di essere chiamato uomo». Queste parole sono scolpite nell’atrio del Palazzo dell’Onu.
Parole antiche, di Poeta e di Mistico, Saādi di Shiraz, Iran 1203 - 1291. Nove secoli fa un persiano musulmano esprimeva un pensiero che è ebraico e cristiano. Nella Bibbia, « Adamo » non è nome proprio di persona, ma nome collettivo e significa « Umanità - Genere Umano » , senza aggettivi perché non è occidentale, orientale, del nord o del sud, ma solo universale. L’Onu ha scolpito le parole sul suo ingresso perché le nazioni possano leggerla prima di deliberare per richiamarsi l’orizzonte delle decisioni. Europa, Italia e Occidente fan parte dell’Onu al punto che spiriti poveri osano parlare di « civiltà occidentale», identificandola, sacrilegamente, con il Crocifisso, senza memoria di storia, di geografia e di civiltà.
Due giorni fa, di mattina presto, un’amica mi ha inviato due video ripresi nei pressi della Regione Liguria dove dormivano persone per terra, « figlie di Adamo » , carne e sangue « della sua essenza » . Mi sono chiesto se la nostra civiltà non stia regredendo verso la preistoria, verso il nulla.
Come insegna il secolo XX, secolo di orrori, la barbarie porta all’abisso e inghiotte la Storia in un buco nero senza ritorno. Guardando le immagini di umanità crocifissa nella miseria dell’opulenza attorno al Grattacielo della Regione Liguria, ho pensato istintivamente alle parole del pastore protestante tedesco, Martin Möller, pronunciate nel 1946 in un sermone liturgico: « Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».
A Genova sarà restaurata la Lanterna, simbolo della città, faro di luce nel buio e segnale per rotte sicure; a Genova si perseguitano i poveri, i senza dimora, gli sbandati, figli di una società impazzita che crede di potersi chiudere in sé, erigendo muri e fili spinati, mentre si difendono Istituzioni ed Europa. Chi costruisce muri distrugge l’Europa e il proprio Paese, chi perseguita il povero si attira la collera di Dio che è «il Dio degli umili, il soccorritore dei piccoli, il rifugio dei deboli, il protettore degli sfiduciati, il salvatore dei disperati» (Gdt 14,11).
La civiltà e il suo cammino lo avevano indicato nei millenni antichi le Scritture degli Ebrei, dei Cristiani e dei Musulmani, recepiti dalla modernità nell’esistenza stessa dello spirito delle Nazioni Unite, che si riconoscono in Saādi di Shiraz. Se oggi, cittadini, uomini e donne, politici e amministratori, vescovi e preti, politici e governanti, sindaci e assessori, credenti e non credenti, docenti e studenti, non si riconoscono laicamente nelle parole che vengono dal lontano Medio Evo, noi abbiamo messo mano alla scure per recidere l’albero su cui siamo seduti.
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SUL TEMA NEL SITO, SI CFR.:
SAN PAOLO, COSTANTINO, E LA NASCITA DEL CATTOLICESIMO. La "donazione di Pietro", la "donazione di Costantino" e noi, oggi.
"È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"ERODE" E LE GERARCHIE CATTOLICO-ROMANE CONTRO CRISTO E "CONTRO CESARE. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi" (Emilio Gentile)
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka).
Federico La Sala
La festa del 2 giugno
La democrazia a un bivio
di Guido Crainz (la Repubblica, 01.06.2018)
Mai come quest’anno il 2 giugno ci costringe a interrogarci sul nostro essere nazione e sulla tenuta della nostra democrazia, ed è difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a un bivio. Mai infatti, neanche nelle fasi più aspre, questa data ha cessato di essere la festa di tutti gli italiani: il momento in cui ribadiscono i fondamenti culturali, politici e civili del proprio vivere collettivo. Mai qualcuno aveva pensato di utilizzare il 2 giugno per contestare le nostre regole costituzionali. Mai, neanche per un attimo, era stata proposto di lacerare questa giornata con una manifestazione di parte volta a colpire proprio quelle regole, assieme alla figura istituzionale che ne è garante ( e il vulnus resta, anche se la miserevole proposta è crollata grazie alla alta e necessaria fermezza del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella).
Non avvenne neppure nel clima teso della Guerra fredda, nonostante le profonde divisioni e contrapposizioni di allora. E non avvenne negli anni cupi della strategia della tensione e del terrorismo degli anni Settanta: la centralità del 2 giugno verrà appannata semmai dalla smemoratezza degli anni Ottanta, nel prolungarsi dell’abolizione della festività decisa nel 1977 (discutibile conseguenza di esigenze di “austerità”).
Quell’appannarsi era in realtà il sintomo dell’indebolimento civile del Paese, malamente mascherato dalle euforie di quel decennio, e alla vigilia del crollo della “ prima Repubblica” Giorgio Bocca evocava a contrasto, su queste pagine, l’Italia uscita dalla guerra: eravamo divisi in fazioni, scriveva, in un Paese distrutto, eppure «uniti nel vivere, liberali, cattolici, monarchici, comunisti, padroni, operai, tutti certi di essere padroni del nostro destino. Ma questa voglia di avere un’identità, di essere noi, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo? Che cosa significa essere italiani? » . In quella crisi il valore centrale del 2 giugno sembrò offuscarsi ancora e la sua decisa riaffermazione fu parte integrante della pedagogia civile avviata con forza dal presidente Ciampi e proseguita dai suoi successori.
Fu parte integrante del loro impegno a rifondare il “ patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva, collocandolo nella più ampia appartenenza europea e rafforzandone al tempo stesso i momenti simbolici e le date fondative. In primo luogo, appunto, la festa del 2 giugno, ripristinata da Ciampi nella sua interezza e accompagnata da una parata che poneva ora al centro l’impegno dell’esercito nelle calamità civili e nelle missioni di pace. Ciampi stesso ha ricordato: andai a quella prima, rinnovata sfilata «in una vettura scoperta, con al fianco il ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Eravamo circondati da una folla festosa che mi diceva di andare avanti, mi ringraziava, era contenta » . Quella ispirazione è andata via via arricchendosi e sono ancora vive le immagini di un anno fa, con la folta presenza di sindaci e con quell’enorme tricolore che calava sul Colosseo.
È forte dunque la sensazione di essere oggi di fronte a una possibile, inquietante divaricazione, e nei giorni scorsi lo abbiamo compreso in maniera traumatica: in essi infatti il fantasma del populismo è uscito definitivamente dal limbo delle definizioni astratte o da territori ancora lontani. È diventato forza corposa e devastante, con la lacerante contrapposizione fra una “ sovranità del popolo” arbitrariamente interpretata e le istituzioni che la fanno realmente vivere, svilite e calpestate assieme alle loro regole. Questo abbiamo vissuto e viviamo, e quelle lontane parole di Giorgio Bocca sembrano di nuovo drammaticamente attuali.
LA LEZIONE DI DANTE, OGGI. Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico.... *
M5S, Lega e l’assalto alle istituzioni
I nuovi Proci e l’Italia
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 30.05.2018)
Anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco: figli che hanno avuto il coraggio di farsi avanti, di impugnare le sorti del loro destino, di impegnarsi in prima persona per cambiare l’avvenire del loro Paese. Ma politicamente essi - anche alla luce di questo ultimo tristissimo quanto drammatico episodio della loro lunga marcia verso il potere - sembrano assomigliare di più ai Proci. Sono i cosiddetti “pretendenti”, i giovani principi che nell’Odissea di Omero esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto, disperso in chissà quale mare. Nel poema essi rivendicano il loro pieno diritto di governare Itaca nonostante non abbiano mostrato alcun rispetto per le sue istituzioni democratiche. Qui il lettore può spaziare ampiamente nella sua memoria tra le infinite ingiurie leghiste e grilline alle nostre istituzioni: ma non è forse questo il cemento armato della loro più profonda convergenza?
L’atteggiamento dei Proci non è però solo antiparlamentare - interrompono con le armi lo svolgimento di un’assemblea convocata da Telemaco, saccheggiano e deturpano la reggia che li ospita - ma è offensivo verso la Legge stessa della città. Il vuoto di Legge che si è determinato con l’assenza di Ulisse li rende padroni assoluti. Evocare la morte di Ulisse significa infatti evocare la morte della politica che deve lasciare il posto all’arroganza di chi rivendica il proprio diritto inscalfibile alla successione.
L’anti-parlamentarismo si ribalta così in una spinta furiosa ad occupare le istituzioni parlamentari. Una differenza sostanziale differenzia però i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis. Hanno un mandato, il popolo è con loro, li sostiene. Tuttavia, la Legge della città ha il compito di ricordare loro che il diritto a governare non implica lo sconvolgimento delle regole democratiche della convivenza, non significa introdurre l’anti- parlamentarismo nelle istituzioni nel nome del popolo. Lo squadrismo fascista violava la vita democratica in nome del popolo. Ed è sempre, come è tristemente noto, in nome del popolo che si sono commesse le più grandi atrocità nella storia. I padri costituenti hanno affidato al presidente della Repubblica un ruolo di garanzia. Bisogna che qualcuno ricordi ai nuovi Proci le regole complesse di una democrazia. Il diritto a governare non può mai coincidere con il diritto a fare quello che si vuole, con il puro arbitrio. Leghismo e grillismo empatizzano facilmente tra loro perché sono le espressioni più radicali del populismo: oppongono la volontà del popolo alla vita della politica.
Di fronte al collasso senza precedenti della sinistra e del Pd, di fronte al vuoto della Legge della città che sembra prolungare all’infinito la lunga notte di Itaca, c’è voluto ancora una volta il volto di un padre simbolico a testimoniare che le istituzioni non sono proprietà di nessuno, che il diritto al governare non coincide con il diritto a cancellare i principi elementari di una democrazia rappresentativa. È stato necessario il gesto coraggioso di un padre per salvare le speranze di Telemaco, per ricordare ai nuovi Proci che Ulisse è ancora vivo.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
Nonostante le lezioni di Benigni, non abbiamo ancora capito le ragioni dantesche di Ulisse all’inferno. E la cultura italiana continua a navigare in uno "stato" sonnambolico....
GLI ESEMPI TAROCCATI DI BARICCO E DI SCALFARI E L’ITALIA STRETTA NELL’ABBRACCIO MORTALE DEL "CAVALEONTICO" ULISSE DI ARCORE.
GENITORI, FIGLI, E FORMAZIONE: AL DI LÀ DEL FALLIMENTO, COSA RESTA DEL PADRE? PER MASSIMO RECALCATI, OBBEDIENTE A LACAN, RESTA ANCORA (E SEMPRE) LA LUNGA MANO DELLA MADRE.
Federico La Sala
Il caso italiano
Una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi: ma che conferma che la nostra Costituzione è ben presidiata
Il presidente garante
di Enzo Cheli (Il Mulino, 28.05.2018)
Nell’arco della nostra storia repubblicana nessun capo dello Stato si è trovato a dover gestire una vicenda istituzionale così difficile e complessa come quella che il presidente Mattarella ha dovuto affrontare nel corso dell’ultima settimana, conclusasi con la rinuncia da parte di Giuseppe Conte all’incarico di formare il nuovo governo. Una vicenda che sta suscitando polemiche e contrasti, ma che il Quirinale ha gestito con grande equilibrio e una forte attenzione al rispetto dei confini delle proprie prerogative costituzionali.
Ai sensi dell’articolo 92 della nostra Costituzione, tali prerogative affidano, com’è noto, al presidente della Repubblica il compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri su sua proposta (una proposta che la prassi non ha mai ritenuta vincolante) i ministri. Nella dichiarazione rilasciata dinanzi alle telecamere dopo la rinuncia del professor Conte, il presidente Mattarella ha ricostruito puntualmente i passaggi essenziali di questa vicenda che, dopo le elezioni del 4 marzo, ha preso l’avvio con il fallimento dei primi tentativi di trovare una maggioranza in grado di sostenere in Parlamento un governo politico; con l’incarico con riserva conferito a Giuseppe Conte su indicazione del Movimento 5 Stelle e della Lega che avevano raggiunto un accordo intorno a un inedito “contratto di governo”; con la condivisione da parte del presidente Mattarella di tutte le proposte per gli incarichi ministeriali formulata dal professor Conte, ad eccezione della proposta avanzata per il ministero dell’Economia, che veniva a investire un tecnico di sicura competenza e anche di antica fede europeista, ma oggi apertamente schierato a favore di una possibile uscita dall’euro del nostro Paese. Proposta che, trapelata nel corso delle trattative, non aveva mancato di allarmare i mercati europei e mondiali determinando una rischiosa e crescente pressione negativa sia sui titoli del debito pubblico sia sui titoli delle imprese quotate in borsa. Poteva il presidente Mattarella opporsi a questa designazione fino a determinare la rinuncia di Conte all’incarico ricevuto? È questo l’interrogativo che viene oggi a dividere l’opinione pubblica del nostro Paese.
A mio avviso è certo che, nell’opporsi alla proposta ricevuta, il capo dello Stato non ha invaso - come taluni affermano - la sfera dell’indirizzo politico di maggioranza, ma ha soltanto esercitato una competenza connessa alla sfera dei suoi poteri di controllo costituzionale su tale indirizzo, poteri che entrano in gioco - e che il capo dello Stato non solo è legittimato, ma anche tenuto a esercitare - ogni qualvolta l’azione del governo possa aprire la strada alla lesione di interessi di rilevanza costituzionale attinenti alla sfera dell’unità nazionale, come quelli afferenti, in particolare, alla politica estera, alla politica europea e alla politica della difesa, nonché alla politica di bilancio; tutte materie rispetto alle quali le competenze del capo dello Stato, ai sensi della Carta costituzionale, assumono un contenuto non solo formale, ma di sostanza.
Né va sottovalutato il fatto che il presidente Mattarella nel rifiutare la candidatura che gli veniva proposta non ha formulato una propria proposta, ma si è limitato a sollecitare le forze politiche impegnate nella definizione del nostro governo ad avanzare - attraverso il presidente del Consiglio incaricato - proposte alternative.
Cosa che non è avvenuta per l’irrigidimento di una delle forze in campo, particolarmente interessata a passare al più presto a nuove elezioni. Passaggio che viene, peraltro, anch’esso a collegarsi a una prerogativa fondamentale del presidente della Repubblica qual è lo scioglimento delle Camere e che il presidente Mattarella almeno sinora - e fino alla verifica parlamentare sull’assenza di qualunque maggioranza - non ha dato per scontato.
Siamo di fronte a una vicenda del tutto nuova, complessa e non priva di rischi. Ma che ha dato la conferma che la nostra Costituzione risulta ancora oggi ben presidiata.
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
diGiovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
AL DI LA’ DEL POPULISMO ATEO E DEVOTO.... *
Napolitano dimesso dall’ospedale: andrà in clinica per la riabilitazione
Quattro settimane fa il presidente emerito della Repubblica era stato sottoposto a un intervento di sostituzione della valvola aortica
di CARLO PICOZZA (la Repubblica, 22 maggio 2018)
Il presidente emerito Giorgio Napolitano ha lasciato la Cardiochirurgia del San Camillo alla volta della clinica Villa Betania dove sarà sottoposto alla riabilitazione cardiorespiratoria e motoria. Era martedì 24 aprile, quattro settimane esatte fa, quando, in emergenza, il cardiochirurgo Francesco Musumeci ha sottoposto l’ex capo dello Stato alla sostituzione della valvola aortica e di un ampio tratto dell’aorta ascendente con reimpianto delle coronarie. Napolitano, nel pomeriggio di quel giorno, aveva avvertito dolori al torace mentre era in visita alla moglie Clio, ricoverata in una clinica della capitale. Si era allarmato e aveva subito avvertito il suo cardiologo di fiducia, Roberto Ricci, primario nell’ospedale Santo Spirito dove, visitato il paziente, la diagnosi non lasciava grandi speranze: "Dissecazione acuta dell’aorta ascendete". In altre parole, l’arteria maggiore rischiava di rompersi da un momento all’altro.
La conferma era giunta a stretto giro da Musumeci che, d’accordo con Ricci, indicava di trasportare con urgenza Napolitano al San Camillo per sottoporlo al delicato intervento chirurgico. L’operazione era durata tre ore e mezzo, dalle 22 all’1.30. E da subito, nella Terapia intensiva cardiochirurgica, i clinici avevano guardato con soddisfatto stupore alle capacità di recupero di Napolitano.
"Nonostante l’età, quasi 93 anni", spiega Musumeci, "il presidente emerito ha risposto bene, senza complicazioni e velocemente, alle nostre cure; un recupero eccellente". "L’intervento di Napolitano", aggiunge il cardiochirurgo che, nella Londra degli anni Ottanta, è stato allievo di uno dei maestri della Cardiochirurgia mondiale, Magdi Yacoub, "dimostra che è l’età biologica che conta, le buone condizioni cliniche del paziente e non il numero degli anni: le tecnologie oggi a disposizione consentono interventi impensabili fino ad alcuni anni fa". Ora Napolitano è affidato alle cure dei fisioterapisti che, nel quartiere Aurelio della capitale, metteranno a segno gli ultimi atti della sua riabilitazione.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
POPULISMO: IL ’GIOCO’ DEL "MENTITORE" ISTITUZIONALIZZATO. Come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" fosse identica al "tutto".
Monito del Presidente Napolitano: una democrazia sa sempre reagire "alle chiusure e al populismo".
Federico La Sala
L’ultima trappola della «Buona scuola»
Appello al Miur. L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero
Il Decreto legislativo 62/2017 stravolge tacitamente le disposizioni contenute nell’art. 185 comma 3 del Decreto 297 1994. Si tratta della sostituzione dell’elenco relativo alle materie all’Esame di Stato conclusivo della Scuola Secondaria di I°grado con la dicitura riferita a «tutti i docenti del Consiglio di Classe». Tra le materie indicate nel Decreto del 1994 non figurava l’Insegnamento della Religione Cattolica (Irc). È questa un’ultima trappola della legge denominata «Buona Scuola».
L’inserimento di docenti Irc nelle Commissioni d’esame per la terza media è l’ultimo atto di un processo sotterraneo - iniziato con il rinnovo del sistema concordatario - per recuperare all’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche il ruolo di «materia obbligatoria» con diritto all’esonero. Solo con difficoltà sono state introdotte norme e istituti per rendere effettiva la nuova facoltatività con la formulazione delle quattro alternative fra cui la frequenza di una reale materia alternativa.
Nessuna promozione è stata fatta per informare le famiglie su tali alternative sulle quali, anche per la difficoltà a superare certe prassi e il timore di esporre i figli a discriminazioni, sono state esercitate, in particolare nella scuola primaria, ben poche opzioni. (...).
Le sottoscritte associazioni che si battono da anni per il rispetto della laicità della Scuola e dello Stato, si oppongono con forza a tale stravolgimento della Legge 121/1985, attuativa del Nuovo Concordato. Rivolgono pertanto al Miur la richiesta urgente di chiarimenti indispensabili per insegnanti e famiglie di alunni e alunne in procinto di affrontare la prova del citato Esame:
l’Irc sarà materia d’esame? Se non lo sarà, a qual fine la presenza del docente? L’eventuale presenza di un docente di a. a. non si configura come discriminante nei confronti di coloro che hanno scelto attività di studio o di ricerca individuali o la non presenza a scuola durante l’Irc?
nella prova d’esame, a differenza di quanto avviene nelle operazioni di scrutinio, i voti sono soltanto numerici: è quindi prevedibile una valutazione numerica dell’Irc?
il docente di Rc nella votazione per promozione o bocciatura si comporta come previsto nel DPR 202/1990, ossia non vota se il suo voto fosse determinante?
Queste sono solo alcune delle ambiguità da chiarire.
*** Comitato Nazionale Scuola e Costituzione, Comitato bolognese Scuola e Costituzione, Associazione Nazionale per la Scuola della Repubblica, Manifesto dei 500, Ass.Naz. Sostegno Attivo, Cogedeliguria, Ass.Naz. del Libero Pensiero “Giordano Bruno”, Coordinamento Genitori Democratici (Cgd), Comitato Genovese Scuola e Costituzione, Crides (Centro di iniziativa per la difesa dei diritti nella scuola), Movimento di Cooperazione Educativa (Mce), Uaar, Fnism, Cidi, Osservatorio diritti scuola, Fcei (Fed.Chiese Evangeliche It.), Comitato Insegnanti Evangelici Italiani, Comitato Democrazia Costituzionale -Roma
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre (la Repubblica, 05.05.2018)
Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro.
La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare.
Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe. È questo il momento giusto!
Ma quel giorno non fu un “giudizio di Dio”
di Giovanni De Luna (La Stampa, 17.04.2018)
Per gli italiani di allora, la giornata del 18 aprile 1948 fu una sorta di «giudizio di Dio». Le elezioni politiche furono vissute come una ordalìa tra il bene e il male, tra due mondi contrapposti, divisi su tutto: agli inizi della Guerra fredda, Usa contro Urss voleva dire anche capitalismo contro comunismo, democrazia contro dittatura, cristianità contro ateismo. A destra e a sinistra, soprattutto nella Dc e nel Pci, c’era un’attesa quasi messianica, un’ansia di misurarsi, resa più vibrante dalla riscoperta di una contesa elettorale finalmente libera da parte di un’opinione pubblica impaziente di scrollarsi di dosso venti anni di conformismo, di partiti unici, di plebisciti, di totalitarismo fascista.
Non c’è dubbio che oggi, a 70 anni di distanza, molte di quelle sensazioni appaiono ampiamente giustificate. La possibilità di finire - attraverso il voto - in uno o nell’altro dei due blocchi in cui si divideva il mondo bipolare uscito dalla Seconda guerra mondiale era terribilmente concreta. Votare per la Dc o votare per il Fronte - in cui si erano uniti comunisti e socialisti - era una scelta di campo che non ammetteva mediazioni.
Pure, oggi, in chiave storiografica, la dimensione emotiva che emerge nelle testimonianze dei protagonisti tende a lasciare il posto a considerazioni che possono giovarsi del «senno di poi» tipico degli studi storici. In questo senso, l’Italia del 1948 suggerisce l’immagine di uno di quei grattacieli che vengono demoliti con la dinamite: un attimo prima svettano intatti, un attimo dopo crollano rovinosamente. Per intenderci, dieci anni dopo, nel 1958, dell’Italia del 1948 non era rimasto quasi più niente.
La grande trasformazione legata al boom economico e allo sviluppo industriale ridisegnò la struttura economica del Paese, riplasmandone mode, abitudini, comportamenti politici, scelte individuali. Dal declino della piccola proprietà contadina risultarono stravolti anche tutti quei riferimenti ideologici «precapitalistici» che ne avevano sostenuto, insieme a un senso di chiusura esclusivistica, un forte sentimento di compattezza e di identità collettiva; i rapporti interpersonali, l’organizzazione familiare, i ruoli sessuali si decomposero contemporaneamente all’inserimento di migliaia di individui in situazioni lavorative e esistenziali completamente diverse da quelle originarie. Il passaggio brusco e repentino da Paese contadino a potenza industriale (la quinta nel mondo!) svuotò dall’interno molti dei riferimenti politici, sociali, culturali dell’Italia del 1948. Consegnando agli storici un’altra riflessione che non coincide con la sensazione dei testimoni di allora.
Oggi è infatti sempre più chiaro come, riferito al confronto tra il Pci e la Dc, quanto allora appariva ferocemente contrapposto nel «cielo» della politica, presentasse ampie «zone grigie» su terreni più legati alla quotidianità dei comportamenti collettivi. A fronteggiarsi erano, cioè, essenzialmente due centrali di propaganda. Ma quanto ci si allontanava dalla politica e ci si avvicinava alle scelte più private, le tinte dello scontro ideologico tendevano a stemperarsi e a sbiadire. Sulla famiglia, sul ruolo della donna, si registravano convergenze che ritornavano puntualmente su altri valori «di base», dai comportamenti sessuali alla concezione del matrimonio, a tutti quelli che segnavano in particolare il rapporto individuo-società.
Identica era, inoltre, una concezione edificante del lavoro che accomunava l’operaio «di mestiere» che si riconosceva nel Pci e il coltivatore diretto che votava per la Dc. In questa ottica, oggi si sottolinea nella forte, comune connotazione ideologica dell’impianto dei due partiti una sorta di funzione pedagogica e protettiva. Almeno fino alla fine degli Anni 50, i partiti avrebbero aderito ai contenuti e ai valori più tipici di una società ancora essenzialmente contadina, rispettandone ruoli e gerarchie consolidate e proteggendoli da ogni brusco mutamento; poi, entrambi avrebbero dovuto cambiare pelle per adeguarsi a un’Italia che di colpo alla frugalità aveva sostituito il superfluo e che, alla contrapposizione tra comunismo e anticomunismo, preferiva ormai la possibilità di sentirsi tutti figli dello stesso benessere.
1948-2018 Un estratto del saggio di Sabino Cassese sulla «Rivista trimestrale di diritto pubblico» (Giuffrè)
Tante impronte sulla Carta
Nella Costituzione idee cattoliche, liberali, marxiste. E tracce del fascismo
di Sabino Cassese (Corriere della Sera, 10.04.2018)
Nel 1995, Massimo Severo Giannini, uno degli studiosi che prepararono la Costituzione, riassumeva così la sua valutazione della Carta costituzionale del 1948: «Splendida per la prima parte (diritti-doveri), banale per la seconda (struttura dello Stato), che in effetti è una cattiva applicazione di un modello (lo Stato parlamentare) già noto e ampiamente criticato». Da dove è stata attinta questa prima parte «splendida», quale è stata l’«officina di idee» che l’ha prodotta?
Piero Calamandrei ha fornito una chiave per individuare le fonti ideali delle norme costituzionali quando ha detto, nel 1955, che esse furono «il testamento di centomila morti, scritto con sangue di italiani nel tempo della Resistenza», ma anche «un punto di ripresa del pensiero politico-civile italiano, dove parlano le “grandi voci lontane” di Beccaria, Cavour, Pisacane, Mazzini».
La Costituzione ebbe una breve gestazione - non più di un triennio -, ma la sua maturazione ideale non fu altrettanto breve. Essa non nacque come Minerva armata dalla testa di Giove. Vi sono intessute culture, aspirazioni, esperienze, ideologie di diversa provenienza, di epoche differenti.
Di questo contenuto profondo dei principi costituzionali non posso fare qui che qualche esempio, e soltanto in forma interrogativa, avanzando ipotesi. Come arriva la diade della Costituzione termidoriana (non delle precedenti Costituzioni francesi rivoluzionarie) «diritti e doveri» negli articoli 2 e 4, nonché nel titolo della parte prima della Costituzione italiana? Non bisogna riconoscere dietro alla formula del secondo comma dell’articolo 3, quello sull’eguaglianza in senso sostanziale, la critica marxista della eguaglianza meramente formale affermata dalle Costituzioni borghesi e il successo che solo pochi anni prima, nel 1942, aveva avuto anche in Italia il «piano Beveridge» con la sua libertà dal bisogno? Come spiegare la circostanza che dei 1357 lemmi della Costituzione uno di quelli che hanno il maggior numero di occorrenze è «ordinamento», senza capire che «così dalla prima commissione la grande ombra di Santi Romano si estendeva all’Assemblea, come se il piccolo libro fosse stato scritto a favore dei Patti Lateranensi», come notato nel suo solito stile immaginifico da La Pira nel suo intervento sull’articolo 7?
Ed è possibile ignorare la lunga storia del cattolicesimo italiano e del suo rifiuto dello Stato (la «questione romana»), che si intreccia con l’idea romaniana della pluralità degli ordinamenti giuridici o ispira le norme dove si afferma, prima che lo Stato garantisca i diritti o promuova le autonomie, che questi vadano riconosciuti, e quindi, preesistono allo Stato, consolidando quindi il pensiero della corrente antipositivistica (perché lo Stato viene dopo le persone, le «formazioni sociali» e gli ordinamenti originari non statali)?
Si possono comprendere le norme costituzionali sul patrimonio storico e artistico e sulla scuola ignorando l’elaborazione, in periodo fascista, a opera di Giuseppe Bottai, di Santi Romano, di Mario Grisolia, della legislazione sulle cose d’arte e della «carta della scuola», quindi senza riconoscere che la Costituzione antifascista ha raccolto anche l’eredità del fascismo? Infine, come intendere la portata dei programmi economici per indirizzare a fini sociali l’impresa privata, senza considerare una duplice esperienza, quella della pianificazione economica sovietica e quella del New Deal rooseveltiano?
Nel melting pot costituente, furono raccolte, messe insieme, ordinate queste diverse idee, culture, esperienze, e altre ancora, che si mescolavano all’esigenza di riportare libertà e rispetto per i diritti nel Paese. La Costituzione rappresentò una reazione al regime illiberale fascista, ma fu anche il precipitato di ideali di epoche diverse (risorgimentale, liberaldemocratica, fascista), Paesi diversi (specialmente quelli che si dividevano il mondo, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica), aree diverse (quella cattolica, quella socialista e comunista, quella liberale), orientamenti dottrinali opposti (quello statalistico e quello pluralistico).
Calamandrei ebbe l’intelligenza di riconoscere questo sguardo lungo della Costituzione, ma - forse prigioniero dell’idea che la Resistenza fosse un secondo Risorgimento - si fermò alla segnalazione del contributo ideale di autori lontani, Mazzini, Cavour, Cattaneo, Garibaldi, Beccaria. Nel discorso del 1955 tralasciò il contributo che proveniva da altri Paesi e da epoche più vicine, specialmente dal fascismo, un contributo che prova la lungimiranza degli autori della Costituzione, antifascisti che recuperarono l’eredità del fascismo (ma questo a sua volta aveva sviluppato ideali e proposte dell’età liberale).
Questo risultato non fu sempre positivo, come osservava Giannini, perché la seconda parte della Costituzione (o, meglio, quella relativa alla forma di governo) sembrò dimenticare proprio la lezione del passato, come alcuni costituenti dissero ai loro colleghi, ricordando che anche dalle debolezze del sistema parlamentare liberale era scaturito il fascismo. Ciò avrebbe richiesto un sistema di stabilizzazione dei governi, pure auspicato da molti (e anzi accettato in linea di principio dalla ampia maggioranza che votò l’ordine del giorno Perassi), secondo il quale il sistema parlamentare doveva avere «dispositivi idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare degenerazioni del parlamentarismo».
Come osservava Paolo Ungari molti anni or sono, «l’intera vicenda della cultura giuridica italiana fra le due guerre dovrebbe essere attentamente ripercorsa, e non solo al livello delle discussioni universitarie, per rendersi conto del patrimonio di idee e di tecniche degli uomini che sedettero nelle varie commissioni di studio del periodo intermedio, dalla commissione Forti a quella sulla “riorganizzazione dello Stato”, nonché alla Consulta e alla Costituente stessa».
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ... *
Diritto
Nel saggio di Daniele Menozzi (Carocci) la storia di come la Carta regolò i rapporti tra Stato e Chiesa
Nella Costituzione senza esserlo. Il destino ambiguo del Concordato
I tessitori. Dossetti e Togliatti con il liberale Lucifero trovarono la soluzione sancita nell’articolo 7
di Roberto Finzi (Corriere della Sera, 30.03.2018)
Non c’è dubbio che tra i «principi fondamentali» che reggono la nostra Repubblica racchiusi nei primi dodici articoli della Carta del 1948 (cui Carocci dedica una serie diretta da Pietro Costa e Mariuccia Salvati) il più controverso sia stato (in parte continui a essere) l’articolo 7 o meglio, e soprattutto, il primo asserto del suo secondo comma. Se, al di là delle sfumature, ogni forza politica e ogni cittadino, poteva ammettere che «lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani» perplessità e opposizioni nascevano e continuarono dalla affermazione che seguiva: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi», firmati, come si sa, da Benito Mussolini e dal cardinale segretario di Stato Pietro Gasparri l’11 febbraio 1929, regnante Achille Ratti, Papa Pio XI. Sanavano la «questione romana» apertasi con la presa di Roma. Con accordi e norme complicate tra cui due particolarmente odiose per un Paese che - dopo un decennio di guerre e la doppia occupazione nazista e alleata - si era scrollato di dosso la dittatura anche attraverso la Resistenza e stava lavorando non solo al ritorno delle civili libertà ma a una democrazia nuova, repubblicana come aveva decretato il voto del 2 giugno 1946.
Si trattava dell’asserto che quella cattolica era la religione «di Stato» e, per la sua pervasività, dell’attribuzione degli effetti civili al matrimonio religioso. Con il paradosso che chi riteneva il matrimonio un sacramento poteva, per le norme del diritto canonico, ottenerne la nullità, riconosciuta poi dallo Stato e chi invece aveva del matrimonio una concezione puramente civile era destinato a essere legato a vita, indissolubilmente, non per diretta conseguenza dei Patti, ma per la coincidenza nella visione della famiglia tra Chiesa e fascismo. Nel quadro per di più di un diritto di famiglia in cui era sancita una netta subordinazione della donna.
Nella sua ricostruzione del formarsi del dettame costituzionale e poi dei suoi effetti nella vita democratica italiana ( Art.7. Costituzione italiana ), Daniele Menozzi non nega le conseguenze negative del permanere di quelle norme specie nel quindicennio successivo alla emanazione della Carta Costituzionale. Ci offre però una chiave di lettura della formazione e del senso della norma più articolata, che affonda le sue radici nella complessità del problema cattolico nella storia dell’Italia unita e soprattutto a quel punto della vicenda del nostro Paese.
La Chiesa, lo dimostreranno le successive elezioni del 18 aprile 1948, aveva ancora un forte ascendente sulla popolazione ed era una Chiesa che, seppure - si vedrà di lì a poco - intimamente percorsa da interne pulsioni verso il nuovo, era ancora fortemente contraria al mondo moderno e alle sue forme politiche. In particolare a quelle di matrice socialista e comunista. Ora, si trattava, in sostanza - spiega Menozzi con precisione e acribia filologica - di attirare, per così dire, la Chiesa verso la accettazione piena di quella democrazia che si andava delineando nel lavoro della Costituente, cedendo in via formale alle sue richieste anche se nell’immediato contraddittorie con quella visione.
Protagonista di questa operazione complicata e sottile fu in primis Giuseppe Dossetti che univa alla sua profonda fede cristiana una visione non ierocratica della Chiesa, la competenza giuridica del canonista di vaglia, cristalline convinzioni democratiche, saldi legami con le altre culture politiche formatisi nella Resistenza. Dossetti trovò una sponda in Palmiro Togliatti, a lungo, e tutt’oggi, accusato di avere, in qualche modo permesso un inquinamento della Costituzione con il riconoscimento nel suo testo dei famigerati Patti Lateranensi.
L’atteggiamento del leader del Pci derivava dal convincimento che nella Repubblica dovessero riconoscersi per davvero tutti gli italiani e pure, dice Menozzi, da considerazioni più immediatamente politiche. Mentre stava costruendo il «partito nuovo» guardava alla possibilità di una adesione al Pci di cattolici. Così temuta dalla Chiesa pacelliana che nel 1949 il Papa scomunicherà i comunisti.
Io aggiungerei due aspetti. Togliatti era ben consapevole di quanto Milovan Gilas nelle sue Conversazioni con Stalin ricorda avergli detto il dittatore sovietico: «Questa guerra (...) è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale». E infine la lotta per l’egemonia all’interno della sinistra. In quel campo i socialisti, allora sotto la sigla Psiup, erano ancora, seppure non di molto, maggioritari rispetto al Pci.
Per ben intendere la vicenda al quadro manca un tassello. Decisivo. Si tratta della seconda parte del secondo comma dell’articolo 7 che recita: «Le modificazioni dei Patti (Lateranensi), accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale». In tal modo si eliminava una delle più forti obiezioni all’inserimento dei Patti in Costituzione. Per tale via infatti non venivano «costituzionalizzati» ché la loro modifica poteva avvenire per legge ordinaria. L’artefice di questo accorgimento essenziale fu Roberto Lucifero, liberale e monarchico.
Così l’articolo, nota Menozzi, «appariva formulato con il concorso di tre diverse famiglie politiche: la democristiana, la comunista e la liberale».
La «non costituzionalizzazione» dei Patti - in un modo profondamente cambiato all’interno e soprattutto all’esterno della Chiesa - sarà uno degli elementi che permetterà all’Italia l’adozione formale, prima sul terreno parlamentare e quindi - con i referendum del 1974 e del 1981 - attraverso la conferma popolare di decisive riforme come il divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza. E del nuovo diritto di famiglia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità ...
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Federico La Sala
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone (il manifesto, 28.12.2017)
Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta - per chi voglia raccoglierla seriamente - la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione - in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini - diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi - è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti - avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 - potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.
MUSICA, STORIA, E SOCIETA’: IL CANTO DEGLI ITALIANI. Goffredo Mameli, Giuseppe Verdi, il Risorgimento, la tradizione ebraica, il fascismo, e la Repubblica....
“Fratelli d’Italia” diventa ufficialmente inno nazionale
Scelto nel 1946 con un provvedimento provvisorio, nessuna legge lo aveva reso definitivo
Dopo 71 anni di provvisorietà l’Inno di Mameli, o meglio «Il canto degli Italiani», diventa ufficialmente l’Inno della Repubblica Italiana. Dopo svariati tentativi nelle precedenti legislature, il Senato ha approvato definitivamente la legge che rende ufficiale quell’inno che il Consiglio dei ministri del 12 ottobre 1946 adottò provvisoriamente.
«Su proposta del Ministro della Guerra - si legge nel verbale di quel lontano Consiglio dei ministri presieduto da Alcide De Gasperi - si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli». Nulla di più definitivo del provvisorio, come spesso accade in Italia, anche perché l’Inno di Mameli entra a tutti gli effetti nell’immaginario collettivo, grazie soprattutto alla nazionale Italiana di Calcio e ai successi che un tempo elargiva. Poi nella legislatura 2001-2005 ecco sia una proposta di legge ordinaria che una costituzionale, che però non vengono approvate. Lo stesso avvenne nelle due successive legislature (2006-2008 e 2008-2013). Curiosamente però una legge del 2012, nata per promuovere il senso di cittadinanza tra gli studenti, prevede che l’Inno di Mameli venga insegnato nelle scuole.
Anche l’attuale legislatura sembrava destinata allo stesso esito e invece la Commissione Affari costituzionali della Camera in poche settimane ha approvato in sede deliberante la legge attesa da anni (di iniziativa di alcuni deputati del Pd), imitata dalla Commissione Affari costituzionali del Senato, che in due settimane ha dato il sì definitivo. «Abbiamo l’Inno» ha commentato Salvatore Torrisi, presidente della Commissione.
«La Repubblica - afferma la nuova legge - riconosce il testo del `Canto degli italiani’ di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale proprio inno nazionale». Ciò significa che tutte e sei le strofe del testo di Mameli costituiscono l’Inno e non solo le prime due, che tutti conoscono per motivi calcistici. E appare quasi una beffa del destino il fatto che i tifosi non possano cantare l’Inno ai mondiali di calcio per la prima volta dopo 60 anni, proprio dopo la storica approvazione della legge attesa da 71 anni.
Comunque Mameli ha avuta vita difficile anche per la concorrenza di «Va pensiero» il coro dal Nabucco di Giuseppe Verdi, che in passato la Lega propose come Inno alternativo, anche perché esso non parla di Roma, come invece fa «Fratelli d’Italia». E proprio la Lega è stata assente sia al momento dell’approvazione della legge alla Camera che oggi al Senato, anche se Roberto Calderoli assicura che non sia una scelta politica, ma una semplice coincidenza di impegni dei senatori in più Commissioni.
* Fonte: La Stampa, 15/11/2017 (ripresa parziale - senza immagine).
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO , SI CFR.:
VIVA VERDI, VIVA PUCCINI: NESSUN DORMA!!!.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
Federico La Sala
Ius soli, parlamentari e insegnanti iniziano sciopero fame: "Per non doverci rammaricare"
Ampia la risposta all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma. Digiuno a partire da oggi
di VLADIMIRO POLCHI (la Repubblica, 03 ottobre 2017)
ROMA - Uno sciopero della fame tra i parlamentari "per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza". Deputati e senatori rispondono all’appello di Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini, per non far morire la riforma dello ius soli. E dichiarano di essere pronti a digiunare a partire da oggi, assieme a 800 insegnanti a sostegno della legge sulla cittadinanza.
"Cara collega, caro collega - si legge nell’appello a cui aderiscono anche i Radicali italiani, il segretario Riccardo Magi e la presidente Antonella Soldo - vi scriviamo perché siete tra coloro che, dal primo momento e con maggiore determinazione, hanno sostenuto le buone ragioni della legge sullo ius soli. Ogni giorno lo spiraglio - pur esile, esilissimo - che sembra aprirsi sulle possibilità di una approvazione del testo, tende a chiudersi.
Qualcosa si deve pur fare per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra ignavia o della nostra impotenza. Se, come tutto sembra indicare - e come segnalano anche le ripetute dichiarazioni del ministro Del Rio - questi sono giorni decisivi, proviamo a muoverci".
"Oggi, 3 ottobre - giornata nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione - oltre 800 insegnanti attueranno uno sciopero della fame a sostegno della legge e informeranno i loro studenti del significato della propria azione. Potrebbe essere l’occasione, questa, per collegarsi a tale iniziativa rilanciandola nella nostra qualità di parlamentari. Si tratta di prendere una decisione immediatamente.
L’ipotesi è quella di un digiuno a staffetta a sostegno della richiesta della presentazione in Aula prima possibile del disegno di legge. Dunque, per tenere aperto questo spiraglio e provare a inserirci in esso in maniera attiva ed efficace, coinvolgendo il maggior numero di persone affinché il governo decida di porre la fiducia".
"I tempi potrebbero essere i seguenti: mercoledì 4 ottobre ci sarà il voto a maggioranza assoluta sulla nota di variazione di bilancio DEF. Dopo di ché si apre una sorta di finestra. Infatti la legge di stabilità arriverà in Senato (alle Commissioni) nell’ultima settimana di ottobre. Il calendario dei lavori dell’Aula si ferma a giovedì 19 ottobre. Occorrerà dunque una nuova Conferenza dei capigruppo. Ciò vuol dire che vi sono due settimane di tempo per ricercare i numeri necessari alla fiducia sul provvedimento relativo allo ius soli.
Si tenga conto che quello stesso periodo di tempo coincide con la fase conclusiva della campagna Ero straniero. L’umanità che fa bene e della relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della legge Bossi-Fini. I due obiettivi potrebbero sostenersi e incentivarsi a vicenda. Pensiamo, in ogni caso, che si tratti di una prova difficile ma che vale la pena affrontare".
"Le modalità del digiuno a staffetta, a sostegno di questo percorso, verranno precisate puntualmente nelle prossime ore. E si ricordi che il pomeriggio del 13 ottobre, a partire dalle 16, davanti a Montecitorio è prevista una manifestazione alla quale sarebbe opportuno che tutti noi partecipassimo, promossa dalla rete degli "Italiani senza cittadinanza".
Ti chiedo la tua adesione all’iniziativa nel più breve tempo possibile. Già una trentina di deputati si sono dichiarati disponibili a condividere con noi l’atto del digiuno. Aspettiamo la vostra adesione". Firmato: Luigi Manconi, Elena Ferrara, Paolo Corsini.
Hanno aderito finora: Loredana De Petris, Vannino Chiti, Walter Tocci, Laura Fasiolo, Francesco Palermo, Sergio Lo Giudice, Stefano Vaccari, Claudio Micheloni, Monica Cirinnà, Daniela Valentini, Laura Puppato, Luis Alberto Orellana, Massimo Cervellini, Peppe De Cristofaro, Alessia Petraglia, Deputati Michele Piras, Sandra Zampa, Mario Marazziti, Franco Monaco, Luisa Bossa, Eleonora Cimbro, Florian Kronbichler, Paolo Fontanelli, Nello Formisano, Gianni Melilla, Lara Ricciatti, Pippo Zappulla, Marisa Nicchi, Michele Ragosta, Luigi Laquaniti, Giovanna Martelli, Donatella Duranti, Toni Matarrelli, Filiberto Zaratti, Franco Bordo, Filippo Fossati, Tea Albini, Delia Murer.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I DUE CORPI DEL RE, DEL PAPA, E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
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Emilio Gentile, la recita della democrazia
di Lelio Demichelis (Alfabeta2, 6 novembre 2016)
«La sovranità appartiene al popolo», recita l’articolo 1 della Costituzione più bella del mondo, quella italiana. Al popolo, cioè - in democrazia - al dèmos. Ma chi o cosa è il popolo e come esercita la sua sovranità? E, soprattutto, è davvero sovrano oppure la democrazia è solo una finzione, sia pure ben recitata? E ancora: perché spesso il dèmos sovrano rinuncia alla propria sovranità e si fa assente, indifferente o addirittura nichilista (o sadomasochista) e lascia che oligarchie, élites, supposte classi dirigenti, esperti e tecnici (tecnocrazie) di varia natura e populisti di vario colore, ma soprattutto il mercato e la tecnica, lo spoglino di potere e di sovranità? Dopo La Boétie, opportunamente, si torna a parlare di «servitù volontaria», ma perché abbiamo paura della libertà (con Kant ed Erich Fromm)? Tendenza del potere economico e tecnico a divenire autopoietico, quindi senza più bisogno di dèmos e di democrazia, l’autopoiesi essendo sovrana per autoregolazione e per autoreferenzialità? Oppure, istinto/bisogno animale di un capobranco/leader che ci liberi del peso delle scelte?
E dunque, siamo ancora in una democrazia, oggi che la democrazia sembra trionfare nel mondo e tutti invocano più democrazia? Oppure si perfezionerà ulteriormente la postdemocrazia, secondo il Colin Crouch che scriveva «anche se le elezioni continueranno a svolgersi e a condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche della persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi»; mentre «la politica viene decisa in privato dall’integrazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici». Ci siamo dunque ormai adattati, come abbiamo scritto altrove, a una democrazia-non-più-democrazia (anche se 2.0), sottoposta alla sovranità del capitalismo oligopolistico e all’oligarchia degli immaginari collettivi e della fabbrica digitale globale dei signori del silicio?
Sintetizza lo storico Emilio Gentile, grande studioso del fascismo, dei rapporti tra capo e folla, di totalitarismi e di culti politici (ricordiamo alcuni dei molti eccellenti titoli al suo attivo: Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza 1993; Le origini dell’ideologia fascista, il Mulino 1996; La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, Carocci 2001; La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza 2006; Il capo e la folla, Laterza 2016): «Ora, tutte le informazioni di cui disponiamo [...] documentano una progressiva, accentuata discesa del popolo sovrano verso una condizione che lo vede sempre più lontano dalla politica, assente alle elezioni, ostile ai governanti, sprezzante o indifferente verso i partiti, deluso e sfiduciato verso le istituzioni fondamentali dello Stato democratico. In altre parole, è il popolo ad essere consapevole di non essere sovrano. E addirittura sembra che voglia rassegnarsi a non esserlo più».
Parole dure tratte dall’ultimo libro di Gentile, uscito nella collana Idòla di Laterza con un titolo provocatorio (ma nel segno della collana laterziana) e insieme riflessivo (che dovrebbe farci riflettere): In democrazia il popolo è sempre sovrano? Falso! Dove «falso» è appunto credere che in democrazia il dèmos sia sempre sovrano, quando non lo è mai veramente e non lo è stato neppure alle origini delle democrazie moderne. Perché quella di Gentile - scritta sotto forma di dialogo tra l’autore e il «Genio del libro» («stanco di essere un ricevitore passivo delle parole che l’Autore scrive sulle sue pagine») - è una riflessione densa e insieme appassionata sulla democrazia tra storia e attualità; tra democrazia dei greci e democrazia moderna, passando per Robespierre e Tocqueville, arrivando alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e poi ad Aron, a Crouch e Rosanvallon; e, ancora, tra democrazia e oligarchia («la sola forma di governo democratico», come ha incautamente scritto di recente Eugenio Scalfari).
Gentile parte definendo il concetto: «Democrazia significa potere del popolo. Se il potere appartiene al popolo, il popolo è il titolare della sovranità. Quindi, in uno Stato democratico, sovrano è il popolo e nessun governante può essere al di sopra del popolo o al di fuori del popolo. Dalla volontà dei governati deriva ogni autorità dei governanti». Ma democrazia è spesso solo una bella parola, oggi la democrazia è nuovamente in crisi (ma lo è stata altre volte nella sua breve storia), perché «per certi aspetti, vive in uno stato di crisi permanente, perché deve costantemente rinnovarsi per adeguarsi alle nuove situazioni, spesso impreviste, nelle quali il popolo sovrano si trova a vivere», e quindi anche la globalizzazione di questi ultimi trent’anni costituita dai poteri economici e finanziari, oltre che tecnologici, di ispirazione neoliberista.
Poteri senza dèmos ma che hanno deliberatamente svuotato la sovranità del dèmos e hanno altrettanto deliberatamente con-fuso mercato/rete con democrazia, facendoci credere che siano appunto il mercato e la rete le migliori formi di democrazia possibili. Portando la democrazia a un’ulteriore mutazione, il passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella che Gentile chiama democrazia recitativa, che ha «per palcoscenico lo Stato, come attore protagonista i governanti e come comparsa occasionale il popolo sovrano [...] per cui la sovranità dei popoli ha, in molti casi, la stessa consistenza delle scintillanti corone dei re nel Teatro dei Pupi». Una democrazia dove - sotto la maschera delle elezioni - si assiste al rafforzamento continuo del potere esecutivo (come avverrà, se approvata, con la riforma costituzionale su cui voteremo il 4 dicembre), secondo gli auspici e i voleri della neoliberista e oligarchica Commissione Trilaterale degli anni Settanta, preoccupata per gli eccessi di democrazia e di diritti sociali di quegli anni. Eccessi, in quanto tali, ovviamente da ridurre.
Scrive Gentile: «La mia valutazione è allora molto semplice: se la democrazia è il potere del popolo sovrano, e il popolo sovrano non ha più potere, la democrazia cessa di esistere o diventa altra cosa da quella che è stata finora. E altra cosa diventa anche il popolo sovrano». E dunque, oggi, crisi della democrazia. Di cui e paradossalmente si è ricominciato a parlare nel momento stesso in cui la storia finiva (secondo Fukuyama) con il trionfo della libertà e della democrazia, producendosi però e conseguentemente un crescente distacco del popolo sovrano dai suoi governanti. «O, per essere più precisi, un crescente distacco dei governanti dal popolo sovrano», chiosa Gentile.
I cambiamenti di questi ultimi trent’anni - quelli citati da Gentile ma soprattutto (aggiungiamo) l’individualizzazione (falsa anch’essa) prodotta dalle nuove tecnologie, il neoliberismo e l’ordoliberalismo come forme capitaliste diventate forme sociali, la scomposizione e l’individualizzazione del lavoro, il tempo reale e la morte del futuro e quindi l’incapacità o l’impossibilità collettiva (del demos) di fare discorsi sui fini - hanno accelerato, come scrive Gentile, «la trasformazione della democrazia [...], dove il popolo rimane sovrano nella retorica costituzionale ma nella realtà è desovranizzato». Cioè il potere non gli appartiene più anche perché (aggiungiamo ancora) e diversamente dal passato - quando la sovranità veniva personalizzata in un soggetto riconoscibile anche se astratto - la sovranità oggi appartiene a tecnica e mercato, cioè ad apparati impersonali, apparentemente ancora più astratti ma molto più concreti nei loro effetti sociali e politici. Che impongono al dèmos - come massima razionalità e come massima libertà che l’apparato gli concede - quella di adattarsi al cambiamento che l’apparato produce (e di farlo velocemente), rinunciando alla possibilità e alla capacità di governare l’apparato. Dunque, con Gentile, dire popolo sovrano è richiamare un «idolo», o un mito. Ieri, ma soprattutto oggi.
E allora inevitabili arrivano le domande: come contrastare la deriva antidemocratica (più che postdemocratica) di questi anni? Come dare sovranità vera al dèmos? - quel dèmos che è da sempre il nemico che ogni potere, ogni oligarchia e oggi ogni apparato vuole desovranizzare pur continuamente invocandolo, come oggi il popolo della rete: che non è popolo e non è sovrano della rete (per cui la rete è tutt’altro che democratica).
Gentile si definisce «un amico e non un amante della democrazia», perché gli amanti non vedono i difetti dell’amato/a mentre gli amici sanno essere sinceri, come lo è appunto l’autore con la democrazia. E però, e diversamente da Gentile - ma poco poco - a noi piacerebbe essere amici della democrazia perché ne vorremmo essere anche amanti. Perché la democrazia possa essere davvero (o almeno sempre più, invece che sempre meno) democrazia.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
CITTADINANZA E "IUS SOLIS" (DIRITTO DEL SOLE). USCIRE DALLA CAVERNA, NON RINCHIUDERSI DENTRO .... *
Ius Soli
Figli nostri e figli dello Stato
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 28.09.2017)
LA RESISTENZA antropologica e psicologica, oltre che politica ed elettoralistica, allo Ius soli rende manifesta una tendenza sempre presente nella realtà umana: difendere il proprio status narcisistico, sociale e identitario dal rischio perturbante della contaminazione. È quella inclinazione autistica della vita umana che aveva condotto Freud a paragonare la sua condizione primordiale di esistenza a un guscio chiuso su se stesso e ostile per principio al mondo esterno, colpevole di essere “straniero e apportatore di stimoli”.
Questa concezione corazzata dell’identità nei tempi di crisi tende inevitabilmente a rafforzarsi e a sclerotizzarsi. La paura dello straniero incentiva l’edificazione di una versione dell’identità fobica, refrattaria allo scambio, iper-difensiva. I confini diventano muraglie, cessano di essere porosi, acquistano la consistenza del cemento armato. In un tempo dominato dal panico sociale generato dalla durezza della crisi economica, dal carattere anarchico e inarrestabile dei flussi migratori e dalla follia terrorista, la solidificazione dell’identità tende a configurarsi come una reazione giustificata alla minaccia incombente. I rigurgiti nazionalisti, etnici, populisti, sovranisti che caratterizzano la scena politica non solo nazionale ma internazionale cavalcano irresistibilmente questa onda. Ma la vita della città senza contaminazione è destinata all’imbarbarimento esaltato della setta, alla psicologia totalitaria delle masse. In questo senso dovrebbe essere chiaro a tutti che la partita dell’integrazione è il più grande antidoto ad ogni forma di violenza compresa quella del terrorismo.
Come non considerare che in questo mondo nuovo attraversato dall’esperienza inevitabile della contaminazione, del cosmopolitismo, dello scambio, della flessibilità dei confini, la nozione di cittadinanza deve essere radicalmente riformulata? Le situazioni di crisi non necessariamente sono destinate ad accentuare una difesa strenua contro quello che pare ingovernabile. È un insegnamento che proviene dalla vita psichica: il tempo di maggiore crisi - se elaborato nella direzione giusta - spesso coincide con il tempo delle trasformazioni più generative. L’attraversamento di una malattia non riporta mai la vita a com’era prima, ma la può rendere più ricca, più sensibile alla vita, più capace di vita. In questo senso la crisi può essere sempre un’occasione di apertura più che di chiusura.
La battaglia politica e culturale dello Ius soli potrebbe diventare un esempio luminoso. Alla tentazione della chiusura e del barricamento identitario vincolato al sangue e al particolarismo dell’etnia - che sono, in realtà, la faccia speculare della globalizzazione universalistica - si può rispondere ponendo con forza il tema della rifondazione positiva del senso di appartenenza alla vita della città. La psicoanalisi lo verifica quotidianamente nella sua pratica clinica: l’integrazione cura la dissociazione; l’esperienza del riconoscimento cura l’odio; la condivisione cura il senso di segregazione.
Il legame familiare, forse più di ogni altro, ci offre un esempio significativo di giusta cittadinanza. Non si diventa padri o madri perché si genera biologicamente una vita. La vita del figlio è tale solo se viene simbolicamente adottata al di là del sangue e della stirpe. C’è genitorialità solo se ci assumiamo la responsabilità illimitata che il prendersi cura della vita di un figlio comporta.
Questa nozione di responsabilità non è mai un fatto di sangue, ma implica un consenso, un atto, una decisione simbolica. Allo stesso modo lo Stato ha il dovere etico di adottare - di riconoscere come suoi figli - coloro che non solo e non tanto nascono nel suo territorio, ma si riconoscono come parte integrante di quello Stato contribuendo alla sua vita. Diversamente l’idea che la cittadinanza sia un diritto vincolato al sangue è un’idea fondamentale del Mein Kampf di Hitler. L’origine del razzismo e di ogni genere di fanatismo hanno sempre come loro fondamento l’ideale della purezza etnica che esclude il pluralismo.
La battaglia per lo Ius soli è una battaglia di Civiltà dal respiro ampio. Non riflette un colore politico. Per questa ragione i numeri non dovrebbero essere tutto. I partiti che la ritengono giusta dovrebbero mantenere il loro sguardo alto. In gioco non è un semplice guadagno elettorale ma il senso stesso del mondo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ... GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Inedito.
Giovanni Bianchi: «La resistenza sia senza odio»
A un mese dalla scomparsa del politico cattolico una riflessione dove descrive l’impegno partigiano, sull’esempio di Dossetti e Gorrieri, con lo spirito di chi al fucile antepone la risposta etica
di Giovanni Bianchi (Avvenire, 24 agosto 2017)
Aveva ragione Norberto Bobbio quando affermava che il nostro Paese era fatto di «diversamente credenti» dove i cattolici semmai hanno una caratteristica. Ho titolato il mio libro Resistenza senza fucile. I cattolici non è che fossero pacifisti, magari qualcuno sì. L’unico che ha partecipato a tutte le azioni disarmato è stato Giuseppe Dossetti sull’Appennino reggiano. Su quello modenese c’era Ermanno Gorrieri, sarà ministro del lavoro, che sparava cercando di mirare giusto. La differenza è in un’altra modalità di condurre la guerra, lo dice Gorrieri «Noi cercavamo di non fare stragi inutili e fare morti inutili».
Chi definisce meglio questa modalità dei cattolici, ma lo ripeto non è pacifismo, combattendo senza armi, a mani nude, è Ezio Franceschini (sarà rettore dell’Università Cattolica di Milano): «Noi cattolici abbiamo imparato a combattere senza odiare ». Non è che se prendi una pallottola da uno che non ti odia non ti fa secco, però è diversa la modalità, il modo di affrontare il nemico. Io avevo una grande amicizia con Sergio Zigliotti, uno dei capi sull’Appennino parmense, scomparso un anno fa e vice presidente dei partigiani cristiani. Faceva il liceo a Genova e trovandosi sull’Appennino parmense si è aggregato ai partigiani. Farà la maturità classica alla fine della lotta di Liberazione con un tema, che avrei voluto leggere, intitolato Dante partigiano cristiano. Questo per dire qual era l’animo.
Vado alla conclusione con un altro episodio raccontato dall’amico ebreo Stefano Levi Della Torre, grande architetto, uno dei rappresentanti della comunità ebraica milanese. Una volta mi spiegò, cosa che mi ha lasciato impressionato, che suo padre, partigiano in ’Giustizia e Libertà’, dopo la Liberazione si trovava con un amico delle brigate Garibaldi una volta al mese. Sapete cosa facevano? Una volta al mese uno sosteneva le ragioni dell’altro! Un esempio stupendo di che cosa può essere la democrazia, l’ascolto, la comprensione. Una di quelle modalità che, comunque collocate nella Resistenza, ci spiegano come quelle persone abbiano provato a combattere senza odio. Mi sembra davvero una cosa attorno alla quale riflettere.
Se poi si viene all’oggi in un periodo nel quale si vendono armi a gogò. Pensate al viaggio di Trump in Arabia Saudita, contratti iper miliardari e con una scelta molto precisa dei Sunniti wahabiti, ossia quelli che stanno con l’Isis. Per carità non è che gli Sciiti siano tutte brave persone. In una fase nella quale papa Francesco ci dice che è incominciata la terza guerra mondiale a pezzetti e capitoli. O questo papa dice barzellette ai funerali, o bisognerà prenderlo sul serio. Cos’è questa terza guerra mondiale? Mi viene in mente Carl Schmitt, grande giurista, perfino filo nazista, ma un’intelligenza acutissima, che negli anni ’60 disse «è incominciata la terza guerra mondiale ». Ed è una guerra civile combattuta da terroristi: è la radiografia.
Non voglio rovinare le notti a nessuno, ma quando uno va a scavare nella storia non è che si ferma a mettere un’altra lapide. Si chiede cosa stiamo costruendo, come è possibile. Chiudo con una bella immagine della piccola, ma importante, resistenza tedesca: ’La Rosa Bianca’. Questi ragazzi di Monaco di Baviera, studenti, che si ritrovano alla sera per leggere i classici tedeschi, hanno fatto sei volantini in tutto che mettevano in giro, all’Università, nelle guide delle cabine telefoniche. La cosa incredibile è questa: li prendono e il tribunale del popolo nazista di Monaco di Baviera li giudica alla mattina e li ghigliottinano nel pomeriggio, tale il timore che potesse il contagio attecchire.
Ma la cosa stupenda è che uno dei ragazzi che vanno alla ghigliottina si rivolge all’altro e dice «comunque ci rivediamo fra dieci minuti». Uno che ha il fegato di dire una cosa così testimonia una speranza, che non è l’ottimismo, ma un’altra cosa di estremamente positivo e motivante anche per l’oggi e per il futuro. Credo che riandare a vedere i fatti della Resistenza in questo modo ti arricchisce, non è soltanto fare memoria. La memoria è essenziale, ma è un modo per creare un punto di vista, per guardare la vicenda nella quale, a qualche titolo, siamo dentro, ma per andare avanti.
Il tempo presente del fascismo
di Claudio Vercelli (Patria Indipendente, 20 luglio 2017)
Le ragioni del fuoco di sbarramento al ddl Fiano. Lo «sdoganamento» del fascismo iniziato più di trent’anni fa, e il tentativo di affossamento dell’antifascismo. Non oscene nostalgie, ma la volontà di una dittatura presentata come visione alternativa della società. L’urgenza di ricostituire una linea di separazione tra lecito e illegittimo
Non può sorprendere il fuoco di sbarramento che si sta opponendo all’introduzione, nel nostro ordinamento penale, dell’articolo 239-bis, concernente il reato di propaganda «attiva» (attraverso il ricorso a gesti palesi, come il saluto romano; la distribuzione di oggettistica e la diffusione di immagini; il ricorso a strumenti informatici e di comunicazione di massa) «del regime fascista e nazifascista». Il primo firmatario della proposta di legge, che nella sua originaria stesura risale già a due anni fa, è Emanuele Fiano.
La discussione in Commissione Giustizia e gli echi nelle aule parlamentari hanno scatenato la furia di quanti si sono appellati a un’improbabile «libertà di pensiero», rimandando, in maniera volutamente distorta, alla lettera dello stesso articolo 21 della nostra Costituzione. Tra di essi, spiccano coloro che si sono espressi contro una norma che hanno bollato da subito come «liberticida». Immediatamente dietro costoro, si articola il vasto coro di quei pallidi liberali variamente assortiti e motivati nel loro comune rifiuto: da quanti hanno invocato la necessità di imporre una pari condanna contro il «comunismo», poiché anch’esso manifestazione di «totalitarismo», a coloro che nel tentativo di dimostrare quanto il rimando ai simboli del fascismo sia solo una sorta di ragazzata, hanno quindi colto l’occasione per ridimensionare ancora una volta il tragico lascito di quell’esperienza storica. Anche nel suo riproporsi nel corso del tempo, fino ai rigurgiti dei diversi gruppi che esplicitamente, e con raccapricciante orgoglio, ad oggi rivendicano apertamente la loro identità fascista. Ciliegina sulla torta rancida delle polemiche è il ripetere, da parte di polemisti perlopiù dello stesso colore politico, ossia tra un grigio e un nero sbianchettato all’occorrenza, di quello che si sta cercando di affermare come luogo comune, ovvero che l’antifascismo sarebbe un falso valore. Anzi, semmai un ostacolo alla «libertà» dei moderni, che dovrebbe quindi prescindere da «anacronistici divieti», nel nome di un’inverosimile parificazione e un’inaccettabile «pacificazione» tra le parti contrapposte. In quanto - sentenziano costoro - il fascismo non fece troppo male; semmai, esagerò un po’, ma non molto di più.
Detto questo, poiché ciò che è in corso è una battaglia politica, l’ennesima di una storia lunga quanto quella della nostra Repubblica, alcune considerazioni vanno richiamate. Occorre quindi fissare pochi ma netti punti nella discussione.
Il primo rimanda al fatto che la sostanza del rifiuto della norma che Fiano e altri parlamentari vorrebbero invece introdurre nella nostra giurisprudenza non ha a oggetto la tutela della libertà di giudizio, come della sua manifestazione in pubblico. Il vero obiettivo è semmai l’antifascismo organizzato, nel suo costituire ancora una delle ossature della democrazia. Le polemiche astiose e le invettive contro la proposta di legge, infatti, irridono in coro a esso, indicandolo come un ingombro da sotterrare una volta per sempre. Su questo passaggio è bene avere le idee molto chiare.
Lo «sdoganamento» del fascismo, che non data a questi ultimi tempi ma, di fatto, è iniziato più di trent’anni fa, corre su un binario parallelo all’affossamento dell’antifascismo, in tutte le sue manifestazioni. Si sia consapevoli di ciò: i neofascisti, e i loro amici, parlano di pacificazione per poi procedere all’azzeramento dei fondamenti antifascisti della nostra Costituzione.
Se si cede su un punto (legittimando il lascito storico del fascismo attraverso la sua relativizzazione morale, qualcosa del tipo “non era così male come invece lo si è dipinto”) ci si dovrà ben presto confrontare con l’inutilità dell’antifascismo.
Dopo di che, e si tratta del secondo passaggio, non è lo spettro del fascismo a dare corpo alle angosce del presente, ma sono le incongruenze del tempo corrente a dare nuovo fiato a un fascismo mai venuto meno in settant’anni e più di storia repubblicana, democratica e costituzionale. Nel corpo del nostro Paese così come anche in Europa. Poiché il problema è continentale e come tale va ragionato e affrontato. Partendo quindi dalla propria realtà nazionale, per poi estendere lo sguardo oltre se stessi. Se il regime mussoliniano è stato cancellato dalla storia, ovvero da coloro che vi si sono opposti a rischio della propria vita, non senza che una lunga e tragica guerra dilacerasse le nazioni, il fascismo come ideologia della sopraffazione, del primato razzista di Stato, della società di caste, dell’aristocraticismo dei potenti e della inibizione dei subalterni, del rifiuto della diversità e della varietà umana, dell’uso politico della paura per tacitare qualsiasi dissenso (insieme a molto altro) è invece più che mai presente. Non costituisce una ideologia politica tra le tante, anestetizzata e tacitata una volta per sempre dalla clamorosa sconfitta del 1945, bensì il concentrato del rifiuto della democrazia sociale. Una questione di nuovo urgente, dal momento in cui quest’ultima sta vivendo una crisi pericolosissima, dovuta soprattutto ai mutamenti che la globalizzazione ha introdotto nelle nostre società. Gli individui, all’atto in cui smarriscono l’orizzonte del futuro e la fiducia nel tempo che stanno vivendo, rischiano di cadere nelle trappole delle peggiori illusioni. Non per caso, quindi, il neofascismo si ripresenta con i falsi tratti, in sé purtroppo seducenti, di una visione alternativa della società. Dinanzi alla crisi degli ordinamenti liberali, dettata soprattutto dal dirompente ritorno delle diseguaglianze economiche - enfatizzate come un fatto tanto ovvio quanto naturale, quindi in sé “legittimo” perché immodificabile - il neofascismo afferma che la risposta ai problemi sta in un ordinamento non solo autoritario, ma basato sulla cancellazione della cittadinanza democratica.
A dovere impensierire - ed è il terzo punto - non sono quindi solo le oscene “nostalgie” di un qualche vecchio apologeta o le adunate degli irriducibili che non si sono convertiti alla democrazia, né tanto meno lo sgradevole “folclore” di certi personaggi, bensì il fatto che la galassia neofascista sia la punta di un iceberg dove, alla paccottiglia del Ventennio si accompagnano, si legano e si riordinano i miasmi antidemocratici che attraversano la nostra società. Il passato fascista, da questo punto di vista serve al presente delle cosiddette «post-democrazie»: sancisce che la partecipazione consapevole non serve più; dichiara che si deve dare a una ristretta élite la delega totale rispetto alle decisioni; stabilisce un nesso di dipendenza tra la vita dei più e il volere insindacabile di pochi, a partire da un capo carismatico; enfatizza l’imposizione come strumento di indirizzo nell’esistenza delle nostre società; semplifica e banalizza problemi complessi per poi offrire soluzioni di forza. L’elenco sarebbe molto lungo. Non abbiamo quindi a che fare con un’assenza di memoria e, men che meno, con l’eventuale “non conoscenza” della storia. Risparmiamoci le retoriche di circostanza.
Chi si rifà al fascismo in quanto modello non solo politico ma anche sociale e culturale, intendendolo come attuale e quindi riproponibile, ha una precisa idea del passato ma anche e soprattutto chiare intenzioni verso il futuro. Vuole una dittatura. Un tempo ciò sarebbe stato denunciato come inaccettabile mentre oggi rischia di entrare nel circuito dei giudizi di senso comune. Anzi, sarebbe il caso di dire, “nei pregiudizi” diffusi: la democrazia è un orpello, una zavorra di cui liberarsi.
Non è un caso, al riguardo, se esiste un doppio livello. Da una parte lo zoccolo duro delle organizzazioni neofasciste, che rivendicano per sé, apertamente, una tale identità. Non sono mai venute meno, dal 1945 in poi, adattandosi, di volta in volta, alle situazioni date. Sembrano periferiche, quasi marginali, consegnate al loro squallido radicalismo. Ma sono soprattutto un bacino di idee, di volti e anche di voti attraverso il quale introdurre nella discussione politica ciò che fino a non molto tempo fa sarebbe invece risultato impensabile poiché inaccettabile. Dall’altra parte, infatti, si collocano quei movimenti e partiti politici che, pur nella loro legittimità costituzionale, tuttavia ammiccano ai temi che il neofascismo rivendica esplicitamente per sé: a partire dallo svuotamento della rappresentanza democratica, passando attraverso il leaderismo esasperato per poi giungere al razzismo.
Punire il saluto romano non implica il solo osteggiare quei tragici pagliacci che lo ostentano provocatoriamente. Implica semmai il ricostituire una linea di separazione tra lecito e illegittimo, tra accettabile e inaccettabile. I simbolismi non sono mai delle ritualità fini a se stesse. Piuttosto sono dei precisi segnali attraverso i quali si comunicano volontà più ampie, poiché rivolte alla collettività. L’antifascismo, da questo punto di vista, è a un bivio. Dopo anni e anni di erosioni del suo patrimonio condiviso, deve riprendere l’iniziativa politica. Ne va non solo del suo destino ma di quello della democrazia. Laddove le due cose sono facce della medesima medaglia.
Claudio Vercelli, storico - Università cattolica del Sacro Cuore
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
Gianni Ferrara
Dov’è la dottrina comunista dello Stato
di Tommaso Edoardo Frosini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 16.07.2017)
A metà degli anni Settanta, Norberto Bobbio pubblicò un articolo nel quale poneva la domanda: esiste una dottrina marxista dello Stato? Per poi argomentare una risposta sostanzialmente negativa. Adesso, Gianni Ferrara, insigne costituzionalista e già deputato indipendente del Pci, pubblica un libretto che si fonda sulla seguente affermazione: è esistita una dottrina marxista della costituzione e della democrazia. Con specifico riferimento al caso italiano, e grazie al contributo di tre leader comunisti: Gramsci, Togliatti e Berlinguer.
Certo, non è una tardiva risposta alla domanda di Bobbio; ma non è nemmeno, come si sarebbe indotti a pensare, un déjà-vu: un libretto che rispolvera un passato nel tentativo di declinarlo al presente. Certo, c’è molta nostalgia nelle pagine di Ferrara e c’è anche l’orgoglio di sentirsi ancora parte di un mondo ideologico da tempo tramontato. Nella convinzione, giusta o sbagliata, che la lotta per la democrazia in Italia è stata, e tutta intera, la storia del Partito comunista italiano. Rivendicazione coraggiosa ma debole, che valorizza oltremodo una teoria politica ponendola in maniera egemone rispetto alle altre. Sebbene la storia abbia dato chiaramente indicazioni diverse. Sebbene le società siano cresciute e si siano sviluppate nel solco del liberalismo, quale teoria politica della società aperta.
La dottrina politica di Gramsci ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Direi proprio di no. L’idea dell’egemonia gramsciana, quale combinazione di forza e consenso e di direzione intellettuale e morale, si mostra come contrapposta al concetto di pluralismo e libertà, perché comprime lo sviluppo dell’individuo costringendolo in un perimetro ideologicamente chiuso, da rappresentarsi in forma diretta e solo per il tramite del partito politico, quale moderno principe. Vale la pena quantomeno di ricordare come, qualche anno prima, Tocqueville avesse chiaramente raccontato la democrazia come libero associazionismo.
La dottrina politica di Togliatti ha davvero influenzato la nascita della democrazia in Italia? Pur senza negare il contributo fattivo del leader comunista ai lavori della Costituente e quindi al formarsi della Costituzione in Italia, anche qui esprimerei un giudizio di riserva. Ferrara afferma che Togliatti era un fine giurista, come Marx e come Lenin.
Dichiarazione tutta da dimostrare, se è vero come è vero, per dirla con le parole di Calamandrei, Togliatti avrebbe voluto una Costituzione come «un manifesto di propaganda ed anche un po’ predica». Innegabile il suo impegno per la ricerca del compromesso fra culture politiche, la sua ambizione a essere un “rivoluzionario costituente”, ma soprattutto la sua battaglia nel voler fare della democrazia italiana la via al socialismo, e quindi nella direzione generale di una trasformazione economica socialista. Il “fine” giurista, però, non seppe cogliere l’importanza della Corte costituzionale, che definì una “bizzarria”, e i suoi compagni di partito addirittura “un grave atto di lesa democrazia”, quale invece fondamentale baluardo contro la tirannia della maggioranza e per l’affermazione e tutela dei diritti di libertà. Sul punto, mi sembra che Ferrara sia un po’ sbrigativo.
La dottrina politica di Berlinguer ha davvero influenzato la nascita e lo sviluppo della democrazia in Italia? Qui la valutazione deve essere più ponderata. Per il suo apprezzabile impegno ad affermare il principio dell’assoluta indipendenza e sovranità di ogni Stato socialista e di ogni partito comunista. Che si risolse con un progressivo distacco del partito comunista italiano da quello sovietico. E nella costruzione di una democrazia italiana sempre più dinamica per favorire le condizioni per un graduale passaggio al socialismo, sebbene attraverso un “blocco storico”, ovvero la conquista del potere da parte di un blocco di forze politiche e sociali, di cui il partito è parte. Torna, qui, l’idea di egemonia oppositiva al pluralismo e alla libertà.
Ferrara la chiama, sulla scia di Togliatti, «democrazia progressiva»: concetto un po’ vago, a ben vedere, che si identifica con quello di forma di Stato, cioè l’insieme di apparato gius-politico e di comunità umana, come insieme di due entità collegate. Uniti nella lotta per la via italiana al socialismo, per una teoria politica del marxismo. Una lotta, come esplicitato nelle ultime pagine del libro, da muoversi contro la «cappa composta dai Trattati europei», contro un’Europa che si assume essere fonte di diseguaglianze e compressioni sociali. Senza tenere conto, però, che questa Europa, piaccia oppure no, ci ha finora dato la cosa più importante: la pace fra i popoli. E ci ha garantito la libertà: certo, anche economica. Alla domanda di Bobbio, esiste una dottrina marxista dello Stato?, si può oggi agevolmente rispondere che esiste solo una dottrina liberale dello Stato, che si chiama costituzionalismo.
INDIVIDUO E SOCIETÀ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITÀ, APRIRE GLI OCCHI ..
Il presente che nutre il fascismo
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 12.07.2017)
IL FASCISMO non è mai morto. Rappresenta il bisogno di certezza comunitaria e gerarchica in una società individualistica. E nonostante i simboli sbandierati, non è un ritorno al passato. L’ombra del fascismo si stende sulla democrazia, anche quando, come la nostra, è nata nella lotta antifascista. La ragione della sua persistenza non può essere spiegata, semplicisticamente, con il fatto che non ci sia sufficiente radicamento della cultura dei diritti. Si potrebbe anzi sostenere il contrario. Ovvero, che sia proprio la vittoria della cultura dei diritti liberali (e senza una base sociale che renda la solitudine dell’individuo sopportabile) ad alimentare il bisogno di identità comunitaria. Un bisogno che il fascismo in parte rappresenta, tenendo conto che non è solo violenza e intolleranza per i diversi (anche se questi sono gli aspetti più visibili e preoccupanti).
Il fascismo rinasce un po’ dovunque nell’occidente democratico e capitalistico - le fiammate xenofobiche e nazionalistiche che gli opinionisti si ostinano a chiamare blandamente “populismo” sono il segno di una risposta, sbagliata, alla recrudescenza di un sistema sociale che funziona bene fino a quando e se esistono reti associative, capaci di attutire i colpi di un individualismo che è apprezzato solo da chi non ha soltanto le proprie braccia come mezzo di sussistenza. Senza diritti sociali i diritti individuali possono fare il gioco contrario.
La democrazia nata nel dopoguerra su una speranza di inclusione dei lavoratori si è arenata di fronte al totem di un ordine economico che non ne vuol più sapere di riconoscere limiti solidaristici alla propria vocazione accumulatrice. È nata sulle macerie di una guerra mondiale, ma non probabilmente sulle macerie dell’etica comunitaria che aveva cementato la società nazionale nel ventennio.
Nei paesi di cultura cattolica, dove il liberalismo dei diritti si è fatto strada con grande difficoltà, la dimensione corporativa è ben più di un residuo fascista. È il cardine di una struttura sociale retta su luoghi comunitari, come la famiglia o la nazione. Questi luoghi sono diventati gusci vuoti con la penetrazione dei diritti individuali. I quali sono certo un progresso morale, ma non sufficienti, da soli, a garantire una vita esistenziale appagata.
I diritti sono costosi, non solo per lo Stato che deve farli rispettare, ma anche per le persone che li godono. Un diritto è un abito di solitudine - definisce la relazione di libertà della persona in un rapporto di opposizione con gli altri e la società. Senza relazioni sociali strutturate - senza quei corpi intermedi associativi, dalla famiglia al mutualismo locale - essi sono sinonimo di una libertà troppo faticosa. Ecco perché i nostri padri fondatori più lungiumiranti, i liberalsocialisti, erano attenti a mai dissociare la libertà dalla giustizia sociale, dalla dimensione etica che riannoda i fili spezzati dai diritti individuali.
Non si vuole con questo giustificare la rinascita del fascismo e dell’esaltazione dei simboli del passato. Quel che si vuol dire, invece e al contrario, è che quel che sembra un ritorno nostalgico al passato è un fenomeno nuovo e tutto presente, dettato da problemi che la società democratica incontra nel presente. Sono tre i luoghi dove questi problemi si toccano con mano e che sarebbe miope non vedere.
Il primo corrisponde al declino di legittimità della politica, che ha smarrito il senso etico e di servizio per diventare, a destra come a sinistra, un gioco di personalismi, con i partiti che fanno cartello per blindare leadership e lanciare candidati, cercando consenso retorico ma senza voler includere i cittadini nella vita politica - la rappresentanza assomiglia sempre di più a un notabilato.
Il secondo luogo corrisponde al declino delle associazioni di sostegno che hanno accompagnato la modernità capitalistica opponendo alla mercificazione del lavoro salariato e alla disoccupazione (che è povertà) reti di solidarietà e di sostengo, ma anche alleanze di lotta, di contrattazione, e di progetto per una società più giusta.
Il terzo luogo è il mondo largo e complesso abitato dalla solitudine esistenziale connessa alla scomposizione della vita comunitaria.
In altre parole, il pericolo numero uno della società orizzontale è rappresentato dall’atomizzazione individualistica, dalla solitudine delle persone, dall’isolamento perfino cercato di soggetti che ritengono di poter dare, per citare Ulrick Beck, «soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche». Con la conseguenza, questa palpabile a seguire i social e a sentire molti nostri politici, di veder cadere ogni rapporto con la storia, con la memoria, con l’eredità proveniente dalle generazioni che ci hanno preceduto, come se il futuro potesse avere gambe sue proprie. Il rischio, è stato detto molto spesso, è quello di vivere in un eterno presente, che può anche significare riciclare simboli del passato fuori del loro contesto di significato.
Ora, se le cose stanno così, se la nostra società ha questa forma orizzontale innervata nei diritti, pensare di rimediare ritornando ai modelli gerachici fascisti e al vecchio ordine di sicurezza del comando patriarcale non solo si rivela anacronistico, ma in aggiunta oscura tutti questi nuovi rischi; non ci fa vedere quel che dovremmo riuscire a vedere bene per comprenderlo e correggerlo: l’erosione dell’eguaglianza economica, dell’integrazione sociale e del potere politico dei cittadini democratici.
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RIPENSARE L’UNO E I MOLTI ("UNO"), L’IDENTITA’ E LA DIFFERENZA!!! CONTIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ....
UNITÀ D’ITALIA E FOLLIA: EMERGENZA LOGICO-POLITICA EPOCALE.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci (già contro derive staliniste!), una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ.
L’ITALIA, IL VECCHIO E NUOVO FASCISMO...
La voglia di fascismo crescente e le nostre debolezze
di Piero Ignazi (la Repubblica, 10.07.2017)
NOSTALGIA del fascismo? Gli episodi degli ultimi tempi, dal raduno con braccia tese nel saluto romano al cimitero monumentale di Milano alla lista ispirata palesemente al fascismo nel comune mantovano di Sermide fanno pensare ad un ritorno di fiamma del passato.
LA realtà è più sfumata. Per prima cosa non si può dimenticare che, fino a vent’anni fa, c’era un partito al governo - Alleanza Nazionale - che affondava le proprie radici, non del tutto recise, nel (neo)fascismo. Infatti, quando Gianni Alemanno diventò sindaco di Roma nel 2008 fu salutato al Campidoglio da un manipolo di camerati con il saluto romano. E un beniamino dei tifosi della Lazio andò alla curva dello stadio per festeggiare il goal con la stessa modalità nostalgica (ovviamente senza nessuna sanzione).
C’è quindi un retroterra assai solido rispetto a questi ultimi episodi; e girando l’Italia si incontrano osti con il vino Benito, locali con scritte del ventennio, bancarelle con cimeli del Duce, fino al caso dello stabilimento balneare di Chioggia di cui dava conto Repubblica ieri. Il fascismo è stato un fenomeno di tale importanza, penetrato “totalitariamente” in ogni ganglio della società per due decenni, che non è bastato l’eroismo dei pochi che hanno combattuto per la libertà per estirparlo dalla cultura politica profonda del nostro paese.
Ancora una volta, “non è stata una parentesi”. Anzi, come diceva Piero Gobetti, narrava la nazione come ne fosse l ‘autobiografia. Con un lascito così ingombrante e senza aver fatto alcun esame di coscienza lasciando, o forse sperando,che si stendesse una coltre di oblio sul passato senza doverlo rinvangare, non sorprende che di tanto in tanto riemergano fenomeni di nostalgia. Ma questi sono solo la punta di un iceberg: ma non di un fascismo risorgente, quanto della debolezza della cultura liberale e democratica.
Gli ostacoli che ancora oggi vengono continuamente frapposti alla espansione dei diritti civili, un tempo non a caso sostenuti solo da sparute minoranze attive come quella dei radicali di Marco Pannella, sono un segno della difficoltà a far diventare moneta corrente i cardini dello stato di diritto. Separazione dei poteri, rispetto per le minoranze, accettazione (in ogni ambito) del dissenso, faticano ad infrangere il profondo desiderio per una figura di autorità che metta tutti a tacere. Sia la società civile, ripiegata a fare i propri interessi senza nessun senso dello Stato, che la politica, scissa tra incapacità a rispondere alle domande dei cittadini e pulsioni plebiscitarie stimolate da capi e capetti, favoriscono un allontanamento dai principi e dalle istituzioni democratiche.
È in questo contesto che matura l’insoddisfazione radicale verso “il sistema” e fanno breccia coloro che propongono visioni alternative e modalità diverse di agire politico. Il fenomeno Casa Pound, pur nella sua dimensione ancora limitata, è emblematico della capacità di attrazione che hanno riferimenti nostalgici mixati con quella domanda di identità e appartenenza che circola nella società italiana. Ancora più del pastiche ideologico di Casa Pound, attrae l’offerta di una militanza che si trasforma in comunità politica. Se movimenti come questo, e altri che ruotano nella galassia nera dell’estrema destra, si radicano in fasce giovanili è perché tutti i partiti hanno abbandonato il rapporto con la società civile, o lo attivano solo in maniera strumentale, senza quel coinvolgimento ideale e progettuale che rilancerebbe la loro immagine.
La democrazia necessita di continua manutenzione per non farla scadere a ritualità. Questi segnali di una ricerca di alternative radicali incrinano la certezza che le istituzioni e i principi che le governano siano al riparo da crisi più profonde.
Tra Croce e Marx. Quale terza via?
di Michele Martelli *
Molti gli articoli su giornali e settimanali in occasione dell’anniversario dell’assassinio per mano fascista di Carlo Rosselli e suo fratello Nello a Parigi nel 1937. E in tanti (Eugenio Scalfari in primis) hanno (ri)scoperto l’imperituro valore del liberalsocialismo, o liberalismo sociale, o sinistra liberale che dir si voglia, e, si può aggiungere, destra socialista, o socialdemocrazia, o liberaldemocrazia.
Che proprio la stessa cosa non sono, mi pare, dato che il significato è diverso, a seconda che si metta l’accento sul sostantivo (liberalismo, socialismo e democrazia, mi pare, non sono sinonimi) o sull’aggettivo (liberale non è uguale a sociale o a democratico). O che se ne ricostruisca le specifiche origini storiche, l’evoluzione e il valore ideologico.
«Un pasticcio», sentenziava Benedetto Croce, da respingere, perché sintomo di confusione di idee e di intellettualismo astratto. Giudizio che, sicuramente troppo severo e ingeneroso, si riferiva in particolare al liberalsocialismo italiano, una variegata corrente di pensiero filosofico-politico antifascista nata negli anni Trenta, e confluita poi nel Partito d’Azione (1942-1947). Gli esponenti di tale corrente furono infatti tra gli attori principali della lotta partigiana e della costruzione dell’Italia repubblicana: la loro teoria, quindi, non era slegata dalla prassi. Da una prassi coerentemente antifascista.
D’altronde, mentre Croce godeva, certo meritatamente, dell’aureola di «guida morale dell’antifascismo», Carlo Rosselli, autore del famoso opuscolo Socialismo liberale (1929), era però tra gli organizzatori della resistenza antifranchista in Spagna e da Radio Barcellona diffondeva la parola d’ordine: «Oggi in Spagna, domani in Italia!». Anche per questo fu barbaramente trucidato dai sicari fascisti.
All’antifascismo partigiano apparterranno poi, come si sa, i più noti intellettuali e filosofi liberalsocialisti italiani, tra cui Piero Calamandrei, Guido Calogero, Norberto Bobbio, Guido de Ruggero, Aldo Capitini, a cui diversi altri se ne potrebbero aggiungere. Né va dimenticato che Ferruccio Parri, membro azionista del CLN, sarà il primo Presidente del Consiglio (21 giugno-10 dicembre 1945) dell’Italia liberata. E che la Costituzione italiana del 1948 non sarebbe stata quella che è, una delle migliori al mondo, senza l’apporto decisivo degli esponenti del liberalsocialismo e dell’azionismo.
Questa temperie culturale, politica e filosofica viene scandagliata a fondo dal recente libro di Francesco Postorino, Croce e l’ansia di un’altra città, Milano, Mimesis, 2017. Il titolo può servire da bussola al lettore nella complessa problematica del volume, in cui il giovane e valente autore, dopo aver esposto, nella Prima parte, la sintesi del pensiero filosofico-politico di Croce, delle sue aporie e contraddizioni interne, ricostruisce con passione e intelligenza critica, nella Seconda e Terza parte, la fitta trama di relazioni di incontro-scontro tra Croce e gli intellettuali di cui sopra.
Comune era il riferimento ideale al valore insopprimibile del liberalismo. Ma notevoli le differenze. Per Croce il liberalismo era un concetto metapolitico, che, pur incarnandosi nella storia, era, in un certo senso, sovrastorico, e nulla aveva a che fare con la prassi partitica e la contingenza degli eventi: in fondo, un altro nome della sua «religione della libertà», della libertà assoluta dello Spirito e delle sue forme (arte, filosofia, economica e morale). Ipostatizzando una presunta «storia ideale eterna dello Spirito», Croce tuttavia finiva di fatto, senza volerlo, col rovesciare contraddittoriamente la Libertà in Necessità.
Due le conseguenze logiche. O tutto ciò che è accaduto e accade è opera dello Spirito, e allora nulla poteva e può accadere di diverso da ciò che è accaduto e accade; in tal caso il determinismo, seppur spirituale, regnerebbe sovrano, non la «Dea-Libertà». Oppure non tutto è opera dello Spirito, ma solo l’eterno e l’ideale, da distinguere dal contingente e dal particolare. Ma poiché il contingente e il particolare esistono, seppur in forma debole, resta da sapere: 1) da dove essi derivano, se non derivano dallo Spirito?; 2) poiché lo Spirito, fino a prova contraria, non parla né opera in prima persona, chi è il suo portavoce o sacerdote, a chi umanamente è da attribuire quel sacro potere di distinzione tra eterno e contingente? Non resterebbe che la strana ipotesi che quel sacerdote, dio sa con quale diritto, sia Croce medesimo: non a caso Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere lo chiama «una specie di papa laico» della cultura italiana e mondiale. E la parola del papa, come ogni credente sa, è infallibile.
Si spiegherebbe così perché, per esempio, il conservatore Croce abbia prima appoggiato l’ascesa del fascismo in chiave filoliberale e anticomunista, votando da senatore la fiducia al governo Mussolini anche dopo il delitto Matteotti, e poi l’abbia definito banalmente una «parentesi» nella storia d’Italia. E il nazismo? Un’altra parentesi? Di questo passo, la storia reale non sarebbe, in gran parte, che un succedersi ininterrotto di parentesi. Una storia parentetica.
Una sorta, diciamo così, di vacanza permanente dello Spirito. Con quali orribili conseguenze per milioni di poveri mortali, forse poco importa. Del resto, non sarà un risibile ducetto col moschetto e un anonimo imbianchino con la svastica ad arrestare l’inarrestabile marcia dello Spirito. E l’Urss? Il regno satanico dell’Orrore. Ma la fede nello Spirito non vacilla: cristianamente, portae inferi non praevalebunt! Il fatto è che, nonostante i continui e sofferti ripensamenti, Croce non mise mai in discussione i presupposti speculativi del suo pensiero.
All’assolutismo e al conservatorismo del «papa laico» gli intellettuali liberalsocialisti italiani, crociani o non crociani, eretici e dissidenti, si opporranno, in modi diversi, con idee filosofiche, giuridiche e politiche diverse, in un dibattito ricco e sfaccettato, come Postorino documenta nei vari capitoli dedicati al confronto tra la filosofia di Croce e le teorie di Calamandrei (umanesimo giuridico e principio di equità), Calogero (dialogica dell’«io», del «tu», e del «lui» che è un «tu»), de Ruggero (dialettica neoilluministica di ragione e storia), Bobbio (teoria procedurale della liberaldemocrazia) e Capitini (nonviolenza e omnicrazia).
Tutti accomunati dalla ricerca di una «terza via», caratterizzata, come Postorino a più riprese ribadisce, dalla tensione tra fatti e valori, essere (Sein) e dover essere (Sollen). Per sfuggire alle dure critiche mosse dal realismo conservatore crociano agli ideali liberalsocialisti (sulla scia delle critiche, ben più efficaci, di Hegel a Kant), occorrerebbe però una filosofia universalistica dei valori e del Sollen. Ma il problema è: «Si può fare?», per usare una frase oggi consueta. Ossia, come evitare di cadere in un nuovo assolutismo e dogmatismo? Oppure, per dirlo in positivo, come costruire, se «Dio è morto», un relativismo critico e al tempo stesso non nichilistico, ma propositivo e progettuale?
Un’ultima annotazione. Oggi ancor più di ieri, dato il trionfo globale del neoliberismo, il vertiginoso aumento delle disuguaglianze sociali e il fallimento delle «terze vie» più o meno clintoniane e blairiane (da noi tradotto, o non è molto, nel «terzismo» dalemian-bersaniano, rovesciatosi poi, per eterogenesi dei fini, nei disastrosi programmi neoliberisti e anticostituzionali del renzismo), a me sembra che «l’ansia di un’altra città» non possa prescindere dal misurarsi con Marx, con la sua teoria del Capitale e della lotta di classe (da assumere non come dogma, ma come strumento di ricerca, fallibile e rivedibile).
Croce l’aveva fatto nel lontano 1900, ma per sancire illusoriamente «la morte» definitiva «del marxismo teorico» (oggi, dopo più di un secolo, più vivo che mai nelle analisi di sociologi politici ed economisti di fama mondiale»). «Né con Marx né contro Marx», aveva dichiarato Bobbio: ma basta essere neutrali? Tutti gli altri liberali di cui sopra avevano sposato il socialismo senza Marx.
Probabilmente non sapevano dell’inaudita «svolta» filomarxista del loro capostipite, Carlo Rosselli, resosi conto, a quanto pare, nell’ultimo periodo della sua vita, che un «socialismo liberale» senza o contro Marx, a fronte della brutalità del capitalismo reale (rappresentato attualmente dal neoliberismo selvaggio di matrice angloamericana e dall’Ordoliberalismus austeritario di matrice germanica), rischia purtroppo di essere inane, monco o utopico.
MESSAGGIO EVANGELICO E COSTITUZIONE. L’ Amore (Charitas) non è lo zimbello del tempo e di Mammona (Caritas)!!!:
Papa Francesco: «Pregate perché io prenda esempio da don Milani»
Nelle parole del Papa l’abbraccio della Chiesa che don Lorenzo Milani ha desiderato fino alla morte, il riconoscimento del suo essere sacerdote, non solo maestro non solo pacifista. Un fatto storico, ecco perché
di Elisa Chiari *
«Pregate per me perché anche io sappia prendere esempio da questo bravo prete». Quel bravo prete è don Lorenzo Milani e più chiaro e diretto di così Papa Francesco non avrebbe potuto essere. Non c’era questa frase nel discorso preparato, non c’era la frase finale rivolta ai sacerdoti: "Prendete la fiaccola e portatela avanti». Le ha aggiunte a braccio.
Don Milani aveva ragione, quando nel suo tono sempre un po’ provocatorio diceva: «Mi capiranno tra 50 anni». Forse faceva un numero, per dirla con parole sue, «per dar forza al discorso». Ma la contingenza della storia ha voluto che fosse una cifra esatta, che servissero davvero 50 anni - don Milani è morto il 26 giugno del 1967 - perché un papa venisse quassù, a Barbiana - una Barbiana restaurata con la vasca azzurra come allora non era-, al margine del margine del mondo, nella parrocchia che doveva chiudere e che fu tenuta aperta per isolare un sacerdote che allora si diceva "scomodo" e che oggi papa Francesco dice «ha lasciato una traccia luminosa».
Per molto tempo, don Lorenzo Milani è stato raccontato come l’educatore, il maestro, l’obiettore di coscienza - non senza distorsioni e strumentalizzazioni da parti assortite -: quasi che fosse marginale nella sua presenza storica il suo essere prete. Lo si è raccontato lasciando nell’ombra il lato che a don Milani premeva di più, perché fondava il senso della sua esistenza cristiana: il riconoscimento del suo sacerdozio da parte della Chiesa.
Cinquant’anni dopo Papa Francesco sana, dichiarandolo esplicitamente, questa mancanza. Mette il punto più importante alla fine, Papa Francesco, quasi per lasciarne il significato scolpito - come a segnare un passaggio che chi studierà il rapporto tra don Lorenzo Milani e la Chiesa di qui in poi non potrà ignorare -: «Non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: "Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato...". Dal Cardinale Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani - non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco -, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa. Con la mia presenza a Barbiana, con la preghiera sulla tomba di don Lorenzo Milani penso di dare risposta a quanto auspicava sua madre: "Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui... quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio... Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto"».
Non per caso nelle parole del Papa emerge più di tutto il don Milani sacerdote: le definizioni che dà di don Milani lungo tutto lo snodo del discorso non sono scelte a caso. «Sono venuto a Barbiana» esordisce papa Francesco «per rendere omaggio alla memoria di un sacerdote che ha testimoniato come nel dono di sé a Cristo si incontrano i fratelli nelle loro necessità e li si serve». Agli allievi dice: «Voi siete i testimoni di come un prete abbia vissuto la sua missione, nei luoghi in cui la Chiesa lo ha chiamato, con piena fedeltà al Vangelo e proprio per questo con piena fedeltà a ciascuno di voi, che il Signore gli aveva affidato». E ancora: «La scuola, per don Lorenzo, non era una cosa diversa rispetto alla sua missione di prete, ma il modo concreto con cui svolgere quella missione, dandole un fondamento solido e capace di innalzare fino al cielo. Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole».
Papa Francesco sottolinea l’attualità di don Milani: «Questo vale a suo modo anche per i nostri tempi, in cui solo possedere la parola può permettere di discernere tra i tanti e spesso confusi messaggi che ci piovono addosso». Il papa parla esplicitamente di "umanizzazione", facendo riferimento a un concetto milaniano: la parola ai poveri non per farli diventare più ricchi, ma per farli diventare più uomini. Non per caso c’è più di Esperienze pastorali sotteso al discorso di don Milani a Barbiana di quanto non ci sia di Lettera a una professoressa. La cita, certo, quando parla agli educatori: ma al centro c’è il sacerdote non il maestro. «La vostra è una missione piena di ostacoli ma anche di gioie. Ma soprattutto è una missione. (...) Questo è un appello alla responsabilità. Un appello che riguarda voi, cari giovani, ma prima di tutto noi, adulti, chiamati a vivere la libertà di coscienza in modo autentico, come ricerca del vero, del bello e del bene, pronti a pagare il prezzo che ciò comporta. E questo senza compromessi».
Ai sacerdoti papa Francesco ricorda che «la dimensione sacerdotale di don Lorenzo Milani è alla radice di tutto quanto sono andato rievocando finora di lui. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta, il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore e che nel ministero sacerdotale trova la forma piena e compiuta per il giovane convertito. Sono note le parole della sua guida spirituale, don Raffaele Bensi, al quale hanno attinto in quegli anni le figure più alte del cattolicesimo fiorentino, così vivo attorno alla metà del secolo scorso, sotto il paterno ministero del venerabile Cardinale Elia Dalla Costa. Così ha detto don Bensi: "Per salvare l’anima venne da me. Da quel giorno d’agosto fino all’autunno, si ingozzò letteralmente di Vangelo e di Cristo. Quel ragazzo partì subito per l’assoluto, senza vie di mezzo. Voleva salvarsi e salvare, ad ogni costo. Trasparente e duro come un diamante, doveva subito ferirsi e ferire". Essere prete come il modo in cui vivere l’Assoluto. Diceva sua madre Alice: "Mio figlio era in cerca dell’Assoluto. Lo ha trovato nella religione e nella vocazione sacerdotale". Senza questa sete di Assoluto si può essere dei buoni funzionari del sacro, ma non si può essere preti, preti veri, capaci di diventare servitori di Cristo nei fratelli". Don Lorenzo ci insegna anche a voler bene alla Chiesa, come le volle bene lui, con la schiettezza e la verità che possono creare anche tensioni, ma mai fratture, abbandoni».
E ancora: «La Chiesa che don Milani ha mostrato al mondo ha questo volto materno e premuroso, proteso a dare a tutti la possibilità di incontrare Dio e quindi dare consistenza alla propria persona in tutta la sua dignità».
Quelle ultime parole: «prendete e portate la fiaccola» sono l’abbraccio che don Lorenzo Milani ha desiderato una vita. Chi stava ascoltando sulle seggiole bianche di Barbiana lo sapeva, per aver vissuto con lui il dolore dell’incomprensione, e non per caso ha applaudito proprio i passaggi in cui ha sentito il riconoscimento atteso dal Priore per mezzo secolo.
Cittadinanza: Da 13 anni la discussione in Parlamento. Che fine ha fatto?
Ius soli in discussione in commissione Affari Costituzionali del Senato dopo l’ok della Camera oltre un anno fa
a cura di Alessandra Chini *
Si torna a discutere di cittadinanza dopo che Matteo Orfini, attuale numero uno del Pd dopo le dimissioni di Matteo Renzi, ipotizza che sulla proposta di legge che dovrebbe approdare in Aula al Senato il governo ponga la fiducia. Ipotesi respinta al mittente dai centristi che la vedono, anzi, come una provocazione atta a creare un casus belli nel governo.
Ma è da moltissimo tempo che il tema è all’ordine del giorno delle Camere e un anno e mezzo fa, a metà ottobre 2015, Montecitorio ha anche approvato un testo, finito, poi, però, nelle ’sabbie mobili’ in commissione a Palazzo Madama. A un anno dall’ok a quel testo un gruppo di giovani ha deciso di scrivere direttamente ai senatori e organizzare iniziative per porre l’accento sulla questione. Che tocca un milione di ragazzi. "Paula, Mohamed, Marwa - dice l’ex ministro Cecile Kyenge - sono i nomi dei compagni di scuola e degli amici che ogni giorno giocano con i nostri figli, crescono con loro ma non hanno i loro stessi diritti. Sono un milione, sono italiani, ma non per la legge italiana. Hanno il diritto di essere come noi, perché lo sono: italiani. Ogni giorno che passa è un giorno perso, anche per il Paese. Perché lo ius soli è un bene per il nostro Paese. Per questo deve diventare legge il più presto possibile. Ius soli subito".
La mobilitazione dei ragazzi, che hanno anche creato su Facebook un gruppo per spingere la proposta di legge li ha portati a un incontro con il presidente del Senato, Pietro Grasso che si è impegnato sul tema. "Ho incontrato i promotori della legge sulla cittadinanza - ha detto - e mi sono espresso sulla necessità che venga approvata al più presto. M’impegno a sollecitare la trattazione di questa proposta". "Purtroppo le Commissioni stabiliscono priorità - ha aggiunto Grasso - che sfuggono a quelle che possono essere le percezioni e le esigenze dei cittadini".
Approvato dalla Camera a metà ottobre del 2015, è da tempo sottoposto a vari stop and go in commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama. Intanto il 14 gennaio 2016 è stato approvato in via definitiva lo ’ius soli sportivo’. Una proposta di legge che prevede la possibilità di tesseramento in società sportive, dai 10 anni in avanti, di bimbi stranieri nati o residenti in Italia da quando sono piccoli.
E’ da tredici anni anni che in Parlamento si discute di una riforma in materia di cittadinanza.
LE TAPPE DEL PROVVEDIMENTO - Tra il 2003 e il 2004 la commissione Affari Costituzionali della Camera esamina diverse proposte parlamentari ed elabora un testo unificato che, dopo l’esame in commissione, approda in Aula ma viene rimandato in commissione il 16 maggio 2004. Nella XIV legislatura la Camera ci riprova. Se ne riparla a partire dal 3 agosto 2006 con una indagine conoscitiva. Nel gennaio 2008 per il testo sembrerebbe la ’volta buona’ dopo una discussione in commissione ma la legislatura si interrompe e l’iter deve ricominciare da capo. Anche la successiva legislatura mette all’ordine del giorno la questione ma il 12 gennaio 2010 il testo approda nuovamente in Aula e nuovamente viene rimandato in commissione per approfondimenti. Dal 14 giugno 2012 è partito un nuovo tentativo in commissione con l’esame di alcune proposte. Il 31 luglio 2012 si è concluso l’esame preliminare delle proposte di legge ma la commissione non è riuscita a elaborare un testo base e l’esame è stato interrotto l’8 novembre 2012. Dal 27 giugno del 2013 si riprende l’esame alla Camera ed è stato approvato a metà ottobre del 2015. Il provvedimento è da allora in discussione in commissione Affari Costituzionali in Senato.
ECCO COSA PREVEDE - Il testo contiene lo "Ius soli soft" che consentirà ai figli degli immigrati nati in Italia di ottenere la cittadinanza nel rispetto di alcuni paletti. In base alle nuove regole, i minori stranieri nati in Italia o residenti da anni nel Paese potranno ottenere la cittadinanza italiana, purché rispettino alcune condizioni come la frequenza scolastica o la residenza nel Paese da più anni da parte di uno dei genitori. Rispetto allo ius soli classico (quello adottato negli Usa e in molti paesi del Sudamerica che attribuisce la cittadinanza del Paese a chiunque nasce sul suolo nazionale), lo "Ius soli soft" pone alcune condizioni all’ottenimento della cittadinanza. I bambini figli di stranieri che nascono in Italia acquisiscono la cittadinanza se almeno uno dei due genitori "è residente legalmente in Italia, senza interruzioni, da almeno cinque anni, antecedenti alla nascita" o anche se uno dei due genitori, benché straniero, "è nato in Italia e ivi risiede legalmente, senza interruzioni, da almeno un anno". La cittadinanza italiana verrebbe assegnata automaticamente al momento dell’iscrizione alla anagrafe. I minori nati in Italia senza questi requisiti, e quelli arrivati in Italia sotto i 12 anni - in base al testo - potranno ottenere la cittadinanza se avranno "frequentato regolarmente, per almeno cinque anni nel territorio nazionale istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale idonei al conseguimento di una qualifica professionale". I ragazzi arrivati in Italia tra i 12 e i 18 anni, infine, potranno avere la cittadinanza dopo aver risieduto legalmente in Italia per almeno sei anni e aver frequentato "un ciclo scolastico, con il conseguimento del titolo conclusivo".
UN INVITO ALLE FORZE POLITICHE ANTIFASCISTE. RICONOSCERE SUBITO IL DIRITTO DI VOTO A CINQUE MILIONI DI NOSTRI CONTERRANEI CUI OGGI E’ ASSURDAMENTE NEGATO
Ai gruppi dirigenti ed alle rappresentanze istituzionali delle forze politiche democratiche
Oggetto: Per contrastare le derive antidemocratiche una proposta di impegno corale e persuaso affinché nella prossima legge elettorale sia finalmente riconosciuto il diritto di voto a tutte le persone residenti in Italia e quindi effettualmente parte della popolazione italiana.
Gentili signore e gentili signori,
nelle dichiarazioni dei vostri gruppi dirigenti e dei vostri rappresentanti nelle istituzioni sovente è espresso il dovere di contrastare la temibile crescita delle organizzazioni razziste e neofasciste in Italia e in Europa, della loro propaganda di odio, del loro agire violento contro vittime inermi.
La vostra preoccupazione è anche la nostra.
Purtroppo in molti paesi europei, ed anche nel nostro, a più riprese sono stati varati dai governi ed avallati dai parlamenti inammissibili e sconcertanti provvedimenti che costituiscono un flagrante cedimento al razzismo, una flagrante violazione dei più basilari diritti umani.
Ogni persona ragionevole sa che la democrazia si difende con la democrazia; che i diritti umani si difendono riconoscendo e inverando i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Ogni persona ragionevole sa che i campi di concentramento e le deportazioni, la riduzione in schiavitù e l’apartheid, l’omissione di soccorso nei confronti di chi è in pericolo di vita, costituiscono dei crimini, e sono ovviamente incompatibili con la democrazia, con la legalità, con la civiltà.
Ai deliri neonazisti di chi parla di pulizia etnica, di rastrellamenti strada per strada, di ruspe al lavoro per abbattere umili ripari, di pattugliamenti navali per respingere sulle Sirti e nei lager libici vittime innocenti in fuga dall’orrore, ebbene, occorre opporre la forza della verità, la forza della legalità, la forza della democrazia, la forza della civiltà; occorre opporre la coscienza che ogni essere umano appartiene all’umanità, che ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignità, alla solidarietà; occorre opporre la volontà buona che salva le vite, che reca aiuto a chi è nel dolore e nella paura, che concretamente afferma l’eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani.
*
Molte autorevoli personalità della cultura e delle istituzioni, della riflessione morale e dell’impegno civile, hanno sottoscritto nelle scorse settimane un "Appello all’Italia civile: una persona, un voto", appello il cui fine è che nella prossima legge elettorale sia finalmente riconosciuto il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.
In questo appello si legge: "Vivono stabilmente in Italia oltre cinque milioni di persone non native, che qui risiedono, qui lavorano, qui pagano le tasse, qui mandano a scuola i loro figli che crescono nella lingua e nella cultura del nostro paese; queste persone rispettano le nostre leggi, contribuiscono intensamente alla nostra economia, contribuiscono in misura determinante a sostenere il nostro sistema pensionistico, contribuiscono in modo decisivo ad impedire il declino demografico del nostro paese; sono insomma milioni di nostri effettivi conterranei che arrecano all’Italia ingenti benefici ma che tuttora sono privi del diritto di contribuire alle decisioni pubbliche che anche le loro vite riguardano".
Ed ancora: "Il fondamento della democrazia è il principio Una persona, un voto; l’Italia essendo una repubblica democratica non può continuare a negare il primo diritto democratico a milioni di persone che vivono stabilmente qui".
UN INVITO ALLE FORZE POLITICHE ANTIFASCISTE. RICONOSCERE SUBITO IL DIRITTO DI VOTO A CINQUE MILIONI DI NOSTRI CONTERRANEI CUI OGGI E’ ASSURDAMENTE NEGATO
Ai gruppi dirigenti ed alle rappresentanze istituzionali delle forze politiche democratiche
Oggetto: Per contrastare le derive antidemocratiche una proposta di impegno corale e persuaso affinché nella prossima legge elettorale sia finalmente riconosciuto il diritto di voto a tutte le persone residenti in Italia e quindi effettualmente parte della popolazione italiana
Gentili signore e gentili signori,
nelle dichiarazioni dei vostri gruppi dirigenti e dei vostri rappresentanti nelle istituzioni sovente è espresso il dovere di contrastare la temibile crescita delle organizzazioni razziste e neofasciste in Italia e in Europa, della loro propaganda di odio, del loro agire violento contro vittime inermi.
La vostra preoccupazione è anche la nostra.
Purtroppo in molti paesi europei, ed anche nel nostro, a più riprese sono stati varati dai governi ed avallati dai parlamenti inammissibili e sconcertanti provvedimenti che costituiscono un flagrante cedimento al razzismo, una flagrante violazione dei più basilari diritti umani.
Ogni persona ragionevole sa che la democrazia si difende con la democrazia; che i diritti umani si difendono riconoscendo e inverando i diritti umani di tutti gli esseri umani.
Ogni persona ragionevole sa che i campi di concentramento e le deportazioni, la riduzione in schiavitù e l’apartheid, l’omissione di soccorso nei confronti di chi è in pericolo di vita, costituiscono dei crimini, e sono ovviamente incompatibili con la democrazia, con la legalità, con la civiltà.
Ai deliri neonazisti di chi parla di pulizia etnica, di rastrellamenti strada per strada, di ruspe al lavoro per abbattere umili ripari, di pattugliamenti navali per respingere sulle Sirti e nei lager libici vittime innocenti in fuga dall’orrore, ebbene, occorre opporre la forza della verità, la forza della legalità, la forza della democrazia, la forza della civiltà; occorre opporre la coscienza che ogni essere umano appartiene all’umanità, che ogni essere umano ha diritto alla vita, alla dignità, alla solidarietà; occorre opporre la volontà buona che salva le vite, che reca aiuto a chi è nel dolore e nella paura, che concretamente afferma l’eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani.
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Molte autorevoli personalità della cultura e delle istituzioni, della riflessione morale e dell’impegno civile, hanno sottoscritto nelle scorse settimane un "Appello all’Italia civile: una persona, un voto", appello il cui fine è che nella prossima legge elettorale sia finalmente riconosciuto il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese.
In questo appello si legge: "Vivono stabilmente in Italia oltre cinque milioni di persone non native, che qui risiedono, qui lavorano, qui pagano le tasse, qui mandano a scuola i loro figli che crescono nella lingua e nella cultura del nostro paese; queste persone rispettano le nostre leggi, contribuiscono intensamente alla nostra economia, contribuiscono in misura determinante a sostenere il nostro sistema pensionistico, contribuiscono in modo decisivo ad impedire il declino demografico del nostro paese; sono insomma milioni di nostri effettivi conterranei che arrecano all’Italia ingenti benefici ma che tuttora sono privi del diritto di contribuire alle decisioni pubbliche che anche le loro vite riguardano".
Ed ancora: "Il fondamento della democrazia è il principio Una persona, un voto; l’Italia essendo una repubblica democratica non può continuare a negare il primo diritto democratico a milioni di persone che vivono stabilmente qui".
*
Gentili signore e gentili signori,
voi sapete perfettamente che il fondamento della democrazia è il principio "Una persona, un voto". E’ tempo di inverarlo pienamente almeno nel nostro paese.
*
Anni addietro con specifico riferimento alle elezioni amministrative l’Associazione Nazionale Comuni Italiani elaborò un progetto di legge recante "Norme per la partecipazione politica ed amministrativa e per il diritto di elettorato senza discriminazioni di cittadinanza e di nazionalità", progetto di legge che può costituire per più aspetti un punto di riferimento condiviso da tutte le forze politiche democratiche (con l’avvertenza che il lasso di tempo lì indicato andrebbe ricondotto ai normali tempi amministrativi per l’efficacia di un trasferimento di residenza ai fini dell’inclusione nelle liste elettorali: sei mesi di stabile residenza sarebbero un tempo più che congruo).
Aggiungiamo che mentre per le elezioni amministrative è sufficiente una legge ordinaria, per le elezioni politiche può essere necessaria una modifica costituzionale: ebbene, che venga questa modifica costituzionale che la parte più avvertita della popolazione italiana auspica ed attende da decenni, modifica costituzionale che sarebbe del tutto coerente con lo spirito della Costituzione e con la lettera dei suoi principi fondamentali (non vi è infatti dubbio che se all’indomani della Liberazione in Italia vi fosse stata una stabile presenza di milioni di persone non native ad esse sarebbe stato riconosciuto senza esitazione il diritto di voto nel paese in cui effettivamente vivevano; la democrazia è infatti indivisibile, se da essa si esclude una parte della popolazione, lì la democrazia cessa di esistere del tutto). Noi crediamo che riconoscere il diritto di voto a tutte le persone che vivono nel nostro paese sia oggi un dovere e una necessità: un atto concreto di democrazia, ed in quanto tale anche di effettuale contrasto al razzismo e al neofascismo.
Auspicando un vostro impegno a tal fine, vogliate gradire distinti saluti.
Il "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo che coordina l’iniziativa dell’"Appello all’Italia civile: una persona, un voto"
Viterbo, 20 febbraio 2017
Mittente: "Centro di ricerca per la pace e i diritti umani" di Viterbo, strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it, centropacevt@gmail.com, centropaceviterbo@outlook.it
IL POPULISMO DELLA POST-VERITA’, EPIMENIDE, E LA LEZIONE ITALO-AMERICANA. In memoria di Italo Calvino***
Siamo nella post-verità da sempre, a quanto pare!
SIAMO PROPRIO CONCIATI MALE, MALISSIMO!
Dopo ventanni di berlusconismo stiamo ancora a commentare i giochini di mentitori istituzionalizzati. E a riflettere sulle “spine del C17 - spine nel fianco di un pingue potere” (https://www.alfabeta2.it/2017/01/21/c17-spine-nel-fianco-un-pingue-potere/).
DOPO IL 1917, E DOPO IL 1922, ANCORA NON SAPPIAMO NULLA DELLA “MORTE NERA” (cfr.: Massimo Palma,”Waler Benjamin, l’inquilino in nero; cfr.: https://www.alfabeta2.it/2017/01/11/walter-benjamin-linquilino-nero/) E DELLA MISTICA FASCISTA (cfr.: mia nota a “Infanzia salentina”, pagine del lavoro di Nicola Fanizza, “Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini” - https://www.nazioneindiana.com/2017/01/21/infanzia-salentina/) - E, NEMMENO, DEI PATTI LATERANENSI E TUTTO IL RESTO.
Tanto tempo, in un’isola del Mediterraneo, un tale chiamato EPIMENIDE (con questo nome è rimasto nella storia, come persona degna di essere ricordata per la sopravvivenza della stessa isola), indignato contro i suoi stessi concittadini (che evidentemente lo accusavano di chissà quali malefatte), fece il primo passo nella terra della post-verità, gridò infuriato: “Tutti i cretesi mentono”! Se molti risero, altrettanto molti lo applaudirono.
Qualche anno dopo, sempre in quell’isola, ci furono le elezioni: tra i partiti (quello che la storia non ci ha tramandato) comparve uno strano partito, con il nome “Forza Creta”, e il leader era proprio il vecchio EPIMENIDE!
CONQUISTATO IL POTERE LEGALMENTE, IL SUO GRIDO AI CRETESI CHE AVEVANO RISO DELLA SUA “BATTUTA” FU QUASI SIMILE A QUELLO DI BRENNO CONTRO I ROMANI SORPRESI NEL SONNO, ANZI, NEL SONNAMBULISMO: “GUAI AI VINTI”!
SOLO CHE A ROMA CI FURONO LE OCHE CHE SVEGLIARONO UN POCO TUTTI E I GALLI FURONO CACCIATI, MA A CRETA ALLA FINE NESSUNO PIU’ OSO’ RIDERE E ... “TUTTI I CRETESI MENTONO” ANCORA!!! A MEMORIA (E A VERGOGNA) ETERNA.
Federico La Sala
Le donne ancora ai margini della ricerca, si lavora per cambiare
Giornata internazionale per le donne e le ragazze nella scienza
di Redazione ANSA *
Grandi assenti dai vertici della ricerca, in Italia come in molti altri Paesi, le donne vivono ancora nell’ombra nei laboratori scientifici e nelle universita’. Nonostante molte ricercatrici siano esempi di eccellenza riconosciuti a livello internazionale, la maggior parte di esse non riesce ancora ad emergere come meriterebbe. E’ un problema sentito in tutto il mondo e che affonda le radici nella cultura. Fare in modo che il loro ruolo esca allo scoperto e che abbiano i riconoscimenti che meritano e’ l’obiettivo della Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza promossa dalle Nazioni Unite.
L’iniziativa e’ nata nel 2015 allo scopo di portare le donne ad ottenere parita’ di accesso e partecipazione nella scienza. Scienza e uguaglianza di genere sono infatti, secondo le Nazioni Unite, entrambe vitali per raggiungere gli obiettivi per lo sviluppo concordati a livello internazionale, compresi quelli previsti dall’agenda 2030 dell’Onu per lo Sviluppo Sostenibile.
"Donne e ragazze continuano ad essere escluse da una piena partecipazione nella scienza", rileva sul suo sito il Centro regionale di informazione delle Nazioni Unite. La conferma di questo scenario arriva da una ricerca condotta in 14 Paesi sulla carriera universitaria delle ragazze indica che solo il 18% consegue la laurea triennale, l’8% quella specialistica e appena il 2% arriva al dottorato di ricerca.
Se poi consideriamo in dettaglio la situazione in Italia il quadro e’ ancora meno edificante: una recente indagine europea condotta dalla Fondazione L’Oreal per le donne e la scienza ha indicato che l’Italia e’ il Paese europeo con piu’ pregiudizi nei confronti delle donne nella ricerca: addirittura 7 italiani su 10 sostengono che le donne non possiedano le capacita’ necessarie per accedere a occupazioni di alto livello in ambito scientifico.
In Italia come in molti altri Paesi la presenza delle donne negli studi scientifici segue un andamento a piramide, con una base nella quale fin dalle scuole superiori le ragazze rappresentano oltre il 50% degli studenti e che si assottiglia inesorabilmente procedendo verso il vertice: le disparita’ crescono man mano che si avanza verso posti di responsabilita’ e potere decisionale. E’ cosi’ che le donne sono il 30% dei professori associati, il 20% dei professori ordinari e fra gli 80 rettori le donne sono appena 4 o 5.
Per sollecitare il dibattito le Nazioni Unite hanno organizzato per domani, nel quartier generale dell’Onu, un forum nato dalla collaborazione tra il Royal Academy of Science International Trust (Rasit) e il Dipartimento dell’Onu per gli Affari economici e sociale della Divisione per la politica sociale e lo sviluppo (Desa-Dspd). Tra le iniziative in Italia, quella dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn), che decida alle studentesse delle scuole secondarie una mattinata in compagnia delle ricercatrici e dei ricercatori impegnati in un campo affascinante come la ricerca sulle particelle.
I PATTI LATERANENSI, MADDALENA SANTORO, E LA PROVVIDENZA. Una nota *
PATTI LATERANENSI (11 FEBBRAIO 1929). A un’udienza concessa ai professori ed agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il 13 febbraio 1929, due giorni dopo la firma dei Patti Lateranensi, Pio XI così illustra il grande evento:
L’INCARICO DI PAPA BENEDETTO XV (1919) E LAPROVVIDENZA DI PIO XI (1929). Sul conseguimento di questo risultato (“conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti”), e sulla sua comprensione (sul meglio capire come sia stato possibile), gettano luce non solo i “grandi” fatti - ricordiamo che la strada era stata già aperta dal Papa precedente, Benedetto XV (morto nel gennaio 1922), che aveva abrogato nel 1919 il “non expedit” e favorito l’ingresso dei cattolici nella vita politica e la nascita del Partito Popolare Italiano di don Luigi Sturzo - ma anche i “piccoli” fatti: in particolare, una lettera del 1919, inviata da una donna di Lecce a una sua amica pugliese di Mola di Bari.
In questa lettera, la donna salentina così scrive (“Lecce, 27-7-1919”):
MADDALENA SANTORO (1884-1944). Chi è Costei? Come mai di lei non c’è quasi traccia nei libri di storia? Questo documento apre la pista a infinite domande: fa parte di un "carteggio" sorprendente (32 lettere - dal 1919 al 1938) tra Maddalena Santoro e la sua amica Caterina Tanzarella, riportato nel lavoro di Nicola Fanizza, "Maddalena Santoro e Arnaldo Mussolini. La storia d’amore che il duce voleva cancellare" (Edizioni Dal Sud, Bari 2016). Tale carteggio (pp. 109-154) è di grande rilevanza: mostra solo la punta di un gigantesco iceberg e sollecita a sapere di più e meglio di questa donna salentina, dirigente di primo piano dell’Azione Cattolica, intellettuale e scrittrice e, non ultimo, anche amante del fratello del Duce, "il fratello di un Grande Fratello", del quale sappiamo fondamentalmente poco (se "preferì restare nell’ombra", come scrive Indro Montanelli nel novembre del 2000 (cfr. "Il fascino di Arnaldo Mussolini"), non per questo deve continuare a restarvi).
ARNALDO MUSSOLINI (1885-1931). Sul lungo lavoro, finalizzato alla Conciliazione tra Regno d’Italia e Vaticano, svolto “nell’ombra” (p.38) da Arnaldo Mussolini e probabilmente, alla luce dei “precedenti”, dalla stessa Maddalena Santoro, una grande traccia è in “una lettera inviata, in data 1 gennaio 1927”, dal marito di Caterina Tanzarella, Piero Delfino Pesce a un suo amico. In un linguaggio “volutamente criptico”, così scrive: “La gente di corta vista, la maggioranza grandissima, guarda a Roma; io invece guardo a Fiesole, e so che a Roma impera assolutisticamente l’Abate Tacchi Venturi. (sic.) Questo il filo per intendere molte cose” (p. 38). Il riferimento (evidentemente “eco delle confidenze” della moglie Caterina) è alle trattative sul Concordato e agli incontri segreti in un convento di Fiesole, di Arnaldo con il gesuita Pietro Tacchi Venturi (1861 - 1956), presentato proprio da Arnaldo “a suo fratello Benito verso la fine del 1922”.
Il coraggioso e originale lavoro di Nicola Fanizza, sia per la qualità della sua scrittura sia della sua preziosa documentazione sulla "storia d’amore che il duce voleva cancellare", è una formidabile sollecitazione a riprendere anche una vecchia indicazione di Luisa Passerini (in una sua relazione nel convegno "Il regime fascista. Bilancio e prospettive di studio" Bologna 1993, ora in "Il regime fascista. Storia e storiografia", a c. di Angelo Del Boca, Massimo Legnani e Mario G. Rossi, Laterza, Bari 1995, pp. 498-506).): "coniugare la tradizione della storiografia antifascista sul fascismo con gli studi storici che adottano le categorie di genere e di generazione" e superare definitivamente la obsoleta prospettiva storiografica che voleva e vuole ancora "le questioni di genere e la storia delle donne come questioni separate e secondarie o come questioni che hanno a che fare più col sociale che col politico". Riguardare l’intera storia della società (e dell’umanità intera) con due occhi, non con un occhio solo!
Da notare che in quello stesso convegno una sola volta è citato Arnaldo Mussolini (p.133), per il connubio tra affari e politica, e una sola volta è citata Rosa Maltoni (p. 504), la madre del "Grande Fratello" (e Arnaldo ed Edvige), la quale invece durante il fascismo fu oggetto di "un culto molto ampio".
In tale prospettiva va finalmente portata alla luce nella storia delle donne del Novecento non solo la complessa figura di Margherita Sarfatti, già oggetto di più ricostruzioni non solo come "amante del Duce", ma anche l’altrettanto complessa figura di Maddalena Santoro, non riducibile affatto a semplice amante del "fratello del Grande Fratello"!
L’UOMO DELLA PROVVIDENZA(1929). C’è da augurarsi allora che il lavoro di Nicola Fanizza cada nelle mani non solo di lettori e lettrici curiosi, ma anche di storici e storiche capaci di ricerche approfondite su queste due figure di grande importanza, specie in rapporto al fatto fondamentale della storia d’Italia che portò Regno, governo fascista e Chiesa cattolico-romana alla firma dei Patti Lateranensi quando, come diceva Papa Pio XI subito dopo ai professori e agli studenti dell’Università cattolica di Milano, “siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti... E con la grazia di Dio, con molta pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti, siamo riusciti a conchiudere un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio”. - (Federico La Sala 09.02.2017)
COSTITUZIONE E PENSIERO. ITALIA: LA MISERIA DELLA FILOSOFIA ITALIANA E LA RICCHEZZA DEL MENTITORE ISTITUZIONALIZZATO ...
Il Comma 22 del sistema politico italiano
di Paolo Pombeni (Il Mulino, 06 febbraio 2017)
Vista dall’esterno la attuale situazione politica sembra descrivibile come il famoso Comma 22. Infatti da un lato ci sono quelli che invocano elezioni nel più breve tempo possibile, perché c’è una situazione in cui senza un saldo governo sono scarse le prospettive di avere reazioni efficaci per affrontare i molti problemi che ci affliggono. Dal lato opposto ci sono quelli che ci avvertono che il risultato di un ricorso rapido alle urne sarebbe un parlamento incapace di produrre qualsiasi governo dotato della necessaria saldezza. Il Comma 22 sta, come da tradizione, nel fatto che hanno ragione entrambi.
Come se ne esce? Questa sarebbe la vera domanda da porsi. Al momento si assiste solo a un estenuante gioco di tattica in cui i contendenti fanno più che altro delle «finte», giusto per ingannare gli avversari e per trarre profitto da questo.
Sul fatto che la situazione sia difficile, se non difficilissima, c’è un certo consenso. Del resto basta guardare all’economia, fra disoccupazione, crisi bancarie, conflitto sul bilancio con la Commissione europea. Come se tutto ciò non bastasse, c’è un ricco contorno di preoccupazioni, tanto sul fronte nazionale quanto su quello internazionale. Dunque che serva un governo in grado di farsene carico è pacifico.
L’attuale esecutivo può rispondere a queste sfide? Già qui la risposta si complica: in parte sì, in parte no. Sì, perché non mancano i ministri capaci, perché il presidente del Consiglio è persona equilibrata, perché ci sono in atto interventi che possono andare nella giusta direzione. No, perché non tutti i ministri sono capaci (prezzo pagato al continuismo con il governo Renzi), perché al presidente del Consiglio sembra mancare il guizzo di leadership necessario a dominare una platea indisciplinata, ma soprattutto perché non ha un sostegno convinto da parte di una maggioranza che è più impegnata a farsi una guerra intestina senza quartiere che a dare linfa all’azione riformatrice necessaria (e tacciamo di una opposizione che pensa solo allo sfascio, o a quello sfrontato alla Salvini-Grillo & Co., o a quello soft del tramonto berlusconiano).
Veniamo all’alternativa elettorale. I fari sono puntati su stucchevoli dibattiti circa le tecnicalità che potrebbero produrre una legge elettorale che facesse il miracolo di assestare la distribuzione del consenso. Sono piuttosto rari quelli che ricordano alla pletora dei nostri psefologi, professionisti o dilettanti che siano, che i sistemi elettorali possono organizzare la realtà, ma non sono in grado di crearne una diversa. Il problema infatti è, come si suol dire, nel manico. Infatti il sistema che produce opinione (parlare di cultura politica è eccessivo) è tutto preso nel vortice delle lotte di fazione e delle «narrazioni», o, se volete un termine più à la page, delle «post verità» che queste producono.
Che la diatriba fra renziani e antirenziani sia davvero un dibattito fra destra e sinistra fa sorridere e in ogni caso nessuno dei due campi spiega quale sarebbe il progetto di risoluzione dei nostri problemi che ha in mente. Quelle che sentiamo sono tautologie: noi siamo i buoni e di conseguenza diamo buone ricette che porteranno buoni frutti. Amen.
E che dire dei vari dibattiti dei grillini, dei cosiddetti «sovranisti», e via elencando? Ogni tanto vediamo che esibiscono qualche tecnico che fa calcoli economici. Noi siamo digiuni della materia, ma ci permettiamo di ricordare che non si fanno i calcoli senza l’oste, cioè che sono tutte argomentazioni che non tengono conto del fatto che intorno a noi c’è un mondo complicato che non ci lascerà agire come sarebbe meglio, ma che è molto intenzionato a farcela pagare (e qualche indizio ci sembra di coglierlo).
In queste condizioni il ricorso alle urne è ovviamente rischioso perché abbiamo davanti due scenari. Il primo è che continui il trend per cui il Paese si dividerà dietro tutte le varie narrazioni e post verità che gli stanno propinando, dando vita a un sistema corporativizzato e feudalizzato in perenne, endemico conflitto, dove decidere diventerà molto difficile se non impossibile. Il secondo è che i cittadini, stanchi o inorriditi da questa prospettiva, scelgano di mettersi nelle mani di qualcuno che abbia il potere per creare un unico punto di riferimento. È possibile. E in genere non viene scelto il migliore e il più saggio.
Per assurdo che possa sembrare, l’unica via d’uscita razionale, per quanto estremamente difficile sarebbe poter contare su un responsabile movimento di rigetto dell’universo di faide tra tribù politiche e populismi d’accatto che sembra in procinto, quello sì, di stabilizzarsi. Non si tratta astrattamente di contrapporre società civile e società politica, perché posta così la questione è evanescente. Si tratta di operare perché i ceti dirigenti di questo Paese riprendano in mano la formazione della coscienza collettiva costringendo la componente politica che hanno dentro a uscire dall’autoreferenzialità dei propri scontri e a produrre nuovi quadri capaci di mettersi su questa lunghezza d’onda (chi non è capace di farlo merita di essere rottamato).
Se non ci si riuscirà, non facciamoci illusioni: torneremo ad essere, come all’inizio del XVI secolo, il Paese che ha tante cose belle, ma che cadrà preda del mondo che ci circonda, con buona pace di tutti, dei sovranisti e di quelli che sono rimasti alla sinistra luddista.
COME ALL’INIZIO DEL XVI SECOLO ....
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA ....
DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
PAOLA CIONI, ELIANA DI CARO, ELENA DONI, CLAUDIA GALIMBERTI, LIA LEVI, MARIA SERENA PALIERI, FRANCESCA SANCIN, CRISTIANA DI SAN MARZANO, FEDERICA TAGLIAVENTI, CHIARA VALENTINI
Donne della Repubblica
Anteprima del testo delle prime cinque pagine a stampa del primo capitolo.
Ricordiamoci che la storia la raccontano sempre i vincitori. Ed è quella che rimane a testimonianza del passato. Vogliamo farci anche noi narratrici della nostra storia, per ricordare che oltre ai molti coraggiosi e valenti uomini italiani, ci sono state tante donne che hanno contribuito profondamente ai migliori cambiamenti del nostro Paese?
Dacia Maraini
Il 2 giugno 1946 si tennero le prime elezioni politiche per le quali votarono anche le donne. Un passaggio che segna l’affermazione di un nuovo protagonismo femminile nella società italiana. A restituirci la portata simbolica e politica di quella conquista, quattordici biografie esemplari di donne che con diversi talenti, in vari campi, hanno contribuito alla nascita della Repubblica e a cambiare l’immagine della donna. Non solo le politiche, che fin dai tempi del fascismo si erano battute per la democrazia, come Camilla Ravera, Teresa Noce, Lina Merlin, o le donne della resistenza, Tina Anselmi, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Marisa Ombra, Ada Gobetti, ma anche scrittrici come Alba de Céspedes, Fausta Cialente, Renata Viganò, un’attrice come Anna Magnani, la famosa sarta Biki, e la leggendaria Dama Bianca compagna di Fausto Coppi.
Le autrici del volume fanno parte di Controparola, un gruppo di giornaliste e scrittrici nato nel 1992 per iniziativa di Dacia Maraini. Come opere collettive per il Mulino hanno pubblicato anche «Donne del Risorgimento» (2011) e «Donne nella Grande Guerra» (2014). Per altri editori: «Piccole italiane» (Anabasi, 1994), «Il Novecento delle italiane» (Editori Riuniti, 2001), «Amorosi assassini» (Laterza, 2008).
L’etica perduta della politica
di STEFANO RODOTÀ (la Repubblica, 17 Dicembre 2016)
TRA una politica che fatica a presentarsi in forme accettabili dai cittadini e un populismo che di essa vuole liberarsi, bisogna riaffermare una “moralità” delle regole attinta a quella cultura costituzionale diffusa la cui emersione costituisce una rilevantissima novità.
Mai nella storia della Repubblica vi era stata pari attenzione dei cittadini per la Costituzione, per la sua funzione, per il modo in cui incide sul confronto politico e le dinamiche sociali. I cittadini ne erano stati lontani, non l’avevano sentita come cosa propria. Nell’ultimo periodo, invece, si sono moltiplicate le occasioni in cui proprio il riferimento forte alla Costituzione è stato utilizzato per determinare la prevalenza tra gli interessi in conflitto.
Dobbiamo ricordare che nell’articolo 54 della Costituzione sono scritte le parole “disciplina e onore”, vincolando ad esse il comportamento dei «cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche». I costituenti erano consapevoli del fatto che il ricorso al diritto non consente di economizzare l’etica. Non si affidarono soltanto al rigore delle regole formali, ma alla costruzione di un ambiente civile all’interno del quale potessero essere esercitate le “virtù repubblicane”. Colti e lungimiranti, guardavano alla storia e al futuro. Non avevano solo memoria del fascismo. Rivolgevano lo sguardo ad un passato più lontano, anch’esso inquietante: agli anni del “mostruoso connubio” tra politica e amministrazione denunciato da Silvio Spaventa.
Così la questione “morale” si presenta come vera e ineludibile questione “politica”. Lo aveva messo in evidenza in passato Enrico Berlinguer. L’intransigenza morale può non piacere, ma la sua ripulsa non può divenire la via che conduce a girare la testa di fronte a fatti di corruzione anche gravi. Altrimenti la caduta dell’etica pubblica diviene un potente incentivo al diffondersi dell’illegalità e a una sua legittimazione sociale.
In questi anni il degrado politico e civile è aumentato. È cresciuto il livello della corruzione, in troppi casi la reazione ai comportamenti devianti non è stata adeguata alla loro gravità. Tra i diversi soggetti che istituzionalmente dovrebbero esercitare forme di controllo, questa attività si è venuta concentrando quasi solo nella magistratura. Ma la scelta del ceto politico di legare ad una sentenza definitiva qualsiasi forma di sanzione può produrre due conseguenze negative. Non solo la sanzione si allontana nel tempo, ma rischia di non arrivare mai, perché non tutti comportamenti censurabili politicamente o moralmente costituiscono reato.
Non ci si è accorti dell’ampliamento del ruolo che da ciò derivava per la magistratura, eletta a unico e definitivo “tribunale della politica”. E questo non è un segno di buona salute, perché i sistemi politici riescono a mantenere equilibri democratici solo quando vi è il concorso di tutti i soggetti istituzionali ai quali questi equilibri sono affidati.
È stata dunque la politica stessa ad affidarsi ai giudici come “decisori finali”, azzerando in questo modo per se stessa i vincoli di moralità e di responsabilità propriamente politica. Ma questa constatazione porta ad un interrogativo: come restituire alla politica l’etica perduta?
Il confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006
di Salvatore Settis (la Repubblica, 07.12.2016)
IL DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54 articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura plebiscitaria.
Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25; quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza 2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra. Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%.
Una notevole prova di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale, come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una maggioranza di parte.
Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001, quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16 milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare alla possibilità di ricorrere al referendum popolare.
Questo l’art. 4; ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente della Corte Costituzionale». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice, se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale, e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge sembrano essersene dimenticati.
La riforma Renzi-Boschi è stata bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel retrobottega dei partiti.
Il referendum da cui veniamo è stato un grande banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo” senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri) diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il “ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha portato all’esito del referendum mostra che è possibile.
Smuraglia: è un No per attuare la Costituzione
"Al referendum non hanno vinto i partiti", dice il presidente dell’Anpi. "Leggere la vittoria referendaria del 4 dicembre solo sul terreno del confronto politico è un modo per ridimensionare il risultato popolare"
intervista di Andrea Fabozzi (il manifesto, 7.12.2016)
Carlo Smuraglia, presidente dell’Associazione nazionale partigiani, si aspettava questo successo del No?
Onestamente no. Immaginavo il paese spaccato a metà e speravo in una vittoria con il minimo distacco. Avevo indicazioni molto positive dalle nostre manifestazioni, in particolare l’ultima a Roma al teatro Brancaccio. Ma l’esperienza mi insegna a non fidarmi di quello che si vede nelle piazze e nei teatri, perché è la gente silenziosa che decide il risultato. E c’era da temere la propaganda del governo, le promesse, le proposte e le minacce del presidente del Consiglio, la complicità della stampa con il Sì...
E invece.
Mi ha sorpreso felicemente la grande partecipazione. Avevamo captato questo desiderio di capire e di partecipare, ma forse l’abbiamo persino sottovalutato. Evidentemente i cittadini che si sono informati sulla riforma, l’hanno compresa bene e giudicata male, sono stati la maggioranza. Anche se questa parte ragionata del No, adesso, mi pare messa del tutto tra parentesi, rimossa.
Non le piace come viene raccontata la vittoria del No?
Mi sorprende che tra le tante ragioni della sconfitta del Sì, la più elementare - e cioè che la riforma è stata bocciata nel merito - sia finita nell’ombra. Tutte le analisi sono sul terreno politico, tornano a farsi sentire come vincitori partiti che in campagna elettorale avevamo visto poco. Io credo che leggere il 4 dicembre esclusivamente sul terreno del confronto tra partiti sia un modo per ridimensionare lo straordinario risultato popolare.
Lei invece ci legge il segnale di una speranza? Si può ricominciare a parlare di attuazione della Costituzione?
Noi ne parliamo da sempre e lo abbiamo fatto anche in questa campagna elettorale. Alla fine dei miei incontri c’era sempre chi mi chiedeva “ma se vince il No cosa facciamo?”. E io rispondevo “Prima brindiamo, poi diciamo che invece di cambiarla la Costituzione bisogna attuarla”. A quel punto arrivava l’applauso più forte. Perché tutti vedono l’enorme contrasto che c’è tra i principi fondamentali della Carta e la realtà. Non voglio illudermi, ma credo che dentro questo 60% di No ci sia anche questa richiesta di attuazione.
Insieme a un voto contro il governo, non le pare?
Non per quanto ci ha riguardato. L’ho detto anche a Renzi nel nostro confronto di settembre a Bologna. Non ci è mai interessata la sorte del governo, volevamo solo difendere la Costituzione da uno strappo. Mi pare che lei non sia rimasto contento del modo in cui è stato raccontato quel confronto alla festa dell’Unità. Non sono rimasto contento che sia stato oscurato. Evidentemente non si era concluso come giornali e tv si auguravano, con la vittoria di Renzi.
Secondo lei, adesso, come si viene fuori dalle dimissioni del presidente del Consiglio?
La richiesta di votare presto mi pare infondata. Mancano molti presupposti, innanzitutto la legge elettorale: ne abbiamo due diverse per camera e senato e la prima è attesa al giudizio della Consulta. In più tutti i partiti dicono di volerla cambiare. La corsa alle urne è ingiustificata, il presidente della Repubblica, anche di fronte alle dimissioni di Renzi, ha molti strumenti prima di accettare le elezioni anticipate, provvederà con saggezza.
Questo No mette fine ai tentativi di riscrivere la Costituzione, almeno per un po’?
La Costituzione non è mai messa sufficientemente al riparo e bisogna stare sempre in guardia. Ma un No di questa entità ha anche un valore di ammonimento molto forte, si è capito che la Costituzione non è una legge ordinaria e non si può modificarla a cuor leggero, ma solo quando ce n’è effettivamente bisogno. E con il massimo di consenso.
In campagna elettorale si è parlato molto delle divisioni dell’Anpi. Vicenda chiusa? Lascerà qualche segno tra voi?
I segni sono stati più esterni che interni. Ogni piccola cosa è stata ingigantita e presa per buona, noi non abbiamo mai allontanato né sanzionato nessuno. Abbiamo solo chiesto ai nostri iscritti di non fare campagna per il Sì nel nome dell’Anpi, visto che la nostra posizione era opposta. La verità è che ha dato molto fastidio che l’Anpi si fosse schierata per il No. La nostra associazione è portatrice di valori in cui tutti devono riconoscersi, e dunque a molti abbiamo fatto fare almeno un pensierino.
Caro Scalfari, con il Sì passa un’espropriazione di sovranità
di Gustavo Zagrebelsky *
Caro Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì. La "pessima compagnia", in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: "non so se lo farà", ma "so che non lo farà", con il che sottintendi di avere a che fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi "sul merito" della riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla "pessima compagnia". Il merito della riforma, anche a molti di coloro che diconono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie, quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo "Manifesto", così spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione, nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare, un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla propria sovranità quando - solo quando - siano necessarie ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della "stabilità". Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni: perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle "destabilizzazioni" - chiamiamoli ricatti - che proprio da loro provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande, molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme, altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire, lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo
di Franco Berardi Bifo*
Non so a voi ma a me questo referendum mi dà un po’ di angoscia senza esagerare, intendiamoci. La vita mi sorride abbastanza, ma un po’ di angoscia questo referendum me la dà. Le ragioni sono molteplici e cerco di raccontar(me)le. I miei amici litigano fra loro astiosamente, si arriva al punto che qualcuno cancella da Facebook quelli che votano sì, o quelli che votano no. Potrei anche sopportarlo, se si trattasse di una disputa che davvero ci riguarda. Che ne so, se qualcuno votasse a favore del licenziamento degli operai dissenzienti di Pomigliano, se qualcuno votasse a favore della guerra di George Bush e Dick Cheney, beh allora d’accordo, io con un tipo così non ci voglio aver nulla a che fare, che vada a farsi fottere.
Ma qui mi pare che siamo tanto rissosi per la semplice ragione che siamo insicuri, non crediamo davvero a questo referendum a questo sì e a questo no, perciò alziamo tanto la voce, e ci ripetiamo che la costituzione non si tocca oppure che bisogna toccarla eccome.
Chi (come me) vota No non può non sapere che sta votando come Gianfranco Fini, e che se il No è maggioritario si va presto a nuove elezioni in un clima drammatico di collasso finanziario in cui vincitori probabili saranno razzisti ininterrotti come Salvini o razzisti a giorni alterni come Grillo. Chi vota Si non può non sapere che sta rafforzando il potere di un ammiratore di Tony Blair, criminale di guerra, e sta rafforzando il governo del voucher, non può non sapere che una riforma della costituzione non dovrebbe assolutamente essere varata da un governo che non è stato eletto da nessuno, e non può essere imposta alla metà del corpo elettorale.
Chi vota sì non può non sapere che una riforma costituzionale di questo genere spacca per sempre il paese, senza speranza di tornare indietro.
Il fatto è che questo referendum è una trappola costruita da un furbetto che era convinto di stravincere e avere poi tutto il potere con cui asfaltare del tutto i diritti dei lavoratori. Ma siccome il furbetto non è poi così intelligente come fa finta di essere ha fatto male i conti e a un certo punto si è reso conto che non siamo tutti come Letta a cui si può dire “Enrico stai sereno” che ti frego il posto appena ti volti. Una buona parte della popolazione ha deciso di non aspettare serenamente, e di votare no.
I contenuti di questa riforma sono risibili dal punto di vista specificamente costituzionale: nessuno può pensare davvero che il bicameralismo è il problema principale di un paese in cui gli studenti che vogliono studiare vanno all’estero, nessuno può credere che il risparmio di qualche spicciolo per i senatori sarà decisivo per le sorti economiche di un paese che ha perduto un quarto del sistema industriale negli ultimi dieci anni a causa del Fiscal compact e del debito che più lo paghi e più cresce. Questa riforma costituzionale miserella serviva nelle intenzioni del furbetto a sbaragliare ogni opposizione alla riforma vera, che è la riforma interminabile del mercato del lavoro, la privatizzazione infinita l’impoverimento illimitato della società (su questo tema vale la pena rileggere Come pensa la classe dominante di Raúl Zibechi, ndr).
Purtroppo il referendum è una trappola che scatterà in ogni caso. Se vince il sì la società è sbaragliata, e Marchionne ha vinto per sempre. Se vince il No si spalanca un abisso di instabilità finanziaria e politica. Ma se ci penso meglio poi mi rendo conto del fatto che se invece vince il sì l’abisso è solo rimandato di qualche mese, e in qualche mese lo spostamento a destra dell’elettorato è destinato ad accentuarsi.
È meglio saperlo, è meglio dirlo, invece di alzare la voce e cancellare gli amici. Siamo in una trappola, e la sola cosa che possiamo fare è impedire la (provvisoria) stabilizzazione del governo di un tizio che ammira il criminale di guerra Tony Blair e lo schiavista Marchionne.
Siamo in una trappola, e la sola cosa che possiamo fare è prepararci in ogni caso al peggio, e lavorare a un lungo periodo di ricostruzione della prospettiva europeista e anti-finanzista.
Siamo in una trappola, e la sola cosa che possiamo fare è non comportarci come i polli di Renzo Tramaglino, evitare di rompere amicizie in nome di una sconfitta in ogni caso assicurata.
L’inimicizia tra sconfitti (e lo siamo tutti, in ogni caso) è la peggiore delle cretinate.
Lidia Menapace: «Dopo la vittoria del NO, abroghiamo il Concordato»
di Donatella Coccoli (Left, 4 novembre 2016)
«Dopo la vittoria del no, voglio raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 della Costituzione, quello del Concordato tra Stato e Chiesa». Con un tono della voce molto deciso, Lidia Menapace, 92 anni, staffetta partigiana, pacifista ed esponente del movimento femminista nonché senatrice nel 2006 per Rifondazione comunista, espone tranquillamente i suoi progetti per il dopo referendum. Rappresentante del No a Bolzano, dove vive, Lidia non esita a rilanciare la posta, per nulla intimorita dal dispiegamento di forze del fronte del Sì, anche se sollecita i vari comitati del No ad estendere la lotta, con una mobilitazione più a tappeto. Una donna forte Lidia Menapace e una incrollabile certezza nella capacità di coinvolgere le “cittadine e i cittadini - nominiamole le donne, dice, se no non esistono” -.
Lidia, quali sono i punti inaccettabili della revisione costituzionale?
In generale è inaccettabile tutta la procedura. Questo è un testo giuridico fondamentale e quindi se ci fosse anche qualcosa di giusto, poiché la procedura è sbagliata, io la respingo. La procedura, ricordo, è garanzia. In questo caso, è confusa. Sono abbastanza vecchia per ricordarmi il dibattito sulla Costituzione, fu partecipatissimo, molto limpido, chiaro. Non è la stessa cosa adesso e la dimostrazione è che nonostante tutti i giochi di equilibrio - in cui è bravo -, Renzi non è riuscito a ottenere i voti che servivano perché la sua proposta diventasse legge immediatamente. Ha dovuto promuovere il referendum che, ricordo, è obbligatorio, non è stata una scelta.
Hai accennato al clima in cui è nata la Costituzione. Com’era, in particolare?
Tutti si immaginano che la Costituzione sia stata costruita da un bel gruppo di giuristi seduti attorno a un tavolo con la massa fuori tranquilla e ignara. Invece no. L’Italia era appena uscita dai bombardamenti, le città erano distrutte e la confusione era tanta. Ma ci fu una specie di passione collettiva, anche se non in nome della patria perché queste cose dopo il fascismo uscivano dalle orecchie. La passione dominante era quella dell’essere liberi, di questo si discuteva ovunque: nelle osterie, nei treni, per strada, nelle scuole. Le persone chiacchieravano, suggerivano che bisognava fare questa o quell’altra cosa. E poi leggevano i giornali e cercavano qualche riscontro con quello che stavano sancendo le madri e i padri costituenti. Mi ricordo che una volta il partito socialista e quello comunista votarono in modo diverso sull’articolo 7 del Concordato.
Te lo ricordi bene...
Certo, lo ricordo benissimo. I socialisti, più laici, votarono contro l’introduzione del Concordato nella Costituzione, mentre Togliatti in particolare pensava che non avrebbe potuto mantenere in Italia un Pci forte se non avesse trovato un accordo con il Vaticano. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di mettere il Concordato nella Costituzione e così ci ritroviamo questo articolo 7.
Tu che ne pensi a proposito dell’articolo 7?
Se mi si chiedesse di voler cambiare qualcosa nella Costituzione, ecco io direi sì, perché la Costituzione non è un dogma. E uno degli articoli che vorrei cambiare è proprio l’articolo 7. Mi piacerebbe cominciare a raccogliere le firme per abrogare l’articolo 7 subito dopo aver vinto con il no. Dei Concordati non c’è più bisogno dopo il Concilio Vaticano II, sono un relitto del passato. Io sono favorevolissima al massimo della libertà religiosa, ma l’idea che per paura che i cattolici non siano perseguitati in Italia li si mettano sotto la protezione di un altro Stato, veramente fa ridere e piangere insieme.
Con l’abrogazione del Concordato verrebbero meno anche molti privilegi fiscali di cui gode la Chiesa...
Sarebbe praticamente un riequilibrio, perché la Chiesa dovrebbe pagare l’affitto di tutti i palazzi che occupa dove ci sono anche i ristoranti e da cui ricava profitti senza pagare nemmeno le tasse perché basta mettere una statuina e farne un luogo di culto. È una vera vergogna. E poi in ogni Paese i cattolici mantengono i loro preti, con le offerte magari detraibili dal fisco però tutto è regolato e limpido invece da noi la Chiesa si prende l’8xmille anche da quelli che pensano di non darglielo: il Concordato è davvero una pecca in una Costituzione peraltro assai bella. Tolto quel cappello dell’articolo 7 che impedisce all’Italia di essere un Paese laico, si potrebbe vedere tutto l’inghippo della Chiesa nella società italiana. Questa è una cosa da correggere assolutamente. E per questo io raccoglierei subito le firme.
Che cosa c’è poi che non va nella revisione costituzionale?
Con questa revisione promossa da Renzi, si vorrebbe uno stato centralistico, che si riprende tutte le competenze delle regioni e questo non lo tollero. Preferisco uno stato fondato sulle autonomie che uno stato centralistico. Si dice che i consiglieri regionali rubano, perché, i governi no? Se mai si deve riuscire a trovare la maniera di tenere sotto controllo l’attività politica pubblica, senza cambiare la Costituzione.
A proposito delle donne, la ministra Boschi ha polemizzato qualche tempo fa sul fatto che ci sono poche donne nel comitato del No. Tu che sei stata femminista che nei pensi?
Io non sono stata femminista, sono femminista!
Perfetto! Ma che cosa rispondi, è vero che le donne non si interessano dei problemi costituzionali?
No, se mai è il comitato che non si interessa delle donne. Non è che il Comitato del Sì brilli per presenza rilevanti di donne, ma siccome è assolutamente dominato da Renzi, sia uomini che donne restano negli angolini bui perché lui occupa tutti gli spazi. Ma il Comitato del No deve essere più attivo nel coinvolgere le donne. Le donne sono più numerose degli uomini e se non sono rappresentate dai comitati resta fuori la maggioranza dell’elettorato.
Bisogna sensibilizzare di più le donne?
No, le donne sono sensibili, bisognerebbe sensibilizzare di più il comitato. Al di là dell’impostazione accademica, la cosa da fare sarebbe una mobilitazione a tappeto con volantini semplici ed efficaci, non con documenti di 20 pagine in stretto linguaggio giuridico. Bisogna fare riunioni di caseggiato e soprattutto ascoltare le donne. Se non si fa così, si perde. Tutti questi illustrissimi personaggi e uomini politici che si sono autonominati comitato nazionale si decidessero a fare un po’ di lavoro pratico.
Come vedi la partecipazione delle forze di sinistra e del M5s? Sono attivi?
Sì, anzì, noto che in un periodo di grande distrazione politica e assenza di interesse, questo referendum riesce a scuotere anche le aree più grigie. Quindi bisognerà, dopo la vittoria del No, non far ricominciare la morta gora. Io intanto ho già cominciato a buttare l’idea di raccogliere le firme per abrogare il concordato...
I valori penultimi delle democrazie
di Remo Bodei (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)
Nella maggior parte delle cosiddette lingue indoeuropee (a partire dal sanscrito dva o dvi, che significa «due» e in analogia con il latino dubium o il tedesco Zweifel) il dubbio indica incertezza dinanzi ad alternative pratiche o teoriche, il trovarsi davanti a un dilemma o, come nel simbolo pitagorico Y, davanti a un bivio, graficamente rappresentato, quale simbolo della difficoltà di prendere decisioni.
Soppesare le scelte, non farsi trascinare dalle circostanze o dagli impulsi spontanei è stata - e continua a essere - una conquista che spetta a ogni persona e a ogni civiltà nel corso della propria evoluzione. Governare le passioni, non significa ancora, tuttavia, porsi dei dubbi di natura teorica. Ma il primo passo, quello dell’astrarsi dal contesto, del fermarsi a riflettere, è stato compiuto e lo spazio di perplessità creato e aperto.
Il ragionare prima di decidere la propria linea di condotta o di articolare il proseguimento dei propri pensieri è segno di raggiunta maturità. Certo, tutto ciò ancora non basta. Occorre evitare il pericolo più ovvio: che il dubbio si trasformi in paralisi, in alibi o in fatalistica pigrizia che lascia andare alla deriva i comportamenti, le idee, le fantasie. Per questo, quasi avesse bisogno di un’àncora, il dubbio è stato spesso diametralmente contrapposto non tanto alla verità logica o empirica (quella sottomessa al «tribunale della ragione» e capace di rettificare i suoi eventuali errori), quanto alla verità rivelata o imposta con la violenza.
I totalitarismi del secolo scorso hanno preteso che i loro capi (il Duce, il Führer, il Caudillo, il Conducator, il Piccolo Padre, il Grande Timoniere) incarnassero l’indiscutibile verità e l’esemplare moralità: «Il Duce ha sempre ragione» o «Agisci in modo che, se il Führer ti vedesse, approverebbe la tua azione». Ogni pensiero autonomo e ogni dubbio sono considerati sovversivi perché minano l’autorità del Capo o del Partito. Devono essere stroncati. Per fortuna, come disse Mussolini al giornalista tedesco Emil Ludwig, la disposizione dell’uomo moderno a credere ha dell’incredibile. Proprio per questo viene sollecitato il comportamento gregario, condensato nel motto delle SS («Il mio onore si chiama fedeltà») e, nell’ambito del fascismo italiano, nello slogan «Credere, obbedire e combattere» (dove, si noti, il «credere» occupa il primo posto).
Che le masse si lascino facilmente guidare, è convinzione profonda anche di Hitler: «È una bella fortuna per gli uomini di governo che le masse non pensino! Si pensa soltanto quando si tratta di impartire un ordine o di assicurarne l’esecuzione. Se fosse diversamente la società umana non potrebbe sussistere». Non potendo impartire ordini, ma soltanto riceverli, le folle non corrono il rischio del dubbio. Da qui l’invito - o, meglio, il comando - a praticare una «entusiastica intolleranza» non solo contro quanti dubitano, ma anche contro coloro che dimostrano troppa volontà di sapere, raffigurati come soggetti a ipertrofia intellettualistica. Il dubbio si trasforma in una malattia.
Giovanni Paolo II ha parlato, con espressione paradossale, di «dittatura del relativismo», per dire che, specie dopo la fine del comunismo, la democrazia occidentale, avrebbe esaurito le sue energie: marcet sine adversario virtus . Sarebbe cioè diventata più evidente la sua propensione a lasciare ai cittadini un’eccessiva libertà dai valori della tradizione, che sconfina nella licenza e nell’anarchia.
La democrazia però non è soltanto relativistica. È vero che le democrazie moderne nascono dall’onda lunga delle guerre di religione che hanno insanguinato il Cinquecento e il Seicento, facendo scorrere tanto sangue - secondo un contemporaneo - da far girare le ruote dei mulini e da mostrare un grado d’intolleranza che oggi noi attribuiamo ad altre culture e religioni. La stanchezza per il sangue versato ha, tuttavia, provocato un salutare passo indietro dai valori ultimi - assoluti, non negoziabili e, se è il caso, da imporre con la forza - ai valori penultimi, su cui fondare gli Stati. La democrazia relativistica perché ammette più fedi e più verità e ha proprio il dubbio come sua specifica virtù, ma vi è in essa qualcosa che non è relativistico: è la compatibilità interna tra i valori, garanzia di convivenza di tutti in uno spazio pubblico e neutro, sempre minacciato da ritorni di fiamma di intolleranza e prepotenza.
In questo senso, il richiamo che, negli anni della Guerra fredda, Norberto Bobbio rivolgeva agli intellettuali («seminare dubbi» piuttosto che «raccogliere certezze») costituisce l’antidoto a ogni schieramento ideologico a priori, perché, come lo stesso filosofo ha insistito più tardi, lo scopo di ogni persona ragionevole, e, in particolare, di chi sceglie l’intelligenza quale strumento di lavoro, dovrebbe essere «l’inquietudine per la ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose».
L’omicidio di Fermo è l’ultimo atto del profondo razzismo italiano
Igiaba Scego, scrittrice (Internazionale, 07 Lug 2016)
Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, è morto.
Quando ho letto la notizia mi è mancato il fiato.
Davvero è successo?
Davvero si può scappare da Boko haram, uno dei gruppi terroristici più efferati del mondo, e non sopravvivere all’Italia?
Davvero l’Italia è peggio di Boko haram?
Penso alla moglie che ha assistito impotente all’omicidio. Penso a quegli attimi prima della morte di Emmanuel. Mi immagino una coppia in una tranquilla sera di estate a Fermo, mano nella mano, progettando il futuro. E poi un uomo nel buio, il suo odio, la sua spranga, il sangue, il cervello che schizza tutto intorno, la paura, il dolore, la furia.
Dicono che è stato un ultrà. Che parola strana ultrà. Non ha un reale significato. Ti rimanda allo stadio, alle curve, al tifo. Però nasconde a volte anche altro. Nasconde il razzismo, il fascismo, un certo gusto di menar le mani. Ma dire ultrà, ripeterlo in tutti i telegiornali, è anche un modo di non prendersi le responsabilità di un atto efferato. È lui, solo lui, l’uomo con la spranga, il colpevole, sembrano giustificarsi tutti. Lui, un balordo, uno strano, un emarginato in fondo. Succede, sembra dire la vulgata pubblica, non è colpa nostra se ci sono certe bestie in giro. E ci dimentichiamo che una bestia non nasce per caso. Che anche un omicidio a sfondo razziale è terrorismo.
“Not in my name”, l’ho scritto e detto tante volte contro gli attentati jihadisti. Ci siamo schierati quando occorreva farlo e odiosamente nessuno lo ha notato. Il mondo islamico a cui appartengo sa di essere la prima vittima del terrorismo, ma sa anche che il terrorismo nasce dalle sue devianze. E anche il razzismo, l’odio di cui è avvolto tutto il paese, è roba nostra. Made in Italy. Non è un fatto isolato. E ora, dopo la morte di Emmanuel, non possiamo far finta di nulla. Dobbiamo capire da dove viene quest’odio, quali sono le cause profonde di questa sciagura.
Ed ecco che il nome di Emmanuel Chidi Namdi si mischia con tanti altri con Ahmed, Jerry, Abba, Samb.
Non è la prima volta che succede.
Il primo di cui ho memoria era un somalo, uno studente promettente caduto in disgrazia, di nome Ahmed Ali Giama.
Ahmed era arrivato a Roma nel 1978. Alle spalle aveva una borsa di studio in Unione Sovietica, la voglia di cambiare il mondo, un comunismo a cui credeva più di se stesso. Poi qualcosa andò storto nella sua vita. L’Unione Sovietica lo rimandò a casa, in Somalia, perché il suo comportamento era stato considerato inopportuno. La motivazione ufficiale era che “beveva troppo”. Ma Ahmed Ali Giama sapeva di non bere più degli altri, sicuramente non più di quanto si faceva in Russia. Si sentiva vittima di una profonda ingiustizia.
Ahmed arriva in Italia perché fugge da una dittatura militare, quella di Siad Barre, che gli sta stretta. Ma anche qui niente va bene. Una vita sempre più ai margini, tra i cartoni e le mense che offrono un po’ di cibo. E poi quella notte terribile, tra il 21 e il 22 maggio 1979, quattro ragazzi annoiati gli danno fuoco e lui muore senza un perché sotto l’arco del tempio della Pace, a Roma. I ragazzi erano fascisti? Uno aveva simpatie di destra, ma la ragazza era una che stava nei movimenti, una compagna. Un omicidio né di destra né di sinistra. Solo un grande squallore.
Poi c’è stato Giacomo Valent a Udine. Era uno studente brillante. Anche la sua famiglia era brillante. Una famiglia di quelle che si vedono nei telefilm americani. Il padre era stato cancelliere dell’ambasciata italiana in Jugoslavia e la madre era una splendida somala di nome Egal Ubax Osman. Una coppia che univa il bianco e il nero, con figli belli, eleganti, brillanti. A Udine una famiglia così non l’avevano mai vista. Le ragazze andavano in visibilio per quei Valent. Davvero erano fantascienza. Giacomo, poi, era di sinistra e questo lo rendeva ancora più bello, ancora più tosto. A volte a scuola discuteva con i compagni di destra. Qualcuno lo chiamava scimmia e usava il razzismo perché non aveva argomenti davanti a quel ragazzo così intelligente. Giacomo non si lamentava mai per le battutacce. Andava avanti a testa alta. Sapeva di valere.
Fu così che molti a Udine cominciarono a non sopportare quella famiglia troppo perfetta. Come si permetteva quel “negro” di frequentare una scuola friulana esclusiva? Dovevano dargli una lezione. E poi era troppo di sinistra. E così Giacomo pagò quell’odio strisciante. Due compagni di classe lo attirarono con una scusa in un capanno e lì giù botte e coltellate. Daniel P. (14 anni) e Andrea S. (16 anni) volevano dare una lezione a un diverso. E la lezione furono 63 coltellate che lasciarono Giacomo in un lago di sangue. Era il 1985.
L’Italia dell’apartheid
In seguito arrivò il 24 agosto 1989 a Villa Literno. Era già da parecchi anni che giovani africani venivano usati dai caporali per la raccolta dei pomodori. Erano di fatto schiavi, pagati una miseria, per un lavoro faticoso ed estenuante. I ragazzi dormivano in baracche fatiscenti e anche se non c’era spazio per nulla, loro cercavano comunque di trovare un posticino per i loro sogni e il loro futuro che prima o poi sarebbe decollato. Stringevano i denti, “non sarà per sempre”. Lo deve aver pensato anche Jerry Maslo, un sudafricano scappato dall’apartheid. Jerry aveva tanti sogni. Soprattutto quello di poter camminare libero per le strade del suo paese, senza che nessuno gli dicesse dove poteva o non poteva passare. Sognava la fine dell’apartheid. Non mancava molto. Nelson Mandela aveva resistito così tanto in carcere anche per lui. Jerry lo sapeva, ci sperava.
Ma il giovane sudafricano non vide mai la fine del regime di segregazione razziale perché fu ucciso da chi odiava il colore della sua pelle. Non era il Sudafrica dell’apartheid, era l’Italia dell’apartheid. Quattro persone, con delle calze di nylon sulla testa, fecero irruzione nelle baracche dove dormivano gli africani e cominciarono quella mattanza insensata. Si impossessarono anche di due spiccioli. Ma non erano i soldi il motivo dell’incursione. Il motivo era lo stesso degli assassini di Giacomo Valent: dare una lezione al diverso. L’assassinio di Jerry Maslo fece capire all’Italia che il razzismo non era solo quello degli altri.
L’Italia si risvegliò più brutta, più sporca e più cattiva. Si parlò tanto di razzismo in quel 1989. Lo stesso grido di dolore, che oggi accompagna la morte di Emmanuel Chidi Namdi, accompagnò la salma di Jerry Maslo. Il funerale fu trasmesso in tv. L’Italia pianse, più per se stessa che per Jerry. Era stato un colpo scoprirsi razzista.
A quello di Jerry Maslo seguirono altri omicidi. Abdul Salam Guibre, detto Abba, un ragazzo italiano, una seconda generazione, originario del Burkina Faso preso a sprangate a Milano perché aveva rubato un pacco di biscotti. Lenuca Carolea, Menji Cloptar, Eva Cloptara, Danchiu Caldaran, bambini rom morti in un rogo a Livorno. Samb Modou e Diop Mor, uccisi a Firenze da un simpatizzante di Casa Pound . E come non ricordare, solo due mesi fa, Mohamed Habassi, torturato e ucciso nel silenzio generale dei mezzi d’informazione e della politica? Torturato non a Raqqa, ma a Parma?
Ed ecco che improvvisamente ripenso alle parole sentite in uno spettacolo teatrale. In scena Mohamed Ba, attore e mediatore culturale senegalese. Mohamed il 31 maggio 2009 fu pugnalato mentre aspettava l’autobus a Milano. Un uomo gli si era avvicinato dicendo: “Qui c’è qualcosa che non va”. Poi arrivò quella pugnalata allo stomaco. Mohamed Ba è vivo per miracolo. Non fu soccorso subito. La gente non si fermò ad aiutarlo. L’odio era nella mano che lo aveva pugnalato, ma anche nello sguardo indifferente di chi non lo aveva soccorso mentre si stava dissanguando.
Odio gli indifferenti, aveva detto Gramsci in tempi molto simili ai nostri. Ed è proprio l’indifferenza per questo odio, che viene sparso ogni giorno da giornali, tv e leader politici, che uccide e tortura. Ci siamo abituati ai titoli razzisti e urlati dei mezzi d’informazione, alle battute politicamente scorrette e agli articoli “perbene” scritti da persone “insospettabili” che parlano di civiltà superiori, di occidente moderno contro selvaggi di diversa provenienza. E siamo indifferenti verso la storia di questa Italia che si è formata e costruita sul razzismo e sul solco che ha tracciato sulla pelle del diverso.
Dopo l’unità d’Italia si dovevano fare gli italiani, quante volte ce lo hanno detto a scuola? Nel 1861 gli italiani, di fatto, non esistevano. Esistevano i lombardi, i siciliani, i piemontesi, i toscani. L’Italia era pura astrazione. Per questo si cominciò a sottolineare l’idea di un italiano bianco ed europeo. Diverso dal suo meridione per prima cosa. Quindi prima si colonizzò il sud Italia, poi si colonizzò l’Africa per rimarcare questa unicità e diversità italiana. E il nero (ma anche il meridionale) divenne, di fatto, quello a cui l’Italia si doveva opporre.
Una giovane studiosa, Marta Villa, in un suo saggio (contenuto in Costruire una nazione) ricorda un episodio di goliardia tutta maschile legato all’impresa africana. In Calabria un bracciante disoccupato del luogo fu oggetto di uno scherzo a dir poco crudele. Il poveretto aveva il naso schiacciato, la bocca larga, la fronte bassa e un lungo mento che lo faceva somigliare all’imperatore d’Etiopia, contro cui l’Italia di Mussolini aveva non solo scatenato una guerra tra le più assurde del novecento, ma anche una campagna razzista allucinante. Il bracciante fu fatto ubriacare da alcuni abitanti del paese. Poi gli fu impiastricciata la faccia di nerofumo per farlo assomigliare ancora di più a un africano. Infine fu avvolto in un lenzuolo bianco e fu fatto montare su un asino. Così conciato venne portato in giro per il paese, che sfogò la sua violenza su di lui con sputi e cattiverie di ogni genere.
L’Africa, o almeno l’idea di un’Africa da conquistare e sottomettere, era “un perfetto altro da sé atto a rinforzare e così incorporare finalmente l’immagine di una identità italiana condivisa”. I riferimenti alla violenza contro l’altro si ritrovano spesso nelle canzoni fasciste della conquista dell’Etiopia. In Stornelli neri viene detto: “Se l’abissino è nero gli cambierem colore! / A colpi di legnate poi gli verrà il pallore!”. In Povero Selassié, invece, i camerati cantano: “Non piangere, mia cara, stringendomi sul petto / con la pelle del Negus farò uno scendiletto!”.
In una canzone per bambini, Topolino va in Abissinia, c’è un Topolino fomentatissimo che vuol menare le mani e uccidere tutti. Imbrattare le sue appendici da topo con il sangue di gente aggredita impunemente. Nella canzone Topolino dichiara candidamente che “appena vedo il Negus lo servo a dovere. Se è nero lo faccio diventare bianco dallo spavento”. Ma il Negus non gli basta. Topolino vuole massacrare tutti. E ha un motivo ben preciso, che spiega ai suoi comandanti: “Ho molta premura. Ho promesso a mia mamma di mandarle una pelle di un moro per farci un paio di scarpe”. Ma sua madre non è l’unica ad avere bisogno di pelli. Topolino infatti aggiunge: “A mio padre manderò tre o quattro pelli per fare i cuscini della Balilla. A mio zio un vagone di pelli perché fa il guantaio”. E poi chiosa: “Me la vedrò da solo con quei cioccolatini”.
Topolino va in Abissinia, una canzone per bambini....
La macchina del razzismo
Gli omicidi a sfondo razziale in Italia non sono casi isolati, sono alimentati da un pensiero profondo che non è stato mai sradicato. Sono atti quasi rituali, che si ripetono uguali a se stessi nel tempo, una rottura del quotidiano che sfoga su un elemento percepito come altro le frustrazioni di una società in crisi. Ecco perché il colonialismo e l’antisemitismo in Italia non sono fatti secondari, incidenti di percorso della nazione. Come ha detto Tatiana Petrovich Njegosh in Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia (in Parlare di razza, Ombre Corte), sono di fatto “eventi cruciali nella costruzione dell’identità nazionale italiana”.
Paola Tabet lo aveva già perfettamente spiegato nella prefazione di un volume fondamentale per capire il razzismo in Italia, La pelle giusta. L’antropologa aveva raccolto dei temi di bambini delle elementari dal titolo “Se i miei genitori fossero neri”. In questi temi i bambini scrivono cose come “se i miei genitori fossero neri li metterei in lavatrice con Dasch, Dasch Ultra, Omino Bianco, Atlas, Ace detersivo, Ava, Dixan 2000, Coccolino, Aiax così sarei sicuro che ritornerebbero normali”. I bambini sono razzisti allora? No, certamente. Ma hanno respirato un’aria tossica che considera una pelle giusta e l’altra sbagliata.
Per Paola Tabet il dispositivo xenofobo è “come un motore di un’automobile” che “può essere spento, può essere in folle, andare a cinquemila giri. Ma anche spento, è un insieme coordinato. Il sistema di pensiero razzista, che fa parte della cultura della nostra società, è come questo motore, costruito, messo a punto e non sempre in moto né spinto alla velocità massima. Il suo ronzio può essere quasi impercettibile, come quello di un buon motore in folle. Può al momento buono, in un momento di crisi, partire”.
Ed è ripartito a Fermo, città che già nel 2011 aveva visto l’aggressione di alcuni somali presi di mira da un commando squadrista. Occorre fermare quel ronzio di cui parla Paola Tabet. Un ronzio fatto di mezzi d’informazione che flirtano con il razzismo, di leader politici che incitano all’odio per una manciata di voti, di benpensanti che pensano male abbracciando apocalittici scontri di civiltà. Dobbiamo fermare quel ronzio. Perché l’Italia merita di vivere in armonia abbracciando tutti i suoi colori.
Il senso dell’onnipotenza
Dagli Usa a Fermo. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza
di Alessandro Portelli (il manifesto, 08.07.2016)
Chissà se in uno dei prossimi concerti Bruce Springsteen canterà “Devils and Dust”: “ho il dito sul grilletto, non so di chi fidarmi, ho Dio dalla mia parte e sto solo cercando di sopravvivere - la paura è una cosa potente, prende la tua anima piena di Dio e la riempie di diavoli e polvere....”E’ la metafora di un’America che da un quarto di secolo sta collocata alle crossoads fra onnipotenza e paura, con Dio dalla sua parte ma un mondo ostile e sconosciuto tutto intorno... E’ l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Calipari, e che fra onnipotenza e terrore continua gli omicidi quotidiani di polizia (580 nel 2016 finora, cui almeno 100 afroamericani disarmati).
Era “visibilmente nervoso” e spaventato il poliziotto del Minnesota che ha sparato a Philando Castile: gli hanno insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati, e che i criminali drogati sono tutti armati. Perciò quando Castile ha ripetuto il gesto che costò la vita ad Amadou Diallo (allungare la mano per prendere il documento che gli aveva chiesto), ha dato per scontato che stesse invece per prendere un’arma: come si può immaginare che un negro abbia un portafoglio? Il poliziotto aveva paura; ma era anche armato e quindi onnipotente: non capisco, ho paura, ma posso uccidere quello di cui ho paura, e lo faccio. Per un portafoglio scambiato per una pistola, Amadou Diallo fu crivellato da 41 colpi, per Philando Castile ne sono bastati quattro.
Del senso di onnipotenza fa parte anche la quasi certezza dell’immunità. Finora nessuno dei poliziotti responsabili di uccisioni nel 2016 è stato punito. Dietro questa impunità c’è il senso - condonato, se non sotterraneamente condiviso, nella cultura delle istituzioni - che le persone di colore sono meno umane degli altri, ucciderle è meno grave. Questo è il gesto che ha sancito la morte di Allen Sterling in a Baton Rouge in Louisiana: un essere pensato come subumano per la sua identità è reso ancora più degno di essere schiacciato proprio dalla sua impotenza, lì a terra indifeso come un insetto che ti invita a schiacciarlo (abbiamo visto una scena identica, e finora identica impunità, anche a Hebron lo scorso marzo).
E infine. Noi siamo governati da un parlamento che ha votato allegramente (Partito “democratico” compreso) che chiamare “orango” una donna nera (l’ex ministro Cécile Kyenge) “fa parte del discorso politico” e non è un insulto. Anche qui, insomma, sono le istituzioni le prime a designare i bersagli di violenza etichettandoli come subumani, meno meritevoli di esistere.
Perciò se un fascista di Fermo chiama scimmia una donna africana sopravvissuta a Boko Haram, si tratta tutt’altro che di un pazzo e di un isolato, di uno che fa parte di una deviante e minoritaria cultura ultrà, ma del portatore estremo di un senso comune che non sfigurerebbe nel parlamento della Repubblica.
E se il marito della donna offesa reagisce, allora l’aggressore è lui: i neri devono stare al loro posto, prendersi ingiurie e insulti e stare zitti. Anche qui, quando la vittima è a terra, l’assassino non si ferma, non è soddisfatto, deve andare fino in fondo, deve schiacciare questo insetto che da un lato ha la sfrontatezza di protestare e ti fa sentire minacciato (ma senti come minaccia la sua mera presenza), e dall’altro non ha la possibilità di colpire e ti fa sentire onnipotente. Il governatore del Minnesota scappa, i governanti dell’Italia accorrono a Fermo a far vedere quanto sono solidali. Chissà dov’erano quando quattro bombe sono scoppiate, nella stessa città di Fermo, davanti a chiese colpevoli di ospitare migranti e rifugiati. Da noi è meno marcato il senso dell’onnipotenza, ma coltiviamo accuratamente la pianta della paura e siamo maestri nella pietà parolaia intrisa di indifferenza.
In Louisiana e in Minnesota, gli afroamericani scendono in strada, gridano, protestano, cercano di ricordarci che “Black lives matter”, le vita nere contano negli Stati Uniti come nelle Marche. Ma fino a quando continueremo a pensare che le vite dei neri contano solo per i neri, che la Shoah sia un’offesa che riguarda solo gli ebrei, che la strage di Orlando è una questione dei gay, che gli assassini di polizia e gli assassini razzisti siano offese a una “razza” e non offese all’umanità - fin quando la sollevazione contro queste schifezze non sarà universale, anche la nostra rabbia non sarà che parole e polvere.
Quei due libri in attesa di una sacra sentenza
Il processo ai giornalisti in Vaticano ricorda i tribunali sovietici
di Ezio Mauro (la Repubblica, 06.07.2016)
DA una parte la croce, incastonata nel legno che regge gli scranni della Corte. Dall’altra il busto severo di Pio XI, “professore di sacra eloquenza”, che sorveglia l’aula. Sul soffitto, il simbolo sacro delle chiavi di Pietro che normalmente aprono il regno dei cieli, ma oggi possono rinserrare anche la porta del carcere vaticano, perché qui, nel Tribunale della Santa Sede, si stanno celebrando gli ultimi atti del processo Vatileaks per la fuga di notizie riservate dai sacri palazzi.
Sulla panca degli imputati che ha sullo schienale un cordolo in rilievo, in modo che nessuno possa appoggiarsi ma tutti rimangano protesi verso la Corte, siedono due funzionari vaticani (monsignor Lucio Vallejo Balda, segretario della commissione nominata da Papa Francesco per l’indagine sulle finanze vaticane, il suo collaboratore Nicola Maio) e una donna, Francesca Immacolata Chaouqui, membro anche lei della commissione.
Nuzzi e Fittipaldi sono accusati del reato di «associazione criminale» per la rivelazione di notizie e documenti che riguardano interessi fondamentali dello Stato. Con loro, imputati di «concorso» nella divulgazione di documenti, due giornalisti, Emiliano Fittipaldi dell’Espresso e Gianluigi Nuzzi, conduttore televisivo. Ma sarebbe più giusto dire che sul banco degli imputati, nella grande sala al pianterreno del Tribunale, ci sono due libri, portati alla sbarra in mezzo all’Europa malandata e all’Occidente distratto del 2016, anno terzo dell’era Bergoglio.
Quei due libri, frutto di due separate inchieste giornalistiche, hanno in realtà molto poco a che fare con quelli che nelle democrazie vengono comunemente considerati gli «interessi fondamentali» dello Stato. Sia Via Crucis di Nuzzi che Avarizia di Fittipaldi riguardano invece la gestione disinvolta e per nulla trasparente dei fondi del Vaticano e degli istituti collegati alla Santa Sede, dai 70-80 milioni annui dell’obolo di San Pietro che finiscono ai poveri solo in minima parte, secondo la Commissione europea, alla fondazione Bambin Gesù che spende quasi mezzo milione di euro non per l’ospedale infantile ma per ristrutturare l’attico del cardinal Bertone, allo Ior che non dichiara a chi appartenevano quei quattromila conti che sono stati chiusi, e ha ancora oggi misteriosi laici intestatari dei suoi conti, al mercato delle case dei cardinali e all’immensa proprietà immobiliare della Santa Sede, al prezzo della cause di beatificazione dei santi, che arriva anche a 500mila euro per ogni anima venerabile canonizzata. Uno scandalo? Certo. Una materia che per la Curia doveva rimanere coperta, secondo quel culto del segreto avviato in Vaticano da Bonifacio VIII? Probabile. Ma cosa c’entrano la Patria e l’interesse nazionale con la denuncia del malgoverno delle sacre finanze?
In realtà due terrori congiunti pesano su San Pietro da quando sulla cupola della basilica, dove una volta nei mosaici s’innalzava immacolata la fenice, vola alto il corvo. La prima paura riguarda la dimensione dei guai economici della Santa Sede, strettamente legati alla gestione oscura di troppi interessi. La seconda paura è che la mancanza di trasparenza su questa materia favorisca un gioco incrociato di ricatti, vendette e avvertimenti, diventando strumento di lotte di potere interne, amplificate dal clamore profano che gonfia ogni rivelazione all’esterno, rimandandola ingigantita dentro i sacri palazzi: soprattutto in un momento in cui l’opera di rinnovamento di Papa Francesco incontra forti resistenze nella Chiesa. Quando La Curia al completo gli si è presentata davanti per gli auguri di Natale, il 23 dicembre di due anni fa, Francesco ha dato un posto d’onore a queste due “malattie” nelle 15 piaghe che affliggono la Chiesa: il «terrorismo delle chiacchiere, delle mormorazioni e dei pettegolezzi» che trasforma gli uomini in «seminatori di zizzania, simili a Satana» e l’accumulo di beni materiali per profitto mondano, «perché il sudario non ha tasche».
Bergoglio sa che nel suo mandato in conclave c’è il recupero del ruolo della Chiesa consumato attraverso gli scandali, i peccati contro il sesto e il settimo comandamento, la rete di ricatti che da tutto questo è cresciuta avviluppando il visibile e insidiando l’invisibile della sacralità vaticana fino a deturparne il volto, come ha denunciato lo stesso Ratzinger. Anche la rinuncia di Benedetto XVI è infatti un obbligo testamentario, perché denuncia la fragilità papale davanti al peso di una responsabilità di governo diventata intollerabile, quando manca «il vigore del corpo e dell’animo ».
Il nuovo Papa è dunque consapevole fin dall’apparizione sulla Loggia di essere stato eletto in un rovesciamento geografico del potere curiale, quasi a dire basta agli intrighi e ai ricatti italiani del Palazzo, tanto che appena quattro mesi dopo la sua elezione cerca di frenare il volo dei corvi e i piani dei loro addestratori. Lo fa mettendo mano al codice penale vaticano, in particolare al paragrafo sui “Delitti contro la Patria”, aggiungendo un nuovo articolo, il 116 bis. «Chiunque si procura illegittimamente o rivela notizie o documenti di cui è vietata la divulgazione, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni - dice la norma - Se la condotta ha avuto a oggetto notizie o documenti concernenti gli interessi fondamentali o i rapporti diplomatici della Santa Sede o dello Stato, si applica la pena della reclusione da quattro a otto anni».
Quando escono i due libri, l’indagine della Gendarmeria scopre una «squadra operativa» che si è formata proprio nella Prefettura per gli Affari Economici, con l’obiettivo di raccogliere materiali riservati e diffonderli all’estero. Il Promotore di Giustizia, cioè il Pubblico Ministero Vaticano, individua in Balda, Chaouqui e Maio il «sodalizio criminale organizzato col presupposto di una missione da seguire per realizzare la vera volontà del Papa», attraverso la raccolta e la diffusione di notizie e documenti sensibili. Con loro, finiscono a giudizio i due giornalisti, prima con l’ipotesi di minacce sui funzionari vaticani per avere i materiali, poi col sospetto di pressioni, infine semplicemente - e incredibilmente - soltanto per aver manifestato un interesse professionale alle notizie che dal Vaticano venivano fatte filtrare. Non potendo bloccare i libri (che hanno autori ed editori italiani, e sono tutelati e soggetti alle leggi italiane) si accusano i loro due autori di «concorso» con i tre principali imputati, accusati di «associazione criminale».
Poiché in Vaticano soffia lo Spirito santo, ma non esiste la Costituzione, non c’è nemmeno l’articolo 21 che nella nostra Carta tutela la libertà di espressione dei cittadini, in quanto «tutti hanno diritto a manifestare liberamente il proprio pensiero con parole, scritti e ogni altro mezzo di diffusione», mentre «la stampa non può essere oggetto di autorizzazione o censura ». Nel tribunale vaticano, così, lunedì i Promotori di Giustizia Gian Pietro Milano e Roberto Zannotti hanno potuto accusare Nuzzi e Fittipaldi di concorso morale nella divulgazione per «l’impulso psicologico » che con la loro «presenza e disponibilità » ha «contribuito a rafforzare il proposito della rivelazione delle notizie» nei funzionari vaticani. I Promotori hanno precisato che «chi riceve notizie normalmente non è punibile». Ma hanno aggiunto: «Lo diventa se rafforza il proposito di chi le rivela. I giornalisti sono stati una ragione essenziale per divulgare le notizie». Quindi siamo davanti a questo paradosso: due giornalisti sono portati in Tribunale perché con la loro semplice «presenza e disponibilità » hanno rafforzato la decisione di divulgare le carte da parte di un «sodalizio criminale» già organizzato a tal fine in Vaticano; la pura presenza diventa una colpa; la disponibilità a raccogliere notizie un comportamento da censurare. E il mestiere di giornalista finisce sotto accusa.
Quasi una vendetta per il passato, e un monito per il futuro: qui la libertà di stampa non esiste, fare giornalismo secondo le regole e i comandamenti di ogni democrazia dietro le mura leonine può diventare un reato. E infatti mentre per Fittipaldi il Promotore ha proposto l’assoluzione per insufficienza di prove, per Nuzzi ha chiesto la condanna a un anno, con sospensione condizionale. Per Chaouqui 3 anni e nove mesi, per Balda tre anni e un mese, per Maio un anno e nove mesi.
Così finisce lo strano processo in cui gli imputati non hanno potuto avere copia del fascicolo che li riguarda, per la difesa hanno dovuto obbligatoriamente scegliere due nomi nell’elenco presso la Santa Sede degli avvocati rotali, mentre monsignor Balda ha negato in aula di aver ricevuto qualsiasi minaccia dai giornalisti, nessuno ha presentato una querela per affermazioni non veritiere nei due libri, le fonti erano istituzionali. È l’ultimo paradosso di un processo in uno Stato straniero che vede coinvolti tutti cittadini italiani (giudici, Promotori e avvocati compresi) salvo il monsignore segretario della Prefettura per gli Affari Economici. Tanto che Nuzzi ha chiesto al premier Renzi «perché il governo italiano tace, visto che sono intervenute organizzazioni internazionali a tutela della libertà di stampa».
Resta una domanda: e il Papa? Francesco ha parlato due volte di Vatileaks. La prima all’Angelus dell’8 novembre 2015, festa di San Goffredo: «So che molti di voi sono turbati dalle notizie che riguardano documenti riservati della Santa Sede sottratti e pubblicati. Voglio dirvi che rubare questi documenti è un reato, è un atto deplorevole che non aiuta. E voglio assicurarvi che questo fatto non mi distoglie dal lavoro di riforma che sto portando avanti». La seconda il 30 novembre 2015, Sant’Andrea, rispondendo ai giornalisti: «La stampa libera laica e confessionale ma professionale (perché le notizie non devono essere manipolate) per me è importante, perché la denuncia delle ingiustizie e della corruzione è un bel lavoro. Ma la stampa deve dire tutto, senza cadere nei tre peccati più comuni: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione».
In questo caso non c’è calunnia, non c’è diffamazione, non c’è disinformazione. C’è una verità scomoda, che qualcuno dal Vaticano ha voluto far conoscere all’esterno, e che i giornalisti hanno ovviamente pubblicato, verificata la fonte. C’è la fattispecie surreale dell’«impulso psicologico », trasformata in un atto d’accusa. È bastato questo al direttore di Radio Maria, Padre Livio Fanzaga, per condannare con grande anticipo Nuzzi e Fittipaldi, il 6 novembre 2015: «Quelli che mi scandalizzano sono i giuda, i giornalisti dalla lingua e dalla penna biforcuta mi fanno nauseare. Mi fa fatica pregare per loro, perché io li impiccherei, quasi quasi».
Alla fine, restano due libri sugli scranni di un Tribunale, come nel processo sovietico ai romanzi di Sinjavsky e Daniel nel 1966, quando gli imputati provarono invano a spiegare in aula che a un libro non si possono applicare categorie giuridiche. Due libri, che aspettano ormai la sacra sentenza.
I volumi di Fittipaldi e Nuzzi sono frutto di inchieste giornalistiche: nessuno ha presentato querela per affermazioni non veritiere Poiché in Vaticano soffia lo Spirito santo ma non esiste la Costituzione non c’è nemmeno l’articolo 21 che tutela la libertà di espressione dei cittadini.
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 22.06.2016)
Come si può dimenticare la donna di Roma città aperta , il film di Roberto Rossellini, che corre corre, insegue il camion su cui i nazisti stanno portando via il suo uomo, grida «Francesco, Francesco» e finisce a terra falciata dalle mitragliatrici? Pina, la popolana, e Anna Magnani, l’attrice, sono tutt’uno in quella scena tragica che settant’anni dopo seguita a far male al cuore. La ricorda il bel libro Donne della Repubblica edito dal Mulino, opera di più autrici, Claudia Galimberti, Cristiana di San Marzano, Paola Cioni, Elena Di Caro, Chiara Valentini, Maria Serena Palieri, Francesca Sancin, Lia Levi, Federica Tagliaventi, Elena Doni. Qualcuna di loro, il vecchio gruppo di «Controparola», ha scritto nel libro più di un saggio su personaggi che hanno lasciato un segno nel Novecento: donne le autrici, donne le protagoniste, politiche, scrittrici, attrici e anche donne al centro di fatti che ebbero un rilievo nel far progredire il bigotto costume dell’epoca.
Come scrive Dacia Maraini nell’introduzione: «Il nostro sembra un Paese che prova sollievo nel dimenticare il passato, quasi ci fosse da vergognarsi, soprattutto quando si tratta di stabilire dei punti di riferimento etici, socialmente riconoscibili, che possano fare da modello per le prossime generazioni».
La memoria smarrita. Le donne di questi ritratti o, meglio, racconti verità, si sono impegnate nel nome della dignità, della giustizia, dell’eguaglianza e rappresentano il simbolo dei momenti alti del Paese, la minoritaria lotta clandestina contro il fascismo, la Resistenza partigiana, la Costituzione del ’47. Si sono poi impegnate per creare la tessitura necessaria alle leggi che hanno emancipato la comunità, i diritti di cittadinanza, il divorzio, l’eguaglianza non ancora del tutto raggiunta tra uomo e donna. Il libro serve anche a far capire come la lotta per la libertà e per il progresso sociale e civile non debbano mai avere sosta. Ci si immalinconisce se si fa un paragone tra la forza, la cultura, il coraggio di donne come Ada Gobetti, Camilla Ravera, Nilde Iotti, Tina Anselmi e le ministrine di oggi, insipide ma arroganti, attente, sembra, soprattutto al colore del loro tailleur.
La carrellata di questo libro è lunga e appassionata. Da Anna Magnani (Lia Levi), sciantosa, pescivendola e poi grande interprete - vinse nel 1955 l’Oscar per La rosa tatuata - donna ribelle, attrice di se stessa, a Teresa Noce, uno dei ritratti più belli del libro (Paola Cioni). Sembra una storia ottocentesca, la sua: la povertà inimmaginabile, la senza scuola che ama la cultura e sa conquistarla con lo studio appassionato, l’indipendenza di giudizio, la testardaggine, la durezza, la coerenza, la coscienza che per la sinistra l’unità è essenziale. La bambina che nasce in un miserrimo quartiere di Torino all’inizio del secolo passato conosce via via Gramsci, Togliatti, Terracini, è in prima linea nella lotta antifascista, partecipa alla Guerra civile spagnola, è fra i Francs-tireurs et Partisans della Resistenza francese e con la Liberazione approda al Comitato centrale e alla direzione del Pci che anni dopo la espelle. (Era la moglie di Luigi Longo, il vicesegretario, che si è risposato a San Marino con l’inganno ed è lei, divorziata a sua insaputa, a venire accusata dai burocrati del partito di aver violato le regole). Completamente emarginata, scrive libri. Fino alla morte, sola.
Un altro bel ritratto è quello di Tina Anselmi (Eliana Di Caro ed Elena Doni). Veneta di Castelfranco, il padre socialista, decide il suo destino nel 1944 quando - aveva 17 anni - fu obbligata dai nazifascisti ad assistere con i compagni di scuola all’impiccagione agli alberi in un viale del paese di giovani partigiani catturati sul Grappa. Diventa un’animosa staffetta partigiana. Poi si laurea in Lettere all’Università Cattolica, giovanissima dc, i suoi maestri sono De Gasperi, Dossetti, Moro, Zaccagnini. Deputata nel ’68, ministra del Lavoro nel ’76 (è sua la legge sull’eguaglianza di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), ministra della Sanità nel ’78, la sua grande avventura politica è la presidenza della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia P2, associazione segreta di cui hanno fatto parte ministri, capi dei Servizi segreti, generali dei Carabinieri e della Finanza, banchieri, magistrati, direttori di giornali e della Rai, parlamentari, esclusi i comunisti, i radicali, l’allora Pdup: i giudici istruttori di Milano sono arrivati a Gelli indagando sulla mafia in Sicilia e sull’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli. Dall’81 all ’84 Tina Anselmi regge la presidenza con rigore, la sua relazione finale, ineccepibile, rivela la presenza di uno Stato ombra che ha operato contro la legge e la Costituzione e rappresenta ancora «un pericolo per la compiuta realizzazione del sistema democratico».
Viene almeno ringraziata la donna intemerata che sa reggere quella Commissione parlamentare? È messa invece da parte anche dal suo partito che le toglie il collegio dove è stata eletta da decenni. Viene insultata da più parti, vilipesa, offesa con un astio che sembra nascere dalle viscere più oscure. Si minimizza. La P2? Un normale comitato d’affari, «un club di gentiluomini» (Berlusconi), un falso complotto, una caccia alle streghe. (Anche se dall’inchiesta emergono connessioni con le stragi che hanno dilaniato il Paese e con le irrisolte questioni che hanno messo in pericolo la Repubblica democratica, da piazza Fontana all’Italicus al Banco Ambrosiano). Ultima a infierire, nel 2004, è una biografia indecente e gonfia d’odio a lei dedicata nel dizionario Italiane , tre volumetti editi dalla Presidenza del Consiglio e dall’allora ministra delle Pari opportunità, Stefania Prestigiacomo. Ne hanno viste tante queste donne del Novecento. Mai assenti, mai indifferenti, sempre partecipi. Spesso hanno rischiato la vita. Le autrici le raccontano con amabilità, con rigore, senza retorica. Forse con un po’ di invidia.
Donne costituenti e diritti
di Eliana Di Caro (Il Sole-24 Ore, Domenica, 12.06.2016)
Il 10 marzo 1946 le donne italiane compiono un gesto rivoluzionario. È domenica, si mettono in fila accanto a mariti, fratelli o sconosciuti per prendere una scheda sulla quale tracceranno una X, esercitando per la prima volta lo stesso diritto fondamentale dei vicini di coda. Non c’è più distinzione di sesso nel partecipare alla cosa pubblica, attraverso il più classico degli strumenti: il voto.
Meno di tre mesi dopo, il 2 giugno, vanno ancora alle urne per l’appuntamento che abbiamo tutti appena festeggiato e che Patrizia Gabrielli, docente di Storia contemporanea e di genere all’Università di Siena-Arezzo, rievoca in Il primo voto. Lo fa marcando il salto di qualità, il passaggio dalle amministrative alle politiche e, soprattutto, dalla monarchia alla Repubblica. Una rivoluzione nella rivoluzione.
L’autrice ricorda tutto questo facendo rivivere quell’atmosfera, descrivendo l’approdo delle 21 costituenti al più alto livello della politica accanto a 535 uomini che le guardavano con un certo paternalismo. Preziosi sono i resoconti che calano il lettore nel dibattito di allora e dai quali emerge la tenacia delle protagoniste, destinate a scrivere la storia dei diritti delle donne.
Maria Federici, Nilde Iotti, Teresa Mattei, Lina Merlin, Teresa Noce, per nominarne alcune, sono state determinanti nel disegnare l’architrave costituzionale che sancisce l’equità e la pari dignità uomo-donna. Basti pensare alla specificazione “di sesso” aggiunta nell’articolo 3 («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua...»), che si deve alla cocciutaggine di Lina Merlin. O alla legge sulla maternità, una delle più avanzate del mondo, che porta la firma di Teresa Noce. O alla lunga e animata discussione dell’Assemblea sulla famiglia, di cui si definiscono i principî cardine, poi sviluppati nella riforma del 1975 per la quale fu in prima linea Nilde Iotti.
Proprio su quest’ultimo tema, sottolinea l’autrice, le divergenze furono forti tra i costituenti e all’interno della stessa «pattuglia femminile»: la famiglia rimane centrale, nel dopoguerra, indipendentemente dai colori politici.
Il concetto dell’indissolubilità del matrimonio, in un Paese come l’Italia, non sembrava superabile e invece per soli tre voti (complice una sospetta assenza di 32 democristiani) ne fu votata l’estromissione dalla Carta, aprendo la strada al percorso per il divorzio che nel 1970 adeguerà la nostra legislazione a quella dei maggiori Paesi occidentali.
Ma anche quando comuniste, cattoliche o socialiste erano in disaccordo, prevaleva la tensione verso una sintesi, un obiettivo comune. Fu così per «diritto al lavoro e accesso alle professioni, parità salariale e garanzie alla lavoratrice madre», scrive Gabrielli nel sottolineare l’approccio delle costituenti: «ribadirono concordi che non si trattava di definire norme di tutela, ispiratrici dell’assistenzialismo fascista, quanto di fondare un nuovo diritto».
Utili, nella seconda parte del volume, i brevi profili biografici di ciascuna di queste donne oggi così poco conosciute (14 di loro laureate, altre operaie e impiegate e dunque direttamente conoscitrici di molti problemi e iniquità) cui tutti siamo debitori.
Il paese spaesato che ancora s’interroga sulla sua Repubblica
Da una società sofferente, capace di sollevarsi e avviare uno sviluppo straordinario a un quotidiano in cui tante energie sono smarrite
di Guido Crainz (la Repubblica, 02.06.2016)
Con quali domande guardare ai settant’anni della nostra Repubblica? Con quali convinzioni, con quali dubbi? La sua conquista era apparsa a Piero Calamandrei «un miracolo della ragione» e Ignazio Silone aveva aggiunto: alle sue origini non c’è nessun vate o retore ma «il costume dei cittadini che l’ha voluta». «Una creatura povera, assistita da parenti poveri», per dirla con Corrado Alvaro, ma pervasa dalla volontà di risorgere. All’indomani della Liberazione Milano era in rovine, ha ricordato Carlo Levi, ma «le strade erano piene di una folla esuberante, curiosa e felice. Andavano a comizi, a riunioni, a passeggio, chissà dove».
Era anche profondamente divisa, quella Italia, e per la monarchia
votò molta parte di un Mezzogiorno che ancora a Levi era apparso «un altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla Storia e allo Stato». Da qui siamo partiti, in questo quadro abbiamo costruito democrazia, ed essa non era un concetto del tutto scontato allora né per il Partito comunista né per la Chiesa di Pio XII.
Come si è passati dalla società sofferente e vitale del dopoguerra, capace di risollevarsi dalle macerie e protagonista poi di uno sviluppo straordinario, all’Italia di oggi? Spesso spaesata, confusa, incerta di se stessa. Come si è passati da un sistema dei partiti cui si affidava sostanzialmente con fiducia un Paese piagato ad un degradare che oggi ci appare quasi senza fine? Davvero in questo percorso tutte le nostre energie e le nostre “passioni di democrazia” sono andate disperse o smarrite?
Abbiamo attraversato tre mondi, in questi settant’anni: da quello largamente rurale del dopoguerra alla stagione dell’Italia industriale e sino agli scenari che dagli anni ottanta giungono sino ad oggi. Abbiamo attraversato anche climi politici e culturali molto diversi, passando presto dalla fase più aspra della “guerra fredda” alla felice stagione del “miracolo economico”.
Mutò volto allora l’Italia e si consolidò il suo esser Nazione (lo vedemmo nel primo centenario dell’Unità): il diffuso ottimismo fece sottovalutare però i moniti di chi - da Ugo La Malfa a Riccardo Lombardi - avvertiva l’urgenza di porre mano a squilibri vecchi e nuovi del Paese, e di riformare profondamente le istituzioni. Avemmo così una trasformazione non governata, uno sviluppo senza guida, e anche per questo le effervescenze degli anni sessanta furono più forti che altrove.
Nel decennio successivo convissero poi reali processi riformatori e la cupezza feroce del terrorismo: dalla “strategia della tensione” alimentata dal neofascismo al terrorismo di sinistra degli “anni di piombo”. La Repubblica fu messa davvero alla prova in quegli anni e seppe rispondere: lo vedemmo a Milano, ai commossi funerali per le vittime di piazza Fontana, e a Brescia all’indomani della strage di Piazza della Loggia. Lo vedemmo nei 55 lunghissimi giorni del rapimento di Aldo Moro e poi a Genova, ai funerali dell’operaio Guido Rossa.
E lo vedemmo nella mobilitazione civile di Bologna dopo la strage alla Stazione. Vi è lì, fra anni settanta e ottanta, un crinale decisivo: storici di differente ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi come “funerali della Repubblica”, annuncio che una sua fase era terminata. E si riveda l’addio di popolo ad Enrico Berlinguer, sei anni dopo: esso ci appare oggi l’estremo saluto non solo a un leader ma anche ai grandi partiti del Novecento.
Inizia a mutare davvero il Paese allora, mentre il crollo sindacale alla Fiat annuncia il declinare dell’Italia industriale. Si scorgono al tempo stesso i primi segni di una corrosione che non è riconducibile solo ai Sindona e ai Gelli ma è rivelata da fenomeni molto più pervasivi.
Nel 1980 su queste pagine Italo Calvino proponeva uno splendido Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti («c’era un paese che si reggeva sull’illecito») mentre Massimo Riva vedeva profilarsi «il Fantasma della Seconda Repubblica »: ogni giorno che passa, scriveva, si attenua la speranza che possano farla nascere politici sagaci e democratici e «cresce il timore che possa farlo con successo qualche avventuriero senza scrupoli ».
Parole inascoltate, nei “dorati anni ottanta”: negli affascinanti scenari del mondo post-industriale, nel progressivo scomporsi di classi e ceti sociali, nel dilagare di pulsioni al successo e all’arricchimento senza regole, contrastate sempre più debolmente da anticorpi civili e da culture solidaristiche. La modernità sembra divaricarsi ora dal progresso e dalla crescita dei diritti collettivi, e sembra identificarsi con l’euforia sociale e con l’affermazione individuale.
Inizia allora anche il declinare dei partiti basati sulla partecipazione e l’identità, nel primo profilarsi di “partiti personali” (a cominciare dal Psi di Craxi) e di quell’intreccio fra politica- spettacolo e tv che trasforma la comunità dei cittadini in una platea di telespettatori. Si forma sempre allora, nella crescente incapacità di governo della politica, quel colossale debito pubblico che ancora grava su di noi come un macigno: non solo economico ma etico, perché prende corpo così un Paese che spende oltre le proprie possibilità e lascia il conto da pagare ai figli. Un Paese che non sa prender atto della fine dell’“età dell’oro” dell’Occidente e non sa ripensare il welfare, elemento fondativo delle democrazie moderne.
Crollerà davvero il vecchio sistema dei partiti, nella bufera di Tangentopoli, e verrà davvero l’“avventuriero”, per dirla con Riva: eppure ci illudemmo che, liberata dal precedente ceto politico, una salvifica società civile avrebbe conquistato un luminoso avvenire. Dell’ultimo, quasi disperato Pasolini ricordammo le riflessioni sul degradare del Palazzo e rimuovemmo invece quelle sulla mutazione antropologica del Paese. Mancammo allora l’occasione per una rifondazione della politica capace di ridare fiducia nella democrazia, e da tempo abbiamo superato il livello di guardia: ce lo ricordano ogni giorno il crollare della partecipazione al voto e il dilagare di una corruzione che non ha neppure l’alibi di “ragioni politiche”.
C’è davvero molto su cui interrogarsi, a settant’anni da quel 2 giugno, e viene talora da chiedersi se siamo diventati davvero una Repubblica, nel senso più alto del termine. Così certo è stato ma vale anche per la Repubblica quel che Ernest Renan diceva della Nazione: non è mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”, una scelta da rinnovare ogni giorno. È forte la sensazione che da troppo tempo non rinnoviamo realmente quel plebiscito ed oggi esso ci appare sempre più necessario, e urgente.
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 02.06.2016)
LA festa del 2 Giugno non ha mai rappresentato motivo di scontro ideologico, nonostante le divergenze politiche profonde tra i protagonisti della nascita della Repubblica. Raccontano le cronache che i vincitori di quel referendum non volevano ostentare esagerazione nella vittoria «perché non volevano che questa suonasse offesa agli sconfitti » scrivono Daria Gabusi e Liviana Rocchi nel loro libro su Le feste della Repubblica.
Tutti gli italiani e le italiane, questa era la convinzione unanime, si erano fusi in un patto che era e doveva essere al di sopra di ogni forma istituzionale e che aveva il suo documento nell’unità del Paese, suggellato da una guerra anche fratricida. Tutti consapevoli che quel plebiscito di natalità era un atto di inizio non il testo della liquidazione del passato. E per questo, nei resoconti successivi alla vittoria della Repubblica nel referendum del 2 Giugno circolava addirittura un ossimoro per raccontare quegli eventi: pacata euforia; «l’inizio della nuova Italia era non nella baldoria, me nel silenzio, nella serietà e nella compostezza». Qualcuno si lamenta, scrisse Ignazio Silone, «per l’assenza di un vate in un momento così eccezionale della Storia italiana». La democrazia era nata senza vati e senza capi, senza parole roboanti che parlassero di “momento storico”, anche se quello era certamente un momento storico. Ma un atto di liberazione non roboante e pacato era per Silone «un atto di modernità», un vero atto di nascita, di festa, di letizia. E per sottolineare questa modernità di seria e corale responsabilità Piero Calamandrei parlò di un «miracolo della ragione».
Il “miracolo della ragione” era manifestato proprio dalla forza dei numeri con cui venne proclamata la Repubblica. Il 10 giugno ne diedero lettura davanti ai giudici togati, racconta l’allora ministro degli Interni, Romita: la comunicazione alla Corte di Cassazione con i togati in piedi era semplicemente questa, «per la Repubblica 12.672.767 voti; per la Monarchia 10.688.905». Niente altro. Commenta Romita: «Una svolta veramente storica, la semplicità direi quasi la pudica modestia, era la più peculiare caratteristica della cerimonia ». I numeri soltanto, la ragione democratica per eccellenza, prendevano la scena; da soli bastavano. Dovevano bastare per dar legittimità di una differenza non davvero grande, eppure enorme.
Il patto che ne scaturì fu un patto di unione che andava ben oltre i due milioni di voti di distacco. Un patto che ha reso possibile settant’anni di vita civile. La Costituzione ha unito il Paese, e lo ha fatto nel rispetto delle differenze, molte e spesso radicali. Come una grammatica comune, ha consentito al pluralismo delle idee e dei progetti di essere leva di una dinamica libertà, di unire i diversi. È a questo del resto che le Costituzioni servono: a dare regole condivise da tutti perché ciascuno possa liberamente contribuire con le proprie idee e i propri interessi al governo della cosa pubblica, con la parola e il voto, con l’elezione dei rappresentanti e la formazione delle maggioranze.
L’impianto anti-retorico e di “pacata euforia” della Repubblica che celebrava se stessa con quel referendum era un inizio felice, un atto sia legale che pedagogico. Come a voler abituare gli italiani e le italiane a un succedersi di vittorie e sconfitte, ma sempre sentendo quel fatto fondamentale un bene di tutti, non di chi aveva vinto.
Per il modo come l’attuale campagna referendaria si sta svolgendo vi è da temere che la Costituzione che ne uscirà non abbia la stessa forza legittimante unitaria. Quale che sia l’esito. Come ha scritto Alfredo Reichlin su questo giornale qualche giorno fa, vi è da temere che la Costituzione sia vissuta, dai vincitori come dai vinti, come una norma di parte contro parte. Se resterà questa Costituzione come pure se passerà la sua revisione. In entrambi i casi l’esito di un referendum così aspro potrebbe essere questo - e questo è il più grande rischio che corre il Paese. Comunque finirà, i vinti non si sentiranno con molta probabilità parte della stessa impresa e i vincitori.
I padri costituenti decisero di distruggere le minute delle loro lunghe discussioni alla fine dei lavori dell’Assemblea costituente - perché sapevano che nell’atto volontario di oblio delle divisioni stava la condizione per cominciare e sentire la Carta come un patto di unità. Un gesto saggio. Come si può dimenticare una lotta a tratti furiosa nel linguaggio, combattuta per di più non ad armi pari poiché una parte ha già da ora più esposizione e più attenzione dell’altra? Come cementare un’unità nella diversità se la diversità è, da ora, vissuta come un problema? Una lotta così cruenta quando le ideologie non ci sono più a dividere è un fatto difficile da comprendere e spiegare. E tuttavia il rischio concreto sarà proprio quello di giungere, dopo settant’anni di unione, ad una Costituzione che divide ed è divisiva, sentita come bene di parte, di alcuni contro altri. Di questo dovremmo preoccuparci.
I tre anniversari del 2 giugno
di Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi
Da tempo contestiamo che il 2 giugno possa risolversi in una parata militare o poco più. Abbiamo, nel tempo, accentuato il connotato di anniversario fondamentale per la vita del Paese; in seguito, abbiamo collegato al 2 giugno il tema della Costituzione, dando luogo anche a manifestazioni molto partecipate, d’ intesa con la CGIL.
Quest’anno, è impossibile celebrare il 2 giugno senza ricordare che nel 2016 si concentrano ben tre anniversari: la Repubblica, il voto alle donne e la nascita della Costituente. Tre anniversari che imprimono un carattere particolarmente significativo ad una Festa che, per noi, ha sempre avuto un’importanza del tutto particolare. A fronte di un interrogativo che alcuni si sono posti, se il 2 giugno abbia rappresentato il punto di arrivo della crisi che portò il Paese fuori dal fascismo e dalla guerra, oppure il primo passo di un nuovo possibile cambiamento, ho personalmente ritenuto - sempre - che il tema fosse mal posto, perché in realtà, la vera fase conclusiva del periodo della dittatura fu l’8 settembre, che segnò anche l’inizio della fase di riscatto. Il 2 giugno fu il giorno della scelta decisiva, influenzata solo in parte dal comportamento dei Savoia: la scelta se restare ancorati ai modelli del periodo prefascista, oppure avviare con determinazione il cammino, magari non facile, verso una democrazia, in cui i cittadini assumessero finalmente il ruolo - chiave, attraverso la partecipazione.
Per chi ha partecipato alla Resistenza, una simile scelta non aveva alternative, perché in realtà ciò che si era voluto, tutti, era la fine della dittatura e la nascita di un sistema democratico, che andasse oltre, anche rispetto all’esperienza del periodo liberale.
Molti di noi, il 2 giugno 1946, non ebbero dubbi, sembrandoci impossibile non trarre le conseguenze logiche e necessarie dell’esperienza che avevamo vissuto e dei sogni che avevamo coltivato. Del resto, nelle famose ”aree libere”, quando vi fu la possibilità concreta di sperimentare la democrazia, talora in forma poco più che primitiva, la definizione a cui si pensò, fu quella di “repubblica partigiana”. La Repubblica fu, dunque, per molti, la speranza di un futuro diverso, nel quale non ci fosse più posto per qualsiasi forma di autoritarismo e tanto meno di “sudditanza” dovendo il popolo diventare, finalmente, il vero protagonista della scena politica.
Non a caso, del resto, nel 1946, si decise, finalmente, di riconoscere alle donne il diritto di votare e di essere elette; ed anche questo era frutto di un’aspirazione certo lontana nel tempo (i movimenti femministi risalgono alla fine dell’800 ed alla parte iniziale del ‘900), ma consolidata con l’irruzione delle donne sulla scena politica, negli anni della seconda guerra mondiale e soprattutto tra il 1943 e il 1945, con l’assunzione di inedite responsabilità e compiti, come staffette, come partigiane, come protagoniste della Resistenza non armata, infine come componenti dei “gruppi di difesa della donna”.
È nel 1946 che si concretizza quello che per molto tempo era stato il sogno impossibile e che ora, dopo la Resistenza, appariva come imprescindibile, al di là di ogni pregiudizio e di ogni timore. E non è un caso, che sempre nel 1946, e proprio a seguito del voto del 2 giugno, fu eletta l’Assemblea Costituente, si diede vita - cioè - al percorso che doveva creare le condizioni di vita e di rapporti politici e sociali (anch’essi sognati nella Resistenza e finalmente avviati alla realizzazione ) creando la struttura di quella che diventerà poi la nostra Costituzione, destinata a durare nel tempo.
Per tutto questo, oggi il 2 giugno non può essere festeggiato solo come l’anniversario di una scelta, pur decisiva, ma deve essere considerato nel contesto di tutti gli anniversari che si celebrano nel 2016, perché fra di essi vi è un legame strettissimo e indissolubile (Repubblica, voto alle donne, Costituente), riconducibile ad un’unica matrice, la Resistenza ed alla volontà di riscatto del popolo italiano.
Forse, nella mente dei vincitori del voto del 2 giugno, vi fu solo in parte questa consapevolezza complessiva; forse si coltivavano perfino speranze eccessive, al limite delle illusioni. Ma intanto il dado era tratto, con la forma di Stato, col riconoscimento del diritto universale di voto, con le basi gettate - con la Costituente - per una Costituzione radicalmente innovativa, che fosse di rottura netta col passato, ma anche di premessa ed impegno per un futuro socialmente, politicamente e democraticamente diverso.
Tutto questo significa, dunque, oggi, il 2 giugno; e come tale lo festeggeremo, anche se attraversiamo una fase non facile ed anche se è in atto uno scontro proprio sulla Costituzione. Ma siamo intenti a “celebrare” la ricorrenza, non tanto sulla base del ricordo storico, quanto e soprattutto sulla base della conoscenza e della riflessione: per capire meglio chi siamo e da dove veniamo e per guardare ad un futuro che potrà essere ancora incerto, ma non potrà mai prescindere dalle scelte di settant’anni fa e di ciò che hanno rappresentato e rappresentano tuttora nella vita e nei sentimenti del nostro Paese.
Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi
* ANPI, 31 Maggio 2016
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
Un miracolo della ragione
Una Repubblica destinata a durare nei secoli, secondo Calamandrei. Ma civismo, valori e ideali non si sono radicati
di Emilio Gentile (Il Sole-24 Ore, Domenica, 29.05.2016)
La repubblica italiana compie settanta anni il 2 giugno 2016. Il 9 giugno 1946, sette giorni dopo il referendum con il quale la maggioranza degli elettori italiani, uomini e donne, aveva deciso la fine della monarchia, Piero Calamandrei affermò: «Una Repubblica nata così è destinata a durare nei secoli». La nascita della repubblica in Italia appariva al grande giurista un «miracolo della ragione», il miracolo, cioè, di una «realtà pacifica e giuridica scesa dall’empireo degli ideali nella concretezza terrena della storia, entrata senza sommossa e senza guerra civile nella pratica ordinaria della Costituzione».
Nonostante un ventennio di regime totalitario legittimato dalla monarchia, seguito da cinque anni di disastroso coinvolgimento dell’Italia in una guerra mondiale, con gli ultimi due anni insanguinati da una spietata guerra civile fra italiani politicamente divisi in due Stati nemici, alleati, su fronti opposti, con eserciti invasori che si combattevano ferocemente nella penisola coprendola di cadaveri e di rovine - il 2 giugno 1946 con il referendum istituzionale il popolo italiano attuò pacificamente una rivoluzione democratica. «Mai nella storia è avvenuto né mai ancora avverrà, che una Repubblica sia stata proclamata per libera scelta di popolo mentre era ancora sul trono il re», affermò Calamandrei.
La campagna elettorale fra i partiti fautori della repubblica o della monarchia suscitò una appassionata partecipazione popolare, ed ebbe toni accesi e minacciosi: con la scelta della repubblica ci sarebbero stati salti nel buio o dispotismo comunista; con la scelta della monarchia ci sarebbero stati colpi di Stato reazionari o insurrezioni armate. A fomentare la polemica sopravvenne il 9 maggio l’annuncio dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio Umberto, con l’intento di favorire così la causa monarchica dissociandola dalle colpe del sovrano compromesso col fascismo. Tuttavia, la rottura della “tregua istituzionale” non fu drammatizzata dal governo dei partiti antifascisti presieduto da Alcide De Gasperi, e non mise in pericolo il pacifico svolgimento delle elezioni. Dalle province i prefetti comunicarono che le votazioni si erano svolte «nella massima calma e serenità». I commenti della stampa, sia repubblicana sia monarchica, lo confermarono: «Le votazioni si sono svolte nel più perfetto ordine e nella più perfetta legalità», scrisse il 4 giugno il giornale monarchico «Italia nuova».
Il referendum fu la più ampia votazione democratica fino allora attuata nella storia dell’Italia unita. 28.005.409 di elettori e di elettrici, pari al 67,1% della popolazione complessiva, si recarono alla urne per scegliere la forma di Stato e per eleggere i componenti dell’Assemblea costituente. Nelle ultime elezioni libere, che si erano svolte in Italia nel 1921, gli elettori, allora solo maschi, erano stati 11.477.210 (il 28,7% della popolazione). Inoltre, nel referendum del 2 giugno la percentuale dei votanti fu dell’89,1%, rispetto al 58,4 del 1921.
Le partecipazione elettorale, per le sue dimensioni, fu l’evento decisivo della pacifica rivoluzione democratica che diede vita allo Stato repubblicano. L’altro evento radicalmente innovativo fu la partecipazione al voto delle donne, alle quali per la prima volta nella storia italiana era riconosciuto il diritto elettorale attivo e passivo. Le donne votanti furono 1.216.241 in più degli uomini, smentendo così quanti avevano previsto, sperato o paventato, un ampio astensionismo delle elettrici. Furono 21 le donne elette all’Assemblea costituente, su un totale di 556 eletti. Prima del 2 giugno, le donne avevano già partecipato, fra marzo e aprile, alle elezioni amministrative in 5.722 comuni, dove il numero delle votanti (8.441.537) era stato già superiore al numero degli uomini (7.862.743). Più di 2000 donne furono elette nei consigli comunali.
La repubblica fu generata in Italia da uomini e donne in parità di cittadinanza. Dalle urne, uscirono 12.718.000 voti per la repubblica e 10.719mila per la monarchia. Il tentativo dei monarchici e dello stesso re Umberto di invalidare il risultato elettorale provocò dimostrazioni e scontri violenti - ci furono cinque morti a Napoli - ma il 13 giugno il re, dichiarando di voler evitare una guerra civile, partì per l’esilio. L’elezione del monarchico Enrico De Nicola a capo provvisorio del nuovo Stato repubblicano, votato dall’Assemblea costituente il 28 giugno 1946, valse a disinnescare il pericolo di nuovi scontri fra monarchici e repubblicani. I partiti monarchici che nacquero dopo la fine della monarchia operarono nel parlamento repubblicano per alcuni decenni, prima di estinguersi definitivamente.
A settanta anni dalla fine della monarchia, nessun pretendente al trono che fu dei Savoia insidia la repubblica italiana; tuttavia, nessuno può sapere se durerà nei secoli. La repubblica nata il 2 giugno non ha creato una propria tradizione di valori e di ideali, con salde radici nella coscienza del popolo italiano. Neppure la giornata della sua nascita è divenuta una festa nazionale collettivamente sentita e partecipata, come è il 4 luglio negli Stati Uniti e il 14 luglio in Francia. Addirittura nel 1977 la festa nazionale del 2 giugno fu abolita di fatto, per essere ripristinata soltanto nel 2000, senza però iniettare nel popolo italiano la vitalità del civismo repubblicano.
A settanta anni la repubblica nata il 2 giugno 1946 non gode in effetti una buona salute. Anzi, secondo talune formule coniate negli ultimi tre decenni dalla pubblicistica politica, e assurte forse frettolosamente a categorie storiografiche, la repubblica istituita settanta anni fa è deceduta nel 1992, trapassando alla storia come la Prima repubblica. Nel ventennio successivo, c’è stata una Seconda repubblica, che a sua volta è ora in agonia o prossima al decesso, mentre sembra che proprio nell’anno in cui ricorre l’anniversario della nascita della Prima repubblica, stia per nascere una Terza repubblica.
Questa sequela di repubbliche rivela l’esistenza di un male costante che da mezzo secolo almeno affligge lo Stato repubblicano italiano, esplodendo periodicamente in forme gravi. Per guarire la repubblica italiana dal suo male attuale, è forse necessario un altro «miracolo della ragione». Ma nessun miracolo potrà mai avvenire, senza l’intervento del popolo sovrano, che sappia però comportarsi da sovrano repubblicano.
2 giugno 1946 - 2 giugno 2016
La zona grigia nel nuovo Stato
di Raffaele Liucci (Il Sole-24 ore, 29.05.2016)
Per Primo Levi, la «zona grigia» era l’ambigua terra di nessuno fra bene e male, emersa nei campi di sterminio, ove «quanto più dura è l’oppressione, tanto più è diffusa tra gli oppressi la disponibilità a collaborare col potere». Ma la categoria della «zona grigia» sarà in tempi più recenti adottata anche dagli storici, per inquadrare quanti avevano vissuto da spettatori la Resistenza del 1943-45, con la speranza che la «nuttata» passasse presto. Una massa di attendisti, destinata a esercitare un peso elettorale maggioritario nella nuova repubblica, antifascista soltanto sulla carta.
Ora Carlo Greppi, giovane studioso torinese, presenta un suggestivo case study, incentrato sulla città sabauda nel 1943-45. Attorno alla lugubre caserma-prigione di via Asti, luogo deputato a fucilazioni e torture indicibili, ruotano diverse storie. Storie di vittime, di carnefici, ma soprattutto di «uomini in grigio», moralmente impreparati ad affrontare la tempesta addensatasi sulle loro teste. Vorremmo tutti identificarci nella cristallina biografia di Bruno Segre, partigiano oggi quasi centenario. Ma a incarnare l’Italia profonda era soprattutto il brigadiere Antonio M., il vero protagonista di queste pagine. Ultima ruota del carro nell’apparato repressivo repubblichino, costui tenne sempre il piede in due scarpe, barcamenandosi sino alla fine tra aguzzini e resistenti (nell’autunno del ’45, una Corte straordinaria di Assise lo condannerà a dieci anni di reclusione per «aiuto al nemico nei suoi disegni politici»).
Come valutare il volume di Greppi? Da un lato, non si può non apprezzare lo scavo compiuto dall’autore (memorie, documenti giudiziari, epistolari inediti), per riportare alla luce questa varia umanità. Possiamo così contemplare un panorama assai più problematico di quelli cui ci avevano abituati sia la mistica della lotta di Liberazione sia il reducismo di Salò, entrambi restii ad ammettere che la guerra civile fosse stata combattuta da due opposte minoranze, davanti a una platea di «imboscati». Invece, piaccia o meno, uno dei pilastri della nostra identità nazionale risiede proprio nella «zona grigia»: come dimostrerà il successo riscosso nel dopoguerra dall’«apota» Montanelli, il quale nel romanzo autobiografico Qui non riposano (settembre 1945) vergherà un esplicito elogio del colore grigio, «appunto perché non è né bianco né nero».
Dall’altro lato, suscita qualche perplessità il «montaggio» effettuato da Greppi. C’erano due modi per valorizzare questa messe documentaria: o con un libro pienamente narrativo e avvincente, alla Corrado Stajano, in grado di catapultarci nel clima plumbeo dell’epoca; oppure con un saggio storiografico in senso stretto, forse più arido ma anche più scrupoloso. Greppi ha scelto una via di mezzo, sfornando un lavoro né carne né pesce. Un intarsio aggrovigliato di storie, delle quali il lettore fatica a seguire il bandolo. Peccato, perché la carne da mettere sul fuoco era molta.
di Andrea Colombo (il manifesto, 27.05.2016)
Il pronunciamento netto a favore della riforma istituzionale col quale ieri Vincenzo Boccia ha inaugurato il mandato alla guida di Confindustria non è uno dei tanti pareri che piovono in questi giorni, in seguito alla scelta renziana di aprire la campagna referendaria con mesi di anticipo.
Sul sì degli industriali, che verrà ufficializzato il 23 giugno dal Consiglio generale dell’associazione, non c’erano dubbi. Le motivazioni dell’entusiasta sostegno degli industriali alla riforma meritano tuttavia di essere considerate con attenzione. Boccia infatti non le manda a dire: le riforme sono benvenute e benemerite perché devono «liberare il Paese dai veti delle minoranze e dai particolarismi», il cui perverso esito è stato «l’immobilismo».
Immobilismo? In un Paese in cui, nel 2011, un governo da nessuno eletto ma imposto dall’Europa e da un capo dello Stato che travalicava di molto i confini del proprio ruolo istituzionale ha stracciato in quattro e quattr’otto diritti e garanzie del lavoro conquistate in decenni, senza che quasi nessuno proferisse verbo? Con un governo che nella sua marcia ha incontrato un solo serio ostacolo, costituito non dalle minoranze e dai particolarismi ma da una parte integrante della truppa del premier, i cosiddetti catto-dem? Dal giorno dell’ascesa a palazzo Chigi di Renzi, anche lui senza alcun voto popolare, il loro è stato l’unico no che il governo ha dovuto ingoiare ma è improbabile che a questo alludesse Boccia. Per il resto nessuna minoranza e nessun particolarismo hanno trovato ascolto alle orecchie del gran capo.
Il problema è che gli industriali, proprio come la grande finanza e le centrali del potere europeo, stanno mettendo le mani avanti. Non hanno bisogno di intervenire sul presente, che dal 2011 gli va benone così com’è, ma sul futuro. Devono impedire che la democrazia, dissanguata in nome della crisi dei debiti e del voto del 2013, reclami domani diritti che sulla carta ancora avrebbe. Si tratta, non certo per la prima volta nella storia italiana, di rendere un’emergenza permanente.
Quello degli industriali non è un endorsement tra i tanti: è la vera chiave della riforma, la sua ragion d’essere. Per smontare la retorica sui guasti del bicameralismo che costringerebbe le leggi a transitare come anime in pena tra Montecitorio e Palazzo Madama basterebbero i dati sui tempi di approvazione delle leggi in Europa. L’Italia è nella media.
Da quel punto di vista il bicameralismo non desta preoccupazioni. I tempi diventano biblici solo quando leggi spinose vengono chiuse nel cassetto e lì dimenticate. Nulla, nel nuovo assetto disegnato dalla riforma, impedirebbe di farlo ancora, sia pure in una sola camera.
I poteri economico-finanziari, però, si sono convinti che produzione ed economia possano prosperare solo in una situazione di democrazia decurtata e in virtù di governi autoritari, tali cioè da non doversi misurare con «le minoranze e con i particolarismi», in concreto, con un libero Parlamento.
Come quasi tutti gli orientamenti imposti dall’Europa e dai poteri economico-finanziari si tratta di un dogma. Anche a voler accettare il prezzo salatissimo dello scambio tra democrazia e produttività, nulla garantisce che i risultati arriverebbero, anche solo in termini di efficienza produttiva. Proprio il caso dell’Italia, dove la democrazia parlamentare è soffocata da ormai cinque anni senza risultati apprezzabili, dovrebbe dimostrarlo, ma tant’è. Questa è la strada decisa da chi deve decidere per tutti.
Questo ha detto nel suo primo discorso il presidente di Confindustria. Scusate se è poco.
Cattolici e laici per un nuovo patto
di Agostino Giovagnoli (la Repubblica, 14.05.2016)
«HO giurato sulla Costituzione e non sul Vangelo», ha ricordato Matteo Renzi. Con lo stesso giuramento, però, si è anche impegnato «ad esercitare le sue funzioni nell’interesse esclusivo della nazione ». E nazione vuol dire tante forze diverse e tanti settori differenti che trovano la loro unità in una volontà comune e in un futuro condiviso, come scriveva Ernest Renan.
È in questo spirito che, nel marzo 1947, Alcide De Gasperi intervenne in Assemblea costituente per sostenere che la Chiesa doveva impegnare i vescovi a giurare fedeltà alla Repubblica e a seguire «la legge costituzionale dello Stato». «Non siamo in Italia così solidificati, così cristallizzati nella forma del regime da poter rinunziare con troppa generosità a simili impegni così solennemente presi ». Aggiunse però: «alla lealtà della Chiesa io credo che la Repubblica debba rispondere con lealtà».
De Gasperi temeva contraddizioni o conflitti laceranti per la duplice appartenenza del cittadino credente alla Chiesa e allo Stato e per la sua duplice fedeltà al Vangelo e alla Costituzione. Cercava perciò - uomo di profonda spiritualità, ma anche con grande senso storico - la conciliazione tra Chiesa e Stato soprattutto negli impegni concreti degli uomini. Credeva poco, infatti, nei principi astratti o in compromessi giuridici, cui cedettero invece Pio XI e Mussolini quando stipularono i Patti Lateranensi nel 1929 e a cui si affidarono ancora Pio XII e Dossetti per confermarli attraverso l’art. 7 della Costituzione.
Non lo spingeva una logica confessionale in difesa dei principi o degli interessi cattolici, ma una preoccupazione laica per lo Stato. È il sentimento di fondo che ha animato l’impegno complessivo dei cattolici nella stesura della Costituzione che, prima ancora di essere stata un compromesso sulle parole o sulle formule, è stata il frutto di un eccezionale sforzo costituente animato dall’incontro tra le grandi forze popolari.
È questa la preoccupazione che ha ispirato costituzionalisti cattolici come Mortati e Tosato, loro eredi illustri come Leopoldo Elia, e che ispira anche oggi tanti cattolici mentre si interrogano sulla riforma costituzionale. Proprio la larga condivisione del patto costituente, infatti, ha reso per decenni la Costituzione un riferimento fondamentale per tutti.
Ricordando di aver giurato fedeltà alla Costituzione, Renzi ha risposto a quelli che oggi minacciano il referendum sulle unioni civili o che vorrebbero bocciare la riforma costituzionale per ritorsione contro queste unioni. Sono i nostalgici dei “valori non negoziabili”, che nella Chiesa di papa Francesco hanno perso importanti sponde ecclesiastiche (anche se non tutte). Ma questioni più profonde vengono oggi sollevate soprattutto da uomini e donne che non sono lontani da Renzi e che vengono dalla sua stessa tradizione religiosa e culturale. Molti di questi ne apprezzano tante iniziative e l’orientamento di fondo. Sono però pure preoccupati non solo per questioni di merito - dal disinteresse per le autonomie locali all’ostilità verso i corpi intermedi - ma anche di metodo. Si può cambiare profondamente la Costituzione senza un ampio accordo costituente tra forze diverse? E si può trasformare l’esame di una materia così complessa in un plebiscito pro o contro chi governa?
La situazione in cui ci troviamo non è stata creata da Renzi, ma dalla logica del bipolarismo conflittuale di cui Berlusconi è stato il principale benché non unico responsabile. Nella Seconda Repubblica, la spinta divisiva si è estesa anche sul terreno costituzionale, come mostrano il fallimento della Commissione bicamerale per le riforme, voluto dal centro-destra (1998); le modifiche del titolo V, approvate dal solo centro-sinistra (2001); l’ampia riforma costituzionale, votata dal solo centro-destra (2005) e poi bocciata dal referendum confermativo (2006); la nuova riforma costituzionale approvata dal solo centro-sinistra (2016).
Intanto, sotto la spinta dell’antipolitica, lo strumento del referendum da quesito sul merito di una specifica legge si è trasformato sempre più in mezzo per mettere in difficoltà chi governa. Matteo Renzi non è responsabile di tutto questo e ha cercato di superare le trappole della contrapposizione esasperata, con scelte audaci come il patto del Nazareno, che gli ha attirato tante critiche. Ma poi è stato spinto anche lui verso una riforma costituzionale a maggioranza. Una scelta legittima, forse necessaria, ma certamente senza la forza di un nuovo patto costituente.
È probabile che, comunque vada, il prossimo referendum non costituirà l’ultima parola: dopo, ci sarà da riprendere uno sforzo forse ancora più decisivo, per un nuovo patto costituente condiviso da forze, culture e identità diverse.
Settant’anni di voto alle donne
di Giulia Siviero (Il Post, 10 marzo 2016)
Dire alle mie figlie che quando la loro nonna è nata le donne non potevano votare mi fa sempre una certa impressione. Nella classifica mondiale dei paesi che per primi approvarono il suffragio femminile, in testa c’è la Nuova Zelanda, 1893, poi l’Australia e i paesi scandinavi, la Russia (con la Rivoluzione d’Ottobre), la Gran Bretagna e la Germania dopo la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti nel 1920. In Italia le donne furono considerate cittadine al pari degli uomini solo alla fine dell’ultima guerra, il 10 marzo di settant’anni fa.
La conquista dei diritti politici non fu, come spesso si dice e si legge, una progressiva concessione o un’estensione dei principi liberali e democratici, ma il risultato di una lunga e dura battaglia. La rivendicazione dell’accesso alla sfera pubblica - che fin da Aristotele era stata costruita e definita sulla base dell’espulsione delle donne - provocò una tenacissima resistenza per uno specifico motivo: l’esclusione delle donne dalla vita pubblica era legata al loro assoggettamento nella sfera privata. Per questo il diritto di voto fu negato alle donne per più di un secolo e mezzo. E per questo la loro battaglia per quello specifico diritto andò ben al di là di esso.
La storia di questa battaglia inizia con un paradosso: Francia, 1789, rivoluzione. Le donne borghesi e le donne del popolo partecipano alla presa della Bastiglia, protestano, muoiono. E parlano. A teatro Olympe de Gouges mette in scena gli eventi rivoluzionari contemporanei e nel 1791 propone di rendere universali i diritti proclamati all’Assemblea nazionale estendendoli anche alle donne («Uomo, sei capace di essere giusto? È una donna che ti pone la domanda»). Nel 1793 finisce sulla ghigliottina. Nel momento fondativo dei sistemi rappresentativi moderni fu immediatamente chiaro che l’universalismo in base al quale erano stati dichiarati i diritti non era affatto universale, ma riguardava solo gli uomini. Il nuovo mondo aveva qualcosa in comune con il vecchio: il mantenimento di quella situazione di privilegio che i rivoluzionari volevano cambiare.
La prima via italiana al riconoscimento di un suffragio davvero universale fu quella giudiziaria. Il 17 marzo del 1861, la carta fondamentale della nuova Italia unita divenne lo Statuto Albertino che all’articolo 24 diceva: «Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi».
Una di queste eccezioni riguardava le donne, anche se non in modo esplicito. La riforma elettorale del 1882 concesse il diritto di voto a una parte consistente del movimento operaio portando il corpo elettorale dal 2,2 per cento delle popolazione a circa il 7 per cento, ma continuò a trascurare le donne. Così la successiva legge del 1895. Nel frattempo, nel 1877, Anna Maria Mozzoni, milanese, femminista e socialista, rifacendosi alle esperienze inglesi, francesi e statunitensi presentò una petizione al governo «per il voto politico alle donne», la prima di una lunga serie ad essere bocciata.
Nel 1881 Anna Maria Mozzoni e Paolina Schiff fondarono a Milano la “Lega promotrice degli interessi femminili”, nel 1903 diverse associazioni femminili si unirono nel Consiglio nazionale delle donne italiane affiliato all’International Council of Women e nel 1905 si formarono del comitati pro-suffragio femminile che promossero l’iscrizione nelle liste elettorali di donne che avessero i requisiti prescritti dalla legge. Il 26 febbraio del 1906 Maria Montessori sul giornale La vita scrisse un articolo in cui ribadiva l’invito specificando che la legge non poneva alcun esplicito divieto. Quello stesso anno le Corti di appello di sei città (Firenze, Palermo, Venezia, Cagliari, Brescia e Napoli) pronunciarono altrettante sentenze per bocciare il riconoscimento dell’elettorato politico alle donne che alcune Commissioni elettorali provinciali avevano accolto.
Il 4 agosto del 1906 la Corte di appello di Firenze disse ad esempio che un’interpretazione estensiva dell’articolo 24 dello Statuto avrebbe portato a concludere che «le donne non sono soltanto elettrici ma anche eleggibili». E dunque:
Clamorosamente, la Corte di appello di Ancona presieduta da Ludovico Mortara fu l’unica ad accogliere la richiesta di inclusione delle donne nelle liste elettorali. Era stata presentata da nove maestre di Senigallia e da una di Montemarciano e poiché non aveva precedenti ne parlarono tutti, giuristi e giornali. Al terzo e definitivo grado di giudizio la sentenza venne però rovesciata: non in base a quello che l’articolo 24 diceva, ma in base a quello che non diceva. In base, cioè, a una radicata consuetudine.
Fallita la via giudiziaria si tentò nuovamente quella della riforma legislativa: nel 1906 Anna Maria Mozzoni e altre 25 donne presentarono una nuova petizione. Il dibattito si svolse alla Camera nel febbraio del 1907 ma si concluse ancora una volta con un rifiuto.
Il 23 aprile del 1908, a Roma ci fu il primo Congresso nazionale delle donne italiane. La presidentessa Gabriella Rasponi Spalletti cominciò così: «L’avvenire è per il trionfo delle idee non dei partiti. Tutti i pregiudizi a riguardo delle donne cadranno se il Congresso saprà provare che è possibile un lavoro comune anche militando in campi diversi». Il Congresso durò diversi giorni e fu il tentativo di tradurre le richieste avanzate dal femminismo in precisi progetti di riforma da sottoporre al governo e al parlamento. Il diritto di voto fu il tema dominante e più discusso, ma si affrontarono le questioni del diritto all’istruzione e del diritto di famiglia; si parlò del divorzio, del diritto alla ricerca della paternità delle ragazze madri e del trattamento ingiurioso dei tribunali nei confronti delle donne vittime di violenza sessuale; si propose di introdurre nelle scuole l’educazione sessuale e di abrogare il matrimonio riparatore in caso di stupro.
L’unità si ruppe su un tema estraneo ai contenuti specifici del Congresso: la questione dell’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche. Negli accordi precedenti agli incontri venne deciso che quel tema non doveva essere discusso, ma durante i lavori le donne furono indotte da pressioni esterne a prendere una posizione: la questione fu posta ai voti e quel giorno la sala era affollatissima di uomini che chiesero di votare dicendo che avevano pagato 10 lire per la tessera e che dunque ne avevano diritto: «Noi donne paghiamo le tasse, non per questo voi uomini ci concedete il voto» disse loro Maria Montessori dalla tribuna. Ma gli uomini votarono, prevalse il rifiuto dell’istruzione religiosa e su questo cadde l’unità delle donne. Le molte forze che il Congresso era riuscito a riunire si dispersero.
Nel 1912 venne introdotto il suffragio universale maschile e per la prima volta fu applicato nelle elezioni politiche del 1913. La guerra interruppe però la lotta delle donne. Il 9 maggio del 1923 Mussolini, che era al governo da un anno, parlò del suffragio femminile e promise alle donne il voto amministrativo. In quello stesso discorso rassicurò gli uomini dicendo:
Nel 1925 entrò in vigore una legge che concesse ad alcune italiane la possibilità di eleggere gli amministratori locali. Tre mesi dopo, una riforma rimpiazzò i sindaci con i podestà e cancellò il voto amministrativo in generale. Le madri prolifiche dello stato fascista furono escluse dalla pubblica amministrazione e scoraggiate dall’istruzione superiore, venne proibita la vendita di contraccettivi e vennero stabiliti dei premi per le famiglie numerose. Molte femministe e molte delle militanti del Congresso del 1923 scapparono all’estero. Poi la guerra, di nuovo. E un nuovo attivismo, non appena fu costituito il Governo di Liberazione Nazionale. La prima richiesta per il suffragio femminile fu della Commissione per il voto alle donne dell’UDI, l’Unione donne italiane nata per iniziativa di alcune esponenti del movimento antifascista: fu sostenuta dalle rappresentanze dei centri femminili dei vari partiti e dal Comitato nazionale pro-voto nel quale confluirono le principali organizzazioni.
Il 30 gennaio del 1945 con l’Europa ancora in guerra e il nord Italia sotto l’occupazione tedesca, durante una riunione del Consiglio dei ministri si discusse del suffragio femminile che venne sbrigativamente approvato come qualcosa di ovvio o, a quel punto, di inevitabile. Il decreto fu emanato il giorno dopo: potevano votare le donne con più di 21 anni ad eccezione delle prostitute che esercitavano «il meretricio fuori dei locali autorizzati». Nel decreto venne però dimenticato un particolare non da poco: l’eleggibilità delle donne che venne stabilita con un decreto successivo, il numero 74 del 10 marzo del 1946.
Sui giornali se ne parlò pochissimo con l’eccezione dell’Unità che dedicò alla notizia un editoriale piuttosto ambiguo:
La prima occasione di voto per le donne furono le amministrative del 1946: risposero in massa, con un’affluenza che superò l’89 per cento. Circa 2 mila candidate vennero elette nei consigli comunali, la maggioranza nelle liste di sinistra.
La stessa partecipazione vi fu per il referendum del 2 giugno. Le elette alla Costituente (su 226 candidate) furono 21 pari al 3,7 per cento: 9 della Democrazia cristiana, 9 del Partito comunista, 2 del Partito socialista e una dell’Uomo qualunque. Cinque deputate entrarono poi a far parte della “Commissione dei 75”, incaricata dall’Assemblea per scrivere la nuova proposta di Costituzione. Alla socialista Merlin si deve la specifica della parità di genere inserita all’articolo 3.
Di fronte a quella novità gli uomini e i giornali ebbero atteggiamenti diversi. Il Messaggero, ad esempio, raccontò la più giovane deputata eletta chiamandola “deputatessa” (apprezzabile lo sforzo) e descrivendo i suoi riccioli:
Il primo intervento di una deputata della prima legislatura su un tema non femminile fu invece raccontato così da Anna Garofalo:
Un padre di famiglia
di Giuseppe Di Lello (il manifesto, 07.04.2016)
Un padre e una madre, sposati in chiesa con rito concordatario e poi la prole: quella di Totò Riina è una vera famiglia italiana secondo gli stringenti canoni formali dei partecipanti al family day. Come tale si comporta anche nella sostanza, con il marito attento all’educazione dei figli, premuroso e sempre presente, specialmente la sera a cena quando la famigliola si ritrova intorno al desco, non sappiamo quanto frugale.
Poi, come in ogni famiglia normale, tutti insieme si guarda anche la Tv e ci si aggiorna col telegiornale.
Scorrono le immagini delle stragi di Capaci o di Via D’Amelio e il patriarca, forse tra sé e sé, o forse ad alta voce, perché nelle famiglie normali non ci debbono essere segreti, pensa che sarebbe stato molto più gratificante essere sui luoghi al momento di quelle esplosioni, dato che era stato lui a deciderle, programmarle e farle eseguire: poi però, per qualche contrattempo, avrebbe potuto far tardi per la cena familiare e questo non se lo poteva permettere.
La mia è una ricostruzione fantasiosa del menage familiare dei Riina, ma non troppo azzardata, posto che il rampollo ospitato dalla Tv di stato a «Porta a porta» ne ha propagandato più o meno una immagine abbastanza simile. Il suddetto ha ovviamente escluso ogni riferimento a Cosa nostra che senza dubbio nelle conversazioni familiari doveva ricorrere spesso, viste le dure condanne per mafia collezionate da tutti i maschi e, certo, non a loro insaputa.
Ogni anno non vi è scuola che non organizzi un corso sulla legalità e contro le mafie, giornate del ricordo, messe di suffragio, cortei e chi più ne ha, ne metta: poi la Tv di stato ci regala una patetica performance per dirci che i valori della famiglia, quella normale secondo concordato, possono essere coltivati anche in quella di un mafioso come Totò Riina, che si prende somma cura dei suoi figli, anche se poi, fuori dalle sue mura domestiche, ha fatto ammazzare decine di figli degli altri: questo purtroppo è il messaggio che passa.
Non c’è dubbio che non è «informazione», anche se censurarla sarebbe arduo perché solo nei regimi autoritari ci sono canoni standard ai quali adeguare le «opere dell’ingegno».
La Tv di stato, però, pur essendo libera di mandare in onda il Riina junior show, avrebbe dovuto spiegare che era una fiction, dato che nella realtà si trattava non di una famiglia normale, ma di una famiglia mafiosa.
Scandalo Vespa? Ma no, Vespa è il padrone della televisione e fa quello che vuole, anche perché tutto il mondo politico, trasversale quanto mai, sbava per sprofondarsi nelle poltrone del suo salotto consapevole che chi non è invitato non conta granché.
Per una sera questa massa di ipocriti si strapperà le vesti per l’offesa al sentimento antimafioso degli italiani e alle vittime di Totò Riina, ma poi, da domani, tornerà a chiedersi ansiosa quando arriverà il sospirato invito.
l’opinione
Claudio Fava sull’intervista al figlio di Riina:
“LE DOMANDE GIUSTE”
di Redazione (Sud, 06/04/2016)
Il problema non è intervistare il figlio di Riina o Totò Riina in persona o un altro macellaio mafioso. Il problema è come lo intervisti.
Le domande che gli fai. Le risposte che pretendi di ottenere. Senza piaggerie, senza untuosità. Il punto è che se davanti hai il figlio di Totò Riina non gli permetti di costruire il siparietto su quant’era bravo e premuroso quel padre, che tanto della mafia se ne occupano i tribunali. Se quell’intervista hai voglia (e le palle) per farla, la fai come si deve: costringendo il cerimonioso rampollo a parlare degli ammazzati collezionati dal padre, dell’odore del napalm che attraversava quegli anni palermitani, dei soldi accumulati dal suo genitore, del potere esercitato, delle obbedienze ricevute. Dei suoi amici, gli chiederei. Dei protettori, dei servi, degli imbelli. Gli chiederei di parlare di Cosa Nostra, altrimenti aria!
Io lo avrei intervistato, il figlio di Riina. Come a Panama ho intervistato il generale Noriega. In Somalia il signore della guerra Aidid. A Bagdad il vice di Saddam, Tarek Aziz quando il suo capo era in guerra col mondo. E in Salvador il colonnello D’Abuysson. A Roberto D’Abuysson chiesi, senza giri di parole, se fosse vero che monsignor Romero l’aveva fatto ammazzare lui. Non mi rispose: si tolse gli occhiali a specchio, li pulì a lungo, li inforcò di nuovo, mi guardò. E non mi rispose. Poi mi disse che l’intervista era finita. Fu la mia migliore intervista.
Ve lo ricordate Peter Arnett quando intervistò Saddam che aveva appena invaso il Kuwait? Arnett era l’unico americano a Bagdad, un potenziale e preziosissimo ostaggio.
In quell’intervista mise in ginocchio il rais, gli tolse il sorriso dalla bocca, lo umiliò senza insultarlo: bastarono la schiena dritta e le domande giuste.
Un’intervista magistrale.
Il punto è che Vespa non è un giornalista. O meglio: con il figlio di Riina o di Casamonica non gli interessa fare il giornalista. Non ha la schiena dritta. Fa le domande sbagliate. Gli serve solo l’audience. E se per un punto di share in più conviene parlare del natale in casa Riina piuttosto che dell’estate di Capaci, Vespa questo farà. Insomma, un intrattenitore, un imbonitore, minuscolo con i potenti, gradasso con i vinti. E non risolvi nulla se metti a fianco dell’intervista al giovane Riina l’altra intervista a un orfano di mafia: cos’è, mafia e antimafia? Un auditel del dolore? Un modo per ripulirsi la coscienza?
Se il figlio del capo dei capi di cosa nostra scrive un libro e ha voglia di farsi intervistare deve venire a spiegarci quello che noi vogliamo sapere, non quello che lui vuole dirci. Al posto della Rai, l’intervista l’avrei fatta ma l’avrei affidata a uno dei suoi giornalisti (qualcuno c’è...) che le domande sa farle senza chiedere permesso, che non si sarebbe accontentato dei teatrini familiari di casa Riina ma avrebbe preteso dal signor figlio di parlare di tutto il resto. Oppure, meglio, l’avrei fatto intervistare da uno delle decine di giovani e bravi cronisti che gli amici di Riina minacciano ogni giorno di morte e di scomunica, che sono costretti a vivere sotto scorta, che fanno questo lavoro per quattro euro ad articolo.
E se a quel punto Riina junior s’offendeva, non voleva, si rifiutava: bene. Era quella l’intervista.
La difesa del crocifisso non aiuta l’inclusione
di Tomaso Montanari (la Repubblica, 31.03.2016)
DA cristiano, prima ancora che da cittadino, sono stato profondamente colpito da un passaggio dell’incalzante meditazione con cui papa Francesco ha chiuso la Via Crucis del Venerdì Santo. Con una scelta davvero molto forte, il pontefice ha incluso tra i peccati devastanti di un’umanità che torna a crocifiggere Cristo (stragi, terrorismo, vendita di armi, pedofilia, corruzione, distruzione dell’ambiente...) anche un’opinione: «O Croce di Cristo - ha detto Francesco - ti vediamo ancora oggi in coloro che vogliono toglierti dai luoghi pubblici ed escluderti dalla vita pubblica, nel nome di qualche paganità laicista, o addirittura in nome dell’uguaglianza che tu stesso ci hai insegnato».
Se non è mai facile, per un cristiano, dissentire dal papa, lo è ancora di meno di fronte a questo papa: così evidentemente profetico, ed evangelico. D’altra parte, è difficile non interrogarsi sulle conseguenze di questa fortissima - per quanto implicita - riaffermazione della necessità di una società cristiana, e addirittura di uno Stato cristiano.
Perché, naturalmente, la presenza del crocifisso nelle aule pubbliche italiane è regolata dallo Stato, per legge. Per le scuole essa fu prescritta dalla legge Casati (promulgata nel Regno di Sardegna nel 1859, e poi estesa all’Italia unita), e poi fu duramente ribadita (a colpi di circolari, decreti e ordinanze) durante il fascismo.
Dopo che la revisione del Concordato del 1984 aveva esplicitamente recepito la svolta costituzionale per cui il cattolicesimo non è più religione di Stato, è sorto un forte dibattito pubblico (ripercorribile in Sergio Luzzatto, Il crocifisso di Stato, Einaudi 2011) sull’opportunità di rimuovere i crocifissi dalle aule statali.
I vari tentativi di intraprendere, a questo fine, la via giudiziaria si sono fermati di fronte a una sentenza della Corte di Strasburgo del marzo 2011, che - ribaltando una sua altra sentenza - ha stabilito che il crocifisso non è, in Italia, un simbolo religioso attivo, ma un elemento culturale e identitario “passivo”, e come tale incapace di agire sulla coscienza degli alunni. Mentre, in Italia, la Conferenza episcopale esultava, il rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, osservò che «dire che il crocifisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto».
Da cristiano formatosi sui testi di don Lorenzo Milani - che tolse il crocifisso dall’aula della sua scuola - mi trovai perfettamente d’accordo con quel giudizio: perché profondamente convinto della non passività del crocifisso.
Da cittadino dell’Europa dilaniata dalle bombe di Parigi e Bruxelles mi chiedo oggi se non abbiamo nuove ragioni per essere in disaccordo con quella sentenza - e con il papa. Combattiamo la mostruosità di un sedicente Stato Islamico: dove ad essere mostruosa è la pretesa di essere uno Stato, ma anche quella di essere islamico. Ed è l’unione delle due cose, cioè la mescolanza tra Stato e religione, a ripugnarci profondamente.
Non è forse questo un buon motivo per essere più radicalmente fedeli alle nostre convinzioni, quelle su cui si basa questa ripugnanza? Non è forse il momento in cui i cristiani d’occidente ribadiscano con forza che la laicità dello Stato, la neutralità religiosa dello spazio pubblico e un rispetto incondizionato per le minoranze religiose non sono altrettante “paganità laiciste”, ma valori non sradicabili dalla nostra identità di cittadini?
Lungi dall’essere un cedimento, una simile scelta sarebbe la più ferma delle risposte: non accettiamo il ruolo dei crociati. Da cristiano credo che Gesù ci abbia insegnato l’uguaglianza più radicale. Ma da cittadino italiano credo nell’articolo 3 della Costituzione, che ci invita a rimuovere gli ostacoli che impediscono un’uguaglianza sostanziale. E credo che, facendo questa distinzione, si obbedisca anche al precetto evangelico che obbliga «a dare a Cesare, quel che è di Cesare». Come scriveva Mario Gozzini nel 1988, “la fede cristiana non ha bisogno di orpelli statali per essere testimoniata come fermento che rende più umano il tessuto sociale”.
Naturalmente questo non significa affatto ridurre la fede ad una dimensione privata: «Che la religione nelle società democratiche e laiche debba avere una rilevanza pubblica, per me è del tutto pacifico» (così Luigi Manconi nel suo recentissimo, e bellissimo, Corpo e anima. Se vi viene voglia di fare politica, Minimum fax 2016). Ma la rilevanza pubblica è ben altra cosa dall’imposizione attraverso le leggi dello Stato: ed è precisamente in questo che i criteri e i valori in cui ci riconosciamo sono diversi da quelli di chi sta seminando la morte nelle strade dell’Europa.
Nelle classi dei miei figli (scuola primaria pubblica, centro di Firenze) ci sono diversi bambini musulmani: che non hanno una moschea in cui pregare (finora il Comune e la Curia hanno remato contro), ma ogni mattina trovano un crocifisso nella loro aula scolastica. Se vogliamo lavorare all’Italia in cui questi bambini saranno tutti egualmente cittadini, dobbiamo lasciarci alle spalle il retaggio non certo del cristianesimo, ma della legge Casati.
Il modo più carico di futuro per reagire al terrore è costruire una società più inclusiva: una comunità civile che sappia essere davvero di tutti. Un’Italia in cui chi è arrivato all’ultima ora abbia gli stessi diritti di chi c’è fin dall’inizio: come dice la Costituzione (e come dice il Vangelo).
Sebben che siamo donne il voto ce l’abbiamo
Fra timori e diffidenze bipartisan dei partiti, ansie e tremori delle interessate, il 10 marzo 1946 le italiane andarono alle urne per la prima volta. E furono più numerose dei maschi
di Mirella Serri (La Stampa, 02.03.2016)
Meglio evitare il rossetto quando si va a votare. La scheda va incollata. Uno sbaffo vermiglio può essere fatale. Fioccano sulla stampa nazionale gli avvertimenti su come le donne si devono comportare. Senza distinzione di censo o di cultura, signore e signorine, operaie e intellettuali sono attanagliate dall’ansia: la comunista Clelia confessa «mi tremavano le mani, le gambe, le braccia», mentre la scrittrice Maria Bellonci ricorda di aver avuto «voglia di fuggire quando mi trovai in quella cabina di legno antico con in mano il lapis e la scheda», e la romanziera Anna Banti era ossessionata dal terrore di rendere nullo quel passo.
Non c’è da stupirsi: le italiane, in cinque turni dal 10 marzo al 7 aprile 1946, si trovarono di fronte al battesimo del voto, ovvero andarono a deporre per la prima volta la scheda nell’urna. Si trattava di elezioni amministrative. Preoccupazioni analoghe si ripresenteranno il 2 giugno dello stesso anno per la designazione dei membri dell’Assemblea Costituente e la fondamentale scelta tra Monarchia e Repubblica.
Nonostante i diffusissimi timori femminili, però, a inciampare sulla scena politica non furono le neo votanti, ma proprio i rappresentanti dei partiti di massa che si contendevano le loro preferenze, Palmiro Togliatti e Alcide De Gasperi. I due leader del Pci e della Dc, nel decreto n. 23 del febbraio 1945, estesero il suffragio alle italiane che avessero almeno 21 anni. Esclusero le prostitute schedate, quelle che lavoravano al di fuori delle case chiuse dove era concesso di esercitare la professione. Però, mentre riconoscevano quell’ambito diritto alle donne, dimenticarono la loro eleggibilità. Proprio così. Le donne potevano essere solo elettrici ma non elette. E questa svista verrà corretta solo nella primavera del 1946.
Il lamento di Togliatti
Oggi che festeggiamo i 70 anni da quello storico avvenimento che ci rese cittadine a pieno titolo, è lecito dunque porsi la domanda: fu una distrazione intenzionale e voluta oppure si trattava una specie di lapsus freudiano su un voto femminile che preoccupava e intimoriva le forze politiche che pure lo sostenevano? Adesso, dopo anni di studi e di dibattiti (da Anna Rossi Doria, autrice di una delle prime ricerche, al volume di Giulia Galeotti), si può sostenere la seconda ipotesi: il voto alle donne fu concesso quasi alla chetichella, al termine di un affaticato Consiglio dei ministri che aveva esaminato a lungo i collocamenti a riposo dei funzionari epurati. Non vi fu né una discussione né alcuna eco delle animate battaglie sostenute prima e dopo la Grande guerra e durate fino al momento in cui, nel 1925, tra berci, lazzi e rumori molesti (così registra il verbale di quella storica seduta parlamentare), Mussolini eliminò definitivamente ogni speranza di suffragio esteso al gentil sesso («le donne sono sufficienti per un’ora di spasso ma non adatte a un calmo ed equilibrato lavoro»).
Due settimane prima del decreto il liberale Manlio Lupinacci, con una specie di voce dal sen fuggita, dava corpo ai timori maschili: «Ho una certa diffidenza istintiva, tradizionale verso la partecipazione della donna alla vita politica. È questa l’unica vera base di ogni opposizione di noi uomini». Poi però dichiarava di voler battere la strada della ragione. La quale comunque appariva ricca di trappole. «Le donne pencolano verso il passato reazionario», si lamentava Togliatti, e pure la leader comunista Teresa Noce concordava. Il Migliore temeva di turbare l’elettorato persino con la commistione dei sessi: propendeva per liste divise tra uomini e donne nelle circoscrizioni. Per fortuna non se ne fece niente.
Le paure della Dc
Analoghe visioni agitavano i democristiani, i quali presentivano un vantaggio della destra conservatrice portato dalla scheda femminile. Per di più il voto alle donne veniva spesso associato allo spauracchio del divorzio, tanto che il comunista Concetto Marchesi sostenne che era prematuro pure parlarne, considerato il basso reddito delle famiglie. Nemmeno le partigiane si accesero di entusiasmo per l’agognata scheda: votare per le donne «è una cosa normale, naturale», sottolineò Ada Gobetti e anche la piemontese Marisa Ombra riscontrò dentro di sé «una flebile reazione», come qualcosa di dovuto. Tutti poi presagivano l’assenteismo femminile. Era opinione comune che le massaie italiane, nelle domeniche stabilite per legge, più che di recarsi alle cabine elettorali fossero desiderose di attardarsi ai fornelli.
Si realizzarono queste paure condivise da azionisti, esponenti dello Scudo crociato, della Falce e martello e pure dai seguaci di Benedetto Croce? No, la partecipazione femminile diede uno schiaffo alla politica e fu altissima, anzi molto più alta che negli altri paesi europei: le votanti furono l’89 per cento delle aventi diritto, ovvero il 52,2 per cento dell’elettorato.
L’astensionismo femminile fu inferiore a quello maschile, sempre al contrario di quel che avvenne in altri paesi del Vecchio Continente. Le donne, poi, andarono alle urne più nei paesi piccoli che nelle grandi città, in numero maggiore dei votanti maschi del Sud, e assicurarono la loro presenza più alle elezioni politiche del 2 giugno che non alle amministrative. Cancellando il pregiudizio di avere più a cuore gli interessi di casa e bottega che non quelli del Paese.
Un successo inatteso
E le neoelette? Le candidate furono poche, dal momento che i partiti faticavano ad accettare la presenza femminile - la Dc, per esempio, aveva inserito un solo nome in ogni circoscrizione - e per giunta molte liste delle elezioni amministrative erano state preparate prima che fosse riconosciuta l’eleggibilità delle donne. Però la truppa rosa fu più consistente del previsto e nella primavera del 1946 entrarono nei consigli comunali oltre duemila donne, mentre le rappresentanti del gentil sesso alla Costituente furono 21 su 558 componenti, pari al 3,7 per cento dei deputati (9 per la Dc, 9 per il Pci, 2 per il Psiup e 1 per l’Uomo Qualunque). Paradossalmente la presenza femminile andò diminuendo nelle successive elezioni (una tendenza che si riscontrò, per esempio, anche nei consigli comunali piemontesi, dove le 64 elette del 1946 scesero a 47 cinque anni dopo).
Questi incredibili e inaspettati successi aprirono la strada a una nuova considerazione femminile? Teresa Mattei, designata all’Assemblea Costituente, fu assai festeggiata. I suoi meriti? «Era la più giovane, venticinquenne, aveva molti bei riccioli bruni e due occhi vivi». Altro che ingresso da cittadine nella sfera pubblica! Il voto sembrerà per anni un regalo immeritato. Però le italiane imparano dalla loro stessa storia. Il 10 marzo 1946 sanano il lapsus originario andando in massa a eleggere i loro beniamini/e e iniziano un lungo e, bisogna dirlo, per tanti versi fortunato viaggio: nelle istituzioni, nella mentalità, nel costume, nel mondo del lavoro, sempre per mettere una pezza a quella significativa distrazione.
Unioni civili, un brutto primo passo
Diritti. Aveva visto giusto Antonio Gramsci: il problema della debolezza liberale in Italia sta nella presenza non tanto del cattolicesimo ma del Vaticano e del suo grande potere di veto
di Nadia Urbinati (il manifesto 27.02.2016)
Sì, vi è da rimanere delusi per l’incapacità dei nostri rappresentanti di andare oltre gli ostacoli del pregiudizio; per l’incapacità di osare di sentirsi davvero liberi legislatori che rispondono alla richiesta di eguali diritti che viene dal paese. E vi è di che rammaricarsi che il Pd sia così miscellaneo sui valori fondamentali (una tara che si porta dietro fin dalla nascita) da essere incapace di approdare a una decisione unanime, dando l’impressione che si tratti di due partiti in uno più che di un partito con visioni plurali.
Il bisogno di bussare alla porta di Verdini è da solo una dichiarazione di impotenza e pochezza. E c’è di che inquietarsi per la massiccia e nemmeno velata interferenza del clero romano con le istituzioni dello Stato. Aveva visto giusto Antonio Gramsci quando scriveva che il problema della debolezza liberale del nostro paese sta nella presenza non tanto del cattolicesimo ma del Vaticano.
La cattolicissima Irlanda è molto più libera nelle sue leggi della meno religiosa Italia. Il Vaticano ha un potere di veto che non deve essere sottovalutato mai. E per questo, avere una legge zoppa è un meno peggio. Ma sarebbe auspicabile non viverla come punto di arrivo e quindi come una sconfitta, ma invece trasformarla in un punto di partenza. Come punto di arrivo è semplicemente brutta e vergonsosa. Ma ci sono buone ragioni per cercare di verderla come punto di partenza.
La prima ragione sta nella natura stessa dei diritti - che aprono molte più strade di quel che una timidissima legge non faccia apparire. Una volta aperta la porta nessuno, nemmeno i prelati e i loro rappresentanti nelle istituzioni dello Stato, potranno chiuderla. I diritti vengono a grappolo e la vita delle persone si imporrà. La forza del diritto sarà la forza della vita.
Questa legge brutta e zoppa sulle unioni civili verrà usata subito (per esempio per risolvere il problema lasciato aperto delle adozioni) e subito mostretà la propria insufficienza, la necessità di modificarla. Le maggioranze in Parlamento non possono fermare il torrente della vita che segue la libera scelta delle persone. Il diritto è ben oltre questa legge e sfiderà questa legge. La quale quindi è solo un brutto e timidissimo primo passo, ma non può essere nè sarà l’ultimo.
La seconda ragione è più radicale e la si è toccata con mano nella discussione sulla maternità surrogata. La violenza della discussione alla quale abbiamo assistito ci deve far riflettere sull’opportunità che lo Stato non intervenga. E’ buona norma di un ragionevole liberalismo che quando si tratta di decisioni che coinvolgono valori e concezioni del bene è preferibile che la legge non intervenga fino a quando non si sia raggiunta una convergenza larga nella cultura morale della società. Ma fino a quando ci sono divisioni forti sui valori sarebbe meglio che la legge tacesse poichè non potrebbe evitare di essere ingiusta. Questo vale naturalmente per la maternità surrogata. Abbiamo già leggi che proteggono le persone e i minori dall’abuso, dalla mercificazione, dalla monetarizzazione - se non si dà reato o violazione dei diritti umani e delle norme che li proteggono, la legge dovrebbe tacere. Questo non può ovviamente valere per le unioni di coppia, poichè in questo caso l’esistenza dell’istituto del matrimonio rende fondamentale che la legge intervenga per regolamentarne l’estensione o la parificazione nei casi di unione tra non eterosessuali.
La terza ragione pertiene alla funzione liberatoria del diritto, ovvero alla ricchezza per tutti che il rispetto degli eguali diritti comporta e corporterà. La discussione al Senato ha mostrato l’assurdità di chi voleva servirsi della “fedeltà” per discriminare tra il “vero” matrimonio e le unione civili. Si pensava cioè di nobilitare il matrimonio degli eterossesuali attribuendo solo ad esso l’obbligo della fedeltà. Il paradosso è che la discussione ha dimostrato che sarebbe desiderabile che l’obbligo di fedeltà venisse a cadere anche per il matrimonio. L’esito di quella che è stata a tutti gli effetti un’intenzione discriminatoria si è rovesciato e ha mostrare quanto invadente e anacronistica e corcitiva sia la legge che regola il matrimonio degli eterosessuali. La maggioranza ha tutto da guardagnare dall’eguale diritto, dall’inclusione della minoranza. Le unioni civili tra persone dello stesso sesso possono costituire un arricchimento di libertà per tutti.
Queste ragioni delle implicazioni positive non rendono comunque buona una legge che non è buona. Mostrano tuttavia che da questo momento si può aprire un nuovo spazio di libertà - o meglio ancora, uno spazio alla contestazione e alla lotta per estendere e perfezionare il diritto all’eguaglianza che tutti devono avere di godere degli stessi diritti.
Il decreto emanato dalla Congregazione del Santo Uffizio del 1° luglio del 1949
Scomunica dei comunisti. Un errore da correggere
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 15.02.2016)
Caro Nitoglia,
Un cattolico adulto, come Romano Prodi definì se stesso, le risponderebbe che la Chiesa ha il diritto di essere ciecamente obbedita soltanto quando il suo capo parla ex cathedra; e aggiungerebbe che in ogni altra circostanza il fedele ha il diritto di alzare la sua voce e manifestare, con le dovute forme, il suo dissenso. Un osservatore laico sarebbe per molti aspetti ancora più liberale e riconoscerebbe alla Chiesa il diritto di decidere quali regole applicare ai suoi seguaci, anche quando possono apparire datate e anacronistiche. Ma non potrebbe accettare senza reagire quando la Chiesa interviene in materie che rientrano fra le competenze e le responsabilità dello Stato.
Il caso della scomunica ai comunisti è per l’appunto in questa categoria. Ricordo per i lettori che il decreto emanato dalla Congregazione del Santo Uffizio del 1° luglio del 1949 affermava:
«a) non essere mai lecito iscriversi ai partiti comunisti o dar loro appoggio, poiché il comunismo è materialista e quindi anticristiano;
b) che è vietato diffondere libri o giornali, i quali sostengono la dottrina e prassi del comunismo materialista ed ateo;
c) che i fedeli, i quali compiono con piena consapevolezza gli atti su proibiti, non possono ricevere i Sacramenti;
d) inoltre che i battezzati, i quali professano, difendono o propagandano consapevolmente la dottrina o prassi comunista, incorrono ipso facto nella scomunica riservata in modo speciale alla Santa Sede, in quanto apostati dalla Fede cattolica (l’apostasia è il passaggio dalla religione cristiana ad un’altra totalmente diversa - nel caso il materialismo ateo - e perciò più grave dell’eresia e scisma, quale sarebbe il passare dal Cattolicesimo al Protestantesimo».
Se questi divieti fossero stati applicati, più di sei milioni di cittadini italiani (i voti comunisti nelle elezioni del 1953 furono 6.121.922) sarebbero stati scomunicati e l’intera società cattolica italiana sarebbe stata implicitamente invitata a considerare la loro partecipazione al voto come nulla e non avvenuta.
Se questo fosse accaduto, avremmo avuto il diritto di considerarci ancora un Paese democratico? Non era necessario essere comunisti per considerare quel decreto una minaccia all’unità nazionale. In quegli anni il comunismo, per le sue teorie e le sue affiliazioni internazionali, rappresentava certamente un rischio e una minaccia. Ma occorreva combatterlo nelle urne e in Parlamento.
Aggiungo, caro Nitoglia, che nell’Italia di allora il decreto del 1949 avrebbe avuto l’effetto, in molti casi, di spezzare famiglie e amicizie. La Chiesa se ne accorse ed ebbe il grande merito di seppellire il decreto sotto una montagna di dubbi e incertezze. Di questo anche un laico deve esserle grato.
Un esame di civiltà per il Parlamento
Il diritto deve abbandonare la pretesa autoritaria di impadronirsi della vita delle persone
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 10.02.2016)
La parola “coscienza” incontra sempre più spesso, e spesso ambiguamente, la politica. Per ragioni tra loro diverse. La volontà di affermare una forte convinzione morale o religiosa, l’intenzione di manifestare un dissenso politico, il fine di differenziarsi e di tenere vivo il pluralismo. È la rivendicazione di una libertà di scelta diversa dalla linea del partito o della maggioranza del gruppo parlamentare al quale si appartiene.
Una rivendicazione che non sempre viene accolta. Ce lo ricorda la vicenda di alcuni senatori del Pd che, durante la discussione sulla riforma costituzionale, chiesero di votare in maniera difforme dalla linea del partito, e si trovarono sostituiti nella commissione dove le votazioni si sarebbero svolte. Ma abbiamo appena assistito ad un apprezzamento della libertà di coscienza nelle variegate indicazioni sulle unioni civili, com’è accaduto, tra mille polemiche, per i senatori del Movimento 5Stelle. Intanto, si dilata l’area dove la richiesta di libertà di coscienza si manifesta, da quando le questioni “eticamente sensibili” hanno cominciato ad occupare il proscenio della discussione pubblica. Così questa libertà è stata invocata anzitutto per i parlamentari chiamati a dare le regole nelle materie del nascere, vivere, morire, dei limiti e delle responsabilità della ricerca scientifica, alle quali si sono poi aggiunte le scelte in materia costituzionale.
Il bisogno di richiamare esplicitamente questa libertà nasce dalla crisi di una storica prerogativa del parlamentare, quella di esercitare “le sue funzioni senza vincolo di mandato” (così l’articolo 67 della Costituzione). Ma, liberati formalmente da quell’obbligo, gli eletti hanno poi conosciuto il ben più stringente vincolo rappresentato dall’appartenenza ad un partito che, in sede parlamentare, si trasforma nell’accettazione della “disciplina di partito”. Un vincolo che può essere sciolto solo dallo stesso partito, o gruppo parlamentare, che di volta in volta, e in casi ritenuti eccezionali, può lasciare liberi i suoi di votare come meglio credono.
Ma che cosa diviene una libertà di coscienza concessa dall’alto, subordinata al permesso dei superiori? Quanti parlamentari sono disposti a portare fino in fondo la loro richiesta, che diventa una sfida, costi quel che costi?
Per rispondere a queste domande, bisogna riferirsi al contesto, mutevole, nel quale si discute di libertà di coscienza. Negli ultimi tempi si è manifestata una forte nostalgia per il vincolo di mandato. Lo ha fatto esplicitamente, fin dalle sue origini, proprio il Movimento 5Stelle. E si è proposto di riconoscere anche in Italia il diritto degli elettori di revocare il mandato a singoli parlamentari, com’è previsto in altri paesi (negli Stati Uniti, ad esempio, sia pure con limiti e applicazioni del tutto rare). Sono reazioni evidenti ad un trasformismo parlamentare scandaloso e davvero senza precedenti, frenato in un passato neppure troppo lontano dall’esistenza dei partiti di massa e dalle forti connotazioni ideali che ne costituivano il cemento.
Scomparsi quei partiti, sostituiti da oligarchie con bassa legittimazione popolare, ecco riemergere un bisogno di rapporto diretto tra elettori e eletti, per garantire un controllo sull’azione dei parlamentari e per inserire così proprio un embrione di democrazia diretta nel contesto in crisi di quella rappresentativa. Non a caso i parlamentari 5Stelle sono definiti “portavoce”, e non “rappresentanti” dei cittadini.
Il tema della libertà di coscienza deve essere valutato in questo quadro di tensione tra difesa dell’autonomia del parlamentare (non posso “portare il cervello all’ammasso”, si diceva un tempo), coerenza dell’azione politico-parlamentare e suo controllo diffuso. Dobbiamo concludere che, in questa dimensione, la coscienza individuale ha le sue ragioni che la ragion politica non conosce?
Diciamo piuttosto che siamo di fronte alla necessità di ripensare lo stesso ruolo del parlamentare, per il quale la libertà nel voto può essere un modo per arricchire la discussione pubblica. Si tocca così il nodo aggrovigliato del voto segreto, sempre più presentato come un ostacolo alla trasparenza e alla moralità del parlamentare. Ricordiamo, però, che il parlamento italiano è diventato, e rischia di rimanere, un parlamento di nominati da una élite ristretta, sempre più incline a premiare la fedeltà e a restringere ogni possibilità di dissenso. So bene che uno spazio sottratto all’occhio dell’opinione pubblica è assai più luogo di imboscate e di manovre inconfessabili che opportunità per l’agire libero. Ma possiamo risolvere un problema reale negando che esista?
Vero è che gli impegni assunti dai partiti nei confronti dei cittadini che li hanno votati esigono poi comportamenti collettivi in grado di rispettarli, sì che non tutto può essere rimesso alla variabile opinione del singolo parlamentare. È comprensibile, quindi, che vi sia una valutazione politica dei casi in cui le ragioni della coscienza individuale possono prevalere sull’omogeneità dei comportamenti di gruppo. Ma quando le decisioni parlamentari diventano norme che incidono direttamente sull’autonomia delle persone nel governare la loro vita, la questione della libertà di coscienza deve essere considerata anche, o soprattutto, da un diverso punto di vista.
Qui la libertà da tutelare è, in primo luogo, quella della persona che deve compiere le scelte di vita. Il problema, allora, non riguarda la libertà di coscienza di chi stabilisce le regole: investe la legittimità stessa dell’intervento legislativo in forme tali da cancellare, o condizionare in maniera determinante, quelle scelte. Altrimenti si determina una asimmetria pericolosa: la libertà di scelta dei legislatori può divenire massima, quella dei destinatari della norma minima.
Il diritto deve abbandonare la pretesa autoritaria di impadronirsi della vita delle persone, di espropriarle del diritto fondamentale all’autodeterminazione. La politica, prima di preoccuparsi del dosaggio della quantità di libertà di coscienza somministrabile ai parlamentari, dovrebbe seriamente chiedersi se una materia affrontata rientri pienamente nella sua competenza o se questa spetti in primo luogo ai diretti interessati. E, in questo caso, fermarsi, senza doversi poi porre aggrovigliati e impropri problemi di libertà di coscienza. La discussione sulle unioni civili si sarebbe giovata assai di questa consapevolezza.
Questa linea non è volta a confinare ciascuno nella sua sfera privata, ma pone in modo corretto il rapporto tra sfera privata e sfera pubblica che, per essere riconosciuta, non deve affidarsi alla propria invadenza. Al contrario, la sua legittimità deriva in primo luogo dal rispetto per la competenza delle persone. Martha Nussbaum, concludendo la sua appassionata analisi della libertà di coscienza americana, ci ricorda che «l’eguale libertà di coscienza è difficile da creare, e ancor più difficile da realizzare ». Punto cardine del modo laico d’intendere il rapporto del cittadino con l’intero sistema istituzionale.
Il peso della piazza
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 08.02.2016)
LO SCONTRO sulla questione di come introdurre nella legislazione italiana il riconoscimento delle unioni tra omosessuali e il loro diritto ad adottare figli riguarda sempre più chiaramente non solo lo stato dei diritti civili nel nostro Paese ma prima ancora la verifica dei rapporti di forza tra Stato e Chiesa. C’è un dato importante da tenere presente: il peso politico esercitato dalla Chiesa come gerarchia ecclesiastica. Fu riflettendo su questo aspetto che Antonio Gramsci creò il concetto di egemonia.
Di fatto ogni volta che il Parlamento della Repubblica italiana si è trovato davanti a una scelta che sfiorava questioni di interesse della Chiesa abbiamo assistito a mobilitazioni politiche forti e diffuse. Questa volta la scelta cade in pieno Giubileo cattolico della misericordia e perfino un Papa che ci ha abituato a prese di posizione inattese e sconcertanti si è attestato sulla più tradizionale dottrina della Chiesa in materia di matrimonio. Di fatto, se ci può essere misericordia per gli omosessuali e si può consentire il riconoscimento civile dei loro legami affettivi, deve essere esclusa l’adozione di figli del partner.
E qui riconosciamo il volto attuale di un tabù antico: è il controllo del corpo delle donne che occupa da sempre un posto di primo piano nella gerarchia maschile della Chiesa. Da qui l’imperversare di progetti per prevenire e bloccare il pericolo di donne che quel loro potere di far figli lo mettano liberamente e generosamente a disposizione di coppie omosessuali.
C’è una presunzione di maggioranza esibita da coloro che si attestano sul rifiuto davanti all’ipotesi dell’adozione del figlio del partner. Angelino Alfano lo ha detto: «La maggioranza degli italiani è contro le adozioni gay». Una stessa presunzione si affaccia da tante voci, come quella di Gaetano Quagliarello: «Noi siamo minoranza in Parlamento, ma siamo convinti di essere maggioranza nel Paese ».
Da dove viene tanta sicurezza? È un fatto che questa convinzione si è fatta strada in seguito alla manifestazione del “Family Day”. Quello che ne ha gonfiato le bandiere è il vento che spira dal mondo ecclesiastico, le voci di un corpo che ha trovato finalmente nella questione del matrimonio legale tra omosessuali l’occasione buona per ricompattarsi, nella speranza di far dimenticare all’opinione pubblica scandali e durissimi scontri interni.
Da qui la grandinata continua di ammonimenti, di opinioni autorevoli sugli effetti negativi del crescere con due genitori dello stesso sesso; e quanta commozione si è spesa sulla disgrazia dei poveri bambini e sui danni immensi quanto sconosciuti del crescere deprivati di una coppia “naturale”. Tutta la furia spesa nella battaglia contro la “teoria del gender” trova oggi la sua spiegazione. Curiosamente nessuno parla più di quello che è accaduto nell’esperimento più antico e più noto di bambini affidati alle cure di sostituti genitoriali monosesso - preti, frati, monache.
Eppure in un’Irlanda più cattolica dell’Italia la storia delle violenze sessuali di gente di Chiesa su minori ha portato al risultato referendario del tutto inatteso di una larga maggioranza favorevole al matrimonio gay.
E gli italiani? Qui il mondo tradizionalmente laico, delle minoranze culturali e dei partiti di sinistra, sembra muoversi in ordine sparso, balbettando davanti alle certezze dei combattenti per la famiglia “naturale”, come Dio comanda. Affiorano argomenti dove al posto della ragione ragionante e della concreta valutazione dei fatti si incontra spesso un insolito afflato religioso, come di chi sente di toccare finalmente il fondo ultimo delle cose, di potersi riposare sul cuore della natura e della tradizione. E tanta commozione per i bambini: non quelli che muoiono nelle traversate del mare, non quelli che aspettano in Africa o negli istituti per orfani qualcuno che si prenda cura di loro. No, quelli futuri, ipotetici, condannati a crescere senza l’immagine “naturale” della famiglia - un’entità mutevole quanto le storie, i popoli e le culture del mondo.
Ora, sul voto del Paese è lecito scommettere per spaventare l’altra parte. Ma non è chiaro fino a che punto vogliano spingersi le minoranze parlamentari e la Chiesa che le sostiene. Se il gioco dovesse passare davvero nelle mani degli elettori, allora bisognerà ricordare che non è la prima volta che il Paese si trova davanti a scelte importanti sui diritti civili.
Anche quando si trattò dell’introduzione del divorzio e della legalizzazione dell’aborto la sensazione di stare sfidando il fondo più arcaico e immutabile dell’economia morale degli italiani rese timidi e riluttanti i partiti della sinistra. Ma la iattanza delle destre e dell’allora partito dei cattolici - oggi da rimpiangere nella sua funzione di argine all’ingerenza della Chiesa - durò solo fino al giorno del voto referendario. Poi lo spoglio dei dati elettorali sgombrò di colpo tutte le nebbie dal cielo della politica.
Il trucco del voto libero
NON è un altissimo valore ma un bassissimo trucco la libertà di coscienza, improvvisamente invocata da Beppe Grillo “contro” la sacrosanta legge sulle unioni civili.
di Francesco Merlo (la Repubblica, 08.02.2016)
È FURBISSIMA dissimulazione e non purissima moralità. Si sa infatti che la coscienza, soprattutto con il voto segreto, nella politica italiana è il nascondiglio dei traffici più illeciti, il modo per lasciarsi le mani libere o meglio la libertà del gioco di mano, con destrezza e secondo convenienza. Persino noi ci schierammo con Beppe Grillo nel settembre del 2013 quando, a proposito della decadenza di Berlusconi, il comico del malumore tuonò contro il voto segreto che, pur previsto dal regolamento, a quel tempo giustamente gli pareva «un abominio». Il «nascondiglio della coscienza - diceva allora - non protegge la moralità ma l’immoralità» e alimenta quel clima grottesco di sospetti in cui si impastano le ribalderie.
Aveva ragione. E infatti l’altisonante libertà di coscienza porta oggi il rivoluzionario Movimento 5 stelle nella piazza reazionaria del Family day. Alfano applaude Casaleggio che «ha riaperto la partita» e “Grillo contro Grillo” non è più il titolo dello spettacolo di teatro, ma è anche l’adesione alla scienza politica come gioco delle tre tavolette. È soprattutto il completamento dello sporcarsi in società dopo il comparaggio con i briganti di Quarto e i loro codici mafiosi.
Il trucco della libertà di coscienza disarma dunque il vaffanculo. E viene fuori il grillino teocon, Sergio Puglia, che come Giovanardi si batte contro «l’ignoto delle adozioni» in nome della «normalità ». La deputata Tiziana Ciprini come Eugenia Roccella rivela all’Avvenire che la legge «mette i brividi, come l’utero in affitto». Di Maio annuncia: «Abbiamo delle remore». Di Battista non vuole più il sabotaggio del sistema ma la grazia di Dio e, come ha raccontato Jacopo Iacoboni sulla Stampa, con il pio Nicola Morra viene ricevuto in Vaticano dal sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato, arcivescovo Giovanni Angelo Becciu. Intanto Roberta Lombardi, nell’ombra della cappella della Camera, sceglie come padre spirituale l’elegante ed erudito monsignor Fisichella.
E fregare Renzi alleandosi con Quagliariello in nomine Dei diventa più importante delle profezie delfiche e del governo planetario della Rete. Se una volta sul blog tra tamburi, triangoli isosceli e materia cerebrale, si annunziava «la fine delle religioni, delle ideologie, dei partiti» oggi Mattia Fantinati, nunzio apostolico del Movimento 5 stelle, dialoga con quelli di Cl per conto di Di Maio così come Acquaviva pregava Dio in nome di Craxi.
Ovviamente Grillo non ha mai concesso né mai concederà libertà di coscienza ai suoi parlamentari. Con la solita logica militare i soldati dell’indignazione etica contro la casta, contro i giornalisti che disinformano, contro i ladri di Stato e contro i colpevoli di ogni genere, insomma i giustizieri che dovevano «annegare i partiti nello sputo popolare» stanno diventando truppa dorotea.
Per esempio due settimane fa, proprio mentre denunziavano (giustamente) il traffico tra il faccendiere Verdini e il Pd di Renzi, i grillini, pur di impallinare il candidato renziano, eleggevano gioiosamente presidente della commissione Lavori pubblici del Senato l’ex ministro di Forza Italia, ex finiano, ex fascista Altero Matteoli, quel dolente signore che è giudiziariamente più inguaiato di Verdini e tuttavia sostiene: «Noi politici siamo migliori della società civile».
E però maneggiare la libertà di coscienza è molto più complesso che maneggiare il vaffanculo. Grillo non si illuda e vada a studiare la storia della Dc: la libertà di coscienza, una volta invocata, «nasconde più verità di quanta lana copre una pecora» ha scritto Ceronetti. È infatti impossibile che il presidente Pietro Grasso non conceda il voto segreto per gli articoli della legge Cirinnà eticamente più sensibili, non solo quello sulle adozioni.
Ma il voto segreto - vedremo chi lo chiederà - non libera le coscienze ma i franchi tiratori, i fucilatori protetti dall’ombra, quei cecchini che impallinarono Prodi, gli amici del nemico e i nemici dell’amico che per oltre sessanta anni furono l’incubo di tutti i governi italiani, a nessuno dei quali consentivano di governare.
La politica della ripicca di coscienza produce anche paradossi straordinari. Grillo potrebbe per esempio scoprire che, nella guerriglia di palazzo, nel tradimento programmato, nell’agguato all’alleato e nell’impallinamento di se stessi, persino un ultrà cattolico potrebbe segretamente preferire Renzi e il rafforzamento della legislatura ai propri “principi non negoziabili”. Capita, trafficando con i valori.
La giravolta di Beppe Grillo nei tortuosi corridoi politici degli atti indecenti e nell’Italia delle sacrestie e dei campanili, non è dunque lo scatto virtuoso e probo del pensiero liberale, da Croce a Raymond Aron. Grillo, che pure aveva annunziato il suo definitivo ritiro dal Movimento, la sua psicoanalisi liberatoria sul palcoscenico, e anche la sua totale adesione alla civiltà europea della faticosa ma necessaria legge Cirinnà sulle unioni civili, sta in realtà procedendo nella sbrindellata omologazione del movimento più scarruffato della nostra storia all’eternità della politica italiana dove “a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”. Grillo traffica infatti con il valore della libertà di coscienza non solo per mettere in imbarazzo Renzi, ma per far saltare la legge più moderna, non di destra né di sinistra, ma la più radicale che il Parlamento italiano possa approvare in materia di diritti civili, la sola che ci possa agganciare all’Europa.
E infatti già si parla di “stralcio”, “emendamento”, di un altro “super canguro”, che è il lessico del rinvio, la più crudele pena inflitta all’Italia, condannata all’eternità dell’indolenza, al mai prendere di petto le grandi questioni nazionali. Chi l’avrebbe detto che proprio Grillo sarebbe approdato alla morbidezza del peggio, al capriccio perverso dell’andreottismo, al rinvio come via italiana al vaffanculo?
Il lungo (e incompiuto) processo verso la famiglia fondata su amore e accoglienza
Si discute molto di famiglia e di figli in questo periodo. Ma troppo spesso si dimentica che di “naturale” la famiglia ha poco o nulla, che nella storia e nelle varie culture essa ha assunto connotati molto diversi, e molto spesso violenti nei confronti di donne e bambini. In questo contesto, che significa che “i figli non sono un diritto”?
di Chiara Saraceno *
“I figli non sono un diritto”. Vero, non c’è dubbio. Vale per tutti: per le coppie formate da persone di sesso diverso come per le coppie formate da persone dello stesso sesso, per le coppie come per i/le single. Ma che cosa significa esattamente che non sono un diritto? Che chi non è fertile, o ha un partner non fertile, non ha diritto di provare e viceversa che basta essere fertili (e in un rapporto di coppia eterosessuale) per avere automaticamente il diritto di avere un figlio? Quando si discute di diritti e li si aggancia ad una idea di “natura” e di “normalità” si intraprende una strada molto scivolosa. Una strada lungo la quale si incontrano molte violenze, in particolare contro le donne e i bambini, ma talvolta anche contro gli uomini.
Qualche secolo fa in Italia le donne nubili sospette di essere incinte venivano imprigionate per evitare che abortissero, salvo togliere loro i figli perché “indegne” di essere madri. In Irlanda, come ci ha ricordato il film Le Maddalene, la cosa è durata fino a qualche decennio fa con il beneplacito della Chiesa Cattolica. In nome della protezione della “paternità legittima” i figli nati da un uomo sposato fuori dal matrimonio non potevano essere riconosciuti da quello. E una madre coniugata che avesse un figlio con un uomo diverso dal marito, magari lontano o da cui era separata, aveva di fronte a sé solo due scelte: o non riconoscerlo affinché il padre, se non a sua volta sposato, potesse farlo lui, oppure tacere, attribuendone la paternità al marito. Il tutto con buona pace dell’oggi tanto sbandierato principio che i bambini hanno bisogno di un padre e di una madre, possibilmente biologici.
Nella legge 40, fortemente voluta da una grossa fetta dei parlamentari cattolici e la cui abrogazione per via referendaria è stata attivamente impedita dalla gerarchia cattolica, si è vietata sia la riproduzione artificiale con donatore o donatrice, sia il ricorso all’esame pre-impianto degli embrioni nel caso di aspiranti genitori portatori di malattie genetiche gravi, che avrebbero comportato sofferenze atroci all’eventuale nascituro. Ci sono volute sentenze delle Corti italiane ed europea per cancellare questa mostruosità voluta da parlamentari ottusi e arroganti che, con la benedizione della Chiesa, si arrogavano il diritto di dire chi può e in quali condizioni fare figli e chi no. Se dovessero poter avere figli solo coloro che sono fertili, e in coppia eterosessuale, dovremmo non solo condannare ogni forma di riproduzione assistita, inclusa quella con gameti della coppia, ma anche vietare l’adozione.
Nella nostra società e cultura da lungo tempo si è passati da un’idea che si facessero figli - in proprio o tramite adozione - vuoi perché “venivano”, come non sempre benvenuta conseguenza di un rapporto sessuale, vuoi perché utili alla dinastia o all’impresa famigliare, ma perché danno gioia e aprono al futuro. Come ha ammesso, con un lapsus involontario, lo stesso cardinal Bagnasco, la famiglia non è un fatto ideologico, bensì antropologico. Appunto, l’antropologia, e la storia, ci mostrano che qualunque sia la “famiglia voluta da Dio”, secondo la sorprendente e astorica definizione di papa Francesco, le famiglie umane vengono in forme e contenuti diversi.
Non c’è un’unica “famiglia umana”. Ed alcune forme di famiglia anche del nostro recente passato erano intrinsecamente violente nei rapporti di genere e generazione, non solo a livello individuale, ma proprio di conformazione istituzionale.
C’è voluto un lungo processo, non del tutto compiuto, perché la dimensione fondamentale, autenticamente generativa, della genitorialità fosse l’accoglimento e l’assunzione di responsabilità e perché la cifra della relazione genitori-figli (come per la coppia) fosse l’amore E’ su questo che si gioca il “diritto ad avere figli” o, meglio, a provarci, non di fronte alla legge, ma di fronte alla propria coscienza.
Le tecniche di riproduzione assistita, e più ancora la possibilità di ricorrere ad una madre gestante per altri, acuiscono ed esplicitano la necessità di effettuare - ciascuno nel proprio foro interiore - questa valutazione: non solo perché la scelta di diventare genitori è necessariamente più esplicitamente intenzionale, ma perché coinvolge più soggetti e modifica di poco o tanto il nesso tra coppia, sessualità, generazione. Di nuovo, vale per tutti, non solo per le persone omosessuali. Quando si smetterà di pretendere di possedere la verità e il monopolio della definizione di chi può fare famiglia e chi può avere figli, finalmente si potrà aprire una riflessione in cui tutte le parti possano trovare voce e ascolto, con rispetto e pazienza, per fare un passo ulteriore nel processo di civilizzazione della famiglia e dei rapporti di sesso e generazione.
Regolare le unioni civili come avviene in Europa
Uguaglianza La Chiesa deve difendere il matrimonio tra un uomo e una donna. Lo Stato deve approvare norme che diano gli stessi diritti a tutti. La rissa intorno alla stepchild adoption pare un pretesto per opporsi a una inevitabile svolta legislativa
di Beppe Severgnini (Corriere della Sera, 30.01.2016)
La Chiesa deve difendere il matrimonio tra un uomo e una donna. Lo Stato deve regolare le unioni civili, anche tra persone dello stesso sesso. I cittadini, di qualunque religione, devono rispettare la legge. I cattolici, di qualunque opinione, devono comprendere, amare e aiutare il prossimo.
Troppo semplice? O invece è inutilmente complicata la discussione cui assistiamo? Complicata e cattiva. In una questione dove l’amore è - dovrebbe essere - centrale, sembra un’assurdità. Un buon modo di procedere? Rispettare le ragioni degli altri; e provare a mettersi nei loro panni.
E’ così difficile, ad esempio, capire il punto di vista di chi ritiene il matrimonio, per definizione, l’unione di un uomo e di una donna? Negli Usa, come sappiamo, la questione è stata trasportata sul terreno dei diritti civili: negare a due uomini o a due donne la possibilità di sposarsi tra loro è come rifiutare ai neri di salire sull’autobus frequentato dai bianchi. La logica, pericolosa conseguenza: considerare alla stregua d’un razzista chi ritene il matrimonio soltanto un’unione tra uomo e donna.
E’ tanto complicato, d’altro canto, ammettere che le unioni civili vanno regolamentate? E’ avvenuto in tutta Europa, con l’eccezione di alcuni Paesi dell’Est. Perché noi no? I vescovi italiani hanno spiegato, ieri: «L’equiparazione in corso tra matrimonio e unioni civili - con l’introduzione di un’alternativa alla famiglia - è stata affrontata all’interno della più ampia preoccupazione per la mutazione culturale che attraversa l’Occidente». Un punto di vista rispettabile. Ma la conclusione non può essere «Lasciamo nel limbo ogni altra forma di unione». Sarebbe poco caritatevole. E poco rispettoso: le leggi dello Stato le fa lo Stato, non la Chiesa.
L’umore nel movimento dell’imminente Family day non pare conciliante. Nelle intenzioni, una dimostrazione d’amore per la famiglia; nei fatti, una manifestazione di ostilità verso tutte le nuove coppie. Coppie che tutti conosciamo e che oggi non godono delle garanzie minime: diritti di visita, permessi di lavoro per motivi di famiglia, diritti di successione. Le nuove unioni civili - gridano gli avversari del ddl Cirinnà - s’ispirano all’istituto del matrimonio! E a cosa dovrebbero ispirarsi, di grazia? Alle comunità hippy, alle società in accomandita semplice, alle associazioni di pesca sportiva?
Al di là dei variopinti trascorsi coniugali dei paladini politici del Family day - «Amano così tanto la famiglia che ne vogliono più d’una», è stato scritto - non si capisce di dove venga l’asprezza che condisce i loro discorsi. Le apparizioni televisive diventano crociate, le opinioni diverse sono trattate come provocazioni. Il saggista Mauro della Porta Raffo, non richiesto, ha distribuito ai contatti della rubrica telefonica questo messaggio: «Giorno verrà, e presto, in cui verrà legiferato in merito alle unione civili tra uomini e animali!». Non un modo di rasserenare gli animi, diciamolo.
Il dibattito in Senato s’annuncia tempestoso. Ieri, durante una prima discussione sulle pregiudiziali, si sono ascoltate opinioni strabilianti (riportate da Andrea Fabozzi su il Manifesto ). Sen. Giovanardi. «Mentre il matrimonio è nullo se non è consumato, non si riesce a capire bene chi vada a stabilire che tipo di rapporto c’è tra coloro che stipulano le unioni civili». Senatore Malan: «La presenza non solo della madre ma anche del padre permette che la nostra specie abbia una possibilità di sviluppo maggiore, con un cervello più grande degli altri animali rispetto alla nostra statura». Questo per impedire a due persone che si vogliono bene d’ottenere un riconoscimento giuridico? Suvvia.
La rissa intorno alla stepchild adoption - il solito nome inglese per rendere incomprensibile ai più un concetto difficile per molti - pare un pretesto per opporsi a un inevitabile aggiornamento legislativo. L’Italia - lo sappiamo tutti - ha già deciso. Alcuni degli argomenti che sentiremo nelle piazze del Family day ricordano quelli che circolavano quarantadue anni fa, alla vigilia del referendum sul divorzio: «Se si apre uno spiraglio, poi passerà di tutto!». La risposta dovrebbe essere la stessa: nessuno è obbligato a divorziare, nessuno è costretto a convivere. Ma se qualcuno vuole farlo, perché dovremmo impedirglielo?
Quinto Stato
Un altro genere di paese: educare alle differenze nella scuola pubblica
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 28.1.2016)
Storia di un movimento che lavora con le maestre per contrastare la violenza di genere, il bullismo omofobico e vuole un’istruzione universale per tutti. La Cei e il Vaticano lo contrastano e hanno lanciato la crociata contro l’inesistente «teoria del gender»
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Un altro genere di educazione. È il motto della rete «Educare alle differenze» composta da 250 associazioni che lavorano con le maestre nelle scuole per superare gli stereotipi di genere, contrastare la violenza di genere e il bullismo omofobico tra i bambini. Giunto al terzo anno di vita, «Educare alle differenze» oggi è un network composto da docenti universitari, attivisti/e Lgbtqi, case editrici, educatori e assistenti sociali, associazioni impegnate in programmi che coinvolgono gli enti locali. Insieme cercano di colmare le lacune formative e i vuoti normativi presenti nella scuola italiana quando si parla di sessualità o di parità tra i sessi.
In attesa di organizzare il terzo incontro nazionale a Roma, promosso dalle associazioni Scosse (Roma), Stonewall (Siracusa), Il Progetto Alice (Bologna), la rete intende diventare un’interlocutore del ministero dell’Istruzione nella scrittura delle linee guida sulla prevenzione della violenza di genere e l’educazione alla parità tra i sessi prevista dalla Convenzione di Istanbul, ratificata dal Parlamento italiano nel 2013.
La sua storia ricorda da vicino quella dei movimenti che sin dagli anni Sessanta hanno cambiato i costumi e le metodologie di insegnamento della scuola pubblica. A sostegno di questo obiettivo sono stati pubblicati materiali didattici che sono diventati una consuetudine negli istituti, da Nord a Sud. Ne ricordiamo due, che hanno prodotto scandalo, campagne di diffamazione e vere e proprie censure da parte della Cei, di sindaci e di politici nazionali: gli opuscoli contro l’omofobia realizzati dall’istituto A. T. Beck per l’Unar e destinati agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie e i 49 titoli contro il razzismo e la discriminazione sessuale dell’iniziativa «Leggere senza stereotipi» promossa dalla consigliera comunale di Venezia Camilla Seibezzi e censurata dal sindaco Luigi Brugnano.
In un biennio, questo movimento in formazione si è trovato ad affrontare una violentissima campagna politica, orchestrata dalle gerarchie vaticane e agita da movimenti reazionari che continuano a sfregiare il senso dell’educazione alle differenze, contro il sessismo e le violenze di genere inventando un nemico fantomatico: la cosiddetta «teoria del gender».
Il colpo di partenza lo diede papa Ratzinger in un discorso del 21 dicembre 2012 in cui condannò la «nuova filosofia della sessualità» espressa dal «lemma gender». Secondo il fine teologo tale «filosofia» contraddice il racconto biblico della creazione. L’essere umano è creato da Dio «come maschio e come femmina». A questa teoria della «famiglia naturale» e della genitorialità biologica, che nega ogni storicità e cambiamento nelle convivenze e nelle relazioni affettive, sono ispirati vademecum, family day e i whatsapp dei gruppi dei genitori.
Una strategia basata su psicosi mediatica e complottismo - due armi fondamentali all’epoca di internet che vantano illustri antenati nella caccia alle streghe - per la quale la rete «Educare alle differenze» starebbe trasformando la scuola in un «campo di rieducazione» che sforna soldati in difesa della «dittatura del gender», in altre parole un’inesistente educazione all’omosessualità. Non lo ha detto un utente qualsiasi di Facebook, ma il capo dei vescovi italiani della Cei, il cardinale Angelo Bagnasco il 24 marzo 2014.
A questa diffamazione, basata su un pregiudizio ideologico, il movimento dell’educazione alle differenze risponde così: «Il genere - si legge nel report dell’incontro nazionale della rete del 2015 - è un sistema di pratiche sociali e culturali che assegnano ruoli, potere, funzioni e opportunità diverse agli individui in base al loro sesso di nascita e al loro orientamento sessuale». Il «genere esiste eccome e produce ingiustizie e sofferenze sul piano individuale e sociale». I programmi educativi servono «per decostruire gli stereotipi e offrire strade di libertà agli studenti».
La ragione di fondo della controffensiva omofobica sta nell’attacco all’istruzione pubblica e laica finalizzata alla creazione di un’egemonia. In Italia, la resistenza politico-culturale e l’affermazione di una «cittadinanza democratica» passano anche dall’educazione alle differenze.
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE.
«Dio mi sta bene, e anche la patria e la famiglia; ma il trilogismo Dio-Patria-Famiglia non mi sta più bene. Dico no a quel dio usato come cemento nazionale, a quella patria spesso usata per distruggere altre patrie, a quella famiglia chiusa nel proprio egoismo di sangue. Non mi riconosco tra quei cittadini ligi e osservanti che vanno in chiesa senza fede, che esaltano la famiglia senza amore, che osannano alla patria senza senso civico» (Adriana Zarri)
Cgil, ecco la Carta dei diritti universali.Susanna Camusso presenta la proposta di un nuovo Statuto dei lavoratori: dovrà diventare una legge, a cui verranno accoppiati dei referendum (Antonio Sciotto - il manifesto, 19.01.2016)
La voglia di normalità delle famiglie arcobaleno
di Marco Belpoliti (La Stampa, 24.01.2016)
Chissà se il movimento gay, lesbiche e trans quando ha scelto la bandiera arcobaleno quale proprio emblema ha pensato alla canzone che canta Dorothy nel “Mago di Oz”: Over the Rainbow? Probabilmente no.
Questa bandiera del resto ha già una sua lunga storia; dal movimento hippy californiano degli Anni Sessanta alle manifestazioni popolari contro la guerra e per la pace degli Anni Ottanta, sono diversi i gruppi e le aggregazioni che hanno issato questa sequenza di colori come proprio stendardo. L’hanno fatto per ricordare che l’arcobaleno è un fenomeno fisico che appare là dove cessano le implacabili piogge, com’era accaduto allo stesso Noè nel momento in cui, dopo il Diluvio universale, cercava di toccare la terra ferma per ricominciare la vita sulla faccia della Terra invasa dalle acque con il suo vascello di creature a coppie.
Le famiglie arcobaleno, che sono scese in piazza per manifestare a favore delle unione civili hanno molta voglia di andare al di là di questo simbolo, come canta Dorothy, Noè compreso, e di entrare in una vita quotidiana fatta di una sicurezza garantita dalla legge, qualcosa di molto normale, dove la parola ha un significato letterale: vivere in una norma sancita e uguale per tutti.
Quello che appare oggi in gioco nella estremizzazione del problema delle «unioni civili» è il tema della identità là dove, ci ricordano gli antropologi, l’identità è sempre una costruzione culturale. Appena una società intende costruire una propria identità intorno a un valore - in questo caso «la famiglia» - immediatamente s’imbatte in un problema di alterità. L’identità si costruisce a scapito della alterità, combattendo l’alterità, riducendo quelle che sono le possibili potenzialità alternative, ha scritto Francesco Remotti in un libro che andrebbe letto e meditato: Contro l’identità (Laterza).
Per quanto l’identità respinga, l’alterità risorge in modo prepotente e invincibile. Non c’è dubbio che le famiglie arcobaleno costituiscono un’alterità rispetto a quella che è l’identità famigliare dominante nella nostra società. Ricordando quanto ha scritto un’altra antropologa, Mary Douglas, ogni tentativo di purificazione reca con sé l’idea di impurità, di sporco. Non esiste l’impuro di per sé, ma solo in rapporto a un ordine che lo istituisce come tale, per opposizione. Nello scontro in corso intorno alle unioni omosessuali la coppia puro/impuro è una sorta di non detto, dal momento che c’è la tendenza a stabilire la norma e contemporaneamente l’anormalità, la purezza cui corrisponderebbe l’impurità. Tutto questo è una costruzione sociale. Non esiste un’identità umana unica e incontrovertibile, una norma stabilita una volta per tutte.
In un suo articolo di qualche anno fa, che oggi si legge in un libro recente, Siamo tutti cannibali (il Mulino), Claude Lévi-Strauss ha mostrato come non sia affatto la consanguineità a fondare la famiglia. Il grande etnologo francese fa l’esempio di società in cui la famiglia è composta di un fratello e di una sorella e nessun padre: tutti i figli avuti dalla donna sono stati concepiti con partner diversi, ma ne fanno integralmente parte e sono allevati dai fratelli; in un’altra una donna sterile può essere considerata un uomo e sposare un’altra donna e allevare con lei i figli. Altre ancora hanno abolito la categoria del marito e si sono fondate su forme di struttura famigliare che esclude quella biologica puntando piuttosto sul legame sociale.
Le famiglie arcobaleno rappresentano una diversità e una ricchezza che gli antropologi si guarderebbero bene di respingere. Non sono la maggioranza nella nostra società, non costituiscono a loro volta una norma, ma appunto una diversità, quella di cui abbiamo bisogno per costruire la nostra stessa identità prevalente. I colori con cui hanno sfilato nelle città italiane sono il segno di una pluralità rispetto ai vessilli monocromatici che dominano il nostro Occidente. Non delle aberrazioni, bensì alterità. Over the Rainbow, canta Dorothy. Proviamo ad andare davvero oltre.
Amano
Giovanni De Mauro, direttore di (Internazionale, 22.01.2016)
Basta cercare di spiegare a delle bambine e a dei bambini di otto anni il dibattito sulle unioni civili che occupa le prime pagine dei giornali da qualche settimana (anzi, da secoli, la prima proposta di legge risale al 1988) per rendersi conto di quanto sia assurdo: c’è chi vuole impedire a due persone che si amano di sposarsi e avere dei figli solo perché sono omosessuali.
D’altra parte siamo rimasti davvero in pochi, con Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia. Tutti gli altri, e in particolare i paesi europei a cui ci piace tanto paragonarci, hanno da tempo trovato forme e modi per regolare le unioni delle coppie omosessuali. Senza che questo abbia provocato contraccolpi devastanti nella società.
Già sul divorzio e sull’aborto la classe politica italiana aveva dimostrato la sua incapacità di stare al passo con i tempi, di interpretare i bisogni e gli orientamenti dei cittadini che dovrebbe rappresentare. E oggi la semplice domanda che andrebbe rivolta ai 630 deputati e ai 315 senatori italiani è: da che parte state? Dalla parte di chi nega i diritti o da quella di chi i diritti li difende e li garantisce?
La famiglia mummificata
di Massimo Villone (il manifesto, 20.01.2016)
I bambini in difficoltà si nascondono dietro mamma e papà. I governi dietro i presidenti della Repubblica e i giudici di costituzionalità. Accade per le unioni civili. Una maggioranza malmessa è in affanno. È in difficoltà lo stesso premier, che più volte ha certificato il problema come risolto. Evidentemente scambiando l’assertività dei tweet con i risultati. Partono allora in soccorso commentatori autorevoli e autorevolissimi. Uguali sì, ma non troppo, simili, certo, ma senza esagerare. 2Meno male che almeno il Quirinale non conferma i dubbi del Presidente sul ddl Cirinnà. Ne siamo lieti, anche se la domanda rimane su chi, come e perché abbia messo in giro quelle voci, e se il Quirinale ne fosse consapevole.
La politica, alla fine, non vive solo di dichiarazioni. E qui impatta su una sentenza della Corte costituzionale (138/2010). Ho già scritto su queste pagine che la Corte non rese un buon servizio a sé stessa e alla Carta fondamentale. La Corte lesse la nozione di matrimonio ex art 29 Cost. alla luce del codice civile del 1942. Un testo, dunque, anteriore alla stessa Costituzione, e una interpretazione storica che calava sul tessuto normativo della Carta una ingessatura fatale.
Per l’interprete è buona regola dare alle Costituzioni - testi fatti per durare - una lettura evolutiva, per adattare la norma alla mutevolezza dei tempi. Se non avesse fatto così la stessa Corte costituzionale, nel nostro paese avremmo ancora una diversa sanzione per l’adulterio dell’uomo e quello della donna (sent. 64/1961 e 126/1968). E se non avesse fatto così il legislatore (l. 442/1981) potremmo ancora avere il delitto d’onore, per cui qualcuno certo troverebbe un fondamento costituzionale.
Altri giudici di costituzionalità hanno saputo dare al tema delle coppie omosessuali una lettura molto più aperta, e vicina al sentire di oggi. Basta leggere le sentenze della Corte Suprema degli Stati uniti, ed in specie l’ultima e fondamentale (Obergefell v. Hodges, 26 giugno 2015) per cogliere una ben diversa ampiezza di orizzonti. Eppure, quel paese ha avuto esperienza anche di leggi fortemente repressive. Le ha superate, con una lettura della Costituzione in chiave egualitaria, costruita sui diritti fondamentali di ogni persona.
Oggi in Italia ci si appiglia a una sentenza del giudice di costituzionalità per dissimulare un problema politico. È un errore. La stessa Corte costituzionale ha anche affermato che due persone del medesimo sesso hanno il diritto di formare una coppia, nella prospettiva di una stabile comunione di vita e di affetti. A questo punto che si chiami matrimonio o meno non ha importanza. Perché nell’ambito di quella coppia i diritti delle persone che la compongono non possono essere definiti dalla qualificazione giuridica della coppia. Sono diritti delle persone che ne fanno parte, a partire dalla filiazione. Non si deve misurare una distanza dal matrimonio che ne renda visibile la differenza. Si deve invece considerare quali siano i diritti inviolabili dei componenti della coppia come formazione sociale ai sensi dell’art. 2 della Costituzione.
Il punto focale non è dunque sulla qualificazione formale della coppia, ma sui diritti delle persone che la compongono. La prima non può limitare o negare i secondi. È assurdo e polveroso il dibattito in corso, dalla stepchild adoption all’affido più o meno rafforzato. Esprime tutta l’ipocrisia di un cattolicesimo provinciale che crede di difendere la famiglia attraverso la sua definizione giuridica. La famiglia si difende - e tutti vogliamo difenderla - garantendo la qualità della vita di chi ne fa parte. -Sono forti le famiglie dove i giovani possono permettersi di sposarsi, mettere su casa, avere un lavoro, una decente assistenza sanitaria, una buona scuola per i figli, una assistenza dignitosa per gli anziani. Sono deboli le famiglie dove degrado, povertà, fame sono ostacoli insuperabili.
E dunque Renzi mostri gli attributi, se li ha. Non lasci il problema in mano a qualcun altro, come usa fare con le questioni difficili. Se no, vorremmo presentare al ddl Cirinnà un emendamento sull’orfanezza (secondo il dizionario, condizione di chi è orfano). Una normetta volta a consentire agli italiani di dichiararsi orfani: del governo Renzi.
La polemica
Tutti gli alibi che inquinano le unioni civili
Si sta discutendo di dignità e identità delle persone Non tutto è negoziabile
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 20.01.2016)
LA discussione sulle unioni civili avrebbe bisogno di limpidezza e di rispetto reciproco, invece d’essere posseduta da convenienze politiche, forzature ideologiche, intolleranze religiose. Di fronte a noi è una grande questione di eguaglianza, di rispetto delle persone e dei loro diritti fondamentali, che non merita d’essere sbrigativamente declassata, perché altre urgenze premono. I diritti, dovremmo ormai averlo appreso, sono indivisibili, e quelli civili non sono un lusso, perché riguardano libertà e dignità di ognuno.
Bisogna liberarsi dai continui depistaggi. La maternità surrogata, vietata fin dal 2004, viene evocata per opporsi all’adozione dei figli del partner, penalizzando proprio quei bambini che si dice di voler tutelare e tornando così a quella penalizzazione dei figli nati fuori dal matrimonio eliminata dalla civile riforma del diritto di famiglia del 1975. E si dovrebbe ricordare che la Costituzione parla della famiglia come società “naturale” non per evitare qualsiasi accostamento alle unioni tra persone dello stesso sesso.
MA PER impedire interferenze da parte dello Stato in «una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita », come disse Aldo Moro all’Assemblea costituente. Altrimenti ricompare la stigmatizzazione dell’omosessualità, degli atti “contro natura”.
L’impegno significativo del presidente del Consiglio per arrivare ad una disciplina delle unioni civili rispettosa di quello che la Corte costituzionale ha definito come un diritto fondamentale a vivere liberamente la condizione di coppia si è via via impigliato nel prevalere delle preoccupazioni legate alla tenuta della maggioranza. Il riconoscimento effettivo di diritti fondamentali viene così subordinato ad una esigenza propriamente politica che sta svuotando la portata della nuova legge.
E non si può dire che si cerchi di procedere con la cautela necessaria, data la delicatezza dell’argomento, perché la cautela si è trasformata nel progressivo abbandono di una linea rigorosa, nel gioco delle concessioni verbali che tuttavia inquinano il senso della legge in punti significativi.
È indispensabile riprendere una strada coerente con il fatto che si sta discutendo di dignità e identità delle persone, dunque di una materia dove non tutto è negoziabile.
Il legislatore sta oscillando tra concessioni improprie e irrigidimenti ingiustificati. Una assai discutibile e discussa sentenza del 2010 della Corte costituzionale viene eretta a baluardo inespugnabile, che non consentirebbe neppure di adempiere a quel dovere positivo di riconoscimento pieno dei diritti delle coppie tra persone dello stesso sesso imposto all’Italia da una sentenza di condanna del 2015 della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Per sfuggire a questa responsabilità, più si va avanti più si delinea una situazione in cui il legislatore sta costruendo una sua gradita impotenza. Non posso intervenire perché avrei bisogno di una legge costituzionale. Non posso intervenire perché devo ancora considerare il codice civile come un riferimento ineludibile. Non posso muovermi nel nuovo contesto costruito dai principi e dalle regole europee. Non posso intervenire perché l’opportunità politica variamente mascherata me lo preclude. Nessuno di questi argomenti regge.
Nel 2013 la Corte di Cassazione ha detto esplicitamente che le scelte in questa materia sono affidate al legislatore ordinario. Ricostruire il principio di riferimento nel fatto che il codice civile parla ancora di diversità di sesso nel matrimonio è un errore di grammatica giuridica perché si dimentica che la Costituzione si pone in una posizione gerarchicamente superiore al codice civile e bisogna interpretare la Costituzione partendo dal principio di eguaglianza.
Proprio la forza di questo principio ha determinato un radicale cambiamento del sistema istituzionale europeo. La Carta dei diritti fondamentali ha cancellato il requisito della diversità di sesso sia per il matrimonio, sia per ogni altra forma di costituzione della famiglia, e ha ribadito con forza che non sono ammesse discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale. Se si guarda più a fondo nel nostro sistema, neppure l’accesso al matrimonio egualitario sarebbe precluso al legislatore ordinario.
In questo nuovo mondo, che pure le appartiene e nel quale ha liberamente deciso di stare, l’Italia è recalcitrante ad entrare. E così conferma un ritardo culturale, che in altri tempi aveva vittoriosamente sconfitto, anche in occasioni difficili come quelle dell’approvazione delle leggi sul divorzio e dell’aborto, senza restare prigioniera delle preoccupazioni della Chiesa, che oggi tornano in maniera inquietante e inattesa.
Di nuovo lo sguardo si fa ristretto, la riflessione culturale si rattrappisce e non si riesce a dare il giusto rilievo al fatto, sottolineato con forza dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che ormai la maggioranza dei Paesi del Consiglio d’Europa riconosce le unioni civili e che aumentano continuamente gli Stati dov’è riconosciuto il matrimonio tra persone dello stesso sesso - Francia, Spagna, Portogallo, Stati Uniti, Danimarca, Inghilterra, Irlanda, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Slovenia, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica. Strada che questi Paesi non percorrono con avventatezza, ma riflettendo con serietà, e che dovrebbero essere un riferimento per sfuggire alla superficialità con la quale troppo spesso in Italia si affrontano questioni serie come quelle riguardanti le adozioni coparentali ( stepchild adoption). Tema, questo, che trascura del tutto le dinamiche degli affetti, la genitorialità come costruzione sociale e che, a giudicare da alcuni improvvidi emendamenti al disegno di legge in discussione al Senato, rischia di lasciare bambine e bambini in un avvilente limbo, che di nuovo nega dignità ed eguaglianza.
Ancora e sempre l’eguaglianza, che la Corte costituzionale non ha adeguatamente considerato in quella sentenza del 2010, la cui interpretazione dovrebbe essere seriamente riconsiderata a partire dal nuovo contesto istituzionale europeo. Perché no? Ricordiamo che, con una violazione clamorosa del principio di eguaglianza, nel 1961 la Corte costituzionale dichiarò legittima la discriminazione tra moglie e marito in materia di adulterio. La Corte sui ravvide nel 1968, mostrando che l’eguaglianza e la vita non possono essere consegnate alla fissità di una decisione.
Un legislatore, che sta costruendo la sua impotenza, dovrebbe piuttosto riflettere sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che, nel 2015, ha ammesso il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ferma restando la legittima manifestazione di ogni opinione, i giudici americani hanno affermato il loro dovere di sottrarre i diritti fondamentali alle «vicissitudini della politica».
Per la pace e il dialogo, quello vero....
"DICO" O NON "DICO"? EBBENE, DICO: QUANTE MISTIFICAZIONI E MENZOGNE!!!
"FAMIGLIA CRISTIANA O FAMIGLIA BORGHESE?". UN DISCORSO (1974) INEDITO DI P. ERNESTO BALDUCCI
"FE’ DU MUCC". FATE DUE MUCCHI": LA LEZIONE DON ZENO SALTINI.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITA’ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
“Ciascuno è la vera chiesa”
intervista ad Ermanno Olmi
a cura di Arianna Prevedello (“settimana” - attualità pastorale, 4 marzo 2012)
“Cinema, specchio della vita” è il titolo di una serie di iniziative della diocesi di Padova che, attraverso la "settima arte", mette a confronto registi, presbiteri e operatori pastorali su tematiche di forte attualità per la comunità ecclesiale. Ecco un estratto del primo incontro avvenuto il 13 febbraio. Successivamente alla proiezione de Il villaggio di cartone i presbiteri diocesani hanno intensamente dialogato con il regista Ermanno Olmi.
Maestro Olmi, lei è uno sposo da tanti anni, eppure con questo film ha saputo raccogliere il sentimento interiore di moltissimi sacerdoti. Dove ha trovato ispirazione?
Non si sa mai da che parte arrivi l’ispirazione. È come quel vento dello Spirito che non si sa da dove viene e dove vada. Pensate quando, alla fine di alcuni appuntamenti di tipo culturale, ci accorgiamo di aver ascoltato cose interessanti fuori dalla nostra aspettativa.
Quando Picasso disse «vorrei dipingere come i bambini», intendeva dire che i bambini non hanno la consapevolezza necessaria ad amministrare la loro potenzialità comunicativa. Sentono l’esigenza di comunicare senza preoccuparsi della forma. Dovremmo arrivare all’età della libertà, come per esempio la mia, attrezzati in questo senso e pretendendo di essere ascoltati con l’innocenza dei bambini. Quindi, l’ispirazione non sai da dove arriva. Arriva, e senti che lì ci sono domande che ti poni e tenti di dare alcune risposte, ma non è mai "la" risposta. Il modo di pronunciare una frase cambia il senso di ciò che vuoi comunicare. Pur essendo rigidamente confezionata in un testo, la frase cambia di significato a seconda di come tu cambi. Lo stesso Vangelo cambia a seconda di come noi cambiamo. Nel momento in cui non lo leggiamo più perché pensiamo di conoscerlo o di poterlo ripetere a memoria, quello è il momento del fallimento. È come se, amando una persona, dicessimo «adesso non ho più parole d’amore». Quando senti che non hai più parole, vuol dire che hai perduto quell’amore.
La religione si basa come intima convinzione su alcuni principi che abbiamo ascoltato, condiviso e che ora manteniamo vivi. È davvero così se ogni giorno, leggendo una frase di quella religione, sentiamo che quella frase cambia significato. Altrimenti è un fatto puramente amministrativo e, se fossi il Padre eterno, mi incavolerei, perché ha dato la possibilità di vivere la realtà come la più bella opportunità di scoperta delle grandi manifestazioni che abbiamo sotto gli occhi. Altrimenti le religioni rischiano di essere delle gabbie mortificanti.
Perché un film come il suo è scomparso subito dalle sale?
Il problema non è che questo film è scomparso dalle sale, ma che capita a questo film e a molti altri film più belli del mio, come il Faust, Leone d’Oro a Venezia, o Una separazione, Orso d’Oro a Berlino. In realtà, nell’ultima stagione ci sono state produzioni italiane che hanno incassato bene e che rispetto ma sono tutti film di genere "spensierato".
Le persone cercano rifugio in occasioni - e lo capisco - che non danno il tempo di soffermarsi sulla gravità di problemi che dovremo arrivare ad affrontare. Prima di tutto la chiesa! Nel vedere ogni giorno la realtà che abbiamo intorno, per alcune cose pensiamo di poter rispondere, per altre veniamo interrogati e non abbiamo risposte. Un’infinità di interrogativi irrisolti, e allora io chiamo il Maestro. Se tu, Cristo, fossi al mio posto, cosa faresti? Secondo voi, Cristo si preoccuperebbe del cattolicesimo o di quella religione del perdono per relazionarci agli altri, per renderci disponibili agli altri. Se io guardo il suo percorso, ogni giorno c’è sempre un insegnamento che mi riguarda.
Il cattolicesimo - come apparato - oggi è diventato forse troppo ingombrante. So che qualcuno non è d’accordo con me... e va bene. Non pretendo questo, ma mi domando qual è il cristianesimo di oggi. Tante volte dico ai cattolici: «ricordatevi che siete anche cristiani».
Qual è oggi il modello di Cristo? Cristo ha chiamato Pietro e gli ha detto «chi dici che io sia?». Chi diciamo che sia questo Cristo? Un orpello appeso ai punti apicali delle volte delle chiese? O è quell’altro chenon osa entrare in chiesa perché non ha i panni adatti?
La chiesa di questo film è chiesa quando si è svuotata dagli orpelli, quando qualcuno che non è cristiano ha bisogno di aiuto. Gli devo chiedere «sei cristiano? cattolico? Allora entra, se no stai fuori...». Cristo dice «Tu che sei Pietro, tu sei pietra». Tu! Ciascuno di noi è la vera chiesa. C’è qualcosa che mi fa dire in questo momento: «Cristiani svegliamoci! È il nostro momento». È il momento di presentarci agli altri dicendo all’altro «Ecco il volto di Cristo!».
Quando rincasiamo, possiamo dire alla sera: oggi ho visto Cristo? Oppure, ho visto il ragioniere, l’architetto, il neretto all’angolo della strada? Quale volto di Cristo abbiamo visto in ogni giorno della nostra vita?
Ecco perché non rispondo a chi si preoccupa se sono o meno cristiano, io non mi preoccupo se loro lo sono. Mi basta guardarti, sei una creatura di Dio. E poi, quando ci innamoriamo, è il massimo. E l’estasi dell’umanità. Anche quel prete nel film che guarda gli occhi di una fanciulla. E perché no? Quanti preti innamorati infelici! Io credo che l’innamoramento sia una chiamata, certo che poi dobbiamo comportarci di conseguenza. Rispetto all’innamoramento, c’è un passaggio difficile da accettare: quando il prete dice al Cristo della piccola Pietà «sei troppo lontano nel tempo perché io possa amarti come dovrei». Ma che cosa, allora, si riconosce di quel piccolo Cristo? Anche Cristo ha conosciuto la solitudine dell’ultimo istante. Dio, che è venuto e ha parlato a profeti e ad angeli, non ha parlato a Cristo nel silenzio dell’ultimo respiro. Come mai? Avrebbe - credo - intaccata la santa, la sacra eroicità della donazione. Dobbiamo accettare la solitudine dell’ultimo respiro.
Nel film il prete sintetizza tante epoche, stagioni e passaggi della vita. Alla fine cos’è diventato quel prete?
All’inizio il prete rimpiange il fatto che non sarà più quel prete lì, perché gli manca lo strumento della sua pratica sacerdotale. Quando non c’è più un fedele, lui fa quella predica alle panche vuote, si confida con esse. Dice «quante volte qui alla domenica, quando la chiesa era piena di fedeli... eppure ogni tanto avevo il dubbio!». Guai ad avere le certezze assolute. Ti siedi comodamente su queste certezze e rinunci alla tua vita come continua curiosità della riscoperta. Se qualcuno mi dice che crede in Dio, prega Dio, ama Dio in maniera così graniticamente definitiva, ho l’impressione che non conosca il termine amore. L’amore è una lotta continua, un travaglio che non ci dà tregua.
All’inizio il prete si accontentava di avere la chiesa piena di fedeli. Nel momento in cui essa diventa vuota, scopre che cosa significa essere prete. Anche grazie alle circostanze che è costretto a vivere con un gruppo di pellegrini erranti che sostano nella sua chiesa mettendo in piedi quel villaggio di cartone di chi è continuamente in cammino e che non è affatto di cartone. Di cartone sono i muri di cemento armato. Anche Cristo ci dice «non ho nemmeno una pietra su cui poggiare il capo».
Tutte cose di cui il prete non si poneva più una domanda, ma era fermamente convinto della giustezza delle risposte. Finalmente avverte l’idea del porsi la domanda. Quale volto di Cristo ho incontrato?
Tutti i giorni la medesima domanda, perché infinite sono le risposte. La risposta che il prete dà al sacrestano: «mi sono fatto prete per fare del bene. Ho capito che il bene è più della fede».
Perché il bene è più della fede? Lo dico in maniera grezza: quando recitiamo le nostre preghiere, abbiamo la sensazione di compiere un atto di fede; poco dopo usciamo ed abbassiamo lo sguardo senza guardare in faccia l’umanità. Allora la fede è fare del bene o è dire "ho fede"? Si riesce perfino a pregare pensando ad altro. Il prete a quel nero che lo ringrazia per averli accolti dice «anch’io sto tornando alla casa del Padre». Questo è l’atto di fede. Sapere che il Padre è lì che mi aspetta. Siamo tutti dei "figliol prodigo". L’importante è capirlo e tornare a lui.
Cgil, ecco la Carta dei diritti universali
Susanna Camusso presenta la proposta di un nuovo Statuto dei lavoratori: dovrà diventare una legge, a cui verranno accoppiati dei referendum
«Ma non è una crociata solo contro il Jobs Act»
Riposo, maternità, equo compenso e ammortizzatori per tutti, indipendentemente dal tipo di contratto. La consultazione degli iscritti e il confronto con Cisl, Uil e associazioni
di Antonio Sciotto (il manifesto, 19.01.2016)
Si chiama Carta dei diritti universali del lavoro, e rappresenta, nei progetti della Cgil, il nuovo Statuto per i lavoratori del futuro: 97 articoli in 64 pagine che dovrebbero diventare una proposta di legge di iniziativa popolare. Il concetto chiave, come ha spiegato ieri la segretaria Susanna Camusso in una conferenza stampa tenuta ineditamente davanti alla stazione Termini, è quello di «regolare i diritti non più in base alla tipologia contrattuale, ma definendoli per tutte le persone che lavorano, qualsiasi rapporto abbiano». Dipendenti a tempo indeterminato o determinato, partite Iva, collaboratori dei tipi più vari, tutti dovranno godere di un corredo di diritti unico e universale, che verranno magari poi usufruiti in maniera diversa a seconda dei casi.
Per sostenere la sua proposta, la Cgil ha indetto una consultazione straordinaria delle iscritte e degli iscritti, «che per la prima volta nella sua storia - ha spiegato Camusso - non riguarda un accordo o un contratto, ma la direzione politica e strategica della confederazione». I tesserati verranno chiamati a esprimersi - attraverso assemblee nei luoghi di lavoro e nelle leghe pensionati - sul testo, ma nel frattempo «vorremmo aprire - ha proseguito la segretaria Cgil - un dibattito più vasto possibile, con le associazioni dei lavoratori autonomi, gli intellettuali e i giuristi, con Cisl e Uil. E naturalmente ci confronteremo con la politica», anche perché l’augurio è quello che prima o poi la legge arrivi a essere discussa appunto in Parlamento.
Camusso ha comunque sottolineato il carattere «autonomo» della proposta di legge, slegata dai partiti e puramente “cigiellina”: a maggior ragione per il fatto che la Carta verrà accompagnata (se gli stessi iscritti lo approveranno con la consultazione) da una serie di quesiti referendari «che puntano ad abrogare tutte le norme che negli ultimi anni hanno destrutturato e diminuito i diritti del lavoro». «Non si deve fare l’equazione diretta Carta del lavoro-Jobs Act - ha poi aggiunto la leader Cgil - Non stiamo lanciando un referendum abrogativo che si concentra sulle leggi varate dall’ultimo governo, ma andremo a toccare provvedimenti anche dei passati esecutivi, dal Collegato lavoro all’Articolo 8, norma che permette di derogare alle leggi».
La Carta è divisa in tre parti. Nella prima sono definiti i diritti che dovranno essere riconosciuti a tutti i lavoratori. Elenca i principali la stessa Camusso: «Il riposo, la maternità e la paternità. Il diritto a essere informati sulle proprie condizioni di lavoro e alla sicurezza. La libertà di espressione. Il diritto a non essere discriminati e quello alla riservatezza. Al sapere, che è istruzione e formazione continua. Il diritto d’autore: il rispetto dovuto alle creazioni dell’intelletto, non permettendo che le imprese le inglobino senza riconoscimento».
E ancora: «L’equo compenso, gli ammortizzatori sociali e il sostegno al reddito, il diritto alla tutela pensionistica». Lo sforzo della Cgil, al di là della battaglia per i contenuti, è quello di andare a intercettare tanti nuovi lavoratori - giovani ma non solo - che hanno impieghi sempre più saltuari e intermittenti, spesso di intelletto, e che non si concentrano necessariamente nella fabbrica, nel call center o nel centro commerciale. I lavori di intelletto, o del terziario, spesso raggiungibili solo attraverso i social.
Molti di loro, anche gli autonomi, ha spiegato Camusso, oggi sentono il bisogno di una tutela collettiva e del sindacato: spesso perché la partita Iva è imposta, e di fatto si è dipendenti mascherati, ma diritti come la malattia, le ferie, i riposi, devono essere patrimonio comune di chiunque lavori, anche se genuinamente autonomo. Nessuno spazio però, in questa prospettiva, per il reddito di cittadinanza: «L’obiettivo resta il diritto al lavoro, con i dovuti ammortizzatori».
La seconda parte della Carta è dedicata alla contrattazione: «Deve essere inclusiva - ha spiegato Camusso - e avere valore per tutte le figure di un settore. Bisogna realizzare l’articolo 39 della Costituzione, la validità erga omnes, certificando la rappresentanza, anche delle imprese. E cancellare le deroghe». Altro articolo della Costituzione da applicare, il 46: «La partecipazione, che per noi significa conoscere e potere intervenire sugli investimenti e l’organizzazione».
Infine, la parte dedicata al «riordino delle tipologie contrattuali»: con un’attenzione ai nuovi fenomeni, come «l’esplosione dei voucher», o la «trasformazione dell’apprendistato, visto che sembra sempre più complicato ricevere un’autentica formazione». I 97 articoli non dovranno valere solo per i lavoratori privati, ma includono anche il pubblico impiego. «La nostra non è una battaglia difensiva, per tornare al passato - ha concluso Camusso - ma intendiamo guardare al futuro. Certo che serve una tutela contro i licenziamenti ingiustificati, ma noi non raggiungeremo i nostri obiettivi solo abrogando, perché non basterebbe. Bisogna anche costruire».
VATICANO, COPYRIGHT, E CARO-PREZZO ("CARITAS"): "IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA" A PAGAMENTO!!!
Enciclica "mammonica"!!!
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
LA "LUCE DEL MONDO" SONO "IO"!!! CHE SUCCESSO, QUANTI SOLDI CON I DIRITTI DI AUTORE!!! --- IL NOME DI DIO E’ MISERICORDIA. Il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli (EDIZIONI PIEMME - GRUPPO MONDADORI)
Il principio di uguaglianza
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 07.01.2016)
Ringrazio il lettore che, martedì, ha voluto commentare il mio articolo di lunedì sulle unioni civili, ma devo correggere una inesattezza. Non è vero che i costituenti, parlando della famiglia come “società naturale” nell’articolo 29 della Costituzione, abbiano voluto escludere la legittimità di un riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. La finalità era un’altra. Dopo che i regimi autoritari erano pesantemente intervenuti sulla disciplina della famiglia, si volevano evitare per il futuro analoghe intromissioni da parte dello Stato.
Vi è la testimonianza esplicita di Aldo Moro che, intervenendo nella discussione, volle circoscrivere la portata del riferimento alla società naturale, sottolineando che, malgrado le apparenze, non si era affatto di fronte ad una definizione della famiglia, ma si trattava soltanto “di definire la competenza dello Stato nei confronti di una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita”.
Sulle unioni omosessuali la Costituzione è silenziosa sì che, come è stato variamente osservato, non vi è alcun ostacolo per un intervento del legislatore, divenuto addirittura doveroso considerando che la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia proprio per il ritardo nel riconoscere quelle unioni.
Dopo che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha cancellato la diversità di sesso dai requisiti per la legittima costituzione di una famiglia (art. 9) e ha vietato ogni discriminazione basata su ”l’orientamento sessuale” (art. 21), è il principio di eguaglianza a costituire il fondamentale riferimento. Su questo, e su altri punti, bisogna sempre essere rigorosi, per evitare che la discussione parlamentare, già tanto confusa, perda proprio la bussola costituzionale.
Laici-cattolici, è l’ora del dialogo
di Luigi La Spina (La Stampa, 07.01.2016)
Il dibattito sulle unioni civili può essere considerato un esempio illuminante di quanto sia difficile affrontare i problemi delle moderne nostre società con le categorie culturali, morali e religiose che hanno guidato le scelte politiche del secolo scorso. Una considerazione che può riguardare temi etici, come quelli in discussione su questa legge, ma che può essere estesa alla questioni più importanti che investono l’Italia e l’Europa in questi giorni, dagli interventi militari in zone di terribili guerre civili, alle sorti di migrazioni sui nostri confini di epocale imponenza e di angosciosa drammaticità.
È evidente l’inefficacia e l’inutilità, per risolvere i dilemmi sulle coppie omosessuali e sulle adozioni di bambini avuti da un partner, di partire dalle tradizionali divisioni tra laici e cattolici, tra innovatori e conservatori, ma anche dai comodi recinti della sinistra e della destra per tentare i soliti compromessi parlamentari che, in teoria, acquietano le coscienze e che, in pratica, consentono di comportarsi come meglio si creda. Ma è altrettanto evidente come, se davvero dovessimo intervenire con le armi sul suolo libico, tali categorie non ci aiuterebbero a capire se questo sarebbe o no il caso di quella «guerra giusta» che angustiava il pensiero di Bobbio all’epoca dell’invasione nell’Iraq di Saddam. Solo alla luce di questa riflessione, inoltre, potrebbe non sorprenderci l’atteggiamento allarmato di paesi scandinavi, caratterizzati da una lunga tradizione politica socialdemocratica e da una diffusa sensibilità culturale e sociale improntata a grande tolleranza, di fronte alla pressione migratoria nei loro territori.
Così, in modo solo apparentemente paradossale, proprio sulle questioni etiche più pressanti, come quella della morale familiare, si potrebbero cercare e realizzare intese concrete e ragionevoli che, senza abiure di principi legittimi legati alla coscienza di ciascuno di noi, consentano di garantire il rispetto di esigenze affettive ed economiche di ogni coppia, anche omosessuale e, soprattutto, di aiutare i soggetti più deboli della coppia, i figli.
Proprio se non si confonde l’etica laica con l’indifferentismo morale, la libertà di coscienza con l’assoluta liceità di ogni comportamento umano, l’accoglienza del diverso con la disponibilità a rinnegare i fondamenti della nostra identità, non sarà difficile ammettere il turbamento che, in molti laici, desta la pratica del cosiddetto «utero in affitto», un sistema procreativo che, oltre a uno sfruttamento del corpo della donna, legittima non il comprensibile desiderio di avere un figlio da parte di una coppia, ma l’assoluto diritto ad averlo, a qualsiasi costo e con ogni mezzo. Come deve essere prevalente, anche per un laico, l’interesse del bambino, della sua felicità familiare, della sua maturazione psicologica e fisica rispetto alle volontà dei genitori.
Proprio se non si confonde la coscienza cristiana con l’integralismo religioso, la volontà di tutelare la famiglia come risorsa importante per la coesione sociale morale di una nazione con l’imposizione di un solo modello di tale famiglia in un mondo ormai completamente cambiato, si dovrebbe riconoscere il vantaggio per un bambino di trovare un’altra persona, conosciuta da tempo come un genitore, che possa riversargli altrettanto amore e assistenza di un padre o di una madre, ad esempio, deceduti. Situazioni così delicate, peraltro, che anche il recente sinodo dei vescovi, indetto da Papa Francesco proprio sui temi della famiglia, non è riuscito a risolvere con verdetti draconiani e senza un drammatico confronto interno.
Ecco perché, questa volta, la politica potrebbe evitare il solito compromesso pasticciato, elusivo, ambiguo che parte da una mediazione dei principi, impossibile per definizione, per arrivare a un sostanziale via libera a tutti i comportamenti privati, elusivi di una legge valida solo sulla carta sulla quale è stata scritta. Se il rispetto per tutte le esigenze affettive e patrimoniali delle coppie e la salvaguardia dei diritti dei bambini fossero davvero i soli punti di partenza e di arrivo per stilare norme adeguate ai nuovi tempi e capaci di tutelare l’interesse del «bene comune», come certamente la famiglia è, non dovrebbe essere difficile l’incontro tra laici e cattolici.
Non su questioni antiche, su vecchie dispute tra «diritto naturale» e «diritto positivo», tra obbedienza alla legge divina e autodeterminazione delle scelte morali, ma sul coraggio di affrontare, senza pregiudizi e con volontà di collaborazione, questioni che ormai hanno sconvolto schieramenti politici e convinzioni culturali.
È vero che ci vuole tempo per sradicare le vecchie abitudini dai cervelli degli uomini, ma spesso la storia non ha questo tempo per aspettare.
Rodotà, il divenire universale dell’autonomia individuale
Saggi. «Diritto d’amore» di Stefano Rodotà per Laterza. Dalle unioni civili alla laicità dell’istruzione. Un libro che segnala come la legge non può colonizzare la vita affettiva e la sessualità di uomini e donne. L’amore non rinuncia al diritto. Lo usa come un mezzo per realizzare una sua pienezza. Questo è possibile perché la sua storia è storia politica
di Roberto Ciccarelli (il manifesto, 07.01.2016)
È arduo per un giurista parlare del diritto di amare, dato che la disciplina che rappresenta ha usato l’amore come premessa di un progetto di controllo delle donne, ridotte a proprietà del coniuge, mentre la politica continua a decidere sulla vita di uomini e donne. E tuttavia, scrive Stefano Rodotà nel suo ultimo libro Diritto d’amore (Laterza, pp.151, euro 14), l’amore non rinuncia al diritto. Lo usa come un mezzo per realizzare una sua pienezza. Questo è possibile perché la sua storia è storia politica.
Proprietà, credito e obbedienza: questa è la triade usata dal «terribile diritto», il diritto privato, per assoggettare l’amore - e la vita delle persone - alla razionalità dello Stato e al dominio della legge. Rodotà conduce da sempre una critica instancabile a questo modello. Per lui il diritto d’amore, come tutti i diritti, non nasce dall’arbitrio soggettivo, né da un fondamento naturalistico, ma dal legame tra il diritto e la realizzazione di un progetto di vita. Il diritto è legittimato dalle persone che decidono di riconoscerlo e lo usano per affermare l’autonomia e la libertà di tutti, non solo la propria.
Ciò non toglie che il diritto e l’amore, il desiderio di unirsi a un’altra persona, indipendentemente dal suo sesso, mantengano una distanza irriducibile. Quasi mai, infatti, il diritto è un complice della vita. Anzi, esiste per disciplinare gli affetti e per creare il modello del cittadino laborioso, maschio, proprietario. L’amore, invece, non sopporta regole o norme. Preferisce crearle da sé, nell’esperienza delle relazioni, seguendo un divenire che difficilmente può essere contenuto in un’unica disciplina valida per tutti. Per questa ragione il diritto ha preferito confinare «l’amore senza legge in uno stato di eccezione», come ha scritto un grande giurista francese, Jean Carbonnier.
L’autonomia irrinunciabile
In questo stato di eccezione prevale l’originaria ispirazione del diritto privato - cioè la riduzione della passione a cosa e della persona a proprietà di qualcuno. Orientamenti presenti ancora oggi in alcune sentenza della Corte Costituzionali o in fatali decisioni come quella sulla legge 40 sulla fecondazione assistita approvata dal governo Berlusconi.
A tutela dell’autonomia e della libertà delle persone, Rodotà usa la Costituzione e dai suoi articoli fondamentali traccia un uso alternativo del diritto che distrugge i valori di cui la stessa carta fondamentale è espressione. A questo punto è quasi inevitabile per il giurista raccontare la storia dei movimenti che hanno fatto esplodere il perimetro formalizzato dei poteri e della legge nel secondo Dopoguerra. Prima il movimento femminista, oggi i movimenti Lgbtq a cui Rodotà dedica un intero capitolo. Il diritto di amare è diventato una questione politica di rilievo perché alimenta la ricerca dell’autonomia delle persone. Il conflitto è emerso, fortissimo, sulle unioni civili come, di recente, hanno dimostrato i movimenti Lgbtq che hanno organizzato una «marcia dei diritti» per criticare l’insufficienza, addirittura le potenziali discriminazioni presenti nel disegno di legge Cirinnà che il governo intende approvare.
Storia di un incontro
In questa partita rientra anche il conflitto sull’educazione alle differenze nelle scuole: da una parte, c’è un movimento vasto che sostiene la laicità dell’istruzione pubblica e la critica dei ruoli sessuali per tutelare la libertà dei bambini e degli insegnanti. Dall’altra parte, c’è una reazione furibonda che attraverso il meme dell’«ideologia del gender» - una narrazione tossica strumentale e infondata - ha saldato un ampio movimento conservatore con le istanze più reazionarie del cattolicesimo e mira a colpire la laicità dell’istruzione e la libertà nelle scelte d’amore.
Come accade nei suoi libri, Rodotà unisce la storia dei movimenti a quelle della Costituzione italiana e della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea alla quale ha contribuito. L’incontro con i movimenti serve al diritto per «conoscere se stesso, il proprio limite, l’illegittimità di ogni sua pretesa di impadronirsi della vita - scrive Rodotà -. Emerge così uno spazio di non diritto nel quale il diritto non può entrare e di cui deve farsi tutore, non con un ruolo paternalistico, ma con distanza e rispetto». Dal punto di vista dei movimenti, il diritto serve a riconoscere e a coltivare una tensione nel darsi regole che possono cambiare, seguendo una geometria delle passioni interna alle relazioni tra il soggetto e la sua vita.
In questo quadro è fondamentale il ruolo delle minoranze: il movimento omosessuale, insieme a quello femminista, quello Lgbtq, interpretano lo stesso modo di fare politica: per vincere i movimenti si coalizzano con altri soggetti attivi nella società al fine di ottenere un riconoscimento sociale e istituzionale. Le conquiste sulle libertà personali sono valide per tutti, come hanno dimostrato l’aborto e il divorzio. Il diritto d’amore si inserisce in questa nobile vicenda e risponde a un’esigenza che ha dato il titolo a un altro, notevole, libro di Rodotà: il diritto ad avere diritti.
Tensioni singolari
Auspicio, affermazione performativa, atto di cittadinanza: il diritto ad avere diritti è una formula che caratterizza l’azione coordinata delle minoranze e afferma i diritti universali di tutti: il welfare state, l’ambiente, i beni comuni, per esempio. L’universalismo singolare dei diritti si pratica sottraendosi dall’identità maggioritaria fissata per legge (Deleuze la definiva «divenire minoritario») e, allo stesso tempo, nella creazione di un diritto all’esistenza che sfugge ai principi della morale dominante e agli assetti del potere organizzato dal diritto. Questa duplice azione rivela l’esistenza di uno spazio rivoluzionario. Rodotà lavora alla sua riapertura, in un momento non certo felice di arretramento generale.
Diritto d’amore è infine un libro che va letto insieme a quello dedicato da Rodotà alla solidarietà. Da tempo il giurista è impegnato in una ricostruzione genealogica delle passioni e delle pratiche volte alla costituzione di una soggettività caratterizzata da un rapporto di reciprocità, irriducibile al narcisismo o alla naturalizzazione dei ruoli. Parla di uguaglianza e ne rintraccia la storia nelle pratiche della solidarietà e nella dignità della persona. In questa fittissima tessitura, l’amore è un «rapporto sociale», mentre la sua tensione singolare «a bassa istituzionalizzazione» spinge a creare mondi nuovi. Questa può essere considerata una risposta all’invocazione di Auden: «La verità, vi prego, sull’amore».
Il ritorno della questione cattolica
di Marcello Sorgi (La Stampa, 06.01.2016)
Il tema delle unioni civili, come quello dei matrimoni gay, ha diviso tutti i Paesi in cui s’è arrivati a una regolamentazione per legge, dall’America all’Europa. Era inevitabile dunque che accadesse in Italia, ora che anche qui è arrivato il momento delle decisioni, e dopo tanti rinvii Renzi punta all’approvazione del testo in discussione in Parlamento in tempi brevi o brevissimi, prima della campagna elettorale per le amministrative.
Era altrettanto scontato che tutto ciò avrebbe riacceso le polemiche, non solo all’interno della maggioranza di governo, dove il principale alleato del Pd, il Nuovo centrodestra, più sensibile alla campagna contraria condotta dalla Conferenza dei vescovi italiani, e dichiaratamente contrario al diritto, all’interno delle unioni omosessuali, di adozione del figlio (nato o in prospettiva concepito artificialmente) di uno dei membri della coppia, da parte dell’altro o dell’altra. Ma anche dentro lo stesso Partito democratico, che sconta perplessità simili nella sua componente cattolica.
Era meno prevedibile, invece, che divergenze affiorassero anche a livello istituzionale, con timori, su cui circolano voci senza conferme da parte del Quirinale, per una legge che, come tutte quelle approvate in Parlamento, toccherebbe poi al Capo dello Stato firmare e promulgare, o rinviare alle Camere per un nuovo esame.
In passato, anche di recente, nel 2006 ai tempi dell’ultimo governo Prodi - in cui ministro della Famiglia era l’attuale presidente della commissione antimafia Rosi Bindi, cattolica, ma favorevole alle unioni civili -, i rischi di una rottura interna alla coalizione di centrosinistra portarono all’accantonamento del problema. Stavolta la volontà di trovare una soluzione legislativa è prevalente, perché la pressione della società civile, e in particolare delle associazioni gay, è diventata più forte, l’Italia è rimasta tra i Paesi attardatisi troppo in materia, ed esiste in Parlamento uno schieramento che molti scommettono uscirebbe vincitore nel confronto con quello dei frenatori.
Oltre alla maggior parte dei gruppi parlamentari del Pd e della sinistra radicale, il partito trasversale pro-unioni civili si allarga a un pezzo di centrodestra, compreso Berlusconi, pronunciatosi seppure con ripensamenti, a favore delle unioni gay, e arriva al Movimento 5 stelle, favorevole quasi in blocco anche al diritto alle adozioni. L’iter parlamentare si trascina da mesi.
Ma a questo punto basterebbe lasciare libertà di coscienza ai parlamentari e mettere ai voti gli emendamenti, moderati o radicali che siano, per ritrovarsi con la legge approvata. Renzi, certo, correrebbe dei rischi a forzare con una parte della sua maggioranza, stringendo al contempo la mano al M5s. Ma come s’è visto qualche settimana fa - con l’inedita alleanza Pd-5 stelle, che finalmente ha portato a casa l’elezione di tre giudici costituzionali, dopo più di trenta votazioni a vuoto delle Camere riunite -, con Grillo le convergenze sono occasionali, senza sbocchi successivi. Alla fine il Parlamento è sovrano, e le ferite politiche si aprono e si rimarginano in poco tempo.
La questione cattolica - intesa come legittima riserva dei credenti, non tutti, su una legge considerata a rischio per il futuro delle famiglie - tuttavia non va trascurata, anche se si pone in termini diversi. Non siamo a dieci anni fa, quando un premier cattolico come Prodi preferì archiviare il dossier per non mettere sotto stress la sua assai traballante coalizione.
E neppure a quarantasei anni fa, quando nel ’70 la legge sul divorzio fu approvata a dispetto della Dc, che rappresentava ancora il partito di maggioranza relativa (e promosse subito dopo, perdendolo, il primo referendum abrogativo), e dell’allora presidente del Consiglio democristiano Giovanni Leone, che si dimise per non contribuire con la sua firma ad aprire la strada allo scioglimento legittimo dei matrimoni.
Oggi Renzi, cattolico anche lui, al contrario dei suoi predecessori che in materia di valori scelsero di fare un passo indietro, laicamente considera obiettivo del suo governo, al pari delle altre riforme, riconoscere i diritti delle coppie non sposate, e segnatamente di quelle omosessuali. Quanto a Mattarella, non parla: per il modo che ha di intendere il suo ruolo, eserciterà riservatamente la sua moral suasion, se lo ritiene, e interverrà, se lo giudicherà necessario, solo dopo l’approvazione della legge, e soltanto nel caso in cui il testo solleciti qualche dubbio. Governo e Parlamento sono insomma pienamente liberi di decidere su un tema così delicato.
Una ragione di più per non trascurare un aspetto importante. Una legge come questa, chiamata a regolare, non solo i diritti delle coppie di fatto, ma anche quelli dei figli, e perfino, secondo le interpretazioni più contestate, dei nascituri, va scritta con grande attenzione: valutandone bene, fino in fondo, i confini, le implicazioni e le conseguenze, e facendo in modo che il testo approvato non si risolva in un collage di incisi e rammendi, usciti, come purtroppo accade spesso, da una serie infinita di votazioni contrapposte. Non è un compito tecnico. È altamente politico, e va svolto nel migliore dei modi. Se lo aspettano, non solo i cattolici, la cui coscienza è di nuovo messa alla prova. Ma proprio i cittadini in attesa dell’eguaglianza e dei diritti negati loro da troppo tempo.
Il messaggio di fine anno del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella *
«Buonasera, un saluto molto cordiale a quanti mi ascoltano e gli auguri migliori, altrettanto cordiali, a tutte le italiane e a tutti gli italiani, in patria e all’estero; e a coloro che si trovano in Italia e che amano il nostro Paese. A tutti un buon 2016». Così il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha aperto il tradizionale messaggio di fine anno.
«L’anno che sta per concludersi - ha proseguito il Capo dello Stato - ha recato molte novità intorno a noi: alcune positive, altre di segno negativo. Questa sera non ripeterò le considerazioni che ho fatto, giorni fa, incontrando gli ambasciatori degli altri Paesi in Italia sulla politica internazionale, e neppure quelle svolte con i rappresentanti delle nostre istituzioni. Stasera vorrei dedicare questi minuti con voi alle principali difficoltà e alle principali speranze della vita di ogni giorno.
Il lavoro anzitutto. L’occupazione è tornata a crescere. Ma questo dato positivo, che pure dà fiducia, l’uscita dalla recessione economica e la ripresa non pongono ancora termine alle difficoltà quotidiane di tante persone e di tante famiglie.
Il lavoro manca ancora a troppi dei nostri giovani. Sono giovani che si sono preparati, hanno studiato, posseggono talenti e capacità e vorrebbero contribuire alla crescita del nostro Paese. Ma non possono programmare il proprio futuro con la serenità necessaria. Accanto a loro penso a tante persone, quarantenni e cinquantenni, che il lavoro lo hanno perduto, che faticano a trovarne un altro e che vivono con la preoccupazione dell’avvenire della propria famiglia. Penso all’insufficiente occupazione femminile. Il lavoro manca soprattutto nel Mezzogiorno. Si tratta di una questione nazionale. Senza una crescita del Meridione, l’intero Paese resterà indietro.
Le diseguaglianze rendono più fragile l’economia e le discriminazioni aumentano le sofferenze di chi è in difficoltà. Come altrove, anche nel nostro Paese i giovani che provengono da alcuni ambienti sociali o da alcune regioni hanno più opportunità: dobbiamo diventare un Paese meno ingessato e con maggiore mobilità sociale.
Il lavoro e la società sono al centro di un grande processo di cambiamento. L’innovazione è una sfida che riguarda tutti. La competizione richiede qualità, creatività, investimenti. Impresa privata e settore pubblico, in particolare scuola, università e ricerca, devono operare d’intesa.
La condizione economica dell’Italia va migliorando: questo va sottolineato. Anche le prospettive per il 2016 appaiono favorevoli. Senza dimenticare l’azione svolta dalle istituzioni, va detto - e tengo a dirlo - che moltissimi nostri concittadini hanno operato con impegno e con senso di responsabilità, in settori diversi e con compiti differenti. Hanno contribuito in questo modo, malgrado la crisi, a tenere in piedi l’economia italiana. A tutti loro desidero render merito ed esprimere grande riconoscenza. Così come intendo inviare un messaggio di sostegno e di speranza alle famiglie particolarmente in affanno: non vanno lasciate sole, e chiedo l’impegno di tutti perché le difficoltà si riducano e vengano superate.
Un elemento che ostacola le prospettive di crescita è rappresentato dall’evasione fiscale. Secondo uno studio, recentissimo, di pochi giorni fa, di Confindustria, nel 2015 l’evasione fiscale e contributiva in Italia ammonta a 122 miliardi di euro. 122 miliardi! Vuol dire 7 punti e mezzo di PIL. Lo stesso studio calcola che anche soltanto dimezzando l’evasione si potrebbero creare oltre trecentomila posti di lavoro: gli evasori danneggiano la comunità nazionale e danneggiano i cittadini onesti. Le tasse e le imposte sarebbero decisamente più basse se tutti le pagassero. In questi giorni avvertiamo allarme per l’inquinamento, specialmente nelle grandi città.
Il problema dell’ambiente, che a molti e a lungo è apparso soltanto teorico, oggi si rivela concreto e centrale. Mi auguro che lo si affronti con un comune impegno da parte di tutti. Sono utili le diverse opinioni - e non si può certo comprimere il confronto politico - ma siamo di fronte anche alla natura, e ai suoi mutamenti, che contribuiscono a provocare siccità e alluvioni. In presenza di una sfida così grande, che coinvolge la salute, è necessario che prevalga lo spirito di collaborazione.
Dobbiamo avere maggior cura dei nostri territori. Da quelli montani a quelli delle piccole isole, dove nostri concittadini affrontano maggiori disagi. Occorre combattere contro speculazioni e sfruttamento incontrollato delle risorse naturali. E’ confortante vedere la formazione di molti movimenti spontanei, l’impegno di tanti che si mobilitano per riparare danni provocati dall’incuria e dal vandalismo, e difendono il proprio ambiente di vita, i parchi, i siti archeologici. L’Italia è vista all’estero come il luogo privilegiato della cultura e dell’arte, e lo è davvero. Questo patrimonio costituisce una nostra ricchezza, anche economica.
Abbiamo il dovere di farlo apprezzare in un ambiente adeguato per bellezza. L’impegno delle istituzioni, nazionali e locali, deve essere in questo campo sempre maggiore. Un esempio: si può chiedere ai cittadini di limitare l’uso delle auto private, ma, naturalmente, il trasporto pubblico deve essere efficiente. E purtroppo non dovunque è così.
Il compito di difendere l’ambiente, peraltro, ricade in parte su ciascuno di noi. Molto della qualità della nostra vita dipende dalla raccolta differenziata dei rifiuti e dal rispetto dei beni comuni. Non dobbiamo rassegnarci alla società dello spreco e del consumo distruttivo di cibo, di acqua, di energia. Passando ad un altro argomento su cui c’è grande attenzione, tutti sappiamo che il terrorismo fondamentalista cerca di portare la sua violenza nelle città d’Europa, dopo aver insanguinato le terre medio-orientali e quelle africane.
Realizzare condizioni di pace e stabilità per i popoli di quei Paesi è la prima risposta necessaria, anche per difendere l’Europa e noi stessi. La prosperità, il progresso, la sicurezza di ciascuno di noi sono strettamente legati a quelli degli altri. Non esistono barriere, naturali o artificiali, che possano isolarci da quel che avviene oltre i nostri confini e oltre le frontiere dei nostri vicini. In questi decenni di pace e di democrazia abbiamo sempre dispiegato un impegno costante in difesa di questi valori, ovunque siano minacciati.
La presenza diffusa dei nostri militari all’estero lo testimonia. A loro - e ai tanti volontari - va grande riconoscenza. Il terrorismo ci vuole impaurire e condizionare. Non glielo permetteremo. Difenderemo le conquiste della nostra civiltà e la libertà delle nostre scelte di vita. Con questo spirito abbiamo sentito, tutti, su di noi la sofferenza dei parenti delle vittime di Parigi e ci siamo stretti intorno alla famiglia di Valeria Solesin.
Le nostre Forze di polizia e i nostri servizi di sicurezza stanno agendo con serietà e con competenza per difendere la tranquillità della nostra vita. Il pericolo esiste ma si sta operando con grande impegno per prevenirlo.
Agli altri Paesi dell’Unione Europea abbiamo proposto di aumentare la collaborazione e di porre sollecitamente in comune risorse, capacità operative, conoscenze e informazioni per meglio contrastare e sconfiggere il terrorismo di matrice islamista. In questo periodo masse ingenti di persone si spostano, anche da un Continente all’altro, per sfuggire alle guerre o alla fame o, più semplicemente, alla ricerca di un futuro migliore. Donne, uomini e bambini: molti di questi muoiono annegati in mare, come il piccolo Aylan e, ormai, purtroppo anche nell’indifferenza.
Il fenomeno migratorio nasce da cause mondiali e durerà a lungo. Non ci si può illudere di rimuoverlo, ma si può governare. E si deve governare. Può farlo con maggiore efficacia l’Unione Europea e la stiamo sollecitando con insistenza.
Occorrono regole comuni per distinguere chi fugge da guerre o persecuzioni e ha, quindi, diritto all’asilo, e altri migranti che vanno invece rimpatriati, sempre assicurando loro un trattamento dignitoso.
L’Italia ha conosciuto bene, nei due secoli passati, la sofferenza e la fatica di chi lascia casa e affetti e va, da emigrante, in terre lontane. Il nostro è diventato, da alcuni anni, un Paese di immigrazione.
Molte comunità straniere si sono insediate regolarmente nel nostro territorio, generalmente bene accolte dagli italiani. Tanto che affidiamo spesso a lavoratrici e a lavoratori stranieri quel che abbiamo di più caro: i nostri bambini, i nostri anziani, le nostre case.
Sperimentiamo, giorno per giorno, sui banchi di scuola, al mercato, sui luoghi di lavoro, esperienze positive di integrazione con cittadini di altri Paesi, di altre culture e di altre fedi religiose. Il 70 per cento dei bambini stranieri in Italia, lo dice l’Istat, ha come migliore amico un coetaneo italiano. Bisogna lavorare per abbattere, da una parte e dall’altra, pregiudizi e diffidenze, prima che divengano recinti o muri, dietro i quali potrebbero nascere emarginazione e risentimenti.
Serve accoglienza, serve anche rigore. Chi è in Italia deve rispettare le leggi e la cultura del nostro Paese. Deve essere aiutato ad apprendere la nostra lingua, che è un veicolo decisivo di integrazione. Larghissima parte degli immigrati rispetta le nostre leggi, lavora onestamente e con impegno, contribuisce al nostro benessere e contribuisce anche al nostro sistema previdenziale, versando alle casse dello Stato più di quanto ne riceva. Quegli immigrati che, invece, commettono reati devono essere fermati e puniti, come del resto avviene per gli italiani che delinquono. Quelli che sono pericolosi vanno espulsi. Le comunità straniere in Italia sono chiamate a collaborare con le istituzioni contro i predicatori di odio e contro quelli che praticano violenza.
Negli ultimi anni è cresciuta la sensibilità per il valore della legalità. Soprattutto i più giovani esprimono il loro rifiuto per comportamenti contrari alla legge perché capiscono che malaffare e corruzione negano diritti, indeboliscono la libertà e rubano il loro futuro. Contro le mafie stiamo conducendo una lotta senza esitazioni, e va espressa riconoscenza ai magistrati e alle forze dell’ordine che ottengono risultati molto importanti.
Vi è, poi, l’illegalità di chi corrompe e di chi si fa corrompere. Di chi ruba, di chi inquina, di chi sfrutta, di chi in nome del profitto calpesta i diritti più elementari, come accade purtroppo spesso dove si trascura la sicurezza e la salute dei lavoratori.
La quasi totalità dei nostri concittadini crede nell’onestà. Pretende correttezza. La esige da chi governa, ad ogni livello; e chiede trasparenza e sobrietà. Chiede rispetto dei diritti e dei doveri. Sono numerosi gli esempi di chi reagisce contro la corruzione, di chi si ribella di fronte alla prepotenza e all’arbitrio.
Rispettare le regole vuol dire attuare la Costituzione, che non è soltanto un insieme di norme ma una realtà viva di principi e valori. Tengo a ribadirlo all’inizio del 2016, durante il quale celebreremo i settant’anni della Repubblica.
Tutti siamo chiamati ad avere cura della Repubblica.
Cosa vuol dire questo per i cittadini? Vuol dire anzitutto farne vivere i principi nella vita quotidiana sociale e civile. Nell’anno che sta per aprirsi si svolgerà il maggior percorso del Giubileo della Misericordia, voluto da Francesco, al quale rivolgo i miei auguri ed esprimo riconoscenza per l’alto valore del suo magistero. E’ un messaggio forte che invita alla convivenza pacifica e alla difesa della dignità di ogni persona. Con una espressione laica potremmo tradurre quel messaggio in comprensione reciproca, un atteggiamento che spero si diffonda molto nel nostro vivere insieme.
Sappiamo tutti che quando si parla di noi italiani le prime parole che vengono in mente sono genio, bellezza, buon gusto, inventiva, creatività. Sappiamo anche che spesso vengono seguite da altre, non altrettanto positive: scarso senso civico, particolarismo, individualismo accentuato.
Ricevo ogni giorno molte lettere e, in questo mio primo anno di presidenza, in giro per l’Italia e al Quirinale, ho incontrato tante persone e conosciuto le loro storie. Parlano di coraggio, di impegno, di spirito d’impresa, di dedizione agli altri, di senso del dovere e del bene comune, di capacità professionali, di eccellenza nella ricerca. E non si tratta di eccezioni. Nei miei colloqui con i rappresentanti di altri Paesi, in Italia e all’estero, ho sempre colto una considerazione e una fiducia nei confronti dell’Italia e degli italiani maggiori di quanto, a volte, noi stessi siamo disposti a riconoscere.
L’Italia è ricca di persone e di esperienze positive. A tutte loro deve andare il nostro grazie. Sono ben rappresentate da alcune figure emblematiche. Ne cito soltanto tre: Fabiola Gianotti, che domani assumerà la direzione del Cern di Ginevra, Samantha Cristoforetti, che abbiamo seguito con affetto nello spazio, Nicole Orlando, l’atleta paralimpica che ha vinto quattro medaglie d’oro. Nominando loro rivolgo un pensiero di riconoscenza a tutte le donne italiane. Fanno fronte a impegni molteplici e tanti compiti, e devono fare ancora i conti con pregiudizi e arretratezze. Con una parità di diritti enunciata ma non sempre assicurata; a volte persino con soprusi o con violenze. Un pensiero particolare alle persone con disabilità, agli anziani che sono o si sentono soli, ai malati. Un augurio speciale, infine, a tutti i bambini nati nel 2015: hanno portato gioia nelle loro famiglie e recano speranza per il futuro della nostra Italia.
Vi ringrazio, e a tutti buon 2016!».
Vaticano: a proposito della finta donazione del cardinal Bertone
di Paolo Farinella (il Fatto, 20 dicembre 2015)
Sig. cardinale Tarcisio Pietro Evasio Bertone,
che lei sia inadeguato ai ruoli e compiti che ha svolto è davanti agli occhi di tutti: a Genova dove non lasciò alcuna traccia significativa, ma scelse come plenipotenziario del Galliera, il prof. Giuseppe Profiti, al centro di ogni ben di Dio; da segretario di Stato dove ha distrutto la credibilità della Chiesa universale con la sua incapacità di governo, privo di qualsiasi discernimento, ma dedito a costruire una rete di fedelissimi per perpetuare il suo potere anche da pensionato e da morto; infine da cardinale in pensione con il miserevole attico di 296 mq dove vive con tre suore e magari si rilassa, giocando a golf negli appropriati corridoi.
Leggo sui giornali che lei ha deciso «ex abundantia cordis» di donare all’ospedale Bambin Gesù un contributo di 150mila euro, attinti come da lei dichiarato, dai «miei risparmi e dai vari contributi di beneficenza ricevuti negli anni per finalità caritative». Mi faccia capire perché c’è qualcosa che non quadra. Non sto a questionare sul fatto che la ristrutturazione è costata € 300mila, di cui 200mila pagati dalla fondazione Bambin Gesù.
Mi lascia esterrefatto la notizia che lei ha preso questi soldi «dai vari contributi di beneficenza ricevuti negli anni per finalità caritative», cioè non per lei, ma perché lei li desse per gli scopi per cui li ha ricevuti o, genericamente, per opere di carità. Invece lei dice che attinge da questi «vari contributi di beneficenza ricevuti negli anni» per pagare il suo appartamento. Non solo, ma lei parla di «vari anni», lasciando intendere un solo senso: lei ha trattenuto per anni contributi ricevuti per beneficenza. Mi perdoni, quando pensava di darli in beneficenza, alla sua morte per testamento?
Il buco che lei vuol coprire risulta più grande della toppa che cerca disperatamente di metterci su senza riuscirci perché la sua maldestra difesa aggrava ancora di più la sua posizione che l’espone, per le sue stesse parole, al ludibrio della gente perbene che vede nei suoi comportamenti una miserabile attitudine alla superficialità che è colpa ancora più grande della delinquenza di persone come lei che dicono di volere rappresentare quel Dio che accusa chi veste di porpora di essere soci della casta del potere. Non solo lei ha trattenuto nel suo conto personale denari ricevuti per beneficenza, ma li ha anche trattenuti per «vari anni», lucrando magari sugli interessi che dalle parti dello Ior, gestito da suoi uomini e da lei stesso, potrebbero essere stati più che generosi.
Lei ha rubato due volte ai poveri: la prima volta trattenendo questi denari non suoi e la seconda volta facendosi bello con l’ospedale «Bambin Gesù» dando soldi non suoi, ma quelli della beneficenza che non ha donato negli anni passati. In ultima analisi, poiché è il totale che fa la somma (copyright Totò), lei non sborsa nulla di tasca sua, ma paga tutto sempre con denaro di beneficenza. Complimenti, esimio cardinale!
La rovina dei preti sono sempre i soldi. Per questo sproloquiate di celibato perché così siete più liberi di amare «mammona iniquitatis», fornicando giorno e notte senza essere visti da alcuno. Se il tempo che dedicate a difendere il celibato dei preti, che solo pochi rispettano (e lei lo sa perfettamente!) o a condannare i gay laici - visto che preti, vescovi, monsignori e cardinali lo sono ad abundantiam - o a sproloquiare di separati e divorziati, di cui non sapete nulla, lo dedicaste a proibire ai preti di gestire denaro, fareste una cosa preziosa per il mondo e per la Chiesa. Sicuramente due terzi del clero lascerebbe la Chiesa, ma con il terzo che resta e con l’aiuto dei preti ridotti allo stato laicale perché sposati, ripresi in servizio, saremmo capaci di rivoluzionare il mondo, oltre che il Vaticano, covo di malaffare e di depravazione senza misura.
Tanti anni fa, quando era potente, io la ripudiai pubblicamente insieme al suo amico e sodale Berlusconi, da cui lei - o lui da lei? - «prese lo bello stile che le ha fatto (dis)onore» e oggi sono contento di avere visto lungo e giusto. Lei mente dicendo di essere salesiano; se lo fosse veramente, avrebbe agito come il cardinale Carlo Maria Martini, il quale, date le dimissioni, si è ritirato in una casa di gesuiti abitando in una stanza 6×4 con letto, tavolo, armadio, servizi e un assistente personale perché malato, partecipando alla vita comunitaria da cui proveniva.
Scegliendo di accorpare due appartamenti con i soldi della beneficenza, lei ha dimostrato non solo di non credere in Dio, ma di dare un pugno nello stomaco a Papa Francesco che sta provando a dire ai cardinali, ai vescovi e ai preti che c’è anche un piccolo libretto che si chiama Vangelo. A lei, di sicuro non interessa, perché come i fatti dimostrano, lei legge solo «Gli Attici degli Apostoli».
Con profonda disistima perché la conosco dai tempi di Genova, senza rimpianti.
prete - Genova.
di Alain Goussot (Comune-info, 17 dicembre 2015)
Nelle ultime settimane si parla molto delle vicende che riguardano la presenza o meno del Presepe nelle scuole per Natale con fronti contrapposti, tradizionalisti e laici ; fronti anche falsi poiché la questione è mal posta in partenza. Si parte da impliciti erronei: da una parte è come se le tradizioni che sono varie e anche vissute fossero per definizione opposte all’apertura e al riconoscimento delle differenze, dall’altra parte è come se il pluralismo culturale fosse per definizione contrario alle tradizioni.
Pensiamo che queste due posizioni siano false culturalmente e anche pedagogicamente. Sono posizioni che tendono ad escludere, a sottrarre: per i tradizionalisti le culture diverse, per i laici pluralisti le tradizioni considerate come problematiche.
In realtà sul piano pedagogico ma anche su quello dei vissuti, stiamo parlando dei bambini e delle loro famiglie, le cose sono molto più complesse e anche viste, per fortuna, con maggiore buon senso. Anzi bisognerebbe ritornare a una pedagogia del buon senso, come la chiamava Célestin Freinet, il fondatore dell’approccio cooperativo in educazione.
La questione non è di non fare il presepe insieme in classe oppure di non fare l’albero di Natale (ci si potrebbe chiedere perché l’albero sì e il presepe no?); la questione non è di escludere il presepe dalle aule perché potrebbe offendere la sensibilità di chi non è cattolico, personalmente non lo sono ma dubito fortemente che questo offenda i bambini presenti che provengono da diversi orizzonti culturali e familiari, quindi anche religiosi. In realtà se lo si vive come una costruzione comune, un gioco, un momento di festa e di convivialità, di curiosità, nessuno si sente offeso.
Ma per essere veramente inclusivo sul piano pedagogico bisogna anche festeggiare il Ramadan con i bambini musulmani e la festa ebraica con quegli ebrei presenti, oppure anche buddista e induista se necessario, trasformare tutti quei momenti come momenti d’incontro, di conoscenza e anche di convivialità poiché le emozioni positive che creano comunione e prossimità nel rispetto delle specificità di ognuno possono diventare delle mediazioni costruttive per crescere insieme e imparare a stare insieme nel rispetto della varietà culturale che forma la società.
Il laicismo che vorrebbe sottrarre finisce per fare della scuola un mondo ascetico, senza anima, senza vita, e soprattutto non rispecchiando la realtà socio-culturale, la sua logica è, purtroppo, quella di una nuova religione o cultura che esclude le altre.
Come affermava il grande pedagogista italiano Raffaele Laporta occorre rispecchiare pedagogicamente la pluralità dei mondi presenti nella società, la laicità è additiva e non sottrattiva, pluralista e non monoculturale, aperta a tutti e non chiusa a tutti in nome di una norma laica decisa da non si sa chi. Importante è il vissuto comune dei bambini, le loro percezioni e quella delle loro famiglie.
Quindi apriamo e non chiudiamo: facciamo il presepe a Natale, mettiamo insieme l’albero, mangiamo i pasticcini e leggiamo un racconto del Corano durante il Ramadan, festeggiamo la festa ebraica, oppure le feste cinesi e quelle civili, come quella del 25 Aprile: la logica dell’arricchimento e dell’accoglienza di tutti e di tutte è il terreno sul quale si costruisce le condizioni dell’educazione all’alterità, alla varietà e al meticciato. Mettiamoci in cammino sulla strada di una pedagogia transculturale che fa emergere al di là delle differenze il nostro fondo comune.
* Alain Goussot è docente di pedagogia speciale presso l’Università di Bologna. Pedagogista, educatore, filosofo e storico, collaboratore di diverse riviste, attento alle problematiche dell’educazione e del suo rapporto con la dimensione etico-politica, privilegia un approccio interdisciplinare (pedagogia, sociologia, antropologia, psicologia e storia). Il suo ultimo libro è L’Educazione Nuova per una scuola inclusiva (Edizioni del Rosone)
Se il carcere cancella la nostra Costituzione di Adriano Prosperi *
«Voi qui non applicate la Costituzione». Così ha detto un detenuto delle carceri italiane. Si chiama Rachid Assarag. Non importa perché si trovi in carcere. Basti solo sapere che ha registrato, con molte altre cose, questo breve dialogo.
Un dialogo con un graduato (un brigadiere) delle forze della polizia carceraria. Gli ha chiesto: «Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?». Gli è stato risposto: «In questo carcere la Costituzione non c’entra niente». E anche: «Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni».
La cosa stupefacente non è che un detenuto sia stato picchiato. Né che ci siano state quella domanda e quella risposta. La cosa fra tutte più singolare è proprio il nostro stupore. Davvero riusciamo a stupirci? Davvero non sapevamo che ci sono dei luoghi dove la Costituzione non vale? E non sapevamo forse che fra quei luoghi ci sono proprio quelli che si richiamano alla Giustizia? Gli uomini che picchiano ne recano il nome sulla loro divisa. Il loro ministero di riferimento è quello che si chiamava di Grazia e Giustizia. La Grazia se n’è uscita alla chetichella. Ma la parola Giustizia è ancora lì.
Non solo: quei luoghi sono governati in nome della Costituzione. La Costituzione è come un cielo che ci copre tutti. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, diceva Kant. La Costituzione nasce dalla volontà di sostituire all’illusoria volta di un cielo che, come diceva una canzone di Jacques Brel, “n’existe pas”, la protezione effettiva di un orizzonte comune, quella di princìpi e regole validi dovunque si estendano i confini dello Stato sovrano. È la coscienza di essere coperti da questo cielo che ci fa muovere negli spazi della vita quotidiana.
Ma ora, questo scambio di parole affiora in superficie dal fondo di un carcere e ci sbatte in faccia una verità che abbiamo finto ostinatamente di non conoscere: nelle nostre carceri la Costituzione non esiste. Ma davvero si può dare uno spazio pubblico, addirittura un luogo della giustizia dove la Costituzione non vale? Quando questo accade, è come se sulle mura della casa comune si aprisse una crepa. La crepa, trascurata, si allarga. Come in un celebre racconto di E.A.Poe, minaccia la rovina finale dell’edificio. Sottrarre una parte dello Stato alle regole costituzionali è un reato. La legge deve punirlo. Ma quando nella comune coscienza si installa la certezza che esiste uno spazio - quello carcerario - dove la Costituzione non vale, quando lo si sa e lo si dice apertamente in difesa di una pratica di vessazioni e torture nelle nostre piccole Guantanamo, allora vuol dire che la crepa sta intaccando le fondamenta.
Quel brigadiere ha detto che se la Costituzione valesse in quei luoghi, le carceri sarebbero state chiuse da tempo. Con quel brigadiere siamo in disaccordo totale per le cose che non ha fatto: doveva impedire che il detenuto venisse picchiato e non lo ha fatto. Ma siamo d’accordo con lui su quello che ha detto. Se la Costituzione è in vigore, quelle carceri debbono essere chiuse. Dovevano esserlo da decenni.
È un ritardo da colmare. Rachid Assarag, quali che siano le sue colpe, resterà nella storia italiana per aver smascherato una lunga, non più tollerabile ipocrisia collettiva.
Censis: il Paese è in letargo esistenziale collettivo, la ripresa è affidata all’inventiva personale
di Andrea Gagliardi (Il Sole - 24 Ore, 4 dicembre 2015)
Nell’Italia «dello zero virgola», in cui le variazioni congiunturali degli indicatori economici sono ancora minime, «continua a gonfiarsi la bolla del risparmio cautelativo e non si riaccende la propensione al rischio». Ma c’è «una piattaforma di ripartenza del Paese che gioca sul driver dell’ibridazione di settori e competenze tradizionali, che così si trasformano: è il nuovo Italian style». Sono alcuni dei passaggi più significativi del 49° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese. Un rapporto nelle cui «Considerazioni generali» si parla di «letargo esistenziale collettivo», di «pericolosa povertà di progettazione per il futuro, di disegni programmatici di medio periodo», di «prevalere dell’interesse particolare e dell’egoismo individuale», nonché di «crescita delle diseguaglianze, con una caduta della coesione sociale e delle strutture intermedie di rappresentanza che l’hanno nel tempo garantita».
Propensione al risparmio in crescita
Nel corso dell’anno i principali indicatori economici hanno cambiato segno ed evidenziano movimenti verso l’alto nell’ordine di qualche decimale di punto percentuale. Ma nell’Italia «dello zero virgola» continua a gonfiarsi la bolla del cash cautelativo. «Lo dimostra - scrive il Censis - il tasso di inflazione, inchiodato intorno allo zero nonostante il poderoso sforzo della Bce con il quantitative easing, così come gli investimenti nulli». Ammonta a più di 4.000 miliardi di euro il valore del patrimonio finanziario degli italiani. «In quattro anni (giugno 2011-giugno 2015) ha registrato un incremento di 401,5 miliardi: +6,2% in termini reali.
Negli anni della crisi la composizione del portafoglio delle attività finanziarie delle famiglie ha sancito il passaggio a una opzione fortemente difensiva degli italiani: il contante e i depositi bancari sono saliti da una quota pari al 23,6% del totale nel 2007 al 30,9% nel 2014, mentre sono crollate le azioni (dal 31,8% al 23,7%) e le obbligazioni (dal 17,6% al 10,8%). Negli ultimi dodici mesi (giugno 2014-giugno 2015) si conferma l’opzione cautelativa degli italiani, con un incremento di 45 miliardi di euro della liquidità (+6,3%) e di 73 miliardi in assicurazioni e fondi pensione (+9,4%), e con la rinnovata contrazione di azioni e partecipazioni (10 miliardi in meno, pari a una riduzione dell’1,2%). D’altro canto, il risparmio è ancora la scialuppa di salvataggio nel quotidiano, visto che nell’anno trascorso 3,1 milioni di famiglie hanno dovuto mettere mano ai risparmi per fronteggiare gap di reddito rispetto alle spese mensili.
Riguardo agli investimenti, il mattone ha ricominciato ad attrarre risorse. Lo segnala il boom delle richieste di mutui (+94,3% nel periodo gennaio-ottobre 2015 rispetto allo stesso periodo del 2014) e l’andamento delle transazioni immobiliari (+6,6% di compravendite di abitazioni nel secondo trimestre del 2015 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). E si diffonde la propensione a mettere a reddito il patrimonio immobiliare: 560.000 italiani dichiarano di aver gestito una struttura ricettiva per turisti, come case vacanza o bed & breakfast, generando un fatturato stimabile in circa 6 miliardi di euro, in gran parte sommerso. In questa fase, l’esigenza della riallocazione del risparmio in modo più funzionale all’economia reale si lega strettamente alla richiesta di scongelare quote del proprio reddito aspirate dalla fiscalità: il 55,3% degli italiani vuole il taglio delle tasse, anche a costo di una riduzione dei servizi pubblici.
Il rimbalzo occupazionale dopo la lunga crisi
Dall’entrata in vigore del Jobs Act, il mercato del lavoro «ha visto rimbalzare l’occupazione di 204.000 unità». Ma, segnala il Censis, «siamo ancora lontani dal recuperare la situazione pre-crisi, dato che nel terzo trimestre dell’anno, rispetto allo stesso periodo del 2008, mancano all’appello 551.000 posti di lavoro». La disoccupazione si riduce all’11,9%, «una cifra molto lontana però dal 6,7% del 2008». Per quanto riguarda i giovani (15-24 anni) si registra un crollo dell’occupazione, proseguito anche nel 2015, «con un recupero ora di appena 9.000 unità rispetto al primo trimestre. Il loro tasso di disoccupazione è praticamente raddoppiato in sei anni, con un picco del 42,7% nel 2014 e poi un calo di 1,4 punti tra il primo e il terzo trimestre di quest’anno».
L’occupazione femminile, invece, «ha guadagnato 64.000 posti di lavoro in sei anni e si registra ancora un incremento di 35.000 occupate tra il primo e il terzo trimestre del 2015». E se nel 2008 i lavoratori più anziani (55-64 anni) «erano poco meno di 2,5 milioni, nel 2014 erano diventati 3,5 milioni e continuano a crescere, con un aumento di 91.000 unità nei primi sei mesi dell’anno».
Si consolida la presenza nel mercato del lavoro della componente straniera, «che ha superato i 2,3 milioni di occupati, con un incremento di 604.000 unità tra il 2008 e il 2014 e di 77.000 nella prima metà dell’anno”. Intanto, permangono criticità che rischiano di cronicizzarsi: «i giovani che non studiano e non lavorano (i Neet) sono 2,2 milioni, la sottoccupazione riguarda 783.000 addetti, il part time involontario 2,7 milioni di occupati e la Cassa integrazione ha superato nel 2014 la soglia del miliardo di ore concesse, corrispondenti a circa 250.000 occupati equivalenti».
Il driver vincente dell’ibridazione
Per il Censis «la piattaforma di ripartenza del Paese gioca sul driver dell’ibridazione di settori e competenze tradizionali». Oggi il «primo fattore di riposizionamento dei vincenti è il rapporto con la globalità, profondamente modificato dall’abbattimento delle barriere e dei costi di ingresso grazie al digitale». Chi negli anni delle ristrettezze interne «ha vinto ogni pulsione protezionista o di pura trincea, ed è andato verso l’esterno assumendosene i rischi e accettando le sfide, adesso incassa il dividendo di tale scelta». Le esportazioni valgono il 29,6% del Pil. «Nonostante il contraccolpo causato dalla crisi dei mercati emergenti, hanno continuato a crescere anche negli anni della crisi e nei primi nove mesi dell’anno segnano un +4,2% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente». Vincono i produttori di macchine e apparecchiature, con un surplus di 50,2 miliardi di euro nel 2014, e «l’Italia oggi è leader nella produzione di macchinari per produrre altri macchinari.
Vince l’agroalimentare, che nell’anno dell’Expo fa il boom di esportazioni (+6,2% nei primi otto mesi del 2015) e riconquista la leadership nel mercato mondiale del vino (con oltre 3 miliardi di export). Vincono i comparti consolidati dell’abbigliamento (+1,4% di export nei primi otto mesi dell’anno), della pelletteria (+4,5%), dei mobili (+6,3%), dei gioielli (+11,8%). E vince un settore trasversale per vocazione come quello creativo-culturale, con 43 miliardi di export.
Ma il vero «X factor» sta «in una rinnovata ibridazione di settori e competenze tradizionali che produce un nuovo stile italiano». «Il risultato di questa ibridazione è una trasformazione dei settori tradizionali. Il design e la moda ne sono l’archetipo (ibridazione di qualità, saper fare artigiano, estetica, brand)» E oggi il successo della gastronomia italiana «ha agganciato lo sviluppo della filiera agroalimentare, legandola anche al turismo, alle bellezze paesaggistiche e culturali del Paese, grazie anche al volano delle piattaforme digitali».
Ritrovata nei beni durevoli: auto ed elettrodomestici
Il Censis segnala inoltre lo stop al ciclo declinante del consumo di beni durevoli, che, partito dal 2007, si è protratto fino al 2013. Dalla seconda metà del 2014 e per tutto il 2015 - scrive il Censis - sono proprio i beni durevoli a trainare la ripresa dei consumi familiari. Tra coloro che in famiglia assumono la responsabilità degli acquisti principali, la quota di chi dichiara di avere fiducia nel futuro (il 39,8%) supera quella di chi non vede segnali positivi (il 22,4%), mentre la parte restante (il 37,8%) è ancora incerta. Questa ritrovata fiducia si riflette sulle intenzioni di acquisto: il 5,7% delle famiglie (più del doppio rispetto all’anno scorso) ha intenzione di comprare un’auto nuova (se andrà così, si avranno nel 2016 circa 1,5 milioni di immatricolazioni, come non si vedeva dal 2008), il 5,7% nuovi mobili per la casa, l’11,2% nuovi elettrodomestici (quasi 3 milioni di famiglie), il 9,2% ha intenzione di ristrutturare l’immobile. Sono potenzialità nei consumi da scongelare.
Verso nuovi stili di consumo digitali e relazionali
Il Censis stima in 15 milioni gli italiani che fanno acquisti su internet, 2,7 milioni hanno comprato prodotti alimentari in rete negli ultimi dodici mesi e l’home banking è praticato dal 46,2% degli utenti del web. E il successo della sharing economy rende ancora più evidente i nuovi stili di consumo. Nell’ultimo anno il 4% degli italiani (circa 2 milioni) ha utilizzato il car sharing, ma tra i giovani la percentuale sale all’8,4%.
L’immigrazione e i processi di integrazione
Gli stranieri in Italia seguono una traiettoria di crescita verso la condizione di ceto medio, differenziandosi così dalle situazioni di concentrazione etnica e disagio sociale che caratterizzano le banlieue parigine o le “inner cities” londinesi, dove l’islam radicale diventa il veicolo del rancore delle seconde e terze generazioni per una promessa tradita di ascesa sociale. Tra il 2008 e il 2014 in Italia i titolari d’impresa stranieri sono aumentati del 31,5% (soprattutto nel commercio, che pesa per circa il 40% di tutte le imprese straniere, e nelle costruzioni, per il 26%), mentre le aziende guidate da italiani diminuivano del 10,6%.
Politica e società ancora fuori sincrono
Quest’anno il Censis registra un «generoso impegno a ridare slancio alla dinamica economica e sociale del Paese attraverso il rilancio del primato della politica, con un folto insieme di riforme di quadro e di settore, e la messa in campo di interventi tesi a incentivare propensione imprenditoriale e coinvolgimento collettivo rispetto al consolidamento della ripresa». Ma questo impegno «fatica a fomentare nel corpo sociale una reazione chimica, un investimento collettivo, la necessaria osmosi tra politica e mondi vitali sociali». L’elemento oggi più in crisi è la dialettica socio-politica, che «non riesce a pensare un progetto generale di sviluppo del Paese a partire dai processi portanti della realtà ed esprime una carenza di élite». Così, la cultura collettiva «finisce per restare prigioniera della cronaca (scandali, corruzioni, contraddittorie spinte a fronteggiarli, ecc.)». Resta un deficit di fiducia nei cittadini. Gli italiani si distinguono per un livello di fiducia accordato alle diverse istituzioni politiche più basso di quello espresso dai concittadini europei: solo quote minime hanno fiducia nei partiti politici (9%), nel Governo (16%), nel Parlamento nazionale (17%), e la percentuale di quanti ripongono fiducia nell’operato delle autorità regionali e locali (il 22%) è meno della metà di quanto si riscontra in media nel resto del continente (47%). Bassi anche i giudizi di fiducia su Commissione europea (39%) e Bce (35%).
I processi di sviluppo reale del Paese
Oltre la pura cronaca e il volontarismo della politica restano «i processi di sviluppo reale del Paese». È uno sviluppo fatto di «basi storiche, capacità inventiva e processi vincenti». Esempio ne sono i giovani che vanno a lavorare all’estero o tentano la strada delle start up, le famiglie che accrescono il proprio patrimonio e lo mettono a reddito (con l’enorme incremento, ad esempio, dei bed & breakfast), le imprese che investono in innovazione continuata e green economy, i territori che diventano hub di relazionalità (la Milano dell’Expo come le città e i borghi turistici), la silenziosa integrazione degli stranieri nella nostra quotidianità. A ciò si accompagna anche un’evoluzione più strutturata, con il nuovo made in Italy che si va formando nell’intreccio tra successo gastronomico e filiera agroalimentare, nell’integrazione crescente tra agricoltura e turismo (con l’implicito ruolo del patrimonio paesaggistico e culturale), nel settore dei «macchinari che fanno macchinari» (la vera punta di diamante della manifattura italiana).
La società del «resto»
Nelle fasi di sviluppo precedenti, la domanda di riconoscimento della società era rivolta al mondo della rappresentanza sociale, alla dialettica socio-politica e al potere statuale. Ma oggi sono tre chiamate in causa cui è difficile dare seguito, «perché sono tre realtà in crisi». Si esprime invece «in quella dinamica spontanea descritta sopra, che però è considerata residuale: un «resto» rispetto ai grandi temi che occupano la comunicazione di massa». Ma il «resto», che finora non è entrato nella cronaca e nel dibattito socio-politico, «comincia ad affermare una sua autoconsistenza».
«Cosa resta oggi del grande processo di globalizzazione vista come occidentalizzazione del mondo? Il policentrismo di tanti diversi sviluppi e la crescita faticosa di una poliarchia» ha detto Giuseppe De Rita, presidente del Censis, illustrando il Rapporto annuale dell’istituto. E ha spiegato: «Nella nostra storia, il resto del mito della grande industria e dei settori avanzati è stata l’economia sommersa e lo sviluppo del lavoro autonomo. Il resto del mito dell’organizzazione complessa e del fordismo è stata la piccola impresa e la professionalizzazione molecolare. Il resto della lotta di classe nella grande fabbrica è stata la lunga deriva della cetomedizzazione. Il resto dell’attenzione all’egemonia della classe dirigente è stata la fungaia dei soggetti intermedi e la cultura dell’accompagnamento. Il resto del primato della metropoli è stato il localismo dei distretti e dei borghi. Il resto della spensierata stagione del consumismo (del consumo come status e della ricercatezza dei consumi) è la medietà del consumatore sobrio. Il resto della lunga stagione del primato delle ideologie è oggi l’empirismo continuato della società che evolve».
Siamo un popolo di navigatori (a vista)
Rapporto Censis. Un Paese che arretra. Scompare l’idea del collettivo, considerata un’idea obsoleta del Novecento.
di Marco Revelli (il manifesto, 05.12.2015)
È «la società del resto». Una buona formula per fotografare l’Italia di oggi. «È come quando - scrive De Rita -, girando per il Paese, tu chiedi a qualcuno come va: lui ti dice che va tutto male, il lavoro, la macchina, la moglie. E allora tu chiedi: e il resto? E la risposta è sempre: il resto va bene».
Una risposta non propriamente rassicurante, perché «il resto» è ciò che sta fuori dall’asse centrale delle priorità assorbenti, dei pensieri dominanti, nella quotidianità privata come nella vita pubblica. In effetti, da questo ultimo Rapporto Censis, non escono propriamente squilli di fanfara per il governo, né conferme alla sua narrazione sull’«Italia che riparte». Emerge piuttosto l’immagine in bianco e nero di un Paese in difficoltà - «in letargo esistenziale collettivo», come consegnato in «un limbo».
Un Paese che cerca di difendersi come può, mettendo in campo strategie individuali o di piccolo gruppo, frammentate e locali, in assenza di un “progetto generale di sviluppo” che non si aspetta più da nessuno, men che meno da chi gli racconta di averlo e di pazientare perché presto si vedrà. Un Paese che comunque stenta a immaginare un futuro, subendo il proprio arretramento. O giocando mosse prevalentemente difensive (l’esatto opposto di ciò che si proporrebbero le terapie psicologiche dopanti somministrate dall’alto).
Lo dicono quei 3,1 milioni di famiglie che negli ultimi 12 mesi hanno dovuto intaccare i propri risparmi pregressi “per fronteggiare gap di reddito rispetto alle spese mensili”. Ma anche, paradossalmente, gli altri 10 milioni e mezzo (un po’ meno della metà delle famiglie italiane, che sono in tutto 24 milioni e 512 mila), che sono riuscite, anche negli anni della crisi, nonostante tutto, a mettere un po’ di fieno in cascina e a risparmiare qualcosa, ma lo tengono lì, disponibile - “a scopo cautelativo”, dice il Censis, “per finanziare la formazione dei figli, per i bisogni della vecchiaia, per paura di perdere il posto di lavoro” -, stoccato in contanti e depositi (che infatti sono saliti di più di sette punti tra il 2007 e il 2014, dal 23,6% al 30,9).O tutt’al più in assicurazioni e in fondi pensione (passati dal 14,8% al 20,9), anziché, “rischiarli”, come ai bei tempi della finanza creativa, in azioni e obbligazioni (crollate infatti di più di otto punti percentuali, dal 31,8% al 23,7).
Un popolo di navigatori a vista, dunque, preoccupati e ricondotti alla sobrietà e a una sacrosanta prudenza da un orizzonte percepito indubbiamente come incerto e non rassicurante. In primo luogo sul terreno - costitutivo di ogni progetto di vita - del lavoro, dal momento che l’unico, reale aumento dell’occupazione (un milione netto) si è registrato tra i “lavoratori anziani”, a cavallo dei sessant’anni, trattenuti “per decreto” nel recinto della “popolazione attiva” dall’innalzamento dell’età pensionabile.
Mentre per gli altri, soprattutto per i giovani, il quadro resta nerissimo, con quasi due milioni e mezzo di “scoraggiati”, e tre milioni e mezzo di sottoccupati e di part-time involontari. E con un welfare in costante restringimento (quasi otto milioni gli italiani si sono “indebitati o hanno chiesto un aiuto economico per far fronte a spese sanitarie private”, e un 68% di famiglie a basso reddito ha al suo interno almeno un membro che ha dovuto rinunciare alle cure per mancanza di mezzi).
Non stupisce che in un contesto strutturale così spaventosamente liquido e deprivato, l’azione collettiva scivoli fuori dall’orizzonte esistenziale. Che il “collettivo” stesso appaia come categoria obsoleta, d’altro secolo, d’altro universo sociale, e in primo piano domini, in un mondo di solitudini, l’istinto di sopravvivenza nella sua forma più elementare del “serba te ipsum”: ciò che don Milani, in un altro tempo, chiamava l’”avarizia” in contrapposizione con la “politica (uscire dai guai “tutti insieme” anziché “da soli”).
E’ questo, forse, l’elemento più inquietante del Rapporto Censis di quest’anno: quest’appassimento della fiducia nell’azione comune, che rende tutto più opaco e dimidiato: una società non più “di mezzo”, ricca di corpi intermedi, aggregazioni e gruppi coesi, com’era nell’idea deritiana di struttura virtuosa, ma una società “dimezzata” o, come scrive citando Turati, a “mezze tinte, mezze classi, mezzi partiti, mezze idee e mezze persone”... In cui la gente continua la propria vita quotidiana, fuori da un’emergenza conclamata: ha ripreso a consumare, a stipulare mutui, a pensare di comprar casa o cambiare l’auto. Ma a basso regime, lungo le infinite sfumature di grigio, nel segno di un piccolo cabotaggio. Cosicché si può dire che questa nuova lettura del Censis non è più da “tempo di crisi”. Sta già nel post: dice che questo tono basso sarà la normalità futura, perché la crisi non è stata una “parentesi” - dopo la quale si riparte alla grande, o come prima -, ma una metamorfosi il cui risultato è questo, qui fotografato.
E il “resto”, di cui si parlava all’inizio? Dove sta il resto, che evidentemente non è solo l’irrilevante. O il marginale inerte. De Rita conclude quella frase in questo modo: “Ecco, l’Italia è così: il resto ha dentro di sé un’energia misteriosa...”. E l’energia misteriosa è l’”ibridazione”: la rete lenticolare di saperi e di mestieri che le (finte) politiche di governo, o le atroci “leggi obiettivo”, o i famigerati “sblocca Italia” non vedono nemmeno, ma che lavora sotto traccia nell’iniziativa di una molteplicità di atomi laboriosi che coniugano “qualità, saper fare artigiano, estetica, brand”. O nel rianimarsi di quello “scheletro contadino” che sembra rinverdire nelle pratiche di “ritorno” e di “resilienza” di territori fino a ieri considerati “ai margini”. I segni, appena deboli tracce, di un possibile “collettivo” del futuro.
Così la narrazione dello sterminio degli ebrei ha finito col prevalere sul paradigma antifascista: un saggio di Manuela Consonni
di Marco Belpoliti (La Stampa, 1.12.2015
Tra i primi giornali a riportare le notizie sulle deportazioni e lo sterminio operato dai nazisti nel febbraio del 1945, quando ancora il Nord è occupato e Mussolini vivo, è il periodico Israel. Il 4 febbraio un articolo apparso sul foglio ebraico ricorda tre ebrei uccisi definendoli «combattenti per la libertà». Il tema della deportazione degli ebrei italiani è in quel momento compreso dentro l’identità scaturita dalla Resistenza. La narrazione antifascista ha assorbito il tema dello sterminio del popolo ebraico.
Settant’anni dopo di antifascismo e Resistenza non si parla quasi più, o almeno non in quei termini, mentre il paradigma «vittimologico» della Shoah è dominante, come scrive Anna Foa nella introduzione al volume di Manuela Consonni L’eclisse dell’antifascismo (Laterza). L’antifascismo non è più il cemento dell’identità delle forze cattoliche, socialiste, azioniste e comuniste, per altro oggi dissolte, le stesse che alimentarono la lotta alla Repubblica di Salò e agli occupanti tedeschi; la lotta di Resistenza appare come un valore lontano, remoto, messo in discussione in libri e dibattiti, affidato alla celebrazione sempre più stanca del 25 Aprile. Al contrario, nel corso degli Anni 70 la Shoah è andata costruendo un suo modello memoriale, separandosi dalla Resistenza e definendo il tema della sua unicità, culminato nel Giorno della Memoria. Secondo la studiosa, che insegna nell’Università di Gerusalemme, la caduta del paradigma resistenziale sarebbe anche il risultato di questa nuova visione.
Tra storiografia e politica
Manuela Consonni ricostruisce questa storia attraverso l’asse fondamentale delle memorie scritte degli ex deportati, sia nel periodo immediatamente seguente la fine della guerra, dal 1945 al 1948, sia negli Anni 70 e 80, quando tre diverse ondate di testimonianze furono rese pubbliche. Si tratta di un lavoro importante che mette in campo problemi complessi di ordine sia storiografico sia politico, e che ha nella divaricazione tra memoria della Resistenza e memoria della deportazione ebraica il suo punto focale.
Fino alla metà degli Anni 70 il modello del deportato era quello eroico del politico rinchiuso a Mauthausen e Buchenwald, oppositore del fascismo, combattente della Resistenza contro il mostro nazista. Un posto minore, in una visione dominata dalla figura maschile, avevano le stesse figure femminili, nonostante tra le prime testimonianze scritte vi fossero diverse donne. Dello sterminio ebraico si parlava in modo ridotto, come di una specie di sottoprodotto del nazismo; il paradigma antifascista era fondamentale dopo la rottura della unità di governo tra democristiani e comunisti negli Anni 40; la lotta ideologica che ne seguì nei due decenni successivi fece sostenere ai comunisti che la Resistenza era stato il Secondo Risorgimento d’Italia; i campi di concentramento nazisti occultavano agli occhi dei militanti di quel partito l’esistenza dei Gulag sovietici. Manuela Consonni s’inoltra in questo terreno storiografico e arriva sino alla data del 1989, alla fine dei regimi comunisti all’Est, per quanto la successiva dissoluzione del Msi, la sua mutazione e cooptazione nei governi Berlusconi, abbia modificato ulteriormente il quadro d’insieme.
La posizione di Primo Levi
La crisi del paradigma resistenziale, tema che lo stesso Pasolini sulla scorta di Franco Fortini proporrà negli Anni 60 negli Scritti corsari in modo provocatorio (l’equivalenza fisica dei giovani fascisti e antifascisti), verrà affrontato in modo originale da Primo Levi, autore centrale nel libro di Manuela Consonni. Lo scrittore e testimone torinese è davvero una figura emblematica. La sua posizione diverge da quelle dominanti in ogni decennio, sia riguardo il tema generale della deportazione, sia rispetto alla questione dello sterminio ebraico.
Nel 1947 Levi titola il suo libro Se questo è un uomo, e non «Se questo è un ebreo», eppure descrive la deportazione degli ebrei ad Auschwitz; il libro inizia parlando del campo di Fossoli e degli ebrei internati senza fare menzione della sua cattura come partigiano, cosa che invece accade nella edizione uscita nel 1958, quella che oggi leggiamo. In un successivo articolo del 1955, «Anniversario. Deportazione», Levi mette in discussione la retorica della deportazione politica antifascista e parla delle vittime del nazismo (uomini, donne, bambini) rifiutando il facile paradigma «vittimario». In un’epoca in cui tutto appariva bianco o nero, scrive dei carnefici definendoli uomini alla pari delle loro vittime. Sono temi che non troveranno spazio nella lettura successiva della Shoah e dell’Olocausto diventate canoniche nel corso degli Anni 80. E nel 1986, pubblicando I sommersi e i salvati, metterà in dubbio la stessa memoria quale fondamento della testimonianza, aprendo la discussione sulla corresponsabilità delle vittime con il tema della «zona grigia».
Primo Levi appare controcorrente tanto rispetto alla vulgata antifascista dell’eroe resistente quanto al successivo martirologio delle vittime della Shoah. Il libro di Manuela Consonni ci aiuta a definire meglio le forme e i limiti delle diverse letture della deportazione, un contributo essenziale per comprendere quella che resta di una delle più grandi tragedie del XX secolo, che continua a gettare la sua lunga ombra anche sul XXI.
Dal Partito della Nazione al Partito della Costituzione
di MICHELE DI SCHIENA*
Nel film “Cose da pazzi” del 2005, diretto e interpretato da Vincenzo Salemme, il protagonista principale della commedia chiede a uno stupefatto impiegato pubblico la pensione di invalidità per un «handicap morale» provocatogli dal fallimento del comunismo e si produce poi in un estroso ma significativo monologo nel corso del quale spiega la sua inidoneità affermando che, nonostante la sconfitta del suo credo politico, egli non può che vivere ispirandosi agli ideali comunisti e quindi adottando «un codice di comportamento che questa società non considera valido».
In polemica con l’inflessibile funzionario che gli chiede se sia ancora comunista, il deluso personaggio così reagisce: «Non è il comunismo che mi manca! Non sono stupido! A me manca il sogno comunista! Io sono stato ingannato. Voglio essere risarcito».
E conclude poi la sua perorazione con queste parole: «Voi non mi volete aiutare ed allora insegnatemi a vivere come voi, senza scrupoli e senza sensi di colpa. Altrimenti mettetemi in un mondo dove non esistono zingari, negri, poveri, disperati, un mondo dove non si sappia quanti bambini muoiono di fame ogni giorno... mandatemi qualcuno che mi dimostri che vivere in questa società è giusto».
Un monologo interessante e significativo (peraltro in un film senza grandi pretese) che dovrebbe far riflettere sullo stato d’animo di quella sinistra che continua a credere negli ideali di emancipazione sociale e di giustizia del movimento comunista che aveva acceso nel cuore di milioni di esseri umani la speranza di un mondo migliore per poi crollare sotto il peso delle degenerazioni ideologiche e delle tragiche esperienze di governo del cosiddetto socialismo reale.
C’è quindi ancora una sinistra di cultura socialista che non è fatta solo dei nostalgici del passato, ma include anche tanti giovani e meno giovani che non si trovano a loro agio in un mondo senza forti tensioni etiche e senza progetti di profondo cambiamento economico e sociale.
Persone che si riconoscono in un nuovo socialismo che coincide, per dirla col vescovo Pedro Casaldáliga, con una «democrazia radicalizzata, universale, economica, sociale e culturale », una democrazia insomma piena e senza confini tesa a realizzare alcuni obiettivi di vitale importanza: la dignità della persona, un’economia più umana, la libertà, l’uguaglianza sociale, la partecipazione, la corresponsabilità, la tutela della salute, il diritto al lavoro e il diritto allo studio.
Ma c’è di più e cioè un vasto movimento di popolo, fatto di credenti e di non credenti, che oggi si riconosce nel pensiero di papa Francesco, il quale parla di un mondo dilaniato da scandalose disuguaglianze e dalla «cultura dello scarto» che produce «rifiuti umani», e che condanna un sistema definito dell’esclusione e dell’inequità, un’economia «che uccide» e che perciò deve essere incisivamente riformata.
Un discorso, quello dell’attuale pontefice, condiviso anche da tante personalità di rilievo internazionale e specialmente in Italia da importanti settori della cultura progressista di matrice liberaldemocratica.
A ben guardare, mai come oggi si è fatta pressante nel mondo la domanda di politiche nuove che rendano più sostanziale e partecipata la democrazia e puntino alla trasformazione del sistema economico dominante in direzione di strutture e dinamiche informate ai principi dell’uguaglianza e della solidarietà.
Ma resta il problema di quale via imboccare per fare in modo che queste nuove e diffuse sensibilità, questi aneliti di radicale cambiamento dall’ambito etico e culturale vengano proiettati sul versante della politica, per essere tradotti in solidali ed efficaci esperienze di testimonianza e di impegno.
La strada maestra sembra quella di riproporre con rinnovata determinazione il messaggio della Dichiarazione universale dei diritti umani e delle più avanzate Costituzioni varate dopo il secondo conflitto mondiale. Documenti che non si limitano solo a proclamare ideali e principi, ma indicano anche i metodi e gli strumenti per tradurli in politiche concrete.
Per quanto riguarda il nostro Paese, l’auspicato cambiamento non è certo quello delle pseudorottamazioni renziane che hanno lasciato le cose come erano e in diversi casi le stanno rendendo peggiori.
La vera svolta è quella di dare finalmente attuazione alla nostra Costituzione. Una Costituzione che “fonda” la Repubblica sul lavoro, che promuove la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione anche economica del Paese, che sancisce il diritto al lavoro facendo carico allo Stato di renderlo effettivo, che riconosce la proprietà e l’iniziativa economica privata ma esige che l’una e l’altra siano indirizzate e coordinate a fini sociali, che prescrive un sistema tributario informato a criteri di progressività e obbliga i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche ad adempierle con disciplina e onore. Uno Statuto che ripudia la guerra e candida l’Italia a svolgere sul versante internazionale il ruolo di “una grande potenza di pace”.
Il nostro Paese non ha bisogno di riforme in contrasto con questo grande progetto e, ancor meno, di un egemonico Partito della Nazione destinato a mortificare ulteriormente dentro e fuori il Parlamento la dialettica democratica e ad ogni livello il controllo sociale.
Ciò che occorre è invece un grande e pluralistico “Partito della Costituzione”, un coagulo di forze di diversa ispirazione culturale, un nuovo e questa volta autentico “arco costituzionale” che contrasti in tutte le legittime forme possibili il progressivo svuotamento del nostro Statuto e abbia l’obiettivo di tradurre in programmi politici il suo messaggio e le sue direttive per far coincidere la più piena legalità con la pacifica e più autentica rivoluzione.
* presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione
Adista - Segni Nuovi, 5 DICEMBRE 2015 • N. 42
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO, CHE GIA’ DANTE SOLLECITAVA ...
Intervista a Stefano Rodotà
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 19 novembre 2015)
Nel codice la parola non compare mai, segno di una insofferenza forse reciproca, di una incompatibilità che in Italia è più forte che altrove. Al conflitto permanente tra diritto e amore dedica bellissime pagine Stefano Rodotà, un giurista da sempre attento al tumultuoso rapporto tra l’irregolarità e l’imprevedibilità della vita e l’astrazione formale della regola giuridica (Diritto d’amore, Laterza). Inutile aggiungere da che parte stia Rodotà. Ed è superfluo anticipare che in questa storia protagonisti non sono solo il diritto e i sentimenti ma anche la politica. Con alcune vittime - un tempo le donne, oggi gli omosessuali - che guidano il cambiamento.
Professor Rodotà, diritto e amore sono incompatibili?
«Ancora una volta mi aiuta Montaigne, che definisce la vita un movimento volubile e multiforme. Il diritto è esattamente il contrario, parla di regolarità e uniformità, è insofferente alle sorprese della vita. Quando poi si entra nel terreno amoroso, la soggettività prorompe. E il diritto è decisamente a disagio»
Perché?
«I rapporti affettivi possono essere qualcosa di esplosivo nell’organizzazione sociale. E dunque il diritto s’è proposto come strumento di disciplinamento delle relazioni sentimentali che non lascia spazio all’amore. Basta ripercorrere due secoli di storia: nella tradizione occidentale il diritto per un lungo periodo ha sancito l’irrilevanza dell’amore. E di fatto ha sacrificato le donne, codificando una diseguaglianza»
In che modo?
«Il rapporto di coppia è stato riconosciuto in funzione di qualcosa che non ha nulla a che vedere con i sentimenti: la stabilità sociale, la procreazione, la prosecuzione della specie. Sulle logiche affettive hanno prevalso quelle patrimoniali. E se San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi predicava il possesso reciproco e paritario tra marito e moglie, da noi si è affermato il modello gerarchico maschilista che riduce il corpo delle donne a proprietà del marito»
Questo modello gerarchico è perdurato in Italia fino alla metà degli anni Settanta del Novecento. Un’anomalia italiana anche questa?
«No, sul piano storico non direi. Il modello famigliare della modernità occidentale - dalla fine del Settecento in avanti - è stato terribilmente gerarchico. Dopo l’unificazione noi assorbimmo il codice francese firmato da Napoleone, che sanciva la più cieca obbedienza della moglie al marito. Pare che Napoleone durante la campagna d’Egitto fosse rimasto colpito dal modo in cui il diritto islamico disciplinava il rapporto tra moglie e marito»
Da noi la storia successiva è stata condizionata dalla Chiesa cattolica. Ma anche la politica ha contribuito ad anestetizzare i sentimenti.
«Sì, il matrimonio ha mantenuto il suo impianto gerarchico anche grazie all’influenza della Chiesa. Quanto alla politica, per una fase non breve della storia, si è mossa in una logica di disciplinamento delle pulsioni, nell’incontro tra il rigorismo cattolico e quello socialcomunista»
Colpisce che anche i nostri padri costituenti - Calamandrei, Nitti, Orlando - si opponessero al principio dell’eguaglianza tra marito e moglie perché in conflitto con il codice civile.
«Incredibile. Nelle loro teste il modello matrimoniale consegnato alle regole giuridiche è un dato di realtà irriformabile. Non si rendevano conto che stavano cambiando le regole del gioco. E che la carta costituzionale stava sopra il codice civile»
Una rigidità che lei ritrova in una recente sentenza della Corte costituzionale, che dice no ai matrimoni gay in nome del codice civile.
«Sì, anche loro si piegano al codice che parla soltanto di matrimoni tra uomini e donne. Mi ha colpito il riferimento della Corte a una tradizione ultramillenaria del matrimonio: come se si trattasse di un dato naturale non soggetto ai mutamenti sociali e antropologici. Invece si tratta di una costruzione storica che è andata cambiando in Europa e in Italia. Ma l’Italia è l’unico paese che non vuole prenderne atto, nonostante abbia sottoscritto la carta dei diritti dell’Unione europea»
Una carta che nell’accesso al matrimonio cancella il riferimento alla diversità del sesso nella coppia.
«E infatti è stato proprio quell’articolo, l’articolo nove, bersaglio di una forte pressione da parte della Chiesa. Pressioni passate sotto silenzio, che però io sono in grado di testimoniare, visto che ero seduto al tavolo della convenzione. Aggiungo che il riferimento alla tradizione millenaria della famiglia, pronunciato dalla nostra Corte costituzionale, non compare in nessun’altra giurisprudenza»
Oggi facciamo fatica ad approvare perfino le unioni civili. Perché succede?
«Si tratta di un conflitto molto ideologizzato, favorito dallo sciagurato radicamento dei cosiddetti«valori non negoziabili" e«temi eticamente sensibili» Questi vengono sottratti al legislatore non perché il legislatore non se ne debba occupare ma perché il legislatore deve accettare il dato naturalistico e immodificabile»
Una barriera che non esisteva ai tempi delle battaglie sul divorzio e sull’aborto.
«E infatti non ci fu la stessa intolleranza. Pur nell’ostinata contrarietà, la Dc prendeva atto che erano intervenute novità sociali non più trascurabili»
Il disgelo era cominciato negli anni Sessanta, quando l’amore cessò di essere fuorilegge. Solo nel 1968 la Corte costituzionale cancellò il reato di adulterio per le donne. E nel 1975 arriva il nuovo diritto di famiglia, che mette fine al modello gerarchico.
«Sì, alle logiche proprietarie subentrano quelle affettive. E tuttavia anche in quella occasione il legislatore trattenne la sua mano di fronte alla parola amore. Si parla di fedeltà, collaborazione, ma non d’amore»
Ma si può mettere la parola amore in una legge?
«Qualcuno sostiene: più il diritto se ne tiene lontano, meno lo nomina, meglio è. Però bisogna domandarsi: il diritto non nomina l’amore perché lo rispetta fino in fondo o perché vuole subordinarlo ad altre esigenze come la stabilità sociale? Per un lungo periodo della storia italiana è stato così»
C’è il diritto d’amore delle coppie omosessuali, che devono poter accedere al matrimonio. Ma c’è anche il diritto d’amore dei figli, che devono poter essere amati da un padre e da una madre. Come si conciliano questi due diritti?
«Non c’è alcuna evidenza empirica che figli cresciuti in famiglie omosessuali mostrino ritardi sul piano del sviluppo della personalità e dell’affettività. E allora, domando, i figli dei genitori single?»
I genitori single - forse più di tutti gli altri - sanno che i figli hanno bisogno di un padre e di una madre, di una figura maschile e di una femminile. E anche la psichiatria formula dubbi sulle adozioni delle coppie gay.
«Lei pone una questione che però non si risolve con l’uso autoritario del diritto. Prima riconosciamo pari dignità a tutte le relazioni affettive e prima saremo in grado di costruire dei modelli culturali adatti a questa nuova situazione. Finché manteniamo il conflitto e l’esclusione, tutto questo diventa più difficile»
Lei dice: il matrimonio egualitario porta con sé la legittimità delle adozioni.
«Certo. Se una volta raggiunto questo risultato si vuole discutere, si potrà farlo senza ipoteche ideologiche. È una storia che non finisce. Come non si finisce mai di rispondere alla sollecitazione di Auden: la verità, vi prego, sull’amore»
Gender, non parlarne è una scelta sbagliata
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 13.11.2015)
Sarà perché è in inglese, ma la parola gender sembra ormai diventata nel nostro Paese una minaccia tale da dover essere interdetta e vietata nello spazio pubblico. Così il sindaco di Padova è arrivato a negare la sala del Comune dove avrebbe dovuto essere presentato il nuovo libro della filosofa Michela Marzano, Papà, mamma e gender, uscito solo qualche giorno fa per la Utet.
L’inquietante gesto di Massimo Bitonci è paradossalmente la conferma di quel che Marzano denuncia sin dall’inizio nel suo libro: «L’ostilità crescente nei confronti di ogni iniziativa finalizzata a decostruire gli stereotipi sessisti e omofobi». Che senso ha impedire il dibattito, fare in modo che non ci possa essere né riflessione né, addirittura, informazione? Tanto più che si pretende di sapere che cosa sia la «teoria del gender », mentre spesso domina l’ignoranza. E così si immagina che il gender sia quasi un demone maligno che viene a squassare la famiglia. Meglio sarebbe allora tacere - e far tacere - sull’argomento.
Che il divieto abbia colpito il libro di Marzano è triste, perché si tratta del tentativo di far luce sulla questione con toni dialoganti. Fino a che punto il genere sessuale è determinato biologicamente e fino a che punto è una costruzione culturale? Parliamone. Ma con la delicatezza e la profondità che un tale argomento richiede. Anche perché, proprio in Italia, un certo modo di considerare il genere - maschile e femminile - ha portato a modelli normativi, spesso accettati acriticamente anche dai più giovani, i cui effetti devastanti sono sotto gli occhi di tutti. E dovrebbe ormai essere chiaro che dove si discrimina chi è diverso si finisce per avallare la violenza. Speriamo, dunque, che a Michela Marzano si aprano molti spazi pubblici in cui possa esserci un confronto sui temi del suo libro.
LO SPETTRO del GENDER
Quale sarà il grave pericolo per i bambini che ieri ha fatto scendere in piazza decine di migliaia di persone al grido di "salviamo i nostri figli"?
di CHIARA SARACENO (la Repubblica, 21.06.2015)
A SENTIR loro è l’indistinzione dei sessi, che sarebbe la conseguenza sia di una educazione che insegni a maschi e femmine a rispettarsi reciprocamente e a non chiudersi (e non chiudere l’altra/o) in ruoli stereotipici e rigidi, sia del riconoscimento della omosessualità come un modo in cui può esprimersi la sessualità, della legittimità dei rapporti di amore e solidarietà tra persone dello stesso sesso e della loro capacità genitoriale.
Stravolgendo le riflessioni di sociologhe/i, filosofe/i, antropologhe/i, persino teologhe/i sul genere come costruzione storico-sociale che attribuisce ai due sessi capacità, destini (e poteri) diversi e spesso asimmetrici, attribuiscono ad una fantomatica “teoria del genere” e alla sua imposizione nelle scuole - e la parola gender spiccava ieri sui cartelloni innalzati in piazza - la negazione di ogni distinzione tra i sessi e la volontà di indirizzare i bambini e i ragazzi verso l’omosessualità o la transessualità, quasi che l’orientamento sessuale sia esito di scelte intenzionali e possa essere orientato dall’educazione.
Timore, per altro, paradossale e contraddittorio in chi pensa che solo l’eterosessualità sia lo stato di natura. Rifiutando di distinguere tra conformazione sessuata dei corpi, ruoli sociali, orientamento sessuale, considerano chi propone questa distinzione come un pericoloso sostenitore tout court dell’androginia indifferenziata. Timorosi della “normalità”, e dello stigma e del disgusto che l’accompagnano, sono a loro agio solo nella perfetta, e unidimensionale, sovrapposizione delle tre dimensioni, che non dia adito a dubbi, in cui ciascuno “ sta al proprio posto”, assegnato da una natura priva di varietà, storia, cultura,intenzioni.
Per questo ce l’hanno tanto con l’omosessualità e il riconoscimento delle coppie omosessuali, perché non vi vedono solo uomini e donne che sono attratti da e amano persone del proprio sesso pur sentendosi rispettivamente maschi e femmine, ma uomini e donne che sconfinano dal proprio sesso, che non ne riconoscono le regole, sul piano della sessualità, ma anche della identità, incrinando perciò l’ordine di un mondo in cui maschile e femminile sono nettamente separati e l’eterosessualità non è solo una forma di sessualità, ma una norma sociale che assegna a ciascuno i propri compiti e posto in base al sesso di appartenenza.
In agitazione continua contro ogni proposta di riconoscimento delle coppie dello stesso sesso, a prescindere dalla affettività e solidarietà che le lega non diversamente dalle coppie di sesso diverso (migliaia di emendamenti alla proposta di legge Cirinná), da qualche tempo hanno aperto un fronte anche nei confronti della scuola, dalla materna in su.
Se la prendono con le iniziative che mirano a contrastare sia il bullismo omofobico sia la stereotipia di genere (due fenomeni distinti, anche se la seconda può favorire il primo) e ad aiutare i bambini e ragazzi a comprendere la varietà delle forme famigliari in cui di fatto vivono.
Purtroppo, come a suo tempo per l’educazione sessuale di cui hanno con successo impedito avvenisse a scuola, hanno trovato ascolto presso il ministero dell’educazione e la ministra Giannini, che dopo la manifestazione di ieri sarà ancora più attenta alle pressioni di chi non vuole che si tocchino questi temi a scuola.
Resta da vedere che cosa ha da dire il presidente Renzi, se si farà impaurire anche lui, che si propone come un innovatore, rimandando ancora una volta il riconoscimento delle coppie dello stesso sesso e lasciando fuori dalla “buona scuola” quei temi che, se affrontati serenamente e con consapevole legittimità, aiuterebbero ad evitare molte paure e molte violenze.
La rubrica settimanale di Sarantis Thanopulos
Uccidere i genitori
Verità nascoste
di Sarantis Thanopulos (il manifesto, 14.11.2015)
Un ragazzo ha ucciso la madre e ferito gravemente il padre della sua fidanzatina, con la complicità di lei. Le vittime si opponevano al loro legame. Una ragazza ha ucciso la madre che le aveva proibito l’uso di internet, a causa del suo cattivo rendimento a scuola. In occasione di queste catastrofi affettive ci si interroga sempre sui motivi. Regolarmente le cause scatenanti appaiono del tutto sproporzionate all’enormità dell’azione in cui trovano sbocco.
Nel primo interrogarsi sull’uccisione dei genitori, nell’ambito della tragedia greca, lo sguardo si muove tra l’omicidio preterintenzionale del padre (Laio) da parte di Edipo e l’omicidio intenzionale della madre (Clitemnestra) da parte di Oreste -istigato dalla sorella Elettra. Edipo cancella dalla sua strada un padre di cui ignora l’identità, un estraneo che non l’ha riconosciuto come figlio. La responsabilità è di Giocasta: estorcendo un figlio da Laio, che ne era contrario, l’ha espulso dalla sua vita di donna/madre. Oreste elimina intenzionalmente Clitemnestra, perché lei, uccidendo Agamennone, l’ha privato del padre, delegittimandolo come uomo. Il parricidio di Edipo certifica la non esistenza del padre, il matricidio di Oreste afferma la necessità della sua permanenza.
In entrambi i casi, l’eliminazione del padre da parte della madre è un atto intenzionale che rescinde il legame di lui con il figlio. Mentre Edipo fa propria l’intenzione materna, inconsapevole del suo significato e delle sue implicazioni, Oreste afferma la propria opposta intenzionalità e elimina la madre uxoricida. Il primo precipita nel baratro della cecità, il secondo si avvia a un doloroso riscatto.
La prospettiva tragica lega l’uccisione dei genitori alla dissoluzione del legame coniugale. La dissoluzione fa diventare la madre una figura autocentrata che, ignorando la figlia, usa il figlio per annientare il padre. Per i figli -fratello e sorella- l’unica salvezza possibile è di sconfiggere la volontà autocratica che la madre/Sfinge incarna. Senza cadere nella tentazione di risposare la sua causa, restaurandola nella sua potenza (la contraddizione in cui si è perso Edipo).
La tragedia colloca il parricidio e il matricidio al centro del conflitto psichico dell’essere umano: la sua oscillazione tra l’uccisione interiore preterintenzionale del padre, che lo lascia indefinito nella sua identità, e l’uccisione intenzionale della madre autocratica, che gli consente di definirsi. L’uccisione concreta della madre e/o del padre, denuncia l’impossibilità del conflitto (il cui esito decide il grado di sanità psichica del soggetto). La sostituzione della sponda genitoriale allo sviluppo di una vera conflittualità con regole astratte, al tempo stesso restrittive e indefinite, preclude ai figli lo sviluppo di una vera intenzionalità e responsabilità. L’eliminazione fisica del genitore rende manifesto il vuoto nel luogo psichico che dovrebbe ospitarlo come autorità interna. L’esplicitazione del vuoto interno invoca l’intervento di un’autorità normativa esterna, cerca nella punizione l’argine all’indeterminatezza della propria vita.
La lezione da trarre dal matricidio e dal parricidio, è che la relazione tra genitori e figli non è naturale, né sacra, ma un riconoscimento reciproco tra soggetti desideranti. La genitorialità non è una funzione che si eredita: i genitori se la devono conquistare. Quando i genitori non riescono a impegnarsi in modo personale e si affidano a un’anonima interpretazione normativa della loro funzione, i figli possono cercare nella norma il genitore «vero» e materializzarlo nell’intervento repressivo della legge.
Parole sbagliate
di Carlo Francesco Ridolfi (comune-info, 10 novembre 2015) *
Quando si inizia un discorso, sarebbe opportuno aver fatto pulizia nel linguaggio. Perché le parole pesano e lasciano tracce e se sono parole sbagliate possono lasciare tracce doloranti e dolorose. Così, ad esempio, se una volta dicevamo direttore didattico (e ci viene in mente Gianfranco Zavalloni, che ci diceva: “Io ho delle segretarie formidabili, che si occupano delle circolari e dei timbri. Io mi interesso della didattica”) e oggi dovremmo invece dire dirigente, cominceremmo già a torcerci verso quel paradigma aziendalista che sembra andare per la maggiore.
Così, in ugual modo, se chiamiamo utenti gli studenti, o se gli obiettivi didattici vengono riassunti in un testo che si intitola piano dell’offerta formativa, richiamandosi per logica ad una domanda e ad una logica di scambio mercantile.
Useremo quindi parole forse desuete, ma che ci convincono di più, per dire alcuni pensieri sull’educazione e sulla scuola.
Scrive in un suo (bellissimo) testo il senatore Walter Tocci:
Pulizia del linguaggio: l’usura delle parole di cui, a volte, sembra soffrire il nostro tempo, causa slittamenti di significato che hanno conseguenze pratiche spesso deleterie. Infatti quando si parla di educazione molti intendono scuola, attribuendo (i genitori) o assumendo su sé (gli insegnanti) il compito di trasmettere non solo nozioni, ma anche stili di vita, forme di pensiero, costumi e senso comune.
Così come Tocci, anche il (nostro) grande maestro Mario Lodi ci ricordava sempre che l’educazione non comincia (e non finisce) a scuola, ma che il bambino e la bambina arrivano già alla scuola dell’infanzia, e ancor più alla primaria, con un bagaglio culturale ed emotivo appreso in famiglia, dall’ambiente circostante, dai media, di cui è necessario tener conto.
In un’epoca e in un mondo nei quali l’ansia maggiore sembra essere quella della misurabilità delle prestazioni, così da quantificarne estensione e durata, la riflessione che ci è parsa più urgente è stata quindi quella di cercare una possibilità altra, che consideri la dimensione educativa come non necessariamente soggetta a calcolo e bilancio economicistico. Abbiamo quindi cominciato ad immaginare una scuola buona, dove il sostantivo non indica solo uno spazio o un tempo definito, ma una vita intera, e l’aggettivo recupera i suoi significati originari di tensione al bene, onestà, mitezza, cortesia, generosità, ma anche di qualità, di valore, di eleganza.
Cercheremo cioè di indicare una prassi del cammino, perché il punto di partenza dev’essere la corretta definizione di quanto la nostra azione possa essere efficace, se improntata a quel principio di responsabilità verso chi ci è prossimo, ponendo l’attenzione allo spazio reale in cui noi si possa agire.
Diceva Ernst Bloch:
Si definisce qui già un obiettivo generale, che servirebbe da spartiacque per collocare la scuola buona. I processi educativi e quelli più compiutamente didattici devono servire a inserire l’alunno o l’alunna in un ambiente dato, al quale essi debbano conformarsi, oppure a fornire loro strumenti per contribuire alla trasformazione e al cambiamento progressivo di quello stesso ambiente? Rispondendo in un senso o nell’altro si ha già chiara l’idea di dove si va a parare.
Se ci è necessaria, quindi, una ortopedia del camminare eretti, può essere conseguente che la nostra azione risulterebbe inefficace se diretta o a uno spazio così generico e impalpabile da risultare presto soffiata via nel cielo delle idee, o a confini così angusti da ripiegarsi su se stessa in una quasi inevitabile eterogenesi dei fini. Fissare, ad esempio, il nostro campo di azione nel raggio delle persone e dei luoghi che possiamo raggiungere camminando sarebbe già un criterio di economia delle forze e di razionalità politica.
Potremmo partire, cioè, da un’azione educativa nella prossimità.
Ancora Walter Tocci:
Al politico possiamo quindi dire che una scuola buona non può essere la scuola pubblica che sembra essere sempre più orientata a diventare una scuola privata: privata di mezzi, di intelligenze, di agibilità.
All’imprenditore che abbia ben chiaro che i riferimenti obbligati per tutti noi sono quelli della Costituzione della Repubblica Italiana e, in particolare per lui, principalmente gli Articoli 41-42-43[4], ma anche i seguenti 44-45-46-47, possiamo ricordare che una virtuosa circolazione delle informazioni, delle conoscenze e delle competenze può arricchire sia il know-how dell’impresa che quello della società.
Al cittadino, sia esso, in questo caso, genitore o insegnante o tutt’e due, è giusto e possibile assegnare il compito di pensare a pratiche di scuola indipendente: a sperimentare - cioè - negli spazi pubblici là dove sia possibile, ma anche in spazi non pubblici che non siano per ciò stesso improntati esclusivamente al profitto - forme educative e prassi pedagogico-didattiche che pongano in concreto al centro i bambini e le bambine e le ragazze e i ragazzi.
Con quale metodo di lavoro?
1. Non dare nulla per scontato. Non esiste la didattica data una volta per tutte o la pedagogia buona per tutte le stagioni. La teoria e la pratica si devono confrontare con la situazione reale, con gli studenti in carne ed ossa.
2. Non adagiarsi sulle mode. Gli educatori dovrebbero essere curiosi per abitudine intellettuale e pratica.
3. Abbandonare la logica del sistema (dato e immodificabile) per entrare nella logica del processo (in cui esistono sia elementi di costante che possibili varianti).
4. Educare alla bellezza. Perché la scuola buona dev’essere anche bella. Non si tratta di una accademica scelta per pochi iniziati, di un’aristocratica tensione estetizzante, ma di un orizzonte a cui tendere continuamente, con la consapevolezza che l’educazione all’armonia delle forme e dei contenuti è la strada più agevole per una formazione di sensibilità civiche.
5. Decifrare il solfeggio dello spirito. La definizione, bellissima, è stata attribuita dagli articolisti di Le Monde nel ricordo del grandissimo antropologo Claude Lévi-Strauss. “Decifrare il solfeggio dello spirito” significa, ad esempio, in didattica della letteratura o dell’immagine, utilizzare gli strumenti dell’analisi strutturale e stilistica non per quelle insopportabili autopsie dei testi che sono le schede di valutazione, ma per una maggiore e sempre più approfondita esplorazione dei criteri e degli elementi intertestuali che può farci conoscere ancora meglio la bellezza dei testi stessi.
6. Agire insieme. Significa, prima di tutto, mettere in comune le rispettive conoscenze. Non solo in termini di apertura alla discussione e al confronto, ma anche, nella pratica quotidiana, nel rendere disponibili materialmente sia eleborazioni teoriche che azioni di pratica educativa. Significa, concettualmente ma anche in concreto, privilegiare la logica dell’open-source, piuttosto che quella del copyright e della proprietà privata delle idee.
Come scrive Beatrice Bonato :
Perché, in definitiva, la scuola buona è una scuola da benedire come un regalo.
. * coordinatore per la Rete di Cooperazione Educativa - C’è speranza se accade @
Note
1. Walter Tocci: La mancata riforma della scuola. Manuale di sopravvivenza agli abbagli mediatici. 2015.
2. Ernst Bloch: Marxismo e utopia. A cura di Virginio Mazzocchi. Editori Riuniti. Roma, 1984.
3. Walter Tocci. Id.
4. Art. 41: L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Art. 42: La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sull’eredità.
Art. 43: A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di interesse generale.
5. Beatrice Bonato: Senso e non senso della competizione, in Aut Aut n. 358. La Scuola impossibile.
Misericordia e carità al posto di diritti e giustizia
di Adriano Prosperi (Left, 14 aprile 2015)
Come ha osservato di recente Thomas Piketty, i partiti di centrosinistra al governo hanno cessato da tempo di difendere le classi popolari: davanti alla crisi della deindustrializzazione, invece di rafforzare le istituzioni pubbliche e i sistemi di protezione sociale esistenti, i partiti di governo hanno scelto di abbandonare le classi popolari e i ceti medi.
Noi italiani lo sappiamo bene. Scomparso da tempo perfino lo spettro verbale della “patrimoniale”, da noi si fanno avanti ricette come quella di colpire le “pensioni d’oro” e ridisegnare la curva delle pensioni. Sulla pelle dei lavoratori si è abbattuta la cancellazione dell’art. 18, ultima fondamentale conquista della politica dell’abbandono delle tutele e dei servizi pubblici essenziali - si pensi alle ferrovie, alla sanità, alla scuola pubblica e all’università, ai beni culturali e al paesaggio.
Si capisce perché le classi popolari votino per le destre, osserva Piketty pensando al caso francese. Ma in Italia le cose vanno in altra direzione: un partito che si definisce ancora di centrosinistra continua a riscuotere la maggioranza dei consensi, almeno di coloro che ancora pensano di partecipare alle elezioni.
Quella italiana è una variante che non si spiega con la miseria delle destre nostrane ma chiede di essere analizzata. E qui bisogna ricorrere alla celebre formula di Tomasi di Lampedusa: bisogna che tutto cambi perché tutto resti com’era. Formula suggestiva e persuasiva quanto misteriosa. Quel che resta com’era è l’ingiustizia sociale, il rapporto di sopraffazione dei vincitori sui vinti, le classi popolari: quel che cambia è la retorica. Renzi ne offre un buon esempio nel colorare di rosa la realtà.
Si pensi alla storia della ripresa dovuta al Jobs act: una vera invenzione della politica parlata. Secondo Renzi, a inizio 2015 avremmo avuto 82.000 posti di lavoro in più: un segno di speranza. Ma la realtà dei dati Istat ha calato la suo gelida carta: la disoccupazione è salita di nuovo sfiorando il 13% complessivo mentre quella giovanile tocca la cifra terrificante del 42,3%. Comunque, bando alla realtà, l’ottimismo di Stato è necessario. Perché da noi lo stato d’animo diffuso è lo scoramento. Una volta l’orgoglio nazionale scattava quando Coppi e Bartali vincevano il Tour de France. Oggi che la Ferrari è un’azienda in mani non italiane è difficile rivitalizzare l’esultanza del tifo.
Ma c’è nella retorica della comunicazione pubblica qualcosa che è cambiato, contribuendo a che tutto resti com’era. Parliamo di Chiesa e religione. Col papato argentino di Francesco è caduto in desuetudine lo sfacciato legame delle gerarchie ecclesiastiche con gli affari della destra finanziaria più feroce e gaudente incarnata da Berlusconi. Oggi la denunzia delle sofferenze ha trovato un grande amplificatore nell’uomo che fa affluire torme umane in piazza San Pietro; ma si è anche aperta la possibilità di trasformare la protesta in un dolce e gratificante lamento devoto sulla malvagità umana.
Le classi popolari sono ridiventate i poveri del mondo preindustriale. La parola dominante è misericordia. Ci sarà un giubileo col suo nome. Il consenso universale che circonda ogni uscita di Francesco ha molto di ambiguo e di strumentale: se ieri, in mezzo a una massa di indifferenti più o meno credenti, c’era anche qualche laico (magari devoto), oggi ci sono solo devoti, non importa se credenti o meno.
Il furbissimo partito renziano ha colto l’opportunità che gli si offriva per restaurare una nuova età democristiana dove la carità prevarica sulla giustizia e la misericordia ha la meglio sui diritti: provate un po’ a parlare di moschee da costruire o di diritti di cittadinanza per chi vive e lavora da noi.
I DUE CORPI DEL RE, DEL PAPA, E DI OGNI ESSERE UMANO: LA DIGNITA’ NON MUORE MAI. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela:
Il Re è morto, viva l’arbitro
di Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano, 04/02/2015)
Se i presidenti si giudicassero dai loro discorsi, Sergio Mattarella sarebbe un presidente perfetto. Si dirà che quasi tutti i politici e molti presidenti italiani, tipo l’ultimo e il penultimo che poi erano la stessa persona, parlano bene e razzolano male. Ma c’era qualcosa di non rituale e dunque di sincero nel discorso di insediamento tenuto ieri a Montecitorio dal dodicesimo presidente.
Quei richiami insistiti e competenti alla Costituzione e alla legalità andavano al di là della retorica del cerimoniale, dando l’impressione di un’ispirazione profonda, convinta e sentita, che fa ben sperare per la fisionomia che Mattarella vorrà dare al suo ruolo di capo dello Stato, dopo gli stravolgimenti che la funzione ha subìto nei nove, pessimi anni di Napolitano.
Così come il largo spazio che, nel breve discorso, hanno avuto i temi della lotta alla delinquenza organizzata, intesa non solo come mafia ma anche come sistema criminale di corruzione politico-amministrativa-finanziaria, ben oltre i confini tradizionali fra i due fenomeni.
È tutta musica per le nostre orecchie, sempreché alle parole poi seguano i fatti. Rispettare la Costituzione significa respingere al mittente le leggi incostituzionali, diversamente dal predecessore. E significa anche prestare molta attenzione al tradimento dello spirito costituzionale che emerge dal progetto di controriforma del Senato promosso dal governo (anziché dal Parlamento: un’anomalia fra le tante). Che non è, con buona pace dei turiferari, un progetto monocameralista: prevede, invece, un abortino con una Camera onnipotente formata per due terzi da nominati e di un Senato-dopolavoro di non eletti, con tanti saluti alla sovranità popolare e alla divisione dei poteri, visto che il premier diverrebbe il padrone del Parlamento, dunque del capo dello Stato e di parte del Csm e della Consulta. Ma questo attiene al futuro, e Mattarella - come tutti, almeno per noi - verrà giudicato dai fatti.
Per ora godiamoci l’esordio di un Presidente che, a differenza dell’altro, non attacca le opposizioni, anzi ne elogia la carica giovanile; non dà ordini al Parlamento, anzi esalta la separazione dei check and balances; e non blatera di guerra e pace fra magistrati e politici, cioè tra guardie e ladri, per magnificare le larghe intese.
Chissà se i mille e più grandi elettori che l’hanno interrotto con applausi 42 volte hanno colto, nelle parole del nuovo presidente, la fine della monarchia e il ritorno alla Repubblica, visto che sono gli stessi che due anni fa, nell’aprile 2013, si spellavano le mani per il Discorso della Corona di re Giorgio, che trattava la Costituzione come un ferrovecchio da stravolgere e dettava la linea al Parlamento, al governo, alle opposizioni, alla magistratura, alla stampa, ai sindacati e a chiunque respirasse. Anche l’appello di Mattarella per la libertà di stampa, tema completamente abbandonato dai vertici delle istituzioni per non disturbare sappiamo bene chi, ha un suo significato: si tratta ora di tradurlo in pratica, per liberare l’informazione dai conflitti d’interessi che la inquinano.
Chissà se quella di Mattarella è stata una reazione ai disgustosi cori di peana e le cascate di saliva che hanno accolto la sua elezione, così come l’ascesa al potere di chiunque nell’ultimo ventennio, e sempre dalle stesse penne alla bava.
Può darsi di no, ma a noi piace pensare che l’uomo da tutti dipinto come schivo e riservato sia piuttosto allergico ai servi encomi. Soprattutto se puzzano di falso distante un miglio, e nascondono retropensieri maleodoranti.
Sappiamo tutti chi c’è, fra i parlamentari che ieri facevano la ola a Montecitorio: un centinaio fra condannati, imputati e inquisiti (senza contare il pregiudicato-detenuto B. incredibilmente invitato alla cerimonia sul Colle), i 101 e più franchi traditori di Prodi nel 2013, centinaia di approvatori di leggi vergogna (comprese quelle poi bocciate dalla sua Corte costituzionale), vari amici di corruttori e mafiosi nonché praticanti del voto di scambio e di altre nefandezze denunciate dal presidente, e i 148 “abusivi” che stanno lì soltanto grazie ai premi di maggioranza incostituzionali del Porcellum incostituzionale.
Che avevano, costoro, da applaudire un personaggio e un discorso che sono la negazione delle loro biografie? Speravano, come due anni fa, di potersi nascondere un altro po’ dietro la bella faccia di un Presidente che contano diventi anche lui il santo patrono della Casta e di tutte le sue vergogne. Speriamo che li smentisca e li deluda presto.
AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!. QUALE SPIRITO?! QUALE FEDE?! QUALE TESTIMONIANZA?!
"La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprattutto, con la sua testimonianza". (fls)
Papa Francesco \ Documenti
Papa, Messaggio Quaresima. Il testo integrale *
“Rinfrancate i vostri cuori”. È il titolo del Messaggio di Papa Francesco per la Quaresima 2015. Di seguito, il testo integrale del messaggio:
“Cari fratelli e sorelle,
la Quaresima è un tempo di rinnovamento per la Chiesa, le comunità e i singoli fedeli. Soprattutto però è un “tempo di grazia” (2 Cor 6,2). Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade. Però succede che quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono... allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene.
Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani, dobbiamo affrontare. Quando il popolo di Dio si converte al suo amore, trova le risposte a quelle domande che continuamente la storia gli pone. Una delle sfide più urgenti sulla quale voglio soffermarmi in questo Messaggio è quella della globalizzazione dell’indifferenza.
L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce e ci svegliano.
Dio non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo. Nell’incarnazione, nella vita terrena, nella morte e risurrezione del Figlio di Dio, si apre definitivamente la porta tra Dio e uomo, tra cielo e terra. E la Chiesa è come la mano che tiene aperta questa porta mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità (cfr Gal 5,6). Tuttavia, il mondo tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Così la mano, che è la Chiesa, non deve mai sorprendersi se viene respinta, schiacciata e ferita.
Il popolo di Dio ha perciò bisogno di rinnovamento, per non diventare indifferente e per non chiudersi in se stesso. Vorrei proporvi tre passi da meditare per questo rinnovamento.
1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) - La Chiesa
La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprattutto, con la sua testimonianza. Si può però testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di Dio e degli uomini. Ce lo ricorda bene la liturgia del Giovedì Santo con il rito della lavanda dei piedi. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, ma poi ha capito che Gesù non vuole essere solo un esempio per come dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Questo servizio può farlo solo chi prima si è lasciato lavare i piedi da Cristo. Solo questi ha “parte” con lui (Gv 13,8) e così può servire l’uomo.
La Quaresima è un tempo propizio per lasciarci servire da Cristo e così diventare come Lui. Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio e quando riceviamo i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo. In questo corpo quell’indifferenza che sembra prendere così spesso il potere sui nostri cuori, non trova posto. Poiché chi è di Cristo appartiene ad un solo corpo e in Lui non si è indifferenti l’uno all’altro. “Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12,26).
La Chiesa è communio sanctorum perché vi partecipano i santi, ma anche perché è comunione di cose sante: l’amore di Dio rivelatoci in Cristo e tutti i suoi doni. Tra essi c’è anche la risposta di quanti si lasciano raggiungere da tale amore. In questa comunione dei santi e in questa partecipazione alle cose sante nessuno possiede solo per sé, ma quanto ha è per tutti. E poiché siamo legati in Dio, possiamo fare qualcosa anche per i lontani, per coloro che con le nostre sole forze non potremmo mai raggiungere, perché con loro e per loro preghiamo Dio affinché ci apriamo tutti alla sua opera di salvezza.
2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) - Le parrocchie e le comunità
Quanto detto per la Chiesa universale è necessario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità. Si riesce in tali realtà ecclesiali a sperimentare di far parte di un solo corpo? Un corpo che insieme riceve e condivide quanto Dio vuole donare? Un corpo, che conosce e si prende cura dei suoi membri più deboli, poveri e piccoli? O ci rifugiamo in un amore universale che si impegna lontano nel mondo, ma dimentica il Lazzaro seduto davanti alla propria porta chiusa ? (cfr Lc 16,19-31). Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa visibile in due direzioni.
In primo luogo, unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza è vinta dall’amore. La Chiesa del cielo non è trionfante perché ha voltato le spalle alle sofferenze del mondo e gode da sola. Piuttosto, i santi possono già contemplare e gioire del fatto che, con la morte e la resurrezione di Gesù, hanno vinto definitivamente l’indifferenza, la durezza di cuore e l’odio. Finché questa vittoria dell’amore non compenetra tutto il mondo, i santi camminano con noi ancora pellegrini. Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, scriveva convinta che la gioia nel cielo per la vittoria dell’amore crocifisso non è piena finché anche un solo uomo sulla terra soffre e geme: “Conto molto di non restare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime” (Lettera 254 del 14 luglio 1897).
Anche noi partecipiamo dei meriti e della gioia dei santi ed essi partecipano alla nostra lotta e al nostro desiderio di pace e di riconciliazione. La loro gioia per la vittoria di Cristo risorto è per noi motivo di forza per superare tante forme d’indifferenza e di durezza di cuore.
D’altra parte, ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri e i lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti gli uomini.
Questa missione è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non può tacere. La Chiesa segue Gesù Cristo sulla strada che la conduce ad ogni uomo, fino ai confini della terra (cfr At 1,8). Così possiamo vedere nel nostro prossimo il fratello e la sorella per i quali Cristo è morto ed è risorto. Quanto abbiamo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro. E parimenti, quanto questi fratelli possiedono è un dono per la Chiesa e per l’umanità intera.
Cari fratelli e sorelle, quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare dell’indifferenza!
3. “Rinfrancate i vostri cuori !” (Gc 5,8) - Il singolo fedele
Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza. Siamo saturi di notizie e immagini sconvolgenti che ci narrano la sofferenza umana e sentiamo nel medesimo tempo tutta la nostra incapacità ad intervenire. Che cosa fare per non lasciarci assorbire da questa spirale di spavento e di impotenza?
In primo luogo, possiamo pregare nella comunione della Chiesa terrena e celeste. Non trascuriamo la forza della preghiera di tanti! L’iniziativa 24 ore per il Signore, che auspico si celebri in tutta la Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13 e 14 marzo, vuole dare espressione a questa necessità della preghiera.
In secondo luogo, possiamo aiutare con gesti di carità, raggiungendo sia i vicini che i lontani, grazie ai tanti organismi di carità della Chiesa. La Quaresima è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno, anche piccolo, ma concreto, della nostra partecipazione alla comune umanità.
E in terzo luogo, la sofferenza dell’altro costituisce un richiamo alla conversione, perché il bisogno del fratello mi ricorda la fragilità della mia vita, la mia dipendenza da Dio e dai fratelli. Se umilmente chiediamo la grazia di Dio e accettiamo i limiti delle nostre possibilità, allora confideremo nelle infinite possibilità che ha in serbo l’amore di Dio. E potremo resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.
Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31). Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro.
Per questo, cari fratelli e sorelle, desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza. Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca”.
Fondi tagliati del 70% e pochi asili nido
L’Italia si arrende alla povertà dei bimbi
In miseria 1,5 milioni di minori. Le ricerche: cattiva alimentazione e offerta educativa carente
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 05.12.2014)
Una spending review implacabile l’han fatta davvero: sui fondi per combattere la povertà. Dal 2008 a oggi hanno tagliato il 69,4%. Proprio mentre crescevano gli affanni delle famiglie: la metà di quelle con tre figli, nel Sud, è in miseria. Lo dicono la Fondazione Zancan e un rapporto della Commissione parlamentare sull’infanzia: la crisi pesa soprattutto sui bambini.
Gli ultimi dati del Centro studi veneto mettono i brividi: tra il 2011 e 2013 «la percentuale di famiglie con almeno un figlio minore relativamente povere è aumentata di quasi 5 punti percentuali, dal 15,6% al 20,2%». A dispetto di tutte le chiacchiere sulla famiglia («Ci vuole ben altro che qualche spot coi cuccioli in braccio, bambini o cagnolini che siano», ha scritto furente il direttore di Famiglia Cristiana Antonio Sciortino) il quadro è drammatico.
«La situazione è particolarmente grave per le famiglie con tre o più figli minori», insiste il dossier: per oltre un terzo sono «relativamente povere». Nel Mezzogiorno, come dicevamo, il quadro è ancora più fosco: è povera più di una famiglia su tre (36,4%) con almeno un figlio minore e poverissimo il 51,2% di quelle che hanno tre o più figli piccoli o adolescenti.
«I bambini sono un segno. Segno di speranza, segno di vita, ma anche segno “diagnostico” per capire lo stato di salute di una famiglia, di una società, del mondo intero», ha ricordato mesi fa papa Francesco. Se è così, allarme rosso: le famiglie con almeno un bambino sprofondate nella povertà assoluta, spiega il dossier «La povertà infantile in Italia» della Fondazione, negli ultimi tre anni sono raddoppiate, dal 6,1 al 12,2%, e sono oggi il triplo rispetto al 2007, l’ultimo anno prima della crisi. E così, conferma l’Istat, sono aumentati i bambini e gli adolescenti che versano in condizioni di miseria: erano 723 mila nel 2011, sono quasi un milione e mezzo oggi.
Ancora più dura però, per certi aspetti, è la bozza del rapporto finale dell’«Indagine conoscitiva sulla povertà e il disagio minorile» della Commissione parlamentare per l’infanzia, che ha come presidente Michela Vittoria Brambilla e come relatrice Sandra Zampa. Dove si riconosce la capitolazione dello Stato in quella che dovrebbe essere una guerra alla miseria, alla fame, al degrado del nostro capitale più prezioso: i bambini.
Dopo avere ricordato il progressivo smottamento della società, compreso il dato che la povertà assoluta è aumentata perfino «tra gli impiegati e i dirigenti» e «anche in vaste aree del Nord», la relazione spiega che «nel 2007 i bambini che non potevano permettersi un pasto proteico una volta ogni due giorni erano il 6,2%, nel 2013 tale numero risultava già più che raddoppiato, raggiungendo la percentuale del 14,4». Un bambino su sette. In un Paese che ancora si fa vanto di appartenere al G8.
Certo, la drammaticità di oggi è diversa da quella denunciata dall’inchiesta parlamentare sulla miseria di Stefano Jacini nel 1880 o da quella analoga ripetuta nei primissimi anni 50 del Novecento. Proprio perché ricordiamo quei nostri nonni bambini ai tempi in cui il medico Luigi Alpago Novello scriveva nel 1900 che nelle famiglie di Conegliano la perdita di un figlioletto causava a volte «minor dolore non dirò di un grosso animale bovino ma di una semplice pecora», riscoprire questa Italia povera getta sale su ferite antiche.
Che cosa hanno fatto i governi per contenere questa nuova ondata di povertà? Risponde la Commissione parlamentare d’inchiesta: troppo poco. Soprattutto rispetto agli altri: «Con riferimento all’anno 2011, la Francia ha ridotto del 17% la povertà dei minori, la Germania del 17,4%, il Regno Unito del 24,4%, la Svezia del 17,5%» e noi solo del 6,7%. Peggio perfino della Spagna (7,6%) che certo meno in crisi non è.
A farla corta: nel 2009 lo Stato stanziava per le politiche sociali, complessivamente, due miliardi e 523 milioni e oggi, come dicevamo, meno di un terzo. Il 7° «rapporto aggiornamento Crc», citato nella relazione, fornisce dettagli in più: il Fondo per le politiche della famiglia, ad esempio, nel 2009 era a 186 milioni e mezzo, oggi meno di 21. Nove volte di meno.
Anche l’ultimo «Report Card» dell’Istituto degli Innocenti, dal titolo «Il benessere dei bambini nei Paesi ricchi», ci inchioda: «Nella classifica generale l’Italia occupa il 22º posto, alle spalle di Spagna, Ungheria e Polonia...». Di più, incalza il rapporto parlamentare: nel Mezzogiorno «tende ad affermarsi un modello nutrizionale sempre più simile a quello esistente nei Paesi del Sud del mondo, in cui si abbandona la tradizione alimentare nazionale a favore di un consumo eccessivo del cosiddetto junk food , il cibo ipercalorico a scarso valore nutrizionale, che però vanta un costo basso».
Per non dire della povertà educativa, strettamente legata a quella economica: la regione più povera sotto questo profilo, «cioè dove si riscontra la minore presenza di servizi educativi, è la Campania, seguita ex aequo da Puglia e Calabria e poi dalla Sicilia».
Nessuno, però, può chiamarsi fuori: «Si osserva che le regioni definite “ricche” di offerta educativa in Italia, vengono qualificate come “povere” nel confronto con altri Paesi europei. Volendo operare un esempio concreto, per la copertura dei nidi, il target europeo è il 33%, mentre in Italia, al di là dell’Emilia Romagna, che risulta la prima Regione, con il 28%, la media nazionale si attesta intorno al 17».
Cosa fare? Forse la soluzione giusta, rispondono sia la Commissione e sia la «Zancan», non sono i «bonus bebè». Cioè la distribuzione a pioggia di manciate di soldi: molto meglio, ad esempio, concentrare gli sforzi e spostare 1,5 miliardi dagli assegni familiari su un progetto per raddoppiare i «nidi» così da accogliere 403 mila bambini. Cosa che consentirebbe, tra l’altro, di «creare oltre 40 mila posti di lavoro».
MILANO.
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI
La Lectio magistralis di don Gino Rigoldi
In occasione del conferimento della laurea honoris causa in «Comunicazione sociale e di impresa»
di Don Gino Rigoldi (Corriere della Sera, 04.12.2014)
Voglio all’inizio di questa mia lezione ringraziare il Rettore, il Consiglio di Facoltà, e tutti coloro che hanno promosso la nostra laurea honoris causa. Per me, e credo anche per gli altri due colleghi, è un grande onore ricevere una laurea da questa nostra prestigiosa università milanese. La “scienza della comunicazione” in particolare è stata, fin dall’inizio del mio lavoro sociale e della mia predicazione come sacerdote, un’intenzione importante ed una cura molto ricercata e concreta. Ogni persona che svolga un lavoro educativo ha bisogno di curare le sue modalità di comunicazione, perché sono lo strumento di ingresso nella relazione. Agli inizi degli anni ’70 nel Carcere minorile “Beccaria” incontravo mediamente ogni anno mille giovani maschi e femmine provenienti quasi esclusivamente dal Sud Italia; dagli anni novanta è iniziato l’ingresso massiccio nel carcere minorile dei minori stranieri portatori di altra cultura, di altra religione e di altra lingua.
Questi giovani avevano certamente bisogno di essere ascoltati e capiti e poi aiutati a comprendere i problemi che avevano creato e le difficoltà che avrebbero incontrato fuori dal carcere. Occorreva avere attenzione, cura e linguaggio. Mi è parso giusto dunque confrontarmi, studiare, andare ad imparare le regole e le risorse della comunicazione. Senza una buona relazione, nei rapporti con i giovani ma anche con gli adulti è come parlare dietro una porta chiusa. Se non si apre la porta non si fa nulla. Non ho potuto frequentare qualche facoltà di “Scienze della comunicazione” e allora ho cercato ed ho trovato una ottima formatrice alla comunicazione, una importante giornalista della Rai della quale ora purtroppo non ricordo il nome.
Mi ricordo bene però le due regole fondamentali che ci insegnò: “Si parla in pubblico quando si ha qualcosa da dire e si sa cosa si vuole dire” e la seconda: “gli altri, le persone alle quali voi parlate, hanno un difetto: esistono. Esistono con la loro cultura i loro giudizi ed i loro pregiudizi, i loro interessi e così via”. Se volete comunicare dovete parlare a chi avete davanti. Due regole necessarie e fondamentali da non dimenticare mai. Esistono certamente molte modalità e molte intenzioni nella comunicazione. La modalità che io ho scelto, che ho cercato di imparare e che voglio praticare è quella di una comunicazione in funzione della relazione, siano i miei interlocutori giovani o adulti, italiani o stranieri.
Permettetemi di soffermarmi su questo termine, “relazione”, che ritengo una delle parole più importanti per la nostra vita privata, sociale, laica o cristiana ma non per questo riconosciuta, proposta e fatta diventare regola nelle quotidiane pratiche individuali e sociali, centro della educazione nella famiglia e nelle scuole. L’antropologia, la cultura, la fede nella relazione si fonda sulla convinzione che ogni essere umano è uguale a me e titolare di una dignità e di diritti sacri ed inalienabili. Per un cristiano ogni uomo o donna è figlia o figlio di Dio come me.
La conseguenza e la coerenza legata a queste convinzioni è che con questa persona, con la quale condivido la comunità sociale o religiosa, la professione, la città, posso legare rapporti, progettualità, fare comunità, vivere insieme il lavoro e la cultura, la politica o la fede. Il pregiudizio, la convinzione preliminare è che con ogni persona è possibile costruire rapporti, collaborazioni, amicizia. Ogni relazione, come ogni rapporto umano ha bisogno di onestà e di trasparenza, non è aliena dal conflitto ma ha come impegno e come desiderio quello di creare legami che possono andare dalla compagnia, all’amicizia, all’amore. Questa è un’arte, secondo me l’arte per una vita bella e buona. Ma è anche una scelta ed una disciplina, come è scelta, disciplina e processo ogni forma amore.
La capacità di relazione è facilitata da un carattere più aperto e disponibile, ma non diventa stile di vita se non è identificata come un bene, un processo da decidere, riconoscere e poi da curare, da accrescere, da proteggere, da purificare. Se parliamo della relazione sotto il profilo specifico della fede, dobbiamo affermare che la relazione è un atto di fede, una ubbidienza di fede perché è una delle prime declinazioni della pratica concreta del grande Comandamento dell’amore. Con la fede o senza la fede, una importante capacità di comunicazione e di relazione è la prima competenza che si deve richiedere ad ogni persona che svolga attività educative. Io ritengo che le incompetenze relazionali siano la più grande debolezza delle persone in generale, ed allora il lavoro per acquisire buone capacità relazionali diventa un impegno per la propria vita e per quello che si vuole realizzare, qualunque sia l’età, la professione, la fede. Gli altri non sono né estranei, né concorrenti, né nemici, ma potenziali alleati... Lo stile della relazione lo riconosci perché propone ed ha fiducia di poter creare legami.
Oggi, inquinati come siamo da relazioni opportuniste, ingannevoli e perfino violente, c’è un gran bisogno di andare a “scuola di relazioni” con una compagnia, una comunità capace di leggere i pensieri e i sentimenti. La peggiore ignoranza che incontriamo e viviamo è una grande “ignoranza in amore”. Occorre trovare il modo di “liberare” la capacità di amore e perciò di relazione che abbiamo dentro, che avvertiamo quando siamo consapevoli dei bisogni della nostra persona, come la strada del benessere e della creatività. La comunicazione della fede che offre Papa Francesco è stata per me, e spero per molti cristiani e no, uno stimolo per andare a rivedere la comunicazione che viene fatta dalla e dentro la Chiesa cattolica. Si incontrano delle magnifiche notizie e dei paradossi, che si spiegano nella storia ma che vanno rimossi.
Le cosiddette abitudini di devozione sono certamente un aiuto per la vita ma talora diventano un potente narcotico. Due esempi, e per me due vissuti, che ritengo necessario modificare: nel Vangelo Gesù ci chiama amici, ci assicura il suo amore e quello del Padre. Ci dice tralci della vite che è lui, mentre S. Paolo ci incoraggia a chiamare Dio “papà”. Difficile capire come stia insieme il Padre nostro con i vari “Signore pietà” o con il greco Kyrie eleison, e con le frequentissime affermazioni della liturgia, ma anche dalla cosiddetta devozione, che sottolineano le nostre povertà, indegnità, peccati. Pensate anche solo al Confiteor: “ Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa...” Ma credo che ancora più grave sia la comunicazione del volto di Dio e di Gesù che passa attraverso il sacramento della Riconciliazione. Un elenco standard di peccati confessati da fedeli anche giovani: non essere andati a messa la domenica, avere fatto sesso fuori dalle regole, aver pregato poco, avere avuto dei litigi con qualcuno, avere detto qualche bugia. Mai sentito qualcuno confessare di non avere pagato le tasse o di avere trasgredito qualche legge civile.
L’immagine di Dio che si ricava da queste modalità, ancora oggi “normali”, è quello di un Dio meschino, piagnucoloso, legato a piccole cose, utili ma secondarie. Che fascino, che interesse può suscitare un Dio così? Ma soprattutto, Gesù, il Fondatore, è vissuto e morto per queste pur utili ma piccole cose? Non è venuto per predicare la pace, la giustizia, l’uguaglianza tra le persone, la condivisione dei beni, la risposta alo male con il bene, la cura dei poveri, l’amore di Dio Padre? Non è per questo che è stato amato ma anche ucciso? Secondo me farebbe la stessa fine anche oggi. Come minimo non farebbe carriera. Ma il nostro compito è quello della fedeltà, non degli interessi o delle opportunità, men che meno del ripetere abitudini che non comunicano la verità del suo volto. La comunicazione è un formidabile strumento di relazione, di educazione e di verità. O, almeno, può esserlo e credo che oggi sia più che mai necessario. Grazie per averci permesso di diventare vostri colleghi.
La Lectio magistralis di don Virginio Colmegna
In occasione del conferimento della laurea honoris causa in comunicazione pubblica e d’impresa all’Università degli Studi di Milano
di don Virginio Colmegna (Corriere della Sera, 04.12.2014)
Ringrazio il Senato Accademico e il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Sono davvero onorato di ricevere questa laurea honoris causa in comunicazione pubblica e d’impresa da parte di una così importante università della mia città, dove ogni giorno cerco di impegnarmi, insieme a tanti collaboratori e volontari, nell’impresa di condividere un cammino con i più fragili e poveri. Provo in questo momento contentezza e gratitudine. Per l’amicizia che ci lega, sono certo di interpretare anche i sentimenti di Luigi e di Gino se vi dico che sento questo vostro riconoscimento come un’opportunità per ripensare al senso profondo dell’essere chiamati “preti di strada”.
Siamo preti che vivono con una forte motivazione evangelica il partire dalla strada come scelta di vita, che non si stancano di comunicare che l’incontro con i poveri non è una relazione dove li si utilizza per esercitare bontà ma, come dice il Papa, essi sono una “categoria teologica”. Da lì passa quel Gesù che desideriamo incontrare ed attendere. Lì riscopriamo, nella profondità di una ricerca spirituale, quella cura appassionata che gli uomini tutti, senza eccezioni, possono scambiarsi tra di loro per essere più felici. Ci anima una domanda di felicità, una profonda esigenza di felicità!
Per questo viviamo la strada che non è il luogo speciale dei più eroici, degli attivisti originali, ma è la condivisione di un cammino di ospitalità con chi è più vulnerabile, fragile e senza diritti; ci dà la possibilità di comunicare a tutti che il punto di partenza, per rendere possibile una visione di umanità fraterna e solidale, è la giustizia, è la difesa della dignità di ogni persona. Comunicare, dunque, è condividere: la parola deriva dal latino cum munis, “mettere insieme”, e l’etimologia ci rivela la sua caratteristica di espressione sociale: la comunicazione è mettere un valore al servizio di qualcuno che è altro da noi, farlo diventare patrimonio comune per costruire una discussione, un sapere, una cultura.
Il Cardinale Carlo Maria Martini, uno dei miei maestri, nel suo modo di comunicare utilizzava il metodo che a me piace definire dell’icona. Traduceva un concetto, spesso non semplice, in un’immagine efficace, in modo che tutti riuscissero a capire, ad esempio, il senso profondo del fare operoso che caratterizza la dinamica della carità evangelica. È stato un arguto anticipatore quando nel 1991 scrisse per la Diocesi una lettera sulla comunicazione, paragonando i media ad un lembo del mantello del Maestro che, in un famoso brano evangelico, la donna ammalata tocca e subito guarisce, prima ancora che Gesù se ne accorga e le rivolga la parola. Non c’è sonoro in questa scena, c’è lo zoom su quella mano che sfiora il mantello e rifiorisce. Ecco un esempio di comunicazione efficace, profonda, salvifica, che avviene attraverso un mezzo semplice, povero, ma non insignificante.
Un po’ di quel mantello vorremmo essere anche noi della Casa della carità che, dalla periferia di Crescenzago, dove è nato l’amico Gino, parliamo con Milano, con le parrocchie della Diocesi, con le realtà della società civile, con le istituzioni e con i più “sprovveduti”, termine usato proprio dal Cardinal Martini quando annunciò ai Milanesi il dono della Casa della carità perché, disse, “provvedesse agli sprovveduti”. Sono questi sprovveduti, poveri di diritti, che ogni giorno bussano alle nostre porte in via Brambilla, in fondo a via Padova. Da questo angolo di Milano, modesto e semplice, da dieci anni ci sforziamo di tessere un dialogo continuo con le diverse culture, i diversi saperi e le diverse religioni, con le università e i luoghi delle arti, con il territorio, attraverso le sue associazioni di quartiere, e con la città, attraverso le sue risorse sociali.
Ho gioito quando ho sentito per la prima volta Papa Francesco indicare a tutti la strada: “Partire dalle periferie esistenziali e sociali”. Per me, per noi, per tanti credenti e non credenti, cristiani o di altre religioni, questo è un suggerimento prezioso, perché oggi sono le periferie urbane ed esistenziali il punto strategico da cui guardare se si vuole cambiare questa società e renderla più giusta. Ecco, allora, che comunicare non è solo condividere, è scegliere il punto migliore da cui guardare la realtà per capirla e condividerla.
È questo “sguardo” che il Cardinal Martini ci ha chiesto di tenere sulla città. Del Cardinal Martini ricordo un’altra icona, forse la più bella, presa dalla Bibbia, dal libro della Genesi (cap. 18), dove si racconta di Abramo che accoglie tre uomini apparsi all’improvviso sotto il sole dell’ora più torrida del giorno e, dopo aver subito ceduto loro il suo posto all’ombra delle querce di Mamre, corre a preparare insieme alla moglie Sara un pranzo con tutto ciò che ha in casa affinché possano godere di un’ospitalità degna e conviviale.
È un’immagine che resta impressa: quell’Abramo già anziano, che potrebbe starsene tranquillo a riposare all’ombra, che potrebbe sbrigarsela offrendo un riparo ai tre ospiti e che, invece, si dà freneticamente da fare per accogliere al meglio i tre viandanti, cedendo loro il posto migliore all’ombra, correndo a preparare da bere e mangiare. È la sintesi perfetta dell’idea di un’ospitalità generosa, disinteressata, desiderosa di dare all’altro tutto ciò che si può dare, senza chiedere all’altro chi è, cosa vuole, cosa è venuto a fare. Un’ospitalità che sorprende e stupisce, che genera futuro e non ha nulla a che fare con il buonismo assistenzialista. Questa icona ci dice che non c’è comunicazione senza sorprese e senza emozione: questa emozione però non si muoverebbe se Abramo non sapesse scorgere il suo Signore nell’uomo che domanda ospitalità, che ci interroga, ci inquieta, non ci rassicura. Non si possono “usare” i poveri per rafforzare la propria identità: chi è povero dei diritti e privato dell’umanità interpella la responsabilità di tutti noi.
Comunicare è rendere le complessità comprensibili. Comunicare è stabilire un contatto con gli altri. Comunicare è abbattere divisioni. Ecco perché la Casa della carità per noi è un soggetto che comunica. Parafrasando il pensiero del filosofo tedesco Jurgen Habermas nella sua Teoria dell’agire comunicativo, la Casa della carità è un insieme di dire e di fare, dunque è un soggetto che comunica. Lo è in quanto luogo dove si svolgono azioni che parlano e in quanto luogo da cui escono parole cariche di azione. Dire e fare. È questo un intreccio profondo che smonta qualsiasi atteggiamento retorico. Personalmente credo che lo si debba ricondurre anche a tematiche che riguardano la coscienza. Luigi dice spesso “graffiare le coscienze”, intendendo la necessità di entrare nel cuore. Ha ragione, c’è un gran bisogno di ricreare una coscienza educata. Siamo in ritardo e su questo ritardo pesano molte sconfitte.
Così come ha ragione Gino che non si stanca mai di dire che bisogna investire molto di più nelle scelte educative per prevenire e promuovere giustizia. È vero, da loro ho imparato molto. È un’operazione fortemente culturale quella che stiamo cercando di imbastire insieme. Non a caso, contro ogni tentazione di retorica, da tempo con Luigi e Gino diciamo che la parola “volontari” va archiviata e sostituita con il termine di “cittadini responsabili”. Per unire azione sociale e ricerca culturale il Cardinal Martini volle che la Casa della carità promuovesse un’Accademia della carità; anche in questo guardava lontano. Perché non basta offrire un tetto, un letto e del cibo ai più poveri, diceva, occorre promuovere e sollecitare ragionamenti e riflessioni sui fenomeni di esclusione sociale, se si vuole una città capace di inclusione.
Occorre promuovere e dare spazio ad una cultura plurale. Se guardo all’esperienza di questi dieci anni, Casa della carità è un luogo plurale dove sono passate migliaia di persone, uomini, donne e bambini provenienti da 95 differenti Paesi del mondo. È un luogo dove si incontrano le diversità, ma dove contano i nomi delle persone, i loro volti, la loro soggettività, dove si cerca di evitare il più possibile qualsiasi rapporto massificante perché l’obiettivo è aiutare gli ospiti a riconquistare l’autonomia, prendersi cura dei loro bisogni, aiutarli (anche se in questo momento potete capire quanto sia difficile) a trovare un lavoro e una casa. La nostra casa è un luogo pieno di domande più che di risposte. E comunicare significa fare domande più che dare risposte.
Il Cardinal Martini ci ha insegnato ad essere appassionati da questa ricerca e da questa inquietudine: la cattedra dei non credenti, in questo senso, è stata una strategica indicazione culturale e credo, per noi preti, anche un’indicazione pastorale e spirituale. Per fare domande, però, bisogna ascoltare: alla Casa della carità e in tutti gli anni della Caritas, ma soprattutto pensando all’avvio a Sesto San Giovanni della cooperativa Colce e della Grande Casa e all’esperienza di parroco in un quartiere di periferia, ho ascoltato storie individuali, storie di ghetti e di baraccopoli, di quartieri difficili, di famiglie sfrattate, di ospedali dove si viene contenuti, di tanta sofferenza, di sofferenza mentale, di carceri dove ci si dimentica di essere un uomo, di persone che hanno lottato per essere considerate persone normali, ma continuano a portarsi addosso lo stigma dell’esclusione.
In Casa della carità ho imparato la dinamica di un ascolto che non ammette risposte standardizzate, ma obbliga ad interrogarsi sulle tante domande che ci vengono poste. È un luogo dinamico dell’agire e un luogo pensante di ricerca, che ci richiama però continuamente all’umiltà del sapere perché i poveri, se li si ascolta con attenzione, ci danno una lezione di vita che può sedimentarsi in una capacità di pensiero e di riflessione. Questa onorificenza va consegnata nel suo valore profondo a una visione di città dove gli ultimi sono portatori di domande di diritti, che ne siano consapevoli, oppure no. Ho già accennato al momento di crisi che stiamo vivendo e per questo oggi c’è un grande bisogno di dare alle persone segni di speranza. Le buone notizie sono segni di speranza. Comunicare buone notizie deve diventare un segno di buona comunicazione.
Vladimiro Zagrebelsky, per molti anni giudice della corte europea dei diritti dell’uomo, quando parlava del ruolo che la stampa deve svolgere e deve poter svolgere in una società democratica usava anche lui un’icona, un’immagine nata nei Paesi anglosassoni: la stampa come cane da guardia della democrazia, come “un cane che gira libero attorno a casa, orecchie tese e naso al vento e abbaia, anche più forte del necessario e qualche volta deve mordere”. Credo, però, che una corretta e completa informazione non debba trascurare mai quanto di buono avviene. Ad esempio, quando si racconta di migranti e di rom che occupano case popolari destinate ad altri, perché non dire anche che quei rom, ai quali è stata data a Milano una possibilità concreta di abbandonare la vita nei campi, oggi vivono in case dove pagano l’affitto, mandando i figli a scuola con regolarità e che si mantengono lavorando?
Comunicare è impegnativo. Posso capire i tempi brevi nei quali un cronista deve spesso imbastire un articolo, ma la fretta non può mai giustificare il racconto di una parte sola di verità. Proprio perché non hanno diritti e non hanno voce per essere ascoltati, gli sprovveduti, gli ultimi, i più poveri tra i poveri, hanno bisogno di non essere considerati unicamente un problema, un problema di costi, di ordine pubblico o, peggio ancora, essere indicati come un pericolo. Non hanno bisogno di falso pietismo e di atteggiamenti elemosinieri. Hanno bisogno di giustizia e di giusta comunicazione. In Casa della carità abbiamo coniato uno slogan, “stare nel mezzo”. Significa stare là dove si determina l’emergenza sociale per superarla gradualmente, impegnandosi in interventi condivisi, nella convinzione che a partire dall’attenzione per chi è ai margini si possa produrre benessere per tutti.
Per questo, tra mille difficoltà ma anche con tanto entusiasmo, io, Gino e Luigi cerchiamo di portare avanti le nostre realtà che lavorano in quei luoghi e a contatto con persone che non producono il consenso, inteso come vantaggio politico o economico. Accogliamo persone senza permesso di soggiorno, ma abbiamo abolito la parola “clandestino” perché avvertiamo quanta irregolarità viene prodotta da dei meccanismi legislativi inadeguati, dall’abitare in strada e da una diffusa sotterranea disperazione. Ci sono seri giornalisti che hanno saputo fare tesoro della Carta di Roma, quella stilata nel 2008 che invita i media ad avere delle attenzioni per gli stranieri, a non violarne la dignità, a rispettarne la fragilità.
Non di rado specificare in un titolo la nazionalità dei protagonisti di una notizia può, dice la Carta, “incidere gravemente sulla convivenza civile e alimentare in modo pericoloso pulsioni razziste e xenofobe presenti nella nostra società”. Se la comunicazione non pone tutti sullo stesso piano - di persone con uguali diritti e uguali doveri- non è buona comunicazione, ma comunicazione di parte. Per questo la sfida è culturale: far crescere nella società una visione diversa di uguaglianza. Io chiamo questa sfida “utopia con i piedi per terra”, Padre Balducci la indicava con uno slogan impegnativo che mi piace sempre ricordare: “Siate realisti, chiedete l’impossibile”. Don Tonino Bello preferiva definirla “convivialità delle differenze”.
Nel rileggere in Casa della carità la parabola del buon samaritano, il Cardinal Dionigi Tettamanzi ci ha consegnato un’altra icona, quella del samaritano, l’unico a fermarsi per soccorrere il malcapitato aggredito dai briganti sulla via che va da Gerusalemme a Gerico, mentre il levita e il sacerdote non si fermano ma fingono di non aver visto nulla. Alle cure del locandiere il samaritano affida il malcapitato. La via, la strada che collega territori diversi, è dove ci si incontra. La locanda è dove si abita e si condivide. Per questo servono case che siano dimora e strade che portino alle case, soprattutto in un periodo come questo, dove la paura esce dai normali e abituali confini e diventa patologica, viene gestita in modi aggressivi, incapaci di riassumere la complessità del vivere, incapaci di dare risposte coraggiose che nascono solo da una profonda visione etica, umana, civile e spirituale.
Accogliere lo straniero è importante perché lo straniero è il paradigma di questa alterità radicale e di una cultura che non vede nell’altro un diverso da escludere, da espellere, da demonizzare. Per questo è necessaria una comunicazione coraggiosa. Il coraggio non è comunicare i problemi degli sprovveduti, il coraggio è comunicare che gli sprovveduti hanno diritto ad essere ascoltati, ad avere delle risposte e persino a dare risposte originali per il bene di tutta la collettività. Casa della carità non sceglie i suoi interlocutori. È scelta. Si tratta di coloro che, con un termine ormai diventato famoso, definiremmo “vite di scarto”, vite prodotte dal libero mercato, modello dominante nella società liquida contemporanea che ai tanti suoi rifiuti ha aggiunto persone private dei loro modi e mezzi di sopravvivenza, gli esuli, i richiedenti asilo, i rifugiati della contemporaneità.
Questo mi ha dato la forza di non tenermi dentro tante storie, tanti volti, tante vite e mi ha dato il coraggio di comunicarle, nel sogno di una cittadinanza attiva in cui finalmente la cronaca bianca fa notizia, perché diventino un messaggio forte e pieno di speranza, che raggiunge il cuore di tanti uomini e donne del nostro tempo. Per questo, non sembri un paradosso, dobbiamo recuperare il valore del silenzio, del contemplare. È quella dinamica contemplativa che il Cardinal Martini indicò nella sua prima lettera pastorale. La parola che comunica sgorga dal silenzio.
Quelle parole convergenti contro il rischio atomico
di Alessandro Santagata (il manifesto, 18 Giugno 2014)
Pronunciato a Bergamo il 20 marzo 1963 e pubblicato su Rinascita con un titolo ambizioso quanto gli obiettivi che si proponeva, Il destino dell’uomo è uno dei discorsi più importanti di Palmiro Togliatti. Non si trattava solamente di comizio da campagna elettorale (si sarebbe votato di lì a un mese), ma di una conferenza programmatica densa di riferimenti culturali. L’espressione di una concezione alta della politica, della quale ci restituiscono una fotografia gli atti del seminario tenuto presso la biblioteca Giuseppe Di Vittorio (Togliatti e Papa Giovanni, a cura di Francesco Mores e Riccardo Terzi, Ediesse).
La sezione storiografica fornisce alcuni elementi di contesto necessari per inquadrare il discorso del leader comunista, a cui seguirà l’11 aprile la promulgazione dell’enciclica Pacem in terris. A lungo i due testi sono stati letti in dialogo tra loro, immaginando che Togliatti fosse a conoscenza dell’imminente pubblicazione del documento papale (probabilmente in virtù del suo contatto con don Giuseppe De Luca, grande figura intellettuale di quegli anni). Mores mette in discussione questa ipotesi facendo appello alla cronologia (De Luca era morto l’anno precedente) e alla sostanziale assenza di prove a sostegno del presunto passaggio di notizie. Eppure, non c’è dubbio che tra le due figure fosse in corso un effettivo rapporto sinergico, «indiretto e proprio per questo molto più stretto e profondo».
Siamo nell’Italia del centro-sinistra, con il Pci impegnato a influenzare il processo riformistico, ma soprattutto siamo nell’età del Concilio, delle decolonizzazione e di quella distensione tra i due blocchi che aveva trovato in Giovanni XXIII un protagonista di primo piano, come in occasione della crisi missilistica cubana dell’ottobre 1962. Non a caso dunque la scelta di Bergamo, la città di Roncalli, dalla quale mandare al mondo cattolico un invito alla collaborazione contro il rischio dello sterminio atomico. La politica italiana, con la Dc da incalzare da sinistra, rimaneva il punto centrale della tattica comunista, ma la strategia guardava più lontano: a un incontro da raggiungere «non nell’immediato», «non sulla base di un compromesso tra le due ideologie», ma in una prospettiva di lungo corso verso un nuovo umanesimo condiviso.
Giuseppe Vacca ricorda che il dialogo tra cattolici e comunisti aveva alla spalle una lunga storia: la Costituente, l’apertura del «partito nuovo» ai cattolici, l’intesa nel movimento dei Partigiani della pace. Con uno scarto rispetto all’elaborazione di Gramsci, Togliatti era disposto non solamente a riconoscere la legittimità storica del fatto religioso, ma perfino la sua utilità ai fini della lotta politica (X Congresso, dicembre 1962). Dall’altra parte, Giovanni XXIII revisionava il tradizionale anticomunismo cattolico, un processo che avrebbe portato al riconoscimento della dignità dell’ateismo nella costituzione conciliare Gaudium et spes.
Nella Pacem in terris il papa aveva riconosciuto la celebre distinzione tra l’«errore» (il comunismo) e l’«errante», con il quale ricercare dei punti di convergenza. In particolare, si era rivolto «agli uomini di buona volontà» per scongiurare l’esito catastrofico di una nuova guerra, di cui denunciava l’irrazionalità. Certo, come ricorda Mores, l’appello di Togliatti alla ragione (contro la guerra) non può essere completamente sovrapposto alla «retta ragione» a cui si riferiva il papa, quella del magistero in grado di dividere ciò che è giusto da ciò che non lo è. E tuttavia, è proprio una nuova razionalità l’obiettivo che i due andavano perseguendo (non una revisione dell’illuminismo come invece sostiene Vacca).
Nella riflessione del leader comunista alla classe si affiancava un altro soggetto del divenire storico: il genere umano. In quella del papa, la Chiesa usciva dall’assedio dalla secolarizzazione per impegnarsi nel cambiamento insieme alle altre forze culturali e sociali. Ecco allora che dalla lettura in parallelo del discorso Bergamo e della Pace in terris emerge la ricchezza di quella straordinaria stagione politico-culturale.
I suoi limiti sarebbero emersi con l’inizio della «diaspora politica» dei credenti negli anni ’70. Nel discorso di Bergamo, in cui Togliatti aveva colto nella fine dell’«Età di Costantino» il vero punto di svolta del Vaticano II, mancava la percezione che lo sganciamento della fede dall’identità politica avrebbe condotto alla crisi del cattolicesimo politico italiano: un lento disfacimento tutt’altro che auspicato dalla dirigenza comunista.
Più in generale, la ricerca di nuovo umanesimo si scontrava con una società attraversata da un profondo processo di secolarizzazione che restringeva gli spazi per un profilo ideologico tradizionalmente marxista o religioso. Stava prendendo forma la globalizzazione consumista: la riflessione sul destino dell’uomo nell’età nucleare non è stata solamente il terreno di incontro tre due culture, ma anche un primo tentativo di risposta.
Un nuovo «vincolo» per unire la Nazione
di Michele Ciliberto (l’Unità, 25.04.2014)
«LA NAZIONE È UN PLEBISCITO DI TUTTI I GIORNI», DICEVA ERNEST RENAN, VOLENDO AFFERMARE CHE LA NAZIONALITÀ È UN PROBLEMA CHE ATTIENE ALLA COSCIENZA, NON ALLA NATURA. Si è italiani oppure francesi o tedeschi perché ci si riconosce in una comune identità etico-politica e anche religiosa; non perché si nasce in un territorio o in una regione geografica piuttosto che in un’altra.
La nazione è un fatto culturale, che si costituisce nel tempo attraverso lo sforzo secolare delle generazioni. Ed essendo un fatto culturale, come nasce può morire, oppure attraversare momenti di crisi, di declino, di decadenza.
Come disse Benedetto Croce, in un momento tragico della nostra storia, la civiltà, la cultura è infatti come un fiore che nasce sulla dura roccia e che un colpo di vento può stroncare e portare via. Scrisse queste parole dopo la tragica esperienza della guerra che l’aveva indotto a esprimere parole di profonda sofferenza ma non di ripulsa nei confronti degli aerei statunitensi che attraversavano il cielo per bombardare «Napoli nobilissima», la sua città. Croce però sapeva anche, e meglio di tutti, che la Nazione italiana è una realtà spirituale e che come era caduta così essa poteva rinascere, se fosse stata capace di riafferrare le sorgenti originarie della propria storia cioè della propria identità.
È quello che avviene in Italia con la lotta antifascista e la Resistenza, di cui oggi conosciamo anche il doloroso travaglio, i lato oscuri, i prezzi pagati come avviene con le guerre civili che non si fanno con i «paternostri» e che lasciano sul terreno vittime e carnefici. Fu però allora, in quella lotta crudele e anche spietata che la Nazione italiana tornò a nuova vita, e riuscì ad alzarsi in piedi dopo lo sfarinamento dello Stato, dell’esercito, di tutte le strutture istituzionali e amministrative.
Un paesaggio desolato: contemplandolo alcuni storici hanno parlato della morte della patria, sbagliando. L’hanno fatto perché non hanno inteso la profondità e la lunga durata della nazione italiana confondendo confuso nazione e Stato, due realtà che, per quanto storicamente contigue e a volte strettamente intrecciate, vanno distinte con precisione, se si vuole comprendere la storia italiana e anche la rinascita della Nazione italiana dopo la fine del fascismo e la guerra civile.
Per riprendere la battuta di Renan, la nascita della repubblica è stata il «plebiscito» con cui gli italiani sono tornati a essere cittadini di una patria comune, di uno stesso Stato. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile se non fossero stati capaci, insieme alle loro classi dirigenti, di mettere a base del loro vivere un nuovo patto: quello che li ha lungamente uniti, almeno fino alla fine del secolo scorso.
È il «vincolo» rappresentato dalla Costituzione repubblicana, nella quale sono confluite le correnti popolari e democratiche italiane dai cattolici ai socialisti dagli azionisti ai comunisti -, ma riuscendo a dar vita a un testo che, per la sua lungimiranza, è anche un programma politico imperniato sul concetto di eguaglianza, come appare da tutta la prima parte della Costituzione e, primo luogo, dall’articolo 3. Negli anni scorsi, un leader che ha avuto un peso rilevante nella storia della Repubblica, e che ora è affidato ai servizi sociali, ha detto varie volte, pensando si stupire, che la Costituzione italiana è di tipo sovietico, un frutto del bolscevismo.
È invece il «punto dell’unione» della esperienza culturale, spirituale e politica di uomini come La Pira, Moro, Basso, Nenni, Togliatti, Laconi... I rappresentanti migliori dell’antifascismo nelle sue varie componenti, quelli che, dopo il fascismo, ridanno vita alla nazione italiana, dischiudendole un nuovo, e fecondo, ciclo della sua lunga storia.
È proprio questa cultura che entra progressivamente in crisi fin dagli ultimi decenni del secolo scorso e che oggi appare a molti solo una sorta di residuo del passato. Ma è un errore, anche questo. La Costituzione italiana non è consegnata ai libri di storia, sa parlare al nostro tempo, è vitalissima specie nella parte dei «principi generali», nei quali sono delineati obiettivi di eguaglianza e libertà che aspettano ancora di essere realizzati.
Ma per realizzarli, e mantenere viva la nostra Costituzione, è necessario capire che alla base della nostra Repubblica oggi va messo un nuovo patto, un nuovo «vincolo» civile che faccia i conti con tutte le trasformazioni della nostra società, a cominciare da quelle demografiche.
La Nazione italiana non è più quella che avevano di fronte i Costituenti: è cambiata, in profondità, sia sul piano strutturale che sul piano degli orientamenti ideali, culturali e anche religiosi. E con queste trasformazioni occorre oggi confrontarsi. Certo è difficile, tanto più dopo un ventennio in cui le diseguaglianze si sono inasprite, le contrapposizioni fra nativi e immigrati sono state acuite fino al razzismo.
La cultura della solidarietà è stata frantumata, fino all’imbarbarimento, alzando la bandiera della cultura «liberale». È questa la responsabilità più grave del berlusconismo nella storia della Repubblica, e qui stanno anche le responsabilità delle forze della vecchia sinistra che non hanno saputo contrastare questa deriva, in cui affonda le radici quello che, con termine sommario, si chiama populismo. Né è facile liberarsi di questo duro fardello: oggi noi continuiamo a essere nel pieno di una crisi organica, bisogna saperlo. Eppure sarebbe sbagliato esprimere un giudizio pessimista sulla Nazione italiana settanta anni dopo la Liberazione e la rinascita della Nazione.
Da mille segni, appare evidente che l’Italia è un Paese ferito, risentito, deluso, ma non vinto. È pronto a rialzarsi in piedi, a rimettersi in cammino, a far sentire la sua voce. Ma perché questi segni possano svolgersi, e consolidarsi, c’è bisogno di un nuovo «vincolo», che consenta a tutti nativi e immigrati di sentirsi parte di una comunità di un comune vivere civile, cittadini dello stesso Stato capace di contribuire a distruggere le forme più intollerabili di diseguaglianze.
E, come avviene nei momenti più gravi, per questo è indispensabile una sinergia feconda tra forze della cultura, della politica, della religione, come fu negli anni della rinascita della Nazione dopo il fascismo. È venuto il momento che ciascuno si assuma le proprie responsabilità, uscendo dalla tenda in cui per troppo tempo si è rifugiato. Come avvenne settanta anni.
BUONA LIBERAZIONE, BUON PRIMO MAGGIO *
Cari lettori, care lettrici,dopo la pubblicazione di questo numero, la redazione di Adista si prende una settimana di vacanze. L’appuntamento con i nuovi numeri di Adista è per il 10 maggio. Intanto, i nostri auguri per il 25 aprile e per il Primo Maggio li facciamo con le parole di Enzo Mazzi, indimenticato animatore della Comunità dell’Isolotto:
«La memoria è trasformata in ricordo, magari in nostalgia, come la foto del caro estinto posta sulla sua tomba, accanto alla tomba del suo avversario, nello stesso cimitero. Questa, a mio avviso, è la memoria cimiteriale (...).
Perché tale disarticolazione della memoria è il nutrimento del neoliberismo dominante. Il quale è creatore di società-necropoli. Ha bisogno di produttori-consumatori, morti-viventi senza identità sociale.
E quando la sinistra ha accettato le regole del liberismo ha accettato anche questa regola fondamentale. Per condizionare dal di dentro le leggi del mercato e magari produrre le condizioni per ripartire con una storia diversa; ma ha accettato che la società venisse trasformata in una aggregazione di smemorati.
Nessuno scandalo moralistico. Subire il ricatto del sistema di dominio trionfante può esser visto come una condizione momentanea della politica in quanto lotta di potere.
Ma io dal basso non ci sto. O meglio, anch’io collaboro, seppure solo comprando dal fornaio il pane quotidiano, quel pane che è negato a due terzi dell’umanità. Non accetto però di vendere l’anima. Voglio tener viva la consapevolezza e la memoria» (il manifesto, 28/8/11).
* Adista Notizie n. 16 del 26/04/2014
Il patto dei mafiosi nel nome di Dio
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 26.03.2014)
COSÌ come esistono gli atei devoti, esistono anche i mafiosi devoti. Adorano sopra ogni cosa le processioni, e idolatrico è il loro culto di certe Sante, i riti di iniziazione a Cosa nostra. E le immaginette votive che l’affiliando brucia nel fuoco dopo averci versato sopra il proprio sangue: Roberto Saviano l’ha raccontato sabato su queste colonne. Fuoco, sangue, sacrificio: sono i segni, per l’eletto, di rinascita battesimale a nuova vita.
Contro quest’idolatria è insorto Papa Francesco, il 21 marzo, con parole sommesse ma durissime. Come già Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, il 9 maggio ’93, ha chiamato alla conversione il malavitoso, prospettandogli l’inferno: «Il denaro insanguinato, il potere insanguinato: non potrai portarlo all’altra vita». Francesco sa il rapporto antico, intenso, mimetico, che Cosa nostra ha con la religione. La sua invocazione non è diversa da quella che la Chiesa, nell’ultimo decennio, ha rivolto ai terroristi che abusano dell’Islam. Non pronunciare invano il nome di Dio: è uno dei primi comandamenti del Decalogo, l’ingiunzione fa ritorno.
Ancora più rivelatori delle parole sono i gesti di Francesco: l’abbraccio delle vittime di mafia, la mano tesa a Don Ciotti, il fondatore di Libera vissuto per anni ai margini della Santa Sede e finalmente chiamato a parlare accanto al Pontefice, venerdì nella chiesa di San Gregorio VII a Roma.
Il Papa ha ascoltato, assorto, rimproveri non leggeri: Ciotti ha incitato la Chiesa a non collaborare mai più con la mafia, a fare autocritica. Ha ricordato che, in passato, essa non ha curato un male di così enormi risvolti umani e sociali. Ha citato i momenti di luce (in particolare Don Pino Puglisi, Don Peppe Diana, Don Cesare Boschin, ammazzati nel ’93, ’94, ’95) e al tempo stesso i «silenzi, le sottovalutazioni, gli eccessi di prudenza, le parole di circostanza».
Ha anche nominato espressamente la Procura di Palermo, impegnata in uno dei più cruciali processi italiani - quello sui patti fra Stato e mafia - esigendo a voce alta che i «magistrati onesti non siano lasciati soli». Ha fatto il nome del più minacciato fra di loro: Nino Di Matteo, condannato a morte da Totò Riina e tuttavia nome incandescente, che i rappresentanti dello Stato si guardano dal menzionare. È un j’accuse pesante, quello di Luigi Ciotti. E l’ha lanciato nel cuore della Chiesa, sicuro d’avere a fianco la sua massima autorità. Forse è la più grande novità di questi giorni. L’Altra Chiesa, quella di Don Gallo e Don Puglisi, da periferia che era diventa centro.
Gian Carlo Caselli, presente alle cerimonie e poi alla marcia di Libera per la XIX Giornata della memoria e dell’impegno, ha detto una cosa importante: che la Chiesa parla alle menti se ha profeti, «e per un profeta non è difficile arrivare più in là della politica». È facile soprattutto in Italia, dove la politica s’inabissa nei silenzi elusivi, nelle smemoratezze.
Caselli lo ripete fin da quando, insediato a capo della Procura di Palermo, disse in un convegno della Chiesa di Sicilia, nel ’93: «È necessario analizzare le ragioni per cui rilevanti componenti della Chiesa (...) hanno potuto, e per molto tempo, sottovalutare la realtà della mafia, e conviverci senza articolare una reale opposizione, rendendo debole la parola profetica della Chiesa nella società ».
Se Falcone e Borsellino vennero uccisi con le loro scorte, fu «perché lo Stato, ma anche noi cristiani, noi Chiesa, non siamo stati sino in fondo quel che avremmo dovuto essere (...). Quante volte, invece di vedere il prossimo, ci siamo accontentati dell’ipocrisia civile e del devozionismo religioso». Già allora chiedeva al Vaticano uno scatto di responsabilità: lo stesso implorato venerdì da Don Ciotti. Lo scatto che tarda a venire nella politica. Antonio Ingroia, ex pubblico ministero a Palermo, osserva come manchi, nei primi discorsi di Renzi premier, ogni accenno alle procure minacciate. Come sia vasto, e voluto, il mutismo sul processo Stato-mafia (Huffington Post,3-3-14).
Cosa significa, a questo punto, il «convertitevi» ripetuto tre volte da Francesco, e prima di lui da Giovanni Paolo II? Cos’è precisamente il mutar vita, per chi si dice uomo d’onore? Alcuni libri essenziali sono stati scritti su Chiesa a mafia (da Alessandra Dino, “La mafia devota”; da Vincenzo Ceruso, “La Chiesa e la mafia”; da Letizia Paoli, ricercatrice a Friburgo, “Fratelli di mafia”) e sempre il nodo è la conversione. In una libera Chiesa che vive in un libero Stato il senso è chiaro, ma non sempre spiegato nella sua sostanza.
Conversione e pentimento non sono una pacificazione, un adeguarsi alle esteriorità di una fede. Nell’esteriorità il mafioso eccelle, e già Sciascia lo scriveva: il cristianesimo «consente a quelle esplosioni propriamente pagane». Convertirsi, come disse nel ’97 Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo dopo Pappalardo, «esige la detestazione sincera del male commesso, la volontà risoluta di non commetterlo più, di riparare i danni arrecati alle persone e alla società, rimettendosi alle legittime istanze della giustizia umana».
Pentirsi comporta un’accettazione delle regole della pòlis, distinte da quelle vaticane: un divenire cittadino. Implica collaborazione con i magistrati, perché se non si fa giustizia in terra il rimorso è vano. E implica, nella Chiesa, l’abbandono della doppiezza. È doppiezza quel che disse Padre Schirru contro i pentiti e le «pratiche della delazione», nel Giubileo del 2000. O la protezione offerta ai latitanti da innumerevoli parroci, le connivenze in cambio di favori.
È scandalo il vuoto che si creò in ambito ecclesiastico quando fu ucciso Don Puglisi. Il «convertitevi» concerne i mafiosi, e al contempo quella parte del clero che fu connivente per almeno quarant’anni, sino alla fine degli anni 80: proprio gli anni in cui fu complice Andreotti, secondo la sentenza in Cassazione del 2004 che lo assolse parzialmente, e confermando il reato di «concreta collaborazione » lo prescrisse soltanto.
La Chiesa è stata profetica a intermittenza: grazie a due Papi, a arcivescovi come Pappalardo, a preti come Puglisi. Molto spesso fu sedotta - lo è ancora - dalle esplosioni idolatriche dei mafiosi. Più volte, scrive Vincenzo Ceruso, i parroci non vedono contraddizione tra la loro appartenenza religiosa e l’essere affiliati di Cosa Nostra. Così come c’è stato uno Stato malavitoso nello Stato, c’è stata una chiesa del delitto nella Chiesa. Così come c’è stata una trattativa Stato-mafia (nelle ultime ore si riparla di trattative anche con le Brigate rosse, nel rapimento Moro), ci sono stati patti fra Chiesa e mafia.
Allo Stato Cosa nostra contende il monopolio della forza, alla Chiesa il monopolio religioso: «Molti religiosi hanno attuato una strategia analoga a quella dei rappresentanti dello Stato, alternando negoziazione e competizione, ma più spesso contrattando gli spazi del sacro» (Ceruso, ibid, pp. 203-4).
Nel dopoguerra la Dc contribuì a legittimare Cosa nostra. Dominante era la voce preconciliare dell’arcivescovo di Palermo Ernesto Ruffini: detrattore di Danilo Dolci e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, ammiratore di Francisco Franco. Letizia Paoli fornisce i dati evocati nel processo Andreotti: tra il ’50 e il ’92 (anno in cui sono ammazzati Falcone e Borsellino) il 40-75% dei parlamentari Dc e il 40% degli eletti in Sicilia occidentale erano apertamente sostenuti dalla mafia. Su questo passato la Chiesa ancora tace. La conversione che rivendica non la coinvolge. Sono stati numerosi gli arcivescovi denunciatori, ma ancor più i preti complici non processati.
Forse lo scatto invocato da Ciotti (la «pedata di Dio») deve avvenire anche nella curia, e fin dentro le parrocchie. Altrimenti l’anatema profetico che viene dall’alto sarà, come dice Caselli: «acqua che scivola sul marmo».
Togliatti e il suo Papa
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 13 marzo 2014)
Si approssimano vari anniversari. quello della svolta di Salerno e quello della morte di Togliatti. Ma anche quello della scomparsa di Giovanni XXIII. Tutti a far data dal 1964. E c’è da giurare che almeno su Togliatti demonismo e sciatteria revisionista si eserciteranno a dovere, nel negare originalità al segretario del Partito Nuovo, per sancirne la dipendenza da Mosca e il ruolo nefasto, nell’aver radicato il Pci nella storia d’Italia, come un male.
Adesso però esce un libro prezioso che contiene due gioielli da conservare e che ribaltano certe campagne strumentali. Il primo è il discorso pronunciato da Togliatti il 20 marzo 1963, sul Destino dell’uomo , alla vigilia di importanti elezioni ma inattesamente antropologico . Il secondo è senza dubbio straordinario e ben più famoso. È l’Enciclica giovannea Pacem in terris , uscita l’11 aprile di quello stesso anno, un documento destinato a capovolgere il senso della fede nel mondo e il ruolo stesso della cattolicità: il diamante del Concilio Vaticano II, avversato da conservatori e atei devoti e che oggi conosce rinnovato splendore nella riattualizzazione del magistero di Francesco.
La cornice è appunto il volume di cui vogliamo parlarvi, Palmiro Togliatti e Papa Giovanni , a cura di Francesco Mores e Riccardo Terzi (Ediesse, pp. 149, euro 12). Che raccoglie gli atti di un seminario organizzato a Bergamo il 5 aprile 2013 da Riccardo Terzi ed Eugenia Valtulina, grazie alla Cgil di Bergamo, dello Spi nazionale, della Fondazione Giovanni XXIII e della Fondazione Di Vittorio. Tra i relatori c’erano Savino Pezzotta, Giuseppe Vacca, Alfredo Reichlin, e non manca un bel testo intervista di Mons. Loris Francesco Capovilla.
Altro contributo decisivo è quello di Francesco Mores della Fondazione Giovanni XXIII e della Normale di Pisa. Che ricostruisce contesto, rimandi e storia parallela del testo togliattiano e dell’Enciclica, davvero straordinariamente consonanti. Al punto da fare pensare che Togliatti fosse addirittura informato in anticipo dei contenuti dell’Enciclica, magari attraverso i «ganci» di Franco Rodano e di Don Giuseppe De Luca, figura chiave e mediana tra vaticano e Pci, a partire dalla questione dell’art. 7 in Costituzione. Scritti rivoluzionari e consonanti. Ma in che senso?
Cominciamo da Giovanni XXIII e isoliamo tre punti: genere umano, distinzione errante/ errore e valore dei movimenti di emancipazione. La rivoluzione «kantiana» di Papa Giovanni sta in questo: la predominanza del destino del genere umano sul contrasto di fede e ideologico. Sta in questo il divino e la sua trascendenza per il Papa: nella sua immanenza fraternitaria nella storia. E ben per questo la Chiesa deve accogliere i valori emancipativi di masse e popoli in cammino, di là dell’errore e degli errori teologici. Perché c’è un «senso» trasformativo nella storia e va colto nell’incontro, nel dialogo e nell’amore, che poi sono il banco di prova della verità teologica cristiana.
Un capovolgimento immenso, che fece a pezzi dogmatismo e scomuniche - archiviando il pontificato di Pio XII - e che rese la Chiesa attore planetario, al tempo della crisi dei missili a Cuba, della decolonizzazione, dei non allineati, della sfida kennediana, e della coestistenza pacifica kruscioviana. Ma nel suo «piccolo» l’inatteso discorso di Togliatti - rivolto guarda caso ai cattolici e alla Bergamo giovannea alla vigilia dell’Enciclica - non è meno dirompente. Vi si afferma innanzitutto il primato della pace sulla lotta di classe e su quella di campo, nell’era della corsa nucleare. L’unità del genere umano, come bene supremo da preservare e orizzonte di ogni emancipazione (dunque terreno e fine). E poi il primato della persona e della sua dignità, come punto di partenza e meta ideale della liberazione propugnata dal movimento operaio.
Non sono povere cose, se si considera quel tempo, perché Togliatti mette in campo la libertà di tutti e di ciascuno e al contempo rivaluta e preserva la crucialità del fatto religioso: come costante che è illusorio pensare di poter svellere con il progresso e la riforma delle basi sociali. Addirittura, oltrepassando Gramsci, la religione diviene un dato antropologico inscindibile dalla condizione umana e persino vettore di rivoluzione. Certo Togliatti difendeva l’Urss e si illudeva sulla sua riformabilità, restava un figlio autonomo e originale di quella geopolitica novecentesca. Ma sul religioso era oltre Gramsci e Marx, e tracciava uno spartiacque: dalla persona e dalla libertà non si torna indietro. E fu così che in qualche modo un grande Papa e un grande comunista posarono una pietra miliare: fecero dialogare grandi masse tra loro e riscrissero con audacia la loro stessa fede
Che ne sarebbe della Chiesa se fallisse Francesco
di Vito Mancuso (la Repubblica, 14.03.2014)
E se papa Francesco fallisse? Non ci sono dubbi che dietro le aperture riformiste del cardinal Kasper e di altri cardinali ci sia proprio il Papa, ma che cosa avverrebbe se le riforme auspicate non andassero in porto e le attese di una nuova primavera si rivelassero solo illusioni?
Nella relazione al Concistoro straordinario sulla famiglia Kasper ha affermato che «dobbiamo essere onesti e ammettere che tra la dottrina della Chiesa sul matrimonio e sulla famiglia e le convinzioni vissute di molti cristiani si è creato un abisso». Quanto affermato per la famiglia vale a mio avviso per molti altri ambiti della dottrina cattolica, anzi io penso che valga per il concetto stesso di dottrina, intesa come sistema di verità stabilite che il credente è tenuto a professare e su cui vigila la Congregazione per la Dottrina della Fede, che prima del 1965 si chiamava Sacra Congregazione del Sant’Uffizio e prima del 1908 si chiamava Sacra Congregazione della Romana e Universale Inquisizione.
Elencare i molti elementi che rendono l’insegnamento della Chiesa “lontano dalla realtà e dalla vita” non è difficile.
Oltre alla dottrina sul matrimonio vi sono la regolazione delle nascite con il clamoroso fallimento pratico e teorico dell’Humanae Vitae di Paolo VI, l’identità sessuale e l’omosessualità al cui riguardo occorre cessare di parlare di malattia come ancora spesso si fa, il ginepraio della bioetica da cui non si esce continuando a ripetere solo dei no soprattutto sulla fecondazione assistita, il destino degli embrioni congelati, la diagnosi degli embrioni prima dell’impianto, il principio di autodeterminazione a livello di testamento biologico.
Vi sono poi i problemi ecclesiologici che già nel 1987 Hans Küng definiva “noiose vecchie questioni”, cioè la scarsità delle vocazioni sacerdotali e religiose, il celibato del clero, i criteri di nomina dei vescovi, la collegialità come metodo di governo, la questione laicale, la questione femminile, la riforma della curia romana, il rispetto dei diritti umani all’interno della Chiesa (di cui “la tratta delle novizie” denunciata dal Papa è solo un aspetto), la libertà di ricerca in ambito teologico.
Qui non accenno neppure ai molti problemi teologici, sia in sede di teologia fondamentale sia in sede di teologia sistematica, che mostrano tutta la fragilità della tanto celebrata dottrina, se non per dire il problema vero e proprio concerne l’identità del messaggio cristiano, al cui riguardo ci si deve chiedere: qual è oggi la buona notizia di ciò che viene detto vangelo? Penso che questo sia il nodo decisivo e che per scioglierlo occorre alzare la mente e ragionare per secoli. Se si impara a farlo, si vedrà più lontano, si capirà “che cosa lo Spirito dice alle chiese” e ci sarà meno paura e meno pessimismo.
Occorre saper vedere infatti non solo quello che muore, ma anche quello che nasce, perché a qualcosa che muore si lega sempre qualcosa che nasce. Che cosa muore? Sant’Agostino diceva che egli non avrebbe potuto credere al vangelo se non l’avesse spinto l’autorità della chiesa cattolica (Contra ep. Man. 5,6: “Ego vero evangelio non crederem, nisi me catholicae ecclesiae commoveret auctoritas”), fondando così il modello della fede che fa del cristiano un ecclesiastico, cioè un membro di una struttura di cui deve accettare la dottrina.
Oggi questo modello sta morendo, l’epoca della fede dogmatico-ecclesiastica che implica l’accettazione di una dottrina e di un’autorità è ormai alla fine perché il metodo sperimentale della scienza è entrato anche nella vita spirituale dove ora il soggetto vuole sperimentare in prima persona, e con ciò la fede di seconda mano mediata dall’autorità ecclesiastica è superata.
Al suo posto sta nascendo un cristianesimo non-dogmatico che dall’esteriorità dottrinale passa all’interiorità esistenziale, che all’autorità istituzionale preferisce l’autenticità personale. Il passaggio da Benedetto XVI a Francesco è una manifestazione di questo movimento epocale, così come lo sono i risultati del sondaggio mondiale commissionato dal Vaticano che mostrano una grande distanza tra la dottrina ufficiale e la fede realmente vissuta.
Ne viene che se il cristianesimo vuole tornare a essere percepito come una buona notizia che risana e rallegra l’esistenza, e insieme come verità di quel processo che chiamiamo generalmente mondo, si deve sottoporre a riforma. La dottrina sulla famiglia è solo il primo inevitabile passo. Se non lo fa, l’esito è segnato dalle parole di un giovane riportate nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme di Carlo Maria Martini: “Non so che farmene della fede. Non ho nulla in contrario, ma cosa dovrebbe darmi la Chiesa?”. È il pensiero della gran parte dei giovani europei.
Qualcuno teme che questa riforma possa inquinare l’identità cristiana. Ma per il cristianesimo la rilevanza è parte costituiva dell’identità, non qualcosa che viene dopo. Un’identità irrilevante non può essere un’identità cristiana, tanto meno cattolica cioè universale. “Voi siete il sale della terra” (Mt 5,13), “voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14): l’identità cristiana è da subito relazionale, è essere-per, prende senso solo nella relazione, così come il sale ha senso solo in relazione ai cibi o il lievito alla farina (Mt 13,33: “Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata”). Ne consegue che se viene meno la relazione, viene meno l’identità. Il cristianesimo vive della logica della relazione con l’alterità e tale logica lo spinge inevitabilmente verso la riforma, obbedirle non è una concessione al relativismo, è semplicemente un dovere verso il Vangelo.
Ma se papa Francesco non ce la farà? Se non riuscirà a sanare lo Ior, a rendere il governo della Chiesa cattolica più conforme al volere del Vaticano II, a incidere sul rapporto con la politica italiana facendo cessare per sempre la compravendita di favori tra cardinali e ministri troppo sensibili agli interessi della Chiesa, a mettere ordine tra i vescovi e i superiori degli ordini religiosi richiamando tutti a uno stile di vita sobrio e conforme ai valori evangelici, a dare il giusto spazio alle donne a livello di condivisione del potere aprendo al diaconato e al cardinalato femminili, a riformare la morale sessuale, a impostare su basi nuove il reclutamento e la formazione del clero, a dare finalmente più libertà alla ricerca teologica? Se papa Francesco fallisse in tutto ciò?
Ha scritto qualche giorno fa un non credente come Eugenio Scalfari che grazie a Francesco “Roma è ridiventata la capitale del mondo... Roma, la città di papa Francesco, è il centro del mondo”. Scalfari parlava ovviamente della leadership spirituale, di cui l’occidente ha un immenso bisogno per continuare a credere nei grandi ideali dell’umanità, tradizionalmente definiti come bene, giustizia, uguaglianza, solidarietà, fratellanza.
In un mondo dove tutto è potere e calcolo, la figura genuina di questo papa ci fa comprendere che non tutto in noi è potere e calcolo, che c’è ancora spazio per la gratuità, l’amore sincero, la volontà di bene per il bene. Il suo fallimento sarebbe la fine della luce che si è accesa nell’esistenza di tutti gli esseri umani non ancora rassegnati al cinismo e alla crudeltà della lotta per l’esistenza, e con Roma che tornerebbe a essere periferia del mondo sarebbe la fine per gli ideali della spiritualità in occidente. Se lo ricordino i cardinali, i monsignori e i teologi che stanno facendo di tutto per bloccare e far fallire l’azione riformatrice di papa Francesco.
Con il condannato non si discute
di Marco Politi (il Fatto, 18.01.2014)
Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014? Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può. In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di Stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale. I media italiani - t elevisione e carta stampata - stanno banalizzando l’evento in maniera imbarazzante. Quasi si trattasse della normale prosecuzione dell’uso del potere, che Berlusconi ha accumulato negli anni, e delle inevitabili (o evitabili) trattative politiche che si fanno con chi detiene una fetta di potere. Non è così.
Come diceva un diplomatico francese, “le forme non sono importanti, salvo quando vengono meno”. In certi quartieri di Palermo, se ti occupano abusivamente la casa, puoi andare dalla polizia e dai giudici - e l’esito sarà lungo, forse incerto - oppure ti rechi dal capomafia di quartiere. Entro ventiquattr’ore l’abusivo sparisce. Ma non è gratis. Non perché lo ‘zu ti chiede soldi, non è mica un poveraccio... quando sarà ti presenterà il conto.
Berlusconi è un personaggio condannato e interdetto. C’è un prima e un dopo, sebbene un’insistente ondata propagandistica tenti di confondere le acque. Prima della condanna definitiva era una personalità che a buon ragione risultava repellente a molti e - in nome del libero arbitrio - poteva piacere ad altri. Dopo la sentenza della Cassazione il suo status è mutato per una sentenza emessa in nome del “popolo italiano”, che ha - dovrebbe avere - una valenza nazionale. È una persona caratterizzata da una “naturale capacità a delinquere mostrata nella persecuzione del (proprio) disegno criminoso”, come hanno sancito i giudici del processo Mediaset.
CON LA FRESCA arroganza di chi è pervenuto a un posticino di potere per grazia del sovrano, l’economista Filippo Taddei membro della segreteria del Pd ha dichiarato l’altra mattina a Omnibus a chi gli chiedeva dei dubbi sull’incontro Renzi-Berlusconi: “Francamente non capisco il senso della questione”. Peccato, perché è ipotizzabile che abbia viaggiato in Europa e si sa per certo che ha vissuto negli Stati Uniti.
L’incontro tra un politico incensurato e un pregiudicato è inconcepibile in qualsiasi capitale democratica dell’Occidente. Un evento del genere è escluso a Washington come a Berlino, a Parigi come a Londra. Nixon era stato eletto nel 1972 con 47 milioni di voti. Nel momento in cui fu riconosciuto responsabile dei reati connessi allo scandalo Watergate, non fu più un interlocutore per nessuno. Punto. I democratici americani hanno continuato ovviamente a trattare e fare politica con i repubblicani, ma il colpevole di reati era pubblicamente fuori gioco. Perché c’è un confine invalicabile tra l’onorabilità pubblica prima e dopo una condanna.
Anzi nei paesi anglosassoni e a democrazia matura c’è anche un secondo confine, quello della condotta “appropriata” o “inappropriata”, che riguarda la correttezza del comportamento pubblico e prescinde dai procedimenti penali. Per cui il politico, beccato con lo scontrino delle mutande messo in conto al contribuente, sparisce subito dalla circolazione e nessuno dei suoi sodali di partito grida al complotto. Semplicemente perché “non si può”.
In Italia la classe politica rimuove costantemente questo discrimine di etica pubblica per cui i più grandi cialtroni possono gridare che non sono indagati, facendoci ridere dietro all’estero. Ma pazienza. La maggioranza paziente si accontentava di aspettare le sentenze definitive della magistratura, augurandosi che avessero un senso erga omnes.
Il fatto che da noi si voglia ora platealmente varcare il limite tra chi ha la titolarità di buona fede per stare sulla scena pubblica è chi è interdetto per gravi reati costituisce un ulteriore allontanamento dell’Italia dallo standard dei paesi europei e occidentali. Dove “ulteriore” significa ammettere con tristezza che l’ultimo ventennio ha visto il nostro paese scendere sempre più in basso, ma c’era la speranza piccola, flebile, che il novembre 2011 e l’accertata criminalità con sentenza definitiva dell’agosto 2013 potesse segnare un piccolo, graduale passo verso il ritorno all’Europa.
DICIAMO, a scanso di equivoci, che a milioni di cittadini delle beghe interne del Pd non interessa niente. E meno che mai interessa il politichese con cui il vertice imminente (o avvenuto) viene ammantato. Ci sono invece milioni di cittadini, che pagano le tasse, e tanti milioni che a destra, centro e sinistra sentono il valore della legalità e vorrebbero uscire dal degrado istituzionale. E c’è quell’umanità pulita vista due anni fa in Piazza del Popolo nel giorno di “Se non ora, quando? ” .
Questa Italia capisce perfettamente il “segno” di questo vertice voluto da Renzi, che cancella il confine tra ciò che è sostenibile nel costume democratico e ciò che non lo è. Che mette sullo stesso piano della presentabilità l’evasore e chi non lo è.
Raccontava Piercamillo Davigo che nei dibattiti, quando il discorso scivolava sul “tanto rubano tutti”, lui si fermava e domandava: “Lei ruba? Io no. Allora siamo già in due”. Tanto per rimarcare la frontiera. Da oggi, nella società di comunicazione visiva in cui siamo immersi, il messaggio è chiarissimo. Tra Davigo e Berlusconi non c’è nessuna differenza.
NOTE DI PREMESSA SUL TEMA:
di Roberto Napoletano (Il Sole-24 Ore, 01.12.2013)
A portare Platone in prima pagina sulla Domenica del Sole è il genio didascalico di Giovanni Reale. Il giorno dopo il suo allievo e successore, Roberto Radice, in un’aula della Cattolica di Milano, si rivolge a un gruppo di studenti e formula la seguente domanda: «Chi ha letto il pezzo di filosofia sul Domenicale?». Radice non attende risposte e chiosa: «Chi non legge il Domenicale è un pirla». Per capire fino in fondo che cos’è la Domenica del Sole, ribattezzata dai suoi affezionati lettori Domenicale, bisogna partire da qui. L’Accademia italiana e i giovani. Vittore Branca e un quarantenne prefetto della Biblioteca Ambrosiana che risponde al nome di Gianfranco Ravasi. Ludovico Geymonat, filosofo della scienza e marxista, che dice a Cossutta di avere trovato sulle pagine della cultura del Sole «il mio luogo di libertà», una giovanissima Elena Loewenthal che scrive di cose ebraiche, e un Federico Zeri che attribuisce alcuni dipinti di Assisi alla mano di Cavallini e non di Giotto.
I pesi massimi Eugenio Garin, Giovanni Pettinato, Alvar González-Palacios e le "giovani scoperte" dell’epoca Massimo Firpo, Carlo Ossola e Angela Vettese, critici teatrali e cinematografici del calibro di Renato Palazzi e Roberto Escobar. L’ironia amara di Peppo Pontiggia: «I narratori dovrebbero realizzare l’unica etica che appartiene a loro, l’etica del racconto. Potrà apparire cinica, tragica, disperata. Ma l’occhio che guarda il male è più prezioso di quello che si chiude» (18 aprile 1999). Tutto ciò, e molto altro, festeggia questa settimana il suo trentesimo compleanno. Un patrimonio che si riconosce nelle sue firme storiche e in tante altre che individua e alleva di settimana in settimana. Noi ci siamo portati avanti e abbiamo cominciato a festeggiare poco più di due anni fa quando abbiamo caparbiamente voluto restituire alla Domenica del Sole la forza espressiva del suo certificato di nascita, fatto di un formato tradizionale che combina in un unicum inscindibile testi, foto e disegni che appartengono alla storia della cultura italiana.
Un unicum, concepito e realizzato da un giornale finanziario, che è diventato materia di studio per tante tesi di laurea. Ne avvertiamo il peso e la responsabilità, c’è da custodire qualcosa che merita rispetto e unisce antico e nuovo. La mescolanza tra lettere e scienza, ma ancora di più tra i mille saperi della cultura, nessuno escluso, resta il principio guida, la base su cui poggiare la sfida culturale per eccellenza: aiutare questo Paese a riconciliarsi con il suo (grande) capitale dimenticato. Prima il Manifesto, poi due edizioni degli Stati generali della cultura, un nuovo indice elaborato dagli esperti del Sole 24 Ore che misura come il brand Italia perda terreno nel mondo. Non ci stancheremo mai di ripetere che la cultura, per come la intendiamo noi, arte, musei, lettere, ma anche ricerca scientifica e tecnica, innovazione e università, moda e design, talento della manifattura e dell’artigianato, deve essere collocata al centro della politica economica di sviluppo e di internazionalizzazione.
Sappiamo che la consapevolezza nella coscienza del Paese è aumentata e crediamo, in questo, di poter rivendicare un piccolo merito. Faremo la nostra parte selezionando e formando con una primaria banca i progetti giovanili di innovazione culturale che riterremo più convincenti e con un sito bilingue che si propone di ricordare al mondo il patrimonio italiano, i suoi talenti spesso abbandonati a se stessi, la forza e la suggestione di una bellezza e di un’identità uniche. Non ci rassegniamo all’idea che a tutto ciò si debbano negare non solo le risorse pubbliche (non ci sono) ma anche quegli stimoli fiscali (detraibilità e credito d’imposta per chi investe in cultura) che permetterebbero di attrarre risorse private, italiane e estere, necessarie per valorizzare un grande capitale dimenticato. Per non parlare dei vincoli che rischiano di soffocare istituzioni di qualità che ci si ostina a considerare come un ufficio dell’anagrafe e non per quello che sono: aziende culturali che reclamano (pensate) la libertà di muoversi sul mercato degli investitori.
Ricordo l’entusiasmo degli occhi e il sorriso sornione con cui Vincenzo Cerami accoglie la mia proposta di inventarsi critico cinematografico della Domenica e di regalarci un elzeviro al mese. Gli piace (tanto) l’idea di entrare nell’Accademia italiana e ci scherza su, a modo suo, con l’umiltà del grande cronista autore di Un borghese piccolo piccolo e sceneggiatore de La vita è bella, senza mai perdere la capacità di cogliere i segreti di uomini e donne e di restituirti luoghi, fatti e persone mai in posa. Anche per uomini come lui che non ci sono più (quanto ci manchi Vincenzo) vale la pena di impegnarsi perché la Domenica del Sole resti la bandiera di un’Italia che vuole (deve) riconquistare il suo primato culturale nel mondo chiedendo solo di non essere ostacolata e di potere contare su una parità di incentivazione fiscale con Paesi (molto) meno ricchi culturalmente e (molto) più lungimiranti.
Omaggi e amarezze, Napolitano si inchina al papa
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2013)
Papa Francesco arriva al Quirinale e il presidente si confessa. È una visita singolare e segna una pagina completamente nuova nel modo di rapportarsi tra i due sovrani, che convivono nella città Roma. Il pontefice archivia i “principi non negoziabili”, chiodo fisso del suo predecessore, e si presenta col desiderio di “bussare idealmente alla porta di ogni abitante l’Italia”. Compito primario della Chiesa, annuncia, è “testimoniare la misericordia di Dio” e generare solidarietà per dar speranza al futuro.
Giorgio Napolitano, rappresentante di un Paese in ginocchio quanto a diffusione di valori, non può fare altro che rendere ripetutamente “omaggio” (due volte impiega la parola) alla personalità del nuovo papa. E non potendo presentare un’Italia, che abbia qualcosa da dire, si abbandona a uno sfogo, quasi una confessione. Ammette di essere immerso in una “faticosa quotidianità... stravolta da esasperazioni di parte in un clima avvelenato e destabilizzante” . Lamenta una politica marcata dalla drammatica necessità di “liberarsi dalla piaga della corruzione e dai più meschini particolarismi”.
Il clima tra i due è cordialissimo. Chiacchierano e conversano praticamente per due ore. A quattr’occhi restano a colloquio per circa 40 minuti, mentre le delegazioni ufficiali - Letta, Alfano, Bonino da una parte, mons. Sostituto Becciu e i cardinali Bagnasco e Vallini dall’altra - si incontrano in un’altra sala.
Tra le due parti non ci sono contenziosi, sia Bergoglio che Napolitano si compiacciono dell’esistenza del concordato. Francesco mette in luce questioni di comune preoccupazione: la crisi economica, la ferita dell’ “insufficiente disponibilità di lavoro”, il sostegno alla famiglia. Temi su cui la Cei è particolarmente impegnata. Colpisce nelle parole di Francesco, che invita a “valorizzare e tutelare” la famiglia, l’assenza di qualsiasi accenno a “minacce” contro l’istituto familiare, qualsiasi deprecazione di forze oscure nella società moderna che vorrebbero disgregarlo: le geremiadi tipiche delle passate stagioni ecclesiastiche di colpo sono svanite.
Colpisce anche che Francesco non invochi ossessivamente le radici cristiane, mentre augura all’Italia di riprendere slancio con creatività e concordia, basandosi sul suo “ricco patrimonio di valori civili e spirituali”. Certo che l’eredità cristiana segna l’Italia, ma non c’è bisogno - sembra far capire - di ricordarlo in tono ammonitorio.
Il presidente si lascia andare all’elogio del nuovo corso bergogliano, in cui tutti avvertono l’“assenza di ogni dogmatismo, la presa di distanza da ‘posizioni non sfiorate da un margine di incertezza’, il richiamo a quel ‘lasciare spazio al dubbio’ proprio delle grandi guide del popolo di Dio”. (Certo, veniva da osservare, sarebbe stato bello se in altre rigide stagioni il capo dello Stato avesse espresso l’elogio del dubbio anti-dogmatico ai suoi interlocutori ecclesiastici).
Appaiono stanchi il pontefice e il presidente. Napolitano evidentemente sfibrato da una situazione in cui non vede quella lungimiranza e quella capacità di dialogo che descrive nel suo interlocutore. Bergoglio con profonde occhiaie, dovute a 8 mesi di lavoro continuo, senza vacanze, e di tensioni padroneggiate con l’attivismo.
Al Quirinale Francesco è arrivato nella solita Ford Focus nera senza scorta di corazzieri a cavallo e nel cortile d’onore osservava con rispettosa estraneità lo schieramento di armati, riservato ai capi di stato. Non portava il mantello porpora come Wojtyla nelle sue prime visite né la mantellina rossa con stola com’era abituato Benedetto XVI. Indossava solo la tonaca bianca e già gli dava fastidio la grande fascia con le frange d’oro. A sua agio è stato pienamente solo con i bambini e le famiglie dei dipendenti, salutate dopo i colloqui ufficiali. Perché gli piacciono le persone in carne e ossa e non le cerimonie.
Papa Francesco domani in visita al Quirinale
di Redazione (l’Unità, 13 novembre 2013)
Domani mattina Papa Francesco varcherà la soglia del palazzo del Quirinale per la sua prima visita di Stato con cui ricambierà quella avuta da Napolitano in Vaticano l’8 giugno scorso.
L’avvenimento, nelle intenzioni di entrambi i protagonisti, cercherà di introdurre degli elementi di novità e di vicinanza alla vita reale pur nel rispetto del cerimoniale e del protocollo. In un briefing al Quirinale sono stati il consigliere diplomatico del Colle, Antonio Zanardi Landi e l’ambasciatore italiano presso la S. Sede, Francesco Greco, insieme al responsabile per la Comunicazione, Maurizio Caprara, a illustrare il significato e le modalità della visita.
Come da protocollo il Papa verrà accolto da Napolitano nel Cortile d’onore del Quirinale dove riceverà gli onori militari, ma niente Corazzieri a cavallo a scortarlo. Dopo una sosta alla Cappella per un momento di preghiera, il Capo dello Stato mostrerà a Francesco un’opera d’arte, il Codex Purpurens Rossanensi, a sottolineare l’importanza della tradizione religiosa del paese che ospita la Chiesa da duemila anni.
Quindi, come di consueto nelle visite di Stato, ci saranno i colloqui tra i due capi di Stato e quelli tra le rispettive delegazioni governative: per l’Italia sarà guidata dal presidente del Consiglio Enrico Letta mentre sulla presenza del segretario di Stato vaticano, monsignor Parolin, ancora convalescente, non ci sono ancora conferme.
Presenti sicuramente i rispettivi titolari degli Esteri e degli Interni. Papa Francesco e Napolitano terranno i discorsi ufficiali nel Salone delle Feste davanti a una platea composta dalle più alte cariche istituzionali e dai rappresentanti in Parlamento dei partiti politici assieme ad esponenti del mondo della cultura e delle associazioni di volontariato cattoliche e laiche, rappresentativi dell’immagine più viva e reale del nostro paese.
Un’occasione voluta dal presidente per far conoscere al Papa non solo l’Italia delle istituzioni ma anche quella di chi riflette sui grandi temi e di chi si occupa degli ultimi. In quest’ottica la visita di Francesco al Quirinale si concluderà con un saluto ai giovani, i figli dei membri del personale del Palazzo.
Quanto all’agenda dei colloqui non c’è un programma prestabilito. Sarà una conversazione libera che toccherà i principali temi che stanno a cuore ai due interlocutori. Tra i due è stata già registrata una particolare sintonia. Sia il Papa che Napolitano sono molto attenti al problema dell’immigrazione come dimostrano la visita del Pontefice a Lampedusa e l’interessamento del Colle per il problema dei richiedenti asilo. Il colloquio, nell’ambito di una visita di due ore, dovrebbe durare circa mezz’ora.
Berlusconi, uno e due, virtuale e reale
di Mons. Giuseppe Casale
in “Adista” - Segni nuovi - n. 30 del 7 settembre 2013
Ma chi è il personaggio Berlusconi, che tiene in agitazione un intero Paese, che suscita accesi contrasti, che mette a rischio la tenuta stessa del governo, mentre ben altri e gravi problemi (crisi economica, disoccupazione giovanile, criminalità organizzata, immigrazione) esigono interventi urgenti e indilazionabili?Non è una domanda retorica. Perché il caso Berlusconi va ben al di là del fatto di cronaca riguardante una persona. È il termometro che segna una grave anomalia nella vita della democrazia italiana.
Si fa presto a descrivere il Berlusconi reale: un imprenditore che ha accumulato un’enorme ricchezza, non si sa con quali metodi; un uomo politico che ha suscitato forti critiche e riserve da parte di tanti onesti cittadini e numerosi interventi della magistratura per una condotta che è apparsa a coloro che indagavano su di lui riprovevole, in contrasto con le leggi dello Stato e l’etica pubblica, sia quando Berlusconi vestiva i panni di uomo di governo sia quando dirigeva, direttamente o indirettamente, le sue aziende. Alla fine di uno dei tanti procedimenti giudiziari che lo hanno visto indagato o imputato è stato condannato in maniera definitiva dalla Cassazione. Non è un perseguitato. È, tecnicamente, un condannato. La sentenza della Cassazione doveva perciò bastare per chiudere questo triste e avvilente capitolo della storia italiana recente.
Non è così. Perché se cade Berlusconi, cade tutta una costruzione pseudo-politica che ha in lui sostegno e spinta propulsiva. Ecco quindi che a fianco del Berlusconi reale c’è il Berlusconi virtuale, quello che ha fatto dimenticare ad un’intera generazione il rispetto delle leggi, della Costituzione e dei poteri dello Stato, assieme alle stesse norme minime di comportamento che vigono in una società organizzata. E che continua ad alimentare suggestioni collettive e un fitto reticolo di interessi. Ci sono ancora milioni di persone che vedono in Berlusconi il “salvatore della patria”, il politico che fa sognare e dispensa dal pensare. Vi sono, inoltre, altre centinaia di persone alle quali Berlusconi assicura potere, posti di lavoro, carriera politica, posizioni di rilievo nell’apparato dello Stato.
E allora la condanna? Per tutte queste persone non conta. È solo il frutto di una magistratura di sinistra che perseguita "l’unto del Signore. Gli insuccessi nel governo della cosa pubblica? Solo la conseguenza di una democrazia che impedisce al “capo” di governare con rapidità e decisione. Bisogna quindi salvare Berlusconi - si dice - perché è stato eletto da milioni di italiani. Come se l’essere eletti comporti non la responsabilità, ma l’impunità. Bisogna salvare Berlusconi, perché - si insiste - altrimenti tutto crolla. È vero. Però crolla una costruzione che non si basa sull’apporto responsabile dei cittadini, ma sulla verbosità, spesso menzognera, di chi pensa e decide per tutti.
Bisogna resistere alla tentazione di chiudere gli occhi, di accettare gli italici compromessi. Il bene comune non esige l’acquiescenza, il salvacondotto, la tortuosità di pseudo giustificazioni. La condanna di Berlusconi è l’uscita di sicurezza da un populismo mistificatore verso una democrazia sana, costruita ogni giorno con l’apporto intelligente e responsabile di tutti i cittadini. Che ne pensano i tanti cattolici “berluscones”? Non è giunto il momento per fare un serio esame di coscienza e... convertirsi?
* Arcivescovo emerito della diocesi di Foggia-Bovino
Laici-cattolici ora serve un passo avanti
di Gian Enrico Rusconi (La Stampa, 27 settembre 2013)
Il salto di qualità e di civiltà comunicativa che sta segnando in queste settimane il rapporto tra laici e uomini di Chiesa è un’ottima cosa. Ma mostra anche i suoi limiti. Lo dico senza polemica, ma per andare avanti.
Nell’intenso scambio, diffuso in rete, dei direttori dei giornali nel «cortile dei giornalisti», curato dal cardinale Gianfranco Ravasi, c’era un dettaglio solo apparentemente secondario. Lo snodarsi degli argomenti è rimasto ferreamente chiuso nelle categorie convenzionali «credenti» e «non credenti», «fede e ragione», «laici e cattolici». Mentre molti dei contenuti espressi nel confronto erano virtualmente esplosivi di queste categorie, esse presidiavano di fatto la comunicazione perché non superasse i confini delle competenze degli interventi. Illuminante e perentoria è stata la chiusa del direttore dell’Osservatore romano, Giovanni Maria Vian: «Il giornale è la Bibbia laica. Ma molto più interessante è la Scrittura Sacra vera». Punto a capo.
Tutto l’equivoco è qui. I direttori dei giornali hanno dato voce non solo alle esperienze, alle emozioni, alle riflessioni personali ma anche a quelle colte e raccolte dai loro giornali, ma si sono cautamente fermati davanti a questo punto. Già soddisfatti di quanto sta accadendo. l pontificato di Francesco infatti sembra annunciare la fine della stagione dello scontro sui «valori non negoziabili», delle identità esibite e collettivamente impositive, della reciproca negazione della legittimità (morale e intellettuale) di posizioni di fatto incompatibili che hanno creato seri problemi di convivenza civile e istituzionale.
Ma la nuova stagione diventa davvero innovativa se è intellettualmente solida e parta dai temi che sono rimasti «sospesi» («natura umana», «diritti originari della persona», «famiglia» ecc.). Sono questi temi che danno sostanza ai buoni sentimenti e danno vigore ad una nuova convivenza tra cittadini. La laicità infatti non è semplicemente uno stato dell’anima o una opzione personale, ma è lo statuto della cittadinanza.
La strategia comunicativa di Papa Francesco è chiara: «Voi conoscete la dottrina della Chiesa, di cui sono fedelissimo figlio, ma io vi dico: chi sono io per giudicare?». E’ una formula formidabile sul piano pastorale, che ha spiazzato i clericali di tutte le sfumature. Ma rimane enigmatica nei suoi contraccolpi dottrinali.
Tutti si affrettano a dire che non ci sarà alcuna rettifica dottrinale, nessun «cedimento sui principi». E’ evidente. Nessuno le attende. Ma si rischia un brutto paradosso: è come se la dottrina non sia considerata poi così importate rispetto al nuovo messaggio pastorale.
La vera sfida invece è come affermare il primato di una umanità accolta così com’è, nella sua autenticità e fragilità, e insieme conciliarla con una dottrina che parla di «verità» al punto da far dire ad alcuni uomini di Chiesa di essere loro i veri «esperti di umanità». Questa convinzione non si concilia con una visione laica che ha un riferimento (ovviamente critico) alle scienze dell’uomo e non può accettare una «antropologia» che è il rivestimento modernizzante di dottrine legate a culture e società storicamente e geograficamente ben definite, nonostante rivendichino per sé «la verità».
Non intendo affatto riaprire un contenzioso polemico che andrebbe in direzione opposta allo spirito che guida il Pontefice. Voglio semplicemente dire che comunicazione e impianto teorico (o di «verità») convergono e si sostengono reciprocamente.
Papa Bergoglio ha sfiorato in alcuni passaggi questo problema nella sua lettera pubblicata su Repubblica . Quando ha dato - discorsivamente - assoluta centralità alla «coscienza», quando ha parlato di «verità come relazione» («Ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive».) E, ancora più avanti, quando in modo disarmante confessa che «bisogna intendersi sui termini e reimpostare in profondità la questione».
E’ qui che mi aspettavo una ripresa della tematica, un soprassalto da parte dei commentatori, invece che l’enfasi sullo stile nuovo di comunicare del Papa. La battuta che «Gesù anticipa il linguaggio sintetico dei tweet» può far sorridere, ma sposta semplicemente il problema. Twittare non rappresenta nessun salto di qualità né concettuale né culturale. Questo il Papa lo sa, ma non so se è consapevole del sentiero stretto che sta percorrendo con il suo stile comunicativo. I suoi ammiratori (religiosi e laici) oltre che lodarlo in continuazione, dovrebbero dargli una mano, sul serio.
PS:
Con sorprendente sincronia il Papa emerito Ratzinger risponde a Piergiorgio Odifreddi con una lettera di spessore teorico e storico, quasi a completare lo stile del Papa in ufficio. In realtà il destinatario della lettera si presta sin troppo facilmente alla lezione critica che gli viene impartita.
Non è infatti difficile controbattere le ingenuità intellettuali del matematico Odifreddi, magari simpatico nel suo sfottente ateismo, ma poco consistente sul piano filosofico e storico. Se ci si vuole confrontare con un ateismo solido nel mondo della scienza, occorre cercare tra i cultori delle scienze biologiche e biogenetiche.
Ma soprattutto - e qui torniamo alle prime riflessioni fatte sopra
si deve archiviare o meglio decostruire le convenzionali, quasi tautologiche, contrapposizioni tra
«scienza» e «fede», con le quali ci troviamo ingabbiati nel discorso corrente. Questa è la sfida.
Il fascino pericoloso del postsecolarismo
In Italia siamo in presenza di una religione predominante. Non esiste nella cultura etica quel pluralismo che fa da contenimento
Il rischio è quello di un maggioritarismo potenziato da un credo religioso
Parla Nadia Urbinati, autrice con Marco Marzano di un saggio su Stato e Chiesa
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 14.09.2013)
«Papa Francesco rappresenta la realizzazione compiuta del postsecolarismo di Habermas», dice Nadia Urbinati, al telefono dalla Columbia University dove ha la cattedra di Teoria politica. «Ma proprio per questo occorre ancor più distinguere tra diritto e morale, Stato e religione, ristabilendo quelle paratie che sono necessarie in democrazia». All’indomani della lettera «scandalosamente affascinante» scritta dal pontefice a Eugenio Scalfari, e a pochi giorni dall’appello alla pace che ha raccolto in piazza San Pietro cattolici, musulmani, atei e perfino anticlericali, esce dal Mulino uno stimolante saggio di Nadia Urbinati e Marco Marzano dal titolo provocatorio: Missione impossibile. La riconquista cattolica della sfera pubblica.Ma è davvero una missione impossibile? La rivoluzione introdotta da papa Francesco, anche il suo nuovo stile di dialogo, non costringe a rovesciare i termini della questione? «Il suo stile e il suo linguaggio certo scompaginano il progetto culturale inseguito per sedici anni dal cardinal Ruini: è su questo schema che abbiamo costruito molti dei no-stri ragionamenti. Ma restano in piedi tutti i rischi della democrazia postsecolare».
Professoressa Urbinati, che cosa è il postsecolarismo?
«Designa il superamento del secolarismo, ossia dell’esclusione della religione dalla sfera pubblica. Secondo Jürgen Habermas, che ne è il principale teorico, la religione - avendo accettato le regole del gioco democratico - non deve essere più tenuta in un recinto, ma al contrario deve essere accolta nel dibattito pubblico perché porta un prezioso nutrimento morale. E qui interviene l’argomento di un importante teologo tedesco, Böckenförde, secondo il quale la democrazia ha bisogno di religione proprio perché è un metodo di decisione, privo della sostanza etica che lo può tenere in vita. Questo è l’aspetto più preoccupante. Secondo la teoria postsecolare, la democrazia diventa un guscio vuoto, mentre sappiamo che le regole democratiche sono dense di principi morali».
Lei e Marzano denunciate gli “effetti perversi” del postsecolarismo, soprattutto in una cultura monoreligiosa come quella italiana.
«Una delle pecche più gravi di questa teoria è la sua astrattezza, che non tiene conto dei contesti storici e sociali specifici. In Italia siamo in presenza di una religione nettamente predominante. Non esiste nella società e nella cultura etica quel pluralismo che fa da contenimento naturale. Il rischio per la nostra democrazia è quello di un maggioritarismo potenziato da un credo religioso. E le leggi possono diventare laiche al rovescio: non perché distanti da tutte le fedi religiose, ma perché vicine alla fede della maggioranza».
Marco Marzano insiste sullo scarso fondamento in Italia della teoria postsecolare, essendo profondo il divorzio tra fede dichiarata e pratica di vita. Una divaricazione denunciata pochi giorni fa dall’arcivescovo di Milano.
«Sì, è in gioco non solo la riconquista della società liberale, ma della stessa Chiesa dei cristiani. Marzano mostra in modo molto dettagliato anche lo scollamento tra la religione rappresentata dalle gerarchie e la religione vissuta dai credenti. La Chiesa del potere e la Chiesa della fede».
Questo schema però viene rovesciato da papa Francesco, che introduce una rottura netta rispetto ai simboli e alle pratiche di potere della precedente curia romana, anche nei suoi rapporti con la politica italiana. E si propone come cerniera tra Chiesa istituzionale e Chiesa missionaria.
«Se mi si consente il termine, è un papa grillino. Egli salta tutto il corpo intermedio per arrivare direttamente all’incontro con i fedeli: basti pensare alla frequenza delle sue telefonate o al suo quotidiano uso del twitter. Questo è un dato interessante perché riflette un fenomeno diffuso in tutte le istituzioni generatrici di autorità, religiose o politiche che siano: i cittadini non si sentono più rappresentati da questi corpi intermedi, sia che si chiamino prelati o rappresentanti politici, clero o partiti. Papa Francesco avverte questo divorzio, e riesce a colmarlo con straordinaria abilità».
Per le sue idee e per le sue azioni Francesco appare come l’incarnazione esemplare del postsecolarismo di Habermas: non introduce mai nella sfera pubblica uno stile dogmatico o una prevaricazione sullo Stato. Ma così operando non rischia di demolire le vostre critiche a quella teoria?
«Non credo. Semmai il contrario. Grazie alla sua efficace predicazione, che arriva dalla grande tradizione gesuita, con la rievangelizzazione l’infiltrazione religiosa rischia di diventare ancora più dilagante e capillare. E questo rende ancor più necessario preservare le staccionate per distinguere le varie sfere, quella civile e quella religiosa per esempio».
Nel libro non mancano critiche al «postsecolarismo all’italiana», da Giuliano Amato a Giancarlo Bosetti e Alessandro Ferrara. «Habermas riflette nelle sue idee la democrazia dell’Europa protestante e degli Stati Uniti, ossia realtà caratterizzate da pluralismo effettivo, mentre questi studiosi provengono da una tradizione che è imbevuta in modo egemonico di una sola religione. Quando si parla del rapporto tra Stato e fede religiosa, la teoria dovrebbe prestare più attenzione al contesto».
Nel messaggio del Pontefice alla Settimana Sociale dei cattolici italiani, che si apre a Torino, la riaffermazione della famiglia espressione della "prima società naturale", "scuola di generosità contro l’individualismo", messa a rischio da "scelte di carattere culturale e politico". Bagnasco: "No a fughe in avanti, resti salda la roccia della differenza sessuale" *
TORINO - "La Chiesa offre una concezione della famiglia, che è quella del Libro della Genesi, dell’unità nella differenza tra uomo e donna, e della sua fecondità. In questa realtà riconosciamo un bene per tutti, la prima società naturale, come recepito anche nella Costituzione della Repubblica Italiana". E’ un passaggio del messaggio autografo inviato da Papa Francesco alla 47esima Settimana Sociale dei cattolici italiani, dal tema "La famiglia, speranza e futuro per la società italiana", aperta oggi pomeriggio a Torino dal presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco.
Tanto diverso dal predecessore Ratzinger nelle manifestazioni pubbliche del proprio Pontificato, Bergoglio resta invece all’interno del solco tracciato dalle Sacre Scritture nella considerazione del matrimonio, inteso come cellula primordiale della società, caratterizzata dall’obiettivo fondamentale della procreazione. Non lasciando alcuno spiraglio a qualsiasi ragionamento sul matrimonio omosessuale, legalizzato giorno dopo giorno in un numero sempre crescente di Paesi nel mondo. "Vogliamo riaffermare - sottolinea infatti il Pontefice - che la famiglia così intesa rimane il primo e principale soggetto costruttore della società e di un’economia a misura d’uomo, e come tale merita di essere fattivamente sostenuta".
Come in precedenza Benedetto XVI si era scagliato contro la "rivoluzione antropologica" del "matrimonio per tutti", anche Papa Francesco punta l’indice contro "le conseguenze, positive o negative, delle scelte di carattere culturale, anzitutto, e politico riguardanti la famiglia". Conseguenze che "toccano i diversi ambiti della vita di una società e di un Paese: dal problema demografico, che è grave per tutto il continente europeo e in modo particolare per l’Italia, alle altre questioni relative al lavoro e all’economia in generale, alla crescita dei figli, fino a quelle che riguardano la stessa visione antropologica che è alla base della nostra civiltà".
"La famiglia è scuola privilegiata di generosità, di condivisione, di responsabilità, scuola che educa a superare una certa mentalità individualistica che si è fatta strada nelle nostre società. Sostenere e promuovere le famiglie, valorizzandone il ruolo fondamentale e centrale, è operare per uno sviluppo equo e solidale".
La famiglia, anche guscio protettivo, scrigno di tesori. "Un popolo che non si prende cura degli anziani e dei bambini e dei giovani non ha futuro, perché maltratta la memoria e la promessa - scrive il Papa -. Il futuro della società, e in concreto della società italiana, è radicato negli anziani e nei giovani: questi, perché hanno la forza e l’età per portare avanti la storia, quelli, perché sono la memoria viva".
Ma Bergoglio invita a non "ignorare la sofferenza di tante famiglie, dovuta alla mancanza di lavoro, al problema della casa, alla impossibilità pratica di attuare liberamente le proprie scelte educative; la sofferenza dovuta anche ai conflitti interni alle famiglie stesse, ai fallimenti dell’esperienza coniugale e familiare, alla violenza che purtroppo si annida e fa danni anche all’interno delle nostre case".
"A tutti dobbiamo - continua Bergoglio - e vogliamo essere particolarmente vicini, con rispetto e con vero senso di fraternità e di solidarietà. Vogliamo però soprattutto ricordare la testimonianza semplice, ma bella e coraggiosa di tantissime famiglie, che vivono l’esperienza del matrimonio e dell’essere genitori con gioia, illuminati e sostenuti dalla grazia del Signore, senza paura di affrontare anche i momenti della croce che, vissuta in unione con quella del Signore, non impedisce il cammino dell’amore, ma anzi può renderlo più forte e più completo".
Infine, rivolgendosi ai protagonisti dell’evento torinese, Papa Francesco esprime l’auspicio che "questa Settimana Sociale possa contribuire in modo efficace a mettere in evidenza il legame che unisce il bene comune alla promozione della famiglia fondata sul matrimonio, al di là di pregiudizi e ideologie. Si tratta - conclude il Papa - di un debito di speranza che tutti hanno nei confronti del Paese, in modo particolare dei giovani, ai quali occorre offrire speranza per il futuro".
Bagnasco: "No a fughe in avanti, salda roccia la differenza sessuale". "Quando attraverso una decisione politica vengono giuridicamente equiparate forme di vita in se stesse differenti, come la relazione tra l’uomo e la donna e quella tra due persone dello stesso sesso, si misconosce la specificità della famiglia": così il cardinale Angelo Bagnasco, nella sua prolusione alla Settimana dei Cattolici.
Occorre mantenere salda "la roccia della differenza sessuale" per evitare il rischio che "la famiglia resti imbrigliata in immagini stereotipate o in utopiche fughe in avanti" chiede il presidente della Cei, che definisce "fondamentale" l’impegno "per ritessere l’umano che rischia diversamente di essere polverizzato in un indistinto egualitarismo che cancella la differenza sessuale e quella generazionale, eliminando così la possibilità di essere padre e madre, figlio e figlia".
"Volendo eliminare dalla dimensione sessuale le sovrastrutture socio-culturali espresse con la categoria di ’genere’, si è giunti - denuncia Bagnasco - a negare anche il dato di partenza: la persona nasce sessuata". Di qui, secondo Bagnasco, l’obsolescenza della domanda che ha angosciato tante generazioni passate: "Che mondo lasceremo ai nostri figli?", l’urgenza di un nuovo interrogativo: "A quali figli lasceremo il mondo?".
"No omofobia, ma non criminalizzare chi sostiene matrimonio uomo-donna". "Frequentemente ci si oppone alle ragionevoli considerazioni della Chiesa per motivi ideologici. Nei mesi scorsi, il dibattito sulla legge contro l’omofobia ha manifestato con chiarezza questa tendenza", premette il cardinale Bagnasco. "Nessuno discute il crimine e l’odiosità della violenza contro ogni persona, qualunque ne sia il motivo" osserva il presidente della Cei, ribaltando poi la prospettiva: "Per lo stesso senso di civiltà, nessuno dovrebbe discriminare, né tanto meno poter incriminare in alcun modo, chi sostenga pubblicamente ad esempio che la famiglia è solo quella tra un uomo e una donna fondata sul matrimonio, o che la dimensione sessuata è un fatto di natura e non di cultura".
Gaynet: anche famiglia gay è naturale. "Il Vaticano è in guerra? Il Papa parla di famiglia naturale nella Costituzione, ma pure quella gay è naturale". E’ quanto afferma Franco Grillini,presidente di Gaynet Italia, commentando il messaggio di Papa Francesco.
Zan (Sel): diritti, Italia si affranchi da ingerenze vaticane. "Il cardinal Bagnasco è libero di essere contro i matrimoni gay, ma non si può più tollerare che la Chiesa e la Cei cerchino di orientare le scelte politiche italiane in tema di diritti". Lo afferma Alessandro Zan, deputato di Sel ed esponente del movimento gay. "C’è una parte considerevole della politica italiana - aggiunge - che da sempre viene orientata dal volere delle gerarchie vaticane su questi temi e non è un caso che anche oggi Bagnasco renda esplicita la posizione della Cei sulla legge contro l’omofobia in discussione alla Camera. L’Italia ha urgente bisogno di affrancarsi dalle ingerenze vaticane".
* la Repubblica, 12 settembre 2013
Dal foglio e dalla matita
di Raniero La Valle (Rocca, 15 agosto 2013)
Se l’Italia è ancora un Paese normale, se la magistratura non è politicizzata, se la Cassazione non è più quel "porto delle nebbie" che fu durante il regime democristiano e se la legge è uguale per tutti, il 30 luglio la Suprema Corte confermerà il verdetto pronunciato nei primi due gradi di giudizio contro Berlusconi. Non che la Cassazione condanni Berlusconi: essa dirà che il suo processo è stato regolare, che i suoi giudici sono stati fedeli al diritto. Non ci sarebbe nulla di strano e sconvolgente: è quello che la Cassazione fa in una miriade di altri casi, e l’argomento che questa volta il reo può vantare otto milioni di voti (che del resto non sono suoi ma della destra), non è un argomento migliore di quello per cui Mussolini poteva contare su otto milioni di baionette per vincere la sua personale guerra contro le grandi democrazie.
Dunque se questa ipotesi si avvera, con la sentenza della Cassazione passerà in giudicato il fatto che quel capo politico che aveva promesso di non mettere le mani in tasca agli italiani, ha loro sottratto milioni di euro di tasse trafugate, e quel che è peggio - sul piano non giudiziario ma politico - dopo vent’anni della sua cura li lascia non solo spogliati e impoveriti, e con un debito pubblico giunto a 2074 miliardi, ma anche frastornati e incapaci di reagire.
Sarebbe, questa, la fine politica di Berlusconi, causata non dalla magistratura (che non crea i fatti, ma li rivela e ne "dice" il diritto, onde il nome di "giurisdizione"), ma causata da lui stesso, dalla sua sconfitta politica finalmente non graziata da mani amiche e non scongiurata da una profusione di denaro privato e pubblico, speso in corruzione di giudici, di senatori, di personale politico e di cittadini elettori cui è stata più volte promessa la Caporetto del fisco in cambio dei voti (e il governo è ancora fermo lì, impiccato a un’IMU che non può né "restituire " né "superare").
È chiaro che questa fine politica di Berlusconi ci sarà fatta pagare, con scenate e pantomime di cui la recente vita politica italiana non è avara. Ma sarà bene non indugiarvi troppo e passare subito all’opera più necessaria dopo il disastro: la ricostruzione. Non c’è da illudersi che sia facile, né si può pensare che basti mettere mano al restauro della facciata della politica. Occorre ripartire dalle fondamenta, perché i guasti sono stati profondi. Istituzioni, partiti, fisco, culture, linguaggi, modelli etici, obblighi di verità, abitudini di rispetto reciproco e di convivenza, tutto è stato travolto da un imbarbarimento della lotta politica venduto come bipolarismo, dall’innalzamento del potere a unico altare, dalla divisione della società tra privilegiati ed esuberi, dalla globalizzazione della diseguaglianza prima ancora che dell’indifferenza.
Si teme che il governo Letta non possa sopravvivere alla crisi; in realtà il suo venir meno sarebbe il primo passo della ricostruzione, che non può non partire dal ripudio di alleanze incestuose e dall’interruzione di quella congiura contro l’ordinamento costituzionale che ha già ottenuto il primo voto al Senato nel silenzio del Paese.
Ripartire dai fondamenti vuol dire prendere in mano un foglio una matita e un libro, come Malala Yousafzai, la giovanissima pakistana ferita dai Talebani perché andava a scuola, ha avuto il coraggio di dire rivendicando nella sede dell’ONU il diritto universale all’alfabetizzazione. Per noi ripartire da matita e libro vuol dire prendere in mano la Costituzione, perché è questa l’alfabetizzazione che ci manca. C’è anzi un analfabetismo di ritorno, perché nei giovani anni della nostra Repubblica la Costituzione è stata il sogno di una cosa, e insieme la grammatica per la realizzazione di quel sogno e di quella cosa. Perciò essa è stata odiata e combattuta dalla Trilaterale, dalla P 2, dalle agenzie di rating ed è oggi tenuta in forte sospetto dai poteri che coniano l’Euro, dalla Morgan e dai partiti, di ogni tradizione, divenuti funzionari della Ragione economica e della dittatura del tabulato.
E a neutralizzare le nostre difese, ci sono piombati addosso i corsi di analfabetismo fondati sull’orrore per le "ideologie", ossia per le idee, sul rifiuto delle dottrine politiche, e ci sono state imposte le scuole serali delle TV (non solo quelle commerciali) con la falsa par condicio e i talk show e le tavole rotonde dove tutti hanno ragione e tutti hanno torto, ma il veropersuasore e "dominus" ideologico è il conduttore e l’editore che gli sta dietro.
Ripartire dal libro e dalla matita vuol dire ripartire dalla Costituzione e dai diritti, dal religioso rispetto per l’avversario, dal culto della politica esercitata "con disciplina ed onore", dalla conversione della mentalità e della cultura della polizia, il settore pubblico più esposto alla contaminazione del fascismo, dalla interdizione della tortura, delle espulsioni, dei respingimenti e dell’ergastolo, e da una restituzione a tutti del diritto e della gioia di guadagnarsi il pane col lavoro e di non pagare il prezzo della moneta scarsa, che per decisione politica dei grandi poteri sottrae ai cittadini la giusta partecipazione alla ricchezza della nazione.
«L’Italia è il paese classico dell’ospitalità (...). Ma lo spirito evangelico non ha saputo trasformarsi nella forma moderna della solidarietà e dell’organizzazione disinteressata e civile (...). L’assistenza, che è un diritto, diventa un regalo, una umiliante carità, che si può e non si può fare» A. Gramsci, Odio gli indifferenti, pp.13 e 14).
L’OSPITALITA’
di don Aldo Antonelli
Chiuso il giornale, la cui lettura ha buttato sale sulle ferite, mi sono messo in tenuta da footing e me ne sono andato in aperta campagna, a disintossicarmi l’animo, oltre che ossigenare il fisico. Cammin facendo, ho riflettuto sulle letture della liturgia di domani e mi sono venute a mente delle riflessioni di cui vi faccio partecipi.
Il tema, comune alla prima e alla terza lettura, è indubbiamente quello dell’ospitalità.
Ora , già il termine sembra risultare equivoco, dal momento che viene associato più ad una "libera scelta", che non ad un "civile dovere", così come lamentava già il 7 gennaio 1918 Antonio Gramsci che scriveva: «L’Italia è il paese classico dell’ospitalità (...). Ma lo spirito evangelico non ha saputo trasformarsi nella forma moderna della solidarietà e dell’organizzazione disinteressata e civile (...). L’assistenza, che è un diritto, diventa un regalo, una umiliante carità, che si può e non si può fare» (Odio gli indifferenti; pp.13 e 14).
L’ospitalità offerta da Abramo ai tre sconosciuti sta a significarci che l’ospitalità non è quella che riserviamo ai familiari, agli amici, che, grosso modo, sono sempre un pò parte di noi stessi, bensì quella che riserviamo al diverso, allo sconosciuto. Verso il quale, poi, (seconda riflessione) dovremmo assumere non tanto un atteggiamento faccendiero di “aiuto”, ma un atteggiamento attento di “ascolto” (La Marta e la Maria del vangelo....).
Parafrasando Jabès, possiamo dire che «il sapiente è colui che ha percorso tutti i gradi della tolleranza e ha scoperto che la fraternità ha uno sguardo e l’ospitalità un orecchio» (Edmond Jabès dice “una mano”...). Perché il diverso ha bisogno di essere ascoltato per essere capito, più che servito per essere aiutato.
«Ospitale è il soggetto la cui casa non è il luogo dove egli abita nel chiuso del rapporto da sé e sé, ma lo spazio che si apre all’altro e nelle cui porte la chiavi non chiudono, come vuole l’etimo del termine italiano, ma sono strumenti che aprono, come vuole l’etimo del termine ebraico, patah, che vuol dire disserrare e perciò aprire». (Carmine Di Sante Lo Straniero nella Bibbia; p.100).
Un’ultima riflessione, dalla prima lettura: il primo ritorno dell’ospitalità è un arricchimento personale. Colui che ospita è più quello che riceve che quello che dà...; soprattutto in termini di paternità, come Abramo.
Buona domenica.
IL PAPA A SANTA MARTA
Siamo figli di Dio nessuno ci può rubare questa carta d’identità
Noi siamo figli di Dio grazie a Gesù, nessuno ci può rubare questa carta d’identità: è quanto ha affermato stamani Papa Francesco durante la Messa a “Casa Santa Marta”. Ha concelebrato con il Papa, il cardinale indiano Telesphore Placidus Toppo, arcivescovo di Ranchi. *
Al centro dell’omelia del Papa il Vangelo della guarigione di un paralitico. Gesù all’inizio gli dice: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati”. Forse - afferma Papa Francesco - questa persona è rimasta un po’ “sconcertata“ perché desiderava guarire fisicamente.
Poi, dinanzi alle critiche degli scribi che fra sè lo accusavano di bestemmiare - “perché soltanto Dio può perdonare i peccati“ - Gesù lo guarisce anche nel corpo. In realtà - spiega il Pontefice - le guarigioni, l’insegnamento, le parole forti contro l’ipocrisia, erano “soltanto un segno, un segno di qualcosa di più che Gesù stava facendo“, cioè il perdono dei peccati: in Gesù il mondo viene riconciliato con Dio, questo è il “miracolo più profondo”
“Questa riconciliazione è la ricreazione del mondo: questa è la missione più profonda di Gesù. La redenzione di tutti noi peccatori e Gesù questo lo fa non con parole, non con gesti, non camminando sulla strada, no! Lo fa con la sua carne! E’ proprio Lui, Dio, che diventa uno di noi, uomo, per guarirci da dentro, a noi peccatori“. Gesù ci libera dal peccato facendosi Lui stesso “peccato“, prendendo su di sé “tutto il peccato“ e “questa - ha detto il Papa - è la nuova creazione“. Gesù “scende dalla gloria e si abbassa, fino alla morte, alla morte di Croce“ fino a gridare: “Padre, perché mi hai abbandonato!”. Questa “è la sua gloria e questa è la nostra salvezza“.
“Questo è il miracolo più grande e con questo cosa fa Gesù? Ci fa figli, con la libertà dei figli. Per questo che ha fatto Gesù noi possiamo dire: ’Padre’. Al contrario, mai avremmo potuto dire questo: ’Padre!’. E dire ’Padre’ con un atteggiamento tanto buono e tanto bello, con libertà! Questo è il grande miracolo di Gesù. Noi, schiavi del peccato, ci ha fatto tutti liberi, ci ha guarito proprio nel fondo della nostra esistenza. Ci farà bene pensare a questo e pensare che è tanto bello essere figlio, è tanto bella questa libertà dei figli, perché il figlio è a casa e Gesù ci ha aperto le porte di casa... Noi adesso siamo a casa!“.
Adesso - ha concluso il Papa - si capisce quando Gesù dice: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati!”. “Quella è la radice del nostro coraggio. Sono libero, sono figlio... Mi ama il Padre e io amo il Padre! Chiediamo al Signore la grazia di capire bene questa opera sua, questo che Dio ha fatto in Lui: Dio ha riconciliato con sé il mondo in Cristo, affidando a noi la parola della riconciliazione e la grazia di portare avanti con forza, con la libertà dei figli, questa parola di riconciliazione. Noi siamo salvati in Gesù Cristo! E nessuno ci può rubare questa carta di identità. Mi chiamo così: figlio di Dio! Che bella carta di identità! Stato civile: libero! Così sia“.
Sergio Centofanti - Radio Vaticana
* Avvenire, 4 luglio 2013
Se «libera Chiesa in libero Stato» non basta più
di Vincenzo Vitiello (l’Unità, 10.06.2013)
CONFESSO: QUELLO CHE MI HA PIÙ COLPITO DEL RECENTE INCONTRO TRA L’ATTUALE PONTEFICE E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA è stata la presenza di Emma Bonino. È questione di età: ricordo presidenti della Repubblica che negli incontri ufficiali col Papa piegavano il ginocchio. Testimonianza, voglio credere, di una fede personale, ma che non era lecito manifestare in quella forma di simbolica sottomissione nell’atto di rappresentare ufficialmente un Paese certo allora a maggioranza cattolica, ma costituito anche di appartenenti ad altre fedi religiose evangelici, ebrei, islamici, questi ultimi pochi allora, anzi pochissimi e pur di non-credenti. La figura minuta di Emma Bonino, il suo volto sorridente, il passo spedito nell’avvicinarsi a Papa Francesco col rispetto che si deve ad una persona eminente, ma nell’eguaglianza della comune umanità, mi è parsa il simbolo di questa minoranza, nel momento in cui il presidente Napolitano rappresentava, giustamente, tutta la Nazione.
Dico questo per significare qualcosa che è più che una perplessità: è un’insoddisfazione teorica e un’inquietudine morale, che voglio esprimere con ogni rispetto, ma anche con tutta sincerità. La difesa della libertà religiosa che abbiamo ascoltato, e non solo in questi giorni e per questa occasione, anche da fonti autorevolissime, mi è parsa abbastanza scontata. Chi si oppone almeno a parole al dialogo tra fedi religiose differenti, all’obbligo etico del reciproco rispetto? Chi non condanna almeno a parole i conflitti religiosi? Chi non s’indigna dei massacri di cristiani inermi che avvengono in Paesi islamici sotto lo sguardo indifferente dei tutori dell’ordine? Si è parlato addirittura di un rivoluzione antireligiosa, anzi anticristiana in Europa (Galli della Loggia sul Corriere del 2 giugno). Ripeto: chi non condanna tutto questo? Ma qui la domanda si può ridurre la libertà religiosa alla libertà di coscienza? Alla libertà del «foro interiore»?
Questa difesa appare oggi storicamente inadeguata. Oggi, nell’età del secolarismo compiuto, in cui è pienamente riconosciuto il diritto delle Chiese parlo al plurale: mi riferisco non solo alla Chiesa di Roma di far politica. Non ha parlato Papa Francesco del «dovere» dei cattolici di impegnarsi politicamente? E vogliamo ancora difendere la religione e la politica col vecchio principio di «libera Chiesa in libero Stato»?
Piuttosto che parlare retoricamente del dialogo e dell’interiorità della coscienza, non è più utile non ad altro che alla convivenza civile tornare ad interrogarsi su cosa s’intende con libertà? E cioè: se sono lo stesso libertà religiosa e libertà politica e/o etica? È un problema, questo, che riguarda essenzialmente il cristianesimo. È bene guardare anzitutto in casa propria.
Maria Zambrano, la filosofa spagnola che la dittatura di Franco costrinse ad emigrare in America latina, alla fine del secondo conflitto mondiale lei che aveva posto Agostino tra i Padri dell’Europa si chiedeva, considerando l’esito della storia religiosa del nostro continente, se il cristianesimo europeo sia stato vero cristianesimo, e se sia ancora possibile un cristianesimo europeo.
A questa domanda non mi sembra si sia data risposta. Rispondervi significa lo dico anzitutto agli amici storici allargare l’orizzonte ben oltre la storia moderna, tornando a riflettere sulle radici del cristianesimo, sul grande problema paolino del rapporto legge-fede: lì è l’origine della nostra domanda; forse della possibile risposta.
In questa sede non posso che azzardare un desiderio, e una speranza: il desiderio e la speranza di un cristianesimo che sia «assoluto» uso di proposito la definizione hegeliana, per rovesciarla solo perché capace di riconoscere l’assolutezza di tutte le religioni; di un cristianesimo che non si limiti a rivendicare il rispetto delle altre religioni, ma pratichi questo rispetto non politicamente, ma nella forma ch’è sua propria: quella della religione. La cui libertà si esplica, prim’ancora che nell’operare storico e comunitario, nella sospensione di ogni fare in quell’istante, in quel «battito d’occhio» per dirla con Paolo, in cui sorge la domanda sull’orizzonte di senso del fare che diciamo nostro, e che neppure sappiamo sin dove ci appartenga.
Questa sospensione ha un nome, Shabbat, che è di una religione, ma la cui esperienza è di ogni religione, e si pratica nella preghiera. Spero in un cristianesimo i cui credenti sappiano pregare il loro Dio, accanto oltre ogni comunità ordinata secondo leggi e principi a fedeli d’altre religioni, parlanti col loro Dio con parole loro proprie; accanto, soprattutto, a chi non ha parole di fede e di preghiera. Spero in un cristianesimo che non è dottrina, ma testimonianza. Memore delle parole di Paolo: «La speranza che vede non è speranza».
Teoria e pratica della "Scienza Nuova".
Un breve lavoro (pdf, scaricabile)
Togliatti, i cattolici e la svolta di Bergamo
Cinquanta anni fa il leader del Pci auspicava «un reciproco riconoscimento di valori»
di Giuseppe Vacca (l’Unità, 27.03.2013)
Il 30 marzo prossimo saranno cinquant’anni dalla pubblicazione del più celebre discorso di Palmiro Togliatti sulla collaborazione fra comunisti e cattolici intitolato Il destino dell’uomo. Il discorso, pronunciato a Bergamo dieci giorni prima, cadeva nel mezzo della campagna per le elezioni del 28 aprile e Togliatti non aveva scelto a caso la città natale di Papa Giovanni XXIII per pronunciarlo: si era agli inizi della coesistenza pacifica ed egli richiamava il recente incontro del Papa con la figlia e il genero di Krusciov che aveva avviato il disgelo fra Mosca e il Vaticano.
Ma era cominciato anche il Concilio, e Togliatti ne seguiva i lavori con molta attenzione sottolineando la «fine dell’età costantiniana», cioè la fine della identificazione della Chiesa con l’Occidente.
Inoltre, dopo il XXII Congresso del Pcus (ottobre 1961) il Pci aveva innovato la sua visione della coesistenza pacifica assumendo come obiettivo concreto il superamento della divisione del mondo in blocchi contrapposti.
Nel discorso di Bergamo, quindi, Togliatti si dirigeva simultaneamente al suo mondo e al mondo cattolico auspicando una collaborazione fondata su «un reciproco riconoscimento di valori». Se in politica interna mirava a prevenire l’isolamento del Pci liberando il confronto con la Dc di Aldo Moro dal vincolo dell’unità fra comunisti e socialisti, le principali novità del suo discorso riguardavano soprattutto la visione storica del mondo del dopoguerra e la revisione della dottrina comunista sulla religione.
Non era la prima volta che Togliatti attirava l’attenzione sulle novità dell’era atomica: l’aveva fatto nel ’45, subito dopo i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, e ancora nel ’54, nell’appello al mondo cattolico «per salvare la civiltà umana».
Ma ora ne traeva tutte le conseguenze: l’avvento dell’era atomica aveva cambiato la correlazione fra la politica e la guerra poiché, di fronte alla possibilità dell’autodistruzione del genere umano, la pace, egli dice, «diventa una necessità». «Ma riconoscere questa necessità, aggiungeva, non può non significare una revisione totale di indirizzi politici, di morale pubblica e anche di morale privata».
Quindi non si poteva più pensare alla guerra come “prosecuzione della politica con altri mezzi” e ciò implicava anche l’abbandono della visione sovietica della coesistenza come «lotta di classe nel campo internazionale», insieme al paradigma classista nell’interpretazione della storia. «Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova».
Il discorso esigeva il superamento ideale della divisione fra credenti e non credenti, e su questo tema la revisione di Togliatti era ancora più radicale poiché, lasciando cadere la visione illuministica e marxista del rapporto fra religione e modernità, egli affermava l’autonomia, l’irriducibilità e la positività del fatto religioso. «Per quanto riguarda gli sviluppi della coscienza religiosa, dichiarava, noi non accettiamo più la concezione ingenua ed errata, che basterebbero l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali (...). Le radici sono più profonde, le trasformazioni si compiono in modo diverso, la realtà è più complessa».
Quindi anche il marxismo, di cui rivendicava la validità ermeneutica perché la società potesse essere organizzata secondo fini stabiliti solidalmente dagli uomini e dalle donne del pianeta, era posto al servizio di una visione schiettamente personalistica: l’obiettivo del «pieno sviluppo della persona umana» come «meta di tutta la storia degli uomini», onde poteva affermare «che la nostra è, se si vuole, una competa religione dell’uomo». Il discorso di Bergamo era intriso della retorica tradizionale sulle responsabilità americane per la guerra fredda e caratterizzato da una visione ottimistica del futuro del socialismo.
Così come, per altro verso, era ricco di intuizioni sulle nuove forme di alienazione e di solitudine dell’uomo nelle società capitalistiche più sviluppate che esigevano anch’esse profonde revisioni concettuali per essere affrontate insieme da credenti e non credenti in una prospettiva personalistica e comunitaria.
Per un inquadramento adeguato Il destino dell’uomo andrebbe quindi inserito in una ricostruzione storica della riflessione e dell’opera politica degli ultimi anni di Togliatti: un periodo di significative revisioni non ancora esplorato nell’insieme. Ma i passi salienti su cui abbiamo richiamato l’attenzione ne costituiscono la cifra più alta e se non altro per questo il discorso di Bergamo merita il nostro ricordo.
Un tragico lessico famigliare
Il figlio del Migliore fu l’agnello sacrificale
Il ragazzo fragile che Togliatti “dimenticò” a Modena in clinica psichiatrica per 31 anni
di Sergio Pent (La Stampa, TuttoLibri, 18.06.2016)
Documento storico dettagliato e sofferto, esplorazione del passato attraverso i luoghi oscuri della politica e delle utopie sociali. Un’altra parte del mondo di Massimo Cirri, si colloca in queste dimensioni di studio postumo che raggruppa la Storia in un blocco compatto di accadimenti necessari a suggellare un’epoca, e stenta - proprio per questo - a trovare la collocazione ideale in una collana di narrativa. Non è, infatti, una rivisitazione romanzata del Partito Comunista Italiano, ma si basa su precise ricostruzioni che - questo si può condividere - rendono vivo come un romanzo l’impegno politico di Palmiro Togliatti, uno degli ultimi grandi utopisti del secolo veloce. Un’altra parte del mondo, a dire il vero, è quella che cerca oltre l’orizzonte del mare Aldo Togliatti, il figlio fragile e imbelle del «Migliore», quello che nasce timido e cresce solo e infine si perde in un disagio estremo che lo vedrà trascorrere gli ultimi trentun anni della sua vita appartata in una clinica privata di Modena per malati psichici.
La storia raccontata da Cirri avrebbe potuto davvero essere un romanzo, ma l’autore si intrufola come un oscuro visitatore del futuro negli angoli - pubblici e privati - di una storia familiare che è innanzitutto storia collettiva, comune e comunista. L’ombra di Aldo Togliatti segna le stagioni di impegno del padre, ma anche della madre Rita Montagnana, rampollo di una bella stirpe di idealisti borghesi di Torino. Il destino è spesso nel nome che ci portiamo addosso, e il destino di Aldo - fin da subito - è quello dell’agnello sacrificale immolato sull’altare del Partito.
Le vicende procedono in parallelo, e la minuziosa ricostruzione degli accadimenti ci consente di mettere in luce un periodo storico di enormi fermenti crollati con la caduta del mito di Stalin e con l’avvento di un’epoca di pesanti contraddizioni politiche. Ma il percorso di Aldo Togliatti è un filo di memorie discrete che attraversano tutti i grandi eventi, dai quali lui fu sempre tenuto in disparte, anche se la famiglia lo obbligò a frequentare la rigida scuola di Ivanovo in Russia, destinata ai figli dei leader comunisti del mondo.
Cirri ricostruisce con diligenza - talvolta un po’ didascalica - quel lungo periodo, in cui Aldo riuscì a trovare una sua dimensione di esile confronto con altri giovani «espatriati». Ma il ritorno in Italia, nella Torino del dopoguerra, coincide con le prime avvisaglie della sua indole solitaria, prevale la paura delle responsabilità, l’assenza - e l’ombra comunque incombente - del padre contribuiscono a creare in lui una bolla di diffidenza nella quale gradualmente rimarrà imprigionato.
Una volta lo trovano sul molo a Civitavecchia, un’altra addirittura a Le Havre, scambiato per un barbone, ma il coraggio di abbandonare quella vita di sacrifici e di rinunce non lo trova mai, ed è inevitabile, per «Aldino», seguire la parabola politica - anche quella discendente, anche quella della sua «scandalosa» unione con Nilde Iotti - del glorioso genitore, esiliandosi definitivamente dal mondo, spegnendosi nel silenzio di Villa Igea nel 2011, a 86 anni.
Ciò che colpisce, in questo intenso vagabondaggio tra le pieghe della Storia, è l’elenco di personaggi ormai dimenticati che hanno sfiorato la gloria, lottato, sognato un futuro diverso e migliore, anch’essi alla ricerca di un’altra parte del mondo, come Aldo Togliatti che, però, si limitò a immaginarlo dal suo eremo di silenzi e di paure. In questo, il coraggioso impegno documentale di Cirri è un suggello definitivo e privo di omissioni su un momento storico che avrebbe potuto modificare, chissà come, chissà quanto, le prospettive politiche del futuro. Quello in cui stiamo annaspando rassegnati.
La buona politica della Costituzione
di Salvatore Settis (la Repubblica, 25 marzo 2013)
NON sfugga un confronto, questo: nell’Agenda Monti, programma elettorale di un presidente del Consiglio in carica, la parola “Costituzione” non c’è mai. Viceversa, nel suo discorso di insediamento come presidente della Camera, Laura Boldrini ha insistito sui «valori della Costituzione repubblicana» e sulla dignità delle istituzioni della Repubblica, ricordando con parole vibranti che «in quest’aula sono stati scritti i diritti universali della nostra Costituzione, la più bella del mondo».
Analogamente, il presidente del Senato Piero Grasso ha esordito richiamando due volte la Costituente e «quella che ancora oggi è considerata una delle Carte costituzionali più belle e più moderne del mondo». Il silenzio di Monti è coerente con l’ordine dei valori prevalso nella scorsa legislatura (compresa la sua fase “tecnica”): il “volere dei mercati” al culmine, la Costituzione sospesa, in attesa di tempi migliori. Basta questa differenza a misurare le straordinarie potenzialità di una nuova stagione politica, in cui l’impersonale, anti-politico anzi anti-democratico diktatdei mercati deve fare i conti con l’orizzonte dei diritti civili disegnato dalla Costituzione: sovranità popolare, diritto al lavoro, alla salute, a un sano ambiente, alla cultura, alla giustizia sociale.
Sarebbe un delitto farsi sfuggire un’occasione che non si ripeterà: questo il senso dei due appelli, quello promosso da Barbara Spinelli e quello lanciato da Michele Serra, che in pochi giorni hanno superato le 200.000 firme (li ho firmati anch’io). Questo, e non la cieca fiducia in questo o in quel partito, non l’ubbidienza a ordini di scuderia. Non l’arroganza di intellettuali che si sentono maestri, ma la voce di cittadini che fuori da ogni coro esprimono una preoccupazione e una speranza.
Perciò chi si è rallegrato che all’elezione del presidente del Senato abbiano contribuito voti del Movimento Cinque Stelle dovrà rallegrarsi altrettanto se, in altre circostanze, parlamentari del Pd violeranno la disciplina di partito per votare giusti provvedimenti proposti da quel Movimento. Dopo una campagna elettorale condotta sbandierando nomi, alleanze, schieramenti assai più che progetti e contenuti, è ora di rovesciare il tavolo dei giochi. Identificare contenuti, indicare traguardi, cercare consensi nel Paese e (dunque) nel Parlamento. Passare dalle chiacchiere ai fatti, cambiare subito il Paese sapendo quel che si vuole e quel che si fa.
Perciò l’art. 67 della Costituzione, secondo cui «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita la sua funzione senza vincolo di mandato» è oggi più che mai prezioso. Beppe Grillo non vorrà certo copiare Berlusconi attaccando la Costituzione ogni volta che non gli fa comodo. Senatori e deputati sanno bene, giacché lo sanno tutti i cittadini, quale è il paradosso che stiamo vivendo: il loro (anzi il nostro) è un Parlamento di nominati, non di eletti, eppure segna il più profondo rinnovamento che mai si sia visto in Italia, il più massiccio approdo in quelle aule di non-professionisti della politica. Essi possono essere tentati da una rigida disciplina di partito in cui qualcun altro pensi per loro, ma dovrebbero mirare assai più in alto. Pieno rispetto della legalità costituzionale (incluso l’art. 67) e piena libertà di coscienza sono i presupposti necessari per ridisegnare la mappa delle priorità politiche di questo Paese. Nessun prezzo è troppo alto, se il fine è il bene comune.
Gravi problemi incombono: la debolezza dello Stato centrale, in questo momento di ardue scadenze istituzionali, favorirà la marcia verso la formazione de facto di una “macroregione del Nord” capeggiata da Maroni, ridando fiato alla Lega in crisi e al suo mai sopito secessionismo, a spese dell’unità nazionale (art. 5 Cost.). Regioni svantaggiate e “generazioni perdute” verranno sacrificate senza pietà, immolandole non si sa più se alle ragioni “globali” dei mercati o a miopi alleanze (o nonalleanze) politiche. Cadranno nel nulla obiettivi oggi a portata di mano: «più giustizia sociale, più etica» (Grasso), «strumenti a chi ha perso il lavoro o non lo ha mai trovato» (Boldrini). Per non dire di una legge elettorale non iniqua, della riduzione dei costi della politica, di un forte argine, pur così tardivo, al conflitto di interessi, di un vero argine alla corruzione.
Per l’Italia e per l’Europa, questo e non il prossimo Parlamento deve fare il massimo sforzo per diventare «la casa della buona politica » (Boldrini) vincendo le logiche di un partitismo di maniera che gli elettori hanno bocciato, e facendo dell’inesperienza dei neo-eletti un punto di forza, lo strumento di un nuovo sguardo sulle istituzioni e sui problemi del Paese.
Dovrebbero esser scritte a caratteri cubitali, all’ingresso della Camera e del Senato (e domani a Palazzo Chigi e al Quirinale) le parole di Teresa Mattei (la più giovane dei membri della Costituente, morta a 92 anni qualche giorno fa) nella sua ultima intervista: «Questa è la cosa bella dell’animo democratico: pensare da bambino per ridisegnare le cose».
Addio a Teresa Mattei, era l’ultima donna rimasta tra le elette alla Costituente
di Redazione (Il Fatto Quotidiano, 12 marzo 2013)
Teresa Mattei fu la più giovane eletta nell’Assemblea costituente e per questo veniva chiamata “la ragazza di Montecitorio”. Mattei, morta a 92 anni, detta “Teresita“, era l’ultima donna vivente tra le ‘costituenti’. Nel 1938 venne espulsa da tutte le scuole del Regno per aver rifiutato di assistere alle lezioni in difesa della razza. Nel 1955 fu cacciata dal Partito comunista italiano perché contraria allo stalinismo e alla linea togliattiana.
La salma è esposta nella casa di famiglia dove resterà anche per l’intera giornata del 13 marzo. Le esequie si svolgeranno giovedì alle 14 con una cerimonia civile. La salma sarà cremata a Livorno. Laureata in filosofia a Firenze, era stata partigiana con il nome di battaglia “Partigiana Chicchi”: era una staffetta, protagonista della Resistenza e della lotta di liberazione, fu candidata per il Pci all’Assemblea costituente, nella quale aveva svolto la funzione di segretaria dell’ufficio di presidenza.
Teresa Mattei ha trascorso gli ultimi anni di vita a Lari. E’ stata dirigente nazionale dell’Unione donne italiane (Udi) e inventò l’utilizzo della mimosa per la Festa della donna. L’idea le venne quando seppe che Luigi Longo intendeva regalare alle donne per quel giorno delle violette: lei intervenne suggerendo un fiore più povero e diffuso nelle campagne.
Nel 1966 divenne presidente della Cooperativa Monte Olimpino a Como, che con Munari, Piccardo e altri realizzava e produceva film nelle scuole, fatti dai bambini. Con la Lega per i diritti dei bambini alla comunicazione ha promosso in tutto il mondo grandi campagne per la pace e la non violenza.
VATICANO: CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" ("charitas") su cui posava l’intera Costruzione ...
IL CONCLAVE E L’ OMBRA DEL PAPA EMERITO. I CARDINALI CONFUSI NON SANNO PIU’ DISTINGUERE TRA DIO E MAMMONA. Materiali per riflettere
Lo strappo definitivo tra la Chiesa e il Pdl
di Claudio Tito (la Repubblica, 11 febbraio 2013)
L’ultimo strappo tra i vertici della Chiesa italiana e il Pdl si è consumato proprio in queste ore. Con uno sgarbo che Segreteria di Stato e presidenza della Cei considerano poco digeribile. Il segretario del Pdl, Angelino Alfano, infatti, dopo aver disertato il concerto con il Papa, non prenderà parte nemmeno al tradizionale ricevimento che celebra l’anniversario dei Patti Lateranensi. Ci sarà Mario Monti, in qualità di presidente del consiglio, e il leader Udc, Pier Ferdinando Casini. Pierluigi Bersani, invece, presente al concerto con Benedetto XVI ha fatto sapere per tempo di non poter partecipare all’appuntamento.
A meno di un cambio di programma dell’ultima ora da parte di Alfano (che comunque verrebbe considerato tardivo dal punto di vista dei rapporti “politici”), domani pomeriggio nella sede dell’Ambasciata italiana presso la Santa Sede non ci sarà quindi nessuno dei “big” del Pdl. Non essendo previsto neanche Silvio Berlusconi. Non mancherà l’“ambasciatore” del Cavaliere, Gianni Letta, ma si tratta comunque di una lesione nei contatti tra Chiesa e centrodestra mai così evidente. Anzi, la “fotografia” nei saloni di Palazzo Borromeo dei cosiddetti “colloqui in piedi” senza una “presenza berlusconiana” non ha di fatto precedenti dal 1994. Del resto l’allontanamento delle attuali gerarchie ecclesiastiche dai rappresentanti pidiellini negli ultimi due anni è stato progressivo.
Eppure la “foto” di domani è anche il frutto di un ultimo scontro che si sta consumando all’interno della Conferenza episcopale italiana e con la Segreteria di Stato. Una battaglia che in questo caso vede alleati Tarcisio Bertone, numero uno della Curia, il presidente della Cei Angelo Bagnasco e l’Appartamento papale. Sull’altro fronte la “destra curiale” che sul versante della Cei si basa sull’asse cosrtuito da Ruini con il Patriarca di Venezia Moraglia e all’interno del Vaticano sulla convergenza tra il prefetto della Congregazione per il Clero Mauro Piacenza e monsignor Balestrero.
L’ultimo affondo della “corrente” ruiniana, infatti, c’è stato in occasione delle formazione delle liste elettorali. Secondo Don Camillo, il Cavaliere resta il «male minore» e lo strumento per conseguire un «risultato utile», al punto di benedire nel Lazio il patto tra Francesco Storace e Eugenia Roccella. «Berlusconi - va ripetendo da settimane - i voti ancora ce li ha». L’ipotesi di un’intesa tra il centrosinistra e la lista di Monti viene considerata «inappropriata». Non a caso, proprio i “bracci armati” di Ruini - a cominciare da Monsignor Fisichella - avevano chiesto a gennaio ai rappresentanti di Scelta Civica e al leader centrista Casini di mettersi alla guida di un nuovo centrodestra cercando di replicare una sorta di “Operazione Sturzo”. Con l’obiettivo, appunto, di rendere impossibile la successiva alleanza con lo schieramento di Bersani in virtù dei «valori non negoziabili».
Una linea contestata dall’asse Bertone-Bagnasco. Entrambi, infatti, considerano la presenza del Cavaliere nella corsa elettorale un ostacolo insormontabile sia a causa delle vicende Noemi e Ruby, sia per l’immagine internazionale dell’ex premier. Dopo le tensioni piuttosto vistose dei mesi scorsi, quindi, tra Segreteria di Stato e Cei è stata siglata una sorta di «tregua operosa». Resa plasticamente visibile alla presentazione alcune settimane fa del libro “La porta stretta” che raccoglie le prolusioni del presidente della Cei.
Un patto che, secondo gli uomini più vicini ai vertici episcopali e della Curia, si basa anche sui nuovi orientamenti dei credenti praticanti. L’attivismo “ruiniano”, infatti, non sembra aver preso piede tra i cattolici di base se si considera il recente sondaggio pubblicato dal mensile Jesus: Pd e Scelta Civica sono in cima alle loro preferenze e il centrodestra scivola sempre più dietro. Anzi, tra quelli che un tempo votavano per il Cavaliere emerge la tentazione-Grillo. Per di più i «valori non negoziabili» non vengono considerati un criterio fondamentale per le scelte politiche.
La disposizione verso il superamento del “rapporto esclusivo” con il centrodestra sta diventando quindi il perno di quella ricucitura di rapporti tra Bertone, Bagnasco e l’Appartamento papale. Basti pensare all’appello lanciato pochi giorni fa proprio dal capo della Cei che tutti hanno interpretato come un ulteriore stop al Cavaliere: «Gli italiani hanno bisogno della verità delle cose, senza sconti, senza tragedie ma anche senza illusioni. La gente non si fa più abbindolare da niente e da nessuno».
Ma questa scelta viene appunto criticata dalla componente “ruiniana” e dai conservatori. Al punto di tentare un accordo con l’ala più conservatrice della Chiesa. Non è un caso che di recente sia partita un’offensiva diplomatica con il Cardinale Piacenza (che aspirava alla successione di Bertone in Segreteria di Stato), con Moraglia (Patriarca di Venezia), e con l’arcivescovo di Ferrara Luigi Negri (vicino a Cl) e monsignor Balestrero (Sottosegretario per i Rapporti con gli Stati). A loro è offerta una sponda per creare un nuovo rapporto di forze. Si tratta di uno scontro che dentro la Curia richiama alla memoria il vecchio duello tra Papa Montini, Paolo VI, e l’arcivescovo Roberto Ronca, esponente della destra romana e della corrente più tradizionalista di Coetus Internationalis Patrum.
Ma soprattutto ha aperto con un certo anticipo la scacchiera per il futuro Conclave. Sta di fatto che in questa fase Bertone e Bagnasco non intendono accettare l’idea di una nuova concessione a Berlusconi né giustificare alcune sue gaffe con il pricipio della “contestualizzazione”.
I vertici della Cei, prima di optare per l’addio definitivo, avevano chiesto proprio ad Alfano - ottenendole - garanzie sulla necessità che Berlusconi non sarebbe ricandidato come guida. Assicurazioni che poi sono state smentite. Le differenze tra il Segretario di Stato e il presidente della Cei riguarderanno semmai la gestione delle scelte per il dopo voto. Ma al momento c’è un anello che li unisce: guardare al dopo-Berlusconi.
Perché non possiamo non dirci laburisti
di Giuseppe Dossetti (l’Unità, 10 febbraio 2013)
Trascorse le primissime ore di sorpresa, di fervore, di entusiasmo, l’esito delle elezioni inglesi appare sempre meglio come la vittoria di un mondo nuovo in via di faticosa emersione. Vittoria innanzi tutto del lavoro più che, come alcuni hanno detto, vittoria del socialismo; vittoria cioè di una effettiva, concreta e universale realtà umana, meglio che di una particolare dottrina e prassi politica concernente l’affermazione sociale di quella realtà.
Certo il Partito laburista ha contrastato e vinto i conservatori opponendo alla loro caparbia cristallizzazione di interessi e di metodi, un vasto programma di trasformazioni sociali; ma si tratta di tali socializzazioni che, per i principi teorici cui si richiamano (e che non hanno a che vedere con le dottrine classiche del socialismo, né di quello utopico, né di quello marxista), per il campo di applicazione (le industrie chiave e i grandi gruppi finanziari) e soprattutto per il metodo di realizzazione (proprietà sociale e non statale) non consentono, se non per approssimazione giornalistica o propagandistica, di parlare di socialismo, almeno come da decenni lo si intende nell’Europa continentale, e come da mesi lo si intende nella ripresa italiana.
Ben più propriamente invece dobbiamo parlare di un programma di concreta e realistica inserzione, al vertice della gerarchia sociale e politica, del lavoro, inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana, come il genuino e non fallace metro delle capacità, dei meriti, dei diritti di ognuno: programma che non è logicamente né praticamente connesso con la teoria socialista e che può essere condiviso, come di fatto lo è, da altri partiti non socialisti.
In secondo luogo la «vittoria della solidarietà», più e meglio che come qualcuno si limita a dire vittoria della pace. Gli elettori inglesi rifiutando con così grande maggioranza a Churchill, vincitore della guerra, il compito di organizzare il dopo-guerra, non hanno semplicemente voluto esprimere la loro volontà di pace e il proposito di allontanare gli uomini, gli interessi, gli atteggiamenti che hanno portato alla guerra e potrebbero perpetuarla in potenza o in atto, ma ben più essi hanno voluto mostrare la loro preferenza per quelle forze e quegli uomini che, appunto per la loro qualità e il loro spirito di lavoratori e di edificatori, hanno dato prova di avere una volontà positiva e attiva per l’edificazione di una nuova struttura sociale e internazionale in cui, nei rapporti tra singoli, tra classi e tra nazioni, non solo siano psicologicamente superate, ma persino oggettivamente rimosse, le possibilità concrete di egoismi, di privilegi, di sopraffazioni e in cui siano poste garanzie effettive di solidarietà e di uguaglianza.
Infine, «vittoria della democrazia»: non solo per l’aspetto dai giornali e dai commentatori più rilevato, cioè per il fatto che, con l’avvento del laburismo al potere, la democrazia inglese entra finalmente nella linea della sua coerenza plenaria e la democrazia quasi esclusivamente formale (cioè di forme costituzionali e parlamentari di fatto accessibili solo a una minoranza di privilegiati) quale sinora è stata, si avvia a essere democrazia sostanziale, cioè vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo a quello politico, ma anche a quello economico e sociale; ma vittoria della democrazia in un senso ancor più profondo e definitivo che molti non considerano e forse alcuni vogliono ignorare, cioè per il fatto che per la prima volta nella storia dell’Europa contemporanea si è potuto effettuare, nonostante le difficoltà dell’ambiente (la «Vecchia Inghilterra» conservatrice per eccellenza) e le difficoltà del momento (l’indomani della più grandiosa storia militare), una trasformazione così grave, decisa e inaspettata, che tutti consentono nel qualificarla «rivoluzione» e che tuttavia questa rivoluzione è avvenuta proprio per le vie della legalità e attraverso i metodi della democrazia tipica e gli istituti del sistema parlamentare.
Questo fatto è quello che riassume e corona, è quello che consacra nel presente e garantisce per l’avvenire la definitività delle altre vittorie. Ma è soprattutto quello che veramente conclude la storia dell’Europa moderna e apre non un nuovo capitolo, ma un nuovo volume, ponendo fine all’età del liberalismo europeo e preannunziando insieme la fine del grande antagonista storico della concezione liberale; cioè il socialismo cosiddetto scientifico. Non sembri un’affermazione paradossale: essa è veramente il frutto di una meditazione storica.
La vittoria del Partito laburista, che non è partito di classe, ma partito interclassista (in quanto accoglie il filatore di Manchester, Mac Farlane, il proletario del Galles e il maresciallo Alexander), del Partito laburista che non ha vinto solo con i voti dei distretti operai, ma anche con quelli dei centri rurali più legati alle concezioni tradizionali della Vecchia Inghilterra, del Partito laburista che ha vinto con una elezione popolate e veramente libera, tale vittoria, diciamo, ha non solo concluso il periodo delle dittature o delle aristocrazie conservatrici, ma ha smentito per la prima volta con la prova dei fatti le dottrine e le prassi (già da tempo confutare in teoria) che solo nel ricorso alla forza, nella dittatura di una classe sulle altre e nella metodologia dell’attivismo sopraffattore vedono una possibilità di ascesa per i lavoratori e di instaurazione di una vera democrazia.
Da oggi i lavoratori di tutto il mondo finalmente sanno di potere con fiducia rispondere ad un grido che li invita all’unità, ma non nel nome di un mito di classe e di lotta, ma nel nome di una volontà di solidarietà con tutti e di libertà e giustizia per tutti. Volontà che, come ha riconosciuto Clemente Attlee, è veramente cristiana.
Reggio Emilia, 31 luglio
CENTENARIO DELLA NASCITA DI GIUSEPPE DOSSETTI. *
Giuseppe Dossetti, un problema storico
di Alberto Melloni (http://www.comune.re.it, 9 febbraio 2013) **
1. Giuseppe Dossetti - al quale con un gesto la cui nobiltà perdona il ritardo con cui dedichiamo questo luogo, che da oggi diventerà “il Dossetti” - è un personaggio storico lontano: per molti un nome, ricordato proprio perché quel nome resta e periodicamente ritorna come un fantasma, un mito, un’ossessione, una dossessione dice Galavotti. Comunque un problema storico.
Nato a Genova nel 1913, morto a Monteveglio nel 1996, potrebbe essere ormai studiato per quel che è stato nella storia, un politico, un riformatore, un produttore di cultura.
Dossetti fu un politico di vita attiva assai breve: resta in scena con pieno titolo solo sei-sette anni fra la Resistenza e l’inizio degli anni Cinquanta. In un tempo nel quale i cattolici non erano moderati. Perché quando lo erano stati avevano votato la fiducia a Mussolini in Italia col Partito popolare, ad Hitler in Germania col Zentrum: e in quel momento, nel roveto ardente della liberazione, avevano in mente ben altro che finire al guinzaglio di nuove illusioni conservatrici o autoritarie. Volevano una democrazia sostanziale, una società dominata dalla ricerca della giustizia sociale e strumenti democratici di democrazia, cosa che in italiano si chiama partito. E insieme, nello stesso gesto con lo stesso respiro, una chiesa segnata dalla trasparenza evangelica. Cose che richiedevano per lo meno una Costituzione. E forse un Concilio.
Dossetti è stato un riformatore, per tante cose un riformatore sconfitto. Padre di una Costituzione di cui deprecava la zoppìa della II parte, fondatore di avventure intellettuali e politiche che ha sovrastato con la sua visione del futuro. Perito del concilio Vaticano II, di cui pure sentiva le insufficienze. Cristiano, più precisamente “battezzato”, padre una “piccola famiglia” monastica nascosta fra l’appennino e la Palestina. Prete di una chiesa, quella di Bologna, quella italiana che dopo la rimozione di Lercaro, lo lascia andare in esilio in Medio Oriente dimenticandosi di lui. Eppure quest’uomo riformatore portatore del valore dell’utopia come utopia, lontano nella storia, ancora oggi fa discutere.
Dossetti lo si denigra, lo si dimentica, e potendo lo si rimuove. I reazionari ne fanno la caricatura: un cattocomunista, un pesce rosso che nuota nell’acqua santa, un integralista. Gianni Baget Bozzo, suo antico discepolo vi riconosce l’ostacolo che impedisce il dispiegarsi del disegno politico di rinascita nazionale di Forza Italia.
La chiesa italiana non riesce neppure da morto a dargli un posto, e a inserirlo nelle liste nelle quali, non senza qualche ipocrisia, mette La Pira o Lazzati, Sturzo e Toniolo, Bachelet o Moro. Perfino gli eredi delle tante scintille intellettuali e spirituali che ha seminato nella politica, nel diritto, nella ricerca, nella vita religiosa sono a mal partito con una personalità indocile a tutto, fuorché alla fede, che la vera eredità indivisa e indivisibile di questo personaggio.
E così si finisce per creare tanti piccoli Dossetti, sfocati, uno per la resistenza, uno per la Costituzione, uno per la Dc, uno per il monachesimo, uno per il concilio, uno per Palazzo d’Accursio e uno per Piazza del Gesù. Nessuno dei quali è vero per una ragione semplicissima: perché Giuseppe Dossetti è stato Dossetti proprio per essere stato tutte quelle cose lì in una volta sola, tutte insieme, con una intensità alimentata da una spiritualità antica e aspra, per tutta la vita: e lo è stato con la consapevolezza di un cristiano che voleva esserlo facendo la propria scelta “con tutte le sue forze”. Per questo comprendere Dossetti vuol dire cercare di cogliere l’insieme di que sta intensità che già egli evocava nel discorso dell’Archiginnasio.
2. Questa intensità si dispiega in tempi e storie precise, che di poco sbordano dal “secolo breve”, quello iniziato con la Grande Guerra e finito con la riunificazione della Germania. Dossetti nasce infatti nel 1913, ai tempi della Sagra della primavera di Strawinski, mentre infuria quella che Emilio Gentile chiama l’apocalisse della modernità: il delirio del bagno di sangue, del lavacro della violenza, che vede inerme una chiesa decerebrata dalla repressione antimodernista e una cultura che in tutti (con la sola eccezione di Sigmund Freud) attecchisce e fermenta il desiderio della violenza, di cui tornano anche oggi i sinistri rumori.
È giovane quando il cattolicesimo è filofascista. Studente modello a Bologna, cresce fra Cavriago e Reggio sotto l’influsso della madre e del radicalismo cristiano di don Dino Torreggiani, il prete degli zingari, dei carcerati, segnato dalla figura di don Angelo Spadoni, il vicario scomunicato dopo la guerra. La spiritualità oblativa resterà come un ordito di tutta la sua vita. Dossetti vuole che la sua esistenza sia "un olocausto", ha il desiderio non di farla passare, ma di consumarla, di spenderla per qualcosa, anzi per Qualcuno, in una serie di intrecci spirituali decifrati analiticamente da Galavotti nel primo dei due tomi ai quali ha lavorato con difficoltà non tutte dovute al soggetto dei suoi studi.
Ma Dossetti non è solo l’anima pia del bimbo rapito davanti alla sindone. È anche altro e lo si vede fin da giovane. Negli anni Trenta va a vivere a Milano, all’Università Cattolica del p. Agostino Gemelli, il socialista diventato francescano, scienziato, filofascista, vulcanica testa calda di una riconquista della società a partire dalle sue classi dirigenti, esaudito nel suo desiderio al punto che sessant’anni di classe dirigente cattolica, da Dossetti a Romano Prodi incluso, si formano ad una scuola che solo di recente ha perso questo rango.
Negli anni dei tribunali speciali, della guerra d’Africa, delle leggi razziali, questo giovane giurista che studia diritto romano e diritto canonico, lavora per il fondatore dell’Università, per ottenere da Roma l’approvazione dei nuovi "istituti secolari". In Cattolica diventa un virtuoso della sua materia, di cui sarà poi ordinario in questa Università di Modena insieme ad un altro grande del diritto come Amorth. Talmente bravo che Pio XII promulga i documenti (due dei pochi nei quali non intervengono i suoi fidati consulenti gesuiti tedeschi) di cui Dossetti è il redattore. Talmente fine nella sua materia da riuscire a piegare Paolo VI quando il progetto di una Lex ecclesiae fundamentalis all’inizio degli anni Settanta cade perché la sua critica severa convince migliaia di vescovi a mettere uno stop a quel disegno.
Il cavallo di razza della Cattolica, però non è solo un dotto minutante di diritto canonico: è un leader naturale. L’8 settembre 1943 quando lo Stato fascista si sgretola, Dossetti e altri giovani dotti destinati ad una Italia nazionalcattolica, si sono già svegliati alla democrazia, hanno iniziato a pensare al domani del paese. Pensare la resistenza intellettuale, poi quella politica, e infine aderendo a quella militare. Dossetti (lo racconta in una delle interviste agli studiosi di fscire.it che passerà martedì sera in tutt’Italia) gira per Milano con i volantini azionisti. A casa Cadoppi, proprio dietro questo Palazzo oggi a lui dedicato, rifiuta l’idea di un "partito cattolico", diventa capo partigiano della provincia di Reggio Emilia, dove i militanti comunisti hanno un peso enorme e la cui condotta dopo la liberazione costituisce una pleonastica vaccinazione ideologica di cui non farà vanto. Capo partigiano disarmato, Dossetti porterà qualcosa di quell’audacia in una vita politica che lui dice (è un vezzo che userà molte volte parlando di sé) inizia per caso. Piccioni e i vecchi popolari pensano possa essere un vicesegretario decorativo accanto a De Gasperi. Invece sprigionerà una creatività politica senza pari.
Diventa il leader cattolico della commissione che alla Costituente stende quella carta che sarà anche la più bella del mondo, ma che, come dimostra il pizzico di storicamente sfocato che c’era nella splendida lectio di Roberto Benigni, è anche una delle più ignorate del mondo.
Ha attorno a sé un gruppo di cui fanno parte La Pira, Lazzati, Mortati, Amorth, Fanfani, radunati in via della Chiesa Nuova. È l’autore dell’accordo che porta tutti i partiti di massa a riconoscersi nei principi della prima parte della Carta, inclusi quelli sui patti Lateranensi e sulla libertà religiosa. Nella DC è il capo della battaglia contro quel realismo che diventa immobilismo politico. Inventa strumenti economici, politiche, riviste e cenacoli - con l’idea che una democrazia "sostanziale" possa far sua le aspirazioni di giustizia sulle quali la sinistra socialcomunista guadagna i propri voti. Alla fine nel 1949-1951, paralizzato dalle "pressioni indicibili" della Santa Sede, decide di andarsene: perché senza una riforma della chiesa non ci sarà quella dello Stato.
Svanisce dietro la cortina fumogena costruita Rossena e non porta nessuno dalla vecchia vita alla nuova che inizia a Bologna, sua chiesa e sua città per tutto il resto della vita. Per molti che hanno letto la sua rivista Cronache sociali (uno per tutti don Milani), una diserzione; per altri un sollievo che farà franare (è il caso di Montini e di De Gasperi) un equilibrio politico nel quale Dossetti era essenziale. Per altri un abbandono o un passaggio che comunque aumenta la riverenza per un inesauribile fiuto politico e un rapporto con la Scrittura magnetico.
Per lui è il transito verso una vita diversa, di studio e di preghiera, che lentamente prenderà una forma monastica, o per essere pignoli come bisogna essere in quest’aula parlando di un maestro del diritto canonico, prenderà la non-forma di una reciproca immanen za fra fedeltà battesimale e vita sotto una regola, nella quale l’antico rifiuto della categoria dei “religiosi” degli anni Quaranta si esprime in categorie nuove.
Dal 1953 infatti, Dossetti va a vivere a Bologna. Fonda in via san Vitale un "centro" che unisce una comunità di ricerca e una di contemplazione presto destinate a prendere ciascuna la sua via. Quello che tutti chiamavano "Pippo" diventa il fondatore di uno dei maggiori centri di ricerca sulla storia religiosa, l’autore d’una regola monastica per la famiglia religiosa - e per essa viene ordinato prete diocesano da Giacomo Lercaro che ne è padre. Non è questo l’approdo della sua vita? Sì, ma è un approdo che porta ancora molte sorprese. A partire dallo shock del 1956.
Appena fatti i voti di obbedienza a Lercaro, il cardinale gli dà l’obbedienza di candidarsi a sindaco di Bologna, contro il Pci di Giuseppe Dozza. Un brivido che scomoda Togliatti, venuto da Roma per dargli del traditore, e che finisce in modo paradossale.
Dossetti ovviamente perde le elezioni amministrative. Ma convoca giovani professorini, come Beniamino Andreatta e il già noto Achille Ardigò, e scrive quel Libro bianco per Bologna, che diventerà il manuale di tutte le giunte rosse da lì in poi. E tuona per chiedere, dal banco di un consiglio comunale, la "persecuzione della ragion di Stato" durante l’invasione dell’Ungheria.
Poco dopo, il cardinale lo ha lasciato tornare alla vita orante, lo fa prete e gli affida il gioiello di Bologna, san Luca. Il 25 gennaio 1959 arriva inatteso l’annuncio del concilio Vaticano II, la nuova pentecoste voluta da papa Giovanni. Durante la preparazione Dossetti rimette in modo la sua officina di san Vitale 114 non per studiare i temi del concilio, coperti da segreto, ma per preparare un’edizione delle decisioni dei grandi concili della serie bellarminiana ma senza l’omissione di Costanza: un modo sofisticato per dire che il concilio apparteneva a quella tradizione millenaria e non all’orizzonte della condanne dei decenni precedenti. Ma nel concilio si realizza quel sogno che aveva coltivato negli studi, meditando una frase di Torquemada affiorata: "nel concilio non c’è più autorità che nel papa, ma c’è più grazia"
Poi il concilio inizia, anzi “si apre” e apre la chiesa. Lercaro, padre conciliare, chiama Dossetti a Roma nel novembre del 1962 come suo consultore. Dossetti torna a vivere in quell’indirizzo emblematico, via della Chiesa Nuova. E da lì farà ricorso ai vecchi amici giuristi come Mortati, ai giovani del centro di Bologna - come Pino Alberigo, Boris Ulianich e Paolo Prodi - ai grandi teologi del Vaticano II. E sarà protagonista di passaggi decisivi del concilio. Paolo VI adotta nel 1963 un nuovo regolamento del concilio che lui ha riformulato e poi lo nomina perito del Vaticano II. La costituzione dogmatica sulla chiesa Lumen Gentium si delinea con i voti orientativi da lui voluti, sul modello di ciò che aveva fatto in costituente.
Dossetti altri passaggi decisivi del Vaticano II: ma soprattutto vede nella riforma liturgica non un cambio di formule, ma il sogno realizzato di una chiesa eucaristica. Si inalbera quando il concilio non vota la condanna della deterrenza atomica e non canonizza in aula papa Giovanni, padre e maestro della sua nuova vita.
Per molti riformatori un concilio nella vita basta e avanza: è così anche per Dossetti? No: dal 1966, tornato a Bologna, lancia il progetto di una complessa riforma dell’arcidiocesi, diventa provicario, rischia di succedere al cardinal Lercaro nella cattedra e nella porpora.
Ma non sarà così. Non solo perché il papa decide di nominare a Bologna Antonio Poma come coadiutore con diritto di successione. Ma perché nel gennaio del 1968 a Bologna capita qualcosa che non si vedeva da secoli. Lercaro, con una collaborazione di Dossetti, lavora all’omelia del 1° gennaio 1968, prima giornata mondiale della pace. Era la festa che, nei sogni di Paolo VI avrebbe dovuto sancire una tregua mediata da lui in Vietnam: la tregua non ci fu, continuarono i bombardamenti sui civili e Lercaro, anziché usare il registro degli auspici, condannò i bombardamenti sul Vietnam in nome di Dio. E condannare bombe americane "in nome di Dio" è un caso internazionale che innesca una reazione a catena dove tutto - l’affaire di Avvenire, il messale, il Pci - si fonde in una rottura esplosiva: Paolo VI rimuove Lercaro dalla sua cattedra: uno shock senza precedenti, che cambia la vita di Dossetti e lo priva, dopo quattordici anni del padre, a ridosso della morte della madre che aveva voluto nella propria famiglia monastica.
Lercaro si sottomette a questa con “abbandono” e con una obbedienza soprannaturale sarà anche quella di Dossetti: che inizia un viaggio in Oriente, e poi, dopo l’udienza di Nixon atterrato con un elicottero da guerra in piazza san Pietro, si eclissa. Dall’Oriente a Monteveglio, da Gerusalemme a Gerico questo staretz cercato e temuto si sottrae a ogni impegno pubblico, fino alla morte di Poma, l’arcivescovo di Bologna che aveva sostituito Lercaro. Ma pur senza apparire è presente in momenti cruciali della chiesa e della storia. [...]
-***continuazione
Come dicevo poco fa si batte contro la Lex ecclesiae fundamentalis che voleva dare alla chiesa una costituzione che, per quanto simile a quella delle democrazie liberali, ne avrebbe inquinato la fisionomia di comunione: si batte con un’azione di disseminazione che persuade l’episcopato cattolico e convince Roma - sarà un maestro come Eugenio Corecco l’artificiere ultimo di questa operazione delicatissima - a rimettere tutto entro la sistematica codiciale.
Nel 1978 è in Italia e attivo durante il rapimento di un suo antico amico Aldo Moro con una serie di iniziative e rivolte a vari leader politici e con una lettera alle Br che Giovanni Moro avrebbe dovuto ritirare la mattina della lettera di Paolo VI, quella che diceva “senza condizioni”.
Nel 1980 scrive a Menachem Begin una severa lettera teologica quando, durante l’occupazione israeliana di Beirut, i miliziani cristiani perpetrano quell’immane eccidio a Sabra e Chatila, di cui egli addossa la responsabilità morale ultima a Tshaal: episodio e lettera dopo le quali Begin si ritirerà dalla vita pubblica.
Nel 1982 assiste un cattolico come Beniamino Andreatta quando questi chiama in causa il papa in persona durante il discorso al parlamento che scoperchia lo scandalo dell’Ambrosiano/Ior e che salva la chiesa da un marasma dalle conseguenze incalcolabili.
Riprende la parola in modo pubblico solo nel 1986 con un profilo che per alcuni è tutto ciò che resta di uno statista diventato un monaco anziano e malato. Eppure l’idea di Dossetti che, se si posa una cultura profonda su una vita integra si riesce a capire meglio il futuro continua a sbalordire.
Come quando ad ottobre del 1990 scrive in un articolo apparso anonimo che sta per accadere nel mondo dopo l’operazione Desert Storm e spiega le conseguenze di quella che molti considerano la più classica delle guerre giuste. Dossetti teme che quell’alleanza internazionale non costituisca agli occhi delle masse diseredate dei Sunniti un titolo di legittimità, ma un ricordo delle crociate di cui il fondamentalismo ha bisogno.
Ripeto: 1990. Non per profezia: ma per rigore intellettuale.
Questa stessa lungimiranza lo riattiva anche politicamente all’indomani della vittoria elettorale di Silvio Berlusconi del 1994: quando si schiera in difesa della costituzione promuovendo una fitta rete di comitati non per trattare la carta da feticcio di una nostalgia di vecchi partigiani, ma per un giudizio ancora una volta sulla chiesa.
È la primavera del 1994. Così, con una tonaca addosso, diventa ancora una antenna politica di prima grandezza e guida un patriottismo costituzionale che, dopo la sua morte, il 15 dicembre 1996, farà valere le sue ragioni. Una sospensione emergenziale della vita monastica? l’inveramento di una vita politica nella spesa exhinanente di sé? Di fatto un’attenzione spirituale alla storia cosa che è sempre rimasta viva in Dossetti, quel muoversi tra i massimi sistemi, la chiesa e lo Stato.
3. E che come ciascuna delle altre, a qualcuno fa problema: perché Dossetti continua ad esserlo un problema (da rimuovere) per ciò che questo percorso di cristiano e di uomo significa. Chi ha avuto e ha paura della forza della sua proposta politica immagina che "facendosi prete" abbia dimostrato il carattere astratto o utopico del suo pensiero. Chi ha avuto e ha paura della visione della chiesa come comunità convocata dal dono lo dipinge come un uomo che è vero solo quando sta in silenzio. Ma Dossetti è ciò che è per la sua capacità di produrre rigore e cultura.
Una cultura il cui pregio non era quello di veder nero (altri vedevano più nero di lui), ma di vedere il vuoto che si apre quando la chiesa non accompagna il cambiamento dei paradigmi di civiltà con una risposta di fede che per Dossetti mancava, con esiti che l’unico suo libro di teologia sulla Shoah scava a fondo. In parte compensata da un "eccesso di fede" che vorrebbe fosse il modo proprio suo e della sua famiglia di compensare il semipelagianesimo dell’attivismo cattolico, la dissipazione delle energie spirituali, la mancanza di fede operante che tocca tutti, anche la gerarchia: una compensazione microcosmica dell’attivismo che si accontenta della presenza per la presenza, quella che è il danno che la chiesa fa a sé (e indirettamente, ma non inefficacemente allo Stato) e della quale il concilio - con i nodi dei poteri teologicamente partecipabili e della povertà di Cristo come povertà di impianti filosofici - è il paragone.
4. Se nella chiesa Dossetti inquieta per la sua fedeltà teologica al concilio come atto di confessione di una chiesa eucaristica e di una cristologia del nudus nudum Christum sequi, sul piano politico quel che fa problema è il suo giudizio sul fascismo come dato permanente della storia italiana.
Dossetti mutua da Gobetti l’idea del fascismo come autobiografia della nazione: ma non solo sul piano storiografico o sul piano della coscienza del cattolicesimo democratico (quello che non perdona i popolari italiani e i centristi tedeschi), ma proprio come dato permanente, che si ripropone.
È questa la radice teologica del suo patriottismo costituzionale. Quello che Dossetti fiuta e rifiuta nel 1994 è la tentazione di liberarsi dalla coscienza della guerra che i costituenti portavano con sé in un agnosticismo costituzionale della chiesa italiana che ricordava l’altra grande “mancanza al proprio compito” della chiesa.
Se Dossetti rimane un inciampo e un ingombro, se non si riesce a caramellarlo, se non si riesce
a farne democristiano prestato all’ascesi o viceversa è per questo vigore culturale. Che
non viene solo da un abitudine al rigore dello studio ma dalla Bibbia, indossata come la
povertà sanante della cultura religiosa. La bibbia che "raschia il cervello" e che
plasma l’intelligenza degli eventi e genera una “povertà” necessaria: perché (è una
polemica del 1966):
Pretendere che un valore culturale qualunque (anche se di grande dimensione e profondità
come potrebbe essere il diritto romano o la metafisica aristotelica) sia universalmente
valido equivarrebbe a scomunicare dall’umanità tutti quelli che non accettassero o
potessero comprendere e assimilare quel valore.
Dossetti per questo non cerca l’autoriforma dell’eremita, ma un monachesimo che sa che ogni cristiano ha bisogno della chiesa: e che la riforma della chiesa serve perché chi ne ha sete la trovi, in un momento nel quale si esauriscono le culture e non c’è (non c’è) un pensiero cristiano o non cristiano che non sia il mero rabberciamento di rottami ideali o ideologici. Questo spiega l’ostilità verso un uomo di un secolo. Il fascino di un uomo di un secolo fa che di quel secolo - come disse nel suo ultimo corso Pino Alberigo - fu la coscienza.
* Nell’ambito delle celebrazioni per il Centenario della nascita di Giuseppe Dossetti, il 9 febbraio 2013 è stata intitolata al padre costituente reggiano la sede universitaria di viale Allegri a Reggio Emilia, che si chiama ora Palazzo universitario Giuseppe Dossetti. Gli interventi del presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida, del sindaco di Reggio Graziano Delrio e del rettore Aldo Tomasi, della presidente della Provincia Sonia Masini, del vescovo di Reggio Emilia e Guastalla Massimo Camisasca e del professor Alberto Melloni; il ricordo personale di Romano Prodi.
** FONTE. FINESETTIMANA.ORG
Ritrovare insieme la forza degli ideali
Il contributo del Capo dello Stato nel libro dedicato al cardinale Ravasi
«Vedo materia di dialogo tra credenti e non credenti»
L’intervento integrale di Napolitano per il settantesimo compleanno del presidente del Pontificio Consiglio della Cultura
Il comunismo venne travolto dal collasso dei regimi che ad esso si ispiravano
in Europa e in Urss
L’ideologia conservatrice ha assunto sempre più le sembianze di un fondamentalismo di mercato *
MI ASSOCIO BEN VOLENTIERI ALL’OMAGGIO CHE VIENE RESO A SUA EMINENZA IL CARDINALE GIANFRANCO RAVASI, FIGURA EMINENTE DELLA CHIESA CATTOLICA E PERSONALITÀ PIÙ GENERALMENTE RICONOSCIUTA DEL MONDO DELLA CULTURA: uomo aperto a ogni dialogo, come ho potuto anche personalmente sperimentare.
Spero dunque che questo mio contributo, senza avere come altri la dimensione e il livello dello «studio in onore» del festeggiato, possa essere accolto come proposta «di ulteriore dialogo», o di riflessione comune, su un tema che ci sollecita entrambi. Il tema, cioè, della «componente ideale» propria di una seria scelta politica.
Parlai, in una mia lezione (all’Università di Bologna) nel gennaio 2012, dell’«appannarsi di determinati moventi dell’impegno politico, inteso come impegno di effettiva e durevole partecipazione» (individuale e collettiva). E indicai, tra i moventi che si sono affievoliti, quella che anche moderni scienziati della politica hanno chiamato «la forza degli ideali».
È un fenomeno che ha accompagnato il mio peraltro fisiologico distacco dall’attività politica o più concretamente partitica e che - nel tirare autobiograficamente le somme della mia lunga esperienza - definii «grave e allarmante». Impoverimento culturale della politica, sua «sfrenata personalizzazione - smania di protagonismo, ossessiva ricerca dell’effetto mediatico» - e nel contempo «perdita, da parte dei partiti, di radicamento sociale e di vita democratica nelle istanze di base», insieme col crescere di «una diffusa spregiudicatezza nella lotta per il potere e nella gestione del potere».
Il visibile impoverimento ideale e culturale della politica ha rappresentato il terreno di coltura del suo inquinamento morale. E non è questa la sede in cui interrogarmi sul futuro, su una possibile, graduale ma netta, inversione di tendenza. Posso tutt’al più ribadire programmaticamente la mia fiducia nella conclusione che Thomas Mann suggeriva ai tedeschi nel pieno della catastrofe provocata dalla degenerazione estrema della politica, quella del barbarico totalitarismo e bellicismo nazista : «la politica non potrà mai spogliarsi del tutto della sua componente ideale e culturale, mai rinnegare completamente la parte etica e umanamente rispettabile della sua natura».
Ma come - ecco quale può essere la materia di un dialogo rinnovato e approfondito - va intesa quella «componente ideale»? Come ha operato politicamente nel passato vissuto dalla mia e da altre generazioni «la forza degli ideali»? Ha operato, si può rispondere, nella forma delle ideologie, di grandi ideologie contrapposte, e oggi invece non è così che si può intendere la rinascita di una «componente ideale» come molla e guida dell’agire politico.
In effetti, non spiega molto, e non ha mai spiegato molto, la formula che a suo tempo diventò di moda: «la fine (o la morte) delle ideologie». Anche perché l’attenzione si concentrò, comprensibilmente, sul crollo di una ideologia: quella comunista, travolta nel collasso dei regimi che ad essa si ispiravano, in Europa centro-orientale e in Unione Sovietica. Molto più limitata, e sfuggente, rimase ed è rimasta la rivisitazione - e la stessa ri-definizione - dell’ideologia che si era contrapposta a quella comunista: ideologia del libero mercato, ovvero di uno sviluppo capitalistico affidato al libero giuoco delle forze di mercato? O ideologia delle istituzioni liberal-democratiche dell’Occidente come punto d’arrivo della storia?
Comunque, l’ideologia conservatrice è sopravvissuta alla fine del comunismo, assumendo sempre più le sembianze di quel «fondamentalismo di mercato», tradottosi in deregulation e in abdicazione della politica, che solo la crisi finanziaria globale scoppiata nel 2008 avrebbe messo in questione.
Certo, è stato impossibile - se non per piccole cerchie di nostalgici sul piano teoretico e di accaniti estremisti sul piano politico - sfuggire alla certificazione storica non solo del fallimento dei sistemi economici e sociali d’impronta comunista, ma del rovesciamento di quell’utopia rivoluzionaria che conteneva in sé promesse di emancipazione sociale e di liberazione umana e che aveva finito - come, con fulminante espressione, disse Norberto Bobbio - per «capovolgersi», nel convertirsi di fatto nel suo opposto. Anche se può discutersi l’uso - a proposito del movimento comunista e della sua visione - del termine «utopia».
Vale senza dubbio, in riferimento allo svolgimento, sempre più involutivo, di quell’esperienza, il fondamentale avvertimento di Isaiah Berlin, che riconosceva tutto il valore delle utopie, ma aggiungeva che «come guida al comportamento possono rivelarsi letteralmente fatali». In effetti, la dottrina e la prassi comuniste - che pure esprimevano una pretesa di scientificità («l’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza») - avevano proprio la rigidità, onnicomprensività e autosufficienza di una ideologia militante.
Ma non è possibile - ecco ancora un interrogativo attorno al quale varrebbe forse la pena di dialogare - secernere da ideologie contrapposte, riconsiderate nella loro ascesa e nel loro declino, riferimenti positivi per individuare quella irrinunciabile «componente ideale» della politica da cui sono partito in questo mio abbozzo, o proposta, di riflessione?
Non si può confondere, sia chiaro, «la forza degli ideali» o la motivazione ideale che spinge all’agire politico e dovrebbe sorreggerlo, con un approccio fideistico: e invece ritengo - basandomi sulla mia personale esperienza e memoria - che nell’adesione e nell’attaccamento di tanti al Partito Comunista, quale risorse in Italia dopo la liberazione dal fascismo, un elemento di fideismo vi fu, e venne anche dall’alto della sua dirigenza. In un singolare quanto spurio confronto - aggiungo - con il fideismo religioso: non si giunse (da parte comunista) in quegli anni di nuovo inizio, a parlare di «due fedi»? O - in termini già un po’ meno ideologici e più politici - di «due universalismi»?
Ciò di cui parlo è dunque altro: un pieno e limpido, razionale recupero a una visione laica della politica degli ideali della libertà (politica e anche economica), della giustizia, promozione e protezione sociale, della solidarietà come dovere e sentimento individuale e come responsabilità e prassi collettiva, del più ricco sviluppo della persona e della costruzione di un ordinamento fondato su ineludibili diritti e doveri comuni.
Non possono questi ideali, sottratti agli irrigidimenti e alle estremizzazioni di carattere ideologico, essere perseguiti attraverso programmi e indirizzi diversi, nel vivo di una competizione politica e culturale democratica, e costituire al tempo stesso il sostrato comune di un impegno costituzionale, al livello nazionale e al livello europeo? Non si può forse già cogliere un quadro di risposte tanto - per parlare dell’Italia - nell’impianto della Costituzione repubblicana, quanto nelle formulazioni di principio su cui si è fondata e si fonda la costruzione dell’Europa unita?
Vedo in tutto ciò materia di dialogo anche tra credenti e non credenti. Perché i credenti, e segnatamente i cattolici italiani, hanno il loro punto di vista da far valere e il loro contributo da dare. È un fatto che nei principi e negli indirizzi costituzionali sanciti sia in termini nazionali sia in termini europei (tra questi ultimi, quelli riassumibili nell’ancoraggio a una «economica sociale di mercato»), si sono calati valori sentiti come autenticamente cristiani. Quanto l’adesione a questi valori possa essere vissuta in termini di fede e in sintonia con la pratica religiosa, è aspetto non secondario dell’approfondimento e della riflessione comune che sollecito sulla possibile, necessaria rinascita della componente ideale e morale dell’agire politico. Approfondimento, riflessione, cui da pochi può venire un apporto alto e sereno come da Gianfranco Ravasi.
* l’Unità, 09.02.2013
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 7 febbraio 2013)
La svolta della Chiesa di Roma sul riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti civili degli omosessuali è indubbiamente un evento importante. Come ricordava Vito Mancuso su questo quotidiano, mai era successo che un prelato ammettesse che i diritti civili sono eguali per tutti in materia di convivenza.
Lo ha fatto monsignor Vincenzo Paglia, il nuovo Presidente per il Pontificio Consiglio per la Famiglia. Il pronunciamento è importante perché centrato sull’eguale rispetto delle persone e la condanna della discriminazione che la criminalizzazione dell’omosessualità genera, come verifichiamo quotidianamente anche nel nostro Paese. Una battaglia di civiltà, sulla quale papa Benedetto XVI si è varie volte pronunciato mettendo in luce le sofferenze che ancora troppi governi infliggono a chi sceglie di vivere una relazione non eterosessuale.
Ma il riconoscimento che chi vive una “amicizia” omosessuale debba godere degli stessi diritti civili degli altri individui non significa riconoscimento della coppia omosessuale. Diritti sacrosanti della persona come tale e non diritti di veder legalizzata la convivenza con una persona dello stesso sesso: un fatto di giustizia rispetto al quale è uno scandalo che anche Stati democratici avanzati, come il nostro, siano ancora tanto inadempienti. Trovare “soluzioni di diritto privato”, all’interno del “codice civile” per questioni legate al “patrimonio” (trasmissione ereditaria e comunità dei beni), è l’abc dello stato di diritto, soprattutto un coerente intervento in materia di diritto di proprietà. Ma diritti civili della persona, sacrosanti, non sono ancora diritti alle unioni fra le persone. Non si può pretendere che la Chiesa dia la benedizione a tutto ciò che vogliamo e desideriamo; ma sarebbe un errore di valutazione pensare che con questo pronunciamento la Chiesa si sia spinta fino al punto di dare la propria benedizione alle coppie non eterosessuali.
Monsignor Paglia spiega che il no della Chiesa al matrimonio gay è coerente alla legge perché “la Costituzione italiana parla molto chiaramente, ma prima ancora era il diritto romano che stabiliva cosa fosse il matrimonio”. Quindi la legge civile è la prima responsabile di questa discriminazione, non la dottrina religiosa. Si dovrebbe aggiungere che non tutti i codici sono quello italiano e che quindi la posizione della Chiesa è in linea non tanto con la legge civile, ma con la legislazione italiana - ci possono essere soluzioni diverse e tuttavia in perfetta sintonia con il diritto civile come si è visto in Francia.
Ma è poi vero che la Costituzione italiana sia così esplicita e univoca nel respingere il matrimonio eterosessuale o meglio ancora nel definire il matrimonio?
Leggiamo l’art. 29 della nostra Costituzione: “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Come si vede, la Costituzione non specifica l’identità sessuale dei coniugi o la composizione della famiglia. Certo, si potrebbe sostenere che questa non specificità linguistica fosse indice della mentalità dei costituenti, nella quale non rientrava molto probabilmente né l’opzione di coppia omosessuale né la fecondazione artificiale o l’adozione da parte di coppie non eterosessuali. Che senso aveva specificare ciò che era ritenuto naturale, normale, ovvio? Una costituzione è viva perché consente alle generazioni che verranno la libertà di farla propria, di interpretarla secondo le esigenze del loro tempo, con i diritti civili come bussola. Il silenzio della nostra Costituzione sulla definizione di matrimonio e di famiglia è un segno della sua saggezza più che una dichiarazione dogmatica su che cosa sia il matrimonio, ed è una garanzia della nostra libertà politica di decisione.
La Costituzione ci orienta a interpretare che cosa sia “negoziabile” e assegna alla comunità politica (il governo democratico) l’autorità di dichiarare, nella legge civile, che cosa sia non-negoziabile. Il tema della laicità (dell’autonomia della legge civile dalle credenze religiose) non sta tanto nella separazione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, ma nel decidere chi stabilisce questa separazione e come la si negozia. In questa negoziazione consiste la vita democratica. Della quale la Chiesa è parte con la sua opinione e la sua libertà di partecipare alla costruzione degli orientamenti politici come tutte le altre associazioni della società civile.
L’interpretazione della Costituzione riflette la lotta politica e le differenze di opinione che operano liberamente nella società. Le istituzioni non sono sigillate o rese impermeabili alla società civile (cosa che è non solo impossibile, ma sarebbe inoltre indesiderabile in una democrazia rappresentativa). L’esito di questo scambio, di questa tensione interpretativa, è la formulazione di leggi o decisioni che siano in sintonia con lo spirito della Costituzione, il quale è molto più elastico di quanto non appaia e, soprattutto, non sepolto nella mente dei costituenti ma vivo nella nostra. E la definizione del matrimonio è una questione non chiusa come ci suggerisce monsignor Paglia, ma aperta a interpretazioni che non sono per nulla scontate o “non negoziabili”.
Il «Concordato materiale»
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 05.02.2013)
Se c’è qualcuno che ha un debito particolare di riconoscenza verso Giorgio Napolitano è la gerarchia della Chiesa. Non è l’unica. Ma certo la complessa struttura dell’autorità ecclesiastica - la Conferenza episcopale, la segreteria di Stato, gli organi di un’ispirata azione pre-politica diventata politica in un lampo - ha trovato nella linea del presidente della Repubblica il sentiero per uscire da una situazione che sarebbe eufemistico definire complessa. Il concerto offerto ieri dall’ambasciatore Francesco Greco al Papa e al capo dello Stato doveva celebrare l’anniversario dei Patti Lateranensi. In realtà festeggia il «concordato materiale» che Napolitano lascia in eredità al suo successore e che va al di là dei rapporti, per definizione «eccellenti», fra Stato e Chiesa.
Durante tutta l’era Berlusconi le autorità ecclesiastiche sembravano convinte che il (solo) centrodestra potesse ridare forza alla Chiesa in una società per loro illeggibile. Quando il cardinal Bertone archiviò la presidenza Ruini, iniziò l’attesa di uno sganciamento: che non arrivò né allora né mai. E invece arrivò un diluvio di maldicenza e scandali che hanno disgustato i fedeli.
È stato Napolitano che a fine del 2011 ha inventato una via di uscita. Nominando Mario Monti e affidandogli la guida del governo tecnico, il Quirinale ha consentito al Vaticano di uscire dall’incubo di esser condannati a una sempre più imbarazzante difesa d’ufficio di Silvio Berlusconi. L’episcopato ha colto l’occasione. Le scaramucce fra Cei e Vaticano, che nemmeno il Papa aveva potuto sedare, si sono chetate. E Benedetto XVI ha trovato in Monti un interlocutore capace di moderare l’euroscetticismo pontificio degli ultimi anni. «Mimare» Napolitano è stato insomma per tutte le autorità della Chiesa il modo per poter fare una scelta senza fare scelte. E senza correre rischi.
Poi sono arrivati l’inverno delle primarie, i primi profumi di elezioni e la salita in politica di Monti: cosa che non poteva che trovare il rispettoso «discontento» di chi - il capo dello Stato - lo aveva iscritto in una lista - quella dei senatori - che inizia con Camillo Benso conte di Cavour e nella quale a maggio ritornerà lo stesso Napolitano.
Ma anche quel discontento ha «coperto» la Santa Sede, prima lanciatasi in un inedito sostegno a Monti e poi rapida a battere in ritirata non appena il Professore ha pronunciato la parola «coscienza». Ha dato ansa ai leader cattolici di Todi per posizionarsi nelle retrovie elettorali. Ha fatto uscire allo scoperto le molte posizioni dei vescovi. Da quella del ferrarese monsignor Negri, che ha dato il suo sostegno ai cattolici rimasti a destra, a quella del confratello reggiano monsignor Camisasca, che ha sdoganato il cristiano «adulto» Romano Prodi.
Fra i leader della Cei il cardinal Bagnasco ha lanciato una chiamata al voto che potrebbe rivolgersi ai delusi del centrodestra, ma che riprende i richiami del capo dello Stato. Il cardinal Betori, invece, ha riconosciuto che i cattolici presenti in tutti gli tre schieramenti (dunque perfino i negletti del Pd) si misurano con culture «altre» in una logica di confronto che richiama molti appelli del Quirinale. E monsignor Crociata, con un richiamo esplicito alla democrazia «sostanziale» di marca dossettiana, ha riproposto il problema di una dialettica autentica e pacata che ha autorevoli echi al Colle.
Dall’altra parte il cardinal Sepe ha personalmente guidato Monti fra le opere di Sant’Egidio, per dare un segnale plateale del sogno suo e di altri di trovare nel premier uscente una sponda conservatrice e presentabile: forte del fatto che non la Chiesa, ma proprio Napolitano lo ha «inventato», e dunque...
In questo moltiplicarsi di voci della Chiesa tutti continuano a far riferimento a Napolitano, per una ragione o per l’altra. E forse il merito maggiore del capo dello Stato è, paradossalmente, aver fatto uscire allo scoperto quelle tante voci: che fra loro ve ne siano alcune che guardino a destra è normale; che non si sentano solo quelle è un bene.
La politica e il «lievito» dei cattolici
di Romano Prodi (Corriere della Sera, 13 gennaio 2013)
Caro direttore,
nei giorni scorsi, come spesso avviene nei momenti di svolta della politica italiana, i rapporti fra Chiesa e mondo politico hanno occupato grande spazio nei media e nei dibattiti. La novità più interessante è costituita dal rilievo dedicato a un presunto unanime appoggio delle gerarchie ecclesiastiche a Monti e al suo ruolo futuro. Una tesi certamente confortata da una forte esposizione in questo senso da parte dell’Osservatore Romano e dell’Avvenire, alla quale sono seguite dichiarazioni altrettanto forti da parte di importanti autorità ecclesiastiche.
Si tratta di avvenimenti di indubbia importanza, dato che questo combinato disposto sembra mettere definitivamente termine ad un appoggio aperto ed efficace di un’autorevole parte della gerarchia italiana nei confronti del presidente Berlusconi e dei suoi alleati di governo. La presa di distanza da Berlusconi era iniziata ed era divenuta palese già da qualche mese ma le dichiarazioni in favore di Monti la rendevano più concreta e, soprattutto, comprensibile in modo inequivocabile da parte di tutti i cattolici italiani.
Questo nuovo corso (a quanto si legge nella stampa) avrebbe dovuto essere solennemente consacrato da un convegno (il cosiddetto Todi 3) nel corso del quale i più visibili movimenti del Cattolicesimo militante avrebbero dovuto solennemente confermare questa scelta. È invece partita una dinamica del tutto imprevista perché questa nuova scelta non è stata condivisa da chi aveva sostenuto e continuava a sostenere le precedenti alleanze, mentre una rappresentanza non trascurabile per qualità e quantità dei cattolici militanti ha scelto di candidarsi nelle liste del Partito democratico.
L’aspetto più interessante (e a mio parere positivo) di tali eventi è che nessuno sembra scandalizzarsi dell’esistenza di queste diversità di scelte e nessuno (come invece avveniva in passato) ha lanciato scomuniche o invettive. In coerenza e forse in conseguenza di questi avvenimenti il cosiddetto Todi 3 non ha avuto luogo e nessuno si è stracciato le vesti per la revoca dell’appuntamento.
La collocazione dei cattolici militanti in diverse caselle politiche (evento che ritengo importante e positivo per la storia religiosa e politica italiana) è apparsa come un fatto scontato, quasi ovvio.
Come se gli avvenimenti degli ultimi anni avessero silenziosamente insegnato quanto siano delicate e non sempre positive le conseguenze di una stretta alleanza della Chiesa con un singolo leader o con uno specifico partito politico, pur nobile o corretto che esso sia.
Si sta cioè quasi istintivamente affermando nel mondo cattolico italiano (seppure in grave ritardo rispetto ad altri Paesi) la convinzione che a coloro che operano nella vita pubblica sia sopratutto richiesto di portare un positivo contributo di esperienza, di etica e di dottrina nelle diverse appartenenze alle quali si decide di aderire in base alle proprie complesse scelte di carattere politico e culturale.
Essi sentono soprattutto un dovere: cercare di essere, seguendo la propria coscienza e i principi elementari del Vangelo, il lievito di una società sempre più secolarizzata, pluralistica e perciò sempre più bisognosa di un positivo fermento sviluppato dall’interno. Forse sto cercando di trarre conseguenze troppo affrettate e generali da avvenimenti che sono ancora in corso di svolgimento e certamente questa mia interpretazione è influenzata dal fatto che una delle motivazioni principali del mio passaggio in politica (verso la quale non sono né salito né disceso) è stato proprio il desiderio di contribuire a che cattolici e laici operassero assieme nei diversi schieramenti.
Ritenevo e ritengo che, superati gli anni della grande emergenza del dopoguerra e del comunismo, questo sia un passaggio essenziale per fare operare insieme, in modo positivo, i principii che stanno alla base del Cattolicesimo e i fondamenti della nostra Costituzione.
Si tratta evidentemente di una posizione discutibile e, soprattutto, di una scelta che richiede un forte impegno di approfondimento e di testimonianza personale. Tuttavia pensavo e penso che una tale evoluzione possa aiutare la coesione del Paese e una maggiore responsabilizzazione dei suoi cittadini. La coalizione dell’Ulivo, intorno alla quale avevo cercato di costruire una proposta politica innovativa, aveva tra i propri principi fondanti anche questo obiettivo semplice ma di portata storica.
Com’è noto le cose sono andate ben diversamente. Sono state infatti realizzate precise alleanze e sono stati fissati confini inclusivi ed escludenti che, pur avendo provocato dolorose sofferenze, non mi sembrano avere dato risultati esaltanti. Ma il passato è passato. Conta invece il fatto che lo scorrere naturale degli eventi obblighi tutti noi a riflettere su questi temi e spinga qualcuno di noi a riscoprire il concetto di «lievito». Questo è per me motivo di conforto.
Perché tale evoluzione possa produrre frutti di coesione e di miglioramento etico occorre naturalmente un mutamento altrettanto radicale nel comportamento dei partiti politici e degli stessi cattolici. Occorre cioè che sia dato un adeguato spazio al contributo dei cattolici e che essi, da parte loro, si facciano apprezzare per la qualità della proposta politica e non utilizzino l’appartenenza cattolica come rendita di posizione. In ogni caso quanto sta avvenendo in questi giorni all’interno del mondo cattolico è certamente un’occasione per una riflessione necessaria e positiva per tutti gli italiani.
L’alleanza liberisti-cattolici
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 10 gennaio 2013)
Essere cattolici e chiudere due occhi sull’immoralità del premier è stato possibile negli anni di egemonia berlusconiana. Oggi si assiste ad un altro connubio, forse meno impervio del precedente, quello tra cattolicesimo e liberismo. Così sembra di capire da queste prime battute della campagna elettorale.
Da un lato un candidato premier, Mario Monti, che fa del liberismo la sua bandiera morale oltre che l’anima del suo programma politico, dall’altro la Chiesa di Roma che ne benedice la candidatura anche se intanto getta l’allarme sui poveri che aumentano di numero e auspica un governo più equo con i tagli e con le tasse. Questa tensione amichevole è un interessante esempio di quanto possa essere ricca di risvolti la relazione fra liberalismo e cattolicesimo.
Ci sono certamente diversi tipi di liberalismo (come ci sono diverse declinazioni del cristianesimo cattolico), almeno tre: come filosofia liberale dei diritti civili, il liberalismo è affermazione della sovranità dell’individuo nelle decisioni morali e politiche, anche quando si tratta di valori ultimi, come la vita e la morte; come ordinamento costituzionale, stato di diritto e sistema di divisione e bilanciamento dei poteri o liberalismo politico; infine come dottrina economica centrata sull’interesse individuale e la libera competizione.
In quest’ultimo caso, la visione liberale può diventare una vera e propria filosofia dell’autoregolamentazione del mercato e una dottrina compiuta secondo la quale la giustizia o è via mercato o non è, in quanto l’intervento statale di redistribuzione della ricchezza tende a disturbare il movimento economico invece di correggerlo per il meglio. Delle tre coniugazioni la prima e la terza sono le più interessanti per la questione che ci interessa.
La prima è certamente quella che più preoccupa la Chiesa perché riduce vistosamente l’autorità del magistero pastorale. Ad una prima impressione potrebbe sembrare che anche la terza incontri resistenze, poiché la giustizia sociale è un’importante acquisizione della dottrina cattolica moderna.
Eppure, le cose sono più complesse, perché tra le declinazioni del liberalismo che meno si adattano alle esigenze della Chiesa vi è proprio quella che ha partorito lo stato sociale. Prima di tutto perché ha accresciuto il potere dello Stato rispetto a tutte le fonti di solidarietà e di carità non statali: le tasse hanno per anni preso il posto della beneficenza privata, i servizi pubblici quello dei servizi erogati dalla rete delle associazioni solidaristiche, e principalmente religiose. Quindi meno stato e più società civile - il cuore del liberismo - incontra prevedibilmente l’interesse della Chiesa.
Benché quindi ci possano essere diverse declinazioni di cristianesimo cattolico, una di queste può essere quella liberista. Il catto-liberismo (un termine non bello, ma efficace) tiene insieme il progetto di un dimagrimento dello stato sociale (a cui corrisponde una crescita delle funzioni dell’associazionismo cattolico, magari con l’incentivo pubblico) e la morale della misericordia per i poveri, i quali, dove la mano dello Stato non arriva, devono sapere di poter contare sulla carità cristiana.
L’orgogliosa politica dei diritti sociali che si proponeva di emancipare i poveri facendone cittadini sembra non soddisfare né liberisti né cattolici, che così si trovano quasi naturalmente alleati, uniti dalla politica della sussidiarietà che rilancia (magari con l’aiuto del pubblico) la società civile.
La famiglia, prima scuola di santità
di Ermes Ronchi (Avvenire, 27/12/2012 *
La santa Famiglia di Nazaret porta un messaggio a tutte le nostre famiglie, l’annuncio che è possibile una santità non solo individuale, ma una bontà, una santità collettiva, familiare, condivisa, un contagio di santità dentro le relazioni umane. Santità non significa essere perfetti; neanche le relazioni tra Maria Giuseppe e Gesù lo erano. C’è angoscia causata dal figlio adolescente, e malintesi, incomprensione esplicita: ma essi non compresero le sue parole. Santità non significa assenza di difetti, ma pensare i pensieri di Dio e tradurli, con fatica e gioia, in gesti. Ora in cima ai pensieri di Dio c’è l’amore. In quella casa dove c’è amore, lì c’è Dio.
E non parlo di amore spirituale, ma dell’amore vivo e potente, incarnato e quotidiano, visibile e segreto. Che sta in una carezza, in un cibo preparato con cura, in un soprannome affettuoso, nella parola scherzosa che scioglie le tensioni, nella pazienza di ascoltare, nel desiderio di abbracciarsi. Non ci sono due amori: l’amore di Dio e l’amore umano. C’è un unico grande progetto, un solo amore che muove Adamo verso Eva, me verso l’amico, il genitore verso il figlio, Dio verso l’umanità, a Betlemme.
Scese con loro a Nazaret e stava loro sottomesso. Gesù lascia i maestri della Legge e va con Giuseppe e Maria che sono maestri di vita. Per anni impara l’arte di essere uomo guardando i suoi genitori vivere: lei teneramente forte, mai passiva; lui padre non autoritario, che sa anche tirarsi indietro. Come poteva altrimenti trattare le donne con quel suo modo sovranamente libero? E inaugurare relazioni nuove tra uomo e donna, paritarie e senza paure?
Le beatitudini Gesù le ha viste, vissute, imparate da loro: erano poveri, giusti, puri nel cuore, miti, costruttori di pace, con viscere di misericordia per tutti. E il loro parlare era: sì, sì; no, no. Stava così bene con loro, che con Dio adotta il linguaggio di casa, e lo chiama: abbà, papà. Che vuole estendere quelle relazioni a livello di massa e dirà: voi siete tutti fratelli.
Anche oggi tante famiglie, in silenzio, lontano dai riflettori, con grande fatica, tessono tenaci legami d’amore, di buon vicinato, d’aiuto e collaborazione, straordinarie nelle piccole cose, come a Nazaret. Sante. La famiglia è il luogo dove si impara il nome di Dio, e il suo nome più bello è: amore, padre e madre. La famiglia è il primo luogo dove si assapora l’amore e, quindi, si gusta il sapore di Dio. La casa è il luogo dove risiede il primo magistero, più importante ancora di quello della Chiesa. È dalla porta di casa che escono i santi, quelli che sapranno dare e ricevere amore e che, per questo, sapranno essere felici.
(Letture: 1 Samuele 1,20-22. 24-28; Salmo 83; 1 Giovanni 3,1-2. 21-24; Luca 2,41-52)
La «conciliazione» di divino e umano
Anche per tanti filosofi laici, da Hegel in poi, l’incarnazione cambia la percezione della vicenda umana
La Natività
Libertà e uguaglianza nella storia dell’uomo
La svolta radicale
La figura del Cristo capovolge il rapporto uomo-Dio proprio della filosofia greca
di Michele Ciliberto (l’Unità 24.12.12
Per quale motivo i laici, e anche i non credenti, festeggiano il Natale? Quale è il significato che essi assegnano a questa festività che ricorda, e celebra, l’Incarnazione (insieme alla Resurrezione il centro costitutivo della religione cristiana)?
Vorrei cercare di rispondere a queste domande da storico della filosofia, sostenendo queste tesi: l’Incarnazione è una base essenziale della concezione della storia umana come storia della libertà; è il fondamento di una visione dell’uomo quale principio di libertà e di responsabilità; con essa inizia a svolgersi, in termini nuovi, il principio dell’eguaglianza e di un comune destino come predicato originario dell’umanità.
Alla base di questa visione che fonda una concezione integralmente nuova della storia e dei fini che in essa l’uomo si propone stanno due motivi essenziali: la «conciliazione» di umano e di divino, che si realizza nella figura di Cristo; il mutamento radicale, rispetto alla filosofia greca, nel rapporto tra Dio e uomo e, di conseguenza, tra uomo e Dio. Vediamoli entrambi cominciando dal primo.
«La certezza dell’unità di Dio e dell’uomo è il concetto di Cristo, dell’Uomo-Dio. Cristo è apparso,un uomo che è Dio e un Dio che è uomo; da ciò il mondo ha avuto pace e conciliazione». Così scrive Hegel nelle Lezioni di storia della filosofia, illuminando il significato della Incarnazione e della figura di Cristo nella storia del pensiero e in quella del mondo.
Questa posizione è il punto di approdo di un lungo travaglio che attraversa fin dalle origini anche la filosofia moderna. Esso concerne precisamente la possibilità della «conciliazione» fra umano e divino di cui parla Hegel: come è possibile che finito e infinito, uomo e Dio, possano «conciliarsi» nella figura di Cristo? Se è incommensurabile la distanza tra l’uno e l’altro, la figura di Cristo si rivela come una sorta di creatura mostruosa una specie di centauro senza alcun fondamento filosofico e teologico. Infatti il rapporto tra divinità e umanità potrebbe darsi solo in termini di «assistenza» della prima alla seconda; non di «inerenza», inconcepibile sia dal punto di vista filosofico che teologico.
Queste sono posizioni di pensatori radicalmente estranei al cristianesimo; ma anche un grande cristiano e un profondo pensatore come Pascal esclude, da un punto di vista filosofico, la «conciliazione» di umano e di divino: solo la verità del Vangelo, osserva, «concilia la contrarietà con un’arte affatto divina e ne fa una saggezza veramente celeste in cui si conciliano quegli opposti, incompatibili in quelle dottrine umane». Come egli stesso precisa subito dopo, questa è però teologia, non filosofia.
La forza e la grandezza della posizione di Hegel sta precisamente nel porre in termini filosofici la «conciliazione» di umano e di divino, interpretando a questa luce la figura di Cristo e l’Incarnazione. Lo fa perché elabora una nuova teoria degli «opposti» risolvendo il problema di fronte al quale Pascal si era fermato, abbandonando il campo filosofico per quello teologico.
A differenza di Pascal il quale aveva respinto drasticamente la possibilità che gli «opposti» fossero «nel medesimo soggetto» Hegel «concilia» umano e divino nella figura di Cristo, stabilendo le basi della concezione della storia come storia della libertà. E strappando, con Lutero, Cristo alla tomba in cui l’avevano cercato i crociati, lo pone nella interiorità dell’uomo, nella spiritualità che si «acquista solo nella conciliazione con Dio, nella fede e nella partecipazione». Quella cristiana è perciò una «dottrina della libertà» individuale, fondamento di una nuova concezione dell’uomo e della storia, di cui l’Incarnazione e la figura di Cristo sono fondamento essenziale.
È un’acquisizione filosofica decisiva dalla quale non sarà più possibile tornare indietro, e che il pensiero laico farà sua nei suoi esponenti più alti e significativi. Si potrà discutere dei caratteri della libertà, ma che essa sia il principio della storia umana e che il cristianesimo abbia svolto una funzione essenziale questo è ormai un dato acquisito.
E veniamo ora al secondo elemento. L’Incarnazione e la figura di Cristo generano un altro «principio» filosofico essenziale anche per un laico, consistente nel mutamento radicale, rispetto al pensiero greco, del rapporto tra Dio e l’uomo.
Lo ha detto in pagine molto belle Max Scheler: mentre la concezione greca presenta un uomo che si sforza di salire verso Dio, il cristianesimo con la figura di Cristo rovescia questo punto di vista, presentando un Dio che discendendo verso tutti gli uomini, accoglie con un gesto di amore totale l’intera umanità. Nella concezione cristiana si attua perciò un vero e proprio «rivolgimento dell’amore»: «il nobile si abbassa all’ignobile, il sano all’ammalato, il messia ai pubblicani ai peccatori e questo senza la paura antica di diventare meno nobili ma nella più strana convinzione di guadagnare l’eccelso, di divenire simili a Dio».
Un motivo assai intenso, svolto con efficacia anche da Barth: «L’uomo può dirsi senza Dio, può sentirsi ateo, ma Dio non può dirsi senza l’uomo perché Dio non è più senza l’uomo, rimane abbracciato, così coinvolto con l’umanità da appartenere ad essa». Quello cristiano è un Dio che, coprendo ogni persona con la sua luce e il suo calore, pone le basi di quel principio di solidarietà e di eguaglianza tra tutte le creature che diventerà poi un principio essenziale della filosofia e del pensiero politico moderni.
In conclusione: libertà, responsabilità, eguaglianza sono tutti concetti che hanno a che fare con l’esperienza cristiana e con la dottrina della Incarnazione, e perciò con il Natale. Sarebbe stolto negarlo o occultarlo; come sarebbe sciocco trascurare l’originalità e la creatività con cui il pensiero laico ha ripensato e sviluppato queste radici. La nostra comune civiltà nasce e fiorisce da semi differenti: ieri come oggi il nostro compito è riconoscerli e riaffermarli nella loro autonomia e specificità.
La fede cristiana si sviluppa intorno a un’idea di salvezza che è pienezza di umanità, nel mondo e col mondo.
La storia del Logos ne è paradigma
Un bimbo il Dio che rischia non è solo spirito
Il Natale è una memoria coinvolgente e pericolosa
Il cristianesimo non è una «religione civile»
È la compromissione radicale del divino con la storia dell’umanità che spinge i cristiani alla passione per la giustizia
di Serena Noceti (l’Unità, 24.12.2012)
In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Lo gos era Dio... E il Logos divenne carne». Con la loro incisiva lapidarietà queste parole del Quarto Vangelo, che vengono proclamate nelle chiese ogni anno nella liturgia del Natale, consegnano a una prospettiva essenziale, davanti al profluvio di parole sulla solidarietà, la condivisione, la bontà con cui si offre la reinterpretazione del Natale in una società ormai secolarizzata e post-cristiana, ma sempre segnata nei tempi del vivere collettivo dalla sua tradizionale storia cattolica.
Sono parole che sintetizzano la coscienza di fede cristiana sulla ineliminabile relazione di Dio con il mondo, sulla sua compromissione radicale con la storia dell’umanità, e insieme vogliono esprimere una parola significativa sull’umano, a partire dalla concreta vicenda di Gesù di Nazareth.
Le parole del Vangelo di Giovanni sono parole che possono raggiungere nella loro paradossalità anche gli uomini e le donne credenti e non abitatori di questa tarda modernità, perché parlano di «divenire» e di «carne», di un definitivo (che non è l’assoluto) nel frammento di un esistenza singolare e limitata; perché hanno la capacità di interpellarci attraverso il tempo a riconsiderare in modo nuovo la nostra stessa storicità, dischiudendone orizzonti di senso e di resistente speranza. Quando la Bibbia ricorre al termine «carne», infatti, esprime l’essere umano integrale visto nella sua fragilità, nella debolezza, nella mortalità, nello stare in una rete di relazioni che qualificano l’identità singolare e nell’essere determinato e «de-finito» dallo spazio e dal tempo.
La fede cristiana si sviluppa intorno a un’idea di salvezza che è pienezza dell’umanità, nel mondo e con il mondo, di cui la storia del Logos incarnato è fondamento e paradigma. La progressiva tecnicizzazione del mondo e della vita, lo sviluppo rapido dei sistemi di comunicazione e di trasporto, l’evoluzione dei sistemi sociali stanno modificando in maniera sostanziale proprio la nostra percezione dello spazio e del tempo. «Com-presenti» al mondo intero e segnati da un egemonico presente che sembra presentarsi a noi già compiuto, pronto per essere consumato e abbandonato per fare spazio non al futuro, ma a nuovi presenti, siamo affascinati da una «possibile onnipotenza» e insieme sperimentiamo un inedito dis-orientamento: abbiamo smarrito il senso del tempo, di una storia collettiva che goda di radici che custodiscono identità in divenire, di una progettualità di futuro capace di una speranza che orienti le prassi dell’oggi.
L’annuncio cristiano ha al centro non una verità a-storica su Dio, ma la paradossale affermazione che mediatore di salvezza per l’umanità intera è l’uomo Gesù Cristo, nella singolarità della sua vicenda umana, data nello spazio e nel tempo: una biografia segnata dalla parzialità come ogni altra esistenza umana (a iniziare da quella di sesso), ma capace di interpretare
il «qui ed ora» nella permanente dinamica trasformativa del futuro. Davanti a quella volontà di potenza che ci fa perdere di vista la nostra condizione di fragilità il cristianesimo proclama non una verità a-storica sul divino e sulla trascendenza, ma il volto di Gesù di Nazareth. Nel Natale ricorda che, se contraddistingue l’umano (e il divino) lottare per ridurre ogni fragilità e vincere ogni alienazione, è proprio della maturità umana la coscienza che individuazione del senso, esercizio di libertà, crescita autentica sono connessi con il limite e il determinato.
Non «semplicemente» il «farsi uomo» di Dio, ma il «farsi carne» (sarx), lo sperimentarsi nella condizione spazio-temporale e nella storicità di un divenire libero e responsabile, per una salvezza che passa dall’impotenza della sarx di Gesù e quindi non impone, non vincola, ma si propone alla libertà di ognuno. È una proposta di fede che chiede di superare ogni concezione di un Dio «a-patico» e immutabile e ogni comprensione della verità che sia a-storicamente pensata, per aprirsi a una rivelazione di Dio nella storia e come storia, che comporta interpretazione e coscienza del relativo. Al di là del pittoresco e dell’aurea di innocente candore veicolata dai nostri presepi, il Natale è una memoria coinvolgente e pericolosa perché costringe ad abbandonare un’idea infantile di salvatore che, quale onnipotente e deresponsabilizzante Deus ex machina sceso nei contesti dolorosi della vita in cui si è sperimentato il limite del nostro possibile, viene a liberarci dalla finitudine dell’umano e dal rischio della libertà.
Fin dall’inizio del cristianesimo si è vigilato per mantenere la verità della «carne» di Gesù davanti alle ricorrenti tentazioni gnostiche, alle riduzioni spiritualizzanti o etiche della fede, al concentrarsi sulla natura divina di Cristo a detrimento della concretezza della sua persona umana. Anche oggi, in un tempo in cui è sempre più evidente la tentazione di risolvere l’esperienza cristiana nell’interiorità o in una spiritualità dedita a un sacro che semplifica e rifugge dalla complessità del mondo, mentre molti tentano di ri-ascrivere il cristianesimo a un destino di civil religion, la memoria del «Natale nella carne» si pone come interruzione necessaria per i cristiani affinché ritornino a declinare un annuncio significativo per tutti, perché ancorato all’effettività corporea di Gesù quale luogo dell’esserci di Dio, capace di ridisegnare il pensiero sull’umano e sul divino.
Amnesie vaticane per brutti alleati
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2012)
Ora che Berlusconi è diventato ufficialmente cattivo, perché i vertici ecclesiastici hanno trovato il Monty-Party da caldeggiare, una singolare amnesia coglie i vessilliferi del cattolicesimo istituzionale. Con la minacciosa impudenza di sempre Berlusconi ricordava l’altro giorno le sue benemerenze nei confronti di Chiesa e Vaticano. Non aveva bisogno di elencarle.
Sono tante, sono agli atti: le norme imbroglione per non fare pagare l’Ici agli enti ecclesiastici con attività commerciale, i finanziamenti alle scuole, i finanziamenti a pioggia a opere confessionali varie anche prelevando le somme che i cittadini con l’8 per mille avevano destinato espressamente a “iniziative umanitarie statali”, l’appoggio alla campagna astensionistica del cardinal Ruini per sabotare il referendum sulla procreazione artificiale, il blocco ad una legge sull’omofobia, l’adesione al Family Day per impedire una legge sulle coppie di fatto, il catenaccio contro una legge sul testamento biologico che garantisca l’autodeterminazione del paziente, il tentativo di sovvertire con un decreto legge la sentenza del tribunale che autorizzava il padre di Eluana a lasciarla spegnersi in pace, la pressione in Europa per rovesciare la sentenza della corte di Strasburgo che sanciva la non sostenibilità di una presenza monopolistica di un simbolo religioso (vedi crocifisso) nelle aule scolastiche.
“AUSPICO - ha detto il Caimano - che i si ricordi tutto quello che abbiamo fatto per la Chiesa”. I cittadini ricordano... Ma l’Avvenire, stizzito, ha reagito con un corsivetto del direttore, in cui si accusa B. di muoversi “con poco garbo e nessuna eleganza” e di ignorare che i cattolici sono “gente che è piuttosto difficile incantare con stentoree o suadenti propagande”.
Dice il giornale dei vescovi che l’elettorato sa valutare con “saldi criteri civili e morali.... (sia i programmi che) i profili politici e personali” di chi vuole governare l’Italia. Un tono davvero sferzante, sintomo del nuovo corso chiesastico.
Giorni fa l’Avvenire rimarcava anche il “fallimento” del governo Berlusconi e la Tv dei vescovi gli accreditava un comportamento politico “miope e meschino”. Peccato soltanto che una grande amnesia avvolga il fervido appoggio a Berlusconi di Chiesa e Vaticano per un intero ventennio. Sì, si possono ripescare dagli archivi singoli interventi critici, che di quando in quando hanno rotto i grandi silenzi di complicità con il governo del Caimano. Si possono anche citare gli ultimi duri interventi (cinque) dell’era Boffo, poi lasciato massacrare dal Giornale di Feltri. “Lasciato” massacrare, perché poche settimane dopo all’aeroporto di Ciampino (26 settembre 2009) il Papa salutava cordialmente il patrono della decapitazione dell’allora direttore di Avvenire, esclamando: “Che piacere rivederla”. C’è stata anche qualche bacchettata della Cei nel corso post-ruiniano.
Piccoli lampi nella grande nube di silente sostegno alle follie rovinose del governo berlusconiano. Non si è sentita la voce della Chiesa tra gli oppositori, quando il Caimano anno dopo anno ha scardinato il sistema giuridico. Non si è sentita quando ha falsato la legge sul bilancio e si è aggiustato i processi a colpi di deformazioni di legge. Non si è sentita quando la magistratura è stata sistematicamente delegittimata. Anzi, il ruinismo allora ha rispolverato una comoda versione degli opposti estremismi, evocando un’inesistente guerra tra giudici e politica che in nessun Paese occidentale è mai stata citata (tra gli ultimi casi, l’esemplare atteggiamento di Israele dove è possibile processare senza turbative e senza “legittimi impedimenti” un capo di stato o un ministro degli esteri). Non si è sentita, peraltro, nemmeno la voce laica di molti odierni rinnovatori.
GLI ITALIANI ricordano invece le esortazioni di mons. Fisichella a “contestualizzare” le bestemmie. Gli italiani ricordano la volonterosa partecipazione del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone ad una cena organizzata in casa di Vespa per sponsorizzare il riavvicinamento tra Casini e Berlusconi. Ricordano le pressioni del cardinal Ruini perché continuasse l’alleanza tra l’Udc e il Pdl dell’allora premier, oggi diventato improvvisamente impresentabile.
Gli italiani ricordano anche il grande assist della Chiesa a B. alla vigilia del voto di sfiducia del 14 dicembre 2010 (quando Fini e il neonato Fli, si ribellarono). La scena si svolse ad un ricevimento nell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. “Da parte mia non verrà mai nulla contro il Vaticano”, scandì Berlusconi. Il suo governo, replicò Bertone perché il messaggio fosse sentito ben bene su tutti i media, “va ringraziato per aver svolto un’azione che ha tenuto in gran conto le istanze della Chiesa, in un contesto di relazioni pacificate”.
“Memoria ottima”, titolava l’Avvenire ieri. Si vede che i saldi criteri di giudizio funzionano a intermittenza. Facile oggi dire che Monti ha salvato l’Italia dal “baratro”. Tra gli oppositori di chi trascinava l’Italia verso la rovina, in quegli anni i grandi prelati non c’erano. Signori, capaci di indignarsi al momento giusto, si nasce (direbbe Totò). Certe pensose figure, adesso veloci a ripudiare il Caimano, non lo nacquero
Benigni riparte da Silvio
"È tornato: Signore, pietà"
di ALESSANDRA VITALI *
ROMA - Neanche cinque minuti e già pronuncia la parola "Silvio". Benigni entra in scena come d’abitudine sulle note di Il partito del pinzimonio, la marcetta di Nicola Piovani, gioca con i ringraziamenti, il pubblico, la Rai, Napolitano "che ha telefonato al Papa che mi ha detto di ringraziare nostro Signore, e invece pure lui mi ha detto che dovevo ringraziare qualcuno di più importante: grazie, Silvio". L’avevamo lasciato un anno fa con Berlusconi - nello show di Fiorello #ilpiùgrandespettacolo, quando definì quelle dell’allora premier "le più belle dimissioni degli ultimi 150 anni" - e da Berlusconi riparte. "Due brutte notizie in questo mese, una è la fine del mondo, l’altra è terrificante: s’è ripresentato, è la sesta volta. Ma ha detto che la settima si riposa. È come i sequel dei film dell’orrore, lo Squalo 6, la Mummia, Godzilla contro Bersani...". Poi arriva al cuore della storia: "I nemici della Costituzione sono l’indifferenza alla politica che è amore per la vita, e il non voto. Non ti tirare fuori, se ti tiri fuori è terribile, dai il potere alla folla che sceglie sempre Barabba".
È La più bella del mondo, atteso ritorno di Benigni in tv, celebrazione della Carta preceduta da una visita al Colle dove Napolitano gli ha consegnato proprio una copia della Costituzione. Per lo show costi da kolossal tv, quasi - pare - sei milioni di euro nei quali rientrerebbero anche le 12 puntate di Tutto Dante previste su RaiUno in primavera. Quanto agli ascolti, fanno fede i precedenti: da Fiorello picco di 16 milioni di spettatori e oltre il 50% di share; a Sanremo, per il 150esimo dell’Unità d’Italia, è entrato all’Ariston su un cavallo bianco e è uscito con picchi del 60%; il 35,68% di Il V dell’Inferno, su RaiUno nel novembre 2007, il 46% di L’ultimo del Paradiso, su RaiUno nel dicembre 2002.
Nel Teatro 5 di Cinecittà Benigni ha davanti cinquecento invitati (moltissimi giovani, niente vip, solo i vertici Rai). Schema collaudato, un monologo sull’attualità poi l’esegesi dei princìpi fondamentali, i primi dodici articoli. L’inizio è tutto per Berlusconi. "Oggi è uscito da Palazzo Grazioli, c’era la folla, metà fischiava e metà applaudiva quelli che fischiavano. E quello che ha scritto la stampa estera...".
"L’avete visto a Canale 5? Credevo che fosse un’intervista del ’94, diceva che doveva salvare l’Italia dai comunisti, vi levo l’Ici, vi levo l’Imu, pensavo ’ma guarda nel ’94 la gente come ci cascava’. Ora ha una nuova fidanzata, una sola: è bello vedere che sta cercando di smettere". "Silvio ha un sogno, vuol diventare presidente della Repubblica, in tutti i luoghi pubblici ci sarebbe una sua foto, sarebbe l’unico modo di vederlo in una caserma dei carabinieri". "Ha detto che se Monti si candida lui fa un passo indietro e allora Mario, facci questo favore, poi magari dopo due giorni smentisci, come fa lui".
Risate e applausi e si passa al tema della serata. "Nella Costituzione - dice - c’è la strada per risolvere tutti i problemi, si proclama la dignità umana. È la nostra mamma, ci protegge da qualsiasi cosa". Si schiera dalla parte della politica, "l’indifferenza è un grave errore, io vi dico di amare più che rispettare la politica, è la cosa più alta per organizzare la pace, la serenità e il lavoro. Non avere interesse per la politica è come dire di non avere interesse per la vita". C’è il ricordo dei padri costituenti e dei padri della patria, i nomi, le persone, "autore di passaggi fondamentali della Costituzione è stato un pugliese di 29 anni, Aldo Moro". Applausi quando pronuncia la parola "partigiani". L’articolo 3, che prescrive l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge senza senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali, "l’hanno scritto a Woodstock, è Imagine di John Lennon trent’anni prima. Me li immagino a Montecitorio, come fricchettoni, che si passano il cannone...".
Insiste sull’articolo 4, "se non c’è il lavoro crolla tutto, la Repubblica e la democrazia che sono il corpo e l’anima delle nostre istituzioni. Quando non c’è lavoro perdiamo tutti perché quando lavoriamo modifichiamo noi stessi, è quella la grandezza del lavoro. Nella busta paga troviamo noi stessi: quella paga non è avere, è essere". Sottolinea i verbi degli articoli, laddove la Costituzione "riconosce", "garantisce", "promuove", "tutela", "sentite come suona forte e delicato". All’articolo 6 non trattiene la battuta, "la Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche: è fatta apposta per Di Pietro".
Vola alto all’articolo 7, Chiesa e Stato, "fu Gesù Cristo, il primo laico, a dire date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio". All’articolo 9, "la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione", cita la sindrome di Stendhal "che arrivò a Firenze e svenne per tanta bellezza. Noi abbiamo avuto la sindrome di Bondi: invece di svenire l’uomo, venivano giù i monumenti". Si arriva all’articolo 11, "l’Italia ripudia la guerra". "È l’unico che comincia con ’l’Italia’, non con ’la Repubblica’: perché sia chiaro che tutti, anche i conigli d’Italia, ripudiano la guerra. ’Ripudia’, un no definitivo, perché la guerra deforma la gente. Nessuna guerra ha mai prodotto un beneficio maggiore del dolore che ha provocato". "Sentite: ’promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo’: è un confronto di sogni, sembra che ci dicano che l’Italia come patria non ci basta, bisogna diventare mondo, rimanendo italiani. È grazie ad articoli come questi, che in Europa c’è la pace da sessant’anni. L’idea dell’Unione europea è un sogno. Noi, prima generazione della storia del mondo, stiamo unendo un continente in pace. Non bisogna chiudersi nel proprio guscio, i nostri costituenti ci dicono di non tornare indietro, di mantenere la nostre radici ma non che sprofondino nel buio della Storia ma che vadano in su, come mani che si stringono".
Il lungo excursus si conclude con l’articolo 12, il tricolore. E con un monito. "Tutto questo, noi lo abbiamo ereditato. Ma per farlo davvero nostro, lo dobbiamo conquistare. Qui ci sono le regole per vivere tutti insieme, in pace, lavorando. Dico una cosa - continua Benigni - che solo un Papa o un buffone possono dire: domattina dite ai vostri figli che sta per cominciare un giorno che prima di loro non ha mai vissuto nessuno, ditegli di andare a testa alta, di essere orgogliosi di appartenere a un popolo che ha scritto queste cose fra i primi nel mondo. E che abbiano fiducia e speranza". Il saluto è sulle note di Beautiful that way di Piovani, dal tema principale di La vita è bella, che Benigni canta nella versione italiana. Parole di pace che l’israeliana Noa ha cantato in tutto il mondo e con le quali Benigni saluta e abbraccia il pubblico in piedi e augura buon Natale. E si commuove.
* la Repubblica, 17 dicembre 2012
Le domande scomode di Scoppola al Pd
di Beppe Tognon, Presidente della Fondazione trentina Alcide De Gasperi *
LA POLITICA ITALIANA È AD UN BIVIO IMPORTANTE: DOVE SONO I CATTOLICI? SOCCOMBERANNO ANCHE LORO SOTTO IL FALLIMENTO DEI PROGETTI POLITICI avviati vent’anni fa o sapranno svilupparne alcuni su basi nuove? La scelta è importante oggi soprattutto per la sinistra: se riprenderà la guida del governo non può far finta di non vedere che ciò avverrà senza un grande progetto e soprattutto con un Pd in crisi di identità.
Lo spettacolo di una classe dirigente italiana che ha sostanzialmente fallito, non soltanto in Parlamento, sarebbe meno preoccupante se almeno il Pd fosse stato messo in sicurezza sui binari di una prospettiva politica solida, con una vita democratica interna sana e con una selezione attenta del gruppo dirigente. Se così fosse stato, le primarie per la guida del governo avrebbero avuto il senso di un congresso preparato dentro il partito e celebrato tra i cittadini e non come invece saranno di un congresso sulla fine del partito, conferma imponente ma impotente della sua inconsistenza. Se vince Bersani il partito sarà il puntello di un governo di coalizione fragile; se vince Renzi invece questo Pd non potrà esistere più e non è tuttavia chiaro che cosa diventerà.
Nel Pd sale la corrente di chi non vuole vedere la crisi del progetto socialdemocratico e «salta» Monti che in questo momento rappresenta la dura realtà del Paese sognando una discontinuità che per i vincoli internazionali e per la situazione economica non potrà esserci. Fuori dal Pd sale la corrente di chi invece vuole, dietro Monti, mandare in soffitta il bipolarismo ma non spiega come si possa governare il Paese senza grandi partiti. Questa corrente, ancora magmatica, dice che i vecchi partiti sono morti, ma non presenta alternative degne di nota. Spera in sostanza di lucrare dalla disgregazione della destra. Una situazione politicamente interessante, ma molto ambigua, perché Monti, che in realtà è l’emblema di una politica obbligata diventa in questi mesi il pretesto per coprire il fallimento di un ventennio di transizione e di tutte le famiglie politiche, anche dei cattolici.
In un Paese normale la fine di un governo di emergenza segnerebbe l’avvento di una nuova stagione, come fu dopo la Liberazione, e come fu tentato dopo Mani pulite, con l’emergere di personalità politiche che a capo di partiti popolari si assumono la responsabilità di aprire una fase nuova. È stato il caso di De Gasperi che solo dopo essersi imposto come capo della Dc si impose come capo dei governi della ricostruzione.
La domanda allora è molto semplice: la nuova leadership politica italiana può sorgere dall’attuale governo? Avrà come orizzonte la costruzione di una grande sinistra? O invece aprirà le porte alla ricomposizione di un nuovo soggetto di centro destra? Può Monti o un altro più forte di lui ripetere sulla sinistra l’operazione che fece De Gasperi nel riunire tutti i moderati intorno alla Dc? Può Monti riuscire dove non riuscì Prodi che rinunciò alla fatica di dotarsi di una sua forza politica?
Rispondere a queste domande significa riprendere i ragionamenti di maestri come Pietro Scoppola, scomparso proprio 5 anni fa quando fu battezzato il Pd, per la cui nascita si era speso con generosità, preoccupato già allora per la mancanza di rigore democratico. Scoppola, che sognava il «partito nuovo» liberato da ogni pretesa gramsciana di egemonia e dotato di un’anima quasi rosminiana di serena accettazione della realtà accompagnata da grande intransigenza nel rispetto della coscienza morale dei cittadini fu lo storico che ha saputo spiegare De Gasperi ai suoi successori democristiani, ma anche ai comunisti e ai molti intellettuali che avevano liquidato il decennio del centrismo come una esperienza «obbligata» e politicamente poco interessante o addirittura reazionaria.
Anche per merito della rilettura di Pietro Scoppola, noi sappiamo che nelle corde di De Gasperi c’era una fortissima tensione ideale ma non c’era la pretesa di dare al popolo italiano, anziché sicurezza, benessere e pace, come fece, una visione della storia e una collocazione internazionale diversa da quella che la nazione aveva meritato o poteva permettersi. Non c’erano tentazioni presidenzialiste ma nemmeno cedimenti al tatticismo. Non fu sconfitto dalla Storia, ma dal suo partito.
Quali sono oggi le risorse, i volti, che i cattolici italiani possono offrire ad una ricostruzione complessiva del quadro democratico del Paese? Più che dei «resti» cattolici che vogliono riunirsi per il momento intorno a Monti sarebbe bene parlare dei cattolici in tutti i partiti, e in particolare nel Pd che sarà il perno del futuro governo.
Che cosa fanno per dare voce alle attese dei credenti? Il papato è saldo, scriveva Scoppola, ma le chiese sono vuote; Cristo parla al cuore degli uomini, ma la Chiesa sembra parlarsi addosso, notava il cardinale Martini. Occorre aiutarla. Con il Concilio i cattolici hanno ridefinito la loro laicità politica e proprio perché non possono più nascondersi semplicemente dietro la fede devono prendersi a cuore le questioni meno amate dai potenti e più difficili da risolvere.
Nell’imminenza di una campagna elettorale importante, invece di riunirsi a discutere in astratto sull’impegno politico, avrebbero l’opportunità di trovare prima delle elezioni una posizione chiara almeno su tre questioni: sulla legge elettorale per riqualificare la Rappresentanza politica (e non invece manovrare per far sì che dalle elezioni non esca un vincitore); sulla politica fiscale per responsabilizzare il Tesoro e l’ Amministrazione (non le banche o le imprese che devono fare profitti) su obiettivi sociali veri; sulla Formazione, per dimostrare che l’istruzione e i beni culturali sono il fondamento delle libertà future e dell’unità del paese.
Valga come programma politico di base il rovesciamento della terribile regola dei due terzi: i due terzi della società che insieme hanno meno del terzo dominante siano serviti dal governo e dalle leggi come se valessero tre terzi. Il potere del terzo dominante, determinato dalle logiche sempre più dure del mercato, che non sono da demonizzare, non verrebbe rovesciato ma controbilanciato da quel principio antico della democrazia che dice che le leggi e gli atti di governo sono il volante e non le ruote del corpo sociale.
I politici che si rifanno a De Gasperi o a Moro non possono farsi riconoscere soltanto per essere dei tattici, abili a sfruttare la scia degli eventi e a unirsi o a dividersi sull’onda del momento dietro a questo o quel capo, per sopravvivere o saltare le tappe di una carriera, ma dovrebbero essere i più esigenti e i più trasparenti tra i politici italiani. Più che di una coalizione che vince, e poi si vedrà, c’è bisogno che i cattolici che si assumeranno la responsabilità di governare dicano in che modello di democrazia credono e se ritengono di rimanere fedeli alla Costituzione repubblicana.
* l’Unità, 29.10.2012
Un «patto» per un Paese davvero civile
di Vittoria Franco (l’Unità, 26.11.2012)
QUEST’ANNO SIAMO ARRIVATI ALL’APPUNTAMENTO CON IL 25 NOVEMBRE, GIORNATA INTERNAZIONE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE, CON IL PESO DI 113 FEMMINICIDI DALL’INIZIO DEL 2012. Un peso insostenibile e un dramma intollerabile per un Paese civile. Le azioni possibili per affrontare e combattere questo fenomeno sono molte, e noi donne del Pd le elenchiamo spesso: ratificare subito la Convenzione di Istanbul contro la violenza domestica e sulle donne, investire sui centri antiviolenza, fare prevenzione, approvare le nostre proposte, da tempo depositate in Parlamento, per realizzare tutto questo. Ma il cambiamento necessario è di natura culturale, ne siamo consapevoli. Le donne italiane, con il loro traguardo di un peso specifico sempre più alto nella società, fondato sul successo nella scolarizzazione e nelle professioni e sulla fatica di interpretare sempre il welfare complementare, stanno mettendo in discussione l’ordine costituito, ma senza reale riconoscimento della loro dignità, del loro valore e del loro potere.
È per questo che serve un «patto» per un nuovo mondo comune. Patto fra uomini e donne che sono e si considerano pari. Un nuovo orizzonte anche per costruire un esito positivo della crisi economica. A differenza del contratto classico, il patto per un nuovo mondo comune viene stipulato espressamente fra donne e uomini e indica un orizzonte di conquiste da realizzare su un terreno diverso rispetto al passato, perché presuppone il contesto di una nuova cultura della convivenza, basata sull’eguale riconoscimento reciproco di libertà e dignità.
Patto per che cosa? Per condividere il potere in ogni settore di attività: nella rappresentanza istituzionale, sul mercato del lavoro e nelle carriere; per affermare una rappresentanza eguale nei luoghi in cui si assumono le decisioni; per condividere il lavoro di cura e la genitorialità, per realizzare la parità salariale. Insomma, per dare gambe e realtà al principio della democrazia paritaria. Tutto questo vuol dire ricontrattare i ruoli, scardinare la dicotomia tra sfera pubblica e sfera privata che si è creata all’origine dello Stato moderno e che si definisce in base a ruoli predefiniti dei due generi.
Noi stiamo mettendo in discussione questo racconto archetipico per costruire una nuova storia, che racconta di un processo di democratizzazione nel quale l’uomo e la donna divengono «cofondatori» della cittadinanza universale stringendo un patto di non discriminazione, fondato sulla valorizzazione e il rispetto delle persone, delle competenze, del saper fare. Patto vuol dire allora, ad esempio, che il rispetto del corpo femminile entra nel lessico e nell’educazione. Patto significa che le donne cedono più spazio agli uomini per la cura familiare e gli uomini più spazio pubblico alle donne (e i congedi paterni obbligatori della legge Fornero, anche se da estendere, vanno in questa direzione). Insomma, il patto va insieme con la giustizia di genere e non solo più con la giustizia sociale. Cominciamo a parlarne.
Povera Chiesa in povero Stato
di Giovanni Valentini (la Repubblica, 08.09.2012)
Non s’era ancora spenta la commozione per la scomparsa di monsignor Martini, padre spirituale del cattolicesimo progressista e pastore di una Chiesa moderna, che s’è riaccesa la polemica sul regime fiscale degli immobili ecclesiastici su cui il governo ha buttato subito acqua sul fuoco. Forse l’accostamento tra i due eventi può apparire inopportuno o irriguardoso, mentre la figura dell’ex arcivescovo di Milano - uomo del dialogo e grande comunicatore - merita certamente rispetto anche da parte dei laici. Ma sul piano mediatico la coincidenza ripropone la questione del rapporto fra il potere temporale e il potere spirituale della Chiesa, all’origine della “diversità” culturale di Martini all’interno della gerarchia ecclesiastica. E quindi, il problema storico delle relazioni fra lo Stato italiano e il Vaticano.
Pochi giorni dopo essere stato nominato cardinale, il 6 febbraio del 1983 Carlo Maria Martini aveva fatto precedere il ritorno a Milano da due tappe significative. In mattina a Rho, nel santuario dei padri oblati diocesani, scelto come “luogo di preghiera”, aveva ricevuto la delegazione delle autorità cittadine, offrendo loro vino da messa in un incontro all’insegna della semplicità. Nel pomeriggio, era andato in visita all’istituto per handicappati “Sacra Famiglia” di Cesano Boscone, scelto come “luogo di sofferenza”. “Vorrei che questi punti di partenza fossero un simbolo”, spiegò lui stesso dal palco allestito sul sagrato del Duomo, di fronte a una folla di fedeli che s’erano raccolti nella piazza mentre la cattedrale era già gremita.
Fu dopo la funzione religiosa, durante il ricevimento seguito nei saloni dell’arcivescovado, che la cerimonia d’insediamento si trasformò spontaneamente in un fatto di società, un’occasione d’incontro, aperta anche alla Milano laica delle istituzioni, delle professioni e degli affari, della cultura e del giornalismo. La processione degli invitati sfilò di sala in sala, fino all’ultima. E lì monsignor Martini, austero e imponente, ringraziò tutti ricambiando con un piccolo ricordo.
In una scatoletta rossa, consegnò a ciascuno degli ospiti una medaglia di bronzo con l’immagine di sant’Ambrogio da una parte e una scritta in latino dall’altra: “Pro veritate adversa diligere”, il motto scelto al momento dell’ordinazione ad arcivescovo. La frase completa, tratta da san Gregorio Magno, dopo “adversa diligere” aggiunge testualmente “et prospera formidando declinare”. Tutta intera, raccomanda saggiamente di amare le avversità ed essere cauti di fronte al successo, in nome della verità.
Ecco, se c’è una parola in cui si può riassumere il magistero di Martini è proprio questa: verità. E come raccontano i Vangeli, è quella su cui s’impernia la predicazione di Cristo in terra. Lo stesso profeta che scaccia i mercanti dal tempio, condanna i farisei come ipocriti, difende l’adultera dalla lapidazione. Autorità spirituale e potestà temporale, appunto. Prima dell’Unità d’Italia, “lo Stato della Chiesa - come osserva Domenico Fisichella nel volume citato all’inizio - taglia territorialmente in due, dall’Adriatico al Tirreno, la penisola. E questa è una delle ragioni essenziali del ritardo italiano nella edificazione del suo Stato nazionale”.
All’epoca del Risorgimento, fu poi Camillo Benso di Cavour a riprendere la celebre espressione “libera Chiesa in libero Stato”, esortando il Papa a separare il potere spirituale da quello temporale sui suoi possedimenti, in modo da favorire la convivenza fra Stato e Chiesa. Ma oggi, alla luce delle polemiche sull’Ici o sull’Imu, forse è arrivato il momento di mutuarla in “povera Chiesa in povero Stato”: per auspicare cioè una Chiesa che non rivendichi più privilegi e guarentigie nei confronti di uno Stato oppresso da un colossale debito pubblico e costretto perciò a imporre pesanti sacrifici ai suoi cittadini.
Fermo restando che hanno diritto all’esenzione gli edifici dedicati esclusivamente o prevalentemente al culto e al volontariato, gli immobili del Vaticano che invece producono reddito - palazzi, abitazioni, uffici, alberghi, scuole, ospedali, case di cura o cliniche per un gettito stimato in 600 milioni di euro - non possono più essere sottratti al controllo del fisco.
E non solo per un’elementare ragione di equità nei confronti di tutti gli altri contribuenti, pubblici o privati, quanto per salvaguardare la stessa autorità e credibilità della Chiesa verso i credenti e i non credenti. La Chiesa di Cristo, testimoniata da monsignor Martini, è una Chiesa povera, semplice, umile. Una Chiesa che, in linea con l’opera di purificazione avviata ora da Benedetto XVI, non ha nulla a che vedere con l’amministrazione dei patrimoni immobiliari, con gli affari della Banca vaticana e men che meno con il riciclaggio di denaro.
De Gasperi e Togliatti: l’intreccio di due radici
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 05.09.2012)
DECISIVO DIBATTITO QUELLO SU TOGLIATTI E DE GASPERI. E per nulla ozioso o passatista. Perciò ha fatto bene l’Unità ad aprirlo con Michele Prospero nell’anniversario della morte di Togliatti. Che cosa c’è in gioco? Non solo il giudizio storico sui due leader. Ma quello sull’identità del Pd, problema aperto. Visto che nel Pd confluisce l’eredità di entrambi.
In sintesi, De Gasperi incarnò un popolarismo di centro, aperto a sinistra. E perciò: interclassismo mobile e inclusivo nel leader trentino. Partecipativo. All’ombra dell’inevitabile ricostruzione capitalistica del dopoguerra (e dentro i blocchi geopolitici contrapposti).
Togliatti invece fu il nuovo Pci, gradualista e di massa, erede della tradizione socialista. In pratica il suo Pci fu l’avanguardia riformista del movimento operaio. E Togliatti il suo capo nazionale, con un forte legame con l’Urss, ma senza subalternità (di qui l’ambivalenza di quel Pci, fino allo strappo e al Pds).
Cosa significò tutto questo? Nent’altro che la costruzione, culturale e materiale, della democrazia italiana. Frutto precipuo di due spinte storiche contrapposte e convergenti: popolarismo e movimento operaio. Insomma al netto della guerra fredda e delle rispettive mitologie e lealtà internazionali Pci e Dc cofondarono la Repubblica. Raccogliendo sotto le loro bandiere il grosso del popolo italiano.
E questa è la storia passata. Ma il futuro? Il futuro, almeno per quel che riguarda il Pd, non può che partire dalle «radici», senza le quali cui non v’è prospettiva a venire. E le radici chiave restano due: movimento operaio e popolarismo. Oppure, se si preferisce, lavorismo e interclassismo partecipativo di cittadinanza. È dallo scontro e dall’incontro di queste due grandi correnti che dipende l’avvenire d’Italia, e quello del Pd. Scontro e incontro che deve produrre un grande partito di governo: vittorioso. Con un avversario comune: il neoconservatorismo liberale e populista.
di Giuseppe Anzani (Avvenire, 29 agosto 2012)
Nella vicenda di quella coppia italiana che si è rivolta alla Corte di Strasburgo lamentando di essere esclusa dalla procreazione assistita e dalla diagnosi preimpianto (la legge 40 ammette la provetta solo per le coppie sterili o infertili, e non consente la selezione embrionale) ci sono tanti elementi di sofferenza umana che ci stringono il cuore, (un figlio di cinque anni malato di fibrosi cistica, l’intenzione di un altro figlio, e la paura rinnovata perché i genitori sono portatori sani della malattia, e il desiderio che il nuovo bambino sia sano). Ma se a dare certezza preventiva del figlio sano lo si vuol generare in provetta, di solito a grappolo, e si fa diagnosi pre-impianto, in modo da scartare i malati e trasferire in grembo un solo sano, dentro la storia irrompe un’altra parola che non è più vita, ma una sorta di roulette della morte.
In Italia questo non si fa. Altrove si fa, in Europa, con esclusione di pochi Paesi. Una sezione della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha detto che la nostra legge limitativa della provetta e della diagnosi pre-impianto è contraria al principio di «rispetto della vita privata e familiare» e ha condannato il governo italiano a risarcire la coppia con 15mila euro. La sentenza non è definitiva, e in passato non sono mancati i casi in cui la Grande Chambre (il massimo livello di quella Corte) ha capovolto il verdetto. Ma gli argomenti usati dai giudici meritano sin d’ora grande attenzione, perché rivelano la deriva culturale e giuridica che si è andata formando negli anni recenti, in tema di vita nascente.
C’è una frase, su tutte, che sembra una base, e trafigge il pensiero: « La Cour observe d’abord que les notions d’’ embryon’ et d’’enfant’ ne doivent pas être confondues» (la Corte osserva prima di tutto che la nozione di ’embrione’ e di ’enfant’ non devono essere confuse). La sentenza è scritta solo in francese, enfant in francese è ’bambino’, enfant in francese è ’figlio’. L’embrione non è un bambino, allora, oppure l’embrione non è un figlio. La pietra angolare è qui, e se a Strasburgo siamo nel tempio dei ’diritti umani’ vuol dire che l’embrione non ha diritti di figlio, o non ha diritti di bambino, e insomma non ha diritti ’umani’, non se ne parla proprio, non se ne sente la ragione o il problema. È il ’volto cancellato’ del figlio d’uomo acceso dentro la provetta. Nella vita gli esami non finiscono mai: ma per il figlio in provetta gli esami ’cominciano prima’, prima che si decida se è ammesso a vivere o è congelato a morire. Naturalmente «nel rispetto della vita privata e familiare» (d’altri, non di lui).
È questa assenza di sguardo, cecità sulla vita generata, la convenzionale menzogna sulla vita umana fabbricata e tosto degradata forse a pre-vita o a vita preumana, ciò che distrugge il caposaldo dei diritti umani, l’uguaglianza. L’embrione non è bambino, e il maschio non è femmina, e il vecchio non è giovane, e il malato non è sano, e il nero non è bianco, e la nostra comune umanità grida e chiede basta differenze, grida che le differenze non contano, chiede l’abbraccio ’umano’ fra tutti gli umani. E su quel punto in cui la Corte ci dà una frustata bollandoci di incoerenza, perché la nostra legge sull’aborto permette di sopprimere un figlio malformato che ha già quasi 6 mesi, noi rispondiamo non col puntiglio correttivo che distingue le fattispecie legali, come pur sarebbe possibile (l’art. 6 della legge 194 dice «rischio di vita o salute»), ma col rossore che conosce le ipocrisie della prassi. Ma diciamo che l’incoerenza è inversa, diciamo che una falla nella nave del diritto alla vita andrebbe corretta, non fatta argomento per aprire spazio alla morte
La procreazione davvero responsabile
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 31.08.2012)
Il quotidiano Avvenire, con la consueta pesantezza di toni quando si tratta di diritti dell’embrione e di status della “vita nascente”, ha agitato lo spauracchio dell’eugenetica nel caso l’Italia adeguasse la legge 40 sulla fecondazione assistita per rispondere ai rilievi critici della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il ministro della Sanità si è subito accodato, senza un attimo di riflessione.
Tra l’accusa di omicidio e quella di pratiche eugenetiche sembra non ci siano soluzioni possibili - salvo la castità e la non procreazione - per chi, consapevole della potenzialità distruttiva dei propri geni, vuole evitare di generare figli destinati quasi subito a morte orribile e certa. Il fantasma di Mengele e dei suoi “esperimenti” nei campi di sterminio viene sovrapposto a quello di aspiranti genitori responsabili, che non vogliono un bambino perfetto, ma solo un bambino che abbia la possibilità di crescere. E non vogliono neppure accettare l’ipocrita, e fisicamente e psicologicamente costosa, scappatoia offerta dalla contraddittorietà delle leggi italiane. Mentre una vieta la diagnosi pre-impianto e la stessa fecondazione assistita ai portatori sani di malattie gravi che mettono a rischio i nascituri, un’altra consente l’aborto di feti che abbiano queste stesse malattie. È questa contraddittorietà ipocrita - per altro ampiamente nota al legislatore italiano, come ha ammesso lo stesso ministro della Salute - che è stata giudicata inaccettabile dalla Corte europea. Così come è stato giudicato inaccettabile che sia sottratta agli aspiranti genitori la decisione ultima rispetto alle condizioni in cui mettere al mondo un figlio, incluse le conoscenze necessarie per valutare ragionevolmente i pro e i contro.
L’idea che ci sia una responsabilità non solo verso i figli che si mettono al mondo, una volta nati, ma prima ancora rispetto alla stessa decisione di metterli al mondo è una conquista culturale relativamente recente. Implica che ci si interroghi non solo sullo spazio che si è in grado di fare nella propria vita al nuovo nato, ma sulle condizioni in cui, appunto, lo si mette al mondo. Condizioni materiali, sociali, relazionali, ma anche di possibilità ragionevoli di sopravvivenza e di protezione da sofferenze gravi durante il processo di crescita.
Come si può giudicare egoista o irresponsabile, o peggio ancora un epigono di Mengele, un genitore che vuole evitare non solo a sé lo strazio di perdere un bambino fortemente voluto, ma soprattutto a questo bambino di morire soffocato dalla propria incapacità a respirare (è il caso della fibrosi cistica)? Certo, come tutte le conoscenze, anche quella sulle caratteristiche sanitarie e il sesso degli embrioni può avere effetti perversi, non sulle norme in sé, ma sui comportamenti. Esattamente come già oggi l’amniocentesi può dare di fatto luogo ad aborti selettivi, non solo per motivi compassionevoli, come nel caso ricordato dalla Corte Europea, ma eugenetici, ed anche per sessismo culturale. È il caso degli aborti di embrioni di femmine in molti Paesi, e presso gruppi sociali, in cui la vita di una donna non conta nulla e una figlia femmina è percepita come una disgrazia.
La soluzione non è mantenere le persone nell’ignoranza. Abbandoni, uccisione di neonate femmine o disabili, maltrattamento di bambine, ragazze, donne fanno parte purtroppo della storia dell’umanità ben prima, e indipendentemente, dell’accesso alle conoscenze mediche sugli embrioni. Contrastare questi abusi richiede forme di controllo efficaci, ma anche mutamenti culturali profondi e una diversa distribuzione di risorse, non un aumento dell’ignoranza e dei vincoli alla assunzione di responsabilità da parte degli individui. Al contrario, questa responsabilità va coltivata e fatta maturare con tutti i mezzi possibili.
Per altro, la diagnosi pre-impianto, dato che avviene solo in caso di embrioni fecondati al di fuori dell’utero e di un rapporto sessuale, riguarda casi molto più circoscritti e individuabili dell’amniocentesi. Consentirla (dopo una sentenza di un tribunale italiano del 2009) a chi ricorre alla fecondazione assistita perché ha difficoltà a procreare per le vie “naturali”, e non a chi rischia di procreare bambini destinati a sofferenze e morte precoce certa, non risponde ad alcuna logica.
È troppo sperare che il ministro della Salute e il governo di cui fa parte, prima di decidere se ricorrere contro la sentenza della Corte europea, si interroghino su quanto di irrispettoso della vita umana e del senso di responsabilità individuale ci sia nella legge 40? Senza cedere ai ricatti morali più o meno ipocriti di chi agita lo spettro dell’eugenetica per nascondere la propria incapacità a rispettare la durezza dei dilemmi in cui si trovano molti aspiranti genitori e la delicatezza di quella scelta complessa, per nulla solo biologica, e comunque non di pertinenza dello Stato, che riguarda il generare un figlio.
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 31 luglio 2012)
Nella vita politica italiana la presenza del cattolicesimo è certamente diminuita, anche perché non c’è più un partito che rappresenti gli interessi dei cattolici. Una presenza diminuita , ma certamente forte, vistosa, forse anche talvolta ingombrante. Lo confermano alcuni interventi recenti, pesanti e discutibili. Penso alle reazioni cattoliche contro le aperture milanesi sul matrimonio. Penso alle ripercussioni, inevitabili anche in Italia, degli scandali vaticani che ormai hanno avuto echi in tutto il mondo. Penso anche a vicende e accuse che hanno coinvolto autorevoli esponenti cattolici come il presidente della regione Lombardia.
Che dire allora della presenza cattolica nella vita pubblica italiana? E quale è il rapporto fra la vita pubblica e quella strettamente religiosa dei cattolici? E’ difficile dirlo, anche perché si dovrebbe misurare la frequenza alla Messa domenicale, ai sacramenti, ai Battesimi, ai matrimoni religiosi etc..
Un dato chiaro è quello riguardo ai matrimoni: aumentano vistosamente i matrimoni civili, i divorzi, le unioni di fatto, le richieste di nuove nozze. Il cattolicesimo italiano, quindi, non può che sentirsi in crisi.
Nelle alte sfere non si parla, però, di crisi, né sembra che si realizzino forme di cure. L’impegno cattolico, al di là di quello immediato quotidiano, si realizza soprattutto nel campo dell’assistenza, dove c’è un grande bisogno e dove il cattolicesimo manifesta tradizionalmente grandi capacità e, bisogna aggiungere, dove il mondo laico è piuttosto insufficiente. I vecchi, i malati, i poveri rappresentano il grande campo di lavoro nel quale il mondo cattolico è più presente e spesso addirittura insostituibile.
Non è tanto in crisi, dunque, in Italia la presenza cattolica; è in crisi, piuttosto, quell’annuncio del «Regno di Dio» che il mondo cattolico dovrebbe proclamare e non riesce a diffondere con convinzione
La lezione di Dossetti riparte da Bologna
Lorenzo Stanzani regista e Mauro Bartoli produttore hanno realizzato un film su Giuseppe Dossetti, un racconto serio e sobrio, che a Bologna è stato presentato in piazza Maggiore. È stato un evento per la città.
di Luigi Pedrazzi (l’Unità, 29 luglio 2012)
A Bologna, d’estate, Cineteca e Comune, da molti anni realizzano gratuitamente per la popolazione la proiezione di film variamente importanti, ordinati in cicli detti «Sotto le stelle del Cinema», spesso ricostituiti in copie gradevolissime, se antichi e quasi perduti: o anche in cicli denominati «Cinema del presente».
Il film documentario su Dossetti è stato uno di questi, e la proiezione bolognese ha anticipato quella che si avrà presto in tv nella serie «La Storia siamo noi». Dossetti è una grande figura di italiano, ma il suo radicamento in Bologna, città e chiesa locale, ha prodotto una attenzione che è all’origine anche di libri e realtà come il film di Stanzani, prodotti ora anche da giovani che di fatto non hanno conosciuto Dossetti di persona, ma ne hanno incontrato il ricordo e lavorano per metterne a fuoco opera e figura, un po’ reagendo alle ambigue censure che, in settori della cultura politica e dell’opinione ecclesiale, preferiscono marginalizzarlo, avvertendo che attenzione e fedeltà a questo italiano, l’unico che è stato importante in due «eventi» come l’Assemblea costituente (1946-47) e il Concilio Vaticano II (1959-1965), e dopo anni vissuti in Terra Santa su una frontiera di confronti cruciali, ha giocato di nuovo un ruolo nazionale e pubblico nel fronteggiamento democratico ed etico che ha resistito nella stagione confusa, politica e culturale, del berlusconismo ora finalmene in definitivo declino.
Che si siano prodotti un film, serio e sobrio, come «Quanto resta della Notte?», e un libro breve ma preciso come quello scritto su Dossetti dal giovane sacerdote bolognese don Fabrizio Mandreoli, ora pubblicato dal Margine, piccolo ma coraggioso editore legato in qualche modo alla esperienza della «Rosa bianca» (largamente intervistato da Stanzani nel suo film), permettono di guardare alla vicenda di Dossetti come ad una pagina storica che chiede di servire nella nostra attualità non facile e sicuramente non così banale e volgare come può anche sembrarci, ma solo se guardiamo troppo in piccolo e in superficie.
La «globalizzazione», che Dossetti ha percepito in anticipo, obbliga ormai tutti a riconoscere la piena unità del genere umano (e la forte influenza che ognuno esercita su ognuno); questo dato, terribilmente responsabilizzante, non opera solo nello spazio, ma coinvolge e lega i tempi storici, per cui poi tanti fattori interagiscono (sociali, giuridici, economici, tecnici, militari, non meno che i culturali), e con grande coerenza in Dossetti, si esprime un primato pratico della coscienza e della interiorità per intera la specie umana, schiacciata dai suoi ritardi più devastanti degli avanzamenti pur acquisiti...
La costellazione dei valori che Dossetti ha saputo vedere necessari nelle tragedie delle guerre mondiali e nelle «unità» che esse hanno fatto intravvedere, per cui le maggiori e più penetranti istituzioni (Stati e Chiese), e il miglior metodo politico da consolidare, cioè democrazia e parità tendenziale di risorse e di formazioni personali, non possiamo trascurarle, senza pericoli gravi, ma certo anche con colpe gravi un po’ di tutti e alla lunga pagate da tutti: ma con quali enormi sperequazioni, seminatrici di odi e di impotenze.
L’attualità della proposta dossettiana si affaccia nella energia morale e nella testimonianza di vita di questo italiano singolare, che è giusto e opportuno non dimenticare. Metterebbe conto di conoscerlo di più, interrogandosi con serietà sui fattori reali della sua formazione; non necessariamente per cercare di imitarla, ma per non trascurare o lasciar perdere troppo l’occasione di un confronto stimolante e certo significativo, lungo l’intero secolo che fu grande e terribile e che Dossetti ebbe il merito e la serietà di considerare come tale.
Un nuovo modello per l’Italia e i cattolici
di Mauro Magatti* (www.corriere.it, 5 luglio 2012)
La questione cattolica costituisce uno dei nodi più profondi attorno a cui si annoda e si snoda la vicenda nazionale. Prima e dopo la costruzione dello stato unitario. Per questo, essa riemerge, con regolarità impressionante, in tutti i passaggi storici nei quali cambiano gli equilibri di potere. Era accaduto così al momento della formazione dello stato, prima e dopo la seconda guerra mondiale, alla nascita della repubblica fino a tangentopoli. E così ancora oggi, nel mezzo di una gravissima crisi economica e finanziaria. Non è un caso. Comunque la si giri, il paese non sta in piedi a prescindere da questa radice. Per questo, è prima di tutto a questa radice che il paese guarda nei momenti più delicati. Per i cattolici, essere all’altezza del loro compito non è sempre stato facile, soprattutto a causa di alcune inclinazioni involutive che, quando non sono contrastate, ne deprimono le potenzialità. La prima di queste tendenze ha a che fare con il provincialismo a cui è esposta (per paradosso) la cultura cattolica italiana. Forti di un’influenza che altrove non ritrovano e qualche volta sospettosi nei confronti di molti dei processi che si producono con la modernità, molti cattolici - accademici, imprenditori, banchieri, politici - cedono, anche alla tentazione di rimanere nel piccolo stagno nazionale, guadagnando posizioni eminenti, ma finendo così per soffrire di un provincialismo che li rende marginali alle più importanti dinamiche storiche. In questo modo, l’originale punto di vista che il cattolicesimo ha elaborato sui temi sociali, economici e antropologici finisce per svilirsi e perdere il suo potenziale propositivo.
La seconda è che i cattolici impegnati nel mondo danno il meglio di sé lontano dalle complicate vicende e altrettanto complicate preoccupazioni dei Palazzi (qualunque natura abbiano), nelle tante forme del loro concretissimo radicamento locale che, a onor del vero, ne costituiscono anche il più autentico punto di forza. Laddove, cioè, l’assunzione di responsabilità sociale, economica, istituzionale si misura direttamente con la vita delle persone e delle comunità, rendendo evidente il nesso che, per un cattolico rimane centrale, tra potere e servizio. Tremendamente generativa, una tale postura ha però il limite di tradursi facilmente in disinteresse o addirittura in diffidenza nei confronti della politica, specie di livello nazionale, vista per lo più come intrigo e mera lotta di potere.
Queste due fragilità latenti tra i cattolici - associate alle pulsioni più identitarie che, come è naturale che sia, attraversano talvolta anche la Chiesa - attivano dinamiche "uguali e contrarie" nel mondo laico: insofferenti a molti aspetti dell’Italia cattolica, accade spesso che siano i laici ad avere maggiori esperienze e collegamenti internazionali e, nel contempo, a considerare il governo centrale la leva di cui servirsi per potere finalmente modernizzare il paese.
Dal combinato disposto di questi due atteggiamenti, è l’Italia che ne esce con le ossa rotte, finendo schiacciata tra forme di provincialismo moralista da un lato e progetti di modernizzazione astratta dall’altro. Attorno a questo nodo, l’Italia vive o muore. Da questa diagnosi mi pare derivino diverse indicazioni per leggere anche la delicata fase storica che stiamo attraversando in questi anni.
Cominciamo col dire che il problema è lo stesso, tanto per i "cattolici" quanto per i "laici": trovare il codice di ricomposizione tra le sfide del tempo e la particolarissima matrice culturale, economica e sociale di questo paese. Senza fughe in avanti, ma anche senza un’eccessiva accondiscendenza.
A questo sforzo di tutti - che tradurrebbe il citatissimo ma spesso misconosciuto bene comune - i cattolici possono contribuire in modo specialissimo nella misura in cui sono capaci di ripartire dalla realtà di un paese che mantiene delle peculiarità indiscutibilmente "cattoliche" - la piccola impresa, la famiglia, il territorio, il senso della bellezza e dell’infinito - non per riaffermarla in modo identitario, ma per porla in relazione alle sfide del tempo (globalizzazione, tecnicizzazione, pluralismo), liberandola così dalle derive involutive in cui rischia sempre di rimanere avviluppata. Ai laici è chiesto per converso di riconoscere la peculiarità dell’Italia, amando il paese per quello che è e rifuggendo la ricorrente tentazione di volerne uno del tutto diverso (possibilmente non cattolico).
Se si rileggono così gli ultimi 150anni si vedrà che il paese ha respirato ed è cresciuto quando si è stati capaci di questo doppio movimento. Oggi, ci troviamo in una nuova, delicatissima fase di passaggio. Un modello di crescita economica è in fase di profonda ristrutturazione a livello planetario e ciò spezza gli equilibri di marginalità su cui il paese si è retto negli ultimi decenni.
Come ci insegna la storia, le crisi hanno sempre una doppia natura: mentre distruggono, creano e, al di là dei rischi, esse offrono sempre nuove opportunità. Abbiamo chiamato "seconda repubblica" il sistema politico che ha gestito il modo in cui il nostro paese è stato dentro l’ultima fase storica. Al suo interno hanno prevalso due progetti di modernizzazione molto diversi tra loro, ma accomunati da un approccio fondamentalmente "a-cattolico" (postura che, politicamente, si è tradotta in opposte strategie di "gestione" della questione cattolica).
La storia ci dice che i risultati non sono stati propriamente brillanti, forse proprio perché quel lavoro di rilettura e reinterpretazione del paese di cui parlavo prima si è interrotto. È probabile che, nata sulle ceneri della DC, questa fase non poteva che essere così. Ma adesso, ecco riaffiorare il nodo dei cattolici, nodo che non può e non deve essere ridotto alla questione della creazione di un partito. Forse lungo la strada si porrà anche tale questione. Ma, per il momento, i cattolici sono chiamati dalla storia a dire come leggono la crisi del paese e come intendono uscirne.
Per chi ha occhi per vedere il paese reale e orecchie per sentire i suoi interpreti più originali la strada, a dire il vero, appare già sufficientemente tracciata: passare da un modello di crescita dissipativo - che non solo non ci possiamo più permettere, ma che anche ha corroso profondamente il nostro tessuto sociale e umano - ad uno più generativo, capace di "produrre valore condiviso".
Che concretamente significa: ripensamento del welfare al di là della dicotomia pubblico-privato nella prospettiva dei beni comuni e di una ricucitura di un tessuto sociale gravemente lacerato; centralità dell’impresa (con le sue molteplici forme) e della creazione di ricchezza, mediante la valorizzazione del lavoro, della educazione, della ricerca; riconoscimento della vita e della famiglia dal punto di vista culturale, fiscale e sociale; europeismo vigoroso secondo una visione poliarchica e sussidiaria della forme istituzionali. Nella prospettiva di una rilettura profonda del paese che i cattolici ritengono di saper fare e di dover offrire, ancora una volta, all’Italia e ai suoi figli.
*preside di sociologia all’Università Cattolica di Milano
Rivoluzione femminile al Concilio
di Lucetta Scaraffia (Il Sole-24 Ore, 22 luglio 2012) *
Le 23 donne invitate da Paolo VI a partecipare al concilio Vaticano II come uditrici presenziavano alle riunioni vestite di nero, con un velo sul capo come a una funzione pontificia. Negli intervalli potevano andare in una saletta-bar separata, approntata per loro, e per due volte fu negata a Pilar Bellosillo, presidente dell’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche, la possibilità di prendere la parola in pubblico. Tutte cose che oggi ci indignano, ma normali se giudicate con criteri storici: nel 1964 nessuna riunione della Banca d’Italia, del Consiglio superiore della magistratura, e neppure della Corte suprema statunitense, per limitarsi a qualche esempio, prevedeva presenze femminili.
Piuttosto, libri come questo di Adriana Valerio fanno capire quanto velocemente e radicalmente sia cambiato il mondo - anche un mondo lento come quello della Chiesa - grazie alla rivoluzione delle donne. Già nell’enciclica Pacem in terris Giovanni XXIII aveva riconosciuto l’emancipazione femminile come un importante e positivo «segno dei tempi», e molti cardinali e vescovi appoggiarono la proposta di Paolo VI di aprire le porte del Concilio alle uditrici.
La scelta delle invitate fu comunque faticosa, anche se la loro presenza avrebbe dovuto essere simbolica - così la definì Papa Montini - non avendo diritto né di parola né di voto. Invece, le uditrici parteciparono attivamente ai gruppi di lavoro, presentarono memorie e contribuirono con la loro esperienza alla stesura dei documenti, in particolare su temi come la vita religiosa, la famiglia, l’apostolato dei laici.
La presenza di due vedove di guerra contribuì a rafforzare il peso femminile anche nelle discussioni sulla pace, alle quali, dall’esterno, contribuiva con la sua attività di lobbying l’americana Dorothy Day. Delle uditrici facevano parte 10 religiose e 13 laiche. Molte di loro, specie le religiose, costituivano il filo terminale di gruppi costituiti ai margini dell’assemblea conciliare per preparare commenti e richieste. In particolare, il peso di questo lavoro di mediazione gravò sulle spalle di Sabine de Valon, superiora generale della Società del Sacro Cuore che, nel 1962, aveva organizzato l’Unione internazionale delle superiore generali, di cui era presidente. Superiora anche delle uditrici ed entrata nell’aula conciliare piena di entusiasmo - salutò quel momento come «il passaggio dalla sala di attesa al soggiorno» - si scontrò poi con tensioni e ansietà crescenti.
La più vivace delle uditrici laiche fu senza dubbio Pilar Bellosillo, presidente dell’Unione mondiale delle organizzazioni femminili cattoliche, scelta proprio per questo due volte come portavoce dal gruppo degli uditori. Nel 1965, per l’ultimo periodo, fu chiamata la più giovane delle partecipanti, l’argentina Margarita Moyano Llerena, presidente del Consiglio superiore delle giovani, combattiva come Gladys Parentelli, uruguaiana, che non rinunciò durante il concilio ad andare a capo scoperto e con le maniche corte, così da essere poi espunta dalle foto ufficiali. Gladys si sentì delusa dal poco spazio dato agli uditori laici durante i lavori conciliari, tanto da non partecipare alla sessione conclusiva.
Leggendo le biografie ricostruite nel libro si può vedere come molte uditrici, fra cui la Parentelli, si siano poi avvicinate a posizioni progressiste, considerate poco ortodosse. Molte delle partecipanti, inoltre, si sarebbero dichiarate a favore del sacerdozio femminile. L’autrice si schiera senza remore con queste ultime, presentando con sguardo critico le osservazioni conclusive sulle donne di Paolo VI, che parlano di «un modello che rappresentava il femminile nella funzione "naturale" di custode di un’umanità da salvare», perché ribadiva in sostanza il ruolo materno.
Il materiale offerto dal libro meriterebbe invece un’analisi più approfondita, con un occhio più attento anche al rapporto con il mondo esterno alla Chiesa e ai cambiamenti di quegli anni, per superare la facile interpretazione di ogni fatto conciliare come progressista o conservatore.
Anche perché la presenza delle donne, per il solo fatto di esserci stata, segna una svolta importante nella storia della Chiesa e del Novecento, mentre gli esiti possibili sono più numerosi e sfumati dell’alternativa tra conservazione e progresso.
*
Adriana Valerio, Madri del Concilio. Ventitrè donne al Vaticano II, Carocci, Roma, pagg. 168,
La Chiesa in crisi. Fedeli smarriti in cerca d’autorità
i (il manifesto, 7 luglio 2012)
Una conversazione con il sociologo Marco Marzano, autore di una indagine pubblicata da Feltrinelli, «Quel che resta dei cattolici». Racconto dall’interno di una struttura divisa tra gerarchie e base, dove la tendenza a far conto sulla tradizionale verticalità si avverte anche presso le comunità più attive
Immaginiamo la scena: è domenica, intorno alle 9 del mattino, un genitore ancora un po’ intontito ma spinto dal senso del dovere entra nella cameretta del figlio di dieci anni, lo scuote per svegliarlo, distogliendolo da un sacrosanto quanto profondo sonno ristoratore. Il figlio mugugna, recalcitra, si toglie l’apparecchio, si stropiccia gli occhi, guarda il padre e gli chiede già un po’ esasperato: «Devo andare a karate o a catechismo?». La domanda gela il sangue al padre. Non tanto perché il figlio non avesse ancora capito che la domenica mattina si va a catechismo, e non a karate, ma perché fosse anche soltanto possibile un’alternativa di questo tipo, che la dice lunga su quale abisso di noia e appiattimento culturale si affacci l’esperienza religiosa cattolica nel nostro tempo.
Il fatto che la scena sia reale e accaduta effettivamente a chi scrive, può dare un’idea di quanto sia utile un libro come l’ultimo di Marco Marzano, Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della chiesa in Italia, Feltrinelli (Serie Bianca), pp. 250, €16. Non perché di per sé la scena sia importante o meriti chi sa quale riflessione. Ma perché di scene così ce ne sono a migliaia, e non trovano mai un pubblico che possa assorbirle o criticarle.
Marzano, che insegna sociologia all’Università di Bergamo, non è nuovo a inchieste di questo tipo, che anzi stanno caratterizzando il suo ambito di ricerca in modo peculiare. Di nuovo c’è, tuttavia, che in questo suo ultimo lavoro molti italiani, credenti o meno, potranno riconoscersi, perché la bellezza e la forza di questo libro stanno appunto nel dar voce a numerosi protagonisti di una dimensione sommersa della vita sociale contemporanea, quella del cattolicesimo vissuto, dal basso, senza reti di salvataggio, con tutte le contraddizioni e le storture, i malintesi e le illusioni, le sofferenze e le resistenze. Non si tratta dunque di una ricerca teorica che parte dai massimi sistemi della teologia o della teoria sociale, quanto di un’inchiesta, perfettamente leggibile e nello stesso momento abbastanza tremenda, per quel che c’è di tremendum e di fascinans nella voce diretta di chi si dibatte nell’assurda bonaccia del mondo di oggi.
Abbiamo incontrato Marzano, in un pomeriggio caldissimo; mentre parcheggiava la macchina, una piccola folla di bambini e ragazzini irreggimentati nelle magliette del Centro Ricreativo Estivo della curia locale gli bloccava l’accesso al parcheggio. La Buona Notizia in versione «baby-dance»: non poteva esserci introduzione migliore.
Partiamo dal metodo: in Quel che resta dei cattolici troviamo un racconto accurato, dall’interno, di molte esperienze di fede o di crisi. In base a quale criterio sono stati scelti i vari interlocutori?
Avevo già lavorato su questo terreno nella mia inchiesta sul carismatismo e la religiosità popolare, pubblicata qualche anno fa (Cattolicesimo magico, Bompiani 2009), quindi diciamo che avevo già una piccola rete di contatti, che ho poi molto ampliato, andando su e giù per l’Italia, incontrando e intervistando centinaia di persone, osservando tante cose direttamente, con i miei occhi. Ho fatto ricerca insomma nel modo in cui mi piace: stando con le persone, in mezzo a loro, non partendo da chissà quale teoria o preconcetto, ma piuttosto facendo risuonare la verità di quello che hanno da dire e che purtroppo non dicono quasi mai, perché non osano o perché non sanno che possono farlo. Questo mi appassiona tantissimo: la possibilità di raccogliere verità inedite. Questo credo che sia il senso del nostro mestiere. Insomma non mi bastavano i questionari e le inchieste telefoniche con le quali vengono in genere studiati i fenomeni religiosi: volevo guardarli in faccia, i cattolici italiani.
E che cosa dicono, i diversi interlocutori, di così terribile, che non oserebbero ripeterlo al di fuori di nomi di fantasia e vetri oscurati?
Raccontano lo sfarinamento dei significati, lo sgretolarsi di una struttura, la chiesa, che oggi non so se regga o meno, ma so che è spaccata in due: da un lato c’è la chiesa pubblica, quella che occupa la scena mediatica, quella dei vescovi e del Vaticano; dall’altra ci sono le parrocchie, che soffrono terribilmente, che si svuotano, che anche quando sono piene sono spesso vuote di senso e di partecipazione reale. Me lo raccontavano molti parroci: quando devono celebrare un funerale o soprattutto un matrimonio loro stanno male, perché sanno che si tratta, in un certo senso, di una finzione, mentre loro celebrano l’eucaristia, cioè il sacramento principale, quello che per loro dà ragione al loro essere e a quello della comunità... se ci fermiamo a pensare è un’esperienza lacerante: stai facendo quello in cui credi di più, e i fedeli chiacchierano, fanno fotografie, sbadigliano, e soprattutto non credono a una parola di quello che stai dicendo. Per alcuni versi, questo è sempre avvenuto però nell’epoca dell’autenticità questo è il segnale di una crisi molto profonda.
Forse il dato più allarmante che emerge dall’inchiesta è proprio questo distacco tra la gerarchia dei vescovi e la base dei preti e dei laici delle parrocchie.
Mi pare proprio di sì. Al di là delle chiese più o meno vuote, quello che ho visto è una chiesa afona, quella della gente comune; la chiesa dei vescovi è fin troppo illuminata da ogni tipo di faro. Oggi per parlare di chiesa, in Italia, devi essere un vaticanista! I giornalisti e i politici si illudono che la gente stia lì a domandarsi, come Stalin, quante armate abbia il papa. Ma io penso che ai fedeli importi poco delle manovre occulte, degli intrighi... I fedeli non leggono nemmeno le encicliche! La fede oggi, qui e ovunque nel mondo occidentale, si sta sempre più privatizzando. Avviene così in tutte le grandi istituzioni: si chiama crisi dello spazio pubblico. Vale anche per la politica, l’educazione, quello che un tempo si chiamava l’universo dei valori...
E non si parlano mai, tra di loro, le due chiese?
Non credo: la gerarchia non ha voglia di ascoltare e il popolo dei fedeli non sa a chi rivolgersi. Il dramma del cattolicesimo mi sembra il fatto che la prima chiesa, quella delle gerarchie, non ha più nemmeno bisogno del popolo, cioè della seconda chiesa. Le bastano i media. Le basta che il telegiornale trasmetta il comunicato del rappresentante dei vescovi o che dia notizia dell’ultimo discorso del papa. Ma questo, ripeto, si verifica ovunque, non solo nella chiesa: i vertici possono allegramente ignorare la base. La cosa straziante della chiesa è che la base, quasi sempre, non desidera altro che un cenno di assenso da parte di un vescovo. Non sanno farne a meno.
Come si può spiegare questo fenomeno?
È evidente che ci vorrebbe una riflessione teorica più approfondita, ma ho la sensazione che sia in gioco una grande sfida educativa. La chiesa in Italia esprime un’enorme fatica a ospitare gli adulti. Le chiese si aprono ai bambini, o ai vecchi, ma gli adulti non ci sono, e quando ci sono ci stanno male. Il laico cattolico adulto ha ancora bisogno del placet del sacerdote, cioè si posiziona in modo infantile di fronte a un’autorità, quella del prete e della verticalità della chiesa in generale, che di per sé non ha giustificazioni, se non quelle datele dalla tradizione. Ho intervistato a lungo dei laici di un gruppo che un tempo si sarebbe chiamato «cattocomunista»: agguerriti, capaci, pieni di vitalità e di idee, la parte migliore di una comunità. Bene, questi mi confessano di sperare che il vescovo prima o poi accolga le loro richieste. Ma dico: non potete fare da soli? Perché avete sempre bisogno del vescovo?
Non si riesce a crescere, insomma. In fondo diventare adulti significa assumere su di sé l’onere di gestire i passaggi cruciali della vita: la nascita, le relazioni, la morte. In effetti i sacramenti tradizionali segnano i riti di passaggio comuni a tutte le società che conosciamo. Questo infantilismo forse non è da collegare non solo alla religione, ma a tutti questi momenti soglia, che fatichiamo sempre di più a riconoscere e a comprendere.
Sono d’accordo. Nella mia indagine sul morire di tumore in Italia (Scene finali, il Mulino 2004) avevo già avuto modo di mettere in evidenza come il paziente si consegnasse nelle mani del medico come un bambino. Allora davo grande peso al ruolo del medico, in questo processo. Oggi, avendoci riflettuto, devo ammettere che il malato mette molto di suo nell’abdicare alla propria adultità. Lo stesso si potrebbe dire del matrimonio e del funerale: momenti entrambi in cui l’istituzione è chiamata in causa come amministrazione, non già come ospite del passaggio. Ossia l’istituzione non è più lo spazio pubblico che accoglie e sostiene i nuovi arrivati; è invece il decisore ultimo dei destini e delle volontà dei suoi adepti. Tuttavia mi sembra che la chiesa sia più esposta di altre istituzioni a questo tipo di infantilizzazione del fedele. Un po’ perché il cattolicesimo sta ripiegando sempre più in forme pubbliche modernissime nella forma e preconciliari nella sostanza, quelle che inseguono il trionfalismo degli eventi mediatici, e richiede da parte dei fedeli una partecipazione passiva, cioè la semplice obbedienza (e in ciò sta la matrice tridentina, reazionaria di questo stile); un po’ perché i cattolici, anche i più vivaci, soffrono di una strana sindrome, che chiamerei l’ossessione dell’unità.
In che cosa consiste?
L’ossessione dell’unità è quella strana malattia che spinge i cattolici a inseguire a tutti i costi il consenso dei vertici, il desiderio di ottenere l’approvazione dei piani alti, che leggerei anche come l’inconfessata ambizione che la propria linea divenga quella universale, l’unica. Anche questo, se ci pensiamo, è un comportamento abbastanza infantile.
Il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer si richiamava alla necessità di diventare adulti nella fede, e cioè liberi e responsabili di fronte, per esempio, alla morte. Forse quello che manca al cattolicesimo italiano è proprio l’esperienza della Riforma, che per certi versi ha costretto i fedeli a vedersela da soli, senza le garanzie del clero.
Certamente il processo di privatizzazione che abbiamo descritto all’inizio dice anche di un tentativo, goffo e problematico quanto vogliamo, ma comunque in atto, di americanizzazione del legame sociale. Cioè, anche, di una tensione «protestante» interna allo stesso cattolicesimo, che testimonia a sua volta della voglia che molti hanno di dire la propria su molte questioni, di non cedere alla morsa di un potere sempre più distante e astratto, di essere soggetti e protagonisti delle proprie scelte e delle proprie decisioni. Anche questo è un segno dei tempi, come ha mostrato il filosofo americano Charles Taylor, nella sua monumentale ricerca sull’età secolare. Ai tempi della Riforma nessuno poteva nemmeno sognare di «scegliere» alcunché in campo religioso (cuius regio eius religio, si diceva, no?).
Oggi invece la scelta è un momento cruciale, di cui - e non è un caso - le gerarchie hanno un certo timore. Più libertà ha il singolo, più evidente si fa lo sgretolarsi dell’istituzione che lo vorrebbe amministrare. Mi sentirei però di chiudere con una nota di ottimismo: ho visto questa tensione, per quanto un po’ in controluce, ho visto questo crescente desiderio di autonomia. Prima o poi la sfida sarà lanciata, sarà qualcosa di enorme, i cui risultati decideranno le sorti di una delle religioni più tenaci della storia. Il meglio delle religioni, direbbe Ernst Bloch, è che producono eretici.
«La gerarchia italiana fa fatica ad abituarsi all’internazionalizzazione della Chiesa»
intervista a Manlio Graziano*,
a cura di Isabelle de Gaulmyn
in “La Croix” del 13 giugno 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Questi scandali mostrano gli stretti legami che uniscono ancora il Vaticano agli affari italiani. Come spiegare questo legame?
Innanzitutto con la storia. La Chiesa cattolica ha esercitato per un millennio il suo potere temporale
su una grande parte del territorio della penisola e, anche al di fuori dello Stato pontificio, il clero è
stato per moltissimo tempo il più importante proprietario fondiario (del resto, non solo in Italia).
Tale posizione ha necessariamente lasciato delle tracce, ma in Italia più che altrove, perché, fin dalla
sua nascita, lo Stato italiano ha sempre tenuto in considerazione gli interessi della Chiesa. Nella
memoria dei responsabili politici italiani, infatti, la mobilitazione organizzata dalla Chiesa, che
aveva provocato la caduta della Repubblica napoletana del 1799, è rimasta un ricordo indelebile.
Al momento della presa di Roma, la prima decisione del governo italiano è quindi stata di esentare
l’antico Stato pontificio, per un periodo di due anni, dall’applicazione delle leggi di soppressione dei
benefici ecclesiastici, e la seconda di votare delle leggi di garanzia (le guarentigie) a favore della
persona e dei beni del papa e del Vaticano.
Durante la sospensione delle leggi dette “anticlericali” a
Roma, fu il clero stesso che alienò gran parte delle sue proprietà fondiarie e fece nascere un grande
impero finanziario (che in Italia viene chiamato “le banche cattoliche”), che da allora è uno dei
protagonisti, di cui non si può non tener conto, della vita economica (e quindi politica) del paese.
Ma non tutte le proprietà in mano al clero sono state alienate o espropriate in seguito. Secondo
diverse fonti, la Chiesa conserverebbe oggi ancora un controllo diretto o indiretto sul 20-25% del
patrimonio immobiliare italiana, e gli accordi del Laterano del 1929 lo autorizzavano a non pagare
imposte su tali proprietà.
Gli italiani della Santa Sede conservano uno stretto legame con quanto succede nella Chiesa italiana?
Per rispondere a questa domanda, bisogna fare una distinzione tra i cittadini della Repubblica italiana che lavorano per una delle istituzioni della Città del Vaticano, e i vescovi e i cardinali italiani che lavorano nel governo centrale della Chiesa universale. Questi ultimi mantengono certo un legame molto forte con la Chiesa della penisola, e molti di loro fanno ancora fatica ad abituarsi all’internazionalizzazione della Chiesa di Roma. È comunque certo che l’Italia resta il pilastro su cui si basa la Chiesa universale. Questo autorizza una parte della gerarchia di origine italiana a mantenere una certa ambiguità, arrivando a volte perfino a pensare che il governo della Chiesa universale le spetti di diritto. Ora, dal 1978, la direzione centrale della Chiesa è affidata ad un nonitaliano, e oggi sappiamo che una delle ragioni dell’elezione di Karol Wojtyla fu proprio la volontà di sottrarre la Chiesa universale ai conflitti che dividevano i cardinali italiani.
Quali sono le poste in gioco, per la Chiesa italiana, di questa prossimità col Vaticano?
Come ho appena detto, la Chiesa italiana, in generale, si sovrastima. La vicinanza ai sacri palazzi, il suo ruolo storicamente decisivo, l’obiettiva importanza della penisola come “laboratorio” nel quale le scelte del papa e della gerarchia sono sperimentate, e il fatto di rappresentare un “polmone” per l’amministrazione e per il governo della Santa Sede: tutto questo dà ai responsabili della Chiesa italiana la sensazione di potersi in qualche modo “sottrarre” alle regole di funzionamento che sono imposte a tutte le altre Chiese nazionali in nome della centralizzazione della Chiesa universale.
* insegnante di geopolitica e di geopolitica delle religioni alla Sorbona Parigi IV e all’American Graduate School di Parigi, autore di Identité catholique et identité italienne. L’Italie laboratoire de l’Église (Parigi, 2007) et Il secolo cattolico. La strategia geopolitica della Chiesa (Roma, 2010)
Ora laici e cattolici lavorino insieme
di Andrea Riccardi (Corriere della Sera, 13 giugno 2012)
Caro direttore,
la fine della Prima Repubblica ha determinato la diaspora dei cattolici e lo sperpero
di un patrimonio politico. Così Dario Antiseri scrive con passione, anzi veemenza, sul Corriere
dell’11 giugno. Non dimentica che la storia della Seconda Repubblica è stata accompagnata da una
«strategia» ecclesiastica che ha ricollocato la Chiesa tra le forze in campo. Ma quel mondo è finito e
una nuova Repubblica non è mai nata. Per far fronte a una gravissima crisi economica, è avvenuta
la svolta del novembre 2011 con il governo Monti, grazie a un atto di responsabilità delle forze
politiche. Era logico pensare che il tempo di un governo tecnico avrebbe dato agio ai partiti di
ripensarsi dal punto di vista della cultura politica e, soprattutto, di radicarsi nuovamente nella
società italiana, dove tante reti politico-sociali si sono sfilacciate. Nell’Italia reale, infatti, non
mancano reazioni, rabbie, speranze, desideri; ma tutto questo non si fa passione politica. Sembra
faticosa la comunicazione tra il sentire quotidiano della gente e la politica. La sintesi più vistosa
viene realizzata dall’antipolitica con il discredito sistematico delle forme della politica.
E i cattolici? Antiseri si duole della loro assenza che, a suo dire, non nasce dalla mancanza di voglia di far politica, ma dalla diserzione dei loro leader. Il filosofo vede «sempre più necessario un partito di cattolici liberali, un partito sturziano». Nel suo articolo (in cui non fa nomi pur ripercorrendo gli ultimi vent’anni del cattolicesimo italiano), ha la bontà di ricordare chi scrive, come «disertore» verso tanta impresa e colpevole di aver detto che non è l’ora del partito cattolico. Il cattolicesimo italiano, nella sua storia, conosce partiti, lanciati e abortiti. Invece il Partito di Sturzo ebbe alle sue spalle, nel primo dopoguerra, la grande spinta del cattolicesimo del «non expedit», cui dette identità politica. La Dc, dopo la Seconda Guerra Mondiale, forte della rete della Chiesa, congiunse moderati e varie forze sociali, collocandosi al centro del sistema. De Gasperi governò la ricostruzione nell’alleanza tra cattolici e laici. Di fronte c’era la grande sfida del comunismo.
Quella sfida non c’è più. Né c’è il cattolicesimo organizzato di allora, nonostante esso ancora sia rilevante del vissuto italiano. I cattolici sono abituati alla diaspora in quasi tutte le forze politiche. Tuttavia, a ben vedere, una grande sfida c’è. È il caos della disgregazione di un Paese che poco si riconosce nelle istituzioni e nella politica. È il caos della crisi economica, che richiede attento governo e non avventure. Per questo responsabilmente i partiti hanno dato vita all’attuale esecutivo. Ma molti, in giro per il mondo, si chiedono: e dopo le elezioni del 2013?
Antiseri vede la risposta in un partito sturziano e cattolico. Francamente non mi sembra aggregante e mobilitante, nonostante la mia grande attenzione al pensiero di Sturzo. La sinistra si è aggregata richiamandosi a una storia politica. Al centro e sulla destra - mi pare - ci sono vecchie e nuove presenze, idee, ma anche crisi. Per i cattolici, da tempo, De Rita aveva notato l’assenza di un «federatore» come furono De Gasperi e Montini negli anni Quaranta. I mesi trascorsi lo hanno confermato.
L’azione di governo di Mario Monti e il suo senso di responsabilità personale hanno inserito nel panorama italiano un fare concreto (tecnico), dietro cui si intravede un’ispirazione cattolica. Non si può pensare - allora - alla lezione di De Gasperi come riferimento per una cultura politica capace di far lavorare insieme cattolici e laici, politici e tecnici, per ricostruire la Repubblica in un’Europa coesa? Bisognerebbe riflettere meglio sull’eredità dello statista trentino (e la sua ammonizione a non riprodurre storici steccati tra guelfi e ghibellini) e non tanto sulla possibilità di rieditare un partito cattolico.
Un pericolo si apre innanzi ai protagonisti della prossima legislatura: quel caos congeniale a un’Italia frammentata in profondità, ma tanto pericoloso per un Paese a rischio. Torna alla mente lo slogan del socialista Giuseppe Romita alla vigilia del referendum del 1946: «O la Repubblica o il caos». In ben altri termini, in modo però insidioso, si ripropone oggi quell’alternativa. Ci vogliono forze politiche «repubblicane», capaci di guidare l’Italia in una nuova stagione e di evitare lo scivolamento nell’abisso. Questa mi appare la risposta all’antipolitica, non tanto la deprecazione che fa parte di un teatro in cui questo fenomeno prospera. Sono alcune riflessioni che l’articolo di Antiseri ha provocato in me. Più che di riesumazione di foto dai libri di storia (anche gloriose), c’è bisogno di grandi e coraggiosi disegni per un’Italia che faticosamente si avvia nella complessa globalizzazione.
Ministro per la Cooperazione Internazionale e l’Integrazione
Meglio cattolici divisi tra destra e sinistra
di Franco Monaco (Corriere della Sera, 17 giugno 2012)
Caro direttore,
Dario Antiseri e Massimo Teodori propongono di dare vita a formazioni politiche, l’uno di ispirazione cattolico-liberale, l’altro laico-riformista. Non a caso l’uno rispondendo all’altro, quasi in termini reattivi. Lo ritengo un errore.
Penso piuttosto abbia ragione il ministro Andrea Riccardi nel richiamare che le esperienze politiche più alte nello sviluppo della democrazia italiana si sono rette su un fecondo dialogo-cooperazione tra laici e cattolici. Si possono discutere i limiti del bipolarismo che abbiamo conosciuto nel recente passato. Non però sotto un profilo di rilievo: quello di una democrazia sanamente competitiva che si mettesse dietro le spalle l’eredità lunga della «questione romana» (cioè la pregiudiziale opposizione politica e di schieramento tra cattolici e non) con il conseguente sviluppo di partiti e coalizioni che si caratterizzano e si distinguono laicamente non su base ideologico-religiosa ma su base politica e programmatica, diciamo pure lungo l’asse destra-sinistra.
A mio avviso, il pluralismo politico tra i cattolici italiani è stato un guadagno sia per la Chiesa, che vede così esaltate la libertà e l’universalità della sua missione, al riparo anche solo dal sospetto che essa «prenda posizione» tra le parti politiche, sia la democrazia italiana con l’attenuazione dello storico sovraccarico ideologico che ne ha inibito a lungo una libera articolazione. Semmai non ha giovato alla Chiesa italiana una qualche sua esposizione politica non esattamente super partes nel ciclo politico più recente.
Rilevo con preoccupazione il segnale di una regressione al contenzioso laici-cattolici anche dentro il Pd quando qualcuno prospetta primarie ove si oppongano candidati che qualifichino la propria piattaforma non sulla loro idea dell’Italia ma sui diritti civili e sulle unioni di fatto. Temi che semmai esigono mediazioni alte e sintesi larghe nei partiti e tra i partiti.
Mi distingue invece da Riccardi - se ho inteso bene - l’idea che l’incubatore di una nuova esperienza politica possa essere il governo Monti, dopo il quale piuttosto mi auguro si ristabilisca una fisiologica dialettica democratica tra offerte politiche tra loro in civile competizione. Apprezzo il governo dei tecnici, ma considero la politica democratica competizione/confronto tra visioni e soluzioni diverse. Non il pensiero unico e la soluzione unica dettata dal sapere tecnico.
Vaticano e Italia, mali comuni
di Furio Colombo (il Fatto, 03.06.2012)
La domanda è questa: la turbolenta spaccatura che sta attraversando il Vaticano e - come in un film dell’orrore - arriva fino alle stanze del Papa, è la stessa spaccatura di profondità sconosciuta, che tormenta l’Italia? La risposta è sì. È una brutta risposta, perché dice che il Vaticano - il papa, il governo della Chiesa, la Istituzione - dovranno confrontarsi con uno sforzo immane per uscire dalla palude. Dovranno, soprattutto, dimostrare una decisa volontà di farlo, senza sotterfugi, autocelebrazioni e finzioni. Qualcosa che in Italia non è ancora accaduto.
Che cosa hanno in comune la storia italiana contemporanea e quella del Vaticano, che cosa può dimostrare la stessa natura del male (corvi, complotti, spionaggi, agguati, tradimenti e misteriosi tornaconti, in cui spesso restano ignoti mandante e beneficiario)? Prima di produrre le prove di quello che sto scrivendo, devo tentare di definire questo "male comune" che mette in pericolo l’equilibrio e persino la continuità di due Stati.
Lo descriverei così. È la decisione, abile e pericolosa di affidare immagine e auto-definizione a principi e programmi alti e nobili sempre più lontani dalla realtà che invece peggiora sotto gli occhi di tutti. In questo modo si evita ogni spietata e coraggiosa verifica dei fatti, accusando più o meno oscuri nemici di essere l’unica causa del male (malareligione o malapolitica).
Proverò a produrre alcune prove della situazione inaffidabile che scuote e tormenta tanto l’Italia quanto il Vaticano e la Chiesa, precisando che di questi due ultimi protagonisti parlerò a partire da ciò che vede e constata un osservatore estraneo, dunque dalle manifestazioni sociali, organizzative, di governo, non di fede e di religione, che in questa riflessione non entrano mai.
COMINCIO da uno spunto che mi pare molto utile perché fa da ponte fra politica vaticana e politica italiana (istituzioni e leggi) e dunque chiama apertamente in causa quei cittadini che sono allo stesso tempo attivi nelle istituzioni italiane e vincolati all’ubbidienza di Vaticano-Stato e di Vaticano-Chiesa. Intendo riferirmi al finto culto della famiglia, che viene visto come strumento di aggregazione (ma anche di espulsione, se non si tratta della famiglia giusta) e come fondamento dell’edificio politico conservatore (di nuovo inteso come argine e frontiera contro ogni mutamento di aggregazione sociale, visto come turbamento della conservazione politica).
Ho appena scritto "finto culto della famiglia" perché nessun gruppo sociale è più solo, abbandonato, privo di sostegno morale e sociale, da parte di entrambi i celebranti di questo culto, la Chiesa e la politica. È vero, non tutta la Chiesa e non tutta la politica. Ma qui interessa individuare i percorsi da cui entra con impeto il disordine, il distacco, l’apparente sottomissione e il profondo cinismo di cui stiamo parlando.
Quando si spengono le luci su eventi e giornate organizzate per celebrare la famiglia, non resta né un asilo né una scuola né un sostegno per le madri che lavorano, né un progetto, per quanto austero, per le famiglie troppo povere, per esempio Rom e immigrati, dove la presenza di mamme e bambini non ha mai fatto differenza.
Pensate alla distruzione di un campo nomadi (e agli animaletti di peluche che restano fra i denti delle ruspe). Pensate ai pasti scolastici negati ai bambini se le famiglie non possono pagare. O all’internamento delle donne dette “clandestine” nei “Centri di identificazione”, improvvisamente e brutalmente separate dai loro bambini a causa di un arresto arbitrario (parlo di eventi vissuti e constatati).
E, come se non bastasse, aggiungete la risoluta e congiunta condanna (Stato-Chiesa) delle famiglie “diverse”, definite “una minaccia”. Ecco, in questa finzione, che è forse la madre di tutte le finzioni di atti e fatti che hanno solo un fine politico (impedire che esistano altri tipi di famiglia, di amore, di figli), sta il deposito di cinismo, tradimento, rincorsa del potere, distacco da ogni valore, di patria o di fede, che constatiamo nel doppio dramma, dell’Italia e del Vaticano. Appartengono alla galleria delle finzioni (che si trasformano in veri inganni) le folle di autorevoli finti credenti, pronti a ricevere i sacramenti, purché in presenza di telecamere e di pubblico, o alla gara dei medici che si dichiarano obiettori di coscienza negli ospedali dove essere obiettori “fa curriculum” per i medici, qualunque sia la condizione della donna che chiede aiuto.
IL FINTO credente, che trova Dio solo se la cerimonia è ben frequentata e notata da chi deve notare, corrisponde al finto amor di patria di chi - specialmente fra i politici - cerca la benevolenza delle Forze Armate e “dei nostri ragazzi in armi”, ma si infastidisce se quei ragazzi sono in tuta da operaio, magari iscritti a un sindacato, specialmente se quei ragazzi insistono nel pretendere i diritti che legge e Costituzione garantiscono. Intorno, nell’una e nell’altra chiesa, c’è un deserto di solidarietà.
In Europa nessuno è più solo e più abbandonato dei disabili italiani. In quel vuoto entrano i rapitori di Emanuela Orlandi, i maggiordomi con doppio e misterioso lavoro, i banchieri improvvisamente cacciati per ragioni non dette, i tesorieri di partito, gestori di ricchezze comunque illecite che dividono diamanti e spese indecenti con strani infiltrati nella vita pubblica, tutti molto simili, per coraggio e mancanza di scrupoli, a certi cardinali.
La Repubblica italiana come istituzione politica, e il Vaticano come governo dell’omonimo Stato e della Chiesa, sono contenitori di società segrete, intente a un sommerso, ininterrotto lavorìo di promozione (il mio uomo contro il tuo) e di eliminazione reciproca, in una infinita variazione di casi Boffo. I maggiordomi, con o senza la severa uniforme vaticana, avranno ancora molto da fare. Ai credenti nella fede e nella patria toccano tempi duri
DOMANDA:
E’ PREFERIBILE "RISURREZIONE" O "RESURREZIONE"?
RISPOSTA:
Vanno bene entrambi. Ma! Ma...
Ma siccome qui (in modo latente e sottile) è in gioco anche la Costituzione e lo stesso Messaggio Evangelico, e la nostra - di tutti e tutte sovranità (e sacerdotalità), per memoria sonora (di significante e di significato) - è da preferire (a mio parere - con il conforto di Michael Arcangelo e di Melchi-tzedech, come di Mosè, di Elia, e Gesu’... è preferibile
RE - surrezione!!!
Una ri-surrezione che è - più propriamente una re-surrezione, la Resurrezione di Gesu’, e la re-stituzione della Libertà a ogni essere umano, a ogni cristiano e a ogni cristiana - la libertà dalla schiavitù e dalla morte!!!
RICORDIAMO e ringraziamo che L’AMORE è PIU’ FORTE DI MORTE.
Se no, che ricordiamo?! La nostra totale generale stupidità?!
Federico La Sala
Così noi ebrei riscriviamo quel racconto della bibbia
di Safran Foer (la Repubblica, 7 aprile 2012)
Safran Foer racconta il rapporto con l’"Haggadah", testo che viene letto in occasione della festività ebraica. Delle 7000 versioni note la più usata è quella del caffè Maxwell distribuita nei supermercati Ho trascorso buona parte degli ultimi anni a riscrivere l’Haggadah - la guida per le preghiere, i riti e i salmi del Seder (incontri che si celebrano in una delle due sere della Pasqua ebraica, NdT) - e di frequente mi chiedono per quale motivo ho voluto sottrarre tempo alla scrittura per investirlo in un simile progetto.
Per tutta la mia vita i miei genitori hanno ospitato il Seder della prima notte della Pasqua ebraica. A mano a mano che la nostra famiglia si allargava - e con essa di pari passo anche la nostra definizione di famiglia - per la cena rituale ci siamo spostati dalla sala da pranzo al nostro scantinato, più spazioso, che puzzava di muffa. Da un tavolo siamo passati a più superfici goffamente accostate le une alle altre per formarne uno più grande. La richiesta di mio padre di togliere la rete dal tavolo da ping-pong mi ha sempre reso consapevole dell’approssimarsi della Pasqua. Poi, tutti i tavoli erano ricoperti da grandi tovaglie sbiadite e assortite.
Ogni volta c’era un’Haggadah che i miei genitori avevano messo insieme fotocopiando i brani preferiti presi da altre Haggadah, e quando finalmente i Foer ottennero la connessione a Internet la prepararono stampando ciò che trovavano online. Perché la sera di Pasqua è diversa da qualsiasi altra? Perché quella sera non si applica il copyright.
In mancanza di una terra loro e stabile, gli ebrei misero su casa nei loro libri e l’Haggadah - il cui nucleo centrale è il racconto dell’Esodo dall’Egitto - è stata tradotta innumerevoli volte, più di qualsiasi altro libro ebraico, ed è stata rivista più frequentemente di qualsiasi altro libro ebraico. Ovunque si siano recati gli ebrei ci sono sempre state Haggadah: dall’Haggadah di Sarajevo risalente al XIV secolo (che si dice sia sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale sotto le assi del pavimento di una moschea, e all’assedio di Sarajevo nel caveau di una banca) a quelle preparate dagli ebrei etiopi e fatte pervenire per via aerea in Israele durante l’Operazione Mosé.
Tuttavia, delle settemila versioni note - per non parlare delle incalcolabili edizioni fatte in casa - una sola è usata più di tutte le altre messe insieme: dal 1932 l’Haggadah della Maxwell House predomina nei rituali degli ebrei americani. Sì, proprio quella della marca di caffè Maxwell House. Avendo assodato negli anni Venti che il chicco di caffè non è un legume bensì una bacca, e di conseguenza è kosher per Pasqua, la Maxwell House diede all’agenzia pubblicitaria Joseph Jacobs l’incarico di fare del caffè e non del tè la bevanda eletta da bere dopo i Seder. Se tutto ciò vi sembra folle, tenete presente che il caffè Maxwell House è sempre stato particolarmente popolare nelle case ebraiche.
L’Haggadah che ne nacque costituisce una delle promozioni-vendita speciale che dura da più tempo in assoluto nella storia della pubblicità. Nei supermercati ne sono state distribuite gratuitamente almeno 50 milioni di copie, ispiranti quanto si può immaginare che siano i gadget di una marca di caffè. Nondimeno, molte persone provano un senso di attaccamento nei confronti dell’Haggadah della Maxwell House, per la gioiosa rassicurazione che essa evoca. Ci piace come ci piacciono le battute sugli ebrei. La versione della Maxwell House è di per sé una sorta di battuta ebraica - per averne la conferma provate un po’ a farne parola a un gruppo di ebrei senza provocare risate. Oltretutto, è gratis e - al pari della bevanda a base di caffeina e senza tanti fronzoli che reclamizza - appaga un bisogno molto primario.
Il più leggendario Seder di tutti - che, per un caso postmoderno, è raccontato nell’Haggadah stessa - si svolse intorno all’inizio del secondo secolo a Bene Beraq tra gli studiosi più importanti dell’antichità ebraica. Si concluse anticipatamente, quando gli studenti irruppero per annunciare cheera giunta l’ora della preghiera del mattino. Anche se lessero l’Haggadah dall’inizio alla fine, espletando ogni rito e cantando ogni verso di ogni singolo salmo, probabilmente trascorsero la maggior parte del loro tempo a fare altro. A estrapolare, sviscerare, discutere.
La storia dell’Esodo, infatti, non deve essere soltanto recitata, ma affrontata. Se l’Haggadah della Maxwell House non è mai riuscita a soddisfare appieno le esigenze intellettuali e spirituali, in ogni caso è servita in modo egregio e appropriato agli ebrei esperti conoscitori dei riti di una o due generazioni fa.
Gli attori però non conoscono più il copione. Gli ebrei americani, con una sorta di esodo ulteriore, sono passati dalla povertà all’agiatezza, dalla tradizione alla modernità, dalla familiarità nei confronti di una storia comune alla perdita della memoria collettiva. I nostri nonni erano immigrati in America, ma erano originari dell’ebraismo. Noi siamo l’esatto contrario: sappiamo tutto di American Idol, ma non conosciamo i grandi protagonisti dell’ebraismo. Di conseguenza, nei confronti dell’ebraismo ci comportiamo come immigrati: ci andiamo cauti, lo respingiamo, ne diventiamo consapevoli, e fingiamo (o raggiungiamo) indifferenza. In quel paese straniero che è la nostra fede, abbiamo urgentemente bisogno di una buona guida.
Anche se significa "il racconto", l’Haggadah non racconta semplicemente una storia: è il libro della nostra memoria vivente. Non basta ri-raccontare la storia: dobbiamo spiccare un salto più estremo ed empatico ed entrare dentro di esso. «A ogni generazione ogni individuo è tenuto a considerarsi come se fosse colui che andò via dall’Egitto» ci dice l’Haggadah. Questo salto è sempre stato una sfida in grado di intimorire, seppur carico di significato per la mia generazione in modo diverso rispetto ai disperati delle prime generazioni che si volevano assimilare - perché adesso, oltre alla mancanza di cultura e di conoscenza del sapere ebraico, c’è anche il vizio strutturale di un compiacimento collettivo.
L’integrazione degli ebrei e delle tematiche ebraiche nella nostra cultura pop è così preponderante che ormai siamo intossicati dalle immagini surrogate di noi stessi. Anche io adoro Seinfeld (sit-com americana, NdT), ma non credete che ci sia un problema nel momento in cui questa trasmissione è indicata quale riferimento dell’identità ebraica del singolo? Per molti di noi, essere ebrei è diventato, più di ogni altra cosa, strano. Tutto ciò che resta, nel vuoto della scioltezza e della profondità, sono le risate.
Circa cinque anni fa ho avvertito in me una certa malinconia. Forse era dovuta al fatto di essere diventato padre, o semplicemente al fatto di invecchiare. Malgrado io sia cresciuto in una famiglia ebraica intellettuale e consapevole, non sapevo pressoché nulla di ciò che si suppone che sia il mio sistema di pensiero. C’era anche di peggio: mi sentivo soddisfatto del poco che sapevo. Talvolta pensavo al mio modo di essere in termini di rifiuto, ma è impossibile respingere ciò che non si comprende e che non è mai stato davvero tuo. Talvolta ritenevo fosse un successo, ma non c’è successo alcuno nella perdita passiva.
Perché ho sottratto tempo alla mia attività di scrittore per pubblicare una nuova Haggadah? Perché volevo fare un passo avanti in direzione di quella conversazione che potevo udire soltanto a stento attraverso le porte chiuse della mia ignoranza; un passo avanti in direzione di un ebraismo fatto di punti di domanda, più che di citazioni; verso la storia del mio popolo, della mia famiglia e di me stesso.
Come ogni bambino, anche mio figlio di sei anni adora ascoltare storie - miti e saghe nordiche, Roald Dahl, racconti della mia infanzia - ma più di ogni altra cosa gli piacciono le storie della Bibbia. Così, tra quando ha terminato di fare il bagno e il momento in cui va a letto, mia moglie ed io gli leggiamo spesso alcune versioni per bambini delle storie del Vecchio Testamento. Lui adora ascoltarle, perché sono le storie più belle mai raccontate. E noi adoriamo raccontargliele per un motivo diverso. Lo abbiamo aiutato a imparare a dormire tutta la notte, a servirsi della forchetta, a leggere, ad andare in bicicletta, a salutarci. Ma non esiste insegnamento più importante di quello che non si apprende mai ma si studia sempre, il progetto collettivo più nobile di tutti, preso in prestito da una generazione e tramandato alla successiva: come trovare sé stessi.
Alcune sere, fa, dopo aver sentito raccontare la morte di Mosé per l’ennesima volta - e come esalò l’ultimo respiro avvistando una terra promessa nella quale non avrebbe mai messo piede - mio figlio ha appoggiato la testa dai capelli ancora umidi sulla mia spalla.
«C’è qualcosa che non va?» gli ho chiesto, chiudendo il libro.
Lui ha scosso la testa.
«Sei sicuro?».
Senza alzare il viso, ha domandato se Mosé è esistito davvero.
«Non lo so» gli ho risposto, « ma siamo imparentati con lui».
(Traduzione di Anna Bissanti)
Jonathan Safran Foer ha appena pubblicato la "New American Haggadah"
"CAPPELLA SISTINA" IN PERICOLO.
Lettera aperta al Soprintendente di Salerno, sullo stato della Chiesa "Maria SS. del Carmine" di Contursi Terme
APPELLO DI CONTURSI: SALVATE LA NOSTRA CAPPELLA SISTINA
LE 12 SIBILLE DI CONTURSI - LA GUERRA NELLA TESTA DELLA GERARCHIA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA E L’INDICAZIONE ’DIMENTICATA’ DI GIOVANNI PAOLO II.
Omelia di Giovanni Paolo II
Festa di San Giuseppe - Castelpetroso (Campobasso) Domenica, 19 marzo 1995 *
(...) La Chiesa considera suo precipuo dovere annunziare il “vangelo del lavoro”, che costituisce un aspetto essenziale della sua dottrina sulla giustizia sociale. E qui possiamo ritornare al Libro dell’Esodo ed alla missione liberatrice affidata da Dio a Mosè. Si tratta infatti di una liberazione anche in senso sociale. L’ingiustizia che i figli e le figlie di Israele sperimentano consiste nello sfruttamento del loro lavoro, anche allo scopo di distoglierli dalla vita familiare e dal servizio di Dio. Il faraone ritiene che in questo modo cesseranno di essere pericolosi per l’Egitto.
La strategia del faraone, di assoggettare mediante il lavoro, costituisce un significativo paradigma, entro il quale Mosè rappresenta quanti nel corso della storia non cessano di intraprendere la lotta per la giustizia sociale. Questa consiste per un aspetto essenziale nel riconoscimento della giusta dignità del lavoro umano e in un’equa remunerazione, grazie alla quale il lavoratore possa mantenersi insieme con la propria famiglia. D’altra parte, essa richiede anche adeguati interventi a favore di coloro che, pur non volendolo, si trovano nella precaria e avvilente situazione di disoccupati.
Il lavoro deve contribuire allo sviluppo dell’uomo e non al soffocamento servile della sua dignità. Questo è il postulato fondamentale del “vangelo del lavoro”. Gesù, impegnato accanto a Giuseppe al banco di lavoro, proclama questo vangelo mediante la sua stessa vita nascosta a Nazaret. La dottrina sociale cristiana e tutte le Encicliche sociali, cominciando dalla Rerum Novarum, rappresentano la manifestazione di tale “Sollicitudo rei socialis”, di quella sollecitudine per la giustizia sociale, che la Chiesa non si stanca di promuovere e di attuare annunziando il Vangelo dell’Alleanza di Dio con l’uomo. E questa tematica deve essere sempre riproposta nella giornata festiva di San Giuseppe. Questo umile carpentiere di Nazaret, accanto a Gesù di Nazaret, rappresenta anche la problematica della giustizia sociale per tutti noi, per il mondo del lavoro e per la Chiesa.
6. Carissimi, da questo Santuario, espressione della fede di un popolo laborioso e tenace, affido alla Madre Addolorata le attese e le speranze dell’odierna società, in particolare le attese del mondo del lavoro. Colei che al Calvario è stata unita al Sacrificio redentore di Cristo, ottenga ai suoi figli di essere sempre fedeli al Dio dell’Alleanza. Ottenga di portare frutti abbondanti di giustizia e di pace, mangiando “lo stesso cibo spirituale” e bevendo “la stessa bevanda spirituale” di cui ci parla la liturgia di oggi.
I nostri Padri - ricorda san Paolo - bevevano “da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era Cristo” (1 Cor 10, 4). Cristo resta la roccia alle cui acque beviamo anche noi.
Amen!
* ARCIDIOCESI CAMPOBASSO-BOJANO, 19 MARZO 2012
I vescovi: l’uomo non è una merce
Soluzioni condivise
di Roberto Monteforte (l’Unità, 23 marzo 2012)
Non è lo scontro che serve al Paese. Soprattutto in questa fase. Chi può essere così sicuro che con la riforma dell’articolo 18 si risolva il problema della precarietà? Non ci si rende conto di quanto sia grave lo strappo con la Cgil, il maggiore sindacato italiano? E poi il lavoratore «non è una merce da eliminare per questioni di bilancio», ma una persona e come tale da rispettare.
Sono critiche di fondo quelle che monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso- Bojano, presidente della commissione lavoro alla Cei e con un passato in fabbrica, muove al governo Monti. In un’intervista a Famiglia Cristiana esprime con chiarezza tutte le sue preoccupazioni per gli effetti concreti della riforma Monti-Fornero e soprattutto per la scarsa attenzione data alla dignità dell’uomo. «Con questa riforma la precarietà sarà vinta? O addirittura aumenterà?», si domanda. Parla a titolo personale il responsabile Cei per il lavoro e le questioni sociali, a pochi giorni dall’apertura del Consiglio Permanente dei vescovi.
Ma dopo che le agenzie hanno lanciato la sua intervista, anche la Cei prende ufficialmente posizione con il suo portavoce, monsignor Domenico Pompili. «La situazione del mondo del lavoro afferma Pompili - costituisce un assillo costante dei vescovi. La dignità della persona passa per il lavoro riconosciuto nella sua valenza sociale». «La Conferenza episcopale italiana - conclude - segue con attenzione le trattative in corso, confidando nel contributo responsabile di tutte le parti in campo, al fine di raggiungere una soluzione, la più ampiamente condivisa». Così la posizione di Bregantini trova copertura.
Le sue sono le preoccupazioni della Chiesa che è in prima linea nel fronteggiare la crisi economica e sociale. «I licenziamenti economici - afferma il vescovo - rischiano di generare un clima di paura in tutto il Paese». Teme che nelle aziende e nelle famiglie monti «un’ondata di terrore» per paura di vedersi licenziati per motivazioni economiche o organizzative. E aggiunge: «Una siepe protettiva sui licenziamenti economici bisognava metterla». Da qui il suo appello rivolto soprattutto ai politici perché «si possa creare una rete di diritti e di protezioni più solida».
Invoca coesione. Lasciare fuori la Cgil per questo lo giudica «un grave errore», come pure considerare questo una cosa «data quasi per scontata», come se non fosse «una cosa preziosa» per la riforma del lavoro avere il consenso del primo sindacato italiano. Va tenuto conto, infatti, che «dietro questa fetta di sindacato vi è tutto un mondo importante, cruciale da coinvolgere per camminare verso il futuro». L’altra critica è ai tempi stretti imposti per una riforma di questa portata e quel perentorio «la partita è chiusa» del premier Monti, mentre sarebbe stato necessario aprire il dialogo in Parlamento, nei luoghi di lavoro e nel Paese.
Ma è un tema etico di fondo quello che Bregantini pone di fronte ai licenziamenti «chiamati elegantemente, “flessibilità in uscita”». «Il lavoratore è persona o merce?». «Non lo si può trattare - scandisce - come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto». Poi osserva come in politica l’aspetto tecnico stia diventando prevalente su quello etico. Come sia eccessiva la «sintonia» tra profitto e aspetto tecnico.
Un promemoria della Chiesa per il premier Monti e il ministro Fornero e per tutti i cattolici impegnati in politica. Lo rilanciano in molti, da Rosy Bindi a Leonluca Orlando, che chiedono al governo di ascoltare la Cei.
“Potare è sempre una fatica, ma finalizzata alla fioritura"
intervista al vescovo Giancarlo Bregantini
a cura di Maria Teresa Pontara Pederiva (“Vatican Insider”, 30 aprile 2012)
“Sono solito paragonare questa crisi ad una sorta di potatura: quando si pota solo un esperto conosce quali rami vanno tagliati, ed è un po’ la fatica di questi giorni. Quando si pota non si vede il frutto, si intravede soltanto”. E’ questa la chiave di volta per leggere la storia di oggi, secondo monsignor Giancarlo Bregantini, vescovo di Campobasso-Bojano e presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace e membro del comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei cattolici. Classe 1948, appartenente alla congregazione degli Stimmatini, ordinato prete a Crotone, è stato vescovo di Locri-Gerace dal 1994 al 2007, come dire in prima linea per difendere la libertà delle persone dal laccio opprimente della mafia.
“E’ sempre possibile trasformare, rinnovare, rifiorire. Mai lasciarsi annientare dalla crisi, ma affrontarla con speranza e saper guardare lontano. Le foglie ingiallite possono cadere, ma le radici restano e, se sono solide, permetteranno sempre una rifioritura in primavera. Tutto è possibile, perché Dio è più grande di noi”.
Parole pronunciate sulla collina di Trento, presso la facoltà di scienze, nel corso di uno dei suoi rientri nella terra natale. E dalle sue origini contadine, legate alla terra della sua valle di Non - ma è stato anche prete-operaio in Veneto - mons. Bregantini (o padre Giancarlo, come preferisce essere chiamato) trae spesso le immagini per comunicare in maniera più immediata il suo pensiero. Ma esiste un’altra costante nei suoi interventi: l’ambiente contadino s’intreccia con il racconto biblico e raggiunge il cuore della gente, quasi una “teologia narrativa” per l’uomo di oggi, soprattutto giovani, come quei tanti giovani calabresi che lui ha letteralmente strappato dalle sgrinfie della malavita per avviarli ad un futuro di dignità, la dignità che hanno raggiunto con i tanti progetti avviati in collaborazione con il “suo” Trentino, terra della cooperazione avviata un secolo e mezzo fa da un altro prete, Lorenzo Guetti, per mitigare la povertà delle terre di montagna.
E per spiegare il problema del lavoro ai giovani, cui si prospetta un futuro oltremodo incerto, sceglie di frequente la storia di Rut, narrata nell’omonimo libro: Noemi, la suocera, rimasta vedova (e sono morti anche i due figli) è sfiduciata a tal punto che vorrebbe cambiare il suo nome da “gioia mia” (il significato di Noemi) a Mara (amara). Orpa, la prima nuora le volta le spalle, ma l’altra - Rut (“amica fedele”) - resta invece con lei mostrando una solidarietà effettiva, un aiuto concreto, una mano che accompagna e allevia la fatica. Insieme tornano a Betlemme nel “tempo dell’orzo”, segno delle risorse della terra da non sottovalutare, come pure dei talenti di ciascuno, giovani compresi e lì, per guadagnarsi da vivere per lei e la suocera, comincia a spigolare, a raccattare quanto è rimasto in terra dopo la mietitura, che è ben di più della precarietà. Ma Rut, nonostante la povertà, ha la dignità di una regina e il vescovo conclude “la dignità di una persona non dipende dal lavoro come insegna la Laborem Exercens (n. 6).
E ancora “la crisi non ci deve riempire di paura, ma di solidarietà e dignità. Abituiamo i nostri giovani ad usare le mani, a vangare l’orto ... oggi il nemico non è la disoccupazione, ma il vuoto che ha creato e che va riempito con dei valori, con l’orzo e la dignità dello spigolare”. A loro dico “tu solo puoi farcela, ma non puoi farcela da solo”.
Lei si era espresso sulla modifica dell’articolo 18, ma altri avevano pareri differenti, come lo spiega?
L’art. 18 non è stato deciso dal Concilio di Nicea: nel merito possono benissimo convivere pareri differenti e completarsi. La storia della Chiesa ha registrato tante opinioni sul tema della povertà lungo i secoli, pensiamo solo ad un ordine come quello dei francescani che ne hanno discusso allo spasimo.
I vescovi europei hanno pubblicato il documento per un’Europa di responsabilità e solidarietà, come lo declinerebbe per il nostro Paese?
La situazione che stiamo vivendo richiede innanzitutto un esserne consapevoli, ma senza paura. Occorre coltivare sempre nel cuore la speranza e fornire esperienze di sostegno alla speranza accompagnando le persone. Se poi pensiamo in termini di potatura, questo significa meno cose e più valori, meno meriti e più dono. E questa potrebbe essere anche l’ottica con cui si potrebbe vivere il prossimo Convegno delle famiglie a Milano.
"Difendere il lavoro"
l’omelia di Caffarra
L’arcivescovo di Bologna celebra messa in occasione di San Giuseppe lavoratore in un’azienda a Pianoro. E chiede "decisioni sagge e forti" da parte del potere politico *
"La persona trascende ogni sistema che essa stessa ha prodotto. Servono decisioni sapienti e forti. Non possiamo dimenticare certo che la situazione attuale ha messo lo Stato di fronte a vere e proprie limitazioni della sua sovranità. Tuttavia questa congiuntura deve portarci a non sottovalutare la necessità di istituzioni politiche solide e ad un ripensamento e rinnovata valutazione del potere politico".
E’ il passaggio centrale dell’omelia, in occasione della Festa di S. Giuseppe lavoratore, pronunciata dal cardinale Carlo Caffarra durante una messa tenuta oggi nell’azienda Marchesini Group a Pianoro.
Secondo l’arcivescovo di Bologna, "la stella polare della dignità della persona deve orientare tutti ad affermare, difendere, perseguire quale priorità assoluta l’obiettivo dell’accesso al lavoro e del suo mantenimento, per tutti. Sarebbe segno di miopia anche da parte della semplice ragione economica, pensare e decidere di rendere il Paese più competitivo a livello interno ed internazionale negando quella priorità. Non mi devo addentrare, il Vescovo non lo deve fare, nella modalità anche legislativa per salvaguardare la priorità suddetta. Chiedo solo di guardare ai ’costi umani’, che sono già sotto gli occhi di tutti, quando quella salvaguardia è disattesa. E i costi umani finiscono sempre per essere anche fra l’altro costi economici".
"La stella polare della dignità della persona - ha aggiunto Caffarra - esige da parte di tutti una grande opera di sapienza. La matrice culturale di cui è ancora in larga misura impastata la dottrina dell’economia e dello Stato, quella utilitaristica, deve essere abbandonata: troppi danni essa ha causato. Sulla base di quella matrice l’Occidente ha costruito una casa per l’uomo nella quale questi non può vivere una buona vita. E’ una casa sempre più inospitale".
* la Repubblica/Bologna, 01 maggio 2012
APPELLO ALLE COMUNITA’ CRISTIANE
LA DITTATURA DELLA FINANZA : ABBIAMO TRADITO IL VANGELO?
di Alex Zanotelli *
In questo periodo quaresimale sento l’urgenza di condividere con voi una riflessione sulla ‘tempesta finanziaria’ che sta scuotendo l’Europa , rimettendo tutto in discussione :diritti, democrazia, lavoro....In più arricchendo sempre di più pochi a scapito dei molti impoveriti.Una tempesta che rivela finalmente il vero volto del nostro Sistema: la dittatura della finanza. L’Europa come l’Italia è prigioniera di banche e banchieri. E’ il trionfo della finanza o meglio del Finanzcapitalismo come Luciano Gallino lo definisce :“Il finanzcapitalismo è una mega-macchina ,che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni, allo scopo di massimizzare e accumulare sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia del maggior numero di esseri umani sia degli eco-sistemi.”
Estrarre valore è la parola chiave del Finanzcapitalismo che si contrappone al produrre valore del capitalismo industriale, che abbiamo conosciuto nel dopoguerra. E’ un cambiamento radicale del Sistema!
Il cuore del nuovo Sistema è il Denaro che produce Denaro e poi ancora Denaro. Un Sistema basato sull’azzardo morale, sull’irresponsabilità del capitale , sul debito che genera debito.E’ la cosidetta “Finanza creativa” , con i suoi ‘pacchetti tossici’ dai nomi più strani(sub-prime, derivati,futuri, hedge-funds...) che hanno portato a questa immensa bolla speculativa che si aggira, secondo gli esperti, sul milione di miliardi di dollari! Mentre il PIL mondiale si aggira sui sessantamila miliardi di dollari. Un abisso separa quei due mondi:il reale e lo speculativo. La finanza non corrisponde più all’economia reale. E’ la finanziarizzazione dell’economia.
Per di più le operazioni finanziarie sono ormai compiute non da esseri umani, ma da algoritmi, cioè da cervelloni elettronici che, nel giro di secondi, rispondono alle notizie dei mercati. Nel 2009 queste operazioni, che si concludono nel giro di pochi secondi, senza alcun rapporto con l’economia reale, sono aumentate del 60% del totale. L’import-export di beni e servizi nel mondo è stimato intorno ai 15.000 miliardi di dollari l’anno. Il mercato delle valute ha superato i 4.000 miliardi al giorno: circolano più soldi in quattro giorni sui mercati finanziari che in un anno nell’economia reale. E’ come dire che oltre il 90% degli scambi valutari è pura speculazione.
Penso che tutto questo cozza radicalmente con la tradizione delle scritture ebraiche radicalizzate da Gesù di Nazareth.Un insegnamento, quello di Gesù, che ,uno dei nostri migliori moralisti,don Enrico Chiavacci, nel suo volume Teologia morale e vita economica , riassume in due comandamenti, validi per ogni discepolo:” Cerca di non arricchirti “ e “Se hai, hai per condividere.”
Da questi due comandamenti , Chiavacci ricava due divieti etici: “divieto di ogni attività economica di tipo eslusivamente speculativo” come giocare in borsa con la variante della speculazione valutaria e ” divieto di contratto aleatorio”.Questo ultimo ,Chiavacci lo spiega così :” Ogni forma di azzardo e di rischio di una somma, con il solo scopo di vederla ritornare moltiplicata, senza che ciò implichi attività lavorativa, è pura ricerca di ricchezza ulteriore.” Ne consegue che la filiera del gioco, dal ‘gratta e vinci’ al casinò ,è immorale.
Tutto questo , sostiene sempre Chiavacci ,“ cozza contro tutta la cultura occidentale che è basata sull’avere di più. Nella cultura occidentale la struttura economica è tale che la ricchezza genera ricchezza”.
Noi cristiani d’Occidente dobbiamo chiederci cosa ne abbiamo fatto di questo insegnamento di Gesù in campo economico-finanziario. Forse ha ragione il gesuita p.John Haughey quando afferma :”Noi occidentali leggiamo il vangelo come se non avessimo soldi e usiamo i soldi come se non conoscessimo nulla del Vangelo.” Dobbiamo ammettere che come chiese abbiamo tradito il Vangelo , dimenticando la radicalità dell’insegnamento di Gesù :parole come ” Dio o Mammona,”o il comando al ricco:”Và, vendi quello che hai e dallo ai poveri”.
In un contesto storico come il nostro, dove Mammona è diventato il dio-mercato, le chiese, eredi di una parola forte di Gesù, devono iniziare a proclamarla senza paura e senza sconti nelle assemblee liturgiche come sulla pubblica piazza.
L’attuale crisi finanziaria “ha rivelato comportamenti di egoismo, di cupidigia collettiva e di accaparramento di beni su grande scala-così afferma il recente Documento del Pontificio Consiglio di Giustizia e Pace( Per una riforma del Sistema finanziario e monetario internazionale). Nessuno può rassegnarsi a vedere l’uomo vivere come ‘homo homini lupus’ ”.
Per questo è necessario passare, da parte delle comunità cristiane, dalle parole ai fatti, alle scelte concrete, alla prassi quotidiana:”Non chiunque mi dice: ‘Signore, Signore’ entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio”.(Matteo, 7,21)
Come Chiese,dobbiamo prima di tutto chiedere perdono per aver tradito il messaggio di Gesù in campo economico-finanziario, partecipando a questa bolla speculativa finanziaria( il grande Casinò mondiale).
Ma pentirsi non è sufficiente, dobbiamo cambiare rotta, sia a livello istituzionale che personale.
A livello istituzionale(diocesi e parrocchie):
promuovendo commissioni etiche per vigilare sulle operazioni bancarie ;
invitando tutti al dovere morale di pagare le tasse;
ritirando i propri soldi da tutte le banche commerciali dedite a fare profitto sui mercati internazionali;
investendo i propri soldi in attività di utilità sociale e ambientale, rifiutandosi di fare soldi con i soldi ;
collocando invece i propri risparmi in cooperative locali o nelle banche di credito cooperativo;
privilegiando la Banca Etica, le MAG (Mutue auto-gestione) o le cooperative finanziarie.
rifiutando le donazioni che provengono da speculazioni finanziarie, soprattutto sul cibo, come ha detto recentemente Benedetto XVI nel suo discorso alla FAO.
A livello personale ogni cristiano ha il dovere morale di controllare:
in quale banca ha depositato i propri risparmi;
se è una” banca armata”, cioè investe soldi in armi;
se partecipa al grande casinò della speculazione finanziaria;
se ha filiali in qualche paradiso fiscale;
se ottiene i profitti da ‘derivati’ o altri ‘pacchetti tossici’.
“Le banche ,che dopo aver distrutto la nostra economia, sono tornate a fare affari- scrive il pastore americano Jim Wallis- devono ricevere un chiaro messaggio che noi troviamo la loro condotta inaccettabile.Rimuovere i nostri soldi può fare loro capire quel messaggio.”
Ha ragione don Enrico Chiavacci ad affermare:”Questa logica dell’avere di più e della massimizzazione del profitto si mantiene attraverso le mille piccole scelte ,frutto di un deliberato condizionamento. Le grandi modificazioni strutturali, assolutamente necessarie, non potranno mai nascere dal nulla:occorre una rivoluzione culturale capillare. Se è vero che l’annuncio cristiano portò all’abolizione della schiavitù, non si vede perché lo stesso annuncio non possa portare a una paragonabile modificazione di mentalità e quindi di strutture. Il dovere di testimonianza, per chi è in grado di sfuggire a una presa totale del condizionamento,è urgente.”
Buona Pasqua di Risurrezione a tutti!
Alex Zanotelli
Napoli,22 marzo 2012
* Il Dialogo, Venerdì 23 Marzo,2012
DON GIUSEPPE DE LUCA
Il ricordo del Migliore
«Lui sacerdote io non credente»
Palmiro Togliatti stimava il prelato, tanto che scrisse un testo su don Giuseppe in occasione del primo anniversario della sua morte. In questa pagina dedicata a don De Luca ripubblichiamo quel testo, che apparve su «Rinascita» il 15 giugno 1963. Gli incontri. «Qualcosa di comune negli orientamenti della nostra cultura»
di Palmiro Togliatti, da Rinascita (l’Unità, 15.03.2012)
Con don Giuseppe De Luca io ebbi soltanto un certo numero di incontri. Non molti. Eppure bastarono a stabilire tra di noi una corrente che non era soltanto di comprensione e simpatia, ma di amicizia. Vi era qualcosa di comune, mi pare, negli orientamenti della nostra cultura. In questo senso, che entrambi avevamo vissuto, anche se partendo da posizioni diverse e con diverso punto di arrivo, la grande crisi e svolta del Novecento. Mi era sembrato strano, quando lo venni a conoscere, che la mente di quel sacerdote si fosse travagliata attorno alle stesse opere, agli stessi contrasti di idee e di costume, attorno al contenuto delle stesse riviste e rivistine, persino, che erano state l’oggetto del travaglio nostro, di Antonio Gramsci, mio, di altri giovani ora scomparsi, in anni da oggi tanto lontani. Mi è parso perciò di avere acquistato più precisa coscienza, nel contatto con lui, del fatto che una generazione è qualcosa di reale, che porta con sè certi problemi e ne cerca la soluzione, soffre di non averla ancor trovata e si adopra per affidare il compito di trovarla a coloro che sopravvengono. E in questo modo si va avanti.
Ma eravamo approdati a diverse rive. Lui sacerdote, io non credente. Ed ora mi chiedo, ciò che conversando e discutendo con lui non mi ero chiesto mai, perché noi potessimo così ampiamente e liberamente comunicare e trovare contatto. È vero, questioni di religione non ne affrontavamo. L’ultima volta che ci vedemmo ci fu una certa malizia, da parte mia (avevo da poco letto i Trattati antimanichei, nella recente edizione che ne è stata fatta in Francia), nel citargli una espressione di Sant’Agostino, nella quale coglieva il germe e un germe ben dispiegato di dottrine hegeliane. Lasciò cadere. Non era quello il terreno su cui dovevamo confrontarci. E non era neanche quello della politica, nel senso ristretto, tradizionalmente chiuso, di questa espressione.
La sua mente e la sua ricerca mi pare fossero volte, nel contatto con me, a scoprire qualcosa che fosse più profondo delle ideologie, più valido dei sistemi di dottrina, in cui potessimo essere, anzi, già fossimo uniti. Cercava e metteva in luce la sostanza della nostra comune umanità; lo interessava che vi fosse in noi una comune coscienza dei problemi che alla umanità si presentavano, oggi, in un momento così grave, così terribile della sua storia, come è il momento presente. Nel momento in cui ci attende o un nuovo inesauribile slancio di creazione, oppure la distruzione ad opera delle nostre stesse mani.
Ho sempre avuto la visione precisa ch’egli considerasse cosa certa che le fratture, gli abissi che oggi lacerano e contrappongono gli uni e gli altri, i gruppi sociali e le società umane saranno colmati. Penso sia normale, in un credente, questa aspirazione. Ciò che trovavo nelle sue parole era però anche la convinzione che per colmare questi abissi si può e si deve agire subito, e per agire subito, non basta essere vicini e conoscersi, ma bisogna comprendersi. E questo non è sempre facile. Richiede uno sforzo, uno scontro, talora, ma uno scontro che sia insieme ricerca comune di cose nuove. In questo modo io capisco, ora, e credo di collocare giustamente, nell’immagine che mi è rimasta di lui, quel suo acuto senso della realtà e quei suoi giudizi diretti, crudi, a volte persino violenti, e che colpivano in tutte le direzioni. Che non creavano una barriera, però, anzi, portavano a comprendersi meglio, creavano una condizione e un animo tali che consentivano di guardare assieme, lontano a mète comuni.
Conserverò in me sempre, profonda, circondata d’affetto e di venerazione, l’immagine di quest’uomo, la cui fiducia ferma nell’avvenire e nella salvezza dell’umanità ha dato maggior forza e tranqullità alla stessa fiducia che anch’io nutro.
Un monaco senza indulgenze
di Rossana Rossanda (il manifesto, 26 novembre 2000)
Si è spento a Camaldoli Benedetto Calati, un monaco raro che amavamo e che ci amava e per noi, che non speriamo nell’eternità, per sempre perduto. Era avvertito della fine, aveva salutato i fratelli saliti fra vento e pioggia a dirgli addio, ma si era schermito dal benedirli, come per restare il più spoglio fra di loro. E poi s’era fatto riportare in cella, lontano dall’agitazione che circonda anche la morte, trattenendo con un gesto soltanto Emanuele Bargellini, che porta su di sé la responsabilità del convento, la mano nelle mani di lui, finché l’ansia del respiro si è andata acquietando nel sonno della fine.
Aveva 86 anni, era smagrito come un ramo secco, i grandi occhi scuri rimasti divoranti sul volto smunto. «Benedetto ha ottant’anni» aveva telefonato ridendo un certo mese di marzo; nessuno ama la vita come chi vede in essa una meraviglia di dio. Era nato povero, Luigi Calati, che poi aveva scelto il nome del suo ordine, i benedettini, nella campagna del tarantino, e da ragazzo i suoi l’avevano messo nel convento dei carmelitani a Mesagne. Di quella campagna ossequiente aveva raccontato una volta a Montegiove, facendo sussultare un vescovo che s’era presentato inatteso, che la processione del Corpus domini si fermava sotto il balcone dei signori del paese, perché essi non vi partecipavano fra il volgo.
Era nato ribelle, se a 16 anni era scappato una notte verso Camaldoli dove gli avevano detto che la parola era studiata «sine glossa», senza il filtro dell’interpretazione obbligata o consentita. E di Camaldoli era diventato la guida nel 1969, in ubbidienza ma con il cuore libero, che era la sola cosa libera che la chiesa lasciava allora e che gli aveva insegnato il suo testo prediletto, gli scritti di Gregorio Magno, il papa che era stato un prefetto di Roma e poi s’era raccolto al Celio, mentre l’unicità dell’impero era battuto dall’irruzione dei barbari/l’altro, abbattendone l’arroganza. Gregorio, il solo pontefice che aveva detto: «L’ultimo dei credenti può interpretare la parola come me».
Ma poi la chiesa se l’era non innocentemente scordato, e quella che Benedetto aveva conosciuto da giovane era chiusa ed occhiuta, fino ai rimbrotti del Sant’Uffizio, pronto a ritirare l’insegnamento se non a scomunicare anche i più grandi. Così per prima cosa, pur tacendo, aveva riaperto Camaldoli al suo ruolo storico di passo, luogo di sosta, accoglienza e ascolto dei viaggiatori che attraversavano l’Italia. A Camaldoli nei secoli passati erano affluiti da Firenze anche i Medici e qui adesso affluivano gli amici inquieti e anche qualche nuovo potente, che Benedetto scrutava riconoscendo, con un sorriso, «un poveretto allevato nelle sacrestie».
E a capo di Camaldoli era rimasto fino al 1984, quando qualche commesso di Roma lo aveva indotto a lasciare. Ma ormai il monastero era cambiato, c’erano i suoi allievi ed amici, ed egli ne rimaneva il riferimento - non l’autorità, termine che non amava. Un centro di preghiera e opere, ricerca teologica e musica, spalancato sul mondo - non arrivava a dire che forse ogni monaco avrebbe dovuto lavorare fuori, e poi rientrarvi, per non cedere all’appartarsi dalla vita reale degli uomini? Da parte sua, egli scendeva a Roma, insegnava a Sant’Anselmo, visitava le altre case e i gruppi che lo chiamavano.
E l’estate veniva a Montegiove, la bella casa benedettina un poco cadente sopra Fano, dove si riunivano credenti e non credenti, definizione di cui a lui non poteva importare di meno, giacché dio, era scritto, aveva amato il mondo, non solo i fedeli. A Montegiove si discuteva dei temi e dei dilemmi sapienziali, quelli che in ultima istanza non sono così distinguibili fra religione e religione, religione e laicità - il cristiano ha in più la fede, che è un dono e una virtù, ma un po’ meno essenziale dell’amore. Leggeva per noi i testi che più amava - ma perché torna su Gregorio?, si chiedevano talvolta i fratelli più giovani. Penso che fosse perché era il pontefice che aveva detto: siate soli davanti al testo. E nelle sue parole, nelle ricerche dei biblisti, nelle nostre domande o obiezioni o risposte, Benedetto ascoltava se stesso, vedeva la profezia come un anagramma della storia, e fra esse e il tempo vedeva inscriversi il cammino degli uomini.
Del resto, un solo errore gli appariva una colpa ed era il potere, il potere sulle menti, il potere del comando e della ricchezza. Era stato l’editto costantiniano, il patto fra la chiesa e il potere terreno, la vera grande colpa. Per chi non aveva potere e con lui cercava, egli nutriva un’insaziata curiosità e tenerezza. Erano gli amici e le amiche, cui scriveva come Gregorio: «Perché non vieni? Tutta Roma ti aspetta». Ma non era vero niente, aggiungeva ridendo, non era Roma era Gregorio che aspettava.
A Montegiove lo sentii per la prima volta, me l’aveva indicato Adriana Zarri, parlava sulla legge, la coscienza, la libertà e metteva la libertà per prima. Non succede spesso che un sacerdote parli così, ma dio ci ha fatto liberi, ricordava. Liberi di pensare e liberi di ascoltare. Anche qualche anno dopo, quando parlammo dell’esilio, rivendicò al monachesimo non la fuga dal mondo - respingeva il contemptus mundi, il disprezzo del mondo predicato dalla chiesa devozionale - ma il ritiro dell’io con la parola, senza l’intermediario della legge. Il monachesimo è stato la libertà della chiesa nascente. Al convento bisognava tornare per continuarne a uscire fra la gente.
Lui continua a muoversi dalla cella al mondo. E poiché i monaci sono pazzi, ne uscì anche in un impietoso luglio, quando il solleone del meriggio lo colse in viaggio, e un ictus lo colpì, crudelmente bloccandogli la mano e la parola, lo scrivere e il parlare, il tramite fra lui e gli altri. Nessuno di noi dimenticherà il fuoco delle sue parole brevi e appassionate, che nessuna pagina restituirà mai.
Dal limite e l’umiliazione del non riuscire a districare i suoni e reggere la penna, era uscito da solo, sfuggendo per riserbo alle affettuose violenze dei medici - non poteva sentirsi addosso le mani su quel corpo che, ci spiegò una volta sorprendendoci un benedettino diverso, Teodoro Salmann, imparava dal monachesimo una compiuta compostezza; che, secondo Paolo, ci spiegava il biblista Barbaglio, è casa di dio. Non so che cosa ne pensasse Benedetto. Non gli piaceva né soffrire né indebolirsi, ed era riuscito a venirne fuori da solo, caparbio, la parola appena un poco intralciata e la mano appena meno ferma.
Aveva dovuto rinunciare alle lezioni a Sant’Anselmo, diminuire i viaggi, evitava i passaggi, come le lunghe scalinate del Celio, dove doveva essere aiutato. Non amava l’idea della morte, ne aveva paura, mi disse un giorno che parlavamo sotto il diluvio, lui inquieto nella zampata che si era sentito addosso e io appesantita dalle insufficienze nelle quali sta finendo la mia strada. Mi dicono che ultimamente le si era riconciliato, riconciliato con la fine della meravigliosa vita, questa vita, traversata dal tempo che la divora, ansia e dubbi e felicità delle creature: amava San Francesco più per il Cantico delle creature che per la povertà, lui che non aveva nulla e non vidi mai nel bellissimo abito bianco del suo ordine, lui che girava in pantaloni e maglione, una sciarpa al collo.
Ma doveva essere ormai pieno di collera, se questa parola gli si può attribuire, o forse un eccesso di amore frustrato per la chiesa che era stata la sua passione. Come ha detto questa estate a un amico (Raffaele Luise, La visione di una monaco, Cittadella Editrice, pagg. 95, Assisi 2000), aveva veduto nel Concilio Vaticano II la realizzazione della speranza che la chiesa ritrovasse lo spirito del Nuovo testamento e la sapienza del Vecchio. Speranza nutrita in un lungo silenzio, perché gli ultimi papi «avevano paura della laicità, paura del mondo sconsacrato», ignoravano che «dio non dice di amare i fedeli ma di amare il mondo». Ma poi era venuto il miracolo di Giovanni XXIII, «figlio di contadini che arrivò a essere papa - contro ogni diplomazia e regola - perché era tanto vecchio... sussultammo anche noi per quel papa vecchio prima di scoprire che era giovane». E ricorda il riso liberatorio con cui lo videro arrivare in Vaticano «sulla sedia gestatoria con la tiara in testa e la fettuccia delle mutande che era stata legata male. Finalmente ridemmo». Erano stati liberati dal papa «che ci ha dato il Concilio, cioè il primato della parola di dio oltre ogni gerarchia umana, cristiana, cattolica».
Ma poi sono venuti i colpi di arresto, le prudenze (è severo Benedetto con Paolo VI) e infine la concessione alle pompe e agli ori e alla mediaticità del sontuoso giubileo, e quel piovere di vergognose indulgenze e beatificazioni, perfino Pio IX. Già l’anno scorso ne aveva fatto un cenno severo a Montegiove. Adesso nell’intervista a Luise la requisitoria è spietata. Sì, aveva sperato che il concilio facesse uscire la chiesa da quello stato in cui «non c’era più ombra di vita, i fedeli dovevano essere più che fedeli, obbedienti», come i sudditi di una repubblica pagana, tutti sotto controllo. Il dialogo ecumenico si apriva fra religioni e fra gli uomini e le donne, «uomini e donne alla pari, che sono essi la chiesa, il popolo di dio», non più soltanto cardinali, papi, curia e vescovi. Popolo dove ognuno «conserva la rivelazione nel suo cuore come Maria», la sorella di Marta, «perché la chiesa non inventa la verità, la custodisce».
Ma allora, gli è stato chiesto, il Sant’Uffizio? «Deve andare a farsi friggere». E la Congregazione della dottrina della fede? «Un’espressione senza senso». Già circolano le voci sussiegose, quando mai un monaco parla così? Benedetto non salva uno degli apparati ideologici della chiesa, tantomeno la curia: non hanno rampognato anche le miti parole del padre Dupuis, mentre elogiano l’Opus Dei e Comunione e Liberazione? Le istituzioni del Vaticano sono residui, temporali, storici. Ma allora l’infallibilità del papa? Storica anch’essa, recente. E il papato?
La chiesa dovrebbe essere di tutti, delle «aggregazioni locali con il loro presidente e, mi auguro, la loro presidente». Dunque l’esclusione della donna dall’amministrazione dei sacramenti? Non comprensibile esclusione storica, ma errore, colpa. Non sono le donne che erano rimaste con Cristo sotto la croce mentre tutti gli altri, perfino Giovanni, fuggivano? Non è a Maria che Cristo risorto si rivolge per primo: Maria non mi riconosci? Non erano certo mancate all’ultima cena e se una donna ha evangelizzato la Germania vuol dire che amministrava i sacramenti (Luise annota: non è storicamente provato). E l’amore? L’amore è quel che più conta. E il paradigma della cristianità, il senso della chiesa. Ma l’amore carnale? Sì, anche quello, quello del Cantico dei cantici, di San Giovanni della Croce, di Abelardo ed Eloisa, capiti da Pietro il Venerabile, l’unione dei corpi. Ma l’obbligo del celibato? Una prevaricazione di una piramide maschile come è la chiesa romana. Il celibato non può essere che una libera scelta del monaco.
Su questo ultimo Benedetto, che ha raccolto le forze per riordinare quel che a voce appena un poco più bassa aveva sempre detto, il silenzio del Vaticano è calato come un macigno. Ma forse parlerà a molti cristiani che vi si riconosceranno.
GIUSEPPE DOSSETTI (1913-1996)
C’è una morale nella politica
di Sergio Zavoli (Il Sole 24 Ore - Domenicale, 11 marzo 2012)
Avrebbe novantanove anni, nacque nel febbraio del 1913, è stato tra i personaggi centrali della democrazia repubblicana sorta sulle macerie del fascismo, il suo pensiero politico e la sua essenza civile e morale stanno ancora attraversando l’identità di un cattolicesimo che ha il suo esordio storico quando i cattolici, nella riconquistata libertà, consolidano laicamente la scelta democratica di Sturzo.
È appena il 1945 quando - mentre De Gasperi interpreta la necessità di dar vita a una economia di mercato - Dossetti propende per una libertà politica cui va affiancata un’economia anche statale in grado di garantire la tutela dei ceti subalterni, ovviamente deboli rispetto al potere condizionante delle grandi forze economiche. Dossetti scrive: «La Democrazia cristiana non vuole e non potrà essere un movimento conservatore», attirandosi qua e là addirittura il sospetto di voler far sua la distinzione di Maritain tra fascismo e comunismo. Mentre il primo, cioè, andava considerato una forza estranea agli ideali cristiani in quanto perseguiva un ideale di Stato-guida, che permea di sé tutto, dalla cultura agli ordinamenti, al cittadino sacrificato all’individuo; il secondo è visto come una sorta di "eresia cristiana", cioè un sistema che richiama lontanamente originarie ispirazioni comunitarie. D’altronde fu Berdjaef, il filosofo russo espulso dall’Urss nel 1922, a dire che il comunismo doveva intendersi come «la parte di dovere non compiuta dai cristiani».
Ma Dossetti tende alla qualità di una scelta ben più radicale e autentica, che ne farà un testimone scomodo, talvolta persino mal tollerato, di quanto si può dare alla politica senza farlo venir meno alla morale, al pragmatismo senza sottrarlo ai principi, al cittadino senza privarlo della persona.
Chi non ha in mente questa fedeltà laica e insieme religiosa al primato dell’uomo, quello della sua intrinseca e libera dignità personale, stenterà a farsi largo negli aspetti non di rado impervi - per esempio della dignità sacerdotale - di don Giuseppe Dossetti. Non a caso egli fa coincidere l’unicum cui si ispira affrontando la politica come il momento in cui si diventa responsabili personalmente di ciò che scegliamo per l’orientamento di noi stessi e nei confronti degli altri.
Ecco, allora, la base su cui poggiare il peso della scelta: la norma costituzionale dell’eguaglianza tra i cittadini, da perseguire attraverso la ricerca e la messa a punto di un modello di statualità sottratta, insieme, alla vischiosità della conservazione borghese e a una giustizia sociale i cui costi gravino sulle libertà personali; nell’assoluta preminenza dei diritti inalienabili di un uomo partecipe della speranza collettiva - laica, razionale, organizzata dalla politica dentro la storia - ma nella intangibile responsabilità della risposta individuale.
Si è detto di Dossetti che aveva i principali nemici, per paradosso, nelle sue idee. Certo, voler trarre da una vocazione originale e rigorosa un patrimonio di principi da comunicare a masse di cittadini comportava un’impresa virtuosa e pedagogica tale da scontrarsi con quel bisogno di duttilità e tolleranza che la gran parte di un popolo appena rinato alla democrazia coltivava nel limbo di una coscienza civile ancora confusa; in cui, per legittimarsi anche spiritualmente, bastava esibire l’alibi del «perché non possiamo non dirci cristiani», di crociana memoria, per indispettire chiunque intendesse la lotta politica come un esercizio fondato sulla pregiudiziale anti-comunista, e da tenere in sospetto una parte della stessa sinistra, la quale si sentiva insidiata nella sua dimensione più difficile, quella dell’autocritica filosofica e pragmatica.
Questi condizionamenti non giovarono all’immagine pubblica di Dossetti, ma al tempo stesso ne esaltarono la dimensione, per dir così, più sottesa e costosa. Tra gli uomini che hanno rifondato lo spirito democratico del nostro Paese è quello che ha reso più manifesto il significato morale del far politica, seppure alzandolo a un tale livello di esemplarità da essere, non di rado, irriconoscibile. Forse si fa torto al politico, ma quanto gli si toglie nella sfera pubblica alla sfera pubblica ritorna proprio attraverso quella privazione: è il paradosso-Dossetti, la sua storia e la sua coscienza. Pochi eletti, di quegli anni e dopo, hanno uniformato i propri gesti all’esigente esemplarità di quella lezione. Dossetti ne fu così consapevole che prese su di sé, assumendolo nel suo animo, il segno di contraddizione che egli stesso aveva finito per rappresentare. E quando cominciò a capire che la parola, passando per strade e piazze spesso votate alla facilità degli slogan, all’intelligenza pratica e quindi alla realtà del giorno per giorno non suscitava più le risposte che avrebbe voluto udire, la portò nel deserto e ne rimase paziente, incorruttibile custode.
Così aveva descritto il senso di quel viaggio fruttuoso: «Il mio sacerdozio è nato da uno sbocco credo coerente con la vita che già conducevo, una vita consacrata nell’intenzione e nella forma al dominio dell’orazione sull’azione tutta orientata a diffondere tra i laici cristiani una formazione che stesse a monte del pensiero socio-politico e che lo sanasse continuamente dai suoi pericoli: perché il pensiero politico è continuamente insidiato da grandi pericoli». E subito dopo, per ricomporre nella sua fondamentale unità il senso dell’altra scelta, aggiungerà: «Noi non siamo monaci, conduciamo una vita molto simile, o quasi integralmente eguale alla vita dei monaci, però negli istituti monastici tradizionali non mi riconosco».
Nasceva qui, non sentendosi espulso dalla politica, ma riconoscendone i legittimi limiti temporali, la necessità di radicare in un certo luogo - con una testimonianza tangibile anche per i significati di memoria e di lascito - la scelta definitiva di Monte Sole come riferimento e irradiazione verso la Palestina, l’Oriente, le cento terre, le cento patrie, le cento paci promesse. Monte Sole è una sorta di vulcano alla rovescia, dove si è compiuta una violenza senza tempo, in quanto consumata davanti al giudizio di Dio. È quindi il luogo della preghiera continua, per un perdono senza soste.
Qui Dossetti vuole un radicamento e si conforma a una regola. Egli è «uomo delle regole». Prima del presbiterio viene da una cultura giuridica, sa che la civiltà del diritto si fonda sul "contratto". Occorre regolare quel "contratto": nella Costituzione come nel Concilio, come nella stessa "piccola regola" che si darà il monastero di Monte Sole. Un "contratto" che rimetta insieme, anzitutto, storia ed etica, politica e morale, non per trasferire nella vita civile quello che ricavi dalla vita religiosa. Non è integralismo, né zelo, né mera virtù: si tratta di rivivere la dimensione pubblica secondo il principio della condivisione e della solidarietà.
C’è un fascino di Dossetti che sta anche in questo continuo contemplare e agire, nel mettere in crisi ciò a cui pensa per sottoporlo alla prova di ciò in cui crede. Egli vedeva, in lontananza, una grande crisi religiosa, anche di cristianità, forse per l’insorgere di culture pragmatiche, dispensatrici di straordinari sollievi terreni, spesso ingannevoli e persino alienanti. Anche di qui il suo sguardo all’Oriente, in cerca di una grande scaturigine di religiosità, da cui attingere per nutrire un grembo vasto, limpido, universale. C’è un enigma nell’aver visto queste distanze, e concepito quel viaggio, dal suo stare a Monteveglio, il piccolo centro della sua intoccabile, appartata totalità. «Non è possibile purificarsi da solo o da soli; purificarsi, sì, ma insieme; separarsi per non sporcarsi è la sporcizia più grande». Sono parole di Tolstoj e don Giuseppe le sa a memoria.
La parte finale della sua vita è stata giudicata una fuga dal mondo. Dossetti stesso annotava: «E qualcuno (anche tra cattolici e persino teologi) parla della vita monastica non solo come di "fuga dal mondo", ma persino dalla Chiesa». E qui è possibile cogliere una conclusione: «Al termine di ogni via c’è l’unico e definitivo mistero di Gesù di Nazareth, figlio di Dio e figlio di Maria, che con la sua croce e la sua morte volontaria, gloriosa e vivificante, è divenuto il primogenito dei morti aprendo per noi la via della Risurrezione».
Dossetti chiuderà il suo libro, lacerato e di nuovo riunito dalla sua totalità, il 15 dicembre del 1996. Credenti e non credenti parteciperanno alle esequie in gran numero. Intorno alla bara, per un tratto della cerimonia funebre, si alterneranno vecchi partigiani con i loro nipoti e pronipoti, i nuovi bambini della comunità; laicamente destinati a capire i valori anche civili che lo spirito, secondo Dossetti, sa mettere nella storia. La quale forse non si ripete, ma quanto disse e visse Dossetti somiglia ancora a non poche questioni che si presentano davanti alla Chiesa e ai cattolici nella dimensione globalizzata dei problemi. La centralità dell’uomo, l’etica associata allo sviluppo, la relazione tra uomo e ambiente, le connessioni tra diritti umani e civili, la lotta agli egoismi vecchi e nuovi, la salvaguardia delle diverse identità, il dialogo tra le culture religiose, la laicità dello Stato e della politica, sono temi che investono anche la teologia cattolica e la pratica dei credenti, la loro visione della società e delle relazioni umane. Tutto ciò nel segno della prima delle regole: la ricongiunzione del cittadino con la persona, della politica con la moralità, dello Stato con l’interesse del popolo.
L’Italia a un bivio tra verità e vanità
di Bruno Forte (Il sole 24 Ore, 11 marzo 2012)
Singolare attualità del passato: definirei così l’impressione che lascia la lettura del passo De Civitate Dei in cui Agostino, meditando sul tempo drammatico che gli fu dato di vivere, quello del tramonto dell’impero romano, stigmatizza le ragioni della crisi: esse non si trovano nell’impatto esterno dei barbari, elemento solo concomitante, aperto anzi alla potenzialità positiva di immettere linfa nuova nel sangue malato di una civiltà in sfacelo. La profonda causa del declino è per il Vescovo d’Ippona di carattere morale: si tratta dell’attitudine - avallata dai vertici e divenuta mentalità comune - a preferire la vanitas alla veritas, la vanità alla verità.
Le due logiche si oppongono: la vanità dà il primato all’apparenza, a quella maschera rassicurante, che copre interessi egoistici e prospettive di corto metraggio dietro proclamazioni altisonanti, misurando ogni cosa sul gradimento dei più. La verità fonda invece le scelte sui valori permanenti, sulla dignità di ogni persona umana davanti al suo destino, temporale ed eterno. Eppure, nel mondo «che va dissolvendosi e sprofonda» («tabescenti ac labenti mundo»), Agostino riconosce l’opera di Dio, che nel rispetto delle libertà va radunandosi una famiglia per farne la sua città eterna e gloriosa, fondata «non sul plauso della vanità, ma sul giudizio della verità» («non plausu vanitatis, sed iudicio veritatis»: II,18,3).
Lo straordinario affresco di "teologia della storia", tracciato dal Pastore teologo, mi pare di un’impressionante contemporaneità: all’orgia della frivolezza, che ha celebrato i miti del consumismo esasperato e dell’edonismo rampante, vanno opposte scelte fondate sulla verità e sul primato dei valori, a cui a nessuno è lecito sottrarsi. Vorrei provare a indicare queste scelte confrontando vanitas e veritas in alcuni campi decisivi.
In primo luogo, la crisi della politica davanti a cui ci troviamo, evidente nel fatto che per salvare l’Italia i politici hanno dovuto lasciare il campo ai tecnici: è una crisi frutto anche del modo di agire che ha separato l’autorità dall’effettiva autorevolezza dei comportamenti e la rappresentanza democratica dalla reale rappresentatività dei bisogni e degli interessi dei cittadini. Dove l’amministratore o il politico perseguono unicamente il proprio interesse, puntando sull’immagine e sulla produzione del consenso, lì trionfa la vanitas a scapito della veritas.
Il primato della verità esige una politica ispirata alla ricerca disinteressata del bene comune, capace di ascoltare e coinvolgere i cittadini come portatori di bisogni e di diritti, di proposte e di potenzialità, e perciò in grado di dire anche dei "no" per fare ciò che è giusto: l’ideale della cosiddetta "good governance" è inseparabile dalla tensione etica che anteponga al proprio il bene comune.
Sul piano dei modelli culturali e delle risorse spirituali la vanitas trionfa lì dove si privilegia l’effimero a ciò che non lo è, sradicando l’agire dalla memoria collettiva, di cui sono tracce le opere dell’arte e dell’ingegno e le tradizioni spirituali e religiose. Una comunità privata di memoria perde l’identità e rischia di essere esposta a strumentalizzazioni perverse: il trionfo della veritas consiste qui nel rispetto e nella promozione del patrimonio culturale, artistico, religioso della collettività, come base per il riconoscimento dei bisogni e delle priorità cui tendere.
Un’azione educativa capillare, sostenuta da un sistema efficiente di didattica e di ricerca scientifica, è condizione indispensabile per la conservazione dei beni culturali, religiosi e ambientali, e ha un impatto positivo sull’economia, che va calcolato sia sincronicamente in rapporto alla fruibilità dei beni stessi, sia diacronicamente, misurandone gli effetti benefici sui tempi lunghi e i risparmi connessi a una sana azione di tutela e di prevenzione. Ne consegue che una società che non investa su scuola e università, formazione e cultura, è destinata a implodere.
L’ambito dell’economia è parimenti luogo della contrapposizione fra vanitas e veritas: se alla prima s’ispira un’azione economica orientata al solo profitto e all’interesse privato, alla seconda punta un’economia attenta non solo alla massimizzazione dell’utile, ma anche alla partecipazione di tutti ai beni, al rafforzamento dello stato sociale, alla promozione dei giovani, delle donne, degli anziani, delle minoranze. Un’economia di comunione, che miri alla messa in comune delle risorse, al rispetto della natura, alla partecipazione collettiva agli utili, al reinvestimento finalizzato a scopi sociali, al principio di "gratuità" e alla responsabilità verso le generazioni future, può essere il modello della svolta necessaria in questo campo (rilevanti in questa direzione sono le tesi dell’Enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate del 29 giugno 2009).
La città futura non potrà essere programmata e gestita secondo logiche esclusivamente utilitaristiche: o sarà frutto di un’economia integrata, che unisca l’interesse pubblico e quello privato secondo i principi di un’"economia civile" in grado di valorizzare tutti i soggetti in gioco e di promuoverne la crescita collettiva, o rischierà di accrescere le dinamiche di frammentazione, che producono la disumanizzazione della società. Processi di riconversione industriale e di ottimizzazione del capitale umano, legati anche all’investimento sulla qualità del prodotto, appaiono quanto mai urgenti, specie di fronte agli scenari di crisi che vanno profilandosi a motivo della concorrenza del mercato del lavoro. Qui la centralità della persona umana, la sua dignità, la sua salute, appaiono criteri decisivi, dove vanitas e veritas vengono a discriminarsi. Una società che non investa su lavoro e salute dei cittadini è destinata a inesorabile declino.
È, dunque, l’etica il campo di applicazione più profondo della dialettica proposta da Agostino: a una morale individualista e utilitaristica, finalizzata esclusivamente all’interesse dei pochi, occorre opporre un’etica della verità, aperta a valori fondati sulla comune umanità e sulla dignità trascendente della persona. Quest’etica si caratterizzerà per il primato della responsabilità verso gli altri, verso se stessi e verso l’ambiente, per l’urgenza della solidarietà, che pone in primo piano i diritti dei più deboli, e per l’apertura ai valori spirituali.
Ciò che appare urgente per uscire dalla crisi è preferire alla logica di corte vedute della vanitas la logica della condivisione e del servizio. Averlo chiaramente presente è dovere di tutti, nella misura in cui ci stia a cuore una città futura che sia meno dissimile dalla città di Dio, voluta e sperata per il bene dell’intera famiglia umana: quella che Agostino ebbe l’audacia di proporre come orizzonte di senso e di speranza per il futuro di un’umanità, che sembrava destinata a un inarrestabile destino di dissoluzione.
La Pasqua di don Luisito, scrittore e prete disarmato
di Angelo Bertani (Jesus, n. 2, febbraio 2012)
Sfilacciature di fabbrica, Come un atomo sulla bilancia, Dialogo sulla gratuità, La Messa dell’uomo disarmato, Simon mago, C’era una volta la Pasqua al mio paese, Le quattro stagioni di un vecchio lunario: a leggere i titoli dei suoi libri si resta sorpresi.
Nulla di scontato, piuttosto un cenno paradossale, quasi una fantasia, una provocazione. Talvolta non si comprende bene neppure quale sarà il tema trattato nelle pagine interne. Ma leggendole - tutte bellissime sebbene non sempre facili si resta incantati dalla forza e dalla verità che esprimono. Raccontano ed evocano, ma non forzano le conclusioni. Obbligano piuttosto a chiedersi: «Che cosa significano queste cose per me, oggi?». Si intuisce soprattutto una grande creatività, una ricerca di novità, un invito a capire di più, andare nel profondo. Una capacità di comunicare sentimenti e speranza anche al di là delle parole. E soprattutto invitano a cercare un filo rosso, davvero evangelico.
Così è stata la vita di don Luisito Bianchi. Nato a Vescovato, in provincia di Cremona, aveva incontrato la Resistenza nel 1943, a 16 anni. Lì aveva conosciuto gli ideali. Ricordava: «I partigiani avevano un sogno: quello di un mondo senza violenza e senza ingiustizia. La democrazia italiana nasce da questi ideali». E aggiungeva con sdegno: «Poi si è affermato lo slogan “meno Stato e più mercato”. E anche tanti cattolici hanno applaudito...».
Così Luisito aveva scoperto la gratuità e la profonda radice religiosa. «Avevo davanti a me un’idea: che un mondo nuovo è possibile se nasce dal sacrificio degli uomini, dal loro sangue sparso per dono, per amore non per odio, sangue che si unisce a quello del Signore»: così mi diceva per un’intervista a Jesus nel 2005; e ricordavamo Teresio Olivelli che, nella Preghiera del Ribelle, invoca: «Se cadremo, fa che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri morti a crescere al mondo giustizia e carità».
Questa esperienza giovanile di Resistenza cristiana farà da sfondo al bellissimo romanzo La Messa dell’uomo disarmato, ma soprattutto orienterà tutta la vita di Luisito, che diventa sacerdote, insegnante, intellettuale, prete operaio, inserviente di ospedale e infine cappellano presso il monastero femminile benedettino di Viboldone, dove ha potuto continuare il suo ministero e la testimonianza anche attraverso i libri.
Proprio attraverso i libri l’avevo conosciuto fin dal 1972, quand’era apparso Come un atomo sulla bilancia presso la Morcelliana. Di Luisito Bianchi allora avevo solo sentito parlare un poco perché era stato anche viceassistente nazionale delle Acli. Mi aveva incuriosito il titolo (a chi viene in mente di pesare gli atomi sulla bilancia? Certo nascondeva un paradosso) e poi mi appassionavano le esperienze dei preti operai, allora numerose e discusse. Il libro, che è un “diario” della sua vita quotidiana come prete che vive e lavora in fabbrica, fu una rivelazione per la forma letteraria, la sincerità e l’equilibrio che manifestava, la libertà di spirito e l’amore alla Chiesa e ai fratelli, vicini e lontani.
Recentemente aveva pubblicato anche la storia straordinaria di quella stagione (I miei amici, Diari 1968/70, edito da Sironi nel 2008). Mille pagine, certo. Ma così piene di intelligenza e di cuore, così capaci di “convertire” chiunque le legga, che vorrei consigliarle a ogni cristiano un po’ stanco, confuso, scoraggiato. Un libro che vale un Nobel; e che converte il cuore al vero amore gratuito verso Dio e i fratelli più di qualsiasi documento e omelia.
A chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene, a chi ha letto e compreso i suoi libri e a tutti quanti sono stati raggiunti dal suo messaggio e toccati dalla sua testimonianza, Luisito Bianchi - che è entrato nel Regno della perfetta gratuità il 5 gennaio scorso - lascia una certezza, una speranza e un impegno. La certezza è che il Signore parla e opera sempre nel cuore degli uomini e fa nascere, in ogni momento e in ogni luogo, degli uomini e delle energie che possono essere riferimenti e guide per il cammino della Chiesa e di tutta l’umanità.
La speranza è che tutti, credenti e persone di buona volontà, siamo capaci di ascoltare: facendo silenzio dentro di noi, facendo tacere tanto inutile chiasso. Lo aveva spiegato nel 2007 in un dialogo con Annachiara Valle (Jesus, aprile 2007): «Certo si può pensare che qui nel silenzio sia più facile poter pregare e ascoltare, ma il silenzio non è un fatto esteriore... La mia esperienza mi dice che il silenzio non è un luogo, ma è l’incontro con Cristo. Ascoltare le sue parole, non le nostre. La nostra ricerca di identità, il nostro chiacchiericcio finisce per mettere a tacere il Vangelo. Il monastero di Viboldone è come una luce, ma il mio ascolto è stato preparato durante gli anni di fabbrica, con il vociferare dei motori. È in mezzo al rumore che ho ricevuto il dono del silenzio».
L’impegno è a far crescere la coscienza che la Chiesa è fondata non sul ragionare degli uomini ma sulla gratuità della Rivelazione. Solo la gratuità consente di sperare e agire anche contro l’evidenza, la convenienza, le tentazioni del danaro e del potere. Solo la gratuità è generosa e capace di sognare e di costruire una realtà nuova, nella Chiesa e nella società, contro ogni timore e pigrizia, in spe contra spem. Solo nella gratuità infatti si può amare davvero, ogni giorno, i fratelli e la Chiesa. Grazie, don Luisito!
Il Professore, la Chiesa e l’Ici dimenticata
di Miguel Gotor (la Repubblica, 19.01.2012)
MARIO Monti ha rilasciato ieri un’intervista a L’Osservatore Romano: un gesto di attenzione significativo da parte della Santa Sede poiché avviene di rado che l’organo ufficiale della Città del Vaticano intervisti il presidente del Consiglio in carica. Tanto più che il colloquio cade all’indomani dell’udienza ufficiale di Monti con papa Benedetto XVI, in una qualche misura a suggellare il felice esito di quell’incontro. L’intervista sottolinea il fondamentale contributo dei cattolici alla vita sociale italiana e tocca i principali problemi all’ordine del giorno: dalla crisi economica globale al futuro della moneta unica, dai destini del progetto di integrazione europea alla questione della cittadinanza italiana per i minori stranieri, dai programmi del governo in materia di liberalizzazioni alla politica fiscale.
Monti mette in risalto che proprio in quanto "tecnico" «può liberamente affermare che l’antipolitica e l’antiparlamentarismo causano danni che nel tempo possono dimostrarsi insidiosi». Da questa considerazione deriva la necessità che «ogni soggetto, individuale e collettivo, privato e pubblico, è chiamato a essere "migliore", in ogni ruolo - piccolo o grande - che assuma». Inoltre, evidenzia l’importanza dei "beni comuni" come orizzonte della politica nazionale e comunitaria e riconosce che sia la Santa Sede sia la Conferenza episcopale italiana possono svolgere un ruolo critico e propulsivo di rilievo perché «di fronte al bene comune non si può sfuggire». Per quanto riguarda gli interventi fiscali il presidente del Consiglio ribadisce il massimo rigore nella lotta all’evasione.
E tuttavia manca una questione: sia le domande relative alla politica fiscale, sia le risposte di Monti eludono il nodo del pagamento dell’Ici da parte della Chiesa cattolica per quei luoghi di carattere "parzialmente" commerciale che oggi sono esenti. Come è noto, tali immobili entrano in contraddizione sia con le previsioni della legge "concordataria" 222/1985, richiamate dalla Corte suprema di Cassazione nel luglio 2010 (in cui è stato condannato un ente ecclesiastico di Assisi) sia con la normativa europea che vieta gli aiuti di Stato e l’indebita concorrenza.
Tempo fa il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha dichiarato che «se ci sono punti della legge da rivedere o da discutere, non ci sono pregiudiziali da parte nostra». Si tratta di una disponibilità importante che il governo italiano, tanto più perché non strettamente legato da vincoli di carattere elettorale, dovrebbe verificare e raccogliere: sarebbe imperdonabile lasciarla cadere nel vuoto. In un periodo di crisi come questo è giusto che tutte le istituzioni, Chiesa cattolica compresa, si mostrino disposte all’impegno, al sacrificio, all’esempio e facciano seguire ai pronunciamenti i fatti: unicuique suum, ossia "a ciascuno il suo", come recita per l’appunto il motto de L’Osservatore Romano
Monsignor Barbareschi il ribelle per amore
di Marco Garzonio (Corriere della Sera/Milano, 7 dicembre 2011)
Oggi, quando il sindaco Pisapia consegnerà la medaglia d’oro del Comune a monsignor Giovanni Barbareschi, in un attimo Milano stabilirà un ponte ideale lungo quasi settant’anni. Sì, perché il servizio di don Barbareschi alla città ebbe inizio il 10 agosto 1944. Aveva 22 anni e Schuster lo inviò in piazzale Loreto a far opera di pietà tra i quindici partigiani fucilati dai nazifascisti. In nome del cardinale benedì le vittime, ricompose i corpi ammucchiati, cercò nelle tasche i messaggi da recapitare a famiglie e compagni. Fu ordinato sacerdote tre giorni dopo e all’indomani della celebrazione della prima messa, a Ferragosto, era rinchiuso a San Vittore.
La motivazione del riconoscimento dice ora dei duemila partigiani ed ebrei salvati da don Barbareschi. I numeri contano, ma sono solo la parte più evidente di un’azione e di un pensiero che han consentito a Milano di non lasciarsi travolgere dalla crudeltà della guerra e di trovare la via del riscatto, della speranza, della Liberazione.
Già perché quel giovane prete poté far ciò che fece in quanto aveva compiuto una scelta: essere «ribelle per amore». Questo era il motto suo e degli altri 174 sacerdoti ambrosiani attivi nella Resistenza. Wojtyla ebbe a dire, ricordando «Il Ribelle», la rivista clandestina di cui don Barbareschi fu redattore (oggi è l’unico superstite): «Resistettero non per opporre violenza a violenza, odio contro odio, ma per affermare un diritto e una libertà per sé e per gli altri, anche per i figli di chi allora era oppressore. Per questo furono martiri ed eroi».
Grazie alla forza di tale amore per l’uomo e per i valori che esso comunque reca in sé, dopo il 25 aprile don Giovanni sottrasse fascisti e tedeschi a rappresaglie e vendette. Nel corpo e nell’anima portava i segni dei 72 giorni a San Vittore e poi della prigionia nel campo di Fossoli (da cui era riuscito a fuggire mentre i nazisti stavano per trasferirlo in un lager), dei rischi, delle fatiche, dei lutti. Ma non c’era tempo per recriminazioni: bisognava guardare avanti, pensare e lavorare per la ricostruzione morale, prima che materiale, di Milano e dell’Italia. La riconciliazione è nell’animo, non nelle rivisitazioni storiche.
Quasi subito mise lo spirito con cui l’esperienza lo aveva forgiato nell’educazione dei giovani, come un fratello maggiore, che accompagna e aiuta a trovare dentro di sé il senso della vita: affetti, lavoro, impegno civile. Ha formato generazioni intere don Giovanni. Si dedicò agli scout, poi ai liceali, al Manzoni, e agli universitari nella Fuci. Intanto si spese in alcune occasioni che han contribuito a creare la Milano odierna. Collaborò alla Missione di Milano con cui Montini rivoluzionò l’approccio della Chiesa ambrosiana alla modernità (un passaggio cui s’è rifatto il cardinale Scola nel suo ingresso in diocesi). Vennero riabilitati uomini scomodi e sgraditi al Sant’Uffizio (così don Barbareschi riprese il sodalizio con Turoldo l’amico, poeta e protagonista della Resistenza e della Corsia dei Servi). E assistette in ospedale nell’ultimo mese di vita don Gnocchi, testimone del suo lascito morale: il prete che era partito volontario per l’avventura della Russia con i ragazzi del Gonzaga, al ritorno aveva trasformato delusione e rabbia per l’inganno del fascismo dedicandosi al recupero delle piccole vittime della guerra, i «mutilatini». Diede avvio alla grande opera che ora porta il suo nome, Fondazione don Carlo Gnocchi, centro d’eccellenza che da Milano s’è irradiato in 30 località del Paese, luogo della riabilitazione fisica e psichica, metafora di rinascita del corpo e dell’anima.
Martini comprese lo spirito del resistente per amore, e nel realizzare la famosa «Cattedra dei non credenti» volle al suo fianco don Barbareschi. Questi fu il braccio destro del cardinale per anni nel far dialogare intellettuali, scrittori, scienziati, artisti, uomini di governo affinché ciascuno si ponesse in ascolto delle ragioni dell’altro e cercasse un fine superiore, oltre le appartenenze.
Alla città venne allora offerto un esempio di convivenza, accoglienza, lavoro gomito a gomito in vista del bene comune. Fu una pedagogia collettiva dopo gli Anni di piombo e la Milano da bere, perché la città potesse crescere, dare il meglio di sé, mettere a frutto il capitale di ideali, tradizioni, operosità, che la sua gente reca inciso nell’intimo grazie ad Ambrogio. In nome del patrono domani il sindaco consegnerà la medaglia d’oro a monsignor Barbareschi (90 anni tra due mesi), con memoria grata certo per quel che lui è stato e ha fatto, ma anche come pegno di fiduciosa, condivisa attesa per ciò che la città tutta può essere quando ascolta sé stessa, si ritrova, si riconcilia col suo cuore fattivo, generoso, solidale: antico e sempre nuovo. Incalzata magari da crisi epocali, anticipo e sprone di virtù quotidiane (si spera!).
Il gran ritorno dei cattolici
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 19 novembre 2011)
"Siamo passati dal Carnevale alla Quaresima": lo ha detto il neoministro Andrea Riccardi ma lo abbiamo pensato in molti. Il passaggio è stato brusco e totale. Un governo sottoposto a una cura dimagrante da cavallo nei numeri, sullo sfondo di scenari austeri.
Senza la profusione di colori e i sontuosi sfondi rinascimentali delle conferenze stampa d’una volta; e non parliamo della sobrietà e della severità quasi luttuosa dei discorsi e dei rituali. È finito il ciclo carnevalesco delle feste in ville e palazzi, del "bunga bunga", della carnalità traboccante e colorata, del corteggio di nani e ballerine che circondava, seguiva, abbracciava un re Carnevale in doppiopetto. Qualcuno un giorno rievocherà forse con nostalgia i nostri ruggenti anni dieci del secondo millennio, con quelle donne belle ed eleganti dai soprannomi ammiccanti, dalle professioni surreali - l’Ape regina, l’igienista dentaria, le escort - introdotte nel sacrario del potere col solo compito di far sentire amato il padrone.
Ma ecco, appunto, la Quaresima che irrompe sulla scena e sconfigge re Carnevale: ancora una volta si affaccia sulla società italiana una immagine antica, legata come poche altre alla cultura popolare del nostro paese, elevata a chiave di lettura della storia d’Italia da chi, come Francesco De Sanctis , vide la Controriforma come una Quaresima piombata sul Carnevale italiano del Rinascimento cancellando con una maschera di finta devozione la vera modernità, quella che si riassumeva per lui nel nome di Machiavelli. Oggi l’immagine coniata dal liberale e anticlericale De Sanctis, vero maestro intellettuale dell’Italia, che non ebbe simpatia né per il Carnevale né per la Quaresima viene usata da uno storico cattolico che proprio in quanto cattolico impegnato nei problemi del mondo è stato chiamato a far parte del nuovo governo. E si levano toni trionfalistici dal mondo dei cattolici impegnati in politica: si afferma così negli storici del presente la tesi secondo cui il grande rivolgimento nell’assetto governativo a cui assistiamo sarebbe stato concepito nel recente convegno tenutosi nel convento di Montesanto presso Todi. Il suo atto di fondazione sarebbe dunque l’invito del cardinal Bagnasco ai laici cattolici a portare nella società i principi della dottrina sociale della Chiesa. Mentre ci chiedevamo perché le autorità ecclesiastiche fossero così reticenti davanti alle voci critiche che si levavano dal mondo dei cattolici italiani, in realtà quelle stesse autorità stavano preparando il mutamento di cavalli.
La questione merita una qualche attenzione perché non c’è dubbio che la componente culturalmente più significativa di questo governo appena nato è quella di un cattolicesimo di alta qualità, nutrito di impegno sociale e culturale, che rappresenta qualcosa di molto remoto dai "laici devoti" e dai "convertiti" dell’apparato berlusconiano.
Ma intanto andrà detto prima di tutto che senza l’iniziativa politica assunta in prima persona dal Presidente della Repubblica, interprete straordinariamente lucido delle necessità primarie del Paese che in lui si è riconosciuto, questo cambiamento - tanto urgente nella realtà quanto remoto dalla mente di Berlusconi e della sua maggioranza - non sarebbe avvenuto e adesso, nella migliore delle ipotesi, staremmo assistendo a una campagna elettorale lacerante e affondando sempre più in una crisi devastante. Ma se è vero che una parte del mondo cattolico - la più consapevole e seria - si è resa disponibile per prendere il timone degli affari italiani, bisognerà ricordare che è stata la cultura laica italiana a battere sul chiodo costituzionale della necessità di stili di vita adeguati da parte dei rappresentanti eletti del popolo italiano: sul bisogno di trasparenza nell’intreccio tra affari e politica: sul fatto che gli uomini delle istituzioni devono essere rispettabili se vogliamo che le istituzioni siano rispettate: sul fatto che la sopraffazione dei diritti e delle leggi esercitata dalla ricchezza e dal potere scardina l’ordinamento democratico.
Il disvelamento delle macchine del fango nelle inchieste giornalistiche di Giuseppe D’Avanzo, la lucida difesa delle regole contro il malaffare e l’illegalità da parte di Stefano Rodotà, la testimonianza di Roberto Saviano sono stati contributi di una cultura che ha difeso i diritti di tutti e ha richiamato al rispetto dei principi consacrati nella nostra Costituzione, contro il mantra dell’intoccabilità del potere di chi ha avuto la maggioranza dei voti.
Non si tratta di spartirsi i meriti di una svolta che per ora è solo annunciata e che non sarà facile portare a buon fine. Né è il caso in questo momento di ricordare la distrazione, i silenzi e talvolta gli sghignazzi che hanno accolto i "moralisti": la parola stessa è stata usata come un insulto, una gogna.
Fa bene Rodotà a rigraduare il valore della parola professandosi moralista incallito e non pentito nel suo magnifico "Elogio del moralismo"(Laterza). Il problema è un altro: ai cattolici che caratterizzano con la loro presenza il nuovo governo si deve chiedere conto di come intendono interpretare la loro appartenenza religiosa.
Abbiamo alle spalle un governo dove l’alleanza con la Chiesa è stata pagata coi diritti dei cittadini, delle donne, dei malati, degli studenti della scuola pubblica. Non è quella l’interpretazione della testimonianza di fede che può andare d’accordo con la costituzione. Ma non possiamo dimenticare che a Todi il cardinal Bagnasco ha indicato ai cattolici in politica l’obbligo di difendere alcuni punti, dove sarebbero in gioco valori definiti con aggettivi assai robusti - "essenziali, nativi, irrinunciabili, inviolabili, inalienabili, indivisibili, e dunque non negoziabili". E quei principi sarebbero in gioco laddove si discute dell’inizio e della fine della vita, del matrimonio come legame tra un uomo e una donna, della libertà religiosa ed educativa. Il futuro prossimo chiarirà se quelli che sono entrati nel governo e lo caratterizzano sono dei "cattolici adulti" oppure no.
La Chiesa nel dopo Berlusconi
di Massimo Faggioli
“The Tablet” del 19 novembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
La Chiesa in Italia è arrivata alla fine di un periodo critico delle sue relazioni con i politici italiani con le dimissioni di colui che è stato per tre volte primo ministro, Silvio Berlusconi. Quando il magnate dei media andò al potere per la prima volta, ereditò la maggior parte dei voti e degli elettori della Democrazia Cristiana, dissoltasi all’inizio degli anni ’90, presentando se stesso come l’erede del suo fondatore, Alcide De Gasperi, che fu Primo Ministro di otto successive coalizioni di governo tra il 1945 e il 1953.
Ma Berlusconi, che è stato premier dal 1994 al 1995, poi di nuovo dal 2001 al 2006, ed infine dal 2008 fino alle dimissioni della scorsa settimana, ha offerto alla Chiesa cattolica qualcosa di più del nostalgico appello all’anticomunismo, promettendo di usare il suo potere di veto contro provvedimenti riguardanti “valori non negoziabili” come quelli relativi alle coppie di fatto, etero sessuali ed omosessuali, provvedimenti relativi al fine vita riguardanti le “dichiarazioni anticipate di trattamento” e il suicidio assistito.
La Chiesa cattolica ed il Vaticano trovarono impossibile resistere a questa offerta durante il lungo incarico del Cardinale Camillo Ruini (1986-2007) come segretario generale e poi come presidente della Conferenza episcopale italiana. Il cattolicesimo italiano divenne un prigioniero volontario di un’imbarazzante alleanza con Berlusconi fino all’inizio del 2011, finché i vescovi sotto la guida del Cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, diedero voce alle loro preoccupazioni nei confronti dei comportamenti del Primo ministro, in particolare dei suoi incontri con ragazze più giovani della più giovane delle sue figlie.
Berlusconi creò il suo partito, Forza Italia, in poche settimane prima delle elezioni del 1994 grazie alle ingenti disponibilità economiche. Riuscì nel miracolo di unire il volto rassicurante del Partito popolare europeo al suo più importante alleato, la Lega Nord, con il suo progetto xenofobo per il futuro dell’Italia.
Berlusconi si mostrò capace di mantenere le sue vecchie abitudini di donnaiolo e di uomo d’affari volgare e senza scrupoli, con la sua cinica alleanza al cattolicesimo, come entità puramente politica. La mancanza di coerenza tra il suo affermato cattolicesimo e la sua ideologia materialistica - “berlusconismo” - divenne un problema per la grande maggioranza dei cattolici italiani solo negli ultimi due anni del suo “premierato”.
Per lungo tempo i cosiddetti atei devoti - un gruppo di intellettuali conservatori con forti legami con il Vaticano - furono i maggiori difensori delle credenziali cattoliche di Berlusconi, presentandolo come un uomo capace di difendere l’Italia e la Chiesa dalla secolarizzazione e l’Europa dall’islam. Essi comprendono l’ex comunista ed ora direttore del quotidiano Il Foglio, Giuliano Ferrara, e l’ex presidente del Senato, il filosofo Marcello Pera, coautore con il cardinal Joseph Ratzinger nel 2004 di Senza radici, sul futuro della cristianità in Europa.
Il volto cattolico del dominio di Berlusconi sull’Italia era quello dei membri di “Comunione e Liberazione” che detenevano posizioni chiave a livello nazionale e locale del movimento laicale ecclesiale. La stessa Curia romana di Benedetto XVI si dimostrò più permeabile di quella di Giovanni Paolo II, specialmente grazie a certi monsignori come Rino Fisichella, per molti anni cappellano al parlamento italiano ed ora arcivescovo e presidente del recentemente creato Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione.
Inoltre, Berlusconi potè sfruttare a proprio favore la situazione nella Chiesa in Italia e nel Vaticano fin dall’elezione di Benedetto XVI. Funzionari curiali politicamente esperti furono sostituiti dagli uomini del nuovo papa, uomini che erano meno esperti ed interessati di politica in generale e della ingarbugliata politica italiana in particolare. Ad esempio, benché il nuovo segretario di stato di Benedetto XVI, cardinale Tarcisio Bertone, reclamasse l’agenda politica italiana come affare della Curia, non mostrò mai l’abilità politica necessaria per trattare con Berlusconi, mentre la Conferenzaepiscopale italiana non accettò mai i diktat del segretario di stato.
Berlusconi capitalizzò su queste divisioni interne alla Chiesa e ancor di più sul disagio dei vescovi italiani e della curia romana nel trattare con un “cattolico del Vaticano II” come Romano Prodi (Primo ministro dal 1996 al 1998 e di nuovo dal 2006 al 2008), l’ex leader della coalizione di contro-sinistra ed unico candidato in grado di battere Berlusconi alle elezioni.
La Chiesa e i vescovi italiani temevano Prodi, che si autodefiniva “cattolico adulto” e preferivano trattare con Berlusconi. Benché fosse notoriamente corrotto, si inginocchiava di fronte alle richieste della chiesa in termini di “valori non negoziabili” e sovvenzioni di stato alle scuole cattoliche. D’altro canto, la coalizione di centro sinistra non si mostrò mai capace di entrare in un reale dialogo con il cattolicesimo italiano e tentò di risolvere la “questione cattolica” unicamente dando a politici cattolici una sovrarappresentazione nel Partito Democratico fondato nel 2007.
La reputazione di Berlusconi tra i cattolici cominciò a soffrire solo grazie al disgusto dei fedeli delle parrocchie, e i vescovi sembrarono seguire l’umore di cattolici laici, preti e suore. L’assordante silenzio delle associazioni cattoliche e dei movimenti di laici durante il governo Berlusconi tra il 1994 e il 2011 sta ancora aspettando una spiegazione. La parte che il cattolicesimo svolgerà nel futuro dell’Italia è uno dei maggiori problemi che deve affrontare la Chiesa, che sembra sentire molto la mancanza del “bel tempo passato” della Democrazia Cristiana.
«Bella squadra»: la soddisfazione della Chiesa
Tre ministri del Forum di Todi e «mix» tra le anime cattoliche.
Gli auguri (compiaciuti) di Bertone
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 17.11.2011)
CITTÀ DEL VATICANO - Mai come in questi giorni è stata evidente la sintonia tra i due Colli, qualcosa che va oltre il rispetto istituzionale tra Vaticano e Quirinale e si accompagna alla stima che lega i due quasi coetanei Giorgio Napolitano e Benedetto XVI. L’Osservatore Romano che chiedeva «decisioni rapide e senso di responsabilità» riportando quasi solo le parole del presidente italiano, la Radio Vaticana a sostenere la necessità d’un «governo di transizione e di tregua». Naturale che ieri sera, uscendo dall’ateneo di Urbino dopo aver presentato il libro di Ratzinger su Gesù, il segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone abbia commentato con favore («vedo anche che le università sono state trattate molto bene») la nascita del governo Monti: «È una bella squadra alla quale auguro un buon lavoro, perché c’è tanto da fare». Un «lavoro difficile», certo, «ma penso che la squadra sia attrezzata per affrontarlo».
C’è un senso di attesa, ai vertici della Chiesa, fiduciosa ma consapevole che la situazione generale è assai poco simpatica. «Il momento di difficoltà che attraversa l’Europa sollecita una nuova assunzione di responsabilità e un rinnovato impegno comune dei popoli e delle istituzioni», osservava ieri il cardinale Angelo Bagnasco a un seminario dei vescovi sulla Ue. La Cei si è tenuta distante senza esprimere giudizi, in questi giorni, ma la linea «incoraggiata» era chiara: no a elezioni o «ribaltoni» di sorta, sì a larghe intese. Il direttore di Avvenire Marco Tarquinio ha scritto che «dal governo Monti ci si attende molto»: e l’«attesa» è «segno di una fiducia che, sommata a quella del Parlamento, spero gli sia di viatico lungo l’arduo percorso che attende il nuovo esecutivo».
In questo senso, la «competenza» e lo «spessore» dei ministri e la «presenza qualificata» di cattolici nell’esecutivo, si fa sapere, è «apprezzata» e rassicura le gerarchie. Del resto si parla di uno «spirito di Todi» che aleggia sul governo Monti. Tre dei nuovi ministri - Corrado Passera, Lorenzo Ornaghi e Andrea Riccardi - hanno partecipato come relatori al Forum dei cattolici che un mese fa si concluse con la richiesta di un «governo più forte» e di larghe intese, considerata l’«inadeguatezza» di quello allora in carica e il fatto che «le elezioni anticipate sarebbero la soluzione peggiore». Di qui la soddisfazione di vari esponenti del Forum, che già aveva espresso «sostegno convinto ad un governo di responsabilità nazionale». La «fondazione Achille Grandi» delle Acli, presieduta da Michele Rizzi, ha commissionato a Ipsos un sondaggio dal quale risulta che l’88 per cento dei praticanti impegnati e l’85 dei non praticanti sostiene il nuovo premier.
Del resto, il cattolico liberale Mario Monti ha scelto con finezza. Il rettore della Cattolica Lorenzo Ornaghi è vicinissimo al cardinale Ruini, sostenuto dalla forte componente ciellina dell’ateneo e apprezzato nella Cei; Andrea Riccardi è fondatore della comunità di Sant’Egidio e ha eccellenti rapporti Oltretevere. Milano e Roma, Vaticano e Chiesa italiana, «conservatori» e «progressisti». C’è anche Renato Balduzzi, già presidente del «Movimento ecclesiale di impegno culturale», che collaborò con Rosy Bindi come capo dell’ufficio legislativo e partecipò alla stesura del disegno di legge sui «Dico», inviso alle gerarchie ecclesiastiche. Dalla Cattolica arriva Piero Giarda, vicini al mondo cattolico sono Paola Severino, Piero Gnudi e Francesco Profumo, che proprio questo pomeriggio presenterà il libro dell’Editrice Vaticana curato da monsignor Lorenzo Leuzzi su «I grandi discorsi di Benedetto XVI»: invitato da tempo come presidente del Cnr, tra gli altri relatori troverà il predecessore all’Istruzione, Mariastella Gelmini.
L’incontro più atteso, però, sarà domani: a una tavola rotonda di «Scienza e Vita» sulla bioetica, dopo l’intervento del cardinale Bagnasco, sono attesi Alfano, Bersani, Casini e Maroni. Tutti assieme, almeno lì.
Da Todi a Palazzo Chigi
di Marco Politi (il Fatto, 17.11.2011)
I cattolici di Todi vanno al governo. Prima ancora che la carovana umbra riesca a darsi un’organizzazione, l’area bianca assume il volto della consistente pattuglia di personalità cattoliche che faranno parte del Consiglio dei ministri guidato dal cattolico Monti. È una squadra di tutto rispetto: Andrea Riccardi, leader della Comunità di Sant’Egidio alla Cooperazione internazionale, il banchiere Corrado Passera allo Sviluppo, Lorenzo Ornaghi rettore dell’Università Cattolica ai Beni culturali, Renato Balduzzi già presidente dei Laureati cattolici (Meic) alla Salute. Al di là delle differenti caratteristiche, la loro presenza testimonia l’avvento di una cultura politica radicalmente diversa da quella del governo di centro-destra. Al posto di una compagnia di ventura ispirata a faziosità, aggressività, ideologismo e nutrita di un’incosciente disattenzione al Paese reale, salgono sulla scena personaggi riunitisi a Todi sulla base del “Manifesto per la buona politica e il bene comune”.
“SIAMO ORGOGLIOSI di essere italiani, portatori di valori, di cultura, di tradizioni, apprezzati nel mondo e consapevoli di avere un destino comune... (impegnati ad) avviare una nuova stagione di sviluppo e per dare risposte positive alle giovani generazioni, ai territori meno sviluppati, alle persone bisognose”. Così recita il manifesto, su questo si misureranno e saranno misurati.
Il solo fatto di vedere persone che non alzeranno il dito medio (marchio Bossi), non manderanno ‘affanculo oppositori (Romano), non parleranno di élite di merda (Brunetta) o elettori coglioni (Berlusconi) è antropologicamente un sollievo. Il loro stesso modo di esprimersi rappresenta un ritorno a un linguaggio basato sul pensiero e non ispirato a spot pubblici-tari o furbizie da comizio.
La foto di Monti e dei suoi boys di parte bianca (al di là delle specifiche esperienze di ognuno) rappresenta plasticamente l’immagine del contributo di risorse cattoliche che si è sempre manifestato nei tornanti decisivi delle vicende italiane. Persino durante il Risorgimento, nel quale - nonostante la scatenata opposizione papalina e clericale - il cattolicesimo liberale è stato ben presente. Sul piano della cronaca politica più recente, il loro arrivo marca la sconfitta definitiva del tentativo di Berlusconi di costruire il suo governo del 2008 rifiutando superbamente il rapporto con forze cattoliche autonome. Tutti si accorsero, quando fu presentato l’ultimo governo di centrodestra, che i cattolici erano stati esclusi dai ministeri che contano. (Letta, uomo vaticano, è un caso a parte). La ricreazione del partito padronale, ateo devoto e intrinsecamente cinico, ora è finita. La benedizione di Ruini e di Bertone - è bene ricordarlo - ha portato al disastro attuale.
I conciliaboli antecedenti alla formazione del governo hanno lasciato tuttavia uno strascico avvelenato. Il veto prepotente pronunciato da parte della Chiesa nei confronti dell’ipotesi che uno scienziato come Veronesi andasse al ministero della Salute. Vera o no l’ipotesi, rimane reale il veto. Sintomo preoccupante di una visione ideologica dei problemi della sanità (e della famiglia, possiamo aggiungere) che con un governo di stampo “europeo” non è assolutamente in sintonia.
È bene riflettere subito su problemi che toccano la vita quotidiana di milioni di uomini e donne. Un governo liberalizzatore di stampo europeo non può e non dovrà permettere che un farmacista si arroghi il diritto - contro la legge - di vendere o meno la pillola del giorno dopo. Non può tollerare ostruzionismi capziosi, che nulla hanno a che fare con la cura delle persone, nei confronti della pillola del giorno dopo o della Ru486. Dovrà riformulare urgentemente le assurde linee guida, varate come ultima raffica, per impedire la diagnosi preimpianto degli embrioni mortalmente malati. Soltanto il cinismo di una radicale pentita come Eugenia Roccella può dichiarare che l’assistenza alla procreazione è per le coppie sterili e non riguarda padri e madri che hanno la responsabilità di non mettere al mondo bimbi condannati a morire per talassemia o fibrosa cistica.
QUESTA VERGOGNA ideologica deve finire. Sarebbe poco logico predicare la libera concorrenza e ampliare la libertà di gestione delle imprese ad esempio nel campo dei licenziamenti, sarebbe poco comprensibile voler spezzare i lacci delle caste e delle corporazioni, e poi mortificare la libertà di responsabile decisione di uomini e donne nello spazio vitale della propria esistenza. Il profilo stesso delle personalità cattoliche arrivate nel governo Monti dimostra che questo governo è tutt’altro che tecnico. Al contrario, è altamente politico perché portatore di una visione generale di riorganizzazione sociale all’insegna di sviluppo, modernizzazione, equità e coesione. Dai cattolici, che siederanno ai banchi del governo, ci si aspetta che sappiano misurarsi con i problemi della modernità con l’indipendenza di un De Gasperi e della migliore tradizione di autonomia della Dc, trovando soluzioni concrete orientate al bene comune. Con l’accento su “comune”.
Il Vaticano benedice
Per i cattolici è l’«effetto Todi»
I «professori cattolici» nella squadra del governo Monti rassicurano la Chiesa.
La novità dell’esecutivo «tecnico» risponde allo spirito di Todi. Apprezzamenti dal cardinale Bertone, dal Sir, dall’Azione cattolica e dalle Acli.
di Roberto Monteforte (l’Unità 17.11.11
«Una bella squadra alla quale auguro buon lavoro. Si tratta di un lavoro difficile, ma penso che la squadra sia attrezzata per affrontare questo lavoro». È stata questa l’autorevolissima «benedizione» del segretario di Stato vaticano, cardinale Bertone al «governo tecnico» presentato ieri dal professore Mario Monti che ha giurato ieri al Quirinale. Un governo forte. Con personalità «tecniche» di grande competenza che con si mettono al servizio del Paese per favorire il superamento della crisi con un’imprevista accelerazione, almeno stando ai commenti e ai messaggi di augurio rivolti dal mondo dell’associazionismo cattolico al governo. Dal settimanale Famiglia Cristiana all’agenzia dei vescovi Sir, dalle Acli all’Azione cattolica è comune il sostegno convinto a Monti.
«Un governo tecnico» lo descrive il Sirnato da un passo indietro delle forze politiche che «tuttavia, fin d’ora sono chiamate ad accompagnare con serietà e senso di responsabilità il lavoro dei tecnici». «Coniugare rigore ed equità, sacrifici e crescita conclude il Sir comporta da parte di tutti uno spirito di coesione e di collaborazione. Plaudono anche il Terzo Settore e il presidente delle Acli, Andrea Olivero che lo definisce «un esecutivo convincente», con «figure di alto profilo» che «non nasce contro la politica, ma al servizi della buona politica».
Quello che si sottolinea è la sintonia con le indicazioni «politiche» avanzate dal laicato cattolico al seminario di Todi. Rafforzata dalla presenza di «ministri» di area. Il leader dell’Udc, Pierferdinando Casini si spinge a parlare di «fine della diaspora della Dc», visto che ora i cattolici si ritrovano uniti nello stesso al gover no. Gli risponde Rosy Bindi (Pd). Non vi è stata «alcuna riunificazione» dei cattolici. «Questo governo puntualizza -non è sostenuto da una coalizione, ma da forze politiche che lavorano in autonomia, ciascuna con le proprie caratteristiche».
QUELLI DELL’«INCONTRO»
Una cosa è certa. Tra i ministri che hanno giurato al Quirinale, vi sono protagonisti dell’«incontro di Todi» che hanno accolto l’invito delle gerarchie e dello stesso pontefice a mettersi al servizio del paese e del «bene comune». Vi è il banchiere Corrado Passera, neo-ministro allo sviluppo economico. Il professore Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di sant’Egidio, a cui il presidente Monti ha affidato la responsabilità di un nuovo dicastero che comprende la «cooperazione interna e internazionale», due emergenze che hanno contraddistinto l’«azione sociale» della comunità di Trastevere. «L’impegno per la coesione sociale, per l’integrazione nazionale e per la cooperazione internazionale ha spiegato Riccardi fanno parte della mia cultura e dell’esperienza da me maturata in questi anni. Credo siano elementi decisivi per un Paese che ritrova la forza per uscire dalla crisi».
Alla guida dei Beni culturali vi è il rettore della università Cattolica professore Ornaghi, l’uomo chiave del «progetto culturale» della Cei voluto dal cardinale Ruini, intellettuale apprezzato anche dal presidente dei vescovi, Bagnasco. Del governo fa parte anche Piero Giarda, formatosi alla Cattolica di Milano: sarà il ministro per i rapporti con il Parlamento. Espressione autorevole dell’associazionismo cattolico è il professore di diritto costituzionale, Renato Balduzzi già presidente del Meic, il movimento di impegno culturale legato all’Azione cattolica. Sarà a capo di un ministero strategico per la Chiesa: la Salute. Non gli manca l’esperienza. È stato esperto giuridico della Bindi alla Sanità e alle Politiche per la famiglia.
“Rischio protettorato Usa per il Vaticano”
Andreotti scoperchia l’archivio della Dc
Il senatore: “Lo scongiurammo inserendo i Patti Lateranensi in Costituzione”
di Fabio Martini (La Stampa, 16.11.2011)
ROMA. Dopo il Pci, ora è la volta della Dc. Il declino della Seconda Repubblica sta accelerando la riscoperta dei partiti della prima stagione della Repubblica e così, dopo la ricca mostra itinerante dedicata alcuni mesi fa alla storia del Partito comunista italiano (e preparata dai «legittimi eredi» di quella storia, gli ex Ds), da oggi al Tempio di Adriano di Roma si apre una analoga iniziativa che in questo caso ripercorre, per immagini e documenti, la storia della Democrazia cristiana. Promossa dalla Associazione «I Popolari», la mostra intende «valorizzare il ruolo dei cattolici impegnati in politica - spiega l’ideatore della iniziativa Pier Luigi Castagnetti - che, dopo non aver partecipato alla stagione risorgimentale, nel secondo dopoguerra furono i protagonisti della rinascita del Paese e della sua unificazione, anche grazie alla scolarizzazione di massa, all’Ina-casa di Fanfani, all’autostrada in sei anni, all’effetto unificante sul linguaggio realizzato dalla prima Rai».
Un soprassalto di orgoglio democristiano che, più o meno consapevolmente, trae alimento anche da una piccola maledizione che perseguita il buon nome della Dc: nell’immaginario collettivo il termine democristiano oramai è diventato sinonimo di compromesso al ribasso, di sottogoverno deteriore. Un’immagine che finisce per associare in un unico «calderone» la stagione del declino - l’ultimo ventennio, dal 1974 al 1993 - con l’intera storia del partito, che copre un cinquantennio e che comprende tutta la prima fase della Repubblica, la ricostruzione e il boom economico.
Nel lavoro di preparazione della mostra, gli organizzatori hanno avuto la fortuna di acquisire una testimonianza storicamente assai interessante sulle ingerenze straniere sull’Italia, tema in questi giorni assai dibattuto, sia per motivi molto diversi. Richiesto di ricordare la stagione della Assemblea costituente, Giulio Andreotti, rivela un dettaglio che lui stesso riconosce essere stato finora «mai considerato». Racconta Andreotti, in quegli anni molto vicino al presidente del Consiglio Alcide De Gasperi: «Inserendo nella Costituzione i Patti lateranensi, si allontanò definitivamente l’ipotesi di una garanzia internazionale alla Santa Sede, per la quale avevano fatto sondaggi in Segreteria di Stato tanto il governo americano che quello irlandese, con esito per loro non incoraggiante da parte di monsignor Montini».
In parole povere, uno dei passaggi più importanti nella storia del dopoguerra, l’inserimento dei Patti lateranensi in Costituzione col voto congiunto della Dc e del Pci e quello contrario dei socialisti e degli azionisti, sarebbe stato preceduto e accelerato anche dall’opzione di una sorta di «protettorato» straniero, con una esplicita candidatura non solo dell’Irlanda cattolica, ma soprattutto di una delle due superpotenze uscite vittoriose dalla guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America. In sostanza, la Chiesa attraverso il futuro Paolo VI, la Dc di De Gasperi e il Pci filosovietico di Palmiro Togliatti si ritrovarono d’accordo nel concedere alla Chiesa la «protezione» nazionale piuttosto che affidare il Vaticano alle cure degli Stati Uniti d’America. Nella mostra che si apre oggi sono esposti 170 documenti, tra manifesti, volantini, audiovisivi e alcune lettere di speciale valore storico.
Calamandrei, educazione italiana
di Silvia Truzzi (il Fatto, 5.11.2011)
A chi si domanda perché riprendere in mano gli scritti dei vecchi, dei morti - invece che tenerli come santini in improbabili pantheon - sarà utile dare più di un’occhiata a “Lo Stato siamo noi” (Chiarelletere; 7 euro, 136 pagine) raccolta di scritti e discorsi di Piero Calamandrei. Giurista, azionista, padre costituente: perché Calamandrei oggi lo spiega Giovanni De Luna nella sua introduzione al volumetto, a proposito della fascistizzazione degli italiani. “Si era trattato, diceva Calamandrei, di un arido ventennio di diseducazione, passato sulle menti come una carestia morale’. Bisognava impedire che gli elementi essenziali di questa carestia transitassero intatti nella nuova Italia repubblicana”. Dice qualcosa? “Le macerie lasciate dal fascismo sono state quelle che ci hanno obbligato a riedeficare lo spazio pubblico con una religione civile”, spiega ancora De Luna. E tutti i comandamenti sono nella Costituzione. “La Carta è una cosa bellissima, però vive nella mente e nel cuore delle persone. Si deve incarnare nella concretezza di movimenti collettivi. Non è una conquista data una volta per tutte: va rinnovata in continuazione, attraverso la partecipazione politica”. Ma per sentirsi partecipi dello spazio pubblico della cittadinanza c’è bisogno di valori. Ci si domanda se alla bufera delle cricche, del potere e dell’individualismo, qualche forma di etica sia sopravvissuta. “Quello che è accaduto con la Seconda Repubblica”, conclude De Luna, “è stata una desertificazione dello spazio pubblico. Gli unici elementi di continuità sono stati gli interessi. Come se quella italiana fosse una sorta di cittadinanza bancomat. Una carta per accedere a beni, ricchezze, consumi, merci”. Bisogna ripartire. E bisogna ripartire da un’idea di democrazia che non è se non è inclusiva.
NEL LIBRO C’È un celebre discorso fatto da Calamandrei ai giovani. Parte dall’articolo 34 e dice: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare una scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nel-l’art. primo - «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» - corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto una uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale”.
Il testo è del 1955 eppure sembra scritto per i ragazzi della generazione mille euro che chiedono il diritto di essere, pienamente e non precariamente, persone. L’istruzione, il lavoro, l’uguaglianza sostanziale: ecco come avrete un’esistenza degna. Tutti: Calamandrei non dimentica mai gli ultimi. Come nel discorso in difesa - è proprio il testo di un’arringa difensiva pronunciata davanti al Tribunale di Palermo nel ’56 - di Danilo Dolci, accusato di manifestazione sediziosa e turbamento dell’ordine pubblico. Dolci aveva (addirittura) incitato al digiuno una comunità di pescatori, rimasti senza pesci nelle reti a causa del contrabbando. Digiunare vuol dire disturbare l’ordine pubblico. Ma l’ordine pubblico di chi? chiede Calamandrei ai giudici. E risponde: “L’ordine pubblico di chi ha da mangiare. Non bisogna disturbare con spettacoli di miseria e di fame la mensa imbandita di chi mangia bene”. Chissà che avrebbe detto dei “respingimenti”. Naturalmente nelle parole di questo libro ci sono anche il regime e la guerra civile. Quella frase diventata così famosa - “ora e sempre Resistenza” - è l’ultimo verso di un’epigrafe datata 4 dicembre 1952, scritta da Calamandrei per una lapide collocata nell’atrio del palazzo comunale di Cuneo, in protesta per la liberazione di Albert Kesselring, comandante delle forze di occupazione tedesche in Italia, condannato all’ergastolo nel 1947 ma liberato nel 1952 per “gravi” condizioni di salute. E ci sono anche i morti.
IN UN DISCORSO all’Assemblea Costituente, l’avvocato che elogiava i magistrati fa una domanda sui cittadini di domani: “Mi chiedo come i nostri posteri giudicheranno questa nostra Assemblea costituente. Se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi (...) che in questa nostra Assemblea, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Non dobbiamo tradirli”. Siamo in tempo?
Il Partito democratico pellegrino in Vaticano
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 21 ottobre 2011)
Tre giorni dopo il convegno cattolico di Todi Luigi Bersani mette piede in territorio vaticano e difende l’autonomia della politica, rilancia il dialogo tra cattolici e non credenti, esorta a trovare “soluzioni condivise” per far ripartire l’Italia.
Sarà perché da piccolo ha organizzato uno sciopero di chierichetti, ma nel confronto con il vescovo Rino Fisichella - fresco dell’incarico ricevuto da Benedetto XVI di promuovere la “nuova evangelizzazione” - il segretario del Pd non mostra complessi di inferiorità né cede a tentazioni compromissorie.
Nel faccia a faccia, organizzato da Piero Schiavazzi per “Eventi Elea” in un palazzo della Santa Sede con tanto di gendarmi vaticani di guardia, si avverte a differenza di altre occasioni l’atmosfera pesante di una situazione del Paese contrassegnata da un drammatico decadimento. Nel parlare di rapporti tra Stato e Chiesa, come si è visto anche dai recenti interventi del presidente della Cei Bagnasco, nessuno può dimenticarlo.
Forse con qualche nostalgia di troppo per la stagione dello scontro-incontro tra Dc e Pci, mons.
Fisichella batte il tasto della frammentazione odierna dell’Italia. “La debolezza della politica - dice
è frutto della debolezza di una società disorientata, paurosa e priva di idealità”. La cura, spiega,
non può venire solo dalla politica ma dalla “sinergia” di quanti comprendono la drammaticità del
momento. E qui entra in campo l’apporto dell’insegnamento della Chiesa e il richiamo al “diritto
radicato nella stessa legge di natura” a cui una “laicità creativa” - neologismo inventato dal
monsignore - deve sapersi ancorare per creare uno stato giusto e pacifico che non sia, sant’Agostino
docet, una “banda di briganti”.
Discorso pacato, che si richiama all’intervento di Benedetto XVI al parlamento di Berlino, che però in coda riafferma nettamente i famosi “principi non negoziabili” con un avvertimento duro nonostante la confezione morbida: “Questi principi sono a fondamento di ogni altro impegno a favore dell’uomo nel suo vivere sociale; ogni tentativo di volerli limitare o modificarne l’ordine gerarchico non sarebbe privo di conseguenze per il corretto impegno dei cattolici in politica”. UOMO AVVISATO! Il Vaticano avverte il Pd e la Sinistra che continuerà a brandire l’argomento come una clava nei rapporti politici del dopo-Berlusconi.
Bersani notoriamente non è uomo che buca lo schermo con la sua oratoria, ma qui (memore, chissà, della sua tesi di laurea in filosofia medievale sul “Rapporto tra grazia e autonomia dell’uomo in Gregorio Magno”) trova le parole giuste per farsi capire dall’uditorio. “Non tocca alla politica - argomenta - far negozio né della fede né dei valori né della gerarchia dei valori”. Missione della politica, invece, è “negoziare soluzioni condivise per la convivenza”, per costruire una società in cui l’uomo possa diventare più umano.
Nessun accenno a quanto accadde al governo Prodi appena tentò di trovare soluzioni per le coppie di fatto, ma il segnale è chiaro. Non hanno senso atteggiamenti “paralizzanti”. Le mediazioni vanno negoziate per risolvere situazioni concrete ed evitare che in nome dei principi si laceri ancora di più l’Italia.
Parla - Bersani - come se si fosse riuniti attorno al tavolo di una cascina di Ermanno Olmi. Senza foga ma con franchezza. Punta il dito contro l’attuale legge sul fine vita, in cui non intravvede lo spirito che anima tante famiglie in situazioni tragiche. “Troviamo soluzioni umane”, scandisce. Si dice disposto ad ogni discussione sulla condizione dell’uomo odierno, che rischia di essere schiacciato dalla tecnica, ma rivendica l’orgoglio laico di tanti non credenti, i quali hanno dato la vita per difendere la dignità dell’uomo e la sua libertà. Anche lui, in coda, lancia il suo messaggio: serve il contributo della cultura istituzionale dei cattolici per rimettere in sesto la democrazia in Italia. Serve il dialogo tra credenti e non credenti per evitare la lacerazione sociale del Paese.
Olmi: «Così leggo la carità»
di Ermanno Olmi (Avvenire, 19 ottobre 2011)
Caro direttore, ricevo “Avvenire” fin da quando, molti anni fa, con cari amici ormai lontani, vedemmo uscire dalle rotative il primo numero del giornale.
L’affezione e l’ammirazione sono sempre stati per me saldi riferimenti quotidiani per il rigore e la libertà d’opinione dei suoi collaboratori e quindi per il rispetto del lettore. Tanto che ho molto apprezzato gli interventi apparsi in “Agorà” dopo l’uscita del mio ultimo film Il villaggio di cartone. E di questa attenzione nei miei riguardi, caro direttore, la ringrazio e, se lo riterrà utile per i suoi lettori, mi farà piacere se pubblicherà queste mie note sul dibattito che ne è seguito.
Giovanni Bazoli, prima sul “Corriere della Sera” e poi su “Avvenire”, pone l’attenzione su due contrapposti valori invocati dal vecchio prete, protagonista dell’apologo cinematografico. Che dice: «Ho fatto il prete per fare del bene. Ma per fare del bene, non serve la fede. Il bene è più della fede».
Subito, un intervento di Marina Corradi su “Avvenire”, mi rimprovera: «di coltivare così tanti dubbi di fede che la storia (del film) rischia di perdere la radice e il fondamento della carità dei cristiani». Ma come sarebbe «la carità dei cristiani»? Dunque ci sarebbero più carità? E quella dei cristiani è forse tanto speciale e diversa da quella di altre fedi religiose? Mi piacerebbe conoscere l’elenco delle diverse carità. Bazoli chiarisce: «Il film è da intendere come un richiamo forte e drammatico all’esercizio e della carità e dell’accoglienza nei confronti di uomini che sono tra i più indifesi e disperati del nostro tempo; vale come monito a intensificare l’impegno religioso e umano».
Ugualmente, Marina Corradi insiste: «In realtà il bilancio del vecchio sacerdote sembra viziato da un equivoco. Non ci si fa prete “per fare del bene” ma per portare Cristo agli uomini, che è assai di più». La fede è in sé un valore, ma non è determinante per fare del bene. Né il fare del bene ha mai ostacolato la fede di alcuno. La fede è innanzitutto un sentimento che ciascuno coltiva nel profondo di sé, in solitudine. E con tale stato d’animo parteciperà la sua fede con quella dell’altro, in comunione con Dio.
Un’altra voce che ha partecipato a questi interrogativi sul primato tra fede e carità è quella di Piero Coda, teologo e presidente dell’Istituto universitario Sophia: «Conosciamo tutti l’inno alla carità che l’apostolo Paolo tesse nel capitolo 113 della Lettera ai Corinzi. L’ agape è la via che tutte le altre sopravanza. Non avere l’agape significa essere nulla». E prosegue: «L’agape è la cifra compendiosa di tutto il mistero cristiano».
Come vede, caro direttore, mi appello a autorevoli testimoni della cristianità. Ed ecco che ancora Piero Coda mi suggerisce sant’Agostino: «La carità spinse Cristo a incarnarsi». È di pochi giorni fa, in Egitto, il divampare di conflitti fra appartenenze religiose mettendo l’una contro l’altra. E soltanto ieri, a Roma, la dissennata violenza di giovani praticata con la rabbia della distruzione. E mi domando se è del tutto azzardato pensare che anche questi giovani allo sbando non provino un loro delirante atto di fede in una “religiosità” criminale.
Ancora una volta la Storia ci avverte che il vincolo tra fede e “Chiese delle diversità” può avere esiti di immani tragedie. E sappiamo anche che, nel corso dei secoli, le religioni hanno avuto necessità di cambiamenti imposti dai radicali mutamenti delle realtà che inarrestabilmente sopravvenivano. E quindi, concili, riforme e controriforme, sempre per adeguarsi con significati nuovi alle esigenze del cammino della Storia. Dunque: anche le religioni cambiano e cambiano i nostri comportamenti. Solo il bene non cambia. Ma il bene non è esclusività di istituzioni. La Chiesa di Cristo non è nell’istituzione, ma nella Sua e nella nostra incarnazione.
La missione dei cattolici
di Ferruccio De Bortoli (Corriere della Sera, 17 ottobre 2011)
Il Paese ha bisogno dei cattolici. La ricostruzione civile e morale non sarà possibile senza un loro diverso e rinnovato impegno politico. E senza un dialogo più stretto, fuori dagli schemi storici, con gli eredi delle tradizioni liberale e riformista. Se n’è discusso molto in questi giorni e il Corriere ha ospitato opinioni di orientamento differente stimolate da un articolo di Ernesto Galli della Loggia. Non si tratta di ricostituire il partito dei cattolici, né di far rivivere, sotto altre forme, la Democrazia cristiana, o il Partito popolare, al di là dell’attualità del pensiero di don Sturzo.
L’idea del partito unico è stata seppellita con la Prima Repubblica. E non se ne sente la necessità, nonostante qualche fondata nostalgia per la difesa dello Stato laico e delle sue istituzioni che appariva più convinta ed efficace quando vi era un forte partito di diretta ispirazione cristiana. La cosiddetta Seconda Repubblica è apparsa fin da subito affollata di atei devoti e politici senza scrupoli, ai quali le gerarchie ecclesiastiche hanno talvolta frettolosamente concesso ampie aperture di credito.
Nel nostro sofferto bipolarismo, al contrario, testimonianze cattoliche più autentiche sono state ridotte alla pura sussistenza o, come ha scritto Dario Antiseri, alla scomoda condizione di ascari. La diaspora ha trasmesso ai cattolici la falsa sensazione di contare di più. Come oggetti, però. Promesse generose (si pensi solo alla tutela economica della famiglia) mai mantenute. Impegni solenni, e discutibili, sulla bioetica, subito derubricati nell’agenda politica, e dunque ritenuti solo a parole irrinunciabili. Nella triste époque , come la chiama Andrea Riccardi, il ruolo dei cattolici in politica è finito per essere quello degli ostaggi corteggiati a destra e degli invisibili tollerati a sinistra. Condizione che ha impoverito la politica e immiserito una società scivolata nell’egoismo e nella perdita di un comune sentimento civile.
Nell’immaginario collettivo del pur variegato mondo cattolico si è poi creata una frattura tra chi poteva trattare con lo Stato la difesa dei valori e dei principi, e chi ha cercato di ritrovare i segni dell’essere cristiani nella pratica di tutti i giorni. I primi hanno chiuso troppi occhi su modelli di vita e di società non proprio evangelici e mostrato una tendenza al compromesso eccessivamente secolarizzata. Gli altri, i cittadini e i fedeli, si sono sentiti non di rado smarriti. Non hanno perso la speranza solo grazie a uno straordinario tessuto di parrocchie, comunità, reti di volontariato, cui tutti noi italiani, credenti o no, dobbiamo un sentito grazie.
Angelo Bagnasco, il presidente della Conferenza episcopale, ha parlato della necessità di creare un «nuovo soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica che sia promettente grembo di futuro, senza nostalgie né ingenue illusioni». L’incontro di oggi a Todi, al quale partecipa lo stesso Bagnasco, forse ne svelerà la forma. Non sarà un partito, dunque, e non è nemmeno necessario che il forum delle associazioni cattoliche del lavoro si ponga il problema di quale veste assumere. Sono stati troppi in questi anni i contenitori senza contenuti.
Che cosa potrebbero fare allora questo forum e altre aggregazioni già in movimento dell’universo cattolico? Sarebbe sufficiente che si ponessero obiettivi assai semplici seppur ambiziosi: ravvivare lo spirito comunitario, la voglia di partecipazione e gettare un seme di impegno per gli altri. «Né indignati, né rassegnati», ha detto Bagnasco: è uno slogan efficace. Nel saggio Geografia dell’Italia cattolica, Roberto Cartocci scrive che «la tradizione cattolica appare come il collante più antico, il tratto più solido di continuità fra le diverse componenti del Paese». Non solo: è portatrice di una cultura inclusiva, che non divide e frantuma la società. Ha il senso del limite all’azione della politica e della presenza dello Stato nella vita dei privati. Sono qualità importanti. Apprezzate da tutti. Anche da noi laici.Quel che resta, non poco, di quella tradizione ha il compito storico di promuovere un dialogo più proficuo con le altre componenti laiche, liberali e riformiste della società.
L’indispensabile opera di pacificazione del dopo Berlusconi passa necessariamente dalla affermazione della centralità della persona e dalla riscoperta delle virtù civili. I cattolici possono intestarsi una nuova missione, esserne protagonisti. Dire quale idea dell’Italia hanno in mente. Riscoprire un tratto più marcatamente conciliare dopo l’era combattiva e di palazzo di Ruini. Una missione sociale, in questi anni, poco valorizzata, mentre si è insistito tanto sulla difesa dei valori cosiddetti non negoziabili, dal diritto alla vita alle questioni bioetiche, al punto di estendere l’incomunicabilità con le posizioni laiche all’insieme delle questioni civili ed economiche. Un dialogo va ripreso su basi differenti, nel rispetto delle libertà di coscienza.
La collocazione politica dei cattolici costituisce un problema secondario, per certi versi irrilevante. Galli della Loggia ha scritto che il centro non è il luogo del loro destino genetico, e tantomeno la sinistra. De Rita si è chiesto chi potrebbe essere il nuovo federatore di tante anime sparse disordinatamente. La politica verrà. Per ora possiamo dire che sarebbe un imperdonabile errore se lo slancio partecipativo dei cattolici, palpabile nel fermento di molte associazioni e componenti, si esaurisse in una sterile discussione di schieramento. Quello che ci si aspetta da loro è un contributo decisivo nella formazione di una classe dirigente di qualità che persegua l’interesse comune. Un esempio di etica pubblica da trasmettere ai giovani frastornati e delusi da una stagione di scialo economico e morale. La costruzione di un futuro che coniughi solidarietà e competitività.
L’idea dell’impegno, del sacrificio e dello studio come assi portanti della società. Un maggior rispetto per le istituzioni, a cominciare naturalmente dalla famiglia, sopraffatte da un individualismo dilagante e cinico. Quel cinismo «che va a nozze con l’opportunismo», come ha scritto bene sull’ Avvenire di ieri Francesco D’Agostino. I cattolici promuovano un dialogo senza pregiudizi con gli altri, come è accaduto nei momenti più bui della storia del nostro Paese. Il loro apporto sarà decisivo nella misura in cui saranno se stessi, senza mimetizzarsi e perdersi in altre case apparentemente ospitali. Possono essere maggioranza nel dibattito delle idee, pur restando minoranza nel Paese.
La lettera aperta
Il confronto può partire dal tema antropologico
Il Pd, partito di credenti e non credenti, pronto a discutere della crisi italiana, della tenuta dell’unità della nazione, della «sostanza etica» della democrazia
di Pietro Barcellona, Paolo Sorbi, Mario Tronti, Giuseppe Vacca (l’Unità, 17.10.2011)
La manipolazione della vita, originata dagli sviluppi della tecnica e dalla violenza insita nei processi di globalizzazione in assenza di un nuovo ordinamento internazionale, ci pongono di fronte ad una inedita emergenza antropologica. Essa ci appare la manifestazione più grave e al tempo stesso la radice più profonda della crisi della democrazia. Germina sfide che esigono una nuova alleanza fra uomini e donne, credenti e non credenti, religioni e politica. Pertanto riteniamo degne di attenzione e meritevoli di speranza le novità che nel nostro Paese si annunciano in campo religioso e civile.
A noi pare che negli ultimi anni un periodo storico cominciato con la crisi finanziaria del 2007 e in Italia con il crepuscolo della seconda Repubblica mentre la Chiesa italiana si impegnava sempre più a rimodulare la sua funzione nazionale, un interlocutore come il Partito democratico sia venuto definendo la sua fisionomia originale di «partito di credenti e non credenti». Sono novità significative che ampliano il campo delle forze che, cooperando responsabilmente, possono concorrere a prospettare soluzioni efficaci della crisi attuale. Il terreno comune è la definizione della nuova laicità, che nelle parole del segretario del Pd muove dal riconoscimento della rilevanza pubblica delle fedi religiose e nel magistero della Chiesa da una visione positiva della modernità, fondata sull’alleanza di fede e ragione.
Nel suo libro-intervista Per una buona ragione, Pier Luigi Bersani afferma che il «confronto con la dottrina sociale della Chiesa» è un tratto distintivo della ispirazione riformistica del Pd e che la presenza in Italia «della massima autorità spirituale cattolica» può favorire il superamento del bipolarismo etico che in passaggi cruciali della vita del Paese ha condizionato negativamente la politica democratica. Ribadendo la «responsabilità autonoma della politica», Bersani esprime una opzione decisa per una sua visione «che non volendo rinunciare a profonde e impegnative convinzioni etiche e religiose, affida alla responsabilità dei laici la mediazione della scelta concreta delle decisioni politiche».
Per quanto riguarda la Chiesa cattolica vi sono due punti della relazione del cardinale Bagnasco alla riunione del Consiglio permanente dei vescovi del 26-29 settembre 2011 che meritano particolare attenzione. Il primo riguarda la critica della “cultura radicale”: essa è rivolta a quelle posizioni che, «muovendo da una concezione individualistica», rinchiudono «la persona nell’isolamento triste della propria libertà assoluta, slegata dalla verità del bene e da ogni relazione sociale». Il secondo è la proposta di nuove modalità dell’impegno comune dei cattolici per contrastare quella che in una precedente occasione aveva definito «la catastrofe antropologica»: «La possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica».
E non è meno significativa la sua giustificazione storica: «A dar coscienza ai cattolici oggi non è anzitutto un’appartenenza esterna, ma i valori dell’umanizzazione sempre di più richiamano anche l’interesse di chi esplicitamente cattolico non si sen- te». In altre parole, la “possibilità” di questo nuovo soggetto origina dall’impegno sociale e culturale del laicato, nel quale i cattolici sono «più uniti di quanto taluno vorrebbe credere» grazie alla bussola che li guida: la costruzione di un umanesimo condiviso. La definizione della nuova laicità e l’assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell’Italia esigono uno sviluppo dell’iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell’interesse del Paese. A tal fine appare dirimente il confronto su due temi fondamentali del magistero di Benedetto XVI che nell’interpretazione prevalente hanno generato confusioni e distorsioni tuttora presenti nel discorso pubblico: il rifiuto del “relativismo etico” e il concetto di “valori non negoziabili”. Per chi dedichi la dovuta attenzione al pensiero di Benedetto XVI non dovrebbero sorgere equivoci in proposito.
La condanna del “relativismo etico” non travolge il pluralismo culturale, ma riguarda solo le visioni nichilistiche della modernità che, seppur praticate da minoranze intellettuali significative, non si ritrovano a fondamento dell’agire democratico in nessun tipo di comunità: locale, nazionale e sovranazionale. Il “relativismo etico” permea, invece, profondamente, i processi di secolarizzazione, nella misura in cui siano dominati dalla mercificazione. Ma non è chi non veda come la lotta contro questa deriva della modernità costituisca l’assillo fondamentale della politica democratica, comunque se ne declinino i principi, da credenti o da non credenti. D’altro canto, non dovrebbero esserci equivoci neppure sul concetto di “valori non negoziabili” se lo si considera nella sua precisa formulazione. Un concetto che non discrimina credenti e non credenti, e richiama alla responsabilità della coerenza fra i comportamenti e i principi ideali che li ispirano. Un concetto che attiene, appunto, alla sfera dei valori, cioè dei criteri che debbono ispirare l’agire personale e collettivo, ma non nega l’autonomia della mediazione politica. Non si può quindi far risalire a quel concetto la responsabilità di decisioni in cui, per fallimenti della mediazione laica, o per non nobili ragioni di opportunismo, vengano offese la libertà e la dignità della persona umana fin dal suo concepimento. Ad ogni modo, se nell’approccio alle sfide inedite della biopolitica ci sono stati e si verificano equivoci e cadute di tal genere non solo in scelte opportunistiche del centrodestra, ma anche nel determinismo scientistico del centrosinistra, la riaffermazione del valore della mediazione laica che sembra ispirare «la possibilità di un soggetto culturale e sociale di interlocuzione con la politica» rischiara il terreno del confronto fra credenti e non credenti. Quindi dipenderà dall’iniziativa culturale e politica delle forze in campo se quella “possibilità” acquisterà un segno progressivo o meno nella vicenda italiana. A tal fine noi riteniamo che il Pd debba promuovere un confronto pubblico con la Chiesa cattolica e con le altre confessioni religiose operanti in Italia oltre che sui temi cosiddetti “eticamente sensibili”, su quelli che attengono in maniera più stringente ai rischi attuali della nazione italiana: la tenuta della sua unità, la “sostanza etica” del regime democratico. Tanto sull’uno, quanto sull’altro, la storia dell’Italia unita dimostra che la funzione nazionale assolta o mancata dal cattolicesimo politico è stata determinante e lo sarà anche in futuro.
Sul quotidiano dei vescovi "Avvenire" il documento di quattro intellettuali di formazione marxista: Barcellona, Sorbi, Tronti e Vacca
"Laicità e relativismo, Bersani ascolti il Papa" *
TODI - La sinistra collabori con la Chiesa, nell’interesse dell’Italia. L’invito a farlo proviene da quattro noti intellettuali di formazione marxista, ed è partito ieri con una lettera aperta pubblicata sul quotidiano dei vescovi Avvenire. Il documento è firmato da Paolo Sorbi, Pietro Barcellona, Mario Tronti e Giuseppe Vacca. Il titolo scelto, con le foto dei quattro studiosi, è "Nuova alleanza per l’emergenza antropologica".
Sorbi, Barcellona, Tronti e Vacca esortano il Pd, e il suo segretario Pierluigi Bersani, a fare i conti con l’insegnamento di Benedetto XVI sulla insopprimibile dignità della vita umana e sul primato della persona, «cercando di andare oltre tutti gli steccati». «La definizione della nuova laicità - spiegano - e l’assunzione di una responsabilità più avvertita della Chiesa per le sorti dell’Italia, esigono uno sviluppo dell’iniziativa politica e culturale volta non solo a interloquire con il mondo cattolico, ma anche a cercare forme nuove di collaborazione con la Chiesa, nell’interesse del Paese». Annota Sorbi sul quotidiano della Cei, alla vigilia dell’incontro di Todi, che «il rischio incombente per un centrosinistra rassegnato a seguire derive radicali è di non riuscire a elaborare una cultura di governo all’altezza delle gigantesche sfide del nostro tempo». (m.ans.)
* la Repubblica, 17.10.2011
La sinistra di papa Ratzinger
risponde Furio Colombo
Caro Colombo,
che cosa pensi dei marxisti che si sono schierati con Ratzinger teologo e docente della verità unica e rivelata e nemico assoluto del relativismo?
Severino
PENSO che la solitudine sia uno dei problemi più gravi della nostra epoca, non tanto e non solo nella vita di tutti giorni ma, in particolare, dentro ogni schieramento o gruppo detto, per una ragione o per l’altra, “di sinistra”. Mi pare di capire che coloro che si sentono o si dichiarano ancora “marxisti” siano ancora più soli. E poiché il marxismo, di cui non puoi parlare più con nessuno, non era una filosofia della discussione, ma la definizione di principi ritenuti scientifici, dunque ovviamente predicati per essere creduti, non per aprire il dibattito, si può capire il percorso. Questo potrebbe essere un modo un po’ banale, ma utile, per spiegare i pensatori marxisti e ratzingeriani.
Però le persone in questione - Barcellona, Tronti, Sorbi e Vacca - non sono seconda fila e non si possono immaginare come parte di un pacchetto di viaggio in gruppo. Detto questo, il problema è di più difficile, non di più facile soluzione. Infatti, niente è più assoluto dell’assolutismo di Ratzinger. Nel suo insegnamento non c’è spazio per la minima flessione di principi rigidi e al di sopra di ogni negoziazione. Al punto che tutti devono credere e obbedire e far diventare legge dello Stato o proibizione assoluta il suo insegnamento (di Ratzinger, non della Chiesa, o almeno non della storia della Chiesa) oppure sono fuori.
Ecco, credo che il timore di questo “fuori” e, più ancora, il senso di solitudine che si respira in aree che furono di sinistra, siano la grande spinta, più caratteriale che teologica, verso l’affollato vascello del Papa. Certo, molti si imbarcano solo per convenienza. Qui credo che la parola giusta, dopo tanto gelo nel “day after” del post-marxismo, sia consolazione. La consolazione, comprensibile e umana, di essere parte, con qualcuno, di qualcosa. Era da tanto tempo che un marxista non poteva concedersi questa consolazione. Così tanto che si può spiegare (o almeno capire) l’inspiegabile.
* il Fatto, 13.11.2011
A proposito di «Quel che resta di Marx» di Giuseppe Vacca
di Valentino Parlato (il manifesto, 10.06.2016)
Ho letto e riletto Quel che resta di Marx. Rileggendo il Manifesto dei comunisti (Salerno Editrice, pp 98, euro 8,90), questo distillato libro di Giuseppe Vacca e mi ha molto intrigato. Provocatorio, il titolo sembrava indicare quel che di Marx andrebbe buttato nella spazzatura della storia e, invece, al contrario, Vacca ne ribadisce l’attualità del pensiero, fondandosi sulla lettura del Manifesto e senza arrampicarsi sui Grundrisse. La tesi di questo saggio - scrive Vacca a conclusione della sua premessa - è che la carenza di ricostruzioni soddisfacenti della storia mondiale contemporanea sia dovuta anche all’emarginazione del pensiero di Marx.
Tuttavia, invece di invocarne un generico ritorno, si vorrebbe dimostrare che «rimosso il continente Marx dal pensiero contemporaneo, questo funziona male perché non riesce a dare un fondamento storico e un respiro strategico all’agire politico». E, sempre su Marx, decisiva è l’insistenza di Vacca nel respingere la sua corrente riduzione a economista, per ribadire che Marx è un politico nel senso pieno della parola. Non un politicante (oggi il nostro mondo ne è pieno), ma un politico e un politico straordinario, che fonda il suo agire su una vasta cultura.
I grandi mutamenti realizzatisi con lo straordinario progresso tecnologico e, forse ancora di più, con la globalizzazione hanno cambiato la configurazione storica del movimento operaio, ma anche del capitalismo. Bisogna quindi costruire un «nuovo pensiero», che trova ancora una guida nel pensiero di Marx, che va studiato in rapporto alle trasformazioni del presente e alla sua complessità nella quale un causa può avere anche un effetto diverso da quello scontato.
Le pagine di Vacca vanno allora lette e rilette e sempre in rapporto col pensiero di Marx, quindi con una seria lettura dei suoi scritti: il mondo è in continuo cambiamento, ma Marx resta ancora in campo.
I diritti di noi credenti
di Paola Gaiotti De Biase ("Europa”, 14 ottobre 2011)
Mauro Ceruti su Europa così chiude un discorso, peraltro largamente condivisibile, anche se non mi pare rifletta tutti i dati reali delle scelte politiche dei cattolici in questo ventennio. «Queste idee e queste esperienze sono state elaborate nei vitali laboratori della cultura e dell’associazionismo cattolici: tuttavia non hanno trovato un modo per fare rete fra loro e tanto meno adeguate forme per affermare una loro più ampia rilevanza politica. Ma è proprio la rilevanza di questo patrimonio culturale e organizzativo che impone ai cattolici un rinnovato impegno politico, al servizio di un grande progetto (da condividere laicamente con tutti, senza distinzioni e senza steccati) per il bene comune della nazione».
Tutto bene: ma non dovremmo anche domandarci, se si ritiene che questa rete da condividere laicamente non siamo riusciti a costruirla, perché questo è avvenuto.
Chi ha impedito che i cattolici si ritrovassero tutti sulla linea di Amartya Sen in economia, su una cultura della pace e un’idea della globalizzazione e del ruolo dell’Europa, che guidasse la nostra politica internazionale, sul rapporto dell’uomo con la natura? Chi ha indebolito sistematicamente l’autonomia politica dei laici che si muovevano in questa direzione? Chi li ha indirizzati sistematicamente verso sponde politiche altre da quelle declinate nell’articolo di Cerruti? Chi ha irriso ai cattolici adulti, da Prodi alla Bindi a Franceschini che si sono mossi in queste direzioni?
Chi ha ignorato le molte militanze cattoliche che si muovevano sulla linea di quel patrimonio ideale? Perché è importante che l’associazionismo cattolico si ritrovi su alcune grandi griglie ideali, e perfino anche che sappia definire in modo corretto le divisioni strutturalmente inevitabili nel concreto delle scelte politiche in una democrazia (insomma voglio dire che esista anche grazie ai cattolici una destra decente): ma non possiamo dimenticare due cose, semplici e irrefutabili.
La prima è che questo è possibile solo in un contesto esplicito di ricerca, di approfondimento, di competenza tecnica e dunque di autonomia laicale e di responsabilità diretta, non delegata da nessuno. Sono stata colpita dall’invito del Papa ai cattolici a impegnarsi politicamente. Mi pare che sia nella storia difficile del regno sia in quella della repubblica i cattolici non abbiano avuto bisogno di inviti e sollecitazioni: lo hanno fatto in molti da soli, in nome del loro essere cittadini come gli altri, e talora non senza difficoltà.
La seconda è che l’associazionismo cattolico non pensi di sostituire con l’impegno politico quello che è il nostro vero problema di credenti, da affrontare da laici insieme ma con coraggio: la coerenza della Chiesa di fronte alle aspettative svegliate dal Concilio Vaticano II, al necessario equilibrio per cui logica della profezia e logica dell’istituzione trovino la loro mediazione, non limitandosi la prima ai discorsi e la seconda ai fatti, ma innovando il modo concreto di essere Chiesa.
Todi e i rischi di una Cosa bianca
di Aldo Maria Valli (“Europa” , 15 ottobre 2011)
Il forum delle associazioni di ispirazione cattolica che si riunirà lunedì a Todi ha un nome significativo: “La buona politica per il bene comune”.
Dopo anni e anni di berlusconismo e quindi di politica ridotta a strumento di affari privati e di nefandezze morali, non c’è persona sensata che non si ponga il problema di come tornare a una politica sana. Il che non vuol dire sognare a occhi aperti un impossibile mondo politico senza lotta fra posizioni diverse, ma semplicemente lavorare per il ritorno di un confronto al cui centro ci sia la res publica e non la res privata del sultano di turno.
Il confronto di Todi sarà, come si suol dire, a vasto raggio, e anche questo è un bene. C’è bisogno di guardarsi in faccia e parlare di tutto ciò che concerne questo paese da troppo tempo abbandonato a se stesso: la condizione giovanile, le famiglie, la crisi demografica, il lavoro, i meccanismi di selezione della classe politica e di espressione della volontà popolare, la stretta interdipendenza (espressamente proclamata dalla dottrina sociale della Chiesa) fra moralità individuale e ruolo pubblico.
Gli interventi saranno articolati in tre sezioni (valori, economia, politica), con discussione introdotta da Lorenzo Ornaghi, Corrado Passera, Stefano Zamagni, Vittorio Emanuele Parsi e Giuseppe De Rita. Il coordinamento e le conclusioni saranno a cura di Cisl (Bonanni), Movimento cristiano lavoratori (Costalli), Confartigianato (Guerrini), Coldiretti (Marini), Confcooperative (Marino), Acli (Olivero) e Compagnia delle opere (Scholz).
L’introduzione generale sarà tenuta da Natale Forlani, portavoce del Forum, mentre le conclusioni saranno affidate a Raffaele Bonanni.
All’inizio dei lavori del seminario ci sarà una prolusione affidata al presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, e questa scelta non è facilmente comprensibile alla luce della necessaria laicità dell’avvenimento: sa tanto di ipoteca clericale su un incontro nel quale i protagonisti sono i laici cattolici impegnati nelle varie realtà associative. Niente di personale contro il presidente dei vescovi, ma lui ha già parlato (e molto chiaramente) davanti al consiglio permanente della Cei, appropriata sede istituzionale per le sue valutazioni.
Perché intervenire anche a Todi, mettendo così un timbro clericale sull’intera giornata? Possibile che il laicato cattolico non sappia fare da solo, senza bisogno di questa permanente tutela? Il ruolo assegnato al presidente dei vescovi, inoltre, è già espressione, di per sé, di un indirizzo politico: collocare il ritrovato attivismo cattolico nel solco di un clerico-moderatismo che sembra pensato più per consentire una ricollocazione di soggetti cattolici bruciati, o quasi, dal contatto prolungato con Berlusconi che non per disegnare davvero un progetto per l’Italia intera e soprattutto per il suo domani, incarnato da tanti giovani privi di prospettive.
Ora, qual è il contributo che i cattolici possono dare alla rinascita del paese? Un’ammucchiata clerico-moderata, condita di “curialese” e distillata in base a un ecumenismo imposto dall’alto o la libertà di dire le cose come stanno e di chiamarle con il loro nome, per una chiara denuncia delle ingiustizie e un altrettanto chiara richiesta di svolta? Su Todi ci sono molte attese, forse esagerate. Scomposizione e ricomposizione sono parole suadenti, ma nessuno sa, in questo momento, che cosa possano dire in concreto. Né possono aiutare la precisazione del segretario Cei Mariano Crociata («Non abbiamo nessun partito cattolico da organizzare o da proporre», e ci mancherebbe) o il mantra di papa Benedetto che a ogni visita in Italia (l’ultima in Calabria) ripete l’appello «per una nuova generazione di uomini e donne capaci di promuovere non tanto interessi di parte ma il bene comune». Fin qui ci siamo.
Ma che cosa si vuol fare? Si vocifera di Ppe italiano, ma che vuol dire? Tanti anni fa Pietro Scoppola spiegò molto bene qual è la differenza che sta a cuore a cristiani: quella tra chi vive la solidarietà e la partecipazione come sfida esigente dell’operare quotidiano “nell’ambito delpossibile” e chi invece li considera inutili ingombri; quella fra chi concepisce la politica come coinvolgimento e responsabilità e chi invece, al di là dei proclami, la vede come strumento per farsi gli affari propri; quella fra chi parla di questione morale e chi vive la questione morale. Questa è la differenza che conta.
Il Pdl e i suoi alleati più o meno prezzolati hanno corroso l’impalcatura ideale su cui è stata costruita la Costituzione. In mezzo a tanta incertezza, chiaro è dunque il rischio che si profila: un Pdl in salsa cattolica con timbro vaticano. Una “Cosa bianca”, irrimediabilmente vecchia e ben poco attraente, rispetto alla quale i cattolici hanno un solo dovere: opporsi.
Todi, la carovana cattolica
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 15 ottobre 2011)
Lunedì, a Todi, si riunisce la carovana cattolica. Un’assemblea mai vista dal dopoguerra ad oggi. Oltre cento rappresentanti. Per la prima volta saranno insieme tutte le principali sigle dell’area bianca. Sia le associazioni storiche dall’Azione cattolica alla Cisl o ben istituzionalizzate come la Compagnia delle Opere (ciellina) sia i “cammini” più strettamente religiosi come Rinnovamento dello Spirito, i Neocatecumenali, Sant’Egidio, i Focolarini. E molti altri gruppi, piccole associazioni e singole personalità erano prontissime a partecipare.
E questo è il primo dato. Mentre il teatro politico guarda agli sbocchi partitici o meno dell’iniziativa, c’è un mondo ramificato cattolico - disgustato dalla palude berlusconiana, stanco dell’alleanza privilegiata protrattasi per troppo tempo tra Vaticano e governo di centrodestra, represso dal verticismo di vent’anni di ruinismo - che istintivamente vuole partecipare alla rinascita del Paese.
IL SECONDO dato è l’interesse sociale di movimenti nati in un’ottica prevalentemente spirituale: come i pentecostali di Rinnovamento dello Spirito e i Neocatecumenali. L’appello del presidente Cei cardinale Bagnasco a “purificare l’aria” ha elettrizzato molte energie rimaste a lungo in sonno. In molti casi questa realtà magmatica è la stessa che ha contribuito alla vittoria dei referendum sull’acqua e contro la legge salva-Berlusconi del “legittimo impedimento”. È un mondo impaziente di mettersi in marcia per ridare una direzione all’Italia, anche se i traguardi operativi sono ancora incerti. La riunione di Todi, che il cardinale Bagnasco aprirà, ha molte radici.
Già due anni fa il ministro Sacconi progettava di creare un “blocco sociale cattolico” da contrapporre alla “sinistra sociale”. È seguita una breve stagione in cui esponenti della gerarchia guardavano a Tremonti come capofila di un centrodestra fatto di cattolici e liberali attenti alla dottrina della Chiesa.
Ma l’evento che ha messo definitivamente in moto la carovana cattolica è stato il 14 dicembre dell’anno scorso, quando Fini (dopo Casini) ha abbandonato il governo e l’asse Berlusconi-Bossi si è dimostrato totalmente incapace di governare la crisi. Da gennaio il Forum delle associazioni cattoliche del mondo del lavoro (Acli, Cisl, Coldiretti, Compagnia delle Opere, Confartigianato, Confcooperative, Mcl) ha cominciato a progettare un’azione comune. Così è nato a luglio il “Manifesto per una buona politica” e dopo il disastro delle cinque manovre economiche si è deciso di chiamare a raccolta il mondo cattolico intero.
Anche chi era filoberlusconiano si è convinto che il premier è finito e soprattutto che non ha dato niente al mondo cattolico, specie in termini di tutela delle famiglie. A porte chiuse persino il ciellino Bernhard Scholz, presidente della Compagnia delle Opere, sbeffeggia l’onorevole ciellino Lupi perché si sgola ancora in difesa di Berlusconi.
SULLA TABELLA di marcia la carovana è piuttosto divisa. C’è chi avrebbe preferito, come il presidente di Confcooperative Luigi Marino, un salto coraggioso: un appello ai liberi e forti di sturziana memoria per fondare ex novo con le energie cattoliche un partito moderato non confessionale nel nome della “modernizzazione del Paese”. Sostiene Marino che in questa fase “bisogna concentrare le forze e offrire all’Italia un soggetto concreto”. Qualcosa di meglio delle alchimie politiche di vertice. Ma è una posizione minoritaria.
La linea prevalente è di lavorare per un blocco pre-politico in grado di presentare a tutto l’arco delle forze politiche un’agenda specifica su cui confrontarsi. “Pochi temi, con rivendicazioni precise, quasi bozze di disegno di legge su cui i partiti non possano che rispondere con un sì o con un no”, spiega il presidente aclista Olivero. In quest’ottica, dopo Todi, il Forum dovrebbe darsi articolazioniterritoriali nelle regioni italiane.
Ancora diversa è la posizione di Andrea Riccardi, leader di Sant’Egidio. Favorevole a programmare un lavoro culturale di lungo respiro. “Bisogna iniziare un processo per elaborare idee”, sottolinea. Comune alla maggioranza è la richiesta di una legge elettorale proporzionale. “Per scardinare gli attuali schieramenti”, ammette sinceramente un esponente del Forum.
Propulsore dell’iniziativa è il leader cislino Raffaele Bonanni, che chiuderà i lavori di Todi. A lui interessa creare una massa di manovra da giocare sul tavolo della transizione verso la Terza Repubblica con un governo di “grandi intese”. È un deus ex machina un po’ ammaccato. Ha regalato tutto alla Fiat, ma la mitica Fabbrica Italia sta a zero. Ha avallato la linea Sacconi dei licenziamenti facili e stendendosi sulla linea Marchionne ha finito per favorire lo scardinamento della Confindustria. Troppo ambizioso per aprire una pagina nuova.
CALABRIA
Papa: "Impegno dei cattolici in politica"
E sulla criminalità: "Ferisce il tessuto sociale"
Benedetto XVI celebra la messa a Lamezia Terme. Parla di ndrangheta, di disoccupazione. E lancia un messaggio sui cattolici in politica: "Siano capaci di promuovere il bene comune e non interessi di parte". Il presidente della Cei replica a "Il Giornale": "Non esiste alcun partito di Bagnasco" *
LAMEZIA - La Calabria è "una terra dove la disoccupazione è preoccupante, dove una criminalità spesso efferata ferisce il tessuto sociale". Lo ha detto il Papa nell’omelia della messa celebrata con tutti i vescovi della regione nell’area industriale ex Sir di Lamezia Terme, davanti a 40 mila persone. Ma Ratzinger ha fatto anche un riferimento al ruolo dei cattolici in politica, pronunciando parole che saranno senz’altro lette alla luce del dibattito su un nuovo partito dei cattolici. Benedetto XVI si è augurato "una nuova generazione di uomini e donne capaci di promuovere non tanto interessi di parte, ma il bene comune". Lo ha chiesto dopo aver ricordato l’impegno della Chiesa a educare attraverso la dottrina sociale e lo studio della Bibbia. "Nuova generazione" è la stessa espressione che Ratzinger ha usato nel 2007 a Cagliari, incitando per la prima volta i cattolici a preparare una nuova generazione che si impegnasse a livello sociale e politico.
Il discorso di oggi, però, sembra avere una particolare attualità politica: anche perché arriva a una settimana dal raduno delle associazioni cattoliche a Todi con il numero uno dei vescovi, Angelo Bagnasco. Che in serata replica a Il Giornale che oggi titolava "Il partito di Bagnasco" con un articolo di Vittorio Feltri secondo il quale "da Scajola a Casini tutti vogliono sposare il progetto politico del cardinale per scippare il Pdl a Berlusconi". "Non esiste nessun partito di Bagnasco - replica il cardinale ai cronisti che gli chiedono un commento - certamente sarebbe assurdo. E non ho altro da aggiungere".
Ratzinger e l’emergenza calabrese. La Calabria è "una terra dove la disoccupazione è preoccupante, dove una criminalità spesso efferata ferisce il tessuto sociale, una terra in cui si ha la continua sensazione di essere in emergenza", ha detto Ratzinger. "Se osserviamo questa bella regione - ha aggiunto Bendetto XVI che aveva appena sorvolato il territorio - riconosciamo in essa una terra sismica non solo dal punto di vista geologico, ma anche da un punto di vista strutturale, comportamentale e sociale; una terra, cioè, dove i problemi si presentano in forme acute e destabilizzanti". "All’emergenza - ha detto ancora il Papa - voi calabresi avete saputo rispondere con una prontezza e una disponibilità sorprendenti, con una straordinaria capacità di adattamento al disagio. Sono certo che saprete superare le difficoltà di oggi per preparare un futuro migliore. Non cedete mai alla tentazione del pessimismo e del ripiegamento su voi stessi. Fate appello alle risorse della vostra fede e delle vostre capacità umane; sforzatevi di crescere nella capacità di collaborare, di prendersi cura dell’altro e di ogni bene pubblico". Dopo la cerimonia, il Papa è stato a pranzo in una mensa della Caritas.
* la Repubblica, 09 ottobre 2011
C’è da riavvicinare il Paese alla politica
Cattolici al bivio dell’impegno
con una gran bisaccia d’idee
di VITTORIO POSSENTI (Avvenire, 07,10.2011)
Secondo l’Octogesima adveniens è necessario «attingere principi di riflessione, criteri di giudizio e direttive di azione nell’insegnamento sociale della Chiesa»: si tratta di una grande prospettiva, nuovamente vicina nella presente fase di concreto interesse per quell’insegnamento. Esso può costituire un tonico eccellente per l’attuale effervescenza di idee e di progetti presenti nell’area cattolica italiana, intenta a riflettere su se stessa e sull’apporto da offrire a una nazione infiacchita che osa meno di un tempo e che ha bisogno di grandi apporti corali.
Il Paese ha bisogno di ritornare a svilupparsi, e non solo economicamente, per invertire la tendenza negativa. Quanto ci si attende dal cattolicesimo italiano è di offrire proposte per uscire dalla crisi del Paese e di raggiungere una presenza in grado di incidere più di quanto sia accaduto nell’ultimo ventennio. Molti avvertono la discrasia tra la vivacità e l’ampiezza della rete sociale del cattolicesimo italiano e la sua insufficiente espressione politica. Ciò può dipendere da uno stile di associazionismo silenzioso, poco propenso all’esposizione mediatica e nutrito dal basso. Un associazionismo che, mantenendo uno stretto legame col territorio e la gente, possiede una capacità di ascolto che le attuali forze politiche hanno largamente perduto o forse mai veramente avuto. Intanto, aumenta il numero di coloro che riconoscono i meriti storici del nostro cattolicesimo politico, e che non paventano che i cattolici operanti in campo culturale e sociale tornino con sapienza e concordia a interagire a tutti i livelli con la politica, anche con azioni coordinate e ad ampio raggio. In merito, si pone la sempre risorgente questione dei modi più efficaci di attuare tale presenza, con la connessa ipotesi, da valutare senza idiosincrasie e senza nostalgie, di un raggruppamento politico laico, aconfessionale, cristianamente ispirato ma aperto ad apporti multipli. Sarebbe, infatti, singolare la posizione del cristiano il quale fosse o si ritenesse abilitato soltanto a fare da comprimario in partiti altrui, che in genere non risultano propensi ad aprire sufficientemente le porte al loro contributo. Inoltre è ormai largamente dietro le spalle quella "cultura della diaspora" che a lungo aveva coltivato l’idea che l’unità fosse un disvalore o un’anomalia da superare. La mente e la penna di tanti corre, perciò, alla Dc, ma - anche a mio avviso - è bene sgomberare il terreno da fantasie irrealistiche.
La possibilità di una "seconda Dc" è scomparsa dalla storia, poiché sono scomparse le condizioni che presiedettero alla sua nascita e al suo successo. Non è invece venuta meno la cogente responsabilità dei cattolici verso la società e la politica italiana, ed essa potrebbe essere adempiuta con nuove forme di interlocuzione forte con la politica e di presenza politica diretta. D’altronde i meriti del passato sono un blasone, non una garanzia per il futuro. E per mettere in campo una soggettività nuova e coerente occorrono una visione complessiva del Paese (enormemente diverso da quello del 1948) e un’idea dei mutamenti intervenuti e di dove occorre andare: dunque, una strategia lungimirante capace di declinarsi in una sorta di programma politico di medio-lungo periodo. Tutto ciò manca o è appena baluginante. Senza contare il peso che avrà l’esistenza o meno di una nuova legge elettorale al posto dell’attuale, che opera una riproduzione oligarchica della classe politica in mano a pochissime persone.
Oggi, dunque, siamo a un bivio potenziale. Per una via, i cattolici presenti nei vari schieramenti sarebbero chiamati a elaborare in modo efficace una visione complessiva del Paese nel contesto europeo e mondiale, e a condividere un programma fondamentale su welfare, lavoro, educazione, impresa, politica europea e internazionale, giustizia. Per l’altra via, l’eventuale nascita di una formazione laica di ispirazione cristiana che non potrebbe che essere un partito di valori e di programma, l’obiettivo generale dovrebbe essere - a mio avviso - quello di attuare un rinnovamento morale, civile e politico della società italiana, mettendo in circolo le energie positive del Paese. Nell’un caso come nell’altro, non basterebbe l’indignazione e, ancor meno, l’indifferenza e la rassegnazione. E in ogni caso occorrerà che l’interlocuzione positivamente in atto tra le espressioni ’sociali’ e ’culturali’ dell’area cattolica si concretizzi in una sorta di diagnosi comune e in alcune prospettive-guida.
Vittorio Possenti
Il premier e la Chiesa, amici per forza
di Mattia Feltri (La Stampa, 27 settembre 2011)
È trascorso un anno esatto dall’uscita del libro dell’arcivescovo di Trieste, Giampaolo Crepaldi, nel quale l’autore illustrava con precisione i motivi per cui le gerarchie ecclesiastiche tolleravano il libertinaggio berlusconiano: «È (...) più grave la presenza di principi non accettabili nel programma che non nella pratica di qualche militante, in quanto il programma è strategico ed ha un chiaro valore di cambiamento politico della realtà più che le incoerenze personali» (il libro si intitola “Il cattolico in politica. Manuale per la ripresa”).
Il parere, di per sé molto autorevole, ebbe nella prefazione del cardinale Angelo Bagnasco un insuperabile sigillo di qualità: non restava che alzare le mani. Soltanto pochi mesi più tardi, in occasione della dura prolusione del gennaio 2011, Bagnasco segnalò «un evidente disagio morale». E adesso saranno gli esegeti dei documenti episcopali a indicare quale punto di non ritorno sia stato raggiunto, ma ripensando all’avvento di Silvio Berlusconi nella disputa politica, diciotto anni fa, non si può negare che le cose siano molto cambiate.
Era un Berlusconi, quello, che cercava di accreditarsi in Vaticano coi suoi modi da dopocena, per il tramite delle zie suore o ricordando gli studi dai salesiani o nel collegio dell’Opus Dei, e siccome l’aspirante leader aveva i suoi talenti, andò al nocciolo della questione ricordando sé ragazzino, seduto al convitto Sant’Ambrogio ad abbeverarsi ai racconti dei sacerdoti fuggiti in Italia dai comunisti russi e polacchi. E offrì il trait d’union raccontando d’aver esordito tredicenne alla politica, nel 1948, quando attaccava i manifesti della Democrazia cristiana intanto che qualche ragazzaccio comunista scrollava la scala per farlo cascare giù, e dargli quel che gli spettava. Primi passi eroici (fidarsi sulla parola non è mai stato un problema), praticamente una marcia al rullo di tamburi per una Chiesa che, perduta la Dc, non sapeva a che santo votarsi. A proposito del Partito popolare di Mino Martinazzoli, il vaticanista Sandro Magister avrebbe poi scritto che «mai il grosso dell’elettorato democristiano, modernizzante, pragmatico, soprattutto del Nord, avrebbe potuto continuare a votare un gruppo dirigente fattosi all’improvviso puritano, pauperista, giacobino, satellite di comunisti e postcomunisti».
Per Berlusconi è già un grande successo che in pubblico il presidente della Conferenza episcopale italiana, Camillo Ruini, lo accolga senza manifesti pregiudizi, a differenza del resto del mondo, e tenga la celebre linea dell’equidistanza nel 1996, quando a capo del centrosinistra c’è Romano Prodi, cattolico dossettiano di cui Ruini ha celebrato il matrimonio.
Durante il quinquennio dell’Ulivo, la Chiesa sottolinea le sue aspettative sulla scuola, sulla famiglia, sulla difesa della vita, ma trova molti più interlocutori all’opposizione che al governo e prende posizione senza infingimenti (tanto che il segretario dei popolari, Franco Marini, sostiene che l’Avvenire sembra l’house organ di Forza Italia). Eh sì, è nato un fruttuoso sodalizio.
Da lì in poi per Berlusconi è stata una cavalcata al fianco dei porporati d’Italia (e difatti si racconta della premonizione offerta da Ruini a Prodi, che sarà usato «dai comunisti» e poi gettato come un cencio). Dopo le leggi ad personam, la produzione più massiccia dei governi di centrodestra riguarda le norme care al Vaticano, quelle varate e quelle bloccate. Sono i famosi «principi non negoziabili» attorno i cui si stringe un’alleanza ferrea. E nemmeno tanto campata in aria visto che nel 2005, ai referendum sulla procreazione assistita e sulla produzione degli embrioni, ottiene l’annullamento della consultazione per mancanza di quorum: un successo evidente.
E due anni dopo il trionfo è del Family Day a piazza San Giovanni a Roma, una manifestazione contro i Dico, cioè le unioni di fatto sia fra eterosessuali che fra omosessuali. Lo straordinario è che si tratta di un corteo di cattolici contro la cattolica Rosi Bindi (che ha firmato la legge insieme con la ex comunistaBarbara Pollastrini), ed è un corteo che ottiene il risultato di imbarazzare il centrosinistra, visto che in strada, insieme con Berlusconi, scendono cattolici vicini a Prodi come Savino Pezzotta, Clemente Mastella e Giuseppe Fioroni: la rivendicazione di un cattolicesimo adulto avanzata dal premier viene bruscamente ed efficacemente respinta.
E dunque niente procreazione assistita, niente Dico (o Pacs o altro), sì alle agevolazioni fiscali, finanziamenti alle scuole, qualche sterile ma gradito distinguo sull’aborto: il centrodestra non molla l’osso ed è una falange nel caso di Eluana Englaro e nei pasticci successivi che impantanano una legge annunciata in quarantotto ore, e ancora oggi in studiata fase di pre-elaborazione.
Quello raccolto da Silvio Berlusconi è un credito inestimabile al punto che, quando racconta una barzelletta contenente una rotonda bestemmia, monsignor Rino Fisichella si immola e sostiene che il nome di Dio si può pronunciare invano: talvolta dipende dal contesto. Ed è proprio il problema del contesto, ora, a vanificare tanti meriti conquistati in battaglia.
Tutti zitti sul porno-sacrilegio
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto Quotidiano, 20 settembre 2011)
Davvero enigmatico il prolungato silenzio di monsignor Rino Fisichella, da tempo in odore di porpora cardinalizia, dati i suoi trascorsi di cappellano di Montecitorio e dunque direttore spirituale e confessore di tanti “eccellenti”. Sono passati ormai 4 giorni dalla clamorosa intervista a questo giornale in cui una partecipante ai festini/mercimonio di Berlusconi ha raccontato il pornosacrilegio che ha visto la consigliera regionale Nicole Minetti (eletta nel listino bloccato personale di Formigoni, guru storico di Comunione e Liberazione) vestita da monaca esibirsi in uno spogliarello sexy al palo della lap dance, molto efficace, sembra (“un bellissimo spettacolo, davvero”), e - una volta che la consigliera di Formigoni è completamente nuda - concluso dal premier che smaneggia un crocifisso piazzandoglielo prima tra le tette e poi tra le cosce mentre biascica una personalissima variante della benedizione canonica (“ha detto ‘Dio santo ti benedica’; poi le ha appoggiato il crocifisso sulla testa, tra le gambe e sui seni”).
CI ASPETTAVAMO che monsignor Fisichella intervenisse prontamente, come già in passato a proposito di un exploit del premier bestemmiatore, per invitare i fedeli troppo facili a scandalizzarsi (facendo il gioco dei comunisti, ça va sans dire) a contestualizzare il comportamento dell’ex compagno di merende di Gheddafi, relativizzandolo ad esuberanza ludica. Invece nulla. Evidentemente quel comportamento non esige neppure una cattolica contestualizzazione: va bene così. Del resto nessun altro giornale l’ha ripreso, e nessuna delle tante trasmissioni di approfondimento che, in assenza di Annozero, confermano così di essere civilmente e giornalisticamente superflue (civismo e giornalismo dovrebbero fare una cosa sola, secondo “leggende” come Joseph Pulitzer, e ancor prima come il grande storico dell’Ottocento Jules Michelet).
Evidentemente, tanto la Chiesa gerarchica quanto il giornalismo embedded considerano che l’episodio sia irrilevante sul piano pubblico. Sia chiaro, noi siamo tra i pochissimi a credere davvero che la vita sessuale e privata di ciascuno vada rigorosamente rispettata (gli “attenzionamenti” di Pio Pompa hanno avuto sanzioni? Anche solo morali? I nostri “garantisti” un tanto al chilo farebbero meglio a tacere), e che ogni incursione in esse vada severamente repressa. Con le eccezioni e i limiti che ciascuna persona pubblica stabilisce ella stessa.
Nei giorni scorsi, dopo il tragico esito di un gioco sadomasochista in un garage di Roma, uno dei guru in fatto di “bondage” ha raccontato (cronaca di Roma di Repubblica) come gli adepti siano tantissimi, di ogni ceto sociale, e nella “comunità” fosse presente un notissimo politico da poco promosso ai vertici di un importante partito. Giustamente nessuno ha approfondito, e anzi quella stessa dichiarazione, forse non sufficientemente criptica, era censurabile.
Ma l’onorevole che propone una legge contro l’omosessualità non può lamentarsi se un cronista svela una sua relazione gay, il ministro che tuona contro la prostituzione ha già stabilito la legittimità (anzi doverosità) di uno scoop che lo colga in meretricio sollazzo, il candidato tutto casa e chiesa e indissolubilità del matrimonio non può obiettare se una o più famiglie parallele finiscono in pasto a lettori e telespettatori. Per non parlare delle campagne contro l’aborto.
Perciò, i porno-sacrilegi con crocifisso tette e cosce cui si dedica il succube di Tarantini nella sua villa di Arcore (strappata per un tozzo di pane a un’orfana minorenne grazie alle cure dell’avvocato Previti, non dimentichiamolo) sarebbero vicenda privata, se il puttaniere-premier avesse condotto le campagne elettorali sventolando l’opera omnia del marchese de Sade come personalissimo “Mein Kampf”.
Ma il Berlusconi porno-sacrilego è lo stesso che come capo del governo ha sostenuto con grande dovizia di mezzi pubblici un contenzioso di fronte ai tribunali europei, il cui oggetto era l’irrinunciabilità del crocifisso in tutte le aule scolastiche dello Stivale, perché simbolo altissimo di civiltà, sacralità, identità e chi più ne ha più ne metta.
PERCIÒ L’USO che Berlusconi fa del crocifisso, il suo teatrino di “messe rosa”, di propiziazione e supporto a una virilità idraulico-artificiale evidentemente indigente, è questione di rilevanza pubblica. Il silenzio dei media in proposito si chiama censura e viltà, fino all’omertà. Quello della Chiesa gerarchica rientra invece piuttosto tra gli effetti collaterali di una vocazione simoniaca che con Ruini, Bertone e Bagnasco è di nuovo prepotentemente riaffiorata.
Se Bertone cita domenica un richiamo di Benedetto XVI ai laici (del settembre 2008), secondo cui devono essere “testimoni di coerenza tra i principi, la vita spirituale che praticano, e i comportamenti” e fa il pesce in barile per quanto riguarda nomi e cognomi, rifiutando anche la più obliqua, “gesuitica” o sibillina allusione al puttaniere di Arcore, è perché non c’è sacrilegio ne spudorata infamia morale che prevalga per il Vaticano rispetto al sontuoso piatto della bilancia dove pesano l’8 per mille, le esenzioni Ici, le anticostituzionali munificenze alla scuola privata, il bacio della pantofola allo Ior, la tortura di Stato per i moribondi, e le altre infinite delizie mondane e spirituali che la Cei ha ottenuto in questi anni dal regime.
Una volta di più, tra Dio e Mammona la Chiesa cattolica gerarchica sceglie inequivocabilmente Mammona.
Eco contro Ratzinger: ’Non e’ grande filosofo’
’Posizioni contro il relativismo grossolane, formazione filosofica debole’ *
BERLINO - "Non credo che Ratzinger sia un grande filosofo, né un grande teologo, anche se generalmente viene rappresentato come tale". Lo ha detto l’intellettuale, linguista e scrittore Umberto Eco in un’intervista al quotidiano tedesco Berliner Zeitung.
"Le sue polemiche, la sua lotta contro il relativismo sono, a mio avviso, semplicemente molto grossolane - ha commentato Eco riferendosi ancora a Benedetto XVI -, nemmeno uno studente della scuola dell’obbligo le formulerebbe come lui. La sua formazione filosofica è estremamente debole".
Per argomentare il suo giudizio Eco fa riferimento proprio alla questione del relativismo in una risposta diretta al suo intervistatore: "In sei mesi potrei organizzarle un seminario sul tema. E può starne certo: alla fine presenterei almeno 20 posizioni filosofiche differenti sul relativismo.
Metterle tutte insieme come fa papa Benedetto, come se ci fosse una posizione unitaria è, per me, estremamente naif".
Costituzione e prostituzione
di Antonio Padellaro (il Fatto, 17.09.2011)
A chi ancora domanda (gli sbalorditi giornalisti stranieri e tanti comuni cittadini) come sia possibile che un tipo accusato di essere un puttaniere patentato e ricattato resti inamovibile e protervo a Palazzo Chigi, e cosa si possa fare per lavare questa vergogna nazionale non si può che rispondere: troppo tardi, bisognava pensarci prima. Chi è infatti il personaggio che, parlando di ragazze come se fossero agnelli da scuoiare, dice a Gianpi “chi mi porti stasera?” e che versa centinaia di migliaia di euro a Tarantini e ai suoi degni compari perché tengano la bocca chiusa?
È lo stesso che più di tre lustri fa ribaltò, grazie a una montagna di quattrini, il già poco virtuoso tavolo della politica italiana e che ora, disponendo di un patrimonio di quasi 6 miliardi di euro, si è comprato un governo, una maggioranza e tutte le leggi di cui ha bisogno.
E dunque può fare solo rabbia il fatto che ora, nell’opposizione guidata dal Pd, si levino alti i lamenti sul “Berlusconi che ci porta alla rovina” quando per ben due volte (1996 e 2006) la sinistra di lotta e di governo si guardò bene dal varare una seria norma sul conflitto d’interessi per impedire che un miliardario senza scrupoli facesse banco, come poi ha fatto. E che dire della grande stampa d’informazione? Siamo convinti che il galantuomo Ferruccio de Bortoli prima o poi darà voce sulla prima pagina del Corriere della Sera allo sdegno della grande borghesia produttiva, che quel grande giornale rappresenta, per lo spettacolo vergognoso di un premier che vuole trasformare la Costituzione in prostituzione.
Mentre i giornali di Arcore si coprono di ridicolo sostenendo che il padrone non paga le ragazze, ma fa beneficenza (non sposarono festosamente anche la balla suprema di Ruby nipote di Mubarak?), ciò che resta della libera informazione, con poche eccezioni, si limita a commentare il “troiaio” con timide giaculatorie che lasciano il tempo che trovano. Del resto i loro editori, palazzinari, banchieri o industriali dell’auto, hanno un maledetto bisogno del governo di Papi e si adeguano.
Una prece infine sui silenzi vaticani. Sì, quelle purpuree gerarchie che insorgono appena si osi parlare di coppie di fatto, tacciono imperturbabili di fronte allo scempio morale: decine di giovani donne vendute e comprate per il sollazzo di un vecchio. Il quale sa di non temere nulla, finché i mercanti continueranno a bivaccare nel tempio in cambio di un’esenzione Ici.
Manconi: «considerare con la massima libertà e duttilità il fondamentale contributo del pensiero cattolico alla definizione della identità individuale contemporanea»
Sorpresa, il personalismo può rifondare la sinistra
Due decenni fa questo termine sarebbe stato guardato con sospetto. Oggi, per fortuna, è tornato ad essere il perno delle iniziative sociali e legislative in tema di diritti e di libertà individuali
di Luigi Manconil’Unità 16.9.11
Grazie al cielo non c’è stato bisogno di alcuna cruenta guerra culturale o di una feroce controversia ideologica per far sì che nel vocabolario politico e nel discorso pubblico il termine persona venisse accolto a pieno titolo. Questo va ricordato perché, appena due decenni fa, quella stessa parola sarebbe stata guardata con perplessità. Non dico osteggiata, ma certo vista con sospetto, in quanto troppo profondamente denotata sotto il profilo storico e culturale-religioso. Questa acquisita maggiore elasticità mentale è un positivo segno dei tempi, che ci consente di abbandonare alcuni tabù linguistici e di conseguenza (si spera) gli stereotipi costruitivi sopra.
Persona, va da sé, richiama irresistibilmente il personalismo ovvero lo dico in estrema sintesi quella corrente di pensiero che pone al centro dell’universo dei valori e dell’azione la persona umana. Il personalismo una filosofia non un sistema, sottolineava Jacque Maritain ha una sua origine, una sua prima definizione (con Charles Renouvier) e un certo numero di autorevoli pensatori (dallo stesso Maritain a Paul-Ludwing, Max Scheler, Romano Guardini e, in particolare, a Emmanuel Mounier), ma qui il personalismo interessa meno in quanto orientamento filosofico e molto più in quanto ispirazione culturale e politica.
Sotto questo profilo, il personalismo come centralità assoluta della persona umana ha una storia millenaria che va ricordato lo connette strettamente alla categoria di eguaglianza. Più di recente, si ritrova una significativa ascendenza, anche quando non dichiarata, nel pensiero di Antonio Rosmini, nonostante le molte differenze e persino gli aperti conflitti rintracciabili nelle due elaborazioni. Ma è proprio la complessità e anche contraddittorietà della traccia che tiene insieme la categoria di persona, come elaborata dall’asse Maritain-Mounier e come elaborata da Rosmini e da molti altri ancora, che consente oggi di considerare con la massima libertà e duttilità il fondamentale contributo del pensiero cattolico alla definizione della identità individuale contemporanea. Insomma, proprio il fatto che la riflessione cristiana e cattolica sulla persona non è un sistema compatto, ne incrementa la diffusione e ne accentua la fertilità. Cosicché oggi quella stessa riflessione, esplicitata o meno, costituisce una componente ormai acquisita dell’identità culturale della sinistra più matura: e non c’è dubbio che abbia rappresentato uno dei motivi ispiratori dei programmi sociali del riformismo europeo, a partire dalle prime politiche di Welfare.
Ma torniamo a Rosmini: si deve ancora a lui (certo non solo a lui) la modernissima concettualizzazione del nesso profondo tra corpo/soggettività, persona e diritto: «il diritto suppone primieramente una persona, un autore delle proprie azioni», perciò «la persona dell’uomo è il diritto umano sussistente». Ciò a dire che la persona nella sua prima costituzione, fondata su corpo e psiche, è la fonte e la sede dei diritti inalienabili dell’uomo e la radice stessa della libertà umana. Ecco, se partiamo da tali indicazioni e da ciò che il personalismo novecentesco ha successivamente elaborato con una particolare valorizzazione della corporeità si può giungere ad accogliere il concetto di persona come quello decisivo per una ridefinizione dell’agire sociale e dell’azione politica nelle società contemporanee. Tutto questo a prescindere dalle altre implicazioni proprie del personalismo come filosofia dotata di una profonda matrice religiosa; e a prescindere, soprattutto, dalla dimensione conflittuale dello scontro ideologico che, nella seconda metà del Novecento, ha portato quella filosofia alla contrapposizione, spesso assai aspra, nei confronti del marxismo.
Ciò che conta oggi, per chi ha ancora fiducia nella politica, e vuole sottrarsi sia alle tentazioni sincretistiche che alle dispute filologiche (saranno i filosofi a dedicarsi a queste ultime), è il ruolo della persona umana. E il nesso indissolubile tra coscienza e responsabilità sociale. Non è questione oziosa: la politica contemporanea va in tutt’altra direzione e si manifesta o come rappresentanza di “solidarietà corte” e interessi organizzati (lobbies e corporazioni, sindacati e ordini) o come residuale espressione di gruppi sociali (movimenti collettivi e lavoro precario, segmenti di territorio e fasce generazionali). Questi soggetti che chiedono e talvolta ottengono rappresentanza sono spesso meritevoli di tutela e, pertanto, l’errore non consiste nel volerne proiettare le domande sulla sfera politica. L’errore risiede, piuttosto, nell’incapacità pressoché generalizzata di partire proprio dal nucleo essenziale della loro costituzione materiale. E dalla politica che lì si può fondare. Ovvero la politica come proiezione nella sfera pubblica delle domande di diritto e di libertà che nascono dalla persona. I bisogni umani che trovano, appunto, nella persona la loro fondazione e la loro legittimazione come diritto richiedono una tutela che solo la politica può garantire. Oggi più che mai.
Dunque, la centralità della persona è la qualità possibile della politica contemporanea, nell’epoca dell’individualismo e nelle società liquide. Inutile inseguire rappresentanze di classe, pericoloso assecondare tutele di corporazione. È la persona umana che fonda la politica e la sua ricostruzione e ridefinizione a partire dall’individuo come premessa di una identità condivisa che, a questo punto, può anche essere di gruppo sociale e persino “di classe”, nella sua antica accezione. Che quanto fin qui detto sia tutt’altro che astrazione, è agevolmente dimostrabile. Due questioni cruciali della politica contemporanea, non solo in Italia, rimandano puntualmente a quel rapporto prima indicato tra corpo/soggettività, persona e diritto. Le tematiche di “fine vita” e, dunque, il Testamento biologico, l’autodeterminazione del paziente, la libertà di cura, la “sovranità su di sé e sul proprio corpo” da lì discendono; ma anche l’habeas corpus, le garanzie individuali, l’immunità del recluso e l’irriducibilità dei suoi diritti fondamentali, a quel rapporto rimandano. E lo rendono più che mai attuale e urgente.
E don Milani disse: «L’acqua è di tutti»
di Lorenzo Milani (Avvenire, 09 giugno 2011) *
Caro direttore,
col progetto di consorzio di cui ti parlai si darebbe l’acqua a nove famiglie. Quasi metà del mio popolo. Il finanziamento è facile perché siamo protetti dalla legge per la montagna. La benemerita 991 la quale ci offre addirittura o di regalo il 75 per cento della spesa oppure, se preferiamo, in mutuo l’intera somma. Mutuo da pagarsi in 30 anni al 4 per cento comprensivo di ammortamento e interessi. Nel caso specifico, l’acquedotto costerà circa 2 milioni. Se vogliamo sborsarli noi, il governo fra due anni ci rende un milione e mezzo.
L’altro mezzo milione ce lo divideremo per 9 che siamo e così l’acqua ci sarà costata 55.000 lire per casa. Oppure anche nulla; basta prendere pala e piccone e scavarci da noi il fossetto per la conduttura e ecco risparmiate anche le 55.000 lire.
Se invece non avessimo modo di anticipare il capitale allora si può preferire il mutuo. Il 4 per cento di due milioni è 80.000 lire all’anno. Divise per nove dà 8.800 lire per uno. Se pensi che 8.000 lire per l’acqua forse le spendi anche te in città e se pensi che a te l’acqua non rende, mentre a un contadino e in montagna vuol dire raddoppiare la rendita e dimezzare la fatica, capirai che anche questo secondo sistema è straordinariamente vantaggioso. Insomma bisogna concludere che la 991 è una legge sociale e meravigliosa.
Mi piacerebbe darti un’idea chiara di quel che significa l’acqua quassù, ma per oggi mi contenterò di dirti solo questo: s’è fatto il conto che per ogni famiglia del popolo il rifornimento d’acqua richieda in media 4 ore di lavoro di un uomo valido ogni giorno. Se i contadini avessero quella parità di diritti con gli operai che non hanno, cioè per esempio quella di lavorare solo 8 ore al giorno, si potrebbe dunque dire che qui l’uomo lavora mezza giornata solo per procurarsi l’acqua. Dico acqua, non vino! Tu invece per l’acqua lavori dai tre ai quattro minuti al giorno. A rileggere l’articolo 3 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale» mi vengono i bordoni. Ma oggi non volevo parlarti dei paria d’Italia, ma d’un’altra cosa.
Dicevamo dunque che c’è questa 991 che pare adempia la promessa del 2° paragrafo dell’art. 3 della Costituzione: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini». A te, cittadino di città, la Repubblica non regala un milione e mezzo, né ti presta i soldi al 4 per cento compreso l’ammortamento. A noi sì.
Basta far domanda e aver qualche conoscenza. Infatti eravamo già a buon punto perché un proprietario mi aveva promesso di concederci una sua sorgente assolutamente inutilizzata e inutilizzabile per lui, la quale è ricca anche in settembre e sgorga e si perde in un prato poco sopra alla prima casa che vorremmo servire. Due settimane dopo, un piccolo incidente. Quel proprietario ha un carattere volubile. Una mattina s’è svegliato d’umore diverso e m’ha detto che la sorgente non la concede più. Ho insistito. S’è piccato. Ora non lo scoscendi più neanche colle mine.
Ma il guaio è che quando ho chiesto a un legale se c’è verso d’ottenere l’esproprio di quella sorgente, ma risposto di no. Sicché la bizzettina di quell’omino, fatto insignificante in sé, ha l’atomico potere di buttare all’aria le nostre speranza d’acqua, il nostro consorzio, la famosa 991, il famoso articolo 3, le fatiche dei 556 costituenti, la sovranità dei loro 28 milioni di elettori, tanti morti della Resistenza (siamo sul monte Giovi! Ho nel popolo le famiglie di 14 fucilati per rappresaglia). Ma qui la sproporzione tra causa ed effetto è troppa! Un grande edificio che crolla perché un ragazzo gli ha tirato coll’archetto! C’è un baco interiore dunque che svuota la grandiosità dell’edificio di ogni intrinseco significato. Il nome di quel baco tu lo conosci. Si chiama: idolatria del diritto di proprietà.
A 1955 anni dalla Buona Novella, a 64 anni dalla Rerum Novarum, dopo tanto sangue sparso, dopo 10 anni di maggioranza dei cattolici e tanto parlare e tanto chiasso, aleggia ancora vigile onnipresente dominatore su tutto il nostro edificio giuridico. Tabù. Son 10 anni che i cattolici hanno in pugno i due poteri: legislativo e esecutivo. Per l’uso di quale dei due pensi che saranno più severamente giudicati dalla storia e forse anche da Dio? Che la storia condannerà la nostra società è profezia facile a farsi.Basterebbe il solo fatto della disoccupazione oppure il solo fatto degli alloggi.
Ma una storia serena non potrà non valutare forse qualche scusante, certo qualche attenuante: l’ostacolo della burocrazia insabbiatrice, quello dell’Italia sconvolta dalla guerra, quello degli impegni internazionali...
Insomma, tra attenuanti e aggravanti, chi studierà l’opera dei cattolici in Italia forse non riuscirà a dimostrare che la loro incapacità sia un’incapacità costituzionale. Saremo perdonati dunque anche se in questa preziosa decennale occasione di potere non avremo saputo mostrare al mondo cosa sappiamo fare. Ma guai se non avremo almeno mostrato cosa vorremmo fare. Perché il non saper fare nulla di buono è retaggio di ogni creatura. Sia essa credente o atea, sia in alto o basso loco costituita. Ma il non sapere cosa si vuole, questo è retaggio solo di quelle creature che non hanno avuto Rivelazione da Dio. A noi Dio ha parlato. Possediamo la sua legge scritta per steso in 73 libri e in più possediamo da 20 secoli anche un Interprete vivente e autorizzato di quei libri.
Quell’Interprete ha già parlato più volte, ma se non bastasse si può rivolgersi in ogni momento a lui e sottoporgli nuovi dubbi e nuove idee. A noi cattolici non può dunque far difetto al luce. Peccatori come gli altri, passi.
Ma ciechi come gli altri no. Noi i veggenti o nulla. Se no val meglio l’umile e disperato brancolare dei laici. Che i legislatori cattolici prendano dunque in mano la Rerum Novarum e la Costituzione e stilino una 991 molto più semplice in cui sia detto che l’acqua è di tutti. Quando avranno fatto questo, poco male se poi non si riuscirà a mandare due carabinieri a piantar la bandiera della Repubblica su quella sorgente.
Manderanno qualche accidente al governo e ai preti che lo difendono. Poco male. Partiranno per il piano ad allungarvi le file dei disoccupati e dei senza tetto. Non sarà ancora il maggior male. Purché sia salva almeno la nostra specifica vocazione di illuminati e di illuminatori. Per adempire quella basta il solo enunciare leggi giuste, indipendente dal razzolar poi bene o male.
Chi non crede dirà allora di noi che pretendiamo di saper troppo, avrà orrore dei nostri dogmi e delle nostre certezze, negherà che Dio ci abbia parlato o che il papa ci possa precisare la Parola di Dio. Dicendo così avrà detto solo che siamo un po’ troppo cattolici. Per noi è un onore. Ma sommo disonore è invece se potranno dire di noi che, con tutte le pretese di rivelazione che abbiamo, non sappiamo poi neanche di dove veniamo o dove andiamo, e qual è la gerarchia dei valori, e qual è il bene e quale il male, e a chi appartengono le polle d’acqua che sgorgano nel prato di un ricco, in un paesino di poveri.
* Don Milani scrisse questa lettera dalla montagna alla fine del 1955 e venne pubblicata sul «Giornale del Mattino» di Bernabei. Singolare consonanza con i temi dei referendum dei prossimi giorni. «Mi piacerebbe darti un’idea di quel che significa l’acqua quassù: per ogni famiglia il rifornimento richiede in media 4 ore ogni giorno Qui l’uomo fatica mezza giornata solo per procurarsi da bere» «Tu per l’acqua lavori 3 o 4 minuti...» "Che i legislatori cattolici prendano dunque in mano la Rerum Novarum e la Costituzione e stilino una 991 molto più semplice in cui sia detto che l’acqua è di tutti." (Finesettimana.org)
I 150 anni. Un primo bilancio
di Piero Stefani (http://pierostefani.myblog.it/, 28 maggio 2011)
Con ogni probabilità il prossimo 2 giugno segnerà la fine della fase ascendente delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia. In quella data il presidente Napolitano coronerà il suo impegno e consegnerà a un successivo lento declino l’attenzione per l’anniversario. Alla vigilia di quel discorso si può già tentare un primo bilancio.
Quanto ha contraddistinto le celebrazioni (contrassegnate da un risveglio di patriottismo di portata inattesa) è stata, innanzitutto, la valutazione totalmente positiva del Risorgimento formulata da uomini formatisi politicamente e culturalmente a sinistra. Il primo tra essi è l’attuale capo dello Stato. Ciò è avvenuto lasciando ai margini il mito fondativo della ritrovata unità nazionale: la Resistenza. Nelle celebrazioni tutti sono stati, per così dire, «crociani», hanno cioè, implicitamente, giudicato il fascismo un’aberrazione improvvisa sorta in un corpo sano.
Mentre può dirsi chiuso da tempo il richiamo all’internazionalismo marxista, continua a essere fonte di qualche stupore la disattenzione mostrata, a sinistra, per la questione sociale, campo qualificante di una lunga stagione storiografica e civile. La politica l’ha vinta sulle dinamiche economico-sociali. L’approccio marxista è stato ignorato anche per quei suoi apporti che, per quanto assunti criticamente, appaiono ancor oggi difficili da accantonare in maniera assoluta.
Naturalmente non si è palesata alcuna corposa attenzione per il primo decennio post-unitario, specchio anticipante di tanti lati oscuri della successiva storia italiana. La feroce lotta contro quello che (impropriamente) si era soliti chiamare «il brigantaggio meridionale dopo l’unità» è stata una vera e propria guerra civile in cui si è formato l’esercito italiano. Per stroncare quella ribellione si sono applicate forme di repressione spietate (cfr. «legge Pica»). Sul piano internazionale la «Convenzione di settembre» è stata seguita, nel giro di pochi anni, dall’incapacità italiana di mantenerne alcune clausole (cfr. l’impresa garibaldina di Mentana).
Il XX settembre è stato reso possibile solo in virtù della vittoria della Prussia sulla Francia; alla stessa potenza si deve la nostra conquista del Veneto dopo i disastri di Custoza e di Lissa (cfr. Di chi è la colpa? di Pasquale Villari). Il rigore dei conti pubblici comportò la famigerata tassa sul macinato di cui furono gravate le classi popolari, misura fiscale antesignana del prevalere delle certe imposte indirette sulle evadibili imposte dirette. Inoltre il liberismo della nuova classe dirigente inferse un duro colpo all’economia meridionale cresciuta all’ombra del protezionismo borbonico. Tutti questi punti possono ben essere sottoposti a periodiche «revisioni storiografiche»; comunque, resta arduo trascurarli.
L’altro tasto battuto e ribattuto è stato l’apporto cattolico all’unità d’Italia. L’inedito guelfismo sbandierato dalla Chiesa italiana non ha avuto la replica che ci si sarebbe potuti attendere. Anzi questa pretesa ha trovato un atteggiamento benevolo e compiacente anche in sede istituzionale. Le ragioni di opportunismo politico sono fuori discussione; ma non ci si può limitare a ciò, occorre scavare un po’ di più.
Le prospettive avanzate dalla Chiesa cattolica hanno la loro parte di verità nel rivendicare il fatto che, nell’Ottocento, la stragrande maggioranza della società italiana era cattolica. Solo l’avanzare del socialismo (e in qualche zona dell’anarchismo) è stato in grado di produrre un altro tipo di radicamento popolare. Ma anche in questi casi, quasi tutta la popolazione (compresi gli strati dell’alta borghesia laica) accettava la logica che (secondo gli stilemi propri della Chiesa posttridentina) i sacramenti fossero porta di accesso all’aldilà. Anche i laici battezzavano i figli neonati e al loro letto di morte chiedevano il prete.
La Chiesa era accreditata di avere le chiavi di accesso a una sfera ultraterrena sottratta, per definizione, a tutte le forze economiche e politiche. Questo fatto (come a suo tempo ben colse Hobbes) costituiva una effettiva forma di esercizio di potere. È certo che esso risultasse più efficace dell’odierno appello ai valori non negoziabili. Anche per questo motivo il controllo sulla società compiuto oggi dalla Chiesa cattolica è assai inferiore di quanto fosse 150 anni fa.
La rilevante parte di errore contenuta nell’analisi cattolica ufficiale sta nell’aver indebitamente trasformato il predominio sociale in un primato nazionale aperto alla forma di stato unitario. Operazione, quest’ultima, compiuta in nome dei valori e non dei sacramenti o della trascendenza.
L’Italia unita recepì lo statuto albertino stando al quale il cattolicesimo era religione di stato, ma ciò conviveva con la constatazione che la classe dirigente fosse, in buona parte, scomunicata e che il «non expedit» proibisse ai cattolici di partecipare alla vita politica. È un dato di elementare verità storica affermare che, all’epoca, la massima parte della Chiesa cattolica non legittimò lo stato unitario. A poco a poco, essa vi si rassegnò e cercò di riconquistare il predominio con il concordato del 1929.
Lo scarso interesse ricevuto, in ambito celebrativo, dalla dimensione sociale ha consentito di cavalcare l’equivoco di trasferire in sede nazionale e politica il predominio cattolico presente nella società ottocentesca. L’intransigentismo cattolico che si aperse all’impegno sociale proprio per contrastare lo stato unitario (cfr. per es. don Albertario) è un fossile che nessuna ricerca archeologica si è dato la pena di portare alla luce nelle celebrazioni del 2011. Esse, in effetti, si spiegano per la massima parte come un tentativo di rispondere alla Lega. Senza quella sponda, tutto avrebbe avuto un tono emotivamente più basso. Non è neppure detto che alcuni esiti, meno brillanti del previsto, riportati dalla Lega nelle ultime elezioni amministrative si spieghino, sia pur in piccola parte, anche in virtù dei tricolori che imbandierano ancora le nostre città, senza, ovviamente, dimenticare la presenza di altri fattori (tra essi, almeno per l’Emilia Romagna, c’è sicuramente anche il successo elettorale dei «grillini»).
Piero Stefani
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" .....
ROMOLO AUGUSTOLO: L’ITALIA NON E’ NUOVA A QUESTI SCENARI. C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO": MUSSOLINI E LENIN A CONFRONTO. L’analisi di Gramsci, una bussola per non naufragare e una lezione di vita e di libertà
2001*
PER IL DIALOGO E LA PACE TRA LE GENERAZIONI E I POPOLI: Apriamo gli occhi, saniarno le ferite dei bambíni (deí ragazzi) e delle bambine (delle ragazze), dentro di noí e fuori di noí...Riannodiamo i fili della nostra rnemoria e della nostra dignità di esseri umani. Fermiamo la strage...
Linee per un Piano di Offerta Formativa della SCUOLA dell’AUTONOMIA, DEMOCRATICA E REPUBBLICANA.
***
CHI siamo noi in realtà? Qual è íl fondamento della nostra vita? Quali saperi? Quale formazione?
SCUOLA, STATO, E CHIESA: CHI INSEGNA A CHI, CHE COSA?!
IL "DIO" DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI...
E IL "DIO" ZOPPO E CIECO DELLA GERARCHIA DELLA
CHIESA CATTOLICA, EDIPICO-ROMANA.
Alla LUCE, e a difesa, DELLA NOSTRA DIGNITA
DI CITTADINI
SOVRANI E DI CITTADINE SOVRANE E
DI LAVORATORI
E LAVORATRICI DELLA SCUOLA PUBBLICA (campo
di RELAZIONE educativa, che basa il suo PROGETTO e la sua
AZIONE sulla RELAZIONE FONDANTE - il patto costituzionale
sia la vita personale di tutti e di tutte sia la vita politica di
tutta la nostra società),
Per PROMUOVERE LA CONSAPEVOLEZZA (PERSONALE,
STORlCO-CULTURALE) E
L’ESERCIZIO DELLA SOVRANITA’ DEMOCRATICA
RISPETTO A SE STESSI E A SE
STESSE, RISPETTO AGLI ALTRI E ALLE ALTRE, E RISPETTO
ALLE ISTITUZIONI
("Avere il coraggo di dire ai nostri giovani
che sono tutti sovrani": don Lorenzo Milani; "Per rispondere
ai requisiti sottesi alla libertà repubblicana una persona deve essere
un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi
non abbiano un padrone o dominus, che li tenga sotto il suo potere,
in relazione ad alcun aspetto della loro vita. [...] La libertà richiede
una sorta di immunità da interferenze che diano la possibilità di
[...] tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli
occhi e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza": Philippe
Pettit)
e un LAVORO DI RETTIFICAZIONE E DI ORIENTAMENTO
CULTURALE, CIVILE, POLITICO e religioso (art.7 della Costituzione
e Concordato),
per evitare di ricadere nella tentazione
dell’accecante e pestifera IDEOLOGIA deII’INFALLIBILITA e
deII’ANTISEMITISMO (cfr. la beatificazione di PIO IX) e di un
ECUMENISMO furbo e prepotente, intollerante e fondamentalista
(cfr. il documento Dominus Jesus di Ratzinger, le dichiarazioni anti-
islamiche di Biffi, e il rinvio sine die dell’incontro fissato per il
3.10.2000 tra ebrei e cattolici) e di perdere la nostra lucidità e sovranita
politica,
e per INSTAURARE un vero RAPPORTO DIALOGICO e DEMOCRATICO,
tra ESSERI UMANI, POPOLI e CULTURE, non
solo d’Italia, ma dell’Europa e del Pianeta TERRA (e di tutto
I’universo, cfr. Giordano Bruno),
IO, cittadino italiano,figlío di Due IO, dell’UNiOne di due esseri
umani sovrani, un uomoj ’Giuseppe’, e una donna:’Maria’ (e, in
quanto tale, ’cristiano’ - ricordiamoci di Benedetto Croce; non cattolico
edipico-romano! - ricordiamoci, anche e soprattutto, di Sigmund
Freud),
ESPRIMO tutta la mia SOLIDARIETA a tutti i cittadini e a tutte
le cittadine della Comunità EBRAICA e a tutti i cittadini e a tutte lecittadine della comunità ISLAMICA della REPUBBLICA DEMOCRATICA
ITALIANA,
e
PROPONGO
di riprendere e rilanciare (in molteplici forme e iniziative) la riflessione
e la discussione sul PATTO di ALLEANZA con il qúale tutti i
nostri padri (nonni...) e tutte le nostre madri (nonne...) hanno dato
vita a quell’UNO, che è il Testo della COSTITUZIONE, e il ’vecchio’
invito dell’Assemblea costituente (come don Lorenzo Milani
ci sollecitava nella sUa Lettera ai giudici, cfr. L’obbedienza non è più
una virtù) a "rendere consapevoli le nuove generazioni delle raggiunte
conquiste morali e sociali" e a riattivare la memoria
dell’origine dell’uno, che noi stessi e noi stesse siamo e che ci costituisce
in quanto esseri umani e cittadini - sovraní, sla rispetto a
noi stessi e a noi stesse sia rispetto agli altri e alle altre, e sui piano
personale e sul piano politico,
e di RAFFORZARE E VALoRIZZARE, in TUTTA la sua fondamentale
e specifica portata, IL RUOLo e LA FUNZIONE deila
SCUOLA DELLA nostra REPUBBLICA DEMOCRATICA.
P.S.
"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno
consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa
convinzione giace in fondo agli animi come una infezione laiente,
si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine
di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il
dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo*,
allora, al termine della catena, sta il lager.
Esso è il prodotto di una
concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa
coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano"
*
"Tutti gli stranieri sono nemici.
I nemici devono essere soppressi.
Tutti gli stranieri devono essere soppressi".
Primo Levi, Se questo è un uomo, Prefazione, Torino, Einaudi,
1973, pp. I 3-14.
Andiamo alla radice dei problemi. Perfezioniamo la conoscenza
di noi stessi e di noi stesse. Riattiviamo la memoria dell’Unita,
apriamo e riequilibriamo il campo della nosha, personale e collettiva,
coscienza umana e politica.
Sigmund Freud aveva colto chiaramente la tragica confusione in
cui la Chiesa cattolico-romana si era cacciata (cfr. L’uomo Mosè e
la religione monoteistica): "scaturito da una religione del padre, il
cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità
di doversi sbarazzare del padre" ... Giuseppe (gettato per la seconda
volta nel pozzo) e di dover teorizzare, per il figlio, il ’matrimonio’
con la madre e, nello stesso tempo,la sua trasformazione in
’donna’ e ’sposa’ del Padre e Spirito Santo, che ’generano’ il figlio!
Karol Wojtyla, nonostante tutto il suo coraggio e tutta la sua sapienza, fa finta di niente e, nonostante il ’muro’ sia crollato e lo ’spettacolo’ sia finito, continua a fare l’attore e a interpretare il ruolo di Edipo, Re e Papa.
QUIS UT DEUS? Nessuno può occupare il posto dell’UNO. Non è meglio deporre le ’armi’ della cecità e della follia e, insieme e in pace, cercare di guarire le ferite nostre e della nostra Terra?
"GUARIAMO LA NOSTRA TERRA": è il motto della
"Commissione per la verità e la riconciliazione" voluta da Nelson
Mandela (nel 1995 e presieduta da Desmond Tutu). In segno di attiva
solidarietà, raccogliamo il Suo invito...
"La realtà è una passione. La cosa più cara" (Fulvio Papi). Cerchiamo
di liberare ii nostro cielo dalle vecchie idee. Benché diversi,
i suoi problemi sono anche i nostri, e i nostri sono anche i suoi...
E le ombre, se si allungano su tutta la Terra, nascondono la luce e portano il buio, da lui come da noi... "nell’attuale momento focale
della storia - come scriveva e sottolineava con forza Enzo Paci già
nel 1954 (cfr. E. Paci, Tempo e relazione, Milano, Il Saggiatore,
1965 - Il ed., p. 184) - la massima permanenza possibile della libertà
democratica coincide con la massina metamorfosí verso un
più giusto equilibrio sociale, non solo per un popolo ma per tutti i
popoli del mondo".
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno, Febbraio 2001, pp. 49-53.
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 6 marzo 2011)
Come la Chiesa vede l’unità d’Italia? Un episodio del pontificato di Giovanni XXIII, il "Papa buono", può aiutare a rispondere a questa domanda. È la primavera del 1961, precisamente l’11 aprile, quando il Pontefice riceve in visita ufficiale il Capo del governo italiano, Amintore Fanfani. Le parole pronunciate dal Papa in quell’occasione hanno grande eco sulla stampa, in un ventaglio di giudizi contrapposti. Il Pontefice fa, tra l’altro, due affermazioni. La prima riguarda i rapporti fra la Chiesa e l’Italia: «La singolare condizione della Chiesa cattolica e dello Stato italiano - due organismi di diversa struttura, fisionomia ed elevazione, quanto alle caratteristiche finalità dell’uno e dell’altro - suppone una distinzione e un tal quale riserbo di rapporti, pur fatti di garbo e di rispetto, che rendono tanto più gradite le occasioni dell’incontrarsi...».
Con quel suo fraseggiare a volte un po’ ridondante, il Papa dipinge in maniera precisa la distinzione e il genere dei rapporti fra le due sponde del Tevere: i termini usati, "riserbo", "garbo", "rispetto", mettono bene in luce la necessaria distanza e la comune appartenenza a una medesima storia e a uno stesso destino. Subito dopo Giovanni XXIII afferma: «La ricorrenza che in questi mesi è motivo di sincera esultanza per l’Italia, il centenario della sua unità, ci trova, sulle due rive del Tevere, partecipi di uno stesso sentimento di riconoscenza alla Provvidenza del Signore, che pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi, come accade in tutti i tempi, ha guidato questa porzione elettissima d’Europa verso una sistemazione di rispetto e di onore nel concetto delle nazioni grazie a Dio depositarie, sì, oggi ancora, della civiltà che da Cristo prende nome e vita».
Si sente in queste parole la competenza dello storico (tale era Angelo Giuseppe Roncalli, per formazione storico della Chiesa) e la finezza del diplomatico (a lungo rappresentante pontificio), pervase entrambe da una benignità pastorale, che priva la prima di ogni saccenteria e la seconda di ogni furbizia. Il "Papa buono" non nasconde nulla («pur attraverso variazioni e contrasti, talora accesi...») e mette l’accento su quanto gli sta veramente a cuore: l’Italia, nel suo rapporto costitutivo con il cristianesimo e con l’Europa.
Cinquant’anni dopo queste parole non hanno perso nulla del loro valore: prive di ogni retorica celebrativa, aiutano a far memoria onestamente dei momenti drammatici e delle tensioni attraverso cui si fece l’unità del paese. Nei confronti della causa italiana la posizione dei cattolici fu tutt’altro che unanime e concorde: le tesi dei fieri oppositori si affiancarono a quelle dei sostenitori entusiastici, mentre non pochi furono partigiani di un federalismo, che beneficiasse delle garanzie offerte dall’autorità morale del Papa.
Due mi sembrano gli orizzonti evocati da Giovanni XXIII, che val la pena di richiamare anche per l’imminente celebrazione del 150° anniversario dell’unità d’Italia: il cristianesimo e l’Europa. Sotto entrambi i profili l’Italia si è andata costruendo nel corso di questo secolo e mezzo e il da farsi resta ancora così tanto che la memoria si risolve in sfida e agenda per l’avvenire. Anzitutto, va sottolineata la rilevanza del cristianesimo per la nostra identità nazionale: senza di esso l’Italia sarebbe inconcepibile, con buona pace dei laicisti di turno e di quanti danno voce ai vari, possibili pregiudizi storiografici e culturali. Incontrandosi con l’eredità greco-romana e, più tardi, in un rapporto spesso dialettico con i processi emancipatori della modernità, l’anima cristiana ha plasmato il nostro paese. Una riprova altissima dell’importanza di questo contributo all’identità della nazione italiana viene da una delle pagine più significative della nostra storia: la promulgazione della Costituzione repubblicana. È in particolare al personalismo d’ispirazione cristiana che la nostra legge fondamentale deve la sua fonte più ricca in materia di valori.
Essa era stata compendiata nel cosiddetto Codice di Camaldoli, elaborato al termine di una settimana di studio tenutasi nel luglio del 1943 nel monastero camaldolese presso Arezzo, cui avevano partecipato una cinquantina di giovani dell’Azione cattolica e della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci), con l’intento d’individuare le linee dello sviluppo del paeseuna volta finita la guerra. Nel testo emergeva non solo l’idea della centralità della persona umana nella futura organizzazione dello Stato e della sua economia, ma anche la proposta di un sistema di partecipazione statale, che traduceva nella nostra realtà produttiva l’idea della corresponsabilità e della solidarietà nazionale.
Senza il rispetto della dignità della persona, e dunque di tutto l’uomo in ogni uomo, quale che siano la sua storia, la sua cultura e i mezzi di cui dispone, non ci sarà nazione italiana. E, parimenti, senza solidarietà l’idea d’Italia concepita dai padri costituenti rischia di essere totalmente svuotata: sottolinearlo è più che mai urgente, in un momento in cui il tanto parlare di federalismo potrebbe oscurare l’imprescindibile necessità che il nostro sia un federalismo solidale, e giammai un patto a vantaggio dei più forti, dannoso per i più deboli. In questo senso la memoria si fa dovere di vigile profezia per tutti.
L’altro orizzonte evocato da Giovanni XXIII e più che mai valido per le celebrazioni dell’unità italiana è quello dell’Europa: nello spirito dei padri fondatori - De Gasperi, Adenauer, Schuman - l’appartenenza alla casa comune europea vuol dire superamento degli egoismi nazionalistici e regionalistici, respiro aperto alla mondialità e all’interculturalità, senso profondo di responsabilità verso i valori costitutivi dell’identità europea. Accanto al rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali, Europa vuol dire coniugazione sapiente di localismi e di solidarietà, di globalità e di attenzione alla ricchezza delle identità regionali e nazionali, di salvaguardia delle radici e di accoglienza dell’altro e del diverso. Per l’Italia questo significa rifiuto di logiche egoistiche e settarie e impegno perché la comune responsabilità europea si affermi negli scenari internazionali dove sono in gioco la costruzione della pace, il rispetto dei diritti umani, l’impegno per la giustizia.
Celebrare l’unità della nazione italiana nell’orizzonte dell’idea europea può aiutare a liberarci da ogni ripiegamento su noi stessi, o peggio ancora su una parte sola del paese, spingendoci a un’azione di stimolo e di supporto a politiche europee all’altezza delle radici culturali e spirituali che ci uniscono. Queste radici comprendono l’idea cristiana di persona e di storia orientata a un fine, l’idea di democrazia, contributo prezioso della grecità classica, cui si connette il dovere del rispetto delle ragioni altrui, e il diritto romano, con la sua esigenza di una giustizia giusta, rapida ed efficace nella tutela dei più deboli e dei diritti di tutti.
Celebrare l’unità è allora raccogliere il testimone di quanti hanno dato il meglio di sé, fino al sacrificio della vita, perché in questi 150 anni si andassero imponendo le urgenze dei diritti personali, l’idea di partecipazione democratica universale, e un senso del diritto e della legalità, che per troppi aspetti sembrano ancor lungi dall’essere realtà compiuta.
Al di là di ogni retorica, un esame di coscienza è richiesto in primo luogo a chi ha responsabilità pubbliche ed è tenuto a coltivare qualità morali che siano all’altezza del compito. Ricordare l’unità realizzata vuol dire rinnovare l’impegno a portarne a compimento i valori costitutivi. Ciò che iniziò ieri è appello per l’oggi e per il domani, un’occasione di salutare risveglio per tutti, la sfida di un "non ancora" che parte dal "già", iniziato 150 anni fa.
* Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto
Donne, non merci!
di Suor Eugenia Bonetti *
del 13 febbraio 2011
Testo dell’intervento di suor Eugenia Bonetti in piazza del Popolo, a Roma, domenica 13 febbraio 2011, durante la manifestazione in difesa della dignità della donna.
Il mio saluto caloroso e affettuoso e il mio grazie a tutto il mondo femminile qui presente per chiedere il rispetto per la dignità della donna. Sono suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, vissuta in Africa per 24 anni, dal 1993 impegnata in un centro Caritas di Torino dove ho conosciuto il mondo della notte e della strada e dove ho incontrato il volto, le storie, le sofferenze, la disperazione e la schiavitù di tante donne portate in Italia con il miraggio di una vita confortevole per trovarsi poi nelle maglie della criminalità.
Dal 2000 lavoro a Roma come responsabile dell’Ufficio “Tratta donne e minori” dell’USMI (Unione Superiore Maggiori d’Italia) per coordinare il servizio di centinaia di religiose che operano sulle strade, nei centri ascolto, nei centri di detenzione ed espulsione e soprattutto nelle case famiglia per il recupero di tante giovani vite spezzate.
Sono qui a nome di queste suore che ogni giorno operano silenziosamente e gratuitamente con amore, coraggio e determinazione nel vasto mondo dell’emarginazione sociale per ridare vita e speranza. Sono qui per dare voce a chi non ha voce, alle nuove schiave, vittime della tratta di esseri umani per sfruttamento lavorativo e sessuale, per lanciare un forte appello affinché sia riconosciuta la loro dignità e ripristinata la loro vera immagine di donne, artefici della propria vita e del proprio futuro. A nome loro e nostro, che ci sentiamo sorelle e madri di queste vittime, diciamo basta a questo indegno e vergognoso mercato del mondo femminile.
Questo grido nasce dalla nostra esperienza concreta, dalla nostra vita vissuta ogni giorno a contatto con tante giovani trafficate e sfruttate dai nostri stessi stili di vita e alle quali sono negati i fondamentali diritti umani. Purtroppo l’immagine che viene trasmessa in tanti modi e forme, dai media, dalla pubblicità e dagli stessi rapporti quotidiani tra uomo-donna è l’immagine del corpo della donna inteso solamente come oggetto o strumento di piacere, di consumo e di guadagno, misconoscendo invece l’essenziale che lo stesso corpo umano racchiude: una bellezza infinita e profonda da scoprire, rispettare, apprezzare e valorizzare.
Le costanti notizie di cronaca che in queste ultime settimane si susseguono in modo spudorato sui nostri giornali e nelle trasmissioni televisive e radiofoniche ci sgomentano e ci portano a pensare che siamo ancora molto lontani dal considerare la donna per ciò che è veramente e non semplicemente un oggetto o una merce da usare. Quale immagine stiamo dando della donna e del suo ruolo nella società e nella famiglia a prescindere dai fatti di cronaca, dalla veridicità o meno di ciò che ci viene presentato?
In questi ultimi tempi si è cercato di eliminare la prostituzione di strada perché dava fastidio e disturbava i sedicenti benpensanti. E abbiamo voluto rinchiuderla in luoghi meno visibili, pensando di aver risolto il problema, ma non ci rendiamo conto che una prostituzione del corpo e dell’immagine della donna è diventata ormai parte integrante dei programmi e notizie televisive, della cultura del vivere quotidiano e proposta a tutti, compresi quei bambini che volevamo e pensavamo di tutelare. Tutto questo purtroppo educa allo sfruttamento, al sopruso, al piacere, al potere, senza alcuna preoccupazione delle dolorose conseguenze sui nostri giovani che vedono modelli da imitare e mete da raggiungere.
La donna è diventata solo una merce che si può comperare, consumare per poi liberarsene come un qualsiasi oggetto “usa e getta”. Troppo spesso la donna è considerata solo per la bellezza e l’aspetto esterno del suo corpo e non invece per la ricchezza dei suoi valori veri di intelligenza e di bellezzainteriore per la sua capacità di accoglienza, intuizione, donazione e servizio, per la sua genialità nel trasmettere l’amore, la pace e l’armonia, nonché nel dare e far crescere la vita. Il suo vero successo e il suo avvenire non possono essere basati sul denaro, sulla carriera o sui privilegi dei potenti, ma deve essere fondato sulle sue capacità umane, sulla sua bellezza interiore e sul suo senso di responsabilità.
Durante questi lunghi anni di impegno e servizio alla donna la nostra rete di religiose si è allargata e consolidata non solo in Italia ma anche nei Paesi di origine, transito e destinazione. Abbiamo creato le basi per un vero lavoro educativo di informazione, prevenzione e reintegrazione, come pure di condanna per quanti, in modi diversi, usano e abusano del corpo della donna la cui dignità non si può mercanteggiare o pagare perché è un dono sacro da rispettare e custodire. Non possiamo più rimanere indifferenti di fronte a quanto oggi accade in Italia nei confronti del mondo femminile. Siamo tutti responsabili del disagio umano e sociale che lacera il Paese.
E’ venuto il momento in cui ciascuno deve fare la sua parte e assumersi le proprie responsabilità. Per questo come religiose rivolgiamo un forte appello alle autorità civili e religiose, al mondo maschile e maschilista che non si mette in discussione, alle agenzie di informazione e formazione, alla scuola, alle parrocchie, ai gruppi giovanili, alle famiglie e in modo particolare alle donne affinché insieme possiamo riappropriarci di quei valori e significati sui quali si basa il bene comune per una convivenza degna di persone umane, per una società più giusta e più libera, con la speranza di un futuro di pace e armonia dove la dignità di ogni persona è considerato il primo bene da riconoscere, sviluppare, tutelare e custodire.
A tutti il mio grazie per la vostra attenzione e per il vostro impegno a favore della dignità della donna.
suor Eugenia Bonetti
* FONTE: FINESETTIMANA.ORG.
PATTI LATERANENSI
Breve "faccia a faccia"
Berlusconi-Bagnasco
"Scambio di opinioni" tra i due, seduti vicini in occasione dell’incontro bilaterale Italia-S.Sede.
Napolitano: "La Chiesa parteciperà alle manifestazioni per l’Unità d’Italia. E ci sarà anche, in qualche forma, la presenza del Pontefice" *
Breve scambio di opinioni tra Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco in occasione dell’incontro bilaterale Italia-S.Sede per l’anniversario dei Patti Lateranensi e del Concordato, svoltosi a Palazzo Borromeo, sede dell’ambasciata d’Italia presso il Vaticano. A quanto si apprende da chi ha potuto assistere all’incontro, il premier e il cardinale seduti vicino, si sono parlati per qualche minuto. Non è naturalmente noto il contenuto del loro scambio di battute.
In contemporanea, sulle poltrone vicine, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha parlato con il segretario di stato Vaticano cardinale Tarcisio Bertone.
E’ comunque probabile che Berlusconi e Bagnasco abbiano comunque sfiorato argomenti riguardanti le ultime vicende che coinvolgono il presidente del Consiglio e più in generale la credibilità dell’Italia rispetto alle altre nazioni.
Al termine dell’incontro, solo un brevissimo commento del premier ai cronisti che gli hanno chiesto come era andato l’anniversario dei Patti Lateranensi e del Concordato: "Benissimo, come sempre", ha risposto. Si è anche appreso che il presidente del Consiglio ha incontrato il presidente della Camera, Gianfranco Fini. Tra i due c’è stata una stretta di mano e un cenno di saluto.
Anche Napolitano, all’uscita, ha commentato l’incontro: "È andata come sempre. C’è un clima di cordialità nelle relazioni tra Italia e Santa Sede". E ha poi aggiunto: "È molto importante l’impegno sottolineato dai cardinali Bertone e Bagnasco della partecipazione della Chiesa e, in qualche forma, del pontefice, all’anniversario dei 150 anni dell’unità d’italia". Napolitano si è trattenuto al ricevimento per circa mezz’ora dopo l’uscita di Silvio Berlusconi, sforando di una ventina di minuti i tempi previsti dal protocollo. Un messaggio del Papa per le cerimonie dell’Unità d’Italia. E’ questa, a quanto si apprende, una delle ipotesi a cui si sta lavorando relativamente al "coinvolgimento" di Benedetto XVI di cui ha parlato Napolitano.
Al momento, fanno sapere fonti vaticane, non c’è ancora nulla di stabilito. Ma questa è l’ipotesi più fondata. Il messaggio potrebbe essere letto, probabilmente, durante la messa annunciata per il 17 marzo, giorno delle celebrazioni, dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei.
Nel corso dell’incontro bilaterale Italia-S.Sede sono stati affrontati anche temi etici come il testamento biologico e la recente sentenza della Cassazioni in materia di adozioni dei single. Lo ha spiegato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, aggiungendo che su questi temi si "vuole evitare una deriva".
* la Repubblica, 18 febbraio 2011
Messaggio al Presidente Napolitano per 150 anni dell’Unità d’Italia
di BENEDICTUS PP. XVI (Avvenire, 16 marzo 2011)
Illustrissimo Signore On. GIORGIO NAPOLITANO
Presidente della Repubblica Italiana
Il 150° anniversario dell’unificazione politica dell’Italia mi offre la felice occasione per riflettere sulla storia di questo amato Paese, la cui Capitale è Roma, città in cui la divina Provvidenza ha posto la Sede del Successore dell’Apostolo Pietro. Pertanto, nel formulare a Lei e all’intera Nazione i miei più fervidi voti augurali, sono lieto di parteciparLe, in segno dei profondi vincoli di amicizia e di collaborazione che legano l’Italia e la Santa Sede, queste mie considerazioni.
Il processo di unificazione avvenuto in Italia nel corso del XIX secolo e passato alla storia con il nome di Risorgimento, costituì il naturale sbocco di uno sviluppo identitario nazionale iniziato molto tempo prima. In effetti, la nazione italiana, come comunità di persone unite dalla lingua, dalla cultura, dai sentimenti di una medesima appartenenza, seppure nella pluralità di comunità politiche articolate sulla penisola, comincia a formarsi nell’età medievale.
Il Cristianesimo ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica. Dante, Giotto, Petrarca, Michelangelo, Raffaello, Pierluigi da Palestrina, Caravaggio, Scarlatti, Bernini e Borromini sono solo alcuni nomi di una filiera di grandi artisti che, nei secoli, hanno dato un apporto fondamentale alla formazione dell’identità italiana. Anche le esperienze di santità, che numerose hanno costellato la storia dell’Italia, contribuirono fortemente a costruire tale identità, non solo sotto lo specifico profilo di una peculiare realizzazione del messaggio evangelico, che ha marcato nel tempo l’esperienza religiosa e la spiritualità degli italiani (si pensi alle grandi e molteplici espressioni della pietà popolare), ma pure sotto il profilo culturale e persino politico.
San Francesco di Assisi, ad esempio, si segnala anche per il contributo a forgiare la lingua nazionale; santa Caterina da Siena offre, seppure semplice popolana, uno stimolo formidabile alla elaborazione di un pensiero politico e giuridico italiano. L’apporto della Chiesa e dei credenti al processo di formazione e di consolidamento dell’identità nazionale continua nell’età moderna e contemporanea. Anche quando parti della penisola furono assoggettate alla sovranità di potenze straniere, fu proprio grazie a tale identità ormai netta e forte che, nonostante il perdurare nel tempo della frammentazione geopolitica, la nazione italiana poté continuare a sussistere e ad essere consapevole di sé. Perciò, l’unità d’Italia, realizzatasi nella seconda metà dell’Ottocento, ha potuto aver luogo non come artificiosa costruzione politica di identità diverse, ma come naturale sbocco politico di una identità nazionale forte e radicata, sussistente da tempo. La comunità politica unitaria nascente a conclusione del ciclo risorgimentale ha avuto, in definitiva, come collante che teneva unite le pur sussistenti diversità locali, proprio la preesistente identità nazionale, al cui modellamento il Cristianesimo e la Chiesa hanno dato un contributo fondamentale.
Per ragioni storiche, culturali e politiche complesse, il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale. Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero - e talora di azione - dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini. Per il pensiero filosofico, politico ed anche giuridico risalta la grande figura di Antonio Rosmini, la cui influenza si è dispiegata nel tempo, fino ad informare punti significativi della vigente Costituzione italiana. E per quella letteratura che tanto ha contribuito a "fare gli italiani", cioè a dare loro il senso dell’appartenenza alla nuova comunità politica che il processo risorgimentale veniva plasmando, come non ricordare Alessandro Manzoni, fedele interprete della fede e della morale cattolica; o Silvio Pellico, che con la sua opera autobiografica sulle dolorose vicissitudini di un patriota seppe testimoniare la conciliabilità dell’amor di Patria con una fede adamantina. E di nuovo figure di santi, come san Giovanni Bosco, spinto dalla preoccupazione pedagogica a comporre manuali di storia Patria, che modellò l’appartenenza all’istituto da lui fondato su un paradigma coerente con una sana concezione liberale: "cittadini di fronte allo Stato e religiosi di fronte alla Chiesa".
La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo, in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro.
Ma si deve riconoscere che, se fu il processo di unificazione politico-istituzionale a produrre quel conflitto tra Stato e Chiesa che è passato alla storia col nome di "Questione Romana", suscitando di conseguenza l’aspettativa di una formale "Conciliazione", nessun conflitto si verificò nel corpo sociale, segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale. L’identità nazionale degli italiani, così fortemente radicata nelle tradizioni cattoliche, costituì in verità la base più solida della conquistata unità politica. In definitiva, la Conciliazione doveva avvenire fra le Istituzioni, non nel corpo sociale, dove fede e cittadinanza non erano in conflitto.
Anche negli anni della dilacerazione i cattolici hanno lavorato all’unità del Paese. L’astensione dalla vita politica, seguente il "non expedit", rivolse le realtà del mondo cattolico verso una grande assunzione di responsabilità nel sociale: educazione, istruzione, assistenza, sanità, cooperazione, economia sociale, furono ambiti di impegno che fecero crescere una società solidale e fortemente coesa. La vertenza apertasi tra Stato e Chiesa con la proclamazione di Roma capitale d’Italia e con la fine dello Stato Pontificio, era particolarmente complessa.
Si trattava indubbiamente di un caso tutto italiano, nella misura in cui solo l’Italia ha la singolarità di ospitare la sede del Papato. D’altra parte, la questione aveva una indubbia rilevanza anche internazionale. Si deve notare che, finito il potere temporale, la Santa Sede, pur reclamando la più piena libertà e la sovranità che le spetta nell’ordine suo, ha sempre rifiutato la possibilità di una soluzione della "Questione Romana" attraverso imposizioni dall’esterno, confidando nei sentimenti del popolo italiano e nel senso di responsabilità e giustizia dello Stato italiano. La firma dei Patti lateranensi, l’11 febbraio 1929, segnò la definitiva soluzione del problema. A proposito della fine degli Stati pontifici, nel ricordo del beato Papa Pio IX e dei Successori, riprendo le parole del Cardinale Giovanni Battista Montini, nel suo discorso tenuto in Campidoglio il 10 ottobre 1962: "Il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione sul mondo, come prima non mai".
L’apporto fondamentale dei cattolici italiani alla elaborazione della Costituzione repubblicana del 1947 è ben noto. Se il testo costituzionale fu il positivo frutto di un incontro e di una collaborazione tra diverse tradizioni di pensiero, non c’è alcun dubbio che solo i costituenti cattolici si presentarono allo storico appuntamento con un preciso progetto sulla legge fondamentale del nuovo Stato italiano; un progetto maturato all’interno dell’Azione Cattolica, in particolare della FUCI e del Movimento Laureati, e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ed oggetto di riflessione e di elaborazione nel Codice di Camaldoli del 1945 e nella XIX Settimana Sociale dei Cattolici Italiani dello stesso anno, dedicata al tema "Costituzione e Costituente".
Da lì prese l’avvio un impegno molto significativo dei cattolici italiani nella politica, nell’attività sindacale, nelle istituzioni pubbliche, nelle realtà economiche, nelle espressioni della società civile, offrendo così un contributo assai rilevante alla crescita del Paese, con dimostrazione di assoluta fedeltà allo Stato e di dedizione al bene comune e collocando l’Italia in proiezione europea. Negli anni dolorosi ed oscuri del terrorismo, poi, i cattolici hanno dato la loro testimonianza di sangue: come non ricordare, tra le varie figure, quelle dell’On. Aldo Moro e del Prof. Vittorio Bachelet? Dal canto suo la Chiesa, grazie anche alla larga libertà assicuratale dal Concordato lateranense del 1929, ha continuato, con le proprie istituzioni ed attività, a fornire un fattivo contributo al bene comune, intervenendo in particolare a sostegno delle persone più emarginate e sofferenti, e soprattutto proseguendo ad alimentare il corpo sociale di quei valori morali che sono essenziali per la vita di una società democratica, giusta, ordinata. Il bene del Paese, integralmente inteso, è stato sempre perseguito e particolarmente espresso in momenti di alto significato, come nella "grande preghiera per l’Italia" indetta dal Venerabile Giovanni Paolo II il 10 gennaio 1994.
La conclusione dell’Accordo di revisione del Concordato lateranense, firmato il 18 febbraio 1984, ha segnato il passaggio ad una nuova fase dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Tale passaggio fu chiaramente avvertito dal mio Predecessore, il quale, nel discorso pronunciato il 3 giugno 1985, all’atto dello scambio degli strumenti di ratifica dell’Accordo, notava che, come "strumento di concordia e collaborazione, il Concordato si situa ora in una società caratterizzata dalla libera competizione delle idee e dalla pluralistica articolazione delle diverse componenti sociali: esso può e deve costituire un fattore di promozione e di crescita, favorendo la profonda unità di ideali e di sentimenti, per la quale tutti gli italiani si sentono fratelli in una stessa Patria".
Ed aggiungeva che nell’esercizio della sua diaconia per l’uomo "la Chiesa intende operare nel pieno rispetto dell’autonomia dell’ordine politico e della sovranità dello Stato. Parimenti, essa è attenta alla salvaguardia della libertà di tutti, condizione indispensabile alla costruzione di un mondo degno dell’uomo, che solo nella libertà può ricercare con pienezza la verità e aderirvi sinceramente, trovandovi motivo ed ispirazione per l’impegno solidale ed unitario al bene comune".
L’Accordo, che ha contribuito largamente alla delineazione di quella sana laicità che denota lo Stato italiano ed il suo ordinamento giuridico, ha evidenziato i due principi supremi che sono chiamati a presiedere alle relazioni fra Chiesa e comunità politica: quello della distinzione di ambiti e quello della collaborazione. Una collaborazione motivata dal fatto che, come ha insegnato il Concilio Vaticano Il, entrambe, cioè la Chiesa e la comunità politica, "anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane" (Cost. Gaudium et spes, 76).
L’esperienza maturata negli anni di vigenza delle nuove disposizioni pattizie ha visto, ancora una volta, la Chiesa ed i cattolici impegnati in vario modo a favore di quella "promozione dell’uomo e del bene del Paese" che, nel rispetto della reciproca indipendenza e sovranità, costituisce principio ispiratore ed orientante del Concordato in vigore (art. 1). La Chiesa è consapevole non solo del contributo che essa offre alla società civile per il bene comune, ma anche di ciò che riceve dalla società civile, come affrerma il Concilio Vaticano II: "chiunque promuove la comunità umana nel campo della famiglia, della cultura, della vita economica e sociale, come pure della politica, sia nazionale che internazionale, porta anche un non piccolo aiuto, secondo la volontà di Dio, alla comunità ecclesiale, nelle cose in cui essa dipende da fattori esterni" (Cost. Gaudium et spes, 44).
Nel guardare al lungo divenire della storia, bisogna riconoscere che la nazione italiana ha sempre avvertito l’onere ma al tempo stesso il singolare privilegio dato dalla situazione peculiare per la quale è in Italia, a Roma, la sede del successore di Pietro e quindi il centro della cattolicità. E la comunità nazionale ha sempre risposto a questa consapevolezza esprimendo vicinanza affettiva, solidarietà, aiuto alla Sede Apostolica per la sua libertà e per assecondare la realizzazione delle condizioni favorevoli all’esercizio del ministero spirituale nel mondo da parte del successore di Pietro, che è Vescovo di Roma e Primate d’Italia. Passate le turbolenze causate dalla "questione romana", giunti all’auspicata Conciliazione, anche lo Stato Italiano ha offerto e continua ad offrire una collaborazione preziosa, di cui la Santa Sede fruisce e di cui è consapevolmente grata.
Nel presentare a Lei, Signor Presidente, queste riflessioni, invoco di cuore sul popolo italiano l’abbondanza dei doni celesti, affinché sia sempre guidato dalla luce della fede, sorgente di speranza e di perseverante impegno per la libertà, la giustizia e la pace.
Dal Vaticano, 17 marzo 2011
BENEDICTUS PP. XVI
PARRHESIA EVANGELICA: IL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
I cattolici escano dal silenzio: solo così volteremo pagina
di Massimo Toschi (l’Unità, 22 gennaio 2011)
In attesa del Consiglio permanente della Cei, che si aprirà lunedì prossimo, anche i vescovi hanno cominciato a parlare. Monsignor Forte e monsignor Bregantini hanno detto parole coraggiose e lungimiranti. Avvenire domanda buoni esempi. Il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone ha parlato di moralità giustizia e legalità, dicendo di condividere il turbamento del presidente Napolitano.
Toni e sfumature diverse, ma certo lo scandalo è grande. Siamo giunti al capolinea del berlusconismo, che non solo ha governato la politica italiana, ma ha lasciato segni profondi nella società italiana. E anche la Chiesa e i credenti non possono sottrarsi a un bilancio delle loro scelte rispetto a questa lunga e drammatica stagione. Non basta più un giudizio solo sull’oggi, perché c’è un filo nero che unisce questo tempo, in cui il Paese si è sfinito moralmente, a fronte di una politica che ha perso autorità, autorevolezza e credibilità, sedotta anch’essa dal grande seduttore.
Nel 1994, all’inizio di questa stagione, Giuseppe Dossetti, in un discorso sulla notte delle persone e delle comunità indicava le cause profonde della notte del Paese: «Anzitutto una porzione troppo scarsa di battezzati consapevoli del loro battesimo rispetto alla maggioranza inconsapevole. Ancora l’insufficienza delle comunità che dovrebbero formarli; lo sviamento e la perdita di senso dei cattolici impegnati in politica, che non possono adempiere il loro compito di riordinare le realtà temporali in modo conforme all’evangelo per la mancanza di vero spirito di disinteresse e soprattutto di una cultura modernamente adeguata; e quindi una attribuzione di plusvalore a una presenza per se stessa, anziché ad una vera ed efficace opera di mediazione; e infine l’immaturità del rapporto laici/clero, il quale clero non tanto deve guidare dall’esterno il laicato, ma proporsi il compito di formazione delle coscienze (...) a un cristianesimo profondo e autentico e quindi a una alta eticità privata e pubblica. Ebbene, se queste erano e sono tuttora le cause profonde della nostra notte, non si può sperare che si possa uscirne solo con rimedi politici, o peggio rinunziando a un giudizio severo nei confronti dell’attuale governo in cambio di un atteggiamento rispettoso verso la chiesa o di una qualche concessione accattivante in questo o quel campo (per esempio la politica familiare o la politica scolastica. Evidentemente i cattolici sono oggi posti di fronte a una scelta, che non può che essere che globale e innegoziabile, perché scelta non di azione di governo, ma di un aut/aut istituzionale».
Dopo diciassette anni, i credenti e la Chiesa devono prendere atto che nessuna di queste cause è stata rimossa attraverso una rigorosa azione di formazione evangelica e di meditazione della Costituzione. Al contrario si è rafforzata la linea di una presenza per se stessa disponibile all’accordo con il Cesare amico. Nel 2007 il cardinale Ruini, sulla questione dei Dico, non solo non discusse la legge ma innalzò un muro nei confronti del governo Prodi, nella convinzione che il centrodestra sarebbe stato assolutamente generoso, divenendo così l’interlocutore privilegiato della politica ecclesiastica per il Paese. In questo quadro, i principi non negoziabili avrebbero trovato perfetta applicazione. Finalmente un governo sodale a cui chiedere aiuto per la cristianizzazione della società italiana. E questo connubio non casto venne celebrato in piazza San Giovanni al Family Day.
In questo modo si negava la coerenza del Vangelo, perché diventavano difensori della unità delle famiglia leader politici che esibivano più famiglie. Abbiamo ascoltato vescovi, che per non dispiacere il principe, contestualizzavano le bestemmie o davano pubblicamente i sacramenti, in modo da distruggere la conversione evangelica. E si ha l’impressione che tutto questo non sia avvenuto gratis. Oggi non può bastare un aggettivo o una parola forte.
La Chiesa italiana davanti al Paese deve chiedere perdono per non aver ascoltato l’appello del 1994 di don Dossetti, e per non aver intrapreso la via stretta del Vangelo e della Costituzione, diventando corresponsabile del degrado morale, che rischia di travolgere tutto e tutti. Questa è la condizione perché dalla penitenzasi generi la conversione.
Questo è il passaggio, perché la Chiesa italiana possa testimoniare di nuovo il magistero di amore e di verità che il Paese cerca. Non ci sono astute scorciatoie politiciste.
Se la Chiesa italiana fa penitenza, si converte, e apre ogni giorno il libro santo del Vangelo, avrà anche il dono della parresia, il dire tutto il Vangelo, anche nel tempo della vergogna e della menzogna, generando credenti capaci di donare la vita in primo luogo ai più piccoli e deboli di questo Paese.
Se la Chiesa difenderà il libro laico della Costituzione, l’unico vero progetto culturale elaborato dai cattolici italiani nel tempo della Repubblica, il Paese diventerà più forte e migliore, con una cittadinanza esemplare e non adultera.
Memorie per una politica morale
di Angelo Bertani (Europa, 21 gennaio 2011)
Con l’abituale franchezza Barbara Spinelli, prendeva spunto dalla vicenda di Battisti e ricorda: «L’amalgama creatosi fra terrorismo, mafia, corruzione, sprezzo della magistratura: non è una vecchia pagina da voltare. È il presente limaccioso che viviamo ». (Repubblica, 5 gennaio 2011). Quanto il presente sia «limaccioso » lo vediamo in questi giorni. Ma per ricordare che cosa sia la politica pulita e la moralità dell’impegno civile - e per ritrovarne la strada - ci aiutano alcuni libri recenti. Sono opera di persone che hanno attraversato gli scorsi decenni con coscienza coraggiosa e libera. Possiamo leggere per esempio il bel libro di Arnaldo Nesti, prete, poi docente universitario, animatore di cultura e di dialogo (Il mio novecento. Passioni. Dentro e fuori il mondo cattolico, introd. di Andrea Riccardi, Felici Editore).
Accanto, diverso eppur vicino, il “diario” di don Luisito Bianchi, anche lui ultraottantenne lucidissimo, preteoperaio e ora cappellano presso il monastero di Viboldone (Le quattro stagioni di un vecchio lunario, Sironi editore) che racconta la sua vita dalla Resistenza al seminario, dalla passione religiosa a quella civile. Ottanta, gli anni di una politica (intr. di Stefano Rodotà, Servitium) è il titolo del volume col quale Giancarla Codrignani documenta gli anni della sua vita, piena di attività e di riflessioni. Sono scritti che testimoniano il suo impegno di studiosa e insegnante, di giornalista, cattolica militante e parlamentare nella sinistra indipendente.
Un taglio diverso, ma una analoga esperienza personale e politica, si ritrova nelle «memorie di una donna dal Novecento incompiuto» di Paola Gaiotti De Biase (Passare la mano, con una presentazione di Romano Prodi, ed. Viella). Anche questo un libro ricco di fatti e di storia; l’esame di coscienza di un’epoca. Con una domanda che sovrasta e inquieta: ma a chi passare la mano? E infine un altro libro che dice memoria, fede, impegno e speranza.
Nonostante tutto. È di Marisa Rodano (Del mutare dei tempi, 2 voll, pref. di Giorgio Napolitano, ed. Memori). Anche qui è la storia di una donna; della bella famiglia che Marisa ha costruito con Franco Rodano e della loro coraggiosa avventura umana e politica. Non c’è spazio qui per accennare alle molte cose esemplari e toccanti contenute nelle 800 pagine di questo “diario minimo”. Vorrei solo ricordare che proprio oggi l’autrice compie 90 anni (è nata il 21 gennaio 1921, lo stesso giorno in cui a Livorno nasceva il Pci). Spero che l’alta ispirazione umana e cristiana contenuta in queste “memorie”, possa continuare a guidare il cammino della nostra patria.
Il nuovo saggio di Michele Ciliberto, La democrazia dispotica
Vizi antichi
Quelle derive dispotiche tra Marx e B.
Nel saggio di Ciliberto il mondo che i terzisti ignorano
di Riccardo Chiaberge (il Fatto, 08.01.2011)
Non dite al liberalissimo Piero Ostellino che quasi due secoli fa il liberale Alexis de Tocqueville aveva capito cose che lui mostra di non avere ancora capito adesso. Per esempio che nelle nazioni sviluppate, la democrazia fondata sul sacro e indiscutibile “verdetto popolare” scivola facilmente in una sorta di dispotismo “dolce”, in una “servitù regolata, mi-te e pacifica”, che si combina “meglio di quanto si immagini con alcune forme esteriori della libertà”. Questo perché, scriveva il pellegrino francese nel 1835 di ritorno dal nuovo mondo, “i nostri contemporanei sono continuamente tormentati da due passioni contrastanti: provano il bisogno di essere guidati e la voglia di restare liberi. Non potendo liberarsi né dell’uno né dell’altro di questi istinti contrari , cercano di soddisfarli entrambi contemporaneamente. Immaginano un potere unico, tutelare, onnipotente, ma eletto dai cittadini”.
È FIN TROPPO banale, col senno di poi, leggere in queste parole un’anticipazione profetica di quello che è oggi il Popolo della libertà. Ma sarebbe una forzatura ridicola e insidiosa, che si può agevolmente ribaltare in chiave autoconsolatoria: se la democrazia era già in crisi nell’America dell’Ottocento, se la dittatura della maggioranza esiste dai tempi di Tocqueville, se fin da allora i cittadini abdicano volentieri al “libero arbitrio” per diventare sudditi, perché inveire contro il populismo del Cavaliere? Non siamo di fronte a un bubbone scoppiato all’improvviso, ma a un fenomeno che rientra nella normale epidemiologia dei sistemi politici moderni, e non resta che prenderne atto, come ci invitano a fare quasi quotidianamente i soloni “liberali” del Corriere della Sera, tanto inflessibili con “la piazza” quanto indulgenti verso il Palazzo (Grazioli).
NELLA pubblicistica italiana di oggi sono frequenti i tentativi di annacquare il ventennio berlusconiano nel brodo di presunti e indifferenziati trend mondiali (Populista? Lo è pure Sarkozy. Legge bavaglio? Guardate l’Ungheria!) o peggio di nobilitarlo andandone a ripescare lontane ascendenze storiche, e spogliandolo così della sua allarmante eccezionalità.
Si sottrae felicemente a questo andazzo il bel saggio di Michele Ciliberto, La democrazia dispotica (Laterza, pagg. 224, euro 18,00) da oggi in libreria: un excursus corroborante lungo duecento anni di metamorfosi e degenerazioni dei sistemi democratici, dal potere carismatico alle derive plebiscitarie, rilette attraverso i classici del pensiero politico - Tocqueville appunto, ma anche Marx, Croce, Burckhardt, Max Weber. Un ottimo navigatore per non perdersi negli acquitrini del populismo mediatico e trovare al più presto un’uscita di emergenza. Dopo aver premesso che “le patologie della democrazia non cominciano ovviamente con il berlusconismo”, Ciliberto invita a diffidare dei paralleli storici: “Nei classici ci sono osservazioni che contribuiscono a illuminare il nostro presente, ma esse sono valide... da un punto di vista ‘morfologico’, non sul piano strettamente ‘empirico’. Così il “dispotismo dolce” di Tocqueville , il modello weberiano del “leader carismatico” o la “democrazia dell’illibertà” di Marx non sono applicabili meccanicamente al satrapo di Arcore: un’anomalia postmoderna tutta italiana, che nessun pensatore moderno, per quanto geniale e lungimirante, avrebbe potuto presagire.
Secondo Ciliberto, 65 anni, cattedra di Storia della filosofia alla Normale di Pisa, l’uso privatistico dello Stato da parte del Cavaliere si muove nel solco del dispotismo classico: sostituzione dell’arbitrio alla legge, utilizzo dei “valvassori” in Parlamento per varare una sfilza di provvedimenti ad personam (ben trentasette), gestione proprietaria del partito e delle candidature, specialmente femminili. Nel suo caso, però, tutto questo “si esprime in uno stile di vita e in modelli antropologici che hanno intorpidito - e penetrato - la società italiana in modo così profondo da non provocare più proteste o critiche in una larga parte della popolazione”. Ecco dove sta l’originalità di Berlusconi: nell’aver trasformato ”in una sorta di senso comune diffuso l’uso in chiave personale e privatistica della legge”. Una novità dirompente, che rende il suo dispotismo inedito e pressoché unico nel panorama mondiale.
A sostenerlo sono stati i processi di trasformazione avvenuti nelle viscere del paese: “In questi ultimi vent’anni - denuncia il filosofo della Normale - l’Italia si è ripiegata, chiudendosi in se stessa, dando sfogo agli istinti peggiori sia verso l’esterno che all’interno”. I fatti li conosciamo bene: blocco della mobilità sociale a scapito delle giovani generazioni, retorica del “cambiamento” e del nuovo (vedi riforma Gelmini e della giustizia) a cui fa riscontro la completa paralisi dell’economia, e poi ancora acuirsi delle diseguaglianze, livellamento verso il basso dei redditi popolari, affermazione di un potere centrale di tipo personalistico che si impone “come l’unico luogo in cui la comunità nazionale possa identificarsi”, dequalificazione della classe politica e parlamentare (“la peggiore senza alcun dubbio della storia repubblicana”). E, ciò che è più grave, “una crisi strutturale del principio del ‘pubblico’ - come valore comune, condiviso quale principio di democrazia e di eguaglianza tra i cittadini - dalla quale sono state potenziate nuove forme di razzismo”.
È un clima che ricorda per tanti aspetti quello descritto da Tocqueville nella Democrazia in America: la società basata sull’eguaglianza “senza legami comuni” genera un “indebolimento antropologico... spingendo l’uomo a concentrarsi solo su se stesso e sul suo benessere personale”, il che “fa dell’indifferenza una specie di virtù pubblica”. Una collettività passiva, apatica, che è libera solo nell’attimo in cui votando sceglie il proprio padrone, e per tornare serva subito dopo. Ma almeno su un punto il nuovo dispotismo si distingue nettamente dal vecchio: che non parla alle classi, ai movimenti collettivi , ai partiti o ai sindacati, ma agli individui. Individui isolati, chiusi nel loro particolare “e pronti, nella crisi, a dislocarsi, sul piano politico, a destra o a sinistra, a seconda delle loro convenienze”. È di questo “volgo disperso” che il Cavaliere ha saputo abilmente intercettare gli umori, restando in sella per quasi vent’anni. Chi e come riuscirà a disarcionarlo?
PIÙ CHE NELLE diagnosi, il vecchio dottor Tocqueville può esserci d’aiuto per le terapie. Di fronte alla palude del dispotismo “dolce”, il visconte francese era arrivato a rimpiangere i momenti rivoluzionari, che sono comunque un indice di vitalità sociale.
Ma senza arrivare a tanto (dietro ogni rivoluzione si profila l’ombra della ghigliottina, e il Novecento coi suoi massacri ci dovrebbe essere servito di lezione), invoca la necessità di “contrafforti” che limitino il potere. L’associazionismo, la partecipazione politica, e perché no anche il conflitto. Tutti modi per ricostituire vincoli spezzati e salvaguardare la libertà. Gli scudi di gommapiuma branditi dagli studenti (con sopra le copertine dei libri) sono un valido contrafforte rispetto al dispotismo che svilisce la cultura.
È il contrasto tra élite vecchie e nuove, insegnava Piero Gobetti, il vero sale della democrazia liberale. Il consenso passivo, il tanto sbandierato “verdetto popolare” può diventare la sua tomba.
LA CUCINA BERLUSCONIANA E LE RANE IN PENTOLA
LA TEOLOGIA POLITICA DELLA "SOVRANITA’ PRIVATA" DELL’IMPRENDITORE E LA COSTITUZIONE.
Fiat/Democrazia. Un’associazione a sostegno della Fiom
di: Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti *
La prima ragione della nostra indignazione nasce dall’assenza, nella lotta politica italiana, di un interesse sui diritti democratici dei lavoratori e delle lavoratrici. Così come nei meccanismi elettorali i cittadini sono stati privati del diritto di scegliere chi eleggere, allo stesso modo ma assai più gravemente ancora un lavoratore e una lavoratrice non hanno il diritto di decidere, con il proprio voto su opzioni diverse, di accordi sindacali che decidono del loro reddito, delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti nel luogo di lavoro. Pensiamo ad accordi che non mettano in discussione diritti indisponibili. Parliamo, nel caso degli accordi sindacali, di un diritto individuale esercitato in forme collettive. Un diritto della persona che lavora che non può essere sostituito dalle dinamiche dentro e tra le organizzazioni sindacali e datoriali, pur necessarie e indispensabili. Di tutto ciò c’è una flebile traccia nella discussione politica; noi riteniamo che questa debba essere una delle discriminanti che strutturano le scelte di campo nell’impegno politico e civile. La crescente importanza nella vita di ogni cittadino delle scelte operate nel campo economico dovrebbe portare a un rafforzamento dei meccanismi di controllo pubblico e di bilanciamento del potere economico; senza tali meccanismi, infatti, è più elevata la probabilità, come stiamo sperimentando, di patire pesanti conseguenze individuali e collettive.
La seconda ragione della nostra indignazione, quindi, è lo sforzo continuo di larga parte della politica italiana di ridimensionare la piena libertà di esercizio del conflitto sociale. Le società democratiche considerano il conflitto sociale, sia quello tra capitale e lavoro sia i movimenti della società civile su questioni riguardanti i beni comuni e il pubblico interesse, come l’essenza stessa del loro carattere democratico. Solo attraverso un pieno dispiegarsi, nell’ambito dei diritti costituzionali, di tali conflitti si controbilanciano i potentati economici, si alimenta la discussione pubblica, si controlla l’esercizio del potere politico. Non vi può essere, in una società democratica, un interesse di parte, quello delle imprese, superiore a ogni altro interesse e a ogni altra ragione: i diritti, quindi, sia quelli individuali sia quelli collettivi, non possono essere subordinati all’interesse della singola impresa o del sistema delle imprese o ai superiori interessi dello Stato. La presunta superiore razionalità delle scelte puramente economiche e delle tecniche manageriali è evaporata nella grande crisi.
L’idea, cara al governo, assieme a Confindustria e Fiat, di una società basata sulla sostituzione del conflitto sociale con l’attribuzione a un sistema corporativo di bilanciamenti tra le organizzazioni sindacali e imprenditoriali, sotto l’egida governativa, del potere di prendere, solo in forme consensuali, ogni decisione rilevante sui temi del lavoro, comprese le attuali prestazioni dello stato sociale, è di per sé un incubo autoritario.
Siamo stupefatti, ancor prima che indignati, dal fatto che su tali scenari, concretizzatisi in decisioni concrete già prese o in corso di realizzazione attraverso leggi e accordi sindacali, non si eserciti, con rilevanti eccezioni quali la manifestazione del 16 ottobre, una assunzione di responsabilità che coinvolga il numero più alto possibile di forze sociali, politiche e culturali per combattere, fermare e rovesciare questa deriva autoritaria.
Ci indigna infine la continua riduzione del lavoro, in tutte le sue forme, a una condizione che ne nega la possibilità di espressione e di realizzazione di sé.
La precarizzazione, l’individualizzazione del rapporto di lavoro, l’aziendalizzazione della regolazione sociale del lavoro in una nazione in cui la stragrande maggioranza lavora in imprese con meno di dieci dipendenti, lo smantellamento della legislazione di tutela dell’ambiente di lavoro, la crescente difficoltà, a seguito del cosiddetto "collegato lavoro" approvato dalle camere, a potere adire la giustizia ordinaria da parte del lavoratore sono i tasselli materiali di questo processo di spoliazione della dignità di chi lavora. Da ultimo si vuole sostituire allo Statuto dei diritti dei lavoratori uno statuto dei lavori; la trasformazione linguistica è di per sé auto esplicativa e a essa corrisponde il contenuto. Il passaggio dai portatori di diritti, i lavoratori che possono esigerli, ai luoghi, i lavori, delinea un processo di astrazione/alienazione dove viene meno l’affettività dei diritti stessi.
Come è possibile che di fronte alla distruzione sistematica di un secolo di conquiste di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all’altezza della sfida?
Bisogna ridare centralità politica al lavoro. Riportare il lavoro, il mondo del lavoro, al centro dell’agenda politica: nell’azione di governo, nei programmi dei partiti, nella battaglia delle idee. Questa è oggi la via maestra per la rigenerazione della politica stessa e per un progetto di liberazione della vita pubblica dalle derive, dalla decadenza, dalla volgarizzazione e dall’autoreferenzialità che attualmente gravemente la segnano. La dignità della persona che lavora diventi la stella polare di orientamento per ogni decisione individuale e collettiva.
Per queste ragioni abbiamo deciso di costituire un’associazione che si propone di suscitare nella società, nella politica, nella cultura, una riflessione e un’azione adeguata con l’intento di sostenere tutte le forze che sappiano muoversi con coerenza su questo terreno.
* Fausto Bertinotti, Sergio Cofferati, Gianni Ferrara, Luciano Gallino, Francesco Garibaldo, Paolo Nerozzi, Stefano Rodotà, Rossana Rossanda, Aldo Tortorella, Mario Tronti
* il l manifesto, 29.12.2010
DOPO GIOVANNI PAOLO II, A GUIDA DELLA CHIESA UN PAPA SENZA AMORE ("CHARITAS") E SENZA VERITA’.
Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, tutta la gerarchia non ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
VERSO LA VERITA’ E LA LIBERTA’, IL CAMMINO COERENTE E INATTACCABILE DI PAPA GIOVANNI PAOLO II.
La resa delle spie: Wojtyla non ricattabile
Nel terzo volume della collana dedicata agli «indomiti» che hanno resistito al regime comunista, lo scrittore Marek Lasota pubblica i rapporti degli apparati di sicurezza dedicati al futuro Giovanni Paolo II. Il volume non è stato tradotto in italiano, ma Nuova Europa, la rivista di cultura edita dalla Casa di Matriona, traduce una parte di questi dispacci. Le spie cercano nella vita di Wojtyla un’ombra, che non c’è. Questa condizione di non ricattabilità costituirà un’imprevista garanzia al conclave del 1978, quando Wojtyla venne eletto Papa.
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 29.12.2010)
L’identità, insegna Zygmunt Bauman, diventa importante quando crolla la comunità; e per analogia si potrebbe dire che il passato prossimo diventa importante quando crolla la storia. Quando si perde il senso che perfino le più impulsive individualità sentono il peso gravitazionale del lungo periodo, arriva il tempo dei Wikileaks: l’idea cioè che in qualche segreto spesso banaluccio di ieri l’altro ci sia qualcosa che può davvero costituire un «sapere» e dunque una minaccia rivolta contro i poteri costituiti. In realtà, come ormai si vede, quelli rubati da Assange sono modesti pettegolezzi, tracce di ovvietà e la riprova di quanto la Bibbia diceva nel suo principio, e cioè che l’uomo è fatto di fango, e spesso se lo ricorda.
Eppure il tornado mediatico dei milioni di documenti due effetti li ha avuti. Ha fatto dimenticare che la diplomazia americana, dopo lo scandalo Watergate, vive, pensa e scrive all’ombra del Freedom of Information Act. Quella legge infatti apre tutte le carte dell’amministrazione Usa - salvo i dati sugli informatori o sulla sicurezza nazionale - a chi ne faccia richiesta: e dunque dagli anni Settanta in poi ogni diplomatico statunitense sa che ciò che ha scritto sarà consultabile presumibilmente prima della fine della sua vita e dunque si limita volentieri a sintetizzare i «si dice» e i «mi dicono» in vista di una politica fatta di linee di condotta esplicite e note.In secondo luogo ha messo oggettivamente in sordina cose infinitamente più importanti e retropensieri politici meno recenti, ma per questo dalla portata infinitamente superiore a quelli del presente.
Un caso abbastanza clamoroso è dato dal libro Ku prawdzie i wolnosci. Komunistyczna bezpieka wobec kard. Karola Wojtyly, apparso a Cracovia nel 2009: il titolo in italiano suona Verso la verità e la libertà. Gli organi di sicurezza comunisti e il cardinale Karol Wojtyla. In questo terzo volume della collana dedicata agli «indomiti» che hanno resistito al regime comunista, vengono pubblicati, a cura di Marek Lasota, i rapporti degli apparati di sicurezza dedicati al futuro Giovanni Paolo II.
Un materiale di raro pregio che, come altri, fornisce uno spaccato senza precedenti della vita di un uomo che sarà il Papa di Roma e che se partecipa non a uno, ma a due conclavi nel 1978, è perché le sue potenzialità individuali ed «elettorali» sono sfuggite a un sistema repressivo che si voleva perfetto nella sua durezza.
Il volume non è stato tradotto in italiano: ed è normale in un Paese nel quale il Papa è rimasto italiano anche dopo il 1978, almeno come oggetto di conversazione. Si parla del Papa, si comprende il Papa, si esalta il Papa sempre e solo quando questo non costa la fatica di superare barriere a volte consistenti come quelle della lingua e di ciò che essa implica.
È perciò un bel servizio quello reso da Angelo Bonaguro nell’ultimo numero della «Nuova Europa» , la rivista di cultura edita dalla Casa di Matriona, che traduce una piccola parte di questi dispacci, sui quali sono venuti alcuni giornali. - a caccia delle talpe e dei segreti: che sono meno importanti dell’insieme del processo storico che Lasota descrive.
Infatti Wojtyla era entrato nell’orizzonte dei servizi di polizia già nel 1946, per aver preso parte alle celebrazioni studentesche della Costituzione polacca del 1791. La polizia comunista lo attenziona fin dai suoi primi passi pastorali, quelli che segnano più di ogni altra cosa la vita di un prete: il servizio pastorale nel paesino di Niegowic, la parrocchia di san Florian a Cracovia, l’incontro con Turowicz e il suo settimanale.
Da qui inizia l’attento monitoraggio degli informatori dei servizi: «Bialy» , un attore; «Staniszwieski» , forse don Kulczycki; il benedettino che si nasconde dietro i nomi di «Franek» o «Marek» ; don Krzywanek, detto «Parys» ; lo stupidissimo don Satora, detto «Marecki» , che gli vive accanto. Figuri che egli con ogni probabilità conosce per ciò che sono, che vengono spessoirretiti dalla promessa che le informazioni «aiuteranno» la Chiesa, con il gioco del poliziotto buono/ poliziotto cattivo, e che lo aiutano, in fondo, a tenere quella linearità che sarà la sua forza.
Le spie lo descrivono come un uomo «facilmente infiammabile» , che porta una «talare dimessa e logora», che conquista la fiducia dei giovani in confessionale. Registrano il modo in cui descrive le «tendenze» conservatrici e «più rispondenti alla mentalità contemporanea» in Concilio. Cercano di trovare senza successo resistenze dentro la diocesi di cui diventa amministratore prima e vescovo poi.
E fanno i primi errori: come quello di suggerire di trasmettere la sua messa in tv per ridurre la presenza dei fedeli; o quello di cercare di usare i suoi rapporti col mondo accademico e scientifico per metterlo in cattiva luce presso i preti in cura d’anime; o quello più tragico di tutti, per il regime: cercare nella sua vita un’ombra, che non c’è.
Proprio questa condizione di irricattabilità, certificata dal Partito comunista polacco e dalla fitta rete di spionaggio malevolo o imbecille che circonda Wojtyla, costituirà una imprevista garanzia al conclave dell’ottobre 1978 e fornirà allo stesso Wojtyla la certezza di potersi muovere sapendo che ciò che di segreto si sarebbe potuto dire su di lui ne avrebbe solo rafforzato il prestigio umano e cristiano: fosse esso venuto da un confidente pentito o da un ladruncolo di file, era lo stesso.
La Chiesa di Esaù
di Piero Stefani
in “Il pensiero della settimana” n. 319 (http://pierostefani.myblog.it)
Tra i vari riti popolar-pagani che contraddistinguono le feste vi è, da molte parti d’Italia, quello di mangiar lenticchie. Specie a Capodanno, esse simboleggiano la fortuna e, in particolar modo, il denaro. «Per un piatto di lenticchie» è, però, anche espressione proverbiale di antica ascendenza biblica. Essa indica l’improvvido baratto compiuto da Esaù, il quale, per conseguire un beneficio immediato, svende la grande eredità (primogenitura) di cui avrebbe potuto beneficiare in futuro (cfr. Gen 25,29-34). Le due accezioni si uniscono quando, per un vantaggio monetario di breve respiro, si compromette il proprio avvenire. È quanto stanno compiendo i vertici della CEI. Lo evidenzia in modo palese l’atteggiamento da essi assunto nel corso dell’attuale crisi politica. Sulla falsariga di quanto avviene con i deputati, anche l’appoggio ecclesiale è, infatti, sostenuto da precisi flussi finanziari.
Una esemplificazione, tra le altre, è data dalla vicenda dell’8 per mille. Non solo la CEI beneficia della quota indicata in modo esplicito dai contribuenti - percentuale alimentata da una martellante e profanissima campagna pubblicitaria - non solo lucra in proporzione predominante la quota dell’8 per mille derivata dalla ridistribuzione della parte di gettito proveniente dai contribuenti che non hanno espresso alcuna destinazione specifica, ma, in virtù di recenti decisioni governative, riceve parti crescenti dell’8 per mille statale. Queste ultime sono erogate, oltre che in funzione di restauro di chiese di interesse storico-artistico (atto giustificabile), anche a beneficio di diocesi e oratori. Pensandosi come ditta, è inevitabile che i vertici CEI trovino affinità elettive con l’attuale capo del governo, la cui vita è posta, da sempre, sotto il segno della lenticchia.
Qualcuno potrebbe trovare qualunquistico il discorso, senza dubbio non di alto profilo, fin qui condotto. Qualche fedele potrebbe, in buona fede, tirare in ballo anche i valori e la loro difesa. Per elevare il pensiero e portarlo su un piano non semplicemente economico, diamo la parola a un prete (e teologo), non più giovane, Severino Dianich, il quale attesta come dentro l’attuale Chiesa cattolica italiana ci possa essere, tuttora, qualche anfratto per altri discorsi e altri stili di vita. «A scorrere i documenti [conciliari] si nota la preoccupazione dei padri di evitare tutte quelle controversie che, indipendentemente dal buon diritto che la Chiesa avrebbe di sollevarle, possono impedire di fatto alle persone di cogliere il suo vero interesse, che è solo quello di poter compiere la sua missione al servizio della fede e del bene comune: essi impegnano, quindi, la Chiesa a rinunziare “all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre disposizioni” (Gaudium et spes, 76).
Se negli ultimi decenni il dialogo con il mondo contemporaneo si è fortemente deteriorato, questo è avvenuto anche perché troppo spesso le indicazioni del Concilio non sono state ascoltate e praticate. Così, di fronte all’abbandono della fede di molti, ci si ritrova a essere meno ascoltati e più incapaci di interessare un colloquio che permetta l’invito a credere. Mentre il missionario, che svolge il suo ministero là dove la Chiesa non esiste ancora o non ha ancora un impianto istituzionale così imponente da condizionare la vita sociale e politica del paese, può parlare ‘cuore a cuore’, nei nostri paesi questo è molto più difficile. Il non credente dei paesi di antica tradizione cristiana, per aprirsi all’ascolto del messaggio evangelico, deve superare i sospetti che gli vengono dalla storia sulla natura della Chiesa, vecchie avversioni e avversioni nuove, provocate dalle sue prese di posizione su problematiche, oggi molto sentite, dalla quale egli ricava l’idea che essa intenda tornare a imporsi sulla società, minandone la struttura laica e l’assetto democratico» (S. Dianich, Chiesa che fare? in Regno-att., 20,2010, pp. 719-720).
Quanto don Severino non dice è che c’è pure un rovescio della medaglia. È stato, infatti, proprio questo tipo di opzione a suscitare il fenomeno inedito (e antievangelico) degli «atei devoti», esitocoerente di una Chiesa impegnata a cercar di prospettare una illusoria tenuta valoriale (assai più concentrata sul sorgere della vita e sul suo tramonto che su tutto quanto vi sta in mezzo) senza attestare quanto è proprio della fede. La dirigenza della Chiesa (questa volta non solo della CEI) ha spesso ritenuto costoro come fiancheggiatori affidabili (basti ricordare i poco lungimiranti rapporti avuti da Ratzinger, anche da papa, con l’ormai dimenticatissimo Marcello Pera e gli inviti che un certo mondo cattolico continua a rivolgere a Giuliano Ferrara); mentre non ha dato ascolto o ha addirittura imbavagliato voci che, in nome della fede, la richiamavano al vangelo della misericordia e della consolazione.
Delle due accezioni di lenticchie evocate in apertura, la più grave non è quella dei soldi, ma l’altra, quella dello sperpero di un’eredità inestimabile. Il nostro è il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma la nostra Chiesa appare sempre di più quella di Esaù. Il paradosso è che è divenuta tale proprio mentre dichiara di voler conservare e difendere i preziosi valori del passato.
Piero Stefani
SANTA ALLEANZA E "14 DICEMBRE 2010 (prima della nascita di Cristo)". AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est") E AL GOVERNO DELL’ **ITALIA** UN PRESIDENTE DI UN PARTITO (che si camuffa da "Presidente della Repubblica"), che canta "Forza Italia" con il suo "Popolo della libertà" (1994-2010). NEL NOME DI DIO "MAMMONA" (DEL "DEUS CARITAS"), IL "PAPA" E L’"IMPERATORE" SI PUNTELLANO A VICENDA: "FORZA ITALIA"! Un resoconto di Giacomo Galeazzi e uno di Marco Politi
di Bruno Forte (Il Sole-24 Ore, 24.12.2010)
Amo pensare al Natale come alla festa della giovinezza di Dio: se, come diceva Tagore, «ogni bimbo che nasce è un segno che Dio non è stanco degli uomini», l’annuncio della nascita di quel bambino è da duemila anni la "buona novella" di un nuovo inizio possibile, al di là di tutte le nostre stanchezze e di ogni nostra rinuncia a sperare e ad amare. Perciò, Natale sfida tutti a sognare, mescolando i sogni degli uomini al grande sogno di Dio.
Dovunque un nuovo inizio appare necessario e urgente, lì la nascita indicata dalla stella cometa sulla grotta di Bet-lehem accende il sogno che vorrebbe tirare nel presente degli uomini il domani divino.
Fu il sogno di Martin Luther King in quel fatidico 28 agosto 1963: «I have a dream...». È un sogno che parla specialmente ai giovani d’oggi, a quelli che come fiume sono scesi nelle piazze per gridare la protesta e per i quali le parole di quel grande sognatore risuonano più che mai vere, attuali: «Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi preferisce alla forza fisica la forza dell’anima».
Il sogno che vorrei condividere in questo Natale non è fuga dalla realtà o presunzione di realizzare l’impossibile: è, invece, sfida a volare alto, a vedere l’invisibile e ad amare con l’amore che c’invita a fare della nostra vita la realizzazione di un progetto più grande, fino a spenderla - nel modo più giusto e più bello che ci sia dato - al servizio di tutti. Un profeta dei nostri giorni, Helder Camara, il "vescovo dei poveri", amava ripetere: «Beati quelli che sognano: trasmetteranno speranza a molti cuori e correranno il dolce rischio di vedere il loro sogno realizzato». E un grande protagonista del Concilio Vaticano II, Leo Joseph Suenens, affermava: «Beati quelli che sognano e sono pronti a pagare il prezzo più alto perché il loro sogno prenda corpo nella vita degli uomini».
Qual è dunque il mio sogno di uomo, di cittadino, di credente, per ognuno di noi e per il nostro popolo? È quello di un’Italia concorde, di un paese in cui ci si voglia bene, dove si ami il bene comune al di sopra del proprio interesse, privilegiando al piccolo cabotaggio dei calcoli individuali o di parte, le grandi rotte della crescita comune, della promozione dei più deboli, del rispetto della dignità di tutto l’uomo in ogni uomo, della tutela della vita in ogni sua fase e della pace in ogni contesto. È il sogno di una comunità civile e politica in cui i diritti dei poveri e i problemi reali della gente abbiano il primo posto nell’agenda dei grandi.
Sogno persone che sappiano farsi avanti per servire e altre che sappiano mettersi da parte per creare condizioni di dialogo e di consenso plausibili per tutti. Sogno un’Italia protagonista in Europa e nel consesso delle nazioni di una politica a favore dei popoli più deboli e svantaggiati, fieramente impegnata a ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. Sogno una cultura di vita e non di morte, capace di condividere e trasmettere a tutti ragioni per vivere e sperare, unanime nel rifiutare ogni logica di sopraffazione e ogni tentazione di violenza. Mi pare di perdermi in questo sogno di luce: ma è Natale, ed è giusto sognare così, se perfino l’Altissimo ha saputo imbarcarsi in un’avventura impensabile per la saggezza del mondo, motivata unicamente dal suo amore per gli uomini. E le parole di Martin Luther King, che costarono a lui la vita, ma diedero ai calpestati e oppressi un nuovo domani, sembrano confermarlo con la forza della testimonianza feconda, pagata di persona fino in fondo e senza rimpianti: «Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, le alture più aspre saranno appianate e i luoghi tortuosi raddrizzati, e apparirà la gloria del Signore e tutti gli esseri viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza... Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagnadella disperazione una pietra di speranza. Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza».
È il sogno e l’augurio di questo Natale, nella coincidenza dei primi centocinquant’anni della nostra Italia unita, meritevole di un impegno e di un amore da parte di tutti, che sia più forte di ogni retorica e più grande di ogni particolarismo egoistico e di ogni interesse settario.
Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto
La Chiesa non deve tacere
di Angelo Bertani (Europa, 26 novembre 2010)
Se oggi siamo a questo punto è perché in passato non sono ascoltate le voci libere che invitavano a raddrizzare la schiena. Già il 6 dicembre 1995 il cardinale Martini afferma che «la Chiesa non deve tacere perché [in Italia] è in gioco la sopravvivenza dell’ethos politico. Non è la Chiesa come tale a essere in pericolo; è la natura stessa della politica e quindi della democrazia».
Nell’ottobre 2003 Franco Monaco scrive una lettera aperta (Jesus, ottobre 2003): «Cari Vescovi, perché tanto silenzio sull’Italia?» E segnala i punti di sofferenza tra i quali il principio. Il mese dopo Jesus torna sul tema con un dossier: “Emergenza Democrazia. Padre, perché non parli? I silenzi della Chiesa sulle piaghe della nostra democrazia”. M.C. Bartolomei, Melloni, Bettazzi, Antiseri, Bregantini, Giuntella, Canobbio scongiurano la Chiesa italiana di non restare in silenzio. Nel marzo 2004 padre Sorge (Aggiornamenti sociali, marzo 2004) scrive un editoriale coraggioso (www.gesuiti.it/ag_ sociali): «Non c’è dubbio che alla base della Chiesa italiana vi sia un certo malessere per il silenzio dei vescovi sulla grave situazione del paese ».
Tra i vescovi coraggiosi c’è Tommaso Valentinetti. Nel 2006 Bondi aveva inondato le parrocchie con un opuscolo di Forza Italia sui: «Cinque anni di governo Berlusconi letti alla luce della dottrina sociale della Chiesa ». Il vescovo risponde: «Non possiamo tacere lo sconcerto e lo stupore per questa pubblicazione. ... Non possiamo accettare che alcun partito si presenti come garante della dottrina sociale della Chiesa... Non si tenti di comprarci. Rispettate la nostra libertà di coscienza». E Pax Christi aggiunge: «Ci indigna l’arroganza, la mancanza di pudore, la presunzione nel presentarsi come interpreti fedeli del magistero...».
La nostalgia non serve: «Non c’è alcuna cara vecchia Italia da conservare, da recuperare, alla quale tornare » (Europa,17 novembre ). Ma neanche il presente è incoraggiante, ma ci sono segni nuovi e importanti: Bagnasco ammonisce che «non c’è una buona politica senza un vivere retto». E anche Ruini auspica che i cattolici siano uniti «non in un solo partito, ma intorno a valori come la difesa della vita, aiuto ai più bisognosi, sostegno alla famiglia, libertà religiosa e... stili di vita moralmente ineccepibili » (Repubblica, 20 nov.).
Famiglia Cristiana (21 nov.) riassume: «I cristiani non hanno la pretesa di essere, essi soli, i salvatori della patria; ma sono consapevoli che l’Italia non potrà uscire dalla difficile situazione in cui si trova senza l’apporto dei cattolici». Ripartiamo da qui.
Da Porta Pia ai nuovi banchieri di Dio
Le vie dello Ior sono infinite
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 21.09.2010)
Lo Ior ritorna di attualità, e non a caso. Leggiamo la notizia battuta ieri dall’Ansa: «Ettore Gotti Tedeschi, presidente dell’Istituto Opere di Religione del Vaticano e un altro importante dirigente della stessa banca vaticana, sono indagati dalla Procura della Repubblica di Roma per violazione del decreto legislativo 231 del 2007 che è la normativa di attuazione della direttiva dell’Unione Europea sulla prevenzione del riciclaggio». È stato inoltre eseguito il sequestro preventivo di 23 milioni di euro (su 28 complessivi) dell’Istituto che si trovavano su un conto corrente aperto su un conto corrente aperto presso la sede romana del Credito Artigiano spa. Il sequestro, precisa la Procura di Roma, non è stato disposto perché esiste una prova di riciclaggio ma perché, secondo gli inquirenti, è stato già commesso il reato omissivo della norma antiriciclaggio.
Fin qui la cronaca. Ma se si va oltre si scopre subito che da due anni sono in corso accertamenti su una decina di istituti di credito che sono in rapporto con lo Ior e che scambiano operazioni tra loro e con l’Istituto di Religione Vaticano per centinaia di milioni di euro. E si apprende anche che controlli finanziari compiuti dalla Guardia di Finanza in questi ultimi anni si sono trovati di fronte alla difficoltà di identificare i beneficiari degli scambi o di verificare che quando la magistratura ha chiesto nomi e cognomi, ha verificato che quelli forniti non hanno retto alla verifica tanto da suscitare il sospetto che fossero fittizi e non corrispondenti alla realtà.
Ora, per chi ricorda i casi clamorosi che hanno portato alla luce della scena pubblica l’Istituto vaticano e hanno rivelato i rapporti che c’erano stati negli anni Ottanta con Michele Sindona, Roberto Calvi e con la P2 e che si erano conclusi con la messa fuori legge della loggia di Licio Gelli e l’inchiesta parlamentare voluta dal governo Spadolini terminata con relazioni di maggioranza e di minoranza, diverse tra loro ma tutte persuase dell’illiceità delle operazioni condotte dai “banchieri di Dio”, si guarda con un certo timore a quello che sta emergendo dalla nuova inchiesta giudiziaria.
Tutto questo avviene dopo la grottesca cerimonia di domenica per i 140 anni della breccia di Porta Pia che ha visto protagonista il cardinal Bertone, segretario di Stato vaticano e grande amico del presidente dello Ior Gotti Tedeschi. Una cerimonia grottesca perché, in nome di una ennesima riconciliazione tra lo Stato e la Chiesa, si è dimenticato il significato storico della conquista di Roma da parte dello Stato liberale per farne la capitale proprio in opposizione a quel potere temporale dei Papi che sembra proprio ora essere risorto nell’Italia governata da Silvio Berlusconi e dal suo populismo autoritario.
"Nessuna ombra sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale di cui è parte integrante Roma Capitale" *
"E’ mio doveroso impegno ed assillo che non vengano ombre da nessuna parte sul patrimonio vitale e indivisibile dell’unità nazionale, di cui è parte integrante il ruolo di Roma capitale". Lo ha affermato il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della cerimonia di conferimento della cittadinanza onoraria di Roma Capitale al Campidoglio.
"Un ruolo - ha aggiunto il Presidente - che non può essere negato, contestato o sfilacciato nella prospettiva che si è aperta e sta prendendo corpo di un’evoluzione più marcatamente autonomista e federalista dello Stato italiano".
"Questa - ha proseguito il Capo dello Stato -, con il netto riconoscimento contenuto nel riformato Titolo Quinto della Carta e con la conseguente norma di legge del 2009, chiama piuttosto voi che rappresentate e amministrate Roma a un nuovo impegno ordinamentale, d’intesa con la Regione e la Provincia, e ad una nuova prova di efficienza e modernità nell’esercizio di funzioni ben più ricche che nel passato. Portarvi all’altezza di questa prova è ciò che conta e che vi stimola, non l’invocare formalmente il rango di Roma capitale".
Il Presidente Napolitano nel suo intervento ha anche elogiato Roma e la sua capacità di accoglienza: "Mai - ha detto - mi sono sentito a disagio, pur senza dissimulare la profondità delle radici e degli affetti che mi legavano e mi legano a Napoli: ed è forse propria dei napoletani l’attitudine a integrarsi, anche in luoghi ben più lontani, così come propria di Roma, e straordinaria, è la capacità inclusiva, l’attitudine ad aprirsi, ad accogliere altri, ad abbracciare, innanzitutto, ogni italiano".
Le celebrazioni per i 140 anni di Roma Capitale erano iniziate questa mattina con la deposizione di una corona di alloro da parte del Presidente della Repubblica al Monumento dei caduti di Porta Pia alla presenza del Segretario di Stato di Sua Santità, Cardinale Tarcisio Bertone, del Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, del Sindaco di Roma, Gianni Alemanno, del Presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, del Presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, del sottosegretario Gianni Letta, e delle autorità di governo.
* SITO: PRESIDENZA DELLA REPUBBLICA
ANNIVERSARIO
Napolitano celebra 140 anni di Porta Pia
Bertone: "Roma capitale è verità indiscussa"
Per la prima volta presente alla commemorazione anche il cardinale di Stato
"Oggi c’è una ritrovata concordia tra le comunità civili e quelle ecclesiastiche"
ROMA - ’’La nostra presenza a questo avvenimento rappresenta un riconoscimento dell’indiscussa verità di Roma capitale d’Italia anche come sede del successore di Pietro’’. Il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato Vaticano, per la prima volta presente alle celebrazioni per i 140 anni di Roma Capitale, così ha parlato poco prima dell’inizio della commemorazione. Nel suo breve intervento pronunciato davanti alla Breccia di Porta Pia il porporato ha detto: "Gran Dio benedica l’Italia: benedici oggi e sempre questa nazione, assisti e illumina i suo governanti affinché operino instancabilmente per il bene comune", ha sottolineato ricordando una preghiera di Pio IX, invocando la protezione su "questa citta, questa nazione e il mondo intero". Bertone ha poi chiesto che il Papa "possa continuare a svolgere in piena libertà la sua missione universale".
Alla commemorazione di Porta Pia hanno partecipato, oltre al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che ha deposto una corona al monumento dei caduti, il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, il presidente della Provincia di Roma, Nicola Zingaretti, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta e le più alte cariche delle forze dell’ordine. La fanfara dei bersaglieri ha intonato il ’Silenzio’. Il corteo presidenziale si è poi spostato al museo storico dei bersaglieri di Porta Pia. "Sono contento", ha dichiarato il presidente della Repubblica al termine della cerimonia.
La presenza del cardinale Bertone alla cerimonia è anche "un atto di omaggio verso coloro che qui caddero", ha detto il segretario di Stato Vaticano e ha aggiunto: "Dal sacrificio di quegli uomini e dal crogiuolo di tribolazioni nacque Roma indiscussa capitale dello Stato italiano, il cui prestigio e la cui capacità di attrarre sono mirabilmente accresciuti dall’essere altresì il centro al quale guarda tutta la Chiesa cattolica; anzi tutta la famiglia dei popoli. Alla vigilia del 150mo anniversario dell’ Unità d’Italia possiamo ricordare che la comunità civile e quella ecclesiale desiderano cooperare per il bene del popolo italiano"
Porta Pia, festa grottesca
La commistione tra autorità civili e religiose assomiglia al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni ’30 e ’40, alleati con i loro nemici
di Nicola Tranfaglia (il Fatto, 21.09.2010)
Erano le cinque e un quarto del mattino quando il 20 settembre l’artiglieria italiana sparò i primi due colpi di cannone contro le mura di Roma all’altezza di Porta Maggiore e Porta Pia. La resa avvenne verso le undici del mattino dopo che Pio IX ha ordinato ai pontifici di presentare la bandiera bianca. I morti tra i bersaglieri sono 49, tra i pontifici 19. Pio IX, riuniti i diplomatici presso lo Stato Pontificio, definisce l’assalto “un attentato sacrilego” e dovranno passare altri cinquantanove anni prima che Mussolini e Pio XI firmino il Trattato del Laterano e i Patti annessi.
La pace tra Stato e Chiesa
DA QUEL MOMENTO regna, per così dire, la pace tra Stato e Chiesa ma la dittatura fascista lo ha fatto per avere la Chiesa dalla sua parte e non certo per realizzare la formula di Camillo Benso, conte di Cavour, che in anni lontani aveva detto: “Libera Chiesa in libero Stato.” E il Vaticano, a sua volta, ha ottenuto dallo Stato quel che non aveva mai avuto dalla classe dirigente liberale sul piano economico come su quello politico. Ed oggi, nel Ventunesimo secolo dopo che nel 1988 è stato rinnovato con qualche modifica il Concordato del 1929 e la Chiesa cattolica ha messo sull’attenti gran parte della classe politica, di governo e di opposizione, si può dire che la celebrazione del 1870 avviene nelle migliori condizioni possibili per la Santa Sede. Roma diventa Capitale con la legge appena approvata e il sindaco Alemanno che, da fascista che era è diventato un berlusconiano fervente, può celebrare oggi i centoquarant’anni della Breccia di Porta Pia non soltanto con il capo dello Stato ma anche con il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, come se la Chiesa fosse stata anch’essa dalla parte dell’Italia appena unificata piuttosto che contro a rispondere con le cannonate ai bersaglieri che premevano dal di fuori.
Ed è questo il centro della giornata di ieri e il significato che le autorità locali e centrali intendono fornire agli italiani, dimenticando quello che davvero l’arrivo dei bersaglieri aveva significato in quel mattino del 20 settembre 1870.
Non è un caso che oltre cinquanta tra associazioni, movimenti e forze politiche hanno deciso di festeggiare domenica la ricorrenza per non mischiarsi alle celebrazioni ufficiali. Ma se si guarda all’imponente serie di manifestazioni e di occasioni di visite e di mostre previste in questi giorni non si capisce davvero come Stato e Chiesa possano festeggiare insieme un avvenimento così limpido e chiaro.
L’Italia liberale del Risorgimento, dopo meno di dieci anni dall’unificazione nazionale, aveva deciso di scegliere Roma come sua Capitale e approfittando di un atteggiamento non negativo di due grandi potenze del tempo come la Francia e l’Inghilterra aveva mandato una spedizione ufficiale di soldati e di bersaglieri per entrare a Roma e far finire il Potere temporale dei Pontefici. E questo significato di fondo non si può rovesciare, celebrando la ricorrenza con la Santa Sede e con quel cardinale Bertone, segretario di Stato, che quando divenne vescovo di Genova si preoccupò immediatamente di chiudere gli archivi della diocesi per impedire che gli storici facessero luce sul ruolo del Vaticano nella fuga in Sudamerica dei criminali nazisti che si trovavano in Italia o che erano appena arrivati dalla Germania. Un amico mi ha detto, in questi giorni, che la commistione tra le autorità civili e religiose assomiglia al tentativo di far commemorare gli antifascisti da quelli che erano stati, negli anni Trenta e Quaranta, alleati con i loro nemici.
E si potrebbe dire ancora molto di peggio di fronte a questo spettacolo. A differenza dei francesi, noi non abbiamo nella nostra Costituzione all’inizio un articolo dedicato alla laicità dello Stato ma in vari punti del dettato costituzionale emerge con chiarezza il profilo laico della nostra democrazia parlamentare che riguarda i credenti come i non credenti e che dovrebbe spingere tutte le forze politiche, a cominciare da quelle di centrosinistra, a difendere il significato della Breccia di Porta Pia e la difesa della formula cavouriana. Nella cosiddetta “Prima Repubblica”, e soprattutto da parte di chi aveva partecipato ai lavori dell’Assemblea Costituente, anche tra cattolici come Aldo Moro era centrale la rivendicazione della laicità dello Stato come elemento fondamentale dell’attività politica e istituzionale.
Oggi, soprattutto dopo l’89 e la caduta delle grandi ideologie che avevano diviso il mondo negli anni della Guerra fredda, le classi dirigenti italiane e in particolare quelle più vicine e legate alla classe politica, sembrano aver perduto il senso delle distinzioni tra una sfera laica e una sfera religiosa. La destra berlusconiana, così priva di valori etici e politici, ha bisogno dell’appoggio del Vaticano e il papa attuale non ha avuto difficoltà fino a ieri ad appoggiarne l’azione di governo.
La sinistra e il Vaticano
QUANTO alla sinistra, la fine del comunismo ha favorito l’avvicinamento degli ex comunisti al Vaticano e ormai da anni essi si confondono con gli altri esponenti politici devoti alla Chiesa. Pochi di fatto - e noi dell’Italia dei Valori siamo tra questi - ritengono che, al di là della fede cattolica di ciascuno, che sia necessario sostenere con chiarezza una posizione che si riallacci a quella liberale e democratica dell’Ottocento ma anche del Novecento e del nuovo secolo: la parità di tutte le fedi religiose, la difesa della sfera politica dalle intromissioni della Chiesa e delle Chiese. E proprio questa incertezza della politica e il suo degrado evidente conducono alla situazione di oggi che è nello stesso tempo grottesca e paradossale: si vuol ricordare la Breccia di Porta Pia e lo si fa con il sindaco fascista berlusconiano e con il segretario di Stato del Vaticano.
LA LEGGE DELL’"UNO" E L’UNITA’ E LA SOVRA(-U)NITA’ DI OGNI CITTADINO E DI OGNI CITTADINA: LA LEZIONE (1933) DI SIGMUND FREUD
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino (...)
Federico La Sala
L’INIZIATIVA
A Teano per un’Unità d’Italia bis
"Il 26 ottobre firmiamo un patto"
Un incontro di tre giorni tra movimenti, sindaci e associazioni dell’altraeconomia. Per discutere di federalismo, green economy, pace e Meridione e convergere su un documento che "rivaluti il passato". Per smetterla con le bugie e ricomporre il pezzi del puzzle italiano siglando un accordo di unione tra il Nord e il Sud
di GIULIA CERINO *
ROMA - Sanare le ferite aperte, dal 1860 ad oggi, tra il Nord e il Sud dell’Italia si può. Il Belpaese è ancora in tempo per salvaguardare la propria unità ma dovrà individuare i punti "critici" e stilare un piano di lavoro frutto di un nuovo patto tra gli italiani, tra i cittadini, le associazioni e i Comuni. Per riunificare l’Italia, un’altra volta.
L’idea arriva dal professor Tonino Perna, economista e sociologo, che per il 26 ottobre 2010 ha organizzato tre giornate "celebrative" dell’Unità d’Italia durante le quali si discuterà di federalismo fiscale, green economy, diritti sociali e Meridione. Sposa l’iniziativa Don Ciotti, arrivano le adesioni di Paul Ginsborg e Marco Revelli. Il dibattito avrà luogo a Teano, la città dove, 150 anni fa, Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II si strinsero la mano legando indissolubilmente il Nord e il Sud del Paese. E come allora, il 26 ottobre di quest’anno verrà siglato un nuovo patto che dovrà, questa volta, essere condiviso dalla "base", dal "popolo" e da circa mille sindaci che, dal Nord e dal Sud del Paese, si riverseranno nella cittadina campana per dare l’idea di "un’unità che nasce non dall’incontro di due figure ’regnanti’ ma dalla volontà delle comunità locali", spiega Perna.
Una scommessa, questa, sorta da una preoccupazione: "Io e altri miei colleghi temiamo - spiega il professor Perna, che insegna all’Università di Messina - l’incubazione di uno sviluppo insostenibile. Nel 1994 scrissi un libro e l’ultimo capitolo trattava il tema dello sganciamento delle aree ricche da quelle povere. Avviene in molte zone del mondo: in Catalogna, in ex Jugoslavia e in Italia. La crisi economica ha rilanciato questa spinta alla secessione. Ecco perché - conclude - attraverso tre giornate di riflessione, attraverso la partecipazione dei rappresentanti degli enti locali, dei Comuni, dell’associazionismo e dei movimenti, tenteremo di rifondare l’unità del nostro Paese. Partendo, questa volta, da nuove questioni legate ai tempi moderni".
Il primo giorno. Verità, riconciliazione e memoria condivisa. Ecco le parole chiave inserite nel piano di lavoro stilato dal Professor Perna, da Don Ciotti, da Ugo Biffieri, presidente della Banca Etica, da Walter Bonan, il referente delle politiche della montagna FederparchI, da Giulio Marcon, uno dei più rappresentativi membri della cooperazione non governativa italiana e da tanti altri. Attraverso questi tre concetti, i migliori storici italiani e stranieri, Paul Ginsborg, Marco Revelli e Piero Bevilacqua, per citarne alcuni, ricostruiranno il puzzle della storia d’Italia e con i loro racconti, forniranno una versione plausibile di ciò che davvero accadde nel 1861. "Il programma che emergerà dovrà quindi essere utilizzato nelle scuole - spiega Perna. Perché abbiamo bisogno che negli istituti venga proposto agli studenti un racconto veritiero dell’Unità, frutto di una ricostruzione fattuale che vada al di là della mitologia di un Sud arcaico o, al contrario, saccheggiato del Nord". Basta forzature, quindi. Per ricucire i rapporti tra Nord e Sud è necessario fare i conti con lo scomodo passato del Paese senza il quale sarà impossibile raggiungere una "riconciliazione".
Il secondo giorno. Si aprirà all’insegna dello sviluppo sostenibile. I rappresentanti delle associazioni, delle banche, delle imprese e dell’altraeconomia tenteranno di rispondere ad alcune domande: "E’ ancora possibile stilare una piattaforma di cooperazione Sud-Nord fondata sul principio del commercio equo e solidale e della finanza etica?" Per il professor Perna e i suoi colleghi tutto questo si può fare. A patto che vengano individuati i settori produttivi di beni e servizi dove far crescere le nuove forme di mercato per mettere insieme valorizzazione dei produttori e bisogni dei consumatori. A questo servirà la seconda giornata a Teano.
Terzo giorno. Si farà festa. E per concludere l’incontro si combineranno, in un unico documento, i contenuti elaborati durante le tre giornate. Per celebrare la nuova Unità d’Italia che non si reggerà più su una mera dichiarazione di principi ma su un elenco di punti chiave che i firmatari si impegneranno a rispettare. Per costruire un’altra idea di Paese. Un esempio? "Prendiamo l’articolo 1 della Costituzione - suggerisce il professore. ’L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro’. Ora immaginiamo di poterlo così integrare: ’L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro dignitoso e minimo vitale per tutti i residenti’. Non sarebbe forse questo un concetto più adatto alle condizioni dei lavoratori attuali?".
Ecco, lo sforzo è tutto qui: consiste nell’ammettere che dal 1860 ad oggi l’Italia, nel bene e nel male, è cambiata. Così, per per rilanciare la cooperazione tra il Nord e il Sud del Paese, sfatando il rischio della rottura, il ricordo di Garibaldi e di Vittorio Emanuele II non basta più. Ma è necessaria la partecipazione dei cittadini e delle comunità locali. Per disegnare un’altra Italia possibile.
* la Repubblica, 06 maggio 2010
RELIGIONE E DEMOCRAZIA: SIGMUND FREUD E LA LEGGE DEL "PADRE NOSTRO". IL ‘LUPO’ HOBBESIANO, L’ ‘AGNELLO’ CATTOLICO, E “L’UOMO MOSE’ E LA RELIGIONE MONOTEISTA”. Indicazioni per una rilettura - di Federico La Sala________________________________________________________________________
La religione e la democrazia
di Paolo Flores D’Arcais (la Repubblica, 4 maggio 2010)
Joaquìn Navarro-Valls ha pubblicamente confessato il programma di "teocrazia debole" che la Chiesa gerarchica di Karol Wojtyla prima, e quella di Joseph Ratzinger oggi, stanno tenacemente perseguendo. Con esiti fin qui fallimentari nel mondo, ma di peculiare successo nella "eccezione" Italia. Non meraviglia perciò che l’articolo dell’ex portavoce di Giovanni Paolo II, ancora oggi autorevolissimo nell’esprimere umori e "desiderata" della Chiesa vaticana, prenda le mosse proprio dall’apologia del "caso italiano", osannato perché «è veramente considerevole il ruolo assunto dalla religione» nel dibattito (e soprattutto nella realtà del potere, ma su questo Navarro-Valls sorvola), per cui «l’enorme complessità e originalità di questo Paese» (cioè le macerie morali e materiali a cui l’ha ridotto il berlusconismo) «costituisce una ricchezza stimolante che altrove manca del tutto».
All’ex portavoce di Wojtyla l’Italia appare dunque il luogo provvidenziale in cui sperimentare l’obiettivo che il cattolicesimo gerarchico ha scelto come stella polare: «Una democrazia deve riconoscere il valore di verità, naturale e generale, della religiosità umana, considerandolo un diritto comune, indispensabile cioè per il bene di tutti». Papale papale.
Con questa logica, però, l’ateo, lo scettico, il miscredente, insomma il cittadino che non si riconosca in alcuna "religiosità umana", verrebbe irrimediabilmente colpito da ostracismo, e declassato a cittadino di serie B. Il suo ateismo, infatti, non solo non troverebbe posto in questo discriminatorio "diritto comune", ma verrebbe implicitamente tacciato di essere contrario al "bene di tutti".
Tanto perché non ci siano equivoci, infatti, Navarro-Valls aggiunge che «non è possibile, in effetti, escludere il valore politico e solidale della religione senza estromettere, al contempo, anche la giustizia dalle leggi dello Stato». E perché mai? Veramente Thomas Jefferson, eminente padre della democrazia americana - paese sempre citato come eden di libertà fondata su una religiosità onnipervasiva - , garantiva l’opposto: «Il manto della protezione [costituzionale] copre il giudeo e il gentile, il cristiano e il maomettano, l’indù e il miscredente di ogni genere» proprio perché la Costituzione «ha eretto un muro di separazione tra Chiesa e Stato».
Wojtyla e Ratzinger hanno invece sistematicamente gettato l’anatema su ogni versione di «libera Chiesa in libero Stato». Una legge che prescinda dalla religione avrebbe niente meno che «estromesso la giustizia», riassume con precisione Navarro-Valls, renderebbe illegittima la democrazia trasformandola in un vaso di iniquità. È esattamente quanto sostenne Papa Wojtyla di fronte al primo parlamento polacco democraticamente eletto, se la maggioranza parlamentare avesse promulgato una legge sull’aborto difforme dal diktat della morale vaticana. In perfetta sintonia papale la conclusione di Navarro-Valls: «La consapevolezza democratica di base» deve riconoscere che «la religione è un valore umano fondamentale e inevitabile, il quale deve essere valorizzato e garantito legalmente nella sua rilevanza pubblica» (sottolineatura mia). Con l’aggiunta finale di un criptico ma inquietante «a prescindere dal resto».
E invece no, dal "resto" non si può affatto prescindere. Perché il "resto" è che la democrazia si fonda sull’autos nomos di tutti i cittadini, singolarmente e collettivamente presi. Nella democrazia sono i cittadini che «si danno da sé la legge». E nessun altro prima o sopra di loro. Se i cittadini non potessero decidere la legge liberamente, ma obbedire a una legge già data (dall’Alto, dall’Altro), non sarebbero sovrani, «per la contraddizion che nol consente», secondo un padre Dante molto tomistico e che quindi dovrebbe andar bene anche a Navarro-Valls.
Che la giustizia secondo il dettame della religione diventi tassativa e vincolante per la democrazia significa espropriare il cittadino della sovranità e riconsegnarla a Dio. Tecnicamente si chiama alienazione: alienare i famosi diritti inalienabili. Alienazione che coincide con l’annientamento stesso della democrazia. Insomma e senza perifrasi: la sovranità di Dio è incompatibile con la sovranità dell’uomo, in cui consiste la democrazia. Dovrebbe essere una ovvietà, da oltre un paio di secoli. Ma nell’italica «ricchezza stimolante che altrove manca del tutto» tutto è invece permesso.
E sia. Quale Dio, però? Il Dio cristiano dei valdesi - compassionevole - riconosce ai suoi figli il diritto all’eutanasia, quello di Ratzinger - gelido - lo nega, quello di Küng (cristiano cattolico come Ratzinger) di nuovo lo consente, il Dio dei "Testimoni di Geova" proibisce ogni trasfusione di sangue anche a costo della vita, il Dio di altri (sempre lo stesso, perché l’Uno) esige invece mutilazioni sessuali per le bambine. E si potrebbe continuare. Quale di queste incompatibili verità dovrà assumere lo Stato nella sua legge, per ottemperare alla pretesa di Navarro-Valls di «concepire la religione come un valore assoluto»? Senza dimenticare che a pretendere che sia fatta la volontà di Dio, anziché quella democratica dei cittadini, c’è poi sempre in agguato un "Gott mit uns" che battezzerà di giustizia religiosa ogni terrena efferatezza.
Naturalmente, in una democrazia liberale i cittadini non possono stabilire per legge "qualsiasi cosa", neppure con maggioranze plebiscitarie. Ma il limite all’esercizio della loro autonomia è la loro autonomia stessa, non un’eteronoma volontà di Dio (magari agghindata da "legge naturale"). Che è poi la volontà di chi pretende di conoscere la volontà di Dio e parlare in suo nome (in psichiatria si chiama delirio di onnipotenza). Non si possono, a maggioranza, violare i diritti individuali sulla vita, la libertà, eccetera, di ciascuno, perché del ciascuno si distruggerebbe o amputerebbe la sovranità, dunque l’autonomia.
Dio e la religione, come si vede, non c’entrano un bel nulla. L’anti-relativismo della democrazia sta tutto e solo nel comune riconoscimento - interiorizzato come ethos repubblicano - delle inalienabili libertà di ciascuno (fino a che non violano identica libertà altrui: dalla vignetta blasfema all’eutanasia, esattamente come non si proibisce la superstizione della Sindone o la sofferenza terminale volontaria). "Religiosità" civile, se si vuole. Che la "teocrazia debole" di Ratzinger e Navarro-Valls pretende invece di sovvertire.
I PASTORI SI MANGIANO LE PECORE? E’ "UN FENOMENO RIDOTTO"!!!
SMS: “E’ vero che non si può accusare Berlusconi di abigeato (furto di bestiame) come titola Il Giornale. Ma è perché si è già portato via tutte le pecore”.
Regime, scene di un crollo
di Furio Colombo (il Fatto, 17.03.2010)
Un giorno qualcuno potrà dividere il regime Berlusconi (finora quindici anni ininterrotti) in tre periodi: quello del finto innocente, della negazione risoluta davanti ai fatti. Chi, io? ma io mi dimetterei immediatamente se fosse vero; quello in cui comincia lui e poi si guarda intorno smarrito come nel gioco “lo schiaffo del soldato”; quello della rivendicazione del fatto (o reato) compiuto come di un naturale e legittimo diritto. E la violenta denuncia: “Ci dobbiamo difendere”.
Ho detto “quindicennio ininterrotto” del regime Berlusconi nonostante due periodi (uno molto breve) di governo del centrosinistra a causa di due trovate di Berlusconi che spero gli storici non trascureranno. Il primo è di agire, in democrazia, con la trovata di sospendere la democrazia nel suo partito. Ciò gli dà uno spazio di libertà (a parte i soldi, a parte il conflitto di interessi) che i suoi avversari, appesantiti dalla necessità del consenso, non possono fronteggiare. Il secondo è di non governare mai e di fare opposizione, anzi campagna elettorale sempre. Per farlo deve arrecare danno - e lo fa - alla Repubblica. Il danno più grave è portarsi via - forse solo a causa del suo fascino leaderistico - potenti funzionari dello Stato, guardiani delle garanzie, verificatori e tutori della legalità, notai della vita istituzionale e della vita pubblica. Clamoroso è il caso dell’Autorità delle Comunicazioni.
Comincia il crollo del regime. Si vedono ovunque nel Pdl crepe, lacerazioni, perdite di rispetto. Le barzellette rimbalzano tra sms ed e-mail, tra l’Italia e il mondo. Quella che trovate oggi sul telefonino spiega: “E’ vero che non si può accusare Berlusconi di abigeato (furto di bestiame) come titola Il Giornale. Ma è perché si è già portato via tutte le pecore”.
Il fatto è che sta facendo crollare la Repubblica e con lui cadono nel vuoto i lavoratori senza fabbrica, i precari senza contratto, le aziende svendute senza padrone. Ma con lui cominciano a cadere anche pezzi importanti delle Istituzioni repubblicane. Per ogni regola è stato legiferato uno strappo. Per ogni strappo ci vuole un garante a rovescio. Un garante della illegalità. Sarà una lista lunga e un danno immenso.
La democrazia al tempo delle emergenze
di Francesca Rigotti (l’Unità, 16 febbraio 2010)
Nel 1979 il filosofo ebreo tedesco Hans Jonas, emigrato negli Stati Uniti a causa delle persecuzioni razziali, pubblicò un libro che sarebbe divenuto una pietra miliare nel campo dell’etica pubblica: «Il principio di responsabilità».
Aveva fretta di scrivere, Jonas, perché sapeva di essere vecchio e aveva paura che il tempo non gli bastasse (oddio, aveva l’età che ha ora il pluriliftato, trapiantato, tinto e truccato presidente del consiglio italiano, ma una considerazione di sé evidentemente più realistica e meno vanesia).
Decise quindi, per scrivere più velocemente, di tornare al tedesco dopo quarant’anni di frequentazione scritta e parlata dell’inglese, e mise giù, in una lingua un po’ arcaica quanto impeccabile, i suoi pensieri sul tema della responsabilità da parte degli uomini nei confronti dei loro simili, delle generazioni future, dell’ambiente, dell’intero pianeta, di fronte ai problemi dell’età della tecnica. Uno dei punti che Jonas affronta è proprio come reagire alle catastrofi, naturali o indotte, chiedendosi a chi spetta prendere decisioni e sulla base di quali principi. Ora, chi si occupa di questi problemi da un punto di vista teoretico sa bene che le catastrofi chiedono spesso una reazione rapida e risposte veloci ma non isteriche che si traducano in azioni efficaci. Sa anche, tuttavia, che la democrazia non è la forma di governo della velocità e nemmeno quella della segretezza. La democrazia richiede deliberazioni riflesse e ponderate nonché trasparenza di metodi.
Come conciliare dunque il tempo della riflessione con il tempo dell’azione senza che il sistema assuma tratti dittatoriali? Come conciliare l’efficienza dell’intervento con la giustizia dei principi e il rispetto della trasparenza? Il problema non è di facile soluzione: esso ha bisogno, avrebbe detto Gramsci, di tutta la nostra intelligenza. C’è bisogno che ci organizziamo con tutta la nostra forza per creare forme di democrazia partecipativa, non paternalistica, per predisporre strutture di sorveglianza preventiva e di pronto intervento in caso di incidenti di varia natura e livello; per rispondere in prima persona - questa è responsabilità, direbbe Jonas - guidati da leggi che favoriscano l’impegno civico più che l’assistenza dall’alto.
Occorre assumersi la responsabilità, dimettersi se lo dice la coscienza e non se lo ordina il capo, ridersela di atteggiamenti tipo la luce accesa di notte a Palazzo Venezia a significare «dormite tranquilli, ghe pensi mi». No grazie, ci pensiamo noi che siamo intelligenti e forti.
Il Papa, Ruini e la rivolta degli atei devoti
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano” , 11 febbraio 2010)
Sulla Curia attonita è calata la parola di Benedetto XVI in difesa di Bertone e di Vian. Ma ora è la rivolta degli atei devoti. Ferrara sbeffeggia il comunicato e il Giornale irride: “Il Papa fuori dalla grazia di Dio”.
Eccoli i rimasugli imprevisti e velenosi del lungo regno del cardinal Ruini, che dopo il crollo della Dc pensò di posizionare la Chiesa al centro del gioco politico. Scegliendosi alleati in campo cosiddetto “laico”, difensori improvvisati di un cristianesimo senza Cristo, araldi dell’identità cattolica d’Italia nel nome di un Vangelo agitato come libretto di Mao. Contro gli “uomini di Bertone” lancia frecciate sprezzanti Giuliano Ferrara, evangelista del pensiero ratzingeriano e infaticabile combattente a fianco delle gerarchie ecclesiastiche contro la 194 o i Dico o il testamento biologico.
La smentita vaticana, motteggia, è “squillante e molto tardiva”, di una “violenza verbale inconcludente”, stilata per “silenziare e mettere alla gogna l’informazione laica, libera, amica che denuncia il fattaccio”.
Doveva succedere prima o poi. Se la Chiesa, durante il ventennio ruiniano, è stata gestita come soggetto partitico, manovrata come un Comitato centrale per organizzare astensioni ai referendum, animare manifestazioni di piazza contro disegni di legge, intimidire governi... doveva finire che i mass media la considerassero alla stregua di un partito come gli altri, con le sue fazioni e i suoi intrighi, e che gli “alleati” di ieri si lanciassero a gettare benzina sulle divisioni interne come succede nel teatrino politico.
L’iperpoliticizzazione ruiniana ha condotto la Chiesa a perdere la sua “diversità”. Perché una cosa è combattersi nei ranghi ecclesiali su temi come il Concilio, il negazionismo, la sessualità, il rapporto con l’islam, altro è lasciare che venga proiettata l’immagine di corvi che portano pacchi maleodoranti di nido in nudo.
Un tale degrado d’immagine non si era mai visto in epoca contemporanea. E il verminaio è stato prodotto proprio da coloro che la strategia ruiniana aveva eletto come punta di diamante dell’inf luenza cattolica in partibus infidelium.
Gli elefantini allegramente neo-integralisti, “alla laica”, il cardinale Ruini, da presidente della Cei, se li era bene allevati. Facevano da pendant perfetto agli arditi ciellini. Gli ossequienti alla Ferrara tornavano utili per dare smalto al Comitato Scienza e Vita (sapiente mix di cattolici e agnostici), messo in piedi dietro le quinte dall’allora dirigenza Cei, per imporre la linea astensionista al referendum sulla fecondazione assistita.
Tornavano utili per predicare contro le “stragi” dell’aborto e buttare bombe intellettuali contro l’I l l u m i n ismo, nell’esaltazione delle perenni “radici cristiane” dell’Italia e dell’E u ro p a Nel 2006 al convegno nazionale della Chiesa italiana a Verona il cardinal Ruini incoraggiò Benedetto XVI all’e l ogio degli atei devoti, portati in palmo di mano perché erano testimoni dell’“insuf ficienza di una razionalità chiusa in se stessa e di un’e t ica troppo individualista”. Elogiati perché sensibili alla “gravità del rischio di staccarsi dalle radici cristiane della nostra civiltà”. Erano - s c a ndì Benedetto XVI - una “grande opportunità” che la Chiesa italiana doveva “cogliere”.
Si è visto. In queste settimane la “grande opportunità” ha armato la canizza assieme ai ciellini e ai falchi ruiniani contro l’Osservatore Romano per mettere al tappeto il cardinale Bertone. E adesso che il Papa (malvolentieri, peraltro) è dovuto intervenire di persona, Ferrara demolisce il comunicato, smontandone la “violenza verbale inconcludente ” e accusando nuovamente Vian di avere avvalorato la “cacciata di uno stimato giornalista cattolico” come Boffo. Mentre il G i o rnale, in passato estremamente rispettoso nei confronti della Chiesa, invita il Papa a informarsi “in tre minuti” della fondatezza della condanna per molestie di Boffo. In questo girotondo di bande il mondo dei fedeli cattolici appare ferito, disgustato e disorientato.
Alcuni punti fermi sono tuttavia acquisiti. La “velina”, che Feltri pubblicò l’agosto scorso, è nata in ambienti cattolici milanesi: avversari di Boffo per la concentrazione di potere avvenuta nelle sue mani come zar del sistema mediatico cattolico (Avvenire, la televisione della Cei, la rete delle radio cattoliche) e come portavoce politico di Ruini ormai in pensione. La “velina” è stata spedita in primavera, con buste e francobolli vaticani, all’indirizzo di circa duecento vescovi. Sarebbe morta nei cassetti se Feltri non l’avesse messa in pagina per punire Boffo, reo di avere criticato su Avvenire Berlusconi per l’affare escort. Il paradosso è che Boffo, solo premuto dalla base cattolica e con l’assenso del nuovo presidente della Cei Bagnasco, aveva attaccato il premier. Prima dello scandalo aveva sempre seguito la linea Ruini favorevole al centro-destra. Anche Bertone, il “nemico” di Ruini, è peraltro favorevole al centrodestra. Perciò fece intervenire ai primi di settembre Vian con un’intervista al Corriere della Sera per bacchettare l’Avvenire: proprio per salvaguardare i buoni rapporti istituzionali con Berlusconi. Un gioco degli specchi.
Emarginato Boffo, si sono mossi ora a gennaio gli atei devoti e manipoli ciellini e ruiniani per “ridare l’onore” all’ex direttore dell’Avvenire e mettere in difficoltà Bertone diventato troppo potente in Vaticano. Ma nel polverone del campo di battaglia si stagliano alcuni fatti precisi. Feltri dichiara chiuso il caso e annuncia che non “rivelerà” nomi. (E Berlusconi, con le elezioni incombenti, dichiara d’i mprovviso di essere tanto dispiaciuto per gli attacchi portati a Boffo a mezzo stampa).
Bagnasco continua in silenzio la sua “linea pastorale” né con Bertone né con Ruini. E lo scarno comunicato Cei testimonia la volontà di non mettere neanche un dito nel verminaio. I grandi porporati della Chiesa italiana - Scola, Sepe, Tettamanzi, futuri protagonisti del Conclave - tacciono, per mostrarsi superiori a queste miserie. E i cardinali di Curia stranieri sospirano: “Robe tutte italiane”.
L’identità culturale italiana e la difesa delle sue radici laiche
di Guido Rossi (Corriere della Sera, 9 febbraio 2010)
Il dibattito sulle radici dell’Europa, che ha preceduto l’approvazione del nuovo Trattato Costituzionale, ha indotto forse a trascurare la questione dell’identità culturale italiana. Riprenderla oggi significa però mettere in rilievo il fitto intreccio che la collega alle altre, ma allo stesso tempo spiegare come essa condizioni il nostro presente. Le radici nazionali sono antiche, varie, profonde, e tra loro sovente conflittuali.
Sono radici, diciamo così, cresciute «storte». Per spiegarne la ragione è bene considerare che ogni cultura è un accumulo globale di conoscenze e costumi trasmessi, attraverso generazioni, al proprio gruppo sociale. Quella italiana, in particolare, ha maturato un carattere unitario nel pluralismo. Un risultato originalissimo, frutto di bilanciamento e composizione dei conflitti che ha trovato espressione nelle tre storiche rivoluzioni illustrate da Carlo Cipolla: quella comunal-cittadina dei secoli XI-XIII, centrata sul mercato e sulla produzione di manufatti; quella scientifica del secolo XVII, caratterizzata dall’incontro proficuo fra conoscenza teorica e tecnica artigianale; e quella industriale dei secoli XVIII e XIX, capace di impiegare i progressi della ricerca a fini produttivi.
Un filo «ineluttabile» - come lo ha definito Cipolla - ha legato fra loro queste tre rivoluzioni, contribuendo a definire la cornice della nostra identità storica. All’interno di essa, un ruolo essenziale lo ha svolto la lingua. È giusto ricordarne alcune tappe fondamentali: la grande letteratura e in particolare la lirica siciliana di Giacomo da Lentini, inventore del sonetto; il ruolo della corte palermitana di Federico II; i toscani e i loro tre grandi trecentisti; l’unità politica e letteraria teorizzata dal lombardo Manzoni. In parallelo, i progressi della stampa con il primo libro italiano nella benedettina Subiaco; a Venezia i grandi editori, quali Aldo Manuzio e Ottaviano Petrucci, che introdusse la stampa musicale a caratteri mobili.
È facile qui rilevare la varietà di provenienza geografica delle eccellenze, e il carattere non conflittuale dei rispettivi dialetti, espressioni della lingua popolare. Dopo di essa, l’arte, ove è marcata l’influenza storica della Chiesa. La svolta viene da Giotto che introduce nella pittura i soggetti borghesi; poi sarà il Rinascimento a inventare l’unità nella prospettiva; e in seguito la cultura italiana si imporrà ancora all’attenzione del mondo concependo l’estetica del barocco (e assai più tardi quella del futurismo) e riempiendo di opere i grandi musei del mondo.
Un rilievo particolare lo merita poi la musica, anche per un suo aspetto esemplare e poco noto. Vincenzo Galilei, padre del celebre scienziato, fu liutista, compositore, teorico e ideatore della monodia come nuovo stile di canto. La famiglia Galilei simboleggia dunque un collegamento diretto fra arte e scienza nello studio delle note e dei numeri (del resto i pitagorici affascinavano Giordano Bruno).
Una simile contaminazione si può ritrovare anche nella teoria politica (la filosofia mazziniana della musica, con il relativo rapporto fra Dio e popolo) e persino nella pratica diretta (la celebre identificazione patriottica nell’acronimo sabaudoverdiano, W VERDI). Del resto, nella storia della musica si può riscontrare la stessa cifra di unità pluralistica: l’Orfeo di Monteverdi, prima opera italiana, vede la luce a Mantova nel 1607, mentre brillano di luce propria Napoli e Venezia.
Ne segue un’osservazione generale. È erroneo individuare una dicotomia tra umanesimo e scienza, come pure tra quest’ultima e la tecnica: vale per tutte l’immagine di Galileo impegnato a confrontarsi con gli artigiani nell’Arsenale. È invece nella sofferta conquista della laicità, intesa come unione di scienza e libertà, aperta anche al riconoscimento della funzione civile della religione, che si ritrovano le cause di quella «stortura» cui accennavo all’inizio.
È nello scontro con la Chiesa di Roma che i nostri grandi intellettuali sperimentano la durezza della repressione: Giordano Bruno è bruciato nel 1600 al Campo dei Fiori; Campanella subisce 27 anni di galera; Galileo è costretto all’abiura per salvare la pelle. La strada della laicità e della sapienza civile, dall’Alberti a Machiavelli, da Vico a Sarpi, è segnata fin dall’inizio dal conflitto, dalla durezza dello scontro con il potere religioso.
Ancora nel 1764 sarà questa esigenza di laicità ad accendere i lumi di Beccaria, e a spingere anche il Manzoni, nella «Storia della colonna infame», a rifiutare la pena di morte. È toccato alla grande politica il compito di comporre il conflitto: dal concetto cavouriano di «libera Chiesa in libero Stato» all’introduzione dei Patti Lateranensi nella Costituzione, con l’articolo 7. La laicità coincide dunque storicamente con la ricerca di unità nella democrazia costituzionale.
Ma due grandi questioni ancora ci condizionano: il rapporto con la Chiesa di Roma e le persistenti diversità fra Nord e Meridione. Il primo, emerso con chiarezza durante il lungo dibattito sulle radici dell’Europa, deve fare i conti oggi con la pericolosa identificazione, da parte di Joseph Ratzinger, della identità europea con la cristianità. Adottando il concetto di jus publicum europaeum di Carl Schmitt, che sfocia in una contrapposizione totale fra Europa cristiana e ciò che le sta intorno, Benedetto XVI con l’enciclica «Caritas in Veritate» si è allontanato dal sogno laico di Kant, inteso come jus publicum cosmopoliticum. Dal discorso di Ratisbona del 2006, grecità e illuminismo vengono arruolati dal Papa sotto la bandiera della ragione cristiana e cattolica.
Ribadire invece le radici laiche dell’identità culturale italiana, significa oggi non solo fare opera di verità storica, ma anche porre le premesse per una ricomposizione unitaria nella democrazia costituzionale. Quanto al problema delle diversità culturali degli italiani, esso presenta una doppia faccia. Quella laica, modellata sul federalismo del Cattaneo, attenta alle prerogative locali, composte nell’autorità di un parlamento federale. E quella secessionista, nella storica variante meridionale e oggi, soprattutto, in quella aggressivamente nordista, con sullo sfondo l’incognita del federalismo fiscale. Una risposta della politica, al tempo della Costituente, è stata l’istituzione delle Regioni a statuto speciale.
Andare oltre, oggi, dovrebbe significare riscoprire il Salvemini del 1949, che assimilando gli attuali «padani» ai «terroni» come un busto è attaccato alle gambe, concludeva: «I nordici devono occuparsi dei sudici, se non vogliono ritrovarsi a mali passi». A volte si è tentati di credere che davvero, da noi, tutto cambi restando uguale.
Rileggere oggi il «Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani», scritto nel 1834 da Giacomo Leopardi, significa ritrovare, come fotografate ieri, le debolezze della cultura nazionale, e in particolare quel diffusissimo cinismo pratico, unito alla mancanza di una vera società civile in cui comporre i conflitti, che induce i più a «mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi».
Ma non è il caso di rassegnarsi a simili costanti. La storia della cultura italiana, nella sua incomprimibile varietà, ci ricorda che, proprio nei momenti difficili, più gravi essi sono, più gli italiani reagiscono.
Roma sfida l’Europa per difendere il crocifisso
di il manifesto (il manifesto, 22 gennaio 2010)
Galeotto, probabilmente, fu l’incontro nel pieno delle polemiche sull’approvazione del processo breve al Senato tra il premier Silvio Berlusconi e l’ex capo dei vescovi italiani Camillo Ruini avvenuto proprio l’altro ieri. Fatto sta che ieri mattina il «gran visir» Gianni Letta ha dato l’annuncio, in occasione della presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia»: «Il ricorso italiano contro la sentenza della Corte di Strasburgo sull’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici è pronto - ha spiegato - proprio stamane c’è stato un incontro alla Farnesina per mettere a punto gli ultimi dettagli».
Nella cornice dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede, Letta ha definito la decisione della Corte di Strasburgo «il grave torto», e ha aggiunto: «Abbiamo fiducia che il nostro ricorso possa trovare accoglimento, anche perché sono molti i paesi europei che stanno venendo sempre più numerosi a sostegno dell’azione italiana». Presto dunque al Consiglio d’Europa andrà in onda l’ennesima puntata della lunga saga sul crocifisso.
La Corte, pochi mesi fa, aveva accolto il ricorso di una cittadina italiana di origini finlandesi Soile Lautsi che da quasi dieci anni si batte perché nelle aule scolastiche non sia esposto il crocifisso. Secondo i magistrati del Consiglio d’Europa, con sentenza emessa all’unanimità, la presenza del crocifisso in classe condiziona l’educazione degli studenti che possono interpretarlo come simbolo di una religione ufficiale. E, riscontrando la violazione degli articoli della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo riguardanti i diritti all’istruzione e alla libertà di pensiero, coscienza e religione, la Corte ha condannato l’Italia a risarcire con cinquemila euro la Lautsi per danni morali.
Sin da subito il governo si è schierato contro la decisione della Corte europea, promettendo di fare ricorso. Ma poi non se ne aveva più avuto notizia. Ieri, l’annuncio del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Letta, che parla a poche ore dall’incontro tra il premier e Ruini.
L’approvazione della Chiesa non si è fatta attendere: «Quella del governo italiano è un’iniziativa da apprezzare e da lodare», ha detto il presidente della Cei Angelo Bagnasco. «La sentenza - ha aggiunto il cardinale - veramente va contro non solo all’oggettività della storia europea ma anche al sentire popolare, della gente».
MEMORIA DI FRANCESCO D’ASSISI. "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
RESTITUIRE L’ANELLO DEL PESCATORE A GIUSEPPE (come già Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II).
Annuncio a Giuseppe
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, 20 dicembre 2009)
La melodia di White Christmas può essere anche gradevole, ma il Natale nella sua genesi profonda non potrà mai essere "bianco" a livello etnico; eventualmente potrà esserlo solo a livello climatologico (ho anch’io in mente una Betlemme di molti anni fa tutta innevata). Fino a prova contraria, infatti, i protagonisti di quell’evento erano semiti e non certo ariani, la loro pelle era olivastra, i loro profili somatici erano simili a quelli degli arabi o degli israeliani nati nell’attuale Vicino Oriente.
Ebbene, all’interno di quella famiglia semita vorremmo ora mettere in primo piano colui che nella tradizione è rimasto quasi sempre sullo sfondo, sì, proprio il capofamiglia, Giuseppe, un nome chiaramente ebraico che significa «Dio aggiunga!» o «che egli raduni!». È un nome portato da altri sei personaggi biblici, tra i quali il più celebre è quel figlio di Giacobbe che fece fortuna in Egitto divenendo da schiavo viceré, così da trasformarsi secoli dopo nel protagonista del fluviale romanzo Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann.
La presenza del nostro Giuseppe, il padre legale e non naturale di Gesù, è nei Vangeli esile: affiora nella genealogia di Cristo; appare come il promesso sposo di Maria (Luca 1, 27), sarà menzionato durante la nascita di Gesù a Betlemme (Luca 2,4-5), farà qualche altra fugace apparizione nei primi giorni del neonato, acquisterà rilievo durante la vicenda di clandestino e migrante in Egitto, riemergerà dal silenzio anni dopo quando occhieggerà nelle parole di sua moglie, Maria, in occasione della "fuga" del figlio dodicenne nel tempio di Gerusalemme tra i dottori della Legge («tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», Luca 2,48), e sarà ricordato con sarcasmo dai suoi concittadini di Nazaret, quando di fronte ai successi del figlio ironizzeranno: «Ma costui non è il figlio di Giuseppe..., il figlio del falegname?» (Luca 4, 22; Matteo 13, 55). Ci sono, però, due scene nelle quali Giuseppe è protagonista. Sono le uniche e riguardano proprio il Natale.
Rievochiamo la prima: è la cosiddetta «annunciazione a Giuseppe» ed è narrata dall’evangelista Matteo (1, 18-25). Leggiamo insieme: «Così fu generato Gesù Cristo: sua Madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta, per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati". Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: "Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi". Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù».
Per capire il comportamento iniziale di Giuseppe nei confronti di Maria, dobbiamo entrare, almeno sommariamente, nel mondo delle usanze matrimoniali dell’antico Israele. Il matrimonio comprendeva due fasi ben definite. La prima - denominata qiddushin, cioè «consacrazione», perché la donna veniva «consacrata» al suo sposo - consisteva nel fidanzamento ufficiale tra il giovane e la ragazza che solitamente aveva dodici o tredici anni.
La ratifica di questo primo atto comportava una nuova situazione per la donna: pur continuando a vivere a casa sua all’incirca per un altro anno, essa era chiamata e considerata già «moglie» del suo futuro marito e per questo ogni infedeltà era ritenuta un adulterio. La seconda fase era chiamata nissu’in (dal verbo nasa’, ossia «sollevare, portare») in quanto ricordava il trasferimento processionale della sposa che veniva «portata» nella casa dello sposo, un avvenimento che fa da sfondo alla parabola di Gesù che ha per protagoniste le ancelle di un festoso corteo nuziale notturno (si veda Matteo 25, 1-13). Questo atto suggellava la seconda e definitiva tappa del matrimonio ebraico. Il racconto che abbiamo letto sopra si colloca, allora, nella prima fase, quella del fidanzamento-«consacrazione»: «Prima che andassero a vivere insieme [col trasferimento alla casa di Giuseppe], Maria si trovò incinta».
Giuseppe è di fronte a una scelta drammatica. Il libro biblico del Deuteronomio era chiaro e implacabile: «Se la giovane non è stata trovata in stato di verginità, allora la faranno uscire all’ingresso della casa del padre e la gente della sua città la lapiderà a morte, perché ha commesso un’infamia in Israele, disonorandosi in casa del padre» (22, 20-21). Nel giudaismo successivo, però, aveva preso strada un’altra norma più moderata, quella che imponeva il ripudio. Come si è spiegato, trattandosi già di una vera e propria «moglie», si doveva celebrare un divorzio ufficiale con tutte le conseguenze civili e penali per la donna. È curioso ricordare che a Murabba’at, nei pressi del Mar Morto, è venuto alla luce anni fa un atto di ripudio del 111 d.C., scritto in aramaico e riguardante due sposi che si chiamavano Maria e Giuseppe.
Ma ritorniamo a Giuseppe e alla sua decisione. Egli deve «ripudiare» Maria a causa della legge che lo obbliga a questo; essendo uomo «giusto», cioè obbediente alla legge dei padri, egli si mette su questa strada amara, ma, essendo uomo «giusto», che secondo il linguaggio biblico significa anche mite, misericordioso, buono, lo vuole fare nella forma più delicata e più attenta per lo donna. Sceglie la via «segreta», senza denunzia legale, senza processo e clamore, alla presenza dei soli due testimoni necessari per la validità dell’atto di divorzio, cioè la consegna del cosiddetto «libello di ripudio». Certo, la nostra sensibilità ci fa subite dire: che ne sarebbe stato di Maria? La risposta è purtroppo chiara e inequivocabile: sarebbe stata un’emarginata totale, rifiutata da tutti, accolta forse solo dal clan paterno assieme al figlio illegittimo che avrebbe generato. È nota a tutti, infatti, la triste situazione della donna nell’antico Vicine Oriente. Ma lasciamo da parte questa ipotesi irreale e ritorniamo a Giuseppe e al suo dramma interiore, per altro non lontano da quello vissuto da tante coppie di fidanzati.
La sua oscura tensione è, all’improvviso, squarciata da una luce: l’angelo nella Bibbia è per eccellenza il segno di una rivelazione divina come il sogno (se ne contano cinque nel Vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Matteo) è il simbolo della comunicazione di un mistero. «Non temere di portare Maria a casa tua», completando così anche la seconda fase del matrimonio (nissu’in), dice l’angelo a Giuseppe.
Ed è qui che scatta la grande rivelazione del mistero che si sta compiendo in Maria: «Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». E questa la sorpresa straordinaria che dovrà sconvolgere la vita di Giuseppe, sorpresa molto più forte di quella di avere la propria donna incinta di un altro uomo. Si apre, allora, per Giuseppe una vita nuova e una missione unica. Egli, che è «figlio di Davide» (è l’unica volta nei Vangeli in cui questo titolo non viene applicato a Gesù), dovrà trasmettere la linea ereditaria davidica al figlio di Maria nella qualità di padre legale. Potremmo dire che, come Maria è colei per mezzo della quale Gesù nasce nel mondo come figlio di Dio, Giuseppe è colui per mezzo del quale Gesù nasce nella storia come figlio di Davide.
La paternità legale o «putativa» in Oriente era molto più normale di quanto possiamo immaginare. Esemplare è il caso del «levirato» (dal latino levir, cognato) così formulato nel Deuteronomio: «Quando uno dei fratelli di un clan morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto verrà presa in moglie dal cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questi non si estingua in Israele» (25, 5-6). In altre parole, il padre reale di questo figlio è il cognato, ma il padre legale resta il defunto che attribuisce al neonato tutti i diritti ereditari.
Come padre ufficiale di Gesù, Giuseppe esercita il diritto di imporre il nome riconoscendolo giuridicamente.
Nella Bibbia il nome è il compendio simbolico di una persona, è la sua carta d’identità: perciò, anche se si hanno delle eccezioni (è Eva a chiamare «Set» il suo secondo figlio), è il padre a dichiarare il nome del figlio e Giuseppe sa già che per il figlio di Maria c’è un nome preparato da Dio. «Gesù» è l’equivalente di Giosuè, e a livello di etimologia popolare e immediata significa «Il Signore salva», come è spiegato dall’angelo: «Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Anche san Pietro in un suo discorso registrato dagli Atti degli Apostoli afferma: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (4,12). A un’analisi più filologica «Gesù» significa letteralmente «Il Signore aiuta» o «Il Signore dà la vittoria», un senso abbastanza vicino a quello tradizionale.
Nella narrazione di Matteo c’è un ultimo dato da decifrare. È nella frase finale, quella della nascita di Gesù, che letteralmente suona così: «Giuseppe prese con sé la sua sposa e non la conobbe prima che gli partorisse il figlio». Sappiamo che nella Bibbia il verbo «conoscere» è un eufemismo per alludere all’atto matrimoniale. Sulla frase per secoli si è accesa un’aspra discussione teologica riguardante la verginità perpetua di Maria e la presenza nei Vangeli dei cosiddetti «fratelli e sorelle di Gesù». In realtà il testo di Matteo nel suo tenore originale non affronta la questione, dal momento che in italiano, quando si dice che una cosa non succede «fino a» un certo tempo, si suppone di solito che abbia luogo dopo: Giuseppe non ha avuto rapporti con Maria fino alla nascita di Gesù, ma in seguito avrebbe potuto averli. In greco, invece, e nelle lingue semitiche si vuole mettere l’accento solo su ciò che avviene fino alla scadenza del «finché»: Giuseppe non ebbe rapporti con Maria, eppure nacque Gesù. Il tema fondamentale è, perciò, quello della concezione verginale di Maria. Il Cristo non nasce né da seme umano né da volere della carne, ma solo per lo Spirito di Dio che opera in Maria vergine. Corretta è allora la traduzione che ci propone la Bibbia ufficiale italiana da noi sopra adottata e che risuonerà anche nella liturgia natalizia: «Senza che Giuseppe la conoscesse, Maria partorì un figlio».
Parlavamo prima di due scene in cui Giuseppe è protagonista. Alla seconda - che abbiamo già avuto occasione di presentare in passato proprio su queste pagine - dedichiamo solo un cenno. La famiglia di Gesù si iscrive subito nel lungo elenco che giunge fino ai nostri giorni e che comprende i profughi, i clandestini, i migranti. Ecco, infatti, quando il bambino Gesù ha pochi mesi, Giuseppe in marcia con lui e con la sposa Maria attraverso il deserto di Giuda per riparare in Egitto, lontano dall’incubo del potere sanguinario del re Erode. Anche in questo caso siamo proprio agli antipodi di quel «Natale bianco» assurdamente prospettato da certe attuali ignoranze religiose e da isterie xenofobe. Il Natale cristiano ha, in verità, per protagonisti una famiglia di fuggiaschi e migranti con la loro storia di sventure. «Il cristianesimo - scriveva nei suoi quaderni il filosofo Wittgenstein - non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà nell’anima umana, ma la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».
Vorremmo, allora, far risuonare a suggello di questo «Natale di Giuseppe» le parole - forse un po’ oratorie e magniloquenti ma dalla sostanza inequivocabile - di uno scrittore "scandaloso" come Curzio Malaparte che in un articolo del Natale 1954 ammoniva: «Tra pochi giorni è Natale e già gli uomini si preparano alla suprema ipocrisia... Vorrei che il giorno di Natale il panettone diventasse carne dolente sotto il nostro coltello e il vino diventasse sangue e avessimo tutti per un istante l’orrore del mondo in bocca... Vorrei che la notte di Natale in tutte le chiese del mondo un povero prete si levasse gridando: Via da quella culla, ipocriti, bugiardi, andate a casa vostra a piangere sulle culle dei vostri figli. Se il mondo soffre è anche per colpa vostra, che non osate difendere la giustizia e la bontà e avete paura di essere cristiani fino in fondo. Via da questa culla, ipocriti! Questo bambino, che è nato per salvare il mondo, ha orrore di voi!».
CITTADINI SOVRANI. NÉ DI PIÙ NÉ DI MENO
di Paolo Farinella, prete
Manifestazione del 5 dicembre 2009, ore 16,00 Largo Lanfranco (Davanti alla Prefettura) Genova *
Sono qui come cittadino sovrano orgoglioso di esserlo e senza paura di difendere questa mia dignità che non mi deriva dal potere, ma ce l’ho per nascita ed è un diritto inalienabile riconosciuto dalla Costituzione alla quale deve essere sottomesso ogni potere e ogni parlamento. Anche a costo della morte, anche a costo di andare sulle montagne non rinuncerò mai a questa libertà e a questa sovranità che è colorata dal rosso del sangue dei martiri della Resistenza a cui si aggiunge il sangue dei magistrati e degli avvocati e dei cittadini che per difendere la legalità sono stati ammazzati come cani.
La loro memoria grida davanti alla nostra coscienza. O stiamo dalla loro parte o stiamo dall’altra. Non c’è via di scampo. Una nuova tirannia oggi sovrasta l’Italia e noi non possiamo permetterlo. A coloro che scrivono lettere anonime con minacce anche di morte, dico apertamente: non ho paura di voi che vi nascondete sempre dietro l’anonimato, dietro la vostra vergogna. Io ci sono e ci sarò sempre e nessuno riuscirà a farmi tacere in difesa della giustizia, del diritto, della libertà e della libertà di coscienza. Nessuno. Fino a tre giorni dopo la morte, io parlerò.
Parlo anche come prete perché lo sono e sono orgoglioso di esserlo e nessuno né vescovi né papi riusciranno a non farmelo essere. Poiché qualcuno mi accusa di essere eretico, voglio tranquillizzare i cattolici presenti: le cose che dico sono dottrina tradizionale della Chiesa. Se gli altri, compresi i vescovi, se le dimenticano, gli eretici sono loro, non io.
Nel vangelo di Lc si dice che alcuni farisei simpatizzanti misero in guardia Gesù da Erode che voleva farlo uccidere («Erode ti cerca») e Gesù rispose: «Andate a dire a quella volpe che io scaccio gli spiriti maligni» (13,31-32). Con la complicità e il sostegno della mafia uno spirito maligno si è impossessato del nostro Paese e noi come laici in nome della Costituzione e come credenti in nome del Vangelo abbiamo il dovere e il diritto di scacciarlo: «La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere» (CCC 2265).
Diciamo a Bertone, che va a braccetto come un fidanzatino con Berlusconi ad inaugurare mostre, che Paolo VI nella Populorum progressio del 26 marzo del 1967 al n. 31 prevede come lecita «l’insurrezione rivoluzionaria nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali di una persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del paese» (cf anche Giovanni Paolo II, L’Istruzione Libertatis conscientia (Libertà cristiana e liberazione, 22.3.1986).
Non ci troviamo forse di fronte alle prove generali di una tirannia? Lo Stato democratico e le Istituzioni repubblicane sono state invase dai barbari e da mafiosi, che di ogni principio morale e democratico hanno fatto e stanno facendo scempio immondo. Il barbaro per eccellenza, lo spirito immondo, la volpe di oggi, che fa i gargarismi con l’acqua benedetta, mentre fa accordi con la mafia, si chiama Silvio Berlusconi anzi Berluskonijad perché è un misto tra il comunista Putin del kgb e il reazionario iraniano Ahmadinejad. E’ lui l’ultimo sovietico rimasto in Italia. Infatti la Russia del dittatore Putin e i paesi arabi più retrivi dove non esiste democrazia, sono i posti più prediletti da lui Addirittura dorme anche nel letto di Putin. Rifiutato dalle cancellerie democratiche del mondo, avete un presidente del consiglio che si rifugia in Bielorussia, dove ha osannato il dittatore Lukashenko che il mondo civile non ha mai riconosciuto. Tra dittatori si capiscono. Oggi è partito per Panama, mentre sarebbe ora che partisse per san Vittore. Dico vostro presidente del consiglio perché io l’ho ripudiato pubblicamente il 6 luglio 2009.
Per lui parole come democrazia, verità, eguaglianza, diritti, serietà, legalità, ecc. sono bestemmie perché l’uomo è abituato fin dalla nascita a vivere di falsità, a nutrirsi di illegalità, ad architettare soprusi, a complottare con la mafia, a mettere in atto ogni sorta di prevaricazione con un unico e solo scopo: l’interesse privato e l’ingordigia del suo super ego. Ora siamo all’attacco finale: lo chiamano «processo breve», ma è un solo l’abolizione del processo per annullare la giustizia perché c’è un’emergenza: bisogna impedire i processi che lo vedono imputato per reati gravissimi commessi prima di entrare in politica. Per capire di che si tratta e per divulgare in modo semplice, leggete la pagina che oggi sul Secolo pubblicano il Comitato per lo Stato di Diritto e Giustizia e Libertà hanno pubblicato, a pagamento, una pagina bella oggi sul Secolo XIX, dove potete vedere le conseguenze.
Io credo però che l’obiettivo non sia però il processo breve, ma il totale affossamento della giustizia: in questi giorni ne abbiamo le prove: Cosentino è indagato per Mafia e la maggioranza nega l’arresto; Dell’Utri è stato condannato in primo grado, Schifani (il nome stesso è un programma) frequentava e difendeva mafiosi e ora i pentiti parlano di Berluskonijad e del parto scellerato che sta alla base della fondazione del partito-azienda. I rapporti con la mafia sono naturali e quanto pare i mafiosi gli ha fatto da padrini nella sua nascita come imprenditore-truffatore. Sono motivi sufficienti perché il governo voglia dichiarare illegale ogni indagine per delitti di mafia, pagando così il pedaggio che egli e la sua famiglia e i suoi compari devono a «cosa loro» perché quella cosa non è e non sarà ma i «cosa nostra».
Tutti sanno che questa frenesia di interrompere il processo è condannata dal diritto e anche dalla morale tradizionale della Chiesa che esigono una giusta proporzione tra le parti in giudizio e la ricerca della verità morale. Noi sappiamo che la Corte Suprema lo bollerà ancora una volta, ma a lorsignori basta guadagnare tempo per andare in prescrizione. Lo sanno e proprio perché sono esperti in depistaggio, lo hanno usato per fare venire la diarrea al PD che c’è cascato. Ora aspettiamo i dossier arrivati dalla Bielorussia.
Bersani è la bella addormentata nel bosco che aspetta il bacio del principe che non arriva nemmeno travestito da rospo. Enrico Letta, il nipote del cardinal Mazzarino-Gianni Letta, Gentiluomo di Sua Santità, ha detto che è un diritto di B. difendersi «dal processo». Dovrebbe dimettersi non perché ha detto questo, ma perché è ignorante in fatto di giurisprudenza. Bocciato senza appello, all’ergastolo anche oltre la morte. Da quando ha cominciato a frequentare cattivi cattolici il PD è diventato come la maionese: si monta e si sgonfia in un baleno. Ora hanno la fregola delle riforme e di sedersi al tavolo del dialogo. Con questa gente non si può dialogare. Devono andare a casa, anzi in galera. Mafia e P2 sono al governo e stanno preparando le condizioni per impadronirsi definitivamente del Paese e delle nostre coscienze.
Le nostre coscienze non le avranno mai, perché noi saremo pronti ad andare anche sulle montagne a resistere perché non accettiamo e non accetteremo di essere governati da mafiosi, corrotti, frequentatori di minorenni e utilizzatori finali di prostitute e dall’avvocato Ghedini che paghiamo noi, mentre difende il ladro che ci ha rubato non solo una parte considerevole di denaro sottratto a noi (è fresca la notizia che la finanziaria taglia 103 milioni sui libri di scuola), ma ci deruba anche l’onore all’estero, la dignità sociale e la nostra sovranità di cittadini in casa.
Non possiamo rassegnarci. Non possiamo rassegnarci al luogo comune che la «politica è cosa sporca». E’ una trappola! Non è la Politica ad essere sporca, ma alcuni uomini e donne sporchi che la insozzano e coloro che li hanno votati sono correi e dovrebbero prendere un ergastolo per uno. Per noi Politica è il modo più nobile e diretto di servire il nostro popolo, senza servirsi di esso.
Vogliamo che Berlusconi e chiunque delinque, sia processato secondo lo statuto della nostra Costituzione. Vogliamo conoscere la verità sulla corruzione dei giudizi e dei testimoni. Vogliamo conoscere la verità sulle stragi della mafia. Vogliamo conoscere quanto la mafia sia dentro gli affari di Berlusconi. Vogliamo sapere con inequivocabile certezza se il presidente del consiglio sia un capobastone, un ricattato o una vittima.
Pretendiamo una magistratura libera, indipendente, senza condizionamenti di sorta. Vogliamo vivere in un Paese democratico, in un Paese civile, in un Paese dignitoso. Vogliamo riappropriarci del nostro orgoglio di cittadini sovrani e non permettiamo ad una manica di mafiosi di sottomerci come schiavi. Costi quel che costi, anche a costo della vita. Ai cattolici presenti io, Paolo prete cattolico tradizionalista dico: è parte della nostra missione nel mondo compiere e rendere attuale il programma politico del Magnificat della Madonna che celebreremo il giorno 8 dicembre: non ha senso andare in chiesa l’8 dicembre, se poi vanifichiamo le parole di Maria di Nàzaret, donna rivoluzionaria:
«51 Ha spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
54 Ha soccorso Israele, suo servo,
ricordandosi della sua misericordia,
55 come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1,51-55).
Queste parole hanno una traduzione laica, rivolta a tutti, credenti e non credenti che abitano, anzi che sognano un Paese autenticamente laico, dove la separazione tra Religione e Stato debba essere rigorosissima. Ecco a voi come parola d’ordine di questa sera, le parole di Pier Paolo Pasolini a 37 anni dalla morte: «E noi abbiamo una vera missione, in questa spaventosa miseria italiana, una missione non di potenza o di ricchezza, ma di educazione, di civiltà» (P. P. Pasolini). Nulla di più, nulla di meno.
Genova, dal palazzo della Prefettura, sabato 5 dicembre 2009, ore 16,00-18,00
*Il Dialogo, Mercoledì 09 Dicembre,2009 Ore: 16:13
Appello
Alziamo le nostre coscienze e tiriamo su la nostra schiena
di Paolo Farinella, prete *
Il governo e la maggioranza hanno valicato ogni ritegno: ormai delinquono in pubblico e in tv apertamente al grido minaccioso di «Salvare Berlusconi ad ogni costo». Il parlamento chiuso si riapre per approvare una leggina che metta al sicuro Berlusconi dai «suoi processi» e non importa se questa leggina non solo annienta gli scandali di truffa, falso in bilancio, bancarotta, ecc. ma annulla il diritto di milioni di cittadini che hanno diritto ad una sentenza ed eventualmente ad un risarcimento. Con questa legge che riduce solo i tempi dei processi, senza dare personale, strumenti e mezzi per accelerarli, si consuma la supremazia definitiva del sopruso sul diritto, della mafiosità sulla legalità, dell’impudenza sulla dignità e la sconfitta definitiva dello stato di diritto.
Berlusconi, dopo il lodo Alfano torna ad essere, almeno teoricamente, un cittadino come gli altri e come tutti deve essere processato e assolto o condannato con una sentenza inappellabile. Non possiamo tollerare ancora una volta una legge che lo salvi impunemente, anche in presenza di sentenze in corso. Non possiamo assistere inattivi, inermi e complici di una immoralità e indegnità di questa portata.
Usiamo la rete non solo per resistere, ma per reagire, per impedire che ancora una volta il corrotto, corruttore, compratore di giudici, di sentenze e di testimoni, il predatore fiscale che con le sue evasioni e i suoi conti esteri ha rubato a tutti noi e a ciascuno di noi. Una leggina riguarda Mediaset che deve al fisco circa 200 milioni di euro e se la caverà con un misero 5%. Come è possibile che i pensionati, i lavoratori a stipendio fisso, i precari, i cassintegrati, le donne, i senza lavoro, possano ancora votarlo e vederlo come un modello?
Come è possibile che assistiamo rassegnati alla vivisezione della Costituzione e della sopravvivenza di uno scampolo di dignità? Siamo calpestati ogni giorno nei nostri diritti e derisi nella nostra dignità e non siamo in grado di reagire come si conviene ad un popolo di gente che ogni giorno si ammazza per vivere onestamente del proprio lavoro e nel rispetto della Legge.
Non possiamo tollerare più che un uomo disponga dello Stato, delle sue Istituzioni, che ordini alla Rai di firmare un contratto di 6 milioni di euro al suo maggiordomo Bruno Vespa perché è bravo a fargli il bidet. Non possiamo tollerare che un suo dipendente, Minzolini, pontifichi a suo nome dalla tv di Stato; non possiamo più tollerare che sia smantellata Rai anche se aumenta ascolti e fatturato solo perché indigesta al satrapo senza statura. Non possiamo più tollerare che ci domini a suo piacimento e a suo uso e consumo. Se lui è l’utilizzatore finale delle prostitute a pagamento, noi vogliamo essere le sue mignotte «a gratis»?
Mettiamo in moto una rivoluzione e riportiamo il treno dentro i binari della Legge, delle Istituzioni, della Legalità, della Giustizia, della Dignità e del nostro Onore. E’ ora il tempo di scendere in piazza non per rivendicare un aumento di stipendio, ma per rivendicare un sussulto di dignità e di orgoglio di essere Italiani e Italiane che non vogliono essere scaricati come spazzatura. Berlusconi sta imperando e sta distruggendo tutto perché noi lo permettiamo o quanto meno lo tolleriamo.
Alziamoci in piedi e non pieghiamo la testa, chiedendo a gran voce, se necessario con uno sciopero generale ad oltranza, le dimissioni di Berlusconi, dei suoi avvocati pagati da noi e la conclusione dei suoi processi perché in Italia nessuno può essere più uguale degli altri e tutti, nessuno escluso, devono sottostare alla Maestà del Diritto.
Mi appello alle organizzazioni sindacali, ai partiti, alle associazioni nazionali e internazionali, ai gruppi organizzati, all’Onda lunga della scuola, ai blogger, alle singole persone di buona volontà con ancora una coscienza integra perché «el pueblo unido jamás será vencido».
LETTERA Al Sig. Presidente della Repubblica On.
Giorgio Napolitano
di Paolo Farinella, prete
Ho appena inviato la seguente e-mail al Presidente della Repubblica
Se ritenete, fate lo stesso: inondiamo il Quirinale di e-mail, uno tsunami di e-mail, lettere, cartoline, telegrammi, piccioni viaggiatori, mosche cocchiere, tutto ciò che occorre perché si veda e si senta lo sdegno di tutti noi.
Paolo Farinella, prete
Al Sig. Presidente della Repubblica
On. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
00100 Roma
Via e-mail: presidenza.repubblica@quirinale.it
Sig. Presidente,
Con orrore prendiamo atto che il parlamento, chiuso da settimane per irresponsabilità del governo, riprende freneticamente l’attività per porre rimedio alla sentenza della Consulta che, bocciando il «lodo Alfano» (che pure Lei aveva firmato), ha dichiarato l’uguaglianza assoluta tra tutti i cittadini, compreso il presidente del consiglio dei ministri.
Il governo, la maggioranza, il parlamento e il Paese sono bloccati sulle vicende giudiziarie del presidente del consiglio che continua a pretendere leggi su misura per salvarsi dai processi dove è inquisito di reati gravissimi per i quali alcuni suoi complici sono stati condannati definitivamente (Previti) o in primo grado (Mills). La pretesa di leggi su misura viene fatta in pubblico, alla luce del sole, nella certezza dell’impunità assoluta, anche a costo di annullare migliaia e migliaia di processi gravissimi (Parlat, Cirio, Antonveneta, Eternit, rifiuti a Napoli, ecc.), lasciando centinaia di migliaia di cittadini vittime di ingiustizia senza risposte, senza risarcimenti, senza una sentenza con attribuzione di responsabilità. Sig. Presidente, il Paese è stufo di questo andazzo e in molti siamo pronti alla rivoluzione perché non possiamo tollerare più che le nefandezze di un uomo che si è servito sempre dello Stato distruggano lo Stato stesso per salvare lui e mettere al sicuro il suo patrimonio, frutto di evasione fiscale, riciclaggio, falso in bilancio e corruzione. Non tolleriamo più che un sistema mafioso condizioni lo stato di diritto e calpesti la dignità e la laboriosa onestà della maggior parte delle cittadine e cittadini che hanno sempre avuto il sommo rispetto per la Legalità, anche contro i propri interessi pratici.
Sig. Presidente, lei è l’ultimo baluardo del Diritto, il garante supremo della Carta Costituzionale, il rappresentante della unità nazionale. A nome di migliaia di persone oneste, la supplico di non fermarsi alla pura forma dei suoi compiti, ma di fare tutto il necessario perché il governo e il parlamento tornino ad essere esempio specchiato di trasparenza di vita, di legalità e di esempio morale. Non diventi, anche indirettamente, complice di norme e leggi improvvisate sulle necessità e sui tempi del presidente del consiglio, anche se mascherate con qualche pennellata di «esigenza generale» perché lei sa che così non è. Noi vogliamo che il sig. Berlusconi Silvio si sottoponga la giudizio dei tribunali della Repubblica, come un qualsiasi cittadino. Sig. Presidente stia dalla parte dei cittadini onesti, del Diritto e della Dignità dell’Italia che in questo momento è mortificata proprio da quel governo che dovrebbe condurla fuori dalla crisi economica e sociale e invece la sta infognando e annegando nella melma dell’indecenza. Se necessario, sciolga le Camere per ingovernabilità mafiosa.
Con flebile speranza,
Paolo Farinella, prete
Al cittadino non far sapere
di Giancarlo De Cataldo (l’Unità, 10.11.2009)
Condivido pienamente le preoccupazioni espresse dal Corriere della Sera: se davvero insegnassimo nelle scuole «Cittadinanza e Costituzione» trasformeremmo, sciaguratamente, «la democrazia in catechismo». Parole sante. I nostri ragazzi devono essere tenuti alla larga da discutibilissimi precetti quali l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge (art. 3), il ripudio della guerra (art. 11), la libertà di culto (art. 8), di associazione (art. 18), di pensiero (art. 21), il diritto alla salute (art. 32) e all’istruzione (art. 34), il dovere di pagare le tasse (incredibile, vero? Beh, c’è anche quello, all’art. 53), la irrevocabilità della forma repubblicana (art. 139).
La maligna forza persuasiva di detti precetti è tale che i nostri figli potrebbero convincersi della validità della nostra Costituzione e mandare al diavolo quei politici, baroni e maestri del pensiero che da anni si battono per cambiarla (taluni sognando più mature e consapevoli forme di governo, ispirate a legislatori del calibro di Sardanapalo e del Leonida di Frank Miller). O, addirittura, potebbero prendere tanto sul serio questo confuso agglomerato di “buonismo democratico” da pretenderne l’applicazione.
Inoltre, i nostri ragazzi potrebbero persino coltivare la perniciosa illusione che la scuola non serva soltanto a ingozzarli di nozioni come oche da foie gras, ma possa e debba contribuire (orrore) a farne cittadini civili e consapevoli. Ciarpame culturale che abbiamo già sperimentato con l’esecrando Sessantotto, e che, fortunatamente, il vento impetuoso del progresso (e le norme della Finanziaria) spazzeranno presto via. Così i nostri ragazzi, finalmente istruiti da savi maestri senza grilli per la testa, saranno liberi di formarsi una coscienza critica attraverso strumenti più adeguati: Wikipedia, la Curva, Miss Italia e il Grande Fratello.
Il crocifisso addosso
di Emilio Gentile (Il Sole 24 Ore, 08.11.2009)
Forse i giudici della Corte di Strasburgo che hanno emesso la sentenza sull’esposizione del crocifisso nelle scuole dello Stato, entità eminentemente profana, sono stati inconsapevoli strumenti di un Disegno Superiore mirante a restituire la maestà del sacro al simbolo massimo della religione cristiana, sottraendolo ai molti usi che se ne fanno. Infatti, il crocifisso lo si vede dondolare dai lobi, dalle narici o dall’arco sopraccigliare di giovani uomini e donne; ondeggiare su prosperosi seni di attrici, cantanti e presentatrici; pencolare da bracciali, portachiavi, specchi retrovisori; e apparire stampigliato su indumenti e tatuato sulla pelle.
Chi lo esibisce dichiara di manifestare la sua fede in Cristo, ma probabilmente ha frainteso le parole di Gesù: «Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Matteo, 16,24). Molti che esibiscono il crocifisso hanno probabilmente scambiato "portare" per "indossare".
Dello stesso fraintendimento sembrano essere vittime inconsapevoli quanti sostengono che la presenza obbligatoria del crocifisso nelle scuole dello Stato sia doverosa testimonianza di una antica tradizione, nella quale si identificano le radici e l’identità italiana. Così facendo, forse non si avvedono di trasformare il simbolo della più universale e antimondana delle religioni nell’idolo tribale di una entità mondana, attribuendo una fissità vegetale alle radici della identità nazionale.
Il fraintendimento del comando di Gesù sul portare la croce è antico quanto le guerre di religione fra cristiani. Nel secolo scorso, il crocifisso fu insegna degli opposti eserciti che si massacrarono durante la Grande Guerra, la più anticristiana fra le guerre mai combattute da nazioni che si proclamavano cristiane. La croce col Sacro Cuore, sovrapposto al tricolore repubblicano, accompagnò i soldati francesi all’uccisione dei soldati tedeschi, che correvano a uccidere i francesi esibendo come protettore della Germania il Cristo crocifisso.
Come simbolo di una tradizione nazionale, l’esposizione del crocifisso nelle scuole e nei tribunali fu resa obbligatoria in Italia, a partire dal 1923, da un regime totalitario, che predicava un’etica anticristiana, anche se siglò un concordato con la Chiesa cattolica per confermare il cattolicesimo come religione di Stato, considerandolo una espressione della tradizione italiana e un prodotto storico della romanità. Il duce che volle l’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle scuole sosteneva che l’impero romano era stato il presupposto storico del cattolicesimo, perché se fosse rimasta in Palestina, affermava il duce, la religione di Cristo sarebbe stata soltanto «una delle tante sette che fiorivano in quell’ambiente arroventato ... e molto probabilmente si sarebbe spenta, senza lasciar traccia di sé». Tale interpretazione delle origini del cattolicesimo fu dichiarata eretica da Pio XI.
Da allora, l’esposizione del crocifisso è rimasta obbligatoria nelle scuole. Qualcuno oggi la giudica inoffensiva, altri lesiva dei diritti umani, altri imprecano contro chi vuol togliere il crocifisso invocando la difesa dell’identità italiana. Non sembra, comunque, che tale esposizione obbligatoria abbia ispirato finora una effettiva pratica del comando di Cristo: «Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la propria croce ogni giorno, e mi segua» (Luca, 9,23). Appeso alle pareti delle scuole per comando dello Stato, il crocifisso non ha mosso molti italiani a seguire Cristo prendendo la propria croce: al massimo, l’hanno indossata. Senza rinnegare se stessi.
I furbetti del crocefisso
di Moni Ovadia (l’Unità, 7.11.2009)
La vicenda della “ostensione” dei crocefissi nelle scuole e la sentenza della Corte Suprema del Parlamento Europeo ha dato la stura all’ennesima cagnara dei soliti politici che hanno imbracciato la spada del crociato per correre in difesa della presenza dei crocefissi nelle aule scolastiche. Povero crocefisso usato come libretto di assegni per comprare qualche piccola rendita di potere. Del vero merito della questione, la laicità dell’Europa, accettata come valore fondante da tutte le serie democrazie del vecchio continente in Italia non gliene frega niente quasi a nessuno. La laicità da noi è stata condannata a morte per il reato capitale di laicismo, reato immaginario inventato dai chierici dell’integralismo nostrano.
La Corte Suprema del Parlamento Europeo ha fatto semplicemente la sua parte perché non è tenuta a conformarsi alle anomalie di una classe politica di piccolo cabotaggio incistita solo nei propri piccoli interessi di potere e che non ha rispetto per il ruolo delle istituzioni preposte a tutelare i principi universali su cui l’Unione Europea si fonda.
Personalmente non ho niente contro il crocefisso, sono cresciuto fra crocefissi alle pareti di centinaia di luoghi in cui sono stato, ho lavorato e ho vissuto e non mi hanno certo condizionato. Per quanto mi riguarda possono rimanere dove stanno. Del resto, in un Paese in cui ci sono migliaia di chiese e chiesette, di campanili possenti e svettanti o intimi e modesti, anche se i crocefissi venissero rimossi la situazione della “ostensione” non cambierebbe granché. Ma è grave invece il fatto che i crociati di casa nostra invece di preoccuparsi dei valori cristiani universali si abbandonino ad una invereconda cagnara su questioni di lana caprina.❖
Letta sull’Osservatore «Profonda osmosi tra Chiesa e Stato» *
Tra Chiesa e Stato in Italia c’è una «profonda e feconda osmosi», «una situazione del tutto eccezionale» da cui l’Italia «sta imparando progressivamente a trarre la massima utilità»: lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, nella presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia», curato da Pierluca Azzaro e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, anticipata ieri dall’Osservatore romano. Ancora un articolo del gentiluomo di «Sua Santità» ospitato dal quotidiano della Santa Sede ricco di riconoscimenti verso il pontificato. «Oggi si può affermare con soddisfazione scrive Letta che nella città di Roma convivono pacificamente e collaborano fruttuosamente lo Stato Italiano e la Sede apostolica».
* l’Unità 7.11.2009
Campo della Gloria del cimitero monumentale di Milano, 1 novembre 2009
Intervento di Mons. Gianfranco Bottoni a nome dell’arcivescovado della Diocesi di Milano
La memoria dei morti qui, al Campo della Gloria, esige che ci interroghiamo sempre su come abbiamo raccolto l’eredità spirituale che Caduti e Combattenti per la Liberazione ci hanno lasciato. Rispetto a questo interrogativo mai, finora, ci siamo ritrovati con animo così turbato come oggi. Siamo di fronte, nel nostro paese, ad una caduta senza precedenti della democrazia e dell’etica pubblica. Non è per me facile prendere la parola e dare voce al sentimento di chi nella propria coscienza intende coniugare fede e impegno civile. Preferirei tacere, ma è l’evangelo che chiede di vigilare e di non perdere la speranza.
È giusto riconoscere che la nostra carenza del senso delle istituzioni pubbliche e della loro etica viene da lontano. Affonda le sue radici nella storia di un’Italia frammentata tra signorie e dominazioni, divisa tra guelfi e ghibellini. In essa tentativi di riforma spirituale non hanno potuto imprimere, come invece in altri paesi europei, un alto senso dello stato e della moralità pubblica. Infine, in questi ultimi 150 anni di storia della sua unità, l’Italia si è sempre ritrovata con la “questione democratica” aperta e irrisolta, anche se solo con il fascismo l’involuzione giunse alla morte della democrazia. La Liberazione e l’avvento della Costituzione repubblicana hanno invece fatto rinascere un’Italia democratica, che, per quanto segnata dal noto limite politico di una “democrazia bloccata” (come fu definito), è stata comunque democrazia a sovranità popolare.
La caduta del muro di Berlino aveva creato condizioni favorevoli per superare questo limite posto alla nostra sovranità popolare fin dai tempi di “Yalta”. Infatti la normale fisiologia di una libera democrazia comporta la reale possibilità di alternanze politiche nel governo della cosa pubblica. Ma proprio questo risulta sgradito a poteri che, già prima e ancora oggi, sottopongono a continui contraccolpi le istituzioni democratiche. L’elenco dei fatti che l’attestano sarebbe lungo ma è noto.
Tutti comunque riconosciamo che ad indebolire la tenuta democratica del paese possono, ad esempio, contribuire: campagne di discredito della cultura politica dei partiti; illecite operazioni dei poteri occulti; monopolizzazioni private dei mezzi di comunicazione sociale; mancanza di rigorose norme per sancire incompatibilità e regolare i cosiddetti conflitti di interesse; alleanze segrete con le potenti mafie in cambio della loro sempre più capillare e garantita penetrazione economica e sociale; mito della governabilità a scapito della funzione parlamentare della rappresentanza; progressiva riduzione dello stato di diritto a favore dello stato padrone a conduzione tendenzialmente personale; sconfinamenti di potere dalle proprie competenze da parte di organi statali e conseguenti scontri tra istituzioni; tentativi di imbavagliare la giustizia e di piegarla a interessi privati; devastazione del costume sociale e dell’etica pubblica attraverso corruzioni, legittimazioni dell’illecito, spettacolari esibizioni della trasgressione quale liberatoria opportunità per tutti di dare stura ai più diversi appetiti...
Di questo degrado che indebolisce la democrazia dobbiamo sentirci tutti corresponsabili; nessuno è esente da colpe, neppure le istituzioni religiose. Differente invece resta la valutazione politica se oggi in Italia possiamo ancora, o non più, dire di essere in una reale democrazia. È una valutazione che non compete a questo mio intervento, che intende restare estraneo alla dialettica delle parti e delle opinioni. Al di là delle diverse e opinabili diagnosi, c’è il fatto che oggi molti, forse i più, non si accorgono del processo, comunque in atto, di morte lenta e indolore della democrazia, del processo che potremmo definire di progressiva “eutanasia” della Repubblica nata dalla Resistenza antifascista.
Fascismo di ieri e populismo di oggi sono fenomeni storicamente differenti, ma hanno in comune la necessità di disfarsi di tutto ciò che è democratico, ritenuto ingombro inutile e avverso. Allo scopo può persino servire la ridicola volgarità dell’ignoranza o della malafede di chi pensa di liquidare come “comunista” o “cattocomunista” ogni forma di difesa dei principi e delle regole della democrazia, ogni denuncia dei soprusi che sono sotto gli occhi di chiunque non sia affetto da miopia e che, non a caso, preoccupano la stampa democratica mondiale.
Il senso della realtà deve però condurci a prendere atto che non serve restare ancorati ad atteggiamenti nostalgici e recriminatori, ignorando i cambiamenti irreversibili avvenuti negli ultimi decenni. Servono invece proposte positivamente innovative e democraticamente qualificate, capaci di rispondere ai reali problemi, alle giuste attese della gente e, negli attuali tempi di crisi, ai sempre più gravi e urgenti bisogni del paese. Perché finisca la deriva dell’antipolitica e della sua abile strumentalizzazione è necessaria una politica nuova e intelligente.
Ci attendiamo non una politica che dica “cose nuove ma non giuste”, secondo la prassi oggi dominante. Neppure ci può bastare la retorica petulante che ripete “cose giuste ma non nuove”. È invece indispensabile che “giusto e nuovo” stiano insieme. Urge perciò progettualità politica, capacità di dire parole e realizzare fatti che sappiano coniugare novità e rettitudine, etica e cultura, unità nazionale e pluralismi, ecc. nel costruire libertà e democrazia, giustizia e pace.
Solo così, nella vita civile, può rinascere la speranza. Certamente la speranza cristiana guarda oltre le contingenza della città terrena. E desidero dirlo proprio pensando ai morti che ricordiamo in questi giorni. La fede ne attende la risurrezione dei corpi alla pienezza della vita e dello shalom biblico. Ma questa grande attesa alimenta anche la speranza umana per l’oggi della storia e per il suo prossimo futuro. Pertanto, perché questa speranza resti accesa, vorrei che idealmente qui, dal Campo della Gloria, si levasse come un appello a tutte le donne e gli uomini di buona volontà.
Vorrei che l’appello si rivolgesse in particolare a coloro che, nell’una e nell’altra parte dei diversi e opposti schieramenti politici, dentro la maggioranza e l’opposizione, si richiamano ai principi della libertà e della democrazia e non hanno del tutto perso il senso delle istituzioni e dell’etica pubblica. A voi diciamo che dinanzi alla storia - e, per chi crede, dinanzi a Dio - avete la responsabilità di fermare l’eutanasia della Repubblica democratica. L’appello è invito a dialogare al di là della dialettica e conflittualità politica, a unirvi nel difendere e rilanciare la democrazia nei suoi fondamenti costituzionali. Non è tempo di contrapposizioni propagandistiche, né di beghe di basso profilo.
L’attuale emergenza e la memoria di chi ha combattuto per la Liberazione vi chiedono di cercare politicamente insieme come uscire, prima che sia troppo tardi, dal rischio di una possibile deriva delle istituzioni repubblicane. Prima delle giuste e necessarie battaglie politiche, ci sta a cuore la salute costituzionale della Repubblica, il bene supremo di un’Italia unitaria e pluralista, che insieme vogliamo “libera e democratica”.
Le intuizioni giuridiche del giovane Carlo Azeglio Ciampi al momento della laurea
C’è libertà per le minoranze religiose?
La «libertà concordataria» è ben lontana sia dalle posizioni dei teologi protestanti riuniti nel 1943 alle Giornate del Ciabas, sia di Piero Calamandrei... e puntuale arrivò il Concordato
di JEAN-JACQUES PEYRONEL (Riforma, n. 33, 04.09.2009)
«PERSONALMENTE mi riconoscevo in pieno nelle posizioni di Piero Calamandrei. Non sentivo contraddizione alcuna tra il sentimento religioso al quale ero stato educato in famiglia e a scuola (...) e la formazione laica vissuta negli anni della “Normale”»: così scrive Carlo Azeglio Ciampi nell’introduzione al libro* che pubblica la sua tesi di laurea in Giurisprudenza, sostenuta il 23 luglio 1946 a Pisa, su «La libertà delle minoranze religiose nel diritto ecclesiastico italiano».
Ora è noto che Calamandrei, costituente del Partito d’Azione, fu uno dei più tenaci oppositori all’art. 7 che costituzionalizzò i Patti Lateranensi. Nelle sue «note» sull’acceso dibattito della Costituente, Calamandrei scriveva tra l’altro: «Tutti gli oppositori (...) si rifiutavano di accettare una formula, la quale, venendo a dare ai Patti Lateranensi il carattere di vere e proprie norme costituzionali, avrebbe accolto nella costituzione repubblicana il principio dello Stato confessionale e della religione di Stato consacrato in quei Patti, in aperto contrasto coi principi della libertà di coscienza e della uguaglianza di tutte le religioni di fronte alla legge, proclamati in altri articoli della stessa costituzione».
La tesi di Ciampi, sostenuta otto mesi prima del voto sull’art. 7, parte da questa constatazione: «Mentre la proclamazione della religione dello Stato è solennemente fatta negli articoli 1 dello Statuto e del Trattato, il principio della libertà religiosa non trova nessuna esplicita affermazione del nostro diritto». Libertà religiosa che per lui va intesa come un «concetto giuridico» da distinguere «in due aspetti principali: libertà di coscienza e libertà di culto».
Nell’introduzione al libro, Francesco Margiotta Broglio rievoca il percorso del futuro presidente della Repubblica tra la guerra e gli studi giuridici, concludendo: «Ciampi non poteva sicuramente immaginare, nel luglio del ’46, che i costituenti avrebbero finito per adottare soluzioni pienamente compatibili con le formulazioni assai equilibrate da lui esposte nella dissertazione di laurea in giurisprudenza ».
Gianni Long invece, parlando della situazione degli ebrei e dei protestanti alla vigilia della Costituente in una «città aperta» come Livorno, che diede i natali a Ciampi, ricorda gli atteggiamenti ambivalenti del protestantesimo italiano su questo tema.
La legge sui culti ammessi del 1929, fortemente voluta da Mario Piacentini, ex cattolico sposato con una valdese delle Valli, «fu accolta con entusiasmo da tutti gli evangelici italiani», scrive, ma poi ci fu la «svolta dell’estate del 1943», alle Giornate del Ciabàs, in cui venne rivendicato il «principio della separazione nei rapporti tra chiesa e stato, come il regime nel quale meglio che in ogni altro, essa può svolgere la propria opera con quella libertà che le proviene dalla Parola di Dio», posizione ribadita in un manifesto del Consiglio federale delle chiese evangeliche del 2 giugno 1946, in cui «si enunciavano tre punti: la piena e completa libertà di coscienza e di religione; l’assoluta indipendenza di tutte le chiese dallo Stato; la neutralità religiosa, cioè “l’imparzialità dello Stato, non confessionale e libero da ogni ingerenza ecclesiastica” ». Infine, Long ricorda che le «intese» previste all’art. 8 «non erano volute né dagli ebrei (...) né dai protestanti, legati al principio del diritto comune».
In appendice, Francesco Paolo Casavola, ex Presidente della Corte costituzionale, riflettendo su «Lo Stato tra confessione e laicità», afferma che fu «paradossalmente, il richiamo protestantico alla libertà della coscienza» a richiedere «il soccorso e il sostegno dei poteri statali» in quanto «il compromesso di Westfalia» era «ben più crudo di una proclamazione di confessionismo di Stato, perché postulava anche ideologicamente l’annientamento della libertà di coscienza nell’appartenenza territoriale».
Anche il giovane Ciampi insiste sul principio della libertà di coscienza. Ma, dopo aver parlato dei limiti alla libertà religiosa per motivi di ordine pubblico, ricorda i «limiti del tutto diversi (...) posti al concetto di libertà religiosa da parte cattolica» citando la lettera di Pio XI al Cardinale Gasparri del 30 maggio 1929: «Se si vuole dire che coscienza sfugge ai poteri dello Stato, se si intende riconoscere, come si riconosce, che in fatto di coscienza, competente è la Chiesa ed essa sola in forza di un mandato divino, viene con ciò stesso riconosciuto che in uno Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione devono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica».
Il che fa dire a Ciampi: «Dire che lo Stato (...) riconosce la religione cattolica come la vera, significa l’accettazione completa della dottrina cattolica, che per la sua caratteristica “totalitaria” investe ogni aspetto della vita umana, tendendo necessariamente alla unicità, all’esclusione di qualsiasi altra fede religiosa».
«Se quindi si vuole rispondere alla domanda se in Italia esista un regime di libertà religiosa - conclude Ciampi - la risposta è senz’altro negativa; non si può certo definire “libertà” il trattamento fatto alle minoranze religiose».
Si chiede inoltre: «È ammissibile in un regime di libertà religiosa l’esistenza di un Concordato fra lo Stato e uno dei culti?». La risposta dei costituenti democristiani e comunisti consistette nell’approvazione dell’art. 7 seguito dall’art. 8.
Otto mesi prima, Ciampi scriveva in conclusione della sua tesi: «Se da un lato i sostenitori dello Stato laico hanno ragione quando affermano che non debbano esistere privilegi per nessuna religione, d’altro canto non meno legittima è l’esigenza di valutare l’importanza della tradizione cristiana nella vita della Nazione italiana». Ragion per cui, secondo lui, «lo Stato non può certo disinteressarsi dell’educazione religiosa».
62 anni dopo, non c’è tuttora una legge quadro sulla libertà religiosa, c’è tuttora il Concordato, pur revisionato, e c’è tuttora l’Irc confessionale. E ci sono voluti 37 anni per giungere alla prima firma di un’intesa. A noi pare che questa «laicità concordataria» sia alquanto lontana da quella che chiedevano i giovani barthiani del Ciabàs nel 1943 e anche da quella che avrebbe voluto Piero Calamandrei...
* Carlo Azeglio Ciampi, La libertà delle minoranze religiose, a cura di Francesco Paolo Casavola, Gianni Long, Francesco Margiotta Broglio. Bologna, Il Mulino, 2009, euro 15,00.
Educazione e media: Ruini rilancia il modello-egemonia
L’ex presidente della Cei propone un nuovo patto e trova sponde nel ministro Gelmini. Che ha fornito ampie assicurazioni, dall’ora di religione ai crocifissi nelle classi
di Roberto Monteforte (l’Unità, 23.09.2009)
Una società sempre più lacerata, che ha abdicato al suo compito di indicare modelli e sistemi di valore, in particolare ai giovani, viene meno ad un suo preciso dovere. Un futuro incerto, segnato dalla precarietà: questa è la dura prospettiva per le nuove generazioni. Con questo, con l’emergenza educativa, occorre misurarsi. La Chiesa lancia la sua sfida-provocazione rivolta al mondo cattolico, ma soprattutto a quello laico.
Se ne fa portavoce il cardinale Camillo Ruini, presidente emerito dei vescovi italiani e responsabile del Progetto culturale della Cei che ieri ha presentato il volume «La sfida educativa» edito da Laterza che raccoglie approfondimenti e proposte sulle agenzie educative classiche: scuola, famiglia, comunità cristiana, ma anche sul lavoro, l’impresa, i mass media, lo spettacolo, il tempo libero, lo sport. Tutte realtà che concorrono alla formazione della persona. «L’educazione è una urgenza, o meglio, è una emergenza» scandisce Ruini. «L’educazione per sua natura impone sfide a lungo termine spiegaattorno all’educazione deve trovarsi una convergenza che superi il variare delle persone, delle idee, degli interessi. Il nostro rapporto vuole essere un invito aggiunge a muoverci nella direzione di una alleanza educativa di lungo termine».
Così la Chiesa si propone come luogo di confronto per una società divisa e lacerata, riproponendo una sua centralità. È la strategia che ha segnato l’«era Ruini» e che ieri ha trovato sponde robuste. Ha colto a volo l’occasione il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini per rilanciare il tema dell’identità culturale del nostro paese, contraddistinta dai valori cattolici, con cui devono rapportarsi i giovani figli di immigrati. È da lì che passa l’integrazione per il ministro che ha rassicurato: nulla cambierà sull’ora di religione e sul crocifisso nelle aule. Le sollecitazioni sulla funzione formativa ed educativa dei media contenute nella proposta della Cei sono state raccolte dal presidente della Rai, Paolo Galimberti, che ha riconosciuto la difficoltà a proporre una televisione di qualità. Al confronto ha partecipato anche la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia. ❖
Monsignor Diego Coletti critica la decisione del Tribunale amministrativo
"Alimenta diffidenza verso magistrati. Motivazioni da bieco illuminismo"
I vescovi contro il Tar del Lazio
Gelmini: "Faremo ricorso"
Gasparri: "Deriva anticattolica". Volonté: "Magistratura fuori legge"
Il ministro dell’Istruzione: "Così si discrimina la religione cattolica"
CITTÀ DEL VATICANO - "Sentenza pretestuosa", "bieco illuminismo". La Chiesa non ci sta e, tramite monsignor Diego Coletti, presidente della Commissione episcopale per l’educazione cattolica scatena fuoco e fiamme sulla sentenza del Tar del Lazio che esclude gli insegnanti di religione dagli scrutini. Passano poche ore e il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini mette in pratica l’indignazione dei vescovi: "Farò ricorso al Consiglio di Stato contro la sentenza". Secondo il ministro questa decisione discrimina la religione cattolica. "L’ordinanza del Tar determina un ingiusto danno nei confronti di chi sceglie liberamente di seguire il corso", dice la responsabile dell’istruzione che difende il ruolo degli insegnati di religone: "Non è giusto sminuire il loro ruolo, come se esistessero docenti di serie a e di serie B".
Proprio quello che la Cei aveva chiesto. "Non credo - aveva detto ai microfoni della Radio Vaticana monsignor Coletti - che tocchi alla chiesa come tale fare ricorso. Tocca ai cittadini italiani organizzati in partiti o in associazioni culturali esprimere il loro parere, il loro dissenso di fronte a una sentenza così povera di motivazioni e credo che lo stesso ministero dovrà fare un ricorso perché ciò che è stato messo sotto accusa non è l’opinione della Chiesa ma una circolare del ministero, un qualche cosa che attiene all’organizzazione della scuola di Stato e credo quindi che siano questi gli organismi che debbano muoversi".
Monsignor Coletti ha definito la sentenza particolarmente pretestuosa e ha riaffermato che l’insegnamento della religione cattolica è parte integrante della conoscenza della cultura italiana, e in questo senso va inteso nel sistema scolastico italiano, non come percorso confessionale individuale. "Non si tratta di un insegnamento che va a sostenere scelte religiose individuali: ma di una componente importante di conoscenza della cultura di questo Paese, con buona pace degli irriducibili laicisti e purtroppo dobbiamo dire con buona pace anche dei nostri fratelli nella fede di altre confessioni cristiane".
La sentenza del Tar del Lazio, ha proseguito Coletti, rischia di alimentare diffidenza e sospetto verso la magistratura che sono già troppo alti in Italia e sono fenomeni che invece vanno contrastati. "Non conosco i giudici del Tar del Lazio - ha detto il vescovo di Como - anche se questo tribunale amministrativo ha una sua lunga storia che molti conoscono. Caso mai ci sarà da chiedersi come mai la competenza su una questione così delicata venga data a un tribunale amministrativo regionale".
Critiche alla sentenza arrivano anche dal fronte politico. E sono trasversali. Giuseppe Fioroni, ora responsabile organizzazione del Pd, da ministro della Pubblica istruzione fautore delle contestate ordinanze, ha invitato il ministro Mariastella Gelmini a fare ricorso. Il presidente del gruppo Pdl al Senato, Maurizio Gasparri, ha parlato di "deriva anticattolica che non ha precedenti nella storia e nella tradizione del nostro Paese". Sulla stessa linea il presidente del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, secondo cui "il Tar del Lazio non coglie il problema e rischia di gettar via il bambino insieme all’acqua sporca". Il punto "è quello di assicurare lo stesso numero di ore di frequentazione scolastica a ogni alunno, cosa che non avvenendo determina la discriminazione su cui è intervenuto il Tar del Lazio". E di "vergognosa e ideologica sentenza" parla anche Luca Volontè dell’Udc secondo il quale "la magistratura è fuorilegge".
Favorevole alla sentenza il leader dell’Idv, Antonio di Pietro: "Da cattolico, rispettoso della Chiesa e dei suoi comandamenti, non posso che condividere la decisione del Tar del Lazio in quanto in uno Stato laico tutti i cittadini, cattolici e non cattolici, hanno uguali diritti". Della stessa opinione sono i ragazzi dell’Unione degli studenti, che la considerano "un passo avanti nella direzione della laicità della scuola pubblica".
"Da sempre - ha sottolineato l’Uds - riteniamo incostituzionali le ordinanze dell’allora ministro Fioroni e vediamo con entusiasmo l’accoglimento del ricorso di cui l’Unione degli Studenti è stata l’associazione studentesca firmataria". "Viva soddisfazione" è stata espressa anche dal presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, il pastore Domenico Maselli, tra i firmatari del ricorso avanzato, tra gli altri, anche dalla Consulta romana per la laicità delle istituzioni e dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), insieme a decine di associazioni laiche e a diverse confessioni religiose non cattoliche - tra cui avventisti, battisti, ebrei, luterani, pentecostali e valdesi - nonché da due studenti oggi ventenni, che in sede di scrutinio degli esami statali si erano visti discriminati nell’attribuzione del voto finale, perché non avevano frequentato l’ora di religione.
Il dio ignoto della patria leghista
di Fulvio Tessitore l(a Repubblica/Napoli, 31.07.2009)
POVERA Italia! Sì, Italia e non Mezzogiorno e Napoli dinanzi all’ultima, ormai sono quasi quotidiane, esternazione di becero razzismo della Lega. Non serve, non vale lamentare il silenzio dei “meridionalisti” di destra alleati della Lega. La questione non riguarda Napoli e il Mezzogiorno. La questione riguarda tutto il nostro Paese, ormai stordito, frastornato dal “regime di propaganda” e dalla rozza incultura della Lega. Il suo razzismo è da suburra (per i signori della Lega ricordo che così si chiamava, nell’antica Roma, la valle tra il Palatino e l’Esquilino, abitata dalla parte più bassa della popolazione) e da lupanare (ossia, sempre a uso dei signori della Lega, nell’antica Roma, la casa delle puttane). Non è il Mezzogiorno a essere offeso, è l’Italia tutta, ivi compresa la grande cultura lombarda che, con le culture veneta, piemontese, napoletana e siciliana, ha fatto la storia e data la sostanza alla cultura pluralistica (altro che razzismo) del nostro Paese.
Ma tant’è: sia consentito a un napoletano orgoglioso di esserlo parafrasare il gran lombardo, Manzoni (da me napoletano tanto amato) e dire: «la cultura» come «il coraggio chi non ce l’ha, non se lo può dare». E, tuttavia, noi napoletani e meridionali non possiamo e non dobbiamo accogliere, con un sorriso di superiorità, quella di una cultura e una città cosmopolitiche quali sono Napoli e la sua cultura, l’insulto razzistico della Lega. Questa volta, addirittura, lanciato nella commissione Cultura della Camera, non in un coro da adunata di suburra.
Perché non dobbiamo e non possiamo tacere? Ma perché questo razzismo da incultura si coniuga col lascivo contegno di uomini pubblici, che non sanno neppure più coprire con ipocrite “pubbliche virtù” i propri “vizi privati” e anzi se ne vantano solleticando il fariseismo di una borghesia priva di valori e la parte più rozza del Paese.
Come contrastare il razzismo se si infanga e si ignora la pubblica e privata moralità? Mi viene in mente una domanda dalle “Confessioni” di Rousseau, che suona così: «Qual è la natura del governo atto a formare il popolo più virtuoso, più illuminato, più saggio». Si rispondeva che questa, la virtù, era il metro per valutare un governo. Che ne deriva circa la qualità del nostro governo, tra offesa alla moralità e razzismo, che è anch’esso una forma - e assai grave - di offesa alla eticità di un popolo?
Dinanzi a tanto non si può tacere, non possiamo e non dobbiamo tacere, in specie noi laici meridionali e i nostri compagni laici settentrionali. I laici hanno nel loro Dna il rispetto dell’altro, questo è il significato della laicità. Non possiamo e non dobbiamo tacere, sperando di trovare accanto a noi gli uomini di chiesa, non solo gli eccezionali giovani sacerdoti e gli straordinari parroci dei nostri quartieri degradati.
Quando sono stato senatore di Bagnoli, Fuorigrotta, Soccavo, Pianura, Chiaiano, ne ho incontrati tanti e ho visto in loro i soli, i pochi generosi operatori sociali in aiuto della gioventù da togliere dalla strada e dal malaffare e dei diseredati di ogni colore e cultura. Noi laici, “religiosamente laici”, dobbiamo sperare di trovare, prima o poi, finalmente con noi qualche esponente della gerarchia cattolica, qualche teologo anche se conservatore sul piano dottrinario.
Proprio questi, sostenitori tenaci del nesso indissolubile di fede cristiana e di ragione classica, dovrebbero sapere che non è atto di fede né di ragione l’offesa alla dignità della persona, quella che un grande protestante dell’Ottocento definiva bellamente «parola cristiana».
La fede, colle sue virtù della carità e della pietà, non può tollerare nessuna forma di razzismo becero, da suburra e da lupanare e nessuna trasformazione in lupanare delle pubbliche istituzioni.
Non c’è interesse che tenga, non c’è ideologia che valga: tollerare razzismo e immoralità pubblica e privata è spregevole cinismo, è immonda ipocrisia, è antipolitica, quella dei miserevoli cantori del nostro governo.
Siano perciò consentiti un appello e una preghiera. L’appello agli uomini seri - ve ne sono tanti - di destra a rispettare i valori del loro credo politico. La preghiera alla gerarchia cattolica di “predicare dai tetti” i valori del Vangelo, senza ipocrisie e strumentalizzazioni, in nome della dignità della persona, “parola cristiana”. Che Dio li illumini. Che Dio ci assista. Che non si debba, ancora una volta, raccomandare sé e la patria al dio ignoto.
STATO E CHIESA: APOLOGIA DELL’UOMO DELLA PROVVIDENZA, DI IERI E DI OGGI. Benito Mussolini aveva carisma, come Berlusconi. Una riflessione di Lucetta Scaraffia, sul film di Marco Bellocchio
Non si può continuare a dire che gli italiani che hanno favorito e accettato l’ascesa di Mussolini erano solo stupidi e accecati, esattamente come oggi si dice di chi vota Berlusconi: nella vita politica moderna il fascino carismatico occupa un posto importante, e bisogna farsene una ragione.
Il presidente e la difesa della Costituzione antifascista
La lezione di democrazia del Presidente
di Jolanda Bufalini*
LA DEMOCRAZIA REPUBBLICANA C’è “la leggerezza negli atteggiamenti con cui si assumono atteggiamenti dissacranti e si tende a mettere in causa un patrimonio di principi che ha costituito per l’Italia una acquisizione sofferta”.
LA CADUTA DEL FASCISMO, LE FORZE ALLEATE, LA RESISTENZA“Avevo 18 anni il 25 luglio del 1943 quando fui raggiunto via radio a tarda sera dalla fulminante notizia della caduta di Mussolini...al fondo vi era una crisi profonda tra il paese e il fascismo, a cominciare dall’andamento disastroso della guerra irresponsabilmente voluta da Mussolini... Torna alla mente l’euforia di quel momento. Avevamo già maturato, insieme ad altri della nostra generazione non solo la più radicale contrapposizione al fascismo ma anche la convinzione, cui non era stato facile giungere, che la salvezza dell’Italia potesse avvenire solo dalla sconfitta ad opera delle forze alleate.....Ma alla fine del settembre 1943, ebbi la percezione diretta della condizione durissima in cui era precipitata la mia città, Napoli, chiamata a vivere l’esperienza dell’occupazione alleata.
LA COSTITUZIONE Napolitano cita i governi di coalizione antifascista, l’Assemblea eletta dal popolo con il mandato di adottare la Carta Costituzionale, il voto alle donne..... “La democrazia italiana rinacque su basi più ampie e più solide e non senza contrasti ma in un processo irresistibile dall’alto e dal basso.... La Costituzione repubblicana non è dunque una specie di residuato bellico ... I valori dell’antifascismo e della Resistenza non restarono mai chiusi in una semplice logica di rifiuto e di contrasto, sprigionarono sempre impulsi positivi e propositivi, e poterono perciò tradursi, con la Costituzione, in principi e in diritti condivisibili anche da quanti fossero rimasti estranei all’antifascismo e alla Resistenza. Perciò il 25 aprile non è festa di una parte sola”.
ISTITUZIONI DI GARANZIA “Rispettare la Costituzione significa anche riconoscere il ruolo fondamentale del controllo di costituzionalità e dunque l’autorità delle istituzioni di garanzia. Queste non dovrebbero mai formare oggetto di attacchi politici e giudizi sprezzanti. Tutte le istituzioni di controllo e di garanzia non possono essere viste come elementi frenanti del processo decisionale, ma come presidio legittimo di quella dialettica istituzionale che in definitiva assicura trasparenza, correttezza, tutela dei diritti dei cittadini”.
POTERI DELL’ ESECUTIVO Spetta ancora una volta al Parlamento pronunciarsi sulla possibilità di procedere sulla revisione della Costituzione, sugli obbiettivi da perseguire, sul grado di consenso a cui tendere....Ma molte cose sono via via cambiate a partire dagli anni ’90 con il crescente ricorso alla decretazione d’urgenza e da ultimo con il rafforzarsi del vincolo tra governo e maggioranza parlamentare, così come con il drastico ridursi della frammentazione politica in Parlamento. Ciò ha indotto uno studioso e protagonista come Giuliano Amato a giudicare “oggi obsoleta la tradizionale constatazione della debolezza del governo nel rapporto con il Parlamento”.
IL FEDERALISMO Condivisa e percorribile è di certo l’ipotesi di una riforma della Costituzione che segni il superamento dell’anomalia di un anacronistico bicameralismo perfetto, il coronamento dell’evoluzione in senso federale, da tempo in atto, come ho ricordato, con la istituzione di una Camera delle autonomie in luogo del Senato tradizionale.
LA DIVISIONE DEI POTERI Il Presidente cita Bobbio a proposito dell’esigenza di tenere sempre ben ferma la validità e irrinunciabilità delle “principali istituzioni del liberalismo” - concepite in antitesi a ogni dispotismo - tra le quali -, “la garanzia di diritti di libertà (in primis libertà di pensiero e di stampa), la divisione dei poteri, la pluralità dei partiti, la tutela delle minoranze politiche”. E sempre Bobbio metteva egualmente l’accento sulla rappresentatività del Parlamento, sull’indipendenza della magistratura, sul principio di legalità. Tutto ciò non costituisce un bagaglio obsoleto, sacrificabile - esplicitamente o di fatto - in funzione di “decisioni rapide, perentorie e definitive” da parte dei poteri pubblici. E mi sarà permesso di richiamare anche il riconoscimento del Capo dello Stato come “potere neutro”, secondo il principio che, enunciato da Benjamin Constant due secoli fa, ispirò ancora i nostri padri costituenti nel disegnare la figura del Presidente della Repubblica.
IL PARLAMENTO Ho egualmente menzionato come essenziale la rappresentatività del Parlamento : a proposito della quale penso si possa dire che essa non viene fatalmente incrinata da regole vigenti in diversi paesi democratici, finalizzate ad evitare un’eccessiva frammentazione politica, ma rischia di risultare seriamente indebolita in assenza di valide procedure di formazione delle candidature e di meccanismi atti ad ancorare gli eletti al rapporto col territorio e con gli elettori.
L’EUROPA L’impegno per l’ulteriore, più conseguente sviluppo dell’integrazione europea è per noi italiani parte essenziale dell’impegno a proiettare nel futuro la nostra Costituzione repubblicana. La prospettiva dell’Europa unita, a favore della quale consentire alle necessarie limitazioni di sovranità, fu evocata nel dibattito dell’Assemblea costituente e fu di fatto anticipata nel lungimirante dettato dell’articolo 11 della nostra Carta.
L’ABRUZZO In queste settimane, dinanzi alla tragedia del terremoto in Abruzzo, l’Italia è stata percorsa da un moto di solidarietà che ha dato il senso della ricchezza di risorse umane - vere e proprie, preziose riserve di energia - su cui il paese può contare, in uno spirito di unità nazionale....Parlo di un rilancio, davvero indispensabile, del senso civico, della dedizione all’interesse generale, della partecipazione diffusa a forme di vita sociale e di attività politica. Parlo di uno scatto culturale e morale e di una mobilitazione collettiva, di cui l’Italia in momenti critici anche molto duri - perciò, oggi, di lì ho voluto partire - si è mostrata capace.
* l’Unità, 22 aprile 2009
La laicità è più della polemica con la Chiesa cattolica
L’Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia. Un pensiero che ha attraversato tutta la modernità, e che non ha mai trovato adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica
di Biagio Di Giovanni (il Riformista, 22.04.2009)
Che cos’è la laicità? È qualcosa di molto più ampio di una polemica, per quanto aspra, nei confronti della Chiesa cattolica, avverte Michele Ciliberto, curatore di un bel volume elegantemente intitolato al tema: "Biblioteca laica. Il pensiero libero dell’Italia moderna" (Laterza 2008). E il primo commento che viene spontaneo al lettore, è che l’Italia ha avuto un pensiero laico di altissimo livello europeo, spesso in posizione di avanguardia: a opera di quella intellettualità italiana cosmopolitica che dall’umanesimo in poi ha contribuito a fare l’Europa. Un pensiero, quello laico, che ha attraversato tutta la modernità, e che forse non ha mai trovato una adeguata rappresentazione nella dimensione più propriamente politica.
Come se i pensieri che hanno percorso la cultura e la vita civile si inaridissero a contatto con un potere che raramente si è collocato alla loro altezza, pure per i ritardi nel farsi l’Italia nazione. Per cui i discorsi di Cavour sulla libera Chiesa in libero Stato, pronunciati in Parlamento fra il marzo e l’aprile del 1861, poco prima della morte (e riportati a conclusione del volume), restano esempio raro di una coscienza politica laica cristallina, che rapidamente declinò verso deboli compromessi istituzionali.
La storia della Chiesa ha costituito un ostacolo per la storia dell’Italia nazione secondo l’idea di Machiavelli, non di un agitatore sconsiderato: ma si è perso il seme del problema. Ne ha ritardato l’unità, prima operando attraverso la separazione, sottraendo parti di legittimazione allo Stato, lasciandolo guardare come una mera macchina di potere; poi, attraverso una costante invasione di campo (rare le eccezioni: il grande Giovanni XXIII su tutti) che fa del nostro Paese qualcosa di unico nel panorama europeo su questo tema. E qui tutti hanno avuto le loro responsabilità, soprattutto quella sinistra che intese costruire un aspetto del compromesso sociale e politico con la costituzionalizzazione dei Patti lateranensi, condizione privilegiata per la Chiesa, cui non corrisponde, per essa, una uguale serie di doveri civili.
Ma torniamo al libro, che consiglio soprattutto, al giovane lettore, di tenere sul comodino, ogni sera qualche pagina da leggere. «Nella laicità - scrive Ciliberto - si è espressa una vera e propria concezione della sapienza - quella mondana, civile che appare in modo luminoso nei testi qui adunati. Se si vanno a leggere i capisaldi di tale cultura, ci imbattiamo in concetti decisivi come quelli di legge, di conflitto, di eguaglianza, di dissimulazione, di bisogno, di libertà di stampa, di opinione pubblica, fino all’argomentazione del rifiuto della tortura e della pena di morte».
Laicità, dunque, come sapienza mondana, dove si affollano i temi della condizione umana finita, che si muove fra necessità, libertà e dubbio, tra virtù e fortuna, che accetta di stare nel mare della vita, sapendo che «gli uomini non comandano alle stelle», come scriveva Machiavelli, o che «gli uomini sono al buio delle cose», come diceva lo scarno Guicciardini, e che «le religioni nascono, crescono e muoiono», come insegnava Pietro Pomponazzi.
Gli straordinari frammenti sulla religione di fra’ Paolo Sarpi, che, liberamente religioso, paventava quei pensieri che rendevano gli avvenimenti «più soggetti alla provvidenza che alla disposizione umana». E la "libertas philosophandi" nasce in questo orizzonte, conquista combattendo la sua autonomia, per cui «chi proibisce ai Cristiani lo studio della filosofia e delle scienze proibisce loro anche di essere cristiani», come scriveva fra’ Tommaso Campanella, dal carcere dell’inquisizione contro le pretese della Chiesa di allora. E Giordano Bruno, con eroico furore, scelse di morire per non abiurare alla sua convinzione.
Insomma, il senso di una sapienza assai umana, premessa di vita civile, che contribuì alla rappresentazione di una cultura non preda di un relativismo algido e agnostico, ma che pose pure le basi di quella religione civile capace di costruire istituzioni, la religione civile che va da Machiavelli a Francesco De Sanctis e a Bertrando Spaventa. Proprio questa sapienza diventa rispettosa della vita, fonte di istituzioni umane. Essa condanna, nelle pagine di Beccaria, con anticipo su tutta Europa, la pena di morte e la tortura, condanna motivata nell’autonomia della vita morale. E poi afferma la necessità della educazione pubblica, della libera stampa, del conflitto da cui nasce armonia, di una autonoma costituzione politica, di una legge che spezzi i privilegi, e di una religiosità cristiana intrinsecamente non clericale, come nelle pagine di Alessandro Manzoni dedicate al tema della responsabilità umana.
Insomma, una grande Italia, di cui qualche volta ci dimentichiamo, persi nelle nostre controversie quotidiane, in alcune miserie presenti e passate, o supini rispetto a visioni che riportano indietro la nostra coscienza civile, quasi che la religione non dovesse germinare dall’interno della nostra viva umanità, ma si scandisse in un suo tempo separato come un recinto del sacro da cui promanano i custodi della verità.
SCHEDA -LATERZA
Michele Ciliberto (a cura di)
Biblioteca laica
Il pensiero libero dell’Italia moderna
con la coll. di O. Catanorchi e F. Dell’Omodarme
In breve
«Chi proibisce ai cristiani lo studio della filosofia e delle scienze proibisce loro anche di essere cristiani.» Così scriveva Tommaso Campanella, nell’Apologia di Galileo del 1616, in difesa del principio della libertas philosophandi, predicato specifico e irrinunciabile dell’indagine umana cui non sfuggono né la natura né la religione. È solo un esempio del significato e del valore di quella cultura italiana nella quale si è raccolto quanto di meglio la nostra storia ha generato lungo i secoli moderni. Cultura laica - da non confondere con anticlericale, come spesso è accaduto - nella quale si è espressa una vera e propria concezione del sapere. «Se si vanno a leggere i capisaldi della cultura laica, ci imbattiamo in concetti decisivi come legge, conflitto, eguaglianza, dissimulazione, bisogno, libertà di stampa, opinione pubblica, fino all’argomentazione del rifiuto della tortura e della pena di morte. Princìpi, ieri come oggi, di una sapienza che in Italia ha trovato uno dei suoi luoghi di nascita e di maggiore sviluppo.» Una sapienza mondana e civile, che appare in modo luminoso nei testi qui raccolti - da Leon Battista Alberti a Camillo Benso di Cavour, passando, tra gli altri, per Giordano Bruno, Machiavelli, Leopardi, Manzoni - i quali, organizzati tematicamente, affrontano argomenti come la condizione umana, la nascita (e la morte) delle religioni, la loro funzione civile, la critica della Chiesa di Roma e del cristianesimo, la teorizzazione della ‘libera Chiesa in libero Stato’.
Indice
Premessa - Introduzione - I TESTI - 1. Sulla condizione umana - 2. Nascita (e morte) delle religioni - 3. Miracoli, ‘contrazioni’, indemoniati - 4. Sulla funzione civile della religione - 5. Critica della Chiesa di Roma e del cristianesimo - 6. ‘Libertas philosophandi’ - 7. Sapienza mondana - 8. Né guelfi né ghibellini: libera Chiesa in libero Stato - Indice dei nomi Indice completo
Recensione di Massimo Todori - Il Sole-24 ore
Il popolo
L’oggetto del desiderio della nuova demagogia
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 31.03.2009)
La concezione liberale lo vede non come una massa uniforme che applaude un uomo ma come un insieme di individui e cittadini. E’ nell’Ottocento che gli viene attribuita in quanto volontà collettiva la fonte della legittimità dei governi e anche la sovranità politica
"Il popolo" è tra le categorie politiche quella forse più ambigua e più abusata, al punto di essere ora adottata addirittura per designare un partito, come se "la parte" e "il tutto" si identificassero; anzi, come se "la parte" si proponesse identica al tutto.
L’origine del termine "popolo" è latina e nella tradizione romana repubblicana aveva un significato di opposizione/distinzione rispetto a una parte di popolazione che non era popolo: l’aristocrazia o il patriziato. Per questa sua connotazione non socialmente unitaria, dovendo decidere la denominazione della nuova assemblea convocata all’indomani della presa della Bastiglia, nel 1789, i costituenti francesi preferirono l’aggettivo "nazionale" a "popolare".
L’incorporazione del "popolo" nella concezione moderna della sovranità statuale e poi la sua identificazione con la nazione vennero perfezionate nel corso dell’Ottocento. Nel 1835 Giuseppe Mazzini lo definì "l’unica forza rivoluzionaria" esistente anche se "mai scesa nell’arena" politica, fino ad allora il luogo esclusivo della "casta" aristocratica e militare. Popolo venne a identificarsi con volontà collettiva e quindi con la sorgente del consenso fondamentale senza il quale nessun governo poteva dirsi legittimo.
Ma è proprio nella natura singolare del nome che sta il problema. Nelle principali lingue europee ad eccezione della lingua inglese, i termini Popolo, Peuple, Volk designano un’entità organica, un tutto unico la cui volontà è una ed è legge. Lo stesso Jean-Jacques Rossueau, al quale ingiustamente è stata attribuita la paternità teorica della democrazia totalitaria, aveva anticipato i rischi di plebiscitarismo quando, descrivendo l’assemblea popolare come unico legittimo sovrano, aveva precisato con molto acume che i cittadini vi si recano individualmente, e poi, una volta riuniti in assemblea, danno il loro voto in silenzio, ragionando ciascuno con la propria testa e senza consentire a nessun oratore di manipolare i loro consenso.
Le adunate oceaniche di memoria fascista e nazista sono state una negazione della volontà popolare democratica alla quale pensava Rousseau e che è così ben definita nella nostra costituzione.
Quelle adunate di popolo, che ricalcavano il modello dell’antica Sparta dove le assemblee si concludevano urlando il "sì" o il "no" alla proposta del consiglio, non erano per nulla un segno di democrazia. In Atene, alla quale dobbiamo la nostra visione della democrazia, i cittadini si recavano all’assemblea e votavano individualmente, con voto segreto, e infine contavano i voti uno per uno, non fidandosi dell’impressione acustica provocata dall’urlo come a Sparta.
Il modo di raccogliere il consenso e la procedura di computa dei voti sono stati da allora i due caratteri cruciali che hanno dato democraticità alla categoria ambigua di popolo; che hanno anzi consentito di togliere l’ambiguità ed evitare l’abuso.
È chiaro infatti che se il termine "popolo" è singolare, sono le regole che si premuniscono di renderlo plurale. Il popolo dei populisti, quello per intenderci della concezione fascista e plebiscitaria, non è lo stesso del popolo democratico: ne è anzi la sua degenerazione e negazione. È ancora a un autore classico che ci si deve affidare per comprendere questa distinzione cruciale.
Nella Politica Aristotele distingue tra varie forme di democrazia, procedendo da quella meno pessima o sufficientemente buona a quella assolutamente pessima: la migliore è quella nella quale le funzioni del popolo di votare in assemblea sono affiancate da quelle di magistrati eletti; la peggiore è quella demagogica, un’unità nella quale la voce del demagogo diventa la voce del popolo e il pluralismo delle idee si assottiglia pericolosamente.
Nel Novecento, Carl Schmitt ha dato voce a questa visione di democrazia plebiscitaria o cesaristica integrandola con una critica radicale del Parlamento: perché perdere tempo a discutere se ci si può valere di un leader che sa quel che il popolo vuole visto che la sua volontà è una sola con quella del suo popolo?
Il termine popolo acquista dunque un significato meno ambiguo e soprattutto liberale quando è associato non a una massa uniforme che parla con una voce e si identifica con un uomo o un partito, ma invece all’insieme degli individui-cittadini che fanno una nazione.
Individui singoli perché il consenso non è una voce collettiva nella quale le voci individuali scompaiono, ma un processo che tutti contribuiscono a formare. Il pluralismo è il carattere che fa del popolo un popolo democratico; anche perché il voto è l’esito di una selezione tra diverse proposte o idee che devono potersi esprime pubblicamente per poter essere valutate e scelte.
Vox populi vox dei ha un senso non sinistro solo a una condizione: che la democrazia abbia regole e diritti non alterabili dalla maggioranza grazie ai quali i cittadini possono liberamente partecipare al processo di definizione e interpretazione di quella "voce".
Ma se la "vox dei" abita un luogo definito e unico - sia esso un partito o un potere dello stato o un uomo - se acquista un significato unico, allora è la voce non più del popolo ma di una sua parte che si è sostituita ad esso.
Concludendo in sintonia con questa analogia religiosa, vale ricordare che l’unanimità e la concordia ecclestastica finirono quando il pluralismo interpretativo del cristianesimo si affermò. La democrazia costituzionale può essere a ragione considerata una forma di protestantesimo politico.
UNA TEOCRAZIA IMPERFETTA
di Alessandro Carrera *
Un mio collega che segue le cose italiane mi ha chiesto di spiegargli che cosa significa per l’Italia la controversia intorno a Eluana Englaro (che in America ha fatto capolino anche su CNN). Senza pensarci, istintivamente, gli ho detto che per capire l’Italia di oggi deve pensare all’America coloniale, prima della dichiarazione d’indipendenza. Finché è durata la Prima Repubblica, la Democrazia Cristiana aveva un’importante funzione di mediazione tra il Vaticano e l’Italia. Venuta meno la DC la mediazione è saltata, e gli italiani si sono trovati esposti alla lotta che da allora, a Roma come nel resto d’Italia, si svolge tra due stati per il controllo dello stesso territorio. Il risultato è una situazione coloniale e una teocrazia imperfetta.
In una nota dello Zibaldone datata 1 dicembre 1825, Leopardi osserva che i romani e in generale gli italiani, per via del gran numero di papi non italiani che hanno avuto, sono l’unico popolo che non trova strano il fatto di essere comandato da un capo di stato straniero. Tale situazione di “pacifica e non cruenta schiavitù, e quasi conquista” (parole testuali) non solo è data per scontata, è anche obliata. Molti italiani non sanno affatto di vivere in una colonia e non in uno stato sovrano, che le curie vescovili agiscono sul loro territorio come agenzie coloniali, e che lo stato non è retto da governanti ma da governatori. Alcuni di questi governatori hanno mantenuto un certo grado di autonomia e infatti sono stati rimossi. Altri, come quello attualmente in carica, si vogliono distinguere per zelo e fanno di tutto per guadagnare crediti agli occhi del loro sovrano.
Che cosa vuole un potere coloniale? Riscuotere le tasse (l’otto per mille, pagato in anticipo dallo stato italiano, prima ancora di averlo incassato) e tener buoni i nativi. Non interviene a gestire la cosa pubblica. A tale scopo ha bisogno di una classe di colonizzatori collocati nei governi locali, nell’istruzione e nei media, e che avrebbero tutto da perdere se la popolazione locale alzasse la cresta e volesse prendere decisioni autonome. Non disponendo di un esercito, la potenza coloniale dalla quale l’Italia dipende fa di più e di meglio: sostenendo di essere l’unica istituzione in grado di interpretare il diritto naturale (ma se è naturale come può avere un solo interprete?) sottrae al popolo la possibilità di gestirsi come soggetto morale. Agli occhi di questo potere coloniale, la popolazione è fatta di indigeni senza autonomia decisionale e che devono essere guidati, premiati o castigati a seconda dei casi.
Vivo in America da ventun anni. Quando torno nel paese in cui sono nato, ogni volta che varco le porte di un’istituzione connessa alla gerarchia religiosa capisco di trovarmi di fronte all’unica classe dirigente che esista oggi in Italia. Sono svegli, colti, informati. Viaggiano, imparano, e hanno un’idea molto chiara dello scopo che perseguono. Tra loro vi sono serie differenze d’opinione, naturalmente, perché la Chiesa è una grande istituzione, tanto vasta al suo interno da poter essere reazionaria su alcuni punti e progressista su altri, nonché dotata, su alcune specifiche questioni, di maggiore buon senso dei governanti laici. Voglio solo far notare che questa classe dirigente, la sola attiva in Italia, non lavora per l’Italia ma per un altro stato, che i suoi rappresentanti sono agenti di una potenza straniera operante su un suolo colonizzato e che i funzionari indigeni, se in un momento di crisi devono scegliere tra la potenza coloniale e la colonia, sanno benissimo che la loro lealtà deve andare alla prima.
Le conseguenze di questa teocrazia imperfetta sono molteplici. Da un lato, la potenza coloniale costituita dal Vaticano, dalla CEI, dalla Compagnia delle Opere (stavo per dire la Compagnia delle Indie, ma del resto i gesuiti nel Settecento chiamavano le isole “le Indie d’Italia”) raccoglie tutti i benefici; dall’altro non si assume responsabilità spicciole. Non deve costruire ferrovie, risolvere crisi economiche o ripulire i cantieri dall’amianto. Questo è compito dei funzionari indigeni. Se falliscono, la colpa è interamente loro. La potenza coloniale aborrisce i dettagli, glielo impedisce la sua stessa superiorità morale. Molti studiosi della modernità, stranieri e non, osservano spesso che gli italiani non hanno ben chiaro che cosa sia la responsabilità individuale, e nemmeno di che natura sia il vincolo che lega il cittadino alla legge. Ma nessuno può crescere come soggetto morale e giuridico se ogni giorno constata che nemmeno i governanti da lui eletti sono padroni in casa propria, e che l’ultima autorità non risiede presso di loro, bensì presso i rappresentanti di uno stato straniero che lui non ha eletto e non avrebbe potere di eleggere.
La situazione di teocrazia imperfetta toglie agli italiani la dignità di decidere e quindi anche di sbagliare, affrontando da adulti le conseguenze delle proprie decisioni. Agli occhi della gerarchia coloniale gli italiani sono dei Renzo Tramaglino, tanto bravi e un poco sciocchi, e se non interviene Fra’ Cristoforo a dirgli che cosa devono fare non ne combinano una giusta.
Finché gli italiani non si renderanno conto di essere colonizzati non avranno nessuna speranza di diventare adulti. E nulla cambierà finché non verrà sottoscritta una Dichiarazione d’Indipendenza del Popolo Italiano. Che potrebbe cominciare ispirandosi a quella stesa da Thomas Jefferson: “Quando nel corso degli eventi umani diventa necessario per un popolo dissolvere i legami politici che l’hanno legato a un altro e assumere, tra le potenze della terra, lo statuto separato e uguale al quale le leggi della natura e divine gli danno diritto...”. Gli italiani potranno allora ascoltare quello che i loro funzionari ex-coloniali hanno da dire, e potranno loro rispondere: “Grazie, terremo conto del vostro parere, ma siamo indipendenti, siamo un’altra nazione”.
È difficile per due nazioni condividere lo stesso territorio, ma una nazione è formata dai suoi cittadini e dalle sue leggi, non dai suoi chilometri quadrati. E siccome la strada verso l’indipendenza sarà lunga e faticosa, intanto è bene che la Dichiarazione d’Indipendenza venga sottoscritta interiormente, cittadino per cittadino, che si faccia ricorso ad essa ogni volta che si tratta di prendere decisioni difficili, e che in ogni momento della giornata venga sempre tenuta in mente, stampata a caratteri d’oro, costi quello che costi. (Houston, 11 febbraio 2009)
Alessandro Carrera
University of Houston
SCONTRO ISTITUZIONALE SULLA RAGAZZA IN COMA DA 17 ANNI
Eluana, il governo approva il decreto
Stop di Napolitano: è incostituzionale
Berlusconi ignora il no del Quirinale
«Andiamo avanti, siamo nel giusto»
Il Pd: «Segnale di spregiudicatezza» *
ROMA «Andiamo avanti, siamo nel giusto». Il governo ignora il richiamo del Quirinale e vara il decreto su Eluana Englaro, la ragazza in coma da diciassette anni, ma Napolitano rifiuta di firmare il testo: «Non supera le obiezioni di incostituzionalità». Si schiera con il Colle anche Fini, che accoglie la notizia con «forte preoccupazione».La vicenda dunque si trasforma in scontro istituzionale.
Il voto all’unanimità Il Cdm, dice Berlusconi, si è espresso all’unanimità nonostante «ministri che avevano una posizione difforme». Il decreto legge varato dal Consiglio dei ministri «è molto rispettoso del lavoro del Parlamento, che ci auguriamo sia molto intenso, sulla regolazione della fine vita» ha garantito Sacconi. Secondo il ministro del Welfare «il decreto è assolutamente laico» perché «lo stato di Eluana, è uno stato vegetativo persistente, non permanente, e non sappiamo quanto sia reversibile, quanta percezione ci possa essere, e comunque in questo caso ci sono tutte le percezioni attive. Lo stato vegetativo persistente non è certamente irreversibile». Ma la decisione del governo ha ignorato l’appello inviato in mattinata dal Quirinale. Se il presidente della Repubblica non dovesse firmare il decreto, ha detto Berlusconi, «il Parlamento dovrà riunirsi ad horas e approvare in 2-3 giorni la legge che è già in itinerario legislativo. Altrimenti Eluana sarebbe vittima di una legge che non c’è». Una eventualità subito verificatasi. «Il Presidente ritiene di non poter procedere alla emanazione del decreto» si legge nella nota diramata dal Quirinale subito dopo l’annuncio del premier.
Scintille sulla lettera del capo dello Stato Berlusconi, in conferenza stampa, aveva definito lettera di Napolitano una «innovazione: il capo dello Stato in corso d’opera del Cdm, può intervenire anticipando la decisione del Cdm sulla necessità e urgenza» di un provvedimento, «e per questo abbiamo deciso all’unanimità di affermare con forza che il giudizio sulla necessità e l’urgenza è assegnato alla responsabilità del governo». Nella missiva di Napolitano era contenuto l’invito ad «evitare un contrasto formale in materia di decretazione».
La sfida del Cavaliere: "Legge in tre giorni" Contrasto che non è stato evitato. Il capo dello Stato, nella lettera, aveva citato una serie di precedenti di decreti legge respinti da suoi predecessori perchè in contrasto con sentenze passate in giudicato. Se avessimo rinunciato al varo del decreto, è invece il pensiero del presidente del Consiglio, «avremmo trasferito la responsabilità legislativa da organo governo a altro organo: e quindi è chiaro che non era possibile prendere atto e accettare una situazione di questo genere. Mi auguro- ha quindi concluso Berlusconi- che di fronte a questa decisione assunta all’unanimità ci possa essere un ripensamento anche da parte di coloro che si avvicendano intorno ad Eluana. E che essi possano attendere alcuni giorni prima di immettersi in questa pratica che noi consideriamo una pratica di vera e propria uccisione di un essere umano che è ancora vivo». Berlusconi ha spiegato che «se non ci fosse la possibilità di ricorrere ai decreti tornerei dal popolo a chiedere il cambiamento della Costituzione e del governo».
Plauso del Vaticano: "Eluana è viva" Il Vaticano plaude alla decisione del governo «Eluana è viva» «ha il diritto di vivere» e «la comunità politica deve sostenere la sua vita con i mezzi che ci sono», dice monsignore Elio Sgreccia, presidente emerito della pontificia accademia per la vita. Secondo la Santa Sede esiste «un potere dei medici e della comunità politica» che dispone di mezzi come «norme e leggi». Questi «hanno il dovere di sostenere la donna» che è «una creatura debole che deve essere protetta» attraverso «l’alimentazione e l’idratazione».
L’opposizione: "Superato ogni limite" L’opposizione invece si schiera compatta a favore del Colle. «Varando questo decreto su Eluana il governo ha superato ogni limite istituzionale e ogni limite rispetto alle sue competenze. È una sfida lanciata al Parlamento, alla magistratura, alla Corte costituzionale, alla Presidenza della Repubblica, all’opinione pubblica» dice il Pd. «Si ostacola l’attuazione di una sentenza che è passata al vaglio di diversi livelli di competenza - sottolinea Franco - si creano conflitti istituzionali, si sfida il mondo pur di non rispettare la volontà di una persona e di una famiglia».
* La Stampa, 6/2/2009 (16:40)
Se la Costituzione trova radici nell’Esodo
DA ROMA GIOVANNI RUGGIERO (Avvenire, 29.11.2008)
Quanto la Costituzione sia stata a cuore dei costituenti cattolici che contribuirono a scriverla - se non si volessero leggere tutti gli atti dell’Assemblea costituente - si capisce da una frase folgorante di Dossetti, come la riporta Giancarla Codrignani che a Roma ha moderato un convegno su Bibbia e Costituzione, promosso da Biblia, l’associazione laica di cultura biblica. «Se i Dieci Comandamenti dovessero far cilecca, - avrebbe detto dunque Dossetti - salvate almeno la Costituzione».
La nostra Magna Carta ha 60 anni, e Biblia la sta leggendo per cercare in essa fili segreti e delicati che la ricollegano alla tradizione culturale e religiosa occidentale, pur riconoscendone la profonda laicità «che - spiega Valerio Onida, presidente emerito della Consulta - come principio supremo non vuol dire che lo Stato sia estraneo o ostile alla religione, ma che riconosce il pluralismo religioso e la piena libertà di aderire all’una o all’altra confessione». Che la religione potesse essere occasione di divisione, specie nel 1948 in una Italia che usciva lacerata dalla guerra, lo intuì anche La Pira che non insistette perché un preambolo alla Carta contenesse la formula «in nome di Dio».
Andando più lontano, - e lo fa Mario Miegge, docente di filosofia teoretica a Ferrara - il patto sociale, che le Costituzioni in qualche modo cristallizzano, ha radici dirette nella Bibbia. Il filosofo le rintraccia nell’Esodo, e cioè nel patto sinaitico tra Dio e il suo Popolo. «Il richiamo all’Esodo - sostiene Miegge - è presente, a partire dal Medioevo, in molti documenti della storia politica. Ma se questo patto non resta saldamente legato alla memoria della oppressione e della liberazione, è esposto al pericolo di prendere a sua volta connotati di esclusione e di discriminazione nei confronti degli estranei, e si accrescono i rischi che la democrazia stesa si trasformi in un regime autoreferenziale, eventualmente plebiscitario e tendenzialmente totalitario».
La massima espressione di questo patto, la nostra Costituzione la traduce nell’articolo 3 che scolpisce la ’pari dignità sociale’. È una formula di non poco conto: «In essa - dice Piero Coda, presidente dell’Associazione teologica italiana - vengono coagulati tre dati che intendono formare un tutt’uno: la dignità, e cioè l’intrinseco valore riconosciuto a ogni cittadino in quanto tale; specificata dalla qualifica della parità, e cioè dall’essere essa identica in ciascuno di coloro che la posseggono e la esercitano; e insieme dalla sua socialità, e cioè dalla connotazione per cui essa, la pari dignità, è tale nel e per il suo proporsi nella relazione dell’uno, o degli uni, verso l’altro, o verso gli altri». In tutto questo intreccio - si chiede il teologo - quale ruolo ha giocato l’ispirazione biblica e in particolare quella cristiana? «Tale ispirazione - sostiene Coda - ha offerto alla civiltà umana, in specie a quella occidentale, un ampio e lavorato humus teologico e insieme antropologico per la percezione e la realizzazione della dignità sociale dell’uomo e della donna, a partire dal riconoscimento e dalla promozione della loro libertà e uguaglianza».
Costituzione, edizione critica gratis per il 60° *
In occasione del sessantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica italiana, la casa editrice Utet offre in omaggio a tutti coloro che la richiedano (numero verde 800-224664) un’edizione esclusiva commentata da Tullio De Mauro e Lucio Villari.
L’introduzione di De Mauro fornisce un’approfondita analisi storico-linguistica delle 9.369 parole che ricorrono nel testo, con il 74% dei lemmi tratti dal vocabolario di base della lingua italiana: una percentuale altissima rispetto alle consuetudini del nostro corpus legislativo, che testimonia l’impegno dei costituenti per garantire la massima accessibilità al testo da parte di tutti i cittadini.
Villari, invece, sottolinea coma la Costituzione, anche nel panorama delle costituzioni vigenti in Occidente, sia tra le più dirette ed esplicite nella rivendicazione e nella difesa dei diritti democratici.
* Avvenire, 06.09.2008.
LA SCUOLA NELLA BUFERA
Famiglie nei guai se chiudono le paritarie
In molte zone sono l’unica realtà educativa
Da Nord a Sud sono migliaia i piccoli Comuni nei quali
le materne o le elementari non statali sono il solo luogo formativo
-DA MILANO ENRICO LENZI (Avvenire, 30.10.2008)
Con il taglio di 133 milioni di euro alle scuole paritarie, per i piccoli della monosezione della materna di Vione, in Alta Vallecamonica nel Bresciano, potrebbe aprirsi la via del pendolarismo verso Temù, Comune a una decina di chilometri da Ponte di Legno. Un viaggio di parecchi chilometri lungo la tortuosa via che risale la Vallecamonica. E la stessa sorte potrebbe capitare ai loro amici di Marmertino in Val Trompia, che avrebbero come meta Tavernole sul Mella, scendendo di oltre 400 metri di altitudine. Ma lo scenario montano potrebbe ripetersi tranquillamente anche nella pianura dove si trova la ma- terna di Martignana vicino Empoli: anche in questo caso la chiusura dell’attività costringerebbe le famiglie o a rinunciare al servizio o a trasportare i propri figli in altri Comuni. Già, perché in molti centri abitati di piccole dimensioni la materna paritaria è l’unico centro educativo presente e non ha alternative.
Sono soltanto tre delle centinaia di esempi che si potrebbero fare. Sono scuole, ma anche volti, storie, famiglie reali, che rischiano di veder sparire un servizio pubblico oggi garantito anche dalle ottomila materne aderenti alla Federazione scuole materne di ispirazione cristiana (Fism) e alle centinaia di scuole elementari che aderiscono alla Fidae, la Federazione che riunisce le scuole cattoliche dalle elementari alle superiori. «Troppo spesso pensiamo alle grandi città - sottolinea Luigi Morgano, segretario nazionale della Fism -, dove l’alternativa di un’altra scuola esiste. Ma le nostre materne sono spesso sorte là dove lo Stato non ha un proprio istituto scolastico e dove magari il Comune, viste le proprie finanze, preferisce sostenere con un piccolo contributo la nostra scuola paritaria», il tutto in un’ottica non solo di sana sussidiarietà, ma anche nel principio sancito con la legge 62 del 2000, quella nota come legge sulla parità, in cui si parla di un unico sistema scolastico pubblico, a cui partecipano scuole di diversi gestori, compreso lo Stato. «E non dimentichiamo - rivendica Morgano - che il sostegno degli Enti locali nasce anche dall’apprezzamento della qualità delle nostre scuole».
Un principio importante che riceve, però, dallo Stato solo 534 milioni di euro, che la Finanziaria 2009 potrebbe ridurre di un quarto. Legittimo allora domandarsi cosa accadrà alle sezioni delle materne di Trecchina, Senise, Maratea, Castelluccio Superiore, Oppido Lucano, o San Costantino Albanese in provincia di Potenza, ma anche a quelle di Bagnoli di Sopra o Rio di Ponte San Nicolò nel Padovano. O, per restare nel Nord-Est, la «San Giovanni Bosco» di Piano di Riva vicino ad Ariano Polesine, o la «San Gottardo » di Bagnolo di Po, entrambi Comune in provincia di Rovigo, dove sono presenti soltanto le sezioni di scuola materna paritaria della Fism.
«Ma anche nelle grandi città - aggiunge don Francesco Macrì, presidente nazionale della Fidae - le nostre scuole sono spesso sorte e sono ancora presenti nei quartieri periferici o popolari dei capoluoghi». Ora arriva «questo taglio indiscriminato e grande nelle proporzioni, visto il nostro punto di partenza, che è fermo da ben sei anni» ricorda il presidente Fidae. Insomma una decisione che fanno apparire lontane le parole pronunciate dal presidente Napolitano all’apertura dell’anno scolastico, quando, rammenta don Macrì, «ha auspicato che la scuola sia collocata tra le priorità per l’avvenire del Paese, tanto da meritare - sono ancora parole di Napolitano - una speciale considerazione quando si affronta il problema della riduzione della spesa pubblica ».
Preoccupazione condivisa anche da Vincenzo Silvano, presidente della Federazione Opere Educative (Foe), le scuole che fanno riferimento alla Compagnia delle Opere. «Diminuire ulteriormente gli esigui fondi alle scuole paritarie - commenta - è un colpo alle famiglie che già sopportano oneri economici per garantirsi la propria libertà di scelta in campo educativo. Tra le scuole nostre associate circa un quarto restano aperte grazie proprio all’impegno delle famiglie che sono subentrati alle Congregazioni religiose nella gestione diretta delle scuole paritarie. Un impegno accettato e sostenuto, ma se ci saranno questi tagli per loro diventerà ancora più difficile». E alle famiglie va il pensiero anche di Luigi Morgano della Fism: «Le nostre scuole con meno fondi si troverebbero davanti al bivio: interrompere il servizio o alzare le rette, con un ulteriore aggravio di spesa». Uno scenario rifiutato pure da don Francesco Macrì della Fidae. Insomma ritirare quel taglio ai fondi permetterebbe ai bambini della materna di Vione (e a tutte le altre migliaia di sparse in tutto il Paese) di continuare la loro formazione nella comunità in cui sono nati.
***
Il premier: correggeremo la manovra sui tagli
Emendamenti presentati da Pd e dall’Udc Casini:
la libertà di istruzione vale anche per le «non statali»
Appello al governo
DA MILANO ENRICO LENZI (Avvenire, 30.10.2007)*
«Vorrei mantenere la Finanziaria così com’è. Ciò non vieta che all’interno della manovra ci siano margini di correzione. Penso per esempio alla scuola privata » . All’indomani del grido dall’allarme lanciato dalle associazioni del mondo della scuola paritaria per i 133 milioni di euro tagliati nella Finanziaria in discussione in Parlamento, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi annuncia la disponibilità ad apportare « qualche modifica al testo » , citando espressamente il caso della scuola paritaria. Lo fa a margine dell’incontro con la Confcommercio. Promessa che ora deve trasformarsi in un atto concreto. Se lo augura l’Udc, il cui leader nazionale Pierferdinando Casini ha sottolineato che « nel triennio 2008- 2011 sono previsti 500 milioni di tagli per le scuole paritarie » . Per questo, prosegue Casini « noi solleviamo in Parlamento e nel Paese una grande questione: la libertà nell’istruzione vale per tutti, anche per le scuole libere » . Un secco «no» a questi «inaccettabili tagli». E per questo, con i deputati Antonio De Poli, Amedeo Ciccanti e Gian Luca Galletti, l’Udc ha presentato un proprio emendamento affinché «siano ripristinati i 133 milioni di tagli, anche perché la scuola paritaria oggi sta vivendo una crisi profonda, grazie al fatto che i contributi pubblici sono minimi. Le scuole non statali sono da sempre impegnate a promuovere l’educazione del bambino, secondo una visione cristiana dell’uomo, del mondo e della vita. È necessario sollecitare il governo affinché anche questo tipo di insegnamento sia sostenuto ».
Anche dal Partito Democratico arriva «la solidarietà alla scuole paritarie che a causa dei tagli previsti nella Finanziaria stanno manifestando la loro impossibilità di proseguire nell’erogazione dei servizi scolastici » . E con la deputata del Pd, Rosa De Pasquale, componente della commissione Istruzione, annuncia la presentazione « di un emendamento che ripristini i 113 milioni per le scuole paritarie, perché questi sono tagli gravissimi, che ledono il sistema pubblico dell’istruzione, colpendo in particolare le scuole dell’infanzia e quelle primarie ».
E poi, commenta monsignor Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense, rispondendo a una precisa domanda dei giornalisti, « ribadisco che le scuole cattoliche sono una ricchezza e non un peso per lo Stato ».
Insomma le opposizioni incalzano il governo affinché accolga questi emendamenti che eliminano i tagli al capitolo di spesa per la scuola paritaria. Ma anche dall’interno della stessa maggioranza di centrodestra si sono levate in più occasioni voci contro questa misura della Finanziaria. Già in occasione del passaggio del testo in commissione Istruzione di Montecitorio, il testo venne approvato con la richiesta di modificare proprio la decisione del taglio alle paritarie. Tra i sostenitori di tale posizione lo stesso presidente della commissione, Valentina Aprea. Anche al Senato l’esame del testo si è concluso con un analogo invito all’esecutivo, con una esplicita richiesta da parte anche del capogruppo del Pd in commissione Istruzione, il senatore Andrea Rusconi.
La palla torna dunque nel campo del governo che nelle prossime settimane, in fase di votazione della manovra finanziaria dovrà dare attuazione a quanto promesso ieri dal presidente del Consiglio. Del resto le sollecitazioni per un ripristino completo dei 534 milioni di euro previsti dal capitolo di bilancio sono davvero bipartisan.
Enrico Lenzi
Contro i teocon
Un pamphlet di Michele Martelli accusa la gerarchia ecclesiastica di voler dettare legge in ogni settore della vita pubblica
Se anche Dio entra in politica
La Chiesa e la democrazia: un relativismo che si vergogna di se stesso
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 06.09.2008)
S’intitola Quando Dio entra in politica (Fazi, pp. 228, e 16) il libro in cui Michele Martelli, studioso di filosofia e docente dell’Università di Urbino, critica le tendenze clericali che si manifestano nella vita italiana. Il testo di Giulio Giorello qui pubblicato è la prefazione al volume.
La Chiesa? «Non è democratica, ma sacramentale, dunque gerarchica», scriveva a suo tempo Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Fede. E oggi, con Joseph ormai salito al Soglio di Pietro, sotto il nome di Benedetto XVI? Mi pare notevole merito del volume di Michele Martelli Quando Dio entra in politica il fatto che l’autore, fin dal primo capitolo, metta a fuoco il nocciolo della questione. «La fallibilità, l’incertezza, l’errore, l’umile e incessante ricerca della verità, il dialogo, il dubbio socratico e scettico, l’autocorrezione e l’autocritica», si chiede Martelli, sarebbero dunque «estranei a chi la verità definitiva la possiede in Cristo, di cui è sostituto terreno»? Attenzione a rispondere Sì o No immediatamente. Una notevole tradizione di pensiero - da Charles Sanders Peirce a Ernst Mach, per non dire di Karl Popper e Willard Van Orman Quine, pur con le più diverse sfumature - ha messo in luce come quei tratti di «fallibilismo» (il termine è di Peirce), ovvero quell’impasto di «conoscenze ed errore» (l’endiade è di Mach), scandiscono tanto la crescita della scienza moderna quanto l’articolarsi della democrazia. La tensione principale non si situa allora tra fede e ragione, tra scienza e religione, tra credenti e non credenti, ma tra chi fa ricerca - non solo circa «la natura delle cose», poniamo in fisica o in biologia, ma persino circa la propria «salute spirituale» - con un atteggiamento che insiste sul carattere fallibile e provvisorio delle proprie conquiste e chi invece non esita a presentarle come dogmi irrinunciabili, ormai immuni a qualsiasi spirito critico. So bene che, se ci si esprime così, si rischia - al solito - di essere tacciati di «relativismo», il genio maligno dell’Occidente, la cui «dittatura» è stata autorevolmente denunciata dallo stesso Ratzinger poco prima di essere eletto Papa. Ma anche qui, cautela: la posta in gioco non è epistemologica (o lo è solo in parte), ma (soprattutto) politica.
Lo avevano intuito, ai tempi della contrapposizione di Riforma e Controriforma, ancor prima dei «filosofi naturali» (noi oggi diremmo «scienziati ») quei teologi insofferenti alla costellazione dei pregiudizi stabiliti, che avevano rivendicato diritto all’amore e alla tolleranza per le forme di vita (religiosa, ma non solo) più diverse. Figure come - a metà del Seicento - John Milton, che aveva dichiarato che «la verità ha più di una faccia», o come John Goodwin, che aveva sostenuto che reprimere le differenze può rivelarsi la forma più perversa di «lotta contro Dio». Particolare non trascurabile: si trattava di protestanti (anche se, assai spesso, devianti rispetto al mainstream del protestantesimo: eretici nell’eresia, agli occhi di quei cattolici che avevano dimenticato che eresia vuol dire solamente scelta e che a sua volta ragionare non è che un sinonimo di scegliere).
Karl Popper, in un bellissimo intervento del lontano 1958, riconosceva quanto debbano le attuali società aperte e democratiche a questo tipo di protestantesimo. Ma non stiamo cercando qui delle più o meno fondate «radici»! Il gusto per la disputa, la pregnanza dell’argomentazione, il valore della competenza tecnica, il considerare una differenza di opinioni o di stile di vita non un disastro ma un’occasione sono elementi che possiamo ritrovare nelle più svariate civiltà, dalla grande cultura sumerica e accadica della Mesopotamia alla Grecia dei Sofisti e di Socrate, dall’India capace di logiche (al plurale) di estrema raffinatezza al mondo «arabo- islamico» così attento, prima dell’epoca della sua chiusura che coincide con la sua decadenza, alla valorizzazione degli esperimenti intellettuali e morali più disparati... Siamo disposti a sacrificare tutto questo per la «verità dell’Uno» di cui la Chiesa Cattolica Romana pretende di avere il monopolio? Michele Martelli ci ripropone un interrogativo che in passato è più volte emerso nelle tormentate vicende dell’Occidente.
Il «ritorno di Dio nella politica» vuol dire proprio questo. Di mio, non sono così drastico come alcuni che ritengono di poter liquidare la stessa esperienza del cattolicesimo come antiscientifica e antidemocratica. Il fatto è che non penso che le varie tradizioni religiose - e in particolare le diverse denominations cristiane, e dunque la stessa confessione cattolica - costituiscano delle «essenze» date una volta per tutte come idee immutabili dell’iperuranio di Platone. Piuttosto, mi paiono simili a organismi viventi, in continuo mutamento, soggette quindi sia alla pressione dell’ambiente sia alle decisioni degli individui che in tali tradizioni si riconoscono.
Così, sono disposto a riconoscere che persino una Chiesa «non democratica, ma sacramentale » possa evolvere, dando prova nella pratica di quel relativismo di cui in teoria si vergogna. Dopotutto, il «relativismo» è il contrario dell’«assolutismo » - e tutto possono essere i dittatori, tranne che dei relativisti! Pensiero debole - come ci ripetono teocon, teodem e atei devoti, così nostalgici della «forza del fondamento»? Niente affatto: il relativismo non è una dottrina, ma una scelta personale e politica per un tipo di struttura in cui ogni idea o forma di vita abbia il diritto a una difesa pubblica - in questo sta tutto il suo coraggio!
Michele Martelli non risparmia i suoi strali polemici a pretese teoriche e morali avanzate in nome delle più diverse religioni, pur concentrandosi soprattutto su quelle che ci vengono dal cattolicesimo romano. Non possiamo che augurarci che coloro che si sentono colpiti dalla sua vis polemica sappiano rispondergli con altrettanta decisione sul piano dell’argomentazione. Di nuovo, questo tipo di conflitto è un’occasione di crescere per tutti «i litiganti».
Una cosa, però, dev’essere chiara. Mai mai mai saremo disposti a cedere - in cambio delle nebbiose consolazioni di questa o quella religione - il libero cielo dell’Illuminismo, quello della tolleranza comprensiva e simpatetica di John Toland, o dell’appassionata mitezza di Voltaire, o dello «scetticismo spensierato» di David Hume, o dell’elogio di Immanuel Kant dell’autogoverno di cui è capace la persona «uscita dallo stato di minorità» in cui i dogmatici di ogni risma vorrebbero ricacciarla. A scanso di equivoci: questi non sono vincoli che ci legano al passato, sono premesse che ci indirizzano al futuro.
Una nuova democrazia? Fondiamola sull’amore
Luce Irigaray intervistata da Maria Serena Palieri (l’Unità, 17.06.2008)
Se alla parola «filosofia» dessimo il significato di «saggezza dell’amore» anziché «amore della saggezza» come si è fatto per duemila anni?
Oggi i cittadini sono come bambini in ascolto del Capo. La trappola è nel fatto che il Capo è stato eletto da noi stessi. Nostra è la colpa
Ségolène e Hillary candidate alle massime cariche sono una vera rottura col passato? Senza un programma «da» donne c’è il rischio di screditare il nostro sesso
«Chiedere l’uguaglianza, come donne, mi sembra un’espressione sbagliata per un obiettivo reale. A chi o a che cosa vogliono essere uguali le donne? Agli uomini? A una retribuzione? A un impiego pubblico? Uguali a quale modello?
Perché non uguali a se stesse?»
Si intitola La via dell’amore l’ultimo saggio della filosofa che, dal 1974 e dallo «scandalo» di Speculum, è punto di riferimento del pensiero femminile. Un testo che propone una provocazione radicale. Lei stessa ce la spiega
Filosofia: parola composta, dal greco, a partire da due altre, «amore» e «saggezza». Ma queste due, una volta mescolate, a quale terzo nuovo senso danno luogo? Da due millenni e mezzo diciamo che filosofia significa «amore della saggezza». E se, invece, significasse «saggezza dell’amore»? Cosa sarebbe successo, insomma, se nella storia umana la saggezza fosse stata regolata dall’amore?
Luce Irigaray, filosofa e psicanalista, dopo trentaquattro anni di cammino tenace - è del 1974 lo «scandaloso» successo di Speculum, il saggio con cui decostruiva Freud, Platone e Hegel, tra gli altri, per indagare nel continente ignoto dell’identità e della sessualità femminile, del 1984 il saggio che poneva un primo mattone della sua originale teoria successiva, Etica della differenza sessuale, del 1992 quello in cui cominciava a saggiare l’idea di una «polis» aperta ai due sessi, Io, tu, noi, per una cultura della differenza - è arrivata in questo 2008 nelle nostre librerie, per Bollati Boringhieri, con un testo dal titolo magnificamente innocente, La via dell’amore. Di innocente, in questo pamphlet, c’è lo sguardo con cui Irigaray, studiosa settantottenne, partendo da quello slittamento di senso di una parola bimillenaria, «filosofia», finisce per leggere con incandescente radicalismo il nostro tempo. «La tradizione occidentale ha privilegiato la sapienza a discapito dell’amore. E l’uomo occidentale ha confuso poi la sapienza col dominio sulla natura, compresa la natura propria e quella dell’altro. Perché l’ha fatto? Perché doveva emergere dal mondo materno, inteso come natura, e invece di risolvere la cosa in termini di relazione nella differenza, ha scelto la via del dominio sul mondo naturale, mondo materno compreso»: così Irigaray riassume, per noi, quel mistero delle origini. «Forse in un primo tempo non poteva fare altrimenti» aggiunge. «E la mia ipotesi è che l’uomo abbia bisogno ora che la donna si individui in quanto donna per aiutare lui, l’uomo, ad uscire dal mondo materno». Nell’ultimo decennio alcuni studiosi (uomini) si sono avventurati a parlare di «fine della storia»: stop, l’evoluzione umana è arrivata al capolinea. Per Luce Irigaray sembra sia vero il contrario: siamo a un inizio. Con un’avvertenza: «La liberazione femminile, se avviene solo “contro” gli uomini, non servirà a granché. Anche i separatismi, che pure hanno avuto una funzione storica, sono da superare, salvo che come strategia puntuale per ottenere certi diritti» osserva.
In un momento in cui la democrazia collassa fare un discorso sulla saggezza dell’amore e la relazione a due può sembrare un lusso. Lo è? Oppure quella che Irigaray propone è un’altra idea di democrazia, una democrazia radicale?
«Nella cosiddetta democrazia, secondo me, la gente è diventata troppo dipendente, i cittadini sono come bambini, in ascolto di quanto decide il capo. La trappola è nel fatto che il capo è stato eletto da noi stessi. Così, i disastri della democrazia sarebbero comunque colpa nostra. Dunque, cerco di dire che la gestione della città, la gestione di noi stessi e dei rapporti tra di noi, invece, deve essere a carico nostro. La politica è compito di noi tutti e tutte, non solo dei politici. La politica, e in particolare la democrazia, spesso, hanno lavorato più a separare i cittadini che ad avvicinarli. Il mio discorso punta a riannodare queste relazioni, facendo leva sulla potenza estrema - per chi la sa vedere - della differenza. L’amore è alla nostra portata e rifondare la società civile è compito di noi tutti e tutte. Intendo la parola “amore” in senso forte, non debole, non paternalistico né sentimentale, amore come rispetto dell’umano, nella sua totalità. La mia perdita di fiducia nella politica risale a molti anni fa. È allora che ho deciso che, anziché criticare e aspettare, dissipando così salute ed energia, da subito potevo usarle, invece, per creare legami. Ho cominciato, cioè, a lavorare sul “due”. Rifondare la relazione a due è il mezzo per rifondare la società civile. Puoi farlo ogni giorno, dieci volte al giorno, e a sera hai fatto qualcosa».
Il saggio affronta anche il rapporto tra religione e filosofia. La questione religiosa è, in questo momento, scabrosa. Lei come la intende?
«Io vivo in Francia. Sono politicamente laica. Trovo che l’avanzata dei fondamentalismi, e le crisi politiche che ne conseguono, derivino dal fatto che la filosofia, come detto all’inizio, si sia disinteressata dell’amore, a favore della sapienza governata dal Logos. Ma, siccome l’amore fa parte dell’umano, esso è finito delegato alla religione. E questo ha creato un disastro. Sia nella religione, che in politica».
Il saggio ha come bersaglio polemico anche il nuovo universo, informatico, nel quale viviamo. E quello che lei ha definito «capitalismo intellettuale». Perché?
«Non definisco l’informatica in quanto tale come capitalismo intellettuale, ma l’uso che alcuni ne possono fare e le conseguenze di un uso generalizzato di essa. Il linguaggio dell’informatica deriva dalla logica occidentale che ha creato un mondo parallelo a quello della vita, dove esistono le differenze. L’informatica, con la sua logica binaria, estranea alla vita, appartiene a questo mondo parallelo. Per sfuggire a questo dominio dobbiamo cercare di tornare a un linguaggio concreto, carnale, fatto di rispetto della stessa natura e di relazione tra noi. Prendiamo il silenzio: l’informatica non sa cosa sia, il silenzio è qualcosa che non è né bene né male, ma è un luogo dove ci si può incontrare, nel rispetto delle nostre differenze, ed elaborare un mondo comune, a partire da trasformazioni dei rispettivi mondi. L’informatica non sa cosa sia il silenzio, nemmeno l’intimità. La nostra logica occidentale corrisponde a un linguaggio che nomina il reale per appropriarsene, ma così lo immobilizza, lo uccide in qualche modo. Noi diciamo “un albero” e, nel dirlo, cancelliamo la vita, le trasformazioni che un albero vive in primavera, in autunno, in inverno. La logica occidentale è anzitutto un padroneggiare il mondo in una maniera mentale: ad esempio dire “un castagno” parla prima al cervello, invece parlare di “questo castagno qui in fiore” si rivolge a tutto il nostro essere. Insomma, io cerco di tornare a, o di inventare, un linguaggio carnale, che tocchi, che corrisponda al nostro essere totale e che ci consenta di comunicare in quanto viventi».
Lei contrappone «familiarità» a «intimità». Valorizzando la seconda a scapito della prima. Perché?
«La familiarità è ciò che ci unisce in un passato comune attraverso abitudini, costumi: io e te siamo dello stesso paese, condividiamo la nostra casa di famiglia, abbiamo vissuto insieme quell’evento... La familiarità è legata al passato. Ci incarcera nel nostro modo di vivere, nella nostra propria lingua. Ci impedisce quindi di avvicinarci all’altro: all’altro sesso, all’altra generazione, allo straniero. Ci impedisce di creare intimità con l’altro, attraverso le differenze». Nel suo saggio parla anche della «fabbricazione di bellezza» e della «fabbricazione di erezione». Insomma, parlando di «saggezza dell’amore» si finisce a parlare di lifting e Viagra... «Non andiamo perfino verso la fabbricazione dello stesso corpo? La nostra sapienza prima ha voluto dominare la natura, ora vuole fabbricare la natura al posto di lasciarla essere e crescere. Per la natura non c’è più posto. Se si fosse coltivata un po’, invece, la saggezza dell’amore, di tutto questo non ci sarebbe bisogno: la relazione carnale basterebbe per farci apprezzare i nostri corpi come sono, dei corpi che sarebbero d’altronde più seducenti perché più vivi, come si può verificare nelle culture che coltivano il respiro, l’energia della vita al posto di inventare artifici per mascherarla».
Ma l’informatica, che ci dona l’ubiquità, così come la velocità che ci consente di raggiungere ogni angolo del pianeta, non accentuano la vicinanza? Non aiutano a comunicare?
«Lo crede? Ha visto il numero di persone che parlano ormai da sole per strada? E che si arrabbiano se tu interrompi il loro parlare da soli? E che, quando non parlano da soli per strada parlano a casa col loro computer? In fedeltà a una nostra tradizione occidentale, le persone si parlano sempre più in assenza di una presenza carnale: le dita toccano molto i tasti del computer ma poco il corpo dell’altro. In noi esseri umani, poi, ci sono ritmi diversi: i ritmi di digestione, cuore, respiro, parola, pensiero. Le macchine ci stanno riducendo a un ritmo uniforme, a un ritmo perfino solo mentale. E questo è pericoloso...».
Luce Irigaray cosa pensa di questo mondo del 2008, in cui ci sono state donne candidate a cariche mai avute prima: Ségolène Royal all’Eliseo, Hillary Clinton alla Casa Bianca?
«Alle donne che si candidano chiedo di presentare un programma “da” donne. Altrimenti temo che facciano perdere credibilità al nostro sesso. Vedo molte donne che vogliono diventare uomini, per entrare in politica. Ho paura che le donne stiano lentamente omologandosi. Il totalitarismo più sottile, oggi, è l’omologazione. E se perdiamo l’ultima carta della differenza sessuale, da dove rifonderemo la democrazia? Io vedo fondamentalismi, denaro, violenza. Per la democrazia abbiamo bisogno di differenze. Puntare solo sull’uguaglianza è sbagliato. È molto impegnativo costruire una cultura rispettosa delle differenze, partendo dalla differenza tra noi, perché questo richiede una rivoluzione nel nostro modo di pensare. Tuttavia è necessario farlo oggi: è la vita stessa che è a rischio, in particolare perché ci manca la possibilità di sperare in un futuro. Bisogna riaffidare a ciascuno e ciascuna il compito di costruire un futuro possibile per l’umanità».
E un programma politico da donne in cosa dovrebbe consistere?
«Io penso che il mio modo di pensare e di parlare siano fedeli alla mia appartenenza al sesso femminile, sono basati sulla mia esperienza di donna. Dopo aver lavorato per anni sulla sessuazione del discorso ho capito che, in modo più colto, sono fedele alla ragazza che sono stata: privilegio, cioè, il dialogo fra soggetti, fra due soggetti differenti, senza considerare genealogie o gerarchie, e preferisco il presente e il futuro al passato. Fare una politica “da”, “di” donna esige per prima cosa di cambiare il modo tradizionale di parlare,per esprimersi come donna pur rispettando la differenza dell’altro. Significa entrare in un’altra logica, in cui la relazione con l’altro, nella sua singolarità, prevale sulla relazione con l’oggetto, con il denaro. Ciò richiede di scoprire e utilizzare un linguaggio che rimane sensibile, toccante, senza cancellare però i limiti delle rispettive identità o mondi. Bisogna curare l’aspetto creativo, performartivo della parola».
È anche da qui che passa la «via dell’amore»?
«In effetti una politica “di” donne potrebbe corrispondere a una saggezza dell’amore. È una saggezza che le donne devono acquistare e coltivare, sia a livello pubblico che privato. Ovviamente essa non può limitarsi a imporre nella vita pubblica le sole cose consentite alle donne nella nostra tradizione: sentimenti più o meno infelici e rivendicativi. Importa che scopriamo, invece, una libertà positiva e non solo negativa, cioè non l’essere libere malgrado o contro gli uomini, ma esserlo per noi stesse e per un’opera che corrisponda al nostro essere. È un peccato che le donne spendano tuttora la loro energia nel litigare con gli uomini o nel diventare uomini. Non sarebbe meglio affermare i propri valori ed elaborare una nuova cultura, una cultura che cerchi di dialogare con l’altro, con tutte le forme di altri?».
Il cardinale Martini e il sogno deluso di una chiesa “nuova” *
L’81enne Carlo Maria Martini, già arcivescovo di Milano, in una lunga intervista tira le somme di un’esistenza trascorsa nella costante ricerca di Dio e dentro la Chiesa, riflettendo su questioni profonde di fede, di etica, di società e di Chiesa. Proprio alla chiesa il cardinale Martini indirizza un accorato appello per una sua rapida e profonda riforma ed aggiunge che, in passato, “ho sognato una Chiesa nella povertà e nell’umiltà ... Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa".
"Ho sognato una Chiesa nella povertà e nell’umiltà, che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che concede spazio alla gente che pensa più in là. Una Chiesa che dà coraggio, specialmente a chi si sente piccolo o peccatore. Una Chiesa giovane. Oggi non ho più di questi sogni. Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare per la Chiesa". Sono le parole del card. Carlo Maria Martini raccolte nei “Colloqui notturni a Gerusalemme", libro recentemente edito in Germania dalla casa editrice Herder.
L’81enne gesuita, già arcivescovo di Milano, tira le somme di un’esistenza trascorsa nella costante e travagliata ricerca di Dio, vissuta dentro la Chiesa. E confida queste riflessioni all’amico padre Georg Sporschill, anch’egli gesuita, in un testo che assume la forma del colloquio o dell’intervista. I 7 capitoli del volume affrontano questioni profonde di fede, di etica, di società e di Chiesa.
A quest’ultima Martini indirizza un accorato appello per una rapida e profonda riforma. Ad esempio, di fronte alla crisi vocazionale che investe la Chiesa cattolica soprattutto in Occidente, considera inefficaci le soluzioni proposte fino ad ora delle gerarchie.
"La Chiesa dovrà farsi venire qualche idea", afferma, come ad esempio "la possibilità di ordinare viri probati" (uomini sposati ma di provata fede, ndr) o di riconsiderare il sacerdozio femminile, sul quale riconosce la lungimiranza delle Chiese protestanti. Ricorda persino di aver incoraggiato questa posizione in un incontro con il primate anglicano George Carey: "Gli dissi di farsi coraggio - spiega Martini - che questa audacia poteva aiutare anche noi a valorizzare di più le donne e a capire come andare avanti".
Se le sue tesi sull’organizzazione della Chiesa appaiono già fortemente riformatrici, ancora più avanti guarda nell’affrontare i temi etici legati alla sessualità. Critica l’Humanae Vitae di Paolo VI sulla contraccezione, enciclica scritta "in solitudine" dal papa e che proponeva indicazioni poco lungimiranti.
"Questa solitudine decisionale a lungo termine non è stata una premessa positiva per trattare i temi della sessualità e della famiglia". Sarebbe opportuno, afferma, gettare "un nuovo sguardo" sull’argomento. La Bibbia, in definitiva, non condanna a priori né il sesso né l’omosessualità. È la Chiesa, invece, che nella storia ha spesso dimostrato insensibilità nel giudizio della vita delle persone. Tra i miei conoscenti - ricorda ancora Martini - ci sono coppie omosessuali. Non mi è stato mai domandato né mi sarebbe venuto in mente di condannarli". Dunque la Chiesa, invece di educare il popolo di Dio alla libertà e alla "coscienza sensibile", ha preferito inculcare nel credente una dogmatica moralistica ed acritica.
Il contatto con le altre religioni, saggiato in prima persona durante il lungo soggiorno a Gerusalemme, ha rappresentato per Martini un punto di non ritorno, una scuola di vita e di fede. La ricerca di Dio in quelle terre - peraltro, come lui stesso afferma, estremamente travagliata ed attraversata spesso da lunghe ombre - costringe a ripensare il dialogo interreligioso perché, dice, "Dio non è cattolico", "Dio è al di là delle frontiere che vengono erette".
È l’uomo che sente la necessità di razionalizzare in apparati normativi e istituzionali la gestione del sacro.
In realtà, le istituzioni ecclesiastiche "ci servono nella vita, ma non dobbiamo confonderle con Dio, il cui cuore è sempre più largo". Incontrare e (perché no) pregare insieme all’amico di altra religione, dice, "non ti allontanerà dal cristianesimo, approfondirà al contrario il tuo essere cristiano". E invita: "Non aver paura dell’estraneo".
Il grande comandamento invita ad amare l’altro come se stessi. "Ama il tuo prossimo - afferma - perché è come te". Il "giusto" - e in questo caso Martini prende in prestito la II sura del Corano - è colui che "pieno di amore dona i suoi averi ai parenti, agli orfani, ai poveri e ai pellegrini".
* Articolo di Giampaolo Petrucci tratto da Adista n.41 del 31 Maggio 2008
ETICA E POLITICA
di Francesco Comina *
Solitamente quando la politica incontra l’etica per la strada non la riconosce o se la riconosce si gira dall’altra parte per non salutarla. È successo poche volte di vederle passeggiare insieme in città, province, nazioni. Sono le volte in cui la civiltà ha fatto un passo in avanti progredendo.
Oggi l’etica è sempre più un affare interno alla filosofia o ad un senso individuale di vita che cerca, in qualche modo, di porsi in relazione con gli altri. La politica avanza inesorabilmente nei territori bigi di un mondo chiuso nel suo individualismo esasperato. Prime vittime: gli altri (immigrati, clandestini, nomadi, vagabondi, accattoni, prostitute, barboni...).
L’ordine post-moderno rassomiglia sempre più al panottico descritto da Jeremy Bentham alla fine del Settecento, ossia un carcere di sorveglianza in cui i controllati (ossia i prigionieri) non possono mai vedere il guardiano che li controlla. Ogni elemento “altro” che in qualche modo cerca di entrare nella fortezza occidentale deve fare i conti con l’occhio del sorvegliante che tutto vede. E se l’altro è indesiderato per il semplice motivo che è “altro” a tutti gli effetti (e quindi clandestino) viene automaticamente represso, condannato, incarcerato.
Un grande filosofo francese, Renè Girard, ha descritto in modo arguto lo sviluppo della violenza mimetica, ossia la violenza che nasce dalla rivalità fra due o più persone. Quando questa violenza si compatta in forma etnocentrica, di autodifesa di un gruppo, allora esplode la rabbia verso il capro espiatorio, colui che per una infausta coincidenza di destino si trova ad essere tacciato come il nemico da abbattere.
Oggi i nemici della politica dominante sono i figli della globalizzazione, i migranti che fuggono la fame, la sete, la miseria o la guerra. Fuggono dal sud, dall’est, dall’ovest, arrivano sulle carrette dei mari stracolme o appollaiati sotto i tir per non farsi vedere, fanno viaggi allucinanti scappando di frontiera i frontiera, vengono per partecipare al grande banchetto delle risorse. Ma guai a loro per tanto coraggio. L’ordine ha deciso di espellerli, il panottico di chiuderli nelle sue mura per controllarli.
Certo che le grandi migrazioni portano con sé problemi di ordine pubblico. Anche gli italiani che sono emigrati nelle terre del Nuovo Mondo hanno portato, insieme al loro coraggio e alla loro capacità lavorative, una percentuale di delinquenza, di insicurezza e di inadattabilità a stare nelle regole del gioco. Ma non per questo sono stati rifiutati, perseguitati, cacciati. Le regole sociali vanno rispettate e la delinquenza repressa fermamente ma ai poveri vanno date delle chance per vivere meglio, vanno aiutati a risollevarsi per riscattarsi. Non può la politica abdicare al suo cuore profondo che è la premura per le sorti del cittadino (la polis dell’antica Grecia) e a maggior ragione se questo cittadino è un “vulnerabile straniero”.
Emmanuel Lévinas è forse il filosofo più importante del Novecento. L’etica per lui si manifesta con la rivelazione del volto dell’Altro. Nel momento in cui l’altro si mostra, con il suo volto in carne ed ossa e questo volto solleva in noi un enigma, a quel punto si rende esplicita l’etica, ossia, il farsi carico della vita degli altri.
Oggi viviamo il tempo di una eclissi della politica intesa come etica e il trionfo di una politica fatta di divieti, di condanne, di clausole rigide e impermeabili. Gli altri sono rifiutati a priori, come elementi di disturbo di un ordine sociale che sempre più diventa chiusura etnocentrica. Non è un problema unicamente di posizionamento ideologico. È un problema generale, culturale. È la politica senza etica che non sa farsi carico del volto d’altri.
In fin dei conti questa è la pace: accoglienza del volto altrui. Rifiuto del volto: questa è la guerra.
Francesco Comina
* Conoscevo già Francesco Comina per aver letto alcuni suoi libri ed alcuni suoi articoli. Poi ha avuto la fortuna di incontrarlo in un convegno a Bolzano, la sua città, e devo dirvi che è una persona squisita.
Mi ha appena inviato uno suo articolo per Mosaico di Pace, la rivista di Pax Christi. Ve lo allego.
Leggetelo e fatelo leggere.
Abbiamo urgente bisogno di rimuovere le acque stagnanti e putride di questo narcisismo omicida che tutti ci affligge.
Aldo [don Antonelli]
Se la politica invoca dio
La crisi della società secolare
La lezione di Gustavo Zagrebelsky a Bologna
Secondo alcuni sarebbe finito il movimento storico che in cinque secoli ha portato l’Occidente a distinguere Stato e religione: ma è un problema tutto da discutere
Il clericalismo ateo è la forma odierna di una duplice corruzione
La Rivoluzione francese fu considerata opera del demonio fuor di metafora
Pubblichiamo alcune parti della lezione di per la serie "Elogio della politica" diretta da Ivano Dionigi *
Le discussioni sul rapporto religione politica, non solo in Italia ma in generale nel mondo, sono contrassegnate da un atteggiamento che si potrebbe definire, con una contradictio in adiecto, come sociologia normativa. Si procede dalla descrizione delle condizioni de facto della società (sociologia) e da questa descrizione si ricavano conseguenze de iure (norme): da quello che succede a quello che è giusto che succeda.
Si constata un intreccio crescente tra poteri pubblici e autorità religiose. Il primo chiede sostegno alle seconde e le seconde al primo, ciascuno per la propria utilità. I rispettivi confini si fanno evanescenti. La politica manifestamente cerca l’appoggio della religione e la religione l’appoggio della politica. La "secolarizzazione", il movimento storico che in cinque secoli ha portato l’Occidente a distinguere tra politica e religione e a fondare lo Stato su ragioni immanenti, non teologiche, sarebbe alla fine. Saremmo entrati cioè nell’epoca della "post-secolarizzazione". La ragione di questo rinnovato intreccio starebbe nel fallimento della pretesa della "ragione secolare" di fondare il governo dell’esistenza, la comprensione del suo significato e la sua salvaguardia su forze morali e scientifiche proprie, cioè esclusivamente umane. Questo fallimento dimostrerebbe l’insensatezza di quella pretesa. La parabola storica che, dall’umanesimo, cioè dalla centralità e signoria dell’essere umano nell’universo, ha condotto alla sovranità popolare si starebbe per concludere con un tracollo.
A distanza di due secoli, dovremmo riconoscere che avevano ragione i critici della Rivoluzione, la rivoluzione che aveva preteso di rovesciare la base del potere, dalla grazia di Dio alla volontà popolare, e per questo fu considerata, non per metafora, opera del demonio. Da ciò deriverebbe la necessità di orientare di nuovo la vita politica al trascendente, tramite un rinnovato "appello al cielo". Dio e ciò che su Dio si appoggia nella storia, cioè religione e apparati chiesastici, siano chiamati, come deus ex machina, a superare l’impasse in cui, per il nostro orgoglio smisurato, ci saremmo cacciati. Da qui, la necessità di rivedere l’idea tramandata di laicità che abbiamo recepito dal passato e di adeguarla (ecco la "nuova laicità" di cui si parla) alle odierne condizioni delle nostre società.
Questo modo di ragionare è un insieme di proposizioni indimostrabili e contestabili e che non si legano affatto l’una all’altra. È cioè una serie di aporie che nascondono, nel migliore dei casi, salti logici e auto-illusioni; nel peggiore, inganni.
(a) Innanzitutto, questi argomenti ci trasportano in un’atmosfera che, a considerarla dappresso, appare intrisa di un certo spirito apocalittico e messianico. «Ormai solo un dio ci può salvare», è l’esclamazione di Martin Heidegger, entrata ormai nel nostro comune modo di pensare. Questa speranza è solo un modo per esprimere un atteggiamento nichilistico, cioè la rassegnazione di fronte a ciò che si ritiene inevitabile. Chi potrà mettere un freno all’effetto-serra? Un dio o l’applicazione del trattato di Kyoto sulle emissioni di gas nell’atmosfera? Chi potrà arrestare lo sfruttamento delle risorse agricole dei popoli del terzo e quarto mondo? Un dio o una politica adeguata del WTO?
(b) Se non "un dio", potrebbe essere "il Dio" di una religione positiva questo deus ex machina capace di proteggerci dallo sviluppo incontrollato della tecnica e dalle sue tendenze sociali distruttrici, ancorando la nostra visione del mondo a un principio d’ordine metafisico, sottratto al nostro arbitrio? La risposta positiva a questa domanda sembra ovvia. Dio è la fonte di atteggiamenti religiosi che coincidono con il riconoscimento dell’esistenza di un limite a protezione del sacro, sottratto a manipolazioni profane. La coscienza del sacro darebbe origine a quella forza interiore di governo delle pulsioni distruttrici, che è beneficamente orientata alla coesione sociale e ai comportamenti altruistici.
Ma è davvero così ovvio? Non mi pare. La storia insegna che il "sacro", come le religioni, sono un immenso deposito di forza. Ma è una forza ambigua, che può orientarsi a fini opposti, benefici o malefici; verso l’amore del prossimo o l’odio e l’oppressione del diverso; per la pace ma anche per la guerra; per la comprensione ma anche per l’incomprensione reciproca; per atteggiamenti modesti e moderati, ma anche arroganti e superbi; per il rispetto del creato ma anche per il suo sfruttamento intensivo.
(c) Se non a Dio, in generale, forse al Dio cristiano, di cui ci ha parlato Gesù di Nazareth, potremmo forse rivolgerci? Ricordo il senso in cui formuliamo questa domanda: lo scopo è di trovarvi una forza per il governo della società, cioè rivolgerci al cristianesimo come a una "religione civile". Davvero possiamo noi stravolgere l’insegnamento evangelico fino a farne qualcosa di simile a un manuale per il buon cittadino? Davvero possiamo trasformare Gesù di Nazareth, che, nel deserto, respinse la tentazione diabolica del potere, che fuggì sul monte quando lo si voleva proclamare re, che di fronte alla morte, non propose a Pilato un compromesso di comune utilità ma rivendicò una regalità di tutt’altra natura; davvero possiamo trasformarlo in maestro di virtù civili? La domanda suona di per se stessa assurda, ma lo è di meno se si considerano le resistenze che la gerarchia ecclesiastica, di recente per esempio in Spagna, ha opposto all’introduzione nella scuola di attività laiche di educazione alla cittadinanza, per riservare a sé, cioè alla dottrina cattolica, questa funzione. Il celebre passo di Paolo (Rom 13, 1-2): «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi, chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio», non sembra giustificare il commento della Bibbia di Gerusalemme: «In questo modo la religione cristiana penetra, oltre che la vita morale, la stessa vita civile». Il dovere incondizionato di obbedienza dei cristiani, infatti, non autorizza affatto a dire che la fede in Cristo si confonde (penetra) nel potere civile e così contribuisce a legittimarlo. Sembra significare, in certo modo, il contrario: obbedite comunque, fino a sopportare la persecuzione, in modo da potervi dedicare integralmente alle opere e alla testimonianza della fede. Solo quando l’ordine di Cesare contraddice la parola del Cristo, rendendo impossibile il suo ascolto, allora occorre obbedire a Dio, piuttosto che agli uomini (Atti, 5, 29).
Da nessuna parte, pare, si autorizza l’uso della fede cristiana per rafforzare - come anche d’altra parte per indebolire - l’autorità del potere civile. I cristiani «risiedono ciascuno nella propria patria, ma come stranieri»; «partecipano a tutti gli oneri pubblici, [non come cristiani, ma] come cittadini». La distinzione, che così chiaramente è posta nella Lettera a Diogneto, equivale a condannare ogni uso civile della religione cristiana. E, invece, nelle alte sfere ecclesiastiche, è stata accolta con soddisfazione, quasi come un meritato riconoscimento e non come un affronto, come ci si sarebbe aspettati, l’affermazione recente di un Capo di Stato che dà atto che per un governante è buona cosa avere a che fare con cristiani timorati di Dio, dove il timor di Dio si traduce in speciale fedeltà e malleabilità politiche; dove la "buona Novella" diventa instrumentum regni.
D’altro canto, si può comprendere che l’autorità politica abbia interesse ad assicurarsi l’appoggio della religione. E si comprende ch’essa, per raggiungere lo scopo, sia disposta a concederle i più larghi privilegi, simbolici e materiali. La "ragion di Stato" lo consiglia e il governante accorto non si lascerà sfuggire l’occasione: «Tra tutte le leggi non ve n’è più favorevole a Principi, che la Christiana; perché questa sottomette loro, non solamente i corpi, e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora, e le conscienze; e lega non solamente le mani, ma gli affetti ancora, e i pensieri», diceva Giovanni Botero (Della Ragion di Stato, 1589, libro II, «Modi di propagar la religione»). In tal modo, però, sarà lo Stato a "penetrare" nella religione e la Chiesa, accarezzata nei suoi bisogni materiali e blandita nel suo desiderio di onori e ricchezze, perderà la sua libertà. Così come la perderà lo Stato, in cambio dell’appoggio della Chiesa. Il clericalismo ateo è la forma odierna di questa duplice corruzione, alla quale concorre il tangibile interesse tanto della parte ecclesiastica quanto di quella civile.
* la Repubblica, 30.05.2008
I nuovi rapporti tra Stato e chiesa
di Aldo Schiavone (la Repubblica, 10.06.2008)
A leggere, più a freddo, i commenti del giorno dopo, sembra proprio che l’effetto, ancora una volta, sia stato raggiunto. Con il duplice, studiatissimo bacio deposto sull’anello di Benedetto XVI all’inizio e alla fine del loro ultimo incontro, Silvio Berlusconi ha fatto ricorso all’immagine di una inattesa sottomissione per lanciare un messaggio inequivocabile: è arrivato, in Italia, il momento di una nuova alleanza fra Chiesa e guida politica del Paese. Il gesto, al posto della parola o del discorso, per trasmettere in modo sintetico e diretto il senso di una scelta. Comunicare è vincere. Poi si ragionerà. La centralità della "questione cattolica" è stata così riproposta con il valore di un annuncio e di un programma. Insieme a tanti altri aspetti del nostro passato, è venuto il momento - questo voleva dire quell’inchino - di mettere da parte anche la difficile e ingombrante laicità che aveva accompagnato finora il nostro cammino repubblicano. Fra i due lati del Tevere può scorrere ormai una nuova acqua.
Qualche tempo fa, avevo scritto su questo giornale di "un’onda neoguelfa" che sta scuotendo nel profondo la nostra società - un sentimento diffuso che assegna al Pontefice l’esercizio di una specie di protettorato nei confronti della democrazia italiana, e ne fa il custode della stessa unità morale della nazione. Ebbene, con il suo gesto Berlusconi ha assunto pienamente la leadership di questa tendenza, cercando di piegarla a suo vantaggio. In questo senso, il bacio all’anello viene dal capopartito, più che dal presidente del Consiglio: serve a completare la collocazione postelettorale del Pdl, prima che a trasmettere una certa idea del Governo e dello Stato.
Di fronte alla nettezza di questa posizione, la cosa più sbagliata sarebbe di sottovalutarne la portata e l’importanza, riducendola a un semplice aggiustamento tattico, dettato solo da un opportunismo di corto respiro. Non è così. Al contrario, essa nasconde una valutazione strategica, e si fonda su un’intuizione non banale dei cambiamenti in atto. È vero: la fine della stagione democristiana, non meno che i mutamenti del nostro scenario sociale e mentale, ci stanno spingendo verso la sperimentazione di nuovi intrecci, anche organizzativi, fra religione e politica, che si presentano in termini molto diversi rispetto al nostro più recente passato. Ed è proprio intorno a questo groviglio - alla capacità di darvi una forma matura e compiuta - che sarà combattuta la battaglia per la futura egemonia culturale del Paese, per la costruzione del tessuto intellettuale e morale in cui vivremo.
Le religioni monoteiste tendono ad avere tutte, geneticamente, un rapporto strettissimo con la politica. La loro pretesa di interezza - controllare l’uomo nella totalità della sua esistenza - e la loro esclusività («non avrai altro Dio...») le immettono sin dall’inizio in uno spazio di potere e di violenza. Il messaggio cristiano ha cercato tuttavia di spezzare in modo rivoluzionario questo nodo, recidendolo con un colpo di spada ignoto alle altre tradizioni: «A Cesare quel che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio», come leggiamo nei Sinottici. Lungo tutta la sua storia, l’Occidente ha cercato di elaborare questa separazione, offrendone di volta in volta letture prudentemente concilianti o aspramente radicali. In questo cammino, un punto di forza della modernità è stata la distinzione fra interiorità della coscienza ed esteriorità della norma giuridica, riflessa nel corrispondente principio della neutralità etica dello Stato e del discorso pubblico che ne sorregge le basi.
Ora, il punto è che questa divisione, così come ci è stata consegnata dai classici, non regge più, e in questa crisi c’è un fortissimo segno del nostro tempo. Lo Stato e la politica (per non parlare del diritto) piuttosto che distanziarsene, hanno sempre maggior bisogno di integrare al loro interno contenuti etici forti e vincolanti, per essere in grado di disciplinare la potenza di economie e di tecniche onnipotenti, capaci di incidere sulla vita e sulla morte, di trasformare il naturale in artificiale, di arrivare a toccare lo stesso statuto biologico dell’umano. E nel conseguente corto circuito che si sta determinando finisce con il saltare ogni distinzione fra coscienza interiore e discorso pubblico, fra legge e moralità, almeno per quanto riguarda alcuni terreni decisivi, dalla genetica alla procreazione, all’idea di matrimonio e di famiglia. In un simile quadro, la pretesa di tener fuori della politica - della biopolitica che decide sulla forma della vita - il magistero morale della Chiesa, proprio nel momento in cui più acuta se ne fa la domanda a causa dell’incertezza che stiamo attraversando, diventa una pretesa assurda. Dobbiamo saperlo accettare: i confini fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio hanno assunto contorni imprevisti, e passano su terre incognite, che appena cominciamo a esplorare. Non abbiamo bisogno di una nuova laicità per attraversarle, ma piuttosto di sondare le possibilità di una integrazione inedita tra fede e ragione, che ci accompagni almeno per un certo tratto di strada, al di là di vecchi e inservibili steccati.
Riconoscere pienamente il diritto della Chiesa di intervenire con tutto il suo peso nel discorso pubblico sull’intreccio fra etica, Stato e diritto che darà forma al futuro del Paese non deve significare però attribuirle un primato a priori. Vorremmo che questo fosse chiaro a Berlusconi e ai suoi consiglieri.
Quando l’esperienza religiosa diventa discorso pubblico, la sua verità, la sua pretesa di assoluto, devono, per dir così, accettare di relativizzarsi. Ogni democrazia è, intrinsecamente, una democrazia relativa, quanto al merito delle sue decisioni. Una Chiesa che abbia davvero compiuto quell’"autocritica" rispetto alla modernità di cui parla Benedetto XVI deve essere in grado non di rinunciare all’assoluto - e dunque alla vocazione a evangelizzare e convertire - ma alla pretesa di imporlo in quanto corazzato di potere, al di fuori di una limpida formazione del consenso democratico. È un passaggio non facile: e tuttavia non se ne intravedono altri, se non rovinosi. L’ultima cosa di cui l’Italia ha bisogno è di ritrovarsi ancora divisa fra "laici" e "cattolici". Sono convinto che la fine della Dc abbia anche condotto al tramonto del cosiddetto "cattolicesimo democratico" (ha ragione in questo Gaetano Quagliariello che ne ha appena parlato in un convegno). Il Pd dovrà tenerne debito conto. Ma come oggi sono improponibili i paradigmi di una laicità che ha perduto i suoi presupposti storici, sarebbe altrettanto inaccettabile qualunque tentativo da parte delle gerarchie cattoliche di attribuirsi il ruolo di ago della bilancia nel nascente bipartitismo italiano, per poter dettare con più agio le proprie soluzioni. Arrivano purtroppo segnali non tranquillizzanti in questa direzione. Il Pdl farebbe bene a non incoraggiarli, e a non eccedere. Prima o poi, ne pagherebbe il prezzo.
Babilonia (o Babele, che significa “confusione”) raggiunse l’apice della sua grandezza ai giorni di Nabucodonosor. Era uno stato politico-religioso con più di mille templi e cappelle. Il suo sacerdozio era potentissimo. Sebbene da molto tempo Babilonia abbia cessato di esistere come potenza mondiale, la religiosa Babilonia la Grande esiste ancora e, secondo l’antico modello, cerca ancora di esercitare influenza e di intervenire negli affari politici. Ma approva Dio che la religione faccia politica? Nelle Scritture Ebraiche è detto che Israele si prostituiva quando praticava la falsa adorazione e quando, invece di confidare in Geova, si alleava con le nazioni. Anche Babilonia la Grande commette fornicazione. In maniera notevole ha fatto ricorso a ogni sorta di espedienti pur di acquistare potere e ascendente sui re che governano la terra.
Oggi capita spesso che esponenti religiosi si presentino candidati per alte cariche governative, e in alcuni paesi sono membri del governo, titolari addirittura di alcuni dicasteri. Nel 1988 due noti ecclesiastici protestanti si candidarono alla presidenza degli Stati Uniti. Gli esponenti di Babilonia la Grande amano essere al centro dell’attenzione; spesso sui giornali si vedono fotografie che li ritraggono in compagnia di importanti uomini politici. Gesù, al contrario, evitò nel modo più assoluto di immischiarsi nella politica e disse dei suoi discepoli: “Essi non fanno parte del mondo come io non faccio parte del mondo”.
‘Meretricio’ moderno
Immischiandosi nella politica, la grande meretrice ha recato indicibili sofferenze al genere umano. Prendete ad esempio i retroscena dell’ascesa al potere di Hitler in Germania, retroscena che alcuni cancellerebbero volentieri dai libri di storia. Nel maggio 1924 il partito nazista aveva 32 seggi al Reichstag tedesco. Nel maggio del 1928 i seggi erano scesi a 12. Comunque, nel 1930 il mondo era in piena Grande Depressione. Approfittando della situazione, i nazisti si ripresero sorprendentemente, conquistando 230 seggi su 608 alle elezioni tedesche del luglio 1932. Poco dopo, l’ex cancelliere Franz von Papen, cavaliere del papa, venne in aiuto dei nazisti. Secondo gli storici, von Papen sognava un nuovo Sacro Romano Impero. La sua breve esperienza come cancelliere era stata un fallimento, così ora sperava di ottenere il potere mediante i nazisti. Entro il gennaio 1933 egli aveva assicurato a Hitler l’appoggio dei grandi industriali, e attraverso abili intrighi fece in modo che il 30 gennaio 1933 Hitler divenisse cancelliere della Germania. Egli stesso fu nominato vice-cancelliere e venne impiegato da Hitler per ottenere l’appoggio dei settori cattolici della Germania. Nel giro di due mesi dalla sua ascesa al potere, Hitler sciolse il parlamento, mandò nei campi di concentramento migliaia di esponenti dell’opposizione e diede il via a un’aperta campagna persecutoria nei confronti degli ebrei.
Il 20 luglio 1933 l’interesse del Vaticano per l’astro nascente del nazismo divenne evidente allorché il cardinale Pacelli (il futuro papa Pio XII) firmò a Roma un concordato fra il Vaticano e la Germania nazista. Von Papen firmò il documento in qualità di rappresentante di Hitler, e per l’occasione Pacelli conferì a von Papen l’alta onorificenza pontificia della Gran Croce dell’Ordine Piano. Al riguardo Tibor Koeves, nel suo libro Satan in Top Hat (Satana col cappello a cilindro), scrive: “Il Concordato fu una grande vittoria per Hitler. Gli diede il primo sostegno morale che avesse ricevuto dal mondo esterno, e questo dalla fonte più autorevole”. Il concordato prevedeva che il Vaticano smettesse di appoggiare in Germania il partito cattolico del Centro, ratificando così lo “stato totalitario” retto dal partito unico di Hitler. Inoltre l’articolo 14 dichiarava: “Le nomine di arcivescovi, vescovi e simili saranno effettuate solo dopo che il governatore, insediato dal Reich, avrà debitamente accertato che non sussistano dubbi circa le considerazioni politiche generali”. Per la fine del 1933 (proclamato “Anno Santo” da papa Pio XI) l’appoggio del Vaticano era divenuto un elemento importante nell’offensiva di Hitler per il dominio del mondo.
Sebbene un esiguo numero di sacerdoti e suore protestasse contro le atrocità commesse da Hitler - e ne pagasse le conseguenze - sia il Vaticano che la Chiesa Cattolica e il suo esercito di ecclesiastici appoggiarono attivamente o tacitamente la tirannide nazista, da essi considerata un baluardo contro il dilagare del comunismo mondiale. Tranquillamente chiuso in Vaticano, papa Pio XII lasciò che l’Olocausto degli ebrei e le crudeli persecuzioni contro i testimoni di Geova e altri proseguissero senza critiche. Paradossalmente, papa Giovanni Paolo II, visitando la Germania nel maggio 1987, ha esaltato l’atteggiamento antinazista di un sacerdote sincero. Cosa facevano le altre migliaia di ecclesiastici tedeschi durante il regno del terrore instaurato da Hitler? A questo riguardo una lettera pastorale pubblicata dai vescovi cattolici tedeschi nel settembre 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale, è illuminante. Essa dice in parte: “In quest’ora decisiva incoraggiamo ed esortiamo i nostri soldati cattolici, in obbedienza al Führer, a compiere il loro dovere e ad essere pronti a sacrificare tutto di se stessi. Esortiamo i fedeli a unirsi in una ardente preghiera affinché la Provvidenza divina conduca questa guerra ad una fine benedetta”. - I nazisti e la Chiesa, di Guenter Lewy, ed. Il Saggiatore, 1965, trad. di Irene Giorgi Alberti, p. 327.
Questo destreggiarsi della diplomazia cattolica illustra il tipo di meretricio praticato negli scorsi 4.000 anni dalla religione nel corteggiare lo Stato politico per acquistare potere e vantaggi. Questi rapporti fra religione e politica sono stati causa di guerre, persecuzioni e sventure su vasta scala. L’umanità può essere davvero felice che il giudizio di Geova contro la grande meretrice sia imminente. Possa esso venir presto eseguito!
Siede su molte acque
L’antica Babilonia sedeva su molte acque: il fiume Eufrate e numerosi canali. Quelle acque erano per lei una protezione, come pure una fonte di ricchezza commerciale, finché in una sola notte si prosciugarono. Anche Babilonia la Grande fa affidamento su “molte acque” perché la proteggano e la facciano arricchire. Queste acque simboliche sono “popoli e folle e nazioni e lingue”, cioè tutte le migliaia di milioni di esseri umani sui quali ha dominato e da cui ha tratto sostegno materiale. Ma anche queste acque si vanno prosciugando, cioè smettono di sostenerla.
Inoltre l’antica Babilonia fu descritta come “un calice d’oro nella mano di Geova, [in quanto] essa ha fatto inebriare tutta la terra”. L’antica Babilonia costrinse le nazioni vicine a trangugiare le espressioni dell’ira di Geova quando le conquistò militarmente, rendendole deboli come uomini ubriachi. Sotto questo aspetto essa fu uno strumento di Geova. Anche Babilonia la Grande ha fatto conquiste, al punto di divenire un impero mondiale. Ma non è certo uno strumento di Dio. Piuttosto, ha servito “i re della terra” con i quali commette fornicazione religiosa. Ha appagato questi re usando le sue dottrine menzognere e le sue pratiche asservitrici per stordire le masse, “quelli che abitano la terra”, rendendole deboli come ubriachi e succubi dei loro governanti.
Quando i laici sono deboli
di Gianfranco Pasquino *
Da una parte sta il Papa che ispira e si trovano i vescovi della Conferenza Episcopale Italiana che stilano il loro programma, non soltanto sui «temi eticamente sensibili», per qualsiasi governo, preferibilmente per quello in carica, e che danno voti. Il capo dell’attuale governo si è subito affrettato a dichiarare che anche il programma dei vescovi, proprio come quello della Confindustria (non è dato sapere se la Cei ha apprezzato il paragone), può diventare quello del suo governo.
Ovviamente facendo finta di niente su tutto quanto riguarda disuguaglianze sociali e trattamento dell’immigrazione. D’altronde, l’intero schieramento di centro-destra è da tempo impegnato a mostrarsi ricettivo, senza nessuno scrupolo di laicità, ma con grande attenzione a prendere i voti (quelli espressi sulle schede elettorali dai cattolici), a quello che viene detto dall’altra parte del Tevere. Anche se non sempre ne conseguono comportamenti concreti, sembra che le dichiarazioni di sintonia funzionino.
Dall’altra parte, di tanto in tanto, tocca a Famiglia Cristiana il compito di fare irruzione sulla scena che viene impropriamente definita dei “valori” dei cattolici, che, invece, per lo più, sono molto più semplicemente, ma anche più corposamente, interessi mondani e politiche di governo.
Questa volta il bersaglio è duplice e la mira ambiziosa. Agli editorialisti del settimanale cattolico, i quali, evidentemente, leggono anche nelle coscienze, sembrerebbe opportuno espellere dal Partito Democratico la sparuta pattuglia dei radicali per i loro (de)meriti laici di un glorioso passato. Se poi, ma la sequenza non mi è chiara, questa operazione di “pulizia” cattolica non riuscisse, sarebbe opportuno che i teo-dem ovvero, immagino, tutti coloro che dentro il Pd si definiscono democratici dovrebbero minacciare oppure, addirittura, eseguire una scissione, cioè andarsene. Dove non è detto, ma appare probabile che tanto l’Udc di Pierferdinando Casini quanto il Popolo delle Libertà accoglierebbero a braccia aperte gli scissionisti (uomini e donne).
L’invito alla scissione è preoccupante anche perché sceglie un terreno delicato sul quale il Partito Democratico ha già tentato di giungere ad un difficile, forse non del tutto convincente, compromesso con il suo (non buono) Manifesto dei Valori. Infatti, i teo-dem, questa sì una pattuglia piccola, ma molto aggressiva, continuano a dichiararsi insoddisfatti e a elaborare loro posizioni intransigenti su tutte le problematiche “eticamente sensibili”. Qui sta la debolezza dei laici, che siano non credenti o credenti, radicali o ex-democratici di sinistra, dentro il Pd. Non hanno attivato la loro cultura politica con l’obiettivo di declinare coerentemente le loro posizioni sui valori (sembra persino difficile sostenere che i laici e i non credenti hanno “valori”) rispetto non soltanto alla vita e alla morte, ma a come si vive (nella diseguaglianza, nell’indigenza, nell’oppressione, anche religiosa) e a come si muore (per fame, per mancanza di risorse, per sfruttamento). Insomma, una vita degna di essere vissuta, tale anche grazie a politiche ridistributive, è un valore allo stesso modo di una morte consapevolmente richiesta con dignità. Non sembrano, peraltro, questi i ragionamenti che interessano né Famiglia Cristiana né i teodem e gli atei devoti i quali, certamente, nella loro rigida devozione sono tutto meno che laici. Molto mondanamente l’obiettivo, non soltanto di Famiglia Cristiana, consiste, da un lato, nel ridurre il potere politico, ahimé, già molto ristretto, del Partito Democratico nella misura in cui i teo-dem si comportano (attenzione, non ho, per il momento, scritto: sono) come una quinta colonna, paralizzandolo sotto la spada della possibile scissione. Dall’altro, meno comprensibilmente, consiste nell’indicare una via alla ricomposizione dei cattolici. Questo, che è più di un suggerimento, mi appare molto meno comprensibile poiché, come hanno oramai sottolineato molti commentatori, la forza politica dei cattolici, in una società che, pure, è molto secolarizzata (e se fosse anche “disperata” come, da ultimo, sostiene il cardinale di Bologna, Caffarra, avranno le loro responsabilità anche i predicatori cattolici autorizzati) dipende proprio dalla loro presenza in schieramenti diversi. Questa diffusione strategica rende visibili e potenzialmente efficaci tutte le espressioni di interessi e di preferenze che vengono dal Vaticano e dalle numerose diocesi. E, purtroppo, di cardinali come Martini non sembrano essercene più. Gli strumenti culturali di riflessione sul rapporto fra politica e religione, magari anche quelli approntati nel seminario di ItalianiEuropei, servono, anche se mi sono sembrati improntati a troppo pessimismo e a poco orgoglio laico. Tuttavia, è il Partito Democratico che deve dare vita e gambe all’operazione che aveva promesso.
Costruire un’organizzazione politica che non soltanto sommasse le culture riformiste liberali, socialiste e cattolico-democratiche, ma ne esaltasse gli elementi migliori a cominciare da quei valori che, detto senza retorica, erano persino riusciti ad entrare nella Costituzione Repubblicana. Non ho una proposta conclusiva mobilitante, ma credo, meglio, ritengo che il Partito Democratico farebbe bene a discutere in maniera tanto appassionata quanto laica, ovvero senza preconcetti, senza pregiudizi e senza soluzioni precostituite, dei rapporti, anche politici, fra le culture, e non soltanto dei limiti fra Stato e Chiesa, segnalando sempre puntigliosamente gli impropri sconfinamenti di quest’ultima. Riconosciuto il ruolo pubblico della religione, il confronto andrà fatto in pubblico secondo le regole del dibattito pubblico che richiedono non imposizioni, ma argomentazioni e giustificazioni.
* l’Unità, Pubblicato il: 11.06.08, Modificato il: 11.06.08 alle ore 10.33
La meretrice cavalca una bestia
Cos’altro rivela la profezia circa la grande meretrice e la sua sorte? Come riferisce ora Giovanni, si presenta un’altra vivida scena: “E [l’angelo] mi portò nella potenza dello spirito in un deserto. E scorsi una donna seduta su una bestia selvaggia di colore scarlatto che era piena di nomi blasfemi e che aveva sette teste e dieci corna”. - Rivelazione 17:3.
Perché Giovanni viene portato in un deserto? Di una precedente dichiarazione di condanna contro l’antica Babilonia veniva detto che era “contro il deserto del mare”. Essa avvertiva opportunamente che, malgrado tutte le sue difese idriche, l’antica Babilonia sarebbe divenuta una distesa desolata, priva di vita. È quindi appropriato che nella visione Giovanni venga portato in un deserto per vedere la sorte che attende Babilonia la Grande. Anch’essa deve divenire una distesa desolata. Giovanni comunque è sorpreso per ciò che vede lì. La grande meretrice non è sola! Siede su una mostruosa bestia selvaggia!
Questa bestia selvaggia ha sette teste e dieci corna. È forse la stessa bestia selvaggia che Giovanni ha visto in precedenza, la quale pure ha sette teste e dieci corna? No, ci sono delle differenze. Questa bestia selvaggia è di colore scarlatto e, a differenza della prima bestia selvaggia, non è detto che abbia diademi. Anziché avere nomi blasfemi solo sulle sue sette teste, è “piena di nomi blasfemi”. Nondimeno dev’esserci qualche relazione fra questa nuova bestia selvaggia e la precedente; le somiglianze fra loro sono troppo marcate per essere casuali.
Cos’è dunque questa nuova bestia selvaggia di colore scarlatto? Dev’essere l’immagine della bestia selvaggia che fu prodotta sotto la spinta della bestia selvaggia anglo-americana che ha due corna come un agnello. Dopo che fu fatta l’immagine, alla bestia selvaggia con due corna fu concesso di dare respiro all’immagine della bestia selvaggia. 5) Ora Giovanni vede l’immagine vivere e respirare. Essa rappresenta la Lega o Società delle Nazioni cui la bestia selvaggia con due corna diede vita nel 1920. Il presidente americano Wilson aveva auspicato che la Lega “servisse da tribunale in cui assicurare giustizia per tutti gli uomini ed eliminare definitivamente la minaccia della guerra”. Quando dopo la seconda guerra mondiale essa fu riesumata col nome di Nazioni Unite, secondo il suo statuto aveva lo scopo di “mantenere la pace e la sicurezza internazionale”.
In che senso questa simbolica bestia selvaggia è piena di nomi blasfemi? Nel senso che gli uomini hanno eretto questo idolo multinazionale in sostituzione del Regno di Dio, affinché compia ciò che secondo Dio solo il suo Regno può compiere. Comunque, ciò che è rimarchevole nella visione di Giovanni è il fatto che Babilonia la Grande cavalca la bestia selvaggia di colore scarlatto. Conforme alla profezia, la religione babilonica, particolarmente nella cristianità, si è schierata con la Lega delle Nazioni e il suo successore. Già il 18 dicembre 1918 l’organismo oggi noto col nome di Consiglio Nazionale delle Chiese di Cristo in America adottò una dichiarazione che in parte diceva: “Tale Lega non è un semplice espediente politico; è piuttosto l’espressione politica del Regno di Dio sulla terra. . . . La Chiesa può dare uno spirito di buona volontà, senza il quale nessuna Lega delle Nazioni può durare. . . . La Lega delle Nazioni è radicata nel Vangelo. Come il Vangelo, il suo obiettivo è ‘pace in terra, buona volontà verso gli uomini’”.
Il 2 gennaio 1919 un giornale (San Francisco Chronicle) titolava in prima pagina: “Il Papa esorta ad adottare la Lega delle Nazioni di Wilson”. Il 16 ottobre 1919 una petizione firmata da 14.450 ecclesiastici delle principali confessioni religiose fu presentata al Senato americano per esortarlo “a ratificare il trattato di pace di Parigi con la relativa clausola della Lega delle Nazioni”. Sebbene il Senato americano non ratificasse il trattato, il clero della cristianità continuò la sua campagna a favore della Lega. E come fu inaugurata la Lega? Un dispaccio d’agenzia dalla Svizzera in data 15 novembre 1920 diceva: “L’apertura della prima assemblea della Lega delle Nazioni è stata annunciata stamani alle undici dallo scampanio delle campane di tutte le chiese di Ginevra”.
La classe di Giovanni, il solo gruppo sulla terra che accettò prontamente il neonato Regno messianico, si unì forse alla cristianità nel rendere omaggio alla bestia selvaggia di colore scarlatto? Niente affatto! La domenica 7 settembre 1919, all’assemblea tenuta dal popolo di Geova a Cedar Point (Ohio, USA), fu pronunciato il discorso pubblico dal tema “Speranza per l’afflitta umanità”. Il giorno seguente un giornale (Star-Journal di Sandusky, USA) riferiva che Joseph F. Rutherford, parlando a quasi 7.000 persone, aveva dichiarato: “Il dispiacere del Signore sarà per certo sulla Lega . . . perché il clero - cattolico e protestante - che pretende di rappresentare Dio, ha abbandonato il suo piano e ha sostenuto la Lega delle Nazioni, acclamandola come un’espressione politica del regno di Cristo sulla terra”.
Il misero fallimento della Lega delle Nazioni avrebbe dovuto far capire al clero che tali organizzazioni di fattura umana non costituiscono affatto parte di un Regno di Dio sulla terra. Che bestemmia asserire una cosa del genere! Fa apparire Dio corresponsabile del fiasco colossale che la Lega mostrò di essere. In quanto a Dio, “la sua attività è perfetta”. Il celeste Regno di Geova affidato a Cristo - e non un’accozzaglia di politicanti litigiosi, molti dei quali atei - è il mezzo mediante il quale egli porterà la pace e farà compiere la sua volontà sulla terra come in cielo. -
Che dire del successore della Lega, le Nazioni Unite? Fin dal suo inizio anche questo organismo è stato cavalcato dalla grande meretrice, visibilmente schierata con esso nel tentativo di dirigerne le sorti. Per esempio, in occasione del suo 20° anniversario nel giugno 1965, esponenti della Chiesa Cattolica e della Chiesa Ortodossa Orientale, insieme a protestanti, ebrei, indù, buddisti e musulmani - in rappresentanza, si calcola, di circa due miliardi di abitanti della terra - si radunarono a San Francisco per celebrare il loro sostegno e la loro ammirazione nei riguardi dell’ONU. Recatosi in visita alle Nazioni Unite nell’ottobre del 1965, papa Paolo VI le definì “la più grande di tutte le organizzazioni internazionali”, e aggiunse: “I popoli della terra guardano alle Nazioni Unite come all’ultima speranza di concordia e di pace”. Un altro papa, Giovanni Paolo II, rivolgendosi alle Nazioni Unite nell’ottobre 1979, disse: “Auguro che l’organizzazione delle Nazioni Unite rimanga sempre il supremo foro della pace e della giustizia”. Fatto significativo, nel suo discorso il papa fece solo qualche raro cenno a Gesù Cristo e al Regno di Dio. Durante la sua visita alle Nazioni Unite nel settembre 1987, “Giovanni Paolo parlò a lungo del ruolo positivo che le Nazioni Unite hanno nel promuovere . . . una ‘nuova solidarietà a livello mondiale’”. - The New York Times.
L’Europa volta le spalle alle chiese
Per oltre 1.600 anni gran parte dell’Europa è stata sotto il dominio di governi che si professavano cristiani. Che dire di oggi? Mentre ci addentriamo nel XXI secolo, la religione in Europa sta forse prosperando? Nel 2002, in un suo libro sulla secolarizzazione dell’Occidente, il sociologo Steve Bruce ha scritto riguardo alla Gran Bretagna: “Nel XIX secolo quasi tutti i matrimoni venivano celebrati con rito religioso”. (God is Dead-Secularization in the West) Tuttavia, nel 1971 solo il 60 per cento dei matrimoni inglesi era religioso. Nel 2000 lo era appena il 31 per cento.
Nel commentare questa tendenza, un giornalista del Daily Telegraph che scrive in materia di religione ha detto: “Tutte le principali denominazioni, che si tratti di Chiesa d’Inghilterra o Chiesa Cattolica, oppure di Chiesa Metodista o Chiesa Riformata Unita, stanno subendo un graduale declino”. Riguardo a uno studio ha detto: “Entro il 2040 le Chiese britanniche saranno in via di estinzione con appena il due per cento della popolazione che frequenterà le funzioni domenicali”. Sono stati fatti commenti simili sulla condizione della religione nei Paesi Bassi.
“Negli ultimi decenni sembra che il nostro paese sia diventato decisamente più secolarizzato”, ha osservato l’Ufficio di Pianificazione Socio-Culturale olandese. “Si prevede che entro il 2020 il 72% della popolazione non apparterrà ad alcuna confessione religiosa”. Un quotidiano on-line tedesco dice: “Sempre più tedeschi si rivolgono alla stregoneria e all’occulto per ricevere il conforto che una volta trovavano nella chiesa, nel lavoro e nella famiglia. . . . In tutto il paese le chiese sono costrette a chiudere i battenti per la mancanza di fedeli”.
Le persone che in Europa vanno ancora in chiesa di solito non ci vanno per scoprire cosa Dio richiede da loro. Un articolo dall’Italia dice: “Gli italiani si costruiscono una religione su misura che sia adatta al loro stile di vita”. E un sociologo italiano afferma: “Dal papa prendiamo qualunque cosa ci sia congeniale”. Lo stesso si può dire dei cattolici in Spagna, dove la religiosità ha lasciato il posto al consumismo e alla ricerca di un paradiso da ottenere subito, quello economico!
Queste tendenze sono in netto contrasto con il cristianesimo insegnato e praticato da Cristo e dai suoi seguaci. Gesù non offrì una religione “self-service” o “a buffet”, in cui ognuno prende ciò che più gli aggrada e scarta quello che non è di suo gradimento. Egli disse: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda di giorno in giorno il suo palo di tortura e mi segua di continuo”. Gesù insegnò che il modo di vivere cristiano richiedeva sacrificio e sforzo a livello personale
E a Letizia Moratti fa l’occhiolino
Bush a Napolitano: ’’Il 2 giugno sarà l’Italian Indipendence Day’’
Roma, 12 giu. (Adnkronos/Ign) - Il 2 giugno è stato proclamato negli Stati Uniti d’America l’’Italian Independence Day’, quale riconoscimento del lavoro svolto dalla comunità di origine italiana nello sviluppo della Nazione americana. Il presidente Usa George W. Bush ha colto l’occasione, nel colloquio avuto al Quirinale con il capo dello Stato Giorgio Napolitano per informarlo personalemente. Un annuncio - a quanto si apprende negli ambienti del Quirinale - che è stato particolarmente apprezzato dal presidente Napolitano.
Dal canto suo il presidente Napolitano ha espresso al presidente Usa la convinzione che, nella nuova situazione creatasi con le elezioni di aprile, si consoliderà la condivisione degli indirizzi fondamentali della politica estera, anche grazie a un clima più costruttivo nella vita politica italiana.
Nei 40 minuti di colloquio i due presidenti hanno quindi affrontato i temi più rilevanti nello scenario mondiale, a cominciare dalla situazione economica internazionale, in vista del G8 che si terrà il prossimo anno proprio in Italia. Altri temi prevalenti nella discussione tra i due capi di Stato hanno riguardato il processo di pace in Medio Oriente e il vertice della Fao tenuto nei giorni scorsi a Roma.
Al termine del colloquio Bush e Napolitano si sono trasferiti nel Salone degli Specchi, per il pranzo d’onore.
In mattinata George Bush si è recato in visita all’American Academy. Il presidente Usa è arrivato a Villa Aurelia, al Gianicolo, per partecipare ad una tavola rotonda con gli otto studenti italiani che partecipano al programma Fulbright Best. Presenti, tra gli altri, l’ambasciatore Usa in Italia Ronald Spogli, il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, l’amministratore delegato di Unicredit Alessandro Profumo, quello di Poste Italiane Massimo Sarmi e il sindaco di Milano Letizia Moratti. Con quest’ultima, amica della moglie Laura, avvolta in un tailleur rosa confetto, Bush si sarebbe lasciato andare ad un gesto galante fecendole l’occhiolino.
La visita all’American Academy non è stata esente da manifestazioni di protesta. Sulla facciata dell’Accademia Usa infatti campeggiavano striscioni con su scritto: ’Basta Bush’ e il nome del presidente Usa con accanto la raffigurazione di un teschio. Un altro slogan, invece, inneggiava al candidato alle prossime presidenziali Barak Obama: accanto al suo nome il simbolo della pace.
"C’è molta disinformazione e propaganda sul nostro paese, ma la verità è che siamo aperti e solidali e abbiamo a cuore i destini delle persone, amiamo lo spirito imprenditoriale", ha detto Bush ai ragazzi che beneficeranno di una borsa di studio nella Silicon Valley realizzata dall’ambasciata americana, ricordandogli che per chi si dà da fare negli Usa ci sono molte possibilità di lavoro. "Se qualcuno ha un sogno -ha affermato il presidente statunitense- e lavora duramente per realizzarlo dando un contributo alla società ha grandi opportunità di lavoro. La miglior diplomazia per l’America è far venire la gente nel nostro paese".
Quello all’American Academy è stato l’unico appuntamento non istituzionale della giornata del capo della Casa Bianca. Successivamente Bush si è infatti recato al Quirinale dove ha incontrato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, mentre nel pomeriggio si recherà a Villa Madama per il colloquio e la cena con il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi.
La commercializzazione della religione in Nordamerica
A differenza di quanto succede in Canada, dove secondo gli osservatori si tende a essere scettici in fatto di religione, negli Stati Uniti la tendenza è quella di prendere le questioni di fede piuttosto seriamente. Stando ad alcuni dei principali istituti di statistica e analisi dell’opinione pubblica, almeno il 40 per cento degli intervistati affermano di andare in chiesa ogni settimana, anche se dai dati risulta che la cifra reale si avvicina più al 20 per cento. Oltre il 60 per cento di loro dicono di credere che la Bibbia è la Parola di Dio. Tuttavia il loro entusiasmo nei confronti di una particolare chiesa si può smorzare in fretta. Negli Stati Uniti molti praticanti cambiano religione con una certa disinvoltura. Se un predicatore perde popolarità o carisma può velocemente perdere i suoi fedeli, e spesso anche un consistente ritorno economico.
Alcune chiese studiano strategie di mercato per riuscire a “lanciare” meglio i loro servizi religiosi. A volte pagano migliaia di dollari per usufruire dei servizi offerti da centri di consulenza specializzati. “È stato un ottimo investimento”, ha detto un pastore visibilmente soddisfatto, come si legge in un articolo che parlava di questi centri di consulenza. Le cosiddette “megachiese”, che annoverano migliaia di fedeli, prosperano così tanto a livello economico da richiamare l’attenzione di quotidiani di economia e finanza quali il Wall Street Journal e l’Economist. Questi giornali riferiscono che di solito le megachiese offrono “in un colpo solo tutto ciò che serve per il corpo e per l’anima”. In questi complessi si possono trovare ristoranti, caffè, saloni di bellezza, saune e centri sportivi. Tra gli svaghi proposti ci sono spettacoli teatrali, visite di personaggi celebri e musica moderna. Ma cosa insegnano i predicatori?
Un argomento in voga, e ciò non sorprende affatto, è il cosiddetto “vangelo della prosperità”. Ai credenti viene detto che se faranno contribuzioni generose alla loro chiesa diventeranno ricchi e godranno di ottima salute. In campo morale, Dio viene spesso presentato come tollerante. Un sociologo dice: “Le chiese americane danno consigli, non giudizi”. Di solito le religioni in voga si concentrano sul dare suggerimenti per migliorare se stessi e avere successo nella vita. Sempre più spesso, la gente si sente a suo agio in gruppi religiosi non legati a denominazioni precise, gruppi in cui le dottrine, considerate divisive, sono menzionate a malapena. Si parla invece di politica, spesso in modo chiaro e specifico. Certi episodi verificatisi di recente sono stati fonte di imbarazzo per alcuni ecclesiastici.
Nel Nordamerica si sta forse assistendo a un revival religioso? Nel 2005 il settimanale Newsweek parlava dell’ampio consenso riscosso da funzioni religiose caratterizzate da forte emotività, in cui “si grida, si sviene e si battono i piedi”, nonché da altre pratiche religiose, ma faceva anche notare: “Qualunque cosa stia succedendo qui, non si tratta di un boom di affluenza alle chiese”. Da sondaggi in cui si chiedeva agli intervistati a quale religione appartenessero è emerso che il gruppo in più rapida crescita è quello di chi ha risposto “A nessuna”. Certe denominazioni religiose crescono solo perché altre diminuiscono. Si ritiene che la gente stia abbandonando “in massa” le religioni tradizionali, con le loro cerimonie, le note dell’organo che le accompagnano e i sacerdoti in abiti talari.
Nella nostra breve rassegna abbiamo visto come le chiese in America Latina si stiano frammentando, in Europa stiano perdendo i loro fedeli e negli Stati Uniti stiano offrendo intrattenimento e attività ricreative pur di non perdere consensi. Naturalmente ci sono molte eccezioni a queste tendenze che si riscontrano in generale, ma dal quadro complessivo emerge che le chiese lottano per non perdere il consenso popolare. Significa questo che il cristianesimo è in declino?
la recensione
CULTURA E RELIGIONE
Nella persona il baluardo al nichilismo
DI MAURIZIO SCHOEPFLIN (Avvenire, 03.09.2008)
Non ha dubbi Michele Illiceto quando indica nella persona l’ultimo decisivo baluardo in grado di contrastare la crisi apparentemente inarrestabile della cultura e dell’umanità del nostro tempo: «La persona - egli scrive - è l’ultimo lembo di quella frontiera che segna il confine tra il nulla del non-senso radicale, proprio del nichilismo contemporaneo, e la pienezza dell’essere che, anche se nascosta, aspetta solo di essere raccolta attraverso un lógos che è dia-lógos. Ecco allora che si riaffaccia, come estremamente attuale, il monito di Paul Ricoeur: il ritorno della persona che è anche ritorno alla persona e nella persona». E il libro di Illiceto si presenta proprio come uno strumento assai utile per avere una maggiore consapevolezza di come sia possibile operare questo ritorno.
In esso, dopo una prima parte dedicata alla storia del concetto di persona, il lettore troverà una sezione occupata da significative riflessioni sul tema della relazione, a cui segue un terzo segmento, nel quale, facendo perno sulla dimensione della responsabilità, viene descritto e discusso il passaggio dall’ontologia all’etica. Il volume si chiude con un’ampia disamina della realtà della persona còlta nella sua prospettiva relazionale, disamina compiuta in un costante e fecondo confronto con il pensiero di Emmanuel Mounier.
Scrive Attilio Danese nella densa e partecipe Prefazione: «Rientra questo testo nell’alveo culturale della filosofia antropologica tanto invocata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, impegnata a favore dell’uomo in un periodo storico in cui i rapporti tra le persone sono minacciati dall’anonimato, dall’efficienza ad ogni costo, oppure dai conflitti etnici e religiosi». In tempi di pensiero debole, il personalismo rappresenta un argine allo scetticismo, e dinanzi al pessimismo di chi, come Jean-Paul Sartre, ravvisa nell’altro soltanto una costante minaccia, la filosofia della persona riafferma la possibilità di conferire un valore positivo ai rapporti umani.
Saldamente ancorata a terra, e tuttavia aperta alla trascendenza e disponibile all’incontro con l’altro, la persona, come ha insegnato Emmanuel Mounier, vive un equilibrio dinamico che la spinge a diventare ciò che è, ovvero soggetto depositario di valori non negoziabili. Scrisse Jacques Maritain ne I diritti dell’uomo e la legge naturale del 1945: «Quando diciamo che un uomo è una persona vogliamo dire che egli è in qualche modo un tutto ... Nella carne e nelle ossa umane c’è un’anima che è uno spirito e che vale più dell’universo tutto intero».
Michele Illiceto
LA PERSONA: DALLA RELAZIONE ALLA RESPONSABILITÀ
Lineamenti di ontologia relazionale
Città Aperta. Pagine 400. Euro 30,00
Il presidente della Cei valuta la situazione del Paese e l’operato del governo
toccando tutti i temi più scottanti, dall’economia alla bioetica, alla violenza
Bagnasco: "Preoccupa la povertà"
Appello per gli immigrati irregolari *
ROMA - I vescovi sono preoccupati per la situazione di povertà che investe la società, soprattutto le famiglie. Ma anche per la violenza nei confronti degli immigrati e per alcune tendenze distruttive che si affermano tra i giovani. A farsi portavoce di questo sentimento è il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, in apertura dei lavori del Consiglio permanente. Un discorso fitto di giudizi sull’operato del governo (positivi su fronti quali il federalismo e la scuola, scettici sugli interventi nel sociale) e anche di ricette, tutte in linea con quanto la Chiesa cattolica ripete da tempo sui temi più scottanti.
La situazione economica. "La gente avverte sulla scena politica una certa voglia di fare - dice Bagnasco - ad esempio per colmare gli scarti infrastrutturali e per risolvere alcune delle grandi emergenze aperte, ma per ora non si attenua quella percezione di impoverimento di cui s’è detto in precedenti occasioni. Nessuno evidentemente può ignorare le condizioni poste da una sempre più complessa crisi internazionale e dai suoi caratteri per lo più inediti, dovuti a una globalizzazione sostanzialmente poco governata". In questo quadro la Conferenza episcopale italiana propone un sistema fiscale basato sul quoziente familiare che garantisca una maggiore equità fiscale. Bagnasco invoca quindi "misure organiche che diano un minimo di serenità, consentendo ai nuclei familiari di pianificare le loro prospettive di vita". Nel complesso il cardinale dà un giudizio positivo sull’Italia: non è un "Paese da incubo", dice contrastando quelle che definisce visioni "altalenanti e pessimistiche".
Immigrazione. "Resta uno degli ambiti più critici della nostra vita nazionale - afferma il presidente della Cei - Vogliamo credere che non si tratti già di una regressione culturale in atto ma motivi di preoccupazione ce ne sono, e talora anche allarmi". Bagnasco è preoccupato anche per l’"incessante" arrivo di "nuovi irregolari, sempre nostri fratelli" di fronte al quale chiede "risposte sempre civili", "accordi di cooperazione" per portare "alla legalità situazioni irregolari", "integrazione sociale" e accoglienza delle "domande di ricongiunzione familiare". Il presidente della Cei rileva quindi che "nell’ultimo periodo stanno emergendo qua e là dei segnali di contrapposizione anche violenta che sarà bene da parte della collettività ai vari livelli non sottovalutare".
Bioetica. Sui temi della vita, il cardinale ribadisce la linea della Chiesa: sì a una legge sul testamento biologico ma senza nessuna concessione all’abbandono terapeutico o a forme di eutanasia mascherata. La normativa, dice Bagnasco, non accetti dichiarazioni che specifichino "alcunché sul piano dell’alimentazione e dell’idratazione, universalmente riconosciuti ormai come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie". Non si deve legittimare in alcun modo né "eutanasia" né "abbandono terapeutico". E’ questa una "salvaguardia indispensabile" per evitare "esiti agghiaccianti". Ma è da respingere anche l’idea dell’accanimento terapeutico.
Giovani e scuola. Tra le preoccupazioni della Chiesa c’è quella per i "frequenti episodi di violenza e di spregio della vita umana che vedono spesso protagonisti dei giovani, perfino minorenni". Tale violenza "nasce in ultimo dal vuoto dell’anima - rimarca Bagnasco - dalla povertà di valori oggettivi e universali; vuoto che stravolge fino a sostituire ciò che è buono con ciò che non lo è, il giusto con l’ingiusto, il vero con il falso... Il tutto assume i connotati di una grave carenza rispetto al dovere educativo che, se da una parte si presenta oggi con i tratti di un’autentica e prioritaria urgenza, dall’altra costituisce la principale risorsa di un Paese che vuol guardare concretamente al futuro".
Il presidente della Cei esprime poi apprezzamento per le "innovazioni" previste nella scuola e "stima" per i docenti, avanzando una nuova richiesta del riconoscimento pratico del diritto per le famiglie di scegliere le scuole cattoliche.
Chiesa e politica. I cattolici in Italia rappresentano "un popolo vero, che chiede il rispetto della propria dignità agli occhi del mondo", afferma Bagnasco parlando del "problema aperto di un certo sguardo laico sulla Chiesa". Dai laicisti, prosegue, arrivano "pre-comprensioni così ossificate che solo il tempo e, quanto a noi, gli spazi per un’ulteriore coerente testimonianza potranno allentare’’. Il cardinale rinnova l’appello a creare una nuova generazione di politici cattolici e invita gli intellettuali e l’opinione pubblica a mobilitarsi in difesa della libertà religiosa quale caposaldo della civiltà dei diritti dell’uomo, e come garanzia di autentico pluralismo e vera democrazia".
Quadro internazionale. Guardando all’estero il presidente della Cei parla in particolare dei paesi in cui i cristiani sono oggetto di violenze. L’"ondata di persecuzioni" in India si è verificata "nel dispregio delle leggi, nell’impunità dei colpevoli, nella disinformazione della stampa nazionale, nell’imbarazzo dei politici locali e nel quasi silenzio della comunità internazionale", dice ricordando anche le violenze anticristiane in Pakistan e il "calvario" dei cristiani iracheni, ridotti alla metà da una vera e propria "pulizia religiosa".
* la Repubblica, 22 settembre 2008.
La religione civile che manca all’Italia
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13 gennaio 2009)
Non mi risulta ci sia lingua al mondo che usi l’aggettivo della propria nazionalità per designare qualcosa di imperfetto e di furbesco, come invece facciamo noi italiani dicendo "all’italiana". C’è sfiducia verso l’Italia anzitutto da parte degli stessi italiani: quanti di noi oggi, immaginando di scegliere dove poter nascere, sceglierebbero l’Italia? La crisi però non dipende dal fatto che valiamo poco, ma dal fatto che valiamo molto, nel senso che la notevole intelligenza degli italiani è incapace di trovare un valore-guida comune.
Già nel 1513 Machiavelli scriveva che «in Italia non manca materia da introdurvi ogni forma»: il nostro problema non è la materia umana, che c’è; è piuttosto la mancanza di una forma su cui modellare l’esuberanza della materia. Il problema non è il valore dei singoli, ma l’armonia tra tanti singoli di valore. Il problema, in altri termini, è "religioso", nel senso etimologico del termine religio: in Italia, a differenza degli altri paesi occidentali, manca una religione "civile", capace di legare responsabilmente l’individuo alla società. Si tratta, per dirla ancora in altro modo, di capire come mai l’Italia, ai primi posti quanto a pratica religiosa, lo sia anche per corruzione, evasione fiscale, criminalità organizzata e litigiosità della politica. Per argomentare il mio pensiero procedo mediante tre tesi.
Prima tesi: Una società è tanto più forte quanto più è unita, e ciò che tiene unita una società è la sua religione. Con questa tesi non voglio dire che il cattolicesimo in quanto religione istituita del nostro paese sia ciò che unisce la società e che per "salvare l’occidente" anche i non credenti debbano giungere a dirsi culturalmente cattolici, come vogliono gli "atei devoti". Intendo dire, al contrario, che ciò che tiene insieme una società rappresenta de facto la religione di quella società, religione da intendersi nel senso etimologico di religio, cioè legame, principio unificatore dei singoli. Nel suo senso più profondo, infatti, che cos’è la religione?
È il fatto che talora un individuo avverta un’attrazione irresistibile verso una realtà più grande di lui, nella quale egli, tuttavia, si identifica. Il termine "religione" porta al pensiero questo fenomeno fisico di dipendenza e insieme di identificazione. Chi ne è abitato non conosce nulla di più forte, e se poi condivide con altri questo legame, la struttura che si crea è solidissima. Per questo, quanto più una società condivide un principio unificatore, tanto più è forte. Il principio unificatore condiviso è stato visto dai nostri padri latini e chiamato religio, legame dei singoli che trasforma un insieme casuale in un sistema operativo. La religione civile è la particolare disposizione della mente per cui un antico romano concepiva Roma più importante di sé, o per cui i politici americani ripetono God bless America sapendo che è l’America l’idea che tiene insieme gli americani. È superficiale pensare che la società sia la semplice somma degli individui: l’Impero romano non era la somma dei cittadini romani, e l’America non è la somma degli americani. Roma e l’America rappresentano idee in grado di far sì che i singoli si sommino in modo ordinato, formando un sistema. E più l’idea è unificante, più il sistema è operativo.
Seconda tesi: L’Italia non ha una religione civile e questo è il suo problema più grave. L’Italia è ai primissimi posti in Europa quanto a corruzione. La corruzione lacera il legame sociale producendo un diffuso senso di sfiducia e sfilacciamento nel Paese e un’immagine negativa all’estero. Occorre chiedersi come mai siamo così corrotti e corruttori. Anche senza la retorica degli "italiani brava gente", io non penso che la causa di tale fenomeno sia che gli italiani, individualmente presi, siano moralmente peggiori degli altri europei. Penso piuttosto che la causa sia la mancanza, all’interno della coscienza comune, di un’idea superiore rispetto all’Io e ai suoi interessi. I danesi, che risultano il popolo meno corrotto d’Europa, come singoli non penso siano moralmente migliori degli italiani; penso piuttosto che essi condividano in misura molto maggiore la convinzione che vi sia qualcosa più importante del loro particulare, per usare la classica espressione di Guicciardini.
Questo qualcosa cui l’Io sa cedere il passo è la società: il singolo si comporta onestamente verso la società perché sente che essa è più importante di lui e perché al contempo vi si identifica, secondo la logica di dipendenza e identificazione vista sopra. Viceversa in Italia i più ritengono che il singolo sia più importante della società, e per il bene del singolo non si esita a depredare il bene comune della società. Da qui il tipico male italiano che è la furbizia, uso distorto dell’intelligenza. Il furbo è un intelligente che sbaglia mira, che non ha un oggetto adeguato su cui dirigere l’intelligenza, che non capisce il primato dell’oggettività e la dirige solo su di sé.
Al contrario chi sa usare davvero l’intelligenza capisce che la vita contiene valori più grandi del suo piccolo Io, e di conseguenza vi si dedica. L’intelligente gravita attorno a una stella, il furbo invece fa di se stesso la stella attorno a cui tutto deve ruotare. Con l’ovvio risultato che un insieme di intelligenti è in grado di creare un sistema, in questo caso non solare ma sociale, mentre un insieme di furbi è destinato semplicemente al caos e alla reciproca sopraffazione. Noi italiani siamo più corrotti perché usiamo in modo distorto la nostra intelligenza, e tale distorsione la si deve alla mancanza di un’idea comune più grande dell’Io, cioè di una religione civile e dell’etica che ne discende.
La religione civile è ciò che consente di rispondere alla seguente domanda: perché devo essere giusto verso la società? Perché devo esserlo anche quando la mia convenienza mi porterebbe a non esserlo? Senza un legame di tipo "religioso" con la società, nessuno sacrifica il suo particulare, nessuno sarà giusto quando non gli conviene esserlo e può permettersi di non esserlo. Per questo la formazione di una religione civile è d’importanza vitale per il nostro paese.
Terza tesi: Una delle condizioni perché in Italia possa sorgere una religione civile è che i cattolici mettano la loro fede al servizio del bene comune. I tentativi di creare un’etica civile in Italia sono stati, e sono, di due tipi: guelfo e ghibellino. Il primo intende l’etica civile come traduzione diretta del cattolicesimo, anche a prescindere dalla fede: è l’idea degli atei devoti, guardata con notevole favore dall’attuale gerarchia cattolica. Il secondo ritiene al contrario che un’etica civile potrà sorgere solo dal superamento del cattolicesimo, ritenuto il principale responsabile della sua mancanza in Italia soprattutto per la presenza del papato.
Io ritengo entrambi i tentativi destinati a fallire, il primo perché non tiene conto della secolarizzazione e della globalizzazione, il secondo della tradizione. La storia ci ha mostrato infatti che una religione civile contrapposta al cattolicesimo non sia politicamente concepibile in Italia, si pensi al mito risorgimentale della nazione confluito nel fascismo e al mito della società confluito nel comunismo. Una religione civile, e la conseguente etica di cui l’Italia ha urgente bisogno, potrà sorgere solo in unione con il cattolicesimo, non contro di esso.
Non so in quale direzione si debba muovere il pensiero dei laici per contribuire alla nascita di un’etica civile in Italia pari a quella degli altri paesi occidentali. Mi sento però di dire, da teologo, che il lavoro in questa direzione da parte dei cattolici è uno dei compiti più urgenti. Si tratta di porre davvero la fede a servizio del mondo, di questo pezzo di mondo che si chiama Italia, pensandosi come seme che marcisce nel campo o come lievito che scompare nella pasta. Fino a quando il seme vorrà preservare la sua identità di seme senza pensarsi in funzione della pianta, verrà meno al suo compito; fino a quando il lievito vorrà preservare la sua identità di lievito senza pensarsi in funzione della pasta, verrà meno al suo compito.
Fino a quando i cattolici italiani vorranno preservare la loro identità di cattolici senza pensarsi al servizio della società italiana, verranno meno al loro compito; e fino a quando la Chiesa tutelerà i suoi interessi particolari come una delle tante lobby senza essere davvero "cattolica" cioè universale, non sarà fedele al suo compito che è spendersi "per la vita del mondo". La situazione del Paese richiede a ogni italiano, laico o cattolico, con responsabilità politiche in campo civile o in campo ecclesiastico, di ripensare il proprio rapporto con la società secondo ciò che in termini religiosi si chiama "conversione". Purtroppo non è più sdolcinata retorica dire che ne va del futuro dei nostri figli.