Un “goj”
di Luigi Pirandello *
Il signor Daniele Catellani, mio amico, bella testa ricciuta e nasuta - capelli e naso di razza - ha un brutto vizio: ride nella gola in un certo modo così irritante, che a molti, tante volte, viene la tentazione di tirargli uno schiaffo.
Tanto più che, subito dopo, approva ciò che state a dirgli. Approva col capo; approva con precipitosi:
Già, già! già, già!
Come se poc’anzi non fossero state le vostre parole a provocargli quella dispettosissima risata.
Naturalmente voi restate irritati e sconcertati. Ma badate che è poi certo che il signor Daniele Catellani farà come voi dite. Non c’è caso che s’opponga a un giudizio, a una proposta, a una considerazione degli altri.
Ma prima ride.
Forse perché, preso alla sprovvista, là, in un suo mondo astratto, così diverso da quello a cui voi d’improvviso lo richiamate, prova quella certa impressione per cui alle volte un cavallo arriccia le froge e nitrisce. Della remissione del signor Daniele Catellani e della sua buona volontà d’accostarsi senz’urti al mondo altrui, ci sono del resto non poche prove, della cui sincerità sarebbe, io credo, indizio di soverchia diffidenza dubitare.
Cominciamo che per non offendere col suo distintivo semitico, troppo apertamente palesato dal suo primo cognome (Levi), l’ha buttato via e ha invece assunto quello di Catellani.
Ma ha fatto anche di più. S’è imparentato con una famiglia cattolica, nera tra le più nere, contraendo un matrimonio cosiddetto misto, vale a dire a condizione che i figliuoli (e ne ha già cinque) fossero come la madre battezzati, e perciò perduti irremissibilmente per la sua fede. Dicono però che quella risata così irritante del mio amico signor Catellani ha la data appunto di questo suo matrimonio misto.
A quanto pare, non per colpa della moglie, però, bravissima signora, molto buona con lui, ma per colpa del suocero, che è il signor Pietro Ambrini, nipote del defunto cardinale Ambrini, e uomo d’intransigentissimi principii clericali.
Come mai, voi dite, il signor Daniele Catellani andò a cacciarsi in una famiglia munita d’un futuro suocero di quella forza? Mah!
Si vede che, concepita l’idea di contrarre un matrimonio misto, volle attuarla senza mezzi termini; e chi sa poi, fors’anche con l’illusione che la scelta stessa della sposa d’una famiglia così notoriamente divota alla santa Chiesa cattolica, dimostrasse a tutti che egli reputava come un accidente involontario, da non doversi tenere in alcun conto, l’esser nato semita.
Lotte acerrime ebbe a sostenere per questo matrimonio. Ma è un fatto che i maggiori stenti che ci avvenga di soffrire nella vita sono sempre quelli che affrontiamo per fabbricarci con le nostre stesse mani la forca. Forse però - almeno a quanto si dice non sarebbe riuscito a impiccarsi il mio amico Catellani, senza l’aiuto non del tutto disinteressato del giovine Millino Ambrini, fratello della signora, fuggito due anni dopo in America per ragioni delicatissime, di cui è meglio non far parola.
Il fatto è che il suocero, cedendo obtorto collo alle nozze, impose alla figlia come condizione imprescindibile di non derogare d’un punto alla sua santa fede e di rispettare col massimo zelo tutti i precetti di essa, senza mai venir meno a nessuna delle pratiche religiose. Pretese inoltre che gli fosse riconosciuto come sacrosanto il diritto di sorvegliare perché precetti e pratiche fossero tutti a uno a uno osservati scrupolosamente, non solo dalla nuova signora Catellani, ma anche e più dai figliuoli che sarebbero nati da lei.
Ancora, dopo nove anni, non ostante la remissione di cui il genero gli ha dato e seguita a dargli le più lampanti prove, il signor Pietro Ambrini non disarma. Freddo, incadaverito e imbellettato, con gli abiti che da anni e anni gli restano sempre nuovi addosso e quel certo odore ambiguo della cipria, che le donne si dànno dopo il bagno, sotto le ascelle e altrove, ha il coraggio d’arricciare il naso, vedendolo passare, come se per le sue nari ultracattoliche il genero non si sia per anche mondato del suo pestilenzialissimo foetor judaicus. Lo so perché spesso ne abbiamo parlato insieme.
Il signor Daniele Catellani ride in quel suo modo nella gola, non tanto perché gli sembri buffa questa vana ostinazione del fiero suocero a vedere in lui per forza un nemico della sua fede, quanto per ciò che avverte in sé da un pezzo a questa parte.
Possibile, via, che in un tempo come il nostro, in un paese come il nostro, debba sul serio esser fatto segno a una persecuzione religiosa uno come lui, sciolto fin dall’infanzia da ogni fede positiva e disposto a rispettar quella degli altri, cinese, indiana, luterana, maomettana?
Eppure, è proprio così. C’è poco da dire: il suocero lo perseguita. Sarà ridicola, ridicolissima, ma una vera e propria persecuzione religiosa, in casa sua, esiste. Sarà da una parte sola e contro un povero inerme, anzi venuto apposta senz’armi per arrendersi; ma una vera e propria guerra religiosa quel benedett’uomo del suocero gliela viene a rinnovare in casa ogni giorno, a tutti i costi, e con animo inflessibilmente e acerrimamente nemico.
Ora, lasciamo andare che - batti oggi e batti domani - a causa della bile che già comincia a muoverglisi dentro, l’homo judaeus prende a poco a poco a rinascere e a ricostituirsi in lui, senza ch’egli per altro voglia riconoscerlo. Lasciamo andare. Ma lo scadere ch’egli fa di giorno in giorno nella considerazione e nel rispetto della gente per tutto quell’eccesso di pratiche religiose della sua famiglia, così deliberatamente ostentato dal suocero, non per sentimento sincero, ma per un dispetto a lui e con l’intenzione manifesta di recare a lui una gratuita offesa, non può non essere avvertito dal mio amico signor Daniele Catellani.
E c’è di più. I figliuoli, quei poveri bambini così vessati dal nonno, cominciano anch’essi ad avvertir confusamente che la cagione di quella vessazione continua che il nonno infligge loro, dov’essere in lui, nel loro papà. Non sanno quale, ma in lui dov’essere di certo. Il buon Dio, il buon Gesù - (ecco, il buon Gesù specialmente!) - ma anche i Santi, oggi questo e domani quel Santo, ch’essi vanno a pregare in chiesa col nonno ogni giorno, è chiaro ormai che hanno bisogno di tutte quelle loro preghiere, perché lui, il papà, deve aver fatto loro, di certo, chi sa che grosso male! Al buon Gesù, specialmente!
E prima d’andare in chiesa, tirati per mano, si voltano, poveri piccini, ad allungargli certi sguardi così densi di perplessa angoscia e di dogliosa rimprovero, che il mio amico signor Daniele Catellani si metterebbe a urlare chi sa quali imprecazioni, se invece... se invece non preferisse buttare indietro la testa ricciuta e nasuta e prorompere in quella sua solita risata nella gola.
Ma sì, via! Dovrebbe ammettere altrimenti sul serio d’aver commesso un’inutile vigliaccheria a voltar le spalle alla fede dei suoi padri, a rinnegare nei suoi figliuoli il suo popolo eletto: ’am olam, come dice il signor Rabbino. E dovrebbe sul serio sentirsi in mezzo alla sua famiglia un goj, uno straniero; e sul serio infine prendere per il petto questo suo signor suocero cristianissimo e imbecille, e costringerlo ad aprir bene gli occhi e a considerare che, via, non è lecito persistere a vedere nel suo genero un deicida, quando in nome di questo Dio ucciso duemil’anni fa dagli ebrei, i cristiani che dovrebbero sentirsi in Cristo tutti quanti fratelli, per cinque anni si sono scannati tra loro allegramente in una guerra che, senza pregiudizio di quelle che verranno, non aveva avuto finora l’eguale nella storia.
No, no, via! Ridere, ridere. Son cose da pensare e da dir sul serio al giorno d’oggi?
Il mio amico signor Daniele Catellani sa bene come va il mondo. Gesù, sissignori. Tutti fratelli. Per poi scannarsi tra loro. E naturale. E tutto a fil di logica, con la ragione che sta da ogni parte: per modo che a mettersi di qua non si può fare a meno d’approvare ciò che s’è negato stando di là.
Approvare, approvare, approvar sempre. Magari, sì, farci sì prima, colti alla sprovvista, una bella risata. Ma poi approvare, approvar sempre, approvar tutto. Anche la guerra, sissignori.
Però (Dio, che risata interminabile, quella volta!) però, ecco, il signor Daniele Catellani volle fare, l’ultimo anno della grande guerra europea, uno scherzo al suo signor suocero Pietro Ambrini, uno scherzo di quelli che non si dimenticano più.
Perché bisogna sapere che, nonostante gran carneficina, con una magnifica faccia tosta il signor Pietro Ambrini, quell’anno, aveva pensato di festeggiare, per i cari nipotini, la ricorrenza del Santo Natale più pomposamente che mai. E s’era fatti fabbricare tanti e tanti pastorelli di terracotta: i pastorelli che portano le loro umili offerte alla grotta di Bethlehem, al Bambinello Gesù appena nato: fiscelle di candida ricotta panieri d’uova e cacio raviggiolo, e anche tanti Franchetti di Soffici pecorelle e somarelli carichi anch’essi d’altre più ricche offerte, seguiti da vecchi massari e da campieri. E sui cammelli, ammantati, incoronati e solenni, i tre re Magi, che vengono col loro seguito da lontano lontano dietro alla stella cometa che s’è fermata su la grotta di sughero, dove su un po’ di paglia vera è il roseo Bambinello di cera tra Maria e San Giuseppe; e San Giuseppe ha in mano il bàcolo fiorito, e dietro sono il bue e l’asinello.
Aveva voluto che fosse ben grande il presepe quell’anno, il caro nonno, e tutto bello in rilievo, con poggi e dirupi, agavi e palme, e sentieri di campagna per cui si dovevano veder venire tutti quei pastorelli ch’eran perciò di varie dimensioni, coi loro branchetti di pecorelle e gli asinelli e i re Magi.
Ci aveva lavorato di nascosto per più d’un mese, con l’aiuto di due manovali che avevan levato il palco in una stanza per sostener la plastica. E aveva voluto che fosse illuminato da lampadine azzurre in ghirlanda; e che venissero dalla Sabina, la notte di Natale, due zampognari a sonar l’acciarino e le ciaramelle. I nipotini non ne dovevano saper nulla.
A Natale, rientrando tutti imbacuccati e infreddoliti dalla messa notturna, avrebbero trovato in casa quella gran sorpresa: il suono delle ciaramelle, l’odore dell’incenso e della mirra, e il presepe là, come un sogno, illuminato da tutte quelle lampadine azzurre in ghirlanda. E tutti i casigliani sarebbero venuti a vedere, insieme coi parenti e gli amici invitati al cenone, questa gran maraviglia ch’era costata a nonno Pietro tante cure e tanti quattrini.
Il signor Daniele lo aveva veduto per casa tutto assorto in queste misteriose faccende, e aveva riso; aveva sentito le martellate dei due manovali che piantavano il palco di là, e aveva riso.
Il demonio, che gli s’è domiciliato da tanti anni nella gola, quell’anno, per Natale, non gli aveva voluto dar più requie: giù risate e risate senza fine. Invano, alzando le mani, gli aveva fatto cenno di calmarsi; invano lo avena ammonito di non esagerare, di non eccedere. - Non esagereremo, no! - gli aveva risposto dentro il demonio. - Sta’ pur sicuro che non eccederemo. Codesti pastorelli con le fiscelline di ricotta e i panierini d’uova e il cacio raviggiolo sono un caro scherzo, chi lo può negare? così in cammino tutti verso la grotta di Bethlehem! Ebbene, resteremo nello scherzo anche noi, non dubitare! Sarà uno scherzo anche il nostro, e non meno carino. Vedrai.
Così il signor Daniele s’era lasciato tentare dal suo demonio; vinto sopra tutto da questa capziosa considerazione: che cioè sarebbe restato nello scherzo anche lui.
Venuta la notte di Natale, appena il signor Pietro Ambrini con la figlia e i nipotini e tutta la servitù si recarono in chiesa per la messa di mezzanotte, il signor Daniele Catellani entrò tutto fremente d’una gioia quasi pazzesca nella stanza del presepe: tolse via in fretta e furia i re Magi e i cammelli, le pecorelle e i somarelli, i pastorelli del cacio raviggiolo e dei panieri d’uova e delle fiscelle di ricotta - personaggi e offerte al buon Gesù, che il suo demonio non aveva stimato convenienti al Natale d’un anno di guerra come quello - e al loro posto mise più propriamente, che cosa? niente, altri giocattoli: soldatini di stagno, ma tanti, ma tanti, eserciti di soldatini di stagno, d’ogni nazione, francesi e tedeschi, italiani e austriaci, russi e inglesi, serbi e rumeni, bulgari e turchi, belgi e americani e ungheresi e montenegrini, tutti coi fucili spianati contro la grotta di Bethlehem, e poi, e poi tanti cannoncini di piombo, intere batterie, d’ogni foggia, d’ogni dimensione, puntati anch’essi di sé, di giù, da ogni parte, tutti contro la grotta di Bethlehem, i quali avrebbero fatto veramente un nuovo e graziosissimo spettacolo.
Poi si nascose dietro il presepe.
Lascio immaginare a voi come rise là dietro, quando, alla fine della messa notturna, vennero incontro alla meravigliosa sorpresa il nonno Pietro coi nipotini e la figlia e tutta la folla degli invitati, mentre già l’incenso fumava e i zampognari davano fiato alle loro ciaramelle.
* LUIGI PIRANDELLO, UN «GOJ», Novelle per un anno, Mondadori.
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
"Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio"(dichiarazione del Cardinale Dario Castrillon Hoyos alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio, la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35)
MESSAGGIO EV-ANGELICO E SANTO PADRE?! ABUSO DEL TITOLO E MENZOGNA. L’ERRORE DI RATZINGER.
L’EU-ANGELO E’ LA PAROLA DELLA PACE E PER LA PACE ... NON PER LA GUERRA E LE CROCIATE!!!
FLS
IL BLOG
Galeotto fu il Natale e chi lo scrisse
Non è epurando i vocabolari che si migliorano le cose, caso mai è integrandoli
di Paolo Borzacchiello (HuffingtonPost, 03/12/2021)
Giorni di fuoco, questi che precedono il Natale: la Commissione Europea, ispirata all’idea virtuosa di promuovere l’utilizzo di un linguaggio che eviti discriminazioni di qualsiasi sorta, in un documento ufficiale invita a evitare l’utilizzo di alcune frasi e parole, fra le quali, per l’appunto, “Natale”.
Apriti cielo: bufere a destra e a manca (soprattutto a destra, in effetti) e Commissione che fa un passo indietro, dicendo che “gli esempi potevano essere migliori”. Il che è un pacato eufemismo. La commissione, per esempio, sconsiglia di utilizzare nomi che possano in qualche modo rimandare a tradizioni religiose tipiche: la frase ‘Maria e John sono una coppia internazionale’ andrebbe sostituita ‘Malika e Giulio sono una coppia internazionale’.
Nessuna indicazione, invece, su nomi come Muhammad: a quanto pare, solo chi si chiama Maria dovrebbe cambiare il proprio nome, per non offendere nessuno. E se state pensando ai vostri parenti anziani che a Natale potrebbero sentirsi soli, rischiate di essere in errore: secondo il documento, ora ritirato, non li potete chiamare “anziani” (più maturi, semmai) e non potete dire nemmeno Natale (giorno di festa, semmai).
Ovviamente, quindi, bufera, soprattutto da destra. Del resto, confesso (confesso si può dire?), se io mi chiamassi Maria e leggessi una circolare del genere, qualche pensiero poco natalizio verrebbe probabilmente pure a me e, anzi, aspetto con trepidazione il giorno in cui mi diranno che, visto che mi chiamo Paolo, come il celebre fondatore della Chiesa Cattolica, sarebbe meglio se mi chiamassi Astolfo, nome che non dovrebbe offendere nessuno.
Ora, facciamo finta per un attimo che chi scrive questi documenti sia realmente animato dalle migliori intenzioni e non scriva cose a caso, acciecato da un sacro fervore (ho scritto “sacro”, che i laici mi perdonino se li ho offesi): se così fosse, prima di metter mano alla penna, dovrebbe leggersi almeno un paio di libri che parlano di linguistica cognitiva, partendo da quel Lakoff tanto amato dai democratici americani che con un lapalissiano “evocare un frame lo rinforza, negare un frame lo rinforza” ci spiega tutto quel che c’è da sapere al riguardo.
Ovvero: posizionarsi contro un determinato concetto ne rinforza la pregnanza. Ogni volta che vi schierate “contro” qualcosa, cioè, ne rinforzate l’esistenza. Nel caso di specie, dire che si dovrebbe evitare di usare la parola “Natale” porta inevitabilmente e prevedibilmente a una serie di reazioni ostili, che spaziano dal salviniano “Viva il Natale” al meloniano “la nostra identità non si tocca” fino al diffuso “e allora proibiamo di usare Ramadan e offendiamoci se a Istanbul costringono le donne a mettere il velo prima di entrare in una moschea”.
Non è epurando i vocabolari che si migliorano le cose, casomai è integrandoli. Proibire parole come “marito” e “moglie” non è inclusivo, perché esclude chi “marito” o “moglie” lo è e ci si sente. Entriamo in un campo pericoloso e, infatti, i risultati sono sotto gli occhi di tutti: battaglie per utilizzare il maschile e il femminile, battaglie per non usarli, battaglie per qualsiasi parola.
La lingua si evolve, e deve farlo, per rispondere alle mutate esigenze della società nel suo complesso e per soddisfare le legittime istanze da chi si sente in qualche modo escluso: anzi, cambiare modo di parlare determina nel cervello un cambiamento di percezione e ne plasma il funzionamento e questo è un gran bene, se sappiamo come funzionano le cose. Se, appunto, sappiamo come funzionano le cose, altrimenti non si fa altro che alimentare chi strumentalizza le parole per farne una battaglia politica o raccattare qualche voto in più.
La commissaria Ue all’Uguaglianza Helena Dalli, supervisor delle indicazioni per la comunicazione esterna e interna dell’Ue, ha dunque fatto un pasticcio, e di quelli grossi. Quando dice che il testo pubblicato “non è un documento maturo e non va incontro ai nostri standard qualitativi. Quindi lo ritiro e lavoreremo ancora su questo documento”, dichiara di aver approvato un testo di basso standard e di non aver dedicato abbastanza tempo a riflettere sulla portata di quel che ha pubblicato, il che mi porta a pensare a quale competenza abbia una persona che faccia una dichiarazione del genere.
“Ognuno in Ue ha il diritto di essere trattato in maniera eguale” senza riferimenti di “genere, etnia, razza, religione, disabilità e orientamento sessuale”, dice ancora Dalli. E sono parole da sposare in pieno, ma che almeno chi le scrive si legga qualcosa al riguardo. Parlare di “Natale”, infatti, in nessun modo implica “trattare qualcuno in maniera diversa”. Trattare qualcuno in maniera diversa a causa delle sue credenze religiose significherebbe, ad esempio, costringerlo ad andare a Messa, o a festeggiare qualcosa in cui non crede. Non è così e se così fosse saremmo tutti in piazza per evitare il perpetrarsi di questa ingiustizia.
La questione, qui, è che stiamo percorrendo un momento in cui, applicando all’estremo i ragionamenti della Commissione, chiunque si potrebbe offendere per qualsiasi cosa e arriveremo a un punto in cui la neolingua di Orwell non sarà più fantascienza, e allora dovremo metterci le mani nei capelli. Anzi no, che magari i calvi poi si offendono.
Come San Giuseppe /1.
«Abbiamo avuto quasi 80 figli. La paternità? Dare un legame»
L’incontro con figure di padri putativi, esempi di accoglienza e responsabilità
di Lucia Bellaspiga (Avvenire, sabato 31 luglio 2021)
La paternità ha un preciso inizio, che non corrisponde con la nascita di un figlio. «La paternità comincia nel momento stesso in cui abbiamo scelto di essere marito e moglie. Da credenti, quello che abbiamo chiesto nel giorno in cui ci siamo sposati è di avere la grazia di vivere una paternità, e quindi anche una maternità, aperta alle persone che una famiglia non ce l’hanno». Così nella casa di Giancarlo Violetto, 57 anni, marito di Marina, di "persone" ne sono passate quasi 80 dal 1992, l’anno in cui «davanti al prete il sì non lo abbiamo detto uno all’altra, ma a una terza persona che si chiama Cristo. Questa è stata la scelta che abbiamo fatto insieme. Da cui poi sono venute tutte le altre».
Si respira aria di grande normalità in casa Violetto, campagna veneta a due passi da Cittadella, una delle case-famiglia della "Comunità Papa Giovanni XXIII" fondata da don Oreste Benzi. Si studia e si lavora, si ride e si fatica, si fanno torte e si litiga esattamente come in ogni famiglia. Solo che le stanze sono tante e nel via vai di figli è sempre difficile, per chi viene da fuori, capire quale è "di pancia" e quale "di cuore", che nell’alfabeto familiare significa nato da loro o arrivato in affido. Così nel 1993, a un anno dal matrimonio, è nato Flavio, il loro primogenito, ma subito dopo «hanno cominciato ad arrivare gli altri figli», racconta Giancarlo, di professione giardiniere. Già la tempistica non è scontata, «ma da subito avevamo impostato la nostra famiglia in tal senso: "prima ci sono le persone, poi tutto il resto". Questo si traduce in scelte concrete, Marina è rimasta a casa dal lavoro, poi invece l’ho fatto io quando sono arrivati figli che richiedevano assistenza 24 ore e la notte la reggevo meglio io».
Soprattutto è arrivata Mariangela, 14 anni fa, una bimba abortita al quinto mese di gravidanza ma poi sopravvissuta all’aborto e nuovamente rifiutata dai genitori biologici («non se la sentivano di accoglierla», detto nella lingua mai giudicante dei Violetto). È stata lei a chiedere un passo in più alla paternità di Giancarlo: «Mariangela è stata il nostro lockdown», sorride il padre, «non si va in cima agli alberi con la motosega dopo notti insonni, così sono rimasto a casa. Altra scelta non scontata, certo, ma che ha seguìto la scelta di fondo detta sopra: la paternità responsabile pretende che tu metta prima le persone e poi tutto il resto». Un lockdown duro, quello imposto da Mariangela, perché «ti costringe a fermarti, stando di fronte a te stesso. L’essere umano corre, corre per non pensare alla vita e alle paure apparentemente insormontabili, ma i figli come Mariangela ti bloccano al loro capezzale e allora devi fare verità dentro di te. Questi piccoli non ti danno soluzioni, pur senza parlare ti pongono le giuste domande, funziona come con la fede, che non dà soluzione altrimenti non sarebbe fede».
Che sia un’accoglienza "estrema" come quella di Mariangela (morta nel 2011 dopo 5 anni di zero parole e grandi sorrisi) o di Maria (salita al Cielo cinque mesi fa dopo 7 anni anche lei di silenzi e abbracci), o che invece sia un affido più "leggero", la paternità aperta all’accoglienza richiede una decisione complicata, essere disposto a cambiare. «Ogni persona che arriva in famiglia ti richiede un cambiamento, anche quando sono figli tuoi», precisa Giancarlo, «e questo cambiamento sta alla base di qualcosa che si chiama conversione. Non è un moto che parte da noi, altrimenti non riusciremmo a scalzare le sicurezze che ci siamo costruiti attorno, il cambiamento arriva da loro. Per me è stata una grazia essere padre di tante persone, proprio a cominciare da quelle che il mondo ritiene scarti, che sono lì e non ti parlano, ma ti costringono a starci e a meditare sul senso della vita». Anche socialmente non è semplice, specie nel mondo attuale, «c’è la reputazione», sorride ancora Violetto, e allora «quando la maestra a scuola ha chiesto a Matteo che mestiere faccio e lui ha risposto "il padre di casa-famiglia", era un po’ come dire disoccupato, di fronte al mondo non è un lavoro. Così ora sui social mi diverto e scrivo casalingo».
Un ulteriore passaggio arduo nella "paternità responsabile", anche perché - e rispetto al resto è un dettaglio - «noi della Comunità non siamo retribuiti, non mettiamo via i contributi e non ci sarà garantita una pensione. Non reggerebbe il bilancio della Papa Giovanni se i fondi andassero a noi anziché a migliaia di persone che accogliamo». E allora? «E allora esiste una cosa che chiamiamo Provvidenza e alla quale pensiamo di affidarci, oltre al fatto che se siamo Comunità non saremo mai soli». Già, ma come la vivono i suoi figli naturali (dopo Flavio sono nati Sofia e Matteo) una paternità così diversa? È questo il modello che propone loro? «Certo, altrimenti resta solo il famoso esempio che un padre deve dare. L’esempio non basta, molto prima occorre dare una motivazione per la quale valga la pena vivere da onesti, poi la scelta sarà loro». L’esempio del tipo «guarda tuo padre com’è bravo, devi fare come lui» non rende se dietro non c’è molto di più, perché - analizza realisticamente Giancarlo - il mondo dimostra che il giusto resta ai margini e il furbo ha successo. «Se non do a mio figlio niente cui aggrapparsi e dire "sì, nonostante tutto vale la pena", non funziona. Credo che il ruolo paterno vada proprio in questa direzione».
In casa-famiglia sono arrivati neonati e anziani, si chiama accoglienza di multiutenza. La persona più piccola è arrivata direttamente dalle braccia della madre che l’aveva appena partorita, la più anziana aveva 96 anni ed è stata la nonna di famiglia. Orfani o abbandonati, sfruttati o scartati, ragazzine madri in fuga con il loro bambino, «ciò che chiedono è sempre accudimento. Questo ti dicono, anche senza parlare: io sto male perché non appartengo a nessuno». Paternità, dunque, è anche attribuire un’appartenenza, un legame senza il quale nessun adolescente fa lo scatto per realizzare la propria persona. È proprio questo che distingue l’istituto dalla casa-famiglia, «la differenza tra addestramento e attaccamento, che è relazione profonda». Tra mille fallimenti, difetti e difficoltà, sia chiaro: qui non ci sono santi ma persone che faticano. «Questi figli di solito appena arrivano sono bravissimi, splendidi - precisa - ma stanno recitando. Dopo un mese le dinamiche familiari tirano giù tutte le maschere ed è allora che ti mettono alla prova, e questo è un loro diritto: vuoi farmi da padre?, allora vediamo se sei in grado».
Ma in questa lunga esperienza, i ruoli paterno e materno sono interscambiabili o hanno una loro specificità? «La paternità e la maternità esistono in entrambe le figure», ovvero una madre porta in sé anche una parte di paternità e idem fa un padre, «detto questo, però, c’è una diversità che è palese e una complementarietà che è necessaria». L’equivoco corrente è che la paternità sia una maternità col pugno di ferro, «niente di più sbagliato - commenta - semmai la maternità (non solo della madre) sviluppa protezione, la paternità (non solo del padre) tende alla crescita... che poi è il dilemma dell’assenza del padre nella società di oggi». Automatico chiedersi se la sua paternità sia diversa tra i tre figli naturali e quelli accolti. «Io posso dire che tutti quelli passati di qua li ho sentiti miei figli esattamente come gli altri tre, ma questo non è automatico, è frutto di un duro lavoro. Quando arrivano non sai chi sono, non li conosci... come del resto avviene con quelli che ti nascono: quante volte ci vogliono anni per capirsi?». Il caso più duro è stato quello di un ragazzino arrivato a 10 anni e con una grave patologia psichiatrica, «ci ha messi molto alla prova e io credo di averlo sentito figlio una decina di anni dopo: eravamo a Messa e al segno della pace mi ha guardato negli occhi, per uno come lui non è un gesto da poco. Essere padre significa precisamente entrare in relazione, che siano tuoi o no».
Pare un paradosso feroce, ma con tanti figli accolti malati gravi, il loro primogenito Flavio, bello e sano, tre anni fa è morto a causa di un drammatico incidente volando in parapendio. Ha vacillato la sua paternità quel giorno? Ha urlato contro il cielo? «Anzi, si è rafforzata - risponde Giancarlo accanto a Marina - sono i momenti in cui davanti agli altri figli se sei padre devi farti avanti, e allora fai appello a qualcosa che va oltre l’umano, quel qualcosa cui ti sei sempre aggrappato per dire ne vale la pena... Cercare la comunione con l’altro Padre è stato inevitabile».
(1-continua)
Nota della Presidenza CEI sul Ddl Zan.
Troppi i dubbi: serve un dialogo aperto e non pregiudiziale *
La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana, riunitasi lunedì 26 aprile, coerentemente a quanto già espresso nel comunicato del 10 giugno 2020, nel quadro della visione cristiana della persona umana, ribadisce il sostegno a ogni sforzo teso al riconoscimento dell’originalità di ogni essere umano e del primato della sua coscienza. Tuttavia, una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza, mettendo in questione la realtà della differenza tra uomo e donna.
In questi mesi sono affiorati diversi dubbi sul testo del ddl Zan in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere, condivisi da persone di diversi orizzonti politici e culturali. È necessario che un testo così importante cresca con il dialogo e non sia uno strumento che fornisca ambiguità interpretative.
L’atteggiamento che è stato di Gesù Buon Pastore ci impegna a raggiungere ogni persona, in qualunque situazione esistenziale si trovi, in particolare chi sperimenta l’emarginazione culturale e sociale.
Il pensiero va in particolare ai nostri fratelli e sorelle, alle nostre figlie e ai nostri figli, che sappiamo esposti anche in questo tempo a discriminazioni e violenze.
Con Papa Francesco desideriamo ribadire che «ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare ogni marchio di ingiusta discriminazione e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza» (Amoris Laetitia, 250).
Alla luce di tutto questo sentiamo il dovere di riaffermare serenamente la singolarità e l’unicità della famiglia, costituita dall’unione dell’uomo e della donna, e riconosciamo anche di doverci lasciar guidare ancora dalla Sacra Scrittura, dalle Scienze umane e dalla vita concreta di ogni persona per discernere sempre meglio la volontà di Dio.
Auspichiamo quindi che si possa sviluppare nelle sedi proprie un dialogo aperto e non pregiudiziale, in cui anche la voce dei cattolici italiani possa contribuire alla edificazione di una società più giusta e solidale.
La Presidenza della CEI
28 Aprile 2021
* Fonte: Chiesa Cattolica Italiana
Omofobia.
In Spagna arcivescovo indagato per una frase. Caso che fa riflettere
Il rischio è di introdurre nel nostro ordinamento il cosiddetto "reato di opinione", anche chi afferma verità affermate dalla Chiesa cattolica da sempre
di Marcello Palmieri (Avvenire, mercoledì 10 giugno 2020)
La cosiddetta Legge Mancino, recepita negli articoli 604 bis e 604 ter del codice penale, punisce «con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».
Non solo. Lo stesso testo normativo istituisce la pena della «reclusione da sei mesi a quattro anni» per «chi in qualsiasi modo incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi». Sono ben precise e tassative - come d’altronde impone il diritto penale - le fattispecie punite, in quanto i concetti di discriminazione o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi risultano pacificamente chiari alla stragrande maggioranza dei cittadini.
Lo stesso non può dirsi per le fattispecie che vorrebbero essere incluse in questa legge: locuzioni come "identità di genere" e "orientamento sessuale" - contenuti nei testi in discussione presso la commissione Giustizia della Camera - rimandano a concetti tutt’altro che definiti, sui quali anche la comunità scientifica non si è ancora pronunciata in modo univoco. E il rischio, qualora queste proposte diventassero legge, sarebbe quello di introdurre nel nostro ordinamento il cosiddetto "reato di opinione", per la cui commissione basterebbe riferire un pensiero personale.
Né più né meno di quanto successo nel 2014 all’arcivescovo di Malaga (Spagna), indagato penalmente per aver affermato che la sessualità è destinata alla procreazione, evidentemente impossibile all’interno di una coppia omosessuale: una situazione, insomma, che si porrebbe in evidente contrasto il diritto alla libertà di pensiero sancita dalla nostra Costituzione. Affermare questo, tuttavia, non significa voler negare una doverosa tutela a quelle persone che, per via delle loro tendenze omo, si trovassero oggetto di qualsiasi tipo di violenza.
Già ora, infatti, il nostro ordinamento punisce penalmente chi uccide una persona, oppure la percuote, la diffama, la riduce o la mantiene in schiavitù, la sequestra, la violenta, la minaccia, la obbliga a fare o non fare una cosa, oppure ancora la rende vittima di stalking. Anche in questo caso, si tratta fatti (odiosi e delittuosi) ben chiari. Non di (liberi) pensieri, per di più su concetti tutt’altro che condivisi.
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
Albero di Jesse *
L’albero di Jesse (o Iesse) è un motivo frequente nell’arte cristiana tra l’XI e il XV secolo: rappresenta una schematizzazione dell’albero genealogico di Gesù a partire da Jesse, padre del re Davide, il quale è di particolare importanza nelle tre religioni abramitiche, l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam.
Origine
Il tema iconografico trae spunto da un famoso annuncio messianico contenuto nel capitolo 11 del libro del profeta Isaia (11,1.10) [1] da cui ha origine il suo nome greco [2]. Gli artisti combinarono la frase con la genealogia di Gesù come appare nel vangelo secondo Matteo [3] o secondo il Vangelo di Luca (3, 23-38)[4], genealogie che tuttavia presentano vistose differenze.
La più antica rappresentazione conosciuta dell’albero di Jesse è datata 1086, e compare nel Codice Vissegradesi, vangelo dell’incoronazione di Vratislao II di Boemia[5].
Iconografia
Jesse viene solitamente rappresentato coricato, semi-coricato o nell’iconografia meno antica seduto[6][7]. Nell’arte romanica, solitamente, egli è rappresentato coricato all’aperto mentre in quella gotica appare più spesso dentro ad un letto riccamente adornato, come nelle vetrate della chiesa di Saint-Étienne a Beauvais che datano al 1520.
Spesso Jesse appare addormentato, la testa appoggiata su una mano. Questa posizione è, a volte, associata ad un sogno profetico concernente la discendenza del dormiente. Dal suo fianco o dal suo ventre o anche dal dorso[7] o più raramente dalla sua bocca, s’innalza un albero i cui rami sorreggono gli antenati di Gesù, in particolare Davide riconoscibile per la sua arpa, fino a Maria. Le vetrate della cattedrale di Chartres rappresentano, dal basso in alto Davide, Salomone, Roboamo, Abias ed infine Maria. Ogni artista, a seconda del testo che ha utilizzato, del proprio gusto e dello spazio che ha a disposizione, aggiunge altri personaggi dell’Antico Testamento, spesso i profeti che gli esegeti del Medioevo pensavano avessero annunciato la venuta di Cristo (sono quattordici sulle vetrate di Chartres). Alla sommità si trova Gesù, a volte in croce, a volte bambino, sulle ginocchia della madre.
Nel XIII secolo, l’albero si sviluppa verticalmente, ed è solo nel XV che comincia a ramificarsi lateralmente[6]. Ancora presente nell’iconografia cristiana del XV sec., il motivo declina nel XVI per scomparire con la Controriforma[6].
Esistono naturalmente anche altre forme di rappresentazione della genealogia di Gesù, che non utilizzano l’albero di Jesse, il più famoso è quello dipinto nelle lunette della Cappella Sistina da Michelangelo tratto dal Vangelo secondo Matteo[8].
I supporti
L’albero di Jesse è stato un motivo popolare in tutte le arti: si trovano esempi nei manoscritti miniati, le stampe, le vetrate, la scultura monumentale, gli affreschi, le tappezzerie o nei ricami[6].
Manoscritti
Il motivo appare in parecchie bibbie romane, ad esempio nella Bibbia di Lambeth, sotto forma di una B maiuscola decorata all’inizio del Libro di Isaia o del vangelo di Matteo. La bibbia di San Benigno, del XII secolo, una delle più antiche che ci sono pervenute, mostra Jesse e le sette colombe rappresentanti i sette doni dello Spirito Santo[9]. La bibbia dei Cappuccini (ultimo quarto del XII sec.) conservata nella Bibliothèque nationale de France ne è un altro esempio, l’albero di Jessi decora la L maiuscula del Liber generationis nel vangelo di Matteo[10].
Poiché il re Davide era considerato l’autore dei Salmi, i salteri erano sovente illustrati con un albero di Jesse, soprattutto i manoscritti inglesi, dove l’albero di Jesse s’arrotola attorno alla B maiuscola del testo latino Beatus Vir all’inizio del primo salmo. Uno dei primi esempi è il salterio di Huntingfield, della fine del XII secolo. La British Library possiede un bellissimo salterio del XIV sec., detto di Gorleston. In questi due esemplari Jesse è allungato ai piedi della lettera B. Si potrebbero citare ancora il salterio di Macclesfield (Fitzmuseum, Cambridge) ed il Salterio e le Ore del duca di Bedford [11].
Alcuni manoscritti consacrano una pagina intera al motivo, aggiungendovi personaggi, per esempio la sacerdotessa di Apollo Sibilla Cumana del salterio d’Ingeburg (inizio del XII sec.). Presso Colonia, in un lezionario di prima del 1164 si descrive un Jesse insolito, morto in una tomba o bara, da cui l’albero cresce[12].
Una prestigiosa rappresentazione dell’Albero di Jesse si trova nella cappella Roano (voluta dall’Arcivescovo Giovanni Roano), detta cappella del Crocifisso, sita all’interno del Duomo di Monreale in Sicilia.
Evoluzione
L’albero di Jesse, contaminato dalla popolarità del tema della parentela santa si modifica fino a diventare, a partire dal X secolo, il modello da cui deriveranno le successive rappresentazioni degli alberi genealogici[13] e in particolare per sintetizzare figurativamente la genealogia delle famiglie reali[14].
Per Tilde Giani Gallino l’albero di Jesse dell’abbazia di Saint-Denis rappresenta, dissimulato, un fallo di dimensioni sproporzionate. Questa rappresentazione è risultato dell’inconscia compensazione del suo ideatore, l’abate Sugerio, che - sfavorito dalla natura, causa imbecille corpusculum - proiettò, tramite quello che per lui era simbolo di forza e autorità, la sua «volontà di potenza».[15][16]
L’immagine dell’albero che nasce direttamente dal fianco di Jesse, affermatasi nei secoli XI-XII, ha una sconcertante analogia con la scena in cui si vede Brahmā seduto su un loto che esce dal ventre di Viṣṇu, secondo i testi sacri Veda. Nell’arte romanica i personaggi sono collocati direttamente sui rami e non nei calici dei fiori come avverrà dopo un paio di secoli, analogamente a quanto rappresentato nelle sculture buddhiste in Birmania, Cambogia, Cina ed altre parti dell’Estremo Oriente. Queste immagini si ritrovano a Worms, Issoudun (cappella dell’Ospedale), Rouen (cattedrale), Sens (cattedrale).[17]
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale, senza immagini e senza note).
L’iniziativa.
Il 19 marzo al via l’Anno della famiglia. «Uniti da San Giuseppe»
Sedici congregazioni religiose danno vita a un Comitato per iniziative comuni. Primo appuntamento un triduo online in preparazione alla festa del 19 marzo
di Enrico Lenzi (Avvenire, domenica 14 marzo 2021)
Sedici congregazioni tra maschili e femminili, diverse per storia, carisma, luogo di nascita e diffusione, ma unite dal riconoscere in san Giuseppe il proprio patrono o il santo ispiratore dell’azione della famiglia religiosa. È uno dei frutti del lavoro che già da qualche anno tre di queste famiglie religiose (i Giuseppini del Murialdo, gli Oblati di san Giuseppe e la Federazione italiana suore di san Giuseppe) stanno compiendo per diffondere non tanto la devozione, quanto la conoscenza dell’opera e del ruolo del Custode del Redentore.
Complice anche l’Anno di san Giuseppe indetto lo scorso 8 dicembre da papa Francesco, il nucleo iniziale di questa collaborazione ha deciso di invitare anche le altre famiglie religiose che pongono san Giuseppe all’interno del proprio carisma. Nasce così il Comitato San Giuseppe, che «in questo anno ha deciso di dare vita a un calendario di incontri e iniziative - spiega uno dei coordinatori, padre Luigi Testa, Oblato di san Giuseppe, congregazione nata ad Asti nel 1878 grazie a san Giuseppe Marello -, alla luce della Lettera apostolica «Patris corde» che papa Francesco ha diffuso proprio l’8 dicembre 2020 a 150 anni dalla proclamazione di san Giuseppe a patrono della Chiesa universale ».
E proprio da quel documento papale sono tratte le riflessioni che caratterizzeranno il triduo in preparazione alla memoria liturgica di san Giuseppe (19 marzo), che si svolgerà online sul canale YouTube denominato «Comitato San Giuseppe» il 16, 17 e 18 marzo prossimi alle 15.
A quell’ora, infatti, sarà possibile seguire le riflessioni che tre religiosi e tre religiose, alternandosi, faranno prendendo ciascuno un aspetto della Patris corde.
Si inizia il 16 marzo con un collegamento dalla Basilica di san Giuseppe al Trionfale a Roma in cui si rifletterà sull’aspetto del «padre nella tenerezza» e in quello «nell’obbedienza».
Il giorno successivo, dal Santuario San Giuseppe a San Giuseppe Vesuviano (Napoli) si rifletterà sul Custode del Redentore come «padre nell’accoglienza » e «padre del coraggio creativo».
Infine il 18, dal Santuario San Giuseppe ad Asti, si affronterà la figura come «padre lavoratore » e «padre nell’ombra».
Ma il triduo «è l’appuntamento più ravvicinato del programma che stiamo elaborando insieme - spiega padre Testa -. Il 29 aprile abbiamo una iniziativa che coinvolgerà le scuole superiori. Si intitola “Nel laboratorio di Giuseppe. I giovani e il lavoro tra paura e speranza”, a cui è legato anche un concorso («Domani è un’altra impresa») che assegnerà alcune borse di studio». L’evento sarà in streaming e avrà come sede principale il Collegio Artigianelli di Torino dei Giuseppini del Murialdo e vi saranno collegamenti con Roma e Lucera.
Già fissato anche l’evento che si lega alla conclusione dell’Anno di San Giuseppe: sarà a Roma dal 6 all’8 dicembre. «Stiamo studiando programma, relatori e modalità di realizzazione - aggiunge padre Testa -, ma intendiamo viverlo non come momento finale di un percorso, bensì come occasione per rilanciare l’attività di conoscenza e di studio anche teologico sulla figura di san Giuseppe». Insomma «ci domanderemo come continuare il percorso anche dopo il 2021».
Scheda:
Natale in casa Cupiello *
Natale in casa Cupiello è un’opera teatrale tragicomica scritta da Eduardo De Filippo nel 1931.
Genesi dell’opera
Portata in scena per la prima volta al Teatro Kursaal di Napoli (oggi Cinema Filangieri), il 25 dicembre 1931, Natale in casa Cupiello segna di fatto l’avvio vero e proprio della felice esperienza della Compagnia del "Teatro Umoristico I De Filippo", composta dai tre fratelli e da attori già famosi o giovani alle prime armi che lo diventeranno (Agostino Salvietti, Pietro Carloni, Tina Pica, Dolores Palumbo, Luigi De Martino, Alfredo Crispo, Gennaro Pisano). A giugno Eduardo aveva firmato un contratto con l’impresario teatrale che lo impegnava per soli nove giorni di recite per presentare il suo nuovo atto unico subito dopo la proiezione di un film. Il successo della commedia fu tale che la durata del contratto fu prolungata sino al 21 maggio 1932. -Originariamente si trattava di una commedia ad atto unico (quello che, nella versione definitiva, costituisce oggi il secondo atto), ampliato successivamente in due distinte fasi: la prima, nel 1932, vide aggiungersi l’attuale primo atto e la conclusiva, nel 1934[1] (secondo anche quanto dichiarato da Eduardo sul numero 240 della rivista Il Dramma uscito nel 1936) o nel 1937[2] o addirittura nel 1943 (secondo un’ipotesi avallata più tardi dallo stesso autore[3]), che configurò l’opera nella sua versione attuale, composta da tre atti. La complessa genesi della commedia portò Eduardo stesso ad affermare che essa era nata come un "parto trigemino con una gravidanza di quattro anni" [4].
Trama
La scena si svolge nell’arco di circa cinque giorni nella casa della famiglia Cupiello, della quale vengono rappresentate la camera da letto (atti I e III) e la sala da pranzo (atto II).
I atto
È la mattina dell’antivigilia di Natale. Luca Cupiello e sua moglie Concetta si svegliano, ma il loro risveglio è reso comicamente faticoso dalle bizze dell’uomo, che si lamenta per il freddo e per il pessimo caffè che lei gli ha preparato. Luca è un fervente amante delle tradizioni natalizie, e non vede l’ora di potersi dedicare maniacalmente alla composizione del Presepe, nonostante le critiche della moglie e del figlio Tommasino (Nennillo), che lo ritengono anacronistico (questa situazione costituirà una gag ricorrente per tutta la messa in scena). La sua impresa è inoltre resa difficoltosa dall’intervento di suo fratello Pasqualino, scapolo collerico in perenne guerra col pestifero Nennillo; Luca sembra inoltre avere alcune difficoltà nei movimenti e nel ricordare le cose, tragicomiche anticipazioni del dramma che seguirà. Irrompe in casa la figlia Ninuccia, agitata per l’ennesima lite con suo marito Nicolino. Ninuccia, che non ha mai amato il marito, vuole scappare con il suo amante Vittorio e confessa alla madre di voler lasciare Nicolino a cui ha scritto una lettera di addio. La donna, a causa delle forti resistenze della madre, ha un attacco nervoso e, nell’impeto, rompe alcune suppellettili e la struttura del presepe. Nel caos che segue Concetta ha un mancamento, e riesce a strappare a Ninuccia la promessa di fare la pace con Nicolino; tuttavia nel trambusto la ragazza perde la lettera, che sarà ritrovata da Luca il quale, ignaro di tutto, la consegna a Nicolino.
II atto
In casa Cupiello è tutto pronto per festeggiare la vigilia di Natale. Tommasino, ignaro della relazione della sorella, arriva a casa accompagnato da Vittorio che, oltre a essere l’amante di sua sorella, è anche suo amico. Il ragazzo insiste perché si trattenga qualche minuto a casa sua. Rimasti soli, Concetta chiede a Vittorio di andarsene immediatamente e permettere a Ninuccia di salvare il suo matrimonio con Nicolino: quest’ultimo infatti, dopo aver letto la lettera consegnatagli incolpevolmente dal suocero, è a conoscenza della loro relazione, e solo i copiosi sforzi di Concetta hanno evitato il peggio. In quel momento tuttavia rincasa Luca che, anch’esso ignaro della relazione extraconiugale della figlia, insiste perché Vittorio si fermi a cena. La serata prosegue con una tensione di sottofondo, stemperata dai pasticci di Luca, Nennillo e Pasqualino e da mille disavventure che costellano la preparazione della cena. Approfittando di un momento di solitudine, Ninuccia e Vittorio hanno un drammatico incontro che sfocia nell’esplosione della passione tra i due; Nicolino li sorprende nell’atto di scambiarsi un dolce bacio, e accusa Ninuccia e Concetta di averlo ingannato. I due uomini e Ninuccia abbandonano quindi la casa per potersi sfidare a duello. Mentre Concetta, rimasta sola in scena, si dispera, giungono Luca, Pasqualino e Tommasino vestiti da re magi con i loro regali per lei.
III atto
Venuto brutalmente a conoscenza della situazione familiare, Luca, per anni vissuto nell’illusione di aver creato una famiglia felice, ha un colpo apoplettico e si ritrova a letto in preda a difficoltà motorie e verbali per l’ictus sopravvenuto. L’intero vicinato è ormai costantemente presente al suo capezzale, dove Luca accusa deliri e allucinazioni che hanno come protagonista il genero Nicolino, che ha lasciato immediatamente la moglie e si è recato da alcuni suoi parenti a Roma. Pur nel delirio Luca spera ancora di vederlo riappacificato con sua figlia, la quale è distrutta dal dolore in quanto è perfettamente cosciente che su di lei ricadono le colpe della malattia del padre. Sopraggiunge il medico, che improvvisa una diagnosi incoraggiante alla moglie ed alla figlia di Luca, ma rivela invece al fratello la cruda verità: Luca non ha scampo e la sua morte è ormai questione di ore. Una improvvisa visita dell’amante Vittorio, che si sente moralmente responsabile dello stato di salute di Luca, ne provoca l’ennesimo equivoco allucinatorio e Luca, scambiandolo per Nicolino, arriva a benedire inconsapevolmente l’unione dei due amanti proprio all’arrivo del marito di lei, che viene subito trattenuto a viva forza e portato fuori dai presenti. Luca Cupiello, ormai definitivamente ripiegato nelle sue allucinazioni, si avvia così a morire ignaro ancora una volta della realtà.
Tommasino, alla domanda che suo padre gli rivolge in punto di morte, «Te piace ’o presepio?» ("Ti piace il presepe?"), alla quale egli in precedenza aveva sempre risposto di no con stizzita protervia, finalmente si "scioglie" e tra le lacrime gli sussurra un laconico sì, proprio mentre suo padre sembra entrare nella gioiosa allucinazione di un "enorme presepe nei cieli".
* Fonte: Wikipedia (ripresa parziale).
La statuina.
La devozione e l’affidamento di papa Francesco a san Giuseppe «dormiente»
Una devozione che risale alla giovinezza di Bergoglio e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale
di Mimmo Muolo *
Papa Francesco e san Giuseppe. Una devozione che risale alla giovinezza del Pontefice e ci porta dritto al cuore della sua vocazione sacerdotale. Come pure all’inizio del suo ministero petrino.
È infatti nella chiesa di San José di Buenos Aires che nel 1953 il diciassettenne Jorge Mario Bergoglio scopre la vocazione al sacerdozio. Ed è il 19 marzo 2013 - sei giorni dopo l’elezione a Vescovo di Roma e Pastore della Chiesa universale - che egli inaugura il proprio Pontificato con un’omelia incentrata sul ruolo di custode del padre putativo di Gesù. Non stupisce dunque la decisione di dedicare al santo la Lettera apostolica di ieri e di proclamare l’anno "giuseppino" (con relative indulgenze plenarie). Si può anzi dire che questi due gesti del Pontefice costituiscano gli ultimi anelli (per il momento) di una catena di affetto e devozione che lega Jorge Mario Bergoglio al casto sposo della Vergine.
Francesco ha del resto raccontato più volte come a san Giuseppe sia solito affidare intenzioni di preghiera e speciali intercessioni per il suo ministero. Nel suo studio personale a Casa Santa Marta, ci sono infatti due statue che raffigurano il santo. Una in particolare gli è molto cara e lo accompagna da sempre, da quando viveva nel Collegio Maximo di San Miguel di cui era rettore. Si tratta di un’immagine insolita, per noi italiani ed europei, ma molto diffusa tra i fedeli sudamericani: una statua che raffigura san Giuseppe dormiente.
Ora, sappiamo dalla Scrittura quanto il sonno sia stato determinante nella vicenda terrena del falegname custode della Sacra Famiglia. E anche nella Lettera apostolica di ieri papa Francesco si sofferma sui sogni in cui Giuseppe dà ascolto all’Angelo per prendere in sposa Maria, per fuggire in Egitto onde sottrarre Gesù Bambino alla persecuzione di Erode e infine per fare ritorno a Nazaret, una volta morto il malvagio re.
Per questo il Papa ha l’abitudine di infilare sotto la statua del santo addormentato biglietti che contengono problemi, richieste di grazia, preghiere dei fedeli. È come se invitasse san Giuseppe a "dormirci su", e magari a mettere una buona parola davanti a Dio, per risolvere situazioni difficili e aiutare i bisognosi, rinnovando così il suo ruolo di padre misericordioso e tutto proteso verso coloro che ama.
Lo confidò egli stesso il 16 gennaio 2015 a Manila nell’incontro con le famiglie: «Io amo molto san Giuseppe perché è un uomo forte e silenzioso. Sulla mia scrivania ho un’immagine di San Giuseppe mentre dorme e quando ho un problema o una difficoltà io scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la statua di San Giuseppe affinché lui possa sognarlo. (...) Ma come san Giuseppe, una volta ascoltata la voce di Dio, dobbiamo riscuoterci dal nostro sonno; dobbiamo alzarci e agire».
In definitiva, per papa Francesco lo sposo della Madonna è un santo davvero speciale, che protegge e aiuta perfino quando dorme.
Più volte nei suoi discorsi il Pontefice ha fatto riferimento alla figura del santo. In una delle omelie di Santa Marta, il 18 dicembre 2018, Francesco disse: «Giuseppe è l’uomo che sa accompagnare in silenzio» ed è «l’uomo dei sogni». Il 1° maggio scorso ha accolto a Santa Marta la statua di san Giuseppe lavoratore solitamente posizionata all’ingresso della sede nazionale delle Acli a Roma. Ma sicuramente, prima di ieri, l’espressione più compiuta della devozione giuseppina del Papa si trova nell’omelia di inizio pontificato.
«Giuseppe è "custode" - disse -, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge». L’eco di queste parole risuona ora nella Lettera apostolica "Patris corde".
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* Fonte: Avvenire, mercoledì 9 dicembre 2020
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“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...
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SAN CRISTOFORO E CORONAVIRUS:
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UN CAMBIAMENTO DI ROTTA FONDAMENTALE, UNA METANOIA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA URGENTE, PER QUANTI PRETENDONO DI ESSERE "PORTATORI DI CRISTO" DA UNA RIVA ALL’ALTRA DEL FIUME DEL TEMPO... *
Caro don Santino Bove Balestra
Vista la tensione e la passione personali che animano la sua Lettera "a san Cristofaro al tempo del Coronavirus" e, al contempo,sollecitato dalle sue stesse associazioni collegate a questa figura di gigante buono («Ti hanno fatto - forse un po’ abusivamente - diventare il patrono degli automobilisti (dopo essere stato più propriamente il protettore dei facchini) : oggi dovresti ispirare chi dall’automobile passa alla bicicletta, al treno o all’uso dei propri piedi!»), il discorso fatto appare essere una forma implicita di autocritica "istituzionale" (cioè, da parte dell’intera Istituzione Chiesa paolina-costantiniana) della propria capacità di "portare Cristo" in giro, di qua e di là, avanti e indietro - e, della totale e più generale cecità antropologica e pedagogica, nei confronti del "Bambino" (che ognuno e ognuna di noi, tutti e tutte, è)!
SE, OGGI, AL TEMPO DEL CORONAVIRUS, VALE l’esortazione “Restiamo tutti a casa!”, altrettanto sicuramente, domani, vale la consapevolezza che “Nulla sarà più come prima!” e, ancor di più, se vogliamo veramente cambiare rotta, che la “conversione eco-logica” (la ristrutturazione della nostra stessa "casa" !) è già "oggi necessaria", ora e subito ! Non c’è alcun tempo da perdere.
Portar-si il "bambino" sulle proprie spalle, « suprema fatica e suprema gioia », è impresa ancora tutta da tentare - e non ha nulla a che fare con il "sacrificio" e con la "messa in croce" di alcun "Bambino" ! O no?! *Federico La Sala
***
ARCHEOLOGIA E ARCHITETTURA. NOTE PER LA RISTRUTTURAZIONE DELLA “CASA” *
Caro don Santino Bove Balestra
SICCOME LA SUA SOLLECITAZIONE A RIFLETTERE SULLA FIGURA di “san Cristofaro al tempo del Coronavirus” appare essere carica di molte implicazioni e degna di grande attenzione per la nostra e generale “salute”, credo che sia opportuno non lasciar cadere l’occasione e La sollecito a meditare anche sulla differenza di significato che corre tra la parola “Cristo-foro” e la parola “Cristo-faro” (una variazione “parlata”, più che un refuso): in gioco c’è la comprensione stessa di cosa significa “portare Cristo” e come “seguire Cristo”!
Cristoforo è “Cristo-foro”, perché porta sulle spalle il Bambino, la “luce del mondo”(Gv. 8,12) e non va più in giro a spegnere “luci” o “fari”, e a “mettere in croce” bambini, uomini, donne: egli stesso (da Cristoforo) è diventato un “Cristo-faro”: «Non è forse scritto nella vostra Legge: “Io ho detto: voi siete dèi”[...]?» (Gv.10,34). Non è forse questa la “conversione eco-logica” da farsi: diventare “fari”?!
E come è possibile questa ristrutturazione della “casa” di tutti gli esseri umani, se continuiamo a negare anche al “cristoforico” Giuseppe la sua stessa “paternità” (cfr., mi sia consentito, “DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE...). Di quale “casa” e di quale “chiesa” si sta parlando?!Boh?! O no?!
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PSICOANALISI, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA:
LA SUGGESTIONE, L’ ENIGMA DI SAN CRISTOFORO, E
LA "PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’IO" (S. FREUD, 1921).
Per meglio comprendere il grande rilievo del contributo di Stekel, al lavoro e alle "costruzioni nell’analisi" (1937) di Freud, molto utile anche la lettura del testo della seduta del 1903, pubblicata come articolo con il titolo "Il ’Piccolo Kohn’", tradotto e curato dal dr. Michele Lualdi*:
[FREUD] - Il maestro [...] cosa è suggestione? [...] Mi sono recato dai più celebri maestri della suggestione, ma nessuno ha potuto darmi una risposta a questa domanda.
*cfr.Wilhelm Stekel: "Il ’Piccolo Kohn’" (1903)
AllegaTO: San Cristoforo (Wikipedia).
PSICOANALISI, CRISTIANESIMO, ANTROPOLOGIA E LETTERATURA:
"PSICOLOGIA DELLE MASSE E ANALISI DELL’ IO" (S. FREUD, 1921): DANTE ("Io non Enëa, io non Paulo sono": Inf. II, 32) SA "DOVE METTE CRISTOFORO IL PIEDE" (cfr. Wilhelm Stekel, " Il ’Piccolo Kohn’ ", 1903, tradotto e curato da Michele Lualdi).
"IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS", "CRITICA DELLA RAGION PURA" (KANT), E "IDEALE DELL’IO" (S. FREUD). CON GIASONE (OVIDIO) E CON ASTREA (LA "VIRGO" DI VIRGILIO) E MARIA-BEATRICE (LA "VERGINE" DI SAN BERNARDO), DANTE RIPRENDE IL CAMMINO, dall’ INIZIO (dall’Inferno) ma dal PRINCIPIO (Par. XXXIII: "Vergine Madre, figlia del tuo figlio [...] l’amor che move il sole e l’altre stelle") e racconta come è riuscito a ritrovare "LA DIRITTA VIA" e a capire il senso antropologico di sé: "Io sono l’alfa e l’omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine" (Ap., XXII, 13).
Coronavirus.
La Chiesa: il 19 marzo alle 21 preghiamo tutti insieme per l’Italia
Famiglie, fedeli, comunità religiosa sono invitati a recitare in casa il Rosario, uniti alla stessa ora nella festa di San Giuseppe. Al via anche un sito web con le indicazioni di diocesi e parrocchie
di Francesco Ognibene (Avvenire, giovedì 12 marzo 2020)
La preghiera sarà condivisa in diretta su Tv2000. La Cei ricorda anche il testo della celebre invocazione di Leone XIII, per la preghiera personale:
Consapevole delle necessità di accompagnamento spirituale di tanta gente “in questo tempo di prova e di difficoltà per tutti”, la “Chiesa che è in Italia” accompagna l’invito per il 19 marzo con uno strumento digitale di facile consultazione con il quale “vuole dare segni di speranza e di costruzione del futuro. A partire dal presente”.
È dunque da oggi on line https://chiciseparera.chiesacattolica.it, “ambiente digitale che raccoglie e rilancia le buone prassi messe in atto dalle nostre diocesi - fa sapere l’Ufficio nazionale per le Comunicazioni sociali in una nota -, offre contributi di riflessione e approfondimento, condivide notizie e materiale pastorale”.
Si tratta di “un’iniziativa, promossa dalla Segreteria Generale della Cei, per testimoniare ancora e sempre l’impegno della Chiesa che vive in Italia nel continuare a tessere i fili delle nostre comunità. La convinzione che ci guida è che le criticità, lo smarrimento, la paura non possano spezzare il filo della fede, ma annodarlo ancora di più in speranza e carità”.
Con Chiciseparera.chiesacattolica.it la Chiesa italiana mette a disposizione “un punto di riferimento per riscoprire un senso di appartenenza più profondo. Il nome stesso “Chi ci separerà?” (Rm 8,35) indica un percorso impegnativo: la certezza che, pur circondati da una minaccia, niente potrà mai separarci da quell’Amore che ci unisce, perché figli e fratelli, e ci rende comunità. In questo senso bisogna osare, mettersi in cammino e non fermarsi”. “Il sito appena pubblicato - conclude la
Cei - intende guardare oltre il tempo presente. E quell’oltre non può che essere anche la qualità di una comunicazione pensata e che faccia pensare. È l’orizzonte a cui tendere”.
ECUMENISMO E PROBLEMA DELL "UNO" ... *
Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe.
Contemplando con fede la casa di Nazareth ogni credente può scorgervi un modello
di Matteo Liut (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
La vita nasce da una relazione che si apre all’infinito, perché ogni essere umano che viene al mondo è segno dell’amore sconfinato di Dio. La famiglia è scrigno prezioso che ha la responsabilità di dare forma a questa continua promessa di futuro.
Oggi il rito romano pone la festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, icona universale di un’intimità domestica portatrice di un messaggio rivoluzionario: Dio abita in mezzo a noi. Contemplando la casa di Nazareth ogni credente non può non scorgervi un’ispirazione e un modello: i piccoli gesti di cura e attenzione vissuti tra quelle mura testimoniano lo stile dell’agire di Dio nella storia. Ecco perché per i cristiani farsi compagni di strada degli ultimi significa prima di tutto essere luce di speranza e di amore per le persone più vicine: tutti abbiamo bisogno di aprirci continuamente alla vita attraverso relazioni d’amore.
Altri santi. San Davide, re (X sec. a.C.); san Tommaso Becket, martire (1118-1170).
Letture. Sir 3,3-7.14-17; Sal 127; Col 3,12-21; Mt 2,13-15.19-23.
Ambrosiano. Pr 8,22-31; Sal 2; Col 1,13b.15-20; Gv 1,1-14.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
FLS
Il Papa in Asia
All’Annuncio serve il «dialetto» perché non ne siamo padroni
di Maurizio Patriciello (Avvenire, sabato 23 novembre 2019)
La paura paralizza la libertà, tarpa le aspirazioni, impedisce di guardare oltre l’orizzonte. Dio è amore, libertà, verità. Amarlo vuol dire annunciare la ’sua’ Parola, non la nostra camuffata. In ogni discorso di papa Francesco in Thailandia - come del resto dappertutto - riecheggia il Vangelo che da due millenni impregna le nostre terre. Ogni uomo traduce in immagini le parole che giungono ai suoi orecchi. La parola ’pane’, per esempio, richiama alla mia mente un mondo che ha il sapore della casa, degli affetti, del camino acceso e delle carezze della mamma. Non posso, e non mi permetto, di pretendere che le stesse sensazioni le provi un cinese, o un islandese.
Il rispetto per la persona umana, quando è vero, deve passare attraverso il rispetto della sua cultura, della sua storia, della sua lingua, del suo mondo interiore. Al Papa stanno a cuore le persone, tutte, quelle non credenti e quelle di diverse religioni; e quelle che, come lui, hanno scommesso su Gesù la loro vita. Francesco sa che il grano della Parola che salva può e deve essere separato dalla crusca.
Siamo legati alle nostre tradizioni, è un bene? Si, se riconosciamo che sono ’nostre’, appartengono a noi, alla nostra storia. Via San Gregorio Armeno è un vicolo della vecchia Napoli, che nei giorni di Natale diventa un solo, grande mercato di presepi. Qui, folkrore, fede, tradizione, affari si confondono. Ebbene, credo che proprio il presepe napoletano, nella sua ingenuità, possa assurgere ad esegesi delle parole del Papa. Il mondo che rappresenta, infatti, non è quello di Betlemme dove nacque Gesù ma la Napoli del Settecento. I napoletani lo hanno sempre saputo e non se ne sono mai scadalizzati. Al contrario.
In quelle scenografie in miniatura, oltre alla capanna con la Sacra famiglia, c’è di tutto, e altro si può aggiungere, secondo la fantasia di ognuno. Oggi diremmo che il presepe napoletano è inclusivo. Le bancarelle dei pescivendoli, i negozietti dei merciai e dei macellai, li puoi trovare ancora oggi a Porta Nolana, ai Vergini, ai Quartieri spagnoli. Le massaie sorridenti, con gli zigomi rossi fuoco e i grembiuli che servivano anche come borse per la spesa, sono le nostre bisnonne. Gli zampognari sono scesi dai monti dell’Irpinia e del Molise, per suonare, dietro una piccola offerta, la ninna nanna a Gesù davanti alle nostre case.
«Il Signore non ci ha chiamati per mandarci nel mondo a imporre alle persone carichi più pesanti di quelli che già hanno, ma a condividere una gioia, un orizzonte bello, nuovo e sorprendente» ha detto Francesco in Asia ai religiosi cattolici. Perciò «non bisogna aver paura di cercare nuove forme, simboli, immagini e musiche per inculturare sempre di più il vangelo e ridestare il desiderio di conoscere il Signore».
Il Papa invita poi i cristiani di tutto il mondo a confessare la fede «in dialetto» alla maniera in cui una mamma canta la ninna nanna al suo bambino. Bellissimo. Proprio come ha fatto Maria.
Il Papa come il grande sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
Da più di duecento anni, la notte di Natale, nelle nostre chiese, risuona il suo Quann nascette Ninno. In dialetto, appunto. Dobbiamo impegnarci di più per imparare meglio ad annunciare Cristo «in dialetto», facendoci, cioè, «tutto a tutti». Senza tentennamenti, senza paure, senza sentirci padroni di niente. Coscienti di essere solo «servi inutili» che hanno avuto la grazia immensa di averlo conosciuto.
“DE DOMO DAVID”: GIUSEPPE E IL “PADRE NOSTRO”. UNA QUESTIONE EPOCALE E CRUCIALE.
Un commento a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò
PROVANDO E RIPROVANDO. LA STELLA E IL NARDO... Ricordando quanto sia determinante e fondamentale, oggi, ripensare sul piano antropologico (andrologico e ginecologico) e teologico la figura della “sacra famiglia” e di san Giuseppe (si cfr. i commenti a "Ggimentu, gimmientu e ggimintare" di A. Polito, Fondazione Terra d’Otranto, 06.07.2018), e “come nascono i bambini”, non posso non PLAUDIRE alla realizzazione del “convegno e del libro per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”, con tutti i suoi molteplici contributi!!!
SUL TEMA DELLA «GIUSEPPOLOGIA», MI SIA LECITO, si cfr.: GESU’ “CRISTO”, GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE (“CHARITAS”) DI GIUSEPPE E DI MARIA!!!
Federico La Sala
NEL REGNO DI EDIPO: "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE", L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO... *
Appello di una femminista alle donne cristiane che sono contro il Congresso mondiale delle famiglie
di Luisa Muraro (Libreria delle donne, 29 Marzo 2019) *
Care amiche, vorrei sottoscrivere il vostro Appello contro il Congresso delle famiglie a Verona. Sono d’accordo con quello che dite, in primo luogo che la famiglia non è un’entità naturale ma un’istituzione culturale, che quasi sempre mostra una forte impronta patriarcale.
A me e a voi, suppongo, è chiaro che prima della famiglia, comunque intesa, c’è la diade formata da una donna e dalla creatura che lei ha concepito e portato al mondo. È un rapporto molto speciale, che precede i dualismi tipici della cultura maschile: la donna che accetta di entrare nella relazione materna, alla sua creatura dà la vita e insegna a parlare, le due cose insieme. Ed è un “insieme” che si tende, come un ponte insostituibile, sopra l’abisso della schizofrenia umana.
Vorrei ma non posso sottoscrivere il vostro Appello perché, nella difesa delle nuove forme familiari, non c’è una critica di quelle che si costituiscono da coppie che, sfortunatamente o naturalmente sterili, invece di adottare, si fanno fare la creatura a pagamento.
Da donne cristiane, mi aspettavo una calorosa difesa dell’adozione e un’energica richiesta della sua estensione a persone e coppie finora escluse dalla legge. Ma, ancor più, essendo voi donne, mi aspettavo una difesa della relazione materna libera e responsabile così come oggi è diventata possibile. Invece, parlate solo di genitorialità, usate cioè una parola tipica del linguaggio neutro-maschile. E a voi che parlate del corpo femminile come luogo di spiritualità incarnata, chiedo: che famiglia è mai quella che nasce con il programma esplicito, messo nero su bianco, di cancellare la relazione materna che si sviluppa con la gestazione in un intimo scambio biologico e affettivo?
Voi, a differenza di tanti cattolici, leggete la Bibbia e sapete che la cosiddetta gravidanza per altri, ossia la donna che partorisce senza diventare madre, corrisponde pari pari ad antiche usanze del patriarcato, usanze che sembravano superate. Le ultime pagine del Contratto sessuale di Carole Pateman, parlano proprio di questo sostanziale arretramento. Detto alla buona, ci sono “nuove” famiglie che di nuovo hanno solo la tecnologia.
A proposito: che cosa pensano di tutto questo gli uomini vicini a voi, i vostri compagni di fede e d’impegno politico? Perché non compaiono nel vostro Appello? Mi è venuto un sospetto, di ritrovarmi davanti a quel noto comportamento maschile che è di nascondersi dietro a una o più donne quando si vuol far passare pubblicamente qualcosa che è contro le donne. Devo portare degli esempi? Ma, se questo non fosse vero, scusatemi.
* www.libreriadelledonne.it, 29 marzo 2019
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Cultura e civiltà. L’ordine simbolico della madre.....
NEL REGNO DI EDIPO. L’ordine simbolico di "mammasantissima"
"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!!
COSTANTINO, SANT’ELENA, E NAPOLEONE. L’immaginario del cattolicesimo romano.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
Federico La Sala
DOC.
APPELLO DI DONNE CRISTIANE CONTRO IL CONGRESSO MONDIALE DELLE FAMIGLIE
Le donne presenti all’incontro nazionale sul tema “I nostri corpi di donne, da luogo del dominio patriarcale a luogo di spiritualità incarnata” (Roma dal 22 al 24 marzo 2019 - Casa Internazionale delle donne), manifestano il profondo sconcerto per il sostegno che alcune Istituzioni politiche e religiose hanno dato al Congresso mondiale delle famiglie, che vuole riportarci su posizioni retrograte e omofobe.
Siamo donne che da molti anni hanno intrapreso un percorso per liberarsi dalle gabbie di un sistema religioso, sociale e politico, impregnato di patriarcato.
Quanto lavoro per uscire da un mondo di istituzioni, di segni, di linguaggi che continuamente riproducono una immagine stereotipata della donna “sposa e madre”, una disparità di poteri, di diritti, di autorevolezza.
Che tristezza adesso constatare che alcune Istituzioni pubbliche patrocinano un Congresso mondiale sulla famiglia impropriamente definita “naturale”.
C’è ben poco di naturale in questa istituzione sociale fondata sul matrimonio nata come forma di contratto sociale e religioso, in un determinato contesto storico.
La famiglia “naturale” non esiste, esiste una struttura familiare che ha dato molto alla società, ma che ora è in crisi e in cambiamento. Non serve uno sguardo nostalgico al passato, serve il coraggio di dire che possono esistere vari modelli di famiglia che sperimentano forme anche nuove di solidarietà, genitorialità basate sull’amore e il rispetto reciproci.
Denunciamo che gli slogan utilizzati e gli obiettivi proposti sono la quint’essenza del dominio patriarcale, responsabile della violenza sulle donne, di cui ci siamo liberate e di cui non vogliamo il ritorno.
Chiediamo quindi che le istituzioni pubbliche non finanzino e non diano il patrocinio a iniziative discriminatorie e intolleranti.
AUTOSTRADE PER IL CIELO: CARTE TRUCCATE E "PONTE PERICOLANTE".
L’*AMORE* Di MARIA E GIUSEPPE E LA "PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018" :
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al doloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
Natività della Vergine Maria.
Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini
di Matteo Liut (Avvenire, sabato 8 settembre 2018)
Siamo creature chiamate a generare Dio nel mondo, una “missione” vissuta fin dall’inizio della propria esistenza da Maria, che è stata un ponte tra il Creatore e le creature. La festa di oggi, che celebra la natività della Vergine Maria, è legata indissolubilmente a quella del Natale: nella lettura dei Padri, infatti, con la nascita di Maria Dio si “costruisce una casa” in mezzo agli uomini, una dimora che poi lui stesso abiterà nell’Incarnazione.
La ricorrenza odierna è nata in Oriente ed è stata introdotta anche in Occidente da papa Sergio I nel VII secolo. Oggi questa festa è un invito a curare la nostra vita e la nostra interiorità perché è qui che s’incontra Dio. Una lezione “mistica” che i cristiani non devono mai dimenticare se non vogliono ridurre la fede a semplici “buone pratiche”.
Altri santi. Santi Adriano e Natalia, sposi e martiri (IV sec.); san Federico Ozanam, laico (1813-1853).
Letture. Mi 5,1-4; Sal 12; Mt 1,1-16.18-23.
Ambrosiano. Ct 6,9d-10; Sir 24,18-20; Sal 86; Rm 8, 3-11; Mt 1,1-16 oppure Mt 1,18-23 / Gv 20,1-8.
PAPA FRANCESCO
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Lunedì, 21 maggio 2018
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.114, 22/05/2018)
A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».
«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria».
«Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» - e in realtà «potevano dirlo» - ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo - ha affermato il Pontefice - e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa - ha fatto presente il Papa - possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” - ha rilanciato Francesco - e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo - l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato - ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"TEBE": IN VATICANO NON C’E’ SOLO LA "SFINGE" - C’E’ LA "PESTE"!!! Caro Benedetto XVI ... DIFENDIAMO LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
LA COMPETENZA ANTROPOLOGICA E TEOLOGICA DEL VATICANO E’ "PREISTORICA" E "MAMMONICA". Il "romanzo familiare" edipico della chiesa e della cultura cattolico-romana è finito
Federico La Sala
RENZO DE FELICE E LA STORIA DEL FASCISMO: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
San Giuseppe, tra il culto e i paradossi
di Arnaldo Casali *
Ogni 19 marzo la Festa del papà rende omaggio al papà meno padre della storia della paternità.
È solo uno dei tanti paradossi sviluppati nel corso del Medioevo dalla Chiesa cattolica. Che al culto di San Giuseppe, peraltro, ci arriva lentamente e quasi con fatica.
Il padre-non padre di Gesù è in effetti una figura difficile, imbarazzante; e anche sfuggente. Perché di lui i Vangeli parlano pochissimo: tutto ciò che sappiamo è che faceva il falegname e che discendeva dalla famiglia di Davide, cosa che renderebbe Gesù stesso un erede del Re di Israele. Se non fosse che in realtà Giuseppe, padre di Gesù, non lo è affatto.
Almeno secondo due dei quattro evangelisti: Luca e Matteo - gli unici a interessarsi delle origini di Cristo - raccontano la sua nascita in modo completamente diverso ma una delle pochissime cose su cui concordano è il fatto che sia stato concepito senza rapporti sessuali.
Un dato squisitamente teologico che serve a dimostrare che niente è impossibile a Dio e non ha alcuna valenza morale (la verginità non era un valore nella cultura ebraica) e non è nemmeno connesso alla divinità di Cristo: non a caso il Vangelo che insiste di più su Gesù come “verbo divino” è quello di Giovanni, che non fa alcun cenno al suo concepimento verginale.
Sarà invece la cultura pagana in cui il cristianesimo si innesterà in occidente a recepire Cristo, su modello della mitologia greca, come una sorta di uomo-Dio figlio di una donna “inseminata” dal divino.
Il concepimento di Gesù raccontato nei Vangeli ha, tuttavia, una qualche base storica: se gli stessi farisei durante uno scontro con Cristo sottolineano che “noi non siamo nati da prostituzione” (Giovanni 8,41) evidentemente qualche tipo di pettegolezzo, sul fatto che Gesù fosse un figlio illegittimo, circolava già durante la sua vita, e i racconti di Matteo e Luca potrebbero essere serviti proprio a dissipare le malelingue.
D’altra parte la discendenza di Gesù da Davide ha una valenza squisitamente letteraria: Matteo, fortemente influenzato dal giudaismo, è interessato a dimostrare che Cristo è il Messia atteso dagli ebrei e non è certo preoccupato di una ricostruzione storicamente attendibile né tanto meno di una coerenza di natura biologica.
Per il resto, Giuseppe è completamente assente nella vita adulta di Cristo (per questo se ne deduce che sia morto quando era ancora adolescente) e, spodestato di ogni autorità paterna, si è dovuto accontentare sin dai primi secoli del cristianesimo del ruolo di “custode” di Gesù.
I Vangeli apocrifi - scritti all’alba del Medioevo - lo hanno trasformato poi in un vecchietto che vince una sorta di bando (viene sottoposto ad una prova insieme ad altri pretendenti e ha la meglio perché il suo bastone fiorisce miracolosamente) per aggiudicarsi la custodia della giovanissima Maria che, arrivata alla pubertà, non può più continuare a vivere nel tempio dove è stata allevata.
C’è bisogno di aggiungere che nella religione ebraica non esistono bambine consacrate a Dio e allevate nel tempio e che il racconto (ripreso anche da Fabrizio De André nell’album La Buona Novella) è inventato di sana pianta e privo di qualsiasi attendibilità storica?
Gli apocrifi, peraltro, si premurano di sottolineare che al momento del matrimonio Giuseppe avrebbe avuto oltre novant’anni di età. Più un bisnonno che un marito, quindi, per la giovane Maria. Una precisazione che mira a mettere la Sacra Famiglia al riparo da qualsiasi tentazione sessuale.
D’altra parte se il Vangelo non parla mai di una castità perpetua della coppia e al contrario dà per scontato che dopo la nascita di Gesù i due abbiano avuto normali rapporti sessuali (Marco e Matteo citano quattro fratelli di Gesù - Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda - e diverse sorelle di cui non vengono fatti i nomi) già i padri della Chiesa cercano in ogni modo di dimostrare che Giuseppe non ha mai “profanato” la Vergine Maria, divenuta dopo il concepimento di Gesù un vero e proprio santuario di Dio intoccabile.
Così, da finto padre, Giuseppe diventa anche marito fasullo. Secondo la dottrina cattolica, infatti, il matrimonio non consumato non è valido e può essere annullato.
La Sacra Famiglia, dunque - presunto modello della famiglia cristiana - diventa una comunità piuttosto anomala basata su un matrimonio di facciata e un figlio illegittimo.
Figlio che peraltro, essendo (sempre secondo i Vangeli apocrifi) perfettamente sapiente e consapevole della propria divinità sin dalla nascita, non ha assolutamente nulla da imparare dai propri genitori e non può quindi essere in alcun modo educato, ma solo rispettosamente venerato.
Quando arriva al Medioevo, dunque, Giuseppe non è più né un vero padre né un vero marito: è il “custode” di Gesù e il “castissimo sposo” di Maria.
La sua principale virtù è quella di resistere alle tentazioni sessuali, il grande merito quello di aver salvato la moglie dalla pubblica infamia “coprendo” col suo nome la nascita irregolare di Gesù.
In compenso viene sempre più apprezzato come lavoratore; ché il lavoro, almeno quello, non era solo di facciata e Giuseppe il falegname l’ha fatto davvero.
Non a caso a rinverdire il suo culto - così sbiadito ai primordi del cristianesimo - ci pensano i promotori dell’ora et labora, e cioè i monaci benedettini. Sono proprio loro, infatti, i primi a celebrare la memoria di San Giuseppe nel 1030.
La data del 19 marzo, ovviamente, è puramente convenzionale, visto che di solito i santi vengono celebrati nel giorno della morte e della morte di Giuseppe non si sa assolutamente nulla. Convenzionale ma non casuale: come il giorno di Natale e quello di San Valentino anche la festa di San Giuseppe ha radici antichissime: si colloca infatti alla vigilia dell’equinozio di primavera e veniva solennizzata con baccanali e riti dionisiaci volti alla propiziazione della fertilità e alla purificazione agraria.
Rituali di cui è rimasta traccia nella tradizione - ancora oggi diffusa in molte regioni italiane - dei falò con cui si bruciano i residui del raccolto dell’anno precedente come auspicio di una buona stagione.
Il culto di san Giuseppe, intanto, con il tempo si va sempre più allargando: dal 1324 la festa viene recepita anche dai Servi di Maria (ordine mendicante fondato a Firenze nel 1233) mentre i francescani la adottano nel 1399.
Ci vorrà ancora qualche decennio, però, prima che la ricorrenza venga istituzionalizzata e celebrata da tutti i cristiani; nel calendario romano, infatti, ci entrerà solo nel XV secolo, e sarà estesa formalmente a tutta la Chiesa solo nel 1621 da Gregorio XV, mentre bisognerà aspettare addirittura il 1870 perché Pio IX dichiari San Giuseppe “Patrono della Chiesa universale” riscattandolo definitivamente da quel ruolo ombra cui gli apocrifi lo avevano relegato.
La sua resta comunque una festa primaverile strettamente legata al lavoro della terra, dunque festa del lavoro e dei lavoratori.
Niente ha invece a che fare, nel Medioevo, con la festa del papà; associazione che avverrà più tardi e non in tutto il mondo: ancora oggi, infatti, nei Paesi anglosassoni la festa del papà viene celebrata la terza domenica di giugno e senza alcun carattere religioso.
In compenso in Italia il padre di Gesù, costretto a far nascere suo figlio in una stalla e poi a fuggire all’estero, da profugo, per metterlo in salvo, viene onorato anche come protettore dei poveri.
Di qui l’usanza presente in alcune regioni di organizzare il 19 marzo il “Banchetto di San Giuseppe”. Ed è per questo che un elemento importante legato alla festa è il pane, che ricorre spesso soprattutto nel contesto siciliano, deposto sugli altari.
I falò e le tavole imbandite si ritrovano anche nel Salento, dove la festa è celebrata all’insegna degli elementi fondamentali del pellegrinaggio e dell’ospitalità, mentre a Roma nella Chiesa di San Giuseppe dei Falegnami al Foro, la confraternita dei falegnami organizzava solenni festeggiamenti e banchetti a base di frittelle e bignè.
Esemplare è poi il dolce napoletano, che prende il nome di zeppola di San Giuseppe seguendo una tradizione secondo cui, dopo la fuga in Egitto con Maria e Gesù, Giuseppe dovette vendere frittelle per poter mantenere la famiglia. In Toscana e in Umbria è diffuso come dolce tipico la frittella di riso, preparata con riso cotto nel latte e aromatizzato con spezie e liquori e poi fritta.
Nell’Italia del nord, invece, dolce tipico della festività è la raviola: un piccolo involucro di pasta frolla o pasta di ciambella richiuso sopra una cucchiaiata di marmellata, crema o altro ripieno, poi cotta al forno o fritta. Alla salute di Giuseppe.
Arnaldo Casali
* FESTIVAL DEL MEDIOEVO (RIPRESA PARZIALE - SENZA IMMAGINI).
Amano
Giovanni De Mauro, direttore di (Internazionale, 22.01.2016)
Basta cercare di spiegare a delle bambine e a dei bambini di otto anni il dibattito sulle unioni civili che occupa le prime pagine dei giornali da qualche settimana (anzi, da secoli, la prima proposta di legge risale al 1988) per rendersi conto di quanto sia assurdo: c’è chi vuole impedire a due persone che si amano di sposarsi e avere dei figli solo perché sono omosessuali.
D’altra parte siamo rimasti davvero in pochi, con Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Slovacchia. Tutti gli altri, e in particolare i paesi europei a cui ci piace tanto paragonarci, hanno da tempo trovato forme e modi per regolare le unioni delle coppie omosessuali. Senza che questo abbia provocato contraccolpi devastanti nella società.
Già sul divorzio e sull’aborto la classe politica italiana aveva dimostrato la sua incapacità di stare al passo con i tempi, di interpretare i bisogni e gli orientamenti dei cittadini che dovrebbe rappresentare. E oggi la semplice domanda che andrebbe rivolta ai 630 deputati e ai 315 senatori italiani è: da che parte state? Dalla parte di chi nega i diritti o da quella di chi i diritti li difende e li garantisce?
Papa Francesco: "Donna tentatrice è luogo comune"
Bergoglio: "Famiglie combattano la subordinazione dell’etica alla logica del profitto" *
CITTA’ DEL VATICANO - "Esistono molti luoghi comuni, alcuni anche offensivi, sulla donna tentatrice", "invece c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio". Lo ha detto il Papa, dopo aver affermato che "la donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge".
"Il mondo creato è affidato all’uomo e alla donna: quello che accade tra loro dà l’impronta a tutto", ha detto Bergoglio concludendo un ciclo di catechesi sulla famiglia. "Cristo è nato da una donna ha aggiunto il Papa di fronte a oltre 25mila fedeli in Piazza San Pietro - "e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto".
"La famiglia ci salva da tanti attacchi, distruzioni e colonizzazioni, come quella del denaro o quelle ideologiche che minacciano il mondo", ha detto Francesco, "la famiglia - ha affermato - è la base per difendersi" e contrastare quanti "dispongono di mezzi ingenti e di un appoggio mediatico enorme".
Secondo Bergoglio, "l’attuale passaggio di civiltà appare segnato dagli effetti a lungo termine di una società amministrata dalla tecnocrazia economica" e dunque il nemico da combattere è "la subordinazione dell’etica alla logica del profitto". "In questo scenario - ha scandito - una nuova alleanza dell’uomo e della donna deve ritornare ad orientare la politica, l’economia e la convivenza civile! Essa decide l’abitabilità della terra, la trasmissione del sentimento della vita, i legami della memoria e della speranza". "La famiglia ci salva dalla colonizzazione del denaro", ha poi aggiunto.
"Di questa alleanza - ha continuato - la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ’nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a sè stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo".
VAN- GELO ....E “MALA EDUCACION”!!! Ma cosa insegna la Chiesa ‘cattolica’?!
Se anche il Papa condanna il falso mito di Eva tentatrice
di Enzo Bianchi (la Repubblica, 17.09.2015)
Lo sguardo di Dio sulle realtà create valuta “bello e buono” ( tov ) tutto ciò che è venuto all’esistenza grazie alla parola e allo spirito. Papa Francesco, concludendo le sue catechesi sul matrimonio cristiano e la famiglia,l’ha voluto ribadire ancora una volta: Dio ha creato l’universo attraverso la sua parola mentre il suo spirito si librava sull’informe e sul vuoto. Ora, in quell’azione di Dio nel sesto giorno, dunque all’apice del compimento della sua volontà, c’è la creazione dell’umano, del “terrestre” (Adam) tratto dalla terra ( adamah ): «E creò l’adam a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Genesi 1,27). La creazione che Dio vuole «molto buona» ( tov meod ) è quella del terrestre, maschio e femmina, che Dio benedice e ai quali affida il compito di abitare e custodire la terra. Uomo e donna sono dunque esseri in alleanza, non uno senza l’altro né uno al di sopra dell’altro.
Ma se questa era e permane la creazione secondo la volontà di Dio, nella storia si è realizzata in modo drammatico: l’uomo contro la donna, la donna contro l’uomo, sicché la prima inimicizia si manifesta proprio nella coppia. Certo, la Bibbia cerca di rivelare questa realtà attraverso immagini mitiche, che portano il segno della cultura del tempo e del luogo, ma l’intento è quello di evidenziare che la responsabilità del male sta nell’uomo e nella donna quando soggiacciono all’alienazione dell’idolatria, che è sempre un falso antropologico. Nel racconto biblico il serpente tenta la donna e questa a sua volta induce l’uomo alla tentazione di non riconoscere il limite umano, ma la lettura di questo testo va fatta con intelligenza, senza letteralismi né fondamentalismi. È innegabile che da questo racconto sia emersa l’immagine della donna tentatrice,ispiratrice del male, ma tale lettura, come denuncia papa Francesco, è un luogo comune, persino offensivo.
Dobbiamo riconoscere che simili giudizi sulla donna sono presenti in testi biblici: basterebbe leggere alcuni brani sapienziali, tra i quali il Siracide (25,24): «Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo», eppure è significativo che Paolo corregga e riformuli proprio questa espressione: «Poiché a causa di un uomo (“terrestre”) venne la morte, a causa di un uomo verrà la risurrezione dai morti» (1 Corinti 15,21), attribuendo la responsabilità del peccato non alla donna soltanto, ma all’umanità tutta e proclamando la salvezza, la resurrezione a causa di un uomo, Cristo, richiamato dalla morte dal Padre suo, il Dio vivente.
Nonostante questa affermazione cristiana in cui l’uomo e la donna sono uguali nella propria dignità resta vero che nella cultura patriarcale si è continuato a giudicare la donna come tentatrice. Come negare che molti uomini continuano a esprimersi in questo modo anche oggi, in una società secolarizzata e senza Dio? Il messaggio evangelico ha proclamato l’uguale dignità dell’uomo e della donna: i vangeli sono una testimonianza senza incertezze dell’atteggiamento di rispetto, di amore, di onore, di dignità riconosciuti da parte di Gesù nei confronti delle donne che furono sue discepole e alle quali fu rivolto il primo annuncio pasquale. Proprio per questo la chiesa ha saputo esaltare Maria di Nazareth, l’umile donna di fede e obbedienza radicale, dichiarandola madre del Signore non solo perché l’ha umanamente partorito, ma perché l’ha anche generato spiritualmente in sé quale donna di fede, di attesa, di carità.
Nella vita cristiana, dice Paolo, «non c’è più né maschio né femmina», cioè questa differenza non può essere motivo di opposizione o di separazione. In Cristo, l’uomo e la donna sono uguali in dignità, hanno la stessa vocazione alla filialità divina, a essere «partecipi della natura divina». Certo, come dice il papa, «c’è spazio per una teologia della donna che sia all’altezza di questa benedizione di Dio» e nella chiesa c’è ancora un lungo cammino da fare affinché la donna sia valorizzata nella dignità che la accomuna all’uomo e nella differenza che segna entrambi.
È comunque urgente, anche se faticoso, giungere a precisare meglio come la donna abbia anche una sua vocazione specifica nella chiesa, nella famiglia, nella società: è portatrice di una specificità oppure è destinata ad appiattirsi sull’immagine dell’uomo? Questa guerra, questo antagonismo tra uomini e donne deve continuare o la ferita della diversità può essere una benedizione per entrambi? Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, ma attraverso una donna che è stata sua madre in tutto, donna di fede e di giustizia dalla nascita di questo figlio fino alla croce. E questo è un messaggio di speranza per gli uomini e le donne di ogni tempo e di ogni luogo.
L’autore è priore della Comunità monastica di Bose
Bergoglio e la società senza padri
«Assenti e troppo presi da sé»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 29.01.2015)
CITTÀ DEL VATICANO Una «società di orfani», una «società senza padri», perché non ci sono oppure cercano un rapporto «alla pari», da amici, ed è come se non ci fossero. Si è passati «da u n e s t re m o a l l ’a l t ro » , dice Francesco. «Il problema dei nostri giorni non sembra essere più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la latitanza. I padri sono talora così concentrati su se stessi, sul lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni individuali, da dimenticare anche la famiglia. E lasciano soli i piccoli e i giovani».
Nell’udienza di ieri il Papa ha sviluppato un tema che gli sta molto a cuore. «Vorrei dire a tutte le comunità cristiane che dobbiamo essere più attenti: l’assenza della figura paterna nella vita dei piccoli e dei giovani produce lacune e ferite che possono essere anche molto gravi», avverte Francesco. «E in effetti le devianze di bambini e adolescenti si possono in buona parte ricondurre a questa mancanza, alla carenza di esempi e di guide autorevoli, alla carenza di vicinanza e amore da parte dei padri. È più profondo di quel che pensiamo il senso di orfanezza che vivono tanti giovani».
È interessante notare che Bergoglio ha una devozione particolare per San Giuseppe, «uomo forte e silenzioso», padre putativo che «custodisce e a c c o m p a g n a G e s ù n e l s u o cammino di crescita» e rappresenta «il modello dell’educatore». A San Giuseppe era dedicata la chiesa di Flores, il quartiere di Buenos Aires dove è nato, la stessa nella quale sentì la sua vocazione.
L’inizio solenne del suo pontificato è avvenuto il 19 marzo, festa di San Giuseppe educatore. Nella stanza 201 a Santa Marta tiene sul tavolo una statua del santo che dorme, «e quando ho un problema, una difficoltà, io scrivo un foglietto e lo metto sotto San Giuseppe, perché lo sogni; questo gesto significa: prega per questo problema!».
Francesco chiede spesso: giocate con i vostri figli, perdete tempo con loro? «Un papà mi diceva: quando vado a lavorare dormono, quando torno la sera lo stesso. Ma questa non è vita, è disumano», raccontava tempo fa.
Così ieri ha ripercorso il passaggio dalla figura «autoritaria» al suo opposto. Si dice che la figura del padre, «specie nella cultura occidentale», sia ormai «simbolicamente assente, svanita, rimossa». Il che, ha ricordato, è stato considerato all’inizio come una «liberazione dal padrepadrone». In alcune case «regnava in passato l’autoritarismo o addirittura la sopraffazione».
I figli trattati «come servi». E ora siamo all’opposto: «I figli sono orfani in famiglia, perché i papà sono spesso assenti da casa ma soprattutto perché, quando ci sono, non si comportano da padri, non dialogano, non adempiono il loro compito educativo, non danno ai figli, con il loro esempio accompagnato dalle parole, quei principi, valori, regole di vita di cui hanno bisogno come del pane». A volte «sembra che i papà non sappiano bene quale posto occupare» e allora «nel dubbio si astengono e trascurano le loro responsabilità, magari rifugiandosi in un improbabile rapporto “alla pari”. È vero che tu devi essere “compagno” di tuo figlio, ma senza dimenticare che tu sei il padre!».
Lo stesso problema si vede pure nella «comunità civile, con le sue istituzioni», ha concluso Francesco: «Così i giovani rimangono orfani di strade sicure da percorrere, di maestri, di ideali. Vengono riempiti di idoli ma si ruba loro il cuore; sono spinti a sognare divertimenti e piaceri, ma non si dà loro il lavoro; illusi col dio denaro, sono negate loro le vere ricchezze».
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Lo psicanalista junghiano Luigi Zoja
«Un rapporto da fratelli non può funzionare Serve il coraggio dei no»
«Sono perfettamente d’accordo con il Papa.
Anzi, scherzando con il mio editore argentino, gli ho proposto di chiedere al Pontefice la prefazione al mio libro»
intervista di Riccardo Bruno (Corriere della Sera, 29.01.2015)
Luigi Zoja, psicanalista junghiano, quindici anni fa ha scritto Il gesto di Ettore, un caposaldo nell’analisi tra padri (assenti) e figli, testo ancora molto letto e tradotto. «Ettore si sfila l’elmo, prende in braccio il figlio e prega che diventi più forte di lui - spiega Zoja -. Nella mitologia non c’è solo Edipo, il padre castrante, ma anche la figura di un genitore forte e positivo».
Papa Francesco parla di figli «orfani», perché vivono in famiglie con padri assenti.
«L’atteggiamento della madre è radicato nella biologia, e in tutte le culture varia di poco. Quello del padre è invece variabilissimo: non basta avere il ruolo fecondante, bisogna riconoscere e alimentare il proprio figlio, fisicamente ma anche affettivamente e culturalmente. Il padre era tradizionalmente preposto a una funzione secondaria, a dire dei no, a insegnare a limitare i bisogni. E questo sta venendo meno».
Eppure sempre più padri cambiano i pannolini, svolgono compiti prima esclusivi delle madri.
«È vero e anch’io l’ho fatto con i miei tre figli. È molto bello e ti gratifica. Credo che in parte derivi dal senso di colpa dopo secoli di patriarcato e di abusi, come se si sentisse il bisogno di essere accettati».
E questo è positivo?
«Sì, è positivo. E rispetto a quindici anni fa è un fenomeno che si ulteriormente rafforzato».
E allora perché i padri sono sempre più assenti?
«Perché non viene coperta o è sottovalutata l’educazione, la fase dell’adolescenza. Per esempio, il padre, soprattutto con i figli maschi, deve essere in grado di canalizzare l’aggressività dei giovani».
E deve proporsi come modello. Ma in una società competitiva come la nostra, non è allora meglio che si dedichi alla carriera piuttosto che stare troppo a casa?
«Quando scrivevo il libro la mia figlia più piccola mi rimproverava che non l’aiutavo a fare i compiti».
E adesso immagino che sia orgogliosa di lei...
«Se non ti dedichi alla carriera chissà che un giorno tuo figlio non ti rimproveri di essere stato un pappamolla, che per colpa tua non potrà comprarsi una casa. In effetti l’equilibrio è delicatissimo».
Francesco invita anche a evitare di mettersi «alla pari».
«Deve esserci comunicazione ma senza eccedere, il padre deve mantenere la sua figura di rispettabilità. Non bisogna creare una “società di fratelli”, ma recuperare anche una verticalità nei rapporti. Lasciandoci alle spalle la società patriarcale abbiamo finito per buttare anche il bambino con l’acqua sporca».
Anche in questo è d’accordo con il Papa.
«Sì, ma anche lui deve stare attento. I termini Papa e papà, non a caso, hanno la stessa radice. Bergoglio cerca di essere alla mano, ma a mio avviso a volte è al limite. Se il Papa diventa un amicone rischia di perdere autorevolezza. Così come un papà».
«La paternità responsabile? Francesco come Wojtyla e il Vaticano II»
Il canonista Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo, analizza per Vatican Insider le «radici» dell’intervento del Papa al ritorno da Manila. «Bergoglio sa unire dottrina e realismo»
di GIACOMO GALEAZZI (La Stampa, 21.01.2015)
CITTA’ DEL VATICANO. E’ rimasto sorpreso dalle parole del Pontefice sulla necessità di una «paternità responsabile» e sul fatto che per essere buoni cattolici non «dobbiamo essere come conigli»?
«No. E’ un concetto in linea con l’insegnamento dei suoi predecessori. Il Concilio Vaticano II, attraverso la costituzione pastorale “Gaudium et spes” sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, afferma che, in virtù del diritto inalienabile dell’uomo al matrimonio e alla generazione della prole, la decisione circa il numero dei figli da mettere al mondo dipende dal retto giudizio dei genitori. Questo giudizio dei genitori suppone una coscienza ben formata, perciò, è fondamentale dare a tutti il modo di educarsi a una retta responsabilità quale veramente conviene a uomini, nel rispetto della legge divina e tenendo conto delle circostanze reali e di tempo. Nell’enciclica “Humanae Vitae” Paolo VI evidenzia che in rapporto alle condizioni fisiche, economiche, psicologiche e sociali la paternità responsabile si esercita sia con la deliberazione ponderata e generosa di far crescere una famiglia numerosa, sia con la decisione, presa per gravi motivi e nel rispetto della legge morale, di evitare temporaneamente o anche a tempo indeterminato una nuova nascita».
In cosa si è ispirato a San Giovanni Paolo II?
«Karol Wojtyla ha più volte espresso lo stesso concetto di Francesco. In tante occasioni, per esempio nell’Angelus del 17 luglio 1994, l’Anno della Famiglia. “Il pensiero cattolico è sovente equivocato- sottolineò Giovanni Paolo II- come se la Chiesa sostenesse un’ideologia della fecondità ad oltranza, spingendo i coniugi a procreare senza alcun discernimento e alcuna progettualità. Ma basta un’attenta lettura dei pronunciamenti del Magistero per constatare che non è così”. In realtà, puntualizza San Giovanni Paolo II, nella generazione della vita, gli sposi realizzano una delle dimensioni più alte della loro vocazione: sono collaboratori di Dio».
Quali sono le conseguenze?
«Proprio per questo ruolo di collaboratori di Dio, secondo Giovanni Paolo II, i genitori sono tenuti ad un atteggiamento estremamente responsabile. Nel prendere la decisione di generare o di non generare essi devono lasciarsi ispirare non dall’egoismo né dalla leggerezza, ma da una generosità prudente e consapevole, che valuta le possibilità e le circostanze, e soprattutto che sa porre al centro il bene stesso del nascituro. Quando dunque si ha motivo per non procreare, questa scelta è lecita, e potrebbe persino essere doverosa. Insegnamenti già presenti in Pio XI e Pio XII riguardo alla paternità e maternità responsabili».
Francesco è nel segno della tradizione, quindi?
«Certo. Unisce realismo e dottrina. Al Parlamento europeo durante la sessione plenaria a Strasburgo, ha chiarito che la famiglia, unita, fertile e indissolubile, porta con sé gli elementi fondamentali per dare speranza al futuro. Senza tale solidità si finisce per costruire sulla sabbia, con gravi conseguenze sociali. Per Francesco ribadire l’importanza della famiglia non solo aiuta a dare prospettive e speranza alle nuove generazioni, ma anche ai numerosi anziani, spesso costretti a vivere in condizioni di solitudine e di abbandono perché non c’è più il calore di un focolare domestico in grado di accompagnarli e di sostenerli. Chi mostra di sorprendersi per le parole di Francesco si metta l’anima in pace: avrà molto altro di cui meravigliarsi. Francesco sta riportando la Chiesa alla fonte evangelica e la gente lo apprezza proprio per la sincerità e la capacità di esprimersi senza ipocrisia».
Papa Francesco nelle Filippine: "Non si uccide in nome di Dio, ma non ridicolizzare fede"
Bergoglio saluta lo Sri Lanka e sbarca a Manila. "Preoccupato per incolumità fedeli"
di Redazione ANSA *
COLOMBO (SRI LANKA) Non si uccide in nome di Dio ma non si ridicolizza la fede altrui. E’ il messaggio del Papa che, dall’aereo che lo sta portando dallo Sri Lanka alle Filippine, incalzato dai cronisti, torna a parlare del terrore dei giorni scorsi a Parigi. "Essere miti, umili non aggressivi" - è il messaggio del Papa - è "miglior modo per rispondere" a minacce di attentati. Il Papa è "preoccupato per l’incolumità dei fedeli", per sé ha paura ma anche "una sana incoscienza" e ha paura del dolore fisico. "La libertà di religione" - ha detto ancora Francesco - è essenziale, e "non si uccide in nome di Dio". La "libertà di espressione è un diritto, ma anche un dovere". Neppure "si offende la religione", ma in questo caso "non si reagisce con violenza".
Libera espressione sì, "ma se il mio amico Gasbarri dice una parolaccia sulla mia mamma, si aspetti un pugno". Così il Papa, in volo verso Manila, ha spiegato il "limite" alla libertà di espressione: la fede non sia ridicolizzata. Non si "giocattolizza la religione degli altri".
Gli organizzatori hanno calcolato in due milioni le persone che hanno accolto il Papa al suo arrivo a Manila, sia in aeroporto che lungo le strade. Lo ha detto il portavoce padre Federico Lombardi.
"Forse è una mancanza di rispetto - ha risposto il Papa a una domanda sui kamikaze e sui bimbi usati come kamikaze - ma credo che in ogni attacco suicida c’è qualcosa di squilibrio mentale e umano, c’è qualcosa che non va nelle persone, nel senso che danno alla propria vita e a quella degli altri. Sì, il kamikaze dà la propria vita, ma non la dà bene, i missionari per esempio danno la propria vita ma per costruire, quando si dà la vita per distruggere c’è qualcosa che non va".
Saluto allo Sri Lanka - "Dio benedica e protegga lo Sri Lanka". Con questo tweet Papa Francesco ha salutato il Paese asiatico per proseguire il suo viaggio che lo ha visto sbarcare a Manila nelle Filippine. Una volta sceso dalla scaletta è stato il presidente del Paese, Aquino III, ad accoglierlo.
All’aeroporto di Manila un’accoglienza calorosa con centinaia di giovani che cantano e ballano. Folla sterminata ad accogliere Francesco anche nelle zone subito fuori dall’aeroporto, inquadrate dalle immagini del Ctv, il Centro televisivo vaticano.
Molti i sacerdoti e i vescovi, tra i quali l’arcivescovo di Manila, il cardinal Luis Antonio Tagle. Si sono salutati con un forte abbraccio e grandi sorrisi. Tira un forte vento e appena il Papa si è affacciato dal portellone dell’aereo è volata la papalina. Anche a Manila, come era già accaduto all’aeroporto di Colombo in Sri Lanka, due bambini hanno offerto al Papa un omaggio floreale, con fiori banchi e gialli, i colori del Vaticano.
Papa in Sri Lanka: nel cuore del conflitto etnico,"pace"
di Giovanna Chirri
Non è facile imparare a perdonare, e perdonarsi, dopo aver visto, subito o anche compiuto tanta violenza, come quella che per decenni ha opposto tamil e cingalesi. Prima condizione è non dimenticare il "sangue sparso". Ma soprattutto bisogna lavorare per una "riconciliazione più grande, in cui il balsamo del perdono e della misericordia possa portare tutti alla guarigione". Papa Francesco ha nuovamente indicato la strada della verità, dell’ammissione degli errori, e della reciproca riconciliazione come via per far passare lo Sri Lanka dalla assenza di guerra a una pace vera.
Lo ha fatto nel santuario di Madhu, nella zona di Mannar, a nord del Paese, nelle province dove i tamil avevano cominciato a concentrarsi a partire dagli anni Sessanta. Lì dal 2007 al 2009 si è svolta la fase più cruenta del conflitto, con l’esercito governativo che ha annientato le "tigri", ma ha poi militarizzato la regione, violando una serie di diritti umani dei civili, come documentano Ong, una commissione di inchiesta e vari rapporti dello Osservatorio internazionale sui diritti umani.
Madhu è un luogo frequentato non solo da cristiani, e simbolico per questi ultimi giacché dalla sua origine ha assistito tra l’altro nel 1544 alla persecuzione anticristiana da parte del re di Jaffna, alla persecuzione, nel Sei-Settecento, dei calvinisti olandesi contro i cattolici e, da ultimo è stato, dal 1990 campo profughi per gli sfollati del conflitto, zona demilitarizzata ma comunque coinvolta in combattimenti furiosi.
Nel santuario, riaperto al culto nel 2010, papa Francesco è giunto nel pomeriggio, in elicottero da Colombo, ed è stato accolto da una folla grande, capace di passare dalla festa alla preghiera, grazie al modo composto e sincero di accogliere l’ospite con danze e ghirlande di fiori, ai canti sacri. Anche dolenti e come pensosi, simili a quelli che la notte scorsa hanno accompagnato centinaia di migliaia di fedeli lungo il litorale dell’Oceano Indiano, per raggiungere il luogo della canonizzazione del primo santo di qui, Giuseppe Vaz.
A Madhu il compito di salutare papa Francesco è stato assolto da mons. Joseph Rayappu, il vescovo di Mannar che ha sempre difeso i diritti dei tamil e ha anche reso testimonianza davanti alla Commissione per la riconciliazione nazionale. I due giorni nell’ex Ceylon, - ieri con l’appello ai leader religiosi a non essere "equivoci" contro le violenze in nome di Dio, e oggi con la reiterazione dell’appello a "riconciliazione, giustizia e pace", - sono quasi una scuola per l’uomo contemporaneo, chiunque egli chiami Dio, per costruire una vera fratellanza, che cambi la vita dei popoli e delle persone. Un modo di essere uomini, e perciò capaci di curare le ferite più purulente, che il Papa considera l’unico possibile per pacificare il mondo.
Come al mattino, nella messa con più di cinquecentomila persone lungo l’oceano, anche nel pomeriggio nel piccolo santuario bianco su cui svettano le bandiere blu dello Sri Lanka, davanti a circa 300mila persone, il Papa oggi ha parlato attraverso la preghiera, - presenti un gruppo di famiglie sia tamil che cingalesi duramente provate dalle ostilità - tenendo anche in mano per diversi minuti la statuetta della Vergine di Madhu.
Ciò non toglie che la sintonia provata nei confronti del neopresidente Sirisena - eletto a sorpresa anche dalle minoranze e da tutti gli srilankesi stanchi anche dei metodi arroganti del predecessore Rajapaksa e della incuranza di questi per i problemi di una vera pacificazione - possa sostenere anche la azione della Chiesa srilankese e della diplomazia del Papa, per questi obiettivi, che accomunano il piccolo e per molti lontano Sri Lanka ai grandi e ai piccoli di ogni angolo del pianeta. Papa Francesco neppure oggi ha rinunciato ai fuori programma, e ha visitato il monaco buddista Banagala Upatissa, che lo aveva invitato ieri, e ha incontrato i vescovi del Paese, ai quali ieri aveva cancellato un incontro conviviale.
* ANSA 15 gennaio 2015 17:44 (ripresa parziale).
PAPA FRANCESCO NELLE SPIRE DELL’IMMAGINARIO COSTANTINIANO. Gesù, il "Bambino, nato a Betlemme dalla Vergine Maria". Sul tema, alcuni appunti:
Papa: "No allo splendore del potere. L’amore di Dio è umile"
Nell’omelia pronunciata durante la messa dell’Epifania in San Pietro Bergoglio rievoca le figure evangeliche di Erode, "uomo di potere che nell’altro riesce a vedere solo il rivale", e dei Magi, "entrati nel mistero"
di Redazione *
CITTA’ DEL VATICANO - "L’amore di Dio è umile, tanto umile". Nel giorno dell’Epifania Papa Francesco ha voluto sottolineare che bisogna credere "più nella bontà di Dio che non nell’apparente splendore del potere". Nell’omelia della messa solenne celebrata in San Pietro davanti a oltre cinquemila fedeli, vescovi e cardinali, Bergoglio ha evocato l’episodio evangelico dei tre re che giunsero a Betlemme per rendere onore al Salvatore e si ritorvarono in una povera stalla: la loro tentazione fu quella di "rifiutare questa piccolezza. E invece essi ’si prostrarono e lo adorarono’, offrendogli i loro doni preziosi e simbolici", divenendo così "modelli di conversione alla vera fede perché hanno creduto più nella bontà di Dio che non nell’apparente splendore del potere".
Nella riflessione del Pontefice il contraltare dei Magi è Erode, un "uomo di potere che nell’altro riesce a vedere soltanto il rivale". I tre re invece "sono passati dai calcoli umani al mistero". La ricerca di Dio "è una ricerca che non ha mai fine" e la compiono "uomini e donne nelle religioni e nel mondo intero".
"Quel Bambino, nato a Betlemme dalla Vergine Maria - ha detto Francesco nell’omelia - è venuto non soltanto per il popolo d’Israele, rappresentato dai pastori di Betlemme, ma anche per l’intera umanità, rappresentata oggi dai Magi, provenienti dall’Oriente". La ricerca di Dio da parte dell’umanità, ha osservato, è come la processione dei Magi, "una processione che da allora non si interrompe più, e che attraverso tutte le epoche riconosce il messaggio della stella e trova il Bambino che ci indica la tenerezza di Dio". Papa Bergoglio ha quindi ripercorso il racconto dei Magi analizzando i loro atteggiamenti, decisioni e comportamenti - e quelli di Erode e dei pastori - osservando in particolare il modo in cui i sapienti venuti dall’Oriente hanno cercato di capire il messaggio della stella, hanno superato le difficoltà, hanno commesso errori e sono caduti in tentazione. Ha analizzato ciò che ai Magi ha dato consolazione e cosa desolazione.
"L’amore di Dio è grande? - si è chiesto il Pontefice - Sì. L’amore di Dio è potente? Sì". "E allora - ha proseguito - ci possiamo chiedere: qual è il mistero in cui Dio si nasconde? Dove posso incontrarlo? Vediamo attorno a noi guerre, sfruttamento di bambini, torture, traffici di armi, tratta di persone? In tutte queste realtà, in tutti questi fratelli e sorelle più piccoli che soffrono per tali situazioni, c’è Gesù". E ancora: "Il presepe ci prospetta una strada diversa da quella vagheggiata dalla mentalità mondana: è la strada dell’abbassamento di Dio, la sua gloria nascosta nella mangiatoia di Betlemme, nella croce sul Calvario, nel fratello e nella sorella che soffre. Quell’amore di Dio che si abbassa, si annienta".
Il Papa ha quindi chiesto di pregare per "vivere lo stesso cammino di conversione vissuto dai Magi", "liberi dalle tentazioni che nascondono la stella". "Che abbiamo sempre - ha auspicato Francesco - l’inquietudine di domandarci: dov’è la stella?, quando - in mezzo agli inganni mondani - l’abbiamo persa di vista. Che impariamo a conoscere in modo sempre nuovo il mistero di Dio, che non ci scandalizziamo del ’segno’, dell’indicazione, quel segno detto dagli angeli: ’un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia’".
Papa Bergoglio ha concluso l’omelia pregando affinché "troviamo il coraggio di liberarci dalle nostre illusioni, dalle nostre presunzioni, dalle nostre ’luci’ e che cerchiamo questo coraggio nell’umiltà della fede e possiamo incontrare la Luce, ’Lumen’, come hanno fatto i Magi. Che possiamo entrare nel mistero, così sia". Parole alte, che hanno segnato una funzione durante la quale sono risuonate le tante lingue del mondo, dalle letture bibliche in inglese, italiano, spagnolo, alle preghiere in francese, cinese, swahili, filippino, russo e il vangelo è stato cantato in latino da un diacono dagli inconfondibili tratti orientali.
Il Papa ai giovani: senza Maria, un cristiano è orfano
Il cristiano ha bisogno di “due Madri”: la Madonna e la Chiesa. Parlando a braccio ai giovani della diocesi di Roma impegnati nel cammino di discernimento vocazionale, Papa Francesco ha ricordato come la Madonna sia “tanto importante nella nostra vita”. È lei, ha detto, che “ci accompagna nella scelta definitiva, la scelta vocazionale”, avendo accompagnato Suo Figlio nel proprio cammino vocazionale “che è stato tanto duro, tanto doloroso”. Insomma: “ci accompagna sempre”:
“Un cristiano senza la Madonna è orfano. Un cristiano senza Chiesa è anche un orfano. Un cristiano ha bisogno di queste due donne, due donne Madri, due donne Vergini: la Chiesa e la Madonna”.
Lo ha definito un test di “vocazione cristiana giusta”, il Pontefice, quello di domandarsi come vada il “rapporto con queste due Madri”, la Madre Chiesa e la Madre Maria:
“Questo non è un pensiero ‘di pietà’... No, è teologia pura. Questa è teologia. Come va il mio rapporto con la Chiesa, con la mia Madre Chiesa, con la Santa Madre Chiesa gerarchica? E come va il mio rapporto con la Madonna, che è la mia mamma, mia madre”?
Quindi una riflessione sul cammino di discernimento. “Per ognuno di noi - ha assicurato il Santo Padre - il Signore ha la sua vocazione, quel posto dove Lui vuol che noi facciamo la vita”. Va cercato, trovato e poi portato avanti. Una scelta a cui va dato un “senso del definitivo”, di fronte alla “cultura del provvisorio” che stiamo vivendo:
“Abbiamo paura del definitivo, no? E per scegliere una vocazione, una vocazione qualsiasi sia, anche quelle vocazioni “di stato”, il matrimonio, la vita consacrata, il sacerdozio, si deve scegliere con una prospettiva del definitivo. Va contro questo la cultura del provvisorio. E’ una parte della cultura che a noi tocca vivere in questo tempo, ma dobbiamo viverla, ma vincerla”.
D’altra parte, ha concluso salutando i ragazzi, colui che “ha più sicura la sua strada definitiva è il Papa”.
(Tratto dall’archivio della Radio Vaticana)
Strane nascite
di Piero Stefani (22.12.2013) *
Matteo e Luca nei loro «vangeli dell’infanzia» (i soli che parlano dell’evento) descrivono la nascita di Gesù come un parto verginale. Tra tutti gli aspetti narrativi collegati all’immaginario natalizio, questo è, senza dubbio, quello meno tenuto presente. La ragione è semplice: il tema della verginità feconda emerge in primo piano nelle feste mariane, mentre a Natale il centro è occupato da Gesù. Tutte le altre, anche le più prossime, sono figure di contorno. Di presepi ce ne sono stati tanti e di molti tipi, ma nessuno tra essi evoca una scena di parto. Il bambinello viene messo tra la paglia dall’esterno, come se venisse da fuori. Nella storia dell’iconografia molti sono i ritratti di Maria che allatta ma nessuno di essi - salvo smentite - è collocato in un presepe. Nella stalla la madre è presentata la prima tra gli adoranti. Vale a dire, è caratterizzata da un atteggiamento che ogni fedele può assumere in proprio. Tra i gesti paraliturgici della notte di Natale vi è quello di baciare un neonato che «scende dalle stelle» isolandolo dai suoi genitori.
Secondo un antico detto, l’apparenza inganna. Si è fatta molta fatica per cercare di comprendere la difficile frase secondo la quale Giuseppe,una volta scoperta la gravidanza della sua promessa sposa, «poiché era uomo giusto» non volle accusarla pubblicamente e pensò perciò di ripudiarla in segreto (Mt 1,19). Che senso di giustizia vi è mai in ciò? Una risposta sta proprio nel rifiuto di Giuseppe di prendere quanto appare per quel che è. Quando non si sa decifrare un avvenimento, la persona giusta, in luogo di condannare, sospende il giudizio: «non giudicate per non esser giudicati» (Mt 7,1).
In base a un modello biblico, il vangelo di Matteo inizia con una genealogia (Mt 1,1-17). Essa riguarda «Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo». Nella genealogia compaiono anche quattro donne - Tamar (Gen 38), Rachab (Gs 2), Rut (Rt 3-4) e la moglie di Uria (Betsabea, 2Sam 11,1-12,24) - le cui maternità furono contraddistinte da tratti «irregolari». Tuttavia, nonostante le apparenze, queste nascite furono tutte conformi alla giustizia di Dio; esse anticipano quanto sarebbe avvenuto in Maria e interagiscono con l’anomalia di una genealogia che termina in Giuseppe che pur non è presentato come padre naturale di Gesù.
Tra i quattro casi il più fruttuoso, in riferimento a Giuseppe, è quello relativo a Tamar e a Giuda (il capostipite della tribù a cui appartenne lo sposo di Maria). Giuda, dopo aver violato la legge che lo obbligava a far sposare un suo figlio con la propria nuora rimasta vedova, ha rapporti sessuali con Tamar, da lui non riconosciuta perché travestitasi da prostituta. Quando la nuora rimane incinta il suocero esige l’applicazione della pena capitale prevista per le adultere. Tamar gli fornisce però le prove inconfutabili della sua paternità; allora il suocero esclama: «Lei è più giusta di me» (Gen 38,26). Sotto la maschera di un rapporto sessuale con una prostituta si annida un’opera di giustizia. Giuda giudicò secondo le apparenze, non così il giusto suo discendente Giuseppe.
Se ci si limitasse alle apparenze cosa mai sarebbe il Natale? La nascita di un povero bimbo di duemila anni fa venuto al mondo in una stalla. La fede non nega che sia così, ma nel contempo ci fa pure andar oltre. Anche tenendo conto di tutte le differenze del caso, qualcosa di simile vale pure per i rapporti interumani.
Nel mondo dominato dalle immagini e quindi dall’apparire, il giusto Giuseppe ci invita, da un lato, a non giudicare in base a quanto appare in superficie e, dall’altro, ad essere aperti a credere che persino quella che ai nostri occhi sembra una colpa può essere un luogo dove opera Dio.
DECRETO
San Giuseppe, un modello sempre attuale
Il suo nome nelle Preghiere eucaristiche
di Matteo Liut (Avvenire, 19 giugno 2013)
È san Giuseppe, umile custode di un tesoro prezioso, il modello da incarnare con sempre maggiore efficacia nel mondo di oggi. Questo mandato alla Chiesa universale è alla base della decisione di inserire il nome dello sposo della Vergine Madre di Dio nella seconda, nella terza e nella quarta Preghiera eucaristica, estendendo così anche a questi testi più moderni quanto avviene già per la prima Preghiera eucaristica, il Canone Romano. Così dopo le parole «con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio» d’ora in poi bisognerà sempre aggiungere anche «con san Giuseppe, suo sposo». La decisione è stata annunciata ieri dalla Sala stampa vaticana, che ha pubblicato in diverse lingue un decreto emesso dalla Congregazione per il culto divino e la disciplina dei Sacramenti.
Un documento che riporta la data dello scorso 1° maggio e le firme del cardinale Antonio Cañizares Llovera e dell’arcivescovo Arthur Roche, rispettivamente prefetto e segretario del Dicastero vaticano. L’indicazione non è frutto di una decisione dell’ultimo minuto, ma, secondo quanto riporta lo stesso decreto, è stata voluta da Benedetto XVI e ora realizzata da papa Francesco. «Nella Chiesa cattolica i fedeli hanno sempre manifestato ininterrotta devozione per san Giuseppe - si legge nel documento - e ne hanno onorato solennemente e costantemente la memoria di sposo castissimo della Madre di Dio e patrono celeste di tutta la Chiesa, al punto che già il beato Giovanni XXIII, durante il Sacrosanto Concilio ecumenico vaticano II, decretò che ne fosse aggiunto il nome nell’antichissimo Canone Romano».
Benedetto XVI, spiega ancora il decreto, «ha voluto accogliere e benevolmente approvare i devotissimi auspici giunti per iscritto da molteplici luoghi, che ora il sommo pontefice Francesco ha confermato, considerando la pienezza della comunione dei santi che, un tempo pellegrini insieme a noi nel mondo, ci conducono a Cristo e a lui ci uniscono». Un gesto, quindi, che rende ancora più forte la continuità tra i pontificati di Joseph Ratzinger e di Jorge Mario Bergoglio: il primo, infatti, ha più volte ricordato la sua profonda devozione al «proprio santo», il secondo porta nel proprio stemma (da vescovo, cardinale e pontefice) il nardo, simbolo dello sposo di Maria. Inoltre il pontificato del Papa argentino è stato ufficialmente inaugurato con la Messa d’inizio del ministero petrino proprio il 19 marzo, giorno in cui la Chiesa festeggia san Giuseppe. In lui, ha detto Francesco nell’omelia quel giorno, «vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza, ma vediamo anche qual è il centro della vocazione cristiana: Cristo! Custodiamo Cristo nella nostra vita, per custodire gli altri, per custodire il creato!».
Parole cui fa eco in parte anche la spiegazione contenuta nel decreto diffuso ieri: san Giuseppe - vi si legge - «aderendo pienamente agli inizi dei misteri dell’umana salvezza, è divenuto modello esemplare di quella generosa umiltà che il cristianesimo solleva a grandi destini e testimone di quelle virtù comuni, umane e semplici, necessarie perché gli uomini siano onesti e autentici seguaci di Cristo. Per mezzo di esse quel Giusto, che si è preso amorevole cura della Madre di Dio e si è dedicato con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, è divenuto il custode dei più preziosi tesori di Dio Padre» ed è stato venerato nei secoli «quale sostegno di quel corpo mistico che è la Chiesa». Una Chiesa che oggi vuole ripartire proprio dal suo esempio.
Matteo Liut
LA DEVOZIONE
Giuseppe, un padre a lungo nell’oblio
di Michele Dolz (Avvenire, 20 marzo 2013)
Nella chiesetta di Sancta Maria foris portas a Castelseprio, nel varesotto, c’è una delle più antiche rappresentazioni di san Giuseppe. Si tratta di un affresco raffigurante il viaggio a Betlemme databile al VII secolo. Prima di queste date Giuseppe è praticamente assente dalle raffigurazioni. Nell’arte funeraria dei primi tempi vediamo Maria col Bambino, magari all’arrivo dei Magi, ma Giuseppe non c’è.
A dire il vero, se già nei vangeli Giuseppe non dice una parola, certi apocrifi gli avevano tolto la silenziosa dignità per farne una figura risibile e del tutto secondaria. Nello Pseudo-Matteo, il Protovangelo di Giacomo e nella Storia di Giuseppe falegname si parla di un Giuseppe vecchio e senza vigore, con l’unico incarico di proteggere la verginità di Maria. È l’immagine che le icone riciclano subito specialmente nella scena della Natività, che prevede un Giuseppe anziano assopito in un angolo mentre Maria riceve l’omaggio dei pastori e gli angeli.
E questo modello è stato durissimo a morire.
L’iconografia di Giuseppe segue logicamente lo sviluppo della devozione al santo, che non è antica. Inutilmente lo si cercherà nell’enciclopedica Legenda aurea. E nelle Meditationes dello Pseudo-Bonaventura, libro francescano di enorme diffusione alla fine del Medioevo, ci si limita ad accennare a «quel santo vecchietto di Giuseppe». Giotto, sebbene abbia rinnovato la scena della natività, tratta Giuseppe ancora in quel modo.
La prima grande spinta alla devozione la dà Jean Gerson nel Quattrocento. Umanista e rettore della Sorbona, scrisse Consideration sur Saint Joseph e predicò vari sermoni sul santo al Concilio di Costanza. Anche san Bernardino da Siena e Pierre d’Ailly collaborarono alla diffusione di una devozione specifica. E naturalmente le sacre rappresentazioni sul Natale, patrimonio francescano. Le Rivelazioni di santa Brigida, pubblicate per la prima volta a Lubecca nel 1492 e lette da tutta la cristianità occidentale, presentano un Giuseppe che va in cerca di lume, di fuoco, di cibo.
E la figura comincia ad acquistare tratti umani definiti, tipologie innovative, che ne accentuano il ruolo di padre putativo, educatore, intercessore e patrono. Sisto IV (1471-1484) ne introdusse il culto istituendo la festa del 19 marzo. Gregorio XV, nel 1621, decretò la festa tra quelle comandate. Sussistevano le condizioni per uno sviluppo delle raffigurazioni artistiche.
Chiese, confraternite, compagnie d’arti e mestieri, istituti religiosi, e anche privati vollero dotarsi di opere d’arte per la loro devozione o patrocinio. Si sviluppano così due filoni iconografici, uno con la Santa Famiglia dove Giuseppe è coprotagonista, l’altro con scene di lavoro a Nazaret. Della prima si può ricordare la precoce xilografia di Dürer (1498 ca), dove in un paesaggio aperto Maria mostra il Bambino mentre Giuseppe, abbigliato come un paesano nordico, veglia un po’ indietro. È la famosa Sacra Famiglia con le tre lepri.
Dalla seconda metà del Cinquecento fioriranno le immagini di Giuseppe da solo o con il Bambino (in braccio o per mano). Sarà la Spagna post tridentina a dare la maggior prova della devozione trasformata in arte, in quella imagineria che da Siviglia a Valladolid produsse sculture lignee di altissima qualità e forte impatto, da Juan Martínez Montañés ad Alonso Cano.
Per la composizione della Santa Famiglia non si può ignorare la tela di Murillo conservata alla National Gallery di Londra, che raffigura in modo commovente la Trinità del Cielo e la "trinità" della terra. Nei dipinti di Murillo, come in genere nella Spagna dell’epoca, Giuseppe non è più vecchio, ma uomo pieno di vigore. Era crescente la devozione al Santo sotto l’impulso di un personaggio come Teresa d’Avila.
Nel Settecento subentra un aspetto particolare della devozione: considerare il transito di Giuseppe. Lo s’immagina morente tra l’amore di Maria e di Gesù, patrono così della buona morte. Si moltiplicano i dipinti con questo soggetto, anche per tutto l’Ottocento, ma non sono opere di particolare qualità.
Negli ultimi tempi si è verificato un veloce crescendo magisteriale sulla figura di Giuseppe: nel 1870 Pio IX lo proclamò patrono della Chiesa universale. Leone XIII scrisse la prima enciclica interamente riguardante il Santo: la Quamquam pluries, del 1889. Nel 1921, Benedetto XV estese la festa della Sacra Famiglia a tutta la Chiesa. In questo clima nacquero alcune opere importanti, come Cristo nella casa di suoi genitori di John Everett Millais, dipinto nel 1850 e conservato alla Tate Gallery. Raffigura la bottega di Giuseppe con tutta la famiglia al lavoro, insieme ad alcuni garzoni. Opera eccellente, piena di una commozione giocata con la luce. Oppure la versione del tema affrescata da Modesto Faustini a Loreto nel 1890.
Michele Dolz
PREMESSA. Note sul tema:
RIDOTTA LA DONNA A "FEMMINILE" (A "FEMMINA") E L’UOMO A "MASCHILE" ("MASCHIO"), PER IL PAPA la "relazione personale" con Dio (concepito come "Uomo-Maschio") può essere ovviamente solo dell’"Uomo-Maschio", e dell’intero ordine sacerdotale (uomini-maschi). Che il "maschile" e il "femminile" sia di ogni essere umano (dell’uomo come della donna), che Due Persone ("due cherubini") siano i custodi della Legge (l’ Arca dell’Alleanza Mosaica) e Due Persone ("Maria" e "Giuseppe") siano i "genitori" e i custodi della Legge del Dio Vivente (Gesù) della Nuova Alleanza è una bestemmia che va sanata con un modello di famiglia intesa - in modo talebanico - biologicamente e naturalisticamente, in nome del suo Dio ("Deus caritas est", 2006) e del suo "Dominus Iesus", 2000)!!!
Il Papa dice no alla filosofia «di genere»
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 20 gennaio 2013)
«La Chiesa ribadisce il suo grande sì alla dignità e bellezza del matrimonio come espressione di fedele e feconda alleanza tra uomo e donna. E il no a filosofie come quella del "gender" si motiva per il fatto che la reciprocità tra maschile e femminile è espressione della bellezza della natura voluta dal Creatore».
Benedetto XVI si è rivolto ieri al Consiglio «Cor Unum», il dicastero vaticano che amministra le opere di carità del Papa, e ha ripreso il filo del discorso alla Curia, prima di Natale, quando parlò dell’«attentato all’autentica forma della famiglia - costituita da padre, madre e figlio - al quale oggi ci troviamo esposti»: citando l’intervento del Gran Rabbino di Francia Gilles Bernheim contro il «matrimonio per tutti» e le adozioni a coppie gay, il Papa aveva criticato la «profonda erroneità» della teoria di genere, per la quale «il sesso non è più un dato originario della natura che l’uomo deve accettare e riempire di senso, bensì un ruolo sociale del quale si decide autonomamente».
Anche ora Ratzinger, secondo il suo stile, non lancia anatemi ma argomenta intorno alla «deriva» dell’uomo contemporaneo, al «prometeismo tecnologico» per cui «ciò che è tecnicamente possibile diventa moralmente lecito». E parte da una considerazione: «Il cristiano deve lasciarsi orientare dai principi della fede, mediante la quale noi aderiamo al punto di vista di Dio, al suo progetto su di noi».
In ogni epoca, dice, «quando l’uomo non ha cercato tale progetto, è stato vittima di tentazioni culturali che hanno finito col renderlo schiavo». In particolare «le ideologie che inneggiavano al culto della nazione, della razza, della classe sociale si sono rivelate vere e proprie idolatrie».
Ma non ci sono solo i totalitarismi atei, dal nazismo al comunismo: «Altrettanto si può dire del capitalismo selvaggio col suo culto del profitto, da cui sono conseguite crisi, disuguaglianze e miseria». Anche il nostro tempo «conosce ombre che oscurano il progetto di Dio».
Qui sta il punto, scandisce Benedetto XVI. «Mi riferisco a una tragica riduzione antropologica che ripropone l’antico materialismo edonista, cui si aggiunge però un prometeismo tecnologico: dal connubio tra una visione materialistica dell’uomo e il grande sviluppo della tecnologia emerge un’antropologia nel suo fondo atea», prosegue. «Essa presuppone che l’uomo si riduca a funzioni autonome, la mente al cervello, la storia umana ad un destino di autorealizzazione. Tutto ciò prescindendo da Dio, dalla dimensione spirituale e dall’orizzonte ultraterreno». Così l’uomo si «assolutizza», cioè pretende di essere «ab-solutus, sciolto da ogni legame e costituzione naturale».
Se Dio non esiste tutto è possibile, diceva Dostoevskij. Ed è ciò che al fondo dice anche il Papa: quando l’uomo è «privato della sua anima» e dunque «di una relazione personale con il Creatore», allora «ogni esperimento risulta accettabile, ogni politica demografica consentita, ogni manipolazione legittimata».
Benedetto XVI invita chi opera in campo sociale a «esercitare una vigilanza critica e, a volte, ricusare finanziamenti e collaborazioni che favoriscano azioni o progetti in contrasto con l’antropologia cristiana». La Chiesa è «colonna e sostegno della verità» e i pastori «hanno il dovere di mettere in guardia», conclude solenne: «Anche se questa deriva si traveste di buoni sentimenti all’insegna di un presunto progresso, o di presunti diritti, o di un presunto umanesimo».
Il bue e l’asinello negati dal Papa
di Marco Politi (il Fatto, 21.11.2012)
Sotto l’albero di Natale papa Ratzinger mette il suo libro su L’infanzia di Gesù. Il racconto della nascita di Cristo nella mangiatoia, ma senza il bue e l’asinello. Perché “nel Vangelo non si parla qui di animali”. Ma niente paura. Come in una favola allegorica tutto viene recuperato dal pontefice e così i due animali, così cari ai bimbi di tutto il mondo, vengono riletti come simbolo dell’umanità intera - ebrei e pagani - china sul Salvatore nato nella povertà.
È stato un anno drammatico il 2012 per il pontificato: è esploso lo scandalo della corruzione negli appalti vaticani, è stato decapitato il vertice dello Ior, il Vaticano non è entrato per mancanza di trasparenza finanziaria nella “lista bianca” Moneyval del Consiglio d’Europa. C’è stato il tradimento del maggiordomo ed è emerso il malumore di vasti settori della Curia nei confronti del Segretario di Stato Bertone... e in tutto questo uragano fino al 15 agosto Benedetto XVI ha avuto un pensiero prevalente: finire di scrivere l’ultimo volume della sua trilogia su Gesù di Nazareth.
IL LIBRO (edito da Rizzoli e la Libreria editrice vaticana) conquisterà lettori come i precedenti per il suo stile affettuosamente colloquiale e il suo ripercorrere le storie che per duemila anni hanno nutrito fede, cultura e arte del cristianesimo. Ma soprattutto perché Ratzinger chiama direttamente la massa dei credenti a interrogarsi sulle storie del Vangelo: “È vero ciò che è stato detto? Riguarda me? E se mi riguarda, in che modo? ”. Dopo il 2010, mentre la Chiesa faticava a fare i conti con lo scandalo degli abusi sessuali, qualche cardinale straniero sospirava: “Speriamo che il Papa non scriva un altro libro su Gesù”.
Invece Benedetto XVI si è gettato a capofitto nell’opera, che nel suo intimo sente come missione fondamentale del pontificato. E qui sta forse un aspetto tragico del suo regno. Ratzinger sa - e ha ragione - che le ultime generazioni (vale per i giovani ma ormai anche per una vasta fascia mediana di età) hanno smarrito la conoscenza di base dei vangeli e della storia di Gesù Cristo. E sente come suo dovere, appassionatamente, di riportare i credenti all’incontro con Cristo, definito il “volto di Dio” che ciascuno può conoscere.
Ma in questa impresa, chinandosi sui suoi libri e le ricerche, è diventato un pontefice part-time, che segue un piano editoriale e un obiettivo teologico ma non possiede un programma di governo. Lo ha detto, d’altronde, lui stesso nella messa di insediamento il 24 aprile 2005: “Non ho bisogno di presentare un programma di governo”.
NON LO HA elaborato nemmeno in seguito. Ma un’organizzazione di un miliardo e cento milioni di uomini e donne non è una piccola comunità come quella degli apostoli nell’anno trentatré dopo Cristo. Ha bisogno della mano di un reggente. Sulla scena mondiale è calato il ruolo e il peso della Santa Sede.
Israele minaccia la “guerra di Gaza” per distogliere l’attenzione dall’occupazione di terre palestinesi attraverso le colonie del tutto illegali e impedire il riconoscimento della Palestina come stato-osservatore dell’Onu? Silenzio della Santa Sede. La primavera araba, l’evento internazionale più rilevante dopo il crollo del muro di Berlino? Non c’è stato in due anni un discorso papale di vasto respiro sul fenomeno. È stagnazione sui grandi problemi interni della Chiesa. Si sta accartocciando, per mancanza di preti, la rete delle parrocchie. Si sta riducendo drammaticamente la forza degli ordini religiosi femminili, spina dorsale della Chiesa cattolica: 45.000 presenze perse in sei anni. Il pontefice regnante nulla propone. A Parigi il cardinale Vingt-Troisi ha denunciato la disorganizzazione della Curia: “Ogni dicastero va per conto suo”. E Benedetto XVI finora non riesce a sostituire il Segretario di Stato. Tocca le corde dei ricordi dell’infanzia davanti al presepe e all’albero di Natale, quest’ultimo libro di Benedetto XVI, che narra dell’annunciazione, dei pastorelli, della fuga in Egitto.
CERTO RATZINGER non dice più - come nella sua Introduzione al Cristianesimo di oltre quarant’anni fa - che Giuseppe avrebbe potuto anche essere il padre biologico di Gesù. Oggi proclama che “se Dio non ha anche potere sulla materia, allora egli non è Dio” e quindi è vero il concepimento verginale.
Storicamente veri o almeno verosimili vengono anche presentati la leggendaria strage degli innocenti e l’arrivo dei re magi. Con l’apodittica affermazione dello studioso Klaus Berger: “Anche nel caso di un’unica attestazione... bisogna supporre - fino a prova contraria - che gli evangelisti non intendono ingannare i loro lettori, ma vogliono raccontare fatti storici”. Se è per questo, anche Omero non voleva ingannare i suoi ascoltatori e allora non va contestato il ratto di Elena!
L’infanzia di Gesù ratzingeriana ha molti momenti lirici. Nella rievocazione dell’aprirsi di Maria all’annuncio di Gabriele. Nel racconto intrigante dei re magi visti come “sapienti” alla ricerca del vero oltre la razionalità della scienza, in cerca di Dio e della filosofia più autentica. Pregnante è il suo appello a credere che la vita di Cristo non è mito ma “storia concreta, in un luogo e in un tempo” reali, svoltasi nelle varie fasi della vita umana.
di Roberto Monteforte (l’Unità, 21.11.2012)
«DI DOVE SEI?» È LA DOMANDA CHE PILATO RIVOLGE A GESÙ. «VOI CHI DITE CHE IO SIA?» È QUELLA, INVECE, CHE GESÙ RIVOLGE AI SUOI DISCEPOLI. Parte da questi interrogativi Papa Benedetto XVI per affrontare il tema dell’infanzia di Gesù, quello che mancava per completare la sua opera sulla vita del Nazareno (i primi due, Gesù di Nazaret I e II, sono stati pubblicati rispettivamente da Rizzoli e dalla Libreria editrice vaticana). Con profondità e chiarezza, ed anche con umiltà come ha sottolineato ieri nella presentazione dell’opera alla stampa il cardinale Gianfranco Ravasi il teologo e Papa Joseph Ratzinger si è cimentato con il commento dei 180 versetti che i Vangeli, in particolare quello di Matteo e di Marco, dedicano all’infanzia e agli eventi che hanno preceduto la nascita di Gesù di Nazaret. L’obiettivo è quello di sottolineare la concreta storicità dell’evento. Il «nuovo inizio» per la storia del mondo e per la liberazione dell’umanità dal peccato.
Così scopriamo, per esempio, che il bue e l’asino non erano nella stalla con Gesù e che pastori in visita al figlio di Dio non cantavano. Il Papa spiega l’origine della nascita secondo le Sacre scritture ma non invita affatto a buttare a mare la tradizione. Perciò chi allestisce presepi a casa o altrove può tranquillamente inserire il bovino e l’equino nella capanna. «Nel Vangelo non si parla di animali», chiarisce Ratzinger. «Ma aggiunge la meditazione guidata dalla Fede, leggendo l’Antico Testamento e il Nuovo, ha ben presto colmato questa lacuna rinviando ad Isaia: “il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende”».
Vi era attesa per l’arrivo di un Salvatore. Eppure il Salvatore non trova un posto dove essere accolto. Nasce nella povertà ed è annunciato ai pastori. È stato Gesù a guidare la stella cometa che ha portato a lui i Magi sapienti. Loro sono l’emblema dell’inquietudine dell’uomo in ricerca e dell’attesa interiore dello spirito umano e della ragione che cerca Cristo. Non è mito, ma storia.
Tutto nasce da un atto di libertà. Lo sottolinea l’autore. Da Dio che interpella Maria e da lei che liberamente risponde e si affida al mistero della sua volontà. Il Papa cita Bernardo di Chiaravalle: «Creando la libertà, Dio, in un certo modo, so è reso dipendente dall’uomo. Il suo potere è legato al “sì” non forzato di una persona umana». Perché è solo con l’assenso di Maria che può cominciare la storia della salvezza. L’autore si sofferma sulle reazioni di Maria e di Giuseppe che la prende in sposa. Dei suoi dubbi, della sua intenzione di ripudiarla in segreto e poi della sua scelta di amore e di saggezza. Accetta il mistero. Farà da padre a Gesù e formalmente lo legherà alla tribù di Davide. Ma solo Dio sarà il suo vero padre e Maria, la vergine di Nazaret, sua madre. Vergine e madre. L’altro mistero. Benedetto XVI lo spiega con la potenza di Dio che ha dominio anche sulla materia. Che si mostra nella nascita di Gesù e poi nella sua Resurrezione.
Nel libro si dà conto dei passaggi che anche pubblicamente danno il segno della dimensione umana e della natura divina del figlio di Maria come quando dodicenne lascia la famiglia e con sorprendete sapienza va a predicare nella sinagoga. Un atto di apparente contestazione, di ribellione ai doveri verso i genitori.
Benedetto XVI corregge le letture di un Gesù «liberale» o «rivoluzionario» per sottolinearne la nuova relazione dell’uomo con Dio. Nel racconto di Gesù nella sinagoga a 12 anni, dunque, si ha una «novità radicale e una fedeltà altrettanto radicale».
Gesù compie il suo dovere di figlio di Dio che alla fine lo porterà a morire di croce e Maria a vivere lo strazio del dolore per la morte del figlio per poi vincere la morte. «È un libro su un bambino e su una donna e sul grande significato della libertà» ha osservato il presidente Rcs libri, Paolo Mieli intervenuto alla presentazione del volume con il cardinale Ravasi, la teologa brasiliana Clara Lucchetti Bungemer, il direttore della sala stampa vaticana padre Federico Lombardi. L’infanzia di Gesù, pubblicato da Rizzoli e dalla Libreria Editrice Vaticana (176 pagine, 17 euro) sarà da oggi in libreria. È stato già tradotto in 9 lingue e diffuso in 50 paesi (tiratura di oltre un milione di copie) e presto sarà tradotto in 20 lingue per essere pubblicato in 72 Paesi.
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No degli artigiani al presepe senza bue e asinello
Guai finanche a pensarlo nei vicoli di Napoli. Nessun posto nel presepe per il bue e l’asinello? La prima reazione dei maestri d’arte presepiale è questa: il sorriso. Poi, subito dopo, c’é anche questo: "Nel presepe napoletano il bue e l’asinello sempre ci sono e sempre ci sarannò". Rispetto massimo, chiariscono gli artigiani, per quanto si legge nel libro di papa Joseph Ratzinger ’L’infanzia di Gesu" secondo il quale nel Vangelo "non si parla di animali". Ma da qui a mettere in discussione un pezzo fondamentale del presepe, ce ne vuole. O meglio: non se ne parla proprio.
Figli contesi
Il compito dei genitori, dichiarava Freud, è un compito impossibile
Viviamo da tempo nell’epoca della crisi simbolica della funzione di autorità.
Sono evaporate le figure della Legge e del Padre
Quando giudici e tribunali si sostituiscono ai genitori
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 18.10.2012)
Il compito dei genitori, dichiarava Freud, è un compito impossibile. Come governare (e psicoanalizzare), aggiungeva. Cosa significa? Significa che il mestiere del genitore non può essere ricalcato su di un modello ideale che non esiste. Significa che ciascun genitore è chiamato ad educare i suoi figli a partire dalla propria insufficienza, esponendosi al rischio dell’errore e del fallimento. Per questa ragione i genitori migliori non sono quelli che si offrono ai loro figli come esemplari, ma quelli consapevoli del carattere impossibile del loro mestiere. Ecco una buona notizia che dovrebbe alleggerire l’angoscia di chi si trova ad occupare questa posizione.
Il compito impossibile dei genitori si carica oggi di nuove angosce, come dimostra il caso di Cittadella. Scopriamo l’acqua calda se diciamo che il nostro tempo è il tempo della crisi simbolica della funzione dell’autorità. Questo vuol dire che la Legge ha smarrito il suo fondamento simbolico. Se il nostro è il tempo dell’evaporazione del padre è anche il tempo dell’evaporazione della Legge come ciò che custodisce la possibilità degli umani di vivere insieme. I sintomi di questa crisi sono sotto gli occhi di tutti e non investono solo lo studio dello psicoanalista (genitori angosciati, figli smarriti) ma attraversano l’intero corpo sociale: difficoltà a garantire il rispetto delle istituzioni, frana della moralità pubblica, eclissi del discorso educativo, caduta di un senso condiviso, incapacità di costruire legami sociali creativi... In primo piano è un indebolimento culturale non tanto delle leggi scritte sul codice e sui libri di Diritto ma del senso stesso della Legge che, come la psicoanalisi insegna, ha come suo tratto fondamentale quello di sostenere la vita umana come marcata da una mancanza, da un senso del limite, da una impossibilità di autosufficienza.
Questo indebolimento culturale non genera solo smarrimento, ma anche l’invocazione compulsiva della Legge nella forma dell’appello ai giudici, ai tribunali, alle norme stabilite dal Codice. È un tratto del nostro tempo: la Legge viene continuamente invocata a partire da un difetto di trasmissione del senso simbolico della Legge. È quello che accade anche nelle famiglie. Ci sono i tribunali che accolgono le istanze dei bambini malmente trattati dagli adulti e quelli che soccorrono gli adulti nelle loro diatribe coniugali.
L’istituto della mediazione familiare sembra essere divenuto indispensabile per temperare conflitti a rischio di degenerazione. Situazione tanto più paradossale se si considera che sono spesso i figli che impongono la legge in famiglia. Sono loro che dettano le regole. È una grande mutazione antropologica messa in rilevo da diversi studiosi: non è più il figlio che deve adattarsi alle norme simboliche che regolano la vita di una famiglia, ma sono le famiglie che si adattano alla legge stabilita dai loro figli. L’invocazione dell’intervento del giudice segnala questa alterazione profonda dei ruoli simbolici. I genitori, che sono sempre più in difficoltà nel trasmettere ai loro figli il senso sella Legge, si appellano alla Legge del giudice affinché gli restituisca la proprietà dei figli!
La violenza, il sopruso, il disordine caratterizzano da sempre le relazioni umane, comprese quelle familiari. I conflitti fanno parte della vita. Perché allora si è reso sempre più necessario l’intervento di una istanza Terza capace di regolare semaforica- il disordine delle relazioni affettive più intime? Sempre più frequentemente i problemi della famiglia finiscono di fronte a un giudice o esigono una mediazione compiuta da un Terzo. Nell’epoca in cui il Terzo sembra non esistere più, nell’epoca dove tutto è uguale a tutto, si chiama in causa il Terzo ogni qualvolta si incontra un ostacolo al perseguimento dei proprio interessi o di quello dei propri figli. I genitori rompono senza problemi il patto generazionale con gli insegnanti se si tratta di non far perdere un anno al proprio figlio ingiustamente giudicato. La Legge agisce orizzontalmente permeando la nostra vita ordinaria.
Perché non si separano se non fanno altro che litigare? Si chiedeva un mio giovanissimo paziente. Quando osò porre questa domanda ai suoi genitori questi risposero all’unisono: «E tu cosa faresti?». Risposta. «Dunque se io morissi vi lascereste, finalmente?». La logica ferrea di questo piccolo non lascia scampo ai suoi genitori sull’assunzione delle loro responsabilità.
La genitorialità non può mai essere confusa con il destino, talvolta burrascoso, della coppia. Sappiamo come i figli possano venire trascinati nel gorgo tremendo delle reciproche rivendicazioni dei coniugi. È allora che si esige l’intervento di un Terzo. Ma il giudice interviene sui figli o sugli adulti? La sua chiamata in causa sempre più inflazionata non testimonia forse una minorizzazione generalizzata degli adulti, nel senso che è venuta loro meno la forza di assumersi la responsabilità della decisione.
In gioco è piuttosto una delega della responsabilità. Perché il Terzo deve essere necessariamente un giudice? Non dovrebbe apparire nella forma del riconoscimento del senso simbolico della Legge, quello che, per esempio, impone ai genitori la cura dei propri figli al di là dei loro interessi personali?
Il senso simbolico della Legge oggi è screditato o del tutto confuso (querulomaniacalmente) con l’esistenza dei Codici. Restituire valore al carattere simbolico della Legge implicherebbe per i genitori saper rinunciare alle aspettative personali sui loro figli. Essere padri, come ci ricorda lo scandaloso racconto biblico del sacrificio di Isacco, implica la dimensione della rinuncia radicale al possesso dei propri figli, implica saperli affidare al deserto.
La celebrazione nel cuore dell’estate della festa dell’Assunzione
Maria, parola-segno di consolazione e speranza
di Mauro Cozzoli (Avvenire, 12 agosto 2012
Nel cuore dell’estate la liturgia ci fa celebrare la festa della Assunzione di Maria. È un segno dell’accompagnamento della Chiesa, che con la sua liturgia ritma i tempi della nostra vita, anche i tempi di vacanza. Tempi mai vuoti ma particolarmente propizi - perché liberi da incombenze e preoccupazioni lavorative - per elevare lo sguardo e prendersi cura di sé, della propria vita interiore, della propria anima. Elevare lo sguardo ai segni della grazia, che non mancano, ma hanno bisogno di occhi attenti per essere riconosciuti e accolti. Riconoscerli e accoglierli per arginare quel logorio etico-spirituale che gli affanni del quotidiano alimentano e dilatano. Logorio provato come senso di smarrimento, insignificanza, insoddisfazione, estraneità, apatia. Il segno dei segni - il segno primordiale e centrale della grazia - è Cristo, la sua umanità. Poi - ci dice san Paolo - «quelli che sono di Cristo». E «di Cristo» è prima di tutto sua madre. Di qui l’attenzione privilegiata della Chiesa a Maria, per imparare da lei, la nuova Eva: figura dell’umanità rinnovata. Icona di perfetta umanità, in rapporto a quei limiti esistenziali da cui non c’è auto-liberazione (redenzione a opera dell’uomo) ma soltanto liberazione dall’alto, a opera della grazia. E Maria - come la dice il vangelo - è la «piena di grazia», nella quale «grandi cose ha fatto l’Onnipotente». Così da essere additata dal Concilio Vaticano II come «eccellentissimo modello», cui guardare per sapere chi siamo e chi siamo destinati ad essere.
I due grandi limiti da cui non c’è auto-liberazione e che angosciano ineludibilmente l’animo umano sono la morte e il peccato, dai quali Maria - per singolare privilegio divino - è stata preservata. Per cui la Chiesa la riconosce e la proclama "Immacolata" e "Assunta". Non per nulla le due grandi solennità mariane sono «l’Immacolata concezione» e «l’Assunzione al Cielo». Due festività che, attraverso la devozione e la pietà popolare, hanno acquisito valenza e spessore sociale e culturale nella nostra gente. Così da sentirsi incoraggiata e sospinta a guardare e accostarsi a Maria per affrontare e amare la vita e non soccombere al tormento della colpa e allo sgomento della fine. In una socio-cultura (e socio-economia) del disincanto, che abbandona gli animi alla mestizia della disillusione, abbiamo bisogno di segni trasparenti e attraenti di umanità.
Segni in cui riconoscerci per continuare o tornare a credere nella vita, specialmente quando questa si fa buia e la tentazione opprimente. Non parole-teorie, ancor meno parole "a perdere". Ma parole-persone: parole-segni di vita che aprono alla fiducia e alla speranza. Maria è questa parola, riflesso primo e singolare della «Parola fatta carne» in lei e attraverso di lei. Parola-segno, che la fede, l’arte e la cultura fin dalle origini hanno elevato all’ammirazione e all’invocazione dei fedeli. E di cui gli uomini e le donne del nostro tempo hanno rinnovato bisogno, per dare senso e valore a una vita sempre più esposta alla vanità e all’effimero.
Cosa possiamo sperare? - è una delle tre grandi domande formulate da Immanuel Kant all’inizio della modernità. Volgi lo sguardo a Maria, all’evento di grazia della sua assunzione al Cielo, ci dice la Chiesa in questa vacatio estiva. Vedrai una umanità riconciliata, in cui la libertà («Eccomi») ha incontrato la grazia («Hai trovato grazia presso Dio»), e il cui esito è l’assunzione alla pienezza di vita (il Cielo). Un’assunzione in totalità unificata di anima e corpo, che contraddice tutti i manicheismi e gli gnosticismi antichi e moderni. L’assunzione di Maria è indice della stima e della premura più grande per il corpo, nella quale per prima si percepisce il pro nobis della risurrezione di Cristo: «risurrezione della carne». Questa novità il vangelo e la tradizione della Chiesa la coniugano al femminile, fatta risplendere - «di generazione in generazione» - dalla bellezza, bontà e verità di vita di Maria. La sua femminilità, liberata dal peccato e dalla morte, è per tutti, donne e uomini, - come la dice il Concilio e la proclama la liturgia - «segno di consolazione e di sicura speranza».
Mauro Cozzoli
Ebrei e cristiani, il muro assurdo
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 2 agosto 2012)
Marina Caffiero ha pubblicato un libro di grandissimo interesse sui rapporti tra ebrei e cristiani, Chiesa cattolica e rabbini, dal sedicesimo secolo al diciannovesimo secolo (Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria, Einaudi). Ha lavorato per anni negli archivi: ne ha desunto infiniti particolari, novità, scandali, storie romanzesche, che modificano sensibilmente le nostre idee tradizionali sull’argomento. Credevamo che ebrei e cristiani avessero vissuto per secoli come popoli isolati, religioni contrapposte; e dal libro della Caffiero apprendiamo che sono stati legati da rapporti strettissimi nelle idee e nella vita quotidiana.
Per diciannove e più secoli, gli ebrei sono stati, per la maggioranza dei cristiani, un popolo perverso, perfido, che uccise Gesù sulla croce, e da allora complottò incessantemente contro i cattolici. Il loro crimine consisteva, in primo luogo, nei libri che avevano scritto. Le autorità ecclesiastiche sostenevano che il Talmud nascondeva pratiche magiche e stregonesche: se le prime tre parti erano tollerabili, la quarta conteneva «favole ingiuriose nei confronti di Gesù Cristo, la Vergine, i santi e la fede cristiana».
Si temeva che i cristiani fossero contaminati e contagiati dalla lettura. C’era soltanto un rimedio: requisire i Talmud presenti nelle sinagoghe e nelle case; nel maggio 1753, a Roma, trentotto carri portarono via i testi talmudici e cabbalistici. Alcuni di questi libri erano espurgati da censori, spesso di origine ebraica. La maggior parte venivano mandati al rogo, come raccomandava un decreto del 1553, «de combustione Talmud», promulgato dall’Inquisizione romana. I cristiani, che stampassero o leggessero questi testi, venivano scomunicati.
Se gli ebrei avvelenavano le anime, avvelenavano anche i corpi dei cristiani. La peste del 1348, che causò trenta milioni di morti, veniva attribuita agli ebrei, che avrebbero diffuso la malattia per mezzo di polveri e veleni gettati nelle acque.
Nei secoli successivi, questa accusa non li abbandonò più. Adulteravano e avvelenavano i cibi, per cui venne proibito loro di gestire negozi alimentari; e i loro medici, per i quali si aveva tuttavia una grandissima considerazione, potevano avviare egualmente alla morte. Tutto ciò che era magico e stregonesco discendeva dall’insegnamento ebraico: in parte non senza ragione, perché i testi cabalistici risuonarono di allusioni magiche. Credevano nella trasmigrazione delle anime, nella trasformazione delle anime dei malvagi in demoni: interpretavano i sogni; conoscevano formule misteriose e indecifrabili con le quali addentrarsi nella vita quotidiana; scoprivano i tesori nascosti nella terra. Tutti quelli che erano affascinati dalla magia e dalla stregoneria, si rivolgevano agli ebrei come ai loro maestri naturali. Tra i cristiani erano diffuse le più diverse specie di superstizioni antisemite, che avevano una maggiore eco negli ambienti popolari. Vi era una leggenda antica e famosissima.
Gli ebrei venivano accusati di confezionare il pane azzimo della Pasqua impastando la farina col sangue di bambini cristiani, che venivano uccisi a questo scopo. Un’altra leggenda era meno nota. Quando balie cristiane allattavano i figli degli ebrei, venivano costrette, per alcuni giorni dopo aver ricevuto il sacramento dell’eucarestia, a gettare nelle latrine il latte dei loro seni, così da impedire che i bambini venissero impregnati e contagiati dall’ostia. Un gruppo sociale era ferocemente antisemita: i pescivendoli. Specialmente durante il periodo del Carnevale, inscenavano carri e rappresentazioni teatrali, dette giudiate, che deridevano i riti, le istituzioni, le immagini, le credenze, le preghiere, i personaggi del mondo ebraico.
Specie in alcuni periodi, la Chiesa cattolica coltivò un sogno impossibile: quello di abolire ogni rapporto tra mondo ebraico e mondo cristiano. Una bolla del 1555 proibiva agli ebrei di avere una sia pur minima famigliarità con i cristiani: non dovevano frequentarli, visitarli, parlare con loro, giocare con loro, mangiare con loro, e soprattutto avere rapporti sessuali. Le pene erano severissime: multe pesanti, evirazione. Nel 1606, un teologo famoso, Prospero Farinacci, giunse a sostenere che il rapporto sessuale di un ebreo con una donna cristiana doveva venire punito con la morte.
Il sogno della Chiesa cattolica non si realizzò mai. Gli ebrei, che si pretendeva di chiudere nei ghetti, andavano e venivano attraverso lo Stato Pontificio e l’Italia senza nessuna soggezione e timore, e senza chiedere licenza al vescovo o all’inquisitore, come avrebbero dovuto. Gli ebrei visitavano le monache e monasteri: i cristiani visitavano amici e amiche nei ghetti; e li amavano, sebbene contro la legge. Discorrevano di argomenti religiosi, che li affascinavano profondamente: ora erano d’accordo su alcuni punti essenziali, specie di natura morale; ora litigavano con violenza, soprattutto a proposito della morte di Gesù o della venuta del Messia.
Alcuni ebrei si fingevano cattolici, e si confessavano e si comunicavano: oppure si spacciavano per sacerdoti, e giungevano a confessare e assolvere i cristiani. Molto spesso cambiavano nome. Secondo la legge, avrebbero dovuto esercitare le loro attività commerciali solo all’interno dei ghetti: invece affittavano case e magazzini fuori dai ghetti, avevano servitori cristiani, acquistavano proprietà immobiliari, non portavano il segno giallo che doveva distinguerli. Tutto era mobile, mescolato, confuso, illegale, come se ebrei e cristiani volessero deridere le leggi antisemite che cercavano di separarli.
Il patrono della Chiesa come modello per affrontare le turbolenze del mondo
Attualità di san Giuseppe
di TARCISIO STRAMARE *
"È certo che la figura di Giuseppe acquista una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo Millennio cristiano". Così afferma Giovanni Paolo II nell’Esortazione apostolica Redemptoris custos, dove richiama la Christifideles laici nel contesto storico del decreto Quemadmodum Deus (1870) con il quale Pio IX "metteva se stesso e tutti i fedeli sotto il potentissimo patrocinio del santo Patriarca Giuseppe". Giovanni Paolo II riteneva che la situazione della Chiesa e della società non fosse meno grave al presente che "in quei tristissimi tempi": "Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione del mondo e di rievangelizzazione in quei paesi e Nazioni dove la religione e la vita cristiana (...) sono messi a dura prova" (n. 29). Il Pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, istituito da Benedetto XVI il 21 settembre 2010, a vent’anni dalla Redemptoris custos, con il motu proprio Ubicumque et semper, si pone nella linea della continuità.
I mezzi di comunicazione sociale ci informano quotidianamente sulle gravi turbolenze che scuotono l’umanità e sulle sofferenze della Chiesa, che ne compromettono lo sviluppo, dimostrando che ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare san Giuseppe. La rinnovata attualità del santo si estende dall’intervento di difesa verso l’esterno all’opera interna di rinvigorimento.
Tutta la Redemptoris custos è focalizzata sull’economia della salvezza, della quale san Giuseppe è stato, insieme con Maria, singolare "ministro". Così lo ha presentato la predicazione apostolica, testimoniata nei vangeli là dove essi descrivono "gli inizi della redenzione", ossia "i misteri della vita nascosta di Gesù", gli stessi misteri che la Chiesa rivive nel ciclo annuale della sua celebrazione liturgica. Di essi Giuseppe è stato ministro fedele "mediante l’esercizio della sua paternità" (n. 8).
Che di san Giuseppe si intenda evidenziare soprattutto il ministero, appare già nel titolo dell’esortazione apostolica. Custos, infatti, non vuole metterne in ombra la paternità, della quale anzi il documento difende espressamente l’autenticità, quanto piuttosto sottolinearne la funzione, che è quella del servizio, come d’altronde deve essere per ogni paternità. Già questo è un chiaro ammonimento per quei genitori che oggi si arrogano il diritto di spadroneggiare sulla vita dei figli come se fossero un loro prodotto. La vita dell’uomo è nelle mani di Dio, al quale il titolo di Padre appartiene in assoluto (cfr. Matteo, 23, 9). Di questa paternità divina san Giuseppe è stato colui che ha esperimentato in modo singolare la ministerialità: escluso dalla generazione a motivo dell’origine divina del Figlio, egli ha assunto, tuttavia, gli impegni più onerosi della paternità, ossia l’accoglienza e l’educazione della prole, elementi che rientrano, insieme alla generazione, nella natura della paternità umana, come insegna san Tommaso. Già Origene scriveva: "Benché niente nella sua generazione, Giuseppe gli ha dedicato il servizio e l’amore. È per questo suo fedele servizio, che la Scrittura gli ha concesso il nome di "padre"".
Giovanni Paolo II considera la paternità di san Giuseppe appunto come un servizio, del quale la debolezza dell’umanità di Gesù aveva bisogno soprattutto nel periodo della sua vita nascosta - "custode del Redentore" e "ministro della salvezza". Ebbene, questo profilo del santo è lo stesso che deve qualificare e definire la Chiesa. Di fronte all’odierna diffusa crisi di "identità", che non ha risparmiato neppure lei, è proprio "il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo che consentirà alla Chiesa di ritrovare continuamente la propria identità" (n. 1).
Se già la qualifica di custode è significativa per designare la funzione della paternità umana, tanto più lo è se questa ha come termine non un semplice uomo ma il redentore. La figura e il ruolo di san Giuseppe, infatti, avrebbero potuto essere esaltati con il titolo di "Padre del Verbo" o "Padre di Dio", espressioni già presenti nella liturgia, ovvero con l’espressione più familiare e largamente diffusa dell’inno latino Salve, pater Salvatoris; salve, custos Redemptoris. Perché allora non scegliere proprio nell’abbinamento di questi due titoli quello di Pater Salvatoris, che sarebbe stato più elogiativo? Evidentemente perché "custode" si adattava meglio al tenore del documento pontificio, che intende presentare san Giuseppe come "ministro della salvezza".
La domanda, allora, è un’altra: perché Giovanni Paolo II ha voluto presentare san Giuseppe come "ministro della salvezza", pur esaltandone e valorizzandone la paternità? La risposta va cercata nella scelta fondamentale del suo magistero, che è il tema della redenzione. Poiché la redenzione dell’umanità è la dimostrazione dell’amore di Dio per la "sua immagine" (Genesi, 1, 27), assunta dallo stesso suo Figlio nell’incarnazione, tutti devono parteciparvi. Il Papa rivolge la sua esortazione alla Chiesa tutta, ricordandole quale sia la sua identità e proponendole un modello concreto, san Giuseppe, appunto.
L’affermazione di Giovanni Paolo II, secondo cui deve "crescere in tutti la devozione al Patrono della Chiesa universale", è finalizzata all’accrescimento dell’"amore al Redentore, che egli esemplarmente servì". Proprio questo "servì" è il profilo della figura di san Giuseppe, sempre presentato nei vangeli come attento e fedele esecutore degli ordini di Dio trasmessigli da un angelo nel sonno. San Tommaso traccia questo profilo con due parole: "ministro e custode". Si comprende allora perché all’invocazione del patrocinio, la Chiesa debba associare coerentemente la necessità di imitare il suo patrono, "un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele".
* L’Osservatore Romano 19 marzo 2011
Il rispetto e la speranza
di Claudio Magris (Corriere della sera, 24.12. 2010)
Il Natale - quella nascita e quella notte che tagliano la Storia e fanno balenare la promessa o almeno l’esigenza che questa possa essere anche Storia della salvezza - non è cosa da family day. Quel neonato concepito fuori del matrimonio è irregolare, illegittimo secondo le regole del mondo. Proprio per questo è un figlio per eccellenza, accettato e voluto nonostante le difficoltà, anziché casualmente subito come talora accade pure nelle migliori famiglie. Il suo diritto alla vita, calpestato nelle forme più varie sotto tutti i cieli - negato dalla fame, dalla guerra, dalle malattie e dalla stessa debolezza dell’individuo, che nelle fasi iniziali della sua esistenza gli impedisce di rivendicarlo esplicitamente - è stato garantito dal coraggio della donna che lo sta allattando.
Quando Maria riceve l’annuncio della sua maternità, non sa ancora quale sarà l’atteggiamento di Giuseppe ed è decisa ad affrontare tutte le conseguenze della sua accettazione, anche il disonore e la vergogna che marchiano una ragazza madre; è pronta ad assumere sulle sue spalle l’infame peso della colpa e dell’emarginazione iniquamente messo in carico soltanto alla donna. Maria, che nella sua solitudine dice sì, è una donna, non quell’idolo di gesso o quel fantasma in cui più tardi una superstizione idolatrica degraderà spesso la sua immagine. Il suo compagno si comporterà come un vero uomo, virile e libero da tutte le prepotenze, convenzioni e insicurezze maschili; anche per questo si attirerà le pacchiane barzellette di tanti cretini, così frequenti fra i narratori di barzellette.
In quella capanna di Betlemme ci sono un figlio, una madre e un padre. Non c’è, per loro fortuna - è giusto che il figlio di Dio si sia concesso almeno questo privilegio- la consueta torma di suocere, zii, terzi cugini, suoceri di cognate, un clan talora caldamente protettivo ma spesso asfissiante e invadente, quelle tante donne Prassede, di cui esistono altrettante e altrettanto micidiali versioni maschili, che in nome della Provvidenza- di cui si considerano gli unici interpreti autorizzati - guastano la festa al loro prossimo in generale e soprattutto a chi hanno sottomano.
A quella capanna, a festeggiare il neonato, non arriva alcun parentado, arrivano alcuni pastori. Sono loro, in quel momento, la famiglia di quel bambino. Anche da adulto egli ribadirà, pure con durezza, il primato dei legami nati da libera scelta e affinità spirituali su quelli di sangue, dicendo che i suoi fratelli e le sue sorelle sono coloro che ascoltano e condividono la sua parola e chiedendo perfino bruscamente alla madre, dinanzi a una sua interferenza, cosa vi sia fra loro due. Dopo i pastori arriveranno, secondo la tradizione, i Magi, seguaci e maestri di un’alta religione- quella di Zoroastro, la prima a proclamare l’immortalità dell’anima individuale. Quella capanna è un tempio di tre grandi religioni mondiali; la quarta, che arriverà secoli dopo, l’Islam, si richiamerà ad esse e soprattutto alla prima, quella ebraica.
Pastori e più tardi Magi restano davanti alla capanna; dentro ci sono, a riscaldare il bambino col loro fiato, un bue e un asino, a testimoniare che anche per gli animali, per questi nostri oscuri cugini, dovrebbe esserci salvezza, come ben sa quel personaggio di un racconto di Singer che recita il Kaddish, la preghiera ebraica per i defunti, per una farfalla morta e come sapeva, nel poema sacro indiano Mahabharata, il re Iudistira che rifiuta di accedere al paradiso abbandonando il fedele cane all’inferno.
Quel bambino non è venuto a fondare una nuova religione, di cui non c’era bisogno perché ce n’erano già forse troppe. È venuto a cambiare la vita, cosa ben più importante di ogni Chiesa. Indubbiamente la promessa di pace, annunciata in quella notte, è stata e continua ad essere clamorosamente smentita. È difficile dire se, in questo senso, quel neonato abbia finora vinto o perso la sua partita. Ma è indubbio che egli abbia posto per sempre, nel nostro cuore, nella nostra mente e nelle nostre vene, l’esigenza insopprimibile di quella salvezza.
L’albero di Natale col suo verde scuro di foresta, le sue candele e i suoi globi colorati (sul mio ce n’è ancora uno proveniente dalle favolose vetrerie di Norimberga, che adornava quello di mia madre quando era bambina) non dice un’idillica quiete domestica, ma una speranza sinora delusa. Ma proprio perché nel mondo c’è tanta sofferenza e ingiustizia e il male così spesso trionfa, ammoniva Kant, è necessaria l’accanita e lucida speranza, che vede quanto sciaguratamente vanno le cose ma si rifiuta di credere che non possano andare altrimenti.
Pure quel bambino di Betlemme è nato per morire. Morirà anzi presto e fra angoscia e tormento, che la resurrezione non cancella in alcun facile lieto fine. Gesù ha scelto la morte perché, pur amando la vita, sapeva che essa non è il bene supremo e che talora si può essere chiamati a perderla per amore degli altri. Ama il prossimo tuo come te stesso, sta scritto. Dunque il nostro prossimo sono gli altri ma siamo anche noi ed è lecito, anzi doveroso amare noi stessi e lenire le nostre sofferenze insieme a quelle altrui. Ogni compiaciuta mortificazione viene dal Maligno.
C’è un diritto di nascere, di cui si parla poco, e c’è un diritto di morire, di cui si parla molto. Per quel che mi riguarda, faccio mia la dichiarazione congiunta della conferenza delle Chiese cattolica e protestante tedesche sul diritto- rivendicato però dall’interessato e soltanto da lui - di sospendere, in determinate condizioni inaccettabili, cure a quel punto inutilmente accanite. Un uomo che ha fede, ha scritto il teologo Wiener Thiede, non artiglia spasmodicamente quel pezzetto di vita che gli è stato assegnato; le sue mani, non contratte dall’ansia, possono aprirsi e lasciare la presa.
È la libertà - del cristianesimo, ma anche della grande classicità pagana, serenamente inserita nel ciclo della natura- che fa dell’uomo un viandante, un nomade senza fissa dimora e non un sedentario nella vita. Ma spesso si sente dire - con un’espressione infelice e involontariamente rivelatrice - non che l’uomo è libero, ma che è il proprietario della sua vita, declassando così il sacro diritto di morire ad una delle tante e sempre più frequenti leggine ad personam, in difesa dell’uno o dell’altro monopolio di cui si vuol godere. Si può essere proprietari soltanto di cose, di cui si può disporre a piacimento. Non si può essere proprietari di persone, perché in tal caso si è padroni di schiavi e dunque pure schiavi, giacché ogni padrone di uomini perde ogni rapporto con la libertà: «Mi me credevo - Un omo lìbero /E sento nascere - in mi el paron» , dice un verso del grande Noventa. Poco importa se lo schiavo di cui siamo proprietari reca il nostro nome: in questo caso trattiamo noi stessi da schiavi, cosa forse ancor più umiliante.
Il proprietario dispone delle cose che possiede; posseggo un’automobile e posso venderla o demolirla a mio arbitrio, essa è in mio potere. Ma il mio io - i miei pensieri, sentimenti, sogni, timori - è in mio potere, come la mia automobile? Posso ordinarmi di innamorarmi, di credere in Dio, di cambiare fede politica, di capire la meccanica quantistica? Ogni io è tutt’al più un condominio, costituito come tutti i condomîni da vicini litigiosi; forse ogni io non è neanche questo, bensì piuttosto un agglomerato di inquilini provvisori che nemmeno posseggono le due camere e cucina e il riscaldamento centrale per cui litigano.
Quando ci innamoriamo, votiamo, preghiamo, lavoriamo, ci divertiamo, possiamo e dobbiamo cercare di essere liberi nel nostro agire, ma senza alcuna presunzione di essere proprietari della vita, neanche della nostra, perché in quel caso saremmo come quei padroni delle commedie, cui i servi rubano tutto sotto il naso. Anche il diritto di morire può affidarsi solo alla libertà e al senso del sacro, non all’arroganza di un inesistente padronato di se stessi.
La vita è sempre sacra, quando la si riceve e quando la si restituisce. Anche quando la si toglie, come tragicamente può accadere - ad esempio in guerre in cui può sciaguratamente ma inevitabilmente capitare di trovarsi, in una Stalingrado o in una Normandia in cui non si è potuto fare a meno di sparare per impedire che il mondo diventasse Auschwitz.
Sotto l’albero di Natale ci si aspetta di trovare dei doni, ogni anno sempre più mestamente aggiornati alla nostra età e meno fantasiosi dei giocattoli d’infanzia, che un mio zio inventava e fabbricava con le sue mani. È possibile fare una lista di regali desiderati, come si usa per quelli di nozze? In questo caso, cosa chiedere, dato che comunque sarebbe svergognato chiedere di essere felici, come se due sposi chiedessero non un servizio di bicchieri o una lavatrice, ma una grande villa con parco? Forse è presuntuoso chiedere l’amore, anche se è per questo che è venuto quel bambino. Se ci guardiamo in giro e allo specchio, gli orrori la mediocrità l’aridità e la viltà che vediamo scoraggia dal pretendere l’amore che ci manca. Pretendere di renderci capaci di amare è come pretendere di renderci capaci di comporre la musica di Mozart.
Se l’amore è una grazia troppo alta possiamo chiedere almeno un’altra virtù fondamentale, il rispetto, che per Kant è la premessa di ogni altra virtù e che sembra sempre più latitante. Se non possiamo amare la folla oscura come noi che entra nella metropolitana, possiamo sentireconcretamente che ognuno di quelli sconosciuti ha gli stessi nostri diritti e la stessa nostra povera dignità. Rispetto per ognuno, anche per l’avversario e per il nemico, anche per chi crediamo di dover combattere duramente, anche per chi va giustamente e pure pesantemente punito per un reato commesso. È questo rispetto, nient’affatto incompatibile con la severità, che manca sempre più, ovunque: nella lotta politica, nella violazione di ogni intimità, nell’arrogante negazione dell’altro.
Non chiediamo di essere perfetti, ma almeno di non essere crudeli e indecenti; di vivere in un mondo in cui si perseguono inesorabilmente i crimini ma si riconosce anche nel volto del criminale giustamente punito senza indulgenza il volto del Cristo o più semplicemente dell’uomo; in cui nessun colpevole- terrorista, pedofilo, mafioso, stupratore, assassino - venga trattato ignominiosamente come ad esempio quel sacerdote, verosimilmente pedofilo e dunque da punire, che si è gettato sotto il treno dopo essere stato insidiato da un falso penitente- inviato da una petulante trasmissione televisiva pretesamente spiritosa- che, in confessione, si è finto tentato dall’omosessualità per adescarlo e scoprirlo, colpendolo in un punto colpevole, debole e tormentato della sua personalità.
Vorremmo chiedere, quale dono di Natale, che persone come quel sacerdote finiscano in carcere, se viene appurato un loro crimine, ma non sotto un treno. Una trasmissione televisiva non può diventare un plotone d’esecuzione. Sotto l’albero di Natale, davanti al Presepe ci sono anche innumerevoli storie terribili, perché quel bambino è venuto a redimere il mondo ed è ovvio che abbia a che fare soprattutto con le sue brutture. Lava ciò che è sordido, piega ciò che è rigido, dice uno dei più grandi inni cristiani.
di Enzo Bianchi (Jesus, n° 9, settembre 2010)
Secondo l’apostolo Paolo, «non di tutti è la fede» (2Tess 3,2), cioè non tutti accolgono il dono della fede da parte di Dio perché essa è «virtù teologale», come recitava il catechismo: si può quindi affermare anche che questo dono non è fatto a tutti. La fede, infatti, nasce dall’ascolto (Rm 10,17) e perciò occorre che la parola di Dio giunga al cuore dell’uomo e vi desti la fede. Ma è anche vero che la fede - proprio perché è accolta dall’uomo, proprio perché è l’uomo a credere - è anche un atto umano, di libertà, al quale si può essere educati: la fede, infatti, quale atto umanissimo e vitale significa entrare in relazione, avviare un rapporto vivo con l’altro", è dire "Amen", aderire, fare fiducia, credere.
La fede, il credere sono una necessità umana: potremmo dire che non ci può essere autentica umanizzazione senza la fede. Come sarebbe possibile vivere senza fidarsi di qualcuno? A differenza di molti animali, infatti, noi usciamo incompiuti dal grembo di nostra madre e per "venire al mondo", per crescere come persone in relazione con gli altri dobbiamo mettere fiducia in qualcuno.
Il bambino, appena nato dalla madre, ha subito bisogno di sentire che può mettere fiducia anche in suo padre, nei genitori, in quelli che sono i suoi primi riferimenti. Occorre che gli venga dato il cibo, un riparo dal freddo o dal caldo, la parola... e così viene educato a credere perché, scoprendo gratuità e coerenza, sente di poter crescere e di potersi fidare, avverte che esistere ha un senso. È credendo negli altri che, poco a poco, il bambino crede anche in sé stesso: l’affidabilità è possibile.
Più tardi scoprirà di essere in grado di iniziare una storia d’amore solo se sarà capace di credere nell’altro e di essere a propria volta affidabile per l’altro. Non è significativo che un tempo coloro che iniziavano una storia d’amore con responsabilità e consapevolezza si chiamavano "fidanzati" e al momento delle nozze si scambiavano la "fede"? Durante tutta la nostra esistenza dobbiamo saper credere agli altri: anche nelle relazioni sociali e in quelle economiche dobbiamo fidarci, "fare credito", come dice il linguaggio commerciale, cioè credere a qualcuno.
Sì, c’è un’umanità della fede alla quale noi cristiani, purtroppo, non siamo sufficientemente attenti: rischiamo di essere divorati dall’ansia o dalla passione della fede in Dio e non comprendiamo che senza questa fede umana non è possibile che in una persona si innesti la fede in Dio, se non come dichiarazione teista, come affermazione di appartenenza culturale e identitaria, non certo come confessione cristiana.
Ma proprio questa umanità della fede ci porta a confessare oggi la crisi della fede: crisi dell’atto umano del credere diventato così difficile, raro e sovente, comunque, contraddetto. Siamo poco disposti a mettere fiducia negli altri, siamo incapaci a «credere insieme con gli altri» in un obiettivo, un progetto che pur sentiamo buono.
Lo constatiamo ogni giorno: perché si preferisce la convivenza al matrimonio? Perché è diventata così difficile una storia perseverante e fedele nell’amore? Perché la parola data nel matrimonio o nella vita comunitaria, nelle relazioni amorose è così facilmente smentita? Oggi non riusciamo più a credere e forse, soprattutto, a credere nell’amore?
Eppure l’apostolo Giovanni dà questa definizione lapidaria dei cristiani: «Noi siamo quelli che crediamo all’amore» (1Gv 4,16). Sovente sento lamentele sulla mancanza di fede in Dio, sulla rimozione che la nostra società opera nei confronti di Dio, ma in cuore sono tentato da una reazione di insofferenza: com’è possibile lamentarsi che la gente non crede più in Dio quando non crede più nell’altro, in chi sta accanto, nella compagnia degli uomini e delle donne? Come pensare di poter credere in un Dio che non si vede e non credere negli altri che vediamo e grazie ai quali cresciamo e diventiamo persone adulte?
A leggere con sapienza la Bibbia, vi cogliamo innanzitutto una lunga educazione alla fede, operata da Dio stesso, partendo da Abramo fino a Gesù Cristo. Non a caso il libro della Sapienza ci parla di «Dio educatore dell’uomo», Dio che insegna a essere umani. La Chiesa italiana si è impegnata nei prossimi anni a riflettere sull’educazione alla fede: non dimentichiamoci che la ricerca e l’impegno saranno fecondi se terremo conto che la fede ha anche un’umanità: questo significa non solo credere in Dio, ma anche credere nel prossimo, nella Terra, nel futuro.
Una domanda mi pare sorgere allora da queste considerazioni: chi è credente? Quando uno crede veramente? Sono davvero non credenti tutti quelli che si dicono atei? E sono veramente credenti tutti quelli che dicono di credere in Dio o vantano orgogliosamente la propria appartenenza cristiana?
Venerdì Benedetto XVI firmerà la lettera pastorale per gli irlandesi "scossi da una situazione dolorosa"
L’ammissione di colpa di Sean Brady: "Mi vergogno per non aver detto nulla. Rifletterò sul mio ruolo"
Pedofilia, il Papa: "Guarire le ferite"
Primate d’Irlanda si scusa: "Ho taciuto"
Merkel al Parlamento: "Gli abusi sessuali sui minori sono un dramma che affligge la società Necessario fare chiarezza, ma senza puntare il dito su un solo gruppo" *
BERLINO - Dalla Germania all’Irlanda, si torna a parlare degli scandali dei preti pedofili che negli ultimi tempi hanno travolto ambienti della Chiesa cattolica. Oggi il Papa ha annunciato che venerdì prossimo firmerà una lettera per i fedeli irlandesi scossi dagli episodi di pedofilia, nella speranza che possa essere di aiuto nel "processo di pentimento, guarigione e rinnovamento". E nel giorno di San Patrizio ha parlato anche il capo della Chiesa cattolica irlandese, il cardinale Sean Brady, che ha fatto le sue scuse per non aver avvertito la polizia dei comportamenti di un sacerdote pedofilo a metà anni Settanta. Brady, rivolgendosi ai fedeli, ha anche detto che "rifletterà" sul suo ruolo nel futuro. Per quanto riguarda la Germania, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha condannato duramente gli abusi sui minori, invitando però a non demonizzare un unico gruppo, perché "la pedofilia è un problema abominevole che tocca tutta la società e non solo la Chiesa cattolica".
La lettera del Papa agli irlandesi. Il Papa ha annunciato che questo venerdì, giorno di San Giuseppe, firmerà la lettera ai fedeli irlandesi sui casi degli abusi sessuali sui bambini. "Come sapete - ha detto il Papa salutando i pellegrini irlandesi nella festa di San Patrizio - negli ultimi mesi la Chiesa in Irlanda è stata severamente scossa in conseguenza della crisi degli abusi sui minori". "Come segno della mia profonda preoccupazione - ha aggiunto - ho scritto una lettera pastorale che tratta di questa dolorosa situazione. La firmerò nella solennità di San Giuseppe, il guardiano della Sacra Famiglia e patrono della Chiesa universale, e la manderò presto". "Vi chiedo - ha concluso il Pontefice - di leggerla voi stessi, con cuore aperto e spirito di fede. La mia speranza è che aiuti nel processo di pentimento, guarigione e rinnovamento".
Le scusa di Sean Brady. "Questa settimana mi è tornato davanti un episodio doloroso del mio passato", ha detto il cardinale Brady. "Ho ascoltato la reazione della gente al mio ruolo negli eventi di 35 anni fa. Voglio dire a chiunque sia stato ferito da qualsiasi mancanza da parte mia che gli chiedo perdono con tutto il cuore. Chiedo perdono a coloro che sentono che li ho delusi. Guardando indietro, mi vergogno di non aver sempre tenuto fede ai valori che professo e in cui credo’’. Per il porporato, la Chiesa d’Irlanda deve ’’continuare ad affrontare l’enorme dolore causato dall’abuso di bambini da parte di alcuni preti e religiosi e dalla risposta disperatamente inadeguata a questi abusi nel passato’’. ’’Come San Patrizio e San Pietro - ha proseguito - noi vescovi, successori degli apostoli nella Chiesa d’Irlanda, dobbiamo oggi riconoscere i nostri errori. L’integrità della nostra testimonianza del Vangelo ci sfida a confessare e a assumerci la responsabilità per ogni errore nella gestione o per ogni copertura degli abusi sui minori. Per il bene dei sopravvissuti, per il bene dei fedeli cattolici e dei preti e dei religiosi di questo Paese, dobbiamo mettere fine allo stillicidio quotidiano di rivelazioni di errori".
Merkel: "Problema che affligge tutta la società". "Il dramma degli abusi sessuali sui minori è un problema abominevole che si è ripetuto in numerosi settori della società", e dunque non riguarda solo il Vaticano. Lo ha detto oggi la cancelliera tedesca Angela Merkel, dopo l’emersione di una serie di casi di pedofilia avvenuti negli istituti scolastici. "Non ha senso - ha spiegato Merkel al Bundestag, la Camera bassa del Parlamento tedesco - puntare il dito su un solo gruppo, anche se i primi casi sono emersi nella Chiesa cattolica". La conferenza episcopale tedesca, da parte sua, si è impegnata a far luce sullo scandalo dei preti pedofili in Germania.
"C’è solo una possibilità affinché la nostra società venga a capo di questi casi - ha detto Merkel - fare chiarezza e appurare la verità su ciò che è successo". La cancelliera ha inoltre sottolineato che si deve parlare anche dei termini di prescrizione per questo tipo di reati e dei risarcimenti alle vittime. "Questa è una prova per la società", ha poi sottolineato, spiegando che "la gente che ha fatto queste esperienze terribili" deve almeno poter "ricevere un pezzo di risarcimento".
Denunce di abusi nel coro dei Piccoli Cantori di Vienna. Nel mentre crescono le denunce di abusi sessuali e fisici avvenuti all’interno del rinomato coro dei Piccoli Cantori di Vienna negli anni Ottanta. Dopo le rivelazioni di un giornale austriaco, la direzione del coro - che è un’istituzione privata e non dipende dalla Chiesa - ha istituito una linea telefonica per raccogliere ulteriori testimonianze. Da allora altri otto ex allievi del coro hanno fornito le loro testimonianze. Secondo il quotidiano Der Standard, i ragazzi avrebbero subito "forti pressioni" e "umiliazioni permanenti" e nelle accuse il coro viene paragonato a un "campo di concentramento". La responsabile del servizio telefonico, Tina Breckwoldt, non ha specificato la natura degli abusi segnalati, né se le vittime fossero bambini o adulti. Le denunce finora pubblicate dalla stampa riguardano due ex membri del coro, oggi adulti, che hanno raccontato di essere stati vittime di violenze sessuali.
* la Repubblica, 17 marzo 2010
Ebrei e cristiani, una disputa (e un mistero) in famiglia
di Vittorio Messori (Corriere della Sera, 19 gennaio 2010)
In questi giorni, torrenti di parole per la visita di Benedetto XVI alla Sinagoga romana, eretta là dove sorgeva il ghetto e orientata in modo da fronteggiare, quasi a sfida, la basilica, la più grande del mondo, che copre il sepolcro di un tal Simone. Un pio giudeo, costui, un oscuro pescatore sul lago di Tiberiade, rinominato Kefas, Pietro, da un certo Gesù, colui che, storicamente, altro non è se non un predicatore ambulante ebraico dell’epoca del Secondo Tempio, uno dei tanti che si dissero il Messia atteso da Israele.
Il solito esaltato, all’apparenza (e tale apparve a un burocrate di Benevento, della famiglia dei Ponzi, chiamato controvoglia a giudicarlo), un visionario. Punita con la più vergognosa delle morti, quella riservata agli schiavi. Un illuso di cui si sarebbe perso il ricordo se i suoi discepoli- tutti circoncisi e fedeli alla Torah- non avessero cominciato a proclamare, con una testardaggine intrepida, che quel rabbì finito in malo modo era risorto ed era davvero l’Unto annunciato dai profeti.
Quel gruppetto di ebrei riuscì a convincere altri ebrei, prima a Gerusalemme e poi nelle sinagoghe dell’emigrazione, dove si recarono ad annunciare che l’attesa millenaria di Israele aveva avuto compimento. La messe maggiore tra i correligionari la fece un credente entusiasta, un altro figlio di Abramo, un Saulo detto Paolo che, perché le cose fossero chiare, precisava subito ai correligionari di essere «circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo, figlio di ebrei». Anch’egli, come Pietro, finì ucciso dai pagani a Roma e anche sul suo sepolcro fu costruita una gigantesca basilica. Se da tutta l’Europa, per tutto il Medio Evo, folle di pellegrini convennero salmodianti e penitenti sul Tevere, è proprio per venerare la sepoltura di quelle due «colonne della fede»: entrambe, costituite da giudei sino al midollo.
A lungo, i pagani non si preoccuparono di distinguere, dividendo sbrigativamente gli ebrei in due gruppi, quelli che alla loro fede aggiungevano questo esotico Cristo e quelli che lo rifiutavano: noiose dispute, querelles teologiche viste tante volte all’interno di ogni religione.
Benedetto XVI, leggo in una cronaca, aveva con sé una piccola Bibbia che ha posato sul sedile dell’auto, scendendo davanti alla sinagoga. Ebbene, tra i 73 libri che compongono quel Testo su cui si fonda la fede della Chiesa solo Luca e, forse, Marco non sono figli di Israele. Tanto che si preferisce oggi sostituire l’indicazione di «Antico» e «Nuovo» Testamento con quella di «Primo» e «Secondo» Testamento, per sottolineare la continuità e l’omogeneità del messaggio. Perché ricordiamo tutto questo, e molto altro ancora che potremmo allegare? Ma perché numerosi commentatori, anche in questi giorni, sembrano dimenticare che, qui, vi è una storia in famiglia e, al contempo, un mistero religioso.
È una storia di fede, e di fede soltanto: il «laico» può soltanto intravederne, e spesso in modo fuorviante, i contorni esterni. È un confronto tra figli di Abramo, sia per nascita che per adozione. E anche questo aspetto familiare ne spiega le asprezze, non unicamente da una parte: gli Atti degli Apostoli e le lettere di Paolo mostrano quanto dura sia stata la reazione del giudaismo ufficiale nei confronti degli «eretici». Ma chi ignora che i contrasti più aspri sono proprio quelli tra parenti stretti, che le guerre più temibili sono quelle civili? Fratelli, coltelli. Il cristianesimo è da duemila anni la fede in un Messia di Israele annunciato e atteso nei duemila anni precedenti da quello stesso Israele che poi in parte- ma solo in parte- non lo ha riconosciuto.
Per l’ennesima volta, molte delle analisi e opinioni di questi giorni non sembrano consapevoli che qui siamo al di là delle categorie della storia, della politica, della cultura. I rapporti interni al giudeo-cristianesimo non sono un «problema» affrontabile con le consuete categorie: sono, lo dicevamo, un Mistero. Parola di Saulo-Paolo, e proprio ai Romani: «Non voglio, infatti, che ignoriate questo Mistero, perché non siate presuntuosi: l’indurimento di una parte d’Israele è in atto fino a quando saranno entrate tutte le genti. Allora, tutto Israele sarà salvato, come sta scritto». In ogni caso, anche gli «induriti», sono «amati a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili».
Del tutto insufficienti, qui, le sapienze di politologi e intellettuali che non siano consapevoli che il confronto tra ebrei e cristiani appartiene non alla storia, ma alla teologia della storia. Solvitur in Excelsis: qui vi è un enigma, troppo spesso doloroso, che trova spiegazione solo nei Cieli, per dirla con quel grande filosofo e insieme grande cristiano che fu Jean Guitton.
IL MONITO DEL PONTEFICE
Benedetto XVI durante l’Angelus:
"Natale non è un favola per bambini"
«E’ la risposta di Dio al dramma
dell’umanità in cerca della pace»
CITTA’ DEL VATICANO «Oggi, come ai tempi di Gesù, il Natale non è una favola per bambini, ma la risposta di Dio al dramma dell’umanità in cerca della vera pace». Lo ha affermato Benedetto XVI all’Angelus sottolineando la storicità del racconto del Vangelo di Luca che narra come mai Gesù nacque a Betlemme: «Giuseppe, lo sposo di Maria, essendo della "casa di Davide", dovette recarsi in quella cittadina per il censimento, e proprio in quei giorni Maria diede alla luce Gesù». «Mille anni prima di Cristo - ha ricordato rivolto ai circa 40 mila presenti in piazza San Pietro - Betlemme aveva dato i natali al grande re Davide, che le Scritture concordano nel presentare come antenato del Messia».
Il Papa ha poi citato la profezia di Michea che accenna proprio ad una misteriosa nascita: «Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire; e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli d’Israele». «C’è dunque - ha osservato - un disegno divino che comprende e spiega i tempi e i luoghi della venuta del Figlio di Dio nel mondo».
Michea su Gesù Bambino: dice poi che «Egli stesso sarà la pace!». «A noi - ha spiegato Ratzinger - spetta aprire, spalancare le porte per accoglierlo. Impariamo da Maria e Giuseppe: mettiamoci con fede al servizio del disegno di Dio. È un disegno di pace, come annuncia ancora il profeta parlando del Messia che si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perchè egli allora sarà grande fino agli estremi confini della terra». «Anche se non lo comprendiamo pienamente - ha conmcluso il Pontefice - affidiamoci alla sua sapienza e bontà. Cerchiamo prima di tutto il Regno di Dio, e la Provvidenza ci aiuterà. Buon Natale a tutti!».
* La Stampa, 20/12/2009 (13:7)
Annuncio a Giuseppe
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, 20 dicembre 2009)
La melodia di White Christmas può essere anche gradevole, ma il Natale nella sua genesi profonda non potrà mai essere "bianco" a livello etnico; eventualmente potrà esserlo solo a livello climatologico (ho anch’io in mente una Betlemme di molti anni fa tutta innevata). Fino a prova contraria, infatti, i protagonisti di quell’evento erano semiti e non certo ariani, la loro pelle era olivastra, i loro profili somatici erano simili a quelli degli arabi o degli israeliani nati nell’attuale Vicino Oriente.
Ebbene, all’interno di quella famiglia semita vorremmo ora mettere in primo piano colui che nella tradizione è rimasto quasi sempre sullo sfondo, sì, proprio il capofamiglia, Giuseppe, un nome chiaramente ebraico che significa «Dio aggiunga!» o «che egli raduni!». È un nome portato da altri sei personaggi biblici, tra i quali il più celebre è quel figlio di Giacobbe che fece fortuna in Egitto divenendo da schiavo viceré, così da trasformarsi secoli dopo nel protagonista del fluviale romanzo Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann.
La presenza del nostro Giuseppe, il padre legale e non naturale di Gesù, è nei Vangeli esile: affiora nella genealogia di Cristo; appare come il promesso sposo di Maria (Luca 1, 27), sarà menzionato durante la nascita di Gesù a Betlemme (Luca 2,4-5), farà qualche altra fugace apparizione nei primi giorni del neonato, acquisterà rilievo durante la vicenda di clandestino e migrante in Egitto, riemergerà dal silenzio anni dopo quando occhieggerà nelle parole di sua moglie, Maria, in occasione della "fuga" del figlio dodicenne nel tempio di Gerusalemme tra i dottori della Legge («tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», Luca 2,48), e sarà ricordato con sarcasmo dai suoi concittadini di Nazaret, quando di fronte ai successi del figlio ironizzeranno: «Ma costui non è il figlio di Giuseppe..., il figlio del falegname?» (Luca 4, 22; Matteo 13, 55). Ci sono, però, due scene nelle quali Giuseppe è protagonista. Sono le uniche e riguardano proprio il Natale.
Rievochiamo la prima: è la cosiddetta «annunciazione a Giuseppe» ed è narrata dall’evangelista Matteo (1, 18-25). Leggiamo insieme: «Così fu generato Gesù Cristo: sua Madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta, per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: "Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati". Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: "Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi". Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù».
Per capire il comportamento iniziale di Giuseppe nei confronti di Maria, dobbiamo entrare, almeno sommariamente, nel mondo delle usanze matrimoniali dell’antico Israele. Il matrimonio comprendeva due fasi ben definite. La prima - denominata qiddushin, cioè «consacrazione», perché la donna veniva «consacrata» al suo sposo - consisteva nel fidanzamento ufficiale tra il giovane e la ragazza che solitamente aveva dodici o tredici anni.
La ratifica di questo primo atto comportava una nuova situazione per la donna: pur continuando a vivere a casa sua all’incirca per un altro anno, essa era chiamata e considerata già «moglie» del suo futuro marito e per questo ogni infedeltà era ritenuta un adulterio. La seconda fase era chiamata nissu’in (dal verbo nasa’, ossia «sollevare, portare») in quanto ricordava il trasferimento processionale della sposa che veniva «portata» nella casa dello sposo, un avvenimento che fa da sfondo alla parabola di Gesù che ha per protagoniste le ancelle di un festoso corteo nuziale notturno (si veda Matteo 25, 1-13). Questo atto suggellava la seconda e definitiva tappa del matrimonio ebraico. Il racconto che abbiamo letto sopra si colloca, allora, nella prima fase, quella del fidanzamento-«consacrazione»: «Prima che andassero a vivere insieme [col trasferimento alla casa di Giuseppe], Maria si trovò incinta».
Giuseppe è di fronte a una scelta drammatica. Il libro biblico del Deuteronomio era chiaro e implacabile: «Se la giovane non è stata trovata in stato di verginità, allora la faranno uscire all’ingresso della casa del padre e la gente della sua città la lapiderà a morte, perché ha commesso un’infamia in Israele, disonorandosi in casa del padre» (22, 20-21). Nel giudaismo successivo, però, aveva preso strada un’altra norma più moderata, quella che imponeva il ripudio. Come si è spiegato, trattandosi già di una vera e propria «moglie», si doveva celebrare un divorzio ufficiale con tutte le conseguenze civili e penali per la donna. È curioso ricordare che a Murabba’at, nei pressi del Mar Morto, è venuto alla luce anni fa un atto di ripudio del 111 d.C., scritto in aramaico e riguardante due sposi che si chiamavano Maria e Giuseppe.
Ma ritorniamo a Giuseppe e alla sua decisione. Egli deve «ripudiare» Maria a causa della legge che lo obbliga a questo; essendo uomo «giusto», cioè obbediente alla legge dei padri, egli si mette su questa strada amara, ma, essendo uomo «giusto», che secondo il linguaggio biblico significa anche mite, misericordioso, buono, lo vuole fare nella forma più delicata e più attenta per lo donna. Sceglie la via «segreta», senza denunzia legale, senza processo e clamore, alla presenza dei soli due testimoni necessari per la validità dell’atto di divorzio, cioè la consegna del cosiddetto «libello di ripudio». Certo, la nostra sensibilità ci fa subite dire: che ne sarebbe stato di Maria? La risposta è purtroppo chiara e inequivocabile: sarebbe stata un’emarginata totale, rifiutata da tutti, accolta forse solo dal clan paterno assieme al figlio illegittimo che avrebbe generato. È nota a tutti, infatti, la triste situazione della donna nell’antico Vicine Oriente. Ma lasciamo da parte questa ipotesi irreale e ritorniamo a Giuseppe e al suo dramma interiore, per altro non lontano da quello vissuto da tante coppie di fidanzati.
La sua oscura tensione è, all’improvviso, squarciata da una luce: l’angelo nella Bibbia è per eccellenza il segno di una rivelazione divina come il sogno (se ne contano cinque nel Vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Matteo) è il simbolo della comunicazione di un mistero. «Non temere di portare Maria a casa tua», completando così anche la seconda fase del matrimonio (nissu’in), dice l’angelo a Giuseppe.
Ed è qui che scatta la grande rivelazione del mistero che si sta compiendo in Maria: «Il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». E questa la sorpresa straordinaria che dovrà sconvolgere la vita di Giuseppe, sorpresa molto più forte di quella di avere la propria donna incinta di un altro uomo. Si apre, allora, per Giuseppe una vita nuova e una missione unica. Egli, che è «figlio di Davide» (è l’unica volta nei Vangeli in cui questo titolo non viene applicato a Gesù), dovrà trasmettere la linea ereditaria davidica al figlio di Maria nella qualità di padre legale. Potremmo dire che, come Maria è colei per mezzo della quale Gesù nasce nel mondo come figlio di Dio, Giuseppe è colui per mezzo del quale Gesù nasce nella storia come figlio di Davide.
La paternità legale o «putativa» in Oriente era molto più normale di quanto possiamo immaginare. Esemplare è il caso del «levirato» (dal latino levir, cognato) così formulato nel Deuteronomio: «Quando uno dei fratelli di un clan morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto verrà presa in moglie dal cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questi non si estingua in Israele» (25, 5-6). In altre parole, il padre reale di questo figlio è il cognato, ma il padre legale resta il defunto che attribuisce al neonato tutti i diritti ereditari.
Come padre ufficiale di Gesù, Giuseppe esercita il diritto di imporre il nome riconoscendolo giuridicamente.
Nella Bibbia il nome è il compendio simbolico di una persona, è la sua carta d’identità: perciò, anche se si hanno delle eccezioni (è Eva a chiamare «Set» il suo secondo figlio), è il padre a dichiarare il nome del figlio e Giuseppe sa già che per il figlio di Maria c’è un nome preparato da Dio. «Gesù» è l’equivalente di Giosuè, e a livello di etimologia popolare e immediata significa «Il Signore salva», come è spiegato dall’angelo: «Egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Anche san Pietro in un suo discorso registrato dagli Atti degli Apostoli afferma: «In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (4,12). A un’analisi più filologica «Gesù» significa letteralmente «Il Signore aiuta» o «Il Signore dà la vittoria», un senso abbastanza vicino a quello tradizionale.
Nella narrazione di Matteo c’è un ultimo dato da decifrare. È nella frase finale, quella della nascita di Gesù, che letteralmente suona così: «Giuseppe prese con sé la sua sposa e non la conobbe prima che gli partorisse il figlio». Sappiamo che nella Bibbia il verbo «conoscere» è un eufemismo per alludere all’atto matrimoniale. Sulla frase per secoli si è accesa un’aspra discussione teologica riguardante la verginità perpetua di Maria e la presenza nei Vangeli dei cosiddetti «fratelli e sorelle di Gesù». In realtà il testo di Matteo nel suo tenore originale non affronta la questione, dal momento che in italiano, quando si dice che una cosa non succede «fino a» un certo tempo, si suppone di solito che abbia luogo dopo: Giuseppe non ha avuto rapporti con Maria fino alla nascita di Gesù, ma in seguito avrebbe potuto averli. In greco, invece, e nelle lingue semitiche si vuole mettere l’accento solo su ciò che avviene fino alla scadenza del «finché»: Giuseppe non ebbe rapporti con Maria, eppure nacque Gesù. Il tema fondamentale è, perciò, quello della concezione verginale di Maria. Il Cristo non nasce né da seme umano né da volere della carne, ma solo per lo Spirito di Dio che opera in Maria vergine. Corretta è allora la traduzione che ci propone la Bibbia ufficiale italiana da noi sopra adottata e che risuonerà anche nella liturgia natalizia: «Senza che Giuseppe la conoscesse, Maria partorì un figlio».
Parlavamo prima di due scene in cui Giuseppe è protagonista. Alla seconda - che abbiamo già avuto occasione di presentare in passato proprio su queste pagine - dedichiamo solo un cenno. La famiglia di Gesù si iscrive subito nel lungo elenco che giunge fino ai nostri giorni e che comprende i profughi, i clandestini, i migranti. Ecco, infatti, quando il bambino Gesù ha pochi mesi, Giuseppe in marcia con lui e con la sposa Maria attraverso il deserto di Giuda per riparare in Egitto, lontano dall’incubo del potere sanguinario del re Erode. Anche in questo caso siamo proprio agli antipodi di quel «Natale bianco» assurdamente prospettato da certe attuali ignoranze religiose e da isterie xenofobe. Il Natale cristiano ha, in verità, per protagonisti una famiglia di fuggiaschi e migranti con la loro storia di sventure. «Il cristianesimo - scriveva nei suoi quaderni il filosofo Wittgenstein - non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e sarà nell’anima umana, ma la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».
Vorremmo, allora, far risuonare a suggello di questo «Natale di Giuseppe» le parole - forse un po’ oratorie e magniloquenti ma dalla sostanza inequivocabile - di uno scrittore "scandaloso" come Curzio Malaparte che in un articolo del Natale 1954 ammoniva: «Tra pochi giorni è Natale e già gli uomini si preparano alla suprema ipocrisia... Vorrei che il giorno di Natale il panettone diventasse carne dolente sotto il nostro coltello e il vino diventasse sangue e avessimo tutti per un istante l’orrore del mondo in bocca... Vorrei che la notte di Natale in tutte le chiese del mondo un povero prete si levasse gridando: Via da quella culla, ipocriti, bugiardi, andate a casa vostra a piangere sulle culle dei vostri figli. Se il mondo soffre è anche per colpa vostra, che non osate difendere la giustizia e la bontà e avete paura di essere cristiani fino in fondo. Via da questa culla, ipocriti! Questo bambino, che è nato per salvare il mondo, ha orrore di voi!».
SCANDALO IN NUOVA ZELANDA PER L’IMMAGINE AFFISSA FUORI DA UNA CHIESA ANGLICANA
E se accade con l’Islam?
Cartellone blasfemo scatena la polemica. E se fosse accaduto con l’Islam?
di GIACOMO GALEAZZI (La Stampa,19/12/2009)
Polemica in Nuova Zelanda per un cartellone pubblicitario raffigurante San Giuseppe e la Vergine Maria a letto, appeso fuori da una chiesa anglicana a St. Matthew’s-in-the-city. L’immagine, fatta affiggere dal vicario della chiesa, è accompagnata dalla scritta: «Povero Giuseppe, Dio è difficile da seguire». «Per la nostra tradizione natalizia bimillenaria, Maria è rimasta vergine e Gesù è il figlio di Dio, non di Giuseppe - ha affermato, indignato, Lyndsday Freer, portavoce della comunità cristiana neozelandese - Questo poster è inappropriato e irrispettoso». Secondo un giornale locale, l’immagine sembra suggerire che i due «abbiano appena avuto un rapporto sessuale». Poche ore dopo essere stato affisso, il cartellone è stato deturpato. Qualcuno ha coperto entrambi i volti dei santi e la scritta con della vernice marrone.L’arcidiacono Glynn Cardy, vicario della chiesa di St Matthwès, ha spiegato che il cartellone è stato affisso per «provocare riflessione e dibattito sulle vere origini del Natale». «Il cristianesimo progressista si distingue non soltanto per una visione univoca - ha continuato Cardy - ma anche per instaurare un dialogo con chi la pensa diversamente». E se fosse accaduto con l’Islam?
VIAGGIO ARTISTICO ALLE ORIGINI DI UNA TRADIZIONE
Dal più attraente, quello della Reggia di Caserta, a quelli napoletani, fino a Urbino e Varese: l’invenzione di Francesco a Greccio ha avuto epigoni a non finire, compresi grandi artisti
Presepe. Un teatro umano e divino
di Philippe Daverio (Avvenire, 13.12.2009)
Le nostre tradizioni più forti sono quelle che hanno le radici più solide e talvolta pure complesse. Quando si pensa al presepe della Natività viene quasi automatico tornare alla tradizione dei grandi presepi napoletani del XVIII secolo che hanno visto un moltiplicarsi infinito di personaggi e di folklore attorno alla grotta.
Forse il più teatrale di tutti è quello della reggia di Caserta, al quale contribuirono tutti i monarchi borbonici da Carlo III in avanti. È tuttora una delle attrazioni più curiose del luogo e rappresenta tutta la vita contadina napoletana tra Sette e Ottocento, con una esaltazione particolare per le innovazioni alimentari avvenute sotto il regno di Ferdinando IV quando i dettami della fisiocrazia illuminata stavano trasformando le campagne. Vi appaiono le prime bufale allevate regolarmente e la loro naturale conseguenza di mozzarelle e provole, tutti i legumi vecchi e nuovi e un primo contadino redento che affonda una forchetta in un piatto di spaghetti con la pommarola appena scoperta. Probabilmente la gente povera non usava affatto la forchetta. Si tratta quindi d’un auspicio didattico realizzato dalle abili mani degli artisti e delle dame di corte che s’impegnavano con sommo divertimento ad organizzare il complesso teatro plastico.
Il che riporta il presepe stesso alla invenzione teatrale vera e propria di san Francesco, quando prese la gente comune di Greccio vicino a Rieti e la coinvolse in una recita che celebrava la notte di Betlemme. Correva l’anno 1223 e papa Onorio III aveva autorizzato l’evento. È sempre bene ricordare che Francesco era per metà francese meridionale occitano (donde il suo nome!) e come tale educato nella cultura fine della prima poesia cortese. Dava egli rilievo ad una tradizione già ben ancorata che trova i suoi primi esempi in alcune sculture oggi conservate nel Museo Bizantino e Cristiano di Atene, fra le quali si scorge un buon pastore di derivazione apollinea, con pecorella a tracolla, e una rappresentazione d’una greppia con bue e asinello, ma senza i personaggi della Madonna e di Giuseppe.
I testi sacri dei Vangeli appena resi canonici a Nicea ( Luca 2, 7) avevano prodotto le prime rappresentazioni visive. Ed è curioso in quanto Luca era il greco per eccellenza fra gli evangelisti, non aveva conosciuto Gesù di persona perché troppo giovane; e si dice pure che fosse, oltre che medico, pittore. È però nel mescolare questa tradizione d’oriente, greco-alessandrina come sono greche le parole fondamentali della cristianità, con Roma che nacque il presepe vero e proprio, ivi compresa la parola che deriva dal latino prae saepes, cioè il luogo dinnanzi al recinto dove si tenevano le greggi.
Nella tradizione pagana romana si celebrava una festa di famiglia, sin dalla più profonda antichità, quando i bimbi lucidavano le statuette dei lares familiares, gli antenati protettori, per porle in una nicchia domestica dove venivano addobbate con decori di natura, fra i quali potevano apparire anche altri personaggi confezionati appositamente e illuminati da piccoli lumi ad olio. In quell’occasione ci si scambiavano piccoli doni. La festa di chiamava sigillaria e avveniva circa il 20 dicembre.
La genialità della prima cristianità, finalmente ammessa dall’impero, fu esattamente quella di sovrapporre alle tradizioni passate la nuova tradizione nascente. In questo senso saranno poi esemplari i dipinti del Rinascimento quattrocentesco, quando andranno a raffigurare la Sacra Famiglia sotto le rovine degli archi romani antichi. Nel frattempo le recite di Francesco avevano preso la piega fantasiosa del Medioevo finale e la Controriforma si trovò nell’obbligo di ridare alla celebrazione una forma più contenuta.
Francesco Brandani prende la palla al balzo e realizza immediatamente il teatro scultoreo d’un presepe ad Urbino, semplice e povero, in stucco, dove i personaggi sono quasi in grandezza naturale. Andrà a generare una versione per così dire «di canone» che avrà gran successo, se lo stesso cardinale Federico Borromeo - il sostenitore più convinto d’una arte nuova, il promotore del Sacro Monte di Varese e della sua statuaria - insisterà presso il pittore urbinate Federico Barocci, influenzato ovviamente dal presepe della sua città, per farsi fare una copia ambrosiana del presepe oggi conservato al Prado. Se lo mise in collezione, il cardinale, accanto alla visita dei Magi di Tiziano. La tradizione continuava ad arricchirsi.
«Ama la tua sposa, guida i tuoi figli»
Il Papa ha additato san Giuseppe - in particolare ai padri di famiglia - quale modello dell’uomo di fede che sa prendersi cura degli altri
Pubblichiamo alcuni passi dell’omelia pronunciata dal Papa ieri durante la Messa nello Stadio di Yaoundé. (Avvenire, 20.03.2009)
Cari fratelli nell’episcopato, cari fratelli e sorelle (...)
Gesù Cristo ci raduna in questo giorno in cui la Chiesa, qui in Camerun come su tutta la terra, celebra la festa di san Giuseppe, sposo della Vergine Maria. (...) Giuseppe dà fiducia a Dio quando ascolta il suo messaggero, il suo Angelo, dirgli: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo » ( Mt 1,20). Giuseppe è, nella storia, l’uomo che ha dato a Dio la più grande prova di fiducia, anche davanti ad un annuncio così stupefacente. E voi, cari padri e madri di famiglia che mi ascoltate, avete fiducia in Dio che fa di voi i padri e le madri dei suoi figli di adozione? (...) In questo nostro tempo, in cui tante persone senza scrupoli cercano di imporre il regno del denaro disprezzando i più indigenti, voi dovete essere molto attenti.
L’Africa in generale, ed il Camerun in particolare, sono in pericolo se non riconoscono il Vero Autore della Vita! Fratelli e sorelle del Camerun e dell’Africa, voi che avete ricevuto da Dio tante qualità umane, abbiate cura delle vostre anime! Non lasciatevi affascinare da false glorie e da falsi ideali. (...) C ome in altri continenti, oggi la famiglia conosce effettivamente, nel vostro Paese e nel resto dell’Africa, un periodo difficile che la sua fedeltà a Dio l’aiuterà a superare. Alcuni valori della vita tradizionale sono stati sconvolti. I rapporti tra le generazioni si sono modificati in una maniera tale da non favorire più come prima la trasmissione della conoscenze antiche e della saggez- za ereditata dagli antenati. Troppo spesso si assiste ad un esodo rurale paragonabile a quello che numerosi altri periodi umani hanno conosciuto. La qualità dei legami familiari ne risulta profondamente intaccata. Sradicati e resi più fragili, i membri delle giovani generazioni, spesso - ahimè! - senza un vero lavoro, cercano rimedi al loro male di vivere rifugiandosi in paradisi effimeri e artificiali importati di cui si sa che non arrivano mai ad assicurare all’uomo una felicità profonda e duratura. A volte anche l’uomo africano è costretto a fuggire fuori da se stesso, e ad abbandonare tutto ciò che costituiva la sua ricchezza interiore. Messo a confronto col fenomeno di una urbanizzazione galoppante, egli abbandona la sua terra, fisicamente e moralmente, non come Abramo per rispondere alla chiamata del Signore, ma per una sorta di esilio interiore che lo allontana dal suo stesso essere, dai suoi fratelli e sorelle di sangue e da Dio stesso.
Vi è dunque una fatalità, una evoluzione inevitabile? Certo che no! Più che mai dobbiamo «sperare contro ogni speranza» (Rm 4,18). (...) La prima priorità consisterà nel ridare senso al- l’accoglienza della vita come dono di Dio. Per la Sacra Scrittura come per la migliore saggezza del vostro continente, l’arrivo di un bambino è una grazia, una benedizione di Dio.
L’umanità è oggi invitata a modificare il suo sguardo (...) «Saldo nella speranza contro ogni speranza»: non è una magnifica definizione del cristiano? L’Africa è chiamata alla speranza attraverso voi e in voi! Col Cristo Gesù, che ha calpestato il suolo africano, l’Africa può diventare il continente della speranza. (...) Se lo scoraggiamento vi invade, pensate alla fede di Giuseppe; se l’inquietudine vi prende, pensate alla speranza di Giuseppe, discendente di Abramo che sperava contro ogni speranza; se vi prende l’avversione o l’odio, pensate all’amore di Giuseppe, che fu il primo uomo a scoprire il volto umano di Dio nella persona del bambino concepito dallo Spirito santo nel seno della Vergine Maria. (...)
Vorrei ancora rivolgere una esortazione particolare ai padri di famiglia, poiché san Giuseppe è il loro modello. (...) Come san Giuseppe, cari padri di famiglia, rispettate e amate la vostra sposa, e guidate i vostri bambini, con amore e con la vostra presenza accorta, verso Dio dove essi devono essere (cfr Lc 2,49). Infine, a tutti i giovani che sono qui, io rivolgo parole di amicizia e di incoraggiamento: davanti alle difficoltà della vita, mantenete il coraggio! (...) Ai bambini che non hanno più un padre o che vivono abbandonati nella miseria della strada, a coloro che sono separati violentemente dai loro genitori, maltrattati e abusati, e arruolati a forza in gruppi militari che imperversano in alcuni Paesi, vorrei dire: Dio vi ama, non vi dimentica e san Giuseppe vi protegge! (...)
Benedetto XVI
La storia
Quel padre-dio che ha chiuso l’Austria in cantina
Il premio Nobel Jelinek: un paese abituato a tenere tutto nascosto
di ELFRIEDE JELINEK (la Repubblica, 19.03.2009).
L’Austria è un mondo piccolo, nel quale quello grande fa le sue prove. Nella cantina di Amstetten (molto più piccola ancora) ha luogo la rappresentazione - tutti i giorni, tutte le notti. Nessuna rappresentazione viene mai cancellata per nessun motivo. Anche le nascite sono parte dello svolgimento della giornata e della rappresentazione. Infatti, ci possono solo essere rappresentazioni. Nessuna cortina di ferro, neanche sbarre di ferro; le sbarre non sono necessarie, abbiamo creato la porta di cemento colato tra piastre di lamiera.
Le sbarre possono offrire una qualche visuale che - seppur parziale - sarebbe comunque meglio di non avere luce per niente. Ecco perché proprio qui non vale il detto: nessuna luce fra mille sbarre. Qui vale la parola del padre, che è pure già nonno, ma non è una cosa speciale: ci sono padri e nonni anche in una sola persona, c’è perfino la Santissima Trinità con le sue tre persone. Qui abbiamo un Dio-Padre, che riunisce in sé tutte le persone e che dice tutto quello che c’è da dire.
Lo zelante padre si è anche dato molto da fare per abbellire le segrete. Forse ha perfino chiesto il parere della figlia abusata, la madre dei suoi secondi sette figli, sul colore delle piastrelle e su altri oggetti di arredamento, forse anche lei poteva dire la sua, ma non credo.
Probabilmente ciò avrebbe comportato la rinuncia ad un millimetro di potere da parte di questo Dio-Padre, Dio-Nonno, Padre-Elettricista, e magari questo millimetro di potere sarebbe venuto a mancare a quella gioiosa virilità, quando ne avrebbe avuto bisogno. Ma la nostra virilità l’abbiamo sempre a portata di mano, ecco perché dobbiamo avere sempre a portata di mano anche la femminilità - la legge è uguale per tutti, e se ad esempio in Tailandia vogliamo fare bella figura davanti alla macchina fotografica, la virilità serve (e molto), e questa virilità, nei momenti in cui non ce ne vogliamo servire, rimane ben custodita nel piccolo sacchetto variopinto che si trova sotto la grossa pancia, custodita per il viatico in questo sacchetto per ostie, il cui contenuto può trasformarsi: da parola a carne per poi tornare parola. E poi si procede alla distribuzione.
In questo sacchetto ci sta tutto quello che ha rappresentato l’inferno per gli altri, che invece dicono dovrebbe essere il paradiso, un contenitore variopinto di impudicizia; siamo sicuri che Dio, il signor Nonno e Padre, se l’è tolto volentieri. In questi casi non conosceva pudore. Nel giardinetto di vita decorato con adesivi e disegni dei bambini (le rappresentazioni, come già detto, si svolgono al posto delle prove, perché non abbiamo più bisogno di provare, conosciamo già tutte le scene) Lui rappresenta se stesso, può rappresentarsi come vuole, può disturbare la rappresentazione quando vuole, perché è la sua rappresentazione. La rappresentazione di questo Dio-Padre-Nonno, il quale aveva creato un suo idillio seguendo - senza arte né parte - il modello del corpo femminile, con molte nicchie e corridoi. Non si può vedere il tutto da ogni parte. Non è difficile usare qualcosa come fosse un corpo di donna, quando non ce n’è uno vero a disposizione: ci sono bambole gonfiabili, mele svuotate, animali - ma è già più difficile costruire delle stanze secondo il modello della donna e di decorarle con dei bei motivi, un tempio, costruito soltanto per la brama del Padre, un tempio sempre pronto, continuamente pronto per ricevere la presenza, che può anche essere un corpo di donna, basta che stia tranquillo. Là sotto la donna è (ed i bambini sono) l’unica presenza che conta. Forse avrebbe perso il diritto alla vita, se non ci fosse più servita per servircene. Chi non sta tranquillo, chi grida, viene liberato ed ha accesso alla casa di sopra. Non vogliamo problemi, si dice in Austria, quando non si vuole una sommossa.
Nel 1848 c’è stata una sommossa, ma non è durata a lungo, e nell’anno memoriale che finisce con l’8 non se ne parla, almeno non finora. Qui le sommosse non hanno mai avuto grande seguito e di solito rimangono senza conseguenza. I nazisti, nel 1938, quelli sì che hanno avuto maggior seguito. In questo paese non piacciono né i problemi né le sommosse, a meno che non si tratti di persone inermi, allora torniamo ad essere forti.
Qui in Austria tutto è una prova per qualcosa di futuro, di là da venire, e sembra che anche per la piccola famiglia delle segrete la libertà fosse già stata pianificata e progettata. Al più tardi in estate la figlia doveva essere ripresa da quella setta inventata e riportata a casa amorevolmente per essere posta nel talamo nuziale. Al più tardi in estate doveva essere trasferita. Col tempo sarebbe anche diventato troppo faticoso per il pater familias infilarsi ogni volta là sotto - l’età c’è, e cosa succede se mi ammalo? I figli. Sono faticosi. Al più tardi a 18 anni se ne vanno comunque dal villaggio, dove arrivano soltanto se non hanno nessuno e nessuno li vuole avere. La 19enne figlia/nipote si è data fuoco là sotto in quella cantina, si è sacrificata per la famiglia. Forse morirà, questa Giovanna d’Arco: Non è stata bruciata da neonata, quanto meno non ancora, e questo è un bene, così la si poteva bruciare più tardi come una nave, con la quale non si vuole mai più tornare indietro; non è stata bruciata perché forse ci servirà più tardi per salvare la famiglia. Ed in effetti ci è servita. Ne avevamo tanto bisogno!
Quando avremo bisogno di questa figlia, non importa per che cosa, lei sarà lì. Meno male che l’abbiamo fatta a suo tempo! Senza il sacrificio dell’anello più debole, dell’unica figlia/nipote là sotto, non ci sarebbe stata salvezza. Adesso che tutti coloro, che ancora potevano essere salvati, sono salvi, i politici temono che la reputazione dell’Austria possa subire un danno - sarebbe terribile. Già non si sentono più le grida, che provenivano dalla cantina, perché ovviamente era impossibile sentirle, non c’erano fenditure o crepe grandi abbastanza da far passare le urla, anche se avessero cercato di trovare un passaggio. C’erano solo delle fessure per l’aerazione. Il padre è un esperto in fessure, anche quelle dei corpi umani, soprattutto femminili, dato che è lui che le ha fatte. E’ lui che ha fatto tutto, perché sapeva fare tutto. Dio sia lodato. Niente urli, per carità! Non trapela nessun urlo, neanche quello di una partoriente. Forse, dopo tanti figli, ci si abitua un po’ a partorire. Se ne è rotto soltanto uno, ed infatti è stato smaltito nella caldaia.
Ci sono molte cose per le quali l’Austria è famosa, conosciuta, ben voluta, forse anche: desiderata. Una di queste cose è la parlantina delle donne allegre ed intelligenti, anche se non la possiamo sentire, ma è un’altra cosa che prendiamo e ci portiamo via, insieme alle cose che dice il signore e che sono importanti, che dicono i signori per telefono al gestore di bordelli, che dicono alla squillo di lusso, le cui memorie una volta sono apparse brevemente in una rivista per poi scomparire di nuovo. Nessuno deve crescere troppo, tutto deve rimanere tra noi, non vogliamo far trapelare nulla, altrimenti all’estero sparlano di noi. Volentieri diffondiamo la parola del padre attraverso i canali della patria, ed è lì che la riporteremo, quando ne avremo goduto abbastanza. Voi all’estero: ascoltate la nostra parola, ascoltate il Ballo dell’Opera ed il Concerto di Capodanno, ascoltate tutto!, ma non le nostre urla! Vi preghiamo di non farci assolutamente caso, tanto neanche noi ci facciamo caso, e noi dovremmo essere i primi a saperlo. Ma le urla non giungono nemmeno fino alla casa del vicino o dalla cantina fino al soggiorno della propria casa.
L’autrice è Premio Nobel per la letteratura 2004.
Im Verlassenen@Elfriede Jelinek
Traduzione di Fransiska Dorr-Syllabos TC, Roma
di Bruno Forte (Il Sole-24 Ore, 24.12.2010)
Amo pensare al Natale come alla festa della giovinezza di Dio: se, come diceva Tagore, «ogni bimbo che nasce è un segno che Dio non è stanco degli uomini», l’annuncio della nascita di quel bambino è da duemila anni la "buona novella" di un nuovo inizio possibile, al di là di tutte le nostre stanchezze e di ogni nostra rinuncia a sperare e ad amare. Perciò, Natale sfida tutti a sognare, mescolando i sogni degli uomini al grande sogno di Dio.
Dovunque un nuovo inizio appare necessario e urgente, lì la nascita indicata dalla stella cometa sulla grotta di Bet-lehem accende il sogno che vorrebbe tirare nel presente degli uomini il domani divino.
Fu il sogno di Martin Luther King in quel fatidico 28 agosto 1963: «I have a dream...». È un sogno che parla specialmente ai giovani d’oggi, a quelli che come fiume sono scesi nelle piazze per gridare la protesta e per i quali le parole di quel grande sognatore risuonano più che mai vere, attuali: «Cerchiamo di non soddisfare la nostra sete di libertà bevendo alla coppa dell’odio e del risentimento. Dovremo per sempre condurre la nostra lotta al piano alto della dignità e della disciplina. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Dovremo continuamente elevarci alle maestose vette di chi preferisce alla forza fisica la forza dell’anima».
Il sogno che vorrei condividere in questo Natale non è fuga dalla realtà o presunzione di realizzare l’impossibile: è, invece, sfida a volare alto, a vedere l’invisibile e ad amare con l’amore che c’invita a fare della nostra vita la realizzazione di un progetto più grande, fino a spenderla - nel modo più giusto e più bello che ci sia dato - al servizio di tutti. Un profeta dei nostri giorni, Helder Camara, il "vescovo dei poveri", amava ripetere: «Beati quelli che sognano: trasmetteranno speranza a molti cuori e correranno il dolce rischio di vedere il loro sogno realizzato». E un grande protagonista del Concilio Vaticano II, Leo Joseph Suenens, affermava: «Beati quelli che sognano e sono pronti a pagare il prezzo più alto perché il loro sogno prenda corpo nella vita degli uomini».
Qual è dunque il mio sogno di uomo, di cittadino, di credente, per ognuno di noi e per il nostro popolo? È quello di un’Italia concorde, di un paese in cui ci si voglia bene, dove si ami il bene comune al di sopra del proprio interesse, privilegiando al piccolo cabotaggio dei calcoli individuali o di parte, le grandi rotte della crescita comune, della promozione dei più deboli, del rispetto della dignità di tutto l’uomo in ogni uomo, della tutela della vita in ogni sua fase e della pace in ogni contesto. È il sogno di una comunità civile e politica in cui i diritti dei poveri e i problemi reali della gente abbiano il primo posto nell’agenda dei grandi.
Sogno persone che sappiano farsi avanti per servire e altre che sappiano mettersi da parte per creare condizioni di dialogo e di consenso plausibili per tutti. Sogno un’Italia protagonista in Europa e nel consesso delle nazioni di una politica a favore dei popoli più deboli e svantaggiati, fieramente impegnata a ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. Sogno una cultura di vita e non di morte, capace di condividere e trasmettere a tutti ragioni per vivere e sperare, unanime nel rifiutare ogni logica di sopraffazione e ogni tentazione di violenza. Mi pare di perdermi in questo sogno di luce: ma è Natale, ed è giusto sognare così, se perfino l’Altissimo ha saputo imbarcarsi in un’avventura impensabile per la saggezza del mondo, motivata unicamente dal suo amore per gli uomini. E le parole di Martin Luther King, che costarono a lui la vita, ma diedero ai calpestati e oppressi un nuovo domani, sembrano confermarlo con la forza della testimonianza feconda, pagata di persona fino in fondo e senza rimpianti: «Io ho davanti a me un sogno, che un giorno ogni valle sarà esaltata, ogni collina e ogni montagna saranno umiliate, le alture più aspre saranno appianate e i luoghi tortuosi raddrizzati, e apparirà la gloria del Signore e tutti gli esseri viventi, insieme, la vedranno. È questa la nostra speranza... Con questa fede saremo in grado di strappare alla montagnadella disperazione una pietra di speranza. Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordie della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fratellanza».
È il sogno e l’augurio di questo Natale, nella coincidenza dei primi centocinquant’anni della nostra Italia unita, meritevole di un impegno e di un amore da parte di tutti, che sia più forte di ogni retorica e più grande di ogni particolarismo egoistico e di ogni interesse settario.
Bruno Forte è arcivescovo di Chieti-Vasto