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GIAMBATTISTA VICO, LA "BIBBIA CIVILE" RAGIONATA, E GLI INTELLETTUALI ITALIANI: IL CASO COLLETTI. Una nota - di Federico La Sala

PER UNA NUOVA "CITTA’ DELLA SCIENZA", NAPOLI 2013. "PRINCIPI DI UNA SCIENZA NUOVA", NAPOLI 1725: Che questo suo “meraviglioso libro - come scrisse Paul Hazard (...) - proietti finalmente il suo splendore sull’orizzonte dell’Europa”!
domenica 10 marzo 2013.
 

QUANTO SEGUE E’ LA TERZA PARTE DEL DISCORSO AVVIATO IN

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Nel 1725, Vico scrive “di se medesimo” che ha scoperto "tutt’altre da quelle che sono immaginate finora le origini di quasi tutte le discipline, sieno scienze o arti”. Che tale affermazione non sia il frutto della fantasia di un visionario, ma la determinata e fiera consapevolezza di un grande filosofo e di un grande scienziato, è più che evidente nella dichiarazione coeva della “Scienza nuova”, ove precisa in modo inequivocabile che i principi del mondo delle nazioni gentili - “senza veruna ipotesi (ché tutte si rifiutano dalla metafisica)” - bisogna “andarli a ritrovare di fatto tra le modificazioni del nostro umano pensiero”.

Se le parole vogliono significare qualcosa, già il titolo “Principi di una scienza nuova” (con tutto quel che segue) dovrebbe far pensare a un discorso da collocare entro l’orizzonte della rivoluzione scientifica (di Galilei e Newton!) e, già, della rivoluzione copernicana kantiana (1781): a ben vedere, ciò che Vico propone è una nuova concezione dell’uomo, della società, e della storia, all’interno di un nuovo orizzonte filosofico comune a tutte le scienze - senza chiusure e fondamentalismi (e riduzionismi), a nessun livello e di ogni tipo!

La sua convinzione, infatti, è che “ci è mancata finora una scienza la quale, fosse, insieme, istoria e filosofia dell’umanità. Imperciocché i filosofi han meditato sulla natura umana incivilita già dalle religioni e dalle leggi, dalle quali, e non d’altronde, erano essi provenuti filosofi, e non meditarono sulla natura umana, dalla quale eran provenute le religioni e le leggi, in mezzo alle quali provennero essi filosofi” (p. 178). E la sua sollecitazione è quella di ripartire - come è evidente - non dalla metafisica, dalla morale, e dalla religione, ma dall’antropologia!

CHI SIAMO NOI IN REALTA’? All’inizio dei “Principi”, nel capitolo primo del Libro Primo, intitolato “Motivi di meditare quest’opera”, Vico rompe ogni indugio e in una sintesi lucidissima e vertiginosa offre il filo di tutta la sua ricerca e mostra che cosa ha scoperto con “la fiaccola” della sua “nuova arte critica”. E, con una mossa geniale degna del miglior Marx (Introduzione ’57), nell’esposizione della sua indagine parte da un fatto antropologico indubitabile: un istinto naturale, un “comune desiderio della natura umana”, “un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente”.

Questo è l’attacco e il primo capoverso del suo capolavoro (Scienza Nuova, 1725): “ Il diritto naturale delle nazioni egli è certamente nato coi comuni costumi delle medesime: né alcuna giammai al mondo fu nazione d’atei, perché tutte incominciarono da una qualche religione. E le religioni tutte ebbero gittate le loro radici in quel desiderio che hanno naturalmente tutti gli uomini di vivere eternamente; il qual comune desiderio della natura umana esce da un senso comune, nascosto nel fondo dell’umana mente, che gli animi umani sono immortali; il qual senso, quanto è riposto nella cagione, tanto produce quello effetto: che, negli estremi malori di morte, desideriamo esservi una forza superiore alla natura per superargli, la quale unicamente è da ritrovarsi in un Dio che non sia essa natura ma ad essa natura superiore, cioè una mente infinita ed eterna; dal qual Dio gli uomini diviando, essi sono curiosi dell’avvenire”.

E, così, continua: “Tal curiosità, per natura vietata, perché di cosa propria di un Dio mente infinita ed eterna, diede la spinta alla caduta de’ due principi del genere umano: per lo che Iddio fondò la vera religione agli ebrei sopra il culto della sua provvedenza infinita ed eterna, per quello stesso che, in pena di avere i suoi primi autori desiderato di saper l’avvenire, condannò tutta la umana generazione a fatiche dolori e morte. Quindi le false religioni tutte sursero sopra l’idolatria, o sia culto di deitadi fantasticata sulla falsa credulità d’esser corpi forniti di forze superiori alla natura, che soccorrano gli uomini ne’ loro estremi malori; e l’idolatria [è] nata ad un parto con la divinazione, o sia vana scienza dell’avvenire, a certi avvisi sensibili, creduti mandati agli uomini dagli dèi. Sì fatta vana scienza, dalla quale dovette cominciare la sapienza volgare di tutte le nazioni gentili, nasconde però due gran princìpi di vero: uno, che vi sia provvidenza divina che governi le cose umane; l’altro, che negli uomini sia la libertà d’arbitrio, per lo quale, se vogliono e vi si adoperano, possono schivare ciò che, senza provvederlo, altrimenti loro apparterrebbe. Dalla qual seconda verità viene di séguito che gli uomini abbiano elezione di vivere con giustizia; il quale comun senso è comprovato da questo comun desiderio che naturalmente hanno dalle leggi, ove essi non sien tòcchi da passione di alcun proprio interesse di non volerle” (p.172).

E, ancora, proseguendo: "Questa, e non altra certamente è l’umanità, la quale sempre e dappertutto resse le sue pratiche sopra questi tre sensi comuni del genere umano: primo, che vi sia provvidenza; secondo, che si faccino certi figliuoli con certe donne, con le quali siano almeno i principi d’una religion civile comune, perché da’ padri e dalle madri, con uno spirito, i figliuoli si educhino in conformità delle leggi e delle religioni tra le quali sono essi nati; terzo, che si seppelliscano i morti. Onde, non solo non fu al mondo nazion d’atei, ma nemmeno alcuna nella quale le donne non passino nella religion pubblica de’ lor mariti; e, se non vi furon nazioni che andarono tutte nude, molto meno vi fu alcuna che usò la venere canina o sfacciata in presenza di altrui e non celebrasse altri che concubiti vaghi, come fanno le bestie; né finalmente vi ha nazione, quantunque barbara, che lasci marcire insepolti sopra la terra i cadaveri de’ loro attenenti: il quale sarebbe uno stato nefario o sia uno stato peccante contro la natura comune degli uomini. Nel quale per non cadere le nazioni, custodiscon tutte con inviolate cerimonie le religioni natie e, con ricercati riti e solennità, sopra tutte le altre cose umane celebrano i matrimoni e i mortori. Che è la sapienza volgare del genere umano, la quale cominciò dalle religioni e dalle leggi, e si perfezionò e compié con le scienze e con le discipline e le arti" (pp.172-173).

Conquistato il fatto antropologico indubitabile, per Vico tutto diventa più chiaro. Egli ha finalmente trovato il filo d’oro per uscire da interi millenni di labirinto: l’ “impresa”e la “dipintura”(1730) che illustreranno e accompagneranno la “Scienza Nuova” del 1744, celebrano e precisano in immagini proprio il senso di quest’evento e questa più grande consapevolezza!

Il principio del verum-factum (con le sue articolazioni interne, relative al rapporto Uomo-Dio, vero-vero, religione ebraica e religione dei gentili) è liberato dalle sue ambiguità neoplatoniche e cattolico-rinascimentali e lo stesso programma teologico-politico di Cusano, di Ficino, di Pico della Mirandola, di Michelangelo, di Campanella, di Giordano Bruno (la riconciliazione delle fedi e delle ragioni) è ripreso e rilanciato su una base nuova - scientificamente, teologicamente, e filosoficamente critica.

PER UNA “BIBBIA CIVILE” RAGIONATA, PER LA“COSTITUZIONE”! Nel capitolo secondo, sempre del Libro Primo, intitolato “Meditazione di una scienza nuova”, Vico dà chiarimenti sulla portata e il senso del suo lavoro e invita a riflettere sulla necessità di elaborare “uno stato di perfezione” (un “quadro costituzionale”!) per meglio orientare il cammino “dell’umanità delle nazioni”. Così scrive: “Ma tutte le scienze, tutte le discipline e le arti sono state indiritte a perfezionar e regolare le facoltà dell’uomo. Però niuna ancora ve n’ha che avesse meditato sopra certi princìpi dell’umanità delle nazioni, dalla quale senza dubbio sono uscite tutte le scienze, tutte le discipline e le parti; e per sì fatti princìpi ne fosse stabilita una certa akmé, o sia uno stato di perfezione, dal quale se ne potessero misurare i gradi e gli estremi, per li quali e dentro i quali, come ogni altra cosa mortale, deve essa umanità delle nazioni correre e terminare, onde con iscienra si apprendessero le pratiche come l’umanità d’una nazione, surgendo, possa pervenire a tale stato perfetto, e come ella, quinci decadendo, possa di nuovo ridurvisi. Tale stato di perfezione unicamente sarebbe: fermarsi le nazioni in certe massime così dimostrate per ragioni costanti come praticate co’ costumi comuni, sopra le quali 1a sapienza riposta de’ filosofi dasse la mano e reggesse la sapienza volgare delle nazioni, e,‘n cotal guisa, vi convenissero gli più riputati delle accademie con tutti i sappienti delle repubbliche; e la scienza delle divine ed umane cose civili, che è quella della religione e delel leggi (che sono una teologia ed una morale comandata, la quale si acquista per abiti), fosse assistita dalla scienza delle divine ed umane cose naturali (che sono una teologia ed una morale ragionata, che si acquista co’ raziocini); talché farsi fuori da sì fatte massime fosse egli il vero errore o sia divagamento, non che di uomo, di fiera”(p. 173).

PICO DELLA MIRANDOLA, “IL MARXISMO E HEGEL”, E L’IRONIA DELLA STORIA. Anche se nel 1974, Lucio Colletti prende con determinazione, “completamente”, le distanze dal “trionfalismo dogmatico con cui, un tempo, [ha] difeso la giustezza di ogni rigo di Marx”(“Intervista politico-filosofica”, Bari 1974) e, benché abbia fatto eroici tentativi per riallacciare i fili della “critica dell’economia politica” con i fili della “critica della ragion pura”, non riesce a venir fuori dalla trappola logica e storica della metafisica dogmatica e dalle macerie degli idealismi, dei marxismi, degli scientismi, e, nel 1994, cade (abbagliato dalla figura del Cavaliere del partito “Forza Italia”!) nel pantano dei liberismi.

Nel “Il marxismo e Hegel” (Laterza, Bari 1969), a difesa di Marx, così scrive: “analisi scientifica e storia, a un parto, cioè scienza-storia e storia-scienza: ecco lo storicismo di Marx; che non è quello di Vico, né quello di Hegel e tantomeno quello di Croce, come pur vorrebbero che fosse quei marxisti, i quali - non vedendo la storia nel Capitale - la cercano solo nel 18 Brumaio!” (p.141).

La catastrofe è già annunciata, e proprio nella parte più importante del lavoro (“a cui l’autore vorrebbe che fosse prestata l’attenzione maggiore”), “negli ultimi due capitoli: dedicati, rispettivamente, al concetto di “rapporti sociali di produzione” e all’idea della società “cristiano borghese” (p. VII). In questi capitoli i problemi della “Scienza nuova” di Vico sono al centro della questione. Tutti i nodi (dal rapporto essere-pensiero al verum-factum, vero-certo, uomo-dio, individuo-società e religione), vengono al pettine intorno al nodo antropologico, ma Vico non c’è - ovviamente!

Per difendere la concezione antropologica di Marx (l’uomo, un “ente naturale generico”) e chiarire il passaggio dal materialismo naturalistico al materialismo storico (contro il “materialismo dialettico” e la sua incapacità di sciogliere il nodo dei Manoscritti del ’44, cioè di intenderne il concetto dell’uomo come “ente naturale generico”), Colletti estrae il concetto di Uomo dal discorso di Pico della Mirandola (“De hominis Dignitate) e di Bovillus (“De Sapiente”) - in particolare, il tema dell’uomo artefice di se stesso, prodotto del suo farsi - e lo trapianta sul terreno del concetto dei “rapporti sociali di produzione”, e finisce per perdere ogni lucidità sia sul piano antropologico sia sul piano della critica dell’economia politica e della logica hegeliana.

L’orizzonte ateo-materialistico, e la superficiale (se non inesitente) conoscenza diretta dell’opera di Vico, blocca a Colletti ogni via di uscita (quantomeno in direzione del suo stesso Kant, che era “realista”, e del suo stesso Marx, che non era “marxista”!) e lo acceca definitivamente, riconsegnandolo all’ateismo ateo-devoto non di Croce-Hegel ma di Gentile-Fichte e Rousseau (con la sua "religione civile", zoppa e cieca)! E, alla fine, per capire qualcosa della “miseria dello storicismo” si rivolgerà a Karl Popper, che della “società aperta e i suoi nemici” sapeva qualcosina!

E’ l’inizio della fine di un percorso “esemplare” - non solo suo, ma di grandissima parte della maggior parte degli intellettuali italiani. A onore e memoria di Colletti, è solo da dire che tenne sempre la schiena dritta e non rinunciò mai al suo diritto di critica di uomo, di cittadino e di intellettuale. A vergogna degli altri, è meglio che tacciamo! E riprendiamo a leggere Vico!

Principi di una scienza nuova”, Napoli 1725 - Per una nuova “Città della Scienza”, Napoli 2013: Che questo suo “meraviglioso libro - come scrisse Paul Hazard alla fine della seconda guerra mondiale - proietti finalmente il suo splendore sull’orizzonte dell’Europa”!


SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:

-  L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI.
-  Potrai facilmente, o Leggitore, intendere la bellezza di questa divina Dipintura dall’orrore, che certamente dee farti la bruttezza di quest’altra, ch’ora ti dò a vedere tutta contraria.

-  A GIAMBATTISTA VICO E ALL’ITALIA, L’OMAGGIO DI JAMES JOYCE.

Federico La Sala (10.03.2013).



"PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA" DELLA RAGIONE ATEA E DEVOTA
-  KARL MARX RISPONDE A SALVATORE VECA, PRENDE LE DISTANZE DA ENGELS E RENDE OMAGGIO A FULVIO PAPI.

Federico La Sala


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