(Federico La Sala, gennaio 2006)
“DEUS CARITAS EST”:
IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE
E DEL CAPITALISMO
di Federico La Sala *
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: “il lavoro rende liberi”, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è caro (prezzo), così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!! “La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”, L’Unità, 26.01.2006 )!!!
Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’ e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est” [Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006]!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” ... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!!
Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!! (Federico La Sala)
*www.ildialogo.org/filosofia, Giovedì, 26 gennaio 2006.
(per leggere gli art. seguenti, cliccare sul rosso)
"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST"(1 Gv., 4.1-8)
EUCARISTIA = EUCARESTIA, COSI’ ANCORA PER GLI ESPERTI DI WIKIPEDIA E CATHOPEDIA:
A. "Per i cristiani l’eucaristia o eucarestia è il sacramento istituito da Gesù durante l’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione e morte. Il termine deriva dal greco εὐχαρίστω (eucharisto: "rendo grazie"). Il Nuovo Testamento narra l’istituzione dell’eucaristia in quattro fonti: Matteo 26,26-28; Marco 14,22-24; Luca 22,19-20; 1 Corinzi 11,23-25" (WIKIPEDIA).
B. "L’Eucaristia o Eucarestia (traslitterazione del greco εὐχαριστία, eucharistía, "rendimento di grazie") è il Sacramento con il quale, dopo il Battesimo e la Cresima, culmina l’iniziazione cristiana" (CATHOPEDIA).
PAPA FRANCESCO, IL "PADRE NOSTRO", E INTERI MILLENNI DI LABIRINTO
DIVENTÒ UN DIO, IL "PADRE NOSTRO", IL CAPITALE ... *
A FURIA DI MERCANTEGGIARE SU TUTTO abbiamo PERSO LA TESTA, fatto del CAPITALE un DIO, il "Padre nostro", e ci siamo fatti allegramente tradurre e "indurre in tentazione"! PER MILLENNI.
CHE BELLO!!! TUTTO è diventato "carissimo", non solo ciò che si produce e si vende (il feticismo delle merci) ma anche noi, gli animali, e l’intera terra con il suo cielo più alto: la CARESTIA si è diffusa su tutta la terra ed è diventa terribile e, come, al solito, i MERCANTI hanno fatto I loro affari e ancora oggi continuano ad accumulare TESORI per i loro "carissimi" eredi, dappertutto, non solo nelle loro case, ma anche nelle Banche e nei Templi (sul tema, cfr. i miei commenti all’art. di Marcello Gaballo, "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò", Fondazione Terra d’Otranto, 38.08.2017). E, ogni giorno, celebrano la LORO benedetta carissima "EU-carestia", la loro "BUONA-carestia" - per conservarla, per tutti i secoli dei secoli.
PER tutti i POVERI "CRISTI", che c’è da augurare?! Che il Natale "sia meno commerciale" e l’anno che viene "meno dozzinale"?!
Dopo duemila anni Papa Francesco finalmente ne ha preso atto:"Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione".
Era ora!
BUON NATALE, BUON ANNO, BUON 2018
Federico La Sala
* Cfr. Armando Polito, "Natale e Capodanno: che non siano solo belle parole", "Fondazione Terra d’Otranto", 24,12,2017
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
IL PADRE NOSTRO E DUEMILA ANNI DI "LATINORUM" ...
Papa Francesco vuole cambiare il ’Padre Nostro’: "Traduzione non è buona, Dio non ci induce in tentazione"
Uno dei passaggi più noti potrebbe presto cambiare, come già successo in Francia *
CITTÀ DEL VATICANO - Il testo in italiano della preghiera più nota, il ’Padre Nostro’ , potrebbe presto cambiare. A farlo intendere è lo stesso papa Francesco: "Dio che ci induce in tentazione non è una buona traduzione. Anche i francesi hanno cambiato il testo con una traduzione che dice ’non mi lasci cadere nella tentazione’. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto, un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito".
Il pontefice lo ha spiegato nella settima puntata del programma ’Padre nostro’, condotto da don Marco Pozza, in onda su Tv2000. Francesco dialoga con il giovane cappellano del carcere di Padova nell’introduzione di ogni puntata. "Quello che ti induce in tentazione - conclude il Papa - è Satana, quello è l’ufficio di Satana".
Della controversia sulla preghiera più nota del cristianesimo - fu insegnata da Gesù stesso ai suoi discepoli che gli chiedevano come dovessero pregare - si è parlato in queste settimane quando in Francia si è detto appunto addio al vecchio ’Padre Nostro’. Dopo anni di discussioni sulla giusta traduzione, la nuova versione francese non include più il passaggio ’ne nous soumets pas à la tentation’ - ’non sottometterci alla tentazione’ -, che è stato sostituito con una versione ritenuta più corretta: ’ne nous laisse pas entrer en tentation’, ’non lasciarci entrare in tentazione’.
Secondo quanto ha scritto Le Figaro, la prima formula - ’non sottometterci’ - ha fatto credere a generazioni di fedeli che Dio potesse tendere in qualche modo una sorta di tranello, chiedendo loro di compiere il bene, li ’sottometteva’ alla tentazione del male. "La frase attuale lasciava supporre che Dio volesse tentare l’essere umano mentre Dio vuole che l’uomo sia un essere libero", ha commentato il vescovo di Grenoble, monsignor Guy de Kerimel, citato dal giornale. Dopo mezzo secolo - la controversa versione venne introdotta il 29 dicembre 1965 - la Conferenza episcopale transalpina ha quindi optato per la nuova traduzione del Notre Père. Per aiutare i fedeli a memorizzarla, la nuova preghiera è stata distribuita in decine di migliaia di copie nelle chiese di Francia. Il cambio ufficiale è avvenuto due giorni fa, domenica 3 dicembre.
Per la verità, anche in Italia, nella versione della Bibbia della Cei (2008), il passo ’et ne nos inducas in tentationem’ è tradotto con ’e non abbandonarci alla tentazione’; l’edizione del Messale Romano in lingua italiana attualmente in uso (1983) non recepisce tuttavia questo cambiamento. Ora però è il Papa a sostenere pubblicamente che si dovrebbe cambiare.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
PERDITA DELLA MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA: LA “X” (“CHI”, GRECO) DIVENTA “X” (“ICS”, LATINO; E, SEMPLICEMENTE, "C", IN ITALIANO) E GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") DIVENTA IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ...
opinioni
La dittatura della X fra affetti e affari
di Vittorio Zucconi (la Repubblica D, 25.11.2017)
Il Medioevo italiano la mise al bando, ma ora si usa ovunque, perché, evidentemente, attira l’attenzione. Che si tratti di business o di baci
ATTESO DA ALMENO cento milioni di esseri umani, molti dei quali in fila da giorni, è arrivato l’ultimo totem per il villaggio globale: l’iPhone X della Apple. Niente di misterioso in quella X, solo la celebrazione in numeri romani del decimo anniversario dell’iPhone lanciato da Steve Jobs: così dicono dalla Mela, ma mentono sapendo di mentire. Per segnalare il decennale, avrebbero potuto benissimo chiamarlo iPhone 10, come i predecessori 6, 7 o 8.
I geni del marketing hanno scelto la X per lo stesso motivo che ha spinto i concorrenti della Microsoft a chiamare la loro scatola da giochi XBox e (nell’ultima edizione diffusa negli stessi giorni dell’iPhone X, per tormentarci il Natale) addirittura XBoxOneX. Tre X al prezzo di una. Non è necessario essere geni dell’enigmistica e dei cruciverba per notare la fissazione per una lettera-simbolo che, da secoli e mai come ora, è uscita dal recinto dell’algebra per invadere i territori del commercio, dell’immaginazione, del calcio e del sesso, pardon, del sex.
La X vende, piace, intriga, nella sua invadenza. L’epidemia di questa lettera (che, nel Medioevo, l’alfabeto italiano aveva escluso, insieme con K e Y, presenti invece nell’alfabeto latino) è naturalmente partita dagli Stati Uniti ed è un indizio del dominio culturale anglofono. È ovunque e le femmine ne hanno pretese addirittura due nei propri cromosomi, XX, lasciando a noi maschi l’umiliazione di quella Y solitaria.
S’insinua nella vita di ogni paziente, che ha sicuramente inghiottito una pillola il cui nome conteneva una X o è stato esposto ai raggi X. Ci sono almeno 50 farmaci da ricetta che la esibiscono, dal tranquillante Xanax, che raddoppia per sembrare più efficace, all’antibiotico Ciprofloxacina, somministrato a milioni di persone afflitte da infezioni delle vie urinarie.
Qualche linguista Usa ha cercato di spiegare l’attrazione con il Cristianesimo, partendo dalla croce che i Romani usavano per uccidere i nemici più pericolosi e che era fatta appunto a X, e non a T come nell’iconografia ufficiale. Ma non c’è nulla di mistico in banali varietà musicali come X Factor, copiato anche in Italia. Dubbi religiosi riaffiorano in dicembre, quando gli americani, sempre impazienti, abbreviano Christmas, Natale, in XMas. Ma poi si sprofonda nel prosaico esercizio del voto, che utilizzò quel segno affinché anche gli analfabeti potessero manifestare sulle schede le scelte politiche.
Resta in esso sempre il brivido del mistero, dell’incognita, come nelle equazioni o nella fantascienza della serie X-Files. Sa di frutto proibito, nei film porno classificati come XXX o nei commerci erotici, in quei Sex Shop che, se si chiamassero "botteghe del sesso", farebbero ancora più schifo. Diventa il richiamo alla morte e alla ferocia dei pirati, con le ossa incrociate a forma - che altro? - di X sotto il teschio. È uno dei molti simboli satanici, ma anche di tenerezza, nella stenografia da chat o da sms, dove sta per "baci", insieme con O, per "abbracci": XOXO, "ti mando baci e abbracci". Tende a essere estremista nell’abbigliamento, con le taglie XS, XL o addirittura, aiuto!, XXL. Anche l’immagine che guardiamo sul televisore, sul computer o sullo schermo dello smartphone paga un tributo, essendo formata da pixel.
Non ha colpe, né meriti questa lettera prepotente, immigrata senza autorizzazione fra di noi, ma qualche segreta e scaramantica influenza negativa forse sì. Soltanto uno, fra i 45 presidenti degli Stati Uniti in 200 e più anni, ha osato avere una X nel proprio nome, Richard Nixon. Finì infatti, primo e unico dimissionario nella storia, crocefisso alla vergogna delle proprie colpe.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata... MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"!
Federico La Sala
Quella cosa molto seria che si chiama dono.
di Luigino Bruni *
Una delle povertà più grandi del nostro tempo è quella delle domande generative. Siamo inondati di risposte a domande che non facciamo, a ricette per soluzioni di problemi che non avvertiamo come tali, e al contempo siamo dentro una carestia impressionante di domande grandi, capaci di farci intravvedere orizzonti nuovi, di attivare la nostra creatività individuale e collettiva, di spingerci all’azione per cambiare il mondo, e non solo per gestire l’ordinario business.
Una delle domande non fatte, ma che attraversa tacita l’intera nostra civiltà ha a che fare con una delle parole più abusate e umiliante della nostra generazione: il dono. Dovremmo sempre più tornare ad interrogarci, in un tempo dominato dal consumo e dalla ricerca del piacere che fine ha fatto il dono nella nostra vita, soprattutto nella sfera pubblica. E’ infatti il dono che crea la comunità (cum-munus, dono reciproco), veniamo al mondo e qualcuno ci accoglie con gratuità e la vita si rigenera non per i contratti ma per i doni.
E allora chiediamoci: che cosa diventa il dono quando lo trasformiamo in filantropia, quando finisce per svolgere il ruolo di tappabuchi dello stesso capitalismo? Possiamo ancora chiamare dono le donazioni che le multinazionali dell’azzardo fanno alle associazioni che si occupano delle loro vittime? Che cosa sta allora diventando il dono? E che cosa il mercato?
Domande impegnative, questioni che negli ultimi decenni sono uscite troppo velocemente dall’orizzonte della nostra società, dai temi trattati sui giornali e nei media, dagli argomenti insegnati nei corsi di economia e business. Il mercato nasce come elaborazione del dono. Millenni fa abbiamo iniziato a scambiare con il linguaggio del dono, il contratto è nato dal patto, le monete avevano come effige gli dei, e il primo contratto che troviamo nella Bibbia è l’acquisto di Abramo della terra per la tomba della moglie Sara (Genesi).
Se giungiamo alla modernità, vediamo che il capitalismo nasce come riflessione sul rapporto fra dono (grazia, charis) e mercato. La Riforma protestante è stata decisiva per la natura del capitalismo moderno. Nata dalla ferita di un mercato che era penetrato nel cuore del dono (il mercato delle indulgenze), l’umanesimo luterano e calvinista si è caratterizzato per una netta separazione tra l’ambito del mercato e quello del dono, tra l’economia for-profit intesa come il regno degli interessi e dei contratti e quella non-profit vista come il luogo della gratuità.
L’umanesimo latino-cattolico, invece, non ha mai smesso di mescolare dono e contratto, grazia e mercato, profitto e gratuità, e l’economia cooperativa, l’impresa famigliare e la cosiddetta Economia civile sono comprensibili solo all’interno di un umanesimo meticcio, con le sue tipiche ferite e benedizioni - come ho cercato di dimostrare nel mio ultimo saggio Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo, Egea Bocconi 2015. Il nostro tempo sta conoscendo un appiattimento delle differenze regionali, del genius loci dei diversi capitalismi, sotto l’incedere di una ideologia che ci sta convincendo che il capitalismo «buono» è uno solo, quello costruito attorno agli incentivi, all’individuo e all’efficienza, i tipici valori dell’umanesimo protestante, relegando così il dono e i suoi valori in una sfera sempre più angusta e irrilevante.
Il dono è una cosa molto seria. E’ diventato quasi impossibile parlare bene oggi del dono, perché lo abbiamo messo in un angolo, e ridotto a ben poca cosa, soprattutto nella sfera pubblica, civile, economica. L’attacco al dono è comunque cosa antica. Abbiamo iniziato a relegarlo in ambiti molto angusti quando, anche per responsabilità di una certa teologia cristiana, tra l’Umanesimo e la modernità abbiamo iniziato a pensare che la giustizia fosse veramente essenziale per la costruzione di una buona società, e che, invece, la carità fosse un di più. La giustizia - abbiamo pensato e scritto - chiede di dare a ciascuno il suo, la carità di andare oltre il proprio. La giustizia è necessaria, la carità è facoltativa. La giustizia è essenziale, la carità volontaria, quindi inessenziale. La giustizia è importante, la carità superflua.
Il passo verso l’inutilità della carità è stato immediato, e così abbiamo immaginato una giustizia possibile senza agape, e una vita in comune buona senza amore civile. Abbiamo pensato che la carità/agape/amore potesse essere utile in alcuni ambiti specialistici - famiglia, le chiese, un certo non-profit, nella gestione delle emergenze umanitarie ... - ma che per la vita ordinaria pubblica ci bastasse la giustizia, che è già cosa molto ardua. I contratti e gli interessi sono necessari, il dono no: ci viene sempre più presentato come qualcosa di carino, il limoncello alla fine di una cena, che se c ’è fa piacere, ma se non c ’è in fondo nessuno se n ’accorge (tranne, nel lungo periodo, i produttori di limoncello). Il dono nella nostra società finisce per pesare per il 5 o l’8 per mille, e dobbiamo anche scontare l’evasione fiscale.
Il primo colpo, quasi mortale, al dono lo abbiamo allora dato quando, ormai da un po’ di anni, abbiamo ridotto la carità all’elemosina, alle donazioni, alla filantropia, alle offerte in chiesa, alle pesche di beneficienza o (molto più recentemente) ai due euro degli SMS umanitari. Abbiamo così, e nel giro di qualche decennio, annullato quell’operazione mirabile che fecero i cristiani dei primi secoli, quando scelsero di tradurre agape (l’amore gratuito) con charitas.
La caritas (senza h ) era, nel tardo latino, una parola economica - è antico il rapporto tra dono e mercato. Era usata dai mercanti per indicare il valore delle cose: un bene era caro se valeva e costava molto, come diciamo ancora oggi. Ai cristiani, in cerca di una parola latina per tradurre l’amore-agape, una parola diversa da amor (troppo vicino all’eros greco), trovarono in caritas una buona soluzione. Ma volevano differenziarla, almeno un po’, dalla parola economica del loro tempo. E così vi aggiunsero quella ‘h’, che era tutt’altro che muta, perché voleva dirci una cosa importante: charitas traduce le due grandi parole greche su cui si stava fondando la chistianitas (ancora questo ch): agape e charis, amore e gratuità, grazia. In quella charitas c’era praticamente quasi tutto: le vite donate dai martiri del loro tempo, gran parte dell’insegnamento delle lettere di Paolo, il kerigma dei vangeli; ma c ’era soprattutto un messaggio: la persona umana è capace di charitas, perché è capace di amare oltre l’eros e oltre la già grande philia (amicizia). È capace di oltrepassare il registro della condizionalità, persino oltre quel bisogno radicale di reciprocità che muove il mondo, e anche le stelle.
Questo era il dono: agape, charis, charitas. Questo non è più il dono nella nostra società. Cose, parole, realtà, che hanno generato, come ingredienti coessenziali, Notre Dame de Paris, il Duomo di Milano, gli affreschi di Signorelli a Orvieto e quelli di Michelangelo a Roma, la cappella Baglioni a Spello, le prime scuole per le ragazze povere a Viterbo, Barbiana, tante Costituzioni democratiche, le casse rurali che ci hanno salvato dalla miseria dei campi e generato il miracolo economico, una casa e un cuore per i disperati di Calcutta. E questo continua ad essere ancora in alcune periferie della nostra civiltà il dono: una energia straordinaria che continua a far nascere, per motivazioni più grandi del denaro, molte istituzioni, associazioni, cooperative, imprese. Che continua a farci alzare al mattino per andare a lavorare, per soffrire molto quando perdiamo il lavoro, perché smettendo di lavorare smettiamo non solo di percepire un reddito, ma non possiamo più donare la nostra vita lavorando, e ci fa gioire molto quando il lavoro lo ritroviamo. Tutto questo è il dono, ma non lo vediamo più. Se vogliamo veramente cominciare a sognare e costruire una nuova civiltà, prima di prevedere gli incentivi, gli sgravi fiscali e la crescita del PIL, dobbiamo tornare a vedere quella cosa molto seria che si chiama dono.
* Cfr. [DOC] 151028_BCC_Quella cosa molto seria che si chiama dono.docx
www.consorziofarsiprossimo.org/il-contenuto-della-chiavetta.../14-bruni?...bruni
* Cfr.INTRODUZIONE a Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo
DUE CRISTIANESIMI: COSA RESTA?! IL CRISTIANESIMO DEL "DEUS CHARITAS EST" O IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO DEL "DEUS CARITAS EST"?! O nessuo dei due?!
INNANZITUTTO UN GRAN PLAUSO al prof . Armando Polito per il coraggioso intervento chiarificatorio sul tema (cfr. "Mesagne: Luca Antonio Resta, il vescovo e l’Affumicato":Fondazione Terra d’Otranto, 08/11/2017) e, al contempo, un modesto invito a riconsiderare i termini di una questione filologica e teologica di rilevantisima portata che ha il suo luogo di riferimento innanzitutto nei testi dell’evangelista Giovanni e poi nel famoso "INNO ALLA CARITÀ" di Paolo di Tarso, il romano persecutore dei cristiani (cfr.: MEMORIA FILOLOGICA E TEOLOGICA. GESU’, IL FIGLIO DELLA GRAZIA EVANGELICA ("CHARITAS") O IL "TESORO" DI "MAMMONA" ("CARITAS") E DI "MAMMASANTISSIMA" DEI FARAONI ?!!)
Come sappiamo da sempre, non si possono servire "due padroni", la Verità e la Menzogna contemporaneamente, "Dio Amore" e Dio Mammona" nello stesso tempo!!! Ciò che è in gioco è la questione delle questioni, quella stessa dell "ragione" e della "fede" unitamente, a tutti i livelli.
"CHARITAS" o "CARITAS"? COSA RESTA?!
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori.
MURATORI E RATZINGER: "DEUS CARITAS EST"!!! FINE DEL CRISTIANESIMO: TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
SE UN PAPA TEOLOGO SCRIVE LA SUA PRIMA ENCICLICA, TITOLANDOLA "DEUS CARITAS EST" ("CHARITAS", SENZA "H"), E’ ORA CHE TORNI A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO; E CERCHI DI SAPERE "CHI" SIAMO NOI IN REALTÀ.
Federico La Sala
IN MEMORIA DI SANT’AGOSTINO (E IN ONORE DEL LAVORO DELLA FONDAZIONE "TERRA D’OTRANTO").
"ECCO DA DOVE COMINCIA L’AMORE" ("ECCE UNDE INCIPIT CHARITAS"), DALLA GRAZIA ("gr.: "XAPIS", lat.: "CHARIS") DI DIO AMORE ("CHARITAS"), NON DI DIO MAMMONA ("CARITAS") ...
Lode a Marcello Gaballo per questo bellissima e preziosa nota su "L’affresco di sant’Agostino nella cattedrale di Nardò" (cfr.: http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/08/28/laffresco-di-santagostino-nella-cattedrale-di-nardo/#_ftn1) - e il lavoro di De Giorgi: la sua trascrizione della scritta sul cartiglio (ormai scomparsa) "iuste/et cas/te viv/ere et/ xarita(te)" - contrariamente alla protervia che ha portato allo "sproposito maiuscolo" e alla brutta abitudine instauratasi almeno a partire da Ludovico A, Muratori di una "caritas" latina! - conserva ancora la memoria del legame della tradizione dell’evangelo (non: "vangelo"!) con la lingua greca ("charis", "charites"... "charitas").
FILOLOGIA E FILOSOFIA/TEOLOGIA. Giambattista Vico ("De constantia iurisprudentis", 1721) giustamente e correttamente e onestamente così pensava e scriveva: "Solo la carità cristiana insegna la prassi del Bene metafisico"("Boni metaphysici praxim una charitas christiana docet"). Sapeva che Gesù ("Christo") aveva cacciato i mercanti FUORI dal tempio, e non aveva autorizzato i sacerdoti a vendere a "caro-prezzo" (lat.: "caritas") la "grazia" (gr.: "Xapis", lat.: "Charis") di Dio (lat.: "Charitas")!!! Due padroni: Dio "Charitas" o dio "Caritas"?!, Dio Amore o dio Mammona?! In questo bivio ("X") ancora siamo, oggi - e ancora non sappiamo sciogliere l’incognita (""x")!
Sul tema, mi sia consentito, si cfr. la seguente nota:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO. Un breve testo dalla "Prefazione ai lettori" del "Trattato sulla carità cristiana" di Ludovico A. Muratori
MURATORI E RATZINGER. "DEUS CARITAS EST": FINE DEL CRISTIANESIMO. TOLTA AL PESCE ("I.CH.TH.U.S.") L’ ACCA ("H"), IL COLPO ("ICTUS") E’ DEFINITIVO!!!
Federico La Sala
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI. "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA.
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
La dottrina della Trinità si può spiegare con una parola: amore
di Mons. Marcello Semeraro *
Otto giorni dopo Pentecoste, la Chiesa cattolica celebra la festa della Santissima Trinità. Per la Chiesa, in realtà, ogni liturgia è sempre lode al Padre mediante il suo Figlio Gesù nella comunione dello Spirito e pure invocazione di ogni dono dalla stessa Trinità. Tutto è sinteticamente evocato da quanto si legge nella II lettera di san Paolo ai Corinti e costituisce oramai il saluto abituale con il quale si apre ogni celebrazione liturgica: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore del Padre e la comunione dello Spirito Santo”. La sequenza di grazia/amore/comunione non è ispirata da una teoria astratta, bensì dalla storia evocata da quel che leggiamo nel Vangelo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto... perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”.
Ecco, questo evento dell’avere “donato” il proprio unico Figlio e, come si legge subito dopo, di avere “mandato” il Figlio nel mondo, insieme con quanto similmente è detto dello Spirito (ad esempio, nella lettera ai Galati 4,6: “Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio”) ... proprio questo è il punto di partenza, la categoria fondamentale della dottrina cristiana della Trinità. Convinzione che nasce da un’esperienza, che è specificità assoluta della fede cristiana così da offrire la possibilità di distinguere ciò che è cristiano, da ciò che non lo è.
La confessione trinitaria è la forma cristiana del monoteismo. A chi domandasse dove sia il tema unificante le tre letture bibliche indicate dal lezionario per la Messa di questa Domenica, dovremmo rispondere che sta nella parola amore!
Consideriamo l’autoidentificazione di Dio a Mosè: “Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Esodo 34,6). Paolo scrive: “Dio dell’amore”. Abbiamo qui una chiave per intuire qualcosa del mistero della Trinità: nell’amore tutto è unificato. Annotava Pascal: “La moltitudine che non si riduce all’unità è confusione; l’unità che non dipende dalla moltitudine è tirannia” (Pens. 871). In Dio è l’amore a mediare l’unità e la molteplicità. Nella tradizione dell’Oriente cristiano l’icona principe di questo mistero è quella di Rublev, al punto che Pavel Florenski ha potuto esclamare: “Esiste la Trinità di Rublev, dunque Dio esiste”! L’icona evoca la visita ad Abramo di tre pellegrini narrata nel libro della Genesi (cap. 18). Il mistero che da lì traluce è una comunione di amore. In tale prospettiva, alla domanda ‘chi è il cristiano?’ la risposta non potrà che essere la seguente: uno che ha creduto all’amore.
Esattamente in questo senso nella sua prima lettera enciclica Benedetto XVI ha sottolineato che all’inizio dell’essere cristiano non c’è né una grande idea, né una decisione etica, ma l’incontro con una Persona che dà alla vita un nuovo orizzonte e una direzione decisiva.
Papa Ratzinger citava poi il passo del Vangelo: “Dio ha tanto amato il mondo...” e lo commentava così: “Con la centralità dell’amore, la fede cristiana ha accolto quello che era il nucleo della fede d’Israele e al contempo ha dato a questo nucleo una nuova profondità e ampiezza. Gesù ha unito, facendone un unico precetto, il comandamento dell’amore di Dio con quello dell’amore del prossimo contenuto nel Levitico. Siccome Dio ci ha amati per primo, l’amore adesso non è più solo un ‘comandamento’, ma la risposta al dono dell’amore col quale Dio ci viene incontro”. Importante è pure come egli conclude: “In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto” (Deus caritas est n. 1).
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di Mons. Marcello Semeraro Vescovo di Albano
Il secondo giorno al Cairo
Il Papa: «L’unico estremismo ammesso per un credente è la carità»
Francesco ha concluso il suo viaggio in Egitto con la Messa con 30mila fedeli cattolici allo stadio militare del Cairo e l’incontro con i religiosi: «Siate luce tra profeti di distruzione»
di Redazione Internet *
Il secondo giorno al Cairo di Papa Francesco è dedicato alla piccola comunità cattolica egiziana (lo 0,30% circa della popolazione). Alle 10 è cominciata la Messa (in latino e arabo) nello stadio militare, davanti a circa 30mila tra fedeli cattolici, pellegrini, ma anche ortodossi e musulmani che lo hanno accolto con canti, striscioni di benvenuto, palloncini bianchi e gialli come i colori della bandiera del Vaticano, e con bandiere dell’Egitto. Ad accoglierlo, il patriarca copto cattolico Ibrahim Isaac Sidrak.
"Dio gradisce solo la fede professata con la vita, perché l`unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità! Qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!". Così papa Francesco durante l’omelia pronunciata nel corso della celebrazione eucaristica all’Air Defense Stadium de Il Cairo.
"La fede vera - ha aggiunto il Papa - è quella che ci rende più caritatevoli, più misericordiosi, più onesti e più umani; è quella che anima i cuori per portarli ad amare tutti gratuitamente, senza distinzione e senza preferenze; è quella che ci porta a vedere nell`altro non un nemico da sconfiggere, ma un fratello da amare, da servire e da aiutare; è quella che ci porta a diffondere, a difendere e a vivere la cultura dell`incontro, del dialogo, del rispetto e della fratellanza; ci porta al coraggio di perdonare chi ci offende, di dare una mano a chi è caduto; a vestire chi è nudo, a sfamare l`affamato, a visitare il carcerato, ad aiutare l`orfano, a dar da bere all`assetato, a soccorrere l`anziano e il bisognoso. La vera fede è quella che ci porta a proteggere i diritti degli altri, con la stessa forza e con lo stesso entusiasmo con cui difendiamo i nostri. In realtà, più si cresce nella fede e nella conoscenza, più si cresce nell`umiltà e nella consapevolezza di essere piccoli".
"Quante volte l’uomo si auto-paralizza, rifiutando di superare la propria idea di Dio, di un Dio creato a immagine e somiglianza dell’uomo! Quante volte si dispera, rifiutando di credere che l’onnipotenza di Dio non è onnipotenza di forza, di autorità, ma è soltanto onnipotenza di amore, di perdono e di vita! - ha detto il Papa nell’omelia, pronunciata in italiano - I discepoli riconobbero Gesù ’nello spezzare il pane’, nell’Eucaristia. Se noi non ci lasciamo spezzare il velo che offusca i nostri occhi, se non ci lasciamo spezzare l’indurimento del nostro cuore e dei nostri pregiudizi, non potremo mai riconoscere il volto di Dio"
Perciò, ha continuato, «non serve pregare se la nostra preghiera rivolta a Dio non si trasforma in amore rivolto al fratello: non serve tanta religiosità se non è animata da tanta fede e da tanta carità». «È meglio non credere che essere un falso credente, un ipocrita!».
Lo stadio militare è parte del villaggio dello sport dell’aeronautica, costruito e gestito dal ministero della Difesa per celebrare la difesa aerea egiziana durante la guerra del 1970 contro Israele. Un coro, al passaggio della vettura del Papa ha intonato il Laudato Si’, per ricordare la visita di San Francesco d’Assisi che nel settembre del 1219 visitò il sultano d’Egitto Malik al Kamil per un colloquio storico, avvenuto a Damietta, a pochi chilometri di distanza dal Cairo, che fu il primo grande passo nel dialogo interreligioso con il mondo islamico.
Dopo il pranzo alla Nunziatura apostolica del Cairo con i 15 vescovi copto cattolici, papa Francesco si è trasferito in auto al Seminario patriarcale Al-Maadi, nella periferia sud della capitale egiziana, dove ha incontrato il clero, i religiosi, le religiose e i seminaristi - in tutto 1.500 persone-, ultimo appuntamento della sua visita di due giorni in Egitto.
"Sono felice di salutare in voi, sacerdoti, consacrati e consacrate del piccolo gregge cattolico in Egitto, il lievito che Dio prepara per questa Terra benedetta, perché, insieme ai nostri fratelli ortodossi,cresca in essa il suo Regno". "Non abbiate paura del peso del quotidiano, del peso delle circostanze difficili che alcuni di voi devono attraversare". "In mezzo a tanti motivi di scoraggiamento e tra tanti profeti di distruzione e di condanna, in mezzo a tante voci negative e disperate, voi siate una forza positiva, siate luce e sale di questa società; siate il locomotore che traina il treno in avanti, diritto verso la mèta; siate seminatori di speranza, costruttori di ponti e operatori di dialogo e di concordia", ha detto il Papa.
Secondo il Papa, "il Buon pastore ha il dovere di guidare il gregge", e "non può farsi trascinare dalla delusione e dal pessimismo". Inoltre, "è facile accusare sempre gli altri, per le mancanze dei superiori, per le condizioni ecclesiastiche o sociali, per le scarse possibilità", ma il consacrato è colui che "trasforma ogni ostacolo in opportunità, e non ogni difficoltà in scusa!". Francesco ha puntato il dito anche contro il "pericolo serio" del consacrato che "invece di aiutare i piccoli a crescere e a gioire per i successi dei fratelli e delle sorelle, si lascia dominare dall’invidia e diventa uno che ferisce gli altri col pettegolezzo": "L’invidia - ha detto - è un cancro che rovina qualsiasi corpo in poco tempo", e "il pettegolezzo ne è il mezzo e l’arma".
Il Papa ha messo in guardia sacerdoti, religiosi, seminaristi egiziani dal "faraonismo" in cui può cadere chi sceglie l’ordinazione o la consacrazione. Il Papa ha parlato della "tentazione del faraonismo... siamo in Egitto!, cioè dell`indurire il cuore e del chiuderlo al Signore e ai fratelli", la tentazione dell`individualismo" e "la tentazione del camminare senza bussola e senza mèta". "Senza avere un`identità chiara e solida - ha poi specificato - il consacrato cammina senza orientamento e invece di guidare gli altri li disperde".
"L`Egitto ha contribuito ad arricchire la Chiesa con il tesoro inestimabile della vita monastica", ha concluso il Papa salutando sacerdoti, religiosi e seminaristi egiziani. "Vi esorto, pertanto, ad attingere dall`esempio di San Paolo l`eremita, di Sant`Antonio, dei Santi Padri del deserto, dei numerosi monaci, che con la loro vita e il loro esempio hanno aperto le porte del cielo a tanti fratelli e sorelle, e così anche voi potete essere luce e sale, motivo cioè di salvezza per voi stessi e per tutti gli altri, credenti e non, e specialmente per gli ultimi, i bisognosi, gli abbandonati e gli scartati".
Prima di congedarsi al Cairo, ancora un breve incontro con il presidente sl Sisi nella sala d’onore dell’aeroporto. Al din lillah wa al watan lilgiamià, la fede è per Dio, la Patria è per tutti.
* Avvenire, sabato 29 aprile 2017 (ripresa parziale).
La Casa Bianca toglie la "h" a Theresa May e la fa diventare una star del soft porno *
Nuova gaffe dell’amministrazione Trump in politica estera. Dopo aver confuso il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop per il premier Malcolm Turnbull, l’ufficio stampa della Casa Bianca ha ’dimenticato’ la ’h’ nel nome della premier britannica Theresa May. Risultato: in due documenti l’inquilina di Downing Street è diventata la nota star del soft-porn Teresa May.
L’errore, poi corretto, è stato ripetuto due volte nel comunicato di ieri con il quale la Casa Bianca annunciava l’agenda odierna degli incontri Trump-May e una volta in un comunicato dell’ufficio del vice presidente.
"Nel pomeriggio il presidente parteciperà ad un incontro bilaterale con il primo ministro del Regno Unito, Teresa May", recitava la nota dell’ufficio stampa della Casa Bianca. E qualche riga dopo la ’h’ era di nuovo sparita nel previsto "pranzo di lavoro con Teresa May...".
Ancora una volta, nella nota dell’ufficio di Mike Pence il nome di battesimo di May è diventato quello della star di un video per la canzone Smack My Bitch Up del gruppo The Prodigy.
"È per questo che Donald Trump era eccitato di incontrarla?", commenta ironico il tabloid britannico Mail online riferendosi al previsto colloquio di oggi tra il neo presidente e la premier britannica a Washington. Sempre ieri, ricorda il Mail online, in un altro comunicato la Casa Bianca ha definito il ministro degli Esteri australiano Julie Bishop il ’primo ministro degli Esteri’ del Paese.
«L’Eucaristia è il centro e la forma della vita della Chiesa» Papa Francesco:
ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE AMORIS LAETITIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI VESCOVI AI PRESBITERI E AI DIACONI ALLE PERSONE CONSACRATE AGLI SPOSI CRISTIANI E A TUTTI I FEDELI LAICI SULL’AMORE NELLA FAMIGLIA
NEL CAPITOLO TERZO DELL’ "AMORIS LAETIZIA", intitolato "LO SGUARDO RIVOLTO A GESÙ: LA VOCAZIONE DELLA FAMIGLIA") così è scritto:
"(...) 70. «Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus caritas est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cfr 2). Egli ribadisce come “il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano” (11). Inoltre, nell’Enciclica Caritas in veritate, evidenzia l’importanza dell’amore come principio di vita nella società (cfr 44), luogo in cui s’impara l’esperienza del bene comune» (...)".
LA VERITA’ DELL’AMORE DEL "DIO MAMMONA" ("DEUS CARITAS") O LA VERITA’ DELL’AMORE DI "DIO AMORE" ("DEUS CHARITAS"?!:
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006).
Un appello del teologo Hans Küng a Francesco per annullare il dogma
Aboliamo l’infallibilità del Papa
di Hans Küng (la Repubblica, 09.03.2016)
È difficile immaginare che papa Francesco avrebbe fortemente voluto una proclamazione della infallibilità papale come quella che nel diciannovesimo secolo venne sollecitata da Pio IX con ogni mezzo. Si può invece ritenere che Francesco (come fece a suo tempo Giovanni XXIII davanti agli studenti del collegio greco) dichiarerebbe sorridendo: «Io non sono infallibile». Di fronte allo stupore degli studenti, Giovanni aveva aggiunto: «Sono infallibile solo quando parlo ex cathedra, ma non parlerò mai ex cathedra». Questo tema mi è familiare da tempo. Ecco qualche importante dato storico, che ho acquisito di persona e ho meticolosamente documentato nel quinto volume delle mie opere complete.
1950: Il 1° novembre Pio XII proclama come dogma di fronte a una folla gigantesca: «L’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo». Allora, studente ventiduenne di teologia, accolsi con entusiasmo questo evento. Fu dunque un primo infallibile pronunciamento ex cathedra del supremo maestro e pastore della Chiesa cattolica, il quale si appellò alla particolare assistenza dello Spirito Santo, in piena conformità alla proclamazione dell’infallibilità papale avvenuta nel Concilio Vaticano I!
1958: Con la morte di Pio XII giunge alla fine anche il secolo dell’eccessivo culto di Maria promosso dai papi “Pii“. Il suo successore Giovanni XXIII è contrario a nuovi dogmi e la maggioranza del Concilio decide con una votazione aperta di non promulgare un proprio decreto su Maria, anzi, mette in guardia da manifestazioni esagerate di devozione mariana. 1965: Nella costituzione pastorale sulla Chiesa si trova - capitolo III sulla gerarchia - l’articolo 25 sull’infallibilità, che però sorprendentemente non viene affatto discusso. Tanto più che di fatto il Vaticano II ha proceduto a un allargamento sconcertante, estendendo espressamente e senza motivazione all’episcopato quell’infallibilità che il Vaticano I aveva attribuito solo al papa.
1968: Appare l’Enciclica Humanae Vitae sulla regolazione delle nascite. L’enciclica, che vieta come peccato grave non solo la pillola e i mezzi meccanici, ma anche l’interruzione del rapporto sessuale per evitare una gravidanza, viene percepita come un’enorme provocazione. Con essa il papa si pone in contrasto, per così dire, con tutto il mondo civilizzato, richiamandosi al suo infallibile magistero e a quello dell’episcopato. Certo, le proteste formali e le obiezioni materiali sono importanti, ma questa pretesa di infallibilità delle dottrine papali non può proprio essere riesaminata a fondo? Ne faccio un tema di discussione nel mio libro Infallibile? Una domanda, del 1970.
1979/1980: Revoca della mia abilitazione alla docenza in teologia cattolica. Che si trattasse di un’azione segreta preparata nel minimo dettaglio, dimostratasi contestabile sul piano giuridico, infondata su quello teologico e controproducente su quello politico, è ampiamente documentato nel secondo volume delle mie memorie, Verità contestata. A quel tempo il dibattito si soffermò a lungo su questa revoca della mia missio e sulla infallibilità. Tuttavia, la mia considerazione nella comunità religiosa non poté essere distrutta. E, come avevo previsto, le discussioni sui grandi compiti della riforma non sono cessate. Mi riferisco al dialogo interconfessionale, al reciproco riconoscimento delle funzioni e delle celebrazioni eucaristiche, alle questioni del divorzio e dell’ordinazione sacerdotale delle donne, al celibato ecclesiastico e alla drammatica crisi delle vocazioni, e soprattutto alla guida della Chiesa cattolica. Posi la questione: «Dove state portando questa nostra Chiesa?».
Dopo 35 anni, questi interrogativi sono attuali ora come allora. Ma la ragione decisiva dell’incapacità di realizzare riforme a tutti questi livelli continua ad essere la dottrina dell’infallibilità del magisterio, che ha portato alla nostra Chiesa un lungo inverno. Come allora Giovanni XXIII, anche oggi papa Francesco cerca con tutte le forze di far soffiare un vento fresco sulla Chiesa. E deve scontrarsi con una forte resistenza, come in occasione dell’ultimo sinodo mondiale dei vescovi dell’ottobre 2015. Non ci si faccia illusioni, senza una “re-visione” costruttiva del dogma dell’infallibilità un reale rinnovamento sarà ben difficilmente possibile.
Tanto più sorprendente, allora, è che la discussione su questo tema sia scomparsa dallo schermo. Molti teologi cattolici, temendo sanzioni come quelle che hanno colpito me, hanno quasi rinunciato a esprimere posizioni critiche sull’ideologia dell’infallibilità, e la gerarchia cerca, per quanto possibile, di evitare un tema così impopolare nella Chiesa e nella società. Solo poche volte Joseph Ratzinger vi si è richiamato, nella sua veste di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Ma, tacitamente, il tabù dell’infallibilità ha bloccato tutte le riforme che, a partire dal Concilio Vaticano II, avevano sollecitato una revisione di precedenti definizioni dogmatiche.
2016: È il mio ottantottesimo anno di vita, e posso dire di non essermi risparmiato per raccogliere i numerosi testi compresi nel quinto volume delle mie opere complete. Ora, con questo libro in mano, vorrei rivolgere di nuovo al papa un appello che ho più volte inutilmente lanciato nel corso di una discussione pluridecennale in materia di teologia e di politica della Chiesa. Imploro papa Francesco, che mi ha sempre risposto in modo fraterno: «Riceva questa ampia documentazione e consenta nella nostra Chiesa una discussione libera, non prevenuta e aperta su tutte le questioni irrisolte e rimosse legate al dogma dell’infallibilità. Non si tratta di banale relativismo, che mina i fondamenti etici della Chiesa e della società. E nemmeno di rigido e insulso dogmatismo legato all’interpretazione letterale. È in gioco il bene della Chiesa e dell’ecumene.
Sono ben consapevole che a lei, che vive “tra i lupi“, questa mia preghiera potrà sembrare poco opportuna. Ma lo scorso anno lei ha coraggiosamente affrontato malattie curiali e perfino scandali, e nel suo discorso di Natale del 21 dicembre 2015 alla curia romana ha ribadito la sua volontà di riforma: “Sembra doveroso affermare che ciò è stato - e lo sarà sempre - oggetto di sincera riflessione e decisivi provvedimenti. La riforma andrà avanti con determinazione, lucidità e risolutezza, perché Ecclesia semper reformanda”.
Non vorrei accrescere in modo irrealistico le aspettative di molti nella nostra Chiesa; la questione dell’infallibilità nella Chiesa cattolica non può essere risolta dal giorno alla notte. Ma per fortuna lei è più giovane di me di quasi dieci anni e, come tutti ci auguriamo, mi sopravvivrà.
E certamente comprenderà che io, da teologo alla fine dei miei giorni, sostenuto da una profonda simpatia per lei e per la sua azione pastorale, abbia voluto, finché sono in tempo, esporre la mia preghiera per una libera e seria discussione sull’infallibilità, motivata come meglio posso nel presente volume: non in destructionem, sed in aedificationem ecclesiae, “non per la distruzione, ma per l’edificazione della Chiesa“. Per me personalmente sarebbe la realizzazione di una speranza mai abbandonata». (Traduzione di Carlo Sandrelli)
DOPO L’ANNO DELLA PAROLA (2008), L’ANNO DEL SACERDOTE DI "MAMMONA" ("CARITAS"):
Papa Francesco, scritto di suo pugno il titolo del libro che uscirà a gennaio *
È autografo il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli, ’Il nome di Dio è Misericordia’, in uscita il 12 gennaio, in occasione del Giubileo straordinario. Il Pontefice ha voluto vergare si suo pugno le copertine delle sei edizioni in lingua italiana, inglese, francese, tedesca, spagnola e portoghese. Sono 17 gli editori coinvolti nel lancio in contemporanea mondiale del libro in 84 Paesi e che in Italia sarà pubblicato da Piemme.
Le sfide del cristianesimo, la minaccia dell’Is, il ruolo femminile e il pontificato di Francesco.
Intervista al priore di Bose che da oggi ospita il Convegno Ecumenico di spiritualità ortodossa dedicato a "Misericordia e perdono"
La Chiesa del futuro
Enzo Bianchi: "Critichiamo l’Islam, ma poi emarginiamo le donne".
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 9 settembre 2015)
«Il papa ha lanciato l’allarme già due anni fa, dopo la visita a Lampedusa. È rimasto inascoltato e credo che anche questo suo nuovo appello lo sarà. Il fastidio di un certo clero verrà magari dissimulato dall’ipocrisia religiosa, che è la più bieca e spaventosa di tutte». Siamo a Bose, alla vigilia dell’apertura dell’annuale convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, e il priore Enzo Bianchi commenta l’esortazione di Bergoglio ad accogliere nelle parrocchie i rifugiati del grande movimento di popoli di cui quest’estate, con i suoi avvenimenti sconvolgenti, sembra avere cambiato la percezione generale. «Un mese fa il vescovo di Crema ha chiesto di ospitare i rifugiati in locali adiacenti a una scuola cattolica, è stato contestato dalle famiglie. La situazione italiana è una vergogna, soprattutto nelle regioni tradizionalmente più cattoliche, il Veneto e la Lombardia».
Il rifiuto è più sociale o più confessionale?
«Quello confessionale l’hanno gridato a suo tempo il cardinal Biffi e il vescovo Maggiolini, secondo cui bisognava eventualmente accogliere solo i cristiani. Ma il problema è la vera e propria fabbrica di paura dei barbari, edificata da forze politiche attente solo all’interesse locale, forze che prima di Francesco la chiesa italiana ha assecondato, anche se all’inizio sembravano assumere riti pagani, precristiani, quelli sì barbarici. Ora si proclamano cattolici ma io li chiamo cristiani del campanile. Il grande silenzio di una chiesa complice li ha aiutati a iniettare nel tessuto sociale del territorio il veleno della xenofobia».
Guardiamo gli eventi nella misura dei millenni di storia anche ecclesiastica, parliamo del V secolo, quando alle cosiddette invasioni barbariche si è affiancata l’assunzione del cristianesimo a religione di stato.
«Quando con Teodosio il cristianesimo è diventato religione dello stato imperiale la furia dei monaci - lo dico con dolore, mi strappa il cuore - ha distrutto i templi pagani, fatto uno scempio di opere d’arte non diverso da quello dell’Is, ma ben più vasto. È il motivo per cui san Basilio non ha mai usato nei suoi scritti la parola "monaco": designava integralisti violenti, i talebani del momento. Guardando i secoli mi permetto di dire, pur con tutte le differenze: vediamo che altri rifanno a noi quello che abbiamo fatto».
Come ad Alessandria d’Egitto, quando fu distrutto il Serapeo e i parabalani del vescovo Cirillo assassinarono Ipazia. Nel "Libro dei testimoni", lo straordinario martirologio ecumenico di Bose, questa martire pagana potrebbe trovare posto?
«Sì, come tutti coloro che - da Buddha a Savonarola, da Rumi a Gandhi - in qualunque religione o anche all’esterno hanno perseverato in una posizione di umanità e di tolleranza. La dottrina cattolica del Vaticano II ribadisce con chiarezza che la coscienza prevale su qualsiasi autorità, anche su quella papale».
Torniamo ai movimenti di popoli della cosiddetta fine dell’antichità.
«Con saggezza papa Gregorio Magno chiese accoglienza per i barbari in arrivo dando un’unica dignità a stranieri e latini, che si espresse nel monachesimo benedettino e fece fiorire il cristianesimo, allora esangue soprattutto in occidente. La storia serve da un lato a non stupirci dell’intolleranza, dall’altro a spegnerla richiamandoci alla razionalità, che oggi significa mostrare ai popoli dell’oriente postcoloniale che gli riconosciamo soggettività, dignità, diritto di sedere alla tavola delle genti, anziché continuare a sfruttarli economicamente».
La memoria storica ecclesiastica, la conoscenza delle ere passate di cui si nutre, non ha anche il dovere di ricordare a tutti l’onda lunga della tolleranza islamica?
«Al tempo della conquista musulmana i cristiani del Medio Oriente hanno aperto le porte delle loro città agli arabi che portavano libertà di culto e affrancavano dalle angherie economiche del governo imperiale cristiano. La convivenza di cristiani, ebrei e musulmani nel corso del medioevo islamico ha fatto fiorire momenti di cultura straordinari, come nel mondo sufita, che conosco bene. L’islam è una religione di pace e mitezza con una mistica di forza pari a quella cristiana. Se nel Corano ci sono testi di violenza, non sono molto diversi da quelli che troviamo nella Bibbia e che ci fanno inorridire. La lettura integralista della Bibbia può rendere integralisti quanto quella del Corano. L’esegesi storico-critica delle scritture, cui il cristianesimo è approdato con fatica e subendo terribili condanne dell’autorità ecclesiastica, è il primo passo di un lungo cammino che aspetta anche i musulmani. Nel frattempo servono ascolto, dialogo, seri studi universitari per dissipare la propaganda ideologica che attecchisce sull’ignoranza: non è vero che l’islam è una religione della violenza e della jihad, affermarlo serve solo a giustificare la nostra nei suoi confronti».
Dai Buddha di Bamyan al tempio di Bel a Palmira, il nostro secolo assiste ad atti islamisti di cancellazione del passato dal contenuto altamente simbolico. Ma non è chiaro quanta parte effettiva vi abbia la religione o la religiosità.
«Una parte minima. Il problema non è religioso, è sociale ed economico. Gli integralisti islamici, anche abbattendo una chiesa, non mirano tanto a offendere la fede cristiana quanto a colpire l’occidente. Un pacifico abitante di Palmira mi ha detto: "Voi occidentali, piangendo la distruzione di templi etichettati dall’Unesco, date l’idea di averli più cari della nostra popolazione. Cosi li fate diventare una protesi dell’occidente nella nostra terra". Mostrando di tenere così tanto a un pezzo di colonna - giustamente, perché è segno di un cammino di umanizzazione - ma facendo saltare in aria le persone nelle guerre da noi scatenate in Iraq, in Siria, in Libia, finiamo per apparire mostruosi. Certo le distruzioni dell’Is sono crimini contro l’umanità oltre che contro la cultura e la dignità dei monumenti va difesa, ma abbiamo la stessa forza nel difendere le popolazioni perché non soccombano alle nostre armi o non trovino vie di morte nella migrazione?».
I popoli sono in marcia e un’ibridazione, che la si voglia o no, dovrà avvenire, perché questa è la storia. Il che pone anche specifici problemi sociali come quello del ruolo della donna: l’islam impone il velo, ma non trovi che anche nella chiesa cristiana ci sia un ritardo?
«Si dice sbrigativamente che certi musulmani siano ancora nel medioevo. Ma il velo completo per le suore di clausura è stato abolito solo nel 1982. È molto recente la presa di coscienza della pari dignità della donna e dell’uomo nel cristianesimo, che non ha ancora nemmeno il linguaggio per esprimerla. La soggezione delle donne agli uomini è un retaggio scritturale nell’islam, ma è presente anche nelle nostre scritture: san Paolo afferma che le donne non devono assolutamente parlare nell’assemblea della chiesa e devono stare a capo coperto. Di nuovo, serve una rilettura storico-critica di tutti i libri sacri, per scorgerne l’intenzione e non le forme. Nella chiesa c’è buona volontà ma poi della donna si hanno immagini irreali: il modello di Maria, vergine e madre, che non può essere il riferimento per una promozione della donna nella chiesa; l’idea, insinuata per moda, che la Madonna sia più importante di San Pietro, idea insipiente come dire che la ruota in un carro è più importante del volano... Non siamo ancora capaci di prendere sul serio l’uguaglianza indubbia tra uomini e donne. Il cammino per la chiesa è ancora lunghissimo perché ovunque ci sia un esercizio di comando restano gli uomini, mentre le donne sono confinate al servizio umile».
Il convegno che si apre oggi è dedicato a "Misericordia e perdono": sono istanze che, dall’ambito ecclesiale cui appartengono, possono suggerire prassi anche giuridiche e sociali?
«Declinare la giustizia con il perdono, anche a livello politico, è un’esigenza che già Giovanni Paolo II aveva evocato con forza in un suo messaggio per la Giornata della pace. L’insistenza di papa Francesco sulla pratica della misericordia, vissuta nei secoli da tanti cristiani d’oriente e d’occidente anche in controtendenza rispetto alla mentalità dominante, dischiude percorsi fecondi nella faticosa purificazione della memoria cui non ci possiamo più sottrarre, pena l’abbrutimento di ogni nostra relazione».
"X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI":
IL NUOVO PARADIGMA.
LA TEOLOGIA-POLITICA DELLA CARITA’ POMPOSA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, LA CARESTIA, E LA SEMANTICA DELLA "EUCHARISTIA-CHARITAS" CRISTIANA!!! E LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA!!!
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PROCESSIONE? NO, GRAZIE!
di don Aldo Antonelli *
Alla fine della messa di ieri sera ho congedato i miei parrocchiani con queste parole (in riferimento a quanto detto nell’Omelia sull’Eucarestia): “Andate in pace ed arricchite il mondo spezzandovi per esso e dando voi stessi da mangiare, invece di impoverirlo con le rapine”.
Questa notte, poi, pensando alla giornata di oggi, Corpus Domini, mi sono venute delle domande impertinenti (o pertinenti?).
Se i preti credessero veramente alla presenza reale di Gesù nell’Eucarestia, lo prenderebbero e lo porterebbero in giro per le strade come fosse una reliquia?
E non sono una bestemmia queste processioni con tanto di infiorate, baldacchini, riverenze e genuflessioni nelle nostre città dove i veri, poveri cristi in carne ed ossa sono costretti a dormire sotto i ponti, nei corridoi delle stazioni, negli angoli bui delle strade, come fossero sacchi d’immondizia?
Il grande teologo Jean Cardonnel soleva gridare: "Non abbiamo il diritto di celebrare la condivisione del pane in un mondo che l’accumula"!
E mi fa specie questo scialo di messe che invece di provocare e di scuotere e di mettere in crisi, accarezzano narcisismo, coltivano campanilismi, consacrano razzismi.
E non dite che sono impietoso, sono semplicemente sincero.
Ricordo che anche i Vescovi Italiani, nel documento “Evangelizzazione e testimonianza della carità” scrivevano testualmente: “Il culto si riveste di ipocrisia e contraddice nei fatti a quella comunione che l’ Eucarestia significa e realizza”.
Non sono il solo.
Dom Helder Camara diceva: “E’ facile adorare il Cristo presente nell’ostia della messa. Ma a che serve se non si riconosce la presenza di Cristo nei fratelli abbandonati e vittime della povertà ingiusta della nostra società?".
Ed anche don Tonino Bello scriveva: “Le nostre Messe dovrebbero smascherare i nuovi volti dell’idolatria. Dovrebbero metterci in crisi ogni volta. Per cui per evitare le crisi bisognerebbe ridurle il più possibile...Tante volte anche noi, presi da una fede flaccida, svenevole, abbiamo fatto dell’Eucarestia un momento di dilettazioni piacevoli, morose, di compiacimenti estenuanti che hanno snervato proprio la forza d’urto dell’Eucarestia e ci hanno impedito di udire il grido dei poveri Lazzari che stanno fuori la porta del nostro banchetto".
Chiudo con la denuncia del grande liturgista Pelagio Visentin: «Purtroppo intorno alla presenza reale eucaristica abbiamo costruito cattedrali di teologia, di arte e di sfarzo liturgico-rituale, mentre intorno al fratello bisognoso, sacramento di un altro incontro con Cristo, ci siamo accontentati di qualche pia esortazione dal tono moralistico rivolta alla buona volontà dei fedeli. La scissione Eucarestia-Carità a livello teologico e nella prassi liturgica è una delle più grandi disavventure capitate alla Chiesa» ( AA.VV: Diaconia della carità nella pastorale, ed Gregoriana,1986, pg.284).
Aldo
* Testo inviato via mail. Evidenziazioni mie (fls)
Vaticano, Papa: Testimoniare unità e carità verso tutti *
"La missione di annunciare Cristo risorto non è un compito individuale, ma è da vivere in modo comunitario, testimoniando l’unità fra di noi e la carità verso tutti". Così papa Francesco, durante l’omelia in occasione della messa in piazza San Pietro per la canonizzazione di quattro suore, di cui due palestinesi. "Questo - ha sottolineato Bergoglio - hanno fatto le quattro sante oggi proclamate. Il loro luminoso esempio interpella anche la nostra vita cristiana: come io sono testimone di Cristo risorto? Come rimango in Lui, come dimoro nel suo amore? Sono capace di ’seminare’ in famiglia, nell’ambiente di lavoro, nella mia comunità, il seme di quella unità che Lui ci ha donato partecipandola a noi dalla vita trinitaria?".
* iL MESSAGGERO, 17.05.2015
di Don Aldo Antonelli
Parroco ad Antrosano *
"Voce di Dio che increspa la superficie piatta del silenzio. Parola che sveglia dal sonno le cose e riempie di respiro la polvere, che mette in movimento la storia e nella storia cammina. A volte è sussurro di brezza che bacia labbra screpolate di nomadi, ma sa essere anche strepito di tuono, urlo d’uragano. A volte è fatta della materia impalpabile dei sogni, altre è ruvida di sabbia. A volte profuma di pane caldo, è piena di tenerezza e di tremore come il primo bacio, come una carezza, come un abbraccio a lungo atteso. Qualche volta, invece, ha pelle di scoglio e lascia la carne ferita. Ma sempre è intrisa d’amore, di desiderio, di voglia d’incontro".
Le parole che Papa Francesco ha pronunciato ieri nella Basilica di San Pietro, durante la solenne Messa per il centenario del martirio armeno, mi hanno richiamato questa che non so se sia più una poesia o una preghiera o tutte e due le cose insieme. In più, Papa Francesco ha sdoganato un termine finora relegato nel vocabolario degli specialisti della filosofia antica e della teologia: parresia.
Dal greco παρρησία, vuol dire "parlare chiaro", con schiettezza e senza infingimenti. I grandi filosofi greci, Socrate, Platone ed Aristotele ritenevano che vi fosse uno strettissimo gollegamento tra "politeia", esercizio politico del potere, e "parresia, il comportamento morale del buon cittadino che parla dicendo la "verità". Il termine è frequente anche nel testo greco del Nuovo Testamento dove indica il "coraggio" e la "sincerità" della "Testimonianza". Ed è stato molto usato nella tradizione cristiana, specie agli inizi, come contrario di "ipocrisia".
Non può che far piacere questa cruda e nuda franchezza da parte di un papa e all’interno di una celebrazione, là dove spesso nel passato si è "confuso" il fumo dell’incenso con i fumi del linguaggio felpato e il sapore agrodolce della diplomazia bugiarda.
"Abbiamo troppo insegnato l’arte di avvolgere ogni affermazione un pò rude nella soavità del linguaggio", lamentava don Giovanni Barra nel 1949 sul giornale di don Mazzolari (Adesso 31 Luglio). E aggiungeva: "Questa mania di non contraddire e di non essere contraddetti, di non far soffrire e di non soffrire, di non urtare e di non essere urtati, è un lento veleno che svirilizza i cuori goccia a goccia". Ed è ancor più significativo che questo recupero di autenticità di linguaggio "sine glossa" avvenga ad opera di un Papa che della Misericordia ha fatto il programma del suo Pontificato al punto di indire un Anno Giubilare. Come a dire che la vera, autentica "Misericordia" non ha nulla a che vedere con la finzione, la piaggeria e l’ipocrisia diplomatica.
La Terra sotto i piedi - letteralmente e sempre più - cede, e ‘noi’ continuiamo imperterriti a far finta di nulla: al polo artico come al polo antartico, i ghiacciai si sciolgono a ritmo vertiginoso e ‘noi’ continuiamo a ripetere vecchi ritornelli del ‘bel tempo che fu’: “lo spirito è, questa assoluta sostanza la quale, nella perfetta libertà e indipendenza della propria opposizione, ossia di autocoscienze diverse per sé essenti, costituisce l’unità loro: Io che è Noi, e Noi che è Io” (Hegel, Fenomenologia dello Spirito).
Leopardi aveva perfettamente ragione a sottolineare e a contestare: E gli uomini vollero le tenebre, piuttosto che la luce..!!! Chiuse le porte e le finestre, non ‘vogliamo’ sapere nulla e ‘continuiamo’ a cantare in coro ... e a prepararci alla guerra: Dio è amore!!!
Ma cosa c’è di diverso nella “caritas” di Ratzinger-Benedetto XVI dallo spirito di Hegel: “L’amore è divino perché viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante, ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia tutto in tutti”(pf. 18)?!
La Chiesa di Ratzinger come lo Stato di Hegel: “La Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo” (pf. 25)?! Ma, dopo Auschwitz, non è meglio porsi qualche domanda?! Non sentiamo ancora nelle nostre orecchie l’urlo del “Dio lo vuole!”, “Dio è con Noi!”??!
Di quale Chiesa’, di quale famiglia, di quale Dio, e di quale mondo si tratta? Di quale famiglia ?! Ma dov’ è nostra ‘madre’ e dov’è nostro ‘padre’ e dove sono i nostri ‘fratelli’ e le nostre ‘sorelle’?! -Maria e Giuseppe, talvolta, si chiedevano: dov’è Gesù?! Ma’noi’, ‘noi’ che pensiamo di essere tutti e tutte figli e figlie di Maria e fratelli e sorelle di Gesù, quando ce lo chiederemo: dov’è Giuseppe, lo sposo di nostra madre e nostro padre?!
E, ancora, da padri e madri, quando ci sveglieremo e ci chiederemo dove sono i nostri figli e dove sono le nostre figlie?! ... Chi?, che cosa?! Stai zitto e prega!!! Deus caritas est : questo è il ‘logo’ del ‘nostro’ tempo!!! Dormi! Continua a dormire ... fuori del tutto non c’è nulla!!!
Federico La Sala (06.03.2006)
USCIRE DA INTERI MILLENNI DI SONNAMBULISMO...
LA GERARCHIA DEL "LATINORUM" E LA CHIESA DEL SILENZIO. OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI AL "DIO" DELLA TRADIZIONE E DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). DIO E’ VALORE, DIO E’ MAMMONA ....
C’E’ DIO E "DIO", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA": IL DIO DI GESU’ GIUSEPPE E MARIA (NON E’ QUELLO DI COSTANTINO E DELLA REGINA MADRE ELENA E DELL’INTERO ORDINE GERARCHICO DEL "REGNO DI DIO" VATICANO).
Federico La Sala
Papa Francesco \ Messa a Santa Marta
Il Papa: Dio dona con gratuità, no ai “cattolici ma non troppo” *
Nella legge del Regno di Dio il “contraccambio non serve”, perché Lui dona con gratuità. E’ quanto affermato da Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Pontefice ha avvertito che, a volte, per egoismo o voglia di potere rifiutiamo la festa a cui il Signore ci invita gratuitamente. A volte, ha avvertito, ci fidiamo di Dio “ma non troppo”. Il servizio di Alessandro Gisotti:
Un uomo diede una grande festa, ma gli invitati trovarono delle scuse per non andare. Papa Francesco ha sviluppato la sua omelia partendo dalla parabola narrata da Gesù nel passo del Vangelo odierno. Una parabola, ha detto, che ci fa pensare perché “a tutti piace andare a una festa, piace essere invitati”. Ma in questo banchetto “c’era qualcosa” che a tre invitati, “che sono un esempio di tanti, non piaceva”. Uno dice che deve vedere il suo campo, ha voglia di vederlo per sentirsi “un po’ potente”, “la vanità, l’orgoglio, il potere e preferisce quello piuttosto che rimanere seduto come uno tra tanti”. Un altro ha comprato cinque buoi, quindi è concentrato sugli affari e non vuole “perdere tempo” con altra gente. L’ultimo infine si scusa dicendo di essere sposato e non vuole portare la sposa alla festa. “No - ha detto il Papa - voleva l’affetto per se stesso: l’egoismo”. “Alla fine - ha proseguito - tutti e tre hanno una preferenza per se stessi, non per condividere una festa: non sanno cosa sia una festa”. Sempre, ha ammonito, “c’è l’interesse, c’è quello che Gesù” ha spiegato come “il contraccambio”:
“Se l’invito fosse stato, per esempio: ‘Venite, che ho due o tre amici affaristi che vengono da un altro Paese, possiamo fare qualcosa insieme’, sicuramente nessuno si sarebbe scusato. Ma quello che spaventava loro, era la gratuità. Essere uno come gli altri, lì ... Proprio l’egoismo, essere al centro di tutto ... E’ tanto difficile ascoltare la voce di Gesù, la voce di Dio, quando uno gira intorno a se stesso: non ha orizzonte, perché l’orizzonte è lui stesso. E dietro a questo c’è un’altra cosa, più profonda: c’è la paura della gratuità. Abbiamo paura della gratuità di Dio. E’ tanto grande che ci fa paura”.
Questo, ha detto, avviene “perché le esperienze della vita, tante volte ci hanno fatto soffrire” come succede ai discepoli di Emmaus che si allontanano da Gerusalemme o a Tommaso che vuole toccare per credere. Quando “l’offerta è tanta - ha detto, riprendendo un proverbio popolare - persino il Santo sospetta”, perché “la gratuità è troppa”. “E quando Dio ci offre un banchetto così”, ha affermato, pensiamo sia “meglio non immischiarsi”:
“Siamo più sicuri nei nostri peccati, nei nostri limiti, ma siamo a casa nostra; uscire da casa nostra per andare all’invito di Dio, a casa di Dio, con gli altri? No. Ho paura. E tutti noi cristiani abbiamo questa paura: nascosta, dentro ... ma non troppo. Cattolici, ma non troppo. Fiduciosi nel Signore, ma non troppo. Questo ‘ma non troppo’, segna la nostra vita, ci fa piccoli, no?, ci rimpiccolisce”.
“Una cosa che mi fa pensare - ha soggiunto - è che, quando il servo riferì tutto questo al suo padrone, il padrone” si adirò perché era stato disprezzato. E manda a chiamare tutti i poveri, gli storpi, per le piazze e le vie della città. Il Signore chiede al servo che costringa le persone ad entrare alla festa. “Tante volte - ha commentato - il Signore deve fare con noi lo stesso: con le prove, tante prove”:
“Costringili, ché qui sarà la festa. La gratuità. Costringe quel cuore, quell’anima a credere che c’è gratuità in Dio, che il dono di Dio è gratis, che la salvezza non si compra: è un grande regalo, che l’amore di Dio ... è il regalo più grande! Questa è la gratuità. E noi abbiamo un po’ di paura e per questo pensiamo che la santità si faccia con le cose nostre e alla lunga diventiamo un po’ pelagiani eh! La santità, la salvezza è gratuità”.
Gesù, ha evidenziato, “ha pagato la festa, con la sua umiliazione fino alla morte, morte di Croce. E questa è la grande gratuità”. Quando noi guardiamo il Crocifisso, ha detto ancora, pensiamo che “questa è l’entrata alla festa”: “Sì, Signore, sono peccatore, ho tante cose, ma guardo Te e vado alla festa del Padre. Mi fido. Non rimarrò deluso, perché Tu hai pagato tutto”. Oggi, ha concluso, “la Chiesa ci chiede di non avere paura della gratuità di Dio”. Soltanto, “noi dobbiamo aprire il cuore, fare da parte nostra tutto quello che possiamo; ma la grande festa la farà Lui”.
* RADIO VATICANA. Messa del Papa a Casa Santa Marta - OSS_ROM 04/11/2014 *
NON ABBIAMO ANCORA CAPITO CHE COSA SIGNIFICA CHE "CRISTO SI E’ FERMATO AD EBOLI".
Una nota *
ALLA LUCE del nostro tempestoso presente storico (e della "barbarie ritornata"), non è male (mia opinione e mio invito) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, e soffermarsi - in particolare - sul passaggio relativo alla “Ditta Renzi - Torino”, alle tasse, e alle capre (pp. 40-42, Einaudi, Torino 2010 - in rete).
Il ’passaggio’ offre un ‘cortocircuito’ tra ieri (1935) e oggi (2014), una sintesi eccezionale della "cecità" di lunga durata delle classi "dirigenti" del nostro Paese, e ricorda a tutti e a tutte come e quanto, ieri come oggi, ” (...) quello che noi chiamiamo questione meridionale non è altro che il problema dello Stato (...) (p. 220, cit.). E non solo: "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)!
Il discorso è di lunga durata e investe le strutture stesse dellla cultura europea e planetaria: nel Cristo si è fermato a Eboli, c’è "la scoperta prima di un mondo nascente e delle sue dimensioni, e del rapporto di amore che solo rende possibile la conoscenza" (C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, "Introduzione" [1955], Einaudi, Torino 1978). [...]
Federico La Sala
PAPA FRANCESCO, LA GRAZIA, E I CARISMATICI:
Esce una nuova traduzione a cura dei vescovi francofoni
La Bibbia nella liturgia parla il linguaggio dell’uomo di oggi *
Se ne è parlato solo per il cambiamento di una frase del Padre nostro (da ne nous soumets pas à la tentation a et ne nous laisse pas entrer en tentation), che deve fra l’altro ancora ricevere la recognitio vaticana, facendo quasi passare in secondo piano l’intera opera, frutto di diciassette anni di complesso lavoro. La Bible. Traduction officielle liturgique, che per le edizioni Mame uscirà nelle librerie francesi il prossimo 22 novembre, rappresenta un’opera eminentemente ecclesiale in virtù della molteplicità degli esperti che vi hanno partecipato, tra esegeti, linguisti, innografi, liturgisti, vescovi.
Cinquant’anni dopo l’apertura del concilio Vaticano ii, la traduzione ufficiale liturgica della Bibbia pubblicata dall’Associazione episcopale liturgica per i Paesi francofoni è, per padre Jacques Rideau, direttore del Servizio nazionale della pastorale liturgica e sacramentale, «un frutto della Sacrosanctum Concilium e della Dei Verbum; essa segna questo legame intimo che la Scrittura e la liturgia mantengono l’una con l’altra». Sempre in Francia, intanto, si è aperta l’assemblea plenaria della Conferenza episcopale, per la prima volta presieduta dall’arcivescovo Georges Pontier.
*
©L’Osservatore Romano 4-5 novembre 2013
MESSAGGIO DELL’EVANGELO ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8), MESSAGGIO DEL POSSESSORE DELL’"ANELLO DEL PESCATORE" ("DEUS CARITAS EST": BENEDETTO XVI, 2006), E TEOLOGIA POLITICA DELL’"UOMO SUPREMO" ("DOMINUS IESUS", 2000):
LA NECESSITA’ E LA GRAZIA
di Ernesto Balducci *
Appunto questo è il tema che volevo con voi meditare: l’aspetto gratuito della salvezza. Noi stiamo scontando - a mio giudizio - sia a livello della coscienza individuale sia a livello ecclesiale, una lunga stagione in cui avevamo cercato di inserire la nostra fede e la nostra presenza dentro i meccanismi della necessità. Parlo della necessità del senso razionale. La ragione ama argomenti che abbiano un carattere necessario, siano tra loco legati dal principio della coerenza.
E noi abbiamo dato l’immagine di un Dio necessario come architetto del mondo, come fine delle cose, come sanzione ultima del bene e del male. Questo Dio biblico, pieno di gesti imprevedibili, pieno di iniziative amorose, lo abbiamo ir-rigidito nel principio metafisico dell’Essere supremo, meta ultima dentro il meccanismo delle necessità reali e di quelle razionali. Abbiamo creduto, così, di armare la nostra attività pastorale di argomenti invincibili per persuadere gli atei che Dio c’è.
E cosi abbiamo inserito la nostra realtà di Chiesa dentro i meccanismi dell’ordine giuridico e dell’ordine politico, arrivando alla convinzione che senza di noi il mondo non va avanti, e che noi abbiamo la risposta per tutti i problemi: siamo necessari. Qualsiasi problema la società si ponga, tocca a noi rispondere. Se gli altri non ascoltano è perché sono deviati, smarriti nel peccato.
Siamo diventati necessari, terribilmente necessari. Ma poi, che cosa è avvenuto? Che questa necessità non regge alla prova dei fatti: il mondo va benissimo avanti senza di noi, come se non ci fossimo. E questo si ripercuote nella nostra coscienza con un pauroso senso di frustrazione. Uno che si riteneva necessario e si accorge di essere superfluo, è in terribile situazione psicologica. Collettivamente così siamo, noi cattolici. Ci arrabattiamo a dimostrare che senza di noi si fanno follie, ma in realtà la gente ci da sempre meno ascolto.
Che significa questo? Proviamo a risponderci restando nell’ottica della grazia, della salvezza come gesto gratuito.
Al banchetto di nozze, Gesù era un invitato come gli altri. E sua Madre lo stesso. Il banchetto si era organizzato senza di Loro, né essi se ne rammaricavano. Ma il vino, il vino del miracolo entrò all’improvviso - e i servi lo sapevano - a rallegrare la mensa, a togliere dall’imbarazzo lo sposo e la sposa. E’ un gesto semplice, non necessario. E il Vangelo sembra sottolineare questo aspetto dicendo che tutti erano già brilli. Non sarebbe venuto meno - senza dubbio - lo stato d’animo del banchetto, senza il miracolo.
Ecco, il Regno di Dio è un vino che entra nella mensa dell’uomo, gratuito!
*Ernesto Balducci: Il Mandorlo e il Fuoco; 3° vol.; p.190-192
testo segnalato da don Aldo Antonelli
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI BENEDETTO XVI ("DEUS CARITAS EST", 2006). Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
L’annuncio di Gesù, già nella sua venuta in questo nostro mondo, è l’annuncio di una relazionalità umana felicemente riuscita. Nel Vangelo è direttamente collegato alla Grazia (...) Colei che è piena di grazia (kecharitōménē) è invitata a rallegrarsi perché tutto in lei è frutto ed espressione della «grazia» (cháris), cioè di un dono amorevole quanto sorprendente, che sarà presto annuncio di gioia per tutto il popolo e per ogni uomo (...)
di Ermes Ronchi (Avvenire, 26 luglio 2012)
La moltiplicazione dei pani è un evento che si è impresso in modo indelebile nei discepoli, l’unico miracolo raccontato in tutti i vangeli. Più ancora che un miracolo, un segno: fessura di mistero, evento decisivo per comprendere Gesù. Lui ha pane per tutti, è come se dicesse: io faccio vivere, io moltiplico la vita! Lui fa vivere: con le sue mani che risanano i malati, con le parole che guariscono il cuore, con il pane che significa tutto ciò che alimenta la vita dell’uomo Cinquemila uomini, e attorno è primavera; sul monte, nel luogo dove Dio è più vicino, hanno fame, fame di Dio. Qualcuno ha pani d’orzo, l’orzo è il primo dei cereali che matura, simbolo di freschezza e novità; piccola ricchezza di un ragazzo, anche lui una primizia d’uomo.
A Gesù nessuno chiede nulla, è lui che per primo si accorge e si preoccupa: « Dove potremo comprare il pane per loro?». Alla sua generosità corrisponde quella del ragazzo: nessuno gli chiede nulla, ma lui mette tutto a disposizione. Primo miracolo. Invece di pensare: che cosa sono cinque pani per cinquemila persone? Sono meno di niente, inutile sprecarli. E la mia fame? Dà tutto quello che ha, senza pensare se sia molto o se sia poco. È tutto!
Per una misteriosa regola divina, quando il mio pane diventa il nostro pane accade il miracolo. La fame finisce non quando mangi a sazietà, ma quando condividi fosse pure il poco che hai. C’è tanto di quel pane sulla terra che a condividerlo basterebbe per tutti. Il Vangelo neppure parla di moltiplicazione ma di distribuzione, di un pane che non finisce. E mentre lo distribuivano il pane non veniva a mancare, e mentre passava di mano in mano restava in ogni mano. Come avvengono certi miracoli non lo sapremo mai. Neanche per questo di oggi riusciamo a vedere il «come». Ci sono e basta. Quando a vincere è la generosità.
Giovanni riassume l’agire di Gesù in tre verbi «Prese il pane, rese grazie e distribuì», che richiamano subito l’Eucaristia, ma che possono fare dell’intera mia vita un sacramento: prendere, rendere grazie, donare. Noi non siamo i padroni delle cose. Se ci consideriamo tali, profaniamo le cose: l’aria, l’acqua, la terra, il pane, tutto quello che incontriamo, non è nostro, è vita da che viene in dono da altrove e va oltre noi. Chiede cura, come per il pane del miracolo (i dodici canestri di pezzi), le cose hanno una sacralità, c’è una santità perfino nella materia, perfino nelle briciole: niente deve andare perduto.
Impariamo ad accogliere e a benedire: gli uomini, il pane, Dio, la bellezza, la vita, e poi a condividere: accoglienza, benedizione, condivisione saranno dentro di noi sorgenti di Vangelo. E di felicità.
Pedofilia, il clero non denuncia
I vescovi non vogliono indagare
di Marco Politi (il Fatto, 23.05.2012)
Molte parole, ottime intenzioni, nessun meccanismo concreto per portare alla luce i crimini di pedofilia commessi dal clero attraverso i decenni. Le Linee-guida “per i casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici”, emesse ieri dalla Conferenza episcopale italiana, deludono quanti dentro e fuori la Chiesa cattolica si aspettavano che anche in Italia l’istituzione ecclesiastica si attrezzasse per rendere efficacemente giustizia alle vittime e scoprire i criminali nascosti al proprio interno. Si fa prima a elencare quello che non c’è nel documento che indicare le novità. Positivo è certamente l’incitamento ai vescovi a essere sollecitamente disponibili ad ascoltare le vittime e i familiari, ad offrire sostegno spirituale e psicologico, a proteggere i minori e a procedere immediatamente ad una “accurata ponderazione” della notizia del crimine per aprire altrettanto rapidamente un’indagine ecclesiastica. Poi, se del caso, si passa al processo diocesano, allontanando nel frattempo il prete da ogni contatto con minori per evitare il “rischio che i fatti delittuosi si ripetano”.
DOPO DUE anni di riflessione e un anno di elaborazione del testo, la Conferenza episcopale si ferma qui. Chiudendo ostinatamente gli occhi di fronte alle esperienze più avanzate realizzate in altri paesi come gli Stati Uniti, la Germania, l’Austria, il Belgio, l’Inghilterra. In Belgio e in Austria hanno formato commissioni di inchiesta nazionali, guidate da personalità laiche indipendenti? Pollice verso dei vescovi italiani. In Germania esiste un vescovo incaricato a livello federale di monitorare il dossier pedofilia e di intervenire nelle diocesi - diciamo così - poco attente? In Italia non se ne parla nemmeno. In Inghilterra operano gruppi di vigilanza nelle parrocchie? La Cei si guarda bene dal suggerirlo. Nella diocesi di Bressanone era stato istituito un indirizzo mail e un referente per le vittime? La Cei non istituisce neanche questo piccolo strumento operativo.
Don Fortunato Di Noto, il prete siciliano impegnato nel contrasto alla pedofilia, aveva proposto che in tutte le diocesi venisse istituito un “vicario per i bambini”, una sorte di angelo custode per prevenire e vigilare. Proposta cestinata. Spira in tutto il documento un vento difensivo, concentrato nel respingere interventi energici delle autorità giudiziarie. “Eventuali informazioni o atti concernenti un procedimento giudiziario canonico possono essere richiesti dall’autorità giudiziaria dello Stato, ma non possono costituire oggetto di un ordine di esibizione o di sequestro”. È la paura che - come è accaduto in America - i tribunali possano ottenere la documentazione delle manovre che hanno portato a insabbiamenti. Impedito anche l’accesso agli archivi vescovili.
Altrove nel mondo gli episcopati si preoccupano di approntare anche un equo risarcimento per le vittime. Le Linee-guida si preoccupano di proclamare che “nessuna responsabilità, diretta o indiretta, per gli eventuali abusi sussiste in capo alla Santa Sede o alla Conferenza episcopale italiana”. Il culmine del documento si raggiunge nell’affermazione lapidaria che nell’ordinamento italiano il vescovo non riveste la qualifica di pubblico ufficiale e perciò “non ha l’obbligo giuridico di denunciare all’autorità giudiziaria statuale le notizie che abbia ricevuto in merito ai fatti illeciti”.
È vero, in Italia l’obbligo non c’è. (Lo potrebbe introdurre il Parlamento!) Ma come dimenticare le migliaia di vittime soffocate dal silenzio. Sarebbe stato un gesto di responsabilità se la Cei, liberamente, avesse impegnato tutti i vescovi a denunciare i criminali. Non accadrà. Nonostante episodi vergognosi di inrzia verificatisi in passato. Si chiama - lo si legge nelle Linee - “rispetto della libertà della vittima di intraprendere le iniziative giudiziarie che riterrà più opportune”. Dice mons. Crociata, segretario della Cei, che non va dimenticato che gli abusi del clero sono un “delitto”. Aggiunge che la pedofilia è un fenomeno che “purtroppo ha un’estensione enorme e richiede uno sforzo collettivo per combatterlo” e che la cooperazione tra autorità ecclesiastiche e civili è prassi.
MA QUANDO gli si chiede perché i vescovi non sentono il dovere della denuncia, risponde: “Non possiamo chiedere al vescovo di diventare un pubblico ufficiale”. Una spiegazione razionale, giuridica o evangelica non c’è. C’è solo la grande paura dell’episcopato italiano di affrontare un bagno di verità. Dopo due anni (due anni!) la Cei ha fornito qualche cifra: 135 casi di abusi di chierici avvenuti tra il 2000 e il 2011 e portati alla Congregazione per la Dottrina della fede. “53 condanne, 4 assolti e gli altri casi in istruttoria”, spiega Crociata. E ancora: delle settantasette denunce alla magistratura: 2 condanne in primo grado, 17 in secondo, 21 patteggiamenti, 5 assolti e 12 casi archiviati.
Il rapporto tra la maggioranza dei colpevoli e la piccola percentuale di innocenti è palese. La grande paura di scavare nella realtà nasce da qui.
GRAZIA ("CHARIS") E AMORE EVANGELICO ("CHARITAS"). I Padri delle origini chiamavano l’Eucharistia, il "sacramento della misericordia divina", al pari del sacramento stesso della riconciliazione.
"La parola «Eucaristia» deriva dal verbo greco «eu-charistèō/rendo grazie» che a sua volta proviene dall’avverbio augurale «eu-...-bene» e «chàirō-rallegrarsi/essere contento»" (Paolo Farinella, prete).
Parroco sotto accusa Ferrara, il Vaticano contro la decisione del sacerdote
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 12 aprile 2012)
Un parroco emiliano rifiuta la comunione a un bimbo disabile ed esplode una polemica così infuocata da rimbalzare subito a Strasburgo e in Vaticano. Il sacramento negato a Pasqua trasforma l’episodio in una controversia internazionale e la protesta in due esposti. Il primo alla Corte europea dei diritti dell’uomo «per violazione della libertà religiosa».
Il secondo alla Santa Sede. Tutto inizia giovedì santo a Comacchio, nel Ferrarese, alla cerimonia propedeutica alle prime comunioni. Don Piergiorgio Zaghi ritiene che il bambino, affetto da un grave ritardo mentale, non sia in grado di «comprendere il mistero dell’Eucarestia». Sconcerto, clamore, raffica di reazioni.
Il sociologo Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio dei diritti sui minori e consulente della Commissione parlamentare dell’Infanzia, denuncia «un oscurantismo culturale da medioevo». Negando al piccolo la comunione, «il sacerdote ha leso la sua dignità di persona». I parrocchiani si dividono fra chi condivide la scelta e chi dissente richiamando l’appello papale ad assicurare il sacramento, per quanto possibile, anche ai disabili mentali. Al sacerdote scrive una lettera un compagno di classe del bambino: «Se fosse con noi sarebbe una grande gioia per lui e noi avremmo il vero valore della Comunione».
I genitori prendono male il no del parroco e affidano alle carte bollate l’amara sorpresa. Nella Curia romana il cardinale canonista Velasio De Paolis solidarizza con loro e stigmatizza l’eucarestia rifiutata a un bimbo ritenuto incapace di comprendere il sacramento.
Lo stretto collaboratore di Benedetto XVI ricorda come nelle comunità orientali i bambini ricevano l’eucarestia subito dopo il battesimo, quindi «se il disabile non profana l’ostia, se la accoglie serenamente, nella Chiesa è prassi che gli venga amministrata». E, aggiunge, «io non l’avrei negata», soprattutto per «la forza del sacramento che raggiunge anche chi è malato o in punto di morte». Spera ancora che don Zaghi «ci ripensi», Claudia, la madre del bambino «discriminato senza ragione in quanto è andato regolarmente al catechismo». E aggiunge: «Ci andava volentieri, certo il grado di attenzione non era come quello degli altri bambini, perché mio figlio ha anche un ritardo mentale».
E riguardo al fatto che non possa capire il «mistero del sacramento dell’Eucarestia», alla mamma «sembra che anche un bimbo di 10 anni “normale”, anche se non mi piace la parola, non possa comprenderlo fino in fondo». I legali della famiglia si appellano al fatto che «l’ordinamento giuridico canonico non fa alcun riferimento né all’età né alla capacità di intendere e volere del soggetto che si appresta a ricevere il Sacramento dell’Eucarestia». E sottolineano che «il minore in questione pur se affetto da grave disabilità motoria non è comunque giuridicamente totalmente incapace di comprendere il significato dell’istituto sacramentale».
Interviene la comunità Papa Giovanni XXIII: «Da noi molti cerebrolesi ricevono regolarmente la comunione». Per l’associazione di don Oreste Benzi, «la comunione negata al bambino disabile deve interpellare tutta la comunità cristiana». Nella comunità, anche i ragazzi gravemente disabili ricevono la comunione. «Sono degli angeli crocifissi, come diceva don Benzi, e dobbiamo ripartire dagli ultimi accogliendoli realmente nelle nostre comunità, avvicinando le famiglie che hanno al loro interno i disabili e sostenerle».
La cerimonia della prima comunione si terrà in maggio e coinvolgerà una ventina di ragazzi in totale. C’è abbastanza tempo per la retromarcia in cui la famiglia confida. «Spero che il bambino possa fare la comunione con tutti i suoi compagni, che hanno dimostrato di tenerci: anche loro hanno insistito perché facesse la comunione con loro, sono stati tutti molto solidali con noi», conclude mamma Claudia. Per ora la diocesi ha avallato il no del parroco. Da lì potrebbe partire il ripensamento. Per carità e buon senso.
Il Papa santo Pio X aveva fissato un’età-limite per la prima comunione: può ricevere l’Eucarestia chi è in grado di distinguere il pane di Dio da quello materiale. E quindi è meglio attendere i 9-10 anni per amministrare il sacramento, anche se la Chiesa cattolica non ha mai condannato la prassi consolidata nelle comunità orientali di concedere la comunione subito dopo il battesimo, quindi a bimbi appena nati.
Benedetto XVI nell’esortazione apostolica del 2007 «Sacramentum Caritatis» cancella ogni dubbio. «Venga assicurata anche la comunione eucaristica, per quanto possibile, ai disabili mentali, battezzati e cresimati: essi ricevono l’Eucaristia nella fede anche della famiglia o della comunità che li accompagna», chiarisce Joseph Ratzinger, Pontefice teologo e pastore. E il «quanto possibile» si riferisce ad una possibilità fisica, non mentale (per esempio se i disabili riescano a deglutire e ingerire l’ostia o meno).
Recitare o essere? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
di don Angelo Casati
Viandanti (www.viandanti.org, 30 marzo 2012
Mi succede - qualcuno la ritiene una mia ossessione - di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: "Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?". Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia - non tutti! - di farisei che "recitavano": "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesù, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo - lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava - che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita" una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato.
Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: "Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza.
Scrive Carlo Maria Martini: "Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del "perfetto". Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: "Un uomo" - scrive - "condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".
La Condivisione del pane come fondamento della carità cristiana
di Benedetto XVI (Corriere della Sera, 11.02.2012)
Nel secondo capitolo degli Atti degli Apostoli, San Luca descrive la Chiesa nascente con quattro caratteristiche che ne connotano la vita: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42). Alcuni versetti dopo, Luca ritorna nuovamente su quanto aveva detto: «Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Lo spezzare il pane, nominato due volte, appare come elemento centrale della comunità cristiana e ci ricorda l’incontro del Risorto con i discepoli di Emmaus (Lc 24,30 ss.), che a sua volta ci rimanda all’ultima cena (Lc 22,19). Questa è una parola che nella molteplicità dei suoi significati lascia trasparire il centro portante e al tempo stesso tutta l’ampiezza dell’esistenza cristiana.
Certo, essa si riferisce innanzitutto a qualcosa di molto semplice, di quotidiano. Nel mondo ebraico era compito del padrone di casa spezzare il pane dopo una preghiera e distribuirlo tra i commensali; questo sia durante pranzi familiari, o convivi, che in occasione di pasti di carattere rituale, come la sera della Pesah. Gesù padrone di casa e ospite paterno dei suoi ha raccolto questa usanza la quale, nella cena alla vigilia della sua agonia, acquista tuttavia un nuovo significato. Infatti, in quell’ora, Gesù non distribuisce solo pane, ma se stesso: Egli si dona. Già nel pasto quotidiano lo spezzare il pane ha un doppio significato: è allo stesso tempo un gesto di condivisione e di unione. In virtù del pane condiviso la comunità a tavola diventa una: tutti mangiano dello stesso pane. La condivisione è un gesto di comunanza, di donazione, che rende partecipi della famiglia anche gli ospiti.
Questo condividere e unire raggiunge nell’ultima cena di Gesù una profondità mai immaginata prima. Nello spezzare il pane egli compie quel «li amò sino alla fine» (Gv 13,1) in cui egli dona se stesso e diventa pane «per la vita del mondo» (Gv 6,51). Evidentemente il particolare gesto con cui Gesù spezzò il pane è penetrato profondamente nelle anime dei discepoli, come possiamo evincere dal racconto dei discepoli di Emmaus. Ricordando quel gesto, essi vi hanno visto racchiuso tutto il mistero della consegna di sé messa in atto da Gesù.
L’espressione «spezzare il pane» nella Chiesa nascente andò così a designare l’Eucaristia, dunque ciò che la caratterizzò e la tenne unita come nuova comunità. Dal ricordo dell’ultima cena però emergeva anche chiaramente che l’Eucaristia è più di un semplice atto di culto che si esaurisce nella celebrazione liturgica. Lo spezzare il pane era di per sé un’immagine di comunione, dell’unire attraverso la condivisione. I cristiani ora possono vedere nell’atto di spezzare il pane compiuto da Gesù un’immagine dell’ospitalità di Dio, nella quale il Figlio incarnato dona se stesso come pane di vita. Di conseguenza la frazione del pane eucaristico deve proseguire nello «spezzare il pane» della vita quotidiana, nella disponibilità a condividere quanto si possiede, a donare e così unire. È semplicemente l’amore in tutta la sua immensità che si manifesta in questo gesto, e con esso il nuovo concetto cristiano di culto e di cura per il prossimo: l’Eucaristia deve divenire «spezzare il pane» a tutti i livelli, altrimenti il suo significato non si compie. Deve divenire «diaconia», servizio e dono nella vita quotidiana. E specularmente la premura sociale della caritas non è mai solo agire pragmatico, bensì sorge dalle radici profonde della comunione con il Signore che si dona, dalla dinamica dell’amore partecipe di Dio per noi.
Mi rallegro che il cardinale Cordes abbia raccolto e spiegato, con grande energia, l’impulso che ho cercato di avviare con l’enciclica Deus caritas est. Saluto come parte della sua fatica questo suo libro L’aiuto non cade dal cielo. Caritas e spiritualità, in cui viene mostrato da varie prospettive quanto è racchiuso nella parola fondamentale caritas - amore. Perciò auguro a questo libro l’ascolto attento che penetra nei cuori e, andando oltre la ricezione e la lettura, conduce ad agire con amore e a una comunione più profonda con Gesù Cristo.
(...) La statua si presentava poggiata sul fondale con la base del piedistallo, lievemente inclinato, con il viso rivolto verso la città. Attorno qualche residuo di rete, ma tutto sommato in buone condizioni. Purtroppo gli manca il braccio con cui reggeva il bastone, di cui al momento non si ha traccia. L’ipotesi più accreditata della rimozione a fine dicembre, da parte di un peschereccio che effettuava in maniera fraudolenta la pesca a strascico sottocosta, ha trovato ieri la conferma.
Calabria. A Paola sulle orme di san Francesco. "Il suo motto CHA: charitas".
SAN FRANCESCO DA PAOLA : INIZIANO LE CELEBRAZIONI DEL PATRONO DELLA CALABRIA.
Il dipinto è particolare, perchè la figura del Santo, rappresentato come un vecchio in abiti francescani, è contornato da dieci scene che raffigurano altrettanti fatti prodigiosi a lui attribuiti. Nella mano tiene un bastone al quale si appoggia pesantemente, sormontato da quello che diverrà il suo motto CHA: charitas. Secondo la tradizione, un angelo, forse l’arcangelo Michele, gli apparve mentre pregava, tenendo fra le mani uno scudo luminoso su cui si leggeva la parola Charitas e porgendoglielo disse: “Questo sarà lo stemma del tuo Ordine” (...).
Senza parole, fino alla fine
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2011)
Alla crisi del berlusconismo il Vaticano arriva smarrito e disorientato. E muto. Anno dopo anno i vertici vaticani hanno sostenuto il Cavaliere nonostante la sua indecenza e la sua incapacità e soltanto il 22 settembre scorso, recandosi in Germania, papa Ratzinger ha segnalato al presidente Napolitano l’esigenza di un “sempre più intenso rinnovamento etico” per il bene dell’Italia. Poi Oltretevere non ha più disturbato il premier, lasciando che la situazione degenerasse. Le foto della Minetti e altre pupe vestite da suore, pubblicate dal Fatto, stanno lì a testimoniare a chi il Vaticano stagione dopo stagione, a forza di contestualizzare, ha rinnovato la fiducia. Si è dovuto aspettare il 26 settembre perché il cardinale Bagnasco denunciasse a nome dell’episcopato l’“aria ammorbata” dal regime berlusconiano e chiedesse discontinuità. Subito dopo, però, il segretario della Cei monsignor Crociata si è affrettato a comunicare che la Chiesa non fa i governi “e non li manda a casa”. Ennesimo aiutino mediatico alla tattica dilazionatrice di Berlusconi, disastrosa per il Paese.
E COSÌ ANCORA per settimane, mentre l’Italia rotolava verso la rovina, le gerarchie ecclesiastiche
a differenza della Confindustria che finalmente aveva imboccato la strada della pressione
crescente per voltare pagina - hanno scelto di stare zitte invece di chiarire ulteriormente che il bene
comune dell’Italia richiedeva l’allontanamento urgente di Berlusconi. Nemmeno la constatazione
che tre quarti degli italiani bocciano B. (come da sondaggio di Famiglia Cristiana) ha spinto i
vescovi a farsi sentire. Paradossalmente è stato il Financial Times a lanciare l’esclamazione, che
avrebbe potuto venire dai pulpiti: “In nome di Dio, dell’Italia e dell’Europa, Berlusconi vattene!”.
In realtà, esaurita la stagione di Ruini che non a caso ha premuto finché ha potuto per far tornare Casini ad allearsi con Berlusconi, la Chiesa italiana non ha più una linea strategica su come affrontare la perigliosa e complicata transizione a quella che sarà la Terza Repubblica. Non ha una sua visione dell’Italia post-berlusconiana, ma non ha nemmeno il coraggio di affidare decisamente il timone ai cattolici impegnati in politica. A Todi il cardinale Bagnasco, pressato dal Vaticano, dagli atei devoti e dai conservatori ecclesiali, ha dovuto risfoderare la dottrina dei principi non negoziabili, Un diktat inadatto per qualsiasi moderno governo europeo, di destra o di sinistra. In queste settimane cruciali si è liquefatta anche l’ambizione della carovana di Todi di rappresentare quel “soggetto culturale e sociale” cattolico in grado di “interloquire con la politica”. È nel vivo della battaglia che si affermano i protagonisti. A cose fatte sono bravi tutti a chiedere rappresentanza. Nella crisi attuale un singolo democristiano come Pisanu ha rappresentato di più e meglio la tradizione del cattolicesimo politico moroteo di quanto non siano riusciti a fare i grandi oratori di Todi.
Naturalmente la rete, messa in piedi con il convegno umbro, continuerà ad agire, ma per l’oggi - nelle ore drammatiche che l’Italia sta vivendo - si registra nuovamente la generale afasia dell’associazionismo cattolico. Unica eccezione le Acli, che dopo aver chiesto il mese scorso le dimissioni di Berlusconi sono tornate a ribadire fermamente la necessità del suo allontanamento. E la Cisl, che ha insistito sull’esigenza di un governo di larghe intese.
LA GERARCHIA ecclesiastica, nella tempesta in corso, è rimasta come acquattata sotto la bufera. Non si esprime. Sul piano sociale ha dalla sua una posizione più volte rimarcata di attenzione ai problemi del precariato giovanile e di denuncia dell’intollerabile evasione fiscale. Nonché l’aiuto economico prestato in questi anni da organizzazioni ecclesiali a tante famiglie in difficoltà. Questione del lavoro e tutela della famiglia sono temi sistematicamente toccati. L’immagine di Bagnasco con l’ombrello tra i disastrati di Genova mostra una Chiesa vicina alle angosce della gente. Ma sul piano politico la gerarchia ecclesiastica naviga a vista. Avrebbe visto di buon occhio un governo post-berlusconiano basato sull’alleanza Pdl-Lega-Udc. Ma anche in Vaticano hannocapito che è un’utopia. Adesso la Cei e i vertici vaticani sembrano affidarsi - loro malgrado - alla strategia di Casini per la creazione di un governo d’emergenza trasversale che vada dal Pdl ai Democratici.
Più di ogni cosa il Vaticano teme nuove elezioni, che sancirebbero lo sfaldamento del partito berlusconiano, il ridimensionamento della Lega (con la sua ambigua difesa dei principi non negoziabili ratzingeriani) e l’emergere di un forte blocco di centrosinistra. Ancora una volta la stella polare sembra essere la tutela delle posizioni di privilegio economico-istituzionale conquistate. E soprattutto Oltretevere hanno il terrore di una maggioranza che sblocchi in Parlamento quelle leggi sulle coppie di fatto e il testamento biologico, che Berlusconi e i suoi alleati hanno sempre affossato.
Il manifesto di Küng per una nuova Chiesa.
"Ratzinger ha fallito"
Anticipiamo un brano del nuovo libro di Hans Küng “Salviamo la Chiesa” (Rizzoli) Il saggio del
teologo Küng affronta gli abusi sessuali e la crisi del cattolicesimo.
Quello che rende malata la
situazione attuale è il monopolio del potere e della verità, il clericalismo, la sessuofobia e la
misoginia. Il papato deve essere rinnovato, ai sacerdoti non si può negare il calore di una famiglia
ed è necessaria l’ordinazione femminile.
di Hans Küng (La Repubblica, 01.10.2011)
Nella situazione attuale non posso assumermi la responsabilità di tacere: da decenni, con successo alterno e, nell’ambito della gerarchia cattolica, modesto, richiamo l’attenzione sulla grande crisi che si è sviluppata all’interno della Chiesa, di fatto una crisi di leadership. È stato necessario che emergessero i numerosi casi di abusi sessuali in seno al clero cattolico.
Abusi occultati per decenni da Roma e dai vescovi in tutto il mondo, perché questa crisi si palesasse agli occhi di tutti come una crisi sistemica che richiede una risposta su basi teologiche. La straordinaria messinscena delle grandi manifestazioni e dei viaggi papali (organizzati di volta in volta come "pellegrinaggi" o "visite di Stato"), tutte le circolari e le offensive mediatiche non riescono a creare l’illusione che non si tratti di una crisi durevole. Lo rivelano le centinaia di migliaia di persone che solo in Germania nel corso degli ultimi tre anni hanno abbandonato la Chiesa cattolica, e in genere la distanza sempre maggiore della popolazione rispetto all’istituzione ecclesiastica.
Lo ripeto: avrei preferito non scrivere questo testo.
E non l’avrei scritto:
1) se si fosse avverata la speranza che papa Benedetto avrebbe indicato alla Chiesa e a tutti i
cristiani la strada per proseguire nello spirito del concilio Vaticano. L’idea era nata in me durante
l’amichevole colloquio di quattro ore avuto con il mio ex collega di Tubinga a Castel Gandolfo, nel
2005. Ma Benedetto XVI ha continuato con testardaggine sulla via della restaurazione tracciata dal
suo predecessore, prendendo le distanze dal concilio e dalla maggioranza del popolo della Chiesa in
punti importanti e ha fallito riguardo agli abusi sessuali dei membri del clero in tutto il mondo;
2) se i vescovi si fossero davvero fatti carico della responsabilità collegiale nei confronti dell’intera
Chiesa conferita loro dal concilio e si fossero espressi in questo senso con le parole e con i fatti. Ma
sotto il pontificato di Wojtyla e Ratzinger la maggior parte di loro è tornata al ruolo di funzionari,
semplici destinatari degli ordini vaticani, senza dimostrare un profilo autonomo e un’assunzione di
responsabilità: anche le loro risposte ai recenti sviluppi all’interno della Chiesa sono state titubanti e
poco convincenti;
3) se la categoria dei teologi si fosse opposta con forza, pubblicamente e facendo fronte comune,
come accadeva un tempo, alla nuova repressione e all’influsso romano sulla scelta delle nuove
generazioni di studiosi nelle facoltà universitarie e nei seminari. Ma la maggior parte dei teologi
cattolici nutre il fondato timore che, a trattare criticamente in modo imparziale i temi divenuti tabù
nell’ambito della dogmatica e della morale, si venga censurati e marginalizzati. Solo pochi osano
sostenere la KirchenVolksBewegung, il Movimento popolare per la riforma della Chiesa cattolica
diffuso a livello internazionale. E non ricevono sufficiente sostegno nemmeno dai teologi luterani e
dai capi di quella Chiesa perché molti di loro liquidano le domande di riforma come problemi
interni al cattolicesimo e nella prassi qualcuno talvolta antepone i buoni rapporti con Roma alla
libertà del cristiano.
Come in altre discussioni pubbliche, anche nei più recenti dibattiti sulla Chiesa cattolica e le altre Chiese la teologia ha avuto un ruolo ridotto e si è lasciata sfuggire la possibilità di reclamare in modo deciso le necessarie riforme.
Da più parti mi pregano e mi incoraggiano di continuo a prendere una posizione chiara sul presentee il futuro della Chiesa cattolica. Così, alla fine, invece di pubblicare articoli sparsi sulla stampa, mi sono deciso a redigere uno scritto coeso ed esauriente per illustrare e motivare ciò che, dopo un’attenta analisi, considero il nocciolo della crisi: la Chiesa cattolica, questa grande comunità di credenti, è seriamente malata e la causa della sua malattia è il sistema di governo romano che si è affermato nel corso del secondo millennio superando tutte le opposizioni e regge ancora oggi. I suoi tratti salienti sono, come sarà dimostrato, il monopolio del potere e della verità, il giuridismo e il clericalismo, la sessuofobia e la misoginia e un uso della forza religioso e anche profano. Il papato non deve essere abolito, bensì rinnovato nel senso di un servizio petrino orientato alla Bibbia.
Quello che deve essere abolito, invece, è il sistema di governo medievale romano. La mia "distruzione" critica è perciò al servizio della "costruzione", della riforma e del rinnovamento, nella speranza che la Chiesa cattolica, contro ogni apparenza, si mantenga vitale nel terzo millennio.
[* * *]
Certamente alcuni sacerdoti vivono la loro condizione di celibato apparentemente senza grossi problemi e molti, a causa dell’enorme carico di lavoro che grava su di loro, non sarebbero quasi in grado di preoccuparsi di una vita di coppia o di una famiglia. Viceversa, il celibato obbligatorio porta anche a vivere situazioni insostenibili: parecchi sacerdoti desiderano ardentemente l’amore e il calore di una famiglia, ma nel migliore dei casi possono solo tenere nascosta un’eventuale relazione, che in molti luoghi diventa un "segreto" più o meno pubblico. Se poi da una relazione nascono dei figli, le pressioni provenienti dall’alto inducono a tenerli nascosti con conseguenze devastanti sulla vita degli interessati.
La correlazione tra gli abusi sessuali dei membri del clero a danno di minori e la legge sul celibato è continuamente negata, ma non si può fare a meno di notarla: la Chiesa monosessuale che ha imposto l’obbligo del celibato ha potuto allontanare le donne da tutti i ministeri, ma non può bandire la sessualità dalle persone accettando così, come spiega il sociologo cattolico della religione FranzXaver Kaufmann, il rischio della pedofilia. Le sue parole sono confermate da numerosi psicoterapeuti e psicanalisti.
È auspicabile che sia reintrodotto il diaconato femminile, ma tale misura, da sola, è insufficiente: se non viene accompagnata dal permesso di accedere al presbiterato (sacerdozio), non condurrebbe a una equiparazione dei ruoli bensì a un differimento dell’ordinazione femminile. Un servizio che dà loro la stessa dignità degli uomini, completamente diverso dalla posizione e dalla funzione subalterna che recentemente ricoprono numerose donne dei "movimenti" nell’ambito della curia romana. Che in seno alla Chiesa cattolica la resistenza, e in determinate circostanze anche la disobbedienza, possano pagare, è dimostrato dall’esempio delle chierichette. Anni fa, il Vaticano vietò a bambine e ragazze di servir messa. L’indignazione del clero e del popolo cattolico fu grande e in molte parrocchie si continuò semplicemente a tenerle. A Roma la situazione venne da principio tollerata, infine accettata. Così cambiano i tempi. Anzi, un articolo uscito il 7 agosto 2010 sull’Osservatore Romano ha elogiato questa evoluzione come il superamento di un’importante frontiera poiché oggi non si può più ascrivere alla donna alcuna "impurità" e in questo modo è stata eliminata una "disuguaglianza profonda". Quanto tempo ci vorrà ancora perché in Vaticano capiscano che lo stesso argomento vale per la consacrazione sacerdotale, meglio l’ordinazione femminile? Molto dipende dalla posizione e dall’impegno dei vescovi.
Il Papa in tribunale
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2011)
Trascinare il papa dinanzi alla Corte penale internazionale dell’Aja. È l’obiettivo dell’associazione di vittime di pedofilia clericale statunitense (Snap), che ha inoltrato ieri al Tribunale internazionale una denuncia di 85 pagine, in cui viene richiesta l’incriminazione di Benedetto XVI per “crimini contro l’umanità”. La parola d’ordine, riecheggiata spesso l’anno scorso - anche a Roma in una manifestazione di delegazioni di 13 nazioni svoltasi il 31 ottobre 2010 - si è tradotta a sorpresa in un atto giuridico per mettere in moto un processo internazionale contro i vertici vaticani, accusati di decenni di insabbiamento.
Lo SNAP (la cui sigla significa Rete dei sopravvissuti agli abusi dei preti) è la più potente organizzazioni di vittime americana, impegnata da anni nel contestare i silenzi vaticani. Il suo obiettivo è di portare sul banco degli accusati anche il successore di Ratzinger alla Congregazione per la dottrina della fede e due segretari di Stato. Quello in carica, cardinale Tarcisio Bertone, e il suo predecessore Angelo Sodano. La denuncia è accompagnata da un corposo dossier di 20.000 pagine contenente rapporti ufficiali, documentazione di polizia, testimonianze di vario tipo. Lo Snap motiva la sua iniziativa con il fatto che le “azioni legali condotte a livello nazionale non sono state sufficienti a impedire che gli abusi contro i minori continuassero”. L’accusa rivolta ai vertici vaticani al pontefice è di "diretta e superiore responsabilità per i crimini contro l’umanità degli stupri e altre violenze sessuali” commessi dal clero in tutto il mondo.
La linea vaticana è stata finora di opporre un gelido e sdegnato silenzio a un’azione considerata meramente propagandistica. “Non sta in cielo né in terra”, è il commento di un esponente di Oltretevere. “Vogliono farsi solo pubblicità”.
Intanto, però, una procedura giuridica è stata messa in modo e il procuratore generale delle Corte penale internazionale Louis Moreno-Ocampo dovrà nelle prossime settimane fornire un responso ufficiale, spiegando se il ricorso sarà accolto o no. In via immediata lo Snap punta almeno all’avvio di un’indagine preliminare per esaminare se il caso rientra sotto la sua giurisdizione. Anche soltanto l’ipotesi che il nome di Benedetto XVI venga inserito tra quelli di criminali come Gheddafi o Milosevic provoca orrore nelle altre gerarchie vaticane e viene ritenuto impensabile da molte parti.
Assistita dagli esperti giuridici del Centre for Constitutional Rights di Washington, l’associazione delle vittime statunitensi punta contemporaneamente a una vasta campagna di mobilitazione della pubblica opinione. Barbara Blain, presidente dello Snap, ha un obiettivo preciso: costringere la Santa Sede ad aprire gli archivi dove si cela la documentazione dei passati decenni e dove sono conservate le amare testimonianze di tanti insabbiamenti. E’ bastato che a Monaco di Baviera l’arcivescovo cardinale Reinhard Marx decidesse coraggiosamente di incaricare l’avvocata Marion Westphal di esaminare quanto avvenuto nei decenni dal 1945 al 2009 e sono avvenuti alla luce 365 casi di abusi. Il rapporto di duecentocinquanta pagine è tuttora secretato. Il giudizio ufficiale della Westphal, espresso in sede diocesana: “Regnava la totale mancanza di considerazione per le vittime”.
Papa Ratzinger, con la sua Lettera agli Irlandesi del 2010 e le nuove misure della Congregazione per la dottrina della fede, ha inaugurato un netto cambio di linea che vale per il futuro. Ma il punto debole resta la chiusura degli archivi vaticani. Perciò lo Snap inizierà un tour europeo, che porterà a dibattiti pubblici ad Amsterdam, Berlino, Bruxelles, Parigi, Vienna, Londra, Dublino, Varsavia, Madrid. Il 20 settembre l’appuntamento è a Roma.
In realtà da tempo erano partiti dall’interno del mondo cattolico suggerimenti per avviareun’inchiesta ecclesiastica internazionale sui casi di pedofilia. I conservatori in Curia si sono sempre opposti. Ora le vittime presenteranno il conto.
A "SCOLA" DI AUTORITARISMO: VESCOVI E CARDINALI CHE SI TOLGONO LA TESTA. Don Primo Mazzolari diceva ai suoi parrocchiani: «Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non vi togliete la testa»
Operazione sant’Ambrogio
di Aldo Maria Valli (Europa, 29 giugno 2011)
Nel 1972, durante la sua visita a Venezia, Paolo VI, nel bel mezzo di piazza San Marco e davanti alla folla, si tolse la stola e la mise sulle spalle di un imbarazzatissimo Albino Luciani, allora patriarca della Serenissima. Gesto eloquente, una vera e propria investitura. Che ebbe conferma e pratica realizzazione sei anni più tardi, alla morte di papa Montini, quando dal conclave uscì eletto proprio il timido patriarca.
All’inizio dello scorso maggio, nel corso della visita in laguna, Benedetto XVI non si è tolto la stola e non l’ha deposta sulle spalle del patriarca Angelo Scola. Non è nello stile di Joseph Ratzinger compiere gesti plateali. Ma, se non l’ha fatto, c’è anche una ragione sostanziale. Ratzinger, a differenza di molti altri dentro la Chiesa, crede nelle regole e nella collegialità.
In queste settimane che hanno preceduto la nomina di Scola a Milano si è detto e ripetuto che il patriarca di Venezia è approdato sotto la Madonnina perché fortemente voluto da Benedetto XVI. Adesso, a nomina avvenuta, sappiamo che è una verità parziale. Che Benedetto stimi Scola da molti anni è fuori discussione. Che ne ammiri le capacità di animatore culturale e di organizzatore è altrettanto certo. Ma non è vero che il papa si sia battuto per la nomina di Scola nonostante le opinioni divergenti degli altri vescovi chiamati a sottoporre al pontefice le candidature.
Anzi, è vero il contrario. Da fonti vaticane risulta infatti che per ben tre volte, davanti a una maggioranza di vescovi che, riuniti nella plenaria della congregazione, indicava una terna di nomi con Scola come candidato più forte per Milano, il papa ha rimandato indietro la proposta chiedendo un ulteriore approfondimento (o, come si dice in ecclesialese, un discernimento).
Lo ha fatto, sicuramente, non per scarsa fiducia in Scola, ma per grande considerazione della collegialità episcopale e del ruolo delicatissimo che la plenaria della congregazione per i vescovi è chiamata a ricoprire, specie quando in ballo c’è una nomina importante come quella che riguarda Milano. Solo che, dai vescovi, è arrivato sempre lo stesso responso: tre nomi, con due candidature oggettivamente deboli e una sola, quella di Scola, in grado di poter essere presa davvero in considerazione.
Al che il papa, proprio in ossequio al rispetto della collegialità, ha dato il via libera. Ora, perché la maggioranza dei vescovi (circa due terzi, a quanto risulta) ha puntato così decisamente su Scola? Paradossalmente l’ha fatto pensando di compiacere il papa. Poiché una campagna di stampa e di persuasione, sapientemente condotta e orchestrata, ha tambureggiato a lungo indicando il patriarca come candidato più gradito a Benedetto XVI, la maggioranza dei vescovi riuniti nella plenaria si è prontamente adeguata e, non volendo risultare in dissonanza con il pontefice, è diventata più realista del re (o meglio, più papista del papa).
Più che dalla strenua volontà di Benedetto XVI, il trasloco di Scola da Venezia a Milano nasce quindi da un’abile strategia di comunicazione e di persuasione messa al servizio di un candidato. Cosa che si ripeterà, c’è da scommetterlo, in caso di conclave, visto il successo di questa che, parafrasando il celebre film Operazione san Gennaro, possiamo ribattezzare Operazione sant’Ambrogio.
Sicuramente il papa non è scontento della scelta di Scola: la sua ammirazione per l’uomo e per il teologo è certa e si è consolidata nel tempo. Quanto al nuovo arcivescovo di Milano, difficile che in lui non emerga, in queste ore, un certo senso di rivincita, visto che diventa il capo di quella diocesi, che è poi la sua diocesi di nascita, nella quale quarant’anni fa non riuscì a essere ordinato prete (dovette “emigrare” a Teramo).
Sullo sfondo, in ogni caso, resta il problema: il funzionamento degli organi decisionali della Chiesa e la capacità di giudizio e di scelta di coloro (oggi i vescovi, domani i cardinali) che sono chiamati a decidere in un’epoca in cui la macchina dell’informazione, se pilotata in un certo modo, può diventare un soggetto determinante nell’orientare il consenso.
Se Bagnasco fa politica
di Paolo Flores d’Arcais ( il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2010)
Moralmente parlando, siamo al governo Berlusconi-Scilipoti. Politicamente, siamo al governo dei tre B: Berlusconi, Bossi e Bagnasco. Sua Eminenza, infatti, qualche istante dopo il votomercimonio con cui a Montecitorio Berlusconi aveva evitato la sfiducia, già avvertiva l’impellente stimolo di incensarlo così: “Ripetutamente gli italiani si sono espressi con un desiderio di governabilità. Questa volontà, questo desiderio espresso in modo chiaro e democratico, deve essere da tutti rispettato e da tutti perseguito con buona volontà ed onestà”. Il più lurido mercato delle vacche cui sia stato dato assistere nel Parlamento italiano viene così santificato dal presidente della Conferenza episcopale, che parla evidentemente a nome di tutti i vescovi italiani.
Cosa c’entrino “buona volontà e onestà” con lo sfacciato acquisto “un tanto al chilo”, prolungato urbi et orbi lungo tutto un mese, di uomini e donne che dovrebbero rappresentare la nazione, lo sa solo Iddio. Con questo ultimo “endorsement” al caro amico di Putin e Gheddafi, la Chiesa gerarchica ha toccato lo zenit nel suo pellegrinaggio di ritorno al costantinismo, calpestando tutte le aperture di laicità del Concilio Vaticano II e del “Papa buono” Giovanni XXIII.
In uno dei passi più noti del Vangelo (Luca, 16,13), Gesù di Galilea condanna l’avidità di ricchezze con il definitivo “voi non potete servire Dio e Mammona”, e in Italia non c’è nessuno che - con decenni di tetragona coerenza nei comportamenti pubblici e privati-abbia dimostrato di rappresentare e incarnare i (dis)valori di Mammona meglio del signor Berlusconi da Arcore. Ma al capo dei vescovi italiani, la smisurata ed esibita corruzione del potere e del danaro, imposta dal malgoverno di regime come supremo criterio di valutazione morale, sembra invece rappresentare un giulebbe di onestà e buona volontà.
Non è possibile credere che tutta la Chiesa italiana condivida tanto oltranzismo filo-berlusconiano. Certo, ci sono i “preti in prima linea”, che hanno il coraggio di condannare il “pranzo dell’ignominia con Berlusconi” e lo “scandalo della gerarchia cattolica che si è inginocchiata alla mensa della corruzione, ha offerto corruttele e in cambio ha ricevuto soldi di peccato, leggi arraffa” per concludere con un “Bagnasco, Bertone, Ruini. Liberaci, o Signore!” (don Paolo Farinella). Ma anche nella Chiesa gerarchica, tra i vescovi, possibile che i tanti che in privato sussurrano gli stessi giudizi, abbiano deciso di ridursi a una volontaria “Chiesa del silenzio”?
E Re Mida li rese tutti somari
«La festa della Gloriosa Asinità vide nella capitale un grande tripudio di folla festante. In testa ognuno esibiva copricapi di lunghe orecchie frementi»
di LAURA PARIANI (Avvenire, 05.08.2010) *
I giunchi degli stagni frigi cantavano: «Re Mida ha le orecchie d’asino». Il vento ne acchiappò la voce e propagò la notizia tra i boschi di olivi e di mandorli dolci, nei giardini di rose che emanavano la loro fragranza sotto la stella luminosa della sera. Per tutto il paese ormai non c’era persona che non sapesse il motivo per cui re Mida in pubblico si mostrasse sempre con un copricapo frigio dalle alte punte.
«Il re ha le orecchie d’asino» dicevano le serve nei mercati, mentre riempivano i panieri di focacce con le olive; e ridacchiavano pensando alle orecchie d’asino che i maestri mettono in testa agli scolari che difettano di comprendonio. «Re Mida è un asino» ghignavano i vecchi seduti all’ombra del grande fico della piazza, scuotendo il capo perché mettersi contro un dio potente come Apollo era stata proprio un’asinata che poteva meritare solo quella punizione.
E qualcuno si azzardava perfino a dire che pure quel tal barbiere, che non era riuscito a tenere il segreto per sé e aveva pensato di liberarsene scavando una buca e confidando alla sua profondità la verità scoperta sulla testa del re Mida, era stato un campione di asineria, per cui giustamente aveva pagato con la morte il poco senno.
«La gente ride di me, hi ha hi ha ...» ripeteva disperato re Mida nel chiuso delle sue lussuose stanze, agitando invano gli aliossi per cacciare i cattivi pensieri. I lacrimatoi d’oro massiccio traboccavano dei suoi pianti. Finché, una notte di mezzaluna, gli venne un’ispirazione... Di buon mattino mandò a chiamare il capo della società mercantile, il sommo sacerdote, la tenutaria del bordello più famoso e il comandante delle sue guardie. La riunione con i quattro personaggi gli portò via molte ore, ma al sopraggiungere della sera gli occhi di re Mida brillavano di una fredda luce di vendetta.
«Popolo mio» disse quella notte affacciandosi al buio dal suo balcone, «ricordati che di un re, hi ha hi ha, non si ride». L’indomani mattina nel tempio, all’ora in cui i fedeli erano intenti alle loro preghiere offrendo alle divinità crateri di vino, giare di latte e corone di rose, il sommo sacerdote tenne ai devoti questo discorso: «Lunga vita a re Mida che onora il tempio con la sua protezione, nonché con offerte di cera vergine e di arredi preziosi».
E, nel dire questo, mostrò gli anelloni d’oro che il re aveva quel mattino stesso inviato perché reggessero intorno all’ara sacra le grandi torce di pino. «Re Mida ha le orecchie d’asino. E questo è un prodigio da vantare, non da tenere nascosto. Sappiamo tutti quanto il cane sia adulatore, il gatto infido, il lupo crudele, la volpe opportunista, la colomba lasciva, il leone prepotente. Ben venga dunque la testa coronata dell’asino, animale mite e contemplativo... Con ciò arrivo a auspicare che tutti gli uomini pii dovrebbero porsi l’obiettivo di varcare la santa soglia dell’asinità. Che tutti ponderino le mie parole e nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
Un’ora dopo, mentre i soldati effettuavano il cambio della guardia davanti al palazzo reale, il comandante della guarnigione fece suonare le trombe d’oro e lesse personalmente un proclama alla folla che sempre si riuniva ad ammirare la parata:
«Lunga vita a re Mida, valoroso difensore di questa città e del suo popolo. Che Re Mida abbia le orecchie d’asino, è un grande orgoglio per noi soldati. Infatti quale cosa è più degna del fatto che un maschio inasinisca? Solida è l’asinità, possente il suo raglio: hi ha, hi ha, una manifestazione sonora ruvida, viscerale, inconfondibilmente virile: tuono di gran patria... Per non parlare della forza micidiale del calcio e del morso asinino».
E facendo schioccare per aria la lunga frusta di cuoio che portava legata alla cintura, il comandante scandì lentamente la conclusione: «Che tutti ponderino le mie parole e nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
Al mercato, nell’ora rovente in cui i cuochi arrostivano su graticci fegatelli col miele, tordi alla salvia e cosciotti di capretto lardellati, il capo dei mercanti della capitale parlò ai suoi compari, dopo aver offerto a tutti i convenuti formaggini freschi freschi, che recavano ancora i segni dei canestrini di vimini, accompagnati da vino di Samo conservato in otri odorosi di pelle di capra.
«Lunga vita a re Mida» disse, «che onora i mercanti difendendo le invenzioni locali come quelle del nostro Marsia, contro i prodotti stranieri. Lunga vita al re che mi ha onorato della sua amicizia». E nel dire questo mostrò come sulla sua tunica di lana bianca ricamata di fili d’oro e d’argento splendesse un’onorificenza nuova di zecca.
«Re Mida ha le orecchie d’asino. È questo il segno della fortuna del suo governo. Sappiamo tutti quanto gli asini siano affidabili nel trovare la strada giusta, tanto più che a quanto dicono ce ne sono alcuni che sanno perfino cacare oro. Insomma, l’asino è il socio ideale per noi mercanti. Che tutti ponderino le mie parole e che nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
Appena scesa la notte, mentre si aprivano le porte del maggior bordello della città, la tenutaria riunì intorno a sé le venditrici d’amore e tenne loro questo discorso: «Lunga vita al re che apprezza le suonatrici di flauto dalle labbra succulenti, le giovani danzatrici dai seni sodi come mele cotogne, i giovanotti profumati di lavanda e coronati di viole. Lunga vita al re che sa essere generoso con chi sa offrire notti felici e cosce depilate per il piacere del tatto o della vista».
E, sollevato il lembo della tunica di porpora di Tiro e la sottoveste di garza trasparente mostrò una cavigliera d’oro che mostrava lo stemma regale. «Re Mida ha le orecchie d’asino. È pregio da vantare, non da tenere nascosto...Felici noi, se tutti i nostri uomini, toccati dall’alito di Afrodite, mostrassero gli stessi attributi. Che tutti ponderino le mie parole e che nessuno sia fiero delle sue piccole orecchie».
La festa della Gloriosa Asinità, proclamata da re Mida nella settimana successiva, vide nella capitale un grande tripudio di folla festante. In testa, al posto delle solite corone di mirto o di lauree fronde, ognuno esibiva copricapi di lunghe orecchie frementi: intrecciate di paglia bionda per i popolani, di cuoio rosso persiano per i padroni di botteghe, di stoffa tinta di croco per le ragazze più avvenenti. Il tutto tra danze sfrenate, punta tacco punta tacco, e voci squillanti in un delirio: «Lunga vita a re Mida, hi ha, hi ha!».
*
IL MITO
Re Mida è legata a due miti, quello più conosciuto, che racconta della sua straordinaria capacità di trasformare tutto in oro, dono effimero e «scomodo»; e un secondo che racconta della punizione ricevuta da Apollo, il quale gli fa crescere le orecchie d’asino, perché durante una gara musicale con il dio Pan non lo nomina vincitore. È solo il barbiere del re a conoscere questo segreto, che però non deve rivelare a nessuno, pena guai seri. Ma il barbiere, non potendo parlare con nessuno, decide di confidare il segreto alla terra. Scava una buca cui confida ciò che sa. Il resto lo fanno le canne che crescono dove il segreto è sepolto, così che il vento lo sussurra e lo fa sapere a tutti. Il primo a parlare di Re Mida è Erodoto, ma questa figura approda anche tra i romani: Ovidio racconta i due miti nelle «Metamorfosi».
Una croce fondata sulla P2
Nasce un movimento per la difesa del crocifisso: ispirato dal Venerabile
di Carlo Tecce e Giampiero Calapà (il Fatto, 03.07.2010)
Il crocifisso di legno cade tre volte dal trespolo di una lavagna. Le braccia dell’emozionato Roberto Mezzaroma che l’agitava, in quel momento mistico e (un po’) pacchiano, erano le protesi di Licio Gelli, il gran maestro della P2.
Il cosiddetto Venerabile ha ispirato il Movimento etico per la difesa internazionale del crocifisso (Medic), presentato nella sala congressi del Michelangelo di Roma, un albergo a pochi passi dal Vaticano. La politica è corsa a sostenere l’iniziativa: c’era Olimpia Tarzia, consigliere regionale Pdl, l’ex direttore del Tg1 Nuccio Fava, atteso invano l’ex mezzobusto del Tg1 Francesco Pionati (Adc) e sono stati annunciati telegrammi ricevuti (ma non letti) dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, dal presidente emerito Francesco Cossiga e dal “divo” Giulio Andreotti.
Il disegno dell’uomo P2
Per la Chiesa è un appuntamento imperdibile: don Walter Trovato, cappellano della polizia di Stato, è il primo a sedersi al tavolo degli oratori; l’anziano monsignore Antonio Silvestrelli è l’ultimo. Non è facile contare i collarini bianchi dei preti. Gelli ha scritto il codice etico e addirittura disegnato il simbolo dell’associazione: una sfera tagliata da cerchi concentrici su sfondo azzurro, una croce nera avvolta in una stretta di mano, quattro frecce ai bordi. Il Venerabile è nella sua Villa Wanda sulle colline di Arezzo: “Questa è la mia nuova battaglia - spiega al Fatto Quotidiano - e il colore scelto per il simbolo rimanda al mare, al cielo e al grembiule della Madonna, il resto a San Francesco e le frecce rappresentano i punti cardinali”.
L’età avanzata ha impedito a Gelli di officiare la cerimonia in una sala moderna, affollata di uomini e donne vestiti con abiti scuri da sera nel caldo di mezzogiorno. Un amico di Gelli ha rimpianto l’assenza del Venerabile, criticando “la gestione troppo rude della cerimonia del costruttore Mezzaroma”. Accenti che si mescolano, spillette che si confondono. Segni, simboli, messaggi più o meno occulti, più o meno massonici. Il secondo capitolo di uno Statuto suggellato da Gelli, più che a un piano di rinascita nazionale, somiglia a una crociata pop: difendere, coinvolgere, riconoscere.
“Medic vuole far emergere - declama Mezzaroma - le radici giudaico-cristiane del mondo occidentale e promuovere il significato autentico del crocifisso quale simbolo condiviso di amore assoluto; nasce con l’ambizione di essere un movimento trasversale, che raccoglie non solo cattolici ma anche ebrei, musulmani, atei, convinti che la croce abbraccia l’umanità intera”. Quasi un comizio, senza leggere, e un po’ fuori dal protocollo per un evento mondano in pieno giorno.
L’imprenditore Mezzaroma, ex europarlamentare di Forza Italia, è stato nominato segretario generale del Medic in una riunione a Villa Wanda che, diretta come è logico da Gelli, ha indicato presidente onoraria la duchessa d’Aosta, Silvia Paternò, dei marchesi di Regiovanni , dei conti di Prades, dei baroni di Spedalotto, appartenente al Sovrano Militare Ordine di Malta .
Una roba da far impallidire la contessa Serbelloni Mazzanti Viendalmare di fantozziana memoria. Araldica pesante, insomma, tanto che “siamo già in 500: faccio politica per passione, sono iscritto al Pdl; stimo tantissimo Gel-li, ma non mi confido al telefono con nessuno” e attacca la cornetta Mezzaroma, contattato all’ultima forchettata di un banchetto fastoso. Il costruttore romano è un fan della prim’ora dei Circoli del buon governo di quel Marcello dell’Utri appena condannato a 7 anni in appello per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ex romanista parente di Lotito
Ex europarlamentare, responsabile del dipartimento “lotta alla povertà” del partito ai tempi di Forza Italia, Mezzaroma è lo zio della moglie di Claudio Lotito. Nel 2005 diventò il secondo azionista della Lazio vantandosi di “aver già salvato la Roma nel 1992 assieme ai miei fratelli, perché bisogna costruire non demolire”. E detto da lui vale un capitale, perché di cemento se ne intende. L’avventura con la Lazio è costata una condanna a un anno e 8 mesi, per un accordo definito “interpositorio” che permise a Mezzaroma di acquistare il 14,61% delle azioni biancocelesti di fatto per conto di Lotito, in modo da nascondere la titolarità del pacchetto completo con cui lo stesso Lotito avrebbe poi lanciato l’Opa. Aggiotaggio e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza, per Lotito la condanna è di due anni.
Tra i padrini chiamati a battezzare il Medic, c’era anche monsignor Alberto Silvestrelli: un alto prelato che risponde all’invito di Licio Gelli. Esponente del governo Vaticano con l’incarico di sottosegretario alla Congregazione per il clero, oltre ad essere giudice di appello del Vicariato di Roma (il tribunale dei preti) e commissario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, si occupa di sociale: alcolismo e disabili. Ai tempi della gestione Ratzinger, monsignor Silvestrelli ha ricoperto incarichi anche nella Congregazione per la dottrina della fede, la moderna Inquisizione.
Il consigliere regionale (Lazio) Olimpia Tarzia, altra commensale, vanta un ampio curriculum tra fede e politica: fondatore (e segretario generale dal ‘97 al 2006) del Movimento per la vita, il cui successo più importante è stato il fallimento del referendum sulla fecondazione assistita nel 2005. “Il crocifisso - ha affermato Tarzia - è simbolo di vita: si invoca lo Stato laico, ma lo Stato laico come democratico difende i diritti umani e il primodiquestidirittièquelloalla vita”.Il Medic è pronto a difendere il crocifisso “anche con azioni forti, a promuovere un referendum che rimetta al popolo italiano la decisione di continuare a riconoscersi in quei valori che hanno delineato i confini culturali e spirituali dell’Italia e dell’Europa”. A quei valori che affascinano Licio Gelli.
APERTA UN’INDAGINE INTERNA
Wall Street, il crollo del Dow Jones
per colpa di un refuso in un ordine
Un operatore avrebbe digitato una «b» di billion al posto di una «m» di million. Chiusura: Dow Jones -3,26% *
NEW YORK - Possibile che Wall Street bruci nel giro di quindici minuti i guadagni accumulati in oltre un anno di contrattazioni? Possibile. Ma soltanto per poco: 15 minuti di paura che rischiavano di costare carissimi agli equilibri della finanza mondiale, già fin troppo scossi in questi giorni. Il crack non era vero. O meglio, il crollo era vero, reale e stava per essere fatale. Ma non c’era motivo perché avvenisse. La causa, infatti, era in un errore di trascrizione, o trasmissione di un dato.
«M»ILLION, NON «B»ILLION - Alla fine Wall Street ha tirato un sospiro di sollievo, ma con una prova della propria fragilità che può far tremare i polsi. L’indice Dow Jones, infatti, in quei 15 minuti ha perso ben 700 punti, crollando 100 punti sotto i 10mila. Per le statistiche, sarebbe stato il crollo più forte dal 2008. Sarebbe stato, perché, mentre il panico si scatenava tra gli operatori , qualcuno è riuscito a capire che quella folle corsa a vendere era stata causata da un «refuso», un errore di scrittura di un trader nell’ordine di vendita. Lo spiega la Cnbc, secondo cui l’operatore distratto avrebbe digitato una «b» di billion al posto di una «m» di million mandando in tilt il sistema ma, soprattutto, facendo scattare il panico sui mercati di tutto il mondo.
Secondo alcune fonti, CitiGroup avrebbe aperto un’inchiesta interna sull’accaduto, cosa che fa pensare che sia un operatore di quel gruppo a causare il costosissimo errore. Il Nasdaq ha avviato una sua inchiesta interna per stabilire eventuali errori negli scambi fra le ore 14.40 e le 15.00 di new York. Le conseguenze dell’episodio, dal punto di vista delle procedure, saranno da valutare. Dal punto di vista del mercato, per fortuna, glin operatore, tirato un sospiro di sollievo, hanno subito quasi riassestato l’indice della Borsa Usa: dalle 15 alle 15.20, il Dow Jones ha recuperato 600 punti. Non abbstanza però per non ristentire del contraccolpo: la chiusura ha fatto segnare un -3,26%.
Redazione online
* Corriere delal Sera, 06 maggio 2010 (ultima modifica: 07 maggio 2010)
Socrate e Ratzinger
di Ferdinando Camon (il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2010)
La lettera del cardinale Ratzinger, pubblicata ieri da tutti i giornali, con la quale l’allora responsabile della Congregazione per la Dottrina delle Fede risponde sul problema di dispensare dagli oneri sacerdotali il reverendo Miller Kiesle, colpevole di pedofilia, invitando a prender tempo e a tener presente anche il bene della Chiesa cattolica, è un importantissimo documento storico. Perché dimostra che il cardinale (come il Papa precedente, e quello precedente ancora) avvertiva nell’affrontare i casi di pedofilia tra i preti lo scontro tra due beni: il bene delle vittime e il bene della Chiesa. I due beni non vanno d’accordo, chi ha il potere di decidere deve scegliere: o protegge le vittime danneggiando la Chiesa, o protegge la Chiesa abbandonando le vittime.
Una sconosciuta lettrice ha mandato a un giornale una letterina semplice semplice in cui espone un problema terribile per il cattolico credente. Dice: “Anch’io, se sapessi che un prete commette atti di pedofilia, non lo denuncerei alla giustizia civile ma solo alla chiesa, perché prima di dire o fare qualcosa, mi pongo sempre la domanda: a chi giova, a Dio o a Satana?”. Non denunciando, eviti un oltraggio alla Chiesa, e questo è bene, Dio lo gradisce e lo chiede. Denunciando, fai uno scandalo enorme, la Chiesa resta colpita, e questo è Satana che lo chiede e lo gradisce.
C’è un librino esile che nessuno cita (e questo mi stupisce), centrato in pieno sul problema di fronte al quale si trova Ratzinger, e prima di lui gli altri papi. È un dialogo di Socrate intitolato “Eutifrone”. Eutifrone è un sacerdote, Socrate lo trova per strada (il sacerdote sta andando a testimoniare in non so qual processo), lo ferma e impianta una discussione su questo tema: un’azione è buona perché piace a Dio, o piace a Dio perché è buona? Eutifrone, da buon sacerdote, risponde: un’azione è buona se piace a Dio. Socrate cerca di spostarlo sull’altra risposta, ma non fa in tempo, il dialogo s’interrompe.
C’è un film di qualche anno fa intitolato “Water”, acqua, e ambientato in India, in cui per pochi minuti, trequattro, appare Gandhi. Non c’entra niente con la trama del film, ma passa in treno, la gente accorre per salutarlo, lui scende per compiacerla, fa pochi passi e regala una briciola si saggezza. Dice: “Fino a ieri credevo che Dio fosse la verità, oggi so che la verità è Dio”. È un salto enorme. Il salto che Socrate cerca di far fare ad Eutifrone. Il salto che Paolo VI non ha fatto, né Giovanni Paolo II, né Ratzinger fino alla lettera ai fedeli irlandesi di poche settimane fa. Se una cosa è buona perché piace a Dio, allora non-denunciare non solo non è una colpa, ma è un merito. Se c’è da scegliere tra Dio e la Giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda.
Solo la lettera ai fedeli irlandesi rovescia questo principio. Perché dice ai preti pedofili: “Dovete rispondere davanti a Dio onnipotente, come pure davanti ai tribunali debitamente costituiti”. Non è più vero che, se c’è da scegliere tra Dio e giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda. È vero l’inverso: scegliendo la giustizia scegli Dio.
La lettera pubblicata ieri e firmata da Ratzinger è del 1985, allora tutta la cultura cattolica (tranne quella del dissenso) era vincolata a scegliere Dio, con ciò scegliendo il bene. Spostarla a scegliere il bene, nella convinzione che lì sta Dio, è un’operazione titanica, per la quale ci vorrà un lungo tempo. Con la lettera agli irlandesi questo tempo comincia. Incolpare Ratzinger di essersi formato nel tempo precedente non ha senso. È più giusto dargli atto di aver inaugurato il grande transito, cominciando a spingere la Chiesa fuori dall’etica pre-socratica.
(fercamon@alice.it )
Il Papa il potere e il veleno dei cardinali
di Vito Mancuso (la Repubblica, 4 febbraio 2010)
Sarà vero che il documento calunnioso sul direttore di Avvenire è stato consegnato al direttore del Giornale niente di meno che da Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, dietro esplicito mandato del Segretario di Stato vaticano cardinale Bertone, numero due della gerarchia cattolica a livello mondiale? E che l’insigne porporato si è servito di Vian e di Feltri per colpire il direttore di Avvenire in quanto espressione di una Conferenza Episcopale Italiana a suo avviso troppo indipendente e troppo politicamente equidistante? E che quindi il vero bersaglio del cardinal Bertone era il collega e confratello cardinal Bagnasco? Sarà vera la notizia di questo complotto intraecclesiale degno di papa Borgia e di sua figlia Lucrezia?
Come cattolico spero di no, ma come conoscitore di un po’ di storia e di cronaca della Chiesa temo di sì. Del resto fu l’allora cardinal Ratzinger, poco prima di essere eletto papa, a parlare di "sporcizia" all’interno della Chiesa (25 marzo 2005). Qualcuno in questi cinque anni l’ha visto fare pulizia? Direi di no, e forse non a caso proprio ieri egli ha parlato di «tentazione della carriera, del potere, da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di governo nella Chiesa». Quindi è lecito pensare che la sporcizia denunciata dal Papa abbia potuto produrre l’abbondante dose di spazzatura morale di cui ora forse veniamo a conoscenza.
Naturalmente come siano andate davvero le cose è dovere morale dei diretti interessati chiarirlo. Con una precisa consapevolezza: che gli storici un giorno indagheranno e ricostruiranno la verità, la quale alla fine emerge sempre, chiara e splendente, perché non c’è nulla di più forte della verità. Le bugie hanno le gambe corte, dice il proverbio, e questo per fortuna vale anche per il foro ecclesiastico. Siamo in un mondo che è preda di una devastante crisi morale. Le anime dei giovani sono aggredite dalla nebbia del nichilismo. Parole come bene, verità, giustizia, amore, fedeltà, appaiono a un numero crescente di persone solo ingenue illusioni.
La missione morale e spirituale della Chiesa è più urgente che mai. E invece che cosa succede? Succede che la gerarchia della Chiesa pensa solo a se stessa come una qualunque altra lobby di potere, e come una qualunque altra lobby è dilaniata da lotte fratricide all’interno. Certo, nulla di nuovo alla luce dei duemila anni di storia e di certo nessun cattolico sta svenendo disilluso. Rimane però il problema principale, e cioè che oggi, molto più di ieri, il criterio decisivo per fare carriera all’interno della Chiesa non è la spiritualità e la nobiltà d’animo ma il servilismo, e che la dote principale richiesta al futuro dirigente ecclesiastico non è lo spirito di profezia e l’ardore della carità, ma l’obbedienza all’autorità sempre e comunque.
Eccoci dunque al tipo umano che emerge dalle cronache di questi giorni: il cosiddetto "uomo di Chiesa". È la presenza sempre più massiccia di persone così ai vertici della Chiesa che mi rende propenso a credere che le accuse alla coppia Bertone-Vian siano fondate. Impossibile però non vedere che nella storia ecclesiastica misfatti di questo genere contro gli elementari principi della morale ne sono avvenuti in quantità. Anzi, che cosa sarà mai un foglietto calunnioso passato al direttore di un giornale laico per far fuori il direttore del giornale cattolico, rispetto alle torture e ai morti dell’Inquisizione? È noto che il potere temporale dei papi si è basato per secoli su un documento falso quale la Donazione di Costantino, attribuito all’imperatore romano e invece redatto qualche secolo dopo dalla cancelleria papale.
Che cosa concludere allora? Che è tutto un imbroglio? No, il messaggio dell’amore universale per il quale Gesù ha dato la vita non è un imbroglio. L’imbroglio e gli imbroglioni sono coloro che lo sfruttano per la loro sete di potere, per la quale hanno costruito una teologia secondo cui credere in Gesù significa obbedire sempre e comunque alla Chiesa. Secondo l’impostazione cattolico-romana venutasi a creare soprattutto a partire dal concilio di Trento la mediazione della struttura ecclesiastica è il criterio decisivo del credere. Lo esemplificano al meglio queste parole di Ignazio di Loyola rivolte a chi «vuole essere un buon figlio della Chiesa»: «Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica». Ne viene che il baricentro spirituale dell’uomo di Chiesa non è nella propria coscienza, ma fuori di sé, nella gerarchia. I "principi non negoziabili" non sono dentro di lui ma nel volere dei superiori, e se gli si ordina di scrivere la falsa donazione di Costantino egli lo fa, e se gli si ordina di torturare gli eretici egli lo fa, e se gli si ordina di appiccare il fuoco alle fascine per il rogo egli lo fa, e se gli si ordina di passare un documento falso egli lo fa. Ecco l’uomo di Chiesa voluto e utilizzato da una certa gerarchia.
È questa la sporcizia a cui si riferiva il cardinal Ratzinger nel venerdì santo del 2005? È questo il carrierismo denunciato ieri da Benedetto XVI? Il messaggio di Gesù però è troppo importante per farselo rovinare da qualche personaggio assetato di potere della nomenklatura vaticana. Una fede matura sa distaccarsi dall’obbedienza incondizionata alla gerarchia e se vede bianco dirà sempre che è bianco, anche se è stato stabilito che è nero. Né si presterà mai a intrighi di sorta "per il bene della Chiesa". La vera Chiesa infatti è molto più grande del Vaticano e dei suoi dirigenti, è l’Ecclesia ab Abel, cioè esistente a partire da Abele in quanto comunità dei giusti. In questa Chiesa quello che conta è la purezza del cuore, mentre non serve a nulla portare sulla testa curiosi copricapo tondeggianti, viola, rossi o bianchi che siano.
Camus, Pio XII e il linguaggio “chiaro”
di Franck Nouchi (Le Monde, 20 gennaio 2010) (traduzione: www.finesettimana.org)
Sono state alcune immagini intraviste nei telegiornali del fine settimana, appena il tempo di vedere papa Benedetto XVI varcare la soglia della sinagoga di Roma. Atmosfera in apparenza cordiale, niente lasciava trasparire il turbamento suscitato nella comunità ebraica italiana dall’annuncio della prossima beatificazione di Pio XII. Segno che questa visita rivestiva un carattere eccezionale, si notavano tra i presenti personalità come l’arcivescovo di Parigi - il cardinale André Vingt-Trois -, il patriarca di Gerusalemme, il grande rabbino di Haifa e Andrea Riccardi, presidente della comunità di Sant’Egidio.
Evocando l’atteggiamento del Vaticano durante la Shoah, il papa ha detto che la Sede apostolica aveva “condotto un’azione di aiuto, spesso sconosciuta e discreta”. Alla fine della cerimonia, dei discendenti di deportati hanno consegnato a Benedetto XVI una lettere firmata da diversi sopravvissuti: “A quell’epoca, noi siamo stati abbandonati da tutti. Che questo silenzio di tutti non sia un silenzio nel futuro.”
Per il momento, non potendo avere accesso agli archivi del Vaticano sul pontificato di Pio XII, dobbiamo accontentarci del lavoro degli storici e di qualche testimonianza.
In una lettera inviata a Le Monde, il grande rabbino di Strasburgo, René Gutman, ci invita a rileggere il testo di Albert Camus. In “L’incroyant et les chrétiens” (Actuelles, 1948), l’autore di Lo straniero scriveva: “Ho a lungo atteso in quegli anni spaventosi che una grande voce si levasse a Roma (...). Mi hanno spiegato dopo che la condanna era stata davvero emessa. Ma che era stata espressa nel linguaggio delle encicliche che non è affatto chiaro. La condanna era stata emessa, ma non era stata compresa! (...) Quello che il mondo si aspetta dai cristiani è che i cristiani parlino, a voce alta e chiara, e che esprimano la loro condanna in maniera tale che mai il dubbio, mai un solo dubbio, possa sorgere nel cuore dell’uomo più semplice.”
Quattro anni prima, in Combat (datato 29 dicembre 1944), Camus esprimeva già lo stesso sentimento: “Da anni aspettavamo che la più grande autorità spirituale di questo tempo si decidesse a condannare in termini chiari le imprese delle dittature. (...) Il nostro segreto desiderio era che ciò fosse detto nel momento stesso in cui il male trionfava e in cui le forze del bene erano imbavagliate. (...) Diciamolo chiaramente, avremmo voluto che il papa prendesse posizione, proprio in quegli anni vergognosi, e denunciasse quelle che bisognava denunciare.”
In fondo, è questa la grande lezione. Di fronte a degli avvenimenti gravi, dire i fatti, alto e forte, non foss’altro che per semplice spirito di solidarietà. Mai rifugiarsi nell’astruso. Sempre fare in modo di essere compresi da tutti. Un silenzio glaciale accompagnava tutti coloro che era portati via verso i campi di morte.
LA VERGOGNA DI PARLARE SENZA VERGOGNA
di Tullio De Mauro (l’Unità, 03.01.2010)
Nella simpatica trasmissione di Corrado Augias, gli ospiti finiscono col parlare delle cose più varie. Nella puntata più recente Umberto Galimberti, già valente studioso di psicologia, è apparso ancora su un terreno suo quando ha cominciato a parlare di vergogna. In effetti si legge ancora utilmente l’articolo “vergogna” che scrisse molti anni fa nel suo bel «Dizionario di psicologia». C’è ancora il sentimento della vergogna? Conduttore e ospite sono scivolati verso la sociologia d’arrembaggio e hanno detto concordi che quel sentimento va scomparendo.
Del vero ci deve essere se in questi anni il francese ha avuto fortuna una nuova parola, riecheggiata in altre lingue: “extimitè”, il contrario di “intimità”, per indicare la propensione a esibire sfacciatamente momenti e atti della propria intimità fisica e sentimentale. E tuttavia vien fatto di osservare che l’esibizione sfacciata ha senso solo perché sfida un persistente senso comune di discrezione. Se l’intero pubblico fosse fatto da svergognati abituali non avrebbero audience trasmissioni che illustrano le recondite fattezze e assai private movenze di qualche grande fratello o sorella (i ladri, diceva Chesterton, sono i più convinti assertori del diritto di proprietà). E colpisce che personalità inclini all’esibizione del loro privato si segnalino per la loro abitudine, quasi un tic irrefrenabile, di gridare ripetutamente in pubblico fino allo spasimo «Vergogna! Vergogna! Vergogna» a interlocutori con cui non concordino. Dunque anche per loro il senso della vergogna non è ancora morto.
Nella trasmissione di Augias lo psicologo e ora filosofo della storia si è avventurato a dire con aria grave: «Del resto, l’etimologia della parola vergogna è “vereo gognam”, temo la gogna». E qui le cose da ricordare sono parecchie.
La prima, nota anche a studenti di latino diligenti, è che in latino si dice “vereor” e non “vereo” (il verbo è cioè un “deponente”).
La seconda è che “gogna” non è parola latina, ma italiana moderna.
La terza osservazione è che “vergogna” (diversamente da “gogna”) appartiene alle parole di più sicura etimologia ed è la continuazione popolare del vocabolo “verecundia”, un sostantivo latino tratto da “vereri” (come “facundia” era tratto da “fari”, parlare).
Queste sono cose che si dicono con (appunto) un po’ di vergogna a causa della ovvietà che hanno per chiunque tenga a portata di mano, non diciamo un vocabolario etimologico (chiaro, accessibile, aggiornato è quello di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli), ma un qualsiasi buon vocabolario italiano. Sono cose banali e non è un peccato mortale ignorarle. Ma forse è una piccola vergogna, se si impiega e si dissipa l’autorità guadagnata in altri campi per spacciare notizie etimologiche senza fondamento.
«La famiglia, icona di Dio»
di Benedetto XVI (Avvenire, 27.12.2009)
Cari fratelli e sorelle!
Ricorre oggi la domenica della Santa Famiglia. Possiamo ancora immedesimarci nei pastori di Betlemme che, appena ricevuto l’annuncio dall’angelo, accorsero in fretta alla grotta e trovarono “Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia” (Lc 2,16). Fermiamoci anche noi a contemplare questa scena, e riflettiamo sul suo significato. I primi testimoni della nascita del Cristo, i pastori, si trovarono di fronte non solo il Bambino Gesù, ma una piccola famiglia: mamma, papà e figlio appena nato. Dio ha voluto rivelarsi nascendo in una famiglia umana, e perciò la famiglia umana è diventata icona di Dio! Dio è Trinità, è comunione d’amore, e la famiglia ne è, in tutta la differenza esistente tra il Mistero di Dio e la sua creatura umana, un’espressione che riflette il Mistero insondabile del Dio amore. L’uomo e la donna, creati ad immagine di Dio, diventano nel matrimonio “un’unica carne” (Gen 2,24), cioè una comunione di amore che genera nuova vita. La famiglia umana, in un certo senso, è icona della Trinità per l’amore interpersonale e per la fecondità dell’amore.
La liturgia odierna propone il celebre episodio evangelico di Gesù dodicenne che rimane nel Tempio, a Gerusalemme, all’insaputa dei suoi genitori, i quali, stupiti e preoccupati, ve lo ritrovano dopo tre giorni mentre discute con i dottori. Alla madre che gli chiede spiegazioni, Gesù risponde che deve “essere nella proprietà", nella casa del suo Padre, cioè di Dio (cfr Lc 2,49). In questo episodio il ragazzo Gesù ci appare pieno di zelo per Dio e per il Tempio. Domandiamoci: da chi aveva appreso Gesù l’amore per le “cose” del Padre suo? Certamente come figlio ha avuto un’intima conoscenza del Padre suo, di Dio, una profonda relazione personale permanente con Lui, ma, nella sua cultura concreta, ha certamente imparato le preghiere, l’amore verso il Tempio e le Istituzioni di Israele dai propri genitori.
Dunque, possiamo affermare che la decisione di Gesù di rimanere nel Tempio era soprattutto frutto della sua intima relazione col Padre, ma anche frutto dell’educazione ricevuta da Maria e da Giuseppe. Qui possiamo intravedere il senso autentico dell’educazione cristiana: essa è il frutto di una collaborazione sempre da ricercare tra gli educatori e Dio. La famiglia cristiana è consapevole che i figli sono dono e progetto di Dio. Pertanto, non li può considerare come proprio possesso, ma, servendo in essi il disegno di Dio, è chiamata ad educarli alla libertà più grande, che è proprio quella di dire “sì” a Dio per fare la sua volontà. Di questo “sì” la Vergine Maria è l’esempio perfetto. A lei affidiamo tutte le famiglie, pregando in particolare per la loro preziosa missione educativa.
Udienza generale di Giovanni Paolo II
"LA PIENA DI GRAZIA"
Mercoledì, 8 maggio 1996
1. Nel racconto dell’Annunciazione, la prima parola del saluto angelico: "Rallegrati", costituisce un invito alla gioia che richiama gli oracoli dell’Antico Testamento rivolti alla "figlia di Sion". Lo abbiamo rilevato nella precedente catechesi, enucleando anche i motivi su cui tale invito si fonda: la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, la venuta del re messianico e la fecondità materna. Questi motivi trovano in Maria pieno compimento. L’angelo Gabriele, rivolgendosi alla Vergine di Nazaret, dopo il saluto chaire, "rallegrati", la chiama kecharitoméne, "piena di grazia". Le parole del testo greco chaire e kecharitoméne presentano tra loro una profonda connessione: Maria è invitata a gioire soprattutto perché Dio l’ama e l’ha colmata di grazia in vista della divina maternità! La fede della Chiesa e l’esperienza dei santi insegnano che la grazia è fonte di gioia e che la vera gioia viene da Dio. In Maria, come nei cristiani, il dono divino genera una profonda letizia.
2. Kecharitoméne: questo termine rivolto a Maria appare come una qualifica propria della donna destinata a diventare la madre di Gesù. Lo ricorda opportunamente la Lumen gentium, quando afferma: "La Vergine di Nazaret è, per ordine di Dio, salutata dall’angelo nunziante quale "piena di grazia"" (LG 56). Il fatto che il messaggero celeste la chiami così conferisce al saluto angelico un valore più alto: è manifestazione del misterioso piano salvifico di Dio nei riguardi di Maria. Come ho scritto nell’Enciclica Redemptoris Mater: "La pienezza di grazia indica tutta l’elargizione soprannaturale, di cui Maria beneficia in relazione al fatto che è stata scelta e destinata ad essere Madre di Cristo" (n. 9). "Piena di grazia", è il nome che Maria possiede agli occhi di Dio. L’angelo, infatti, secondo il racconto dell’evangelista Luca, lo usa ancor prima di pronunciare il nome di "Maria", ponendo così in evidenza l’aspetto prevalente che il Signore coglie nella personalità della Vergine di Nazaret.
L’espressione "piena di grazia" traduce la parola greca kecharitoméne, la quale è un participio passivo. Per rendere con più esattezza la sfumatura del termine greco, non si dovrebbe quindi dire semplicemente "piena di grazia", bensì "resa piena di grazia" oppure "colmata di grazia", il che indicherebbe chiaramente che si tratta di un dono fatto da Dio alla Vergine. Il termine, nella forma di participio perfetto, accredita l’immagine di una grazia perfetta e duratura che implica pienezza. Lo stesso verbo, nel significato di "dotare di grazia", è adoperato nella Lettera agli Efesini per indicare l’abbondanza di grazia, concessa a noi dal Padre nel suo Figlio diletto (Ef 1,6). Maria la riceve come primizia della redenzione (cf. Redemptoris Mater, 10).
3. Nel caso della Vergine l’azione di Dio appare certo sorprendente. Maria non possiede alcun titolo umano per ricevere l’annuncio della venuta del Messia. Ella non è il sommo sacerdote, rappresentante ufficiale della religione ebraica, e neppure un uomo, ma una giovane donna priva d’influsso nella società del suo tempo. Per di più, è originaria di Nazaret, villaggio mai citato nell’Antico Testamento. Esso non doveva godere di buona fama, come traspare dalle parole di Natanaele riportate dal vangelo di Giovanni: "Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?" (Gv 1,46).
Il carattere straordinario e gratuito dell’intervento di Dio risulta ancora più evidente dal raffronto con il testo lucano, che riferisce la vicenda di Zaccaria. Di questi è messa infatti in evidenza la condizione sacerdotale, come pure l’esemplarità della vita che rende lui e la moglie Elisabetta modelli dei giusti dell’Antico Testamento: essi "osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore" (Lc 1,6). L’origine di Maria, invece, non viene neppure indicata: l’espressione "della casa di Davide" (Lc 1,27) si riferisce, infatti, soltanto a Giuseppe. Non si fa cenno poi del comportamento di Maria. Con tale scelta letteraria, Luca evidenzia che in lei tutto deriva da una grazia sovrana. Quanto le è concesso non proviene da nessun titolo di merito, ma unicamente dalla libera e gratuita predilezione divina.
4. Così facendo, l’evangelista non intende certo ridimensionare l’eccelso valore personale della Santa Vergine. Vuole piuttosto presentare Maria come puro frutto della benevolenza di Dio, il quale ha preso talmente possesso di lei da renderla, secondo l’appellativo usato dall’Angelo, "piena di grazia". Proprio l’abbondanza di grazia fonda la nascosta ricchezza spirituale in Maria. Nell’Antico Testamento Jahweh manifesta la sovrabbondanza del suo amore in molti modi e in tante circostanze. In Maria, all’alba del Nuovo Testamento, la gratuità della divina misericordia raggiunge il grado supremo. In lei la predilezione di Dio testimoniata al popolo eletto, ed in particolare agli umili e ai poveri, raggiunge il suo culmine. Alimentata dalla Parola del Signore e dall’esperienza dei santi, la Chiesa esorta i credenti a tenere lo sguardo rivolto verso la Madre del Redentore e a sentirsi come lei amati da Dio. Li invita a condividerne l’umiltà e la povertà affinché, seguendo il suo esempio e grazie alla sua intercessione, possano perseverare nella grazia divina che santifica e trasforma i cuori.
* http://digilander.libero.it/domingo7/gp2.htm
o E- MAIL DI SOLIDARIETA’ PER DON ALESSANDRO SANTORO ALL’ARCIVESCOVO DI FIRENZE
o http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4502
Inviato: venerdì 30 ottobre 2009 18.32 A: ’info@diocesifirenze.it’
CARO ARCIVESCOVO ...
MA CHE FA IL DIRETTORE DI BANCA?!
SI È MESSO AD ACCUMULARE SANTO ORO E A VENDERE
L’ “EU-CHARIS-STIA” A “CARO PREZZO” (BENEDETTO XVI, DEUS CARITAS EST, SCV 2006)!?!
NON È IL CASO DI FINIRLA CON IL “LATINORUM”?!
“CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST” (1Gv., 4., 1-8).
M. CORDIALI SALUTI, FEDERICO LA SALA
Allegato:
http://www.youtube.com/watch?v=gkrnK0igAP0&NR=1 [da L’oro di Napoli - una ’poesia’ di Eduardo]
Federico La Sala
Il diacono Aniello D’Angelo scrive al Papa anunciando di lasciare la Chiesa dopo i tanti torti subiti negli ultimi anni
"NON MI RICONOSCO NELLA VOSTRA OPULENZA"
Il docente di religione denuncia le "ipocrisie" del clero, svela i "veleni" contro di lui.
"La Diocesi di Vallo specula sulle case e non aiuta i poveri"
di Vincenzo Rubano *
VALLO DELLA LUCANIA - Vuole restare con i suoi ragazzi "fino alla morte", ed essere ridotto allo stato di laico perché non si rispecchia più nella Chiesa di oggi. E’ la richiesta di Aniello D’Angelo, docente di religione, residente a Centola, diacono dal 1997. Il docente ha scritto direttamente a Benedetto XVI per spiegare le motivazioni del suo gesto, che hanno già gettato nello sgomento i vertici della diocesi di Vallo della Lucania. “E’ da molto tempo che meditavo una simile scelta che mi è costata tanta riflessione e dolore - precisa D’Angelo - La decisione l’ho presa all’apertura dei lavori della FAO che si è tenuta a Roma nei giorni scorsi, quando, già in disaccordo con questi tipi di eventi, celebrati alle spalle dei poveri e con grande dispendio economico, ho visto la presenza di papa Benedetto XVI, che partecipa ad una tale manifestazione, indossando croce e anello d’oro. Sono stato diacono permanente dal 1997 e mi ero illuso - spiega ancora D’Angelo - di dare un contributo ad una chiesa che brillasse per sincerità, umiltà e povertà; invece ho dovuto constatare che la maggior parte delle azioni ecclesiali sono mirate solo a fini economici e di affermazione di potere”.
Ma il diacono cilentano, che avrebbe preferito non pubblicizzare la sua vicenda, evidenzia numerose perplessità anche all’interno della diocesi di Vallo: “A livello diocesano - spiega il docente - le cose sono sotto gli occhi di tutti: la diocesi di Vallo ha investito la maggior parte delle sue energie nell’edificazione di un regno di Dio fatto di musei spogli, di “fontanelle” come il cinema, il teatro, le rendite dai molteplici immobili di proprietà. Voglio restare fuori dall’avallare questo stato di cose e dire basta alle bugie e falsità di molti esponenti della gerarchia ecclesiale che mi hanno toccato anche personalmente”.
D’Angelo fa riferimento ad abusi subiti in prima persona: “Ho saputo di una lettera segreta e introvabile, vista da alcuni miei colleghi tra le mani del vescovo, spedita dall’ex dirigente scolastico del liceo scientifico di Vallo che chiedeva di non rinnovarmi la nomina in quella scuola, come infatti avvenne dal successivo anno scolastico. Per questo voglio la verità e la condanna di eventuali responsabili. Tale fatto mi ha molto danneggiato a livello fisico ed economico, se si pensa che da allora le sedi scolastiche a me assegnate sono lievitate, fino alle attuali sei, in sei comuni diversi e molto distanti tra loro”. Ora D’angelo aspetta di essere chiamato in Vaticano e chiarire la sua posizione. Nel frattempo ha fondato l’ associazione “Chiesa degli ultimi” per aiutare chi è più debole, chi è vittima dell’incuria umana, chi è emarginato dalla società.
* Julie-news, La Città, Quotidiano di Salerno e Provincia, 19/11/2009, p. 28
Come osi dire "Padre"? Ma CHI è il "Padre" tuo?
Una breve considerazione di Erasmo, ad onorem di tutte le gerarchie (laiche e religiose) del nostro tempo.
di Erasmo da Rotterdam *
Quale preghiera, vorrei sapere, recitano i soldati durante [le] messe? Il Pater noster?
Faccia di bronzo! Osi chiamarlo "padre", tu che vuoi tagliare la gola al tuo fratello?
"Sia santificato il tuo nome". Che cosa c’è che disonori il nome di Dio più che queste vostre risse?
"Venga il tuo Regno". Preghi così tu, che con tanto sangue hai edificato la tua tirannide?
"Sia fatta la tua volontà così in cielo come in terra". Lui vuole la pace e tu prepari la guerra?
"Dacci il nostro pane quotidiano". Chiedi al Padre comune il pane quotidiano tu, che incendi le messi del fratello e preferisci morire di fame tu stesso, piuttosto che egli se ne giovi? Con che fronte pronunci queste parole:
"E rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori", tu, che ti appresti alla strage fraterna?
"E non ci indurre in tentazione". Scongiuri il pericolo della tentazione tu, che con tuo rischio provochi il rischio del tuo fratello?
"Ma liberaci dal male". Chiedi di essere liberato dal male tu, che dal male sei ispirato a ordire il male estremo del tuo fratello? (Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, 1509)
Altrachiesa
La scandalosa “perdonanza” del do ut des. Lettera aperta di padre Silvano Nicoletto al card. Bertone
Pubblichiamo la lettera che il religioso stimmatino p. Silvano Nicoletto di Verona ha inviato al card. Tarcisio Bertone, sulle ultime vicende Stato-Chiesa. *
A Sua Eminenza
Card. Tarcisio Bertone
Segreteria di Stato
Città del Vaticano
Oggetto: Alla notizia dell’annullamento della cena Bertone - Berlusconi e della partecipazione alla festa della Perdonanza.
Ad ogni buon conto, Signor Cardinale, resta il fatto che l’appuntamento a cena con Berlusconi era concordato e programmato. All’ultimo momento, l’articolo apparso su “Il Giornale” ai danni di Dino Boffo, direttore di “Avvenire”, ha provocato quello che tutti conosciamo.
La cena e la partecipazione del premier alla celebrazione della “Perdonanza”, erano comunque nel vostro programma.
Sua Eminenza, conosce molto meglio del sottoscritto cosa si pensa negli ambienti della politica internazionale del nostro premier. I suoi comportamenti “privati”, gli attacchi alla democrazia perpetrati attraverso leggi ad personam promulgate a colpi di mozioni di fiducia, hanno fatto sì che un’istituzione importante come il Parlamento della Repubblica sia di fatto ridotta ad un’istituzione blindata a servizio degli interessi di famiglia del premier. Gli attacchi alle istituzioni che contrastano i suoi disegni e che mettono in luce i reati di varia natura di cui Berlusconi è imputato, i tentativi di imbavagliare la stampa e il pesante controllo sull’informazione televisiva sono sotto gli occhi di tutti. Gli spiriti più retti ed onesti sono seriamente preoccupati per la salute della democrazia nel nostro paese.
Il Vangelo (Mc. 6, 14-29) della liturgia del martirio di Giovanni Battista, brano proclamato nella celebrazione della “Perdonanza”, ci parla del “festino” dato da Erode per i grandi della sua corte e per i notabili della Galilea. Egli pensò bene di rendere “elegante” quella cena con la presenza di signore e signorine di bell’aspetto. Giovanni, che non aveva alcuna “ragione di stato” da difendere, non temeva di esprimersi con la schiettezza tipica dei profeti. Oltretutto, nonostante il tono graffiante, ad Erode la cosa non dispiaceva affatto. “Anche se nell’ascoltarlo rimaneva perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri”. In fondo perché non osare parlare con sincerità anche ai potenti dei nostri giorni?
Mi chiedo, cosa avrebbe detto il cardinale Segretario di Stato nell’omelia della festa della Perdonanza presente il Presidente del Consiglio?
Avrebbe parlato di “festino” o di “cena elegante” per non sottintendere certi convegni equivoci avvenuti nelle residenze del capo? Si sarebbe soffermato sulle qualità seducenti della figlia di Erodiade o avrebbe sorvolato per non alludere troppo? Avrebbe poi ricordato al Presidente del Consiglio che nel nostro mediterraneo si consuma una tragica danza, ben più macabra di quella del banchetto di Erode, nella quale una quantità considerevole di disperati hanno perso la vita, disperati considerati invece colpevoli dalle leggi del governo italiano?
Quelle famigerate norme sulla sicurezza, norme che stabiliscono il reato di clandestinità, come Lei ben sa, hanno ottenuto il consenso esplicito di Silvio Berlusconi per compiacere così alla Lega Nord che, come contropartita, gli garantisce il potere di governare.
Chiedo scusa a Sua Eminenza se persisto nel dubbio che la sua parola sarebbe stata molto diversa da quella coraggiosa di Giovanni Battista.
Le gerarchie che Lei rappresenta non hanno acconsentito a quell’evento nella prospettiva di rimetterci la testa. Non sono il solo a pensare che ...Pilato ed Erode quel giorno divennero amici per una ragione di convenienza... Voi potenti, a parole, nei vostri documenti, proclamate le ragioni della gratuità, ma nei fatti credete nella logica del do ut des, nella logica della ragion di stato. Anche voi, all’occasione, sapete far tacere la voce della coscienza i cui presupposti stanno al di là ciò che conviene. La coscienza non si interroga sul vantaggio che ne ricava ma su ciò che è bene e ciò che è male, e ne trae le conseguenze.
Cosa vi aspettavate come contraccambio da Berlusconi? A noi poveracci non è dato di saperlo.
Eppure una giustizia c’è! E se non ci pensano i nobili pastori di Santa Madre Chiesa ad attuarla, ci pensa il diavolo. Il buon diavolo appunto, come si suol dire, anche stavolta ha pensato bene di fare le pentole senza i coperchi. È bastato l’articolo di Feltri per rompere l’incantesimo di un idillio. Ma la responsabilità di questo vostro scandalo vi rimane attaccata addosso ugualmente, tutta intera!
Mi permetta una semplice domanda: era necessaria questa nefanda commedia all’italiana?
Se cerco di mettermi nei panni di Berlusconi, la risposta non può che essere affermativa.
Si, per recuperare il consenso colato a picco, dopo le sconcezze venute alla luce nei mesi scorsi e soprattutto dopo l’approvazione delle norme antiumane ed anti cristiane del pacchetto sicurezza, era necessario apparire accanto al cardinale Segretario di Stato.
Veniva così riconfermata la sua tesi di sempre e cioè che il suo governo è in ottimi rapporti con la Santa Sede. La preannunciata visita a S. Giovanni Rotondo avrebbe poi completato l’operazione di lifting spiritual politico.
Ha visto bene il Cavaliere! Come poi ha dichiarato, non poteva dimenticare che ai tempi dei DICO, sguinzagliando i fidi membri dei vostri movimenti cattolici, avevate fatto il diavolo a quattro per mettere in difficoltà il governo Prodi e ci siete riusciti.
Arriverà mai quel giorno in cui la finirete di prestarvi a questi meschini giochi di potere per dei miseri piatti di lenticchie? Non otterrete che il disprezzo del sale insipido, degno di essere calpestato. Tutto vi andrà per traverso. Arriverà dunque mai quel giorno?
La domanda è posta da un povero prete che da trent’anni a questa parte non fa che cercare di servire la causa del Vangelo nella Chiesa Cattolica. Da questo versante le cose assumono un’altra dimensione. Non era necessario questo squallido balletto! Era necessario il contrario: opporre un netto rifiuto. Lei non si sarebbe dovuto prestare ad alcuna strumentalizzazione.
Cosa può pensare la gente semplice che vede il Card. Bertone in compagnia del nostro dominante? Conclude logicamente che la Chiesa, anche nella sua espressione magisteriale, è schierata dalla sua parte.
Berlusconi avrebbe così raggiunto il suo scopo, mentre, a Sua Eminenza gli avrebbe riservato la figura dell’utile idiota. Anche se il “prestigio” dei sacri palazzi non mi interessa, devo tuttavia ammettere che mi disgusta assistere ad una simile caduta di stile.
Se invece, consapevole dell’elevato tributo da versare, in vista di qualche ritorno vantaggioso per la sua istituzione ha ceduto alle lusinghe del potente (ma è poi potente? Pugno di polvere! Vanitosa nullità), Sua Eminenza ha agito da disonesto sia verso ciò che rappresenta, che verso i fedeli che guardano a lui per ricevere esempio di rettitudine evangelica non di cinismo politico.
Io credo, Signor Cardinale, che Lei abbia mancato di rispetto verso se stesso. In pratica ha venduto la sua dignità di uomo e di Vescovo al mercante di passaggio.
Penso inoltre che il suo comportamento sia stato offensivo verso il Popolo di Dio. E’ stato chiamato al ministero episcopale per annunciare il Vangelo, non per fare politica di basso profilo.
Infine ha gettato disprezzo sul ministero di molti presbiteri che, come il sottoscritto, ogni giorno sostengono la fatica di annunciare il Vangelo (che è alto e altro dalle logiche dei potenti e della ragion di stato) in un mondo che s’è fatto adulto, critico ed esigente.
Atteggiamenti come il suo sono di grande ostacolo all’evangelizzazione!
Rientri in se stesso, Signor Cardinale. Veda da dove è caduto e ritorni all’amore di un tempo.
Un richiesta sincera di perdono al Popolo di Dio non guasterebbe affatto. A Lei restituirebbe dignità e ai fedeli chiarezza evangelica.
Faccia in modo che il Signore non rimuova il candelabro dal suo posto (Ap. 2,5).
Un fraterno saluto.
P. Silvano Nicoletto
Religioso Stimmatino
Sezano, Verona - 30 agosto 2009
Ne parla il segretario di Stato in un’intervista rilasciata alla vigilia della Perdonanza celestiniana
Il progetto di Chiesa e di società di Benedetto XVI *
Il perdono è la forza della Chiesa per vincere il male ed è il percorso scelto da Benedetto XVI per proporre in termini convincenti alla società contemporanea una rinnovata apertura a Dio. Il cardinale Tarcisio Bertone, in una intervista esclusiva al nostro giornale, prende spunto dalla celebrazione della Perdonanza celestiniana all’Aquila il 28 agosto per ribadire che solo una Chiesa e una società inclusive rispecchiano il progetto per cui sta operando Benedetto XVI. È la prima volta di un segretario di Stato alla storica celebrazione, decisa quale segno di affetto e vicinanza del Papa alle popolazioni abruzzesi colpite dal terremoto. Tanti gli spunti concreti di novità per sacerdoti e laici, che ci saranno nella curia romana e nella pastorale, che il cardinale Bertone offre. La pubblica opinione è chiamata a un alto senso di responsabilità che aiuta, tra l’altro, a superare ogni fraintendimento sul percorso scelto da Papa Benedetto, il pontefice che non brandisce la spada dello scontro e si fa capire dalla gente.
Perché il cardinale segretario di Stato ha deciso quest’anno di partecipare alla celebrazione del Perdono di Celestino V?
Il segretario di Stato è un vescovo e come primo collaboratore del Papa partecipa alla sua missione pastorale per il bene del popolo di Dio. Dopo aver celebrato il rito funebre per le vittime del terremoto, sono stato invitato a presiedere all’inaugurazione dell’Anno celestiniano e della sessantesima Settimana liturgica nazionale che doveva tenersi all’Aquila. Ho accettato volentieri sia per la connessione affettiva e spirituale che ormai mi lega alla terra abruzzese, sia per il tema scelto: il sacramento del perdono, forza che vince il male. Poi, per evidenti motivi, la Settimana liturgica è stata trasferita a Barletta, in Puglia, mentre la festa della Perdonanza non poteva che essere celebrata all’Aquila, sotto il segno della riconciliazione che ricostruisce la comunione con Dio e con i fratelli, e risana le ferite del corpo e dello spirito. La mia partecipazione, inoltre, si pone in continuità con la vicinanza del Papa alle popolazioni abruzzesi colpite dal terremoto. Dopo la sua commovente visita all’Aquila, il Papa ha seguito l’azione della Chiesa, che si è espressa con i generosi contributi di molte diocesi italiane e non italiane, e si mantiene informato sull’azione delle istituzioni civili, sugli aiuti già avviati e anche sulle promesse fatte a livello internazionale, in occasione del g8. Come tutti noi, auspica che nulla possa fare pensare a lentezze o a disimpegno nel ridare alle persone la possibilità di riprendere una normale vita familiare nelle loro case, ricostruite o rese agibili, e nelle loro attività economiche e sociali.
La Perdonanza fu una importante iniziativa di Celestino V per estendere con larghezza le indulgenze spirituali, che in questo modo erano messe a disposizione anche dei cristiani più umili. Qual è l’attenzione ai poveri della Chiesa di Benedetto XVI?
Conosciamo la forza dirompente dell’atto compiuto da Celestino V: il suo dono ha spinto poi il suo immediato successore, Bonifacio viii, a promulgare il Giubileo, con l’indulgenza estesa ormai a tutto il mondo, in un impulso plenario di rinnovamento, di perdono e di condono anche a livello economico e sociale, oltre che spirituale. Si rammentino le iniziative planetarie nate dal Giubileo del 2000. Venendo all’atteggiamento di Benedetto XVI verso i poveri, vorrei sottolineare innanzi tutto la sua particolare attenzione ai piccoli e agli umili. Pur essendo un grande teologo e maestro di dottrina, un intellettuale e uno studioso importante, che si misura con gli uomini e le donne di pensiero del nostro tempo, Papa Ratzinger si fa capire da tutti ed è vicino alla gente, perché nelle sue parole anche la gente semplice percepisce la verità e coglie il senso di una fede e una saggezza umana ricca di paternità. Parafrasando una espressione biblica, potremmo dire, con le parole del salmo 25, che "guida gli umili nella giustizia e ai poveri insegna la via del Signore". Benedetto XVI raggiunge una molteplicità di situazioni di povertà di singoli, di famiglie e di comunità sparse nel mondo, sia direttamente, sia attraverso la Segreteria papale o Segreteria di Stato, sia attraverso gli organismi preposti alla carità, come l’Elemosineria apostolica, il Pontificio Consiglio Cor Unum e altri, e con essi distribuisce non solo le offerte che riceve dai fedeli, dalle diocesi, dalle congregazioni religiose e le associazioni benefiche, ma anche i suoi diritti di autore, frutto del suo personale lavoro. Si può dire che realmente, secondo la definizione di sant’Ignazio di Antiochia, egli "presiede nella carità", guidando con l’esempio quel vasto movimento di carità e di solidarietà planetaria che la Chiesa svolge nelle sue più articolate componenti e ramificazioni capillari. Infine, sulla scia dei suoi predecessori, con un accento peculiare interviene, richiama, risveglia, sollecita l’azione dei Governi e delle organizzazioni internazionali per sanare le disuguaglianze e le discriminazioni più brucianti in tema di sottosviluppo e di povertà. Vorrei ricordare, tra gli innumerevoli testi, appelli e messaggi, il numero 27 della Caritas in veritate dove denuncia l’accentuarsi di una estrema insicurezza di vita e di crisi alimentari provocate sia da cause naturali sia dall’irresponsabilità politica nazionale e internazionale: "È importante evidenziare come la via solidaristica allo sviluppo dei Paesi poveri possa costituire un progetto di soluzione della crisi globale in atto, come uomini politici e responsabili di Istituzioni internazionali hanno negli ultimi tempi intuito".
Lei conosce i consensi che circondano Benedetto XVI ma anche alcune riserve, specialmente sulla fedeltà al concilio Vaticano II e sulla riforma della Chiesa. Le sembrano timori fondati?
Per capire le intenzioni e l’azione di governo di Benedetto XVI occorre rifarsi alla sua storia personale - un’esperienza variegata che gli ha permesso di attraversare la Chiesa conciliare da vero protagonista - e, una volta eletto Papa, al discorso di inaugurazione del pontificato, a quello alla Curia romana del 22 dicembre 2005 e agli atti precisi da lui voluti e firmati (e talora pazientemente spiegati). Le altre elucubrazioni e i sussurri su presunti documenti di retromarcia sono pura invenzione secondo un cliché standardizzato e ostinatamente riproposto. Vorrei solo citare alcune istanze del concilio Vaticano II dal Papa costantemente promosse con intelligenza e profondità di pensiero: il rapporto più comprensivo instaurato con le Chiese ortodosse e orientali, il dialogo con l’ebraismo e quello con l’islam, con una reciproca attrazione, che hanno suscitato risposte e approfondimenti mai prima verificati, purificando la memoria e aprendosi alle ricchezze dell’altro. E inoltre mi fa piacere sottolineare il rapporto diretto e fraterno, oltre che paterno, con tutti i membri del collegio episcopale nelle visite ad limina e nelle altre numerose occasioni di contatto. Si ricordi la prassi da lui avviata dei liberi interventi alle assemblee del Sinodo dei vescovi con puntuali risposte e riflessioni dello stesso Pontefice. Non dimentichiamo poi il contatto diretto instaurato con i superiori dei dicasteri della Curia romana con i quali ha ripristinato i periodici incontri di udienza. Quanto alla riforma della Chiesa - che è soprattutto una questione di interiorità e di santità - Benedetto XVI ci ha richiamati alla fonte della Parola di Dio, alla legge evangelica e al cuore della vita della Chiesa: Gesù il Signore conosciuto, amato, adorato e imitato come "colui nel quale piacque a Dio di far abitare ogni pienezza", secondo l’espressione della lettera ai Colossesi. Con il volume Gesù di Nazaret e con il secondo che sta preparando, il Papa ci fa un grande dono e sigilla la sua precisa volontà di "fare di Cristo il cuore del mondo".
Non dimentichiamo quanto ha scritto nella lettera ai vescovi cattolici dello scorso 10 marzo sulla remissione della scomunica dei vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre: "Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr. Gv 13, 1) - in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più".
Quali sono stati gli interventi qualificanti nella Curia romana di Benedetto XVI e quali bisogna ancora attendersi?
Benedetto XVI è un profondo conoscitore della Curia romana, dove ha ricoperto un ruolo preminente come Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, un osservatorio e un dicastero centrale per la connessione delle giunture con tutti gli altri organismi di governo della Chiesa. Così ha potuto conoscere perfettamente persone e dinamismi e seguire il percorso delle nomine avvenute sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, pur nel suo distacco dalle manovre e dal chiacchiericcio che a volte si sviluppa in certi ambienti curiali, purtroppo poco permeati da vero amore alla Chiesa. Dall’inizio del suo pontificato, ancora breve, sono oltre 70 le nomine di superiori dei vari dicasteri, senza contare quelle dei nuovi nunzi apostolici e dei nuovi vescovi in tutto il mondo. I criteri che hanno guidato le scelte di Benedetto XVI sono stati: la competenza, il genuino spirito pastorale, l’internazionalità. Sono alle porte alcune nomine importanti e non mancheranno le sorprese, soprattutto in relazione alla rappresentanza delle nuove Chiese: l’Africa ha già offerto e offrirà eccellenti candidati.
È giusto attribuire alla responsabilità del Pontefice tutto quello che accade nella Chiesa o è utile per una corretta informazione applicare il principio di responsabilità personale?
È invalsa l’abitudine di imputare al Papa - o, come si dice, soprattutto in Italia, al Vaticano - la responsabilità di tutto ciò che accade nella Chiesa o di ciò che viene dichiarato da qualsiasi esponente o membro di Chiese locali, di istituzioni o di gruppi ecclesiali. Ciò non è corretto. Benedetto XVI è un modello di amore a Cristo e alla Chiesa, la impersona come Pastore universale, la guida nella via della verità e della santità, indicando a tutti la misura alta della fedeltà a Cristo e alla legge evangelica. Ed è giusto, per una corretta informazione, attribuire a ciascuno (unicuique suum) la propria responsabilità per fatti e parole, soprattutto quando essi contraddicono patentemente gli insegnamenti e gli esempi del Papa. L’imputabilità è personale, e questo criterio vale per tutti, anche nella Chiesa. Ma purtroppo il modo di riportare e di giudicare dipende dalle buone intenzioni e dall’amore per la verità dei giornalisti e dei media. Ho letto di recente un bell’articolo di Javier Marías, che fa un’amara riflessione: "Ho avuto modo di osservare che una vasta percentuale della popolazione mondiale non si preoccupa più della verità. Temo però di aver peccato di eccessiva cautela, perché ciò che sta accadendo è di gran lunga più funesto: una vasta percentuale della popolazione oggi non è più in grado di distinguere la verità dalla menzogna, oppure, per essere più precisi, la realtà dalla finzione". Rimane perciò ancora più urgente e necessario insegnare la verità, far conoscere e amare la verità, su se stessi, sul mondo, su Dio, convinti, secondo la parola di Gesù, che "la verità vi farà liberi!" (Giovanni, 8, 32).
Può spiegare, magari anche con qualche esempio, come nella Chiesa di Benedetto XVI la libertà di pensiero e di ricerca vada di pari passo con la responsabilità della fede?
In relazione a questo tema - che è assai importante e centrale nella Chiesa, e che tocca altri binomi strettamente connessi, come fede e ragione, fede e cultura, scienza e fede, obbedienza e libertà - occorre riandare all’esempio della vita e dell’esperienza di Joseph Ratzinger, pensatore, teologo e maestro di dottrina riconosciuto, come ho appena detto. Non si può ovviamente scindere la sua prassi e il suo stile di governo dalle convinzioni più profonde che hanno nutrito e segnato il suo comportamento di studioso e di ricercatore. Nel suo lungo percorso di intellettuale, assai attivo sulle cattedre universitarie e sui media, si sono aggiunte successivamente due formidabili responsabilità: dapprima quella di prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede e poi quella di Pastore supremo della Chiesa cattolica. È evidente che queste due funzioni hanno segnato gli insegnamenti e gli atti del cardinale e del Papa, orientandoli ancor più efficacemente, se così si può dire, a una interazione e a una sinergia fra la libertà fondamentale di pensiero e di ricerca e la responsabilità dell’atto di fede e dell’adesione di fede a Dio che si rivela, che parla e chiama a essere "nuova creatura". Non quindi una contrapposizione o una "secessione", ma una armonia da ricercare, da costruire con intelligenza d’amore. Tale è l’atteggiamento di Joseph Ratzinger quando parla a organismi come la Pontificia Commissione Biblica, la Commissione Teologica Internazionale, la Pontificia Accademia delle Scienze, la Pontificia Accademia per la Vita, e così via, oppure quando dialoga con singoli studiosi e pensatori. Chiede ai teologi di non essere sradicati dalla fede della Chiesa, per essere veri teologi cattolici, e ha elogiato - ad Aosta, lo scorso 25 luglio - "la grande visione che ha avuto Teilhard de Chardin: l’idea paolina che alla fine avremo una vera liturgia cosmica, e il cosmo diventerà ostia vivente". E vorrei ancora citare una bella pagina della Caritas in veritate ove parla "dell’impegno per fare interagire i diversi livelli del sapere umano in vista della promozione di un vero sviluppo dei popoli". Dopo aver spiegato che il sapere non è mai solo opera dell’intelligenza, e che il sapere è sterile senza l’amore, conclude: "Le esigenze dell’amore non contraddicono quelle della ragione. Il sapere umano è insufficiente e le conclusioni delle scienze non potranno indicare da sole la via verso lo sviluppo integrale dell’uomo. C’è sempre bisogno di spingersi più in là: lo richiede la carità nella verità. Andare oltre, però, non significa mai prescindere dalle conclusioni della ragione né contraddire i suoi risultati. Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore" (n. 30).
Trova che sia facile o difficile raccontare l’azione e il pensiero di Benedetto XVI giunto al quinto anno di pontificato?
Sinceramente ritengo che sarebbe molto facile per i giornalisti raccontare l’azione e il pensiero di Benedetto XVI. Scorrendo i volumi dei suoi Insegnamenti o i testi pubblicati su "L’Osservatore Romano" - che sempre ne trasmette fedelmente gli interventi, talora anche spontanei e ricchi di immediatezza e di attualità - non sarebbe difficile ricostruire il suo progetto di Chiesa e di società, coerentemente ispirato al Vangelo e alla più autentica tradizione cristiana. Benedetto XVI ha una visione limpida e vorrebbe spingere i singoli e le comunità a una vita divinamente e umanamente armonica, con la teologia dell’et e la spiritualità del "con", mai del "contro", a meno che non si tratti delle terribili ideologie che hanno portato l’Europa nei baratri del secolo scorso. Basterebbe essere altrettanto limpidi e fedeli, riportando sine glossa, cioè senza l’aggiunta di contorte interpretazioni, le sue genuine parole e i suoi gesti di padre del popolo di Dio.
Un’ultima domanda: come è nata l’idea dell’Anno sacerdotale?
Ricordo che dopo il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio, sul tavolo del Papa vi era una proposta, già precedentemente presentata, per un anno della preghiera, che di per sé era ben collegata con la riflessione sulla Parola di Dio. Tuttavia, la ricorrenza del centocinquantesimo anniversario della morte del curato d’Ars e l’emergenza delle problematiche che hanno investito tanti sacerdoti, hanno mosso Benedetto XVI a promulgare l’Anno sacerdotale, dimostrando così una speciale attenzione ai sacerdoti, alle vocazioni sacerdotali e promuovendo in tutto il popolo di Dio un movimento di crescente affetto e vicinanza ai ministri ordinati. Essi sono senza dubbio la spina dorsale delle Chiese locali e i primi cooperatori del vescovo nella missione dell’annuncio della fede, della santificazione e della guida del popolo di Dio. Il Papa ha sempre dimostrato una grande vicinanza e affabilità verso i sacerdoti, soprattutto nei dialoghi spontanei, ricchi di esperienza e di indicazioni concrete sulla loro vita, e con risposte puntuali alle loro domande. L’Anno sacerdotale sta suscitando un grande entusiasmo in tutte le Chiese locali e un movimento straordinario di preghiera, di fraternità verso e fra i sacerdoti e di promozione della pastorale vocazionale. Si sta inoltre irrobustendo il tessuto del dialogo, talora appannato, tra vescovi e sacerdoti, e sta crescendo una attenzione speciale anche verso i sacerdoti ridotti a una condizione marginale nell’azione pastorale. Si auspica anche che avvenga una ripresa di contatto, di aiuto fraterno e possibilmente di ricongiungimento con i sacerdoti che per vari motivi hanno abbandonato l’esercizio del ministero. Molte iniziative sono indirizzate a rafforzare la coscienza dell’identità e della missione sacerdotale, che è essenzialmente una missione esemplare ed educativa nella Chiesa e nella società. I santi sacerdoti che hanno popolato la storia della Chiesa non mancheranno di proteggere e di sostenere il cammino di rinnovamento proposto da Benedetto XVI.
(©L’Osservatore Romano - 28 agosto 2009)
Una riflessione del teologo Bruno Forte
La parabola dell’umanesimo ateo
È possibile un’etica che non faccia riferimento a Dio? E allora come si spiega l’esigenza di fare il bene ed evitare il male?
DI BRUNO FORTE (Avvenire, 19.08.2009) *
Nel dibattito accesosi in questi giorni sulla stampa intorno al concetto di nichilismo e di umanesimo ateo, a partire dalla frase pronunciata da Benedetto XVI nell’Angelus del 9 agosto riguardo ai «lager nazisti, simboli estremi del male, come il nichilismo contemporaneo», vorrei inserirmi concentrandomi su un’unica domanda, quella che dal punto di vista delle conseguenze pratiche mi appare la più decisiva: è possibile un’etica senza Trascendenza? Può esserci un codice morale normativo e condiviso senza il riferimento a Dio, all’«ultimo Dio»? Se sì, dove fondare l’esigenza assoluta di fare il bene e di evitare il male, dal momento che non esisterebbe alcun assoluto a cui ancorarla? O il bene si giustifica da sé e si impone con un’evidenza tale da non richiedere ulteriori motivazioni? E il male? È anch’esso così evidente da non supporre alcun imperativo categorico, rispetto a cui porsi come controcanto, negazione ostinata e perfino beffarda del «cosiddetto bene»? Miriadi di voci in secoli di storia hanno risposto a queste domande in una stessa direzione: il bene c’è ed è assoluto; esso si identifica anzi con l’Assoluto stesso, di cui è il volto attraente, lo splendore irradiante, l’esigenza amabile, il dono perfetto. Il male è la resistenza opposta a questo richiamo, l’appassionato permanere nella negazione, la lotta vissuta in nome di una causa falsa, quella della propria libertà eretta come assoluto contro l’Assoluto. Fra il male e il bene la scelta non sarebbe allora che una: con Dio o contro Dio; per l’Assoluto o per le onnivore fauci del nulla. Dall’ethos classico, alla morale delle Dieci Parole, legate al Grande Codice dell’alleanza con il Dio biblico, dal discorso della montagna alle esigenze di giustizia del diritto romano, è quest’impianto di una morale fondata nella trascendenza che ha retto le sorti della vita personale e collettiva dell’Occidente.
È con l’emergere moderno del valore centrale della soggettività che cambiano anche i termini del problema: dall’eteronomia - in cui si vorrebbe costringere tutto il complesso accennato di un’etica dalla fondazione oggettiva ed assoluta - si intende uscire per passare al mondo dell’autonomia, verso i pascoli di una vita morale emancipata, dove il coraggio di esistere autonomamente sia esteso dal conoscitivo «sapere aude!» - «osa sapere!» al decisionistico «libere age!» - «agisci secondo il codice di un’assoluta libertà!» L’autonomia appare come la sfida irrinunciabile su cui misurare qualsivoglia imperativo morale, per verificare se esso renda più o meno liberi, più o meno umani. Farsi norma a se stessi, essere soggetto e non oggetto del proprio destino, questo appare il progetto da perseguire. L’ebbrezza di questo sogno contagia gli spiriti più diversi, in forme borghesi o rivoluzionarie, di progresso o di conservazione, di freddo calcolo o di passioni emotive. Ben presto, tuttavia, la coscienza dell’impossibilità di un’etica tutta soggettiva si impone alla riflessione dei moderni: che bene sarebbe il bene che fosse tale solo per me? E in nome di quale criterio valido per tutti sarebbe da evitare il male? Non è il confine fra la mia libertà e l’altrui anche il limite di ogni autonomia? E perché se una scelta mi risultasse più vantaggiosa - in termini morali o economici o politici - dovrei seguire un criterio diverso dal semplice profitto e agire in maniera differente?
Se poi un comportamento scorretto è diffuso - giustificato dal «tutti lo fanno!» - in nome di quale valore morale dovrei evitarlo, se la scelta è lasciata all’arbitrio personale? È a partire dal crogiuolo di queste domande - quelle di una modernità ferita, insoddisfatta del passato e inquieta di sé - che si profila come tema veramente urgente quello della fondazione dell’etica, in un’epoca in cui il passaggio dal fenomeno al fondamento appare tanto necessario, quanto spesso evaso. Oltre il tramonto delle pretese assolute di una certa modernità e l’incompiutezza del nichilismo della post-modernità debolista, ritorna in tutta la sua forza il bisogno di un’etica della trascendenza, mancando la quale tutto è permesso. Quattro tesi potranno aiutare a coglierne il senso, che a mio avviso chiarisce e motiva nella maniera più adeguata le parole del Papa. Formulerei così la prima tesi:
non c’è etica senza trascendenza.
Non può esserci agire morale, lì dove non ci sia l’altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. La fondazione dell’etica è inseparabile da questo riconoscimento: chi afferma se stesso al punto da negare consapevolmente o di fatto ogni altro su cui misurarsi, nell’atto stesso di questa affermazione sazia, idolatrica, nega se stesso come soggetto morale, nega anzi la possibilità stessa di una scelta eti- ca fra bene e male, perché annega ogni differenza nell’oceano asfissiante della propria identità. Nessun uomo è un’isola: e chi pensasse o volesse essere tale, nell’atto stesso di pensarsi o volersi così annullerebbe se stesso come soggetto di relazione, e perciò di vita e di storia reale. La negazione dell’altro è negazione di sé; fare dell’altro lo «straniero morale» è farsi stranieri alla verità di se stessi, è rinnegare la più profonda dignità del proprio essere personale e del proprio destino. Non c’è responsabilità e vita morale senza un movimento di esodo da sé per andare verso l’altro, soprattutto se debole, indifeso e senza voce o capacità di far valere i propri diritti. A questa prima tesi si congiunge direttamente la seconda:
non c’è etica senza gratuità e responsabilità.
Questa seconda tesi ricorda come ogni movimento di trascendenza ha un carattere gratuito e potenzialmente infinito: uscire da sé in vista di un ritorno, calcolare con l’altro al fine di un proprio interesse è svuotare di ogni valore la scelta morale, facendone semplicemente un commercio o uno scambio tra pari. Qui la lezione di Kant conserva tutta la sua verità: l’imperativo morale o è categorico, e dunque incondizionato, o non è. O il destinarsi ad altri è un atto gratuito e senza condizioni, da null’altro motivato che dall’esigenza e dall’indigenza dell’altro - «exode de soi sans retour», direbbe Lévinas - , o non è auto-trascendenza, ma riflesso, proiezione di sé fuori di sé in vista dell’egoistico ritorno a sé. In questo carattere gratuito e potenzialmente infinito della trascendenza morale si coglie come l’anima più profonda di essa sia l’amore, il dare senza calcolo e senza misura per la sola forza irradiante del dono. Il bene è ragione a se stesso!
La terza tesi dilata la seconda alle forme dell’oggettività sociale e comunitaria:
non c’è etica senza solidarietà e giustizia.
È nello stesso movimento di auto-trascendenza che si scopre la rete degli altri che circonda l’io come sorgente di un insieme complesso di esigenze etiche: contemperarle in modo che il dono compiuto all’uno non sia ferita o chiusura ad altri è coniugare la morale con la giustizia. Regolare in forma collettiva questa rete di esigenze è misurarsi sul bisogno del diritto: non l’astratta oggettività della norma, né il dispotismo del sovrano fonda l’autorità della legge, ma l’urgenza di contemperare le relazioni etiche perché nessuna sia a vantaggio esclusivo di alcuni e a scapito della dignità di altri. L’etica della solidarietà integra qui la sola etica della responsabilità, strappandola al rischio sempre incombente di un suo stemperarsi nell’assolutismo infecondo della sola intenzione. Il bene comune è misura e norma dell’agire individuale, specialmente nel campo dei doveri civili. Infine, quando si riconosce che il movimento di trascendenza verso l’altro e la rete d’altri in cui siamo posti presentano un carattere di esigenza infinita, sull’orizzonte dell’etica si profila un’altra trascendenza, ultima e nascosta, di cui quella prossima e penultima è traccia e rinvio:
l’etica rimanda alla trascendenza libera e sovrana, ultima e assoluta.
Nel volto d’altri è l’imperativo categorico dell’amore assoluto che mi raggiunge, e nell’assolutezza dell’urgenza della solidarietà con il più debole è un amore infinitamente indigente che mi chiama. Questa trascendenza assoluta, questo assoluto bisogno d’amore sono la soglia che salda l’etica filosofica all’etica teologica: qui l’etica della responsabilità e l’etica della solidarietà appellano all’etica del dono, alla morale della Grazia. Qui l’amore - sovrana esigenza morale - rimanda all’Amore come eterno evento interpersonale dell’unico Dio. Qui, nelle forme dell’essere l’uno- per-l’altro, è il possibile impossibile amore, gratuitamente donato dall’alto, che viene a narrarsi nel tempo: la carità, che «non avrà mai fine» (1 Cor 13,8). Su di essa si misurerà la verità profonda delle nostre scelte: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore! Si comprende così come il Papa della Deus caritas est e della Caritas in veritate sia la chiave interpretativa più autentica e illuminante della frase pronunciata all’Angelus del 9 agosto scorso. «Dalle Dieci Parole all’ethos classico e cristiano: l’impianto di una morale fondata nella trascendenza ha retto l’Occidente»
* IL DIBATTITO
Lager e nichilismo, le parole del Papa fanno discutere
Le parole pronunciate da Benedetto XVI all’Angelus del 9 agosto hanno suscitato un dibattito animato sulla stampa italiana. Emanuele Severino sul «Corriere della Sera» e Adriano Sofri su «Repubblica» hanno criticato l’espressione del Papa riguardo ai «lager nazisti, simboli estremi del male, come il nichilismo contemporaneo». A loro ha poi risposto Giovanni Reale su «Liberal»: «Non hanno capito il nichilismo. Non hanno compreso la terribile annunciazione fatta da Nietzsche, il filosofo per eccellenza del nichilismo: la morte di Dio, la trasmutazione di tutti i valori, la fedeltà alla terra come unico principio di realtà». Infine ancora su «Repubblica»,Vito Mancuso pur prendendo le distanze dall’espressione di Ratzinger su lager e nichilismo, ha condiviso la critica all’antropocentrismo moderno e l’impossibilità di un’etica senza trascendenza. Su questo tema pubblichiamo in questa pagina una riflessione di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti Vasto.
Ansa» 2009-07-19 10:09
PAPA: IN ATTESA SUO ARRIVO, MESSA BERTONE A R. CANAVESE
ROMANO CANAVESE (TORINO) - In attesa dell’arrivo del papa, che celebrerà la preghiera a mezzogiorno, é cominciata nella piazza di Romano Canavese (Torino), una messa celebrata dal segretario di Stato Vaticano, cardinal Tarcisio Bertone, che in questo paesino è nato nel 1934. Le strade e la piazza principale del borgo sono già gremite di una folla di alcune migliaia di persone pronte a dare il loro benvenuto a Benedetto XVI, che ha deciso di confermare la sua visita, nonostante la frattura del polso destro.
Spavento, incertezza, ansia e, infine, di nuovo gioia. Per alcune ore, dopo la frattura del polso destro e l’operazione ad Aosta, la visita del papa programmata a Romano Canavese, in provincia di Torino, è apparsa in bilico. Quando il Vaticano ha sciolto ogni riserva ed ha confermato l’evento, la felicità è tornata sui volti degli abitanti del borgo, che si appresta ad accogliere, forse per la prima volta nella sua storia, un pontefice romano. Il più euforico di tutti è il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, nato a Romano Canavese nel 1934. E’ lui che ha convinto Benedetto XVI a celebrare il suo primo Angelus delle vacanze in questo paesino dai vicoli stretti, disteso nella pianura piemontese e per decenni identificato con la Olivetti, la cui fabbrica, alle porte dell’abitato, è ormai in disarmo.
Il porporato, dopo la preghiera domenicale, ospiterà il papa a pranzo nella casa di famiglia, a piazza Sarti, dove a tavola siederanno anche fratelli, sorelle (erano 8 figli), parenti. "E’ un grandissimo dono del papa a Romano Canavese", spiega ai giornalisti sul sagrato della chiesa parrocchiale, dove domani darà il benvenuto al pontefice. "Sarà un omaggio - aggiunge - a tutte queste famiglie buone, come la mia, a tutti quei ferventi cristiani che nel passato si impegnarono socialmente e politicamente con l’allora Partito Popolare." Domani, ne è convinto Bertone, Benedetto XVI manderà un messaggio forte sul lavoro, sul futuro dei giovani, sulla difesa della famiglia. Il papa gli ha confessato di essere preoccupato perché, con il polso destro ingessato, non potrà benedire e stringere mani. "Ci sarà ugualmente tantissimo calore", gli ha assicurato il suo più stretto collaboratore.
Tremila ’pass’ sono stati distribuiti a coloro che avranno un accesso ravvicinato nella piazza della chiesa. Gli altri potranno vedere Benedetto XVI durante il percorso transennato. Il papa arriverà in elicottero da Les Combes, la località valdostana dove sta trascorrendo le sue vacanze estive, prima di mezzogiorno e ripartirà alle 15 circa.
ANSA» 2009-06-29 13:24
PAPA FIRMA ENCICLICA CARITAS IN VERITATE
CITTA’ DEL VATICANO - Papa Benedetto XVI, dopo la preghiera dell’Angelus, ha confermato che la sua nuova enciclica sociale, ’Caritas in Veritate’, porterà la firma di oggi, 29 giugno e sarà presentata nei prossimi giorni.
"E’ ormai prossima la pubblicazione della mia terza Enciclica, che ha per titolo Caritas in veritate", ha detto Ratzinger parlando ai fedeli dalla finestra del suo studio su piazza San Pietro, dOpo aver concluso la messa di San Pietro e Paolo nella basilica vaticana.
"Riprendendo le tematiche sociali contenute nella Populorum progressio, scritta dal Servo di Dio Paolo VI nel 1967, questo documento, che porta la data proprio di oggi, 29 giugno, solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, intende - ha detto - approfondire alcuni aspetti dello sviluppo integrale nella nostra epoca, alla luce della carità nella verità. Affido alla vostra preghiera questo ulteriore contributo che la Chiesa offre all’umanità nel suo impegno per un progresso sostenibile, nel pieno rispetto della dignità umana e delle reali esigenze di tutti".
Gli esperti del Vaticano sono in difficoltà e non riescono a finire
L’ultimo termine era stato fissato per lunedì prossimo
L’Enciclica in ritardo, colpa del latino
E’ troppo difficile, slitta la consegna
di Orazio La Rocca *
CITTA’ DEL VATICANO - Slitta la pubblicazione della nuova enciclica papale per colpa del latino e delle difficoltà legate alla complessità e delicatezza del testo ratzingeriano. L’atteso documento, che Benedetto XVI ha dedicato ai problemi sociali, del lavoro e della globalizzazione, avrebbe dovuto vedere la luce lunedì prossimo.
Ma la data è stata rinviata perché i prelati addetti alle traduzioni sono pochi e, quel che è peggio, sono ancora meno quelli che padroneggiano la lingua latina, malgrado le recenti aperture di Ratzinger. Inevitabile che nelle riservatissime stanze vaticane, dove sono all’opera i monsignori incaricati di tradurre i documenti papali, si respiri imbarazzo. A fare le spese di lentezze e difficoltà è proprio uno dei più attesi testi di questi giorni, la nuova enciclica di Benedetto XVI, la prima a carattere sociale, dal titolo Caritas in veritate (Amore nella verità) che tarda a vedere la luce "a causa delle difficoltà con la traduzione in latino, e la complessità del testo", si sussurra in Curia.
C’è chi lamenta, Oltretevere, che l’idioma di Cicerone sia diventato molto ostico tra i prelati pur essendo da sempre la lingua ufficiale della Chiesa cattolica e quella prediletta dal Papa: sono passati ormai due anni da quando Ratzinger l’ha rilanciato col Motu Proprio che ha liberalizzato la Messa preconciliare in latino tanto cara a lefrebvriani e tradizionalisti. "Nessun problema con inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, ma col latino sono dolori: ormai anche qui sono in pochi a conoscerlo bene", si vocifera nei palazzi pontifici, dove sull’equipe di traduttori ufficiali vigila un ristrettissimo comitato di controllo che risponde direttamente al Papa formato dall’arcivescovo Paolo Sardi e da Ingrid Stampa, la storica segretaria che Ratzinger anche da Papa ha voluto portare con sé in Vaticano.
Si allungano, dunque, i tempi della pubblicazione della terza enciclica del pontificato ratzingeriano iniziato il 19 aprile 2005, dopo le prime due del 25 dicembre 2005 (Deus Caritas Est) e del 30 novembre 2007 (Spe Salvi). L’atteso documento potrebbe ora essere presentato ufficialmente tra il 6 ed il 7 luglio, anche se la firma di Benedetto XVI porterà comunque la data del 29 giugno.
È stato Ratzinger in persona a pretendere che la versione ufficiale dell’enciclica da inviare a tutti i vescovi del mondo e alle nunziature apostoliche, fosse rigorosamente in latino, mentre con i suoi predecessori la versione nella lingua di Cicerone arrivava solo in un secondo momento. La scelta, al di là delle difficoltà di traduzione, ha comportato un superlavoro caduto interamente sulle spalle di un piccolo numero di addetti alle traduzione. Risultato: ancora ieri i testi da stampare non erano stati portati nella tipografia della Libreria Editrice Vaticana.
La terza enciclica era stata annunciata più volte nei mesi scorsi dalle autorità pontificie per il prossimo 29 giugno. Anche lo stesso Ratzinger ne ha fatto cenno in più occasioni. L’ultima volta, il 13 giugno scorso parlando ai membri della Fondazione "Centesimus Annus", organismo che si ispira ad una delle più popolari encicliche di Giovanni Paolo II.
* la Repubblica, 27 giugno 2009
Ansa» 2009-06-13 14:45
CRISI: PAPA CONFERMA ENCICLICA, FISSERA’ PRINCIPI E VALORI
CITTA’ DEL VATICANO - Papa Benedetto XVI ha confermato che presto verrà pubblicata la sua nuova enciclica dedicata al "vasto tema dell’economia e del lavoro" e che in essa traccerà "i valori da difendere instancabilmente " per realizzare una convivenza umana "veramente libera e solidale". La data indicata in Vaticano per la firma del prossimo testo pontificio è quella del 29 giugno, festa di San Pietro e Paolo.
Benedetto XVI è tornato a parlare della crisi economica mondiale incontrando oggi la Fondazione ’Centesimus Annus’, organismo cattolico che si occupa di studi sociali. "In effetti, la crisi finanziaria ed economica che ha colpito i Paesi industrializzati, quelli emergenti e quelli in via di sviluppo, mostra in modo evidente come siano da ripensare certi paradigmi economico-finanziari che sono stati dominanti negli ultimi anni", ha spiegato il pontefice. "Come sapete, verrà prossimamente pubblicata la mia Enciclica dedicata proprio al vasto tema dell’economia e del lavoro: in essa verranno posti in evidenza quelli che per noi cristiani sono gli obbiettivi da perseguire e i valori da promuovere e difendere instancabilmente, al fine di realizzare una convivenza umana veramente libera e solidale", ha aggiunto. L’enciclica si intitolerà "Caritas in veritate" e verrà pubblicata e presentata subito dopo la firma, ai primi di luglio.
STATO E CHIESA: APOLOGIA DELL’UOMO DELLA PROVVIDENZA, DI IERI E DI OGGI. Benito Mussolini aveva carisma, come Berlusconi. Una riflessione di Lucetta Scaraffia, sul film di Marco Bellocchio
Non si può continuare a dire che gli italiani che hanno favorito e accettato l’ascesa di Mussolini erano solo stupidi e accecati, esattamente come oggi si dice di chi vota Berlusconi: nella vita politica moderna il fascino carismatico occupa un posto importante, e bisogna farsene una ragione.
Il più grande uomo che sia mai esistito SI PUÒ dire di qualcuno, senza timore di essere smentiti, che è il più grande uomo che sia mai esistito? Da cosa misurate la grandezza di un uomo? Dal suo genio militare? dalla sua forza fisica? dalle sue capacità intellettuali? La grandezza di un uomo, disse lo storico H. G. Wells, si può misurare ‘da ciò di cui è stato l’ispiratore, e dall’avere indotto altri a pensare seguendo criteri interamente nuovi e con un vigore che non si è spento con lui’. Wells, pur non professandosi cristiano, ammise: “Giudicato con questo metro, Gesù supera tutti”. Alessandro Magno, Carlo Magno (chiamato “Magno” già dai suoi contemporanei) e Napoleone Bonaparte furono potenti sovrani. Con la loro formidabile presenza esercitarono grande influenza sui loro sudditi. Eppure Napoleone avrebbe detto: “Gesù Cristo ha influito ed esercitato autorità sui Suoi sudditi senza la Sua presenza fisica e visibile”. Con i suoi insegnamenti dinamici e con il modo in cui visse la sua vita conforme ad essi, Gesù ha influito potentemente sulla vita degli uomini per circa duemila anni. Uno scrittore fece questa appropriata osservazione: “Tutti gli eserciti che abbiano mai marciato e tutte le flotte che siano mai state costruite e tutti i parlamenti che si siano mai radunati e tutti i re che abbiano mai governato, messi insieme, non hanno influito sulla vita dell’uomo sulla terra in maniera così potente”.
Vede; Professore La Sala....Si Cantava...Sempre con il Papa ; fino alla morte che bella sorte sara’ per me! Che bella sorte sara’ per me! I capi religiosi moderni non hanno niente da offrire ...poiche’ non hanno niente neanche per se stessi...ne’ guida spirituale ne assistenza caritatevole ne’ emphatya. I capi politici peggio ancora il carisma che hanno e’ solo per interessi personali ( Vedi quanti migliaia di persone sono occupate da Berlusconi a dalla Rai...Si dice che abbia piu’ di 80 Avvocati. Insomma non ne vale la pena Professore di parlare di capi religiosi e politici (fra non molto faranno una grande fine ...la falsa religione sara’ sbranata dalla bestia che cavalca e sempre cavalcato...ma fra breve si stancheranno di lei e la distruggeranno; pero’ aime’ anche i politicanti stessi faranno la stessa fine dopo aver dichiarato e gridato nelle pubbliche piazze che sono riusciti ad acqisire la pace e sicurezza da molti tanto aspettata e desiderata...questi stessi politicanti vorranno anche distruggere Dio stesso (IMMAGGINA a quanto e dove possono arrivare a pensare) Ad ARMAGHEDON...guerra fra Dio e i politicanti e i loro eserciti tutti messi insieme saranno sterminati allo stesso modo come sono stati sterminati gli eserciti del FARAONE D’EGGITTO e tutti i (FARAONI) religiosi e Politicanti non ci saranno piu’....anche se si organizzaranno da far diventare le nazioni Unite ad un OTTAVO Re... Come ottava POTENZA MONDIALE!!! dandogli tutto il potere del mondo come dare ad una bestia selvaggia i denti ...poiche’ non ne’ aveva.
Non Mollate voi della voce di Fiore siete sulla strada Giusta COMPLIMENTI del coraggio e dalle tenacia e persuasione e l’insistenza ad aiutare altri a capire l’IPOCRESIA RELIGIOSA E POLITICA.
Ciao con tutto il bene del mondo.
IL DIO CHE NON C’È
Testo preparato da Alberto Maggi per la conferenza di ieri ad Ancora, dal titolo “Il dio che non c’è”. La conferenza è stata organizzata dalla UAAR (Unione Atei Agnostici Razionalistici) è ha suscitato molte polemiche ancora prima del suo svolgimento. Quello che pubblichiamo è il canovaccio, poi sarà disponibile anche il video della stessa conferenza che è lievemente diversa rispetto a questo scritto.
unione degli atei e degli agnostici razionalisti
Il dio che non c’è
ancona, 12 maggio 2009,
ore 17
sala conferenze palazzo bottoni
Da quando il dott. Svarca mi ha gentilmente invitato a tenere questo incontro con voi, conferenza che a quanto pare ha suscitato apprensione in certi ambienti e preoccupazione in altri, ho cominciato a pensare alla tematica da trattare, “il dio che non c’è”, e la mia attenzione è stata attratta da tre affermazioni che di seguito elenco:
Il 22 aprile Rita Levi Montalcini, grande donna e grande scienziato, ha compiuto ben 100 anni, cento anni in splendida forma intellettuale e morale. Alla richiesta se credesse o no in un dio, la Montalcini ha risposto: “Invidio chi ha la fede. Io non credo in dio. Non posso credere in un dio che ci premia e ci punisce”.
Le faceva quasi eco, una settimana dopo su Repubblica, nella sua tanto breve quanto interessante Amaca, Michele Serra, il quale prendendo spunto da quei fondamentalisti religiosi, sia cristiani che islamici, per i quali l’influenza suina era un castigo di Dio, scriveva che:
“Una delle prove dell’inesistenza di Dio, perlomeno del Dio pedante e cattivo invocato in questi casi, sta nel fatto che alcuni dei suoi seguaci in terra non vengano folgorati all’istante ogni volta che dicono una cazzata” (Michele Serra, La Repubblica, L’amaca, 29 aprile 2009).
[...] (PER CONTINUARE A LEGGERE TUTTO IL TESTO, PREMERE SULLA ZONA ROSSA SOTTOSTANTE)
Colui che impedisce il sacrificio non è Elohîm, bensì Yahvé, il Dio d’Israele: “L’Angelo di Yahvé disse: non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male!” (Gen 22,12).
Il significato della narrazione è chiaro: mentre le altre divinità (Elohîm) chiedono sacrifici umani, Yahvé, il Dio d’Israele, non li accetta.
(Malachia 3:6) “Poiché io sono Geova;YHWH=Yahve’ non sono cambiato. E voi siete figli di Giacobbe; non siete giunti alla vostra fine. VERRA" FRA NON MOLTO...in questa stessa nostra generazione; senza meno e ombra di dubbio.
(Malachia 3:17-18) “E certamente diverranno miei”, ha detto Geova degli eserciti, “nel giorno in cui produrrò una speciale proprietà. E di sicuro mostrerò loro compassione, proprio come un uomo mostra compassione al figlio suo che lo serve. 18 E voi certamente vedrete di nuovo [la distinzione] fra il giusto e il malvagio, fra chi serve Dio e chi non lo ha servito”.
Scusate devo scappare abbiamo un’assemblea...Con tutto il bene del mondo allo staff di (LA VOCE DI FIORE) Da La Sala A Vattimo a Emiliano e Tiano e Maria....Se vale la pena fatemi dire...Non Mollate poiche’ chi miollera’ saranno proprio loro che cadranno come fichi molli e abbandonati!!!
Ps. dimenticavo F, Saverio Ciao
DIO... Qualunque cosa adorata può essere definita un dio, in quanto l’adoratore gli attribuisce potere maggiore del proprio e lo venera. Perfino il proprio appetito può essere un dio. (Ro 16:18; Flp 3:18, 19) La Bibbia menziona molti dèi (Sl 86:8; 1Co 8:5, 6), ma indica che gli dèi delle nazioni sono dèi senza valore. - Sl 96:5; vedi DEI E DEE.
I termini ebraici. Uno dei termini ebraici tradotti “Dio” è ’El, che probabilmente significa “potente; forte”. (Ge 14:18) Ricorre riferito a Geova, ad altri dèi e a uomini. Inoltre è molto usato nei nomi composti, come Eliseo (“Dio è salvezza”) e Michele (“chi è simile a Dio?”). Alcune volte ’El è preceduto dall’articolo determinativo (ha’Èl, lett. “il Dio”) con riferimento a Geova, distinguendolo così dagli altri dèi. - Ge 46:3; 2Sa 22:31; vedi NM, appendice, pp. 1569-70. In Isaia 9:6 Gesù Cristo è chiamato profeticamente ’El Gibbòhr, “Dio potente” (non ’El Shaddài [Dio Onnipotente], usato in riferimento a Geova in Genesi 17:1). Il termine ’elohìm è usato anche a proposito di dèi idolatrici. A volte significa semplicemente “dèi”. (Eso 12:12; 20:23) Altre volte è un plurale di maestà e si riferisce a un unico dio (o dea). Comunque quegli dèi chiaramente non erano delle trinità. - 1Sa 5:7b (Dagon); 1Re 11:5 (la “dea” Astoret); Da 1:2b (Marduk). In Salmo 82:1, 6, ’elohìm si riferisce a uomini, giudici umani d’Israele. Gesù citò questo Salmo in Giovanni 10:34, 35. Erano dèi in quanto rappresentanti e portavoce di Geova. Similmente a Mosè fu detto che doveva servire come “Dio” per Aaronne e per Faraone. - Eso 4:16, nt.; 7:1. Molte volte nelle Scritture ’Elohìm si trova anche preceduto dall’articolo determinativo ha. (Ge 5:22) Dell’uso di ha’Elohìm, F. Zorell dice: “Nelle Sacre Scritture particolarmente il solo vero Dio, Jahve, è designato da questo vocabolo; . . . ‘Jahve è il [solo vero] Dio’ De 4:35; 4:39; Gsè 22:34; 2Sa 7:28; 1Re 8:60 ecc.”. - Lexicon Hebraicum Veteris Testamenti, Roma, 1984, p. 54; quadre dell’autore.
Il termine greco. Di solito l’equivalente greco di ’El ed ’Elohìm nella Settanta è theòs, il termine che sta per “Dio” o “dio” nelle Scritture Greche Cristiane. Geova, il vero Dio. Il vero Dio non è un Dio senza nome. Il suo nome è Geova. (De 6:4; Sl 83:18) È Dio perché ha creato tutte le cose. (Ge 1:1; Ri 4:11) Il vero Dio è reale (Gv 7:28), è una persona (At 3:19; Eb 9:24) e non un’impersonale legge della natura che operi senza un legislatore vivente né una forza cieca che agisca attraverso una serie di eventi accidentali dando casualmente origine alle cose. Nell’edizione del 1956 l’Encyclopedia Americana (vol. XII, p. 743) alla voce “Dio” osservava: “Secondo il criterio cristiano, maomettano ed ebraico, l’Essere Supremo, la Causa Prima e, in senso generale, com’è considerato attualmente in tutto il mondo civile, un essere spirituale, autoesistente, eterno e assolutamente libero e onnipotente, distinto dalla materia che ha creato in molte forme, e che conserva e domina. Non sembra che ci sia stato un periodo della storia umana in cui l’umanità non credesse in un autore soprannaturale e governatore dell’universo”.
Prove dell’esistenza dell’“Iddio vivente”. L’esistenza di Dio è dimostrata dall’ordine, dalla potenza e dalla complessità della creazione, sia a livello macroscopico che microscopico, e dai rapporti che egli ha avuto col suo popolo nel corso della storia. Esaminando quello che si potrebbe chiamare il Libro della creazione divina, gli scienziati imparano molte cose. Si può imparare da un libro solo se il suo autore gli ha dedicato meditazione e preparazione intelligente. A differenza degli dèi senza vita delle nazioni, Geova è “l’Iddio vivente”.
La Bibbia spiega che Geova Dio è vivente da tempo indefinito a tempo indefinito, per sempre
Infinito, ma avvicinabile. Il vero Dio è infinito e al di là della piena comprensione dell’uomo.
: “Ogni dono buono e ogni regalo perfetto viene dall’alto, poiché scende dal Padre delle luci celestiali, e presso di lui non c’è variazione del volgimento d’ombra”.
“Tutte le cose sono nude e apertamente esposte agli occhi” di Dio, “Colui che annuncia dal principio il termine”. (Eb 4:13; Isa 46:10, 11; 1Sa 2:3) La sua potenza e conoscenza si estendono ovunque, abbracciando ogni parte dell’universo.
Il vero Dio è spirito, non carne
La sua posizione. Geova è il Supremo Sovrano dell’universo, il Re eterno.
La sua giustizia e gloria. Il vero Dio è un Dio giusto.
Il suo proposito. Dio ha un proposito che attuerà e che non può essere frustrato.
Nessuno esisteva prima di Geova; perciò egli ha priorità su tutti.
Un Dio comunicativo. Nutrendo grande amore per le sue creature, Dio dà loro ampia opportunità di conoscere lui e i suoi propositi. Tre volte la sua stessa voce è stata udita da uomini sulla terra.
“Un Dio che esige esclusiva devozione”. “Benché ci siano quelli che sono chiamati ‘dèi’, sia in cielo che sulla terra, come ci sono molti ‘dèi’ e molti ‘signori’, effettivamente c’è per noi un solo Dio, il Padre”.
Uno dei potenti chiamati “dèi” nella Bibbia è Gesù Cristo, che è “l’unigenito dio”. Ma egli stesso disse chiaramente: “Devi adorare Geova il tuo Dio, e a lui solo devi rendere sacro servizio”.
PS...Scusate nel precedente commento non vi ho’ dato i miei connotati...appartiene a me John Mazzei emigrato integrato essendo stato sparato per sparire da SGF!!! Con tutto il bene del mondo a tutti coloro che vinceranno.
Togli alla parola "Ichthùs" ("Pesce") l’ "h" e la parola diventa ... "Ictus". Che "colpo"!!!
CARO MATTIA
Togliere o aggiungere una lettera ad una parola, lo possiamo pure fare come gioco, per divertirci. E vedere l’effetto che fa .... tanto è vero che "i muratori" della chiesa cattolico-romana hanno costruito la "casa" del "latinorum" e dei "don Abbondio", sul "denaro" e sul "caro-prezzo" ("caritas"), non sulla Grazia ("Charis) di Dio Amore ("Charitas").
Togli alla parola "Ichthùs" ("Pesce") l’ "h" e la parola diventa ... "Ictus"!!! Se vuoi prenderti un "colpo", procedi pure .... e, se vuoi, togli pure la "i" dal tuo nome e continua a giocare.
Ad ogni modo, grazie per l’intervento.
M. cordiali saluti,
Federico La Sala
il fatto
Nel racconto di chi visse la lotta contro i nazi-fascisti una rilettura delle manifestazioni attuali «Dopo il 25 aprile c’è stata soltanto politica Allora festeggiarono anche coloro che non avevano partecipato, adesso servirebbe un diverso stile di accoglienza dell’altro»
LA LIBERAZIONE 64 ANNI DOPO
«La Resistenza scelta di vita Implica vera conversione»
Don Luisito Bianchi: giustizia e gratuità, questo va celebrato oggi
Parla il sacerdote che fu spettatore delle vicende della lotta partigiana nel Nord Italia e ne ha lasciato una vivida e accorata narrazione nei suoi libri «L’esempio di quei giovani che rischiavano la propria vita per la libertà degli altri mi fece fare il passo decisivo verso la mia vocazione religiosa»
DI PAOLO VIANA (Avvenire, 25.04.2009).
Se lo ricorda bene Stalino, che era salito in montagna con i partigiani per poter guardare ancora negli occhi suo figlio: « Alla fine della guerra è tornato a fare lo stradino » . Il Rondine, invece, nei boschi di Bobbio ci è rimasto: « Ha difeso il Piero, che era il dottore e suo amico: la pallottola ha colpito lui ». Rileggiamo con don Luisito Bianchi La messa dell’uomo disarmato, il racconto degli anni più caldi della lotta partigiana, narrati da un prete che ha fatto della gratuità il suo stile di vita e che oggi, a 82 anni, vive nel monastero di Viboldone, alle porte di Milano, immerso nei ricordi. A dire il vero. lui li chiama « memoria » , perché quelli sbiadiscono, mentre la memoria si può attualizzare, con un pizzico di fede.
Don Luisito, prete operaio e partigiano nel cuore di fede ne ha tanta e infatti continua a credere « in un mondo diverso » , ben sapendo in quale stia vivendo. Anzi, proprio per questo, ci dice, lui continua ad aspettarlo.
Il sottotitolo del suo libro è «Un romanzo sulla Resistenza». Ammetterà che è un genere strano per un prete.
Non più di tanto, se si considera che fu proprio la Resistenza a forgiarmi, a farmi prendere la decisione di fare il prete. La chiamata era già avvenuta, certamente, ma vivevo anche un profondo travaglio e l’esempio di chi rischiava la propria vita per la libertà degli altri mi fece fare il passo verso la gratuità.
Cosa c’entra la gratuità con un periodo di odi, stragi e vendette?
I ragazzi che sceglievano la lotta partigiana erano poco più vecchi di me, mi parlavano di un mondo di giustizia, molti di loro erano persone semplici, che non facevano questa scelta, mettendo a repentaglio la vita e gli affetti, con un obiettivo personale ma perché rispondevano al desiderio di cambiare la società italiana. Quel che mi colpiva di più era la freschezza di questa testimonianza, la sua gratuità, scevra da ogni odio, da ogni rancore.
Ne ho conosciuti tanti che sono partiti perché quella era la scelta giusta e che non sono tornati. Me li porto dentro, come porto con me la memoria del 26 luglio del ’ 43, quando le strade di Vescovato, il mio paese, nel Cremonese, si riempirono di gente incredula per la caduta del fascismo e si credeva veramente di essere entrati in una nuova civiltà. Durò poco. L’ 8 settembre fu uno choc.
E il 25 aprile?
La festa chiassosa dei partigiani dell’ultima ora, quelli che la guerra sulle montagne non l’avevano fatta perché non sapevano neanche sparare. Per mesi, migliaia di persone avevano messo in gioco se stessi per realizzare un ideale di giustizia sociale e di pace che quel giorno si spense. Paradossalmente, nel giorno della Liberazione fu chiaro che le grandi speranze della Resistenza non si erano realizzate.
Eppure lei ha continuato a crederci, al punto di improntare tutta la sua vita sacerdotale a questi ideali, giusto?
La Resistenza fu l’avvenimento di cui dovevo fare memoria. Aver conosciuto quei ragazzi e le loro speranze non poteva passarmi addosso e infatti iniziai a scrivere, capendo che fare memoria con gli scritti e con la testimonianza significava attualizzare quel sogno che non si sarebbe compiuto. Ecco perché ho sempre celebrato la Resistenza e il 25 aprile e continuo a farlo.
Cosa significa ’ fare memoria’ della Resistenza?
Gesù Cristo ci dice ’ fate questo in memoria di me’ e in quel momento il corpo e il sangue di Dio irrompono nella vita. In altro modo, fare memoria di un fatto storico, per quanto incompiuto, significa attualizzare il messaggio di chi ha rischiato la vita per realizzarlo, non riuscendoci.
Cosa dice quel messaggio?
La vera Resistenza è quella al potere, ad ogni potere. Non è Resistenza quella che abbatte un potere per instaurarne un altro.
In altre parole...
In altre parole, la Resistenza finisce il 25 aprile, in tutti i sensi. Dopo quella data c’è solo la politica.
Quest’anno tutta la politica italiana si ritrova a festeggiare la Resistenza. Cosa ne pensa?
Non so con quali motivazioni i diversi leader dei partiti si accingano a festeggiare il 25 aprile. La Resistenza è una scelta di vita, implica una conversione alla gratuità e deve avvenire ogni giorno, non solo oggi. Il cristiano non ha esitazioni a schierarsi dalla parte dei poveri e della giustizia, contro la violenza, ieri come oggi. Non ha esitazioni a scegliere la gratuità, la Charis, la Grazia evangelica, che gratuitamente ci è concessa dal Signore. Ne ho visti tanti di cattolici che sceglievano la lotta partigiana con questo spirito. Se i politici che festeggiano il 25 aprile si convertono a un diverso stile di accoglienza dell’altro e di gratuità nella vita allora hanno adottato veramente gli ideali della Resistenza. Altrimenti...
Ieri mattina Benedetto XVI ha ricevuto in udienza i membri della Pontificia Commissione Biblica.
Di seguito il testo del discorso pronunciato dal Papa. (Avvenire, 24.04.2009)
Il Papa: la Scrittura può essere compresa soltanto nella Chiesa
Alla Pontificia Commissione Biblica: lo studio scientifico dei testi sacri non basta
Tre i criteri indicati dal Vaticano II per una retta interpretazione: attenzione al contenuto e all’unità di tutta la Sacra Scrittura, l’inserimento nel contesto della Tradizione vivente della Chiesa, e l’analogia della fede, ossia «la coesione delle singole verità tra di loro e con il piano complessivo della Rivelazione»
«L’interpretazione delle Scritture non può essere solo uno sforzo scientifico individuale, ma deve essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla Tradizione vivente della Chiesa.
L’esegeta cattolico non nutre l’illusione individualista che, al di fuori della comunità dei credenti, si possano comprendere meglio i testi biblici»
Signor cardinale, cari membri della Pontificia Commissione Biblica, sono lieto di accogliervi ancora una volta al termine della vostra annuale Assemblea plenaria. Ringrazio il signor cardinale William Levada per il suo indirizzo di saluto e per la concisa esposizione del tema che è stato oggetto di attenta riflessione nel corso della vostra riunione. Vi siete nuovamente radunati per approfondire un argomento molto importante: l’ispirazione e la verità della Bibbia. Si tratta di un tema che riguarda non soltanto il credente, ma la stessa Chiesa, poiché la vita e la missione della Chiesa si fondano necessariamente sulla Parola di Dio, la quale è anima della teologia e, insieme, ispiratrice di tutta l’esistenza cristiana. Il tema che avete affrontato risponde, inoltre, a una preoccupazione che mi sta particolarmente a cuore, poiché l’interpretazione della Sacra Scrittura è di importanza capitale per la fede cristiana e per la vita della Chiesa.
Come ella ha già ricordato, signor presidente, nell’enciclica Providentissimus Deus papa Leone XIII offriva agli esegeti cattolici nuovi incoraggiamenti e nuove direttive in tema di ispirazione, verità ed ermeneutica biblica. Più tardi Pio XII nella sua enciclica Divino afflante Spiritu raccoglieva e completava il precedente insegnamento, esortando gli esegeti cattolici a giungere a soluzioni in pieno accordo con la dottrina della Chiesa, tenendo debitamente conto dei positivi apporti delle scienze profane. Il vivo impulso dato da questi due Pontefici agli studi biblici ha trovato piena conferma nel Concilio Vaticano II, cosicché tutta la Chiesa ne ha tratto beneficio. In particolare, la Costituzione conciliare Dei Verbum illumina ancora oggi l’opera degli esegeti cattolici e invita i pastori e i fedeli ad alimentarsi più assiduamente alla mensa della Parola di Dio.
Il Concilio ricorda, al riguardo, innanzitutto che Dio è l’Autore della Sacra Scrittura: «Le cose divinamente rivelate che nei libri della Sacra Scrittura sono contenute e presentate, furono consegnate sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e co- D me tali sono stati consegnati alla Chiesa» ( Dei Verbum, 11). Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, invisibile e trascendente Autore, si deve dichiarare, per conseguenza, che «i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle sacre Lettere» ( ibid., 11).
Dalla corretta impostazione del concetto di divina ispirazione e verità della Sacra Scrittura derivano alcune norme che riguardano direttamente la sua interpretazione. La stessa Costituzione Dei Verbum, dopo aver affermato che Dio è l’autore della Bibbia, ci ricorda che nella Sacra Scrittura Dio parla all’uomo alla maniera umana. Per una retta interpretazione della Scrittura bisogna dunque ricercare con attenzione che cosa gli agiografi hanno veramente voluto affermare e che cosa è piaciuto a Dio manifestare con le loro parole. «Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile agli uomini » ( Dei Verbum, 13).
Queste indicazioni, offerte per una corretta interpretazione di carattere storico-letterario, richiedono un indispensabile collegamento con le premesse della dottrina sull’ispirazione e verità della Sacra Scrittura. Infatti, essendo la Sacra Scrittura ispirata, c’è un sommo principio di retta interpretazione senza il quale gli scritti sacri resterebbero lettera morta: la Sacra Scrittura deve «essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta» ( Dei Verbum, 12).
Al riguardo, il Concilio Vaticano II indica tre criteri sempre validi per una interpretazione della Sacra Scrittura conforme allo Spirito che l’ha ispirata. Anzitutto occorre prestare grande attenzione al contenuto e all’unità di tutta la Scrittura. Infatti, per quanto siano differenti i libri che la compongono, la Sacra Scrittura è una in forza dell’unità del disegno di Dio, del quale Cristo Gesù è il centro e il cuore (cfr Lc 24,25-27; Lc 24,44-46). In secondo luogo occorre leggere la Scrittura nel contesto della Tradizione vivente di tutta la Chiesa. Secondo un detto dei Padri « Sacra Scriptura principalius est in corde Ecclesiae quam in materialibus instrumentis scripta » ossia «la Sacra Scrittura è scritta nel cuore della Chiesa prima che su strumenti materiali». Infatti la Chiesa porta nella sua Tradizione la memoria viva della Parola di Dio ed è lo Spirito Santo che le dona l’interpretazione di essa secondo il senso spirituale (cfr Origene, Homiliae in Leviticum, 5,5). Come terzo criterio è necessario prestare attenzione all’analogia della fede, ossia alla coesione delle singole verità di fede tra di loro e con il piano complessivo della Rivelazione e la pienezza della divina economia in esso racchiusa.
Il compito dei ricercatori che studiano con diversi metodi la Sacra Scrittura è quello di contribuire secondo i suddetti principi alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura. Lo studio scientifico dei testi sacri non è da solo sufficiente. Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa l’esegeta cattolico deve essere attento a percepire la Parola di Dio in questi testi, all’interno della stessa fede della Chiesa. In mancanza di questo imprescindibile punto di riferimento la ricerca esegetica resta incompleta, perdendo di vista la sua finalità principale, con il pericolo di diventare addirittura una sorta di mero esercizio intellettuale.
L’interpretazione delle Sacre Scritture non può essere soltanto uno sforzo scientifico individuale, ma deve essere sempre confrontata, inserita e autenticata dalla Tradizione vivente della Chiesa. Questa norma è decisiva per precisare il corretto e reciproco rapporto tra l’esegesi e il Magistero della Chiesa. L’esegeta cattolico non nutre l’illusione individualista che, al di fuori della comunità dei credenti, si possano comprendere meglio i testi biblici. È vero invece il contrario, poiché questi testi non sono stati dati ai singoli ricercatori « per soddisfare la loro curiosità o per fornire loro degli argomenti di studio e di ricerca» ( Divino afflante Spiritu, EB 566). I testi ispirati da Dio sono stati affidati alla comunità dei credenti, alla Chiesa di Cristo, per alimentare la fede e guidare la vita di carità. Il rispetto di questa finalità condiziona la validità e l’efficacia dell’ermeneutica biblica. L’enciclica Providentissimus Deus ha ricordato questa verità fondamentale e ha osservato che, lungi dall’ostacolare la ricerca biblica, il rispetto di questo dato ne favorisce l’autentico progresso.
Essere fedeli alla Chiesa significa, infatti, collocarsi nella corrente della grande Tradizione che, sotto la guida del Magistero, ha riconosciuto gli scritti canonici come parola rivolta da Dio al suo popolo e non ha mai cessato di meditarli e di scoprirne le inesauribili ricchezze. Il Concilio Vaticano II lo ha ribadito con grande chiarezza: «Tutto quello che concerne il modo di interpretare la Scrittura è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la quale adempie il divino mandato e ministero di conservare e interpretare la Parola di Dio» ( Dei Verbum, 12).
Come ci ricorda la summenzionata Costituzione dogmatica esiste una inscindibile unità tra Sacra Scrittura e Tradizione, poiché entrambe provengono da una stessa fonte: «La sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Ambedue infatti, scaturendo dalla stessa divina sorgente, formano, in un certo qual modo, una cosa sola e tendono allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo; invece la sacra Tradizione trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano. In questo modo la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura. Perciò l’una e l’altra devono esser accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di riverenza » ( Dei Verbum, 9). Soltanto il contesto ecclesiale permette alla Sacra Scrittura di essere compresa come autentica Parola di Dio che si fa guida, norma e regola per la vita della Chiesa e la crescita spirituale dei credenti. Ciò comporta il rifiuto di ogni interpretazione soggettiva o semplicemente limitata a una sola analisi, incapace di accogliere in sé il senso globale che nel corso dei secoli ha guidato la Tradizione dell’intero popolo di Dio.
Cari membri della Pontificia Commissione Biblica, desidero concludere il mio intervento formulando a tutti voi i miei personali ringraziamenti e incoraggiamenti. Vi ringrazio cordialmente per l’impegnativo lavoro che compite al servizio della Parola di Dio e della Chiesa mediante la ricerca, l’insegnamento e la pubblicazione dei vostri studi. A ciò aggiungo i miei incoraggiamenti per il cammino che resta ancora da percorrere. In un mondo dove la ricerca scientifica assume una sempre maggiore importanza in numerosi campi è indispensabile che la scienza esegetica si situi a un livello adeguato. È uno degli aspetti dell’inculturazione della fede che fa parte della missione della Chiesa, in sintonia con l’accoglienza del mistero dell’Incarnazione. Cari fratelli, il Signore Gesù Cristo, Verbo di Dio incarnato e divino Maestro che ha aperto lo spirito dei suoi discepoli all’intelligenza delle Scritture (cfr Lc 24,45), vi guidi e vi sostenga nelle vostre riflessioni. La Vergine Maria, modello di docilità e di obbedienza alla Parola di Dio, vi insegni ad accogliere sempre meglio la ricchezza inesauribile della Sacra Scrittura, non soltanto attraverso la ricerca intellettuale, ma anche nella vostra vita di credenti, affinché il vostro lavoro e la vostra azione possano contribuire a fare sempre più risplendere davanti ai fedeli la luce della Sacra Scrittura. Nell’assicurarvi il sostegno della mia preghiera nella vostra fatica, vi imparto di cuore, quale pegno dei divini favori, l’apostolica benedizione.
Benedetto XVI
Il libro scritto da Claudio Rendina fa sembrare Dan Brown un principiante
Un’istituzione bimillenaria raccontata nel suo lato peggiore
La "santa Casta" non va in paradiso
I peccati della Chiesa
Ma sulla questione dell’Olocausto l’autore sostiene che Pio XII fece salvare 600 ebrei
In una storia così lunga, per ogni infamia c’è però sempre una virtù
Il caleidoscopio di nequizie ecclesiastiche è ricco di esempi
di Filippo Ceccarelli (la Repubblica, 17.03.2009)
A proposito di odio, morsi, divoramenti in Vaticano e dentro la Chiesa: eh, figurarsi, non è mica la prima volta, da quelle parti la storia offre molto di peggio. E dunque, tenendosi larghi e vaghi, per non dire indulgenti: stragi, avvelenamenti, saccheggi, roghi, torture, idolatrie, simonie, traffici, nepotismi, incesti, pedofilia, riesumazione e vilipendio di cadaveri, con tanto sacri paramenti indosso, e a lungo si potrebbe continuare, secolo dopo secolo, con il soccorso di una imponente documentazione.
A chi invoca a tutto spiano il premiato binomio Radici & Tradizione contro le magagne del presente relativismo; a chi vede la speranza o addirittura intravede la salvezza nel passato trionfale dell’autorità pontificia, forte di valori antichi e inflessibile nella vera fede, si raccomanda vivamente di buttare un occhio su quest’ultimo volume di Claudio Rendina, instancabile erudito che con la consueta asciuttezza si misura questa volta su La Santa Casta della Chiesa (Newton Compton, pagg. 383, euro 12,90). Inevitabilmente suggestivo il sottotitolo: "Duemila anni di intrighi, delitti, lussurie, inganni e mercimonio tra papi, vescovi, sacerdoti e cardinali". Così è, d’altra parte: e continua pure.
Sarebbe ingiusto adesso sminuire il dramma anche personale di Benedetto XVI sulla conduzione della Chiesa. E tuttavia, "nella consapevolezza del lungo respiro che essa possiede", come si legge nella lettera da lui pubblicata l’altro giorno sull’Osservatore romano, occorrerà riconoscere che ad alcuni predecessori di Joseph Ratzinger è andata decisamente peggio; così come altri papi assai più di lui certamente fallirono, o nel modo più spaventoso vennero consigliati, altro che mancata consultazione "mediante l’internet". Il campionario di Rendina, le cui diverse cronologie e gli approfondimenti di storia pontificia si trovano pur sempre nelle librerie intorno alla Santa Sede, offre in questo senso una rimarchevole varietà di esempi: papi eletti tre volte, papi saliti sul sacro trono a suon di quattrini, papi mezzi atei o interamente pagani, papi davvero molto attaccati alle loro famiglie, tanto da battezzare il "nepotismo", papi assassini, bruti, spergiuri, ladroni, perversi, dementi e biscazzieri. Ce n’è uno, Giovanni XII, probabile record-man dei secoli bui, che nominò vescovo il suo amante, un ragazzino di 10 anni, e che scoperto a letto con l’amica, venne poi buttato giù dalla finestra. Ce n’è un altro ben più famoso, Alessandro VI, della famiglia Borgia, che ne fece a tal punto di cotte e di crude, pure la corrida sotto il Cupolone, che nei santini distribuiti "in solemnitate pascali" lo scorso anno nella basilica di San Pietro, e recanti l’immagine de La Resurrezione di Cristo del Pinturicchio, ecco, quel papa lì, che per giunta era il committente dell’opera, ecco, risulta cancellato dal quadro, come nelle foto della nomenklatura sovietica dopo le purghe.
E saranno anche vicende che si perdono nella notte dei tempi, cosa ovvia per un’istituzione bimillenaria. Ma insomma, prima di Rendina, il peccato che sin dall’inizio grava sulla Chiesa ha del resto ispirato la più alta poesia e letteratura, da Iacopone a Dante, da Petrarca fino al Belli, e oltre.
Tutto però sembra oggi rimosso dal discorso pubblico e in particolare dall’armamentario teo-con - secondo l’antica pratica, peraltro evangelica, della pagliuzza e della trave. Dai primissimi commerci di loculi e reliquie nelle catacombe alla controversa carriera dell’odierno comandante delle Guardie Svizzere; dalle torture dell’Inquisizione alle turpi pratiche del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel, su degli innocenti; dalle cortigiane che nella Curia cinquecentesca si comportavano come autentiche "papesse" fino alle speculazioni edilizie post-risorgimentali, il libro di Rendina certamente si presenta come un caleidoscopio di nequizie ecclesiastiche, un prontuario di immoralità vaticana da far sembrare Dan Brown uno sprovveduto principiante.
Ma al dunque si può e forse addirittura si dovrebbero leggere, queste pagine, come un saggio storico sulla genealogia e gli sviluppi imprevisti di un potere che più di ogni altro sulla faccia della terra costringe degli uomini con la mantella bianca a fare i conti con l’essenza del sacro e al tempo stesso con le inesorabili necessità del profano; e quanto più tale sovranità si concentra sulla materia, sui corpi, sul denaro, sulle apparenze, tanto più automaticamente ne risente lo spirito o lo Spirito, se si preferisce. E sebbene anche per Santa Romana Chiesa i tempi sono quelli che sono, tempi di paure, di ritorni, di sbarramenti, sarebbe sbagliato liquidare questa torbida rievocazione come parte del solito complotto laicista. E non solo perché l’autore è fuori dai giri e anzi, per dire, sulla questione delle responsabilità di Pio XII nell’Olocausto sposa la tesi opposta, sostenendo che la Santa Sede mise in salvo 600 mila ebrei "con un impegno finanziario non indifferente". Ma soprattutto perché da una lettura distaccata e senza pregiudizi appare chiarissimo come in una storia così lunga e così umana per ogni infamia c’è sempre un’eroica virtù; e quindi a ogni mascalzone della Santa Casta corrisponde un santo, a ogni sacro carnefice o barattiere un Francesco d’Assisi, a ogni Borgia un Filippo Neri, a ogni Marcinkus una Madre Teresa di Calcutta.
Questa necessitata ambivalenza si meriterebbe forse una maggiore umiltà. Adesso, per dire, c’è la crisi. Quando se ne videro i primi effetti, nell’autunno scorso, un intelligente uomo di banca, nonché autorevole editorialista dell’Osservatore romano, Ettore Gotti Tedeschi, già segnalatosi per aver consigliato ai manager di fare gli esercizi spirituali, ha spiegato grosso modo in un’intervista che alle origini del disastro finanziario c’è l’etica dei banchieri protestanti, mentre i nostri uomini di finanza, cioè cattolici, "sono in grandissima parte seri, trasparenti e dotati di visione etica".
E meno male che c’è da stare tranquilli! Però poi subito viene da pensare ai bacetti di Fiorani al pio governatore Fazio, o al crack Parmalat e al mega-cattolico Tanzi che scarrozzava cardinali con il suo aeroplano; ed è un peccato che non si possa sentire al riguardo Nino Andreatta, che fu ministro del Tesoro ed ebbe il suo da fare ai tempi dello scandalo Ior; per non dire Sindona e Calvi, poveri morti ammazzati, entrambi a suo tempo "banchieri di Dio".
Che invece Iddio non ne avrebbe tanto bisogno, di banchieri personali o nazionali, a differenza del Vaticano, che invece sono duemila anni che si accanisce e si avvilisce appresso a Mammona in forma di tariffe penitenziali, vendita d’indulgenze, proficue crociate, fabbricazione di giubilei, peripezie valutarie, funambolismi azionari e finanziari. E che magari adesso, in qualche missione "sui iuris" alle Cayman, qualche titoletto tossico nel portafoglio se lo potrebbe anche ritrovare, come del resto è già capitato nelle migliori famiglie della finanza.
Dell’economia e perciò anche della crisi e delle sue vittime il Papa, che ha già detto tante buone parole, pubblicherà presto un’enciclica sociale, "Caritas in veritate". Il titolo suona piuttosto impegnativo, ma certo un gesto simbolico non guasterebbe. Nel frattempo, rispetto a odio, morsi, divoramenti e umane debolezze, vale comunque il salmo 129: "Si iniquitates observaveris, Domine, quis sustinebit?". Se consideri solo le colpe, o Signore, chi mai potrà esistere?
Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica (12 marzo 2009)
Riguardo alla remissione della scomunica dei quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre
Cari Confratelli nel ministero episcopale!
La remissione della scomunica ai quattro Vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata. Molti Vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi. Anche se molti Vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del Papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo. Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento. Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari Confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede. Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.
Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa. Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio - passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico. Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente. Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che - come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II - anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.
Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio. Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione. La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale. Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri - anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica - non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.
Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione "Ecclesia Dei" - istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa - con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi. Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere. Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 - ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari Confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009. Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva. La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: "Tu ... conferma i tuoi fratelli" (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: "Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) - in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani - per l’ecumenismo - è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce - è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore "sino alla fine" deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia - è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie. Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che "ha qualche cosa contro di te" (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti - per quanto possibile - nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme. Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?
Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate - superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi - in questo caso il Papa - perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 - 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: "Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!" Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo "mordere e divorare" esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore?
Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà - anche in tempi turbolenti.
Vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro. Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace. È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.
Con una speciale Benedizione Apostolica mi confermo
Vostro nel Signore
* BENEDETTO XVI (Avvenire, 13.02.2009).
GIOACCHINO DA FIORE*
Probabilmente figlio d’un notaio, nacque a Celico, nei pressi di Cosenza, intorno al 1130; compì un viaggio in Terrasanta, al cui ritorno si fece monaco cisterciense, entrando nel monastero della Sambucina, indi in quello di Santa Maria di Corazzo, di cui fu abate. A seguito d’una profonda crisi spirituale lasciò Corazzo, ritirandosi in un eremo a Pietralata, poi in altro eremo sulla Sila, ove raccolse una piccola comunità e costituì il cenobio di San Giovanni in Fiore (la comunità prese poi nome di Florense), e il nuovo ordine ebbe approvata la regola da papa Celestino III nel 1196. Perseguitato dai Cisterciensi, poté tuttavia godere l’appoggio dell’imperatore Enrico VI. Morì il 30 marzo del 1202. È autore di una nutrita serie di opere profetico-teologiche, la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, la Expositio in Apocalypsim, il Psalterium decem chordarum, il Tractatus super quatuor Evangelia, il De Unitate seu essentia Trinitatis (ora perduto). Non suo, invece, ma compendio delle sue idee e delle sue profezie ad opera di qualche discepolo, è il Liber figurarum, che si disse aver influenzato Dante per la Divina Commedia. *
Dalla «Concordia Novi ac Veteris Testamenti» [1]
Debemus ergo in labore et gemitu in hiis sacris diebus resistere affligentes, ut scriptum est animas nostras quousque quadraginta dies, hoc est generationes totidem et duo quantum in maiori luctu et afflictione pertranseant: ut ad sacra illius Pasche solemnia pervenire possimus et cantare domino canticum novum quod nobis abstulit, ut iam diximus, primus septuagesimae dies canticum letitie quod est alleluia. Nec mirum si hec sacra mysteria clausa hactenus sub velamine nobis iunioribus tempore incipiunt aperiri. Cum illa generatio agatur in extremis quae designatur in sacro quadragesimo die. In quo velum illud mysteriale quod pendet a conspectu altaris tollitur a facie populi. Ut qui hactenus «per speculum in enigmate» amodum «facie ad faciem» videre incipiant veritatem: euntes ut ait Apostolus «de claritate in claritatem...».
Tres denique mundi status nobis ut iam scripsimus in hoc opere divine nobis pagine sacramenta commendant: primum in quo fuimus sub lege, secundum in quo fuimus sub gratia, tertium quod e vicino expectamus sub ampliori gratia... Primus ergo status in scientia fuit, secundus in potestate sapientie, tertius in plenitudine intellectus. Primus in servitute servili, secundus in servitute filiali, tertius in libertate. Primus in flagellis, secundus in actione, tertius in contemplatione. Primus in timore, secundus in fide, tertius in charitate. Primus status servorum est, secundus liberorum, tertius amicorum. Primus senum, secundus iuvenum, tertius puerorum. Primus in luce siderum, secundus in aurora, tertius in perfecto die. Primus in hieme, secundus in exordio veris, tertius in estate. Primus protulit urticas, secundus rosas, tertius lilia. Primus herbas, secundus spicas, tertius triticum. Primus aquam, secundus vinum, tertius oleum. Primus pertinet ad septuagesimam, secundus ad quadragesimam, tertius ad festa paschalia. Primus itaque status pertinet ad Patrem qui auctor est omnium... secundus ad Filium qui assumere dignatus est limum nostrum... tertius ad Spiritum Sanctum de quo dicit Apostolus: «Ubi spiritus domini, ibi libertas». Et primus quidem status significatus est in tribus illis hebdomadis que precedunt ieiunium quadragesimale, secundus in ipsa quadragesima, tertius in tempore solemni quod vocatur paschale. Quocirca si mysterium veli positi inter populum et altare non segniter intuemur, intellegimus non absque circa die quadragesimo, in quo et conficitur sanctum chrisma, eicitur a conspectu altaris ut iam non videant fideles altare ipsum quasi per speculum in enigmate, sed magis facie ad faciem. Nimirum quia in tempore isto in quo agitur quadragesima generatio oportet auferri velamen litere a cordibus multorum.
In questi giorni sacri noi dobbiamo resistere nel lavoro e nel pianto, in attesa che si compia il ciclo quaresimale, si chiuda cioè il novero delle quarantadue generazioni del lutto e dell’afflizione, e noi possiamo essere introdotti nella sacra solennità dell’universale risurrezione, per cantare al Signore quel cantico nuovo di gioia, che è l’Alleluia. Nessuna meraviglia se tutto il significato profondo dei vecchi sacri misteri, fino a oggi celati, sotto il velame, agli occhi nostri, di noi, più giovani e più piccoli, si va dischiudendo. Dappoiché apparteniamo a quest’ultima generazione che è designata nell’ultimo sacro giorno della penitenziale quaresima: il giorno in cui si toglie dagli occhi del popolo il velario che tiene l’altare in lutto. Affinché quella verità che il popolo vide finora «in sullo specchio, in enigma», cominci a scorgere «faccia a faccia», passando, secondo l’assicurazione dell’Apostolo, «di chiarezza in chiarezza».
Tutti i simboli sacramentali contenuti nelle pagine della rivelazione di Dio ci instillano la convinzione dei tre stati. Il primo stato è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Legge; il secondo è quello durante il quale noi fummo sotto il dominio della Grazia; il terzo è quello che noi attendiamo da un giorno all’altro, nel quale ci investirà una più ampia e generosa grazia. Il primo stato visse di conoscenza; il secondo si svolse nel potere della sapienza; il terzo si effonderà nella plenitudine dell’intendimento. Nel primo regno il servaggio servile; nel secondo la servitù filiale; il terzo darà inizio alla libertà. Il primo stato trascorse nei flagelli; il secondo nell’azione; il terzo trascorrerà nella contemplazione. Il primo visse nell’ atmosfera del timore; il secondo in quella della fede; il terzo vivrà nella carità. Il primo segnò età dei servi; il secondo l’età dei figli; il terzo non conoscerà che amici. Il primo stato fu dominio di vecchi; il secondo di giovani; il terzo sarà dominio di fanciulli. Il primo tremò sotto l’incerto chiarore delle stelle; il secondo contemplò la luce dell’aurora; solo nel terzo sfolgorerà il meriggio. Il primo fu inverno; il secondo un palpitare di primavera; il terzo conoscerà la pinguedine dell’estate. Il primo non produsse che ortiche; il secondo diede le rose; solo al terzo appartengono i gigli. Il primo vide le erbe; il secondo lo spuntar delle spighe; il terzo raccoglierà il grano. Il primo ebbe in retaggio l’acqua; il secondo il vino; il terzo spremerà l’olio. Il primo stato fu tempo di settuagesima; il secondo fu tempo di quaresima; il terzo solo scioglierà le campane di Pasqua.
In conclusione: il primo stato fu reame del Padre, che è il creatore dell’universo; il secondo fu reame del Figlio, che si umiliò ad assumere il nostro corpo di fango; il terzo sarà reame dello Spirito Santo, dal quale dice l’Apostolo: «Dove è lo Spirito del Signore, ivi è libertà». E il primo stato è simboleggiato in quelle tre settimane che vanno innanzi al digiuno quaresimale; il secondo nella stessa quaresima; il terzo nel tempo solenne di Pasqua. Per cui se convenientemente interpretiamo il mistero del velo interposto fra il popolo e l’altare, comprendiamo come non è senza motivo che nel giorno di quaresima, in cui si consacra il sacro crisma, quel velo è tolto di mezzo, affinché i fedeli non veggano più l’altare quasi attraverso uno specchio, ma più tosto faccia a faccia. Il che per dire che in questo tempo, regnante la quarantesima generazione, occorre ritirare il velo della lettera dal cuore della massa.
(Trad. di E. BUONAIUTI, Gioacchino da Fiore, cit., pp. 227-231).
[1] Ediz. Venezia 1519, V, 84.
IL PAPA SCOMUNICATO
di Gérard Bessières
FUORI DALLA COMUNIONE DELLA CHIESA: LÀ UN SACERDOTE FRANCESE RELEGA IL PAPA DOPO LA REVOCA DELLA SCOMUNICA AI LEFEBVRIANI. *
Gérard Bessières, autore di questa lettera inviata alla rivista francese “Témoignage Chrétien” (5/2/2009), è un prete .
È enorme, è vero, sproporzionato rispetto alla mia umile persona! Ma è bene che lo confessi, non posso nasconderlo agli amici: ho scomunicato Benedetto XVI. Proprio quando lui aveva appena ritirato la scomunica ai vescovi integralisti...!
Non mi prendete sul serio? Eppure è vero. Che cosa è successo? A fine gennaio, quando Roma ha reintegrato questi quattro vescovi scismatici senza tenere in gran conto il loro rifiuto del rinnovamento dell’ultimo concilio, del riconoscimento della libertà religiosa, dell’ecumenismo, dell’apertura al mondo, e non vado oltre, ho smesso di nominare il vescovo di Roma nella preghiera eucaristica.
Notate che non l’ho inventato io un simile silenzio. Nelle Chiese antiche - sentite come sono portato verso la Tradizione - quando c’erano delle zuffe, spesso passeggere, si smetteva di fare menzione durante la messa dei compagni con cui si era in lite. Li si nominava di nuovo quando si erano sistemate le cose. Dunque non gridolini ipocriti, non sospiri verso l’unità, ma dichiarazioni nette di disaccordo fino a che tutto fosse chiarito.
Allora ho fatto lo stesso.
E poi, quando è troppo è troppo. Dopo la gaffe di Ratisbona, la nomina a Varsavia di un arcivescovo (mons. Stanislaw Wielgus, ndt) ex informatore della polizia comunista, che ha dovuto licenziare sulla soglia della cattedrale, la creazione di un priorato per quattro preti integralisti in barba all’arcivescovo di Bordeaux, la possibilità offerta a questi integralisti dipendenti direttamente da Roma di aprire un seminario (cosa che rivelava, dietro i richiami tremolanti all’unità, una strategia di restaurazione di una Chiesa “all’antica”), ecco che si fanno ancora delle avances ai discepoli ostinati di mons. Lefebvre!
Toglierò un giorno la scomunica? Servirebbero dei segni concreti di pentimento e di fedeltà agli orientamenti del Vaticano II.
Purché non io mi faccia trattare da scismatico... Ma può darsi che in quel momento, ci si occuperà di me, mi si incoraggerà a celebrare la messa nella lingua della mia vita, con la gente, senza volgere loro la schiena, può anche darsi che ci si preoccuperà della loro libertà di coscienza, che condivideranno le loro attese, quali che siano la loro religione, le loro convinzioni e i colori delle loro anime. Volgendosi risolutamente verso il futuro! Con qualcuno, un ebreo, che sembra un po’ dimenticato a Ecône e che non parlava latino: Gesù.
Articolo tratto da
ADISTA
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UN PARROCO CRITICA IL PAPA
Don Matteo di Ca’ Onorai «Benedetto XVI vestito come un re mentre la Chiesa torna al passato»
di Silvia Bergamin
Sfarzo imbarazzante in mondovisione a Natale davanti al figlio di Dio nato povero e nudo
Riprendiamo questo articolo da Da Il Mattino di Padova
http://espresso.repubblica.it/dettaglio-local//2065310&print=true *
CITTADELLA. Un prete di campagna che invita alla sobrietà il Papa. Lui è don Matteo Ragazzo, il parroco di Ca’ Onorai. Giovane, determinato, con un grande appeal tra i ragazzi. Nell’ultimo numero del bollettino mensile delle parrocchie di Cittadella, ha criticato la ricchezza «ostentata» dalla Chiesa. E un certo clima da «restaurazione» che sembra pervadere il pontificato di Benedetto XVI.
A Natale «il Papa, dopo la Santa Messa di mezzanotte - osserva don Matteo - si è inginocchiato davanti al bambino Gesù appena deposto nella mangiatoia. Era collegato in mondovisione quindi tutti hanno visto com’era vestito il Santo Padre. Aveva un mantello con un’apertura alare di 7-8 metri, tutto in raso e damasco dorato, una mitria con gemme e diamanti di tutte le grandezze incastonate, il pallio con spilloni in oro, casula rifinita con bordi in oro che richiamavano i disegni del mantello, camice ricamato, anello d’oro, scarpe luccicanti in tinta con i paramenti: senza esagerare credo che difficilmente Alessandro Magno, Cesare Ottaviano Augusto, lo Zar Pietro il Grande, Napoleone o la regina d’Inghilterra siano riusciti a raggiungere uno sfarzo del genere!
Il giorno di Natale, la scena era veramente imbarazzante: un vecchio Papa vestito da Dio, di fronte a Dio, vestito da bambino piccolo, povero e nudo». Un prete ha o meno il diritto di dirle, queste cose? Don Matteo affronta la questione: «Amo la Chiesa come mia madre, il Vescovo come mio padre e il Papa come se fosse mio nonno. Ma se mio nonno fa qualcosa di strano ho il dovere di dirglielo».
L’ornamento natalizio fornisce lo spunto per una critica più ampia: «Che cosa sta succedendo nella Chiesa? Cosa stanno facendo a Roma? Perché il Papa si veste con il guardaroba di 50-100-200 anni fa e per le celebrazioni in San Pietro si fa costruire un trono alto 5 metri? Perché, mentre in tutto il mondo si parla inglese, la grande novità liturgica della Chiesa è la Messa in latino? Come mai, qualche mese fa i vescovi italiani si sono trovati per trattare il tema della Parola di Dio e, come conclusione del Sinodo, hanno concesso anche alle donne il ministero del “Lettorato”: cioè, finalmente, anche loro possono leggere ufficialmente in chiesa! Senza accorgersi che le donne leggono in chiesa da duemila anni, da quando esiste la Chiesa!».
E’ lo sfogo, il disagio, di un prete che vede una gerarchia ecclesiastica «ferma e pesante», che non sembra in linea con una «realtà sociale e pastorale delle parrocchie che corre e cambia in continuazione». E una gerarchia così che pastorale può dare? «Sinceramente, quando vedo il Papa che va in piazza San Pietro con il “Camauro” rosso bordato di ermellino bianco in testa, non so se ridere o piangere e mi chiedo come può, un Papa che sceglie di vestirsi così, darmi dei consigli o suggerirmi delle linee efficaci, per trattare i miei ragazzi, le mie famiglie, la mia comunità parrocchiale?» Ma «per fortuna Dio esiste, e la Chiesa è sua! Un Dio che si fa piccolo, povero e nudo. Ultimo con gli ultimi, sofferente con chi soffre, coraggioso di fronte alle difficoltà e alla morte. Non so che cosa abbia detto Gesù Bambino al Papa, quando l’ha visto arrivare vestito in quel modo, sono sicuro che gli avrà suggerito parole illuminanti e utili per il suo ministero».
(10 febbraio 2009)
Una riflessione sulla Chiesa Cattolica del più grande teologo vivente
Un intervento del teologo Hans Küng
di Hans Küng
in "la Repubblica" del 7 febbraio 2009*
In brevissimo tempo, il neo-eletto presidente Barack Obama è riuscito a far riemergere gli Stati Uniti da un clima depresso da Controriforma. La sua è una visione di speranza, resa credibile dal cambiamento di rotta della politica interna ed estera degli Stati Uniti. Nella Chiesa cattolica le cose stanno diversamente. L’atmosfera è opprimente, il blocco di ogni riforma paralizzante. A quasi quattro anni dall’elezione di Benedetto XVI, molti lo vedono come un altro George W. Bush. E il fatto che abbia voluto celebrare il suo 81° compleanno alla Casa Bianca non è una coincidenza.
Sia Bush che il papa sono irriducibili in materia di controllo delle nascite e di interruzione della gravidanza, autocratici, avversi a qualunque seria riforma. Hanno esercitato le rispettive cariche senza alcuna trasparenza, imponendo restrizioni alle libertà e ai diritti umani. Al pari di Bush durante il suo periodo di governo, anche Benedetto XVI ha subito un crescente calo di consensi, tanto che molti cattolici non si aspettano ormai più nulla da lui.
Il peggio è arrivato con la recente revoca della scomunica di quattro vescovi tradizionalisti, a suo tempo consacrati illegalmente, al di fuori dell’autorità pontificia: una decisione che ha confermato tutti i timori sorti al momento dell’elezione di Benedetto XVI. Il 4 febbraio, dopo la levata di scudi globale suscitata da quella decisione, il Vaticano ha annunciato di aver chiesto al più contestato dei quattro vescovi, il britannico Williamson, di prendere le distanze dalla sua notoria negazione dell’Olocausto, come condizione per poter essere reintegrato a pieno titolo come vescovo della Chiesa Cattolica Romana. Ma al di là di questa mossa conciliatoria, sembra evidente che il papa tenda a favorire chi continua a respingere la libertà di religione affermata dal secondo Concilio ecumenico del Vaticano (noto come Vaticano II), e a rifiutare il dialogo con le altre Chiese, la riconciliazione col giudaismo, la stima e il rispetto verso l’Islam e le altre religioni mondiali, la riforma della liturgia.
In nome della «riconciliazione» con un ristrettissimo gruppo di tradizionalisti reazionari, questo papa rischia di perdere la fiducia di milioni di cattolici del mondo intero rimasti fedeli al Concilio Vaticano II. E il fatto che a farlo sia un papa tedesco peggiora ulteriormente le cose. Le scuse tardive non risolvono nulla.
Eppure, per Benedetto XVI un cambiamento di rotta comporterebbe difficoltà assai minori di quelle che deve affrontare il presidente degli Stati Uniti. Il papa non ha bisogno di fare i conti con il potere legislativo di un Congresso, né con quello giudiziario di una Suprema corte. È il capo assoluto di un governo, legislatore e giudice supremo della Chiesa. Se lo volesse, potrebbe autorizzare da un giorno all’altro la contraccezione, il matrimonio dei sacerdoti, l’ordinazione delle donne e la condivisione dell’Eucaristia con le Chiese protestanti.
Cosa farebbe un papa che decida di agire nello stesso spirito di Barack Obama?
Ammetterebbe senza mezzi termini la crisi profonda in cui versa la Chiesa cattolica, e identificherebbe i nodi centrali del problema: la mancanza di sacerdoti in molte congregazioni; la crisi delle vocazioni al sacerdozio; il latente collasso di antiche strutture pastorali in seguito a impopolari fusioni di parrocchie.
Proclamerebbe una visione di speranza: quella di una Chiesa rinnovata, di una ritrovata vitalità dell’ecumenismo e di un’intesa con gli Ebrei, i Musulmani e le altre religioni mondiali, di un atteggiamento positivo nei confronti della scienza moderna.
Si circonderebbe di personalità capaci, non di «yesman» ma di spiriti indipendenti, coadiuvati da esperti competenti e impavidi.
Avvierebbe immediatamente, per decreto, le misure per l’attuazione delle più importanti riforme.
Convocherebbe un Concilio ecumenico per promuovere un nuovo corso.
Ma nella realtà dei fatti, il contrasto tra i due è deprimente. Mentre il presidente Barack Obama, col sostegno del mondo intero, si mostra aperto alla gente e al futuro e guarda in avanti, questo papa rivolge gli occhi al passato, si ispira agli ideali della Chiesa medievale, vede la Riforma con scetticismo e mantiene un atteggiamento ambiguo nei confronti dei diritti e delle libertà moderne.
Mentre il Presidente Obama si adopera per una nuova collaborazione con i partner e gli alleati, il papa Benedetto XVI è ingabbiato, non diversamente da George W. Bush, in una concezione che lo porta a dividere il mondo in amici e nemici. E mortifica i fratelli cristiani delle Chiese protestanti rifiutando di riconoscere come Chiese le loro comunità. I rapporti con i musulmani non sono andati al di là di una confessione di «dialogo»; e quelli con gli ebrei sono profondamente incrinati.
Il presidente Obama irradia speranza, promuove attività civiche e fa appello a una nuova «era della responsabilità»; mentre il papa Benedetto XVI rimane prigioniero dei suoi timori, e vorrebbe stabilire un’«era della restaurazione», limitando quanto più possibile le libertà delle persone.
A differenza di Obama, che si lancia all’offensiva con audaci iniziative di riforma fondate sulla costituzione e sulla grande tradizione del suo Paese, il papa Benedetto XVI interpreta i decreti del Concilio riformista del 1962- ’65 nel senso più retrogado, con lo sguardo rivolto al Concilio conservatore del 1870.
Ma dato che Benedetto XVI non è Obama, per l’immediato futuro dobbiamo poter contare su un episcopato che non passi sotto silenzio gli evidenti problemi della Chiesa, ma ne parli apertamente e li affronti con energia a livello diocesano; e inoltre abbiamo bisogno di teologi pronti a collaborare attivamente a una visione della nostra Chiesa per il futuro, senza timore di dire e di scrivere la verità; di pastori capaci di assumersi arditamente le loro responsabilità, protestando al tempo stesso contro gli eccessivi oneri derivanti dalle fusioni di molte parrocchie; e infine di donne capaci di usare con fiducia ogni possibilità di esercitare la propria influenza.
Ma tutto questo è davvero possibile? La risposta è sì. «Yes, we can».
Traduzione di Elisabetta Horvat
Nessuno tocchi il Concilio Vaticano II
Appello ai cattolici contro la revoca della scomunica ai lefebvriani
di Paolo Farinella - Genova
Come cattolico che rappresenta solo se stesso, ed eventualmente anche chi volesse firmare questa dichiarazione, desidero esprimere tutta la mia preoccupazione e il mio sconcerto per le scelte che papa Benedetto XVI sta mettendo in atto per riportare la chiesa al tempo prima del concilio e anche oltre. L’autorizzazione generalizzata della Messa preconciliare, sottratta all’autorità dei vescovi, costituì, come oggi appare evidente, la premessa per giungere all’abolizione della scomunica ai quattro vescovi consacrati da mons. Marcel Lefebvre senza mandato apostolico.
E’ buona cosa ristabilire l’unità della e nella Chiesa, ma nessun papa può togliere una scomunica se non vengono rimossi i motivi per cui un altro papa l’ha dichiarata. Dalle dichiarazioni pubbliche degli interessati e dei loro seguaci risulta che essi leggono il gesto unilaterale del papa come un’ammissione della validità delle loro posizioni e quindi come un risarcimento dovuto. Dichiarano, inoltre, che nessuna condizione gli è stata posta, tanto meno una dichiarazione di accettazione del concilio Vaticano II che ritengono non compatibile con la tradizione. I lefebvriani, infatti, affermano di essere disposti a dare il sangue per la Chiesa, ma di non potere accettare il concilio Vaticano II «diverso dagli altri» (leggi: eretico) per cui la loro fedeltà si ferma al Vaticano I.
Togliere la scomunica senza porre la condizione della previa adesione al magistero del concilio Vaticano II, è un atto immorale, causa di scandalo per tutti coloro che per fedeltà ad esso hanno sofferto, sono stati emarginati, ridotti al silenzio, perseguitati, privati dell’insegnamento, ridotti allo stato laicale. Senza una previa accettazione del concilio Vaticano II, togliere la scomunica appare ai semplici come complicità con gli scismatici, facendo apparire il papa come papa di parte e non papa cattolico.
Il caso del vescovo lefebvriano, Richard Williamson, che nega l’Olocausto, non può suscitare sdegno o meraviglia, perché l’antisemitismo è parte integrante della teologia lefebvriana che è quella della chiesa preconciliare ed è uno dei motivi per cui essi non accettano il concilio di papa Giovanni XXIII. La loro teologia giudica gli Ebrei colpevoli di «deicidio» e quindi reprobi dell’umanità. Il papa sapeva e sa qual è la posta in gioco: i lefebvriani negano l’ecumenismo, la libertà di coscienza, la libertà religiosa come è sancita nei documenti conciliari, firmati da un papa e da oltre due mila vescovi di tutto il mondo. Tutti i tentativi per ridurre il danno delle dichiarazioni blasfeme e ignobili di Williamson sono patetici e portano in grembo conseguenze che ancora non possiamo immaginare. Il papa ha sbagliato e diffonde confusione tra i fedeli, incrinando la credibilità dei cattolici nel mondo, mettendo a rischio l’ortodossia stessa che tanto gli sta a cuore.
Se il papa è giusto deve applicare stessa «compassione» e lo stesso trattamento di accoglienza privilegiato e senza condizioni, riservato ai lefebvriani; e con le stesse modalità e la stessa tempistica lo deve estendere alle teologhe e teologi della teologia della liberazione dell’America Latina, dell’Asia, dell’Africa, dell’India, ai teologi degli Usa e dell’Europa; ai laici e religiosi allontanati dall’insegnamento o dalle attività pastorali; a coloro che sono stati umiliati, angariati e costretti al silenzio; a tutti quelli che hanno la colpa di avere lavorato per una Chiesa più evangelica, alla luce degli insegnamenti della Pentecoste del concilio ecumenico Vaticano II; a tutte le comunità di base del continente latinoamericano, rigogliosissimo frutto della Pentecoste conciliare, che sono state considerate scismatiche, mentre erano solo fedeli al vangelo e al Vaticano II.
Nessuno tocchi il concilio Vaticano II! Chiediamo che i vescovi gridino con la forza del sacramento davanti al papa, in ginocchio ma con la schiena dritta il loro «non possumus». Noi li seguiremo, altrimenti saremo costretti anche andare da soli, come stiamo già facendo. Per il bene della Chiesa sarebbe opportuno che il papa Benedetto XVI rassegnasse le sue dimissioni.
Genova 04 febbraio 2009
Paolo Farinella - Genova
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Un’analisi ed un appello
Sguardo sull’orticello vaticano, ovvero Del papa anticonciliare
di Paolo Farinella, prete
La gerarchia smarrita
Apparentemente le scelte dell’attuale papa sono incidenti di percorso, accaduti per scarsa valutazione. Io penso che siano scelte calibrate e decise all’interno di una strategia puntuale. Lo avevo anticipato nel luglio 2007 con uno scritto pubblico e ora i fatti confermano quelle previsioni che anche un cieco poteva vedere anche nel buio pesto di una notte tenebrosa. Ho appena terminato un lungo articolo che verrà pubblicato da MicroMega nei prossimi mesi in cui, documenti alla mano, credo di dimostrare quanto ho appena affermato, è cioè che in Vaticano nulla accade per caso o errore, ma tutto avviene per calcolo e programmazione. I passaggi della strategia ratzingeriana sono:
1. Ripristino della Messa preconciliare che quasi tutti banalizzarono come ritorno alla “Messa in latino”.
2. Dichiarazione che solo la chiesa cattolica è «pienamente» chiesa, mentre le «chiese» cristiane non lo sono neanche analogicamente.
3. Discorso di Ratisbona, fatto apposta per mettere l’Europa di fronte a ciò che potrebbe accadere se non rafforza le sue radici cristiane. Lo stesso discorso aveva la valenza di parlare al mondo intellettuale musulmano dicendo che l’Europa è un pericolo per qualsiasi religione.
4. Il Vaticano mandò i propri ambasciatori in tutti i paesi musulmani, instaurando rapporti di relazione.
5. Il papa convoca gli ambasciatori arabi presso il Vaticano per spiegare di essere amico dei loro paesi.
6. Il mondo musulmano rispose subito con una lettera di 38 saggi che dichiarano importante la lezione di Ratisbona.
7. Nel primo anniversario di Ratisbona, un gruppo di 138 intellettuali islamici scrivono al papa una lettera deferente e dialogica
8. Nell’ottobre 2008 si svolge a Istanbul il VI Simposio islamo-cattolico sul tema di Ratisbona “Rapporto tra ragione e fede nell’islam e nel cristianesimo”.
9. Pochi giorni dopo, in Vaticano si svolge un Seminario a cui partecipano una sessantina di persone metà cattoliche e metà musulmane sul tema della prima enciclica: «L’amore di Dio nel cattolicesimo e nell’islam». Viene anche ripresa e commentata la lettera dei 138 saggi musulmani.
10. Nel saluto iniziale, il rappresentante musulmano afferma: «Dovremmo unirci nella lotta contro le forze dissacranti e anti-religiose del mondo moderno e questo sforzo comune dovrebbe avvicinarci maggiormente». Come voleva dimostrare.
11. L’incontro col mondo musulmano contro il mondo moderno «relativista» e ateo non può avvenire con i cristiani formati alla scuola del concilio Vaticano II, che anzi è un ostacolo a questa strategia e per questo deve essere archiviato al più presto.
12. L’incontro con il musulmani può avvenire su un solo campo: la tradizione che garantisce una approccio fondamentalista sia con le Scritture che con la società.
13. A questo scopo urge l’abolizione unilaterale della scomunica ai lefebvriani, pur restante intatte le ragioni e i motivi per cui la scomunica fu dichiarata da Giovanni Paolo II. Un papa che ritira una scomunica senza che le cause che la produssero siano state eliminate o è fuori di testa o ha un obiettivo per il quale qualsiasi prezzo è esigibile.
14. Dopo i lefebvriani si ammetteranno nella Chiesa cattolica i fuoriusciti anglicani che rifiutano le apertura della confessione di Canterbury; la Chiesa diventa così un ricettacolo di “passatisti”, di tradizionalisti irriducibili, di fondamentalisti che saranno pronti a marciare contro il mondo moderno per una nuova Lèpanto.
15. Il prossimo passaggio sarà: dichiarare la Messa di Paolo VI «forma straordinaria» e quella tridentina, tanto amata dai lefebvriani «forma ordinaria». A questo punto il concilio non esiste più, tutto ritorna come era prima, si compie la profezia del cardinale Giuseppe Siri (Ci vorranno cinquant’anni per riparare i guasti di Giovanni XXIII e del concilio), di cui si stanno pubblicando gli scritti; il cerchio si chiude.
16. Ormai cattolici e musulmani possono incontrarsi e mettersi d’accordo, fondamentalisti con fondamentalisti, come condizionare attraverso le proprie masse i governi e le legislazioni europee.
La gerarchia senza l’oste
Questa a mio pare la strategia e tutto è logico e coerente, e tutto può accadere, se ... tutto dipendesse dal papa, ma il papa non è Dio e in tutta questa vicenda sta dimostrando di contare molto di più sulla sua restaurazione che sullo Spirito Santo.
Il papa è un illuso se crede di fermare e addirittura di rivoltare la storia all’indietro. Si rassegni potrà solo rallentare un cammino, ma mai bloccarlo. La sua stessa storia e una teoria di papi che hanno detto e fatto una catena di corbellerie lo dimostrano.
Mi auguro che il mondo cattolico reagisca e non subisca supinamente o peggio si rassegni. Mi auguro che singoli, gruppi, associazioni, ecc. manifestino il loro dissenso ai propri vescovi e al papa stesso attraverso lettere, cartoline, telegrammi, sms, e-mail o quello che si vuole.
La Germania ha cominciato, ora tocca a tutti continuare senza paura e senza ritardi. Lo stesso trattamento (e con la stessa fretta) riservato agli scismatici lefebvriani, noi pretendiamo per tutti i teologi e teologhe fedeli al concilio che in America Latina, in India, in Asia, in Africa, in Europa e negli Usa sono stati privati dell’insegnamento, della dignità, del sacerdozio, del ministero ... Non possiamo tollerare due pesi e due misure. Se il papa può andare indietro, noi pretendiamo di andare avanti e crediamo di avere più fede di lui nello Spirito Santo che guida la storia verso il Regno di Dio.
Non lasciamoci strappare dalle mani e dal cuore il Concilio Vaticano II che per altro è un concilio incompiuto e lavoriamo perché si arrivi ad un nuovo concilio dove tutto il popolo di Dio possa essere rappresentato.
Forse non sarebbe un male se chiedessimo a gran voce le dimissioni di Benedetto XVI che oggi è causa di divisone nella chiesa, di confusione per molti e di scandalo per altri.
Genova 4 febbraio 2009
Paolo Farinella, prete
Il Concilio Cancellato
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 27.01.2009)
Domenica scorsa ricorrevano cinquant’anni esatti dall’annuncio del futuro concilio dato da papa Roncalli in una celebre allocuzione. È stata una ricorrenza importante.
Come l’abbia celebrata il mondo vaticano risulta dalla prima pagina dell’Osservatore Romano, appunto di domenica. Il commento del suo direttore aveva questo titolo: «Il Vaticano II e il gesto di pace del Papa». Nel breve spazio di una smilza colonnina erano messi insieme il ricordo dell’annuncio di cinquant’anni fa e il «gesto di pace» con cui il papa regnante ha cancellato la scomunica del plotoncino dei vescovi ordinati da monsignor Lefebvre. Dopo avere legato insieme le due cose l’articolo si concludeva così: «A mezzo secolo dall’annuncio, il Vaticano II è vivo nella Chiesa». Singolare affermazione, visto che la ragione della scomunica «latae sententiae» fulminata nel 1988 da papa Giovanni Paolo II era stato il rifiuto di quei vescovi di accettare il Concilio. E non sembra che i seguaci di monsignor Lefebvre abbiano cambiato idea al riguardo.
Dunque chi ha cambiato idea è il Vaticano. Quel che se ne ricava è una semplice constatazione: non accettare il Concilio non costituisce una frattura con la Chiesa. Buono a sapersi per tanti cattolici: c’è ancora fra di loro qualcuno che non accetta il dogma dell’infallibilità papale stabilito dal Concilio Vaticano I? Bene, potrà prendere argomento da questa storia per mantenere le sue riserve, per fare per così dire «obiezione di coscienza», quella che secondo il vescovo Poletto dovrebbero fare i medici negli ospedali pubblici italiani per disobbedire alla sentenza della Cassazione sul caso Englaro.
Adesso possiamo mettere in serie tutti gli atti che hanno preparato questa scelta. Sono stati molti. E qui potremmo anche lasciare ai cattolici di tutto il mondo il compito di fare i conti con le svolte ad angolo acuto che il supremo timoniere imprime alla navicella di San Pietro. Ma non ce lo possiamo permettere. E non solo perché il modo in cui la Chiesa cattolica volta le spalle all’eredità del Concilio Vaticano II comporta conseguenze pesanti per i valori della tolleranza e per il rispetto dei diritti di libertà. In questa decisione di abbracciare come fratelli quei quattro vescovi c’è qualcosa che iscrive d’ufficio le autorità della Chiesa cattolica tra coloro che Pierre Vidal-Naquet ha definito «gli assassini della memoria». Lo capiremo meglio se si terrà conto della singolare coincidenza tra questa decisione papale e la doppia ricorrenza non solo del cinquantenario del Concilio Vaticano II ma anche dell’appuntamento annuale del «giorno della memoria». È proprio la memoria della Shoah che subisce un’offesa diretta e frontale da questa decisione di papa Ratzinger. Non è certo un caso se proprio un vescovo di quel gruppetto di lefebvriani, monsignor Richard Williamson, ha scelto questa ricorrenza annuale per fare pubblica professione di negazionismo. Come abbiamo letto sui giornali nei giorni scorsi, il vescovo ha dichiarato al canale televisivo svedese Svt1 che secondo lui «le camere a gas non sono mai esistite». Il monsignore si è addentrato con passione in calcoli precisi ai quali aveva evidentemente dedicato molto tempo: ha parlato di altezza e forma dei forni crematori dei lager e ha sostenuto che gli ebrei uccisi sarebbero stati non sei milioni ma «solo» due o trecentomila.
Ma il suo non è un deprecabile caso privato, come vorrebbe far credere l’ineffabile direttore dell’Osservatore Romano. Monsignor Williamson non è un negazionista occasionale. Lui e i suoi compagni di ventura - lo svizzero Bernard Fellay, il francese Bernard Tissier de Maillerais e lo spagnolo Alfonso de Galarreta - seguirono monsignor Lefebvre sulla via del rifiuto del Concilio per ragioni che hanno a che fare proprio con la questione del giudizio della Chiesa cattolica sugli ebrei. Per questi uomini e per la piccola chiesa che hanno guidato finora Papa Giovanni XXIII era un infiltrato di una congiura giudaica, il suo concilio era il prodotto di un complotto contro la vera Chiesa, quella di San Pio V, quella della guerra senza quartiere agli eretici e agli ebrei. Forse non tutti sanno che le ragioni della scissione di monsignor Lefebvre hanno un rapporto molto preciso con lo sterminio degli ebrei. Ciò che spinse il prelato francese a ribellarsi alla Chiesa fu la dichiarazione sulla libertà religiosa e l’apertura verso l’ebraismo. Cercheremmo invano la sua firma sotto la «Nostra aetate», il documento fondamentale sulle relazioni tra la Chiesa cattolica e le altre religioni: un documento che si apriva con queste parole: «Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno più strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane». E proseguiva con giudizi positivi sulla religione mussulmana e soprattutto su quella ebraica, voltando le spalle a secoli di aggressioni contro gli ebrei e affermando solennemente che «gli Ebrei non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura».
Quei documenti sono diventati sempre più desueti negli ultimi anni grazie a una serie continua di atti papali e di decisioni della Congregazione per la Dottrina della Fede. E la marcia di avvicinamento alle posizioni del nucleo dei lefebvriani si era resa evidente in molte scelte simboliche oltre che nell’impulso dato a quella Congregazione, dove si è rinverdita la radice antica dell’Inquisizione. Ma il direttore dell’Osservatore Romano si sbaglia se crede di potersela cavare con quelle parolette finali: secondo lui la bontà della scelta fatta «non sarà offuscata da inaccettabili opinioni negazioniste e atteggiamenti verso l’ebraismo di alcuni». E invece lo sarà, anzi lo è già, irrimediabilmente. Quella che è stata offuscata dalla decisione papale è l’immagine della Chiesa cattolica nella coscienza civile del mondo intero.
Dura presa di poszione del presidente dell’Unione delle comunità italiane Renzo Gattegna
"Ci auguriamo che prenda una decisione sul vescovo antisemita"
Gli ebrei: "Infame negare la Shoah
la Chiesa deve intervenire" *
ROMA - La remissione della scomunica dei vescovi lefebvriani "è una questione che deve essere tenuta separata dalle opinioni storiche. La prima è un fatto interno alla chiesa su cui non abbiamo niente da dire, sulle tesi negazioniste, invece, abbiamo molto da dire perchè sono un’infamia". Il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane Renzo Gattegna torna sulla polemica tra Vaticano e mondo ebraico suscitata dalla decisione di Papa Benedetto xvi di riabilitare quattro vescovi lefebvriani. Nei giorni scorsi la comunità ebraica aveva parlato di una Chiesa "contaminata" da affermazioni antisemite, oggi Gattegna rincara la dose e chiede una esplicità presa di distanza del Vaticano dalle parole di monsignor Williamson (uno dei riabilitati) che ha sostenuto tesi negazioniste sulla Shoah.
"In questo momento - spiega Gattegna - siamo attenti osservatori delle decisioni che la chiesa prenderà in merito a chi sostiene tesi negazioniste. Ci auguriamo che ci sia una smentita di queste tesi che chiarisca ogni dubbio a riguardo".
Critico anche il presidente della comunità ebraica di Milano, Leone Soued. "Il ritiro della sua scomunica - dice Soued - porta a un momento di riflessione ma la Chiesa ha immediatamente chiarito che è un reintegro soltanto nella sua veste religiosa e non tanto con riguardo alle sue idee personali, prima fra tutte la negazione della Shoah". La decisione, comunque, "deve portare - sottolinea Soued - a una profonda riflessione nei rapporti con la Chiesa, che ultimamente sono stati difficili ma devono assolutamente continuare".
* la Repubblica, 26 gennaio 2009
L’intervento ospitato sulla rivista dei gesuiti, ’Popoli’
Ebrei: ’’Il Papa ha messo in crisi il dialogo’’
Il rabbino capo di Venezia, Richetti: con le parole di Benedetto XVI secondo le quali ’in ogni caso va testimoniata la superiorita’ della fede cristiana’, si va ’’verso la cancellazione degli ultimi 50 anni di storia della Chiesa’’
Citta’ del Vaticano, 13 gen. - (Adnkronos) - Viene dalla somma autorita’ del cattolicesimo, il Papa, la messa in discussione del dialogo con l’ebraismo. A sostenerlo, con parole pesanti come pietre, scritte nero su bianco in un intervento ospitato dalla rivista dei gesuiti, ’’Popoli’’, e’ il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti. Nell’intervento, nel quale si da’ conto, a nome del Rabbinato d’Italia, dell’attuale crisi nei rapporti ebraico-cattolici in Italia, Richetti spiega che secondo Benedetto XVI ’’il dialogo e’ inutile perche’ in ogni caso va testimoniata la superiorita’ della fede cristiana’’ e in tal modo si va verso ’’la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa’’. Insomma, sostiene, ’’in quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa e’ la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorita’’’.
E si’ che l’intervento del rabbino e’ preceduto da poche righe in cui ’’Popoli’’ spiega: ’’Il primo passo per un dialogo autentico e’ mettersi in ascolto delle ragioni dell’altro’’. D’altro canto, oggetto dell’articolo e’ proprio la rinuncia ebraica alla partecipazione alla giornata dell’ebraismo che si celebra ogni anno il 17 gennaio. All’origine della crisi interreligiosa il ritorno della messa in latino secondo il messale di San Pio V nel quale si invoca la conversione degli ebrei alla verita’ cristiana. Una preghiera che in passato aveva peraltro una formulazione ingiuriosa, quella dei ’’perfidi giudei’’, poi modificata da Benedetto XVI nel liberalizzare l’antico rito.
La scelta compiuta dall’assemblea dei rabbini d’Italia, si legge nell’intervento, ’’e’ la logica conseguenza di un momento particolare che sta vivendo il dialogo interconfessionale oggi, momento i cui segni hanno cominciato a manifestarsi quando il Papa, liberalizzando la messa in latino, ha indicato nel Messale tridentino il modulo da seguire’’.
’’In quella formulazione -scrive il rabbino Richetti- nelle preghiere del Venerdi’ Santo e’ contenuta una preghiera che auspica la conversione degli ebrei alla ’verita’’ della Chiesa e alla fede nel ruolo salvifico di Gesu’’’. ’’A onor del vero, quella preghiera - prosegue il testo - che nella prima formulazione definiva gli ebrei ’perfidi’, ossia ’fuori dalla fede’ e ciechi, era gia’ stata ’saltata’ (ma mai abolita) da Giovanni XXIII. Benedetto XVI l’ha espurgata dai termini piu’ offensivi e l’ha reintrodotta’’.
Da questo momento in poi, afferma il rabbino, la parte ebraica si e’ presa una pausa di riflessione nel dialogo con la Chiesa cattolica e si e’ avviata una fase di contatti e tentativi di mediazione. ’’Purtroppo -afferma il rabbino capo di Venezia- i risultati si sono dimostrati deludenti. Si sono registrate reazioni ’offese’ da parte di alte gerarchie vaticane: ’Come si permettono gli ebrei di giudicare in che modo un cristiano deve pregare? Forse che la Chiesa si permette di espungere dal rituale delle preghiere ebraiche alcune espressioni che possono essere interpretate come anticristiane?’’’.
Ancora, si rileva che non e’ mai arrivata una risposta ufficiale della Conferenza episcopale italiana. Altri prelati hanno affermato, spiega Richetti, che ’’la speranza espressa dalla preghiera ’Pro Judaeis’ e’ ’puramente escatologica’, e’ una speranza relativa alla ’fine dei tempi’ e non invita a fare proselitismo attivo (peraltro gia’ vietato da Paolo VI)’’.
Ma proprio da qui prende spunto il rabbino per un giudizio estremamente severo: ’’Queste risposte non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identita’’’.
’’Non si tratta, quindi - ha aggiunto - di ipersensibilita’: si tratta del piu’ banale senso del rispetto dovuto all’altro come creatura di Dio. Se a cio’ aggiungiamo le piu’ recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perche’ in ogni caso va testimoniata la superiorita’ della fede cristiana, e’ evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa. In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa e’ la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorita’’’.
’’Dialogare - conclude il rabbino - vuol dire rispettare ognuno il diritto dell’altro ad essere se stesso, cogliere la possibilita’ di imparare qualcosa dalla sensibilita’ dell’altro, qualcosa che mi puo’ arricchire. Quando l’idea di dialogo come rispetto (non come sincretismo e non come prevaricazione) sara’ ripristinata, i rabbini italiani saranno sempre pronti a svolgere il ruolo che hanno svolto negli ultimi cinquant’anni’’.
Ansa» 2009-01-13 18:32
RABBINI, CON RATZINGER CANCELLATI 50 ANNI DI DIALOGO
ROMA, 13 GEN - Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi "cinquanta anni di storia" nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che - in un editoriale per il mensile dei gesuiti "Popoli", ha spiegato i motivi che hanno portato il rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull’ebraismo, indetta per il 17 gennaio dalla Confrenza episcopale italiana.
Dopo lo scontro sui lefebvriani Ratzinger scrive una lettera in cui parla di "odio senza timore"
E a 4 anni dall’elezione alza il velo su una crisi cruciale all’interno della Curia
Il Papa e la guerra del Vaticano
"Ostilità pronte all’attacco"
di MARCO POLITI *
CITTA DEL VATICANO - Una Curia allo sbando, un Papa chiuso nel suo palazzo e costretto a fronteggiare una bufera che l’Osservatore Romano definisce senza esempi in tempi recenti. E fughe di notizie che l’organo vaticano bolla come "miserande". Quattro anni dopo la sua elezione Benedetto XVI sperimenta una crisi cruciale del suo pontificato. Ferito e solo, ha scritto parole amare ed aspre ai vescovi di tutto il mondo, lamentando che - per la vicenda della scomunica condonata ai quattro vescovi lefebvriani e specie per il caso Williamson - proprio ambienti cattolici gli abbiano mostrato un’"ostilità pronta all’attacco". Persino arrivando a trattarlo, lui dice, con "odio senza timore e riserbo".
C’è qualcosa che traballa nella gestione della Curia. Se ne avevano segnali da tempo, ma la rivolta di alcuni grandi episcopati - in Germania, Austria, Francia e Svizzera - contro la decisione papale di graziare i vescovi lefebvriani scomunicati senza ottenere preventivamente una loro leale adesione al concilio Vaticano II, ha messo in luce una disfunzione più generale. Per due volte decisioni papali, che attendevano di essere rese note attraverso la sala stampa, sono state fatte filtrare all’esterno in anticipo causando clamore e polemiche. È successo con il decreto di revoca delle scomuniche, è capitato di nuovo con le indiscrezioni sulla lettera papale ai vescovi. Giovanni Maria Vian, direttore dell’Osservatore, fustiga in un corsivo le "manipolazioni e strumentalizzazioni" anche all’interno della Curia romana, ammonendo che la Curia è "organismo storicamente collegiale e che nella Chiesa ha un dovere di esemplarità".
Sferzata inedita e dura a chi nel palazzo apostolico non si è attenuto alla linea del riserbo e dell’obbedienza. Ma l’impaccio e le disfunzioni della macchina curiale vanno al di là della vicenda lefebvriana.
Benedetto XVI è solo. Ma non perché ci sia un partito che gli rema contro. Bensì per il suo di governo solitario, che non fa leva sulla consultazione e non presta attenzione ai segnali che vengono dall’esterno. Meno che mai quando provengono dal mondo dei media, considerato a priori con sospetto. "Benché sia stato più di un ventennio in Vaticano al tempo in cui era prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede - spiega off record un monsignore - Ratzinger non conosce affatto la Curia. Era chiuso ieri nella sua stanza nell’ex Sant’Uffizio ed è chiuso oggi nel suo studio da papa. Lui è un teologo, non è un uomo di governo. Passa metà della giornata a occuparsi dei problemi della Chiesa e l’altra metà concentrato sui suoi scritti: sul secondo volume dedicato a Gesù". Monsignore si ferma e soggiunge: "Non è detto che un grande teologo abbia con precisione il polso della realtà così come è".
Certo, esiste in Curia un pugno di fedelissimi. Il cardinale Bertone in primis. O il suo successore alla Congregazione per la Dottrina della fede, Levada. O il nuovo responsabile del dicastero del Culto divino, lo spagnolo Canizares. Parlano il suo stesso linguaggio i cardinali Grocholewski, responsabile del dicastero dell’Educazione cattolica, o Rodè, titolare della Congregazione dei religiosi. E fra i presidenti delle conferenze episcopali è in prima a linea a solidarizzare con il pontefice il cardinale Bagnasco, che prontamente ieri ha espresso "gratitudine" per le chiarificazioni del Papa. Ma la fedeltà non basta. "Ciò che si avverte - spiega un altro frequentatore dei sacri palazzi - è l’assenza di una guida lineare della macchina curiale". Macchina complessa, che va condotta con mano ferma dal Papa, dai suoi segretari di Stato e qualche volta da alcuni segretari particolari molto attivi dietro le quinte: come Capovilla per Giovanni XXIII, Macchi per Paolo VI, Dziwisz per Giovanni Paolo II.
Mons. Gaenswein, ed è un suo pregio caratteriale, non ama giocare a fare il braccio destro (occulto) del Papa. Ma contemporaneamente pesa il fatto che larga parte della macchina curiale non riconosce il Segretario di Stato Bertone come "uno dei suoi". Bertone non viene dalla diplomazia pontificia. Non ha fatto la trafila dei monsignori che hanno cominciato da minutanti in un ufficio della Curia e poi sono saliti crescendo nella rete di contatti, passando magari attraverso l’esperienza di un paio di nunziature all’estero. Bertone è un outsider. Scelto da Ratzinger perché suo primo collaboratore al Sant’Uffizio e perché di provata sintonia e fedeltà. Ma alla fin fine il mondo curiale non si sente sulla stessa lunghezza d’onda con il "salesiano".
Non è una posizione facile la sua. Da un lato finisce per essere in qualche modo separato dalla macchina curiale, dall’altro non può influire sulla direzione di marcia che di volta in volta Benedetto XVI intraprende. Abile nel controllare e riparare i danni, quando si verificano, il Segretario di Stato può tuttavia intervenire soltanto dopo. Perché in ultima analisi Ratzinger si esercita in uno stile di monarca solitario. Nella lettera ai vescovi il Papa riconosce che portata e limiti del suo decreto sui vescovi lefebvriani non siano stati "illustrati in modo sufficientemente chiaro" al momento della pubblicazione. Adesso finalmente la commissione Ecclesia Dei, guidata dal cardinale Castrillon Hoyos (fino a ieri titolare esclusivo dei negoziati con la Fraternità Pio X), verrà inquadrata nel lavoro della Congregazione per la Dottrina della fede e in tal modo - garantisce il Papa - nelle decisioni da prendere sulle trattative con i lefebvriani verranno coinvolti i cardinali capi-dicastero vaticani e i rappresentanti dell’episcopato mondiale partecipanti alle riunioni plenarie dell’ex Sant’Uffizio.
Il rimedio adottato ora rappresenta la confessione che Benedetto XVI nella vicenda non ha coinvolto nessuno, non ha informato nessuno e ha lasciato mano libera al cardinale Castrillon Hoyos, che non lo ha nemmeno informato esaurientemente sui trascorsi negazionisti di Williams, noti da più di un anno per la loro impudenza. I filo-lefebvriani di Curia in questa partita hanno giocato spregiudicatamente la carta delle indiscrezioni per dare per scontato un riavvicinamento ancora tutto da costruire. "Papa Ratzinger - confida un vescovo che ben conosce il sacro palazzo - è stato in fondo generoso nell’assumersi ogni responsabilità senza dare la colpa a nessun collaboratore. Ma nel suo modo di governare c’è un problema: parte sempre dall’assunto che quando è stabilita la verità di una linea, allora si deve andare avanti e basta. Non mette in conto le conseguenze esterne del suo ruolino di marcia e nella sua psicologia non crede nemmeno che gli uomini di Curia siano all’altezza di dargli veri consigli".
Non è casuale allora che siano stati i grandi episcopati d’Europa e del Canada a ribellarsi all’idea che con l’improvvisa mano tesa ai lefebvriani apparisse annacquata l’indispensabile fedeltà della Chiesa contemporanea ai principi del Vaticano II. Persino un intimo di Ratzinger come il cardinale di Vienna Schoenborn è stato costretto a denunciare le "insufficienti procedure di comunicazione nel Vaticano". Un modo elegante per evitare di criticare direttamente il Papa. Ma proprio in Austria si è giocato un altro evento senza precedenti nella storia dei pontificati moderni. Un vescovo ausiliare scelto dal pontefice è stato respinto dall’episcopato intero di una nazione, costringendo Benedetto XVI a un’ennesima marcia indietro.
Questo gli uomini di Curia non l’avevano mai visto.
* la Repubblica, 13 marzo 2009