In principio era la carne
Esce in Italia il libro del filosofo Fabrice Hadjadj che rivaluta la teologia del corpo e della sessualità secondo il pensiero cattolico
di FABRICE HADJADJ (Avvenire, 09.09.2009)
È stato spesso detto che la Chiesa cattolica riuniva nel suo grembo Atene e Gerusalemme. In questo grembo, dunque, come in quello di Rebecca, i due gemelli si confrontano? La rivelazione ebraica porta in sé la gloria della carne. Il pensiero greco, dapprima, non può contrapporle altro che una forte resistenza. Per gli epicurei, il corpo è piuttosto luogo di piacere, ma la morte lo decompone irrimediabilmente.
Per i platonizzanti, il corpo è piuttosto tomba, ma il trapasso opera la liberazione dell’anima. Che imbarazzo per gli apostoli, se fossero stati filosofi, dover proclamare quella Buona Novella così tesa che non può accomodarsi a nessuna delle due opposte posizioni. Essi devono annunciare lo Spirito che libera e, al contempo, predicare il Verbo fatto carne - peggio: il Messia crocifisso, che resuscita dopo tre giorni senza che le sue piaghe scompaiano. Al cospetto di una simile dottrina, il materialista edonista e lo spiritualista etereo, solitamente avversari tra loro, si spalleggiano immediatamente facendosene beffe entrambi.
Quando l’ebreo Paolo parla davanti all’Areopago, tutti lo ascoltano fintanto ch’egli non testimonia della resurrezione: «Quando sentirono parlare di resurrezione dei morti, alcuni lo canzonarono, altri dicevano: ’Su questo argomento ti sentiremo ancora un’altra volta’» ( At 17, 32). Resistono costoro al discorso di Paolo? Non rimangono piuttosto intrappolati nelle loro reciproche contrapposizioni? La predicazione dell’apostolo presenta, per gli uni, l’esaltazione del corpo e, per gli altri, l’esigenza dello spirito. Essa avrebbe potuto riconciliarli. Ma, per coloro che rimangono presi nei riflessi di una vecchia polemica, l’annuncio di una concordia superiore risulta incomprensibile.
Il mistero dell’Incarnazione entra certamente in risonanza con le profondità del nostro cuore. Dapprima, però, esso appare assurdo alla nostra ragione. Gli spiritualisti lo trovano troppo materiale, i materialisti troppo spirituale, e ognuno attribuisce a esso l’errore del proprio nemico congenito. La Chiesa, tuttavia, conserva l’estrema tensione della formula giovannea: «E il Verbo si è fatto carne» ( Gv 1, 14).
Perché «carne», e non «uomo»? Si può osservare che «carne» designa attraverso una sineddoche l’uomo nel suo complesso, corpo e anima, e comunque è il termine Incarnatio che ha prevalso, e non Inhumanatio, che l’oggi dimenticato Facondo d’Ermiane cercò di introdurre nella teologia latina.
Scelta tanto più difficile in quanto la parola «carne» ha altre accezioni che danno una strana connotazione alla formula. È la stessa parola usata quando si parla degli sposi che fanno «una sola carne» (Mc 10,8); è la stessa usata da Paolo quando nomina ciò che si ribella contro Dio: «La carne infatti ha desiderio contro lo Spirito» (Ga 5, 17). Contro gli spiritualisti, sant’Agostino sottolinea che quest’ultima accezione è equivoca.
Quando Paolo utilizza «carne» per designare ciò che ci spinge al male, bisogna intendere «orgoglio», «l’uomo è divenuto simile al diavolo, non per il fatto che ha la carne, che il diavolo non ha, ma poiché vive secondo se stesso, cioè secondo l’uomo» (De civ. Dei, XIV 3, 2).
Il Nuovo Testamento comunque, invece di usare termini diversi, ne utilizza uno solo, a rischio di gettare i lettori nello sconcerto e dar adito a una erronea interpretazione che avvicina il cristianesimo al disprezzo del corpo. Il testo è dunque scritto male? Non sarebbe stato meglio distinguere con tre parole diverse la carne che il Verbo assume, la carne che l’uomo e la donna formano nell’amplesso e quella carne che è unicamente inclinazione all’ignominia? Non si sarebbero evitate così sgradevoli confusioni? Certamente. Ma la Sacra Scrittura sarebbe stata allora soltanto un’opera speculativa, invece di essere, in primo luogo, un luogo di prova. I suoi diversi usi della parola «carne» dipendono più da un’interrogazione decisiva che da un’approssimazione linguistica: il Verbo fatto carne è altresì l’Eterno che, sposando l’umanità, costituisce una sola carne, ed è anche il santo che assume la nostra carne di concupiscenza, abbassandosi alla condizione del malfattore... Equazione così sconvolgente che esige da parte del lettore un atto di fede più che un’interpretazione teorica.
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L’Incarnazione del pensatore convertito
Come ha detto di lui Alain Finkielkraut, Fabrice Hadjadj porta un nome arabo, è ebreo di nascita e cattolico per scelta. Molto stimato anche dal filosofo Remi Brague, Hadjadj, a soli 38 anni ha già pubblicato in Francia vari volumi di riflessione filosofica e opere teatrali. «Mistica della carne. La profondità dei sessi», che esce in questi giorni in libreria per Medusa (pagine 200, euro 17,50) è il primo libro fra quelli che Hadjadj ha scritto che viene tradotto in Italia. Anticipiamo in questa pagina alcuni brani sul mistero dell’Incarnazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IDENTIFICARSI CON CRISTO PER SUPERARE EDIPO di Sigmund Freud (1931).
L’EMERGENZA DELLA VITA E DELLA VERITA’. A MICHEL HENRY (1922-2002), IN MEMORIA.
Filosofia. Eros e agape declinati in ebraico
Catherine Chalier spiega l’amore secondo la tradizione rabbinica dialogando, sulle orme di Lévinas, con l’intera storia del pensiero cristiano. Scalzando non pochi stereotipi
di Massimo Giuliani (Avvenire, giovedì 27 maggio 2021)
In principio era l’equivoco, forse generato dall’arcieretico Marcione già nel II secolo dell’era cristiana. L’equivoco cioè che il Dio della Bibbia ebraica fosse solo un demiurgo responsabile del male nel mondo, ossessionato dalla giustizia in forma di castigo, e che invece il Dio “più alto”, quello del Nuovo Testamento, fosse tutto amore e perdono, e che tra i due non potesse che esserci inimicizia e conflitto. Larga parte del difficile rapporto tra ebrei e cristiani dipenderebbe da questa supposta contrapposizione, tanto facile da formulare quanto falsa da dimostrare. Falsa, ovviamente, già a partire dai testi dell’Antico Testamento dove il Creatore ha, simultaneamente, i tratti più severi del padre (o del re) e i modi affettuosi e dolci della madre, e dove la metafora più usata per i rapporti tra Dio e il suo popolo resta quella degli sposi, addirittura degli amanti, come nel potente poema del Cantico dei cantici. Nondimeno lo stereotipo è persistito e sopravvissuto in non poca retorica religiosa, e di riflesso persino in molti intellettuali laici.
Con questa premessa a mente, la filosofa Catherine Chalier, la più nota tra gli interpreti ebrei di Emmanuel Lévinas, ha tenuto una serie di lezioni all’Institute Catholique di Parigi, per la cattedra dedicata a Étienne Gilson, nel tentativo di spiegare quanto l’amore, in tutte le sue dimensioni, sia presente come comandamento e come valore negli scritti sacri dell’ebraismo: dalla Torà ai profeti, dal Talmud ai filosofi ebrei medievali, fino ai grandi maestri del chassidismo, parola questa che viene appunto da chesed, che in ebraico significa amore e pietà. Queste lezioni sono ora raccolte in un volume dal titolo L’amore nell’ebraismo. Filosofia e spiritualità ebraiche (Giuntina, pagine 300, euro 18,00), un libro che evita i pericoli speculari dell’apologia e della supponenza, e riesce piuttosto a dialogare, da un punto di vista ebraico, con l’intera storia del pensiero cristiano.
Ma come spiegare, in modo semplice e convinvente, che la controversia tra Legge e amore è falsa e tendenziosa? Che ogni precetto ebraico è sempre animato dall’amore per Dio e per ogni altra creatura vivente? Che non vi è dicotomia tra istanze di vera giustizia e disposizione al perdono autentico, ma solo un’esigente co-implicazione? E come narrare la bellezza dell’integrazione tra eros e agape, che nei testi biblici continuamente si intrecciano, si contemperano e si esaltano a vicenda, senza nessuna forma di sessuofobia o di dualismo manicheo?
Forte del linguaggio paradossale e a tratti iperbolico del suo mentore Lévinas, Catherine Chalier affronta uno stereotipo dopo l’altro e immerge il lettore e la lettrice di queste pagine nell’oceano della riflessione rabbinica sul tema dell’amore di Dio (dove il genitivo è sia soggettivo sia oggettivo) e del dovere di amare il prossimo e lo straniero come chiunque appaia vulnerabile nella scala sociale e persino nell’orizzonte dell’intera creazione.
Chi si sobbarchi la fatica di questa lettura, o meglio di questo studio delle fonti, resterà sorpreso dal gran numero di domande con cui la studiosa procede, come se la grazia divina e l’amore umano restassero, sostanzialmente, non solo un dono che coglie che ne è oggetto sempre impreparato e persino inadeguato a rispondere, ma soprattutto un mistero, un enigma, da interrogare e su cui gli interrogativi sovrastano le possibili risposte.
Non mancano poi, qua e là, anche domande provocatorie, come quella circa la cecità cristiana che per secoli non è riuscita a percepire come «la perseveranza ebraica nella fede dei padri e nell’osservanza dei precetti» - chiamata con spregio ostinazione - altro non era che amore, un amore radicale per Dio e la sua Torà o, come scrisse audacemente proprio Lévinas, «un amare la Torà più di Dio stesso».
Quest’incomprensione «ha tragicamente reso fragile, agli occhi degli ebrei, l’amore cristiano» dice Chalier, che subito estende l’interrogativo anche al modo con cui accostiamo e giudichiamo le esperienze religiose di altri popoli, le culture e le religioni diverse dalla nostra. Il pensiero corre a William James e al suo pionieristico testo, qui non citato, sulla “varietà dell’esperienza religiosa”. Altro stereotipo frequente è quello che contrappone l’amore al timore di Dio, come se non si trattasse di due aspetti correlati e come se questo tratto tipico della spiritualità biblica andasse all’improvviso assorbito e dissolto nel comando evangelico del “non temere”. Con pazienza Chalier mostra che nella tradizione biblico-rabbinica aver timore non è sinonimo di aver paura o di provare terrore (tale aspetto della Bibbia sembra spesso taciuto dai teologi cristiani); piuttosto il timore è sempre associato alla coscienza della incommensurabilità del divino ed esprime la conseguente consapevolezza dei nostri limiti cognitivi e affettivi, dei nostri errori concettuali, della nostra fragilità morale. Buttar via il timore di Dio, in quest’accezione, preclude non tanto la comprensione della ricca antropologia dei testi sacri quanto i nostri tentativi di “conoscere Dio”. E chi più di Maimonide ha posto tale conoscenza al centro della propria spiritualità, oltre che della filosofia del mondo ebraico?
La teologia negativa del maggior pensatore ebreo del Medioevo era infatti tesa a purificare la nostra immaginazione da antropomorfismi fuorvianti, ricordandoci con rigore che persino l’espressione “Dio è buono” proietta su Dio la nostra esperienza di bontà. Ciò non impedisce di sapere che “Dio ama il mondo”, ma libera l’amore divino dalla nostra pretesa di fissarlo in categorie umane.
Per Maimonide la Bibbia insegna che «la conoscenza e l’amore sono inscindibili, almeno la conoscenza vera, quella liberata dalle scorie dell’ignoranza e dai pregiudizi su Dio». Poco sapere equivale a poco amore, ecco il tratto comune a tutta la spiritualità ebraica, afferma Chalier a più riprese, perché non si può amare (non solo umanamente parlando) che quel che si conosce. Da qui l’imperativo ebraico di studiare. “Va e studia” è l’ammonimento con cui Hillel l’anziano, nel Talmud, accompagna la regola aurea, il precetto del non far male al prossimo. Infatti, come si può amare il Creatore, dice l’intera tradizione rabbinica successiva, se non si riconosce, per negligenza nello studio, il valore della sua straordinaria creazione?
Ma le pagine più affascinanti sono quelle che illuminano il bisogno di temperare l’amore stesso con il senso della giustizia, senza il quale l’amore rischia di diventare “patetico” (nel senso levinasiano del termine), incentrato sul nostro pathos più che sul volto altrui, ruotando sulla nostra capacità di empatia che resta però circoscritta alla relazione immediata e perde di vista quel “terzo” che l’amore non vede, che resta fuori dalla prospettiva affettiva.
La tzedaqà è la giustizia che estende l’amore anche fuori dall’orizzonte degli amanti, e stimola l’amore ad aprirsi, a non diventare patetico o addirittura patologico. Chesed e din ossia amore a giustizia - come eros e agape - sono ebraicamente inseparabili, anzi si esigono e si rafforzano a vicenda, impedendo che il particolare soffochi l’universale o il sentimento faccia torto alla ragione.
Ora, questo amore giusto e questa giustizia ricca di pietas possono spingersi fino al sacrificio di sé? Nell’ultimo capitolo la filosofa ebrea francese affronta anche questa domanda, mostrando come la tradizione rabbinica la conosca bene ma non abbia fretta a dare risposte. Del resto, il versetto del Cantico recita: «Forte come la morte è amore». Se sia più forte (o meno), non sempre dipende da scelta umana.
"GRATIA PLENA": LA CARNE DEL DESIDERIO - SARTRE, E IL TEMA CRISTIANO (NON CATTOLICO-ROMANO) DELLA CARNE. Cultura. Sessualità, etica, psicoanalisi ...
La carne del desiderio
di Paolo Godani (Le parole e le cose, 22 giugno 2017)
La filosofia francese del Novecento ha ripreso in vario modo il tema cristiano della carne. Talvolta, come in Michel Henry, ci si è limitati a rivendicare la carnalità come arma da opporre ad una presunta smaterializzazione del corpo avvenuta in età moderna e post-moderna. In altri casi, per esempio quando Merleau-Ponty, nel Visibile e l’invisibile, fa della nozione di chair un concetto fondamentale della sua ultima fenomenologia, della carne è rimasta poco più che la metafora: la “carne delle cose” è solo un sinonimo di “essere grezzo”, di un essere che si dà solo in una pienezza opaca, prima della separazione di un soggetto che percepisce e di un oggetto percepito, in un’esperienza al contempo originaria e impura. Oppure, ancora, si denuncia, come accade a Deleuze, il “carnismo” cristiano a cui sembra approdata certa estetica fenomenologica francese, opponendo provocatoriamente, a una chair pia e devota, l’immagine pietosa della carne macellata (viande, meat) che popola le opere di Francis Bacon.
In mancanza delle Confessioni della carne, ultimo volume programmato della Storia della sessualità che Foucault non è riuscito a portare a compimento, si può dire che l’unico autore del XX secolo capace di fare un utilizzo al contempo letterale e nuovo della nozione di carne sia stato probabilmente Jean-Paul Sartre, quando nell’Essere e il nulla descrive l’incarnazione di sé e dell’altro che si realizza grazie al desiderio sessuale.
In pagine profondamente ispirate, Sartre spiega che nel momento in cui desideriamo un corpo si produce una trasformazione radicale nei modi in cui normalmente ci rapportiamo all’altro: non vogliamo fare uso del corpo altrui per giungere al nostro godimento, né limitarci a possederlo, riducendolo semplicemente a un oggetto in sé, ma entriamo nel campo di una relazione assoluta, nella quale il nostro corpo e il corpo dell’altro si mutano simultaneamente in corpi di carne.
L’estasi del puro desiderio sessuale, che sarà presto sopraffatta dal bisogno di entrare nel corpo altrui facendo uso di forze e movimenti che riportano inesorabilmente la relazione nel contesto di un rapporto tra mezzi e fini, sospende per un tempo indeterminato l’esercizio volontario delle facoltà e consente così l’accesso a una sorta di sentire puro. Le nostre capacità senso-motorie naturalmente restano intatte, ma la loro funzionalità è ridotta all’unico fine del sentire. Perché ciò accada è però necessario che il corpo dell’altro si sia a sua volta immerso in quello stato nascente, simile al sonno, nel quale tutto viene sentito, mentre nulla sta accadendo. Perché io riduca il mio corpo al suo sentire, è necessario che la relazione assoluta abbia portato anche l’altro a uscire da sé, per fare del suo stesso corpo un essere meramente senziente. È questa estasi relazionale che Sartre chiama incarnazione.
Posso guardare, conoscere e amare una donna in molti modi; posso osservarla per qualche sua stranezza più o meno attraente o perché è una vera bellezza, posso ammirarla per il modo di vestire o per un certo modo trattenuto di parlare, per un gesticolare nervoso o per l’intelligenza delle sue considerazioni, posso amare la sua tenerezza o la sua indecisione, i tratti del suo volto o le situazioni nelle quali perde la testa, ma nel momento in cui la sto desiderando la desidero in quanto corpo di carne.
Una carezza (termine che non deriva da caro, carne, ma da carus, che a sua volta si riferisce alla radice sanscrita ka, da cui kama, amore, e kamana, desiderabile) o uno sguardo che siano già situati in questo campo del desiderio sono uno sguardo o una carezza che si rivolgono alla carne dell’altro, e lo sono in quanto effetti del mio stesso corpo carnale.
Non si tratta solo del corpo nudo, della sua epidermide o della morbida consistenza della pelle: la carne non è un dato, non è già là, sotto i vestiti che sarebbe sufficiente sfilare.
È possibile non solo guardare o accarezzare, ma anche denudare l’altro e denudarsi, senza che questo abbia nulla a che vedere con il desiderio e senza che dunque produca in alcun modo un essere di carne. Ma quando una carezza inaugura l’accesso al mondo parallelo del desiderio, quando si sfiora con uno lo sguardo il volto o con una mano il fianco della donna desiderata o si lascia che le labbra facciano sentire la propria fantasmatica presenza prima di scivolare per un momento, quasi impercettibili, sulla superficie del collo, allora l’atmosfera che circonda i corpi muta improvvisamente, rendendo perfettamente irreali tutti i movimenti di cui pure ancora siamo gli attori.
Ogni gesto è come circonfuso del suo stato potenziale, sta avvenendo come pura possibilità; ogni mio atto, pur essendo io a compierlo, è come se si svolgesse fuori dal mio dominio, in quella zona senza giurisdizione che è costituita solo in virtù della vicinanza e dell’attrazione di due corpi. Fuori da quell’attrazione, i gesti riprendono il loro senso ordinario e tornano a essere segni, i movimenti rientrano nel campo d’azione del mio corpo, l’altro torna a essere l’in sé che è sempre stato, un po’ familiare un po’ estraneo, ma comunque ormai privo dell’atmosfera a cui soltanto la relazione di desiderio può dar luogo.
È per questo che i gesti del desiderio sessuale non possono essere volontari, perché non sono i miei gesti o quelli dell’altro a poter far nascere la relazione, ma questa si istituisce precisamente quando sono proprio e solo i gesti stessi ad appropriarsi di me e dell’altro. L’incontro di un desiderare e di un essere desiderati è il modo in cui si analizza, a posteriori, una relazione nella quale non ci sono propriamente né io né l’altro. Non sono io che desidero, né è l’altro a desiderarmi. Siamo su un terreno nel quale la correlazione neutralizza l’intenzionalità. Il carattere involontario dell’erezione e delle secrezioni non sono che le modalità fisiologiche nelle quali si traduce questo esser parte di una situazione che ci reclama e a cui per un lungo momento veniamo interamente affidati.
Il luogo che viene a costituirsi tra i corpi desideranti, un luogo che in realtà appare come un “frammezzo” solo a una osservazione esteriore, non è che il divenire carne di quei corpi. Solo nei momenti in cui si desidera si è effettivamente corpi di carne, perché la carne è l’unica sostanza attraverso cui due corpi istituiscono una relazione che non sia di mera esteriorità. Al limite, si dirà che la carne che nasce nella relazione di desiderio non è mai semplicemente la carne di questo mio corpo in contatto con la carne dell’altro, ma che il contatto desiderante dei corpi produce una zona di indeterminazione, alla quale soltanto possiamo dare il nome di “carne”.
In verità, Sartre resta ancora per molti versi impigliato in una concezione tradizionale, specialmente quando fa della carne la “contingenza pura della presenza” (EN, p. 403) dell’altro, e quando sembra voler opporre alla fatticità del corpo di carne la grazia per la quale il corpo appare come “uno psichico in situazione” (EN, p. 462). Quando Sartre dice che normalmente la fatticità è rivestita e nascosta dalla grazia, e dunque la nudità della carne, per quanto sia sempre presente, è tuttavia costantemente invisibile (cfr. EN, p. 463), sembra tornare a fare della carne una sostanza naturale e pre-esistente, anziché un prodotto effettivo del desiderio; e sembra concepire la carne come il puro esserci di un corpo privato della grazia, anziché come uno stato alterato del corpo stesso, dovuto al suo essere in relazione. La carne non è là per nulla, ma c’è solo in quanto effetto di desiderio. Qui, non si può dire che la carne dell’altro ci sia, nella mera contingenza della sua presenza, come se l’incarnazione dell’altro non implicasse la mia stessa incarnazione; la mia carne e la sua esistono solo nel mezzo dei nostri corpi, anzi quella carne che propriamente non appartiene a nessuno è la sostanza stessa di quell’essere tra i corpi. Lo stesso Sartre, del resto, riconosce che
Questo significa che anche il corpo di carne non è mai semplicemente un corpo ridotto alla pura apparenza naturale o alla sussistenza fisiologica. Essere sempre in situazione significa, per il corpo carnale, essere già sempre quella certa maniera d’essere che in esso si incarna.
Così, da una parte, la stessa carne del desiderio, per quanto possa essere priva degli abiti, dei movimenti e delle espressioni che governano per lo più il corpo funzionale, resta nondimeno vestita, abitata e percorsa da cima a fondo da una potenza espressiva. I tremiti interiori, la lentezza dei gesti, gli spasmi improvvisi che definiscono il campo del desiderio sono le forme proprie della vita della carne, sono le espressioni di una carnalità, non semplicemente “naturale”, che ha luogo solo in quella sospensione dell’ordinario istituita dalla relazione sessuale.
E, d’altra parte, un corpo può farsi corpo di carne pur in un contesto del tutto ordinario o addirittura formale, nel quale il vestiario, le pose, gli atti e le parole continuino a figurare come meri segni sociali. Un modo di guardarsi, di salutarsi o sorridersi mentre, legati nell’eleganza dell’abito, ci si scambiano parole di circostanza può già istituire la tensione di un campo carnale - la cui eterogeneità rispetto al territorio dell’agire intenzionale è testimoniata dalla nostra incapacità di sapere se quelle forze di attrazione che all’occasione di un’espressione stranamente magnetica ci hanno trasportato nelle estreme vicinanze dell’altro sussistano realmente o se non siano solo l’effetto della nostra immaginazione.
In entrambi i casi, la carne del desiderio è sempre gratia plena. La cosmesi o la cosmicità della grazia non le sopravviene, ma costituisce il suo unico modo di apparizione.
È il sadico, invece, che immaginando la grazia come un abito, come un segno estrinseco e supplementare, pretenderebbe di sfilarlo via per fare apparire la carne dell’altro in quanto tale, per ridurre l’altro al suo essere nient’altro che carne.
Così facendo, il sadico in realtà non ottiene nulla dall’altro, e tantomeno accede al suo proprio divenire carne. Trattando “l’altro come uno strumento” (EN, p. 465), sottoponendo il proprio corpo e l’altrui al prelievo forzoso di quella grazia immanente che li fa essere carnali, non entrerà mai nel campo d’apparizione del desiderio. La sua ricerca di una carne senza trucco si rivela impossibile, in fondo, anche solo per il fatto stesso di essere una ricerca volontaria. Volere la carne dell’altro è il modo più sicuro di mancarla.
Il fatto è che la passività oscena e sfiorita con cui le cosce possono offrirsi alla visione sadica non può che restare ai margini dell’esperienza propriamente carnale. Non certo perché questa esperienza abbia qualcosa a che vedere con qualche amenità del corpo, ma solo per il fatto che essa, trovando il suo unico compimento nel sentire la comunanza della “propria” attrazione con l’attrazione dell’altro, non ammette la distanza che è invece necessaria a ogni osservazione come a ogni volontà cosciente. La passività oscena e sfiorita è il modo in cui la carne si presenta allo sguardo sadico, dal momento in cui quest’ultimo, nel suo pathos per la distanza, implica una sorta di giudizio estetico capovolto. Quello del sadico, però, resta appunto un giudizio, che come tale impedisce proprio quell’affondare della coscienza del corpo (cfr. EN, p. 459), necessario a ogni esperienza carnale.
In fondo, ciò che il sadico vorrebbe vedere incarnato non è che la malignità del corpo, l’essere ripugnante che, ai suoi occhi, si nasconde dietro le ingannevoli apparenze della grazia. In questo senso, lo sguardo sadico non è che il rovescio di quello cristiano: mentre quest’ultimo intende liberare il corpo di carne da quelli che riconosce come istinti peccaminosi, il primo vuole spogliare il corpo dei suoi belletti, per “dimostrare” la carne stessa in tutta la sua malvagia oscenità.
Non che la vista sia esclusa dal sentire propriamente carnale. Solo che il vedere in stato di desiderio è un vedere esclusivamente aptico. Non diversamente dalla mano, che non è mobilizzata per afferrare, anche l’occhio, divenuto carne, non fa che sorvolare a una distanza infinitesima il corpo dell’altro. Solo questo sguardo di carne, che scivola sul corpo come una carezza, è in grado di mantenersi nel campo del desiderio. La carnalità del piacere prende la sua consistenza propria solo dal momento in cui la tensione di uno sguardo aptico vibra del tremore della carne dell’altro. A distanza di giudizio, invece, la carne dell’altro non può essere sentita. Lo sguardo panoramico del voyerista e quello altrettanto globale anche se ravvicinato del sadico posso certo produrre eccitazione e godimento, ma nessun essere di carne.
Il mero godimento, così come si presenta in maniera esemplare nell’esperienza sadica, si distingue dal piacere carnale non per il suo essere immediatamente pulsionale, bensì, proprio al contrario, per la distanza strumentale che in esso si conserva. Un godimento che non è dell’ordine della pulsione acefala, ma è semmai il correlato di un comando volontario. Mentre il piacere che si accompagna al desiderio implica l’accesso a una relazione capace di sospendere l’intenzionalità personale, e solo in questo senso è propriamente carnale, il godimento è sempre e solo il godimento di un Io. Non solo di un Io che tiene a distanza l’altro, riducendolo a un fantasma di cui potersi cibare, ma di un Io che pretende di governare il proprio stesso modo di rapportarsi all’altro.
Anche lo sguardo fisso e ossessivo che gli amanti si rivolgono talvolta nei momenti che precedono il piacere è uno sguardo di carne, benché in un senso peculiare. Con gli occhi negli occhi, cercano di trattenersi entro il campo del desiderio, mettendo tra parentesi il senso meccanico dei movimenti con i quali sono tornati a utilizzare il corpo come uno strumento; cercano di portare dentro il campo d’attrazione della carne anche ciò che, per sua stessa natura, sembra sfuggirgli.
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
Laicismo, l’anti-religione contraria alla laicità
di Fabrice Hadjadj (Avvenire, 04.12.2016)
La parola "laico" è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in quella italiana. È vero che l’udibile spicca meno del visibile; ecco perché il suono della parola "laico" ci colpisce meno della visione di un crocifisso. Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi sa ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno strano spettacolo: alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo che si tratta invece di un martello - o del segno più dell’addizione; si esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e ci spiegano che è per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle religioni; ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono persuasi di intonare un ritornello del loro repertorio.
Essi infatti dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall’eredità cristiana. Perché è in primo luogo la teologia cattolica che distingue il laico dal chierico. Ed è sempre la teologia cattolica che pone quella «separazione dei poteri» ben più fondamentale di quella di Montesquieu, la separazione del potere temporale e del potere spirituale.
A dire il vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo aperto per la bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili». Il vero teologo non può essere fondamentalista: egli sa che, se Dio è trascendente, non fa parte delle evidenze mondane (la verità «erra coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto interessante che mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale pretende di esibire la verità islamica, affermarla come un’evidenza di quaggiù). Allora, l’accesso a tale trascendenza non può avvenire attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un movimento intimo del cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede. Ora, questa esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto.
Ecco perché il campo della fede è «aperto alla bestemmia». Si può dirlo in un altro modo prendendo il punto di vista del bestemmiatore. Che cosa c’è dietro al piacere di bestemmiare? Da una parte ci vuole che l’idea di Dio sia ancora abbastanza viva nella società. Se Dio - ahimè! - non c’è, che divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie?
Di questo si lamenta il Marchese de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo più positivamente». Ma per godere della bestemmia, non occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è anche necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una società completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato islamico è vietata. L’unica configurazione perfetta per il blasfemo è quella di una società ancora cristiana.
In una tale società, Dio è ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato come blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non condannare troppo rapidamente uno che bestemmia. Ecco il paradosso implacabile con cui siamo confrontati noi francesi e noi europei: affermare un «principio di separazione della società civile e della società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame privilegiato con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l’esistenza ebraica che le è legata intimamente - la permanenza del popolo ebraico è un principio di pluralità irriducibile all’interno del pensiero stesso della Chiesa).
O, per dirlo in altro modo, la neutralità dello stato a riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione per l’eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o quella neutralità diventa impotente, perché il neutro in sé non può produrre una qualsiasi determinazione; o si trasforma in neutralizzazione e diventa la religione dell’anti-religione, il laicismo.
Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può affermarsi che distinguendosi da un clero di cui riconosce l’esistenza. Può essere anticlericale, nel senso di una diffidenza critica nei confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro comportamenti, come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa costituendosi come un nuovo e supremo clero.
Quanti sedicenti difensori della laicità salgono in tribuna, più che in cattedra, per pronunciare scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e riduttore del dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare dell’enciclopedia, nel quale D’Alembert deplora l’«abuso dell’autorità spirituale riunita a quella temporale» ma commette egli stesso quell’abuso nel senso opposto.
Corpo
Post-umano, troppo post-umano
di Nunzio Galantino (Il Sole-24 ore, Domenica, 03.04.2016)
L’approccio contemporaneo al tema del corpo pone più interrogativi di quanti, per esempio, non se ne ponessero nel mondo greco, dove il confine fra corpo e corporeità era per lo più segnato dalle sfumature della parola soma. In particolare, i pitagorici hanno costruito un’approfondita antropologia sui rapporti dell’anima con il corpo, che poi ha avuto risvolti e approfondimenti nella filosofia greca.
Oggi il confine fra il corpo e la corporeità si è spostato più in là toccando il post-umano, che inevitabilmente apre interessanti piste di ricerca per la bioetica. Dopo aver stabilito il legame inevitabile fra il corpo e l’identità personale, si può comprendere come mai il corpo venga sottoposto a interventi che lo modificano sia in maniera superficiale sia in maniera profonda: tatuaggi, piercing, fino all’ingegneria genetica. Il corpo finisce così per non essere l’espressione di una condizione immutabile, ma l’interfaccia di una comunicazione con gli altri esseri umani e con l’ambiente socioculturale, in una condizione continuamente in via di definizione. Questo scenario mutevole di corpo e corporeità, per certi versi positivo, quando incontra l’orizzonte culturale del post-umano va incontro a qualche rischio, a volte grave.
Lo scenario del cyber-corpo (la relazione che intercorre fra l’uomo e la macchina) rischia di far perdere il confine fra l’artefice e il prodotto, perché il cyborg, fusione fra macchina e il corpo organico, oggi più che mai, apre a tanti scenari possibili. È dinanzi a questi scenari che si giocherà una nuova partita con la bioetica e con l’identità personale dove la corporeità non prevede più l’armonia con il cosmo, kosmos, ma l’armonia è ricercata o interrotta nel rapporto con le macchine.
La teologia cristiana del corpo, che ha superato ogni deriva dualistica e che si è sviluppata nella fedeltà al dato biblico, contiene in sé tutti gli elementi per sostenere una svolta, anche radicale rispetto alla deriva che si è consumata e che, stando alla lucida analisi di M. Horkheimer e Th. Adorno, continua a consumarsi. Una svolta che dal “sentire” il corpo, come oggetto rifiutato o sfruttato, porti a “sentirsi” corpo.
La nostra realizzazione armonica non dipende, in primo luogo, dal fare (o disfare) un corpo inteso come semplice oggetto, ma nel farsi corpo, abitando il mondo come con-tatto, come appartenenza, come dono. Farsi corpo! La fede cristiana non consiste nel credere in Dio come oggetto pensabile, ma nel seguire il “metodo” del Dio incarnato, ossia nel “farsi” corpo.
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INTERVISTA *
Il paradiso necessario
Sul quotidiano cattolico francese La Croix, quando uscì nel 2011, il critico Patrick Kechichian scrisse che questo libro rappresentava, nonostante la giovane età, il «coronamento» dell’itinerario culturale del suo autore, Fabrice Hadjadj.
Questo giovane pensatore francese (42 anni), da poco tempo direttore dell’Istituto Philanthropos di Friburgo, in Svizzera, già vincitore del prestigioso Grand Prix Catholique de Littérature con Farcela con la morte (Cittadella), torna da oggi in libreria con Il Paradiso alla porta. Saggio su una gioia scomoda (Lindau, pp. 480, euro 29).
L’erudizione dell’autore (che spazia da Kafka a Dante, da Yves Bonnefoy a Marcel Proust, fino a Dante e all’amato Nietzsche) si sposa con la passione dell’intellettuale che fa della propria fede cattolica (scoperta in età adulta: si fece battezzare a Solesmes) una feritoia per pensare il reale in maniera ancora più spregiudicata, e non un muro che impedisce l’avanzare del ragionamento.
«Il paradiso è un orizzonte di fecondità traboccante, e non un sogno sterilizzatore. Perché la nostra vita sarebbe sonnolenta senza questo accidenti di bisogno di Eden». È quanto scrive nel suo libro. Come far sì che il paradiso non «sterilizzi» le aspirazioni umane?
«Marx pretendeva di sbarazzarsi del paradiso celeste, per tornare all’idea di un paradiso terrestre, dove però l’oppio viene immesso nelle vene delle persone in dosi mortali. Lo diceva già Paul Claudel: "Quando l’uomo tenta di realizzare il paradiso in terra, il risultato immediato è un molto rispettabile inferno". Perché avviene ciò? Perché si pretende di agire da un’ideologia del bene totale, realizzabile con le nostre mani. La speranza dei paradiso celeste impedisce questa follia totalitaria».
La fede nel paradiso però non ci ha risparmiato Auschwitz o i gulag...
«Però essa ci ricorda che noi non abbiamo l’ultima parola e che il viso di qualunque altro nostro prossimo è chiamato a risplendere di una gloria divina. Da ciò consegue che, se noi agiamo per il bene, questo non avviene secondo una proiezione ideale o un piano quinquennale, ma perché riconosciamo il primato dei volti sulle idee e perché crediamo che sul più antipatico tra i volti di chi incontriamo si posa uno sguardo di infinita tenerezza. Di conseguenza, a noi tocca un rapporto personale, concreto e attento con chiunque si fa a noi incontro».
«Nietzsche è salvato». Lei ha un passato nietzschiano e anche oggi considera il filosofo de «La gaia scienza» un interlocutore fondamentale. In che senso Nietzsche si è "guadagnato" la salvezza?
«Certamente non pretendo di sondare il mistero delle anime né anticipare il giudizio di Dio. Se dico che Nietzsche è salvo, lo faccio come fece Dante, che decideva di mettere certe persone in paradiso e altre all’inferno. Vedrei bene Nietzsche nel cielo di Marte. Ma questo augurio ha un fondamento ragionevole. Nietzsche voleva combattere contro il nichilismo e il fondo del suo impegno era di tipo "eucaristico"».
Perché tira in ballo l’eucaristia?
«Mi spiego meglio. Se Nietzsche criticava il cristianesimo (ma anche il platonismo, la metafisica e il buddismo ...), lo faceva perché pensava che tutti questi sistemi, senza distinzioni, rifiutano quel che ci è chiesto qui e ora. A suo dire essi inventavano un al di là di apparenze, un "dietro-mondo", con lo scopo di disprezzare e calunniare questo mondo. Nietzsche voleva che si dicesse "sì" al mondo e che ci si mettesse dentro una sorta di azione di grazie davanti a tutto quel che ci veniva presentato. Ancor oggi egli propone un’obiezione eccellente a quanti propongono un paradiso di evasione, di fuga davanti al nostro stupore e alla nostra responsabilità sulla Terra. Ci permette di ritrovare il verso senso del paradiso cristiano, che non è un "altrove", ma un "in mezzo a voi", come disse Gesù, il quale ci comandava di stupirci davanti a un fiore di campo e all’incontro dei più poveri e piccoli tra noi».
Pur trattando del paradiso, il suo saggio parla anche dell’inferno come «luogo della tolleranza divina». Con esso, lei scrive, «Dio si inchina dinanzi a chi rifiuta liberamente e volontariamente la sua grazia, tollera per sempre questa dissidenza, perché se può rapire un’anima, non vuole sequestrarla». Oggi però dai pulpiti si sente parlare poco di quelli che i nostri padri chiamavano i «novissimi»...
«Se non si parla dei novissimi non si parla di noi stessi. Aristotele sosteneva che la causa finale è la causa delle cause. È la finalità che dice il perché ultimo di un essere. Faccio un esempio: se si trova per caso una chiave, essa non significa niente da sola. Sono la porta e la serratura che essa apre che ci dicono la natura vera di quella chiave. Possiamo dunque affermare che la meditazione sulle cose ultime ci illumina sulla natura dell’uomo. Ad esempio: per avvicinare con verità il corpo umano, bisogna conoscerne la vocazione ultima, ovvero riflettere sul corpo glorioso».
Perché si tace sui «novissimi»?
«A mio giudizio per due ragioni: vogliamo far apparire la Chiesa come una forza alleata del progresso. E quindi rischiamo di ridurla a una super-assistente sociale, un’esperta psicologa o una grande moralizzatrice. Secondo: la predicazione sui fini ultimi è indebolita da un immaginario datato, evasivo e che non risponde più alla sensibilità moderna: non ha saputo rinnovarsi né attraversare la critica nietzschiana, ben più forte di quella marxista».
Lorenzo Fazzini
* Avvenire, 8 febbraio 2013
L’altro kamasutra scritto da un gesuita
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 01.10.2010)
Anche la cultura cristiana ha avuto il suo Kamasutra. Per secoli la scienza del sesso è stata una scienza ecclesiastica. Confessori e direttori di coscienze, messi a guardia del peccato della lussuria e delle infrazioni capitali o veniali ai comandamenti sesto e nono, hanno dovuto illuminare, istruire, punire uomini e soprattutto donne nel segreto della confessione. Un sapere, il loro, tutto e solo libresco, fatto di nozioni mediche, psicologiche, filosofiche innestate sul tronco originario di una religione sessuofobica, guidata da un clero celibatario e da ideali di perfezione angelica. Ma si tratta pur sempre di una religione che ha conosciuto grandi mutamenti: fondamentale fra tutti quello che vide l’ingresso della Chiesa cattolica «nella camera degli sposi», come dice il titolo del libro di Fernanda Alfieri (Nella camera degli sposi. Tomás Sánchez, il matrimonio, la sessualità. Secoli XVI-XVII, il Mulino, pagg. 423, euro 29).
Un libro importante, centrato su di un’analisi per molti aspetti magistrale del monumento della casuistica morale cattolica della Controriforma applicata all’economia sessuale del rapporto coniugale: le Disputationes de sancto matrimonii sacramento (1602-1605), del gesuita spagnolo Tomás Sánchez.
L’opera segnò una svolta rivoluzionaria rispetto alla tradizione perché fece posto al piacere del sesso e alla esplorazione dei suoi veicoli e delle sue tecniche ben al di là dei limiti concessi a denti stretti dai predecessori, tanto da scatenare proteste e censure. Ma se la cultura cattolica con l’opera di Sánchez «libito fè licito in sua legge» lo si dovette alla decisione della Chiesa tridentina di reagire alla proposta della Riforma protestante portando la guerra fuori dai suoi confini, nel bel mezzo del campo occupato dalla famiglia e dalle dinamiche della riproduzione.
La Chiesa tridentina non solo aprì i recinti sacri al matrimonio e portò davanti all’altare gli sposi ma si impegnò a seguirne tutto il percorso di vita, quello diurno e soprattutto quello notturno, riconoscendo una funzione essenziale e moralmente positiva ai rapporti sessuali. Da allora dura la marcia ininterrotta di un’avanzata del magistero ecclesiastico nelle cose del sesso.
Ne registriamo quasi quotidianamente gli esiti nella vita della nostra società civile ogni volta che è questione di concepimento, aborto e giù fino alle polemiche sulle cellule staminali e gli embrioni.
Ed è a certi aspetti radicati nel profondo della vita sociale dei paesi cattolici - al di là di una superficie apparentemente disinibita e di una solo presunta liberazione o parità della donna - che il libro di Fernanda Alfieri fa riflettere.
Ci sono modelli culturali ancora latenti che vennero elaborati e argomentati in quel monumento eretto al sesso coniugale da un missionario spagnolo negli intervalli di un’opera di conquista religiosa e sotto un cielo andaluso dominato dall’azzurro mantello della Madonna vergine e madre dell’Immacolata Concezione.
È a quell’orizzonte che rinvia lo stereotipo femminile degli occhi bassi e della passività affettiva e sessuale di una donna considerata solo un recipiente silenzioso e sottomesso del seme maschile. E tuttavia la persistente autorità ecclesiastica su materie di questo tipo non si capirebbe senza l’opera di Tomás Sánchez: fu lui che rielaborando le fonti di una cultura cristiana più che millenaria, dette argomenti alla avanzata della Chiesa sul terreno della famiglia e del sesso: in primo luogo riportando la materia degli affetti, degli istinti e delle pulsioni sotto il dominio della ragione e facendone oggetto di conoscenza intellettuale.
Per il gesuita come per i suoi discepoli destinati al sacerdozio si trattava di conoscere per guidare e governare. Per questa via si giunse al riconoscimento della positività di sentimenti e istinti e si aprì alla donna la possibilità di vedersi riconosciuta una parte essenziale nel piano divino ricavandone intanto il diritto al possesso del suo uomo e alle prestazioni maritali.
Nel perdurante silenzio delle donne, era la voce del corpo che bisognava interpretare perché il progetto del concepimento andasse pienamente in porto: e quella voce trovò ascoltatori attenti. Occhi freddi ed esperti studiarono fisiologia e psicologia, intercettando tutti i segnali e spiando ogni sintomo per costruire una scienza della psicopatologia sessuale dell’animale femminile, il tutto subordinato alla finalità della riproduzione.
E tuttavia la scienza casuistica del sesso e la pratica delle possibilità infinite di tatti e di contatti illustrata agli ecclesiastici celibatari e per loro tramite ai, e soprattutto alle, penitenti, non poteva non produrre effetti imprevisti dilatando l’orizzonte delle fantasie e innescando reazioni a catena. Non per niente il mondo del libro, ignorando o trasgredendo limitazioni e proibizioni, ha trasformato la scienza teologica della morale in letteratura pornografica: dal Paradiso delle coppie sposate all’Inferno delle biblioteche
Godiamoci il sesso in nome di Dio
di Marcello Veneziani (il giornale, 24.10.2009)
In nome di Dio godetevi il sesso. Non è un dio strano e godereccio e non è un paradosso o una metafora per dire altro. Parliamo del nostro Dio e parliamo del nostro sesso. È il Dio che conosciamo da millenni, venuto dall’ebraismo, incarnato in suo figlio Gesù e adorato nella Chiesa cattolica. Dobbiamo liberarci dal dualismo falso e sciagurato tra il corpo e lo spirito, riabilitare la carne e sottrarre il sesso alla sua mortificazione quotidiana di chi lo smercia ma in fondo lo detesta. Chi l’ha detto che l’immortalità dell’anima e la fede in Dio padre onnipotente siano incompatibili con il piacere del corpo e l’amore carnale? Oggi il sesso è un peccato per la religione, un reato per la politica e una manna per la società: è il vero oppio dei popoli per spegnere fede e politica. Dobbiamo caldeggiare una grande rivoluzione culturale che passi attraverso i nostri corpi, la nostra sensibilità unita alla nostra sensualità: tra Dio e il sesso, tra Cristo e la carne, non c’è incompatibilità ma alleanza. Nella Roma papalina circolava un motto popolare: il peccato de fregna Dio non lo segna...
Questa tesi non ha l’imprimatur del Papa, della Congregazione della fede o del Sinodo, ma la sostiene - poggiandosi all’autorità di san Tommaso, della dottrina cristiana e del catechismo - un giovane, brillante filosofo di origine ebraica e di conversione recente. La sua scoperta da noi è merito del meeting di Comunione e Liberazione che lo invitò a Rimini e della rivista Tempi che lo intervistò. È una scoperta benedetta, e non per modo di dire. L’originalità della tesi e la brillantezza dello stile non sono segno di stravaganza e tantomeno di eresia, ma si fondano sul rigore del pensiero e della fede. Fabrice Hadjadj ha 38 anni, è ebreo con cognome arabo, nato in Tunisia all’ombra dell’islam e convertito una decina d’anni fa al cattolicesimo; sintesi vivente dei tre monoteismi. Insegna filosofia a Tolone e ha pubblicato tra gli altri un libro splendido - Mistica della carne. La profondità dei sessi, uscito di recente da Medusa (pagg. 200, euro 17,50). È un libro pieno di vita e di fede, sanguigno e intelligente, fondato sul realismo e l’incarnazione; è un elogio dell’amore sessuale e non sublimato o sentimentale; e insieme della procreazione e della famiglia. Il suo antagonista è l’erotismo triste, ospedaliero e consumistico dei nostri giorni, il sesso ridotto a masturbazione assistita, tra tecnica e sanità, che denota non amore ma disprezzo del corpo e del sesso. Disprezzo che riverbera, come bene argomenta Hadjadj, nell’aborto, nella denatalità, nell’incapacità di rapporti duraturi, nei corpi e nei sessi modificati per adeguarsi a standard e performance; ma anche nella vergogna di essere nati, di avere genitori e una terra d’origine, e poi nella vergogna di invecchiare e infine di morire. È il rifiuto della condizione umana e corporale, della nostra carne, della realtà di cui siamo fatti, con i suoi limiti e i suoi legami. O solo corpi senz’anima né mente, o solo menti disincarnate, che rifiutano la solida corporeità della vita. Il sesso è visto come liberazione dalla ragione, secondo il noto adagio che «lui», il lui moraviano, non vuole pensieri. E invece Hadjadj cita una massima esattamente inversa: mentula tua habet mentem, il tuo membro - pensate, direbbe Mike buonanima- ha una mente, ha una coscienza. Ama pensando; si eccita e possiede pensando. Eros non è scemo.
ui è inevitabile il punto di dissenso con la morale cristiana. Non ha torto Hadjadj a cogliere proprio lì, sul sesso, il punto di rottura della Chiesa con il mondo. «Riconosceremmo facilmente i tesori della fede cattolica, se solo non ci fosse la sua morale sessuale. Questo topo morto basta ad avvelenare i pozzi». Hadjadj ricorda che i peccati della carne sono assai meno gravi dei peccati dello spirito. Del sesso, in effetti, è brutto il disordine, la dipendenza e la riduzione dell’altro a puro oggetto; ma non la sua espressione gioiosa, gli atti d’amore e il desiderio. Il rischio, invece, è che molti riducano i precetti cristiani alla morale sessuale. Da qui la fuga nelle dottrine esotiche, tra il buddismo e l’induismo, e perfino l’islam, meno moraliste e più indulgenti sul piano sessuale. Alla metafisica del sesso, ispirata alle dottrine orientali e alle pratiche tantriche, aveva dedicato un testo famoso Julius Evola. Hadjadj è invece un Nietzsche cattolico, come si disse di un suo ispiratore, Gustave Thibon; egli celebra le nozze tra la fisica e la metafisica in un amore carnale e religioso. Efficaci sono le sue pagine contro il nuovo totalitarismo, fondato sui consumi, munito dei conforti progressisti; un totalitarismo che non si dà come ideologico, si presenta come individualista e nasce dalla «desolazione» (la perdita del suolo, del legame famigliare, della sorte comune e concreta). Lo sradicamento è la disincarnazione dei luoghi, è la perdita del corpo «sociale». Hadjadj non risparmia il femminismo, che è per lui un machismo di segno contrario; l’omosessualità, in cui nota non l’abuso ma la carenza di sessualità; la riduzione dell’educazione sessuale all’uso del preservativo, come se nel fare l’amore si debba prestare attenzione non all’incontro con l’altro ma a preservarsi dall’altro. Per Hadjadj l’educazione sessuale deve accompagnare il desiderio sessuale e non imbavagliarlo («i cattolici sono i veri edonisti»); poi la tesi geniale che il vero sesso estremo sia figliare; e che il sesso non sia un’astuzia della specie per perpetuarsi, come pensava Schopenhauer, ma un’astuzia di Dio che si serve del sesso per aumentare gli eletti alla vita eterna. Hadjadj si spinge fino all’elogio dell’ancién régime, del Re che era padre del suo popolo e ne incarnava l’unità. Colpisce l’uso intelligente, giovanile, trasgressivo della tradizione ma anche di autori come Foucault e Pasolini. Aria fresca contro pensieri morti.
Ma qual è il fondamento teologico e religioso di questo elogio della carne? È l’incarnazione di Gesù Cristo e poi la resurrezione dei corpi. A noi costa fatica già accettare l’idea di un Dio che si è fatto uomo ed è morto sulla croce per poi risorgere; ma ancora più arduo è pensare alla resurrezione dei corpi estesa all’umanità, ci appare quasi una follìa. Meglio tornare a Platone e a Plotino - che «si vergognava di avere un corpo» - e amare i corpi come riflessi, custodie e presagi di presenze incorporee, invisibili e forse immortali. Ma ci piace pensare a sesso & santità, a quell’amore carnale benedetto da Dio...