PRINCIPI DI SCIENZA NUOVA: SPIEGAZIONE DELLA DIPINTURA PROPOSTA AL FRONTISPIZIO CHE SERVE PER L’INTRODUZIONE DELL’OPERA [1744] (aprire il pdf, per vedere "la dipintura" (e l’"impresa"):*
Quale Cebete tebano fece delle morali, tale noi qui diamo a vedere una Tavola delle cose civili, la quale serva al leggitore per concepire l’idea di quest’opera avanti di leggerla, e per ridurla più facilmente a memoria, con tal aiuto che gli somministri la fantasia, dopo di averla letta.
La donna con le tempie alate che sovrasta al globo mondano, o sia al mondo della natura, è la metafisica, ché tanto suona il suo nome. Il triangolo luminoso con ivi dentro un occhio veggente egli è Iddio con l’aspetto della sua provvedenza, per lo qual aspetto la metafisica in atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle cose naturali, per lo quale finora l’hanno contemplato i filosofi; perch’ella, in quest’opera, più in suso innalzandosi, contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch’è ’l mondo metafisico, per dimostrarne la provvedenza nel mondo degli animi umani, ch’è ’l mondo civile, o sia il mondo delle nazioni; il quale, come da suoi elementi, è formato da tutte quelle cose le quali la dipintura qui rappresenta co’ geroglifici che spone in mostra al di sotto.
Perciò il globo, o sia il mondo fisico ovvero naturale, in una sola parte egli dall’altare vien sostenuto; perché i filosofi, infin ad ora, avendo contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte, per la quale a Dio, come a Mente signora libera ed assoluta della natura (perocché, col suo eterno consiglio, ci ha dato naturalmente l’essere, e naturalmente lo ci conserva), si danno dagli uomini l’adorazioni co’ sagrifici ed altri divini onori; ma nol contemplarono già per la parte ch’era più propia degli uomini, la natura de’ quali ha questa principale propietà: d’essere socievoli. Alla qual Iddio provvedendo, ha così ordinate e disposte le cose umane, che gli uomini, caduti dall’intiera giustizia per lo peccato originale, intendendo di fare quasi sempre tutto il diverso e, sovente ancora, tutto il contrario - onde, per servir all’utilità, vivessero in solitudine da fiere bestie, - per quelle stesse loro diverse e contrarie vie, essi dall’utilità medesima sien tratti da uomini a vivere con giustizia e conservarsi in società, e sì a celebrare la loro natura socievole: la quale, nell’opera, si dimostrerà essere la vera civil natura dell’uomo, e sì esservi diritto in natura. La qual condotta della provvedenza divina è una delle cose che principalmente s’occupa questa Scienza di ragionare; ond’ella, per tal aspetto, vien ad essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina (...)
Il raggio della divina provvedenza, ch’alluma un gioiello convesso di che adorna il petto la metafisica, dinota il cuor terso e puro che qui la metafisica dev’avere, non lordo né sporcato da superbia di spirito o da viltà di corporali piaceri; col primo de’ quali Zenone diede il fato, col secondo Epicuro diede il caso, ed entrambi perciò niegarono la provvedenza divina. Oltracciò, dinota che la cognizione di Dio non termini in essolei, perch’ella privatamente s’illumini dell’intellettuali, e quindi regoli le sue sole morali cose, siccome finor han fatto i filosofi; lo che si sarebbe significato con un gioiello piano. Ma convesso, ove il raggio si rifrange e risparge al di fuori, perché la metafisica conosca Dio provvedente nelle cose morali pubbliche, o sia ne’ costumi civili, co’ quali sono provenute al mondo e si conservan le nazioni.
Lo stesso raggio si risparge da petto della metafisica nella statua d’Omero, primo autore della gentilità che ci sia pervenuto, perché, in forza della metafisica (la quale si è fatta da capo sopra una storia dell’idee umane, da che cominciaron tal’uomini a umanamente pensare), si è da noi finalmente disceso nelle menti balorde de’ primi fondatori delle nazioni gentili, tutti robustissimi sensi e vastissime fantasie; e - per questo istesso che non avevan altro che la sola facultà, e pur tutta stordita e stupida, di poter usare l’umana mente e ragione - da quelli che se ne sono finor pensati si truovano tutti contrari, nonché diversi, i princìpi della poesia dentro i finora, per quest’istesse cagioni, nascosti principi della sapienza poetica, o sia la scienza de’ poeti teologi, la quale senza contrasto fu la prima sapienza del mondo per gli gentili. E la statua d’Omero sopra una rovinosa base vuol dire la discoverta del vero Omero (...)
* Giambattista Vico, Principi di Scienza Nuova [1744], "Idea dell’Opera", in: G. Vico, Opere filosofiche, Sansoni editore, Firenze 1971, p. 379, p. 381 - grassetti miei, fls.
LEMURUM FABULA: LA BRUTTEZZA DELLA DIPINTURA TUTTA CONTRARIA [La Scienza Nuova 1730] *
Potrai facilmente, o Leggitore, intendere la bellezza di questa divina Dipintura dall’orrore, che certamente dee farti la bruttezza di quest’altra, ch’ora ti dò a vedere tutta contraria. Il TRIGONO luminoso, e veggente allumi il Globo Mondano, che è la Provvedenza Divina, la quale il governa.
La falsa, e quindi rea Metafisica abbia l’ALE delle tempie inchiovate al Globo dalla parte opposta coverta d’ombre; perchè non possa, e non può, perchè non voglia, nè sa, perchè non vuole alzarsi sopra il Mondo della Natura; onde dentro quelle sue tenebre insegni o ‘l cieco Caso d’Epicuro, o ‘l Fato pur cieco degli Stoici; ed empiamente oppini, che esso Mondo sia Dio o operante per necessità, quale con gli Stoici il vuole Benedetto Spinosa, ovvero operante a caso, che va di seguito alla Metafisica, che Giovanni Locke fa d’Epicuro: e con entrambi avendo tolto all’huomo ogni elezione, e consigli o, avendo tolta a Dio ogni Provvedenza, insegni, che dappertutto debba regnar’ il Capriccio, per incontrare o ‘l caso , o ‘l fato, che si desidera.
Ella con la sinistra mano tenga la BORSA; perchè tali venenose dottrine non son’ insegnate, che da huomini disperati; i quali o vili non ebbero mai parte allo stato, o superbi, tenuti bassi, o non promossi agli onori, de’ quali per la lor boria si credon degni, sono malcontenti dello stato: siccome Benedetto Spinosa, il quale, perchè Ebreo, non aveva niuna Repubblica, truovò una Metafisica da rovinare tutte le Repubbliche del Mondo.
Con la destra tenga la BILANCIA, poichè ella è la Scienza, che dà il criterio del Vero, ovvero l’Arte di ben giudicare; per la quale troppo fastidiosa, e dilicata, non acquetandosi a niuna verità, finalmente caduta nello Scetticismo estima d’uguali pesi il giusto, e l’ingiusto; ella, come gl’immanissimi Galli Senoni fecero co’ Romani, caricando una lance con LA SPADA, la faccia sbilanciare, preponderando all’altra, dove sia il CADUCEO DI MERCURIO, ch’è simbolo delle Leggi; e così insegni, dover servire le leggi alla forza ingiusta dell’armi.
L’ALTARE sia rovinato, spezzato il LITUO, rovesciato l’URCIUOLO, spenta la FIACCOLA: e così ad un Dio sordo, e cieco si nieghino tutti i divini onori, e sien bandite dappertutto le cerimonie divine; e ’n conseguenza sien tolti tralle nazioni i matrimonj solenni, che appo tutte con divine cerimonie si contraggono; e si celebrino il concubinato, e ‘l puttanesimo.
Il FASCIO ROMANO sia sciolto, dissipato, e disperso; e spenta ogni Moral comandata dalle Religioni, con l’annientamento di esse; spenta ogni Disciplina Iconomica, col dissolvimento de’ matrimonj; perisca affatto la Dottrina Politica, onde vadano a dissolversi tutti gl’Imperj civili.
La STATOVA D’OMERO s’atterri; perchè i Poeti fondarono con la Religione a tutti i Gentili l’Umanità.
La TAVOLA DEGLI ALFABETI giacciasi infranta nel suolo; perchè la Scienza delle Lingue, con le quali parlano le religioni, e le leggi, essa è quella, che le conserva.
L’URNA CENERARIA dentro le selve porti iscritto LEMURUM FABULA: e ‘l dente dell’ARATRO abbia spuntata la punta: e tolta l’universal credenza dell’Immortalità dell’anima, lasciandosi i cadaveri inseppolti sopra la terra, s’abbandoni la coltivazione de’ campi, nonchè si disabitino le città: e ‘l TIMONE, geroglifico degli huomini empj senza niun’ umana lingua, e costume, si rinselvi ne’ boschi; e ritorni la ferina Comunione delle cose, e delle donne; le quali si debbano gli huomini appropiare con la violenza, e col sangue.
Il molto finora detto si è, per facilitarti, o benigno Leggitore, la lezion di quest’Opera [...]
* Giambattista Vico - "OCCASIONE Di meditarsi quest’Opera" - La Scienza Nuova 1730 - (senza corsivi, fls).
"PRINCIPI DI SCIENZA NUOVA D’INTORNO ALLA COMUNE ORIGINE DELLE NAZIONI": QUALE SIA LA CHIAVE DI ACCESSO AL CAPOLAVORO (1744) DI GIAMBATTISTA VICO, NON E’ ANCORA AFFATTO CHIARO NE’ AI FILOSOFI NE’ AI FILOLOGI E NEPPURE AI TEOLOGI, BENCHE’ SIA SOTTO I LORO OCCHI: "IGNOTA LATEBAT"!
PER QUESTO, FORSE, PUO’ ESSERE COSA UTILE E ILLUMINANTE RILEGGERE IL BREVE SAGGIO
SU GIAMBATTISTA VICO: LA LIBERTA’, LA PROVVIDENZA, E LA TEOLOGIA DELL’UMANITA’ "TUTTA DISPIEGATA".
SU "Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli." e sulle "regole del gioco dell’Occidente e il divenire accogliente della mente " ripresi dal mio lavoro (Federico La Sala, Roma 1991) e qui di seguito resi disponibili*
INDICE E COPERTINA DEL LIBRO:
Federico La Sala,
LA MENTE ACCOGLIENTE. Tracce per una svolta antropologica
Introduzione: In principio (o, meglio, all’Inizio)
I PARTE - CON NIETZSCHE ...
I. Nietzsche per ipotesi - Prometeico, dionisiaco e apollineo. - Istante, attimo ed Ewigkeit. - Nietzsche, Benjamin e Marx.
II. Nietzsche, ""Columbus novus". - Da dove parla Nietzsche. - Nietzsche e Freud. - Nietzsche e Benjamin. - Nietzsche e Marx.
II PARTE - ... E CON PARMENIDE
I. Fondazione della filosofia e rifondazione della ricerca. Una rilettura del "Perì physeos" di Parmenide.
III. VERSO LA MENTE ACCOGLIENTE
I. Zarathustra, il nano, e la libertà dal destino della necessità.
II. Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli.
III. Le "regole del gioco" dell’Occidente e il divenire accogliente della mente.
IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana. Sorte di una metafisica futura che si presenterà come scienza.
V. Un brillante new tono. "Note" per una epistemologia accogliente.
Antonio Pellicani editore, Roma 1991.
Sugli sviluppi della "traccia", qui riproposta, si cfr.:
PENSARE UN ALTRO ABRAMO: GUARIRE LA NOSTRA TERRA.
Federico La Sala (20.02.2013)
"APRITI SESAMO": TEATRO (LINGUA) E METATEATRO (METALINGUA). LA "TRAGEDIA" DEL PRINCIPE "AMLETO" E LA "COMMEDIA" DEGLI "IMBROGLI" DELLA "DODICESIMA NOTTE", PRIMA DELLA "EPIFANIA".
Alla "soluzione" del "legame" tra le due opere, un contributo molto "comico"» (#Dantedì, 25 marzo 2025) è suggerito da una lezione di #UmbertoEco, ricordata dal prof. Franco Lo Piparo.*
CHANGELING. SE E’ VERO, COME E’ VERO CHE «la commedia di Shakespeare, "La dodicesima notte", e la sua tragedia, "Amleto", furono scritte più o meno nello stesso periodo: alcuni dettagli di temi, motivi e meccanismi della trama suggeriscono una varietà di connessioni» (cfr. P. A. Fried, "Lettera e trappola per topi, La dodicesima notte e Amleto", 31 gennaio 2025), E CHE IL TEMA FONDAMENTALE della tragedia di Amleto è quello del #FURTO DELLA SUA #CORONA (o, "quel che volete"), DEL SUO #ANELLO, DEL SUO #TRONO, E DEL SUO #REGNO; e, ancora, che una di queste connessioni «[...] è la funzione della lettera che provoca la morte del maggiordomo Malvolio nella "Dodicesima notte", e la commedia "La trappola per topi" usata da Amleto per catturare la coscienza dei suoi monarchi» (cit.), appare essere più che illuminante la notazione filologica relativa al termine "changeling" (e al "gioco" degli "scambi" e degli "inganni").
COSTITUZIONE, #MOUSETRAP E "TONDODONI" ("SACRA FAMIGLIA"). CONSIDERATO CHE "Amleto in una conversazione con Orazio", per dire della scoperta del messaggio della lettera portata da Rosencrantz e Guildenstern e del cambiamento di segno e di senso apportato nella stessa lettera, usa il termine "changeling", una parola che ricorre solo "qui ed ora" ed è «un riferimento al folklore sulle fate che sostituiscono un #bambino con un altro non molto tempo dopo la nascita», si chiarisce meglio a cosa mirava la comunicazione "metateatrale" di Shakespeare: portare avanti, per dirla con Giordano Bruno, lo "Spaccio della bestia trionfante", e, mettere fine all’ avanzata del "marcio nello stato" della "danimarca" europea!
*
"IL NOME DELLA ROSA": LA "PAROLA D’ORDINE" ("PASSWORD") E IL FURTO DEL PORTAFOGLIO. Una lezione di "cittadinanza attiva" di Umberto Eco, ricordata dal prof. Franco Lo Piparo:
#PIANETATERRA: LO SVEGLIARSI DAL "#LETARGO" (#DANTEALIGHIERI, Par. XXXIII, 94) E "LA #PRIMAVERA CHE SI AVVICINA" (#DANTEDì, #25MARZO 2025).
TEATRO METATEATRO E "COSTRUZIONI NELL’ANALISI" (S. FREUD):
LA SCOPERTA DEL "MARCIO IN DANIMARCA" (IN EUROPA), LA "STORIA" DEL "RE LEONE", E LA PROFETICA "VITTORIA" DEL #FORTEBRACCIO DI #SHAKESPEARE ("HAMLET", V.2).
"QUANDO IL GATTO NON C’E’, I TOPI BALLANO". Per orientarsi nel pensiero e nell’analisi dell’opera di Shakespeare (#Hamlet), forse, è utile rileggere la "storia" del #pifferaio di #Hamelin (Der #Rattenfänger von #Hameln, letteralmente "l’ accalappiatore di ratti di Hameln").... e ripensare in parallelo la pericolosa "condizione" di #Amleto, #Principe #Figlio (in relazione alla #Regina-madre, #Gertrude, e all’avvelenatore "Re-padre", #Claudio), e ... la "condizione" di Simba, il principe-figlio di Mufasa, il "Re Leone", sotto il governo dello zio assassino, diventato re, il leone Skar, alleato con le iene, e sposo della leonessa, regina-madre: una situazione molto simile all’assalto dei Proci a Itaca, al regno di Penelope e Ulisse e Telemaco dell’ #Odissea...
SUL TEMA, PER APPROFONDIMENTO, SI CFR.:
L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova" - di Federico La Sala
IL PUTTANESIMO. "Potrai facilmente, o Leggitore, intendere la bellezza di questa divina Dipintura dall’orrore, che certamente dee farti la bruttezza di quest’altra, ch’ora ti dò a vedere tutta contraria".
fls
ANTROPOLOGIA, STORIA, MEMORIA, E FILOLOGIA:
RICORDANDO che "I Caristia, conosciuti anche come Cara Cognatio, erano un’antica festività romana [...] tenuta in ambito privato il #22febbraio con banchetti e scambi di doni tesi a celebrare l’amore familiare", e, ancora, che "[...] In quanto festa dell’amore, i Caristia non erano incompatibili con le abitudini cristiane, ed alcuni studiosi hanno notato delle influenze di Parentalia e Caristia sulla festa cristiana delle agapi, come il consumo di pane e vino presso la tomba sostituito dall’Eucaristia [...]" (https://it.wikipedia.org/wiki/Caristia) forse, è opportuno svegliarsi dal sonno dogmatico e cercare nei limiti del possibile di non confondere l’amore disinteressato (il "Deus charitas est") con l’amore di mammona (il "Deus caritas est") e di non dimenticare la differenza che corre tra la caristia e la carestia: la prima rinvia alle Grazie e alla Grazia (#Charis, gr.: Xapis), la seconda al "caro" (lat. "carus") del mercato, nel senso del "prezzo", del "costoso".
CHARIDAD. s. f. Virtud Theologál, y la tercera en el orden. Hábito infuso, qualidad inherente en el alma, que constituye al hombre justo, le hace hijo de Dios, y heredero de su Gloria. Viene del Griego Charitas. Pronúnciase la ch como K: y aunque se halla freqüentemente escrito sin h, diciendo Caridád, debe escribirse con ella. Lat. Charitas. PARTID. 1. tit. 5. l. 42. La primera Charidád, que quiere tanto decir como amor de Dios mäs que de otra cosa, è de sí, è de su Christiano. NIEREMB. Aprec. lib. 1. cap. 1. El Angélico Doctor con mäs acierto dice, que aunque no es el mismo Dios, ni es infinita la Charidád, hace efecto infinito, juntando al alma con Dios. CORNEJ. Chron. lib. 1. cap. 38. Uno de los principales exercicios era por este tiempo la assisténcia à los Hospitáles, donde desahogassen los fervores de su inflamada Charidád. (Diccionario de Autoridades - Tomo II, 1729)
P. S.
CHARISTIA o CARA Cognatio ...
"I Caristia, conosciuti anche come Cara Cognatio, erano un’antica festività romana [...] tenuta in ambito privato il 22 febbraio con banchetti e scambi di doni tesi a celebrare l’amore familiare [...] Durante i Parentalia le famiglie visitavano le tombe degli antenati e condividevano dolci e vino sia come offerte che come pasto. [...] " (Wikipedia).
CHARUN: "Nella mitologia etrusca, Charun (o Charu) era uno psicopompo o necropompo del mondo sotterraneo chiamato Ade. È il nome equivalente della figura della mitologia greca Caronte. Charun [...] viene rappresentato a protezione delle porte dell’Ade [...]".
Харистии - (Charistia) или, правильнее, Каристии древнеримский праздник, относившийся к числу родительских и замыкавший так называемые dies parentales (родительские дни); он приходился на 22 февраля. Это был день радости и вознесения богам молитв за живущих ... https://latin_latin.en-academic.com/14340/CARA_Cognatio.
FLS
Antichi Ritorni
Maggio, il mese di Maia e della vegetazione ma anche dei Lemures
Un mese controverso, poiché, se da una parte si festeggiava la rinascita dei campi e della natura, dall’altra si svolgevano delle feste assai ‘oscure’, ossia i Lemuria. Le prime cerimonie per placare le anime dei defunti furono istituite in questo mese da Romolo
di Alba Subrizio (Il Mattino di Foggia, 29/04/2018)
Maggio è in genere considerato il mese consacrato a Maria Vergine, molto probabilmente perché è in questo periodo che fioriscono le rose, fiori comunemente associati alla figura della Madonna. Ma prima che la Vergine Maria divenisse la ‘Signora’ del mese, maggio (in latino Maius) era dedicato ad un’altra divinità di cui, difatti, conserva il nome, ossia la dea Maia.
Maia era per i latini la divinità simbolo della fertilità e della rinascita; difatti è proprio in questo mese che si assiste alla completa rifioritura della natura, delle messi e della vegetazione in genere. Protettrice dei campi, la dea, figlia di Atlante, - secondo la mitologia greca - era considerata la madre del dio Ermes. È probabile che Maia, antica divinità italica, sia stata fusa con la Maia greca, considerata una della Pleiadi.
La Maia romana, secondo lo scrittore Aulo Gellio fu la sposa di Vulcano e si racconta che il dio ogni anno, alle Calende del mese a lei dedicato (ossia il 1° di maggio), le offriva in dono una scrofa gravida, simbolo di fertilità. Orbene, in virtù di ciò, nell’antica Roma si svolgeva per l’appunto una festa dedicata a questa divinità il primo giorno del mese di Maia (cioè il Calendimaggio), durante la quale veniva sacrificato un maiale, detto per l’occasione il “sus Maialis”, ovvero il ‘maiale di Maia’ (dal sostantivo sus = suino e dall’aggettivo Maialis = di Maia). Scopriamo dunque che la parola italiana “maiale” ha un’accezione colta, dal momento che indicava “ciò che appartiene a Maia” (ovvero non indicava l’animale in sé, bensì era solo l’aggettivo inerente al nome della dea a cui veniva sacrificato).
Maggio, tuttavia era un mese controverso, poiché, se da una parte si festeggiava la rinascita dei campi e della natura, dall’altra si svolgevano in questo mese delle feste assai ‘oscure’, ossia i Lemuria. Queste celebrazioni (che si svolgevano per la precisione il 9, l’11 e il 13 maggio) erano rivolte al “lemures”; con questo termine si indicavano nell’antica Roma le anime di coloro che erano morti di morte violenta e prematura e che, pertanto, non trovavano quiete. Le anime di questa particolare tipologia di defunti non giungevano nell’Ade ma continuavano a vagare nel mondo dei vivi senza pace. Alla luce di ciò i Romani temevano che i lemures potessero arrecar danni, ecco perché in questo mese compivano dei rituali per placarli e tenerli lontani dalla loro abitazioni. In special modo era il pater familias che compiva il rituale che consisteva nello gettarsi alle spalle nove volte (9 è multiplo di 3, considerato numero magico) delle fave nere.
Si narra che ad istituire questi riti propiziatori fosse stato Romolo per placare lo spirito del fratello Remo, e che avesse stabilito al contempo che durante questi tre giorni di maggio i templi dovessero restare chiusi e nessun matrimonio fosse celebrato. Attualmente con il nome di lemuri si indicano dei mammiferi tipici del Magadascar che per lo più conducono una vita notturna e che presentano occhi gialli e ‘spiritati’, quasi a ricordare i ‘fantasmi’.
SCIENZA, STORIA E MEMORIA. PORTARSI DOPO DEWEY ....
***
ALLA LUCE DEL GRANDE “SUCCESSO” NELLA CAPACITA’ DI ANALISI DELLA DIFFUSIONE DEL CORONAVIRUS mostrato dal CNR, il Consiglio Nazionale delle Ricerche (“Coronavirus. Rischio basso, capire condizioni vittime”, 22/02/2020), e della condivisione dei suoi “risultati” da parte di Giorgio AGAMBEN (”Lo stato d’eccezione provocato da un’emergenza immotivata”, il manifesto, 26/02/2020) , CONDIVIDENDO l’urgenza di accogliere “La sfida del Covid-19 alle scienze umane”, mi sia lecito rinviare ad alcune note dell’anno scorso (2019) proprio sul tema del “processo di apprendimento nelle due culture”. Forse, è proprio ora di uscire dal letargo e riprendere la navigazione “sotto coverta” e “il dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” con Galileo Galilei. O no?!
I sommersi e i salvati. Una nuova edizione per le scuole
di Martina Mengoni - Roberta Mori (Il Mulino, 06 giugno 2019)
Nel 1973 Primo Levi pubblicò un’edizione scolastica di Se questo è un uomo all’interno della collana einaudiana “Letture per la scuola media”. Si inseriva in una serie di edizioni commentate per le scuole che Levi curava personalmente: La tregua (1965), Il sistema periodico (1979), La chiave a stella (nel 1983, con commento di Gian Luigi Beccaria supervisionato dallo stesso Levi). Per Se questo è un uomo lo scrittore aveva progettato, oltre alle note, una serie di strumenti allo scopo di fornire ai giovani lettori informazioni sui Lager nazisti e sulla geografia e la storia europee tra il 1918 e il 1945: una prefazione, due carte geografiche dei campi di concentramento e sterminio europei, una bibliografia essenziale e un apparato di esercizi di comprensione e analisi.
Nel proporre agli studenti delle scuole superiori la prima edizione scolastica de I sommersi e i salvati, a oltre trent’anni dalla sua pubblicazione (1986), abbiamo provato a fare tesoro delle indicazioni provenienti dal lavoro di autocommento e curatela svolto da Levi, cercando di adattarle alla didattica e alla scuola odierna.
L’introduzione offre un resoconto, sintetico ma non semplificato, delle ultime ricerche sulla genesi, la struttura, gli stili e l’impianto retorico de I sommersi e i salvati. Il volume è ricondotto innanzitutto alla sua prima gestazione, negli anni Sessanta, quando Levi aveva uno scambio vivo e diretto con i suoi lettori tedeschi. Al contempo il libro non avrebbe visto la luce senza il dialogo ininterrotto con gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori, di cui la prefazione dà conto. “Sono stato in più di centotrenta scuole”, scrive l’autore nel 1979.
Gli studenti sono dunque il destinatario ideale de I sommersi e i salvati; è per loro l’ultimo e forse il più importante lascito analitico di Primo Levi, ed è questa la chiave per comprendere le scelte retoriche e argomentative del libro: un testo che fonde l’impianto saggistico con l’andamento narrativo, ricco di “figure” memorabili e insieme inesauribili, che rilanciano gli interrogativi filosofici, morali e storici posti dall’autore; un libro dal carattere socratico, concepito come un tentativo di ripristinare la complessità di una vicenda storica, sociale, culturale. “Una segnaletica di problemi”, come lo ha definito la storica Anna Bravo.
Nella progettazione e nella messa a punto dell’apparato di note si è cercato di trovare una sintesi tra due esigenze di segno opposto: da un lato l’aspirazione a trasmettere informazioni esaustive, dall’altro la necessità di non appesantire la pagina con note troppo lunghe e impegnative. Abbiamo optato per una notazione di servizio, agile e poco invadente, il cui scopo è quello di chiarire ogni riferimento non immediatamente presente nel bagaglio di conoscenze degli studenti delle scuole medie e superiori: traduzione di termini stranieri e spiegazione di termini specialistici, di derivazione colta e letteraria, di uso raro; note storiche e storico-biografiche, che coprono un arco cronologico che si estende dalla Prima guerra mondiale fino agli anni Ottanta del Novecento; spiegazione delle citazioni esplicite, dei riferimenti culturali, letterari, artistici.
Del tutto assenti in questa edizione sono invece le note di tipo critico-interpretativo. Il senso di questa scelta è alla base dell’intera operazione editoriale: proporre agli studenti un testo di cui fare un uso attivo, in classe, con il docente, nei lavori di gruppo, evitando di sovrapporre la nostra voce di curatrici a quella dell’autore. Non ci interessava intervenire nel dialogo fra autore e lettore suggerendo un’interpretazione preconfezionata (e, visto lo spazio a disposizione, per forza incompleta); abbiamo preferito lasciare alle note il compito di sciogliere eventuali ambiguità e di mettere a disposizione informazioni essenziali alla comprensione del testo.
Ciò non significa rinunciare alla funzione critica, che è piuttosto affidata agli esercizi presenti nel volume. Ci siamo chieste se fosse possibile costruire un eserciziario che accompagnasse gli studenti stessi, in autonomia, a individuare i maggiori nodi critici e argomentativi della pagina leviana, a esplorare l’uso della lingua e le ibridazioni che Levi sperimenta, la tendenza all’ossimoro e al paradosso che attraversa il libro. Chiedendo ai giovani lettori di misurarsi con l’analisi sintattica e con le etimologie del lessico leviano, giustapponendo di fronte a loro la pagina dei Sommersi con alcuni testi della tradizione letteraria e filosofica che Levi stesso chiama, esplicitamente o implicitamente, in causa, costruendo piccoli percorsi di ricerca bibliografica guidata: in tutti questi modi ci è sembrato di mettere i destinatari di questo lavoro nelle condizioni non soltanto di orientarsi nel testo, ma di coglierne le unicità e le tensioni interne, la potenza, le fonti, le aporie.
Al volume annotato de I sommersi e i salvati, che chiunque può trovare in libreria, si accompagna un fascicolo omaggio riservato agli insegnanti. Il fascicolo si compone di tre sezioni: 1) una serie di percorsi di apprendimento cooperativo, cinque in tutto, su alcuni temi chiave del libro; 2) undici percorsi di analisi guidata di testi di Primo Levi, sul modello delle prove di tipologia A e B dell’Esame di Stato; 3) una ricognizione bibliografica e sitografica sulla figura di Primo Levi, sulla storia della Resistenza e della deportazione e sulla didattica della Shoah.
Sono in particolare le prime due sezioni a costituire una novità a tutti gli effetti, un aggiornamento e un potenziamento rispetto agli apparati didattici delle edizioni einaudiane per le scuole medie che hanno ispirato questo progetto.
I sommersi e i salvati è il libro dello scrittore maturo Levi, che per tutta la vita si è interrogato sull’esperienza concentrazionaria, e al contempo ha sperimentato differenti forme di scrittura, frequentando generi e destinatari diversi. -Una guida per gli insegnanti doveva innanzitutto, a nostro avviso, rilanciare la poliedricità dello scrittore Levi, proponendo testi normalmente meno letti e frequentati dagli studenti delle scuole superiori; e in secondo luogo esplorare le possibili diramazioni culturali, scientifiche, filosofiche di alcuni temi cardine dei Sommersi come la memoria, la zona grigia, gli stereotipi della prigionia.
Alla prima esigenza rispondono le proposte di analisi del testo: undici brani tratti dal Sistema periodico, da La chiave a stella, da Racconti e saggi e dall’Appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo sfatano il mito monolitico di Levi testimone e allargano lo sguardo sul ben più sfaccettato e complesso universo del Levi scrittore, che si muove tra la chimica, con le sue vittorie e sconfitte, il lavoro manuale, la giovinezza, la formazione intellettuale e quella morale, la Resistenza, il rapporto con i tedeschi, le radici dell’intolleranza razziale e la manipolazione dell’informazione durante il Terzo Reich. Nella selezione di testi che proponiamo, questi temi sono spesso affrontati con lo sguardo di un Levi-personaggio liceale e poco più che ventenne, nel tentativo di stimolare un dialogo e un confronto generazionale.
I sommersi e i salvati è anche un libro che combina otto saggi tematici; ciascuno di questi temi (memoria, zona grigia, vergogna, comunicazione, violenza inutile, essere un intellettuale ad Auschwitz, dialogo con i tedeschi) si dirama in molte ed eterogenee direzioni. Uno dei modi possibili per far confluire le ricerche leviane degli ultimi anni in un apparato adatto agli studenti di scuola superiore era quello di costruire percorsi di apprendimento cooperativo interdisciplinari che, a partire dai temi discussi da Levi, toccassero altri testi letterari (Montale, Borges, Shakespeare, Dostoevskij), filosofici (Platone, Cicerone, Agostino, Bergson, Freud, Arendt), scientifici (Alexander Lurija) e storico-memorialistici (Massimo Mila, Luciana Nissim) con incursioni nel fumetto (Maus di Art Spiegelman, ma anche le vignette di prigionia di Ernesto Rossi), nelle arti figurative (il memoriale di Berlino, le Stolpersteine), nelle serie tv (Prison Break, Black Mirror). I percorsi sono pensati come attività di apprendimento di gruppo. Tre di essi sono incentrati sulla memoria, in tre differenti accezioni (memoria biologica, memoria collettiva, metafore della memoria); uno è dedicato alla zona grigia; l’altro allo stereotipo del prigioniero.
Prendiamo come esempio quest’ultimo: il percorso è costruito a partire dalle considerazioni del capitolo Stereotipi. Levi riflette sul progressivo sfaldamento dell’immaginazione storica degli studenti, non solo per quanto riguarda i grandi eventi, ma anche e soprattutto per quel che concerne la condizione di chi veniva fatto prigioniero nei campi: un progressivo sfaldamento psicologico e morale, un annientamento del corpo che andava di pari passo con quello del soggetto pensante. Niente di più lontano dal mito del prigioniero che “spezza le catene”, coltivato dalla letteratura e dal cinema.
Per il nostro percorso di apprendimento cooperativo, abbiamo affiancato a un testo tratto da Il sistema periodico (Oro) in cui Levi racconta la sua prigionia in Valle d’Aosta, un brano tratto da Memorie dalla casa dei morti di Luciana Nissim Momigliano sulla “morte interiore” dei prigionieri; insieme ad essi, abbiamo proposto un estratto da Le loro prigioni di Massimo Mila (in “Il Ponte”, n. 3, marzo 1949), in cui l’intellettuale antifascista racconta - con una certa disincantata ironia - il periodo di prigionia a Regina Coeli, la difficoltà nello scrivere lettere che eludessero la censura, la noia, la lettura, le conversazioni, l’avidità di notizie sul presente. Il testo è accompagnato da una vignetta di Ernesto Rossi, che con Mila condivideva la cella in quegli anni.
A questi testi si aggiunge una proposta eterodossa: quella di analizzare e commentare un film che Levi cita nel capitolo, Io sono un evaso (1932), accostandolo a un altro film sullo stesso filone, uscito negli anni Settanta, Fuga da Alcatraz (1979), e a una serie tv recente, Prison Break (2005-2017). Tutti e tre insistono in modi diversi - ma con un’iconografia simile, già individuabile nelle locandine - sullo stereotipo del prigioniero forte e padrone di sé, che riesce a liberarsi e a fuggire, spezzando i propri vincoli con lucidità pianificata e senza l’aiuto esterno. Far reagire i testi di Levi, Nissim, Mila e i disegni di Rossi con film che rappresentano il loro contraltare narrativo ci è sembrato utile per illuminare, attraverso un’attività didattica concreta, costruita sul lavoro a gruppi, il contenuto del capitolo dei Sommersi.
È improbabile che uno studente nato negli anni Duemila conosca Io sono un evaso o abbia letto a scuola gli Scritti civili di Massimo Mila; ma è possibile che abbia visto almeno una puntata di Prison Break, ed è quasi certo che sia familiare con la sua estetica e con la sua simbologia.
Un percorso di apprendimento cooperativo che colleghi questi contenuti potrebbe avere il merito di allenare lo sguardo degli studenti a riconoscere non solo gli stereotipi storici, ma anche i tic narrativi più frequenti; un esercizio di analisi e straniamento utile alla lettura e all’interpretazione delle costruzioni simboliche e dei miti letterari che popolano l’immaginario e la mitologia contemporanea.
Levi ha costruito I sommersi e i salvati esattamente con questo spirito: una galleria di esercizi mentali sul passato e sul presente, estremi e necessari. Noi proviamo a rilanciarli.
STORIA E MEMORIA: DANTE, MAZZINI, E L’ITALIA - OGGI ...
RICORDANDO CHE il “DELL’AMOR PATRIO DI DANTE” è del 1826 (e non, ovviamente, del 1926), a omaggio del lavoro dell’Autore e della Redazione della Fondazione (si cfr.: Maurizio Nocera, "Giuseppe Mazzini e i Mazziniani salentini", Fondazione "Terra d’Otranto", 04.12.2018), RICHIAMO l’avvio del memorabile articolo di Giuseppe Mazzini:
"Quando le lettere formavan, come debbono, parte delle istituzioni, che reggevano i popoli, e non si consideravano ancora come conforto, bensí com’utile ministero, fu detto il poeta non essere un accozzatore di sillabe metriche, ma un uomo libero, spirato dai Numi a mostrare agli uomini la verità sotto il velo dell’allegoria; e gli antichi finsero le Muse castissime vergini, e abitatrici dei monti, perché i poeti imparassero a non prostituire le loro cetre a possanza terrestre.
Ne’ bei secoli della Grecia, i poeti, non immemori della loro sublime destinazione, consecravano il loro genio all’utile della patria; ed altri, comeTeognide, spargevano tra’ loro concittadini i dettati della saggezza; altri, come Solone, racchiudevano ne’ loro poemi le leggi, che fanno dolce il viver sociale; altri, come Pindaro e Omero, eternavano i trionfi patrii; altri, come Esiodo,consegnavano ne’ loro versi i misteri, e le allegorie religiose. - Cosí santissimo uffizio affidava la patria ai poeti, l’educazione della gioventú al rispetto delle leggi religiose e civili, e all’amore della libertà; e finché l’inno d’Armodio, e le canzoni d’Alceo suonarono sulle labra dei giovani Greci, non paventarono né tirannide domestica, né giogo straniero.
Ma, come la civiltà degenerata in corruttela, i guasti costumi, il lusso, e il tempo distruggitore d’ogni buona cosa, ebbero inchinata la mente degli uomini alla servitú, e la prepotenza de’ pochi giganteggiò sulla sommessione abbiettade’ molti, la poesia tralignò anch’essa dalla sua prima indipendenza, si trafficaron gli ingegni, e furono compri da chi sperava, che il suonar delle cetre soffocasse il lamento dell’umanità conculcata; la poesia divenne l’arte di lusingare la credulità, e la intemperanza dei popoli; attizzò all’ire e alle voluttà i tiranni, e si fe’ maestra spesso di corruttela, quasi sempre d’inezie [...]" -(cfr. Giuseppe Mazzini, "Dell’Amor Patrio di Dante").
SUL TEMA “Dante, - oggi”, mi sia consentito, si cfr.: DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE. Per una rilettura del “De Vulgari Eloquentia” e della “Monarchia”
Federico La Sala
Narciso, Pigmalione e Prometeo tra le maglie del tecnocapitalismo
Saggi. «La grande alienazione» di Lelio Demichelis, pubblicato da Jaca Book
di Benedetto Vecchi (il manifesto, 04.12.2018)
Tre figure simbolo dell’animale sociale umano. Narciso, Pigmalione, Prometeo sono i nomi di uno spericolato, ma attentamente sorvegliato, slalom che viene rappresentato nel nuovo libro di Lelio Demichelis La grande alienazione (Jaca Book, pp. 281, euro 25).
SONO DECENNI che l’autore si misura con la grande trasformazione della «rivoluzione del silicio», muovendo da una robusta tradizione sociologica (Max Weber) e da una variegata costellazione filosofica (Martin Heidegger, la scuola di Francoforte, la tecnoscienza di Jacques Ellul). Per Demichelis, la tecnica è il «mezzo» per piegare la natura ai bisogni umani, ma nel corso del tempo ha acquisito un potere che sovradetermina le relazioni sociali. È diventata la leva per cambiare rapporti - anche di potere - nelle formazioni sociali.
Nel lungo, travagliato tramonto dell’Occidente, si è consumato anche questo ribaltamento di ruolo per le scienza e la tecnologia: da dispositivo teorico per comprendere la realtà a manifestazione di un potere performativo di quella stessa realtà. Un cambiamento non da poco. Se fosse solo così.
ALLORA, NARCISO, Pigmalione e Prometeo. Edonismo di massa, dissoluzione corrosiva del legame sociale in nome di un sé sempre eccedente rispetto lo stare in società. Ma anche contraddittoria attitudine pedagogica scandita da una evidente propensione manipolativa (non c’è nessun maestro ignorante all’orizzonte, ma solo accorti e sofisticati manipolatori). Pigmalione, infatti, mette in forma, secondo codici socialmente dominanti, soggettività che alla fine devono essere «allineate e coperte» allo status quo. Infine, Prometeo, cioè la spinta compulsiva a piegare la natura alle necessità terrene, sfidando gli dei, i depositari delle verità ultime e prime sulla vita, la società, gli umani.
LELIO DEMICHELIS è consapevole che deve vedersela con altre tradizioni teoriche e politiche. Il marxismo, ovviamente, e la sua critica all’economia politica, ma anche con quanto la network culture ha depositato in questi densi quarant’anni, dove il nesso tra assoggettamento volontario e potere costituito parla spesso il lessico di una libertà radicale dell’espressione, come testimonia la quotidiana esperienza comunicativa con i social network: le informazioni, il chiacchiericcio, i post, i like, le immagini condivise sono materie prime da elaborare e impacchettare per essere vendute e fare profitti (i Big data), facendo leva su un deposito specialistico dell’intelligenza artificiale.
L’AUTORE PRENDE posizione. Sa che la forma dominante della produzione della ricchezza - la fabbrica taylorista, che funziona weberianamente anche come gabbia di acciaio - ha lasciato il posto a un pulviscolo di nodi produttivi (la fabbrica sciame) costringendo management, sistemi istituzionali e lavoro vivo a una radicale ridefinizione delle proprie soggettività politiche. Demichelis, a ragione, è propenso a sostenere che lo hanno fatto meglio imprese e governi più che il lavoro vivo, dati i rapporti di potere esistenti e vigenti.
Che tutto si racchiuda dentro una Grande alienazione non c’è dunque da stupirsi. All’orizzonte, però, si profilano un bel po’ di problemi. Cosa intende Demichelis per alienazione? Sicuramente la separazione tra umani e mezzi di produzione evidenziata da Karl Marx che riduceva gli umani a cose. Ma in questo libro alienazione è molto altro. Ha infatti a che fare con la psicoanalisi, con l’incubo ossessivo del riconoscimento di sé, con il diffuso e nichilista disagio psichico.
LA CRITICA del tecnocapitalismo, sostiene Demichelis, passa attraverso l’articolazione e l’arricchimento di questo concetto, che mette a nudo il fatto che la colonizzazione della vita privata e pubblica è ormai un fenomeno irreversibile, facendo cadere miseramente nella polvere l’alto corno della coppia assoggettamento e libertà. Libertà non è all’orizzonte, se non come aspirazione finale, come esito di fenomeni di lunga durata che prevedono un gradualismo e un riformismo della soluzioni proposte per calmierare gli effetti violenti del tecnocapitalismo. In altri termini, la forma dominante di produzione della ricchezza non prevede più la presenza di un soggetto della liberazione, bensì una moltitudine - una specie di marmellata - di singolarità che come monadi passano dall’edonismo di massa alla ricerca di un pigmalione fino a diventare soldatini nella mobilitazione prometeica per innovare la produzione della ricchezza. La sensazione è quella di voler svuotare l’oceano con secchiello.
QUESTA LA PROVOCAZIONE dell’autore che nel corso della sua lunga traiettoria teorica ha accumulato studi e ricerche tese a dare consistenza alla costruzione di una teoria critica del presente, come testimoniano i recenti Sociologia della tecnica e del capitalismo (Franco Angeli), la Religione tecno-capitalista (Mimesis), Bio-tecnica (Liguori). Di questo puzzle in costruzione la grande alienazione costituisce punto di passaggio, di snodo. Insomma, il viaggio dell’autore continua.
A proposito di Jeremy Bentham, il carcere modello e l’utilità dei cadaveri
di ARMANDO MASSARENTI (Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2016)
Liberilibri di Macerata pubblica (in perfetto stile Aldo Canovari, l’editore più libertario d’Italia) un aureo libretto dello storico dell’arte tedesco Christian Welzbacher dedicato a Jeremy Bentham, Il folle radicale del capitale, e i suoi due progetti più estremi e significativi: il Panopticon e l’Auto-Icona.
Welzbacher mostra la stretta relazione intercorrente tra le due idee, che a prima vista appaiono assai lontane. Che cosa potrà mai avere a che fare il Panopticon, cioè il progetto di un carcere modello, capace di migliorare le condizioni infernali che caratterizzavano il sistema penitenziario, con il piano, coltivato fin dal 1769, all’età di 29 anni, di lasciare in “eredità” il proprio cadavere alla scienza, culminato nel saggio Auto-Icona o dei possibili usi dei morti per il bene dei vivi?
Si tratta, in entrambi i casi, di mettere in atto i principi della dottrina morale fondata da Bentham, l’utilitarismo, quella che avrebbe dovuto consacrarlo come il «Newton delle scienze morali», sulla scorta della sua opera principale, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, un caposaldo della dottrina giuridica che sta alla base del liberalismo e del capitalismo moderni.
Ed è nell’Introduzione che Bentham parla di una scienza oggettiva della felicità che nel progetto architettonico dell’Inspection house può trovare una concreta attuazione. Dal centro del complesso carcerario ipotizzato da Bentham, volto al miglioramento radicale delle condizioni dei detenuti, l’ispettore, non visto, avrebbe potuto osservare direttamente l’effetto che le norme educative pensate dal riformatore avrebbero avuto sui detenuti. All’interno di ogni singola cella si misurava il”calcolo felicifico” ipotizzato da Bentham che andava poi riportato in tabella: il valore di felicità prodotto serviva a valutare il progresso dell’internato verso la riabilitazione. Il momento opportuno per il rilascio veniva in questo modo stabilito su una base oggettiva e razionale, e non sui criteri soggettivi e fallaci della direzione. In questo modo ogni detenuto diventava «fabbro della propria felicità».
Siamo dunque all’opposto dall’idea che avrebbe ispirato utopie negative come 1984 di Orwell o le riflessioni del Michel Foucault di Sorvegliare e punire: non una struttura repressiva ma il cuore di una riforma carceraria volta alla riabilitazione del detenuto.
Bentham auspicava peraltro la liberalizzazione dei centri di pena, un’idea ancora oggi dibattuta. Economia e morale, grazie alla sostenibilità economica del progetto, potevano andare così di pari passo. E ciò valeva anche per l’Auto-Icona.
Il corpo di Bentham, morto a 84 anni, il 16 luglio 1832, secondo le disposizioni del filosofo, divenne oggetto di una lezione pubblica di anatomia in una singolarissima cerimonia funebre, basata sul principio per cui i morti devono contribuire alla felicità dei vivi. Il cadavere sezionato fu poi ricomposto nell’Auto-Icona di Bentham che ancora oggi si trova esposta allo University College di Londra.
L’intero rito era volto alla costruzione di una “religione profana” incentrata sull’altruismo e sull’utilità i cui ragionamenti si basavano su una desacralizzazione del corpo del defunto volta a metterlo a disposizione del prossimo. Oggi l’idea centrale di Bentham, di fondare la morale sul concreto aumento della felicità umana, è stata presa sul serio e portata avanti, su basi psicologiche assai più elaborate ed efficaci di allora, dallo psicologo e premio Nobel per l’Economia Daniel Kahneman. Il sogno riformatore di Bentham, capace di unire felicità e libertà dell’uomo, ha ancora molto da dire.
GIAMBATTISTA VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI .... *
La meraviglia del giardino dei Lari a Pompei
di Paolo Isotta (Libero, 7. X. 2018)
Guardo “Rainews” e leggo che a Pompei è stata scoperta una nuova casa, o almeno una nuova stanza. Dedicata al culto dei Lari, gli dei del più geloso culto familiare. Dieci fotografie mostrano un affresco d’incanto. Da quel che scorgo, oltre uccelli, dipinti con una delicatezza commovente, quella che mi pare una testa di cavallo, ma così affusolata che nella miniatura del Medio Evo diverrà, con la sola aggiunta del segno della fecondità, quella del liocorno. Un policromo pavone ad ali chiuse. Due leoni che azzannano alla caccia un cinghiale. La Natura, contemplare la quale è gioia: per l’Antico. Un sentimento panico che rinasce a volta a volta anche nel Medio Evo, e che il cristianesimo non riesce a reprimere. Alcuni Santi appartengono alla corrente, e fanno eccezione: Francesco, certo, ma sorprende più che tale sentimento esprima un ferreo uomo di potere come Sant’Ambrogio, quando la Chiesa si preparava a sostituire nell’imperio il vacillante Impero.
Poi, due simboli centrali. Una pigna, e ai suoi lati bellissimi serpenti color dell’oro che avvolgono in senso circolare le spire. C’è tutta la filosofia dell’Antico. La pigna è il simbolo della morte, d’immemoriale antichità; accompagna la Magna Mater, Cibele; e sovrasta anche il tirso delle seguaci di Dioniso, dio della morte rituale e della rinascita, perché smembrato e poi risorto; come Osiride. A fianco, un uomo con testa di cane. È Anubis, il dio egizio che presiede agl’Inferi, un po’ Ermes, un po’ Ade: nel sincretismo religioso tipico della tarda Repubblica, del primo Impero. Ci fosse, nel sacello pompeiano, un’immagine di Mitra, il dio misterico venerato particolarmente dai legionarî ma del quale era adepto pure Tiberio, avremmo tutto.
Il secondo simbolo è l’aureo serpente che col corpo disegna un cerchio. È l’immagine dell’Eterno Ritorno. La morte, la vita, l’Eterno Ritorno dell’identico. Il Tempo è un’illusione, omnia redeunt , “tutto ciclicamente torna”, canta Ovidio. Pensiamo al giudeo-cristianesimo: il Tempo come linea, che incomincia con la Creazione dovuta al capriccio del Dio ebraico - quando gli antichi sapevano perfettamente che la materia è eterna è increata -, si ferma con l’Incarnazione e, o, colla finis temporum e il Giudizio che condanna al fuoco senza fine chi è difforme: per razza, per pensiero. Quale immenso regresso culturale! (Sant’Agostino viene definito “filosofo” anche da molti colti storici ...)
Nel giudeo-cristianesimo, il serpente incarna il Male: perché vuole infondere all’ “innocente” bestia Adamo il senso della conoscenza. E la conoscenza, per le religioni che hanno prevalso, è il Male stesso. Onde il Peccato Originale. Per il mondo antico, il serpente, che corona il caduceo, è l’emblema del messaggero degli Dei, Mercurio, e rappresenta Esculapio, la medicina che risana divinamente. Nella Natura è il principio della morte che diventa anche della vita.
E voi? Siete dalla parte delle fiamme eterne o dell’Eterno Ritorno?
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
"Quando venni dagli uomini, li trovai assisi su di un’alterigia antica" (Nietzsche, Così parlò Zarathustra).
NIETZSCHE, L’UOMO FOLLE. Non abbiamo capito il Crocifisso e pretendiamo di aver capito Dioniso. (Forse è meglio rileggere il "poema celeste" sia di Dante sia di Iqbal).
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
Federico La Sala
IL RAZZISMO E LA LEZIONE DI VICO
Una commissione contro il razzismo
di Liliana Segre (la Repubblica, 05.05.2018)
Cari ragazzi e ragazze della Nuova Europa, ci sono molti modi per impegnarsi, efficacemente, nella materia, enorme e delicata, della discriminazione, ed io non cerco scorciatoie. Per dirla con parole antiche (Giambattista Vico) i rischi di una deriva autoritaria sono sempre dietro l’angolo. Lui, l’autore dei corsi e ricorsi storici, aveva visto lungo. Arrivo subito al punto consegnando a voi, che siete su un’isola, un “messaggio in bottiglia”: il mio primo atto parlamentare.
Intendo infatti depositare nei prossimi giorni un disegno di legge che istituirà una Commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo, e istigazione all’odio sociale. Si tratta di raccogliere un invito del Consiglio d’Europa a tutti i paesi membri, ed il nostro Paese sarebbe il primo a produrre soluzioni e azioni efficaci per contrastare il cosiddetto hate speech.
Questo primo passo affianca la mozione che delibera, anche in questa legislatura ( la mia firma segue quella della collega Emma Bonino) la costituzione di una Commissione per la tutela e l’affermazione dei diritti umani. C’è poi il terzo anello del discorso, l’argomento che più mi sta a cuore e che coltivo con antica attitudine: l’insegnamento in tutte le scuole di ogni ordine e grado della storia del ‘900. In una recentissima intervista, la presidentessa dell’Anpi, Carla Nespolo, ha insistito sullo stesso punto: «La storia va insegnata ai ragazzi e alle ragazze perché raramente a scuola si arriva a studiare il Novecento e in particolare la seconda guerra mondiale. Ma soprattutto non si studia che cosa ha significato per interi popoli europei vivere sotto il giogo nazista e riconquistare poi la propria libertà». Ora che le carte sono in tavola rivolgo a voi un invito molto speciale.
Un appello per una rifondazione dell’Europa, minacciata da “autoritarismi e divisioni” che segnalano l’emergere di una sorta di “nuova guerra civile europea”.
Il vento che attraversa l’Europa non è inarrestabile. Riprendete in mano le carte che ci orientano, che sono poche ma buone: in quelle righe sono scolpiti i più alti principi della convivenza civile, spetta a voi battervi perché trovino applicazione: grazie alla nostra Costituzione (70 anni fa) siamo entrati nell’età dei diritti e gli articoli 2 e 3 della Carta sono lì a dimostrarlo, il passaporto per il futuro.
La carta europea dei diritti fondamentali (che ha lo stesso valore dei trattati) è l’elevazione a potenza europea di questi principi, intrisi di libertà ed eguaglianza che abbiamo, orgogliosamente, contribuito a esportare.
Se vogliamo impastare i numeri con la memoria direi che siamo passati, in un solo “interminabile” decennio, dalla difesa della razza (1938) alla difesa dei diritti (1948). Il futuro deve essere orientato diversamente nel solco dei diritti inalienabili ecco perché, concedetemi la citazione, a cinquant’anni dal suo assassinio, Martin Luther King diceva che occorre piantare il melo anche sotto le bombe. È questo il momento giusto!
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA... *
____________________________________________________________________
Le idee
La vergogna è morta
Da Berlusconi a Trump: così un sentimento è scomparso dall’orizzonte dei valori individuali e collettivi
di Marco Belpoliti (l’Espresso, 15 dicembre 2017)
Quando nel 1995 Christopher Lasch, l’autore del celebre volume “La cultura del narcisismo”, diede alle stampe un altro capitolo della sua indagine sulla società americana, “La rivolta delle élite” (ora ristampato opportunamente da Neri Pozza), pensò bene di dedicare un capitolo alla abolizione della vergogna.
Lasch esaminava gli scritti di psicoanalisti e psicologi americani che avevano lavorato per eliminare quella che sembrava un deficit delle singole personalità individuali: la vergogna quale origine della scarsa stima di sé. La pubblicistica delle scienze dell’anima vedeva in questo sentimento una delle ultime forme di patologia sociale, tanto da suggerire delle vere e proprie campagne per ridurre la vergogna, cosa che è avvenuta in California, ad esempio («programma cognitivo-affettivo finalizzato a ridurre la vergogna»). Lasch non ha fatto in tempo a vedere come questo sentimento sia stato abolito dalla classe dirigente che è apparsa sulla scena della politica mondiale all’indomani del 1994, anno in cui lo studioso della cultura è scomparso.
* * *
Con il debutto di Silvio Berlusconi in politica la vergogna è ufficialmente scomparsa dall’orizzonte dei valori e dei sentimenti individuali e collettivi. Le élite che hanno scorrazzato nel paesaggio italiano nel ventennio successivo alla “discesa in campo” sono state totalmente prive di questo. In un certo senso Berlusconi è stato l’avanguardia di una classe politico-affaristica che ha il suo culmine nella figura dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Nessuno dei due uomini d’affari trasformati in leader politici conosce né il senso di colpa né la vergogna propriamente detta.
La vergogna, come sostengono gli psicologi, costituisce un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale. Per provarla occorre immedesimarsi in un pubblico che biasima e condanna. Ma questo pubblico non esiste più. Ci sono innumerevoli figure dello spettacolo, della politica, della economia e del giornalismo, per cui la sfrontatezza, l’esibizione del cinismo, la menzogna fanno parte della serie di espressioni consuete esibite davanti alle telecamere televisive e nel web. Nessuno prova più vergogna. Anzi, proprio questi aspetti negativi servono a creare un’immagine personale riconoscibile e, se non proprio stimata, almeno rispettata o temuta. Come ha detto una volta Berlusconi, genio del rovesciamento semantico di quasi tutto: «Ci metto la faccia». È l’esatto contrario del “perdere la faccia”, sentimento che prova chi sente gravare dentro di sé la vergogna. Metterci la faccia significa apparire rimuovendo ogni senso di colpa, di perdita del senso dell’onore, della rispettabilità.
* * *
L’esibizione dell’autostima è al centro del libro più celebre di Lasch, quello dedicato al narcisismo. «Meglio essere temuti che amati», recita un proverbio; nel rovesciamento avvenuto negli ultimi quarant’anni, cui non è estranea la televisione commerciale inventata da Silvio Berlusconi, è molto meglio che gli altri ti vedano come sei: cattivo, spietato, senza vergogna. L’assenza del senso di vergogna è generata dall’assenza di standard pubblici legati a violazioni o trasgressioni. Nella vergogna s’esperimenta l’immagine negativa di sé stessi, si prova il senso di un’impotenza. Questa emozione rientra in quel novero di quelle esperienze che sono definite dagli psicologi “morali”. Ciò che sembra scomparso in questi ultimi decenni è proprio un sistema di valori morali condivisi.
* * *
Non è lontano dal vero immaginare che la deriva populista nasca anche da questa crisi verticale di valori, dall’assenza di un codice etico collettivo. Nell’età del narcisismo di massa ognuno fa per sé, stabilendo regole e comportamenti che prescindono dagli altri o dalla società come entità concreta, entro cui si misura la propria esistenza individuale. La vergogna è senza dubbio un sentimento distruttivo, probabilmente molto di più del senso di colpa, come certificano gli psicoanalisti. Sovente porta a derive estreme, a reazioni autodistruttive, e tuttavia è probabilmente uno dei sentimenti più umani che esistano.
Per capire come funzioni la vergogna basta leggere uno dei libri più terribili e insieme alti del XX secolo, “I sommersi e i salvati” (Einaudi) di Primo Levi nel capitolo intitolato Vergogna. Lo scrittore vi riprende una pagina di un suo libro, l’inizio de “La tregua”, dove si racconta l’arrivo dei soldati russi ad Auschwitz. Sono dei giovani militari a cavallo che assistono alla deposizione del corpo di uno dei compagni di Levi gettato in una fossa comune. Il cumulo dei cadaveri li ha come pietrificati. Levi riconosce nei soldati russi il medesimo sentimento che lo assaliva nel Lager dopo le selezioni: la vergogna, scrive, che i tedeschi non avevano provato. La scrittore spiega che non è solo un sentimento che si prova per aver compiuto qualcosa di male, di scorretto o di errato. Nasce piuttosto dalla “colpa commessa da altrui”: la vergogna dei deportati scaturisce proprio da quello che hanno fatto i carnefici. Una vergogna assoluta, che rimorde alla coscienza delle vittime per la colpa commessa dai carnefici: «gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa». Levi parla di una vergogna radicale, che svela la profonda umanità di questo sentimento.
* * *
Gli psicologi affermano che la vergogna è molto più distruttiva del senso di colpa. Proprio per questo è lì che si comprende quale sia la vera radice dell’umano. Si tratta della «vergogna del mondo», come la definisce Levi, vergogna assoluta per ciò che gli uomini hanno fatto agli altri uomini, e non solo ad Auschwitz, ma anche in Cambogia, nella ex Jugoslavia, in Ruanda, nel Mar Mediterraneo e in altri mille posti ancora.
Che la vergogna ci faccia umani non lo dice solo Levi in modo estremo, ma lo evidenzia l’ultima frase di uno dei più straordinari testi letterari mai scritti, “Il processo” di Franz Kafka. Libro che quasi tutti hanno letto almeno una volta da giovani. Il romanzo dello scrittore praghese termina con una frase emblematica: «E la vergogna gli sopravvisse». K. è stato ucciso dai due scherani che l’hanno perseguitato nel corso dell’intera storia. L’hanno barbaramente accoltellato al cuore, dopo avere tentato inutilmente di convincerlo a farlo lui stesso. Il libro di Kafka si chiude con questa frase che, come ha segnalato Giorgio Agamben, significa esattamente questo: la vergogna ci rende umani. Chissà se Silvio Berlusconi e la sua corte hanno mai avuto in mano questo racconto, se l’hanno letto. Probabilmente no. Ma anche se lo avessero fatto, dubito che ne avrebbero tratto qualche ammaestramento, com’è evidente da quello che è seguito dal 1994: senza vergogna.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA. Sul filo di una nota di Tullio De Mauro
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
I due traduttori raccontano l’impresa impossibile di entrare in un labirinto di sogni, vocaboli, immagini
di Fabio Pedone, Enrico Terrinoni (La Stampa, 23/01/2017)
Quando abbiamo iniziato il lavoro su Finnegans Wake ci siamo trovati di fronte un unicorno dei boschi narrativi, il più imprendibile e affascinante degli organismi verbali, composto con l’idioma caleidoscopico di un Sognatore misterioso nella cui mente va in scena, «riraccontata», la storia umana. Ricco di allusioni e significati disposti con pazienza da Joyce in ogni piega del testo.
Tradurre l’intraducibile, proprio perché «non si può fare», è sempre possibile, cioè ri-pensabile, secondo una rete di rifrazioni e associazioni attente; e conduce, in un rilancio infinito, a una «abnihilisation» di quell’etimo/atomo che per Joyce diventa «etym». Ecco allora una paradossale nascita di atomi dal nulla (ab nihilo) che è pure un annichilimento dell’etimo, della statica origine di ogni parola, verso una ricreazione del caos primordiale, ovvero una plurale, nuova possibilità di cosmo: senza frontiere, distinzioni o identità fisse.
Di fronte a parole-prisma che brulicano sulla pagina quasi fossero materia vivente, altalenando tra le lingue, ogni lettore diventa rabdomante, scettico e aperto alle sorprese, e lui stesso vive in un permanente «stato di traduzione», tessendo in modo accurato o visionario il proprio «libro-sogno».
Se la forza dell’enigma è di essere sempre inesauribile, Finnegans Wake ci immerge nell’oscurità dell’esistere dicendoci che siamo noi a dover portare un bagliore di luce nella sua selva intricata, sciogliendo la lingua; per riscrivere storie e miti della famiglia umana mettendo in viaggio le solite vecchie parole che ci portiamo addosso da sempre, fino a farne qualcosa di «mai sentito».
Luigi Schenoni, il nostro predecessore nel tentativo di rendere in italiano il Wake, chiamava la propria opera una ri/creazione. Questo perché, spiegava, «il nipote di James, figlio di Giorgio Joyce, ha espressamente proibito di chiamare traduzione qualsiasi rifacimento in altra lingua di Finnegans Wake». Il che ricorda un’occasione simile, quando lo stesso erede concesse i diritti di traduzione dell’Ulisse a un team di traduttori, ma li ammonì: «non ne cambiate una sola parola».
Ora, la traduzione - di qualunque testo - impone di cambiarle tutte, le parole; e Joyce lo sapeva bene, quando nel 1930 parlò a Hoffmeister dell’impossibilità di tradurre il suo libro, perché non era scritto in una lingua precisa, e aveva un protagonista, il fiume, che ovviamente parlava il linguaggio di un fiume. Tuttavia, poi, incoraggiandone una traduzione in ceco, disse che era possibile mutare il testo in poesia, «poeticizzarlo con la più grande libertà poetica di cui si è capaci», lasciando così al potenziale traduttore «ogni possibile libertà nella trasformazione delle parole», e aggiungendo: «Devo restare come sono, semplicemente spiegato nella vostra lingua».
Altro che l’impossibilità di tradurre poesia. Qui abbiamo il testo più intraducibile che può esser tradotto soltanto in poesia. E poesia è da intendersi nel suo senso greco, come «fare, creare». Creare le parole, e dedicarvisi, dice Joyce, con il più gran «transfusiasmo» possibile.
Questo fece quando assieme a Nino Frank tradusse parti del suo testo in uno scoppiettante straitaliano, al punto che persino frasi semplici divennero in traduzione arditissime: «What was it he did» diventò «Che cozzo ha fotto», mentre in Schenoni è semplicemente «Che cosa ha fatto». Ma poi, dove Joyce scrive «the roughty old rappe», e Schenoni imitando traduce «la vecchia rozza repceanaglia», il sommo irlandese si straduce e s’inventa: «Forcadea, che carogna!»
Impossibile è sì quel che non si può fare, ma anche quel che non s’è ancora fatto. Missione ancora più importante rispetto a un libro come Finnegans Wake, che per dirla con Beckett «non riguarda qualcosa: è quel qualcosa». Tradurre il Wake non è solo reinventare una lingua, ma andare alle radici, storiche e mitiche, dell’atto linguistico. Joyce ci insegna che ogni parola è inventata. E se è stato capace di riscrivere la Creazione in senso atomistico (Adam and Eve divengono Atoms and ifs, meri «atomi e se»), o se ha saputo inserire nel termine biography («biografia») i semi della paura producendo beogrefright, in cui abbiamo beo che in irlandese è «vita», ogre, «orco» in inglese; e fright che sempre in inglese è «paura», questo è perché i fantasmi del passato possono spaventare, soprattutto se non provengono dal nostro, di passato.
La creatività, o meglio il creazionismo linguistico del Wake, proviene dal crollo di Babele e dal turbinoso ricomporsi delle sue rovine. Nel libro di Joyce Babel diviene babble («cicaleccio»), una nuova lingua ribelle e luciferina, l’idioma ridanciano di Belzebù (belzey babble). Uno slanguage fatto di espressioni giocate in più sensi e di sfrenati e serissimi giochi di parole.
La pagina di Finnegans Wake è il luogo delle metamorfosi, ed è inutile muovervisi per esclusione come nella logica diurna, rigida e disgiuntiva, perché qui errori, sviste ed espressioni dubbie, intrasentite nel dormiveglia, ci gettano in un labirinto, lo stesso che è nell’orecchio di uomini e animali. Un labirinto a forma di punto interrogativo, dove ascoltare e ri-dire sarà anche ridere. Tutto è movimento, le parole fanno capriole e sono in festa, ma sappiamo che dietro di loro si nasconde un potere immane: così ciascuno, traducendosi attraverso il Wake , potrà essere quel che è Shakespeare nel Wake: Shapesphere, un plasmatore di mondi, come il Linguaggio stesso, che trasforma la realtà.
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni ...
JAMES JOYCE
VIAGGIO AL TERMINE del ’900
di Stefano Bartezzaghi ( "Il Venerdì di Repubblica", 13.01.2017)
Con l’Ulisse aveva sconvolto il romanzo, ma con Finnegans Wake andò oltre, inventando un poema dalla lingua babelica dove i miti si confondono con le canzoni da pub. L’ammiratore Umberto Eco lo definì «terrificante».
Tradurlo sem- brava impossibile. Però due italiani ci sono ri- usciti. Qui spiegano come hanno affrontato un capolavoro venerato dalle avanguardie ma che oggi qualsiasi editore butterebbe nel cestino.
«Riverrun», «Meandertale», «Chaosmos» sono tre fra le parole-chiave (molte, e tutte assenti da ogni vocabolario) del romanzo di cui l’autore stesso pensa- va: «Forse è una follia. Si potrà giudicare solo fra un secolo». Oggi è ancora troppo presto, di anni ne sono passati meno di ottanta, e l’opera estrema di James Joyce può continuare a sembrare un libro im- maginario, una congettura di Jorge Luis Borges.
Invece il Finnegans Wake non solo esiste davvero, ma viene persino tradotto in italiano. Di Joyce è opera estre- ma non solo perché ultima (è uscito nel 1939, diciassette anni dopo l’Ulysses, e due anni prima della morte dell’autore).
Lo spiegò Umberto Eco, nel 1962: «Pareva che Ulysses avesse sconvolto oltre ogni limite la tecnica del romanzo: Finnegans Wake supera questo limite oltre i confini del pensabile. Pareva che in Ulysses il linguaggio avesse dato prova di tutte le sue possibilità: Finnegans Wake porta il linguaggio oltre ogni confine di duttilità e di comunicabilità. Pareva che Ulysses rappresentasse il più ardito tentativo di dare una fisionomia al caos: Finnegans Wake costituisce il più terrificante documento di instabilità formale e ambiguità semantica di cui si sia mai avuta notizia».
Più di recente lo scrittore Martin Amis ha significativamente intitolato «La guerra contro i cliché» una prefazione all’ Ulysses, e vi ha così riassunto le quattro tappe fondamentali della produzione joyciana: «Gli accessibilissimi racconti di Gente di Dublino, il più o meno comprensibile Ritratto dell’artista dagiovane, poi l’ Ulisse, prima che Joyce si prepari per quell’immolazione di ostilità, di sterminio del lettore che è Finnegans Wake, dove ogni parola è un pun multilingue».
È il gioco di parole, quindi, la «terrificante» (Eco) arma con cui si compie lo «sterminio del lettore» (Amis).
Nel pun le parole possono incastrarsi l’una nell’altra, aprendo nuove dimensioni di significato: i gemelli «siamesi» sono «soamheis» (so-am-he-is, così come io sono, egli è); «Chaosmos» è il caos che non si oppone ma si interpone al cosmo; «riverrun» (prima e ultima parola del romanzo, scritta in minuscolo perché la fine si salda con l’inizio) è un’unione di «fiume» e «scorrimento» (ma può essere molte altre cose); «Meandertale» è una sorta di sciarada fra il «meandro» e il «racconto» (tale) che finisce per produrre un’entità vicina a «Neanderthal», quindi all’uomo primordiale e ai suoi istinti primari. Giochi, ma quanto divertenti? Il titolo Finnegans Wake è ricavato dalla canzonaccia irlandese da osteria La veglia di Finnegan, il cui ritornello dice: «Vedi che avevo ragione? / Alla veglia di Finnegan ci si diverte da matti!». Per Joyce agglomerare parole o, al contrario, disaggregarle in atomi entropici di significato era anche un divertimento personale: non a caso gli capitava di chiamarlo «joycity», gioiosità joyciana.
Al proprio «meandertale», oscuro labirinto e puzzle narrativo, Joyce augurava lettori poliglotti e idealmente insonni. Dei traduttori non ha parlato (per quanto lui stesso abbia partecipato alla traduzione italiana di una sezione), ma il testo li postula onniscienti e invulnerabili.
Dopo qualche saggio di traduzione italiana assai parziale da parte di scrittori intrepidi come Gianni Celati e Rodolfo Wilcock (oltre allo stesso Joyce), a decidere di affrontare non l’Ottomila di uno o due capitoli ma l’intero Himalaya del libro completo è stato un traduttore bolognese, Luigi Sche- noni (1933-2008): nell’incredulità genera- le pubblicò il primo volume nel 1982, da Mondadori, e arrivò poi a tradurre i due terzi dell’opera.
Il suo testimone è stato raccolto da Enrico Terrinoni e Fabio Pedone di cui ora esce la traduzione del penultimo tratto di Finnegans Wake (Libro Terzo, capitoli 1 e 2; Mondadori, pp. 420, euro 24), corredato da diversi apparati, oltre che dall’imprescindibile testo origi- nale a fronte.
Come dicono i nuovi traduttori, la difficoltà è che il romanzo «si tra duce da solo», poiché è scritto in una lin- gua babelica, in cui l’inglese si confronta con apporti di ogni altra lingua conosciuta o raggiunta da Joyce (ivi compreso non solo l’italiano ma anche il dialetto triesti- no: chissà quanti non-italiani leggendo «riceypeasy» penseranno ai «risi e bisi» qui evocati consapevolmente da Joyce).
La storia di questo libro inimmaginabile era cominciata nel 1922, un anno dopo l’uscita di Ulysses. Fu allora che Joyce prese ad alludere a un nuovo progetto: per iscritto vi si riferiva con il disegno di un quadratino ; quando ne parlava, lo chiamava Work in progress, il lavoro in corso. Nel 1928 mise in palio mille franchi, per chi avesse indovinato il titolo definitivo (il premio fu aggiudicato dieci anni dopo, un anno prima dell’uscita del romanzo).
La canzone Finnegan’s Wake parla della veglia funebre per un ubriacone, durante la quale gli amici bevono e litigano, fanno cadere un goccio di whisky sul cadavere, che si ridesta («wake» come nome significa «veglia» ma come verbo sta per «svegliarsi»).
Joyce trasformò «Finnegan’s» in «Finnegans», e la veglia di Finnegan diventò «la veglia dei Finnegan» o «i Finnegans si svegliano». Né si può trascurare la circostanza per cui Finn è un gigante della mitologia irlandese, nel mito di fondazione della città di Dublino, e sempre per assonanza e pun «Finnegan» può diventare «Finn again»: ancora Finn, in riscossa dello spirito irlandese. Come se non bastasse, c’è il latino, dove «negans» è participio presente di negare e quindi «Fin negans wake» è una veglia, o un risveglio, che nega la fine.
Il fatto è che Joyce era rimasto impressionato, letterariamente se non filosoficamente, dalla Scienza Nuova di Giovan Battista Vico, con la dottrina dei corsi e ricorsi e la sequenza delle ere degli Dèi, degli Eroi e degli Uomini.
Volle narrare un ciclo vitale ricorsivo incarnandolo però nella forma stessa del suo romanzo; non una quadratura del cerchio, ma una circolazione del quadrato, diceva: il quadrato sta per il susseguirsi di nascita, crescita, morte, rinascita.
A capirlo prima di tutti fu il giovane Samuel Beckett, che di Joyce era stato anche collaboratore stretto, e quando del Work in Progress non si conoscevano che pochi tratti ne parlò così: «Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma. Si protesterà che questa roba non è scritta in inglese. Non è affatto scritta. Non è fatta per esser letta, o almeno non solo per essere letta. Bisogna guardarla e ascoltarla. La scrittura di Joyce non è su qualcosa: è quel qualcosa».
Nel contenuto e nelle forme espressive della narrazione fra l’ Ulysses e Finnegans Wake avviene il passaggio dal giorno alla notte. Là c’era una giornata nella vita di un everyman, Leopold Bloom; qui è il sogno di un altro uomo, l’oste H. C. Earwicker.
Nelle forme di un’allegoria letteraria l’Ulisse-Bloom aveva il suo Telemaco-Dedalus e la sua Penelope-Molly, e incontrava sirene, ninfe e tempeste; invece nel sogno di Earwicker le figure dei diversi livelli (narrativo, storico, geografico, mitologico) non scorrono più parallele al testo ma si fondono fra loro secondo le condensazioni tipiche del lavoro onirico.
Le iniziali di Earwicker, H. C. E., stanno anche per Here Comes Everybody (Qui arriva ognuno) e per molte altre soluzioni dell’acronimo; la moglie Anna Livia Plurabelle nel nome incarna il fiume dublinese Liffey; corri- spondenze numerologiche trasfigurano i dodici clienti dell’osteria di H. C. E. negli apostoli o nelle ore dell’orologio... In un mondo di trasmutazioni della materia e delle identità (i sogni, del resto, sono fatti così), la lingua medesima diventa un dispositivo di condensazione, in cui radici, etimi, somiglianze, accezioni alternative convivono nella stessa parola.
Se l’ Ulysses rompeva la sintassi dell’inglese e la ristrutturava, il Finnegans Wake non è più scritto in inglese, ma è un vortice, una tromba d’aria poliglotta che devasta un territorio inglese.
Umberto Eco si è potuto divertire a immaginare il consu- lente che scrive alla casa editrice: «Per piacere, dite alla redazione di stare più attenta quando manda i libri in lettura. Io sono un lettore d’inglese e mi avete mandato un libro scritto in qualche diavolo di altra lingua. Restituisco il volume in pacco a parte».
Lo scrittore Michel Butor ha detto: «Se noi vogliamo leggere una pagina di Finnegans Wake dobbiamo prendere molte parole in modo diverso da quello in cui sono scritte, abbandonare una parte delle loro lettere e dei loro significati possibili».
Ogni lettore fa scelte proprie e costruisce un proprio ritratto tramite il testo: «Finnegans Wake è così per ciascuno uno strumento di conoscenza intima». Here Comes Everybody, appunto. Forse è significativo che tra i primi joyciani a occuparsi a fondo di Finnegans Wake si siano annoverati Marshall McLuhan e Umberto Eco.
L’Everybody dublinese, dall’alto del suo estremo gioco letterario, affascina gli studiosi di mass-media. Nella sua osteria allora convergono la storia, l’ostilità, l’ospitalità, l’isteria di tutti. Se fra vent’anni decideremo che si trattò di follia, già oggi sappiamo che lì c’era del mitico.
Stefano Bartezzaghi
FU JOYCE A PROPORRE ALL’AMICO NINO FRANK DI TRADURRE IN ITALIANO L ’ ULTIMO CAPITOLO DEL FINNEGANS WAKE: «PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI », SPIEGÒ . « FINCHÉ CI SONO ANCORA I0 A CAPIRE COSA HO SCRITTO».
FRANK PROTESTAVA : L’ITALIANO NON È UNA LINGUA ADATTA Al GIOCHI DI PAROLE E QUEL CAPITOLO È INTRADUCIBILE . « NON ESISTE NULLA CHE NON POSSA ESSERE TRADOTTO», RIBATTEVA JOYCE . COSÌ I DUE PRESERO A INCONTRARSI DUE VOLTE A SETTIMANA PER TRE MESI. E, COME RACCONTA RICHARD ELLMANN , BIOGRAFO DELLO SCRITTORE, ERA LUI A SPIEGARE L’AMBIGUITÀ DELLE PROPRIE INVENZIONI , SOTTOLINEANDONE LA MUSICALITÀ . MENTRE IL SIGNIFICATO DEL TESTO GLI ERA PIUTTOSTO INDIFFERENTE.
NONOSTANTE QUESTO ESORDIO D’AUTORE - E BENCHÉ JOYCE ABBIA VISSUTO IN ITALIA PIÙ DI DIECI ANNI, PARLANDO LA NOSTRA LINGUA CON MOGLIE E FIGLI - NON ESISTE ANCORA UNA VERSIONE ITALIANA COMPLETA DEL ROMANZO, CHE PURE È STATO PUBBLICATO IN FRANCESE, TEDESCO , OLANDESE, PORTOGHESE , TURCO E PERFINO IN CINESE, GIAPPONE- SE E COREANO. MA LA LACUNA STA PER ESSERE COLMATA: ENRICO TERRINONI E FABIO PEDONE , CHE ORA ESCONO CON LA PENULTIMA TRANCHE DELL’OPERA ( PROSEGUENDO IL LAVORO DI CHI TRADUSSE I PRIMI DUE TERZI ), Si SONO IMPEGNATI ANCHE AD ARRIVARE ALLA FINE. ENTRO IL 4 MAGGIO 2019 , OTTANTESIMO ANNIVERSARIO DELLA PUBBLICAZIONE DEL ROMANZO , IL FINNEGANS WAKE SARÀ TUTTO IN ITALIANO. «CI SONO VOLUTI QUASI TRE ANNI, CINQUE ORE AL GIORNO , PER TRADURRE 70 PAGINE CHE, Si FOSSE TRATTATO DI UN TESTO QUALUNQUE , AVREBBERO RICHIESTO SETTE GIORNI DI LAVORO », SPIEGA TERRINONI, ORDINARIO DI LETTERATURA INGLESE ALL’UNIVERSITÀ PER STRANIERI DI PERUGIA.
«DOPO AVER AFFRONTATO SEPARATAMENTE OGNI BRANO ED ESSERCI POI REVISIONATI A VICENDA, ABBIAMO INIZIATO UN LUNGO PING-PONG DI IDEE, PROPOSTE, COMPROMESSI: LA VERSIONE FINALE HA CONTINUATO A CAMBIARE FINO ALL’ULTIMO . PERCHÉ TRADURRE VUOL DIRE PROVARE E FALLIRE, DICEVA BECKETT , RIPROVARE E FALLIRE SEMPRE MEGLIO . ED È IMPOSSIBILE METTERE LA PAROLA FINE A UN TESTO CHE IN OGNI PAROLA CONDENSA PIÙ SIGNIFICATI , IRRADIA ALLUSIONI SORPRENDENTI , REINVENTA LA LINGUA. UN TESTO CHE OFFRE UNA SCONFINATA LIBERTÀ INTERPRETATIVA.
PER MESI ABBIAMO TENUTO UNA RUBRICA SUL SETTIMANALE PAGINA 99, CHIEDENDO Al LETTORI DI PROPORRE LA LORO VERSIONE ITALIANA DI ALCUNE FRASI : SONO EMERSE SOLUZIONI INASPETTATE E SPESSO MOLTO VALIDE . NON SOLO , TRADUZIONI IN LINGUE DIFFERENTI ASSUMONO SIGNIFICATI DIVERSI TRA LORO : OGNI CULTURA COGLIE CIÒ CHE LE È AFFINE. ANCHE PERCHÉ JOYCE SCRIVE IL FINNEGANS WAKE IN UN IMPASTO DI ALMENO UNA CINQUANTINA DI LINGUE. E IL FATTO DI UTILIZZARE UN INGLESE COLONIZZATO DA TANTI ALTRI IDIOMI È LA SUA GENIALE VENDETTA CONTRO LA LINGUA IMPOSTA ALL’IRLANDA DAI COLONIZZATORI BRITANNICI».
UN IBRIDISMO CULTURALE CHE È ALLA BASE DI TANTI DOPPI SENSI, COME SPIEGA FABIO PEDONE , CRITICO LETTERARIO . SEE CAPEL AND THEN FLY, SCRIVE JOYCE . E SICCOME CAPEL STREET È UNA VIA DI DUBLINO, LA TRADUZIONE PIÙ OVVIA -V ISTO L’ABBANDONO DELL ’ IRLANDA DA PARTE DELLO SCRITTORE - SAREBBE " VEDI CAPEL E POI SCAPPA". MA LA FRASE RICHIAMA ANCHE L’ESPRESSIO- NE "VEDI NAPOLI E POI MUORI", CHE SOLO UN ITALIANO PUÒ COGLIERE . L’ABBIAMO QUINDI TRADOTTA " VEDI DÀBOLI E POI FUORI": SINTESI TRA DUBLINO E NAPOLI , TRA FUGGI E MUORI .
ESULE A TRIESTE, JOYCE ASSORBÌ IL PARLOTTIO DI QUELLA SOCIETÀ POLIGLOTTA CON L ’ INCERTEZZA ACUSTICA DI CHI È CONFUSO TRA LE VARIE LINGUE E LE ASCOLTA - E FRAINTENDE - COME FOSSE IN UN DORMIVEGLIA . PERCEZIONI APPROSSIMATIVE, AMBIGUE , DI CUI Si COGLIE SOPRATTUTTO LA SONORITÀ . LA PIÙ DIFFICILE DA RENDERE IN TRADUZIONE: IL LIBRO È SCRITTO COME UNA PARTITURA MUSICALE . E ANDREBBE LETTO A VOCE ALTA». « DUE RIGHE AL GIORNO», AGGIUNGE TERRINONI, «PER TUTTA LA VITA».
(ANTONELLA BARINA)
"Il Venerdì di Repubblica", 13.01.2017
Sfidare Apollo, splendida follia
Giulio Guidorizzi racconta l’«Iliade» dal punto di vista di quel borioso di Agamennone. Un esperimento ardito ma perfettamente riuscito
di Piero Boitani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.05.2016)
Quando arrivai sotto le mura di Micene, cinquant’anni fa, il cielo era nero e solcato da lampi. La Porta dei Leoni si apriva bassa e squadrata tra enormi pietre grigie. Il vento soffiava furibondo e faceva freddo. Immaginavo le fiaccole accese che, da Troia, di monte in monte, avevano segnalato la partenza del Re per il ritorno. Mi domandavo dove si fosse fermato il carro che portava Cassandra dopo che lui ne era sceso per camminare verso casa sul tappeto purpureo.
Qualche giorno prima, ad Atene, avevo contemplato a lungo la maschera funebre sbalzata in oro: dopo averla ritrovata, Schliemann aveva telegrafato al re di Grecia: «Ho visto il volto di Agamennone». Mostra un «un uomo dal naso sottile, con una piega altezzosa sulle labbra, un viso che esprime fierezza, disdegno, regalità». Sì, doveva essere proprio Agamennone, quello lì: anche se era impossibile che lo fosse. Schliemann sapeva benissimo che il mito è molto più forte dell’evidenza materiale, che l’ Iliade e l’ Orestea vinceranno sempre l’archeologia e la storia.
Lo sa anche Giulio Guidorizzi, che pure è grecista serio e agguerrito, il quale s’è occupato a fondo del mito greco (ha curato sull’argomento due splendidi Meridiani), di Edipo, di sogno nella Grecia classica, di magia nell’antichità, e che sta traducendo proprio l’Iliade, e dirigendo una squadra internazionale di studiosi per l’edizione Valla in sei volumi del poema. A tale chiara manifestazione di follia (del resto, ha studiato anche questa in un bel libro di qualche anno fa) Giulio Guidorizzi ne aggiunge ora un’altra: quella, in sostanza, di riscrivere l’Iliade, con qualche frammento di Eschilo e dell’Odissea per sfidare Apollo e le Muse sino in fondo.
Ogni anno, da almeno dieci, tengo ben due serie di lezioni sull’Iliade e l’Odissea. Perciò, ho cominciato a leggere il libro con qualche scetticismo: per esser passato anch’io tra questi furori, per l’oggettiva difficoltà di gareggiare con Omero, per scarsa considerazione nei confronti di Agamennone. Ma come, pensavo, proprio quell’antipatico, insopportabile borioso che ruba Briseide ad Achille e si considera a tutti superiore non si sa bene perché?
Ma Io, Agamennone vale come la Cassandra di Christa Wolf. Dopo due pagine, il tempo di passare dal Prologo al primo capitolo, Mýthos, non riuscivo più a metterlo giù. Perché Guidorizzi sa raccontare bene: come Ulisse, al quale Alcinoo dice che narra con sapienza e con arte, come un aedo. E sa, al momento giusto inserire nel discorso i concetti fondamentali che lo guidano e danno il titolo a ciascuno dei suoi capitoli: mýthos, appunto, e poi timé (l’onore), eros, dóra (dono), dólos (l’inganno), pólemos (guerra), psyché (anima), móira (fato), nóstos (ritorno).
Quando, nel primo capitolo, narra la vicenda di Enomao, Ippodamia e Pelope - gli antenati di Agamennone - rende la storia così avvincente che sino alla sua consumazione il lettore non riesce a distaccarsene. Ma al tempo stesso quel lettore viene messo nella posizione di cogliere le complicazioni intricate e le sfumature del mito, le sue diramazioni e i suoi salti improvvisi: insomma di capire cosa significhino la memoria e il canto per una civiltà giovane.
L’Iliade consiste per buona parte di battaglie e duelli: lunghi e lenti, in Omero. Ma se si comprende che combattere per l’onore e la gloria significa, nell’ethos greco di tremila anni fa, scegliere tra il lasciare una sia pur minima traccia di sé e affondare irrimediabilmente nel nulla, allora si capisce l’estrema urgenza personale che sta dietro agli scontri infiniti del poema. L’Iliade è tutta “agonistica”, diceva l’anonimo del Sublime: è il poema della forza, scriveva Simone Weil. È polemos, lotta, lance spade scudi elmi frecce, cavalli e carri, sangue, vittorie e sconfitte.
Soltanto leggendo Io, Agamennone mi sono reso conto di quanto avesse ragione William Golding, l’autore de Il Signore delle mosche, quando, molti anni fa, mi disse che il carattere “virile” del poema - per lui, una delle sue virtù supreme - sta nel suo essere una guerra di ciascuno contro la moira, pur nella coscienza che contro di essa non si può nulla.
Quando Guidorizzi si tuffa nella mischia e racconta l’avanzata dei Troiani - l’incursione di Diomede e Ulisse, e poi, in crescendo di ritmo, l’attacco e la ritirata di Agamennone, Diomede ferito, Ettore che comincia ad appiccare il fuoco alle navi e sfonda il muro greco, Aiace che si ritira, Patroclo che, rivestito delle armi di Achille, esce sul campo di battaglia e viene ucciso da Ettore, poi il duello di quest’ultimo con Achille, lo scempio furibondo - la sequenza che costruisce è di una rapidità sconvolgente. Dominano, in essa, il thymós e l’ombra della psyché: l’uno, «l’energia sempre in movimento» degli eroi, il «groppo di impulsi ed emozioni» che li trascina; e lo stagliarsi perenne dell’altra, la psyché, «l’ultimo respiro di vita che abbandona un uomo, lasciandolo immoto tra le braccia della morte»: «Il gran lottare, amare, odiare, soffrire che accompagna la vita degli esseri umani istante dopo istante si risolve dunque in questo: un soffio che svapora dell’aria».
Tuttavia, ci sono anche nel libro l’ammaliante cintura di Afrodite e lo scambio di doni: Elena che tesse la guerra che si sta combattendo per lei e stupisce gli anziani di Troia per la sua bellezza tremenda - una di quelle pause straordinarie nelle quali, secondo Rachel Bespaloff, il divenire tumultuoso della guerra si coagula in essere -, il deflagrare dell’eros negli incontri di lei e Paride e di Zeus ed Era, l’affetto doloroso di Ettore e Andromaca, la philía tra Achille e Patroclo, l’incontro civile di Glauco e Diomede. E infine l’ingresso di Priamo nella tenda di Achille, la preghiera in nome del padre, la grande pietà dell’eroe dell’ira, la cena, lo sguardo d’ammirazione che il vecchio e il giovane si scambiano: «il gran dolore del mondo» che sempre ti prende.
Al contrario che nell’Iliade, qui la guerra termina: Achille, per amore di Polissena, si fa cogliere scoperto dalla freccia di Paride, la città è presa con l’inganno, saccheggiata, incendiata, gli uomini uccisi, le donne deportate in schiavitù dai vincitori. Agamennone parte, naviga sull’Egeo con la propria preda, la figlia di Priamo, la veggente Cassandra. Di nuovo, il ritmo si fa incalzante: Cassandra ricorda Edipo, Evadne, Tiresia, Otrioneo; Clitennestra pensa a Ifigenia e si dà a Egisto, nel quale rivive l’inimicizia del padre Tieste per il padre di Agamennone, Atreo. Le fiaccole segnalano l’arrivo di Agamennone a Micene.
Cassandra, come in Eschilo, pre-vede tutto ciò che sta per accadere. E che, inesorabilmente, accade: Agamennone incede sotto la Porta dei Leoni, entra nel palazzo, è ucciso come un bue alla greppia. Disceso all’Ade, racconta che la moglie Clitennestra, sgozzata Cassandra, non gli ha neppure chiuso la bocca e gli occhi. Lo racconta a Ulisse: l’eroe del ragionare, del pazientare, dell’errare: del sopravvivere e del narrare.
di Marco Politi (il Fatto, 18.01.2014)
Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014? Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può. In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di Stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale. I media italiani - televisione e carta stampata - stanno banalizzando l’evento in maniera imbarazzante. Quasi si trattasse della normale prosecuzione dell’uso del potere, che Berlusconi ha accumulato negli anni, e delle inevitabili (o evitabili) trattative politiche che si fanno con chi detiene una fetta di potere. Non è così.
Come diceva un diplomatico francese, “le forme non sono importanti, salvo quando vengono meno”. In certi quartieri di Palermo, se ti occupano abusivamente la casa, puoi andare dalla polizia e dai giudici - e l’esito sarà lungo, forse incerto - oppure ti rechi dal capomafia di quartiere. Entro ventiquattr’ore l’abusivo sparisce. Ma non è gratis. Non perché lo ‘zu ti chiede soldi, non è mica un poveraccio... quando sarà ti presenterà il conto.
Berlusconi è un personaggio condannato e interdetto. C’è un prima e un dopo, sebbene un’insistente ondata propagandistica tenti di confondere le acque. Prima della condanna definitiva era una personalità che a buon ragione risultava repellente a molti e - in nome del libero arbitrio - poteva piacere ad altri. Dopo la sentenza della Cassazione il suo status è mutato per una sentenza emessa in nome del “popolo italiano”, che ha - dovrebbe avere - una valenza nazionale. È una persona caratterizzata da una “naturale capacità a delinquere mostrata nella persecuzione del (proprio) disegno criminoso”, come hanno sancito i giudici del processo Mediaset.
CON LA FRESCA arroganza di chi è pervenuto a un posticino di potere per grazia del sovrano, l’economista Filippo Taddei membro della segreteria del Pd ha dichiarato l’altra mattina a Omnibus a chi gli chiedeva dei dubbi sull’incontro Renzi-Berlusconi: “Francamente non capisco il senso della questione”. Peccato, perché è ipotizzabile che abbia viaggiato in Europa e si sa per certo che ha vissuto negli Stati Uniti.
L’incontro tra un politico incensurato e un pregiudicato è inconcepibile in qualsiasi capitale democratica dell’Occidente. Un evento del genere è escluso a Washington come a Berlino, a Parigi come a Londra. Nixon era stato eletto nel 1972 con 47 milioni di voti. Nel momento in cui fu riconosciuto responsabile dei reati connessi allo scandalo Watergate, non fu più un interlocutore per nessuno. Punto. I democratici americani hanno continuato ovviamente a trattare e fare politica con i repubblicani, ma il colpevole di reati era pubblicamente fuori gioco. Perché c’è un confine invalicabile tra l’onorabilità pubblica prima e dopo una condanna.
Anzi nei paesi anglosassoni e a democrazia matura c’è anche un secondo confine, quello della condotta “appropriata” o “inappropriata”, che riguarda la correttezza del comportamento pubblico e prescinde dai procedimenti penali. Per cui il politico, beccato con lo scontrino delle mutande messo in conto al contribuente, sparisce subito dalla circolazione e nessuno dei suoi sodali di partito grida al complotto. Semplicemente perché “non si può”.
In Italia la classe politica rimuove costantemente questo discrimine di etica pubblica per cui i più grandi cialtroni possono gridare che non sono indagati, facendoci ridere dietro all’estero. Ma pazienza. La maggioranza paziente si accontentava di aspettare le sentenze definitive della magistratura, augurandosi che avessero un senso erga omnes.
Il fatto che da noi si voglia ora platealmente varcare il limite tra chi ha la titolarità di buona fede per stare sulla scena pubblica è chi è interdetto per gravi reati costituisce un ulteriore allontanamento dell’Italia dallo standard dei paesi europei e occidentali. Dove “ulteriore” significa ammettere con tristezza che l’ultimo ventennio ha visto il nostro paese scendere sempre più in basso, ma c’era la speranza piccola, flebile, che il novembre 2011 e l’accertata criminalità con sentenza definitiva dell’agosto 2013 potesse segnare un piccolo, graduale passo verso il ritorno all’Europa.
DICIAMO, a scanso di equivoci, che a milioni di cittadini delle beghe interne del Pd non interessa niente. E meno che mai interessa il politichese con cui il vertice imminente (o avvenuto) viene ammantato. Ci sono invece milioni di cittadini, che pagano le tasse, e tanti milioni che a destra, centro e sinistra sentono il valore della legalità e vorrebbero uscire dal degrado istituzionale. E c’è quell’umanità pulita vista due anni fa in Piazza del Popolo nel giorno di “Se non ora, quando? ” .
Questa Italia capisce perfettamente il “segno” di questo vertice voluto da Renzi, che cancella il confine tra ciò che è sostenibile nel costume democratico e ciò che non lo è. Che mette sullo stesso piano della presentabilità l’evasore e chi non lo è.
Raccontava Piercamillo Davigo che nei dibattiti, quando il discorso scivolava sul “tanto rubano tutti”, lui si fermava e domandava: “Lei ruba? Io no. Allora siamo già in due”. Tanto per rimarcare la frontiera. Da oggi, nella società di comunicazione visiva in cui siamo immersi, il messaggio è chiarissimo. Tra Davigo e Berlusconi non c’è nessuna differenza.
DONNE, UOMINI, E DISORDINE SIMBOLICO
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DEL FIGLIO CON LA MADRE, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO". Dalla democrazia della "volontà generale" alla democrazia della "volontà di genere". L’importanza della lezione dei "PROMESSI SPOSI", oggi.
E se non fossimo tutti puttane?
di Furio Colombo (il Fatto, 26.06.2013)
Un fantasma si aggira nel pianeta berlusconiano. Hanno (tutti loro) creduto fermamente, per potente induzione mediatica, nel comandamento: fai ciò che ti pare (sostituire con la frase tipica delle truppe di B.) o ciò che ti conviene (badando che sia a tua insaputa). Insomma il credo è (da vent’anni): siamo tutti impegnati in concorso esterno nel reato di mafia. Siamo tutti puttane. Nel senso che tutti il comandamento, siamo a disposizione, per una cifra giusta, secondo il modello Lavitola-De Gregorio.
All’improvviso una sentenza molto discussa (“reggerà la politica? ” si domanda con ansia il quotidiano Pd Europa) decide che la prostituzione è una cosa che richiede un padrone, dei mezzani delle ragazze sottomesse, in cambio di adeguate somme di danaro. E richiede una buona organizzazione, persone che procurano, persone che coprono, persone che pagano, case semichiuse che ospitano a spese di, con il controllo di, e dove si imparano buone maniere, come le regole di condotta nelle feste e - all’occorrenza - come testimoniare il falso.
Ma eccoci al punto chiave della vita di Berlusconi e della sentenza che lo riguarda. Per organizzare per bene la prostituzione ci vuole il potere. È il potere che spiega la severità dei giudici, che ha provocato costernazione tra i migliori amici. Infatti per la prima volta certe avventure del capo di un grande partito italiano e, a lungo, capo del governo, vengono chiamate con le parole appropriate: prostituzione minorile, vincoli di obbedienza, pagamenti puntuali e proporzionati al reato, con il concorso di abili e autorevoli complici.
La via di fuga era pronta: dire e ripetere che siamo tutti puttane. La frase viene dal cuore e da una persuasione profonda. Si pronuncia con una solennità paraevangelica, tipo “siamo tutti fratelli”.
Ma i giudici hanno smantellato la chiesa delle ragazze nude, vestite da suore, e il grosso del partito non si dà pace. Ecco dove i giudici guastano il gioco, non in un anno in più o in meno di galera (che fa effetto nel mondo, ma in Italia sarà scontato tra un salto a Palazzo Chigi e una capatina in Parlamento). Ma nel dover ammettere che i complici e le Ruby (e l’altra giovanissima Noemi, che lo chiamava “papi” e di cui ci eravamo quasi dimenticati) sono tanti. Tanti, ma non tutti. Anzi, si chiama fuori una buona parte degli italiani, e molti pentiti. In questo, colpa della Boccassini, nonostante le adunate di chi si proclama puttana, il gioco è fallito.
ERCOLE AL BIVIO
Al bivio
di Antonio Gnoli («La Repubblica», 15-01-2011)
Essere a un bivio. Quante volte nella vita ci è accaduto di chiederci che fare. Si tratta di scegliere: dove andare, che decisione accollarsi. Il bivio riveste il carattere dell’ eccezione. Una scelta può cambiarci la vita. Ma non è solo riconducibile a un gesto individuale: gli operai di Mirafiori, il Pd, l’ Europa, il Pianeta, diciamo a volte, sono a un bivio.
Il mondo dell’ antichità mise un personaggio della mitologia, Ercole, davanti a un bivio: dovette scegliere tra la virtù e il vizio. Quel tema passò dalla narrazione del sofista Prodico a una densa e ricca testimonianza pittorica, come dimostra Erwin Panofsky nello straordinario Ercole al bivio (curato ottimamente da Monica Ferrandi, ed. Quodlibet). Nel passaggio dal mondo antico al nostro, il bivio cambia in parte la sua natura. Diciamo si complica.
Ercole sapeva scegliere (e fare) la cosa giusta. Per noi la scelta implica il rischio di sbagliare. Richiede non solo calcolo e azzardo ma anche un diverso modo di intendere la libertà come spiega Sheena Iyengar in The Art of Choosing (ed. Hachette Book). Il Novecento si è spesso interrogato sulla decisione. Attraversoi suoi personaggi, Kafka mostra l’ impossibilità di decidere. Carl Schmitt ne fa la leva della sua concezione politica. E noi? L’ Italia, maestra dell’ arabesco, ha quasi sempre preferito l’ arte del rimando, come dire: è sempre meglio che la decisione la prenda qualcun’ altro.
di Giancarla Codrignani *
È tornata a galla in questi giorni, ma la questione ha un’origine lontana: quando io andavo ancora a scuola e rifiutavo l’esistenza di un "partito dei cattolici", a mio avviso "eretico".
Il neotemporalismo preparava frutti amari anche per i tempi in cui sarebbe diventato un fantasma. Perciò fu per me un momento cruciale quando Enrico Berlinguer parlò di "incontro" tra culture comunista, socialista e cattolica: programma serio reso vano dalla prassi del "compromesso" amato dai burocrati di tutti i partiti e inteso opportunisticamente come accordo ai vertici.
Proprio come Togliatti volle i Patti lateranensi nella Costituzione per quella cosa orrenda, anche linguisticamente, che oggi si chiama inciucio, così il Pci degli anni Ottanta (del secolo scorso) cercava l’intesa di governo con la Dc. Il che era perfino politicamente ovvio, soprattutto in un paese come l’Italia destinato a non avere mai avuto alternanza di governo; ma senza fare leva sulla crescita culturale della gente, già il Pci doveva sapere che sarebbe rimasto, anche se avesse raggiunto l’intento, prigioniero come il Psi nella stanza dei bottoni. All’inizio degli anni Novanta avvenne l’impensabile: un processo di corruzione - in un paese che quarant’anni prima chiamava i democristiani "i forchettoni" e chi aspirava ad un sussidio gli si raccomandava per ottenere, anche sano, una pensione di invalidità - dissolse in pochi mesi cinque partiti storici: Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli.
Non avvenne certo per lo scandalo della corruzione scoperto da "Mani pulite", anche se la gente si arrabbiò di brutto, ma perché i partiti (la stessa forma-partito) erano intollerabilmente vecchi, rispetto ad un mondo divenuto complesso che imponeva ai politici di ripensare (magari studiando) il loro ruolo e le loro competenze.
La destra non ha mai avuto una forma partitica seria, dopo il Pli, ed è finita nel berlusconismo; mentre la sinistra non si è mai messa in analisi e ha dovuto aspettare che Bertinotti andasse in pensione per chiudere una delle sue vetrine. Invece la società italiana era pronta, dopo la caduta del muro di Berlino e Mani pulite, per quel Partito Democratico che si è inventato dopo le dissolvenze Pds, Ds e le tensioni D’Alema/Veltroni. Insieme si inventava purtroppo la Margherita e Casini vagheggiava il Centro.
Ritornavano, sostenuti da Ruini, i cattolici che, dopo il Concilio Vaticano II, dovevano essere diventati attenti a quel bene comune che è laico, anche se lo Ior era da sempre inquietante e gli elettori già democristiani stavano per votare compatti Berlusconi.
Senza elaborare risposte all’esigenza di cambiare pelle - di fronte ad un futuro sempre più urgente - con idee nuove da condividere con il paese, i diesse si sono accordati con una "Margherita" rassicurante, come se i cromosomi identitari fossero eliminabili con qualche spartizione; tanto più che il peso numerico del Pd non era confrontabile con quello dei cattolici che mantenevano le loro pretese, non solo di idee. L’elezione di Prodi fu un momento alto anche per il recupero di senso: l’uomo era un cristiano adulto, un personaggio di livello internazionale estraneo ai tatticismi (anche perché non ne aveva bisogno): peccato che sia stato fatto fuori, senza neppure un tentativo credibile a giustificazione dell’incidente. Adesso non solo è stato proposto Marini, uno che neppure i cattolici volevano (per un paese che ha bisogno di recupero di credibilità internazionale), ma è stato fatto uscire da una trattativa indecente con il PdL
Quando, poi, a rimediare l’errore, il cilindro manda fuori il coniglio Prodi, i soliti gli hanno tolto il voto. Alla base del popolo sovrano (che non ha idea di come si configuri la sua sovranità) tutto questo sembra (ed è) incomprensibile.
Certamente bisogna che il Pd vada a Congresso, ricominci a tessere relazioni interne ed esterne e riorienti la dirigenza. Intanto, come ai tempi di Ingrao e Amendola, ci ritroviamo - mutati i tempi! - a fare i conti fra Bersani (o, al suo posto, Barca) e Renzi. Non ci sono altri nomi, né altre tendenze per la solita "linea" che non può più calare dall’alto... Ma intanto sono andati avanti i grillini, in corsa dietro un comico che li pilota dalla rete e dal cellulare, proprio come i loro genitori si fidavano di uno che gli firmava in tv il patto con gli italiani e che adesso gli ha promesso l’abolizione dell’ Imu. Con problemi istituzionali gravi che vanno affrontati, a partire dalla regolamentazione della rappresentatività via internet.
Chiunque voglia curarsi del paese, laico o cattolico che sia, deve fare il cittadino responsabile e il Pd bisogna che si rimetta in gioco e faccia cultura, cultura, cultura, anche se non si sa che cosa proporre, che certezze offrire: è più vincente farsi aiutare da chi forse ne sa meno di te, ma è vivo in questo mondo e vuole sapere (oltre ad averne diritto) che senso ha viverci. I cattolici dicevano "il bene comune"....
N.B. La rabbia non è una mia passione. Mi viene tardiva, di testa. Quindi aggiungo qualche chiarimento al testo. Ma, a distanza di qualche giorno, proseguo un ragionamento che diventa giudizio.
Severo, anche perché vedo che ci si accontenta di due o tre dichiarazioni di ignari che hanno votato la loro stima per Rodotà. L’indagine - figurarsi la censura - sui 101 ha poco senso; e, giustamente, la si pone per finta. Invece si accettano, senza far verbo, accuse dell’informazione su divisioni e lotte interne, poco preoccupanti se non si aggiungesse "per bande".
Qualche politico insinua a quattr’occhi - e mai vorrebbe essere nominato - la catena di intrighi apertasi con l’incontro Bersani/Berlusconi. Marini non era bene accetto nemmeno ai cattolici: perché non è stata traumatica la sua caduta e gli si è trovato subito un successore? È stato prontamente sostituito da Prodi, che più candidato del centro-sinistra non poteva essere, ma era anche il massimo nemico di Berlusconi (che avrebbe forse accettato perfino Rodotà, ma mai Prodi). E nasce la bocciatura. Le elezioni del Presidente della Repubblica non sono sempre state lineari: Pertini l’abbiamo eletto in sedici tornate, ancor di più per Scalfaro.
Come mai il dramma ha bloccato la ripresentazione di Prodi o una nuova "sorpresa", come la chiamava Bersani? Solo per il rumore del M5S interno all’aula ed esterno? La piazza ha sempre fatto rumore e in aula dall’antico Pci o i radicali fino - oddio lo stile - ai mangiatori di mortadella i richiami all’ordine si sprecavano. In questo caso il capolinea per Prodi e il dramma fino al ricorso a Napolitano hanno impedito di capire chi mai fosse stato previsto come terzo candidato.
Questo è il vizio oggi intollerabile dei "vecchi" partiti: era necessario che il Pd dicesse pubblicamente quali erano le carte su cui puntava. Non averlo fatto autorizza a pensare che il nome prestigioso di Rodotà (che M5S ha venduto come merce propria e poi svenduto al conteggio tardivo di nemmeno 5.000 preferenze) insieme con Prodi abbia affossato un gioco che avrebbe portato alla terza proposta, nemmeno tanto misteriosa, che l’autodifesa tesissima di un D’Alema di solito controllato e irridente ha fatto sparire.
Certo Bersani ha le responsabilità formali degli errori, ma, proprio perché un segretario non è né un autocrate né un martire, non deve permettere la favola italica di storie che non si saprà mai come sono veramente andate.
Giancarla Codrignani
Articolo tratto da:
FORUM Koinonia 345 (9 maggio 2013)
http://www.koinonia-online.it
Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046
* Il Dialogo, Giovedì 09 Maggio,2013
Battiato una natura ineludibile da ribelle
di Marco Rovelli (l’Unità, 30.03.2013)
VORREI TORNARE SULLA VICENDA DI FRANCO BATTIATO, SU CUI HO SCRITTO QUALCHE STATUS SU FACEBOOK (DEL RESTO LA VICENDA SEMBRAVA FATTA APPOSTA PER UN SOCIAL NETWORK). Io trovo totalmente fuori fuoco la crocifissione di Battiato, e tanto più il suo siluramento da parte di Crocetta. Adesso si fanno fuori le persone oneste e non i corrotti? Crocetta revoca l’incarico a Battiato, mentre quelli e quelle che votarono in Parlamento dicendo che Ruby era la nipote di Mubarak, e lo dicono ancora, se ne stanno tranquille sul proprio scranno, insieme al loro papi.
Crocetta, come molti altri, imputa a Battiato di aver offeso il Parlamento, e il suo ruolo istituzionale, utilizzando quei termini: ma Battiato non ha offeso il parlamento, piuttosto alcuni suoi indegni membri, e dire che ha offeso il parlamento è proprio un pessimo paralogismo. Così come è un pessimo paralogismo dire che ha offeso le donne, come ha affermato la Fornero (io ho l’impressione che siano state più offese dalle cose che ha fatto lei).
Quanto al ruolo non vedo perché un assessore non dovrebbe dire «troie», come se l’assessore non facesse parte del mondo e smettesse di essere un normale umano. Mascherarsi dietro un’anestesia linguistica credo che sia attutire le realtà, quelle sì, vergognose: e a volte (non di regola, ma: a volte) bucare lo schermo, profanare il sacro, è necessario per rivelare quelle verità nascoste. E la verità è che il parlamento è stato troppo a lungo un luogo di compravendita e mercimonio di anime e di dignità (laddove coloro che scelgono liberamente di vendere il proprio corpo meritano tutto il rispetto). E Battiato è un uomo libero: come lui stesso ricordava, «non ho mai marciato, né ubbidito durante il servizio militare. Questione di carattere e personalità», e per questo era finito nel carcere militare. Up patriots to arms.
VATICANO: CEDIMENTO STRUTTURALE DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. Benedetto XVI, il papa teologo, ha gettato via la "pietra" ("charitas") su cui posava l’intera Costruzione ...
IL CONCLAVE E L’ OMBRA DEL PAPA EMERITO. I CARDINALI CONFUSI NON SANNO PIU’ DISTINGUERE TRA DIO E MAMMONA. Materiali per riflettere
Finisce in cenere il simbolo del Rinascimento napoletano anni ’90
Triste corteo di cittadini davanti
ai muri perimetrali della Città della Scienza.
Fuori dal museo anche i 160 dipendenti e i lavoratori dell’indotto
di Guido Ruotolo INVIATO A NAPOLI *
Napoli è in lutto. È un pezzo di città che se ne è andato. In fumo. Un dolore corale questa mattina ha segnato il risveglio dei napoletani. Anche di quei napoletani che non possono partecipare alla mesta visita funeraria. Un corteo dolente dalle prime ore dell’alba ha già portato una folla di cittadini, di abitanti di Bagnoli é non solo sul luogo della tragedia.
E i napoletani emigrati o turisti, per dirla con Massimo Troisi, sono ammutoliti e invadono il web per trasmettere la loro orazione funebre. Un lutto vero. Come se la città stesse piangendo i suoi figli più amati, Totò innanzitutto. Ieri sera, dopo cena. La notizia si è diffusa come un tam tam: la «Città della Scienza» sta prendendo fuoco. Un rogo immane, dense nuvole di fumo nero in uno scenario spettrale, da Blude Runner. La città industriale che fu, dove un tempo c’era la fabbrica, l’acciaieria Italsider, si sta vendicando.
E’ troppo presto per capire, per sapere con certezza chi ha pugnalato ancora una volta Napoli. Giornata da dimenticare. Terribile. Prima la voragine fortunata che non ha fatto vittime, con il crollo, alle prime ore della mattinata, di un’ala di un palazzo della Riviera di Chiaia, poi, a sera tarda l’incendio che sta distruggendo quella Napoli che guardava al futuro.
Erano i primi anni ’90 quando il professore Vittorio Silvestrini e un pugno di illuminati professori e intellettuali diedero vita alla Fondazione Idis, e a quell’intuizione che poi porterà a visitare l’area della «Città della Scienza» più di 350.000 visitatori l’anno. Intere scolaresche.
E quell’esperimento prese il via e si sviluppò di pari passo all’esperienza della giunta Bassolino, eletta nel 1993. La stagione del Rinascimento napoletano sicuramente ha avuto anche in Silvestrini e nella sua Fondazione Idis un punto di riferimento.
Ancora ignote le cause: unica certezza, al momento, è che all’interno della struttura non c’erano persone, grazie anche alla chiusura settimanale del lunedì. I danni sono ingentissimi: sopravvivono solo i muri perimetrali, l’interno dei padiglioni è devastato. Il fronte del fuoco è lungo più di un centinaio di metri, e dal rogo si alza una colonna di fumo visibile da buona parte della città. Sul posto decine di vigili del fuoco, con le forze dell’ordine che hanno chiuso al traffico via Coroglio, di fronte al mare di Bagnoli, dove sorgeva la struttura.
Dei numerosi padiglioni che componevano lo `science center’ solo uno è stato risparmiato dalle fiamme. Le testimonianze riferiscono di una estensione rapidissima dell’incendio, complice la gran presenza di legno e altri materiali infiammabili.
Fuori del museo ci sono quasi tutti i 160 dipendenti, angosciati per il loro futuro occupazionale; gli stessi timori coinvolgono i tanti che lavoravano nell’indotto creato dal museo, giunti in via Coroglio dopo aver appreso dell’incendio. L’area distrutta dalle fiamme è stimata in 10-12 mila metri quadrati, praticamente l’intero centro a eccezione del «teatro delle Nuvole», un corpo separato che ospitava rappresentazioni. Il custode racconta di aver visto una colonna di fumo, e di aver dato subito l’allarme: ma in pochi minuti il fuoco ha divorato i padiglioni dall’interno, diventando indomabile. Sono state ore di sgomento anche per tutti gli abitanti di Bagnoli, che temevano di rimanere intossicati dal fumo denso e nero, poi invece sospinto dal vento verso il mare aperto.
* La Stampa, 05/03/2013
Appello per la riforma della Chiesa ... prima che sia troppo tardi!
di Leonardo Boff *
La Chiesa-istituzione come “casta meretrix”
di Leonardo Boff 27/02/2013 *
Chi ha seguito le notizie degli ultimi giorni sugli scandali dentro al Vaticano, portati a conoscenza dai giornali italiani “La Repubblica” e “La Stampa”, che parlano di una relazione di 300 pagine e elaborata da tre cardinali provetti sullo stato della curia vaticana, deve naturalmente, essere rimasto sbalordito. Immagino i nostri fratelli e sorelle devoti, frutto di un tipo di catechesi che celebra il Papa come “il dolce Cristo in Terra”. Devono star soffrendo molto, perché amano il giusto, il vero e il trasparente e mai vorrebbero legare la sua immagine a notorie malefatte di assistenti e cooperatori.
Il contenuto gravissimo di queste relazioni rafforza, a mio parere, la volontà del papa di rinunciare. E’ la riprova di un’atmosfera di promiscuità, di lotta per il potere tra “monsignori”, di una rete di omosessuali gay dentro al Vaticano e disvio di denaro attraverso la banca del Vaticano come se non bastassero i delitti di pedofilia in tante diocesi, delitti che hanno profondamente intaccato il buon nome della Chiesa-istituzione.
Chi conosce un poco la storia della Chiesa - e noi professionisti dell’area dobbiamo studiarla dettagliatamente - non si scandalizza. Ci sono state epoche di vera rovina del Pontificato con Papi adulteri, assassini e trafficanti di immoralità. A partire da Papa Formoso (891-896) sino a Papa Silvestro (999-1003) si instaurò, secondo il grande storico cardinale Baronio, l’“era pornocratica” dell’alta gerarchia della Chiesa. Pochi papi la passavano liscia senza essere deposti o assassinati. Sergio III (904-911), assassinò i suoi 2 predecessori, il Papa Cristoforo e Leone V.
La grande rivoluzione nella Chiesa come un tutto è avvenuta, con conseguenze per tutta la storia ulteriore, col papa Gregorio VII, nel 1077. Per difendere i suoi diritti e la libertà della istituzione-Chiesa contro re e principi che la manipolavano, pubblicò un documento che porta questo significativo titolo “Dictatus Papae” che tradotto alla lettera significa “la dittatura del Papa”. Con questo documento, lui assunse tutti poteri, potendo giudicare tutti senza essere giudicato da nessuno. Il grande storico delle idee ecclesiali Jean-Yves Congar, domenicano, la considera la maggior rivoluzione avvenuta nella chiesa. Da una chiesa-comunità è passata a essere una istituzione-società monarchica e assolutista, organizzata in forma piramidale e che arriva fino ai nostri giorni.
Effettivamente il canone 331 dell’attuale Diritto Canonico si connette a questa lettura, con l’attribuzione al Papa di poteri che in verità non spetterebbero a nessun mortale se non al solo Dio: “in virtù del suo Ufficio, il Papa ha il potere ordinario, supremo, pieno, immediato, universale” e in alcuni casi precisi, “infallibile”.
Questo eminente teologo, Congar, prendendo la mia difesa davanti al processo dottrinario mosso dal cardinale Joseph Ratzinger in ragione del libro “Chiesa: carisma e potere” ha scritto un articolo su “La Croix” 08.09.1984) su “Il carisma del potere centrale”. Scrive: “il carisma del potere centrale è non aver nessun dubbio. Ora, non aver nessun dubbio su se stessi è, nello stesso tempo, magnifico e terribile. È magnifico perché il carisma del centro consiste precisamente nel rimanere saldi quando tutto intorno vacilla. E è terribile perché a Roma ci sono uomini che hanno limiti, limiti nella loro intelligenza, limiti del loro vocabolario, limiti delle loro preferenze, limiti nei loro punti di vista”. E io aggiungerei ancora limiti nella loro etica e morale.
Si dice sempre che la Chiesa è “Santa e peccatrice” e deve essere “riformata in continuazione”. Ma questo non è successo durante secoli e neppure dopo l’esplicito suggerimento del concilio Vaticano II e dell’attuale papa Benedetto XVI. L’istituzione più vecchia dell’Occidente ha incorporato privilegi, abitudini, costumi politici di palazzo e principeschi, di resistenza e di opposizione che praticamente impediscono o distorcono tutti i tentativi di riforma.
Solo che questa volta si è arrivati a un punto di altissimo degrado morale, con pratiche persino criminali che non possono più essere negate e che richiedono mutamenti fondamentali nella struttura di governo della Chiesa. Caso contrario, questo tipo di istituzionalità tristemente invecchiata e crepuscolare languirà fino a entrare nel suo tramonto. Scandali come quelli attuali sempre ci sono stati nella curia vaticana, soltanto non c’era quel provvidenziale Vatileaks per renderli di pubblico dominio e far indignare il Papa e la maggioranza dei cristiani.
La mia percezione del mondo mi dice che queste perversità nello spazio sacro e nel centro di riferimento di tutta la cristianità - il papato - (dove dovrebbe primeggiare la virtù e persino la santità) sono conseguenze di questa centralizzazione assolutista del potere papale. Questo rende tutti vassalli, sottomessi e avidi perché stanno fisicamente vicino al portatore del supremo potere, il Papa. Un potere assoluto, per sua natura, limita e perfino nega la libertà degli altri, favorisce la creazione di gruppi di anti-potere, fazioni di burocrati del sacro contro altre, pratica largamente la simonia che è compravendita di favori, promuove adulazioni e distrugge i meccanismi di trasparenza. In fondo tutti diffidano di tutti. E ognuno cerca la soddisfazione personale nella forma migliore che può. Per questo è sempre stata problematica l’osservanza del celibato all’interno della curia vaticana, come si sta rivelando adesso con l’esistenza di una vera rete di prostituzione gay. Fino a quando questo potere non sarà decentralizzato e non permetterà maggior partecipazione di tutti gli strati del popolo di Dio, uomini e donne, alla conduzione dei cammini della Chiesa, il tumore che sta all’origine di questa infermità continuerà a durare. Si dice che Benedetto XVI consegnerà a tutti i cardinali la suddetta relazione perché ciascuno sappia che problemi dovrà affrontare nel caso che sia eletto papa. E l’urgenza che avrà di introdurre radicali trasformazioni. Dal tempo della Riforma che si sente il grido: “Riforma nel capo e nelle membra”. E siccome mai è avvenuta, è nata la Riforma come gesto disperato dei riformatori di compiere tale impresa per conto proprio.
Per spiegare meglio ai cristiani e a tutti gl’interessati di problemi di Chiesa, torniamo alla questione degli scandali. L’intenzione è di sdrammatizzarli, permettere che se n’abbia una nozione meno idealista e a volte idolatrica della gerarchia e della figura del Papa e liberare la libertà a cui il Cristo ci ha chiamati (Gal 5,1). In questo non c’è nessun cattivo gusto per le cose negative né volontà di aumentare sempre di più il degrado morale. Il cristiano deve essere adulto, non può lasciarsi infantilizzare né permettere che gli neghino conoscenze teologiche e storiche per rendersi conto di quanto umana ed smodatamente umana può essere l’istituzione che ci viene dagli apostoli.
Esiste una lunga tradizione teologica che si riferisce alla Chiesa come casta meretrix, tema abbordato dettagliatamente da un grande teologo, amico dell’attuale Papa, Hans Urs von Balthasar (vedere in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1971, 203-305). In varie occasioni il teologo Joseph Ratzinger è ritornato su questa denominazione.
La chiesa è una meretrice che tutte le notti si abbandona alla prostituzione; è casta perché Cristo, ogni mattina ne ha compassione, la lava è la ama.
L’habitus meretricius, il vizio del meretricio, è stato duramente criticato dai santi padri della Chiesa come Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gerolamo e altri. San Pier Damiani arriva chiamare il suddetto Gregorio VII “Santo satanasso” (D. Roma, compendio di storia della Chiesa, volume secondo, Petropolis, 1950, p. 112). Questa denominazione dura ci rimanda a quella di Cristo diretta Pietro. Per causa della sua professione di fede lo chiama “pietra”, ma per causa della sua poca fede e di non capire i disegni di Dio lo qualifica come “satanasso” (Vangelo di Matteo 16,23). San Paolo pare un moderno quando parla ai suoi oppositori con furia: “magari si castrassero tutti quelli che vi danno fastidio” (Galati, 5,12).
C’è pertanto un luogo per la profezia nella Chiesa e per le denunce delle malefatte che possono capitare in mezzo agli ecclesiastici e persino in mezzo ai fedeli.
Vi riporto un altro esempio tratto dagli scritti di un santo amato dalla maggioranza dei cattolici per il suo candore e bontà: Sant’Antonio da Padova. Nei suoi sermoni, famosi all’epoca, non appare niente affatto dolce e gentile. Fa una vigorosa critica ai prelati corrotti del suo tempo. Dice: “i vescovi sono cani senza nessuna vergogna perché il loro aspetto ha della meretrice e per questo stesso non vogliono vergognarsi” (uso l’edizione critica in latino pubblicata a Lisbona in due volumi nel 1895). Questo fu pronunciato nel sermone della quarta domenica dopo Pentecoste (pagina 278). Un’altra volta chiama i prelati “ scimmie sul tetto, da lì presiedono alle necessità del popolo di Dio”. (Op. cit p. 348). È continua: “Il vescovo della Chiesa è uno schiavo che pretende regnare, principe iniquo, leone che ruggisce, orso affamato di rapina che depreda il popolo povero” (p.348). Infine nella festa di San Pietro alza la voce e denuncia: “Attenzione che Cristo disse tre volte: pasci e neanche una volta tosa e mungi... Guai a quello che non pasce neanche una volta e tosa e munge tre o quattro volte...lui è un drago a fianco dell’arca del Signore che non possiede altro che apparenza e non verità” (volume secondo, 918).
Il teologo Joseph Ratzinger spiega il senso di questo tipo di denunce profetiche: “il senso della profezia risiede in verità meno in alcune previsioni che nella protesta profetica: protesta contro l’autosoddisfazione delle istituzioni, l’autosoddisfazione che sostituisce la morale con il rito e la conversione con le cerimonie” (Das neue volk Gottes, Düsseldorf 1969,250, esiste traduzione italiana Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971).
Ratzinger critica con enfasi la separazione che abbiamo fatto in riferimento alla figura di Pietro: prima della Pasqua, il traditore; dopo la Pentecoste, il fedele. “Pietro continua a vivere questa tensione del prima e del dopo; lui continua ad essere tutte due le cose: la pietra e lo scandalo...Non è successo lungo tutta la storia della Chiesa che il Papa era simultaneamente il successore di Pietro e la pietra dello scandalo” (p.259)?
Dove vogliamo arrivare con tutto questo? Vogliamo arrivare a riconoscere che la Chiesa-istituzione di papi, vescovi e preti è fatta di uomini che possono tradire negare e fare del potere religioso un affare e uno strumento di auto soddisfazione. Tale riconoscimento è terapeutico dato che ci cura di ogni ideologia idolatrica intorno alla figura del Papa, ritenuto come praticamente infallibile. Questo è visibile nei settori conservatori e fondamentalisti del movimento cattolico laici e anche di gruppi di preti. In alcuni è ancora viva una vera papolatria, che Benedetto XVI ha sempre cercato di evitare.
La crisi attuale della Chiesa provocato la rinuncia di un Papa che si è reso conto che non aveva più il vigore necessario per sanare scandali di tale portata. Ha buttato la spugna con umiltà. Che un altro più giovane venga e assuma il compito arduo e duro di pulire la corruzione nella curia romana e dell’universo dei pedofili, eventualmente punisca, deponga e invii i più renitenti in qualche convento per far penitenza e emendare la propria vita .
Soltanto chi ama la Chiesa può farle le critiche che gli abbiamo fatto noi citando testi di autorità classiche del passato. Se tu hai smesso di amare una persona un tempo amata, ti diventano indifferenti la sua vita e il suo destino. Noi ci interessiamo come fa l’amico e fratello di tribolazione Hans Kung (è stato condannato dalla ex inquisizione), forse uno dei teologi che più ama la Chiesa e per questo la critica.
Non vogliamo che i cristiani coltivino questo sentimento di poca stima e di indifferenza. Per quanto gravi siano stati gli errori e gli equivoci storici, l’istituzione-Chiesa custodisce la memoria sacra di Gesù e la grammatica dei Vangeli. Essa predica la libertà, sapendo che generalmente sono altri che liberano e non lei.
Anche così vale stare dentro la chiesa, come ci stavano S. Francesco, dom Helder Camara, Giovanni XXIII e noti teologi che hanno aiutato a fare il concilio Vaticano II e che prima erano stati tutti condannati dall’ex inquisizione, come de Lubac, Chenu, Congar, Rahner e altri. Dobbiamo aiutarla a uscire da quest’imbarazzo, alimentandosi di più col sogno di Gesù di un regno di giustizia, di pace e di riconciliazione con Dio e di sequela della sua causa e destino, piuttosto che di semplice giustificata indignazione che può scadere facilmente nel fariseismo e nel moralismo.
Altre riflessioni del genere si trovano nel mio libro Chiesa: carisma e potere, ed. Record, 2005, specialmente in appendice con tutte gli atti del processo celebrato all’interno dell’ex inquisizione nel 1984.
Traduzione: Romano Baraglia - romanobaraglia@gmail.com
Dante Alighieri, Inferno (Canto XIX, vv.103-117)
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento,
fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
La storia siamo noi
Come l’umanità è arrivata a essere quello che è?
Ecco il contributo delle scienze per comprendere uno sviluppo troppo spesso lasciato al sapere umanistico
Perché cooperare fa bene alla specie
di Edward O. Wilson (la Repubblica, 02.03.2013)
Comprendere l’umanità è un compito troppo importante e gravoso per lasciarlo alle scienze umanistiche. Le molte discipline di questa grande corrente del sapere, dalla filosofia al diritto, alla storia e alle arti creative, hanno descritto le particolarità della natura umana con genialità e straordinaria minuziosità, avanti e indietro in trasmutazioni infinite. Ma non hanno spiegato perché abbiamo questa natura qui e non qualcun’altra fra una quantità sterminata di possibilità immaginabili. Sotto questo profilo, le scienze umanistiche non consentono una comprensione piena dell’esistenza della nostra specie.
Dunque, che cosa siamo noi? La risposta a questo grande enigma sta nelle circostanze e nel processo che hanno dato vita alla nostra specie. La condizione umana è un prodotto della storia, e non parlo non soltanto dei seimila anni di civilizzazione, ma di un arco molto più ampio, che risale a centinaia di migliaia di anni addietro. Per dare una risposta a questo mistero bisogna esplorare l’evoluzione nel suo insieme, come un tutto unico e inscindibile, tanto negli aspetti biologici quanto in quelli culturali. E in questo modo la storia umana, vista in tutte le sue sfaccettature, diventa a sua volta la chiave per capire come e perché la nostra specie è sopravvissuta.
Una maggioranza di persone preferisce interpretare la storia come il dispiegarsi di un disegno soprannaturale, al cui autore è dovuta ubbidienza. Ma questa interpretazione rassicurante diventa sempre meno sostenibile man mano che si espande la conoscenza del mondo reale. In particolare, la conoscenza scientifica (misurata in base al numero di scienziati e riviste scientifiche) da oltre un secolo raddoppia di dimensioni a intervalli di dieci vent’anni.
Nelle spiegazioni tradizionali del passato, le storie religiose sulla creazione si mescolavano alle discipline umanistiche per attribuire significato all’esistenza della nostra specie. È tempo di ragionare su quello che possono offrirsi reciprocamente il campo scientifico e quello umanistico, nella ricerca comune di una risposta più fondata e convincente al grande enigma.
Per cominciare, i biologi hanno scoperto che l’origine biologica del comportamento sociale avanzato negli esseri umani è simile a quella riscontrata in altre parti del regno animale. Usando studi comparati condotti su migliaia di specie animali, dagli insetti ai mammiferi, sono giunti alla conclusione che le società più complesse sono emerse attraverso l’eusocialità (la «vera» condizione sociale, parlando in senso generale). I membri di un gruppo eusociale allevano collettivamente le giovani generazioni. Inoltre, applicano un sistema di divisione del lavoro tramite la rinuncia - quantomeno parziale - alla riproduzione personale da parte di alcuni membri, allo scopo di incrementare il «successo riproduttivo» (riproduzione nel corso della vita) di altri membri.
L’eusocialità è un fenomeno particolare sotto due punti di vista. Innanzitutto va rimarcata la sua estrema rarità: su centinaia di migliaia di linee evolutive di specie animali terrestri nel corso degli ultimi 400 milioni di anni, si è venuto a creare un sistema del genere, per quello che siamo in grado di appurare, solo in due dozzine di casi.
A questo aggiungiamo che le specie eusociali conosciute si sono affermate molto tardi, nella storia della vita sulla Terra. Una volta diventato prassi, il comportamento sociale avanzato di livello eusociale si è rivelato uno straordinario successo ecologico. Soltanto due fra le due dozzine di linee evolutive indipendenti, cioè le formiche e le termiti, bastano a dominare il mondo degli invertebrati terrestri. Nonostante contino meno di ventimila specie (sul milione di specie di insetti viventi conosciuti), formiche e termiti rappresentano della metà del peso corporeo complessivo di tutti gli insetti del pianeta.
La storia dell’eusocialità solleva un interrogativo: dato l’enorme vantaggio che assicura, perché questa forma avanzata di comportamento sociale è così rara ed è comparsa così tardi? La risposta sembra data dalla sequenza specifica di cambiamenti evolutivi preliminari propedeutici al passaggio finale all’eusocialità.
In tutte le specie eusociali analizzate fino a oggi, il passaggio finale è la costruzione di un nido protetto, da cui partono le spedizioni di foraggiamento e dove gli individui giovani vengono allevati fino al raggiungimento della maturità. A costruire originariamente il nido può essere una femmina solitaria, una coppia di individui o un gruppo piccolo e scarsamente organizzato. Una volta realizzato questo passaggio preliminare, per creare una colonia eusociale è sufficiente che i genitori e la prole rimangano nel nido e collaborino all’allevamento di altre generazioni di giovani. Questi assemblaggi primitivi poi si suddividono facilmente in «foraggeri», inclini al rischio, e in genitori e nutrici, avversi al rischio.
Che cos’è che ha consentito a un’unica linea evolutiva di primati di raggiungere il livello raro dell’eusocialità? Le circostanze sono state banali, stando alle scoperte dei paleontologi. In Africa, circa due milioni di anni fa, una specie del genere australopiteco, prevalentemente vegetariano, modificò la sua alimentazione incrementando il consumo di carne. Per procurarsi questa fonte di cibo altamente energetica e dispersa sul territorio, non era molto conveniente andarsene in giro in branchi poco organizzati di individui adulti e giovani. Era più efficiente occupare un accampamento (il nido, appunto) e da lì spedire in giro cacciatori in grado di riportare indietro (uccidendola o raccogliendola) carne da dividere con gli altri. In cambio, i cacciatori ricevevano la protezione dell’accampamento, dove la loro prole veniva tenuta al sicuro insieme agli altri.
Da studi condotti su esseri umani moderni, incluse popolazioni di cacciatori-raccoglitori, la cui vita ci dice molto sulle origini della razza umana, gli psicologi sociali hanno dedotto la crescita mentale innescata dalla caccia e dagli accampamenti. Le relazioni personali fra i membri del gruppo, calibrate al tempo stesso sulla competizione e la collaborazione, hanno acquisito un ruolo predominante. Il processo è stato incessantemente dinamico e difficoltoso, superando largamente in intensità qualunque esperienza analoga dei branchi itineranti e scarsamente organizzati prevalenti nella maggior parte delle società animali.
Serviva una memoria efficiente per valutare le intenzioni degli altri membri del gruppo, prevedere le loro reazioni di volta in volta: e il risultato è stato la capacità di inventare e simulare internamente scenari conflittuali di interazioni future.
L’intelligenza sociale dei preumani ancorati all’accampamento si è evoluta come una sorta di partita a scacchi senza fine. Oggi, al capolinea di questo processo evolutivo, siamo in grado di attivare con scioltezza i nostri banchi di memoria su passato, presente e futuro. Questi banchi di memoria ci consentono valutare le prospettive e le conseguenze di alleanze, legami, contatti sessuali, rivalità, rapporti di predominio, raggiri, fedeltà e tradimenti. Traiamo un piacere istintivo dal racconto di innumerevoli storie sugli altri in quanto attori nel nostro palcoscenico interno. Tutto questo trova espressione nelle arti creative, nella teoria politica e in altre attività di alto livello che definiamo come scienze umanistiche.
Gli aspetti principali dell’origine biologica della nostra specie cominciano a essere messi a fuoco, e con essi le possibilità di un contatto più fruttuoso fra discipline scientifiche e umanistiche. La convergenza fra queste due grandi branche del sapere assumerà un’importanza enorme quando un numero sufficiente di persone ci avrà ragionato su.
Dal versante scientifico, le neuroscienze, la biologia evolutiva e la paleontologia verranno viste in un’ottica differente. Agli studenti verrà insegnata anche la preistoria oltre che la storia convenzionale, il tutto presentato come la più grande epopea del mondo vivente. E sono convinto che guarderemo con maggior serietà anche al nostro posto nella natura. Perché ci siamo esaltati, siamo assurti al ruolo di mente della biosfera, con lo spirito capace di sgomento e balzi di immaginazione sempre più sbalorditivi. Ma continuiamo a essere parte della fauna e flora terrestri: vi siamo legati dall’emozione, dalla psicologia e, non ultimo, da una storia radicata.
È pericoloso pensare a questo pianeta come a una stazione intermedia verso un mondo migliore, o continuare a convertirlo in un’astronave programmata dall’uomo.
Contrariamente all’opinione generale, non ci sono demoni e dei che si contendono la nostra devozione. Siamo frutto del nostro operato, siamo indipendenti, soli e fragili. Capire noi stessi è la chiave per sopravvivere nel lungo periodo, per gli individui e per le specie.
(Traduzione di Fabio Galimberti) © The New York Times
Uscire dallo Stato di minorità!
GRILLO O BERLUSCONI?! E’ LO STESSO: IL MEDIUM E’ IL MESSAGGIO!!! Ri-leggere McLuhan.
PER L’ITALIA E PER LA COSTITUZIONE. CARO PRESIDENTE NAPOLITANO, CREDO CHE SIA ORA DI FARE CHIAREZZA. PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI ...
Le riforme della ricostruzione
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 1 marzo 2013)
L’INVENZIONE politica e istituzionale battezzata “Seconda Repubblica” è crollata miseramente e rischia di seppellire il paese sotto le sue rovine. Un esito purtroppo prevedibile, viste le illusioni sulle quali quella nuova fase era stata fondata. Ricordiamole.
Il bipolarismo come bene in sé, che avrebbe inevitabilmente prodotto stabilità governativa, governabilità a tutto campo, efficienza, fine della corruzione grazie all’alternanza al governo di diverse coalizioni. Oggi sarebbe persino impietoso ricordare con nomi e cognomi chi ha assecondato questa deriva, anche se prima o poi bisognerà pur farlo.
Ma, intanto, si deve almeno sottolineare come non si sia voluto vedere l’abisso crescente tra quelle illusioni e la realtà, tanto che si arrivò addirittura a dire, dopo le elezioni del 2008, che l’orribile “Porcellum” aveva comunque avuto come effetto quello di stabilizzare il bipolarismo. Se vogliamo comprendere il presente, e progettare il futuro in maniera meno avventurosa, si dovrà partire proprio da una severa lettura critica dell’intera storia della cosiddetta Seconda Repubblica.
In questo momento, il criterio di analisi e di valutazione è ovviamente rappresentato dalle vere novità politiche del voto di domenica e lunedì. Che sono tre: la vittoria del Movimento 5 Stelle, il rifiuto dell’Agenda Monti, il ritorno della politica dei contenuti. La vittoria di Grillo e del suo movimento è già stata commentata nei modi più diversi. Ma la sua “anomalia” si somma al fatto che critiche sostanzialmente analoghe alla politica condotta e poi rilanciata da Mario Monti sono state l’elemento forte della campagna di Silvio Berlusconi.
Che gli elettori hanno bocciato in modo sonoro la personificazione di quell’Agenda affidata alla lista “Scelta civica” e che da Monti aveva preso le distanze anche una parte del Pd. Questo dato politico non può essere minimizzato e anzi, nel momento in cui si insiste sulla necessità di andare in Parlamento con proposte precise, contiene una indicazione importante per quanto riguarda appunto i criteri di selezione delle proposte.
Il dimezzamento dei parlamentari e il taglio radicale dei costi della politica, che compaiono in cima all’ipotetica nuova agenda di governo, sono proposte che circolavano da anni e sono la conferma evidente di quel che si diceva all’inizio, dunque della lontana origine della crisi attuale. Ma ridurre della metà il numero dei parlamentari è misura certamente assai simbolica, che tuttavia avrebbe risultati economici modesti, e persino qualche effetto negativo.
Nell’ultimo decennio è emersa una enorme manomorta politica, alimentata da aumenti ingiustificati e insensati delle indennità corrisposte agli eletti a qualsiasi livello, accompagnati da una ulteriore attribuzione di risorse a singoli e gruppi che nulla ha a che vedere con lo svolgimento dell’attività istituzionale. Questa manomorta deve essere abbattuta, eliminando ogni beneficio aggiuntivo rispetto alle indennità, a loro volta riportate a cifre socialmente accettabili, con un intervento che azzeri gli appelli alle competenze locali.
Questa operazione, però, deve andare al di là del ceto politico in senso stretto. Un’altra deriva degli anni passati è quella che ha portato ad un altrettanto ingiustificato dilatarsi delle retribuzioni nella dirigenza pubblica. Sono molti i dirigenti che hanno compensi persino doppi rispetto all’indennizzo previsto per il Presidente della Repubblica (248.000 euro). Si può polemizzare con Marchionne sottolineando che la sua retribuzione è 415 volte superiore a quella di un operaio Fiat e ignorare del tutto che sperequazioni ancora maggiori vi sono tra dirigenti pubblici e poliziotti in strada o impiegati ministeriali? Interventi in queste direzioni, insieme alla rottura delle cordate di magistrati amministrativi che ormai governano le strutture pubbliche, non garantirebbero soltanto risparmi, ma sarebbero un segnale importante verso un recupero dell’eguaglianza.
Proprio i principi di eguaglianza e di dignità sono all’origine di un’altra tra le proposte che circolano, quella riguardante il reddito di cittadinanza. Anche qui, tuttavia, bisogna liberarsi delle genericità, evitando di guardare a misure del genere come l’avvio di una fulminea palingenesi sociale.
Vi sono ipotesi serie, già trasformate in proposte di legge d’iniziativa popolare, che possono essere subito sottoposte all’attenzione parlamentare, avviando così anche l’indispensabile riordino degli ammortizzatori sociali e sfidando un certo conservatorismo sindacale.
È tempo, peraltro, di restituire al mondo sindacale una pienezza democratica per troppi versi perduta, con una legge sulla rappresentanza che davvero può stare in un programma dei cento giorni. Allo stesso modo, ai diritti del lavoro deve essere restituita la loro dimensione costituzionale, abrogando l’articolo 8 del decreto dell’agosto 2011 che permette di stipulare accordi anche in contrasto con le leggi vigenti, ampliando in maniera abnorme il potere imprenditoriale.
Questi esempi vogliono ricordare che un vero governo di programma, capace di abbandonare stereotipi e chiusure d’orizzonte, deve essere esplicito su provvedimenti che riguardino la dimensione sociale, ponendo basi solide per vere politiche del lavoro. Non si tratta di dare un “segnale”, ma di stabilire le giuste priorità in una situazione che, data la tensione sociale crescente, non può essere affrontata insistendo soltanto su misure istituzionali.
Intendiamoci. La tensione è alimentata anche dalle gravi inadeguatezze istituzionali che, di nuovo, ci riportano ai vizi della Seconda Repubblica.
Enormi si rivelano oggi le responsabilità di quanti, da troppe parti, hanno impedito la riforma della legge elettorale, invocando la necessità che una nuova legge salvaguardasse bipolarismo e governabilità. Abbiamo visto com’è andata a finire.
La riforma elettorale, dunque, è una priorità assoluta, ma pure una buona legge faticherebbe a funzionare se non venissero rimossi gli ostacoli al suo funzionamento, che esigono norme severe sui conflitti d’interesse, riforma del sistema dei mezzi di comunicazione, disciplina davvero severa contro la corruzione, a cominciare dalle norme penali sul falso in bilancio. E nuove norme sulla partecipazione dei cittadini, per riaprire i canali necessari alla comunicazione tra società e politica.
Tutte cose che sappiamo a memoria e fin da troppo tempo, e che devono essere prese terribilmente sul serio se si vuol dare una pur minima credibilità ad una prospettiva di governo. Se questa prospettiva dovrà essere coltivata in primo luogo dal Pd, come buona logica istituzionale vuole, bisognerà considerare un’altra novità politica. Il tracollo dell’Udc, considerata come partner necessario, libera dalla subordinazione alle pretese di questo partito su due questioni chiave: i diritti delle persone e i beni comuni. Il Pd ha ormai l’obbligo di proporre norme finalmente sottratte ai diktat fondamentalisti sulla procreazione assistita, sulle unioni tra persone dello stesso sesso, sulle decisioni di fine vita. E deve dichiarare esplicitamente la sua volontà di seguire la strada indicata dai referendum sull’acqua. È un compito difficile, una sfida ai conservatorismi e alle incrostazioni che sono il lascito pesantissimo di un ventennio.
Un compito, allora, che non può essere affidato ad alcun tecnico. I punti programmatici diventano credibili solo se vengono incarnati da un governo dichiaratamente politico e provveduto di un altissimo tasso di competenze. Solo così può essere ripreso l’impervio cammino della ricostruzione della fiducia nella politica. E, se uno spirito deve essere invocato, forse è quello del discorso sulle quattro libertà pronunciato da Roosevelt all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. La ricostruzione della Repubblica esige che agli italiani vengano restituite due di quelle libertà: quella dal bisogno e quella dalla paura.
La Scienza nuova
Giambattista Vico
La Scienza nuova
Le tre edizioni del 1725, 1730 e 1744
IL LIBRO - La Scienza nuova, di cui in questo volume si pubblicano le tre edizioni, del 1725, del 1730 e del 1744, è un Classico del pensiero occidentale, essenziale per la comprensione del nostro mondo storico non meno della Repubblica di Platone e dell’Etica di Spinoza, della Metafisica di Aristotele e della Critica della ragion pura di Kant, del De Civitate Dei di Agostino e della Fenomenologia dello spirito di Hegel.
Due le idee-guida che si intrecciano, e anche confliggono, in quest’opera geniale e inquietante: 1) l’estensione al mondo umano della mathesis universalis, che ha segnato la nascita della scienza moderna, ma che in Galilei e Cartesio era limitata alla natura; 2) la genealogia della coscienza e della logica a partire dal “senso” e dalla “fantasia”, da cui discende l’interesse prevalente di Vico per il formarsi della prima umanità. Interesse mai disgiunto dalla consapevolezza dei limiti della ragione, che può a stento “intendere”, ma non “immaginare” quell’età ancora incerta tra storia e pre-storia.
Da questa consapevolezza “critica” nacque quella fusione di logos e mythos, concetto e immagine, che caratterizza il linguaggio barocco della Scienza nuova (in particolare nelle due ultime edizioni, qui presentate nella loro scrittura originaria), nel quale Vico espose due e diverse concezioni del tempo umano-divino della storia. In particolare il quinto e ultimo Libro di quest’Opera in continuo compimento, se per un verso ripropone l’idea pre-cristiana della ciclicità del corso storico, per l’altro, “sospende” l’intero orizzonte del tempo all’attimo presente: il kairologico “adesso” di Paolo, in cui “il tempo s’è contratto” (I Co, 7.29).
Ma proprio questa doppiezza della Scienza Nuova permette di instaurare significative connessioni tra la posizione di Vico e gli esiti più alti della riflessione contemporanea sulla storia, da Heidegger a Benjamin. Certo nel pieno rispetto della specificità dei loro differenti “tempi”, e quindi fuor d’ogni pretesa di stabilire “precorrimenti” e “inveramenti”; ma non meno certamente contro le vane “monumentalizzazioni” di una storiografia volta esclusivamente al passato.
DAL TESTO - “Solo il divino Platone egli meditò in una sapienza riposta che regolasse l’uomo a seconda delle massime che egli ha apprese dalla sapienza volgare della religione e delle leggi. Perché egli è tutto impegnato per la provvedenza e per l’immortalità degli animi umani; pone la virtù nella moderazione delle passioni; insegna che per propio dover di filosofo si debba vivere in conformità delle leggi, ove anche all’eccesso divengan rigide con una qualche ragione, sull’esempio che Socrate, suo maestro, con la sua propia vita lasciò, il quale, quantunque innocente, volle però, condennato qual reo, soddisfare alla pena e prendersi la cicuta.
Però esso Platone perdé di veduta la provvedenza quando, per un errore comune delle menti umane, che misurano da sé le nature non ben conosciute di altrui, innalzò le barbare e rozze origini dell’umanità gentilesca allo stato perfetto delle sue altissime divine cognizioni riposte (il quale, tutto a rovescio, doveva dalle sue «idee» a quelle scendere e profondere), e, sì, con un dotto abbaglio, nel qual è stato fino al dì d’oggi seguito, ci vuol appruovare essere stati sapientissimi di sapienza riposta i primi attori dell’umanità gentilesca, i quali, come di razze d’uomini empi e senza civiltà, quali dovettero un tempo essere quelle di Cam e Giafet, non poterono essere che bestioni tutti stupore e ferocia.
In séguito del qual erudito errore, invece di meditare nella repubblica eterna e nelle leggi d’un giusto eterno, con le quali la provvedenza ordinò il mondo delle nazioni e ‘1 governa con esse bisogne comuni del genere umano, meditò in una repubblica ideale ed uno pur ideal giusto, onde le nazioni non solo non si reggono e si conducono sopra il comun senso di tutta l’umana generazione, ma pur troppo se ne dovrebbono: storcere e disusare: come, per esempio, quel giusto, che e’ comanda nella sua Repubblica, che le donne sieno comuni.”
I CURATORI - Manuela Sanna, direttore dell’”Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno” del Consiglio Nazionale delle Ricerche, si occupa di cultura storico-filosofica tra ’600 e ’700, con lavori dedicati a Leibniz, Tschirnhaus e Vico, ed è membro del consiglio scientifico dell’edizione critica delle Opere di Giambattista Vico, per la quale ha curato la raccolta delle Epistole, il De rebus gestis Antonj Caraphei, la Scienza nuova del 1730, insieme a Paolo Cristofolini, e la Scienza nuova del 1744, in via di pubblicazione. Ha curato anche la nuova e più recente traduzione italiana del De antiquissima Italorum sapientia (Roma, 2005). Negli ultimi anni le sue ricerche si sono centrate sul rapporto tra conoscenza immaginativa e verità, e su questo sono usciti La "Fantasia, che è l’occhio dell’ingegno". Note sul concetto vichiano di conoscenza (Napoli, 2001) e Immaginazione (Napoli, 2007).
Vincenzo Vitiello, professore ordinario di Filosofia Teoretica, insegna attualmente Filosofia della storia all’Università San Raffaele di Milano. Le sue ricerche di Topologia trascendentale sono negli ultimi anni rivolte all’elaborazione di una logica e di un’etica della seconda persona. Ha tenuto cicli di conferenze e seminari in Europa, negli USA, e in America latina (Argentina, Cile, Messico). Suoi scritti sono stati tradotti in tedesco, francese, inglese e spagnolo. Socio onorario della Asociación de filosofia Latinoamericana y Ciencias sociales (Buonos Aires). Dirige la Rivista "Il Pensiero". Tra le sue pubblicazioni: Elogio dello spazio (1994, trad. tedesca parziale, Freiburg-München, 1993); Cristianesimo senza redenzione (1995, trad. spagnola, Madrid, 1999); Genealogía de la modernidad (Buenos Aires, 1998); Il Dio possibile (Roma, 2002); I tempi della poesia. Ieri / Oggi (Milano, 2008; trad. spagnola Madrid, 2009); Vico. Storia - Linguaggio - Natura (Roma, 2008); Grammatiche del pensiero (Pisa, 2009) .
INDICE DELL’OPERA - Saggio introduttivo. Vico nel suo tempo, di Vincenzo Vitiello - I. Sul ’concetto’ di moderno - In limine. Brevi considerazioni sulla storicità della conoscenza storica (I. Interpretazioni del moderno - II. Mathesis universalis e logica moderna - Appendice) - II. Spinoza e Vico (I. Le ragioni di un confronto - II. Il sistema di Spinoza - III. La filosofia di Vico ’prima’ della Scienza nuova) - III. La Scienza Nuova (I. La fondazione della mathesis universalis della storia - II. La lingua della Scienza nuova. Oltre la mathesis universalis - III. Prospezioni vichiane) - Cronologia della vita e delle opere di Giambattista Vico, di Manuela Sanna - Nota editoriale
LA «SCIENZA NUOVA» DEL 1725 - La «Scienza nuova» nell’edizione del 1725, di Manuela Sanna e Fulvio Tessitore - Introduzione, di Vincenzo Vitiello - La «Scienza nuova» nelle edizioni del 1730 e del 1744, di Manuela Sanna
LA «SCIENZA NUOVA» DEL 1730 - La «Scienza nuova» nell’edizione del 1730, di Manuela Sanna e Fulvio Tessitore
- LA «SCIENZA NUOVA» DEL 1744 - La «Scienza nuova» nell’edizione del 1744, di Manuela Sanna e Fulvio Tessitore - Apparati (I. Storia della fortuna di G.B. Vico, di Manuela Sanna - II. Bibliografia vichiana, a cura di Manuela Sanna - III. Indice generale)
Corruzione in Italia
”Un governo di imbroglioni”
di Hans-Jürgen Schlamp, Roma*
I romani avevano tirato monetine da 100 lire al loro ex presidente del Consiglio Bettino Craxi gridandogli “ladro” e “truffatore”. Si era nel 1993. “Tangentopoli” - così si chiamò lo scandalo per corruzioni, che a quel tempo aveva demolito la casta politica italiana. “Tangenti” sono le bustarelle e con queste avevano incassato molti milioni non soltanto il socialista Craxi, ma anche molti pezzi grossi politici di quasi tutti i partiti.
Adesso italiani imbufaliti hanno nuovamente tempestato, questa volta con monetine da due centesimi, un eminente rappresentante del Sistema. Il loro bersaglio era l’ex capo della banca Monte dei Paschi di Siena. Il quale avrebbe stornato miliardi, sottratto milioni e così portato la più antica banca del mondo sull’orlo del fallimento. E anche oggi non si tratta di un singolo caso.
Al contrario. Vent’anni dopo che coraggiosi pubblici ministeri e giudici sotto il nome di battaglia di “Mani pulite” avevano ripulito il Paese con 5.000 inchieste e oltre 2.000 processi, le “tangenti” sono di nuovo la norma. Imprenditori e politici depredano il Paese. Quasi ogni giorno un nuovo scandalo appare alla pubblica opinione. Così:
L’etica di Silvio Berlusconi
Ce n’è uno che da due decenni dispensa la morale adatta a tutto questo. Silvio Berlusconi, che ha cominciato la sua carriera come favorito di Craxi, da allora martella i suoi concittadini: corruzione, degrado, lavoro nero, frode fiscale - tutto okay. Non okay è la giustizia, che procede legalmente contro tutto questo. Si tratta di “toghe rosse” e “pubblici ministeri comunisti”. E poiché ha sempre governato il Paese, con il suo credo “arricchitevi quanto potete” ha portato l’Italia là dove si trovava 20 anni fa: in una profonda palude di corruzione, abuso di poteri d’ufficio, evasione fiscale. Quando poco tempo fa, in occasione della sua visita di Stato a Washington, Barack Obama chiese al presidente Giorgio Napolitano notizie sulle condizioni del Paese, questi ammise apertamente di essere profondamente preoccupato a causa della nuova “Tangentopoli”.
In questo egli non è solo. Il suo compagno di partito, il capo del PD Pier Luigi Bersani, lamenta che Berlusconi “lascia in eredità una catastrofe morale”. Perfino Mario Monti, per lo più riservato, formula intanto drasticamente di aver avuto in eredità il Paese “con un governo di imbroglioni”. È chiaro, si tratta di campagna elettorale. Ma Napolitano, Bersani e Monti hanno paura che Berlusconi, populista senza scrupoli, possa ancora una volta farcela. Essi vogliono impedirglielo, per questo usano parole nette.
Ma anche i fatti sono sufficientemente chiari. Circa un italiano su cinque - soprattutto chi guadagna di più - frega lo Stato. Per esempio, con controlli a campione i militari della Finanza all’inizio dell’anno hanno scovato 7.500 evasori totali, che non versavano un centesimo di euro in imposte. Tutti erano milionari, con introiti annuali medi di 2,8 milioni di euro.
Sotto il regno di Berlusconi questi potenti erano al sicuro. Berlusconi concedeva regolarmente un’amnistia ai delinquenti fiscali. Altrettanto faceva per i palazzinari, che senza autorizzazioni piazzavano nel bel mezzo del paesaggio le loro cittadelle di cemento. E che tutto ciò debba continuare allo stesso modo Berlusconi lo ha già promesso. Se viene eletto.
La situazione è oggi molto peggiore di 20 anni fa, constata Antonio Di Pietro, a quel tempo uno dei preminenti PM di “Mani pulite”, perché “non provano più vergogna”.
* Der Spiegel, 19 febbraio 2013 (traduzione dal tedesco di José F. Padova).
Cosa insegna alla politica la rinuncia di Ratzinger
di Giorgio Agamben (la Repubblica, 16 febbraio 2013)
La decisione di Benedetto XVI deve essere considerata con estrema attenzione da chiunque abbia a cuore le sorti politiche dell’umanità.
Compiendo il “gran rifiuto”, egli ha dato prova non di viltà, come Dante scrisse forse ingiustamente di Celestino V, ma di un coraggio, che acquista oggi un senso e un valore esemplari. Deve essere evidente per tutti, infatti, che le ragioni invocate dal pontefice per motivare la sua decisione, certamente in parte veritiere, non possono in alcun modo spiegare un gesto che nella storia della Chiesa ha un significato del tutto particolare.
E questo gesto acquista tutto il suo peso, se si ricorda che il 4 luglio 2009, Benedetto XVI aveva deposto proprio sulla tomba di Celestino V a Sulmona il pallio che aveva ricevuto al momento dell’investitura, a prova che la decisione era stata meditata.
Perché questa decisione ci appare oggi esemplare? Perché essa richiama con forza l’attenzione sulla distinzione fra due principi essenziali della nostra tradizione etico-politica, di cui le nostre società sembrano aver perduto ogni consapevolezza: la legittimità e la legalità.
Se la crisi che la nostra società sta attraversando è così profonda e grave, è perché essa non mette in questione soltanto la legalità delle istituzioni, ma anche la loro legittimità; non soltanto, come si ripete troppo spesso, le regole e le modalità dell’esercizio del potere, ma il principio stesso che lo fonda e legittima.
I poteri e le istituzioni non sono oggi delegittimati, perché sono caduti nell’illegalità; è vero piuttosto il contrario, e cioè che l’illegalità è così diffusa e generalizzata, perché i poteri hanno smarrito ogni coscienza della loro legittimità.
Per questo è vano credere di potere affrontare la crisi delle nostre società attraverso l’azione - certamente necessaria - del potere giudiziario: una crisi che investe la legittimità, non può essere risolta soltanto sul piano del diritto. L’ipertrofia del diritto, che pretende di legiferare su tutto, tradisce anzi, attraverso un eccesso di legalità formale, la perdita di ogni legittimità sostanziale.
Il tentativo della modernità di far coincidere legalità e legittimità, cercando di assicurare attraverso il diritto positivo la legittimità di un potere, è, come risulta dall’inarrestabile processo di decadenza in cui sono entrate le nostre istituzioni democratiche, del tutto insufficiente.
Le istituzioni di una società restano vive solo se entrambi i principi (che, nella nostra tradizione, hanno anche ricevuto il nome di diritto naturale e diritto positivo, di potere spirituale e potere temporale) restano presenti e agiscono in essa senza mai pretendere di coincidere.
Per questo il gesto di Benedetto XVI è così importante. Quest’uomo, che era a capo dell’istituzione che vanta il più antico e pregnante titolo di legittimità, ha revocato in questione col suo gesto il senso stesso di questo titolo. Di fronte a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia e del potere temporale, Benedetto XVI ha scelto di usare soltanto il potere spirituale, nel solo modo che gli è sembrato possibile: cioè rinunciando all’esercizio del vicariato di Cristo. In questo modo, la Chiesa stessa è stata messa in questione fin dalla sua radice.
Non sappiamo se la Chiesa sarà capace di trarre profitto da questa lezione: ma sarebbe certamente importante che i poteri laici vi trovassero occasione per interrogarsi nuovamente sulla propria legittimità.