Abiura di una cristiana laica
“Questo è un addio. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla Chiesa italiana. Monsignor Betori nega la coscienza e la libertà ultima di essere una persona. Si rende conto?”
di Roberta de Monticelli *
Questo è un addio. A molti cari amici - in quanto cattolici. Non in quanto amici, e del resto sarebbe un fatto privato. E’ un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica italiana, un addio anche accorato a tutti i religiosi cui debbo gratitudine profonda per avermi fatto conoscere uno dei fondamenti della vita spirituale, e la bellezza. La bellezza delle loro anime e quella dei loro monasteri - la più bella, la più ricca, e oggi, purtroppo, la più deserta eredità del cattolicesimo italiano. O diciamo meglio del nostro cristianesimo.
L’eredità di Benedetto, di Pier Damiani, di Francesco, dei sette nobili padri cortesi che fondarono la comunità dei Servi di Maria, di tanti altri uomini e donne che furono “contenti nei pensier contemplativi”. E anche l’eredità di mistici di altre lingue e radici, l’eredità, tanto preziosa ai filosofi, di una Edith Stein, carmelitana che si scalzò sulle tracce della grande Teresa d’Avila.
Questo addio interessa a ben poche persone, e come tale non meriterebbe di esser detto in pubblico. Ma se oggi scrivo queste parole non è certo perché io creda che il gesto o la sua autrice abbiano la minima importanza reale o morale: bensì per un senso del dovere ormai doloroso e bruciante. Basta.
La dichiarazione, riportata oggi su “Repubblica”, di Mons. Betori, segretario uscente della Cei, e “con il pieno consenso del presidente Bagnasco”, secondo la quale, per quanto riguarda la fine della propria vita, alla volontà del malato va prestata attenzione, ma “la decisione non deve spettare alla persona”, è davvero di quelle che non possono più essere né ignorate né, purtroppo, intese diversamente da quello che nella loro cruda chiarezza dicono.
E allora ecco: questa dichiarazione è la più tremenda, la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale: la coscienza, e la sua libertà. La sua libertà: di credere e di non credere (e che valore mai potrebbe avere una fede se uno non fosse libero di accoglierla o no?), di dare la propria vita, o non darla, di accettare lo strazio, l’umiliazione del non esser più che cosa in mano altrui, o di volerne essere risparmiato. Sì, anche di affermare con fierezza la propria dignità, anche per quando non si potrà più farlo. E’ la possibilità di questa scelta che carica di valore la scelta contraria, quella dell’umiltà e dell’abbandono in altre mani.
Ma siamo più chiari: quella che Betori nega è la libertà ultima di essere una persona, perché una persona, sant’Agostino ci insegna, è responsabile ultima della propria morte, come lo è della propria vita. Fallibile, e moralmente fallibile, è certo ogni uomo. Ma vogliamo negare che, anche con questo rischio, ultimo giudice in materia di coscienza morale sia la coscienza morale stessa?
Attenzione: non stiamo parlando di diritto, stiamo parlando di morale. Il diritto infatti è fatto non per sostituirsi alla coscienza morale della persona, ma per permettergli di esercitarla nei limiti in cui questo esercizio non è lesivo di altri. Su questo si basano ad esempio i principi costituzionali che garantiscono la libertà religiosa, politica, di opinione e di espressione.
Oppure ci sono questioni morali che non sono “di competenza” della coscienza di ciascuna persona? Quale autorità ultima è dunque “più ultima” di quella della coscienza? Quella dei medici? Quella di mons. Betori? Quella del papa?
E su cosa si fonda ogni autorità, se non sulla sua coscienza? Possiamo forse tornare indietro rispetto alla nostra maggiore età morale, cioè al principio che non riconosce a nessuna istituzione come tale un’autorità morale sopra la propria coscienza e i propri più vagliati sentimenti?
C’è ancora qualcuno che ancora pretenda sia degna del nome di morale una scelta fondata sull’autorità e non nell’intimità della propria coscienza? “Non siamo per il principio di autodeterminazione”, dichiara mons. Betori, e lo dichiara a nome della chiesa italiana. Ma si rende conto, Monsignore, di quello che dice? Amici, ve ne rendete conto? E’ possibile essere complici di questo nichilismo? Questa complicità sarebbe ormai - lo dico con dolore - infamia.
di Roberta de Monticelli
* IL FOGLIO, 02.10.2008
RISPETTOSA OBIEZIONE ALLA PROFESSORESSA DE MONTICELLI
Chiedo anch’io la libertà di coscienza. Altra cosa dall’auto-determinazione
di GIUSEPPE BETORI (Avvenire, 03.10.2008)
Sul ’Foglio’ di ieri, Roberta de Monticelli prende spunto da alcune mie dichiarazioni, nel contesto di una conferenza stampa, per dare il suo « addio » « a molti cari amici - in quanto cattolici » , « un addio a qualunque collaborazione che abbia una diretta o indiretta relazione alla chiesa cattolica » .
Trovarmi coinvolto in una così seria decisione mi turba, ma vorrei ricordare che quella parola, « addio » , percepita di primo acchito sinistra, contiene in sé una radice promettente. E’ la preposizione ’ ad’ che spinge verso altro, in ogni caso fuori dal soggetto.
E in effetti visto che l’argomento del contendere è la ’ fine della vita’, tutto cambia a seconda se la vita è destinata oppure senza scopo. In altre parole se la vita si spiega da sé o sottostà come tutta la realtà a quel principio per cui nessuno trova in se stesso la spiegazione del proprio essere. Se si tiene conto di questo, forse si riesce a capire cosa nasconda la parola ’autodeterminazione’, che vorrebbe fare a meno di questa evidenza.
E se la signora de Monticelli avesse colto tale passaggio, avrebbe certo compreso che dietro le mie parole «non spetta alla persona decidere» si cela non la negazione della coscienza, ma semmai dell’autosufficienza. Per questo, proprio appellandomi alla coscienza, che l’illustre interlocutrice difende con tanta passione, non posso non prendere le distanze dalla posizione che mi costruisce addosso e che mi viene attribuita senza fondamento.
Sono infatti sinceramente amareggiato che la mia dichiarazione sia stata letta come « la più diabolica negazione di esistenza della possibilità stessa di ogni morale » . Insomma, sarei io - e la Chiesa con me - ad autorizzare il male, negando la possibilità di fare il bene, e farei tutto questo perché non sono per « il principio di autodeterminazione » . Qui si sta costruendo un grande malinteso, legato a cosa significhi in questo contesto il « principio di autodeterminazione » : non si può confondere la libertà di coscienza con la possibilità di fare quello che ci pare. Anche se ragionassi in termini puramente laici, non potrei giustificare un assassinio dicendo che l’ho fatto per rivendicare la mia libertà di coscienza. La legge che punisce l’omicidio non elimina la libertà di coscienza: anzi la piena libertà dell’assassino è il primo presupposto della condanna.
Non possiamo confondere, insomma, la libertà della nostra coscienza con la legittimità delle nostre azioni. Il « principio di autodeterminazione » non è mai stato un caposaldo della dottrina della Chiesa: quando S. Agostino scrive « ama e fa’ ciò che vuoi » , indica che le nostre azioni sono buone solo quando si ispirano a Dio, che è Amore. La coscienza è la sede della nostra scelta, è il luogo dove decidiamo, ma non è il criterio della scelta. Il criterio non ce lo diamo da soli: ce lo dona Dio, che è Amore, ed è percepibile ad ogni indagine razionale come il fondamento della nostra stessa identità o natura. Allo stesso modo, la vita non ce la diamo da soli, ma ci viene donata. Difendere questo dono è difendere il bene: difendere la vita significa difendere la possibilità della coscienza, non negarla. Se non sono vivo, certo non posso scegliere. È proprio questa precedenza della vita rispetto ad ogni scelta, questo dono che mi viene fatto, che mi orienta nel valutare le opzioni di fronte a me. Del resto, anche la mia coscienza non me la sono data: genitori, insegnanti, amici mi hanno insegnato a parlare e a pensare.
Questo tipo di considerazioni porta San Tommaso a insistere tanto sulla prudenza come regola per l’azione: se non si può scegliere in astratto, ma solo a partire dalle concrete situazioni della vita personale, non si può essere buoni in astratto, come vorrebbe l’astratto « principio di autodeterminazione » .
Bisogna cercare di essere « il più buoni possibile » nelle circostanze date: per questo la Chiesa si è decisa per una legge sul ’ fine vita’. Un realismo, il suo, che è da sempre il criterio ispiratore della riflessione cattolica, nello sforzo di rendere possibile una scelta buona nella vita di tutti i giorni.
La vita che viviamo è frutto di relazioni che la generano, sia nel momento del concepimento, sia durante tutto il suo corso. Queste relazioni non terminano con la sofferenza: il dolore non colpisce solo chi soffre - a volte in condizioni estreme - ma anche chi attorno è testimone di tale sofferenza. Tale comune sentire umano - direi questo consentire - sta da sempre a cuore alla Chiesa: davvero non vale niente? E questa passione per l’uomo sarebbe davvero « nichilismo » come conclude l’articolo su Il Foglio? O forse nichilismo è credere che non ci sia nulla oltre l’individuo e la disperata coscienza della sua solitudine?
Spero che Roberta de Monticelli - e quanti sono interessati a un dialogo sulla bellezza, la libertà, la vita - non rinunci alla possibilità di un incontro con chi segue Gesù, che è venuto non « per condannare il mondo, ma per salvare il mondo » (Gv 12,47). Per questo mi auguro che il suo sia solo un ’arrivederci’
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’"UOMO SUPREMO" DELLA CHIESA CATTOLICA: "Dominus Iesus": RATZINGER, LO "STERMINATORE DI ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento del teologo francescano Leonard Boff.
CRISI DEI MUTUI?! IN "GOLD" WE TRUST!!!
LA CASA DEL VATICANO E’ COSTRUITA SU UNA "ROCCIA D’ORO"!!!
FIRENZE: DON ALESSANDRO SANTORO, LE PIAGGE, E L’INTERVENTO DELL’ARCIVESCOVO BETORI. Notizie sul caso
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI.
Memoria /memorie
Lettera a Emanuele Severino
Intorno a una - eterna - lezione
di Roberta De Monticelli (Il Mulino, 24 gennaio 2020)
Caro professore,
se l’essere nella Gioia, come spero, le consente di ricevere qualche lettera senza che la Gioia sia interrotta dalla noia di leggerla, lasci pure che questa mia si depositi come foglia, soffio, ombra, umana illusione, fiato di voce o scintillio d’inchiostro là dove i più fra noi, tardi di mente e innamorati del visibile, stoltamente dimorano: nel Cerchio dell’Apparenza.Non turberà l’eternità dell’esser suo, caro professore, questo cicaleccìo di una collega invisibile, sì, proprio quella dell’aula accanto, quella del giovedì. O forse era martedì? Che cosa conta, e chissà mai perché poi avevamo quest’abitudine di onorare gli orari di lezione, questa conformistica, veramente illogica acquiescenza alla misurazione di ciò che non esiste, il tempo. Lei poi arrivava puntualissimo, molto più di me. Ben me ne accorgevo ogni volta che la folla dei suoi allievi in festosa attesa faceva barriera davanti a tutte le porte dello stretto corridoio su cui si aprivano le nostre aule, e i quattro gatti della mia classe e io restavamo bloccati per un pezzo, prima di entrare, con loro e mio rimpianto, nell’auletta degli esercizi di fenomenologia, piena di controversie e dubbi, invece che nella luce dell’incontrovertibile. Dove per due ore quelle menti giovinette e incerte, anzi certamente scosse da ogni sorta di amore e di terrore, si sarebbero spalancate alla ben rotonda verità dell’Essere, indefettibile e immobile: che sarebbe fluita senza interruzione alcuna dalle sue labbra, nel più religioso silenzio.
Lei cominciava col ben disporle, le menti, al saldissimo fondamento dell’epi-steme - diceva così, mi arrivava il suono della sua voce che inesorabilmente spezzava la parola greca, sapientemente appoggiando, con la pausa, la voce alla solidità di ciò che sta. Il sapere che sta, e non importa dove e come. Di là dalla parete, sentivo l’ombra di Socrate, smarrita, emergere come un fantasma da quella lineetta, da quella pausa che spezzava la parola, e come in un grido afono, beckettiano articolare con la bocca muta parole simili a sospiri: conoscenza... opinione vera e... giustificata... le ragioni, vi prego, le ragioni... Le ragioni per dirlo. L’evidenza per riconoscere che è vero - fino a prova contraria. Altro che stare. Quelli che stavano lì, immobili, ierocratici, erano i dignitari immensi della statuaria babilonese; a me veniva in mente ogni volta la stazione centrale di Milano, e certo subito ne arrossivo. In Grecia erano mobilissimi anche gli dei, invece, pieni di bizze e voglie, di splendori e di furia e di grazia, come i ragazzi e le ragazze che lei sapeva affascinare e render muti - come in un’estasi iniziatica.
Così, una volta che la mia lezione cominciava più tardi, l’ardente desiderio mi prese - chissà, l’invidia - di carpire il segreto di quel fascino. E assistetti alla mirabile dimostrazione “parmenidea” dell’impossibilità di far domande, con cui quel giorno si apriva il suo corso. E fremetti anche io dall’ammirazione, caro professore. Con quella voce così musicale, e insieme ieratica, quella sì, come se non si svolgesse affatto nel tempo: «Chi domanda è evidentemente nella non-verità. Ma dall’essere nella non-verità non c’è via all’essere nella verità. [Pausa]. Non c’è via. Per la contraddizione, che non la consente». Come invidiai questo modo così suadente di trasformare in un silenziatore il paradosso platonico della conoscenza, quello che introdusse nella nostra mente e nella nostra storia l’idea della ricerca, l’idea più sconvolgente e più controvertibile! Anzi controversa, al punto che bisognò morire, con Socrate, e mica una volta sola, perché l’idea vivesse, e la ricerca pure, e da questo sfacciato parricidio, da questa insolente perplessità che obietta alla ben rotonda verità dell’Essere, nascessero, come in una cosmogonia esiodea, la Disputa e l’Argomentazione, il Dubbio e la Scoperta, il disprezzo del sentito dire e la gioia del vedere, e la veglia e la critica, e il demone giocoso eppure serissimo della ragione.
Che non è affatto una dea barricadiera e neppure una prosopopea della storia, ma solo l’irriguardosa, umile, ridente e dolente giovinezza dell’età adulta, quando ancora ha freschezza e speranza per dire, ad esempio: “No, a nessun prezzo mi si imporrà questo, piuttosto morire”; oppure “E perché no? Perché mai le cose non dovrebbero avvenire così, anche se non le vedo ancora? Perché mai, contro la tesi di un famoso professore italiano del Novecento, il possibile non dovrebbe essere tale, cioè forse vero, anche se non lo vedo?”. La filosofia, mi dicevo, non è che questo doppio ricciolo interrogativo, l’essere disposti a chiedere e dare ragione di ciò che si dice e di ciò che si fa, o di ciò che ci viene detto o imposto: e la Ragione non è affatto soltanto nostra natura, anzi! È una disponibilità, non una disposizione: si risveglia soltanto con la libertà. E ancor meno somiglia, la Ragione, a quella sorta di indomabile potenza della storia che lei, professore, e il suo predecessore tedesco chiamavate “la Tecnica”. Per carità, quel suo predecessore sì che era pericoloso: il suo, di Essere, odorava lontano un miglio di Blut und Boden.
Della tecnica invece continuavamo a servirci ogni volta che dovevamo compilare i registri elettronici, e meno male, con tutti gli allievi che aveva. Per non parlare poi del sollievo di evitare i denti strappati dalle gengive deste e sanguinanti... (mi perdoni, la natura femminea si distrae sovente in pensieri banali). Che poi, se anche sostituissimo a questo nome, “la Tecnica” (preferito nei suoi elzeviri), uno degli altri e numerosi nomi divini di quella potenza assoluta che ci destina a questo e quell’altro (il Destino dell’Occidente, il Capitalismo, il Potere, il Denaro), cambierebbe poco. Sospetto che quello che le Sue parole inducevano nell’anima dei suoi ascoltatori e lettori fosse una specie di rilassamento - in tedesco mistico si dice Gelassenheit - o meglio un gesto di virtuale auto-destituzione del soggetto morale in noi, un abbandono della responsabilità. Un gesto ben nascosto dietro l’ombra della macchinazione universale che di tutto ha colpa, e libera da ogni responsabilità nell’uso delle parole noi intellettuali, giornalisti, politici, professori, studenti, pensionati... Tutti noi operai del linguaggio.
Insomma, a pensarci bene, anche questa destituzione in noi dell’agente razionale e morale, sensibile e responsabile, era un atto di libertà - peccato, però, che fosse nella direzione della più perfetta sottomissione. Sarà per questo che i suoi ragazzi amavano tanto anche Spinoza? Libertà come inchino alla necessità? Curioso equivoco, a leggere l’autore del Trattato teologico-politico e il teorico della democrazia! Ma non divaghiamo.
Perché la ragione, appunto, o meglio il suo esercizio, è una libera disposizione, cui si può spavaldamente rifiutarsi o che pavidamente si può lasciar sopire: e fatica comunque a liberarsi come il ragazzo fatica a diventare adulto. Così che molti, nei tempi antichi e in quelli moderni, negli imperi dispotici e nelle comunità tribali, consigli di facoltà compresi, nelle città ierocratiche e in quelle demagogiche, responsabili di sé e di fronte al vero non lo diventano mai, e vivono di fake news e di costumi consortili.
Per questo, caro professore, è un vero peccato zittire Socrate in culla, e farlo rimangiare da Parmenide, come da un Crono divoratore dei propri figli: perché proprio da quella fessura nella ben rotonda compattezza dell’Essere, dalla possibilità del non essere, è nata la fragile bellezza della nostra mente, la sua umiltà di fronte all’inesauribile vero e la sua fierezza di consentire - o no - alla legge. Per quella fessura è passato il doppio palpito della civiltà, il cuore pratico e quello teorico del nostro domandare ragione, cioè, infine, l’etica e la logica, la democrazia e la scienza. Che passando da quella fessura si sono lentamente fatte largo, in mezzo alle tragedie dei millenni.
Perdoni, professore, sento che la sua eterna essenza oppone un cortese ma fermo diniego all’opinione che Socrate per la dolente e felice fessura del parricidio, perché di lì passasse il possibile senso e valore della vita umana, morì proprio. Come morirono molti e molti altri suoi discendenti. Quella volta, finita la lezione, lei, con la sua grande e signorile cortesia, e dopo un baciamano galante che mi spense subito in gola ogni obiezione e mi accese un sorriso di gratitudine, mi accompagnò nel corridoio, fra due ali di giovinetti plaudenti, e c’era anche qualche dame à chapeau che mi lanciò un’occhiata di invidia. Che vuole, il suo fascino ammutolì anche me, e così mi rimangiai questa lunga obiezione che per tutta la lezione avevo rimuginato. E so che non è affatto troppo tardi per rivolgerla ora alla sua essenza eterna, dal di qua al di là del cerchio delle apparenze. Poco importa, su questo sono d’accordo con lei. Continuerà, col suo sorriso (tout just un peu compatissant, comme c’est le cas avec une dame) a lasciarmi disputare con lei, con parole sempre più affannate - come ho fatto tutta la vita.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ...
Il Colle ha fallito? Dipende da noi
«Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male (Simone Weil)»
di Roberta de Monticelli (Il Fatto, 01.06.2018)
Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare. C’è chi vuole far processare per alto tradimento il presidente della Repubblica e chi lancia hashtag in suo sostegno. Ci sono giuristi pronti ad affermare che non ha fatto che il suo dovere (Flick) e altri radicalmente critici (Villone e Carlassare), come ce ne sono di molto perplessi (Onida). Ci sono commentatori che in mancanza d’altre idee attribuiscono lo sconquasso al “circo mediatico giudiziario” che ci avrebbe per troppo anni lavato il cervello facendoci credere che in Italia corruzione e impunità siano maggiori che altrove (Panebianco) - ma non vedono che il lavaggio non è bastato, visto che nessuno (neppure il capo dello Stato) s’è fatto un baffo della circostanza che il candidato ministro dell’Economia da ex presidente dell’Impregilo era incorso in inchieste giudiziarie ben motivate dalle intercettazioni, che gli avrebbero sbarrato in ogni altro Paese civile la porta di quel ministero.
C’è chi sostiene con assoluta convinzione che il gesto del Presidente ha salvato la democrazia assediata dai populismi e chi con convinzione altrettanto assoluta sostiene che ha soffocato la domanda democratica di cambiamento, per asservire lo Stato alla tecno-plutocrazia europea, o peggio al diktat tedesco. Nota a margine: non si percepisce traccia di simili congiure e diktat da quassù - il regno del fool è il vuoto celeste, dove le linee aeree franco-canadesi forniscono una massa di giornali nelle principali lingue europee, e neppure un angolino contiene un commento su queste indebite pressioni, nonostante i titoli ridondino di “crisi istituzionale in Italia” e “l’Italia mette a processo l’Europa”.
Ed ecco lo sragionamento del fool, per chi volesse conoscerlo. Che il gesto del presidente della Repubblica sia o non sia stato un tragico errore, dipende da noi. Nel senso che non sarà stato un errore, e forse sarà stato invece uno di quegli attimi che le generazioni future ricorderanno con ammirata gratitudine, solo se d’ora in poi gli uomini e le donne di buona volontà non si daranno tregua a costruire in due mesi la Parte della Speranza Progressista e Civile, per farla trovare pronta alle elezioni, con a capo i migliori cavalieri delle buone cause sconfitte nell’ultimo quinquennio...
Quanti ce ne sono, e come saranno bravi se somigliano alle idee per cui furono silenziati, in materia di anticorruzione e legalità, di taglio alla spesa, di politica industriale e del lavoro, di lotta alla disuguaglianza, allo scempio dell’ambiente e del paesaggio, di vera politica della scuola, dell’università e della ricerca.
Non contro ma verso gli Stati Uniti d’Europa. Il programma di questa Parte? Sarà buono se si procederà con infinita attenzione ai veri tagli. “Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male” (Simone Weil).
È questo il taglio sottile da operare, o il groviglio da dirimere. Guardate se non torna, lo sragionamento. Tutto il male che ci circonda viene da questo groviglio! Vorresti difendere, certo, la bandiera italiana dal disprezzo di chi ci tratta da gente che non sa stare ai patti, ma poi guardi quelli che la levano ora sulla piazza e ti accorgi che è sporca, lordata dall’uso che ne fece il demagogo lombardo predecessore dell’attuale. Vorresti accorrere, certo, a difesa della Repubblica e del suo presidente, allinearti a quei poveri corazzieri in alta uniforme, ma ti si stringe il cuore solo a guardarli, tanto svilita è l’idea che difendono, che solo il ricordo di quell’adunata di ceffi e mammole che presiedettero all’elezione del precedente presidente al suo secondo mandato ti riempie di vergogna, come quello delle innumerevoli forzature di un governo che da incostituzionalmente eletto si fa costituente senza averlo mai avuto in alcun programma. Vorresti ripetere anche tu, lo stesso, “sto col presidente”, perché dall’altra parte c’è la prepotenza di chi “se ne frega” di qualunque vincolo etico e giuridico in nome di folle senza volto, di chi addirittura non si vergogna a ripetere “chi si ferma è perduto”. E ti accorgi che il solo sostegno al governo del presidente verrà dai responsabili di tutte quelle forzature che hanno svilito l’uniforme dei miei corazzieri, e anche dal ghigno trionfale di un signore politicamente appena riabilitato, ancora prima che si sia quietato l’effetto di rivolta emetica indotto dalle immagini di Sorrentino in Loro 1 e Loro 2...
Il fool nella sua follia si rivolge anche a molti elettori Cinque Stelle: avete lottato - lo so perché ero con voi - per preservare un po’ di bellezza dove interessi biechi la sconciavano. Ma la bellezza non è un valore, è il nome di tutti i valori, compresa la (pari) dignità di tutte le persone. Come potete ora sostenere anche la bruttezza di parole e gesta di chi la nega? Non sta lì il primo nefasto miscuglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIÙ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIÙ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante.Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice
“Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”
(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
Roberta De Monticelli si scaglia contro lo scetticismo morale che pervade i costumi degli italiani e che non risparmia i filosofi
Platone è meglio dell’«Italian Theory»
di Mario Ricciardi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 8.11.2015)
Per chi ha conosciuto Roberta De Monticelli leggendo i suoi scritti teoretici, e in particolare L’ascesi filosofica (Feltrinelli, 1995), i lavori più recenti di questa filosofa sono stati, se non una rivelazione, una sorpresa. Da qualche anno, infatti, De Monticelli ha intrapreso un percorso di riflessione che l’ha portata a confrontarsi con una questione centrale del dibattito pubblico: il rapporto tra moralità e politica. L’ha fatto scegliendo una forma letteraria che ha precedenti illustri nella nostra tradizione: il sermone civile, un discorso che aspira a essere al contempo argomentazione ed esercizio pedagogico. A questa evoluzione ha fatto seguito un parziale mutamento delle letture di riferimento e dello stile, di qui la sorpresa di cui dicevo.
Senza abbandonare del tutto i suoi autori, da Husserl a Jeanne Hersch, De Monticelli si è aperta nei suoi scritti recenti a orizzonti intellettuali diversi - come quello della teoria della giustizia e dell’etica pubblica post-rawlsiana - entrando in dialogo anche con interlocutori che non appartengono al mondo della filosofia: giuristi, studiosi di scienze sociali, intellettuali pubblici. La novità si avverte nella scrittura: che diventa tesa, procede a scatti, più vicina ai ritmi del parlato che a quelli del saggio accademico.
Si ha quasi l’impressione che, presa dall’urgenza di fare i conti con i temi della vita pubblica, Roberta De Monticelli abbia ingaggiato un corpo a corpo con un avversario temibile, cui non riesce ancora a dare un nome. L’ultima testimonianza di questo scontro è Al di qua del bene e del male. Per una teoria dei valori. Un libro che segna probabilmente un cambio di passo rispetto ai precedenti, perché abbandona la forma del sermone civile e ritorna a modalità argomentative più prossime a quelle tipiche della filosofia.
La spiegazione di questo cambiamento si trova verosimilmente nel fatto che l’autrice abbia avvertito il bisogno di fare un bilancio delle sue esplorazioni «nello stato presente dei costumi degli italiani» (per riprendere il titolo di uno scritto di Leopardi di cui si avverte spesso l’eco nei lavori recenti della De Monticelli).
In effetti, nelle pagine di Al di qua del bene e del male ci viene offerta una diagnosi di ciò che è andato storto nei nostri costumi, ovvero nel modo in cui agiamo, parliamo e pensiamo, e una proposta relativa alla cura di cui avremmo bisogno per tornare in salute. La ricostruzione dei sintomi da cui saremmo affetti è una delle parti più appassionanti e persuasive del libro: la cecità rispetto alla dimensione normativa del mondo sociale, ridotto a fatto bruto, l’indifferenza alle diverse dimensioni del valore, il rattrappirsi della sensibilità morale, l’apatia civile.
Più complessa è la parte terapeutica, che consiste essenzialmente in una serie di argomenti per confutare lo scetticismo morale. Qui la De Monticelli si impegna in una battaglia su diversi fronti: contro lo storicismo, contro il nichilismo, contro una certa lettura del pluralismo dei valori, e contro il relativismo.
Devo dire che la parte sul pluralismo è quella che mi ha convinto meno. L’interlocutore principale con cui si confronta l’autrice, Isaiah Berlin, non è mai arrivato a una formulazione soddisfacente delle proprie tesi sul pluralismo.
D’altro canto mi pare che la De Monticelli trascuri le tensioni concettuali della tesi dell’unità del valore di Ronald Dworkin, che viene presentato nel libro come il più illustre rappresentante di una tendenza antipluralista nel dibattito contemporaneo. Per menzionare l’esempio della libertà, ci sono buone ragioni per resistere alla normativizzazione di questo concetto. Distinguere la libertà dalla licenza è un’abile mossa che Dworkin si concede per eludere le obiezioni dei critici, ma il rispetto che dobbiamo alla verità ci impedisce di accettarla.
L’aspetto centrale di questo libro è costituito comunque dalla critica serrata alle tendenze intellettuali che, secondo la De Monticelli, avrebbero abdicato alla missione del Socrate dei dialoghi di Platone per abbracciare invece uno scetticismo morale che crea l’ambiente adatto per la corruzione dei costumi. Le pagine sul «pensiero della disperanza che si lamenta invano» sono vigorose e non prive di una certa perfidia.
L’autrice non si lascia incantare dai fumi dell’Italian Theory, l’eredità che l’operaismo degli anni settanta ha lasciato al mondo. Giustamente la De Monticelli respinge l’idea che si possa criticare il capitalismo finanziario o la globalizzazione senza tener conto degli sviluppi che l’economia politica ha avuto dalla seconda metà dell’Ottocento in poi.
Incapaci di fare i conti con gli argomenti libertari che, a partire dagli anni ottanta, hanno preso il sopravvento sul “consenso socialdemocratico”, gli Italian Theorists parlano d’altro. Chiudendosi nella riserva di dipartimenti in cui è improbabile imbattersi in una Roberta De Monticelli che rivolga loro domande imbarazzanti come quelle poste in questo libro sull’appropriazione di Heidegger e Schmitt da sinistra.
Anche sui due tristi figuri recuperati dall’Italian Theory ci sono pagine sferzanti. Del primo ci offre un breve ritratto intellettuale che chiude la questione del rapporto tra la sua filosofia e l’adesione al nazismo: sì, la sua filosofia era nazista. Altrettanto spietata è con lo scritto sulla “tirannia dei valori” di Schmitt.
L’autrice fa a pezzi “questo mediocre saggio” - che ha tanti estimatori nel nostro paese - lasciando il lettore liberale in uno stato di esultante simpatia, un po’ come il ragionier Filini quando Fantozzi urla cosa pensa della Corazzata Potëmkin.
In questa dimensione critica, in cui si nota più forte la continuità con i sermoni civili pubblicati negli ultimi anni, c’è un richiamo vigoroso che l’autrice rivolge ai propri colleghi: agli educatori, ai filosofi, agli intellettuali. Non abdicare alla missione di Socrate, la ricerca della verità, anche se questo comporta andare contro la corrente.
Cardinale, non c’è più religione
di Roberta de Monticelli (il Fatto Quotidiano, 26 gennaio 2012)
È proprio vero che non c’è più religione. In Vaticano, dico, e neppure ai vertici della Chiesa ambrosiana. Ma come: il Teatro Franco Parenti ospita uno spettacolo che gira da più di un anno, intessuto di citazioni bibliche, capace a suo modo di scuotere insieme le viscere e la mente. C’è un Padre, e un Figlio. C’è un’agonia terribile e umiliante. C’è un pianto sconsolato e un amore impotente.
C’è tutta intera la cognizione del dolore, e della mortalità. C’è tutta la tenerezza e la debolezza della carne, la sua fragilità, la sua corruzione. C’è una Passione, c’è un Giobbe che si sparge il corpo e le piaghe di melma.
C’è addirittura un velo che si squarcia e un fulmine che pare scuota la terra, e la terra del resto tremava già sotto il palco e le assi della platea, prima che lo spettacolo cominciasse, e così il brontolio cupo del cielo e delle viscere della terra avvolgeva lo spettatore, a prepararne l’anima.
E sopra tutto, fra terra e cielo - solo sfondo - il Volto. Quello del Salvator Mundi di Antonello da Messina. Nella sua infinita, indicibile, muta dolcezza. Che perfino quando si squarcia resta, si vede, partorisce ancora forme umane, si confonde con la Parola, si ricompone in filigrana. E lascia intravedere salmi di fede e di dubbio. Le citazioni preferite dal Cardinal Martini.
Sembra una lezione di teologia, o forse un’omelia, una parabola, un midrash. Con annesso talmud e glossario e commento, un dibattito che si trova disteso in rete da Parigi a qui, che dura e si riaccende. Ma cosa vogliono di più?
Non ci si può credere, che il cardinale Scola, certo un fine teologo, abbia davvero parlato di “opera contraria ai simboli religiosi”! Meno male che Scilipoti ha mostrato da quali profondità teologiche e spirituali possa salire questa scomunica, con un’interrogazione parlamentare in cui citando Scola chiede al ministro di proibire lo spettacolo: ma è possibile che qualcuno possa scrivere, dopo tutto questo, che il cardinale ha mostrato molta saggezza perché pur rammaricandosi non ha chiesto la sospensione della pièce al Parenti?
Ma scusi, caro Umberto Veronesi, a che titolo mai avrebbe potuto - anche soltanto osare? Siamo tutti impazziti? Vabbè, in fondo, grazie a queste bizzarrie torna a teatro perfino un po’ di emozione civile: dunque la gente ancora pensa, si emoziona, discute? Con il cielo e l’inferno forse tornano le idee, si risvegliano dalla formalina, anzi dal decerebrato bailamme dei talk-show? Magari!
Certo, girano in rete propositi di idiozia criminoide, mentre per strada, intruppate, girano vecchiette col rosario, che poverette col freddo che fa le camionette della polizia le tengono lontane dal caldo foyer del tetro, ma perché? Sì, certo, perché non si sa mai: pare che in questi giorni sia arrivato di tutto al Teatro Parenti e ad Andrée Ruth Shammah: minacce, insulti, perfino schifezza antisemita...
Ma ecco in tutto questo la frase più straniante, a suo modo davvero blasfema nella sua comicità surreale. Come surreale può essere una contraddizione logica e un’infamia etica che per nascondersi si cosparge di melliflua, socializzante gommosità. Eccola, viene diretta dal portavoce del Papa, Padre Lombardi, o almeno gli è attribuita: avrebbe potuto, la direttrice del teatro “farsi carico della dimensione sociale della libertà di espressione”!
Oh Dio, e sarebbe questa la Parola, cui “si addice la temperatura del fuoco”? Questo il tocco della grazia che rinnova e ricrea, che fa rinascere a vita eterna, che chi la ode non avrà più sete ? Davvero non c’è più religione, in Vaticano.
di Roberta De Monticelli (“il Fatto Quotidiano”, 20 ottobre 2011)
Raccolgo la poca speranza residua che un riscatto morale e civile degli italiani sia ancora possibile, per scrivere questa lettera aperta agli esperti di Diritto costituzionale. Mi rivolgo a tutti loro e a chiunque, nelle istituzioni di questa Repubblica, abbia titolo a suggerire una via per sanare le profondissime ferite che sono in questi giorni inferte alla nostra coscienza civile. O sia, almeno, in grado di dare risposta allo sconcerto di molti semplici cittadini come me, dei quali mi faccio portavoce. Siamo noi che abbiamo perduto il senso della misura, o è l’opinione pubblica che ha perduto, per abitudine e rassegnazione, la capacità di percepire quando la misura è colma?
IO CREDO che il voto di scambio sia un reato, e che se non si procede a denunciarlo e a esigere che chi se ne è reso colpevole ne paghi le conseguenze, sia in generale perché è difficile trovare le prove che il mercato abbia avuto luogo. Ma nel caso che abbiamo sotto gli occhi, le prove ci sono. Il presidente del Consiglio ha ripetuto di aver "dovuto" ripagare con un posto di viceministro la signora Polidori per via di promesse già fatte, in cambio di favori pregressi, ha anche aggiunto che precedeva altri nella lista, e che c’era un documento scritto a provarlo. Lo ha detto, ed è stato riportato dai giornali di ieri e di sabato. In quelli di oggi, con le intercettazioni delle telefonate con Lavitola, emergono numerosi altri casi del genere, con personaggi che dicono "io sono prima di lui nella lista", eccetera.
Io credo che un capo di governo che dica "facciamo la rivoluzione vera... facciamo fuori il Palazzo di Giustizia di Milano" si renda semplicemente colpevole di tradimento nei confronti della Repubblica, e della sua Costituzione, sulla quale ha giurato. Credevo che, se fino ad ora non si è proceduto a denunciarlo e a procedere con una qualche - immagino prevista - forma di impeachment per alto tradimento, fosse perché non era dimostrabile che questo fosse il pensiero del capo del governo. Ora è dimostrato. Nero su bianco, voce e sua riproduzione scritta, comparsa sui giornali del 17 ottobre. Io credo che quando un presidente del Consiglio dichiara che nessuno che non sia un suo "pari" - cioè, immagino, un parlamentare, o un ministro - non ha il diritto di giudicarlo, fa una dichiarazione eversiva, in quanto lesiva dell’articolo 3 della Costituzione. E questa dichiarazione il suddetto presidente l’ha fatta in numerose occasioni, già molti anni fa. È oggi uno dei temi ricorrenti delle conversazioni con Lavitola, anche queste oggi di pubblico dominio .
IO CREDO che se un presidente del Consiglio dimostra di avere ogni genere di rapporti, che lo rendono ricattabile, con un indagato per reati di vario genere, peraltro dichiaratosi latitante; se addirittura ha istigato il suddetto latitante a restare tale; se infine pare all’origine del fatto che costui non viene arrestato, nonostante sia perfettamente reperibile, avendo concesso a una televisione nazionale una pubblica intervista: ebbene questo presidente del Consiglio si rende come sopra colpevole di eversione e tradimento della Costituzione su cui ha giurato, nonché di insulto alla coscienza morale e civile di tutti i suoi concittadini.
Se queste mie credenze sono fondate, allora mi chiedo e vi chiedo se le migliori intelligenze delle discipline giuridiche pertinenti non possano e non debbano farsi autrici di un documento di pubblica accusa, che se anche fosse destinato all’inefficacia pratica, avrebbe comunque una forte efficacia morale, come specchio e riferimento ideale di tutti i cittadini italiani che nella Costituzione si riconoscono, e che l’occupazione del potere da parte di chi la spregia ferisce nel fondamento stesso della loro coscienza e fedeltà alla Repubblica.
NON CI si obietti che questo capo di governo e la sua maggioranza sono al tramonto. Qualunque sia la maggioranza che gli succederà, considerare semplicemente “politica” la differenza fra la fedeltà alla Costituzione e il suo disprezzo, è rendersi complici del massacro, che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, della nostra dignità di cittadini, oltre che di quella delle istituzioni di questa Repubblica. Ed è soffocare per sempre la speranza di quel riscatto a partire dal quale soltanto una civiltà nazionale e politica può ricominciare a esistere.
A chi l’esclusiva dei diritti umani?
di Roberta De Monticelli (Saturno, 4 marzo 2011)
Nel momento in cui ci interroghiamo sul senso e sul futuro delle rivoluzioni in Nordafrica, non c’è forse un testo migliore su cui meditare che la grandiosa Antologia mondiale della libertà, già disponibile on line in tre lingue sul sito dell’Unesco, alla cui versione italiana si sta in questi mesi lavorando. Cos’è, come nasce, questa raccolta di testi che coprono l’arco di due millenni, racchiusi in quasi seicento pagine?
È una splendida avventura del pensiero umano, e vale la pena di raccontare come nacque. Immaginate di trovarvi nel giardino della sede storica dell’Unesco, a Parigi. Là c’è un piccolo edificio di meditazione, cilindrico e vuoto. A rendere il senso di quello che prova chi vi sosti qualche istante non ci sono forse parole più adatte di queste: «Tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo... creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro ... tutto il resto era orientato verso questo vuoto». Le scrisse Simone Weil nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione (1937). Teniamole in mente, perché sono quasi certamente all’origine invisibile di questa avventura.
Per l’origine visibile, dobbiamo di nuovo darci appuntamento a Parigi, ma nel 1968. Si festeggia il ventennale della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Jeanne Hersch - professoressa di filosofia a Ginevra, allieva di Jaspers, compagna di studi di Hannah Arendt e per un paio d’anni in carica all’Unesco, dove dirige la sezione di filosofia - decide di impegnare le risorse di quell’organizzazione in un audace esperimento storico ed etnografico. Chiede ai rappresentanti di tutti i Paesi di inviarle testi tratti dalle loro tradizioni, anteriori al 1948, «in cui si manifestasse, secondo loro, in qualunque forma, un senso dei diritti dell’uomo». Dai paesi più lontani, dalle epoche più remote, arrivavano a Parigi pensieri espressi in una babele di lingue, morte e vive: come offerte «con pietà conservate nei veli di parole d’altri tempi e altri luoghi». Così fu impostata una sorta di verifica sul campo della vexata quaestio: è o non è un concetto puramente «occidentale» quello dei «diritti dell’uomo»?
Peccato che molti continuino a ignorare questa preziosa documentazione, costituita dal libro sorprendente e magnifico di Jeanne Hersch, Le droit d’être un homme, la cui edizione francese porta il sottotitolo Anthologie mondiale de la liberté. Fu la base empirica della sua riflessione sul fondamento dei diritti umani, proseguita fino alla morte, nel 2000, ora disponibile anche in italiano a cura di Francesca De Vecchi (I diritti umani da un punto di vista filosofico, Mondadori). E qual è il risultato di questa riflessione, che passa attraverso le culture religiose dei popoli antichi e moderni, ma anche gli autori fondamentali del pensiero occidentale, da Montesquieu, Beccaria e Tocqueville fino a Maritain e Roosevelt? A differenza dei giuspositivisti come Norberto Bobbio, non si accontenta di ritenere la Dichiarazione espressione di un ethos fra gli altri, incapace di giustificazione universale; a differenza dei giusnaturalisti, constata che in natura la legge del più forte ha la meglio. Tuttavia, la prima questione che i diritti umani pongono è quella della loro ragion d’essere, del loro fondamento.
Qui il passaggio attraverso «le offerte» delle culture religiose e arcaiche si rivela non vano: è proprio là - ci dice Hersch, rovesciando tutti i luoghi comuni - che il fondamento si disvela. Questo è, in ogni cultura, l’esigenza degli esseri umani di essere riconosciuti in ciò che hanno di propriamente umano: la libertà, intesa nella sua radice “selvaggia”, assoluta. Essere liberi è essere capaci d’accettare volontariamente la morte, purché sia salvo ciò che è più importante della vita stessa. Come Antigone, o come Socrate. Non c’è libertà fuori da questo impegno assoluto, da questa pericolosa posta in gioco. Ecco perché è vano, spiega Hersch, il tentativo di ridurre il rispetto dei diritti umani al rigetto di ogni impegno verso l’assoluto, a una neutralità ragionevole e pragmatica.
Certo, un impegno verso l’assoluto è sempre pericoloso: attraverso l’integralismo, rischia di ispirare e giustificare le peggiori violazioni dei diritti umani. E allora? Ecco l’intuizione profonda: la possibilità di riconoscere che anche l’altro sta «di fronte all’assoluto» e che nessuno lo possiede è intrinseca a ogni religione in quanto apertura alla trascendenza. Ogni cultura teologica sa chel’idolatria è il più grande dei peccati: non è parlare «di fronte all’assoluto», ma in nome dell’assoluto, come se lo si possedesse. Occorre «conoscere Dio come ignoto». Jeanne Hersch ha scoperto la via che libera potenzialmente ogni cultura teologica dal rischio della teopolitica, e l’apre alla speranza cosmopolitica.
Pari dignità oltre le "grazie" del corpo
l’etica pubblica non è moralismo
di Roberta De Monticelli (la Repubblica, 11 febbraio 2011)
Sono felicemente accorsa all’appello di Libertà e Giustizia, ed ero con le anime belle del Palasharp, "miserabili" azioniste, come qualcuno ha scritto. Mi ero invece dimenticata di firmare l’appello in difesa della dignità delle donne. Rimedio subito. Ma forse c’è una ragione per cui la questione dell’immagine delle donne sembra passare in secondo piano rispetto al resto di quello che sta succedendo.
Non a caso forse anche due scrittrici che mi hanno preceduto nei loro interventi su questo giornale la prendono un po’ larga, con due bellissime immagini, facendo della donna un simbolo, l’una della verità stuprata quotidianamente, l’altra della nostra povera Italia umiliata e offesa.
Non capisco invece un’acca dell’accusa che altre fanno di "moralismo": questa parola mi sembra la parola più usata a sproposito dell’ultimo mezzo secolo. Questa parola che mezza Italia spara con disprezzo sull’altra mezza, su quella più sconcertata di fronte alle peggiori infrazioni all’etica pubblica che si possano immaginare, perpetrate per di più da uomini (e donne) nel pieno abuso delle loro funzioni pubbliche.
Ma veniamo all’immagine delle donne, e alla ragione per cui una quasi perfino se ne dimentica, di fronte a tutto il resto. Come ha scritto un signore che si definisce "liberale" - e certo anche qui la tolleranza nell’abuso delle parole è degna di nota - noi signore, almeno fino a una certa età, stiamo "sedute sulla nostra fortuna". Lui invece no? Ma si rassicuri, che il sesso maschile resta, a quanto ci raccontano certi primi ministri e i loro prosseneti, affascinantissimo ben oltre quell’età.
Al signore liberale però vorrei chiedere anche se incoraggerebbe sua figlia o sua nipote a far partecipare qualche utilizzatore finale di quella bella grazia su cui siede. Perché immagino che sua figlia o sua nipote, esattamente come lui, vorrebbero essere riconosciute portatrici anche di altri valori e quindi di altre fortune che quella, spesso graziosa e sempre utile, parte del corpo. E dunque sentirebbero un po’ offensivo sentirsi monetizzare in relazione esclusiva a quella parte. Esattamente, suppongo, come lui.
Se invece ci fosse alcuno, un bello stallone poniamo, che umilmente e orgogliosamente rivendicasse la sua stallonità come la sua maggior gloria, e/o la sua miglior risorsa economica, benvenuto stallone: questa sarebbe la sua legittima scala di valori, diciamo così il suo ethos; e siccome è il suo, nessun altro può metterci il becco - nell’esatta misura, s’intende, in cui non lede né il codice penale né il rispetto dovuto a qualunque altra persona. Né, ancora più ovviamente, la diversa scala di valori necessariamente legata a una carica o funzione pubblica. (Orrenda lesione sarebbe certo - ipotesi inimmaginabile! - un primo ministro che praticasse ed esaltasse come sua miglior virtù l’arte dello stallone).
Concludendo: una cosa è che uno senta e scelga i valori del sedere, come la cosa di sé migliore e più preziosa; tutt’altra cosa è che glielo imponga un altro, magari solo per via di generalizzazione illiberale, del tipo: non lo vedete, uomini belli, che state seduti sul vostro vero valore?
Ecco, il problema è tutto qui. Questa domanda era una introduzione elementare al concetto di "avere pari dignità e diritti", cioè al principio che sta alla base non solo della giustizia morale personale, ma anche dell’etica pubblica, e di tutta la serie dei diritti, civili politici e sociali, su cui si fonda una democrazia liberale. Ma se perfino i grandi "liberali", in Italia, questo principio non lo hanno ancora capito, val proprio la pena di scendere in piazza un’altra volta, a ribadirlo.
FILOSOFIA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO .... MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?! POCO CORAGGIOSI A SERVIRSI DELLA PROPRIA INTELLIGENZA E A PENSARE BENE "DIO", "IO" E "L’ITALIA", CHI PIU’ CHI MENO, TUTTI VIVONO DENTRO LA PIU’ GRANDE BOLLA SPECULATIVA DELLA STORIA FILOSOFICA E POLITICA ITALIANA, NEL REGNO DI "FORZA ITALIA"!!!
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI. _________________________________________________________________ Cattivi maestri al San Raffaele
di Maurizio Viroli (*) ( il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2010)
Se qualcuno ancora non crede che il potere enorme di Berlusconi stia diffondendo servilismo e corruzione nella vita politica e sociale, non ha che da considerare quanto è avvenuto martedì 20 luglio in una prestigiosa istituzione accademica qual è l’Università Vita-Salute San Raffaele, in occasione della discussione della tesi in Filosofia di Barbara Berlusconi, figlia del presidente del Consiglio. In quella sede, il rettore dell’Università don Luigi Verzé, ha rivolto a Barbara Berlusconi questo invito: “Collabori alla fondazione di una facoltà di economia e ne diventi docente!”.
A queste parole, la professoressa Roberta De Monticelli, chiamata al San Raffaele per chiara fama nel 2003 a insegnare Filosofia della Persona, ha reagito inviando una lettera ai giornali dove ha espresso la sua ferma riprovazione di quella che definisce “una violazione non solo del principio della pari dignità formale degli studenti, non solo della forma e della sostanza di un atto pubblico quale una proclamazione di laurea, non solo della dignità di un corpo docente che il rettore dovrebbe rappresentare, ma anche dei requisiti etici di una istituzione universitaria d’eccellenza quale l’Università San Raffaele giustamente aspira a essere”. “Tengo a dissociarmi nettamente e pubblicamente - ha sottolineato Roberta De Monticelli - da queste parole e dalla logica che le sottende, logica che da una vita combatto, come combatto da sempre il corporativismo e i sistemi clientelari dell’Università italiana, e il progressivo affossamento di tutti i criteri di eccellenza e di merito, oltre che dell’Università stessa come scuola di libertà”.
Docenza ad personam
LA RISPOSTA dell’Università non si è fatta attendere: "Non si deve gridare allo scandalo: qualcuno si meraviglia se alla Cattolica i docenti si sono praticamente tutti formati nelle file di quell’Università? Chi frequenta don Luigi sa che egli considera i nostri discenti i nostri primi docenti e sa anche quanto a lui stia a cuore che il futuro di tutto il San Raffaele sia affidato preferibilmente a chi lo conosce meglio degli altri. Quello di restare, di continuare a studiare, di approfondire gli studi con la ricerca è l’invito che lui fa, da sempre, a ognuno".
E invece lo scandalo c’è e la difesa dell’Università lo mette ancora più in evidenza. Prima di tutto c’è una bella differenza fra rivolgere a tutti i neolaureati l’invito a proseguire gli studi, a dedicarsi seriamente alla ricerca e a distinguersi nella comunità intellettuale internazionale, e rivolgersi ad una particolare neolaureata, figlia di padre multimiliardario e presidente del Consiglio, per invitarla a dare il suo contributo (intellettuale?) alla fondazione di una facoltà di economia e diventarne docente.
Nel primo caso si tratta di una degna e nobile esortazione ai giovani, nel secondo di un invito ad personam (dev’esserci un’epidemia in Italia di iniziative di questo tipo) prefigurando una particolare attenzione volta soprattutto a compiacere il potente padre presente alla cerimonia. Le parole del Rettore sono un esempio mirabile di abilità nel mettere in pratica la regola aurea dell’adulazione che prescrive di lodare le persone che il signore ha care per ottenere benefici. Proprio perché la candidata è figlia di Berlusconi, il Rettore avrebbe dovuto astenersi da qualsiasi commento che mettesse in risalto il suo status particolare rispetto agli altri.
Ma ancora più notevole del gesto servile è stato l’elogio della corruzione che leggiamo nel comunicato dell’Università, dove si afferma che nessuno deve gridare allo scandalo di fronte alla consolidata pratica di chiamare preferibilmente i propri ex studenti a diventare docenti.
Malcostume e baronie
LO SCANDALO invece c’è, ed è serio, e consiste proprio nel costume di non selezionare i candidati ai dottorati di ricerca, ai posti di ricercatore e di professore - quale che sia la loro provenienza - in base ai titoli scientifici, ma in base al famigerato criterio di aver svolto tutto il corso di studi all’interno dell’istituzione. Questo costume ha fatto sì che nel corso degli anni centinaia di candidati scadenti siano stati preferiti ad altri con titoli molto migliori, per il solo fatto di essere‘portati’,così si dice in gergo, dal professore interno. E così le facoltà universitarie si sono riempite di studiosi mediocri (ma abilissimi adulatori) e i migliori sono stati costretti o ad abbandonare la ricerca,o a cercare la propria strada all’estero, in quelle università che non privilegiano “i propri discenti” cari al rettore Verzé e a tanti altri accademici, ma solo ed esclusivamente i titoli.
Suscita indignazione che la difesa della pratica di privilegiare i propri studenti appaia in un comunicato ufficiale volto a sostenere che le parole del Rettore non lasciavano intravvedere trattamenti di favore. Se l’intenzione del rettore voleva essere soltanto un’innocente esortazione a perseguire gli studi, perché citare a difesa la pratica di privilegiare i propri allievi? Ha ragione la professoressa De Monticelli, il cui comportamento è esempio di coraggio e di vera lealtà verso la sua università.
Quanto è avvenuto al San Raffaele documenta, ancora una volta, il malcostume accademico italiano noto sotto il nome di clientelismo: prima i nostri, poi, se ne avanza, gli altri. E se i nostri hanno anche il padre ricco e potente, meglio ancora. Sia chiaro: al favore non si risponde con la discriminazione, ma con la giustizia. Barbara Berlusconi ha il diritto di laurearsi e di percorrere, se questa è la sua vocazione, tutta la carriera accademica. Ma si chieda anche a lei di distinguersi per meriti propri, e lei dovrebbe essere la prima a pretendere di non aver alcun trattamento privilegiato, in modo che, se avrà riconoscimenti, potrà esserne in cuor suo, fiera e presentarsi davanti alla comunità scientifica e alle persone libere, sempre a testa alta. Il favore, non dimentichiamolo, esalta (si fa per dire) chi lo concede, ma umilia chi lo riceve.
(*) Docente di Teoria politica alla Princeton University
CdV, 15:36
PAPA: MONS. BETORI, SI VUOLE STACCARE LA GENTE DAI PASTORI
’Non bisogna cedere alla strategia di chi vuole staccare il popolo dai pastori, perche’ il tentativo e’ chiaramente questo’. Lo afferma l’arcivescovo Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze in merito alle accuse del NYT al Papa. Il movente di questo attacco, per Betori, e’ altrettanto chiaro: ’quello che da’ fastidio - spiega - e’ che la Chiesa sia un soggetto, come agenzia educativa, riconosciuto dalla gente per la sua autorevolezza. Questo da’ fastidio a chi vorrebbe invece spadroneggiare in queste nostre societa’ occidentali, senza alcuna remora e alcun riferimento etico’. Quanto alle vicende nelle quali si tenta di coinvolgere la figura del Pontefice, per Betori, si tratta di speculazioni .
* la Repubblica, 26 marzo 2010.
La legge di Dio e quella dell’uomo
di Roberta De Monticelli (la Repubblica, 25 gennaio 2009)
Caro Direttore,
"Nessuna legge umana può andare contro le coscienze costringendoci a commettere atti che sono in grave contrasto con i nostri convincimenti più profondi" Così il Cardinal Poletto in una recente intervista su "Repubblica". Questo è un principio importantissimo, ed è la ragione per la quale, di fronte a questo terribile rischio, la nostra età adulta ci ha resi consapevoli della necessità di distinguere fra religione, morale e diritto. Questa distinzione è uno degli strumenti che abbiamo trovato per evitare che le coscienze possano cadere soggette all’arbitrio del potere, quando è (diabolicamente) legittimato dal nome di Dio, che non è mai quello di Cesare se dobbiamo credere al vangelo.
Le distinzioni però vanno prese sul serio. Allora fermiamoci sulla prima: quella fra diritto e morale. In questione è la necessità di una legge sul testamento biologico, improrogabile necessità che il caso Englaro ha così dolorosamente messo in luce, dando un senso profondo e luminoso alla tenacia di questo nostro concittadino. Perché dove mai sarebbe il sia pur minimo dubbio sul da farsi dopo tanti anni, se la volontà di Eluana fosse scritta a chiare lettere. Ma allora bisogna dirlo, che una legge dello Stato in queste discipline permette e non obbliga, dunque certo non si sostituisce all’ultimo giudizio della coscienza morale individuale, ma ha al contrario il preciso scopo di non sostituirvisi.
Questo è il fondamento della distinzione fra diritto e morale: non certo il relativismo della morale, ma la circostanza che l’ultima parola della coscienza personale non può essere scritta in forma di legge di uno Stato, in tutti i casi in cui non c’è consenso universale sull’illiceità morale di determinati comportamenti. Dove questo consenso non c’è, o non c’è ancora, legittima può essere ogni battaglia - nichilistica invece la negazione della verità. Ogni legge che tutela una libertà civile, per definizione, non "costringe" nessuno a fruire del diritto che accorda: e nichilistico è negare questa verità, come sembra fare purtroppo il cardinal Poletto e come fece la gerarchia della chiesa al completo quando fu lanciata la campagna "non si vota sulla vita", giocando purtroppo sull’ignoranza popolare della distinzione fra permettere e costringere. Infine, per i casi in cui una legge che tuteli una libertà civile possa, nella sua applicazione, confliggere con la coscienza morale di qualcuno, c’è indubbiamente la possibilità dell’obiezione di coscienza. Cosa ben diversa (e non è nichilistico negare anche questa distinzione?) dall’ingiunzione dell’autorità politica che minaccia sanzioni economiche a chi sia disposto ad applicare un una legge.
Ma poiché le distinzioni vanno prese sul serio, il ragionamento non è ancora finito. C’è anche la seconda distinzione, quella fra religione e morale. Supponiamo che una persona si trovi in una situazione analoga a quella in cui si trovò Piergiorgio Welby. E che, a differenza di lui, compia una scelta di completo e fiducioso abbandono, una scelta che addirittura prescinde dalla difesa della propria dignità e dall’eticamente sacrosanto desiderio di morire in pace.
Questa può ben essere la scelta sublime di un uomo di fede, può ben essere una scelta d’amore. Ma ci sarebbe cosa più abominevole dell’ipotesi che questo amore sia imposto (e per via di legge) da un uomo a un altro uomo? Qualcosa di più religiosamente nichilistico che trasformare una grazia in un dovere? Non è appunto l’abissalità di questi consensi, di questi affidamenti supremi, come è ogni atto di fede (il sacrificio di Abramo, per esempio, o quello di Cristo!), a esigere la più gelosa, la più imprescrittibile, la più silenziosa ultima libertà che una coscienza ha di consentirvi o no? Le distinzioni vanno prese sul serio, perché dove non c’è logica non ci può essere verità, e dove non c’è più verità non c’è più né morale, né diritto, né religione. Ma solo nichilismo. Non "pietoso", però, come quello che Dostoevskij attribuiva al Grande Inquisitore. Impietoso piuttosto, e soprattutto - se verità è un nome di Dio - empio.
Gent.ma Professoressa
De Monticelli,
condivido la sua Lettera di rottura con questa Chiesa cattolica di oggi, incarnata dai Bagnasco e dai Betori, tutti allineati dietro a Sua Santità Ratzinger.
E’ da anni che scrivo e grido le stesse cose.... anni... in un deserto teologico umano ed ecclesiale che fa’ spavento!
Condivido in pieno la sua sofferta denuncia, che è in atto una specie di NICHILISMO religioso che annichilisce anche la società... non solo i credenti.
Ma Lei si renderà conto che una Casta clericale ormai aggrappata ad una sua idea di potere sulle coscienze, che vuol decidere tutto e con la quale, glie lo dice un povero Vescovo, fuori dal coro, non c’è possibilità alcuna di dialogo, poichè mentre si definiscono "assoluti", cercano di definire anche il pensiero dissenziente giudicandolo e demonizzandolo come "relativismo nichilista" , ecc.
Non solo si definiscono l’unica verità sull’uomo (antropologica) ma pretendono di determinare (allo stesso modo di come fa’ Berlusconi con la minoranza che sta all’opposizione) anche la plausibilità e dignità di tutti coloro che osano dissentire.
Tutto questo io lo chiamo il "pensiero unico" (come direbbe Herbert Marcuse nel suo libro "L’ uomo a una dimensione") tipico delle società di massa e mass-mediatiche, a cui la stessa Chiesa cattolica (colosso dai piedi di argilla) , antiteticamente al "piccolo gregge" che Gesù prediligeva, non è sfuggita, ma si è assoggettata con le sue logiche mondane e pagane di adesione trionfalistica ad un credo che non è più l’evangelo ma la forza del numero in cui l’individuo (persona) con la sua coscienza viene umilato e scompare.
Mi piacerebbe conoscerLa e poter parlare più a lungo...
con stima
+ Joannes Climacos MAPELLI
Vescovo della Chiesa Cristiana Antica Cattolica e Apostolica
non romana (originaria di Antiochia)
P.S. Se desidera leggere un po’ di interventi miei su vari temi etico-teologici, e del CENTRO STUDI TEOLOGICI di MILANO da me diretto, li trova cliccando su GOOGLE e inserendo il mio nome o quello del Centro stesso.
L’amore addomesticato
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 04.10.2008)
"Crescete e moltiplicatevi": l’invito divino a Adamo ed Eva (Genesi 1,28) è forse il passo della Bibbia ebraica di più lungo corso nelle omelie ecclesiastiche, almeno a partire da quando l’ingresso del matrimonio nella sfera dei sacramenti ha segnalato la volontà del clero di addomesticare l’eros. Oggi l’invito di papa Benedetto XVI ne ripropone la versione antica, di richiamo al dovere di produrre figli senza ricorrere a metodi contraccettivi "innaturali". Ritorna il volto severo e obbligante in coscienza del matrimonio cristiano come rimedio alla lussuria, strumento per spegnere il fuoco dei sensi ("meglio sposarsi che bruciare", un avvertimento paolino che forse il clero dovrebbe meditare di più.
Volto antico: chi sfoglia i testi canonici in materia di matrimonio troverà testi di secoli e secoli fa dove la Chiesa si descrive nata dal costato di Cristo come Eva da quello di Adamo. Ma si dovrà arrivare al decreto approvato dal Concilio Vaticano II il 7 dicembre 1965 per trovare una definizione del matrimonio, dei legami tra marito e moglie e del rapporto coi figli incentrato su di una parola fino ad allora assente: l’amore, non quello spirituale, non quello divino - quello umano.Parole innovative: era l’uscita del linguaggio ufficiale cattolico dalla tradizione medievale dell’alleanza tra un clero celibatario e l’interesse maschile a disporre di una schiava a basso prezzo, per di più portatrice di dote.
Con quel matrimonio l’amore, quello profano, non aveva nessun rapporto. Le novelle del Rinascimento ne sono testimoni, come raccontò in un vecchio bel libro Lucien Febvre, un grande storico francese non sospetto di anticlericalismo. Del dovere imposto da quella cultura alla donna - dovere di essere sempre e comunque soggetta al marito e obbligata a concepire e partorire, naturalmente nel dolore - approfittarono poteri d’ogni genere pronti ad allearsi con l’egemonia culturale del clero.
Fare figli, possibilmente maschi, servì di volta in volta a tante cose. In primo luogo a far crescere la consistenza e la speranza di durata della famiglia e a trasmetterne il nome - quello maschile, cosa che oggi solo in Italia si ritiene ancora ovvia; ma poi anche a moltiplicare la popolazione come forza lavoro per i campi e le officine, come nerbo della potenza statale e carne da cannone. "La grande proletaria si è mossa", disse Giovanni Pascoli ai tempi di una guerra di Libia di cui paghiamo ancora i costi. La prole che si muoveva era nata da matrimoni obbligati a far molti figli. Ed è singolare che oggi si cerchi di pagare i costi di quella sciagurata avventura con un simbolo indiscutibile dell’amore umano, la Venere di Cirene graziosamente quanto arbitrariamente sottratta da Berlusconi al patrimonio artistico italiano per regalarla a Gheddafi (realizzando così una delle più cupe profezie di Federico Zeri).
Lungo i secoli, l’amore umano era rimasto assente dai documenti canonici e ancor più da quella scienza teologica chiamata a distinguere il lecito e l’illecito degli accoppiamenti umani una scienza che si insegnava ai preti nei seminari perché potessero poi interrogare con adeguata competenza in confessione mariti e soprattutto mogli sulle loro pratiche sessuali.
Ben diverso dal voyerismo mediato dallo schermo televisivo, la confessione ha consentito per secoli di vedere e ancor più di dirigere gli attori nei gesti e nelle tecniche del momento della riproduzione. Su questo sfondo l’apparizione della parola "amore" in un documento ufficiale cattolico sul matrimonio dette l’impressione di una svolta, di una volontà di riprendere contatto con la vita e coi sentimenti reali di donne e uomini, considerati non più solo come "fedeli", cioè passivamente obbedienti.
Oggi si riapre la questione della contraccezione. Il rapporto coniugale cessa di essere visto come il disegno complessivo di una storia di rapporti umani per tornare a frammentarsi nella meccanica della riproduzione, analizzata nelle sue sequenze da uno sguardo estraniato e sospettoso. Verrà ascoltato questo appello? Il Papa lo ha formulato cercando di conciliarlo col linguaggio del testo conciliare ma tornando sul terreno delle istruzioni tecniche. Lo ha fatto richiamando in vigore quel dispositivo della "Humanae vitae" con cui Paolo VI cercò di mettere il vino nuovo dell’amore umano negli otri antichi di una teologia morale impegnata a sorvegliare gli accoppiamenti, a insinuare tra moglie e marito la presenza del prete.
È un segno dei tempi che nello stesso momento giunga tra le mani dei lettori la riflessione del cardinal Martini su questo punto: nientedimeno che una domanda di perdono per la "Humanae vitae". Ripercorrendo il pontificato di Paolo VI il cardinale milanese ha scritto parole dense e pesanti sulla frattura che si è creata con quella enciclica oggi riattualizzata dal papa. La gioventù ha detto Martini ha cessato di chiedere alla Chiesa della "Humanae vitae" istruzioni per l’uso. È avvenuta una frattura di cui il Papa è stato invitato a tenere conto. Riconosciamo in queste parole l’esistenza di un mondo cattolico che non ha dimenticato quel documento conciliare e che non ha cessato di interrogarsi sulla realtà dei tempi e dei sentimenti.
Nella società descritta dal cardinale milanese il messaggio di Benedetto XVI rischia fortemente di cadere nel vuoto, come lui stesso ha mostrato di rendersi conto. Il documento papale è dunque con ogni evidenza una risposta all’appello del cardinal Martini.
Una risposta eloquente che documenta in quale direzione il pontificato attuale intende muoversi. Del resto, anche prescindendo dalla lettura di quella pagina del cardinal Martini, al pontefice romano non poteva essere sfuggito un dato di fatto che è sotto gli occhi di tutti: è proprio l’amore umano la molla che ha contribuito a rendere oceanici i raduni giovanili nei grandi eventi pubblici così amati in Vaticano. Un amore con largo uso di contraccettivi "non naturali": lo testimoniano le descrizioni di quel che si trova sui prati quando la festa finisce.
E allora, perché tornare su quell’antico deposito di istruzioni tecniche? La domanda si aggiunge alle tante a cui oggi cercano di rispondere i vaticanisti, una specializzazione del sapere giornalistico che si coltiva soprattutto in Italia.
Una cosa è certa: la questione della contraccezione sembra toccare ben poco l’opinione pubblica italiana. Il problema della contraccezione e più in generale dell’educazione sessuale è drammatico non da noi ma nei paesi di quegli altri mondi che compongono la geografia della fame e della sete. In Italia il passaggio dalla crescita demografia record del "crescete e moltiplicatevi" alla denatalità anch’essa da record è avvenuto con una rottura improvvisa e radicale, da parte di un popolo che si riteneva complessivamente cattolico ma non prestava molta attenzione agli avvertimenti ecclesiastici.
E tuttavia è facile prevedere che avremo altre occasioni di tornare sull’argomento. Questo appello fa parte di un’offensiva in atto sui diritti e le possibilità di scelta di tutti noi, credenti e non credenti. Diritti relativi ai momenti cruciali dell’esistenza: la nascita, la morte. Il matrimonio non poteva mancare: ma è come la tessera di un puzzle che viene collocata al suo posto. Senza particolare convinzione. Non è la più importante.
LETTERA ALL’AMICA E COLLEGA ROBERTA DE MONTICELLI
In nome di quel Dio che ci abita la persona non è legge a se stessa
di PAOLA RICCI SINDONI (Avvenire, 05.10.2008)
Nei giorni scorsi, la filosofa Roberta De Monticelli ha fortemente polemizzato con la posizione espressa dal segretario generale della Cei, Giuseppe Betori, in merito all’auspicata legge sulla «fine vita», al punto da «dire addio a qualunque collaborazione che abbia relazione alla Chiesa cattolica». Una prima risposta di monsignor Betori è già stata ospitata su queste colonne.
Cara Roberta, prima di dire addio a quanti come me condividono il tuo lavoro, la filosofia, e la tua amicizia, pur appartenendo, come me, alla Chiesa cattolica, permettimi di esprimere qualche pensiero sotto forma di lettera - un genere che a te, come a me, piace molto - in risposta al tuo duro, sofferto quanto ingeneroso attacco ad alcuni rappresentanti della gerarchia ecclesiastica. Non è tanto per difenderli, quanto per dirti che come credente di questa istituzione religiosa che amo e in cui in profondità mi riconosco, non posso che condividere con te il valore supremo della coscienza, che è «il nucleo più segreto, e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio la cui voce risuona nell’intimità propria», come recita il punto 1776 del Catechismo della Chiesa cattolica (che qui recupera le intuizioni luminose di Agostino, un pensatore che tu conosci bene). Edith Stein, altra filosofa che tutte e due abbiamo studiato e che tu citi nel tuo articolo, è andata più a fondo, affermando che Dio stesso si ferma alla soglia della coscienza e dimora in essa solo se lo si fa entrare. Quando lo si fa entrare, però, non si può ignorarne la presenza, cosicché lo spazio della coscienza credente sa di doversi misurare con questo Ospite, con cui non negozia certo il bene della propria libertà, ma la orienta, accrescendola nella consapevolezza di essere donata a se stessa.
Anche per una cattolica credente la coscienza, che tu con tanta passione difendi, è quell’intimità inviolabile, oltre che luogo delle scelte personali, della libertà praticata, ma questo perché è lo spazio condiviso con l’Altro e con gli altri, non certo il punto in cui individualisticamente muoversi dentro il mondo, secondo un ordine morale autogestito, che il diritto, come tu dici, ha il compito di delimitare e di proteggere. E la Chiesa?
Perché ti ostini a vederla come un esclusivo appannaggio di un gruppo di gretti illiberali, pronti a dominare l’opinione pubblica con le loro infamanti (la parola è tua) condanne? La Chiesa non è dei preti - abbandona, per favore, questo anticlericalismo stantio -; anch’io sono Chiesa, come lo sono i tanti credenti che non hanno dismesso la loro capacità di pensare dentro questa istituzione ricca di tante e diverse anime, unite però nella convinzione che questa Chiesa ha un solo Capo, che continua ad accompagnare il suo cammino storico. I prelati che tu citi nell’articolo non possono che fare quello che fanno: custodire il patrimonio spirituale e morale della tradizione ecclesiale, in cui la fedeltà e l’amore alla Chiesa si traducono anche in orientamenti pastorali, in indicazioni etiche sui difficili nodi morali che in questo momento attraversano il nostro Paese.
Detto questo, ascoltami Roberta, come io ho ascoltato te. Le drammatiche questioni legate alla fine della vita non possono trovarci su fronti opposti, segnati da chiusure irriducibili (non accetto il tuo ’addio’...): citare alcune dichiarazioni apparse sulla stampa secondo cui «la decisione non deve spettare alla persona», cui segue, secondo te, il misconoscimento del principio di autodeterminazione significa che, secondo l’orientamento della Chiesa - sia che parli Betori o un altro credente - la persona non è legge a se stessa. La persona cioè, non è libera di disporre di sé e degli altri, ma è libera di prendersi cura di sé e degli altri, in nome di quel Dio che abita dentro la coscienza, così che essa non è lo spazio autoreferenziale, ma il luogo di mantenimento del bene che ogni vita custodisce.
Non mi pare, cara Roberta, che questo sia nichilismo... Affido questi pensieri al tuo cuore attento, certa di ritrovarti ancora.