PAPA FRANCESCO
Roma crocevia del mondo:
domani la Messa d’inizio pontificato
Domani, nella Solennità di san Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria, alle 9.30, papa Francesco celebrerà la Messa sul sagrato della Basilica di San Pietro per l’inizio del suo ministero petrino.
Conservato il motto,
l’anello sarà d’argento *
La celebrazione di domani partirà dalla tomba di San Pietro, dove ci saranno preparati l’anello del pescatore e il pallio, i due segni del ministero petrino, che verranno consegnati al Papa. Il pallio è consegnato dal cardinale protodiacono Jean-Louis Tauran.
Il cardinale primo dell’ordine dei presbiteri, Godfried Daneels, farà una preghiera e il cardinale decano, il primo dell’ordine dei vescovi, Angelo Sodano, gli consegnerà l’anello del pescatore. Lo ha riferito Padre Federico Lombardi.
L’anello del pescatore scelto da Papa Bergoglio che gli verrà consegnato domani è in argento dorato. Padre Lombardi ha spiegato che il modello dell’anello era stato dato dall’artista Enrico Manfrini al segretario di Paolo VI, mons. Macchi. In questi giorni è stato proposto al papa dal maestro delle Celebrazioni liturgiche pontificie, monsignor Guido Marini, insieme con altri due modelli. Il Papa ha scelto, fra i tre propostigli, quello dell’artista scomparso a 87 anni nel 2004 a Milano, conosciuta anche come "lo scultore dei papi". Nell’anello c’è l’immagine di San Pietro con le chiavi.
STEMMA EPISCOPALE-PAPALE DI FRANCESCO |
Papa Francesco ha inoltre deciso di conservare il suo stemma episcopale e il motto ’miserando atque eligendo", tratto dalla vocazione di San Matteo ("Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi".)
Il pallio che domani verrà consegnato e Papa Francesco "è lo stesso di Benedetto XVI". Lo ha detto il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, nel briefing con i giornalisti. Il pallio è la fascia di lana bianca con le croci rosse che simboleggia il Buon Pastore e, insieme all’anello del pescatore, è uno dei due simboli del ministero petrino.
* Avvenire, 18 marzo 2013
Sul tema, per approfondimenti, si cfr.:
PASQUA IN ARRIVO. IL TERZO SARA’ REGNO DELLO SPIRITO SANTO: "TERTIUS IN CHARITATE".
PAPA FRANCESCO / I SIMBOLI
-Conservato il motto,
l’anello sarà d’argento
di Marco Roncalli (Avvenire, 18 marzo 2013)
Nel segno della continuità. Potremmo definire questa la decisione di papa Francesco circa il motto e lo stemma papale. Infatti il motto resterà «miserando atque eligendo», ed è tratto dalle Omelie di san Beda il Venerabile, il quale, commentando l’episodio evangelico della vocazione di san Matteo, scrive: «Vidit ergo lesus publicanum et quia miserando atque eligendo vidit, ait illi Sequere me» (Vide Gesù un pubblicano e siccome lo guardò con sentimento di amore e lo scelse, gli disse: Seguimi).
Questa omelia è un omaggio alla misericordia divina ed è riprodotta nella Liturgia delle Ore della festa di san Matteo. Essa riveste un significato particolare nella vita e nell’itinerario spirituale del Papa. Infatti, nella festa di san Matteo dell’anno 1953, il giovane Jorge Bergoglio sperimentò, all’età di 17 anni, in un modo del tutto particolare, la presenza amorosa di Dio nella sua vita. In seguito ad una confessione, si sentì toccare il cuore ed avvertì la discesa della misericordia di Dio, che con sguardo di tenero amore, lo chiamava alla vita religiosa, sull’esempio di Sant’Ignazio di Loyola.
Anche per lo stemma papale, Francesco ha deciso di conservare tutti gli elementi presenti nello stemma scelto fin dalla sua consacrazione episcopale.
Lo scudo blu è sormontato dai simboli della dignità pontificia, uguali a quelli voluti dal predecessore Benedetto XVI (mitra collocata tra chiavi decussate d’oro e d’argento, rilegate da un cordone rosso). Confermato dunque l’abbandono del simbolo della tiara papale o triregno, che veniva posta sul capo del nuovo Papa (l’ultimo a indossarla fu Paolo VI, che poi la vendette per raccogliere fondi per le missioni in Africa. In alto allo scudo del nuovo stemma papale, campeggia l’emblema dell’ordine di provenienza del Papa, la Compagnia di Gesù: un sole raggiante e fiammeggiante caricato dalle lettere, in rosso, IHS, monogramma di Cristo. La lettera H è sormontata da una croce; in punta, i tre chiodi in nero.
Nella parte bassa dello scudo, si trovano due immagini: la stella e il fiore di nardo. La stella, secondo l’antica tradizione araldica, simboleggia la Vergine Maria, madre di Cristo e della Chiesa; mentre il fiore di nardo indica san Giuseppe, patrono della Chiesa universale. Nella tradizione iconografica ispanica, infatti, san Giuseppe è raffigurato con un ramo di nardo in mano. Ponendo nel suo scudo tali immagini, il Papa ha inteso esprimere la propria particolare devozione verso la Vergine e san Giuseppe. E proprio oggi, Solennità di san Giuseppe, il nuovo Papa ha voluto collocare la Messa di inizio pontificato.
Il nuovo anello papale ha già 35 anni di storia
Conclusa l’elezione, il nuovo Pontefice, come vuole la tradizione, si vede presentare tre modelli tra i quali scegliere il nuovo anello pontificale. È stato così anche per Francesco. E il Papa che non ha rinunciato alla sua croce «povera» indossata da vescovo prima e da cardinale poi, ha indicato per sé il modello di un anello che già ha una piccola una storia: è lo stesso che Paolo VI aveva chiesto allo scultore Enrico Manfrini, e - particolarmente semplice - reca incisa la figura di Pietro che tiene le Chiavi. Paolo VI lo ebbe fra le mani l’anno della sua morte, il 1978, poco prima del delitto di Aldo Moro. Poi, però, poi continuò a usare il suo, quello del Concilio, e non pensò più a sostituirlo. Il modello dell’anello rimase al segretario di Paolo VI, monsignor Pasquale Macchi, e dopo la morte di questi pervenne a monsignor Ettore Malnati, oggi vicario episcopale per la cultura della diocesi di Trieste.
È stato lui stesso, sacerdote da sempre vicino ai segretari dei due Papi del Concilio Vaticano II, Pasquale Macchi e Loris Capovilla, poco prima dell’inizio del pre-conclave, a far avere al cardinale Giovanni Battista Re questo modello lasciatogli in eredità da Macchi. Poi la decisione di papa Francesco. L’altro ieri l’orafo pontificio ha completato la fusione ed oggi - durante il rito previsto in piazza San Pietro - questo anello «conciliare» sarà messo all’anulare destro del nuovo «vescovo di Roma» da parte del decano del Collegio cardinalizio, prima della Messa di inizio pontificato.
E sarà un anello d’argento dorato e non d’oro, come ha spiegato ieri mattina il portavoce vaticano padre Federico Lombardi, dando l’annuncio della decisione presa da Francesco su uno dei simboli del pontificato. «Anche questa scelta di papa Francesco, solo in apparenza minore, indica una continuità nello stile e nello spirito del Concilio voluto da Giovanni XXIII e concluso da Paolo VI, che sta già facendo rivivere con una sua cifra originale, ma pure con rimandi ai due papi del Vaticano II», osserva monsignor Malnati. Scomparso dieci anni fa, molto apprezzato dal filosofo Jean Guitton, tra gli artisti conciliari vicini a papa Montini, fine medaglista e tra i pochi esponenti di un’arte sacra tutta conciliare, Enrico Manfrini - sempre su commissione di Paolo VI - realizzò anche il calco degli anelli da lui donati ai Padri conciliari a conclusione del Vaticano II, quelli con il Cristo con gli apostoli Pietro e Paolo, come pure le campanelle in bronzo raffiguranti i quattro evangelisti , delicato omaggio di papa Montini agli osservatori del Concilio. Ma c’è altro da ricordare legando il tema dell’anello di Pietro alla festa liturgica odierna. Prima Giovanni XXIII, poi Giovanni Paolo II donarono i loro anelli a san Giuseppe: il primo, all’inaugurazione del Concilio Vaticano II lo inviò al San Giuseppe della Concattedrale di Kalisz, in Polonia, mentre papa Wojtyla, offrì il suo a quello della chiesa carmelitana di Wadowice, sua città natale, in Polonia, in occasione del suo XXV anno di pontificato. Doni accolti con gioia a testimonianza di vincoli spirituali a ricordare l’uomo giusto di Nazareth tanto caro anche all’arcivescovo di Buenos Aires, cardinale Jorge Mario Bergoglio.
Quell’uomo rimasto fedele sino alla fine alla chiamata di Dio e oggi patrono universale della Chiesa. E anche papa Francesco ha deciso di mantenere un vincolo con l’arcidiocesi di Buenos Aires, in Argentina. «Il Pontefice donerà alla Cattedrale della capitale argentina l’anello che fino ad ora aveva portato come cardinale arcivescovo. A consegnarlo sarà il vescovo ausiliare di Buenos Aires, Eduardo Horacio Garcìa questo fine settimana». Lo scrive l’Osservatore Romano, riportando quanto riferito da padre Alejandro Russo, rettore della Cattedrale metropolitana di Buenos Aires, che «ha avuto occasione di parlare con papa Francesco e ha subito annunciato un suo gesto, che sottolinea il profondo legame che lega il nuovo Pontefice all’arcidiocesi di cui fino a pochi giorni fa era pastore».
FILOLOGIA E METANOIA....*
Logica carismatica / 4.
È la reciprocità che converte
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 11 settembre 2021)
Continuiamo l’analogia tra i primi tempi del cristianesimo e le nostre comunità carismatiche o movimenti spirituali di oggi - due espressioni che uso come sinonime, in quanto realtà collettive nate e alimentate da un carisma e quindi da uno o più fondatori, che sono i primi portatori e la prima immagine di quel carisma. Analogia dunque che, come ci insegna la filosofia scolastica, è un parallelismo tra due realtà dove le somiglianze convivono con le dissomiglianze, e le seconde sono in genere maggiori delle prime. Il metodo analogico, soprattutto in storia, va preso sempre con molte precauzioni, ma come ogni metodo può essere una strada per iniziare un cammino in un territorio da esplorare. L’analogia è generativa se il termine di paragone è ricco e fecondo: la Bibbia e le prime comunità cristiane lo sono senz’altro. L’analogia suggerisce, accenna, indica, sempre sottovoce e con mitezza; è aurora di discorso, sempre fragile e vulnerabile. E quindi conosce le tipiche virtù della vulnerabilità.
Come si sviluppò la prima comunità attorno a Gesù? Marco ce la descrive così: «Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando. Chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: "Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro". Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano» (6,6-13).
In Giovanni i primi discepoli arrivano dal movimento del Battista; per Marco e i sinottici Gesù li chiama lungo il mare di Galilea. Una volta tornato dalla Giudea, al termine della sua esperienza col Battista, il suo primo gesto è una chiamata di discepoli, di compagni, di amici, a dirci che questa storia straordinaria è storia collettiva, comunitaria, sociale, è la storia del "due o più", una storia da subito ecclesiale. Gesù inizia immediatamente la sua missione associando il suo nome ad altri nomi: Pietro, Andrea, Giacomo, Giovanni. Il primo nome dei "cristiani" è nome plurale. Elia, molto presente in queste storie di Marco, chiama Eliseo alla fine della sua missione, Gesù li chiama all’inizio; li chiama a coppie, a coppie di fratelli. «Guai ai soli», cantava pochi secoli prima il saggio Qoelet, e se la fraternità nello spirito non è quella del sangue, questo inizio ci dice che qualche volta possono incontrarsi. Marco racconta che i primi discepoli vengono chiamati da Gesù mentre stanno lavorando, nel loro gesto di pescatori. Pescatori, quindi lavoratori addestrati all’azione collettiva - la pesca di mare o lago è lavoro necessariamente del "due o più".
All’inizio della comunità di Gesù c’è il lavoro. E c’è in continuità con una nota costante della Bibbia, che in questo si mostra umanesimo del lavoro. Nella Bibbia, alcune chiamate decisive avvengono mentre le persone stanno lavorando. Amos, Gedeone, Giuditta, Davide, ricevono la loro vocazione mentre lavoravano.
Gesù chiama i suoi amici e li chiama a diventare "pescatori di uomini". Quella abilità tecnica che avevano appreso imparando il difficile mestiere di pescatori di pesci ora Gesù chiede loro di usarla per un altro compito, per un altro mestiere. Annunciare il Regno è una vocazione, non è una professione, ma assomiglia a un mestiere, perché ha bisogno di una competenza, di una abilità, di un impegno, di un apprendistato. Non si diventa professionisti della vocazione, ma competenti sì; e senza persone che sanno "pescare uomini" almeno come sanno pescare i pesci non nasce nessun movimento, nessuna avventura come quella cristiana.
Gli apostoli saranno visti, di tanto in tanto, dai Vangeli mentre pescano anche negli anni che vivono accanto a Gesù (si pensi alla pesca miracolosa); a dire che lasciare le reti dei pesci per maneggiare quelle degli uomini non significa necessariamente lasciare definitivamente e materialmente le prime barche per la barca della Chiesa. Nella storia della Chiesa alcuni apostoli hanno lasciato, anche materialmente, le prime barche e le prime reti, e non le hanno riprese più; altri apostoli le hanno lasciate solo con lo spirito, e hanno continuato a maneggiare le stesse barche di prima e hanno raccolto pesci e uomini, spesso con le stesse reti, quando il lavoro è rimasto lo stesso dopo la vocazione. Ci sono sempre stati molti modi di essere apostoli. Così nelle nostre comunità e movimenti: i loro membri non sono professionisti dello spirito, né tantomeno dipendenti di un’azienda; ma sono competenti, qualche volta anche nel lavoro, e la competenza laica del lavoro nutre e sostiene l’altra competenza apostolica. Il rischio da scongiurare è che l’invito a lasciare le reti faccia perdere la vecchia competenza e non ne generi nessuna nuova.
Perché Gesù ordina ai suoi apostoli di non prendere per il viaggio «né pane, né sacca, né denaro...»? Gesù sta creando un nuovo tipo di uomo e quindi di comunità. Qui capiamo perché i cristiani all’inizio erano chiamati "quelli della via", quelli che camminavano. La comunità di Gesù era una comunità mobile, una sequela, un camminare dietro, un ritornare "arameo errante". Tenda, accampamento, precarietà, non-stanzialità. E così rimasero per decenni le comunità cristiane, i decenni che hanno cambiato la storia.
Quando si cammina molto, la scelta dell’abbigliamento e dell’equipaggiamento è decisiva. Come sappiamo anche noi quando dobbiamo iniziare un lungo viaggio o un pellegrinaggio: è bene portare solo l’essenziale; e più il viaggio è lungo più essenziali bisogna diventare. Perché un lungo viaggio sia sostenibile occorre portare solo ciò che serve davvero, non il superfluo, ed è quindi fondamentale saper individuare l’essenziale e distinguerlo dal superfluo. Il viaggio degli apostoli era qualcosa di simile: l’essenziale che portavano era l’annuncio di una Parola diversa, l’avvento di un altro Regno. Non partivano, come i mercanti, per vendere e comprare, non erano soldati, non erano lavoratori stagionali, né rappresentanti di una ditta pagati a provvigione. L’essenziale era dunque una sola tunica, non la seconda. Non portavano il pane perché il Dio biblico provvede al pane quotidiano, come aveva fatto nel deserto, e come continua a fare con i suoi "operai" che hanno diritto al loro salario. Forte l’imperativo a non portare neanche denaro, che è alla base del carisma di san Francesco, che per imitare questa dimensione dell’apostolato proibì ai suoi frati di portare denaro nel loro mendicare.
Queste richieste dell’apostolato creano una condizione di dipendenza dagli altri, che è forse il messaggio più importante. Se non hai casa, se non hai con te né pane né soldi, allora per vivere hai bisogno dell’ospitalità di qualcuno che ti accoglie e ti sfama. Il messaggio cristiano è allora essenzialmente un’esperienza di reciprocità fin dall’inizio: gli apostoli portano l’annuncio del Vangelo, il vero tesoro, e ricevono un giaciglio e un tozzo di pane. Questa reciprocità di beni materiali è parte dell’esperienza dell’apostolo, e se manca non può, né deve, annunciare il Vangelo.
Ecco perché quando non c’è questa reciprocità «andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi». Perché se chi deve ricevere l’annuncio del Vangelo non si pone da subito in un atteggiamento di accoglienza e di dono non può capire quel Vangelo annunciato. Il Vangelo dell’amore si apre a chi è già nell’amore. E il comandamento nuovo, quello dell’amore scambievole, lo si vive già dall’annuncio: il discepolo ha bisogno della reciprocità di chi ascolta, che lo ama ancora prima di convertirsi, semplicemente ascoltando e accogliendo. E se non lo fa, si passa oltre. Altrimenti è un tesoro buttato via.
Tale reciprocità, è essenziale quasi come il messaggio. Chi ascolta il Vangelo deve prima dare. Chi annuncia il Vangelo sa che il primo dono che può fare a chi ascolta è donargli la possibilità di donare, per poter ricevere e poi, forse, capire. Chi annuncia il Vangelo sa di essere un mendicante di questa reciprocità. -Nella oikonomia del Vangelo il donatore ha un bisogno essenziale del donatario. Abilità grande di ogni annuncio è mettere le persone alle quali si vuole donare una buona novella in atteggiamento di donazione.
Queste indicazioni missionarie appartengono alle fonti di Marco, risalenti probabilmente all’insegnamento primitivo di Gesù. E ci dicono una cosa importante per le nostre comunità. Il primo Vangelo si viveva soprattutto con i piedi. Era un partire, un essere mandati. La sequela non va infatti troppo enfatizzata: appena gli apostoli iniziavano a seguire Gesù, questi li inviava "due a due", e loro cominciavano a fare con altri esattamente quello che stava facendo lui. La prima comunità cresceva per gemmazione, plurale, biodiversificata; tanto che subito dopo la morte di Gesù, arrivata pochissimi anni dopo l’inizio della sua vita pubblica, le varie comunità si ritrovano già diverse, con caratteristiche e "teologie" specifiche, dove gli apostoli e i discepoli lasciano l’impronta della loro personalità. La prima Chiesa non nasce monolitica e compatta perché Gesù mandava i suoi discepoli in giro, li rendeva nomadi e non-residenziali, come era lui stesso.
La comunità, questa comunità, non è una corte messianica, non è una comunità esoterica, ma una comunità missionaria e nomade, che si ritrova ogni tanto insieme, ma per subito ripartire. È comunità di annunciatori, e sono il messaggio e la stessa esperienza a fondare la comunità, non la coabitazione né l’insistere nello stesso terreno. Non stavano insieme per cercare il calore della casa, preferivano il freddo della strada e non la comfort zone della casa. E su quella via nuda e povera i discepoli, inviati due a due, evangelizzavano e guarivano.
Non partivano sognando il ritorno a Itaca, la loro Itaca era la strada: ecco perché c’è molto dell’umanesimo cristiano nell’Ulisse di Dante, anche se lo mette nell’Inferno, perché tutta la Divina Commedia è paradiso grazie allo sguardo di pietas di Dante.
Solo così poteva nascere una Chiesa capace di arrivare presto in tutti gli angoli della Terra, perché le sue colonne erano state formate all’arte della strada. Le comunità spirituali, certamente quelle più autentiche e sane, nascono sulla strada. Però nel corso del tempo è quasi inevitabile che il calore della casa vinca sul freddo della strada, e così poco alla volta da comunità fatte di annunciatori diventano comunità di consumatori di beni spirituali, e qualche volta questo consumo interno diventa così importante da non sentire più il freddo di coloro che stanno lungo la strada. È così che le comunità muoiono, ma possono risorgere se un giorno reimparano la disciplina della strada.
Quando la comunità diventa un labirinto dell’anima, o spicchiamo il volo come Icaro (assumendoci tutti i rischi del volo) oppure cerchiamo dentro il carisma una Arianna che ha lasciato un filo di salvezza per noi.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RESTITUIRE A GIUSEPPE L’ANELLO DEL "PESCATORE" E GIUSEPPE A MARIA E ALLA SUA FAMIGLIA - UMANA E DIVINA!!! LA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE INVESTE L’ AVVENIRE DELL’INTERA UMANITÀ, NON QUELLO DEI VESCOVI DELLA CHIESA "CATTOLICA".
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO.
Federico La Sala
LETTERA APOSTOLICA
Admirabile signum
DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
SUL SIGNIFICATO E IL VALORE DEL PRESEPE *
1. Il mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, suscita sempre stupore e meraviglia. Rappresentare l’evento della nascita di Gesù equivale ad annunciare il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia. Il presepe, infatti, è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura. Mentre contempliamo la scena del Natale, siamo invitati a metterci spiritualmente in cammino, attratti dall’umiltà di Colui che si è fatto uomo per incontrare ogni uomo. E scopriamo che Egli ci ama a tal punto da unirsi a noi, perché anche noi possiamo unirci a Lui.
Con questa Lettera vorrei sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe. Come pure la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali, nelle carceri, nelle piazze... È davvero un esercizio di fantasia creativa, che impiega i materiali più disparati per dare vita a piccoli capolavori di bellezza. Si impara da bambini: quando papà e mamma, insieme ai nonni, trasmettono questa gioiosa abitudine, che racchiude in sé una ricca spiritualità popolare. Mi auguro che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, là dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata.
2. L’origine del presepe trova riscontro anzitutto in alcuni dettagli evangelici della nascita di Gesù a Betlemme. L’Evangelista Luca dice semplicemente che Maria «diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (2,7). Gesù viene deposto in una mangiatoia, che in latino si dice praesepium, da cui presepe.
Entrando in questo mondo, il Figlio di Dio trova posto dove gli animali vanno a mangiare. Il fieno diventa il primo giaciglio per Colui che si rivelerà come «il pane disceso dal cielo» (Gv 6,41). Una simbologia che già Sant’Agostino, insieme ad altri Padri, aveva colto quando scriveva: «Adagiato in una mangiatoia, divenne nostro cibo» (Serm. 189,4). In realtà, il presepe contiene diversi misteri della vita di Gesù e li fa sentire vicini alla nostra vita quotidiana.
Ma veniamo subito all’origine del presepe come noi lo intendiamo. Ci rechiamo con la mente a Greccio, nella Valle Reatina, dove San Francesco si fermò venendo probabilmente da Roma, dove il 29 novembre 1223 aveva ricevuto dal Papa Onorio III la conferma della sua Regola. Dopo il suo viaggio in Terra Santa, quelle grotte gli ricordavano in modo particolare il paesaggio di Betlemme. Ed è possibile che il Poverello fosse rimasto colpito, a Roma, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, dai mosaici con la rappresentazione della nascita di Gesù, proprio accanto al luogo dove si conservavano, secondo un’antica tradizione, le tavole della mangiatoia.
Le Fonti Francescane raccontano nei particolari cosa avvenne a Greccio. Quindici giorni prima di Natale, Francesco chiamò un uomo del posto, di nome Giovanni, e lo pregò di aiutarlo nell’attuare un desiderio: «Vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello».[1] Appena l’ebbe ascoltato, il fedele amico andò subito ad approntare sul luogo designato tutto il necessario, secondo il desiderio del Santo. Il 25 dicembre giunsero a Greccio molti frati da varie parti e arrivarono anche uomini e donne dai casolari della zona, portando fiori e fiaccole per illuminare quella santa notte. Arrivato Francesco, trovò la greppia con il fieno, il bue e l’asinello. -La gente accorsa manifestò una gioia indicibile, mai assaporata prima, davanti alla scena del Natale. Poi il sacerdote, sulla mangiatoia, celebrò solennemente l’Eucaristia, mostrando il legame tra l’Incarnazione del Figlio di Dio e l’Eucaristia. In quella circostanza, a Greccio, non c’erano statuine: il presepe fu realizzato e vissuto da quanti erano presenti.[2]
È così che nasce la nostra tradizione: tutti attorno alla grotta e ricolmi di gioia, senza più alcuna distanza tra l’evento che si compie e quanti diventano partecipi del mistero.
Il primo biografo di San Francesco, Tommaso da Celano, ricorda che quella notte, alla scena semplice e toccante s’aggiunse anche il dono di una visione meravigliosa: uno dei presenti vide giacere nella mangiatoia Gesù Bambino stesso. Da quel presepe del Natale 1223, «ciascuno se ne tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia».[3]
3. San Francesco, con la semplicità di quel segno, realizzò una grande opera di evangelizzazione. Il suo insegnamento è penetrato nel cuore dei cristiani e permane fino ai nostri giorni come una genuina forma per riproporre la bellezza della nostra fede con semplicità. D’altronde, il luogo stesso dove si realizzò il primo presepe esprime e suscita questi sentimenti. Greccio diventa un rifugio per l’anima che si nasconde sulla roccia per lasciarsi avvolgere nel silenzio.
Perché il presepe suscita tanto stupore e ci commuove? Anzitutto perché manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell’universo, si abbassa alla nostra piccolezza. Il dono della vita, già misterioso ogni volta per noi, ci affascina ancora di più vedendo che Colui che è nato da Maria è la fonte e il sostegno di ogni vita. In Gesù, il Padre ci ha dato un fratello che viene a cercarci quando siamo disorientati e perdiamo la direzione; un amico fedele che ci sta sempre vicino; ci ha dato il suo Figlio che ci perdona e ci risolleva dal peccato.
Comporre il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente, i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell’Avvenimento; tuttavia, la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza, contemporanei dell’evento che è vivo e attuale nei più diversi contesti storici e culturali.
In modo particolare, fin dall’origine francescana il presepe è un invito a “sentire”, a “toccare” la povertà che il Figlio di Dio ha scelto per sé nella sua Incarnazione. E così, implicitamente, è un appello a seguirlo sulla via dell’umiltà, della povertà, della spogliazione, che dalla mangiatoia di Betlemme conduce alla Croce. È un appello a incontrarlo e servirlo con misericordia nei fratelli e nelle sorelle più bisognosi (cfr Mt 25,31-46).
4. Mi piace ora passare in rassegna i vari segni del presepe per cogliere il senso che portano in sé. In primo luogo, rappresentiamo il contesto del cielo stellato nel buio e nel silenzio della notte. Non è solo per fedeltà ai racconti evangelici che lo facciamo così, ma anche per il significato che possiede. Pensiamo a quante volte la notte circonda la nostra vita. -Ebbene, anche in quei momenti, Dio non ci lascia soli, ma si fa presente per rispondere alle domande decisive che riguardano il senso della nostra esistenza: chi sono io? Da dove vengo? Perché sono nato in questo tempo? Perché amo? Perché soffro? Perché morirò? Per dare una risposta a questi interrogativi Dio si è fatto uomo. La sua vicinanza porta luce dove c’è il buio e rischiara quanti attraversano le tenebre della sofferenza (cfr Lc 1,79).
Una parola meritano anche i paesaggi che fanno parte del presepe e che spesso rappresentano le rovine di case e palazzi antichi, che in alcuni casi sostituiscono la grotta di Betlemme e diventano l’abitazione della Santa Famiglia. Queste rovine sembra che si ispirino alla Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varazze (secolo XIII), dove si legge di una credenza pagana secondo cui il tempio della Pace a Roma sarebbe crollato quando una Vergine avesse partorito. Quelle rovine sono soprattutto il segno visibile dell’umanità decaduta, di tutto ciò che va in rovina, che è corrotto e intristito. Questo scenario dice che Gesù è la novità in mezzo a un mondo vecchio, ed è venuto a guarire e ricostruire, a riportare la nostra vita e il mondo al loro splendore originario.
5. Quanta emozione dovrebbe accompagnarci mentre collochiamo nel presepe le montagne, i ruscelli, le pecore e i pastori! In questo modo ricordiamo, come avevano preannunciato i profeti, che tutto il creato partecipa alla festa della venuta del Messia. Gli angeli e la stella cometa sono il segno che noi pure siamo chiamati a metterci in cammino per raggiungere la grotta e adorare il Signore.
«Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15): così dicono i pastori dopo l’annuncio fatto dagli angeli. È un insegnamento molto bello che ci proviene nella semplicità della descrizione. -A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione. A Dio che ci viene incontro nel Bambino Gesù, i pastori rispondono mettendosi in cammino verso di Lui, per un incontro di amore e di grato stupore. È proprio questo incontro tra Dio e i suoi figli, grazie a Gesù, a dar vita alla nostra religione, a costituire la sua singolare bellezza, che traspare in modo particolare nel presepe.
6. Nei nostri presepi siamo soliti mettere tante statuine simboliche. Anzitutto, quelle di mendicanti e di gente che non conosce altra abbondanza se non quella del cuore. Anche loro stanno vicine a Gesù Bambino a pieno titolo, senza che nessuno possa sfrattarle o allontanarle da una culla talmente improvvisata che i poveri attorno ad essa non stonano affatto. I poveri, anzi, sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio in mezzo a noi.
I poveri e i semplici nel presepe ricordano che Dio si fa uomo per quelli che più sentono il bisogno del suo amore e chiedono la sua vicinanza. Gesù, «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), è nato povero, ha condotto una vita semplice per insegnarci a cogliere l’essenziale e vivere di esso. Dal presepe emerge chiaro il messaggio che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità. Il palazzo di Erode è sullo sfondo, chiuso, sordo all’annuncio di gioia. -Nascendo nel presepe, Dio stesso inizia l’unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell’amore, la rivoluzione della tenerezza. Dal presepe, Gesù proclama, con mite potenza, l’appello alla condivisione con gli ultimi quale strada verso un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato.
Spesso i bambini - ma anche gli adulti! - amano aggiungere al presepe altre statuine che sembrano non avere alcuna relazione con i racconti evangelici. Eppure, questa immaginazione intende esprimere che in questo nuovo mondo inaugurato da Gesù c’è spazio per tutto ciò che è umano e per ogni creatura. Dal pastore al fabbro, dal fornaio ai musicisti, dalle donne che portano le brocche d’acqua ai bambini che giocano...: tutto ciò rappresenta la santità quotidiana, la gioia di fare in modo straordinario le cose di tutti i giorni, quando Gesù condivide con noi la sua vita divina.
7. Poco alla volta il presepe ci conduce alla grotta, dove troviamo le statuine di Maria e di Giuseppe. Maria è una mamma che contempla il suo bambino e lo mostra a quanti vengono a visitarlo. La sua statuetta fa pensare al grande mistero che ha coinvolto questa ragazza quando Dio ha bussato alla porta del suo cuore immacolato. All’annuncio dell’angelo che le chiedeva di diventare la madre di Dio, Maria rispose con obbedienza piena e totale. Le sue parole: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola» (Lc 1,38), sono per tutti noi la testimonianza di come abbandonarsi nella fede alla volontà di Dio. Con quel “sì” Maria diventava madre del Figlio di Dio senza perdere, anzi consacrando grazie a Lui la sua verginità. Vediamo in lei la Madre di Dio che non tiene il suo Figlio solo per sé, ma a tutti chiede di obbedire alla sua parola e metterla in pratica (cfr Gv 2,5).
Accanto a Maria, in atteggiamento di proteggere il Bambino e la sua mamma, c’è San Giuseppe. In genere è raffigurato con il bastone in mano, e a volte anche mentre regge una lampada. San Giuseppe svolge un ruolo molto importante nella vita di Gesù e di Maria. Lui è il custode che non si stanca mai di proteggere la sua famiglia. Quando Dio lo avvertirà della minaccia di Erode, non esiterà a mettersi in viaggio ed emigrare in Egitto (cfr Mt 2,13-15). E una volta passato il pericolo, riporterà la famiglia a Nazareth, dove sarà il primo educatore di Gesù fanciullo e adolescente. Giuseppe portava nel cuore il grande mistero che avvolgeva Gesù e Maria sua sposa, e da uomo giusto si è sempre affidato alla volontà di Dio e l’ha messa in pratica.
8. Il cuore del presepe comincia a palpitare quando, a Natale, vi deponiamo la statuina di Gesù Bambino. Dio si presenta così, in un bambino, per farsi accogliere tra le nostre braccia. Nella debolezza e nella fragilità nasconde la sua potenza che tutto crea e trasforma. Sembra impossibile, eppure è così: in Gesù Dio è stato bambino e in questa condizione ha voluto rivelare la grandezza del suo amore, che si manifesta in un sorriso e nel tendere le sue mani verso chiunque.
La nascita di un bambino suscita gioia e stupore, perché pone dinanzi al grande mistero della vita. Vedendo brillare gli occhi dei giovani sposi davanti al loro figlio appena nato, comprendiamo i sentimenti di Maria e Giuseppe che guardando il bambino Gesù percepivano la presenza di Dio nella loro vita.
«La vita infatti si manifestò» (1 Gv 1,2): così l’apostolo Giovanni riassume il mistero dell’Incarnazione. Il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia, e a partire dal quale anche si ordina la numerazione degli anni, prima e dopo la nascita di Cristo.
Il modo di agire di Dio quasi tramortisce, perché sembra impossibile che Egli rinunci alla sua gloria per farsi uomo come noi. -Che sorpresa vedere Dio che assume i nostri stessi comportamenti: dorme, prende il latte dalla mamma, piange e gioca come tutti i bambini! Come sempre, Dio sconcerta, è imprevedibile, continuamente fuori dai nostri schemi. Dunque il presepe, mentre ci mostra Dio così come è entrato nel mondo, ci provoca a pensare alla nostra vita inserita in quella di Dio; invita a diventare suoi discepoli se si vuole raggiungere il senso ultimo della vita.
9. Quando si avvicina la festa dell’Epifania, si collocano nel presepe le tre statuine dei Re Magi. Osservando la stella, quei saggi e ricchi signori dell’Oriente si erano messi in cammino verso Betlemme per conoscere Gesù, e offrirgli in dono oro, incenso e mirra. Anche questi regali hanno un significato allegorico: l’oro onora la regalità di Gesù; l’incenso la sua divinità; la mirra la sua santa umanità che conoscerà la morte e la sepoltura.
Guardando questa scena nel presepe siamo chiamati a riflettere sulla responsabilità che ogni cristiano ha di essere evangelizzatore. Ognuno di noi si fa portatore della Bella Notizia presso quanti incontra, testimoniando la gioia di aver incontrato Gesù e il suo amore con concrete azioni di misericordia.
I Magi insegnano che si può partire da molto lontano per raggiungere Cristo. Sono uomini ricchi, stranieri sapienti, assetati d’infinito, che partono per un lungo e pericoloso viaggio che li porta fino a Betlemme (cfr Mt 2,1-12). Davanti al Re Bambino li pervade una gioia grande. Non si lasciano scandalizzare dalla povertà dell’ambiente; non esitano a mettersi in ginocchio e ad adorarlo. Davanti a Lui comprendono che Dio, come regola con sovrana sapienza il corso degli astri, così guida il corso della storia, abbassando i potenti ed esaltando gli umili. E certamente, tornati nel loro Paese, avranno raccontato questo incontro sorprendente con il Messia, inaugurando il viaggio del Vangelo tra le genti.
10. Davanti al presepe, la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo. Questi ricordi ci inducono a prendere sempre nuovamente coscienza del grande dono che ci è stato fatto trasmettendoci la fede; e al tempo stesso ci fanno sentire il dovere e la gioia di partecipare ai figli e ai nipoti la stessa esperienza. Non è importante come si allestisce il presepe, può essere sempre uguale o modificarsi ogni anno; ciò che conta, è che esso parli alla nostra vita. Dovunque e in qualsiasi forma, il presepe racconta l’amore di Dio, il Dio che si è fatto bambino per dirci quanto è vicino ad ogni essere umano, in qualunque condizione si trovi.
Cari fratelli e sorelle, il presepe fa parte del dolce ed esigente processo di trasmissione della fede. A partire dall’infanzia e poi in ogni età della vita, ci educa a contemplare Gesù, a sentire l’amore di Dio per noi, a sentire e credere che Dio è con noi e noi siamo con Lui, tutti figli e fratelli grazie a quel Bambino Figlio di Dio e della Vergine Maria. E a sentire che in questo sta la felicità. Alla scuola di San Francesco, apriamo il cuore a questa grazia semplice, lasciamo che dallo stupore nasca una preghiera umile: il nostro “grazie” a Dio che ha voluto condividere con noi tutto per non lasciarci mai soli.
Dato a Greccio, nel Santuario del Presepe, 1° dicembre 2019, settimo del pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Lettera apostolica. Papa Francesco a Greccio: ecco il vero significato del presepe di Mimmo Muolo, Avvenire, 30.11.2019 (ripresa parziale).
Pedofilia e Vaticano: “segreto” sulle carte di don Mauro Inzoli *
“DELUDE PROFONDAMENTE la scelta del Vaticano di non trasmettere alla Procura di Cremona gli atti inerenti i casi di abusi su minori che hanno visto protagonista don Mauro Inzoli e accertati dalle stesse autorità ecclesiastiche. La decisione della Santa Sede di apporre ai carteggi richiesti dalla giustizia italiana il sub secreto pontificio, una sorta di segreto di Stato, è una contraddizione rispetto al nuovo corso che aveva annunciato lo stesso Papa Francesco”: lo afferma Franco Bordo, il deputato di Sinistra ecologia libertà, autore a Crema di un esposto che ha avviato l’inchiesta giudiziaria nei confronti del sacerdote.
“Auspichiamo - prosegue l’esponente di Sel - che ci sia un ripensamento al riguardo e che si sia trattato di una decisione burocratica e non di una cosciente e precisa scelta politica da parte delle autorità vaticane, che non sarebbe compresa e accettata dai cittadini italiani. I tempi dell’omertà su temi del genere sono finiti e oggi ancor più di ieri il silenzio non è accettabile né comprensibile. Confidiamo ora che comunque le indagini proseguano e siamo fiduciosi che la magistratura italiana riesca ad accertare anche autonomamente i fatti”.
* il Fatto, 04.03.2015
Il Papa ai parlamentari: “Attenti a non abbandonare il popolo”
Bergoglio ha celebrato questa mattina una messa con 298 deputati e 176 senatori. "I peccatori saranno perdonati, i corrotti no"
di Iacopo Scaramuzzi (La Stampa, 27/03/2014)
Città del Vaticano. Una messa semplice, senza fronzoli né protocollo straordinario, con una breve omelia pronunciata a braccio. Papa Francesco ha celebrato messa stamane alle sette per i parlamentari italiani. C’erano quasi cinquecento parlamentari, nove ministri, i presidenti di Camera e Senato (ma non il premier Matteo Renzi).
Una presenza imponente, al punto che la messa, che doveva tenersi inizialmente nelle Grotte vaticane, è stata invece celebrata nella basilica vaticana a causa dell’alto numero di partecipanti. Il Papa argentino, per il resto, ha presenziato la celebrazione eucaristica come ogni mattina nella casa Santa Marta dove risiede. Stesso linguaggio durante la predicazione, stessa asciuttezza di stile, tematiche tipicamente bergogliane (la corruzione, il rischio di allontanarsi dalla misericordia di Dio, il linguaggio evangelico sui “sepolcri imbiancati”), giornalisti e telecamere non previsti. E alla fine, nel percorso verso l’uscita, si è soffermato a salutare solo Laura Boldrini, Pietro Grasso e il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano del Rio, per poi rientrare a casa e preparare l’udienza al presidente Usa Barack Obama.
Al tempo di Gesù - è il tema dell’omelia riportato dalla Radio vaticana - c’era una classe dirigente che si era allontanata dal popolo, lo aveva “abbandonato”, incapace di altro se non di seguire la propria ideologia e di scivolare verso la corruzione. Interessi di partito, lotte interne. Le energie di chi comandava ai tempi di Gesù erano per queste cose al punto che quando il Messia si palesa ai loro occhi non lo riconoscono, anzi lo accusano di essere un guaritore della schiera di Satana.
La prima lettura, tratta dal Libro di Geremia, mostra il profeta dare voce al “lamento di Dio” verso una generazione che, osserva il Papa, non ha accolto i suoi messaggeri e che invece si giustifica per i suoi peccati. “Mi hanno voltato le spalle”, ha citato Papa Francesco, commentando: “Questo è il dolore del Signore, il dolore di Dio”.
E questa realtà, prosegue, è presente anche nel Vangelo del giorno, quella di una cecità nei riguardi di Dio soprattutto da parte dei leader del popolo: “Il cuore di questa gente, di questo gruppetto con il tempo si era indurito tanto, tanto, tanto che era impossibile sentire la voce del Signore. E da peccatori, sono scivolati, sono diventati corrotti. E’ tanto difficile che un corrotto riesca a tornare indietro. Il peccatore, sì, perché il Signore è misericordioso e ci aspetta tutti. Ma il corrotto è fissato nelle sue cose, e questi erano corrotti. E per questo si giustificano, perché Gesù, con la sua semplicità, ma con la sua forza di Dio, dava loro fastidio”.
Persone, ha proseguito Papa Francesco a quanto riportato sempre dalla Radio vaticana, che “hanno sbagliato strada. Hanno fatto resistenza alla salvezza di amore del Signore e così sono scivolati dalla fede, da una teologia di fede a una teologia del dovere”: “Hanno rifiutato l’amore del Signore e questo rifiuto ha fatto di loro che fossero su una strada che non era quella della dialettica della libertà che offriva il Signore, ma quella della logica della necessità, dove non c’è posto per il Signore. Nella dialettica della libertà c’è il Signore buono, che ci ama, ci ama tanto! Invece, nella logica della necessità non c’è posto per Dio: si deve fare, si deve fare, si deve... Sono diventati comportamentali. Uomini di buone maniere, ma di cattive abitudini. Gesù li chiama, a loro, ‘sepolcri imbiancati’”.
La Quaresima, ha concluso Papa Francesco, ricorda che “Dio ci ama tutti” e che dobbiamo “fare lo sforzo di aprirci” a lui: “In questa strada della Quaresima ci farà bene, a tutti noi, pensare a questo invito del Signore all’amore, a questa dialettica della libertà dove c’è l’amore, e domandarci, tutti: ‘Ma, io sono su questa strada? Ho il pericolo di giustificarmi e andare per un’altra strada?’. Una strada congiunturale, perché non porta a nessuna promessa ... E preghiamo il Signore che ci dia la grazia di andare sempre per la strada della salvezza, di aprirci alla salvezza che soltanto viene da Dio, dalla fede, non da quello che proponevano questi ‘dottori del dovere’, che avevano perso la fede a reggevano il popolo con questa teologia pastorale del dovere”.
Alla messa erano presenti 176 senatori, 298 deputati, alcuni europarlamentari ed ex parlamentari, e poi, oltre Boldrini (che ha twittato: "Messa con Papa Francesco, suo messaggio sferzata a classe dirigente che non deve trincerarsi, ma essere capace di ascoltare e dare risposte"), Grasso e Del Rio, i ministri Alfano (Interno), Boschi (Riforme e Rapporti con il Parlamento), Madia (Pubblica amministrazione), Pinotti (Difesa), Lupi (Infrastrutture e Trasporti), Giannini (Istruzione), Lorenzin (Sanità), Orlando (Giustizia).
Interpellati dai giornalisti presenti all’uscita, alcuni parlamentari hanno commentato brevemente l’omelia del Papa. “Il Papa ha fatto una predica sulla necessità di stare vicini al popolo”, ha detto Del Rio. “E’ stata messa semplice ed essenziale, un inno alla preghiera”, secondo Roberto Formigoni (Ncd). “Il Papa ci ha dato un messaggio duro e semplice. Ha redarguito la politica dicendo che siamo tutti peccatori”, per Maria Stella Gelmini (Fi). Su Twitter Renato Farina ha riportato alcune frasi dell’omelia.
Non era presente, sebbene nei giorni scorsi fosse stata ipotizzata sui giornali la presenza del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che peraltro non è un parlamentare, per il quale il Palazzo apostolico e Palazzo Chigi stanno organizzando una udienza ad hoc.
Il manifesto del Papa: no al dio denaro
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 27 novembre 2013)
La road map di Bergoglio è racchiusa in 214 pagine, un manifesto programmatico di sette punti. E’ la rivoluzione gentile della Chiesa, anche se per certi versi più che di rivoluzione gentile si tratta di un vero e proprio terremoto che sta per abbattersi su un certo modo di pensare.
Papa Francesco vuole scardinare quel «tanto si è sempre fatto così», comodo criterio pastorale in bilico tra il clericalismo e l’immobilismo, destinato a finire in soffitta.
Perchè bisogna dare una scossa esistenziale ai cattolici, a cominciare dai vertici ecclesiali. Innanzitutto con l’esempio personale e il papato di certo non può stare alla finestra: «Dal momento che sono chiamato a vivere quanto chiedo agli altri, devo anche pensare a una conversione del papato» scrive Bergoglio nell’esortazione apostolica, Evangelii Gaudium, scritta quest’estate di ritorno dal Brasile.
Il testo riprende il filo delle grandi riforme sul ministero petrino introdotte da Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint. Finora però, ammette il Papa «siamo avanzati poco in questo senso». Ecco perché ci si trova ancora a combattere «contro un centralismo burocratico» che rischia di soffocare le iniziative delle periferie. Tutto il contrario di quello che afferma il Vaticano II.
Bergoglio vuole più collegialità tra i vescovi, dando anche maggiore potere alle conferenze episcopali, persino in campo dottrinale, il che significa che alcuni episcopati particolarmente progressisti potrebbero forse sperimentare strade pastorali innovative per andare incontro, ad esempio, al grande problema dei divorziati risposati, delle coppie di fatto, dell’uso degli anticoncezionali. Chissà.
IL CORAGGIO
«Una eccessiva centralizzazione anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria». Sicché la Chiesa che il nuovo Papa sta disegnando giorno dopo giorno dovrà dimostrare audacia nel ripensare ai metodi di evangelizzazione, ma anche allo stile, applicando in toto la Evangelii Gaudium «senza divieti né paure».
Il Papa avverte: se questo invito «non risplenderà con forza e attrattiva, l’edificio morale della Chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte e questo è il nostro peggior pericolo». E’ la Chiesa delle periferie, dei lontani, aperta a tutti che bussa alla porta di San Pietro, nel cuore del potere arroccato e autoreferenziale. «La Chiesa non è una dogana, ma è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa».
Un invito che non dovrebbe essere oscurato da approcci pastorali incapaci di fare risplendere la misericordia, la tenerezza, la forza propulsiva del Vangelo. L’analisi di Bergoglio sullo stato delle cose per certi versi è impietosa.
Troppe regole, accenti dottrinali «procedono determinate opzioni ideologiche» soffocano la freschezza della Parola. «Vogliamo essere generali di eserciti sconfitti o semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere?» Che fare? Tanto per cominciare invertire la tendenza di tanti preti ad un eccesso di mondanità. Comodità, carriera, denaro sono bandite. E poi modificare il modo di parlare alla gente con un linguaggio efficace e semplice. Infine i poveri devono essere il perno della visione sociale di una Chiesa intesa come la totalità del popolo di Dio che evangelizza.
L’INDIVIDUALISMO
I pericoli all’orizzonte restano l’individualismo e una «nuova idolatria del denaro», che poi sono i mali che hanno portato «alla dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano». Dove i mercati la fanno da padroni, dove la corruzione e l’evasione fiscale dilagano, e la brama del potere «non conosce più limiti».
Ai cristiani chiede di portare avanti una solidarietà disinteressata perché il denaro «deve servire e non governare». Bergoglio risponde anche (indirettamente) a chi lo accusa di pauperismo: «Il Papa ama tutti, ricchi e poveri, ma ha l’obbligo, in nome di Cristo, di ricordare che i ricchi devono aiutare i poveri, rispettarli e promuoverli».
E a chi, invece,lo critica per i suoi accenti populisti ribatte: «l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi». Sulla famiglia e sul matrimonio, invece, ripete che la Chiesa non può che difendere la tradizione, sarebbe un errore «modificarsi secondo la sensibilità di ognuno».
Così come sull’aborto, non ci si potrà certo «attendere che cambi la sua posizione» perché «non è progressista pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana».
Infine una avvertenza: «Se qualcuno si sente offeso delle mie parole, gli dico che le esprimo con la migliore delle intenzioni, lontano da qualunque interesse personale o ideologia politica. Mi interessa fare in modo che chi è individualista possa liberarsi da quelle catene». Ecco la Chiesa di Bergoglio.
Franca Giansoldati
Un pranzo da Papi
Sabato 23 marzo l’inedito incontro a Castel Gandolfo tra un pontefice e il suo successore affidato alla regia di don Georg. “Il protocollo? Nessun precedente”
DI GIACOMO GALEAZZI (La Stampa, 22/03/2013)
CITTA’ DEL VATICANO "Non si sa quale protocollo seguire, non esistono precedenti", spiegano in Curia. Di sicuro un ruolo fondamentale lo avrà nell’evento l’arcivescovo Georg Gaenswein, stretto collaboratore di entrambi gli uomini vestiti di bianco. Quello di domani sarà una sorta di passaggio delle consegne, mai avvenuto in due millenni di storia del cristianesimo. E non è neanche possibile immaginare di quante e quali cose i due potranno parlare, in una vicenda che li lega e li unisce (ma anche li divide) da almeno otto anni, essendo stato Bergoglio il principale rivale di Ratzinger nel Conclave del 2005, che elesse appunto Benedetto XVI. E ora, alle dimissioni di quest’ultimo, è proprio lo sconfitto di allora che ne prende il posto, con tutto quello che significa in termini di svolta nel governo della Chiesa. "Si avverte una radicale sintonia tra Benedetto XVI e Francesco: due figure di altissima spiritualità, il cui rapporto con la vita è completamente ancorato in Dio", sottolinea Civiltà cattolica, il quindicinale dei gesuiti stampato con l’imprimatur della segreteria di Stato vaticana.
"Questa radicalità - si legge in un editoriale dedicato all’elezione di Jorge Mario Bergoglio - si è manifestata in Papa Benedetto con il suo tratto timido e gentile, in Papa Francesco si palesa nell’immediatezza dolce e spontanea che, tra l’altro, si è espressa nelle sue prime parole: ha esordito con un semplice "Buonasera", ha definito i cardinali "fratelli", ha chiesto un "favore" alla gente, che ha definito eloquentemente come "popolo". E questo favore è stato quello di pregare per lui. Come vescovo si è congedato dal suo popolo con un ’Buona notte e buon riposo". "Papa Francesco è il primo Papa gesuita della storia. Ma anche il primo, dell’epoca moderna, che proviene da un continente extra-europeo. Il primo a chiamarsi Francesco. I gesuiti sono stati fondati da sant’Ignazio di Loyola al servizio del Papa circa la missione, per essere inviati ovunque nel mondo dove ci fossero più urgenze. E il servizio del Papa è dovuto al fatto che il Pontefice è colui che ha la visione più universale e conosce le necessità della Ecclesia universa, dovunque esse sorgano. Per un gesuita essere chiamato al Ministero petrino significa essere eletto a incarnare al più alto livello un ministero universale", scrive il più antico quindicinale italiano. "Papa Francesco è un uomo di governo, che ha affrontato momenti anche molto difficili. La sua semplicità, il suo tratto umile e riservato si sposano dunque a una solida capacità di organizzazione e guida".
Non è dato sapere se papa Francesco chiederà consigli al suo predecessore, essendo tra l’altro ora alle prese con le decisioni sul futuro della Curia. Non ci sarà la diretta tv, ma qualche foto e un breve video forse sì, per quello che è un incontro inedito nella storia: due Papi l’uno davanti all’altro. E che uno sia in carica e l’altro solo «emerito», in virtù della sua decisione-shock di rinunciare al pontificato, cambia poco essendo entrambi Vicari di Cristo in terra. Mai, comunque, un Pontefice ha incontrato, ha parlato e (come succederà domani a Castel Gandolfo) è rimasto persino a pranzo con un suo predecessore. Quale migliore fotografia si potrà avere del fatto che neanche il papato va considerato come uno status definitivo, con caratteri di unicità, ma soggetto anch’esso alle libere decisioni degli uomini?
Domani, a dieci giorni dall’elezione, papa Francesco andrà quindi in visita al suo predecessore Benedetto XVI. Alle 12.00 Bergoglio partirà in elicottero dall’eliporto vaticano - paradossalmente la stessa cosa fatta da Benedetto XVI la sera del 28 febbraio, al momento di lasciare il pontificato - e atterrerà dopo circa un quarto d’ora in quello di Castel Gandolfo, a poca distanza dalla residenza pontificia sui Colli Albani dove il «Papa emerito» vive dall’inizio della sede vacante. Lì ci sarà lo storico incontro, seguito da un pranzo. Al termine, il rientro di papa Francesco in Vaticano. Prima di rendere visita a Ratzinger, che pure ha sentito già due volte per telefono appena eletto e il 19 marzo per gli auguri dell’onomastico, Bergoglio ha voluto attendere qualche giorno, e dare inizio ufficiale al suo ministero petrino. Riti che Joseph Ratzinger ha seguito con attenzione, ma soltanto in tv.
OMELIA
Nella Messa di inizio Pontificato
-«Non dobbiamo aver paura della bontà»
Papa Francesco
Cari fratelli e sorelle!
Ringrazio il Signore di poter celebrare questa Santa Messa di inizio del ministero petrino nella solennità di San Giuseppe, sposo della Vergine Maria e patrono della Chiesa universale: è una coincidenza molto ricca di significato, ed è anche l’onomastico del mio venerato Predecessore: gli siamo vicini con la preghiera, piena di affetto e di riconoscenza.
Con affetto saluto i Fratelli Cardinali e Vescovi, i sacerdoti, i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fedeli laici. Ringrazio per la loro presenza i Rappresentanti delle altre Chiese e Comunità ecclesiali, come pure i rappresentanti della comunità ebraica e di altre comunità religiose. Rivolgo il mio cordiale saluto ai Capi di Stato e di Governo, alle Delegazioni ufficiali di tanti Paesi del mondo e al Corpo Diplomatico.
Abbiamo ascoltato nel Vangelo che «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’Angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). In queste parole è già racchiusa la missione che Dio affida a Giuseppe, quella di essere custos, custode. Custode di chi? Di Maria e di Gesù; ma è una custodia che si estende poi alla Chiesa, come ha sottolineato il beato Giovanni Paolo II: «San Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine Santa è figura e modello» (Esort. ap. Redemptoris Custos, 1).
Come esercita Giuseppe questa custodia? Con discrezione, con umiltà, nel silenzio, ma con una presenza costante e una fedeltà totale, anche quando non comprende. Dal matrimonio con Maria fino all’episodio di Gesù dodicenne nel Tempio di Gerusalemme, accompagna con premura e con amore ogni momento. E’ accanto a Maria sua sposa nei momenti sereni e in quelli difficili della vita, nel viaggio a Betlemme per il censimento e nelle ore trepidanti e gioiose del parto; nel momento drammatico della fuga in Egitto e nella ricerca affannosa del figlio al Tempio; e poi nella quotidianità della casa di Nazaret, nel laboratorio dove ha insegnato il mestiere a Gesù.
Come vive Giuseppe la sua vocazione di custode di Maria, di Gesù, della Chiesa? Nella costante attenzione a Dio, aperto ai suoi segni, disponibile al suo progetto, non tanto al proprio; ed è quello che Dio chiede a Davide, come abbiamo ascoltato nella prima Lettura: Dio non desidera una casa costruita dall’uomo, ma desidera la fedeltà alla sua Parola, al suo disegno; ed è Dio stesso che costruisce la casa, ma di pietre vive segnate dal suo Spirito. E Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge.
In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato! La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è semplicemente umana, riguarda tutti. E’ il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente in cui viviamo.
E’ il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. E’ l’aver cura l’uno dell’altro nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i figli diventano custodi dei genitori. E’ il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza, nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo, ed è una responsabilità che ci riguarda tutti. Siate custodi dei doni di Dio!
E quando l’uomo viene meno a questa responsabilità, quando non ci prendiamo cura del creato e dei fratelli, allora trova spazio la distruzione e il cuore inaridisce. In ogni epoca della storia, purtroppo, ci sono degli “Erode” che tramano disegni di morte, distruggono e deturpano il volto dell’uomo e della donna.
Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo!
Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!
E qui aggiungo, allora, un’ulteriore annotazione: il prendersi cura, il custodire chiede bontà, chiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli, san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza, che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, di amore. Non dobbiamo avere timore della bontà, della tenerezza!
Oggi, insieme con la festa di san Giuseppe, celebriamo l’inizio del ministero del nuovo Vescovo di Roma, Successore di Pietro, che comporta anche un potere. Certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Alla triplice domanda di Gesù a Pietro sull’amore, segue il triplice invito: pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle. Non dimentichiamo mai che il vero potere è il servizio e che anche il Papa per esercitare il potere deve entrare sempre più in quel servizio che ha il suo vertice luminoso sulla Croce; deve guardare al servizio umile, concreto, ricco di fede, di san Giuseppe e come lui aprire le braccia per custodire tutto il Popolo di Dio e accogliere con affetto e tenerezza l’intera umanità, specie i più poveri, i più deboli, i più piccoli, quelli che Matteo descrive nel giudizio finale sulla carità: chi ha fame, sete, è straniero, nudo, malato, in carcere (cfr Mt 25,31-46). Solo chi serve con amore sa custodire! Nella seconda Lettura, san Paolo parla di Abramo, il quale «credette, saldo nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18). Saldo nella speranza, contro ogni speranza! Anche oggi davanti a tanti tratti di cielo grigio, abbiamo bisogno di vedere la luce della speranza e di dare noi stessi speranza.
Custodire il creato, ogni uomo ed ogni donna, con uno sguardo di tenerezza e amore, è aprire l’orizzonte della speranza, è aprire uno squarcio di luce in mezzo a tante nubi, è portare il calore della speranza! E per il credente, per noi cristiani, come Abramo, come san Giuseppe, la speranza che portiamo ha l’orizzonte di Dio che ci è stato aperto in Cristo, è fondata sulla roccia che è Dio.
Custodire Gesù con Maria, custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera, custodire noi stessi: ecco un servizio che il Vescovo di Roma è chiamato a compiere, ma a cui tutti siamo chiamati per far risplendere la stella della speranza: Custodiamo con amore ciò che Dio ci ha donato!
Chiedo l’intercessione della Vergine Maria, di san Giuseppe, dei santi Pietro e Paolo, di san Francesco, affinché lo Spirito Santo accompagni il mio ministero, e a voi tutti dico: pregate per me! Amen.
Papa Francesco
Francesco, vescovo-papa, tra luci e ombre
di Enrico Peyretti
in “nuova società” ( http://www.nuovasocieta.it/ ) del 20 marzo 2013
Ad una settimana dall’elezione di papa Francesco, i suoi primi gesti e parole meritano attenzione, al di là degli entusiasmi, insieme alle ombre persistenti negli ambienti più critici sul suo ruolo nelle vicende dell’Argentina sotto la dittatura militare.
Vediamo il positivo. Un papa che, alla sua prima comparsa, prega col popolo, valorizza il popolo come soggetto ecclesiale attivo, chiedendogli di benedirlo prima di benedire lui il popolo (benedire non è azione sacrale riservata, ma è desiderare e invocare il bene su qualcuno), che si dice vescovo di Roma e non pronuncia la parola papa, che veste e vive semplicemente, che ha scarpe molto usate, che bacia la Presidenta Cristina ma anche donne del popolo, che predica misericordia, servizio, tenerezza, un papa così è certamente umano, simpatico, amabile anche da chi non è cattolico, per l’importanza oggettiva del ruolo che ricopre. Sarà conservatore, ma essere buoni, gentili, semplici, è qualità bella per un papa come per chiunque di noi.
A lato dell’entusiasmo popolare e ufficiale, insieme ai soliti retroscena curiosi, sono corse notizie, non nuove per chi conosceva l’Argentina, sul suo comportamento negli anni della dittatura (1976- 1983). Allora era superiore dei gesuiti, poi fu vescovo di Buenos Aires (dal 1998; vescovo ausiliare dal 1992). Ora, c’è chi accusa molto, e chi assolve in fretta. Non mi pare che le accuse arrivino a diretta attiva complicità coi militari, come fecero altri ecclesiastici. Il tempo forse aiuterà a chiarire, e sarà importante. Io penso che lui stesso, papa Francesco, per il carattere che dimostra, dirà una parola.
Parlando in generale, come fa notare anche Hans Küng, teologo assai critico, sotto una dittatura (p. es. il nazismo in Germania) non è facile comportarsi senza errori, debolezze, eccessi di prudenza o di imprudenza, anche con l’intenzione di mediare, di ottenere riduzione del danno, di salvare qualche vita. Chi vuole mediare, sembra ad entrambe le parti vicino a quella opposta.
Bisogna vedere se sostieni i potenti per avere dei vantaggi, se condividi l’idea dei dittatori, se soltanto sopporti in attesa di liberazione. Questo va detto per giustizia, nei confronti di chiunque, anche di un uomo, di un vescovo, che diventa papa.
E io ricordo a me stesso le parole di Dostoevskij «Prendi la colpa su di te e soffri per essa, solo allora potrai giudicare» (nei Fratelli Karamazov). E mi chiedo se noi oggi, pur un poco impegnati per la giustizia e la verità nella società umana, non dobbiamo sentirci troppo passivi e rassegnati, se non complici per troppo conformismo quotidiano, con la dittatura criminale del denaro che oggi impera sui popoli e fa vittime tra i più poveri. Io non mi sento innocente, pur sforzandomi di vedere, far vedere, unire, agire, nel piccolo delle mie capacità, per la giustizia e la nonviolenza.
Questo va detto non per passare una spugna su tutto, nel caso di Bergoglio come di tantissime altre persone in posti di responsabilità maggiori di noi, persone comuni, ma va detto per giustizia.
Nello stesso tempo, però, abbiamo il dovere e il conforto di riconoscere chi ebbe il coraggio di parlare forte contro la violenza, fino a pagare con la vita, come il vescovo Oscar Romero in Salvador (ucciso il 24 marzo 1980) e il vescovo Angelelli proprio in Argentina, più tanti altri resistenti, sia cristiani, sia non cristiani. Gli eroi e martiri della giustizia ci danno coraggio e ci fanno meditare, ma io non posso esigere da nessuno l’eroismo che non ho io.
Infine, da cristiano, devo constatare che tante ma tante e troppe volte la chiesa, nelle sue autorità, ma anche a livelli popolari, si è appoggiata e ha appoggiato potenti e prepotenti, anche violenti, dal costantinismo (ricorre un centenario dell’anno 313), ai “re cattolicissimi”, tutti trono e altare, alle guerre di religione, ai concordati e alleanze coi fascismi, fino all’italico berlusconismo.
La chiesa è fatta di santi e di peccatori, non è altro che una comune umanità imperfetta e debole; è fatta di peccatori credenti, per grazia immeritata, che Dio per amore nostro, nel cammino accidentato di ogni vita, infonde il desiderio, la ricerca, a volte una maggiore luce ed energia di bene, di fraternità, libertà, giustizia, fino al perdono dei nemici e al donare gratuito senza attendersi reciprocità. Ma sempre, in noi, col senso della inadeguatezza, dell’insufficienza, perciò dell’umiltà pari all’impegno.
Ciò vale per ogni cristiano, anche per un vescovo-papa. Non è colpa essere in cammino, peccare di debolezza, mentre è colpa dare fede alla potenza. Non è forse questo il massimo criterio di giudizio sulla chiesa, sul suo significato nella storia del mondo?
«Non è in nostro potere credere in Dio, ma è in nostro potere negare fede agli idoli» (Simone Weil). In questo impegno i cristiani sono pari a chi cerca la giustizia senza avere la fede in Dio, e allora possiamo reciprocamente aiutarci, stimolarci, correggerci, sempre in cammino, nella speranza attiva.
UNA CHIESA POVERA, COLLEGIALE ED EVANGELICA. LE PROPOSTE DELLA RETE DEI VIANDANTI *
37085. ROMA-ADISTA. Centralità del Vangelo più che del magistero, Chiesa povera e dei poveri, sinodalità, corresponsabilità, sacerdozio comune, valorizzazione del ruolo delle donne: sono i punti fondamentali della “agenda” per la Chiesa di domani messi a punto collettivamente dai Viandanti (una rete di gruppi cattolici di cui fanno parte, fra gli altri, il Chicco di Senape di Torino, Fine Settimana di Verbania, Galilei di Padova, l’Altrapagina di Città di Castello, Oggi la Parola, Lettera alla Chiesa fiorentina e i periodici Esodo e Il Gallo) e sviluppati nella “Lettera alla Chiesa che è in Italia”, presentata il 16 marzo scorso, in un incontro pubblico al Centro San Fedele di Milano a cui hanno partecipato, fra gli altri, il presidente dei Viandanti Franco Ferrari, la teologa Marinella Perroni, don Giovanni Nicolini e Giancarla Codrignani (il testo integrale della lettera si trova sul sito dell’associazione: www.viandanti.org).
Prendiamo la parola in quanto «battezzati», scrivono i Viandanti, ringraziando tutti quei cristiani che, nel corso del cammino della Chiesa hanno dimostrato di «non annacquare la buona notizia del Vangelo» e si sono impegnati per «edificare una Chiesa più libera, più misericordiosa, più semplice, più audace, più aperta, più fraterna, più evangelica e conciliare».
E proprio il Concilio è la stella polare che guida la riflessione della rete di base dei cattolici: «Sentiamo di non poter tacere di fronte ad alcune sfide che il nostro tempo pone alla fede cristiana, perché riteniamo che non siano adeguatamente affrontate dall’annuncio e dalla pastorale così come oggi sono tendenzialmente impostate», scrivono, evidenziando la diffusione, all’interno della comunità dei credenti, «di situazioni di disagio di fronte alla difficoltà della gerarchia di rispondere secondo lo spirito del Vangelo ai “segni dei tempi” e di realizzare, con un positivo confronto tra pastori e fedeli, atteggiamenti e pratiche di ascolto, sinodalità e corresponsabilità come frutto e sviluppo del Concilio Vaticano II».
Segni dei tempi e sogno di una Chiesa povera
E sono tre i “segni dei tempi” - espressione conciliare della Gaudium et spes - da discernere e a cui rispondere. Il primo, «dire Dio», ovvero la «necessità del ritorno ai temi essenziali del Vangelo e, insieme, coscienza della complessità culturale e delle sfide reali che ciò comporta». Sarebbe bello, scrivono, che nell’Anno della fede, «l’attenzione si rivolgesse più direttamente, alla Parola del Vangelo piuttosto che al Catechismo della Chiesa Cattolica».
E poi il nuovo «contesto multiculturale nel quale viviamo». «L’accoglienza - si legge nella Lettera dei Viandanti - non può essere stemperata in nome della difesa di presunte identità cristiane; posizioni esplicitamente razziste da parte di movimenti e partiti non devono trovare silenziosi i pastori, né per conservare la contiguità con il potere, né per timore di perdere appoggi».
Infine «l’emergere della presenza globale dei poveri». «Siamo chiamati - scrivono i Viandanti - a pronunciare parole evangeliche per un superamento di una crisi che non è la fine del mondo, ma di un modello di mondo.
È una crisi non solo economico-finanziaria, ma anche culturale ed etica, una crisi di sistema e non solo congiunturale, che necessita per il suo superamento non di semplici aggiustamenti, ma di cambiamenti radicali e alternativi, sia sul piano delle strutture sia su quello degli stili di vita».
Si tratta allora di «recuperare la via non solo pastorale, indicata dal Concilio, di una Chiesa povera e dei poveri che guarda e valuta la realtà a partire dalla prospettiva dei poveri: una Chiesa che vive la povertà e la sobrietà non come optional, ma come scelta indilazionabile e costitutiva. È un potente segno evangelico una Chiesa che dismette, a tutti i livelli, ogni vestigia di potere e opulenza, per una testimonianza amorevole di servizio e di sobria economia».
Confronto, sinodalità, corresponsabilità
L’aggiornamento radicale della struttura ecclesiastica e della ecclesiologia, in linea con le istanze emerse durante il Concilio Vaticano II, è il cuore della “Lettera alla Chiesa che è in Italia”. «Riteniamo necessario nella Chiesa - scrivono - il confronto libero tra le diversità esistenti: la libertà di pensiero deve essere accettata senza emarginazioni, avendo presente che l’obbedienza, in certi casi, non è una virtù. Nella Chiesa locale vorremmo che il ministero della sintesi e della guida da parte del vescovo non prescindesse dall’ascolto delle diverse esperienze. Pensiamo che la libertà di espressione, di ricerca teologica e la presenza di un’opinione pubblica nella Chiesa non solo non comprometterebbero, ma anzi darebbero maggior forza e visibilità alla specifica missione del magistero dei vescovi».
Il nodo, secondo i Viandanti, è la progressiva verticalizzazione della struttura ecclesiastica, da arginare non con “rivoluzioni copernicane” ma con la riscoperta del «sacerdozio comune». «Il problema più grave che stiamo vivendo nella vita ecclesiale - scrivono - è la frattura tra “sacerdozio ministeriale” e “sacerdozio comune” e la ri-gerarchizzazione autoritaria del loro rapporto. Il conseguente rischio, pur non sempre immediatamente percepibile, è l’inefficacia del “sacerdozio comune” che ha, tra i suoi esiti visibili, anche la perdurante flessione delle vocazioni al sacerdozio ministeriale». Si tratta allora di «costruire una Chiesa che coincida effettivamente con il Popolo di Dio, secondo le indicazioni conciliari», a partire per esempio dalla «purificazione del linguaggio» - evitando l’uso del termine «sacerdoti» per indicare i soli presbiteri -, fino a «ripensare profondamente le modalità tradizionali della formazione dei presbiteri, superando la “separatezza” rispetto al Popolo di Dio e alla storia dell’uomo».
La verticalizzazione della struttura ecclesiastica rende «evanescente» la comunità cristiana, che «non ha alcun ruolo, non ha alcuna autonomia decisionale» e inevitabilmente «si riduce ad essere un’esecutrice, più o meno fedele, di ordini e di prescrizioni che piovono dall’alto». In questo contesto non c’è spazio per «una vera corresponsabilità laicale, anzi si favorisce un’immagine della Chiesa in competizione più che in dialogo col mondo, chiusa in se stessa più che aperta ai “segni dei tempi”; col pericolo di un neo-trionfalismo liturgico», reso ancora più evidente «dal ritorno, legittimato ufficialmente, a ritualità preconciliari».
Si tratta allora di «praticare il coraggio della franchezza e la pazienza della sinodalità, in modo che tutti (laici, presbiteri, religiosi, vescovi) si aiutino a vicenda nel riscoprire e rendere operanti le funzioni che competono a ciascuno, soprattutto in vista di mettere comunitariamente a fuoco le modalità del necessario aggiornamento», perché «in una Chiesa sinodale tutte le voci devono, non solo essere ascoltate, ma essere considerate e coinvolte nell’assunzione delle decisioni».
Una diversa prassi pastorale
Anche nella prassi pastorale, scrivono i Viandanti, è urgente una «conversione», nella direzione indicata dal Concilio: «Da una Chiesa centrata su se stessa a una Chiesa centrata sul servizio del Regno dato ai poveri; dalla preminente sacramentalizzazione al primato dell’evangelizzazione; dal clericalismo alla corresponsabilità di tutti i battezzati; dall’improvvisazione individualistica ad una pastorale progettuale, organica e contestualizzata; dall’attivismo alla sapienza della croce come misura della propria efficacia/efficienza».
Si tratta di passare «da una prassi pastorale pensata per istruire, per insegnare verità (da apprendere), per illustrare precetti e norme (da eseguire fedelmente) ad una prassi che pone al proprio centro la formazione di coscienze mature, di persone capaci di assumersi le proprie responsabilità, di camminare insieme agli altri con le proprie gambe e di ragionare con la propria testa, di operare scelte di fondo umanizzanti e liberanti». E in questa diversa prassi pastorale, scrivono i Viandanti - che tuttavia in questo passaggio sembrano far prevalere qualche timidezza, forse per la delicatezza del tema - «potrà trovare la giusta collocazione anche l’attenzione a tutte le realtà di solito percepite come diverse», come per esempio «quella delle persone omosessuali».
In ogni caso «la prospettiva di sinodalità permanente si configura come lo strumento più idoneo per avviarsi verso quella ecclesiologia di comunione, comunque sempre da conquistare e confermare: una sinodalità capace di coinvolgere tutti i membri del Popolo di Dio. La valorizzazione del “ministero laicale” è la condizione principale, per camminare verso una tale Chiesa sinodale». E anche «l’assunzione piena del regime di laicità che le società attuali pongono alla base della propria costituzione. Una laicità che non esclude e non emargina le realtà che rimandano ad esperienze religiose. Una laicità che chiede alla Chiesa di dismettere le forme attuali di presenza nello spazio pubblico che non ne rispettano lo spirito (come l’insegnamento confessionale della religione cattolica nello Stato di tutti).
Le donne nella Chiesa
Presente, ma un po’ debole - perlomeno rispetto ad istanze più radicali che si levano da altri settore del mondo cattolico di base - il tema del ruolo delle donne nella Chiesa. La liberazione evangelica, scrivono i Viandanti, deve fare riconsiderare «una prassi lunga di svalutazione delle donne, di esclusione dallo spazio dei ministeri ordinati, di privazione del diritto a parlare con autorità», una «prassi che si vuole fondata sull’esplicita volontà di Gesù e su una millenaria Tradizione. Senza pretese di sostituirci al Magistero, ci chiediamo solo, nella semplicità ma anche nell’autenticità della nostra autocoscienza credente, se era così la prassi di Gesù verso le donne, quale appare dai Vangeli». Un tema sensibile, spesso percepito, «in tanta parte del clero», con «un certo fastidio» e ritenuto «marginale», mentre «ha una sua evidente centralità e profonde implicazioni per l’esegesi, per la comprensione della dottrina e, soprattutto, per le relazioni stesse dentro il tessuto ecclesiale».
Del resto, si legge nella Lettera alla Chiesa, anche su questo argomento, nel post Concilio sono emerse importanti indicazioni: «L’immagine materna e paterna di Dio», «la novità dirompente del comportamento di Gesù nei confronti delle donne», «la “parzialità” dei generi sessuali per cui uomo e donna insieme sono l’immagine di Dio», «la possibilità di “letture di genere” che gettano nuova luce interpretativa su molte pagine della Bibbia» e «l’esistenza del diaconato femminile in alcune delle prime comunità».
Si tratta allora di avere «uno “sguardo” nuovo che vede l’obsolescenza anti-evangelica di una struttura piramidale clericale, che sembra tendere all’autoconservazione e che non sembra disposta a promuovere un ministero presbiterale più vicino alle comunità, camminando con tutti i battezzati su un piano di uguale dignità, accogliendone realmente il sacerdozio comune, su cui s’innestano i diversi ruoli del servizio alla comunità, adeguati ai tempi e ai carismi delle persone». È necessario allora, scrivono i Viandanti - le cui proposte restano però sottintese, perlomeno su questo aspetto -, «un percorso di riconciliazione che, partendo da un ripensamento critico del passato, dal riconoscimento degli errori commessi nei confronti delle donne, possa arrivare alla consapevolezza di una necessaria conversione e a una richiesta di perdono».
L’agenda per la Chiesa di domani
La sintesi in sette punti, una sorta di agenda per la Chiesa di domani: «Dialogo con il mondo», con la «piena assunzione dei problemi che assillano l’uomo contemporaneo (ingiustizie, violenze, corruzione, emergenze etiche e sociali), nella consapevolezza che la Chiesa manifesta l’amore per l’intera famiglia umana, senza contrapporsi ad essa»; «unità della Chiesa», con la «ripresa decisa del cammino ecumenico, che appare stanco, se non fermo»; «rilancio convinto della riforma liturgica conciliare, senza confusioni nostalgiche e ritualismi»; «centralità ecclesiale dell’eucaristia e riconsiderazione di discipline rigoristiche», come per esempio quelle per «i divorziati risposati e le coppie di fatto»; «Chiesa sinodale», con la «reale attuazione, nello spirito e nelle forme istituzionali, dell’ecclesiologia di comunione del Concilio, mettendo in evidenza la comune dignità e responsabilità di tutti i cristiani fondata sul battesimo»; sacerdozio ministeriale e sacerdozio comune», aprendo una riflessione franca «sul ruolo dei presbiteri, sulla loro formazione e sulla permanenza della loro disciplina celibataria» e sul ruolo della donna, valorizzando «la ministerialità femminile» e considerando la possibilità «di restaurare il diaconato femminile»; «Chiesa povera e dei poveri», ripensando in profondità «ciò che la fedeltà al Vangelo oggi chiede per ciò che attiene l’uso e la gestione dei beni, l’opzione preferenziale dei poveri e della liberazione evangelica, il rapporto con il potere e con la dimensione della laicità dello Stato». (luca kocci)
* Adista Notizie n. 11 del 23/03/2013
TORNA, FRANCESCO!
di Fausto Marinetti *
Fine di un mito? Fine del papa/monarca assoluto? Fine di un occidente cristiano stanco ed afono?
I senatori della Chiesa si sono arresi all’evidenza: l’asse della storia passa a sud del mondo, dove i cattolici sono i due terzi. Semplice contabilità. Per la prima volta (?) un papa non europeo. Fine del monopolio teologico e curiale, che imponeva perfino di celebrare il sinodo africano o asiatico a Roma?
Nascosti dietro le colonne del Bernini ad ammirare la fumata bianca della storia, c’erano tutti i Bartolomè de las Casas, i Montesinos, gli oscar Romero, i Proanho, e, chissà!, magari i Che Guevara, i Camillo Torres? Certamente c’erano gli indios martirizzati dai cristianissimi europei che, in nome di un re cattolico, hanno inviato i soldati con la spada ed i missionari con la croce a convertire i selvaggi "ignoranti ed immorali". C’erano le madri della Piazza de Maio, le vedove e gli orfani delle guerre sante ed umanitarie... Le vittime dell’FMI, di ogni banca mondiale, IOR compreso?
E’ finita la storia dell’occidente cattolico, esclusivista, detentore della verità, dell’unica vera religione, della sola teologia ammessa, insegnata ed imposta anche nelle catacombe dei popoli schiavi?
Dov’è la teologia funzionale al mercato globale, al sistema finanziario? La teologia dei silenzi/assensi dei campi di sterminio, dei gulag, dei campi di rieducazione sociale, delle pulizie etniche, delle guerre umanitarie, delle sacre alleanze e dei concordati con il diavolo? La teologia che ha giustificato crociate, conquiste, guerre coloniali e mondiali, guerre fredde e calde, equilibri del terrore (?), guerre stellari, ecc.? Ma i "selvaggi" non hanno mai inventato di queste tragedie...
Papa Francesco realizzerà il sogno del poverello di Assisi? Si muoverà sulla piazza del giudizio universale (il "giudice" continua a gridare: "Avevo fame di pace, sete di giustizia, ecc."), che è più ampia di quella del Vaticano? Avrà il coraggio di rendere itinerante la cattedra di Pietro per ascoltare, imparare dai popoli periferici, che i popoli/Lazzaro deporranno dai troni economici i popoli/Epuloni? Avrà il coraggio di rinfrescare la gloria del Bernini con nuovi santi universali come Gandhi, Luther King, Nelson Mandela, Eistein?
Avrà la temerarietà di rendere l’onore delle armi ai teologi degli ultimi? E di affermare "urbi et orbi", che il padreterno è "padre/Madre" non solo dei pii cattolici, ma di tutti gli umani? Che il padre di tutti non si vergogna di pregare con muezzim, iman, monaci in zafferano. Che prima di pregare insieme bisogna riconciliarsi con tutti coloro che condanniamo alla fame (40 milioni l’anno!) con le leggi di mercato, le ingiustizie istituzionali, la finanza assassina?
Gli angeli del Bernini danno fiato alle trombe della speranza, gridano all’universo che la "verità dell’Uomo" è più ampia del Codice di Diritto Canonico, che il Cristo non è geloso né di Maomé né di Budda ma il loro alleato!
Papa Francesco, per favore, non deludere le speranze di chi tanto ti ha atteso e invocato...
Fausto Marinetti