ROMA - «Non influisce sulla visione di Gesù Cristo che appartiene alla tradizione della Chiesa». E’ lapidario padre Federico Lombardi, responsabile della Sala Stampa della Santa Sede; il frammento di papiro copto del quarto secolo dopo Cristo con la frase: «Gesù disse loro: “mia moglie”, presentato a Roma nei giorni scorsi dalla studiosa di Harvard Karen L. King, non fornirebbe alcuna prova - come ha dichiarato al nostro giornale la stessa King - che fra i primi cristiani alcuni credevano che Gesù fosse sposato. «E’ una questione specialistica che riguarda gli studiosi di frammenti di papiri copti» ha tagliato corto il portavoce del Vaticano. (la Repubblica, 21.o9.2012)
Omosessualità [negata], pedofilia e altre “perpetue” questioni (con tutte le loro devastanti implicazioni) assillano da secoli la vita istituzionale della Chiesa Cattolica. Ma da sempre si preferisce negare, razionalizzare, “occultare e mascherare - generalmente senza successo - l’umanità di scandali e mezzi scandali fin troppo umani all’interno della cristianità”(1).
Fare i conti e bene con la donna è stato sempre vietato. Riconoscere fondamentalmente che senza il libero e decisivo sì della donna (Maria) non sarebbe nato non solo Cristo ma nemmeno la Chiesa, per l’uomo della stessa Chiesa è paradossalmente “scandalo e follia”.
Alla vigilia del terzo millennio dopo Cristo, si gioca ancora ad opporre “autorità” e “tradizione” allo spirito di libertà del messaggio eu-angelico.
E’ vero che certe “squallide” omelie contro la metà e più del genere umano non fanno più un baffo a nessuno, e non si collocano oggi, per la loro impotenza e rabbia, né sul piano della cultura cristiana né sul piano della cultura umana semplicemente (almeno in linea di principio e in generale), ma è altrettanto vero che le varie e innumerevoli persuasioni “diaboliche” sulla donna dovrebbero essere messe al bando, come le armi atomiche e simili.
Dalla misoginia al ginocidio, come al genocidio, il passo non è lungo: la caccia alle streghe e l’Inquisizione, come Auschwitz e Hiroshima, non sono incidenti di percorso.
“Il deserto cresce” (Nietzsche) - in tutti i sensi, e non si può continuare come si è sempre fatto. Non abbiamo tempo, non più né molto. Tutta una mentalità di secoli deve essere messa sottosopra e l’intera società deve essere riorganizzata. Non ci sono altre strade. Bisogna pensare ancora, di nuovo e in altro modo - Dio, uomo e mondo. E a partire proprio da noi, da noi tutti.
Ad esempio, oggi non è possibile - è un’offesa all’intelligenza (Lorenzo Valla cosa ci ha insegnato?) e il segno di una tracotante perseveranza - continuare a “tradurre il racconto della creazione della donna con: Non è bene che l’uomo sia solo: gli farò un aiuto che gli sia simile. Il testo originale ebraico dice: Gli farò un aiuto che sia l’altro di lui”. La differenza non è affatto innocente.
Come fa notare la teologa Wilma Gozzini che ha denunciato tale “vergognosa” situazione e che più volte ha “chiesto la correzione” di questo e altri passaggi del testo biblico (2), essa veicola tutt’altra visione della donna e del rapporto uomo-donna. “La donna è l’altro dell’uomo, uguale per diritti e doveri, ma anche diversa [...] L’altro che sta faccia a faccia è inquietante e scomodo e apre una sola alternativa. O lo si accoglie come unica possibilità data per vivere umanamente la propria storia, o lo si nega, assimilandolo - facendo simile ciò che altro - neutralizzando così l’alterità, non riconoscendogli autorità ma sottomissione, negandogli uguaglianza”.
Questo è il nodo da sciogliere e la sfida da accogliere. Si tratta, invero, di andare avanti coraggiosamente sulla strada indicata dallo stesso Giovanni Paolo II e trarre tutte le conseguenze dalla sua magisteriale convinzione, che il peccato originale “non può essere compreso adeguatamente senza riferirsi al mistero della creazione dell’essere umano - uomo e donna - a immagine e somiglianza di Dio”, e che nella “non-somiglianza con Dio [...] consiste il peccato (3).
Infatti, se è così, non si può continuare (o lasciare che la situazione resti) come prima. Non è più concepibile che “l’apertura all’altro e il dono di sé, che dovrebbero essere la libera e vitale disposizione dell’essere umano in quanto tale, diventano una norma vincolante per una parte sola dell’umanità: il sesso femminile” (4); o, diversamente, che si neghi alla donna auto-possesso e auto-determinazione come autorità e uguaglianza. Questo è semplicemente satanico, cioè un ostacolo sulla strada dell’amore, della pace e della comprensione.
A tutti i livelli, e ad ogni modo, intestardirsi a “voler intendere la pura ralazione [quella tra l’Io e il Tu, fls] come dipendenza significa voler svuotare della sua realtà uno dei portatori della relazione, e con ciò la relazione stessa”. Non altro.
Note:
1. Cfr. H. Kung, Essere cristiani, Milano, Mondadori, 1976, p. 19.
2. Cfr. W. Gozzini, Dio un po’ più materno? Suvvia..., “L’Unità” del 4.10.1990, p. 1. A riguardo, si cfr. anche M.C. Jacobelli, Il “Risus paschalis” e il fondamento teologico del piacere sessuale, Brescia, Queriniana, 1990, p. 98.
3. Cfr. Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, pf. 9.
4. Cfr. C. Mancina, La Chiesa e la donna peccatrice, “L’Unità” del 10.12.1989, p.1.
5. Cfr. Buber, Il principio dialogico, Milano, Comunità, 1959, p. 74. Su questo tema, inoltre, cfr. I. Magli, Gesù di Nazaret. Tabù e trasgressione, Milano, Rizzoli, 1987, particolarmente il cap. IV e la conclusione.
*
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, "Introduzione", pp. 9-11.
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
"Risus paschalis": la logica dell’amore (= charitas) non è quella di "mammona"(caritas)!!!
Il "libro" nuovo dell’IMPERATORE: «Potete contraddirmi». Finalmente è arrivato ... IL MESSAGGIO DEL FARAONE!!! PAPA, SATIRA, E ... BUONA-NOVELLA (Eu-angelo)!!! "Ma se non ha niente indosso ! - gridò un bambino".
La "lezione" teologico-politica di Hans Christian Andersen ... e di Franz Kafka!!! In memoria di Gioacchino da Fiore, Luigi Pirandello, e Giulio Preti.
Al di là della trinità "edipica" - e "mammonica" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)!!!!
LUCETTA SCARAFFIA E MARY ANN GLENDON: CONTRO IL FEMMINISMO, RILANCIANO LA VECCHIA "DIABOLICA ALLEANZA" CON LA CHIESA CATTOLICO-ROMANA. "NUOVA ALLEANZA"?!: A CONDIZIONE CHE ACCANTO A "MARIA" CI SIA "GIUSEPPE"!!!
FLS
L’analisi.
Il mercato delle donne-donate tra eredità e prezzo sociale
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 27 febbraio 2021)
Il mercato delle doti è tra i fenomeni economici e sociali più rilevanti tra Medioevo e Modernità, che ci fa intuire l’alto prezzo pagato dalle donne, vittime sacrificali immolate sull’altare della società mercantile. La dote era la porzione di eredità paterna che una figlia riceveva al momento del matrimonio. Una volta ottenuta la sua dote, una donna non aveva più diritti sui beni della famiglia di origine. Quindi la dote era il prezzo per escludere le figlie dall’eredità paterna, stabilendo una linea successoria tutta maschile.
Il sistema della dote come estromissione delle donne dall’eredità viene stabilito dagli statuti cittadini italiani già nel Duecento, e il suo peso crebbe insieme alla ricchezza delle nuove famiglie di mercanti. Maritare le figlie divenne per le casate patrizie un problema sempre più serio, al punto che Dante rimpiangeva la Firenze pre-mercantile del suo avo Cacciaguida, quando «non faceva, nascendo, ancor paura la figlia al padre» (Pd XV, 103). Qui Dante racchiude in un solo verso l’essenza del fenomeno della dote nella sua Firenze, dove l’arrivo di una bambina era un futuro costo per i genitori. La discriminazione delle donne è sempre iniziata sul volto di donne, le levatrici, che dovevano dare la triste notizia a un’altra donna che aveva appena generato una femmina - esperienze e dolori che, grazie a Dio, non capiamo più e abbiamo dimenticato. Il celibato per i maschi era come un segno di nobiltà, il nubilato "civile" delle donne era invece socialmente stigmatizzato e scoraggiato.
Dalla fine del Trecento inizia in Italia un’inflazione di quello che era diventato il "prezzo delle figlie" per la nuova aristocrazia: a Venezia dagli 800 ducati di fine Trecento si passò ai 2.000 di inizio Cinquecento, e a Roma nel corso del Cinquecento le doti passarono da 1.400 a 4.500 scudi (Mauro Carboni, Le doti della "povertà", p.30). Un’inflazione dovuta soprattutto alla competizione posizionale tra famiglie ricche, che usavano le figlie come bene di status, in una dinamica oggi nota come "Dilemma del prigioniero", dove l’aumento del prezzo delle doti non avvantaggiava nessuno dei "competitori" - tranne, in alcuni casi, le mogli che videro crescere il loro peso economico all’interno della famiglia del marito.
Con il Rinascimento, poi, tra le famiglie patrizie italiane riprese piede l’istituto romano del fedecommesso, nelle sue varianti del "maggiorasco" e della "primogenitura". Le eredità venivano cioè lasciate interamente a un solo erede maschio, in genere il primogenito, il "maggiore". Ciò consentiva la conservazione dei patrimoni, che se frammentati tra molti eredi rischiavano di disperdersi.
Questa "innovazione" produsse però due grandi effetti collaterali. I figli maschi cadetti (cioè tutti tranne il primo) vennero via via scoraggiati dalle loro famiglie a sposarsi, tanto che nel secolo XVIII a questi figli era di fatto preclusa qualunque possibilità di contrarre matrimonio, e le due carriere che restavano loro erano quella militare e quella ecclesiastica. Il secondo effetto riguardava la sorte delle ricche figlie. La scarsità di maschi di pari grado faceva sì che la domanda di mariti eccedesse di gran lunga l’offerta. Ma se un padre patrizio dava sua figlia in sposa a un non-patrizio avrebbe disperso la sua dote e compromesso il buon nome della casata. Il "bene comune" della famiglia era anche qui troppo più importante del bene dei singoli individui, soprattutto di quello delle donne. Che fare allora?
Innanzitutto, le famiglie dovevano, quasi a ogni costo, dotare le figlie. Ecco allora che nel 1425 il Comune di Firenze creò un fondo per le ragazze "non dotate" (senza dote): il Monte delle doti. A questo fecero seguito molte altre istituzioni simili, tra cui il "Monte dei maritaggi" di Napoli (1578) e il "Monte del matrimonio" di Bologna (1583). Erano, a un tempo, istituzioni di credito e istituzioni di beneficenza, perché oltre a garantire interessi sui depositi gestivano anche lasciti e donazioni, private e pubbliche, a vantaggio di ragazze senza dote o con doti insufficienti.
A Firenze, tra il 1425 e il 1569, circa 30.000 ragazze furono iscritte al Monte delle doti. Il primo fiorentino che usufruì del Monte, Federigo di Benedetto di Como, depositò per sua figlia Diamante 200 fiorini; quando Diamante si sposò nel 1440 il fondo dotale che liquidò era diventato di 1.000 fiorini - e come non pensare alla fatica dei Francescani per far accettare alla Chiesa il pagamento del 5% annuo nei loro Monti di Pietà!? -Le famiglie che troviamo iscritte sui registri del Monte sono soprattutto le famiglie dei ricchi mercanti di Firenze - Acciauoli, Pazzi, Rucellai, Medici, Bardi, Strozzi -, che chiaramente ricorrevano al Monte per far fruttare meglio i propri investimenti. La metà delle ragazze ricche di Firenze aveva un titolo (un "libretto") al Monte, e questo non stupisce. Sorprende invece vedere molte figlie di artigiani modesti (per esempio, i padrenostrai) titolari di un conto. Un genitore con modesta ricchezza e povere origini faceva il possibile e l’impossibile per ottenere un conto dotale per sua figlia, perché sapeva che quel libretto poteva essere l’unica chance per darle un futuro migliore (Anthony Molho e Paola Pescarmona, «Investimenti nel Monte delle doti di Firenze», Quaderni storici, 21).
La nobildonna Alessandra Macinghi negli Strozzi così scriveva riguardo le prossime nozze di sua figlia Caterina: «Gli dò di dota fiorini mille; cioè cinquecento che ella ha da avere nel 1448 dal Monte [delle doti]; e gli altri cinquecento chi ho a dare, tra danari e donora [corredo], quando ne va a marito». E quindi aggiunge: «Però chi to’ donna [tòrre donna: prende moglie] vuol denari, e non trovavo chi volesse aspettare d’avere la dota fino nel 1448, e parte nel 1450: sicché dandogl’io questi cinquecento tra denari e donora, toccheranno a me, se ella viverà, quegli del 1450» (Lettere di una gentildonna fiorentina<, 1877, p.4). La liquidazione anticipata delle dote era infatti un rischio, perché in caso di morte dell’intestataria la somma restituita dal Monte si riduceva di molto.
Il valore economico della dote della sposa era dunque un indicatore del valore sociale della donna. La dote restava, formalmente, proprietà della moglie ma amministrata dal marito, e tornava in possesso della donna in caso di vedovanza. Una donna senza dote, perché la famiglia si era impoverita o caduta in disgrazia, era considerata "pericolante" ed esposta al vizio. Ecco allora la nascita di molte istituzioni di assistenza per donne senza dote, spesso intitolate a Maria Maddalena, per giovanette e/o per il recupero di donne cadute in peccato (per esempio, prostitute). "Conservatori" e "reclusori" che, mentre trattenevano in clausura forzata le donne a rischio, raccoglievano donazioni per garantire loro la dote al momento del fidanzamento - che avveniva per "tocco della mano" della donna di fronte a testimoni - o dell’entrata in convento (Luisa Ciammitti, «Quanto costa essere normali. La dote nel conservatorio femminile di Santa Maria del Baraccano (1630-1680)», Quaderni storici, 18).
Esiste, infatti, uno stretto rapporto tra il mercato delle doti e la vita religiosa. Cosa "fare" delle figlie che non si riusciva a "piazzare" nel mercato dei matrimoni? Rassegnarsi a un marito di rango sociale ed economico inferiore era un’umiliazione e un "costo" troppo alto che le famiglie patrizie non erano disposte ad accettare. Ecco allora che monasteri e conventi offrirono una soluzione.
Per le ricche famiglie la claustrazione di una figlia divenne la via maestra per «eliminare dal mercato matrimoniale le donne in eccesso collocandole in convento, rendendole istituzionalmente sterili» (Susanna Mantioni, Monacazioni forzate e forme di resistenza al patriarcalismo nella Venezia della Controriforma, 2013). Se un capitale troppo prezioso (una figlia aristocratica) non può essere allocato adeguatamente sul mercato deve essere distrutto con la monacazione. Perché è preferibile distruggere che svendere un asset così prezioso, poiché la sua svendita a una famiglia inadeguata avrebbe iniziato una decadenza sociale cumulativa dai costi imprevedibili. L’eliminazione tramite la clausura risultava la soluzione migliore. E poi il sacrificio di alcune figlie patrizie collocate in convento consentiva i convenienti matrimoni delle loro sorelle più fortunate.
Anche perché la dote monastica, o dote spirituale, era molto più economica di quella matrimoniale (fino a venti volte meno). Si spiega così sia la moltiplicazione dei conventi e monasteri femminile dopo il Quattrocento, e perché la quasi totalità delle monache e suore in età moderna provenissero da famiglie nobili o alto-borghesi, e perché più delle metà delle figlie di famiglie patrizie diventavano suore o monache.
Ma c’è di più. Le famiglie più ricche facevano costruire per la figlia celle private, dei veri e propri appartamenti all’interno dei monasteri, che restavano in uso esclusivo della monaca per tutta la sua vita. Queste monache gestivano spesso in proprio la dote, insieme a rendite su capitali di loro proprietà. Il che mette in luce un complesso rapporto tra vita comune, proprietà privata e uso simbolico dello spazio personale dentro i monasteri della prima età moderna (Silvia Evangelisti, «L’uso e la trasmissione delle celle nel monastero di S. Giulia di Brescia», Quaderni Storici, 30).
Bastano questi cenni per capire cosa significò la riforma della vita religiosa femminile di Teresa D’Avila.
Un’ultima considerazione. È molto significativo l’uso del registro semantico del dono per simili operazioni. Diceva riguardo le monache Giovanni Tiepolo, patriarca di Venezia: «Facendo della propria libertà un dono non solo a Dio, ma anco alla Patria, al Mondo, et alli loro più stretti parenti» (inizio del ’600).
Ma quale dono era in gioco, per quelle figlie che non sceglievano quale vita vivere? Innanzitutto era il dono del padre, non il loro dono. Era il dono che la famiglia e la società chiedeva a quelle donne per salvare l’ordine sociale e la casata. Era il dono simile a quello dei potlach delle isole del Pacifico studiati da Marcel Mauss (1925), dove il "dono" non aveva nulla di gratuità, ma era solo il linguaggio del potere politico e commerciale, che arriva fino alla distruzione dell’oggetto donato (potlach dissipativi), pur di affermare la propria superiorità.
Soltanto gli angeli conoscono il dolore di queste donne-donate, prezzi pagati alla società che stava nascendo. Oceani di sofferenza femminile, nei monasteri e dentro le case. Sono state queste lacrime la prima acqua con cui abbiamo impastato l’edificio della città moderna.
La sola, piccola, parziale ma non vana consolazione che ci resta è pensare che alcune, forse molte, di quelle suore e monache saranno state più grandi del loro destino. Come il loro "sposo" si sono ritrovate, senza volerlo, anch’esse inchiodate su una croce, e lì alcune hanno deciso di vivere quel dolore innocente e non scelto come dono, un dono diverso e finalmente libero. E qualche volta sono risorte. Se oggi molte donne possono vivere la loro vita nei conventi e nei monasteri come vero dono e come vera libertà, dietro questi doni e queste libertà ci sono anche quelle antiche resurrezioni.
INTERVISTA
“Maria Maddalena. Equivoci, storie, rappresentazioni” di Adriana Valerio
di Letture.org *
Prof.ssa Adriana Valerio, Lei è autrice del libro Maria Maddalena. Equivoci, storie, rappresentazioni edito da Il Mulino: innanzitutto, cosa sappiamo della Maddalena?
La Maddalena è senza dubbio, insieme a Maria, la madre di Gesù, la figura femminile più conosciuta dei vangeli, e, soprattutto, è la discepola più importante, citata sempre per prima nella lista degli altri nomi femminili presenti negli elenchi forniti dagli evangelisti che la presentano come colei che, insieme «ad alcune donne» lo ha seguito nella predicazione itinerante. Come ricorda l’evangelista Luca, «Maria, chiamata la Magdalena» è stata «liberata da sette demoni», espressione che indica forse una guarigione, da un male profondo o da una grave condizione di sofferenza, che l’ha spinta a mettersi al seguito di Gesù attraverso nuove modalità relazionali che comportavano condivisione e partecipazione alla vita del gruppo dei discepoli. È lei, insieme ad altre donne che seguono il Maestro di Nazaret, ad essere testimone della crocifissione di Gesù, della sua sepoltura e, vicina al sepolcro vuoto, prima destinataria e annunciatrice della resurrezione.
Per questo nel vangelo di Giovanni la Maddalena rappresenta il tipo ideale di discepolo che vede, riconosce, testimonia e annuncia. Nell’incontro di fede con il Risorto, diventa «apostola di Cristo», perché da lui inviata ai discepoli, compreso Pietro, per annunciare l’evento pasquale del quale si fa testimone e garante. Ci troviamo in presenza di un vero e proprio mandato apostolico che le fa guadagnare il titolo di «apostola degli apostoli», presso i Padri della Chiesa. Purtroppo la sua figura subisce un radicale ridimensionamento: Paolo non la menziona tra i testimoni della risurrezione; nelle comunità che si iniziano a strutturare la funzione di apostolo diventa prerogativa maschile, l’esercizio autorevole dell’impegno missionario non viene riconosciuto né alle donne né alla Maddalena, la cui identità prenderà altre caratteristiche più consone ai modelli femminili di subalternità da proporre alle credenti.
Quali informazioni sulla Maddalena forniscono gli scritti gnostici?
Forse proprio a motivo dell’esclusione crescente delle donne dalle funzioni di guida, molte donne trovano accoglienza in quelle comunità che hanno recepito l’importanza della figura della Maddalena come destinataria della rivelazione del Cristo Risorto. Infatti, in un quadro di esperienze divergenti, quanto mai variegate e complesse, a partire dal II secolo si diffonde il movimento gnostico al quale molti gruppi cristiani si collegano desiderosi di percorrere le vie della conoscenza (gnosis) e della sapienza (sophia) e le donne sono le indiscusse protagoniste di queste comunità che hanno conservato una memoria di Maria Maddalena. La sua figura presente negli scritti gnostici - molti dei quali raccolgono tradizioni risalenti all’epoca dei testi canonici del Nuovo Testamento - emerge come simbolo autorevole di conoscenza, nella misura in cui lei, «discepola» e «compagna» di Gesù, ne rivela la Sapienza nascosta. Lei è in grado di vedere la Luce e di accoglierla, al contrario degli uomini che rimangono nelle tenebre ed è la sua capacità di ascolto e di comprensione che la fa essere leader e autorità spirituale.
Come si è evoluta l’immagine e la figura di Maria di Magdala nei secoli?
È stato papa Gregorio Magno a generare un fatale equivoco interpretativo che ha portato la Chiesa d’Occidente a costruire un personaggio travisato e leggendario.
Mentre nella tradizione orientale l’immagine della Maddalena si era consolidata intorno al suo essere testimone della resurrezione, in quella occidentale si segnalavano già dal III secolo alcune confusioni di identità tra lei e altre donne presenti nei vangeli. Lentamente, ma progressivamente, si inizia a ridimensionare il suo ruolo di apostola imponendo l’immagine della peccatrice pentita. Sotto lo stesso nome di Maria Maddalena, infatti, forse per la necessità di armonizzare racconti simili, sono state unificate donne diverse: la Maddalena, liberata dai sette demoni, interpretati questi, però, come segno di vita dissoluta (Mc 16,9; Lc 8,2); l’anonima prostituta che bagna di lacrime i piedi di Gesù cospargendoli di profumo (Lc 7,36-50); Maria di Betania descritta nel vangelo di Giovanni come colei che unge i piedi del Nazareno con costosa essenza di nardo asciugandoli con i suoi capelli (Gv 12,1-8); l’anonima donna che, nella casa di Simone il lebbroso, versa sul capo di Gesù «un profumo molto prezioso» (cfr. Mt 26,6-13; Mc 14,3-9). Gregorio Magno non ha dubbi: fonde queste figure con la Maddalena e, con il peso della sua autorità, avvia quel processo di costruzione d’identità che nei secoli successivi la vedrà non più come l’apostola, ma come la peccatrice per antonomasia.
I testi medievali documentano una rappresentazione variegata e per nulla unitaria della Maddalena recepita nella sua complessità che si articola sostanzialmente nelle tre modalità espresse dalla sintesi patristica: lei è peccatrice, penitente e apostola. La Maddalena penitente diventa modello di ascesi e di fuga dal mondo, ed è una delle sante più popolari per il credente desideroso di ravvedimento e di redenzione.
La sua figura è ripetutamente richiamata anche dalle mistiche italiane che trovano nella presenza fedele della Maddalena il modello più alto da seguire nel percorso di fede, dal momento che lei, a differenza degli uomini impauriti e fuggitivi, rimane discepola salda e appassionata. La conversione che chiama a penitenza, la pietà dolente e fedele ai piedi del crocifisso, l’amore appassionato che non abbandona, ma soprattutto l’annuncio della resurrezione del Signore ne fanno l’emblema della nuova soggettività femminile perché, discepola e apostola, penitente ed evangelizzatrice, rappresenta la straordinaria fusione di vita attiva e di vita contemplativa.
La predicazione, la letteratura, l’iconografia, la musica e, oggi, il cinema continuano a consegnarci in maniera prepotente la storia di una donna segnata dalla passione amorosa che rinuncia a tutto per Gesù rimanendogli vicina tutta la vita, fin sotto la croce.
Argomento ben più provocatorio e complesso è stato posto negli ultimi anni da un filone letterario che presenta la Maddalena, erroneamente e provocatoriamente, come la compagna o la sposa di Gesù, aprendo la scabrosa questione della vita sessuale del Messia e della possibilità di un suo coinvolgimento amoroso con la discepola prediletta.
Quali equivoci e manipolazioni si sono addensati su di essa?
Le immagini di peccatrice e di penitente hanno preso il sopravvento sulla memoria dell’apostola ridimensionandone il ruolo ecclesiale. Per questo è stata ritratta sia in chiave sensuale e trasgressiva, sia nella dimensione della donna pentita che, nell’incontro con Gesù, si è convertita, mortificando il corpo e conducendo una vita ritirata. La Maddalena è stata legata alla falsa immagine della prostituta, di colei che si fa perdonare nella misura in cui trascende la propria sensualità e il proprio erotismo seducente attraverso un percorso di penitenza e di espiazione. Per tanti è ancora oggi colei che ha avuto una vita sessuale sregolata per poi pentirsi: emblema dell’umanità schiava del peccato e pertanto richiamo potente all’altra donna, Eva, causa dell’ingresso del male nel mondo.
Ci può essere un archetipo femminile più equivoco e più forte della peccatrice che, a contatto con il Signore, si ravvede rinnegando il proprio corpo e la propria sensualità tentatrice, divenendo paradigma di mortificazione e riscatto?
In che modo riflettere sul «caso Maddalena» significa ritrovare, nel cuore del cristianesimo, ruoli che alle donne sono ancora negati nella Chiesa cattolica?
Il «caso Maddalena» va inserito nella più ampia analisi della presenza delle donne nella storia del cristianesimo in vista di una ricostruzione di modelli relazionali più consoni a una Chiesa inclusiva che sia in accordo con la prassi liberatrice che Gesù ha messo in atto anche nei confronti delle donne. Per questo occorrerebbe ripensare i tradizionali modelli ecclesiologici secondo il principio di «corresponsabilità battesimale e apostolica» più adeguato alla nostra odierna sensibilità attenta alla dignità e alla rappresentanza femminile. La donna non può essere più esclusa dai maggiori organi di governo della chiesa.
La storia esegetica della Maddalena è dunque un ulteriore tassello da aggiungere nel processo di decostruzione dei modelli organizzativi e patriarcali della Chiesa antica da sottoporre ad analisi critica in ogni suo elemento, in quanto soggetto a modifiche e adattamenti. Per questi motivi, occorre interrogarsi sulla comprensione della Bibbia e sulle sue errate interpretazioni, sul peso della Tradizione nell’elaborazione della visione antropologica, sul tabù sessuale legato alle dinamiche di genere, sull’esclusione delle donne dalla successione apostolica e dai ruoli di potere nella Chiesa, sull’identità della stessa comunità di fede alla luce del messaggio evangelico e delle recenti acquisizioni circa la dignità e l’uguaglianza della persona umana, maschio e femmina. Per questo la Maddalena è diventata la paladina di una riforma della Chiesa che deve mettere al centro il messaggio evangelico e l’affermazione di un «discepolato di eguali» per valorizzare il ruolo di ogni battezzato riconoscendo alle donne la capacità di essere guide autorevoli.
* Adriana Valerio ha insegnato Storia del cristianesimo e delle chiese nell’Università Federico II di Napoli. Tra le sue ultime pubblicazioni: Le ribelli di Dio (Feltrinelli, 2014), Donne e Chiesa (Carocci, 2016), Il potere delle donne nella Chiesa (Laterza, 2017) e Maria di Nazaret (il Mulino, 2017).
* Fonte: Letture.org.
Il Papa istituisce la festa di Maria Maddalena
Santi del giorno (22.07.2018)
Santa Maria Maddalena
La grande ricchezza di Maria Maddalena emerge chiaramente e splendidamente nel racconto della Passione, Morte e Risurrezione di Nostro Signore. La fedele discepola segue Cristo fino alla sommità del Calvario e sta sotto la croce vicino a Giovanni, il discepolo prediletto, e Maria Santissima, partecipandone il dolore.
«Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto» (Gv 20, 13). Le parole miste alle lacrime che Maria Maddalena, la prima a correre al sepolcro nel giorno della Risurrezione, pronunciò davanti ai due angeli in bianche vesti ci ricordano quale conversione visse questa straordinaria santa, l’umile penitente che seppe accogliere la Grazia e divenne fedelissima discepola di Gesù, meritando di essere chiamata «apostola degli apostoli». Maria, detta anche «di Magdala» dal nome del villaggio sul lago di Tiberiade, in Galilea, era la donna dalla quale Nostro Signore aveva cacciato sette demoni (Mc 16, 9), mentre nel testo evangelico non ci sono riferimenti che permettano di associarla all’adultera salvata dalla lapidazione. Di certo sappiamo che una volta convertita iniziò a seguire Gesù, mentre il Figlio di Dio andava annunciando il Regno dei Cieli in compagnia dei Dodici: con lei c’erano anche altre donne «che li assistevano con i loro beni» e che «erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità» (Lc 8, 1-3).
La grande ricchezza della sua figura emerge chiaramente e splendidamente nel racconto della Passione, Morte e Risurrezione di Nostro Signore. La fedele discepola segue Cristo fino alla sommità del Calvario e sta sotto la croce vicino a Giovanni, il discepolo prediletto, e Maria Santissima, partecipandone il dolore. Quando Giuseppe d’Arimatea ha la pietà di occuparsi della sepoltura di Gesù, Maria di Magdala è una delle donne (senza dubbio con «l’altra Maria», la «madre di Joses»; Mt 27, 61 e Mc 15, 47) che vuole osservare il luogo dove viene deposto il Signore. E il primo giorno dopo il sabato troviamo ancora lei - «quand’era ancora buio», ci informa Giovanni - a precipitarsi al sepolcro, rimanendo sconvolta nel vederlo vuoto, fino al commovente incontro con il Risorto, che la solleva dal suo stato di angoscia chiamandola per nome («Maria!», al che lei risponde: «Rabbunì!», cioè Maestro) e le affida nientemeno che il compito di annunciare la Risurrezione: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20, 17).
Un’altra prova, quest’ultima, che gli evangelisti non inventarono né accomodarono nulla perché se avessero seguito le logiche umane si sarebbero ben guardati dall’affidare il primo annuncio della Risurrezione, l’evento più importante e specifico della fede cristiana, alla testimonianza di una donna che nel mondo ebraico e in generale nell’antichità, come ha mostrato estesamente Vittorio Messori nei suoi scritti, valeva poco o nulla. Sono invece ricchi di invenzioni, su cui non vale nemmeno la pena soffermarsi, i racconti posteriori all’età apostolica e diffusi negli ambienti gnostici, che hanno fatto la fortuna dei romanzieri alla Dan Brown.
La devozione provata dai cristiani di ogni tempo verso santa Maria Maddalena, che papa Gregorio Magno chiamò «testimone della Divina Misericordia» dedicandole inoltre una bellissima omelia, ha indotto nel 2016 papa Francesco a innalzare il grado liturgico della sua celebrazione, che è così passato da memoria a festa.
Nel relativo decreto, firmato dal cardinale Robert Sarah, è stata indicata ai fedeli come «paradigma del compito delle donne nella Chiesa» e illuminante esempio per una nuova evangelizzazione. Che ci guidi a cercare e annunciare, come lei, Cristo Risorto.
Caravaggio vede doppio. Al Musée Jacquemart di Parigi, le due Maddalene della discordia ... *
Il vero Caravaggio e la guerra delle Maddalene
Il caso / A sinistra la "Klain", a destra, la "Gregori", fianco a fianco al Jacquemart-André di Parigi, già viste da migliaia di persone. Ora, per la prima volta i raggi x esplorano i dipinti. Ma solo nella seconda si vedono i "pentimenti" dell’artista
di Dario Pappalardo (la Repubblica, 10.01.2019)
PARIGI Nella guerra delle Maddalene, il colpo di scena è questa signora di 95 anni, scesa alla Gare de Lyon dopo sette ore di treno. Mina Gregori, classe 1924, l’erede di Roberto Longhi, decana della storia dell’arte, è a sorpresa a Parigi per rivedere il “suo” Caravaggio. «È l’ultima occasione di osservare le Maddalene fianco a fianco», dice. Scende al binario e prende un taxi per il museo Jacquemart-André. Dove c’è la mostra dei record, “Caravage à Rome”, curata da Francesca Cappelletti con Pierre Curie e Cristina Terzaghi: oltre 210mila visitatori si sono messi in fila da fine settembre sul Boulevard Haussmann (aumenteranno: chiude il 28 gennaio). Gregori, accompagnata dalla nipote, si fa largo verso l’ultima sala con le Maddalene in estasi mai esposte prima insieme: la Klain e la “sua”, da lei ritrovata e attribuita a Caravaggio nell’ottobre 2014 in un’intervista a Repubblica. Da allora non l’aveva più vista. «Guardate le mani che si intrecciano, la composizione dello spazio: è un quadro bellissimo».
E la Klain?
«Anche questo è un dipinto molto interessante, difficile trovare qualcuno che copiasse Caravaggio così bene. C’è ancora da studiare».
L’allieva di Longhi, l’uomo che nel Novecento riscoprì il pittore maledetto, lo consegnò alla storia e al mito pop, parla e negli spazi del museo il tempo si ferma. Parte qualche flash. Mina Gregori visita gli altri capolavori, alcuni scoperti da lei: «Il suonatore di liuto dell’Ermitage è uno dei miei preferiti. E il San Francesco in meditazione l’orgoglio della pinacoteca della mia Cremona».
Gli studiosi del Seicento italiano si contendono uno scatto con Mina: tutti si sono formati sui suoi saggi. Sono a Parigi perché qui si sta consumando un nuovo atto della Caravaggeide. L’Istituto italiano di cultura di Rue de Varenne ha ospitato ieri un convegno nato a margine della mostra al Jacquemart che promette “novità e riflessioni” sull’artista. Caravaggisti di tutto il mondo, o quasi, si succedono in cattedra per oltre sei ore: i posti sono esauriti e, seduti nella ex casa di Talleyrand, non ci sono soltanto specialisti. La contesa tra le Maddalene ruba ancora la scena.
Per la prima volta, vengono presentate le analisi radiografiche sulle due opere. Cecilia Frosinini dell’Opificio delle Pietre Dure illustra quelle sulla Klain, ma con una premessa: «Le analisi non possono fornire l’autografia. Nella storia dell’arte corriamo il rischio di una fase positivista in senso negativo: il dato analitico non è una verità di per sé. L’occhio degli storici dell’arte resta fondamentale». Ma i raggi X una certezza la danno: l’opera Klain non presenta pentimenti. Dagli infrarossi risultano sottilissime linee grafiche, tracce di disegno. Ma l’autore aveva già bene in testa la sua composizione. Come accade, in generale, alle copie. Per la Maddalena Gregori, che contende alla Klain il titolo di “originale”, il discorso cambia. Qui i ripensamenti ci sono. E si sa che Caravaggio non usava disegni preparatori. La spalla destra della santa, ora nuda, era in una prima stesura coperta dalla camicia e il manto rosso era più esteso nel margine sinistro della tela. Claudio Falcucci, ingegnere nucleare, che ha raccolto con Rossella Vodret la diagnosi su 35 quadri certi di Merisi (22 conservati a Roma) è serafico: «La scienza non può dare una risposta certa. Ma nel caso della Maddalena Gregori le modifiche all’idea di partenza sono abbastanza evidenti e non ci sono elementi che contrastano con la prassi di lavoro utilizzata da Caravaggio nei dipinti realizzati dopo la fuga da Roma, nel 1606».
Insomma, anche gli infrarossi dicono che la Maddalena potrebbe essere proprio quella che Caravaggio portava con sé sulla barca, nell’ultimo viaggio conclusosi con la morte a Porto Ercole il 18 luglio 1610. «Due San Giovanni e la Maddalena» erano i soggetti descritti da Diodato Gentile, vescovo di Caserta, in una lettera a Scipione Borghese datata 29 luglio 1610. Il cardinale collezionista riuscì a mettere le mani solo sul San Giovanni, che è ancora oggi nella Galleria romana con altri cinque Caravaggio. «Dai rilievi sul pigmento del San Giovanni risultano infatti sali marini - precisa la direttrice della Borghese Anna Coliva - il dipinto è stato a contatto col mare». Con quale Maddalena: la Klain o la Gregori? «Sono due opere di qualità altissima. Caravaggio non replicava quasi mai le sue opere, ma questo potrebbe essere un caso eccezionale».
Mentre le analisi tecniche mostrano una distanza tra le due Maddalene, gli storici dell’arte, almeno durante il convegno, preferiscono non esporsi in maniera netta. Nel 1998, i proprietari della Klain avevano offerto il quadro - già sottoposto a vincolo - allo Stato italiano per 10 miliardi di lire. Nel 2002 il comitato di settore del ministero dei Beni culturali respinse l’acquisto con una relazione di Rossella Vodret che non riscontrava «elementi per confermare l’autografia caravaggesca». La scoperta di Mina Gregori del 2014 ha dato ragione a quella cautela. La proprietà e la collocazione del nuovo quadro entrato della storia dell’arte restano, però, ufficialmente un mistero.
Oggi gli studiosi francesi presenti all’Istituto italiano di cultura, a partire dall’ex direttore del Louvre Pierre Rosenberg, preferiscono il no comment sull’attribuzione. Gianni Papi, che a Caravaggio ha dedicato decine di studi, è sicuro che la Maddalena sia stata dipinta a Napoli nel 1610. Passa in rassegna con le slide una decina di copie, a partire da quelle del fiammingo Louis Finson che riprendono il soggetto Gregori con la croce e il teschio assenti nella Klain: «Chissà, magari Finson stesso si accaparrò il dipinto e lo replicò più volte in Francia del sud, dove il culto della Maddalena era diffusissimo».
«La Klain è di Finson», ribatte Silvia Danesi Squarzina. Ma la Caravaggeide offre altre trame: «Sono ancora da ritrovare le quattro storie della Passione che Caravaggio dipinse a Messina», ricorda Papi. E di svolte improvvise, tanto per tacere sul mistero della Natività rubata a Palermo nel 1969, rischiano di essercene ancora: «Il ritratto di Fillide, la cortigiana modella di Caravaggio, più che distrutto a Berlino nel 1945, potrebbe essere nei caveau russi», sostiene Danesi Squarzina. E la dubbia Giuditta che taglia la testa di Oloferne, scoperta a Tolosa nel 2016, non è più vincolata dallo Stato francese. Restaurata ed esposta nell’atelier parigino del mercante Eric Turquin, aspetta di fare colpo sul mercato e di far riparlare di sé. Perché la vera maledizione di Caravaggio è questo suo essere sempre in bilico tra la realtà estrema dei suoi quadri e la strepitosa fiction che il tempo gli ha costruito su.
*
Caravaggio vede doppio. Al Musée Jacquemart di Parigi, le due Maddalene della discordia
di Exibart (pubblicato giovedì 15 novembre 2018)
È lei o non è lei? Una mostra al Musée Jacquemart-André di Parigi fa avvampare la discussione tra gli storici dell’arte, incerti su quale Maria Maddalena attribuire a Caravaggio. In esposizione nel museo francese, per "Caravage à Rome, amis et ennemis”, mostra a cura di Francesca Cappelletti, organizzata dall’Institut de France con il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia e del Ministero dei beni e delle attività culturali, le due versioni del soggetto.
La prima, realizzata nel 1606 e in collezione privata europea, è stata autenticata nel 2014 dalla caravaggista Mina Gregori, la seconda, risalente allo stesso periodo, nota come Klein Maddalena e in collezione privata romana, fu ritrovata dopo la Seconda Guerra Mondiale da Roberto Longhi e attribuita al Merisi con il supporto di Maurizio Marini, tra gli studiosi più influenti del grande maestro barocco.
C’è anche una terza via, che vuole entrambe le opere come copie di un originale esemplare alfa, ora disperso. In effetti, l’opera riscosse un grande successo all’epoca della realizzazione e sono ben otto le riproduzioni conosciute, per mano dei seguaci di Caravaggio.
Gli esperti sono divisi e la possibilità di vedere le due opere l’una affianco all’altra rappresenta non solo un evento dal grande richiamo mediatico ma anche un’occasione preziosa di raffronto.
Chi non ha dubbi è Gregori che, nel catalogo della mostra, scrive che l’esame stilistico e l’esecuzione del dipinto confermano la mano del maestro, per la qualità della lavorazione e l’intensità dell’espressione. La studiosa ha basato la sua attribuzione anche su un bollo del Vaticano del XVII secolo, ritrovato sul retro del dipinto, lasciando supporre che questa Maddalena potrebbe essere stata realizzata per il Cardinale Borghese. L’opera doveva essere inviata a Napoli, nel quartiere di Chiaia, dove viveva Costanza Colonna, tra i mecenati più affezionati al Merisi. Colonna potrebbe aver agito da intermediario, commissionando e inoltrando il lavoro al Cardinale.
Ma oltre alle due Maddalene - che per questa diatriba hanno rubato la scena - in esposizione otto opere, tra le quali il Liutaio, in prestito dall’Hermitage di San Pietroburgo, il San Girolamo di Galleria Borghese e la Cena in Emmaus della Pinacoteca di Brera.
E la mostra è completata da una panoramica sull’arte romana del ‘600, con opere prestigiose e altrettanto meravigliose, realizzate da maestri, allievi, amici e rivali di Caravaggio, come il Cavalier d’Arpino, Annibale Carracci, Orazio Gentileschi, Giovanni Baglione e Jusepe de Ribera
Caravaggio a Parigi col mistero della Maddalena in Estasi...
L’impronta di Caravaggio sulla Maddalena
di Marco Nese (Corriere della Sera, La Lettura, 06.01.2019)
Nel museo Jacquemart-André, a Parigi, i visitatori di questi giorni fanno la fila per ammirare una mostra su Caravaggio. Nell’ultima sala sono attratti da un’immagine potente. Una tela alta 106,5 centimetri e larga 91. Rappresenta la Maddalena. Su uno sfondo nero, il corpo di una donna in estasi emerge dal buio e prende forma grazie a una luce abbagliante. Attorno a quest’opera i critici d’arte si sono scervellati a lungo cercando di capire se fu la mano di Caravaggio a dipingerla.
Poco più di un anno fa, per eliminare i dubbi, il quadro venne affidato alle mani sapienti degli studiosi dell’Opificio delle pietre dure di Firenze, rinomati specialisti nel campo del restauro. Essi hanno visto affiorare sotto lo sfondo scuro una forma di vegetazione composta da arbusti e fogliame. Sono stati in grado di identificare la composizione chimica dei colori. I materiali usati riportano all’epoca in cui lavorava Caravaggio. Anche la tecnica pittorica concorre a rafforzare la convinzione che il dipinto sia da attribuire alla mano di Michelangelo Merisi, l’inquieto artista nato a Caravaggio nel 1571.
Le analisi dell’opera sono racchiuse in una relazione che mercoledì 9 gennaio verrà illustrata nel museo di Parigi. Sarà la storica dell’arte Cecilia Frosinini a prendere la parola e offrire le sue valutazioni. «La Lettura» ha potuto consultare in anticipo i risultati dell’indagine diagnostica.
Ma prima di entrare nei dettagli è opportuno inquadrare la fase della vita in cui Caravaggio compone l’opera. Siamo nel 1606, il pittore ha 35 anni e vive a Roma, ha trovato da tempo rifugio e protezione presso il cardinale Francesco Maria del Monte a Palazzo Madama, attuale sede del Senato. L’uomo, però, è scontroso, gira armato di pugnale, sempre incline «a far duelli e baruffe». Il 28 maggio 1606, forse per un diverbio nel gioco della pallacorda o per l’offesa a una donna, si scontra proprio a duello con Ranuccio Tomassoni. E lo colpisce a morte. Una disposizione di papa Sisto V vieta il duello: chi lo pratica è punito con la pena capitale. Da quel momento, Caravaggio rischia la vita nei territori dello Stato pontificio.
Fugge nei feudi laziali della famiglia Colonna che ne assicura la protezione. E lì lavora con febbrile impeto. Dipinge la Cena in Emmaus, che oggi si può ammirare nella Pinacoteca di Brera, a Milano. Secondo gli antichi biografi dipinge anche una Maddalena a mezza figura. Adesso dalle indagini tecniche arriva la conferma che la Maddalena fu composta proprio in quel periodo. Cosa che forse consentirà una collocazione definitiva di questo capolavoro nella storia artistica di Caravaggio.
Cinque anni prima aveva dipinto un’altra tela con soggetto la Cena in Emmaus, oggi custodita alla National Gallery a Londra. La scena riflette il racconto dell’evangelista Luca, secondo il quale a Emmaus, poco lontano da Gerusalemme, due discepoli incontrano Gesù dopo la resurrezione. Le differenze fra le due opere sono abissali. Nella prima, quella della National Gallery, i colori sono vivaci, Gesù ha un viso delicato e sereno. Nella seconda Cena in Emmaus, dipinta mentre il pittore è in fuga, la scena è tenebrosa, Gesù ha un’espressione cupa mentre spezza il pane e su tutto l’ambiente grava un fosco presagio. Qualcuno ritiene che Caravaggio abbia dipinto sé stesso, disperato, nel volto di Gesù. Ma quello che a noi interessa sono i punti in comune che gli specialisti hanno riscontrato fra questa seconda Cena in Emmaus e la Maddalena in estasi, similitudini che accreditano la tesi della composizione delle due opere nei mesi trascorsi dal pittore nei feudi dei Colonna.
Il primo aspetto in comune è lo sfondo. «Quando ho lavorato sulla Cena in Emmaus - spiega il restauratore dell’Opificio, Roberto Bellucci - emerse in modo chiaro che originariamente il quadro aveva uno sfondo paesaggistico. La stanza in cui ha luogo la scena sacra presentava sulla destra un’apertura. Poteva trattarsi di una finestra o una porta spalancata attraverso la quale si vedeva un luogo alberato». Successivamente però Caravaggio aveva coperto l’intero sfondo con un colore scuro. Secondo i critici, il pittore aveva inizialmente scelto quella vegetazione per simboleggiare la rinascita della natura insieme col ritorno alla vita di Gesù. Poi però si era pentito e aveva cancellato ogni segno di letizia per creare una scena di passione e penitenza. Nella composizione della Maddalena, l’artista si comporta allo stesso modo. Prima dipinge, poi cancella. «In un primo momento - racconta Bellucci - con la tecnica fotografica ad alta definizione, grazie a numerosi scatti ricombinati insieme, abbiamo cominciato a cogliere dei dettagli, delle masse, che compaiono sotto lo strato scuro dello sfondo».
Per leggere meglio le immagini coperte servivano strumenti più potenti. Allora ci si è rivolti all’Istituto di Scienze e tecnologie molecolari del Cnr, con sede a Perugia. Lì dispongono di una delle tante cose mirabili del nostro Paese. «Lavoriamo con apparecchiature tecnologiche uniche - spiega Laura Cartechini, ricercatrice chimica -. Le abbiamo sviluppate in collaborazione con la ditta milanese XGlab. Per la Maddalena abbiamo usato uno scanner in fluorescenza ai raggi X che ha analizzato la tela punto per punto ricostruendo la distribuzione del colore nella fase creativa. I raggi X sondano l’intera stratigrafia, è come aprire delle finestre attraverso cui spingere lo sguardo su eventuali immagini sottostanti. Ci chiamano per queste ricerche in tutta Europa. Recentemente il Museo di Munch, a Oslo, ci ha commissionato un’indagine su una delle versioni dell’Urlo».
Sono intervenuti sulla Maddalena anche i tecnici dell’Istituto di Fisica nucleare di Firenze per studiare gli elementi chimici che compongono i pigmenti pittorici. «Avere una conoscenza completa dei pigmenti e della distribuzione dei colori - aggiunge Laura Cartechini - non serve solo a creare una mappa degli strati dipinti, ma è indispensabile per eventuali ritocchi conservativi». Mettendo insieme tutti i dati delle indagini in ultravioletto e radiazione nell’infrarosso, il dipinto sembra diventato trasparente.
Il corpo della Maddalena semidisteso non è, come appare, avvolto da una massa buia, ma poggia su alcune rocce coperte da un pagliericcio. La figura della donna è inquadrata in una caverna sulla cui apertura campeggiano in modo chiaro, in alto a sinistra, le foglie di una vegetazione arricchita da fioriture. I rilievi tecnici non lasciano dubbi sul fatto che lo scenario paesaggistico appartiene al dipinto, che nella versione originale era stato concepito e realizzato proprio con quello sfondo naturalistico. Il pittore aveva usato una pennellata leggera, forse poco convinto del lavoro che stava realizzando. E in un secondo tempo ha deciso di nascondere quelle immagini sotto uno strato scuro. Maurizio Calvesi ha interpretato lo sfondo scuro come tenebra, «simbolo del male e del peccato», mentre la luce che inonda la figura femminile simboleggia la redenzione.
Ma l’aspetto fondamentale delle ricerche è che la stessa tavolozza di colori e stratigrafia di pigmenti accomuna le due opere, la Cena di Brera e la Maddalena, e fa ritenere che a realizzarle sia stata la stessa mano. Emerge una prevalenza del rame che è il principale componente dei pigmenti verdi delle foglie. C’è una notevole presenza delle terre combinate con l’ocra, mentre le lacche formano i rossi e intervengono nella composizione degli incarnati. Nel panneggio della Maddalena compare il cinabro, pigmento a base di mercurio. E gli ossidi di ferro sono serviti a ricoprire con un velo scuro il paesaggio sottostante.
Torniamo a Caravaggio fuggitivo. Lascia le terre dei Colonna e va a Napoli sotto la protezione di Giovanna Colonna, figlia di Marcantonio, vincitore della battaglia di Lepanto. Da Napoli fugge a Malta, infine ritorna a Napoli. Nell’estate del 1610 sale a bordo di una feluca, «con alcune poche robe per venirsene a Roma». Deodato Gentile, vescovo di Caserta, scrive al segretario di Stato cardinale Scipione Borghese che Caravaggio porta con sé tre dipinti, «doi San Joanni e una Madalena». Forse li vuole donare proprio a Scipione Borghese per ottenere la sua protezione.
Scende dall’imbarcazione a Palo, sul litorale laziale, per proseguire verso Roma. Ma il capitano delle guardie pontificie lo arresta. L’imbarcazione se ne torna a Napoli dove riporta le tre tele. Uno dei San Giovanni si ammira oggi nella Galleria Borghese a Roma. L’altro non si sa dove sia finito. La Maddalena invece trova riparo in casa della principessa Carafa-Colonna a Napoli. E diventa uno dei soggetti più copiati.
Louis Finson, pittore fiammingo, nel 1612 è a Napoli dove ammira la Maddalena e ne dipinge una sua versione esposta ora nel Museo di Belle Arti di Marsiglia. Maurizio Marini ha contato almeno sedici versioni o copie della Maddalena. Ci si domanda se lo stesso Caravaggio ne avesse realizzate più copie. In ogni caso, qual è il capolavoro iniziale da cui sono discese le varie versioni? Qual è «l’archetipo»? - si domandava Roberto Longhi. Secondo il critico d’arte Giovanni Carandente, «l’originale caravaggesco» è proprio questo di cui parliamo, perché «risulta palese la superiore qualità dell’opera rispetto alle varianti».
La Maddalena rimase in casa dei Carafa-Colonna fino al 1873, quando la compra Michele Blundo, che la lascia in eredità alla nipote sposata con l’avvocato Giuseppe Klain, il quale nel 1976 la cede agli attuali proprietari, che preferiscono rimanere anonimi. «Questo quadro - osserva Roberto Bellucci, dell’Opificio fiorentino -, ha una storia documentata. A differenza di Leonardo, Caravaggio lavorava da solo, non aveva allievi. Allora, se non l’ha fatto lui chi è il pittore altrettanto bravo da realizzare un capolavoro?».
E Caravaggio? Secondo la versione ufficiale, liberato dalla prigione, fuggì lungo la costa e morì di malaria a Porto Ercole. Una versione che lo studioso Vincenzo Pacelli considera falsa. Sulla base di documenti scovati nell’Archivio segreto del Vaticano, Pacelli sostiene che Caravaggio fu assassinato a Palo Laziale.
Sul tema, in rete, si cfr.:
Transverberazione di santa Teresa d’Avila
VISIONI ED ESTASI. Capolavori dell’arte europea tra Seicento e Settecento, Città del Vaticano 2003-2004, in occasione del IV Centenario della nascita di San Giuseppe da Copertino.
Federico La Sala
Il Vangelo dalla parte della Maddalena
Escono in un libro gli esercizi spirituali che il cardinale Carlo Maria Martini tenne in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Sono dedicati alla figura della santa peccatrice
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.03.2018)
La simpatia del cardinal Martini per Maria Maddalena appare evidente dalla prima all’ultima parola degli esercizi spirituali da lui tenuti in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, come evidente è la sua simpatia per le consacrate dell’Ordo Virginum della diocesi di Milano per le quali aveva preparato gli esercizi e alle quali diceva: «Vi riconosco nella vostra bellezza interiore ed esteriore, perché quando l’anima rimane nella sua costante proposta di servizio a Dio, rimane bella e questa bellezza si diffonde».
Io penso sia proprio così, e penso che Martini sia stato a sua volta un esempio di questa misteriosa connessione tra etica ed estetica avvertita già dagli antichi greci con l’ideale della kalokagathía, perché il morbo di Parkinson contro cui già allora combatteva, e che l’avrebbe portato alla morte il 31 agosto 2012, non giunse mai a privarlo della sua originaria e nobile bellezza.
Cosa siano gli esercizi spirituali lo spiega lo stesso Martini dicendo che non sono un corso di aggiornamento, né una lettura spirituale della Bibbia, né un’occasione di preghiera; sono invece “un ministero dello Spirito Santo”, nel senso che “è lo Spirito Santo che parla al mio cuore per dirmi ciò che vuole da me adesso”.
Gli esercizi spirituali sono quindi un tempo di ascolto e di raccoglimento per capire la propria situazione qui e ora, e come tali prevedono «un silenzio assoluto a tavola e anche negli altri momenti», perché, avverte Martini, «soltanto una parola detta qua e là disturba tutti».
Maria Maddalena è «il segno dell’eccesso cristiano, il segno dell’andare al di là del limite, il segno del superamento»: nell’eccedere della sua vita travagliata ma sempre dominata dall’amore, si dà per Martini la chiave privilegiata per «essere introdotti nel cuore di Dio».
Il cuore di Dio. Mediante la storia della Maddalena, Martini giunge a parlare di Dio, e parlando di Dio giunge a illuminare la logica e il ritmo dell’essere, cogliendo nell’amore il suo segreto più profondo: «Dio è tutto dono, è tutto al di là del dovuto e questo è il segreto della vita».
Individuare “il cuore di Dio” significa quindi per Martini individuare “il segreto della vita”. In questa prospettiva egli illumina magistralmente il paradosso dell’esistenza segnalando la dinamica profonda secondo cui ci si compie superandosi, ci si arricchisce svuotandosi, si raggiunge l’equilibrio perdendolo.
È la pazzia evangelica. La quale però, in quanto verità dell’essere, è universale, e quindi è avvertita anche al di là del cristianesimo, per esempio già da Platone che coglieva la medesima logica di eccedenza scrivendo che «la mania che proviene da un dio è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini» ( Fedro 244 d). Maniaca in senso platonico, la Maddalena è definita da Martini “amante estatica”, cioè letteralmente “fuori di sé” e in questo modo è indicata quale via privilegiata per accedere al cuore di Dio.
Per lui è infatti evidente che «non può comprendere Dio chi cerca solo ragioni logiche», mentre lo può comprendere «chi vive qualche gesto di uscita da sé, di dedizione al di fuori di sé, al di fuori del dovuto», perché Dio, simbolo concreto del mistero dell’essere, “è uscita da sé”, “dono di sé”.
In questa prospettiva la Maddalena, perfetta esemplificazione della logica evangelica, fa capire che “solo l’eccesso salva”. Per “eccesso” Martini intende “uno squilibrio dell’esistenza”. E proprio questo è il punto: che la vita si alimenta di tale squilibrio. Il nostro universo non viene forse da un eccesso, cioè dalla rottura di simmetria all’origine del Big Bang? E la vita non è a sua volta squilibrio, essendo la morte, come disse Erwin Schrödinger nelle lezioni al Trinity College di Dublino, “equilibrio termico”? E cosa sono l’innamoramento e le passioni di cui si nutre la nostra psiche, se non, a loro volta, squilibrio?
Afferma Martini: «Quando definisco me stesso, mi definisco di fronte al mistero di Dio e mi definisco come qualcuno che è destinato a trovarsi nel dono di sé... e tutto questo si dà perché Dio è dono di sé». Prosegue dicendo che molti non capiscono Dio perché non lo collegano a questa dinamica di uscita da sé, visto che «soltanto quando accettiamo di entrare in questa dinamica della perdita, del dare in perdita, possiamo metterci in sintonia con il mistero di Dio».
In questa prospettiva Martini giunge a parlare di Dio secondo una teologia della natura che avrebbe fatto felice il confratello gesuita Pierre Teilhard de Chardin, riferendosi a «quella forza che potremmo dire trascendente, perché è in tutta la natura fisica, morale, spirituale ed è la forza che tiene insieme il mondo... la forza che si può concepire come una lotta continua contro l’entropia e il raffreddamento».
Anche il voto di verginità delle consacrate alle quali rivolgeva i suoi esercizi appare a Martini un segno di quell’eccesso di amore che fa sì che nel mondo non vi sia solo la forza di gravità che tira verso il basso, ma anche «una forza che tira verso l’alto, verso la trasparenza, la complessità e anche verso una comprensione profonda di sé e degli altri fino ad arrivare a quella trasparenza che è la rivelazione di ciò che saremo». Ovvero, conclude Martini, “la vita eterna”.
La categoria dell’eccesso
Maria Maddalena secondo il cardinale Martini *
L’eccesso è per Martini la “categoria” che ci consente non solo di comprendere il mistero di Dio adombrato nella passione, morte e risurrezione di Gesù, ma ciò che esprime il senso profondo dell’essere cristiano, della maturità cristiana.
Ancora una volta è attraverso i personaggi di Giovanni che Martini costruisce questa sua visione, in particolare è Maria di Magdala a guidarci in questo ultimo tratto di cammino. «Maria di Magdala è una figura particolarmente importante nei Vangeli, è il prototipo della persona che accede alla fede nel Risorto. Se gli altri due episodi narrati da Giovanni rappresentano piuttosto una comunità che accoglie il mistero della Risurrezione, l’episodio che ha per protagonista la Maddalena è piuttosto dedicato al singolo credente o meglio al non credente che diventa credente».
Chi è Maria Maddalena? Tutti i vangeli la annoverano tra le donne che si recano al sepolcro. Forse, dice Martini, tale menzione indica «una qualche funzione di leadership», ma non abbiamo elementi sufficienti. Compare inoltre nei racconti della passione e nella vita pubblica di Gesù, dove è messa «sullo stesso piano dei discepoli». La sua figura però si può comprendere anche grazie al confronto con altre figure femminili presenti nel vangelo. Per esempio la peccatrice in casa di Simone, le «Marie di Betania» e, infine, la sposa del Cantico; come lei, la Maddalena «ha cercato Gesù con una passione inesausta, con una perseveranza invincibile e di conseguenza è una figura della ricerca di Gesù e del Signore risorto». Tutte rimandano in qualche modo a un «eccesso d’amore».
Nel testo si legge che il primo giorno dopo il sabato Maria si reca al sepolcro «di buon mattino», quando era ancora buio. Un atteggiamento inusuale e anche un po’ rischioso, che la dipinge fin da subito come una «donna che supera le convenzioni». Esce di casa perché non si dà pace e non si preoccupa di ciò che può capitarle o di ciò che può pensare la gente. Quando arriva al sepolcro ha una prima intuizione degli eventi, ma ancora parziale, distorta. -Sconvolta, va da Simon Pietro e dagli altri discepoli, ma, fa notare Martini, riferisce una sua versione dei fatti. In fondo cosa ha visto? La pietra ribaltata e il sepolcro vuoto; su questi elementi costruisce una storia; il corpo di Gesù è stato rubato. L’inquietudine di non sapere dove lo hanno portato non le dà pace.
* L’Osservayore Romano, 17 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
Federico La Sala
Francesco sulle tombe di don Mazzolari e don Milani
Nello stesso giorno, il 20 giugno, il Papa si recherà in forma privata sulla tomba del priore di Barbiana e del prete cremonese guardato con sospetto dalle gerarchie nel dopoguerra ma che fu riabilitato dall’arcivescovo Montini e da Giovanni XXIII
di Andrea Tornielli (La Stampa, 24/04/2017)
Città del Vaticano. Martedì 20 giugno, nello stessa mattinata, spostandosi in elicottero, Francesco si recherà a pregare in forma riservata e non ufficiale sulle tombe di don Lorenzo Milani a Barbiana e di don Primo Mazzolari a Bozzolo. Ieri, domenica 23 aprile, il Papa ha partecipato con un un videomessaggio alla presentazione del volume dei Meridiani contenente l’opera omnia di don Milani, definendolo un «grande educatore innamorato della Chiesa».
E sempre ieri la diocesi di Cremona ha reso noto che il Pontefice si recherà sulla tomba di don Primo Mazzolari, in forma riservata e non ufficiale a pregare sulla tomba di don Primo nella chiesa parrocchiale di Bozzolo. Oggi, con il bollettino vaticano, è stata confermata anche la visita a Barbiana. In poche ore, due significativi segnali verso altrettante importanti figure profetiche e incomprese della Chiesa italiana del Dopoguerra
Don Primo Mazzolari, prete che si diede alla clandestinità collaborando con la Resistenza, nel Dopoguerra aveva sviluppato un originale pensiero sociale: «Nessuno è fuori della carità», affermava. Venne criticato e sanzionato dall’autorità ecclesiastica. Amico di Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Nicola Pistelli, e dello stesso don Lorenzo Milani, aveva fondato la rivista “Adesso!”.
Nel 1955 aveva pubblicato anonimamente un saggio intitolato “Tu non uccidere” con il quale attaccava a fondo la dottrina della guerra giusta e l’ideologia della vittoria, optando per la non violenza e auspicando un forte «movimento di resistenza cristiana contro la guerra» che si impegnasse per la giustizia, considerata l’altra faccia della pace. Nel 1957 l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini lo aveva chiamato a predicare in diocesi, e negli ultimi mesi di vita, nel febbraio 1959, Giovanni XXIII lo aveva ricevuto in udienza salutandolo pubblicamente come «Tromba dello Spirito Santo in terra mantovana» (Bozzolo, dove il sacerdote era stato confinato è in provincia di Mantova ma in diocesi di Cremona).
Papa Francesco, aprendo la sera del 16 giugno 2016 il convegno della diocesi di Roma, parlando di Giuda e della necessità di andare incontro alle persone qualunque sia la loro condizione, aveva detto: «Don Primo Mazzolari fece un bel discorso su questo, era un prete che aveva capito bene questa complessità della logica del Vangelo: sporcarsi le mani come Gesù, che non era pulito andava dalla gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere».
Francesco, a commento dell’immagine di un capitello della basilica di Vèzelay, in Borgogna, nel quale secondo alcune interpretazioni si vede raffigurato il Buon Pastore che porta sulle spalle il corpo di Giuda, aveva citato una famosa omelia di Mazzolari dedicata all’apostolo traditore. Il parroco di Bozzolo, precursore del Concilio Vaticano II, il Giovedì Santo del 1958, aveva detto: «Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. È uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: “Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!”».
«Amico! Questa parola - continua Mazzolari - che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli sono diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro».
Dopo aver ricordato la fine disperata dell’apostolo traditore, Mazzolari concludeva: «Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia».
Quel Buon Pastore che prende Giuda sulle spalle
Il Papa durante l’apertura del convegno della diocesi di Roma ha citato l’esempio del capitello della basilica di santa Maria Maddalena a Vèzelay, che ritrae l’apostolo traditore portato da Gesù. L’omelia di don Primo Mazzolari
di Andrea Tornielli (La Stampa, 17/06/2016)
Città del Vaticano. Papa Francesco, aprendo la sera del 16 giugno in San Giovanni in Laterano il convegno della diocesi di Roma, in un passaggio del suo intervento ha invitato a non «mettere in campo una pastorale di ghetti e per dei ghetti», ricordando che il realismo evangelico «non significa non essere chiari nella dottrina». «Non si tratta - ha aggiunto - di non proporre l’ideale evangelico, al contrario, ci invita a viverlo all’interno della storia, con tutto ciò che comporta».
A questo proposito Bergoglio ha parlato di un antico capitello medievale che a un estremo rappresenta Giuda e all’altro Gesù che porta il traditore ormai morto sulle spalle: «Don Primo Mazzolari fece un bel discorso su questo, era un prete che aveva capito bene questa complessità della logica del Vangelo: sporcarsi le mani come Gesù, che non era pulito andava dalla gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere».
Francesco ha fatto riferimento a un capitello della basilica di Vèzelay, in Borgogna, dedicata a santa Maria Maddalena, che sorge sulla via che porta a Santiago di Compostela. Una chiesa dalla perfetta architettura romanica ben conservata, meta di pellegrinaggi nel Medio Evo, con migliaia di persone che venivano a invocare misericordia guardando all’esempio della donna che aveva incontrato la profonda compassione di Cristo ed era stata prima testimone della sua resurrezione.
In alto, sul primo capitello a destra per chi entra, c’è una scultura poco conosciuta, anche a motivo dell’altezza a cui è posta, circa venti metri dal suolo.
Una scultura che vista da vicino colpisce e sconcerta. Da un lato si vede Giuda impiccato, con la lingua di fuori, circondato dai diavoli. E fin qui nulla di nuove: esistono tante rappresentazioni della drammatica e violenta fine da suicida dell’apostolo che aveva tradito Gesù vendendolo per trenta denari.
La sorpresa arriva dall’altro lato del capitello. Si vede un uomo che porta sulle spalle il corpo di Giuda. Quest’uomo ha una strana smorfia sul volto: metà bocca appare corrucciata, l’altra metà sorridente. L’uomo veste la tunica corta ed è un pastore. È il Buon Pastore che porta sulle sue spalle la pecora perduta, la centesima pecora per cercare la quale ha lasciato le altre 99. L’artista che ha scolpito la scena e il monaco che l’ha ispirata ha voluto rappresentare qualcosa di estremo ipotizzando che anche Giuda vi sia stata salvezza.
A commento di questa immagine, Papa Francesco ha citato un’omelia che don Primo Mazzolari, il parroco di Bozzolo precursore del Concilio Vaticano II, tenne il Giovedì Santo del 1958, dedicata proprio a «Giuda, il traditore». «Povero Giuda - aveva esordito il sacerdote - Che cosa gli sia passato nell’anima io non lo so. È uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore. Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po’ di pietà per il nostro povero fratello Giuda. -Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: “Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo!”».
«Amico! Questa parola - continua Mazzolari - che vi dice l’infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa’ anche capire perché io l’ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli sono diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l’amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore. Giuda è un amico del Signore anche nel momento in cui, baciandolo, consumava il tradimento del Maestro».
Dopo aver ricordato la fine disperata dell’apostolo traditore, Mazzolari concludeva: «Perdonatemi se questa sera che avrebbe dovuto essere di intimità, io vi ho portato delle considerazioni così dolorose, ma io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l’ultimo momento, ricordando quella parola e l’accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni. Un corteo che certamente pare che non faccia onore al figliolo di Dio, come qualcheduno lo concepisce, ma che è una grandezza della sua misericordia».
«E adesso, che prima di riprendere la Messa, ripeterò il gesto di Cristo nell’ ultima cena, lavando i nostri bambini che rappresentano gli Apostoli del Signore in mezzo a noi, baciando quei piedini innocenti, lasciate che io pensi per un momento al Giuda che ho dentro di me, al Giuda che forse anche voi avete dentro. E lasciate che io domandi a Gesù, a Gesù che è in agonia, a Gesù che ci accetta come siamo, lasciate che io gli domandi, come grazia pasquale, di chiamarmi amico».
Quando Gesù rese libera la Donna
Censurata per secoli dalla Chiesa la parabola dell’adultera rivela tutta la misericordia divina. Perché Cristo difende anche la figura femminile dalla violenza del mondo maschile
di Enzo Bianchi priore della comunità monastica di Bose *
Gesù andò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio, e tutto il popolo veniva da lui; e sedutosi, insegnava loro. Ora, gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala in mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora, Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu dunque che ne dici?».
Dicevano questo per metterlo alla prova, per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi giù, scriveva per terra con il dito. Ma poiché continuavano a interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma essi, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Ora, Gesù, alzatosi, le disse:
«Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ella disse: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più».
Questo brano ha conosciuto una sorte particolarissima, che attesta il suo carattere scandaloso e imbarazzante: è stato infatti “censurato” dalla Chiesa!
È assente nei manoscritti più antichi, è ignorato dai padri latini fino al IV secolo, per cinque secoli non è stato proclamato nella liturgia e non ci sono commenti a esso da parte dei padri greci del primo millennio. Al termine di un lungo e travagliato migrare tra i manoscritti è stato inserito nel vangelo secondo Giovanni, dopo il settimo capitolo e prima del versetto 15 dell’ottavo.
Non è una scena insolita: spesso i vangeli annotano che gli avversari di Gesù tentano di metterlo in contraddizione con la Legge di Dio, per poterlo accusare di bestemmia, di disobbedienza al Dio vivente. A quegli scribi e farisei, in realtà, non importava nulla della donna, per loro era importante trovare motivi di condanna contro Gesù: non volevano lapidare l’adultera, ma far lapidare Gesù! Questi uomini religiosi fanno irruzione nell’uditorio di Gesù, portano davanti a lui una donna sorpresa in flagrante adulterio, la collocano in mezzo a tutti e si affrettano a dichiarare: «Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa».
Tale dichiarazione sembra formalmente ineccepibile, perché cita la Legge; a uno sguardo attento, però, si coglie che il loro ricorso alla Torah è parziale. La Legge, infatti, prevedeva la pena di morte per entrambi gli adulteri e attestava la stessa pena, mediante lapidazione, mentre se erano già sposati allora si ricorreva allo strangolamento. Resta però altamente significativo che solo lei sia stata catturata e portata davanti a Gesù, mentre l’uomo che ha commesso adulterio con lei, e secondo la Legge è colpevole come lei, non risulta né imputato né condotto in giudizio!
Cerchiamo di sostare per un momento su questa scena. Ci sono alcuni che hanno portato a Gesù una donna, perché sia condannata. Ma Gesù inizia a rispondere agli accusatori parlando con il corpo, non con parole: si china, abbassandosi, rompe il cerchio della «violenza mimetica » (René Girard), spezza il faccia a faccia con quei farisei e si mette a scrivere per terra, in assoluto silenzio.
Dalla posizione di chi è seduto passa a quella di chi si china verso terra; di più, in questo modo si inchina di fronte alla donna che è in piedi davanti a lui! Poiché però gli accusatori insistono nell’interrogarlo, dopo quel lungo e per loro fastidioso silenzio riempito solo dal suo mimo profetico, Gesù si alza e non risponde direttamente alla questione postagli, ma fa un’affermazione che contiene in sé anche una domanda: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
Poi si china di nuovo e torna a scrivere per terra. Così una parola di Gesù, una parola sola ma incisiva (al punto da essere divenuta proverbiale) e autentica, una di quelle domande che ci scuotono e ci fanno leggere in profondità noi stessi, impedisce a quegli uomini di fare violenza in nome della Legge. Solo Dio, e quindi solo Gesù, potrebbe condannare quella donna.
Ebbene, qui Gesù - mi si permetta di dire - “evangelizza” Dio, cioè rende Dio Vangelo, buona notizia per quella donna. Gesù, l’unico uomo che ha raccontato in pienezza di Dio, che ne è stato l’esegesi vivente, afferma che di fronte al peccatore, alla peccatrice, Dio ha un solo sentimento: non la condanna, non il castigo, ma il desiderio che si converta e viva. Gesù, inviato da Dio «non per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» anche qui agisce come aveva annunciato all’inizio del suo ministero: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori».
Solo quando tutti se ne sono andati egli si alza in piedi e sta di fronte alla donna. Lei, posta lì in piedi in mezzo a tutti, ora è finalmente restituita alla sua identità di donna e vede Gesù in piedi davanti a sé: così è possibile l’incontro vero.
Infine, Gesù conclude questo incontro con un’affermazione straordinaria: «Neanch’io ti condanno. Va’ e d’ora in poi non peccare più». Sono parole assolutamente gratuite e unilaterali. Ecco la gratuità di quella assoluzione: Gesù non condanna, perché Dio non condanna, ma con questo suo atto di misericordia preveniente offre a quella donna la possibilità di cambiare.
Non sappiamo se questa donna perdonata dopo l’incontro con Gesù abbia cambiato vita; sappiamo solo che, affinché cambiasse vita e tornasse a vivere, Dio, che non vuole la morte del peccatore, l’ha perdonata attraverso Gesù e l’ha inviata verso la libertà: «Va’, va’ verso te stessa e non peccare più»... Le persone religiose vorrebbero che a questo punto Gesù avesse detto alla donna: «Ti sei esaminata? Sai cosa hai fatto? Ne comprendi la gravità? Sei pentita della tua colpa? La detesti? Prometti di non farlo più? Sei disposta a subire la giusta pena?». Queste omissioni nelle parole di Gesù scandalizzano ancora, oggi come ieri!
Nessuna condanna, solo misericordia: qui sta la grandezza e l’unicità di Gesù. Questo incontro tra Gesù e la donna sorpresa in adulterio non ci rivela solo la misericordia di Gesù, ma anche la sua capacità di difendere la donna da un cerchio di uomini, sempre pronti a giustificare se stessi e a condannare le donne. Purtroppo tutta la storia dei credenti, dell’antica come della nuova alleanza, testimonierà questo «occhio spione, esigente e condannante» degli uomini religiosi nei confronti delle donne, ritenute colpevoli per la loro condizione - dicono gli uomini - di creature sempre tentatrici e facili alla tentazione. Questo esempio di Gesù sarà poco compreso e ancor meno vissuto, ma sarà comunque memorizzato nel vangelo e vi saranno sempre lettori che vi troveranno una buona notizia.
* la Repubblica, 08.11.2016
Maddalena
Storia e leggenda dell’apostola degli apostoli
Fu Gregorio Magno a identificarla come una ex prostituta convertita. Ma i Vangeli non la descrivono così
di Vito Mancuso (la Repubblica, 31.08.2016)
Da sempre icona della predicazione ascetica e della storia dell’arte, ai nostri giorni è diventata protagonista anche della fiction cinematografica (Martin Scorsese) e della letteratura d’evasione (Dan Brown). Eppure Maddalena è citata solo dodici volte nei vangeli canonici e mai da san Paolo e dagli altri agiografi neotestamentari: ma quei pochi versetti evangelici sono stati sufficienti per scatenare l’immaginazione di teologi, predicatori, padri spirituali, eretici, pittori, romanzieri, registi, costruendo un mito che acquista sempre più vigore.
A tale potenziamento ha contribuito di recente nel modo più autorevole un decreto della Congregazione per il culto divino del 3 giugno scorso mediante cui la celebrazione di Maria Maddalena, fino ad allora solo “memoria” viene elevata al grado di “festa”, il medesimo riservato ai dodici apostoli.
Il motivo di questa decisione, dietro cui ovviamente c’è l’esplicito volere di papa Francesco, è indicato dallo stesso documento: «La decisione si inscrive nell’attuale contesto ecclesiale, che domanda di riflettere più profondamente sulla dignità della donna, la nuova evangelizzazione e la grandezza del mistero della misericordia divina». Si tratta, in altri termini, di una mossa per rafforzare il ruolo delle donne nella Chiesa. C’è quindi da sperare che tale promozione della Maddalena possa ispirare più importanti cambiamenti nella struttura ecclesiale aprendo la via nell’immediato al diaconato femminile: se infatti una donna è stata apostola, perché altre non possono diventare per lo meno diaconesse?
In realtà, per quanto il titolo di “apostola” sia stato assegnato alla Maddalena già da Tommaso d’Aquino che la definisce “apostola degli apostoli”, è sufficiente un’occhiata alla vastissima iconografia per rendersi conto che mai tale qualifica ha trovato finora un’applicazione reale nella concreta struttura ecclesiastica. I dipinti infatti non la ritraggono mai nell’atto di annunciare agli apostoli rinchiusi per paura l’avvenuta risurrezione di Cristo, ma in altre ben più tradizionali fattezze: piangente ai piedi della croce, al sepolcro con il vasetto di mirra, mentre è tenuta a distanza dal Risorto che le dice “Noli me tangere”, in estasi, in meditazione e soprattutto in veste di penitente con i lunghi capelli disciolti e buona parte del corpo scoperto. Per la tradizione occidentale infatti, e ancora oggi per molte persone, Maria Maddalena è la prostituta che bagna i piedi di Gesù con le sue lacrime e li asciuga con i suoi capelli.
I 12 versetti evangelici che ne parlano non consentono però tale identificazione, risalente a una scorretta interpretazione di papa Gregorio Magno nel VI secolo e divenuta poi pressoché canonica. Come si legge in Luca 8,2-3, si deve piuttosto ritenere che Maria, detta Magdalena in quanto originaria della cittadina galilaica di Magdala, fosse una donna benestante assuntasi il compito insieme ad altre di sostenere Gesù e i discepoli con i suoi beni come riconoscenza per essere stata guarita da una grave malattia a cui il vangelo accenna dicendo che da lei «erano usciti sette demoni ».
Da allora la Maddalena seguì sempre Gesù, fino ai piedi della croce. E di certo Gesù ebbe con lei un rapporto privilegiato, che ai nostri giorni ha scatenato una serie di improbabili fantasie ma che già nel II secolo aveva portato un vangelo apocrifo di tradizione gnostica a scrivere: «La compagna del Figlio è Maria Maddalena. Il Signore amava Maria più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla bocca» (Vangelo di Filippo, 64). Anche a prescindere da tale intimità, la vicinanza di Gesù alla Maddalena è comprovata dal fatto che in tutti i quattro Vangeli canonici lei è sempre nominata per prima tra i pochi testimoni cui apparve il Risorto.
Il quarto vangelo giunge a dedicarle una scena tutta sua, nello struggente dialogo della mattina di Pasqua in cui Gesù risorto per farsi riconoscere la chiama per nome: “Maria!” (Giovanni 20,16); e poi la manda ad annunciare la risurrezione agli apostoli consacrandola per l’appunto “apostola degli apostoli”.
Quelle antiche parole di Gesù attendono ancora di diventare vita concreta all’interno della Chiesa, ma forse qualcosa si sta davvero muovendo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Per volere di papa Francesco il 22 luglio, per la prima volta, si celebra la festa di santa Maria Maddalena, che sino a oggi era memoria obbligatoria. La storia di questa donna nelle parole dei Vangeli e nei commenti di Gianfranco Ravasi, Carlo Maria Martini, Cristiana Dobner e Timothy Verdon
Lo scorso 3 giugno la Congregazione per il Culto Divino ha pubblicato un decreto con il quale, «per espresso desiderio di papa Francesco», la celebrazione di santa Maria Maddalena, che era memoria obbligatoria, viene elevata al grado di festa. Il Papa ha preso questa decisione «per significare la rilevanza di questa donna che mostrò un grande amore a Cristo e fu da Cristo tanto amata», ha spiegato il segretario del Dicastero, l’arcivescovo Arthur Roche. Ma chi era Maria Maddalena, che Tommaso d’Aquino definì «apostola degli apostoli»?
Magdala
Nei Vangeli si legge che era originaria di Magdala, villaggio di pescatori sulla sponda occidentale del lago di Tiberiade, centro commerciale ittico denominato in greco Tarichea (Pesce salato). Qui, negli anni Settanta del Novecento è stata condotta un’estesa campagna di scavi dai francescani dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme: è venuta alla luce una vasta porzione del tessuto urbano comprendente, fra gli altri, una grande piazza a quadriportico, una villa mosaicata e un completo complesso termale. Con successivi scavi i francescani hanno riportato alla luce anche importanti resti di strutture portuali. In un’area adiacente, di proprietà dei Legionari di Cristo, una campagna di scavi avviata nel 2009 ha invece permesso di rinvenire la sinagoga cittadina, una delle più antiche scoperte in Israele: per la sua posizione, sulla strada che collega Nazaret e Cafarnao, si ritiene che probabilmente sia stata frequentata da Gesù.
Gli equivoci sull’identità
Maria Maddalena fa la sua comparsa nel capitolo 8 del Vangelo di Luca: Gesù andava per città e villaggi annunciando la buona notizia del regno di Dio e c’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità e li servivano con i loro beni. Fra loro vi era «Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni». Come ha scritto il cardinale Gianfranco Ravasi, «di per sé, l’espressione [sette demoni] poteva indicare un gravissimo (sette è il numero della pienezza) male fisico o morale che aveva colpito la donna e da cui Gesù l’aveva liberata. Ma la tradizione, perdurante sino a oggi, ha fatto di Maria una prostituta e questo solo perché nella pagina evangelica precedente - il capitolo 7 di Luca - si narra la storia della conversione di un’anonima “peccatrice nota in quella città”, che aveva cosparso di olio profumato i piedi di Gesù, ospite in casa di un notabile fariseo, li aveva bagnati con le sue lacrime e li aveva asciugati coi suoi capelli». Così, senza nessun reale collegamento testuale, Maria di Magdala è stata identificata con quella prostituta senza nome.
Ma c’è un ulteriore equivoco: infatti, prosegue Ravasi, l’unzione con l’olio profumato è un gesto che è stato compiuto anche da Maria, la sorella di Marta e Lazzaro, in una diversa occasione (Gv 12,1-8). E così, Maria di Magdala «da alcune tradizioni popolari verrà identificata proprio con questa Maria di Betania, dopo essere stata confusa con la prostituta di Galilea».
La liberazione dal male
Afflitta da un gravissimo male, di cui si ignora la natura, Maria Maddalena appartiene dunque a quel popolo di uomini, donne e bambini in molti modi feriti che Gesù sottrae alla disperazione restituendoli alla vita e ai loro affetti più cari. Gesù, nel nome di Dio, compie solo gesti di liberazione dal male e di riscatto della speranza perduta. Il desiderio umano di una vita buona e felice è giusto e appartiene all’intenzione di Dio, che è Dio della cura, mai complice del male, anche se l’uomo (fuori e dentro la religione) ha sempre la tentazione di immaginarlo come un prevaricatore dalle intenzioni indecifrabili.
Sotto la croce
Maria Maddalena compare ancora nei Vangeli nel momento più terribile e drammatico della vita di Gesù. Nel suo attaccamento fedele e tenace al Maestro Lo accompagna sino al Calvario e rimane, insieme ad altre donne, ad osservarlo da lontano. È poi presente quando Giuseppe d’Arimatea depone il corpo di Gesù nel sepolcro, che viene chiuso con una pietra. Dopo il sabato, al mattino del primo giorno della settimana - si legge al capitolo 20 del Vangelo di Giovanni - torna al sepolcro: scopre che la pietra è stata tolta e corre ad avvisare Pietro e Giovanni, i quali, a loro volta, correranno al sepolcro scoprendo l’assenza del corpo del Signore.
L’incontro con il Risorto
Mentre i due discepoli fanno ritorno a casa, lei rimane, in lacrime. E ha inizio un percorso che dall’incredulità si apre progressivamente alla fede. Chinandosi verso il sepolcro scorge due angeli e dice loro di non sapere dove sia stato posto il corpo del Signore. Poi, volgendosi indietro, vede Gesù ma non lo riconosce, pensa sia il custode del giardino e quando Lui le chiede il motivo di quelle lacrime e chi stia cercando, lei risponde: «“Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesù le disse: “Maria!”» (Gv 20,15-16).
Il cardinale Carlo Maria Martini al riguardo commentava: «Avremmo potuto immaginare altri modi di presentarsi. Gesù sceglie il modo più personale e il più immediato: l’appellazione per nome. Di per sé non dice niente perché “Maria” può pronunciarlo chiunque e non spiega la risurrezione e nemmeno il fatto che è il Signore a chiamarla. Tutti però comprendiamo che quell’appellazione, in quel momento, in quella situazione, con quella voce, con quel tono, è il modo più personale di rivelazione e che non riguarda solo Gesù, ma Gesù nel suo rapporto con lei. Egli si rivela come il suo Signore, colui che lei cerca».
Il dialogo al sepolcro prosegue: Maria Maddalena, «si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbunì!”, che significa: “Maestro!”. Gesù le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”. Maria di Magdala andò ad annunziare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e anche ciò che le aveva detto» (Gv 20, 16-18).
La maternità della Maddalena
«La Maddalena è la prima fra le donne al seguito di Gesù a proclamarlo come Colui che ha vinto la morte, la prima apostola ad annunciare il gioioso messaggio centrale della Pasqua», osserva la teologa Cristiana Dobner, carmelitana scalza. «Ella esprime la maternità nella fede e della fede ossia quella attitudine a generare vita vera, una vita da figli di Dio, nella quale il travaglio esistenziale comune ad ogni uomo trova il suo destino nella risurrezione e nell’eternità promesse e inaugurate dal Figlio, «primogenito» di molti fratelli (Rom 8,29). Con Maria Maddalena si apre quella lunga schiera, ancor oggi poco conosciuta, di madri che, lungo i secoli, si sono consegnate alla generazione di figli di Dio e si possono affiancare ai padri della Chiesa: insieme alla Patristica esiste anche, nascosta ma presente, una Matristica.
La decisione di Francesco è un dono bello, espressione di una rivoluzione antropologica che tocca la donna e investe l’intera realtà ecclesiale. L’istituzione di questa festa, infatti, non va letta come una rivincita muliebre: si cadrebbe stolidamente nella mentalità delle quote rosa. Il significato è ben altro: comprendere che uomo e donna insieme e solo insieme, in una dualità incarnata, possono diventare annunciatori luminosi del Risorto».
Nella storia dell’arte: la mirofora
Maria Maddalena, nel corso dei secoli, è stata raffigurata principalmente in quattro modi: «Anzitutto - afferma monsignor Timothy Verdon, docente di storia dell’arte alla Stanford University e direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze - è spesso ritratta come una delle mirofore, le pie donne che la mattina di Pasqua si recarono al sepolcro portando gli unguenti per il corpo del Signore. Fra loro la Maddalena è riconoscibile per il fatto che, a partire dalla fine del Medioevo, viene raffigurata con lunghi capelli sciolti, spesso biondi: questo fa capire che gli artisti, secondo una tradizione affermatasi in Occidente (e non condivisa nell’Oriente cristiano), la identificavano con la donna peccatrice che aveva asciugato i piedi di Gesù con i propri capelli. I capelli lunghi sono quindi un’allusione a questo intimo contatto e alla condizione di prostituta: le donne per bene non andavano in giro con i capelli sciolti».
La penitente
Nell’arte del tardo Medioevo Maria Maddalena compare anche come penitente perché - spiega Verdon - secondo una leggenda ella era una grande peccatrice che, dopo la conversione e l’incontro con il Risorto, era andata a vivere come romitessa nel sud della Francia, vicino a Marsiglia, dove annunciava il vangelo: «Il culto della Maddalena penitente ha affascinato molti artisti, che l’hanno considerata il corrispettivo femminile di Giovanni Battista. In genere viene raffigurata con abiti simili a quelli del Battista oppure è coperta solo dai capelli. La bellezza esteriore l’ha abbandonata, il volto è segnato dai digiuni e dalle veglie notturne in preghiera, ma è illuminata dalla bellezza interiore perché ha trovato pace e gioia nel Signore. La statua della Maddalena penitente di Donatello, scolpita per il Battistero di Firenze, è un autentico capolavoro».
L’addolorata
Sovente la Maddalena è ritratta anche ai piedi della croce: una delle opere più significative, a giudizio di Verdon, è un piccolo pannello di Masaccio (esposto a Napoli) nel quale la Maddalena è ritratta di spalle, sotto la croce, le braccia protese a Cristo, i lunghi capelli biondi che cadono quasi a ventaglio su un enorme mantello rosso: «Un’immagine di forte drammaticità. Non di rado il dolore composto della Vergine è stato contrapposto a quello della Maddalena, quasi senza controllo. Si pensi ad esempio, alla Pietà di Tiziano, nella quale la donna avanza come volesse chiamare il mondo intero a riconoscere l’ingiustizia della morte di Gesù, che giace fra le braccia di Maria; oppure si pensi al celebre gruppo scultoreo di Niccolò dell’Arca, nel quale fra le molte figure la più teatrale è proprio quella della Maddalena che si precipita con la forza di un uragano verso il Cristo morto».
Chiamata per nome
Vi sono inoltre molte raffigurazioni dell’incontro con il Risorto: «Esemplari e magnifiche sono quelle di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni, e del Beato Angelico nel convento di san Marco», conclude Verdon. «Maria Maddalena ha vissuto un’esperienza di salvezza profonda per opera di Gesù: quando si sente chiamata per nome in lei si accende il ricordo dell’intera storia vissuta con Lui: c’è tutto questo nell’iconografia della scena che chiamiamo “Noli me tangere”».
*
fonte: Vatican Insider, articolo di Cristina Uguccioni del 20/07/2016 (senza foto)
L’urgenza di una riforma
di Vito Mancuso (la Repubblica, 13.05.2016)
FORSE ci troviamo al cospetto della prima significativa mossa di quella che potrebbe essere una rivoluzione davvero epocale. Credo la più importante tra tutte le meritorie iniziative di riforma intraprese finora dal pontificato di Francesco. Se c’è una via privilegiata infatti per il rinnovamento di cui la Chiesa cattolica ha oggi un immenso bisogno, essa è la via femminile.
PIÙ della riforma della curia, più dell’ecumenismo, più della riforma della morale sessuale, più della libertà di insegnamento nelle facoltà teologiche, più di molte altre cose, l’ingresso delle donne nella struttura gerarchica della Chiesa cattolica avrebbe l’effetto di trasformare in modo irreversibile tale veneranda e anche un po’ acciaccata istituzione.
Prendendo atto dell’emancipazione femminile ormai giunta a compimento in Occidente in tutti gli ambiti vitali, Giovanni Paolo II aveva prodotto una serie di documenti altamente elogiativi verso ciò che egli definiva “genio femminile”, si pensi alla lettera apostolica Mulieris dignitatem del 1988 e alla specifica Lettera alle donne del 1995. Né in questi testi né altrove però il papa polacco definì mai cosa intendesse realmente con tale espressione, usata in seguito più di una volta anche da Benedetto XVI nei suoi interventi in materia. Anche papa Francesco nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium del 2013 ha parlato di “genio femminile”. Ieri però, con l’apertura al diaconato femminile, parlando davanti a oltre ottocento suore superiore, questa ermetica espressione papale ha ricevuto finalmente la possibilità di passare da edificante proclamazione retorica a concreto sentiero istituzionale.
Forse a breve non si parlerà più di genio femminile, ma di geni femminili, perché le singole donne avranno finalmente la possibilità di tornare a donare a pieno titolo il loro patrimonio genetico all’intero organismo di madre Chiesa, la quale ora nella sua mente è femminile unicamente quanto alla grammatica, mentre quanto al diritto canonico è esclusivamente maschile (e da qui le deriva l’attuale sterilità, perché anche la vita spirituale, oltre a quella biologica, ha bisogno di cromosomi y e di cromosomi x).
Ho usato l’espressione “tornare a donare” perché l’apertura al diaconato femminile da parte di Francesco non è una novità assoluta, già nel Nuovo Testamento si parla di diaconesse. Anzi, tale apertura papale può comportare la rivoluzione epocale di cui parlavo proprio perché rimanda a una doppia fedeltà: a una fedeltà al presente, al fine di rendere la Chiesa cattolica all’altezza di tempi in cui l’emancipazione femminile è almeno in Occidente un processo pressoché compiuto, e a una fedeltà al passato, al fine di recuperare la straordinaria innovazione neotestamentaria quanto al ruolo delle donne.
Se si leggono i Vangeli infatti si vede come Gesù, in modo del tutto discontinuo rispetto alla prassi rabbinica del tempo, ricercasse e incoraggiasse la presenza femminile. Luca per esempio scrive che nel suo ministero itinerante «c’erano con lui i Dodici e alcune donne», dando anche i nomi delle stesse: Maria Maddalena, Giovanna, Susanna e aggiunge «molte altre», espressione da cui è lecito inferire un numero di seguaci donne più o meno pari a quello dei seguaci uomini.
Non deve sorprendere quindi che la Chiesa primitiva conoscesse le diaconesse, come appare da san Paolo che scrive: «Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencre» (Romani 16,1; il testo ufficiale della Cei purtroppo è infedele all’originale perché traduce il greco diákonon con “al servizio”! Ben diversa la Bible de Jérusalem che traduce correttamente “ diaconesse de l’Église”).
Che esito avrà l’istituenda commissione di studio sul diaconato femminile? Quanto tempo passerà prima che sia effettivamente al lavoro? Quanto prima che consegni i risultati? E questi che sapore avranno? Sono domande a cui al momento non è possibile rispondere, di certo però la riforma al femminile di papa Francesco è un’urgenza da cui la Chiesa non si può più esimere. Si tratta semplicemente di giustizia: quando si entra in una qualunque chiesa per la messa le donne sono sempre in netta maggioranza, com’è possibile che nessuna di esse possa commentare il Vangelo dall’altare? Il diaconato femminile metterebbe fine a questa ingiustizia e aprirà molte nuove strade.
È un sogno destinato ad avverarsi? Nessuno lo sa, certamente però il successo della riforma al femminile di papa Francesco dipenderà dalla capacità di saper mostrare la doppia fedeltà che vi è in gioco: fedeltà alle donne di oggi e fedeltà al Maestro di duemila anni fa, fedeltà all’attualità e fedeltà a quell’eterno principio di parità emerso al momento della creazione: «E Dio creò l’essere umano a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27).
"Gesù sposò Maria Maddalena ed ebbe due figli".
Il mito complottista nel libro "Lost Gospel", basato su un antico manoscritto
di Ilaria Betti (L’Huffington Post, 10/11/2014)
È possibile che Gesù abbia sposato Maria Maddalena e con lei abbia fatto dei figli? Secondo gli autori del nuovo libro, "The Lost Gospel" ("Il vangelo perduto"), non è solo plausibile, ma è anche assai credibile. Il professore canadese di studi religiosi Barrie Wilson e lo scrittore israelo-canadese Simcha Jacobovici hanno tradotto dall’aramaico un antico manoscritto, la ’Storia ecclesiastica di Zaccaria il Retore’, risalente a circa 1500 anni fa. Tra le pagine di questo testo, conservato alla British Library, secondo gli studiosi, ci sarebbe la prova definitiva che Gesù fu effettivamente sposato e che la Vergine Maria originale altro non è che Maria Maddalena, compagna e non madre di Gesù.
Il libro, non ancora pubblicato, avrebbe giù scatenato delle polemiche. Secondo il Sunday Times, la Chiesa d’Inghilterra e molti famosi ricercatori di studi religiosi avrebbero criticato l’ennesima "scoperta" acchiappa-lettori, simile a quelle che riempiono libri come il "Codice da Vinci" di Dan Brown. I ricercatori, però, sono convinti di avere tra le mani una vera e propria rivelazione e hanno ottenuto l’autorizzazione a presentare ai giornalisti, nelle sale della British Library, il loro volume, del quale riveleranno i dettagli. Durante l’evento, renderanno noti anche i nomi dei figli di Gesù, così come riportati dal testo.
Il manoscritto risale al 570 d.C ed è rimasto archiviato nella British Library per oltre vent’anni, dopo che era stato acquistato dal British Museum nel 1847 da un uomo che diceva di averlo ottenuto dal Monastero di San Macario in Egitto. Negli ultimi 160 anni, il documento è stato studiato, ma giudicato "irrilevante". Fino a quando non è passato tra le mani dei ricercatori Wilson e Jacobovici, che lo hanno tradotto e "spulciato" per ben sei anni prima di convincersi che contenesse qualche verità.
E Gesù sposò Maddalena Non è Dan Brown ma un codice del 570 d.C. Scritto in siriaco su pergamena sarà presentato domani alla British Library
di Vittorio Sabadin (La Stampa, 11.11.2014)
Un altro tassello fortifica la ancora traballante tesi che Maria Maddalena fosse la moglie di Gesù e la madre dei suoi figli. Un libro scritto nel 570 in siriaco su pergamena, e ora custodito alla British Library, racconta una storia diversa da quella dei quattro Vangeli canonici, molto più vicina - come si è affrettata a ironizzare la Chiesa d’Inghilterra - al Codice da Vinci di Dan Brown. Ma il numero di antichi documenti che conferma questa tesi continua a crescere, e decine di seri studiosi vi si stanno dedicando senza pregiudizi. Domani la stessa British Library terrà una conferenza stampa, e si conosceranno altri dettagli.
Il libro proviene da un monastero egizio ed era stato acquistato nel 1847 dal British Museum. Probabilmente si tratta di una traduzione dall’aramaico di un testo più antico. Redatto in 29 capitoli, racconta la storia di Joseph, un giovane molto noto all’epoca, conosciuto dall’imperatore Tiberio e dal faraone d’Egitto (forse Natakamani), che lo considerava figlio di Dio. A 20 anni Joseph va in sposo ad Aseneth, che gli dà due figli: Manasseh ed Ephraim. Simcha Jacobovici, giornalista investigativo israeliano che scrive anche sul New York Times, e Barrie Wilson, professore di ricerche religiose a Toronto, hanno studiato per sei anni il manoscritto e raccolto le loro deduzioni nel libro The Lost Gospel, il vangelo perduto.
In una delle prime pagine dell’antico testo il misterioso autore avverte che tutto quello che segue è scritto in un codice che va interpretato. I riferimenti cristiani contenuti nelle pagine sarebbero però così tanti che non è necessario essere Robert Langdon per capire che i nomi di Joseph e Aseneth nascondono quelli di Gesù e Maria Maddalena. Nel testo si narra che alla donna, dopo la morte del marito, viene somministrata l’eucarestia, «il pane e il calice della vita».
Gli unici quattro Vangeli autorizzati dalla Chiesa dopo le riforme di Costantino non raccontano nulla della vita di Gesù tra la sua infanzia e l’età matura, un periodo nel quale, per un «rabbi», sarebbe stato obbligatorio sposarsi. Ma la storia di Joseph e Aseneth sarebbe raccontata anche in altri manoscritti, sopravvissuti alla sistematica distruzione dei Vangeli apocrifi solo grazie al fatto che celavano la vera identità dei due sposi. Anche il testo della British Library non sembra però sfuggito alla censura: alcune pagine sono state vistosamente strappate via.
Due anni fa la docente di Harvard Karen L. King aveva annunciato la scoperta di un frammento di papiro in copto di uno di questi testi perduti, nel quale si legge: «E Gesù disse loro: mia moglie...». Ma secondo Jacobovici e Wilson basta anche solo scorrere i Vangeli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni per convincersi che Maddalena aveva un ruolo di primissimo piano accanto a Gesù. Assiste alla crocifissione, alla sepoltura e alla scoperta della tomba vuota. Lava il corpo del Cristo, cosa consentita solo alle mogli o ad altri uomini, ed è la prima persona alla quale Gesù si rivolge dopo la resurrezione.
Il sentimento popolare, soprattutto in Francia, non ha avuto bisogno di aspettare Dan Brown per venerare Maria di Magdala come la seconda donna più importante del Cristianesimo dopo la Vergine Maria, nonostante papa Gregorio Magno l’avesse bollata nel 590 come una prostituta, commettendo un vistoso errore - forse meditato e voluto - di interpretazione dei testi canonici. Per secoli è stata ritratta dai grandi maestri, da Tiziano a Caravaggio a Canova, come una penitente afflitta dai suoi peccati: che sia stata o no la moglie di Gesù, era un destino che non meritava.
Parla Padre d’Ors scrittore e consigliere di Papa Francesco
“Il Pontificio Consiglio ha chiesto una relazione sul ruolo femminile. Ormai i tempi sono maturi”
“Rousseau e Einstein erano capaci di esperienze spirituali profonde anche senza Dio”
di Simonetta Fiori (la Repubblica, 5.11.2014)
MADRID «PERCHÉ mi ha scelto papa Francesco? Un mistero. Forse avrà chiesto: qual è il prete più marginale di Madrid?». Pablo d’Ors scoppia in una risata mentre s’inerpica nella sua casa del quartiere Tetuán, una specie di torre su quattro piani che sarebbe piaciuta a Montaigne. È qui, tra il piano della biblioteca dove d’Ors compone i suoi romanzi e la cappella su in alto dove recita messa, che sta maturando un’altra rivoluzione del pontificato di Bergoglio. Finora se n’è parlato poco, anzi per niente. E per scoprirla bisogna venire a trovare questo outsider delle lettere e del sacerdozio che emana una vitalità allegra.
Davvero inclassificabile, padre d’Ors. «Scrittore mistico, erotico e comico», così lui si presenta rivelando la sua vocazione al paradosso. I suoi primi bellissimi racconti del Debutto si prendevano beffa delle letteratura mondiale, narrando le gesta di una signora slovacca che fa l’amore con i più grandi scrittori del Novecento. Pagine sorprendenti in cui si possono leggere riflessioni del genere: «Pessoa è lo scrittore che ha dormito di meno in tutta la letteratura mondiale».
Cresciuto in una famiglia colta - il nonno era Eugenio d’Ors, un monumento della cultura spagnola - Pablo s’è sempre nutrito di parole, per poi approdare alla Biografia del silenzio , un manifesto della meditazione che è diventato un caso editoriale in Spagna (tradotto da Vita e Pensiero). Non più giovanissimo, a 27 anni, dopo una vita ricca di amori, letture, viaggi anche spericolati, ha scelto il sacerdozio: ora nell’ospedale Ramón y Cajal accompagna i malati a morire.
Quest’anno è stato chiamato dal Pontificio Consiglio della Cultura presieduto dal cardinal Ravasi, dove a febbraio porterà il suo mattone per la costruzione di un nuovo immenso edificio. Che incarico le è stato affidato?
«Sono uno dei trenta consiglieri nominati in tutto il mondo. Ci hanno chiesto di presentare una relazione sul ruolo della donna nella Chiesa. Ormai sono maturi i tempi per percorrere nuove strade».
Si parlerà dell’apertura del sacerdozio alle donne?
«Non posso dire apoditticamente di sì, ma penso che dietro la prossima riunione plenaria ci sia questa impostazione».
Lei è favorevole?
«Assolutamente sì, e non sono da solo. Che la donna non possa essere prete per il fatto che Gesù era un uomo e che avesse scelto solo uomini è un argomento molto debole. È una ragione culturale, non metafisica».
Cosa porterebbero le donne?
«La vita. E tanta ricchezza. Il cambiamento è necessario, anche perché si tratta di una discriminazione inaccettabile. Per preparare il mio lavoro ho parlato con moltissime donne di diversa estrazione sociale e culturale, cristiane e non cristiane: con una sola eccezione, tutte si sono mostrate favorevoli».
C’è ancora molta resistenza?
«Sì, non solo nella curia ma anche nella base. La novità fa sempre paura. Invece un criterio importante per misurare la vitalità spirituale di una persona è la sua disponibilità al cambiamento. Resistere alla vita è un peccato perché la vita è svolgimento continuo».
Questo vale anche per la Chiesa?
«Soprattutto per la Chiesa».
Lei che tipo di sacerdote è?
«Sono un prete felice. Ho sentito una voce interiore. E quando vivi la vita come risposta a una vocazione provi la felicità. Questo non significa che non ci siano stati momenti difficili ». Il fatto di aver molto vissuto prima di prendere i voti... «... anche ora vivo intensamente».
Sì, ma il fatto di aver avuto molte storie d’amore la rende un sacerdote migliore?
«Conoscere l’amore umano aiuta a conoscere meglio l’amore divino. Oggi posso dire che mi ha aiutato, mentre nel momento in cui lo vivevo avevo l’impressione che mi facesse male. Bisogna avere il tempo per elaborare l’esperienza».
I suoi rapporti con le gerarchie vaticane non sono stati sempre sereni.
«Si riferisce ad Antonio Maria Rouco Varela, ex vescovo di Madrid? Avevamo due modi molto diversi di intendere la presenza cristiana nel mondo. Potrei sintetizzarlo in due parole: alternativa oppure dialogo. L’alternativa ti porta a una visione chiusa del cristianesimo, separato da un mondo visto come sentinella di tutti i vizi. Il dialogo significa riconoscere nel mondo anche la bellezza e il bene. Dunque non ti impongo la mia verità assoluta, ma ti invito a metterti in dialogo con me per trovare insieme la verità. Francesco è un vero pontefice perché crea ponti intorno a sé».
Oggi lei lavora nell’ospedale di Ramón y Cajal. Come si accompagna una persona a morire?
«Ascoltando veramente ciò che dice, senza giudicare intellettualmente o caricare emotivamente. Ascoltare e basta, dimenticando se stessi, che è la cosa più difficile ».
Lei ha detto che morire da cristiani non comporta meno angosce che morire da laici.
«Un momento. Se sei davvero un credente ti aiuta. Non ti aiuta quando sei cristiano di nome ma non di cuore».
Ma si può vivere una buona vita senza Dio?
«Certo che si può vivere senza un Dio. Non si vive bene senza contatto con la fonte della pienezza, si chiami Dio, essere o vita. Persone come Einstein o Rousseau non erano credenti, ma capaci di esperienze spirituali profondissime».
Lei perché scrive romanzi? Pensava a sé quando fa dire a Pessoa: “Non scrivo ciò che penso, ma scrivo per pensare”?
«Uno ritiene ingenuamente che la scrittura serva per comunicare, ma questo vorrebbe dire che io so già cosa devo dire. In realtà la scrittura è rivelazione, nel senso che rivela a te stesso quello che devi scrivere. Non è un fatto solo intellettuale, ma più profondo, direi viscerale».
Ma perché poi lei è approdato all’elogio del silenzio? Non c’è un aspetto paradossale, ossimorico, nel biografare il silenzio?
«Solo in apparenza. Parola e silenzio sono le due facce di una stessa medaglia. Le parole vere, quelle che hanno la possibilità di toccare l’altro, nascono dal silenzio, ossia dall’intimità con se stessi. E approdano al silenzio perché la cosa più bella, quando leggi un libro, è il bisogno di ricreare tu stesso quello che hai letto. In fondo la letteratura è un invito a tacere».
Il silenzio come l’unica etica possibile. Lei lo fa dire a Thomas Bernhard.
«Sì, per me è stato fondamentale. È Bernhard a teorizzare che tutto è citazione. La letteratura nasce dalla letteratura. Anche i miei romanzi nascono ai margini dei libri altrui».
Lei si definisce scrittore erotico, mistico e comico. Ma cosa tiene unite cose così diverse?
«L’ironia è lo stile, misticismo ed erotismo sono i contenuti. Sia la mistica che l’eros cercano l’unità: ricompongono la separazione nell’unione dello spirito e dei corpi. Quanto alla leggerezza, è quella che genera l’allegria del lettore».
A proposito di leggerezza, ne Il debutto fa a pezzi Kundera e molti altri. Grandi scrittori, ma piccoli uomini.
«L’ironia ha anche una funzione liberatoria. Quasi una dichiarazione di principio: ecco i miei maestri, ma non voglio restare schiacciato sotto queste bestie della letteratura ».
Ma perché introdurre il tema corporale: l’organizzatrice slovacca che si lascia possedere da tutti i grandi intellettuali?
«Ho voluto mostrare un inganno. Noi ci illudiamo di possedere libri e persone. Ma, dal momento che non è possibile padroneggiare tutta la letteratura, la cosa più facile è accedere al corpo degli scrittori».
La sua critica ricorrente verso gli scrittori è di preferire la scrittura alla vita.
«Per molti la letteratura è un modo vicario di vivere la realtà. Credo invece che ciascuno dovrebbe fare un’opera d’arte non solo della scrittura, ma anche dalla propria vita. Thomas Mann l’ha capito benissimo. Proust e Kafka, al contrario, hanno sacrificato le loro esistenze alla letteratura».
Primum vivere. Ma i sacerdoti vivrebbero meglio con una donna al loro fianco?
«I tempi sono maturi anche per questa svolta, ma è solo una mia opinione personale. E nel Pontificio Consiglio, no, di questo non si parlerà».
Papa Francesco ha scomunicato la fondatrice di “Noi siamo Chiesa”. Celebrava Messa in casa
di Redazione *
Il vescovo di Innsbruck ha consegnato personalmente il decreto a Martha e Gert Heizer, che però lo hanno respinto. I due officiavano l’Eucarestia senza preti per sfidare la Chiesa sul sacerdozio femminile
vaticano-guardie-svizzerePapa Francesco ha scomunicato Martha Heizer, co-fondatrice e presidente di “Wir sind Kirche” (Noi siamo Chiesa), una delle organizzazioni cattoliche più critiche verso la Chiesa e il suo magistero. Il caso Heizer era scoppiato nel 2011, quando la donna, insegnante di religione a Innsbruck, in Austria, decise di sfidare il Vaticano sulla questione del sacerdozio femminile annunciando la sua intenzione di celebrare l’Eucarestia nella sua casa di Absam, piccolo comune nei pressi del capoluogo tirolese. In seguito la signora 67enne cominciò effettivamente a officiare regolarmente la Messa insieme al marito Gert (anche lui scomunicato), davanti ad altri fedeli e in assenza di sacerdoti, e la Congregazione per la dottrina della fede istituì la commissione che adesso ha stabilito la scomunica. La pratica teorizzata e realizzata dalla teologa, infatti, profanando il sacramento dell’Eucarestia rientra per la Chiesa tra i “delicta graviora”, al pari della pedofilia e dei crimini contro la Penitenza.
«SIAMO INDIGNATI». Come ha riportato per primo il Tiroler Tageszeitung, ieri sera il vescovo di Innsbruck Manfred Scheuer ha voluto consegnare personalmente il decreto di Roma a Marta e Gert Heizer, ma la coppia lo ha respinto. Questa mattina poi i due hanno divulgato un comunicato in cui si dicono scioccati per la scelta della Chiesa. «Ci indigna profondamente il fatto di ritrovarci nella stessa categoria dei preti colpevoli di abusi. Ma siamo amareggiati soprattutto perché non conosciamo un solo caso in cui un colpevole di abusi sia stato scomunicato. (...) Non abbiamo accettato il decreto, ma al contrario lo abbiamo respinto. Non abbiamo mai accettato il processo nella sua struttura e conseguentemente non accettiamo neanche la condanna. Continueremo a impegnarci con maggior forza per la riforma della Chiesa cattolica. Proprio questo modo di procedere mostra con quanta urgenza essa abbia bisogno di un rinnovamento».
IL GRUPPO. Il movimento “Wir sind Kirche”, oggi uno dei più numerosi e sicuramente tra i più attivi in Europa nel promuovere modifiche in senso progressista della dottrina cattolica, nacque intorno a un piccolo gruppo di cattolici di Innsbruck capitanato da Thomas Plankesteiner e appunto da Martha Heizer - ricorda Giacomo Galeazzi per il Vatican Insider - che nell’aprile del 1995 pubblicò un “Appello dal popolo di Dio” rivolto alla gerarchia della Chiesa per chiedere proprio l’introduzione del sacerdozio femminile, oltre a una maggiore democrazia, all’abolizione del celibato dei preti e all’adeguamento della morale sessuale ai costumi moderni. Il testo raccolse moltissime adesioni in tutto il continente ma soprattutto in Austria e in Germania (rispettivamente 505 mila e 1,8 milioni di firme).
*
Fonte: Tempi.it, maggio 22, 2014
LE “DONNE DEI PRETI” SCRIVONO AL PAPA *
Caro Papa Francesco
siamo un gruppo di donne da tutte le parti d’Italia (e non solo) che ti scrive per rompere il muro di silenzio e indifferenza con cui ci scontriamo ogni giorno. Ognuna di noi sta vivendo, ha vissuto o vorrebbe vivere una relazione d’amore con un sacerdote, di cui è innamorata. Abbiamo deciso di unire le nostre voci dopo esserci rese conto che pur nella nostra diversità, i nostri vissuti non rappresentano casi isolati, ma che tantissime donne vivono nel silenzio, e per questo, pur essendo noi un piccolo campione, ci sentiamo di parlare a nome di tutte le donne coinvolte sentimentalmente con un sacerdote o religioso.
Come tu ben sai, sono state usate tantissime parole da chi si pone a favore del celibato opzionale, ma forse ben poco si conosce della devastante sofferenza a cui è soggetta una donna che vive con un prete la forte esperienza dell’innamoramento.
Vogliamo, con umiltà, porre ai tuoi piedi la nostra sofferenza affinchè qualcosa possa cambiare non solo per noi, ma per il bene di tutta la Chiesa.
Si, l’amore è proprio un’esperienza forte e rigenerante, che ti rimodula dentro, che ti fa crescere con l’altro, finchè ti ritrovi a desiderare con lui quel meraviglioso sogno di una vita insieme. Cosa che con un prete non è possibile, secondo le leggi attuali della chiesa cattolica romana.
Noi amiamo questi uomini, loro amano noi, e il più delle volte non si riesce pur con tutta la volontà possibile, a recidere un legame così solido e bello, che porta con se purtroppo tutto il dolore del "non pienamente vissuto". Una continua altalena di "tira e molla" che dilaniano l’anima.
Quando, straziati da tanto dolore, si decide per un allontanamento definitivo, le conseguenze non sono meno devastanti e spesso resta una cicatrice a vita per entrambi. Le alternative sono l’abbandono del sacerdozio o la persistenza a vita di una relazione segreta.
Nel primo caso la forte situazione con cui la coppia deve scontrarsi viene vissuta con grandissima sofferenza da parte di entrambi: anche noi donne desideriamo che la vocazione sacerdotale dei nostri compagni possa essere vissuta pienamente, che possano restare al servizio della comunità, a svolgere la missione che per tanti anni hanno svolto con passione e dedizione, rinvigoriti adesso ancor di più dalla forza vitale dell’amore che hanno scoperto insieme a noi, che vogliamo sostenerli e affiancarli nel loro mandato. Chi si sente chiamato al sacerdozio sceglie di vivere nel mondo, di partecipare alla vita sociale e di rendersi utile agli altri nella comunità in cui è inserito. La dolcezza e solarità di una donna può davvero essere sale e luce nel ministero di un sacerdote, per camminare insieme verso la Sua Luce e per maturare i frutti (che in due si moltiplicano esponenzialmente) da donare alla gente.
Nel secondo caso, ovvero nel mantenimento di una relazione segreta, si prospetta una vita nel continuo nascondimento, con la frustrazione di un amore non completo che non può sperare in un figlio, che non può esistere alla luce del sole. Può sembrare una situazione ipocrita, restare celibi avendo una donna accanto nel silenzio, ma purtroppo non di rado ci si vede costretti a questa dolorosa scelta per l’impossibilità di recidere un amore così forte che si è radicato comunque nel Signore.
L’amore è davvero la forza più potente che esista!
E allora ci chiediamo e ti chiediamo se è davvero giusto sacrificare l’Amore in virtù di un bene più alto e grande che è quello del servizio totale a Gesù e alla comunità, cosa che a nostro avviso sarebbe svolto con maggiore slancio da un sacerdote che non ha dovuto rinunciare alla sua vocazione all’amore coniugale,unitamente a quella sacerdotale, e che sarebbe anche supportato dalla moglie e dai figli. Probabilmente ne gioverebbe l’intera comunità, si respirerebbe aria di famiglia, di libertà e accoglienza. Questa nostra società ne ha bisogno!
Siamo tutti alla ricerca della propria identità, che possiamo solo trovare nel volto di Cristo; ma la chiesa ne riflette il suo volto? Noi speriamo che tu, con questa ventata di speranza che hai portato, possa davvero riuscire a ridare alla chiesa la sua dignità, liberandola dalla pretesa della Verità Assoluta, e affidandola semplicemente alla volontà di Dio.
Siamo fiduciose che il nostro grido, rimasto per troppo tempo inespresso, venga da te accolto e compreso, per discernere quale sia la giusta strada per una Chiesa migliore.
Se tu lo riterrai adeguato, siamo pronte e anzi ti chiediamo di essere da te convocate in un’udienza privata, per portare davanti a te umilmente le nostre storie e le nostre esperienze, sperando di poter attivamente aiutare la Chiesa, che tanto amiamo, verso una possibile strada da intraprendere con prudenza e giudizio.
Grazie Papa Francesco! Speriamo con tutto il cuore che tu benedica questi nostri Amori, donandoci la gioia più grande che un padre vuole per i suoi figli: VEDERCI FELICI!!!
Ti auguriamo ogni Bene.
*
FONTE. Adistanews: http://www.adistaonline.it/
Nuove scoperte sulla moglie di Gesù
Diversi esami di laboratorio hanno dimostrato che l’antico frammento di papiro presentato nel 2012 - contenente una frase non da poco - non è un falso moderno
Il piccolo frammento di papiro che contiene una frase mai apparsa prima nelle Sacre Scritture e che contiene la parola “moglie” riferita a Gesù è antico e non è un falso moderno. Il documento è stato analizzato da alcuni professori di ingegneria elettronica, chimica e biologia di tre atenei americani (Columbia, Massachusetts Institute of Technology e Harvard) che hanno usato diversi tipi di spettroscopia per arrivare a stabilirne la datazione.
Timothy Swager, chimico del Massachusetts Institute of Technology, ha utilizzato la spettroscopia agli infrarossi per verificare se l’inchiostro mostrasse variazioni o incongruenze e ha concluso che «non c’è prova che qualcuno abbia creato un falso. Sarebbe stato estremamente difficile, se non impossibile». Per James Yardley, ingegnere elettronico della Columbia che ha utilizzato la tecnica della spettroscopia a micro-Raman, l’inchiostro è «perfettamente in linea con quello usato in altri 35-40 manoscritti datati tra il IV e l’VIII secolo dopo Cristo».
Il papiro era stato presentato nel settembre del 2012 durante durante il Convegno Internazionale di Studi Copti da Karen L. King, studiosa di vangeli gnostici e di questioni di genere nella chiesa primitiva alla Harvard Divinity School e prima donna a occupare la più antica cattedra degli Stati Uniti. Il frammento - che misura 4 centimetri per 8, è scritto su entrambi i lati con inchiostro nero ed è in lingua copta, l’evoluzione dell’antica lingua egiziana che non fa uso dei geroglifici ma dei caratteri dell’alfabeto greco - contiene un dialogo tra Gesù e i suoi discepoli e c’è scritto:
“Gesù disse loro: mia moglie...”
La formula “ta-hime”, forma rara di “ta-shime”, corrisponde in copto alle parole “donna” o “moglie”. E poco sotto:
“Lei sarà in grado di essere mia discepola”
Il papiro era stato presentato da Karen L. King come risalente al IV secolo e conteneva quello che la studiosa di Harvard aveva chiamato “Vangelo della moglie di Gesù”, un testo sconosciuto composto probabilmente in lingua greca nella seconda metà del II secolo. La datazione era stata da lei stabilita sulla base dell’influenza che questo scritto avrebbe subito da opere come il Vangelo di Tommaso e il Vangelo di Filippo (in cui Maria Maddalena è citata come la moglie di Gesù).
Dopo l’esito delle analisi di laboratorio sul papiro, Karen L. King ha ribadito che il contenuto del frammento non costituisce una prova che Gesù fosse effettivamente sposato, ma dimostra con qualche certezza in più che tra i primi cristiani c’erano discussioni attive su celibato, sesso, matrimonio e discepolato.
La questione sul fatto che Gesù fosse sposato o meno nacque solo 150 anni dopo che Gesù morì, nell’ambiente dei cristiani che discutevano tra loro se dovessero sposarsi o rimanere celibi: «Quando tutte le prove puntano in una direzione non hai la certezza al 100 per 100, ma la storia non è un posto per il 100 per cento», ha ricordato King.
Il lavoro della studiosa e la sua interpretazione hanno naturalmente sollevato una grande discussione sul tema. Il suo saggio, che è stato recentemente pubblicato online dopo una serie di revisioni da parte di altri colleghi sulla Harvard Theological Review ed è accompagnato da una replica di Leo Depuydt, egittologo della Brown University, secondo cui il frammento è così evidentemente falso da «sembrare pronto per uno sketch dei Monty Python».
Depuydt non ha analizzato il papiro e ha detto di non volerlo nemmeno fare, convinto dai «grossolani errori grammaticali» e dal fatto che ogni parola coincide con quelle del Vangelo di Tommaso, scoperto in Egitto nel 1945: «Non può essere una coincidenza», ha commentato.
È scettico anche il Vaticano, che attraverso le parole di Gian Maria Vian, direttore dell’Osservatore Romano, già nel 2012 aveva definito il papiro «un falso». Accanto all’editoriale di Vian, il quotidiano aveva pubblicato un’analisi dello studioso Alberto Camplani sulla storia del frammento definito «molto problematico e controverso» innanzitutto perché non era stato trovato attraverso uno scavo ma sul mercato antiquario.
La tradizione cristiana ha sempre sostenuto che Gesù non fosse sposato o che, come San Paolo, fosse sposato alla Chiesa. Il fatto che sulla vita di Gesù ci fossero idee diverse già tra i primi cristiani, e dunque ancora prima dei vari concilii e prima che i libri del Nuovo Testamento fossero decisi come canonici, aiuterebbe a ricordare che «praticamente tutto quello che le generazioni successive dissero su Gesù fu assemblato e rivisto da qualcuno dopo la sua morte», come ha spiegato Roger Bagnall, professore di storia antica alla New York University, e riaprirebbe una questione di grande attualità: quella sul ruolo delle donne nella Chiesa, sulla negazione del sacerdozio femminile e sul matrimonio dei sacerdoti.
Lui incapace di accettare l’emancipazione
di Giulia Galeotti (l’Osservatore Romano, 25 novembre 2012)
È il mostruoso volto dell’incapacità di entrare in relazione con il prossimo. Percuotere e uccidere chi è fisicamente più debole è una disumana dimostrazione di codardia e di viltà. Questi abusi particolarmente subdoli e striscianti, capaci di infiltrarsi sempre più nella quotidianità delle nostre mura (anche occidentali), violentano le migliaia di vittime colpite silenziosamente giorno dopo giorno sotto i nostri sguardi distratti. Ma violentano anche la società nel suo insieme.
Perché se sempre e in ogni sua forma la violenza volta le spalle alla speranza, la violenza degli uni sulle altre è il cemento che immobilizza il domani. Che preclude ogni incontro e asfissia la vita. I dati sono allarmanti. Solo in Italia, una donna viene uccisa ogni sessanta ore. È un fenomeno nuovo, o forse oggi siamo più informati, più capaci di leggere la realtà per quello che veramente è? Se così fosse, sarebbe comunque già una conquista. Una società civile in grado di dare un nome ai carnefici.
Abbiamo però un dubbio. Che questa spirale tentacolare - nel suo spingere troppi uomini a usare la propria superiorità fisica contro le donne di casa loro, donne che spesso frequentano e "amano" - sia mossa dalla incapacità di accettare nella quotidianità concreta l’emancipazione femminile. Che la donna, conquistati i diritti, sia diventata cittadina a pieno titolo è un giro di boa troppo grande da accettare nei rapporti domestici di ogni giorno. La crudeltà - si sa - è in grado di alleviare momentaneamente la frustrazione, di attutire il senso di impotenza, ed è anche su questa consapevolezza che occorre lavorare per cercare di estirparne gli esiti.
La giornata mondiale contro la violenza sulle donne vuole dunque svegliarci dall’indifferenza. Vuole pungolarci dalla assuefazione che corrode il senso critico, giacché non reagendo finiamo per essere complici del rinsecchimento delle radici del nostro vivere civile. Vuole mettere fine a quel lasciarci scivolare addosso dati che turbano nell’immediato, senza però penetrare davvero nelle nostre coscienze. Dati, inoltre, che molte, troppe di noi hanno provato sulla propria pelle, nei modi, nelle situazioni e attraverso le mani più varie. Sta qui molta della forza di questa violenza, sta nel suo nutrirsi del senso di colpa, nell’approfittarsi della vergogna.
Siamo imbevuti tutti di violenza sin da bambini, i colpevoli e le vittime. Da subito ci viene insegnato - a noi maschi - a desiderarla, cercarla, esercitarla. Il cibo con cui cresciamo non è un veleno a costo zero. Da subito ci viene insegnato - a noi femmine - che, un po’ almeno, ce la siamo cercata.
Che, soprattutto, la giornata mondiale del 25 novembre lasci in noi la consapevolezza che la violenza contro le donne infligge a tutti una ferita mortale. Perché vittima è anche la società nel suo complesso, quella società composta da quanti esercitano questa violenza, da quante la subiscono e da quanti la registrano immobili (e dunque colpevoli). Il danno è immenso. È la negazione della ragione. È il rifiuto dell’altro. È l’antitesi del nostro essere esseri umani. Come scrive Vasilij Grossman in Vita e destino, "dove la violenza cerca di cancellare varietà e differenze, la vita si spegne".
Il papiro della moglie di Gesù non è falso. A un passo dalla verità
di Isabella Dalla Vecchia - Sergio Succu*
In risposta all’Osservatore Romano e a Voyager, la rivista Fenix pubblica un dossier su Maria Maddalena come possibile moglie di Gesù e una serie di prove sull’autenticità della pergamena. Il ritrovamento del papiro in cui Gesù parla di una moglie, ha scatenato lo scorso settembre una bomba mediatica senza precedenti.
Non ci è voluto molto perché venisse prontamente smentito e ridiscusso, per inserirlo in quel limbo di incertezza in cui si trova tutto ciò che può disturbare i solidi dogmi della Chiesa. Eppure la figura di Maria Maddalena, l’ipotetica moglie di Gesù, ha sempre condotto con sé un alone di interrogativi; perché viene data tanta importanza ad una donna comune alle altre discepole ?
La rivista Fenix di novembre 2012 rivela in esclusiva le verità nascoste di Maria Maddalena come presunta moglie di Gesù.
“L’esistenza di tale documento, se confermato nella sua autenticità, dimostrerebbe che una setta cristiana nel II secolo credeva in questa unione. Una scoperta la cui smentita del Vaticano tramite i mass media sembra essere solo stata orchestrata ad arte per le difficoltà che questo frammento, se autentico, genererebbe” con queste parole la giornalista Elisa Bosco avvia il dossier interamente dedicato alla donna che sta emergendo come nuova Dea della cristianità. Nell’articolo della Bosco vengono coinvolti insigni professori quali il prof. Shisha-Halevy, Robert Bagnall direttore dell’Istituto per il Mondo Antico di NY e James Tabor della North Carolina University, di cui è riportata una sua lunga dichiarazione, a favore dell’autenticità del documento.
“Dato il particolare contenuto, abbiamo preso in seria considerazione l’analisi per stabilire se si trattasse di frammento autentico o di un falso.” dichiara in maniera obiettiva Karen King, la scopritrice del papiro “Sinceramente ritengo che sarebbe stato molto difficile riprodurre volontariamente il tipo di danneggiamento tipico da insetti, o il grado di umidità che il materiale present o il danneggiamento dell’inchiostro. Inoltre, vi sono anche altri fattori che porterebbero a propendere per la sua autenticità.” Dichiarazioni queste prontamente smentite da testate come l’Osservatore Romano che, senza accettare ulteriori prove scientifiche, hanno dichiarato il documento come “falso, in ogni caso”, ovvero falso qualsiasi sia il risultato. Ed invece le prime analisi propendono per il contrario, il papiro presenta proprietà a favore della sua autenticità, elencate nell’articolo della Bosco.
Il dossier su Maria Maddalena prosegue con l’articolo di Isabella Dalla Vecchia di luoghimisteriosi.it in cui vengono elencati i luoghi italiani della presenza segreta di Maria Maddalena. Non solo quadri, ma angoli di passaggio e tutto ciò che riguarda colei che da sempre viene identificata con una donna particolarmente vicina a Gesù. Una figura irraggiungibile perché nessuno sa dove si trovi, eppure ella è accanto a noi, in ogni angolo del nostro bellissimo Paese. “Sopra il portale del Duomo dell’isola de La Maddalena campeggia un’epigrafe le cui prime parole sono Divae Magdalene, che significano “Dea Maddalena”, - scrive la ricercatrice Isabella Dalla Vecchia - davvero singolare l’attribuzione della Santa all’appellativo di Dea. Questo a riprova della figura di Maria come incarnazione umana della Sophia, compagna e sposa universale di Cristo, la vera Dea del Cristianesimo e, guarda caso, si trova proprio nel luogo dove soggiornò e dove si trova il suo tesoro”.
Oltre alla figura della donna accanto a Gesù nelle ultime cene identificata con Maria Maddalena, vengono elencate le opere in cui si narra della vita apocrifa della Santa, dall’altare a lei dedicato nel Duomo di Bari, la chiesa per eccellenza legata alla presenza del Graal, fino alla testimonianza del suo passaggio in terra sarda.
Adriano Forgione, direttore del giornale, invece parla in esclusiva della simbologia nascosta della Santa, presentando un’immagine semplice ma estremamente ricca di significato incisa nei luoghi più legati a Maria e ai Templari. “Il segno della Maddalena è l’indizio di quanto la sua figura sia associabile alla Grande Dea Madre primordiale e sia frutto di una tradizione antica quanto la civiltà in relazione al “parto” o alla “nascita” di un erede divino.” dichiara Adriano Forgione nel suo approfondimento a chiusura dell’intero dossier. “Da questa porta pare farsi strada la figura di quella Dea Madre universale che giustificherebbe la definizione di “Dea Maddalena”.
E’ proprio la nuova Dea del Cristianesimo a divenire protagonista in un momento particolare che affronteremo a breve, quello del 21 dicembre 2012, quello definito come il “momento di passaggio in un’era illuminata”. Saremo proprio noi, con tali forti interrogativi, a contribuire a questo grande cambiamento?
Altre info su
http://www.luoghimisteriosi.it/collaborazioni-fenix.html
http://www.xpublishing.it/
Isabella Dalla Vecchia
Sergio Succu
Luoghi Misteriosi
info@luoghimisteriosi.it
info@mysteriousplaces.it
Il sito dei Luoghi Misteriosi
www.luoghimisteriosi.it
www.mysteriousplaces.it
Anne Soupa: “La Chiesa ha una visione distorta delle donne”
intervista a Anne Soupa,
a cura di Philippe Clanché
in “www.temoignagechretien.fr” del 4 ottobre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Come è giunta ad interessarsi del problema dello status delle donne nella Bibbia?
È un problema a cui penso da molto tempo. Sono convinta che la Chiesa abbia una visione distorta delle donne e che sia necessario rettificarla. Ho voluto affrontare il problema partendo dalla Bibbia, perché non sopporto la manipolazione di cui sono oggetto le Scritture, semplicemente per giustificare scelte culturali che non hanno niente a che vedere con la fede.
E pensa che tutto derivi da un errore di interpretazione di un passo della Genesi?
Nei due racconti della Genesi della creazione dell’uomo, Dio crea prima l’ha’adam, fatto d’argilla, l’essere umano generico. Il commentatore maschio - perché storicamente è un uomo - , vi si è rispecchiato e si è appropriato di questo essere umano generico per dire che si trattava di lui. Quello è l’errore originale. I lettori medioevali ne hanno tratto la conclusione che la donna fosse una creazione seconda, nel tempo e per importanza, e soprattutto che fosse un aiuto per l’uomo. Ma se l’uomo maschio non esiste ancora, come potrebbe la donna essere il suo aiuto? Eppure, è proprio su questa lettura sbagliata di Genesi 2, 18-24 che si è basato il magistero cattolico. Non si tratta di un problema di vocabolario. La lingua tedesca, che pure dispone di due termini diversi (Mensch, l’essere umano, e Mann, l’uomo) conserva questa confusione... Bisognerebbe ormai compiere un percorso ufficiale per far sì che vengano distinti l’essere umano e l’uomo maschio.
E tuttavia, la creazione divina si struttura sulla differenza dei sessi?
Dio ha effettivamente creato la differenza dei sessi, ma il testo della Genesi non dà alcun contenuto oggettivo a questa differenza. Per ciascuno e ciascuna, essa sorge dall’esperienza. Dio non dice che la donna è frivola, seducente, segreta, regina della casa e che l’uomo è potente, razionale, inquisitore. Dio non ha creato né il femminile, né il maschile, che sono invece caratteristiche culturali.
In senso più ampio, come considera le donne l’Antico Testamento?
Certe donne sono vittime di violenze terribili, come la concubina del levita violentata fino alla morte. Ma la Bibbia denuncia tali atti. Non dimentica mai che la donna è creatura di Dio. Nel progetto biblico, le donne hanno un ruolo decisivo: dicono che Dio prospetta percorsi insospettati. Si scopre ora il contributo importante delle donne profetesse nella Bibbia. Naturalmente, come in ogni società patriarcale, le loro funzioni sono legate alla vita familiare.
Nel Vangelo, lei presenta un Gesù con caratteristiche “femminili” (non violenza, tenerezza, ascolto) e, allo stesso tempo, innamorato delle donne.
Gesù ha mandato all’aria i codici culturali della sua epoca. È stato libero rispetto al “maschile” del suo tempo. Ha ridato alle donne uno spazio. Ed è da uomo che le considera. Tutte le nostre relazioni umane sono caratterizzate dalla sessualità. In Gesù e nelle sue interlocutrici, c’è una innegabile parte di sessualità passiva. Inoltre, il desiderio di Dio, a partire dai profeti, viene evocato con la metafora delle nozze, della vita amorosa. Nulla di sorprendente che alcuni abbiano creduto di vedervi una relazione scandalosa tra Cristo e Maria Maddalena. È il campo d’azione della vita spirituale: è una relazione amorosa sublimata.
Femminile, maschile... il “genere” è un aspetto da tener presente della relazione con Dio?
I grandi spirituali hanno insistito sulla femminilità dell’anima che accoglie Dio. Ne hanno certo diritto: il femminile, come il maschile, appartengono a tutti. Ma in questo modo, in una società a dominanza maschile come quella del Medio Evo, si sono per di più arrogati il femminile. E, stando così le cose, ne hanno quasi privato le “vere” donne, che finiscono per non essere più necessarie! L’interpretazione del Cantico dei cantici mostra chiaramente questa “espropriazione”. La storia d’amore che racconta è stata intesa da quasi tutti i commentatori cristiani come un’immagine dell’amore tra l’essere umano e Dio. Ma così l’Amata del Cantico scompare in quanto vera donna, non è altro che l’icona di colui che desidera Dio.
Ed è proprio a partire dal Cantico dei Cantici che l’assimilazione tra l’Amata del testo e il popolo dei fedeli fa nascere l’espressione “Chiesa, sposa di Cristo”?
Sono soprattutto i profeti che hanno sviluppato questo tema del popolo-sposa di Dio (e Dio viene così mascolinizzato). E, sfruttando questo filone, anche i teologi, Paolo per primo, hanno sviluppato il tema della Chiesa sposa di Cristo. Ma quella che era solo un’immagine, ed anche una richiesta di maggiore fedeltà a Dio, è diventata una norma che regge i veri rapporti dei veri uomini e delle vere donne nella Chiesa. Ed è su questo che si basa la Chiesa per escludere le donne dal sacramento dell’ordine. Le donne, dice, non possono esprimere il Cristo sposo. Ecco come si fa di una metafora uno strumento di esclusione.
Nei primi secoli del cristianesimo, però, le donne esercitavano dei ministeri. Sotto un ritratto nella chiesa di Santa Prassede a Roma, si legge: Theodora episcopa(il vescovo Theodora). Perché lei situa la svolta al momento della riforma gregoriana (XI-XII secolo)?
La riforma gregoriana affida ai soli preti le tre funzioni tradizionali nella Chiesa: governare, insegnare, santificare. Le donne (come i laici uomini) ne sono quindi escluse, fino ad oggi. E inoltre, nel XIII secolo, la Chiesa inizia la guerra contro i preti sposati. Quella decisione suscita molte resistenze, che generano, in risposta, vere campagne di discredito nei confronti delle donne. Sermoni e rappresentazioni iconografiche associano la donna al serpente della Genesi, come sull’architrave della cattedrale di Autun, ad esempio. Allora, le donne occupano altri spazi. Come ogni popolazione minacciata che fugge verso le montagne o i deserti, le donne si rifugiano nel misticismo o nell’avventura coloniale, in Canada, ad esempio.
In quale momento la Chiesa ha creato la vocazione della donna-madre, della donna-ventre che si realizza innanzitutto nella maternità?
Questa concezione è antica, abbiamo visto che la Bibbia ne riconosce la nobiltà. Ma la maternità non dice tutto di un essere umano. Non definisce un’identità. Nel XX secolo, la promozione della donna nelle società civili ha obbligato Roma a prendere posizione. Ma il Vaticano si è limitata a riprendere il discorso delle società patriarcali, senza vedere che l’emancipazione femminile la chiamava ad un discorso nuovo. Tanto ha sostenuto un tempo la causa delle donne, altrettanto frena oggi la corrente di emancipazione che arriva fino a lei, senza dubbio perché non ci sono abbastanza donne al suo interno per aiutarla a prendere coscienza dell’importanza di questa liberazione. Ad esempio, Roma continua a prendere alla lettera la maledizione della Genesi: Dio moltiplicherà il dolore delle gravidanze della donna e l’uomo dovrà lavorare la terra col sudore della fronte. Per la donna, la maternità diventa ontologica per la donna. Ma agli uomini Roma non chiede di tornare ad essere agricoltori... Oggi siamo in una situazione “folle”: il Magistero parla al posto delle donne e non dà loro la parola. Si arroga il diritto di assegnare loro una vocazione specifica che non ha l’equivalente per i maschi.
Abbiamo parlato del rifiuto di Roma del presbiterato al femminile. Perché lei non ne fa un asse portante della sua richiesta?
Il ministero presbiterale è in crisi. Deve innanzitutto risolvere i suoi problemi. Ordinare delle donne non serve a niente se il quadro è sbilenco. Invece, è importante aprire alle donne la possibilità della predicazione e dell’assunzione di funzioni di responsabilità nella Chiesa. È urgente che si senta la loro voce. Essendo diretta solo dal clero, la Chiesa si priva di sangue nuovo. Si devitalizza.
Quale ruolo svolgono le femministe cattoliche?
Hanno riflettuto soprattutto sugli aspetti teologici ed ecclesiologici, in particolare sui ministeri. Una generazione di esegete comincia a pubblicare. Questo è bene, perché è a partire da una lettura nuova della Scrittura che le cose possono cambiare. Si può anche immaginare un sinodo delle donne, idea che propongo alla fine del mio libro. In tale circostanza potrebbero emergere delle mozioni specificamente femminili e, perché no, dei voti che uniscono uomini e donne. Ho lanciato l’idea, resto in attesa di che cosa ne pensa il pubblico. La questione delle donne è talmente scottante! Non si può restare in silenzio davanti ad una negazione così grave del messaggio evangelico.
Anne Soupa, Dieu aime-t-il les femmes?, Médiaspaul, p. 144, € 19
Biblista e militante
Anne Soupa ha studiato teologia all’Institut de pédagogie de l’Enseignement religieux (Iper) di Lione, poi nelle facoltà cattoliche di Lione e di Parigi. Ha lavorato come biblista, in particolare dirigendo la rivista Biblia presso la casa editrice Cerf. È diventata famosa come promotrice, insieme all’editrice e saggista Christine Pedotti, del Comité de la Jupe e della Conférence catholique des baptisé-e-s francophones, che hanno l’obiettivo di difendere la dignità delle donne e la dignità dei battezzati e delle battezzate. Insieme hanno raccontato queste avventure nel libro Les pieds dans le bénitier, Presses de la Renaissance, 2009.
Il testo copto con la presunta allusione alla "moglie di Gesù"
Un papiro alla deriva
di Alberto Camplani *
"La scoperta di una studiosa di Harvard fa intendere che Gesù ebbe una moglie". Con tale titolo Fox News riprende da altri quotidiani la notizia di una conferenza tenuta martedì 18 settembre sera da Karen L. King, durante il decimo Congresso internazionale di studi copti, che in tale data era ospitato dall’Istituto Patristico Augustinianum, a pochi metri dalla Città del Vaticano. Di tenore simile, ma con variazioni di tono e di consapevolezza critica, nonché riferimenti poco pertinenti al Codice da Vinci di Dan Brown, sono le notizie circolate sulla stampa europea e italiana nei giorni immediatamente seguenti.
Il fatto è presto detto: nel corso della conferenza la studiosa aveva presentato un frammento di papiro che riporta, in traduzione copta, frasi di un dialogo intrattenuto da Gesù con i discepoli a proposito di un personaggio femminile, Maria, che egli definisce "mia moglie" (ta-hime / ta-shime, corrispondente in copto al nostro "donna" o "moglie"). Nulla di strano per un congresso scientifico: in questo caso, tuttavia, il legame troppo immediato tra ricerca e giornalismo, che poco giova ai tempi lunghi del più serio dibattito scientifico, era già stato perseguito da prima del congresso, se è vero che le precocissime notizie di martedì nei giornali americani dipendevano da un’intervista rilasciata dalla studiosa ad Harvard prima della partenza per l’Italia.
Nonostante la deriva mediatica caratterizzata da toni facilmente scandalistici, davanti a un oggetto di questo genere - che, a differenza di tanti altri presentati nel corso del congresso, non è stato scoperto nel corso di scavi, ma proviene dal mercato antiquario - bisogna adottare numerose precauzioni, che ne stabiliscano l’attendibilità e che ne escludano il carattere di contraffazione.
* L’Osservatore Romano 28 settembre 2012
La Queriniana rilancia il "Risus paschalis": un successo editoriale sul fondamento teologico del piacere sessuale.[1].
"È possibile che l’uomo nell’interezza della sua realtà concreta e quindi nella sua sessualità, nel desiderio, nel godimento, sia immagine di un Dio trascendente?". La domanda è ardita, tanto più se ci si situa nell’ambito della fede cristiana e se si tiene conto del fatto che la Chiesa cattolica è sessuofobica da quasi due millenni.
Dobbiamo infatti soprattutto a S. Agostino d’Ippona (354-430 d.C.) una concezione negativa e peccaminosa della sessualità umana, se è vero come è vero che nei Soliloquia è arrivato a scrivere: "Quanto a me, penso che le relazioni sessuali vadano radicalmente evitate. Penso che nulla avvilisca lo spirito dell’uomo quanto le carezze di una donna e i rapporti corporali che fanno parte del matrimonio". Sempre, tuttavia, nella storia della Chiesa, qualcuno ha osato dire e manifestare che attraverso il piacere l’uomo può cogliere qualcosa di Dio, che il godimento sessuale è riflesso e immagine, realizzazione ed esperienza del godimento infinito che è in Dio. Si è trattato di voci isolate o è possibile rifarsi ad una tradizione scritta e orale che, nei secoli, ha diffuso una visione positiva, serena e quasi trascendente della sessualità?
A questo interrogativo intende rispondere il libro di Maria Caterina Jacobelli Il Risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale (Brescia, Queriniana, 2004), pubblicato per la prima volta nel 1990, con prefazione di Alfondo Di Nola, e giunto ormai alla quarta edizione. Attraverso la sua conoscenza ad ampio spettro del tema, l’autrice parte dall’analisi storica di un fenomeno assai diffuso nell’Europa del Nord intorno al ’500, ma testimoniato per più di 1100 anni un po’ ovunque nella Chiesa: il Risus paschalis, da cui l’opera prende il titolo.
Si trattava di una tradizione secondo la quale, la mattina di Pasqua, il celebrante - per rendere più evidente il passaggio dalla tristezza della Quaresima alla gioia del tempo pasquale - cercava di far ridere il popolo radunato in chiesa mediante il turpiloquio e la messa in scena di atti impertinenti o addirittura osceni. Partendo dalla descrizione di questo fenomeno la teologa dimostra, con argomenti irrefutabili, che "sia la liturgia ebraica che quella cristiana hanno usato ed usano il piacere sessuale come linguaggio per cantare la gioia di pasqua". Da qui prende le mosse una valutazione teologica della sessualità e del piacere sessuale come luogo di esperienza del godimento infinito di Dio.
Il punto di partenza è, ovviamente, la Scrittura e in particolar modo la narrazione della creazione dell’uomo e della donna. Si passa poi al Cantico dei Cantici e a tutte le metafore "amorose" usate dai profeti e dagli scrittori sacri per descrivere il rapporto di Dio con l’umanità. Ciò che emerge in modo limpido e senza possibilità di fraintendimenti è che il piacere sessuale ha in sé una scintilla del divino ed è una partecipazione all’essere stesso di Dio.
Ampio spazio è riservato poi a S. Tommaso d’Aquino, illuminato dottore della Chiesa, e alla sua Summa, luogo in cui è disvelata l’intrinseca bontà della creatura umana e della sua ricerca del piacere. Ne sgorga un’etica nuova del piacere, del godimento, del "ridere". La conclusione è un augurio: "possa ogni rapporto sessuale compiuto nel godimento dell’amore, rendere l’uomo - creato maschio e femmina - sempre più profondamente immagine di Dio".
[1] Maria Caterina Jacobelli, Il risus Paschalis. Il fondamento teologico del piacere sessuale, Brescia, Queriniana, 1991 (da Adista notizie, n°49 del 3 luglio 2004, www.adista.it ).
E Gesù disse: «Siate allegri!»
intervista a Massimo Cacciari
a cura di Francesco Dal Mas (Avvenire, 25 settembre 2012)
«Il cristianesimo è lieto e deve far ridere. Guai, dunque, a una predicazione triste. Chi annuncia non può che avere il sorriso, anzi il riso di Beatrice che percorre tutta l’ultima cantica: «Tu la vedrai sulla vetta di questo monte ridere felice». Se tu non fai capire che il Paradiso è riso, come ha dimostrato Dante con Beatrice, la tua evangelizzazione sarà nebulosa e quindi non sarà un’evangelizzazione perché annunci un Vangelo triste, quindi non un eu-angelion , una ’buona notizia’ ». S’infervora il filosofo Massimo Cacciari intorno al tema «Davvero Gesù non ride?» che gli è stato affidato nell’ambito dell’ottava edizione di «Torino Spiritualità» e che svilupperà nell’appuntamento di giovedì.
Professore, lei è solito approcciarsi a Gesù in termini drammatici...
«Un momento. Come insegnava Platone, un dramma e una commedia hanno la stessa origine e non possono essere trattati in modo disgiunto. Quindi dire drammatico non significa dire incapace o impotente a ridere ».
È pur vero che quello di Gesù è stato letto da molti come un annuncio triste...
«Sì, ma è tutto da discutere. Nel Vangelo la dimensione del ridere è praticamente assente perché quando incontriamo un riso è quello degli stolti che deridono Gesù quando risorge la bambina».
E nell’Antico Testamento?
«È presente solo nell’accezione della stoltezza umana. Dio ride per schernire dall’alto la stoltezza dell’uomo. Ma sono letture affrettate».
Affrettate perché?
«Come si può non sentire un timbro del riso nel Cantico dei cantici? Più difficile si fa la ricerca nel Nuovo Testamento, perché qui sembra che il riso manchi. Ma è proprio così? Vediamo di ascoltare con orecchi non particolarmente ottusi. E allora scopriamo che nel Nuovo Testamento Gesù non ride con scherno nei confronti della nostra miseria e stoltezza. Certo, manca il riso sguaiato. Ma come si fa a non sentire una luce ilaros, come avrebbero detto i Padri orientali, quella luce del cielo quando è sgombro da ogni pesantezza, da ogni nebbia? Come si fa a non sentire nelle parole di Gesù questa ilaritas che mai giudica, mai condanna? Anche se non è nominato espressamente come si fa a non ascoltarlo?».
Si è soliti, in effetti, definire spiritosa una persona che ci fa ridere intelligentemente.
«Una battuta di spirito è una battuta che alleggerisce, che solleva, che assolve. Come si fa a non sentire questo timbro nelle parole di Gesù? Ma direi ancora di più: non è piena di ironia tutta la parola di Gesù?».
Gesù ironico? Ma come? L’ironia non sembra molto evangelica.
«Ironia nel senso letterale del termine, di gusto del paradosso. Il paradosso che invita alla ricerca. La parabola che timbro ha se non questo? Non è forse profondamente ironica in questo senso? Come hanno spiegato grandi interpreti, la parabola non ha nulla a che fare con l’allegoria perché l’allegoria è una similitudine che immediatamente si scopre. La parabola, invece, è un invito a pensare pieno di ironia. E che invita al sorriso. Le parabole del Regno hanno paragoni che sembrano assurdi. Il Regno dei cieli è un grano di senape. Non mette in evidenza un’immensa distanza? Non è un paradosso? Come si fa a non sorridere per la parabola delle vergini stolte che si precipitano ad acquistare l’olio e poi vengono cacciate? Oppure quell’immagine al limite della blasfemia: il Signore è come quel re che tutto concede per non essere più infastidito da scocciatori che gli chiedono di tutto? Questa parabola è piena di elementi ironici. Come lo è quella del samaritano e del figliol prodigo. Io credo che l’unico che abbia capito fino in fondo lo spirito della parabola di Gesù sia Kafka».
Kafka? Perché mai Kafka?
«Le sue sono parabole che non danno soluzione, rimangono enigmi. Non sono facili similitudini, non sono allegorie. Non permettono un allegorismo a differenza delle favole antiche e, nello stesso tempo, fanno sorridere. Fanno sorridere continuamente. Kafka secondo me rideva quando scriveva i suoi racconti. È tutta questa dimensione che bisogna scoprire se si vuole leggere con orecchi aperti il messaggio di Gesù. E poi un tema a me caro: l’ilaritas del più perfetto imitatore di Gesù che è Francesco». In tempi di crisi come quelli che viviamo, c’è spazio per un annuncio che non sia triste?
«Quanto ho detto vale soprattutto per tempi di crisi come i nostri. Se tu, invece di annunciare una lieta novella, annunci una novella ancora più triste, è chiaro che fallisce l’evangelizzazione. Citavo Francesco. Forse che lui, ai suoi tempi, non considerava tutti i problemi? Nella sofferenza lui ’rideva’, cantava e aveva il volto del riso e non della tristezza. L’unico comando che ha dato Francesco ai suoi è stato: andate e non siate mai nebulosi ».
Ma bisogna distinguere riso da riso. Non le pare? Oggi la risata è spesso sguaiata...
«Non c’entra nulla. Questo non è riso, è derisione, è scherno, è sarcasmo. L’etimo di sarcasmo è fare a pezzi la carne. Questo è il riso che insegnava Leopardi. Gli italiani sono capaci solo di scherno. Questo è il riso tipico dell’italiano».
È il rischio anche della satira?
«Certo. Quando la satira non è ironica (perché può essere ironica ed esprimere un sano riso che solleva), ma quando è impietosa, sarcastica, è nichilistica, fa a pezzi e basta. Ma si può fare a pezzi e basta anche tradendo il Vangelo come qualcosa di triste o semplicemente spirituale. La Beatrice di Dante non è solo spirituale, è spirito, cioè respiro che solleva, respiro che libera».
Ma la Chiesa sa fare i conti con le donne?
di Marinella Perroni* (l’Unità, 24 settembre 2012)
In molti ormai si irritano a sentir parlare di donne. Accettano che ci siano donne in grado di prendere la parola, basta però che non parlino di donne, perché la parola, come l’intelligenza, non deve avere determinazioni di genere. Per questo ci si compiace se il direttore della Mostra del cinema di Venezia insiste sul fatto che i sette film diretti da donne sono stati scelti perché belli, non per l’appartenenza sessuale delle rispettive registe, e il disagio collettivo cresce tutte le volte che il movimento Se non ora quando? propone, come condizione necessaria, anche se non sufficiente, per rifondare la politica italiana, il criterio del «50 e 50».
Non è questo il luogo per prendere in esame le tante implicazioni della cultura di genere e, soprattutto, per provare a capire i motivi dell’ostinato quanto diffuso rifiuto che ad essa oppone l’opinione pubblica del nostro Paese, in primis la sua classe intellettuale di ogni ordine e grado. Invece, quando si tratta di donne e Chiesa cattolica, la sensibilità si riaccende. Come se la Chiesa cattolica rappresentasse l’unica enclave ideologica ostile alle donne. Come se l’inviata dell’Onu che ha presentato il primo rapporto sul femminicidio e ha definito la situazione italiana «grave e insostenibile» avesse in mente soltanto i parrocchiani cattolici Piaccia o no ammetterlo, l’impedimentum sexus non determina soltanto l’interdizione dal sacerdozio cattolico, ma si insinua in molti modi nel pieghe della vita civile del nostro Paese.
Cultura di genere nella chiesa
Quando, ormai quasi dieci anni fa, alcune teologhe italiane hanno dato vita al Coordinamento teologhe italiane, spinte dall’esigenza di valorizzare e promuovere gli studi di genere in ambito teologico, pensavano non soltanto al panorama ecclesiale, ma anche a quello culturale. La Chiesa cattolica ha infatti un problema molto serio sulla questione della rappresentanza delle donne, ma questo problema si declina in modi profondamente diversi a seconda dei Paesi in cui essa vive come soggetto storico e culturale, oltre che come comunità religiosa. La questione delle donne è questione italiana, non soltanto cattolica.
Nessuna di noi si illude: la categoria di genere è ambivalente e problematica. Impone però di fare i conti con un dato di fatto ormai evidente: le donne ci sono e, quando acquisiscono gli strumenti per diventare soggetti culturali, sportivi, economici, religiosi, politici, sindacali, sono assolutamente capaci di entrare nella trama delle relazioni e delle competizioni pubbliche che configura una società. Soprattutto, vogliono restare donne, ma non vogliono essere come normalmente ci si aspetta che debbano essere. È vero, sulle passerelle della politica, dei media o della società civile dominano ancora figure o figurine di donne prodotte da un immaginario maschile, da dolce stil novo o da orgetta, poco importa: donne che siano come devono essere, non che siano come sono.
Anche il linguaggio di ecclesiastici illuminati riflette ancora il recondito desiderio che le donne si facciano, sì, sempre più presenti nella Chiesa come nella società, ma che debbano essere quelle che loro si aspettano, sensibili e accoglienti, protagoniste, sì, ma con gli abiti confezionati da una cultura patriarcale che è disposta a farsi femminilizzare (leggi: ammorbidire, edulcorare), ma non è disposta a ridiscutere cosa sia il maschile e il femminile, cosa comporti, sul duplice versante dell’interiorità e delle relazioni, la maschilità e la femminilità, cosa voglia dire vivere in una società capace di declinarsi e di organizzarsi a partire dalla differenza di genere.
E fa amaramente sorridere che rifiutino il femminismo e la prospettiva di genere proprio quelli che hanno organizzato il mondo a partire dal criterio dell’esclusione sulla base della differenza dei sessi. Comprese, evidentemente, le chiese cristiane o le altre tradizioni religiose! Emma Fattorini e Liliana Cavani hanno suggerito alla Chiesa cattolica di convocare un «sinodo sulle donne». Molte di noi sperano fortemente, invece, che ciò non avvenga.
Quando, cinquanta anni fa, Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano II sapeva molto bene a cosa andava incontro e lo desiderava ardentemente: che i vescovi di tutto il mondo si confrontassero nella trasparenza e nella libertà, perché fossero «le chiese» a ridisegnare il volto di una Chiesa cattolica capace di rispondere alla chiamata di responsabilità che ad essa veniva dalla storia.
La forza del Concilio è stata proprio questa: vi hanno partecipato tutti i vescovi cattolici, con la chiara consapevolezza di dover dare voce alle loro chiese, e vi hanno anche partecipato rappresentanti di un’ecumene cattolica già esistente oltre che vagheggiata, per non dire che, per la prima volta nella storia, vi hanno preso parte, sia pure tra mille limitazioni e vincoli, perfino alcune donne (23 su 2778 presenti!) che erano figure di rilievo in diversi ambiti della vita della Chiesa.
Rileggere il Vaticano II
Al Vaticano II hanno collaborato, con i loro vescovi, 400 teologi in forza nelle diverse università nazionali. Lo sforzo di mediazione che questo ha richiesto, a tutela della comunione ecclesiale, ha dato la misura della vitalità delle chiese e, al contempo, della loro cattolicità reale, non formale.
Oggi, l’atteggiamento di partenza è molto diverso, nell’episcopato, nelle università teologiche, nelle comunità ecclesiali. Perché oggi non si accetta più di partire dal criterio della realtà, percepita e capita come interpellanza per spingere la fedeltà al vangelo lì dove la rivelazione di Dio nella storia chiede, e la giusta distanza tra verità e realtà è diventata insanabile scissione: quali teologi e soprattutto quali teologhe verrebbero chiamati a partecipare? Quale libertà di parola sentirebbero di poter avere?
Dal 4 al 6 ottobre avrà luogo un convegno organizzato dal Coordinamento teologhe italiane dal titolo «Teologhe rileggono il Vaticano II. Assumere una storia, preparare il futuro» (www.teologhe.org). Vuole essere, evidentemente, un evento ecclesiale tra i tanti previsti per celebrare i 50 anni dall’apertura del Vaticano II. Ma vuole anche lasciar emergere quanto e come, a partire dal Concilio, la soggettualità delle donne è diventata una componente irrinunciabile della vita ecclesiale. Una soggettualità di cui, come teologhe, siamo in grado di prenderci la responsabilità. Domandandoci anche, però, se la Chiesa e la cultura italiane sono altrettanto in grado di fare i conti con questa soggettualità che ci spinge ad essere ciò che siamo e non ciò che le aspettative patriarcali pretendono da noi.
*biblista, presidente del Coordinamento teologhe italiane
IL "PUTTANEGGIAR" DI MILLENNI DELLA "GRANDE MERETRICE" (LA CURIA PAPALE) DENUNCIATO DA DANTE:
"Di voi pastor s’accorse il Vangelista, / quando colei che siede sopra l’acque / puttaneggiar coi regi a lui fu vista; [...] Fatto v’avete dio d’oro e d’argento; [...] Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,/ non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!":
Dante, Inf., XIX, vv 105-7, 112, 115-8.
«E Gesù disse loro: mia moglie...»
Il mistero del papiro ritrovato
di Franca Giansoldati *
ROMA - «Gesù disse loro: mia moglie...» Una coptologa americana, Karen King, docente alla Harvard Divinity School, ha divulgato il risultato di una scoperta basata su un frammento di papiro copto risalente al IV secolo.
Misura appena 3,8 centimetri per 7,6 centimetri ed è la più antica iscrizione che racconta dell’esistenza di una sposa per Cristo, esattamente come sostenevano i primi cristiani secondo i quali Gesù si sarebbe sposato. Chissà. L’annuncio è stato fatto alla Sapienza, nel corso di un convegno internazionale sui copti e ha subito fatto il giro del mondo. La studiosa ha fatto presente ai colleghi che l’antica iscrizione però non prova affatto che Cristo fosse ammogliato, semmai lascia solo aperto uno spiraglio. E non scioglie l’enigma. Insomma, la tradizione cattolica sembra salva.
«All’inizio del cristianesimo i cristiani non si sono mai interessati al fatto che Cristo fosse o meno sposato. Solo un secolo più tardi, molto dopo la morte di Gesù, essi iniziarono a riferire della posizione coniugale di Gesù, e questo per sostenere le loro posizioni». Il frammento del papiro, dunque, rientrerebbe in questa casistica e questo spiegherebbe la frase di Cristo. L’iscrizione, tuttavia, è talmente esplosiva da suggerire un supplemento di studi. Karen King anticipa che bisognerà fare ulteriori verifiche ed esami più approfonditi su altri testi coevi e sulla composizione dell’inchiostro utilizzato per i caratteri in copto.
Con buona pace di tutto il movimento dei preti sposati che da tempo bussa alle porte del Vaticano chiedendo l’abolizione del celibato, il ritrovamento non mette troppo in pericolo la posizione della Chiesa. La dottrina cattolica, insomma, è e resta la stessa. La castità del clero del resto è una regola inserita in numerosi documenti dei primi secoli.
La decretale Directa, del 10 Febbraio 385, inviata da Papa Siriaco al Vescovo Imero, metropolita di Tarragona per esempio («È per legge indissolubile che noi tutti, sacerdoti e diaconi, ci troviamo vincolati, a partire dal giorno della nostra ordinazione, (ed obbligati) a mettere i nostri cuori ed i nostri corpi al servizio della sobrietà e della purezza...».
Poi la decretale Cum in unum, inviata da Papa Siriaco agli episcopati di diverse provincie. Tutti testi che per la Chiesa rivestono una «importanza fondamentale per la storia delle origini del celibato dei chierici». Tuttavia nei primi secoli della Chiesa numerosi chierici o vescovi erano sposati facendo riferimento alla situazione di Pietro e forse di altri Apostoli, probabilmente ammogliati. Ma mai alla situazione di Cristo. Quando Cristo li chiamò alla sua sequela si dice che essi lasciarono «tutto» compresa la propria moglie.
Di sicuro all’infuori del caso di Pietro, non esiste alcuna tradizione generale e costante sulla quale ci si possa basare per affermare con certezza che qualche Apostolo abbia avuto moglie o figli né che fosse viceversa celibe. Esistono solo due eccezioni: l’apostolo Giovanni, che una tradizione quasi unanime riconosce essere stato vergine e l’apostolo Paolo, che la maggioranza dei Padri della Chiesa ritiene non sia mai stato sposato, o, al limite, che fosse vedovo.
Molti studiosi sono concordi nel ritenere che se nei primi secoli vi sono stati numerosissimi vescovi, presbiteri e diaconi sposati e con figli è perché le comunità cristiane dell’epoca, che vivevano intensamente del ricordo degli apostoli e consideravano effettivamente un fatto normale l’ammissione al ministero sacerdotale di uomini sposati, era solo per un omaggio alla santità del matrimonio ed allo stesso tempo alla scelta del Signore che aveva chiamato Pietro e, forse, altri uomini sposati a lasciare tutto per seguirlo. Ma della moglie di Cristo nessuno ha mai parlato.