L’INCONTRO DELL’ ULTIMO PAPA CON ZARATHUSTRA *
[...] quell’uomo seduto l’aveva scorto; e non diversamente da chi si imbatte in una felicità inattesa, s’alzò e andò diritto come un razzo verso Zarathustra.
Sia chi tu sia, vagabondo - gli disse - porgi aiuto ad un disgraziato, un cercatore, un vecchio uomo, ché altrimenti gli capita qualche guaio!
Questo mondo mi è estraneo e lontano, e vi ho sentito anche ululare delle belve; e colui che mi avrebbe potuto offrire un rifugio non c’è più.
Stavo cercando l’ultimo uomo pio, un santo ed anacoreta, che, solo nella sua foresta, non abbia udito ancora nulla di ciò che oggi sa ognuno.
Che cosa sa oggi ognuno? - chiese Zarathustra. Su per giù questo, che il vecchio Dio a cui un giorno ognuno credeva, non c’è più?
Tu lo dici - rispose turbato il vecchio. - E io che ho servito questo vecchio Dio fino all’ultima ora!
Ma ora sono fuori servizio, senza Signore, e tuttavia non sono libero, né allegro neanche per una ora, neppure se mi perdo nei ricordi.
Perciò sono salito su queste montagne, per farmi infine da me stesso una festa di quelle che garbavano ai vecchi papi e padri della chiesa: perché, se lo vuoi sapere, io sono l’ultimo papa! Una festa, dico io, di pie ricordanze e servizi divini.
Senonché, ora è morto anche lui, l’uomo più pio, quel santo della foresta che continuamente lodava il suo dio con canti e mormorii.
Non l’ho trovato più, quando ho ritrovato la sua capanna; però c’erano dentro due lupi che ululavano lamentando la sua morte, perché tutti gli animali lo amavano. Allora me ne sono andato.
Son dunque venuto invano in queste foreste e montagne? ho pensato. Allora il mio cuore si è deciso a cercarne un altro, il più religioso di tutti coloro che non credono in Dio; cioè a cercare Zarathustra!
Così parlò il vecchio, e guardò con occhio attento colui che gli stava davanti; ma Zarathustra afferrò la mano del vecchio papa e stette a lungo a guardarlo ammirato.
Vedi là, tu, santità - esclamò poi - che mano bella e lunga! È la mano di un individuo che ha sempre dispensato benedizioni. Ma ora la tiene stretta colui che tu cerchi, cioè io, Zarathustra.
Io stesso sono l’ateo Zarathustra, che parla, e chi è più ateo di me che io possa rallegrarmi di quanto egli mi dice?
Così parlò Zarathustra e penetrava con i suoi sguardi i pensieri e i segreti interiori del vecchio papa.
Infine questi incominciò a dire: Chi più lo amava e possedeva, ecco che più lo ha perduto: ecco, sono forse ora io stesso di noi due il più ateo? Ma chi potrebbe di ciò rallegrarsi?
Tu l’hai servito fino in fondo - chiese Zarathustra pensoso, dopo un profondo silenzio. - Sai tu come morì? È vero ciò che si dice, che sia morto di compassione, per aver visto come l’uomo pendeva sulla croce, e non aver sopportato che l’amore per l’uomo divenisse il suo inferno e infine la sua morte?
Il vecchio papa non rispose, ma guardò obliquo con un’espressione dolorosa e cupa.
Lascialo andare - disse Zarathustra dopo una lunga meditazione, durante la quale sempre teneva l’occhio fisso nell’occhio del vecchio. Lascialo andare; ormai non c’è più. E anche se ti fa onore che tu non dica se non bene di questo morto, tuttavia sai altrettanto bene quanto lo so io chi egli era, e che percorse degli strani sentieri.
Detto a tre occhi - disse argutamente il vecchio papa (perché era cieco da un occhio) - nelle cose di Dio ne so più io dello stesso Zarathustra; e può ben essere così. Il mio amore ha servito a lui per tanti anni, la mia volontà ha fatto sempre quanto lui voleva. Un buon servitore sa tutto, e sa anche le cose che il suo padrone spesso nasconde a se stesso.
Era un Dio nascosto, pieno di segreti. Per dir la verità, ad avere un figlio ci arrivò per vie traverse. Alla soglia del suo Credo ci sta un adulterio.
Chi lo celebra come un dio d’amore non ha una grande opinione dell’amore. Non voleva forse questo dio fare anche il giudice? Ma chi ama, ama al di là del premio e della pena.
Quando era giovane, questo dio asiatico era duro e vendicativo e si costruì un inferno a tutto divertimento dei suoi cari.
Alla fine divenne vecchio e tenero e frollo e compassionevole, più simile ad un nonno che ad un padre, ma rassomigliante più di tutto ad una vecchia nonna tentennante. - Stava lì, cadente, nell’angolo della sua stufa, lamentandosi delle sue gambe deboli, stanco di tutto, senza più volontà, finché un giorno venne meno per la sua troppa compassione.
Tu, vecchio papa - insinuò a questo punto Zarathustra - hai visto tutto ciò con i tuoi occhi? Perché potrebbe essere andata così: così, ma anche in altro modo. Quando gli dèi muoiono, muoiono sempre di specie diverse di morte.
Tuttavia! Così o in altro modo, così o cosà, è finito! A me faceva schifo sia a sentirlo che a vederlo; non potrei dir niente di peggio su di lui.
Io amo tutto ciò che guarda e parla schietto e chiaro. Ma lui - tu lo sai, vecchio prete, perché qualcosa del tuo tipo, del tipo del prete, in lui c’era - era malfido.
Ed anche poco chiaro. E come se la prendeva con noi, quel borbottone, perché non lo comprendevamo bene! E allora, perché non parlava più chiaro?
E se la colpa era delle nostre orecchie, perché non ci aveva dato delle orecchie più adatte a cornprenderlo? E se dentro ci avevamo il cerume, chi ce l’aveva messo?
Troppe cose gli sono andate male a quel vasaio; si vede che non ci sapeva fare abbastanza!
Ma che poi si vendicasse anche sui suoi vasi e sulle sue creature, perché gli erano riusciti male, questo poi è proprio un peccato contro il buon gusto.
C’è il buon gusto anche nella pietà religiosa: alla fine, esso esclamò: ’Via, con un dio di questo genere! Meglio nessun dio, meglio crearsi il destino con le proprie mani, meglio esser pazzo, meglio esser noi stessi dio!
Ma che sento! disse a questo punto il vecchio papa aguzzando le orecchie. - O Zarathustra, tu sei più religioso di quanto credi, con la tua miscredenza! Qualche dio dentro di te ti ha convertito al tuo ateismo.
Non è la stessa tua religiosità che non ti lascia più credere ad un dio? La tua enorme schiettezza ti condurrà anche al di là del bene e del male!
Vedi un po’ che cosa ti fu mai risparmiato? Tu hai occhi e mani e bocca, che sono predestinate a benedire dall’eternità. Non si benedice soltanto con la mano.
In tua prossimità, anche se tu vuoi essere il più ateo di tutti, io subodoro un sentore dolciastro d’incenso che proviene da lunghe benedizioni: e mi fa sentire bene e male insieme.
Lasciami essere tuo ospite, o Zarathustra, per una sola notte! In nessun luogo della terra potrò star tanto bene come con te!
Amen! Così sia! soggiunse Zarathustra con grande meraviglia. - Lassù è la strada che conduce alla caverna di Zarathustra.
Volentieri ti condurrei io stesso, santità, perché amo tutti gli uomini religiosi, ma ora un grido angoscioso mi richiama lontano da te.
Nel mio regno nessuno deve trovarsi male; la mia caverna è un buon porto. E mi è molto caro accogliere ogni essere triste rimettendolo in piedi e su saldo terreno.
Ma chi può togliere dalle spalle la tua malinconia? Sono troppo debole per questo. A lungo invero dovremmo aspettare, finché qualcuno ti risvegliasse il tuo dio.
Questo vecchio dio appunto non vive più: è definitivamente morto.
* Si cfr.: F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, parte IV, "Fuori servizio" [o "A riposo"].
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR,:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
FLS
"X AGOSTO" (10 AGOSTO): "DA COPERNICO IN POI L’UOMO ROTOLA VERSO UNA X" (NIETZSCHE, 1886).
MEMORIA, STORIA E LETTERATURA
Aicune note intorno alla poesia di Giovanni Pascoli:
X Agosto
San Lorenzo, io lo so perchè tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perchè sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole, in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano, in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
ANTROPOLOGIA CHIASMATICA ("NEXOLOGIA") E COSMOLOGIA:
TERRA E CIELO. Nel suo testo, Pascoli tocca corde molto prossime alle riflessioni di Nietzsche sul tema della cosiddetta "morte di Dio" (e dell’Uomo). La questione appare essere personale, ma si contestualizza in un orizzonte universalmente umano, antropocosmico: la "X", posta davanti ad "Agosto", non richiama solo l’incognita e l’ignoto, ma anche e soprattutto la "X" greca (il "Chi" della relazione, della "nexologia" antropologica e cosmologica.
"DA COPERNICO IN POI L’UOMO ROTOLA VERSO UNA X" (NIETZSCHE, 1886). Con Carducci (v. "Pianto antico": Il testo autografo, legato alla morte del figlioletto Dante avvenuta nel 1870, reca la data giugno 1871) e, con Pascoli (v. "X agosto": il testo fu pubblicato il 9 agosto 1896, ma è legato alla morte del padre Ruggero, ucciso mentre tornava a casa dal mercato in circostanze misteriose il 10 agosto 1867, il giorno in cui si celebra san Lorenzo, quando Pascoli ha appena 12 anni), e, volendo, con Nietzsche, si comprende meglio da una parte il senso dell’euforia tecnologica dell’ inno "A Satana" (Carducci, 1863) e, al contempo, l’allarme di Nietzsche, che, riaggiornando la lezione di Diogene di Sinope, ricorda
e, ancora, dello stesso Pascoli, della incapacità epocale dell’uomo del suo tempo (che annuncia già Kafka) di leggere "sotto le stelle, il libro del mistero" (G. Pascoli, "Il libro", 1907).
La verità e il nome di Dio *
È da quasi un secolo che i filosofi parlano della morte di Dio e, come spesso accade, questa verità sembra oggi tacitamente e quasi inconsapevolmente accettata dall’uomo comune, senza che ne siano tuttavia misurate e comprese le conseguenze. Una di queste - e certamente non la meno rilevante - è che Dio - o, piuttosto, il suo nome - era la prima e ultima garanzia del nesso fra il linguaggio e il mondo, fra le parole e le cose. Di qui l’importanza decisiva nella nostra cultura dell’argomento ontologico, che stringeva insolubilmente insieme Dio e il linguaggio, e del giuramento pronunciato sul nome di Dio, che obbligava a rispondere della trasgressione del vincolo fra le nostre parole e le cose.
Se la morte di Dio non può che implicare il venir meno di questo vincolo, ciò significa allora che nella nostra società il linguaggio è diventato costitutivamente menzogna. Senza la garanzia del nome di Dio, ogni discorso, come il giuramento che ne assicurava la verità, non è più che vanità e spergiuro. È quanto abbiamo visto apparire in piena luce in questi ultimi anni, quando ogni parola pronunciata dalle istituzioni e dai media era soltanto vacuità e impostura. Viene oggi al suo termine ultimo un’epoca quasi bimillenaria della cultura occidentale, che fondava la sua verità e i suoi saperi sul nesso fra Dio e il logos, fra il nome sacrosanto di Dio e i semplici nomi delle cose. E non è certo un caso se solo gli algoritmi e non la parola sembrano ancora custodire un qualche nesso col mondo, ma questo soltanto nella forma della probabilità e della statistica, perché anche i numeri non possono in ultimo che rimandare a un uomo parlante, implicano ancora in qualche modo dei nomi.
Se abbiamo perduto la fede nel nome di Dio, se non possiamo più credere nel Dio del giuramento e dell’argomento ontologico, non è, però, escluso che sia possibile un’altra figura della verità, che non sia soltanto la corrispondenza teologicamente obbligata fra la parola e la cosa. Una verità che non si esaurisca nel garantire l’efficacia del logos, ma faccia in esso salva l’infanzia dell’uomo e custodisca ciò che in lui è ancora muto come il contenuto più intimo e vero delle sue parole. Possiamo ancora credere in un Dio infante, come quel Gesù bambino che, come ci è stato insegnato, i potenti volevano e vogliono a ogni costo uccidere.
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ANTROPOLOGIA FILOSOFIA E PSICOANALISI: "LA MATURITA’ E’ TUTTO"("King Lear", V. 2) ... MA E’ ANCORA DIFFICILE DA RAGGIUNGERE.
Un omaggio a William Shakespeare...
PSICOLOGIA E FILOSOFIA. Carl Gustav Jung ha fatto un brillantissimo lavoro su «Lo Zarathustra di Nietzsche. Seminario 1934-39» , ma alla fine la sua stessa ombra gli ha impedito di giungere a fondo e a capo dell’enigma di Edipo, della domanda (la "question") di Amleto, della "visione e l’enigma di Zarathustra e, infine, di accogliere il bambino nato dalla metamorfosi del cammello e del leone (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991 ).
"CONOSCI TE STESSO" (DELFI): "ECCE HOMO. Come si diviene ciò che si è" (Nietzsche, 1888). Il problema è antico, e il cammino di ogni essereumano è ancora lungo. Per lo più siamo fermi (come umanità) in una fase dello sviluppo segnato dalla minore età, di "giovani" che non hanno imparato a pensare con la propria testa e a camminare con i propri piedi; di esseri umani che vivono ancora come cammelli che viaggiono in un deserto con le loro tavole del "tu devi"; e di molti altri che hanno saputo liberarsi dei pesi, ma vanno in giro in una foresta solo a ruggire come leoni con la potenza del loro "io voglio", ma Nessuno ancora è giunto a venir fuori dal proprio "stato di minorità", a diventare maggiorenne, e a saper dire, con semplicità, "io sono colui che sono": "Ecce Homo" ("Ecco un Essere Umano"). Forse è bene rimettersi in cammino con Dante e Virgilio e uscire dall’orizzonte della caduta e della tragedia.
Federico La Sala
#QUESTIONEANTROPOLOGICA (#FILOLOGIA E #CRISTOLOGIA ): SHAKESPEARE E NIETZSCHE.
La grande eroica ricerca di #Nietzsche è stata quella di rispondere alla domanda già di #Shakespeare , alla #question di Amleto, e portare il discorso oltre #Wittenberg (la #RiformaProtestante ), e chiarirsi e chiarire le idee relative all’ #essere degli esseri umani, figli e figlie del "#Re dei Re", di "Dio", e di andare oltre la tragica #logica del "sapere di non sapere" platonica, del #mentitore, e dell’ #adulterio e dell’#incesto ("Così parlò #Zarathustra ", parte IV). Egli, a mio parere, ha aperto la strada e dato indicazioni per sciogliere il nodo e non nella direzione del #supeuomo cosmoteandrico (cfr. Federico La Sala , "La #menteaccogliente. Tracce per una #svolta_antropologica ", Roma 1991).
#ANTROPOLOGIA O #ANDROLOGIA? #Gesù, chi era? Quello del "parto maschio del tempo" di san #Paolo e #Costantino (e #Bacone ), o quello del tempo di san #Francesco ("Cantico delle #Creature " o "Cantico di Frate #Sole ") e #DanteAlighieri ("l’amor che muove il sole e le altre stelle") e di ogni #essereumano nato di donna e di uomo nel pianeta Terra?
CRITICA DEL SOGNO D’AMORE DELLA RAGION PURA E FILOLOGIA: A LEZIONE DA SHAKESPEARE.
SHAKESPEARE (E BEN JONSON): "EST MODUS IN REBUS" (Orazio, "Satire" I, 1, 106-107). Polonio comprende che nella "follia" di Amleto "c’è del metodo (Amleto, II,2), ma non conosce il modus, né la misura né la lingua dell’Arte poetica di Quinto Orazio Flacco.
"BEN SCAVATO VECCHIA TALPA!" (MARX, 1852): "Ma la rivoluzione va fino al fondo delle cose. Sta ancora attraversando il purgatorio. Lavora con metodo [...] La tradizione storica ha fatto sorgere nei contadini francesi la credenza miracolistica che un uomo chiamato Napoleone renderà loro tutto il loro splendore. E si è trovato un individuo il quale, dato che porta il nome di Napoleone, ha potuto spacciarsi per quest’uomo, conformemente al codice #Napoleone, il quale stabilisce: "La recherche de la paternité est interdite".
Dopo un vagabondaggio di venti anni e una serie di avventure grottesche, la leggenda diventa realtà e l’uomo diventa imperatore dei francesi. L’idea fissa del nipote si è realizzata, perché essa coincideva con l’idea fissa della classe più numerosa della popolazione francese -[...] Intendiamoci. La dinastia dei Bonaparte non rappresenta il contadino rivoluzionario, ma il contadino conservatore; non il contadino che vuole liberarsi dalle sue condizioni di esistenza sociale, dal suo piccolo appezzamento di terreno, ma quello che vuole consolidarli; non quella parte della popolazione delle campagne che vuole rovesciare la vecchia società con la sua propria energia, d’accordo con le città, ma quella che invece, ciecamente confinata in questo vecchio ordinamento, vuole essere salvata e ricevere una posizione privilegiata, insieme col suo piccolo pezzo di terreno, dal fantasma dell’Impero. Essa non rappresenta la cultura progressiva, ma la superstizione del contadino, non il suo giudizio, ma il suo pregiudizio, non il suo avvenire, ma il suo passato, non le sue moderne Cévennes, ma la sua moderna Vandea (Karl Marx, "Il 18 Brumaio di Luigi Napoleone".
PUCK - ROBIN GOODFELLOW ("Sogno di una notte di mezza estate", II) E MARX (1856): "[...] Da parte nostra non disconosciamo lo spirito malizioso che si manifesta in tutte queste contraddizioni. Nei segni che confondono la borghesia e i meschini profeti del regresso riconosciamo la mano del nostro valente amico, Robin Goodfellow, la vecchia talpa che scava tanto rapidamente, il grande minatore: la rivoluzione. La storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore." (K. Marx, discorso per l’anniversario del People’s paper, aprile 1856).
***
AMLETO, I. 1: *
"Bernardo. Ecco, la scorsa notte,
quando la stella a occidente del polo
aveva ormai compiuto il suo percorso
in quella parte del cielo ove brilla,
la campana batteva il primo tocco,
Marcello ed io...
Compare lo Spettro
Marcello. Silenzio! Eccolo, torna!
Bernardo. È lui! È proprio lui!... Il re defunto!
Marcello. Parlagli, Orazio, tu che sai il latino.
Bernardo (A Orazio).
Guardalo bene: non è tutto il re?
Orazio. Spiccicato!... Mi sento raggelare...
di stupore... paura... non lo so.
Bernardo. Forse vorrebbe che alcuno gli parli.
Marcello. Parlagli, Orazio, su, parlagli tu!"
[...]
AMLETO, I. 5:
Entra lo Spettro
Orazio. Oh, guardate, signore, eccolo, viene!
Amleto. O angeli e ministri della grazia,
difendeteci voi!...
[...]
Parla. Che cosa vuoi che noi facciamo?
(Lo spettro fa cenno ad Amleto di avvicinarsi a lui)
Orazio. Ecco, vi accenna d’andar con lui,
come a volervi parlare da solo.
Marcello E guardate con che amorevol gesto
v’invita ad appartarvi insieme a lui!
Ma non ci andate.
Orazio. No, assolutamente.
Amleto. Perché? Che cosa c’è da aver paura?
Io, di questa mia vita materiale,
non faccio maggior conto d’uno spillo,
e quanto alla mia anima,
che male mai può farle,
s’è come lui immortale?... Mi fa cenno.
Io vado.
[...]
AMLETO, I, 5:
Amleto. Mai parlare di quel che avete visto.
Sulla mia spada giurate.
La voce dello Spettro (Da dentro)
Giurate!
[...]
La voce dello Spettro
Sulla spada!
Amleto. Ben detto vecchia talpa!
Ma come fai a scavarti la terra
così veloce?... Un minatore in gamba.
Via, signori, spostiamoci di nuovo.
Orazio. Oh, giorno e notte insieme,
quale straniera meraviglia è questa!
Amleto. E come tale dalle il benvenuto!
Ci son più cose in cielo e in terra, Orazio,
che non sogni la tua filosofia.
Ma sentite: qui, come mai innanzi,
voi due - così vi possa assistere la #Grazia! -
per quanto stravagante e stralunato
possa apparirvi il mio comportamento
(e m’accadrà di stimare opportuno
di darmi un’aria stralunata e sfatta),
non dovete far mostra, innanzi ad altri,
di saperne di più di quel mio stato
[...]
AMLETO, V, 2:
Orazio (Indicando il corpo del re)
[...]
E lasciate ch’io dica al mondo ignaro
come sono accaduti questi eventi.
Potrete così udire
di carnali rapporti, e sanguinose
e innaturali azioni, e d’assassinii
casuali, e decisioni occasionali
di morti provocate o da perfidia
o da forza maggiore, e, in questo epilogo,
di tranelli falliti e ricaduti
sulla testa di chi li aveva orditi.
Su tutto posso dir la verità.
Fortebraccio. E noi ci accingeremo ad ascoltarla,
qui, tutti insieme, coi nostri maggiori.
In quanto a me, abbraccio la mia sorte,
col dolore nel cuore;
ho dei diritti, mai dimenticati,
su questo trono, che l’ora presente
mi esorta a far valere.
Orazio. Anche di questo vi dovrò parlare,
ed a nome di chi, con il suo voto,
molti altri ne trarrà alla vostra parte.
Ma si proceda subito al da farsi,
mentre gli animi sono ancora scossi,
così che altri intrighi ed altri errori
non abbiano a recarci altre sventure.
*Fonte: Liber Liber.
RIVOLUZIONE COPERNICANA E RIFORMA TEOLOGICO-POLITICA IN CORSO: NUOVO CIELO E NUOVA TERRA.
Una nota*
La grandezza di Shakespeare e l’importanza del suo "Amleto" è analoga a quella di Sofocle e del suo "Edipo Re": della loro lezione, anche dopo la sollecitazione di Freud, si stenta ancora a capire il legame tra il familismo amorale e le manipolazioni istituzionali della Legge (divina ed umana).
Con Lutero (1517), con Copernico (1543), e Giordano Bruno (Nola, 1548 - Roma, 17 febbraio1600), Shakespeare osa aprire un dibattito nel suo globo teatrale che fa tremare tutto l’ordine teologico-politico e sociale precedente e seguente: riapre il discorso sulla dottrina dei "Due corpi del Re" (Ernst H. Kantorowicz)!
La critica dell’adulterio in "Amleto", connesso (come è) all’intero ordine istituzionale e collegato fin nel cuore dello stesso messaggio biblico ed evangelico, pone all’ordine del giorno lo "spaccio della bestia trionfante" e sgombra la strada alla dea Giustizia, alla Vergine Astrea (Virgilio, Egloga IV, V. 6: "Iam redit et Virgo").
*
NOTA.
Europa 1600: RegnodiNapoli->Nola->Salerno->Eboli->Contursi Terme, Chiesa della Madonna del Carmine, 1608/1613..
Federico La Sala
Dostoevskij e la bellezza che salverà il mondo (forse)
DI GIULIANO ZANCHI *
«Quando Fëdor Dostoevskij, forse il solo cristiano stimato da Friedrich Nietzsche, nel 1869 portava a termine L’idiota, non poteva immaginare quali sorti attendevano un dialogo, peraltro fugace, che, estratto da un romanzo non necessariamente letto, avrebbe finito per rimbalzare ovunque come cifra obbligata di uno spiritualese che abbraccia tanto i cattolici tradizionalisti impegnati nel revival della vecchia arte sacra quanto gli agnostici pellegrini di quei santuari moderni che sono i grandi musei. Merita almeno riportare il luogo da cui sgorga la grande eco di quel suono così ecumenico.
A rivolgere queste parole al principe Miškin, protagonista del romanzo, è il giovane tormentato Ippolit. Formulate peraltro nei termini di un interrogativo, esse chiamano in causa la questione di un riscatto del mondo, il suo possibile affrancamento dal male, rappresentato nel romanzo dalla cappa di violenza e di morte che aleggia su vicende amorose insieme ingenue e torbide, destinate a precipitare nella tragedia da un momento all’altro.
Che si possa redimere una condizione compromessa come il ‘mondo’ che Dostoevskij tratteggia nelle trame cupe dei suoi romanzi, resta il tema di un vero enigma, sospeso peraltro alla natura della ‘bellezza’ che viene chiamata in suo soccorso. Cosa significa qui ‘bellezza’?
Non si tratta certamente dell’armonioso riflesso esteriore che l’umanesimo latino, da un certo momento in poi, ha posto a fondamento del proprio ideale di un’arte come finestra sul mondo. Basta leggere Le porte celesti di Pavel Florenskij per avere un’idea di quale disprezzo venga riservato a quella tradizione da parte di una cultura ortodossa cui anche Dostoevskij si mantiene tutto sommato fedele. Nonostante questo non ha nemmeno molto a che vedere con lo stereotipo spirituale dell’icona a cui è stata spesso sbrigativamente associata, né con quello delle sue neo-serializzazioni ortodosse e dei loro consumatori occidentali. Si tratta piuttosto dell’intensità sacrale che può scaturire solo da una vera profondità etica in cui grazia e moralità restano sempre indisgiungibili, ma la cui congiunzione, almeno in questo mondo, appare ogni volta misteriosa e irrealizzabile.
Quello di ‘bellezza’ è il nome che si dà all’inequivocabile manifestarsi del bene. Un insieme di qualità che non hanno necessariamente a che fare con la forma armonica, perfetta e intatta. Quanto piuttosto i tratti dell’irremovibilità con cui la bontà custodisce la propria perseverante giustizia. A costo di tutto. Anche di perdere la perfezione della forma. È il bello del bene. Esso consiste nel fatto che se necessario perde anche la faccia, se questo serve a preservare l’integrità. Si tratta perciò di una bellezza che talvolta non si cura di poter apparire anche brutta se questo resta segno della propria tenacia.
La bellezza su cui il romanzo profetizza, tanto quanto ironizza, è quella che emana dall’aura tangibile dell’«uomo veramente buono» che attraversa i tumulti della storia con sovrana semplicità d’animo e inscalfibile bontà di cuore, ritratto evangelico del mite che sfida il sorriso dei cinici e la scaltrezza dei prepotenti, nel guscio di un’innocenza dal destino sempre incerto.
Magnetismo irradiante di un profilo umano dai caratteri tipicamente cristologici che Dostoevskij, come il Padre creatore del suo mondo letterario, invia nel mondo oscuro di una tetra borghesia russa a rinnovare il gesto di redenzione che il cristianesimo pone a fondamento della storia.
Il principe è un povero Cristo nuovamente mandato sulla terra. La mitezza ancora una volta di fronte alle potenze del male. Di lui non si smette mai di dire che è bello. Questa bellezza potrebbe salvare il mondo. Questo tipo di bellezza, non il suo stereotipo occidentalizzante. Potrebbe salvare il mondo, ma non è detto che ci riesca. Nel romanzo l’esito non è prestabilito. Tutto viene fatto ribollire come un enigma messo alla prova dai fatti. Il primo fra tutti è che il principe Miškin appare come una replica sbiadita del ‘Cristo’ che dovrebbe impersonare, un replicante inadeguato alla resurrezione del suo modello, una reincarnazione scadente che resta prigioniera dei cinici e degli scaltri che vorrebbe confondere. Oppure, che renderebbe tutto ancora più tragico, la rivelazione dell’estrema debolezza di ogni ‘messia’ del passato, del presente e dell’avvenire (la tesi di Nietzsche). Più che semplice, il principe di Dostoevskij si rivela incapace.
* FONTE: VITA E PENSIERO, 09.02.2021 (ripresa parziale).
NOTA
QUALE BELLEZZA SALVERÀ IL MONDO? Affinché la bellezza non degradi in una bruttezza "umana, troppo umana" (asservita a fini ideologici) e conduca direttamente all’inferno , forse, è bene non ridurre lo sguardo ed esaminare attentamente anche l’intero quadro della Madonna Sistina (Raffaello, 1512/1513): a sx, ai piedi di San Sisto, osservare la tiara (con i simboli araldici dell’albero della famiglia dei "della Rovere"), una chiara firma della politica e della teologia di Giulio II ("Della Rovere", appunto), papa guerriero e papa mecenate. Da ricordare, infine, che la Madonna Sistina gioca un ruolo fondamentale nella storia della psicoanalisi ("caso Dora") e, ancora, che alla tomba dello stesso Giulio II, in san Pietro in Vincoli, a cui ha lavorato Michelangelo, è legato lo stesso Mosè tanto apprezzato e ammirato da Freud.
Federico La Sala
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
I RITMI MIMICI DI MARCEL JOUSSE
di Claudio Canal (il manifesto, 2 novembre 2011) *
Non è facile districarsi nei rituali della memoria. Gli anniversari tondi hanno un fascino un po’ sibillino. Cinquant’anni fa morivano Ernest Hemingway, Frantz Fanon, Louis-Ferdinand Céline, Luigi Einaudi, mio zio prete, Gary Cooper, Chico Marx, Patrice Lumumba, Carl Gustav Jung, e alcuni milioni di altre persone, tra cui duecento algerini uccisi dalla polizia a Parigi, e, sempre in Francia, Marcel Jousse, antropologo a noi sconosciuto.
L’occasione di parlare di Jousse non è tanto il cinquantenario
della sua morte, quanto l’uscita in italiano di un suo libro, La sapienza
analfabeta del bambino. Introduzione alla mimopedagogia. A cura di
Antonello Colimberti, traduzione di Ornella Calvarese, Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, 2011, pagg. 254, € 12.
In originale si intitola Il
Mimismo e il linguaggio del bambino. Più che un libro in senso proprio è
la resa stenografica di lezioni tenute nel 1935-36 all’École
d’Anthropologie di Parigi. Va dunque letto “ascoltandolo” e possibilmente
non sovrappensiero, sapendo che se possiamo leggerlo è solo grazie alla
intelligente e quotidiana stenografia di un’allieva, Gabrielle Baron, che gli
ha anche dedicato un indispensabile libro.
Difficile trovare Marcel Jousse nei manuali di antropologia anche se si sbagliava Michel De Certeau ad essergli vicino, stimarlo e a dedicargli nel 1965 un corso? Si sbagliava James Joyce che, avendo assistito nel 1928 alle “pantomime evangeliche” di Jousse in cui si ricreava l’oralità aramaica dei vangeli, scriveva di joussture nel caotico Finnegans Wake? Si sbagliava Roman Jakobson ad apprezzarne l’analisi dello stile ritmico orale? Si sbagliava il Vaticano a bloccare in Italia l’uscita di Le Parlant, la Parole et le Souffle, dopo che le Edizioni Paoline avevano pubblicato nel 1979 il primo testo della trilogia: L’antropologia del gesto, nel 1980 La manducazione della parola [in Francia tutti editi di Gallimard]? Il mio è un sospetto, non ho lo straccio di una prova. Ma anche Antonello Colimberti, che è il più qualificato studioso italiano di Jousse, si fa sfiorare dal dubbio.
Che c’entra il Vaticano? Un po’ c’entra, perché Marcel Jousse era un gesuita che indagava il parlato del rabbi-contadino galileo Yeshũa, l’insegnatore, cioè Gesù, e “la meccanica etnica palestinese” in cui era inserito. Era gesuita anche l’amico Teilhard de Chardin, lo era Michel De Certeau e pure Walter J. Ong, incantato anch’egli dalla parola. Come sappiamo, tutte queste gesuiterie all’opera hanno lasciato il segno nel sapere contemporaneo.
Attorno al lavoro di Jousse, come per tutti coloro che fuoriescono dai codici accademici, disciplinari, culturali, si è costituito un duplice standard di ricezione: o il silenzio assoluto o l’adorazione. E’ molto facile slittare in un attonito mutismo se, sfogliando La manducazione della parola [in Italia posseduto da sei o sette biblioteche], uno trova capitoli intitolati L’intussuscepzione mimismologica dell’insegnatore per manducazione.
Bisogna non farsi impressionare dal lessico un po’ delirante di Jousse, che aspira ad una iper precisione tecnica e, nello stesso tempo, punta a rendere l’oralità che sta sotto ad ogni scrittura. Era proprio ciò che interessava De Certeau: il gesto come fonte della verbalizzazione, il linguaggio vincolato alle leggi del corpo. Scriveva Jousse: “L’uomo pensa con tutto il suo corpo”. E’ questa la ragione per cui è così interessato all’infanzia, perché lì i processi sono in fase di costruzione.
Una delle leggi fondamentali dell’esistenza è, per Jousse, il ritmo-mimismo, cioè il ricevere nel corpo gesti e segnali dalla realtà che si accumulano come “mimemi” e vengono poi “rigiocati” dall’essere umano come pensiero e come azione.
Nelle lezioni contenute in La sapienza analfabeta del bambino Jousse ha il dente avvelenato con la pedagogia del suo tempo, Montessori, Decroly, Dalcroze [quello dell’educazione al ritmo] che, a suo parere, non rispetterebbe la “spontaneità” del bambino. Molta acqua è passata sotto i ponti e se allora la sua critica alle montessoriane “maestre giardiniere” poteva avere qualche ragione oggi è del tutto equivocabile e lascia il tempo che trova, mentre sarebbe da ripensare l’asserzione per cui “il fanciullo muore sotto l’algebrosi che gli viene inflitta”. Messa così sa proprio di malattia grave, per di più trasmessa per infezione dagli adulti: come il simbolo algebrico fa perdere di vista l’oggetto al quale corrisponde, così la parola usurata nasconde l’oggetto e il gesto che gli sta all’origine. La sua degradazione fonetica e semantica genera il virus dell’algebrosi e le persone vengono algebrosate.
La terapia di contrasto sta nella ricerca del “gesto delle cose” che ha generato la parola e il bambino questo lo può ancora fare perché è un “metaforista” spontaneo in quanto giocatore spontaneo. Tutti i gesti passati sono nascosti nella memoria del suo corpo e da lì può tirarli fuori e farli emergere. Per l’adulto è più difficile, il suo corpo algebrosato si scontra con il corpo sociale.
Si vede bene come Jousse abbia problemi con la modernità, e non è il solo,
come sappiamo bene. Qualche volta “bilateralizza”, come direbbe lui.
Sembra spesso in bilico, sul punto di precipitare dal fianco della
Tradizione, con la T maiuscola, con i suoi miti impagliati e le sue Essenze
fossilizzate. Te ne accorgi quando parla di “popoli spontanei” o quando
evoca la sua infanzia contadina come matrice cui tornare. Ma, nonostante
le apparenze, sta lavorando su un altro fianco, estraneo al mito delle
origini.
Infatti: “Essere contadino vuol dire essere in-formato dal proprio
paese. Nella sua accezione forte, il contadino-paesano è il paese rigiocato
dall’essere tutt’intero, mimante, interazionante, bilaterizzante”. Il suo
regime di senso è polifonico e multiverso. Sembra stare in un luogo del
discorso, invece ti aspetta da un’altra parte: ”Nella vita il percorso più
corto da un punto all’altro è la linea curva. L’uomo intelligente è quello
che sa deviare”.
Tutto il suo congetturare sul mimismo, il mimaggio, i mimemi, i mimodrammi, la mimopedagogia, è stato nella sostanza confermato dalla scoperta dei neuroni specchio, cioè del mimismo universale tra gli esseri viventi. Una rivoluzione cognitiva.
Non era un’allucinazione la sua o, se lo era, proiettava luce in avanti. Jousse parla un linguaggio visionario perché abita il futuro: “senza Mimaggio niente Anthropos”.
*
Claudio Canal http://claudiocanal.blogspot.com/
L’Association Marcel Jousse presenta molti materiali su di lui e alcuni dei suoi testi, in francese: http://www.marceljousse.com/index.php
Antropologia. In principio è il gesto: ritorna (finalmente) Marcel Jousse
Ritorna in libreria dopo 40 anni "Antropologia del gesto" del grande gesuita francese, il primo a intuire e teorizzare la relazione tra gestualità, fisiologia del corpo umano e linguaggio
di Simone Paliaga (Avvenire, venerdì 26 agosto 2022)
Figure erratiche costellano di tanto in tanto la storia del pensiero e delle idee. Le ricadute delle loro riflessioni hanno lasciato traccia presso allievi e ammiratori ma il loro ruolo è oramai quasi dimenticato. Se si aggiunge che in taluni casi, per scelta e convinzione, questi maestri occulti hanno lasciato ben poco o nulla per iscritto e hanno rifiutato un qualsiasi inquadramento disciplinare il gioco è fatto. La fama è eclissata alla pari della memoria della loro opera. È il caso del padre gesuita e antropologo sperimentale, come amava definirsi, Marcel Jousse di cui è appena uscito, dopo quarant’anni di assenza dalle librerie, a cura di Antonello Colimberti, presso l’editore Mimesis, L’antropologia del gesto (pagine 426, euro 32,00).
Ma di là dall’intreccio tra psicologia, antropologia, linguistica e pedagogia, l’influenza sotterranea del lavoro di ricerca di Jousse ben travalica i confini delle scienze umane. Mary e Padraic Colum, rispettivamente critica letteraria e poeta, riportano nel loro Our friend James Joyce come alla fine degli anni venti del Novecento, lo scrittore irlandese, nel corso del suo soggiorno parigino, avesse frequentato con assiduità i corsi tenuti da Jousse. Potrebbe essere, secondo taluni critici, questa la via da percorrere per scendere nei penetrali del Finnegans Wakedove Joyce non esita a evocare le “ joussture”. E cosa dire poi dell’idea avanzata da Stephan Dedalus intorno alle origini gestuali del linguaggio?
Ma l’influenza della riflessione del padre gesuita non si riduce solo all’infatuazione di uno scrittore. Se fosse stato così poco innovatore e privo di interesse a Michel de Certeau non sarebbe balenato alla mente di predisporre, nel 1965, alla facoltà di teologia dell’Institut catholique di Parigi, un corso interamente dedicato all’antropologo sperimentale. Né tanto meno di scrivere in una lettera che «sarebbe urgente la riedizione, in uno o due volumi, degli articoli di Jousse e la pubblicazione dei suoi corsi». E lo stesso vale per Walter Ong. Nel suo capolavoro Oralità e scrittura lo studioso si confronta con le tesi di Jousse, sottolineando come «abbia mostrato l’intimo legame esistente fra modelli ritmici orali, il processo respiratorio, i gesti e la simmetria bilaterale del corpo umano». Sullo stesso piano si muove il teologo Gaston Fessard che, già nel 1927, dedica all’antropologo uno studio intitolato Una nuova psicologia del linguaggio: lo stile orale in padre Marcel Jousse.
E solo per concludere il piccolo excursus, esso non è stato marginale nemmeno nelle riflessioni di Ivan Illich dedicate a descolarizzazione della società e alla lettura poi raccolte Nella vigna del testo. Lo stesso vale anche Roman Jakobson e Pëter Bogatyrëv, tra i maggiori rappresentanti del circolo di Praga, che insistono sul ruolo giocato da Jousse nel mettere in luce il ruolo giocato nella creazione letteraria folclorica da corporeità e gestualità. E potremmo proseguire in questa carrellata fino ad arrivare più vicino a noi, sfiorando le indagini evoluzionistiche e neuroscientifiche e in particolare quelle di Michael Corballis, che non ha difficoltà a riconoscere il coincidere di gesto e parola.
Già perché per Jousse in principio c’è proprio il gesto con le sue leggi. Infatti il nucleo principale di questa storia degli effetti del pensiero di un autore dimenticato, si trova proprio in L’antropologia del gesto, il libro postumo, non concluso ma completato, per la sopraggiun-ta scomparsa dell’autore avvenuta nel 1961 settantacinquenne, grazie all’intervento dell’omonima fondazione e soprattutto all’instancabile intraprendenza dell’allieva Gabrielle Baron. A lei si deve, nel corso del tempo, l’impegno a trascrivere parte degli oltre mille corsi che, durante la sua attività di insegnamento svoltasi tra il 1932 e il 1957, Jousse ha tenuto nell’aula Turgot della Sorbona, all’École des Hautes Études, all’École d’Anthropologie e presso il suo Laboratorio di Ritmo-pedagogia.
Per quanto Jousse sia stato allievo di Marcel Mauss e di Pierre Janet, abbia approfondito gli studi nelle lingue classiche, abbia fatto ricerche sul campo negli Stati Uniti presso i nativi delle Grandi Pianure, egli stesso riconosce che la sua autentica formazione sia avvenuta durante i primi anni di vita. Proveniente da una famiglia contadina e analfabeta, gran parte dell’intuizioni che hanno alimentato il suo pensiero, Jousse le ricava nelle cantilene, nelle filastrocche e nella recitazione a memoria dei Vangeli, che la madre gli ha elargito nel corso dell’infanzia.
Ritmo, dondolamento, imitazione sarebbero all’origine dei tre meccanismi che sono alla base dell’Anthropos: ritmo-mimismo, bilateralismo e formulismo. Per Jousse «l’uomo, mimatore per natura, si fa specchio delle interazioni della realtà circostante », riconoscendo il Cosmo come un incessante groviglio di gesti interazionali che lui accoglie, «rigioca» e dispone in successione dando origine anche al pensiero e alla Tradizione. È questa forza dell’Anthropos, misteriosa e irrefrenabile, che permette al bambino di ripetere spontaneamente i suoni, i movimenti, i gesti. E sono proprio questi a costituire il primum fondamentale dell’uomo, perché «prima di fabbricare degli attrezzi, prolungamenti dei suoi gesti, l’Anthropos plasma il proprio gesto».
Alla capacità mimica si aggiunge il bilateralismo, vale a dire il riconoscimento che «l’uomo divide il mondo secondo la sua struttura bilaterale: crea la destra e la sinistra, crea l’avanti e crea l’indietro, crea l’alto e crea il basso. Al centro c’è l’uomo che fa la separazione » e questo svolge un ruolo fondamentale nel processo di cristallizzazione del vivente, che sfocia nel formulismo. Con questa espressione Jousse individua la tendenza dell’Anthropos a stereotipare i gesti, grazie a cui si forma il legame tra le generazioni dando origine a mentalità e le culture. «Per tale motivo il formulismo è fonte di vita per un popolo quando dà origine a formule viventi, portatrici di realtà», ma quando esso si emancipa dalla concretezza viva e sfocia nel suo eccesso per “pigrizia” genera l’“algebrosi”, l’astrattezza, che finisce con il celare il vivente e la realtà all’Anthropos. Che così perde se stesso.
San Giuseppe e la trappola per topi
Il Trittico dell’Annunciazione di Robert Campin è una miniera di simboli mariani. Ma la cosa più curiosa è la bottega di San Giuseppe tutto intento a fabbricare una trappola per topi.
Doveva essere devotissimo di san Giuseppe il committente che sta all’origine della Pala di Robert Campin detta comunemente Pala di Mérode, dal nome della famiglia che la ospitava. Lo si vede, con la moglie, nel pannello di destra della pala. Non abbiamo la certezza circa l’identità dei due coniugi. Il Metropolitan Museum, dove risiede l’opera, identifica il committente con un ricco uomo d’affari del tempo, certo Jan Engelbrecht. Per altri era un mercante di stoffe di Colonia, prossimo alle nozze, Peter Inghelbrecht o Engelbrecht. Quel che rimane certo è il cognome: Engelbrecht che significa: breccia dell’Angelo.
Da qui si comprende il tema del pannello centrale: la rappresentazione dell’Annunciazione nel momento in cui, l’angelo, vero protagonista della scena, irrompe nella stanza di Maria.
La casa di Maria è una casa di pietra, sontuosa e solare, a dispetto della bottega di san Giuseppe, piuttosto piccola, raffigurata nel terzo pannello. Il contrasto è voluto e serve anche per mitigare la novità dell’ambientazione scelta per la Vergine annunciata. Se si confronta quest’opera con altre dello stesso periodo si nota come si fosse soliti rappresentare gli eventi dell’Infanzia del Salvatore, specie l’Annunciazione, dentro Chiese o Cattedrali, quasi a sottolineare la sacralità degli eventi. Qui Campin, per primo, registra invece l’assoluta normalità della casa di Maria.
San Giuseppe invece è presentato come un modesto artigiano, abile e capace, che lavora nel contesto di una città rispettabile. E ne vediamo chiaramente uno scorcio dalla finestra aperta. Anch’egli, del resto come si evince dal turbante, è uomo di tutto rispetto. Tra le altre opere di Robert Campin troviamo il ritratto di un anonimo signore facoltoso (e lo capiamo dall’abito foderato di pelliccia) che porta il medesimo turbante indossato da san Giuseppe. Solo il colore si differenzia: mentre nell’uomo ritratto, il copricapo è rosso, colore peraltro che designava l’alto rango, in San Giuseppe è blu, segno distintivo della diversa qualità del rango di San Giuseppe. Egli era nobile nello spirito e la sua dignità è da collocarsi appunto entro il mistero del piano divino. Insomma San Giuseppe è uomo voluto dal Cielo.
Nel XV secolo, molto prima quindi della proclamazione di san Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (1621), ci fu un movimento popolare (analogo a quello legato al culto dell’Immacolata) che desiderava propagare il culto di San Giuseppe, collocando il Santo al pari degli Apostoli. Gli anni di punta di tale devozione furono proprio quelli in cui venne realizzata questa pala (tra il 1420 e il 1430).
Promotori di questo movimento giuseppino furono il Card Peter d’Ailly (1350-1425) vescovo di Cambrai e il suo pupillo John Gerson (1363-1429) che, nel concilio di Colonia (1416), proposero appunto di elevare San Giuseppe al livello degli apostoli.
Robert Campin ci permette di entrate nella bottega del Santo raccontandoci nei mini particolari il suo lavoro.
Il desco appare così inclinato, nella sua prospettiva, da dare l’impressione di volersi rovesciare. Siamo così costretti a guardare gli strumenti da lavoro di san Giuseppe: tenaglie, martello, chiodi. Sono chiari riferimenti alla croce, supplizio sopra il quale morirà quel Figlio che sta per essergli dato. Come si narra, appunto nel pannello centrale dell’Annunciazione della Vergine.
Sul desco di Giuseppe, però, c’è un oggetto, che pur riconoscendolo, fatichiamo a comprenderne il senso. Si tratta di una trappola per topi. A ben vedere ve ne sono due: una in via di costruzione e una seconda, in funzione, sul davanzale della finestra. Il senso di un simbolo tanto bizzarro lo spiega Sant’Agostino in uno dei suoi discorsi (256): «Il diavolo ha esultato quando Cristo è morto, ma per la morte di Cristo, il diavolo è stato vinto, come se avesse ingoiato l’esca nella trappola per topi. La croce del Signore era una trappola per il diavolo, l’esca con cui è stato catturato era la morte del Signore». Ecco, dunque, l’ignaro Giuseppe fabbricare quell’elemento che sarà per l’uomo simbolo di liberazione: «dov’è o morte la tua vittoria?». Ripete instancabilmente l’Apostolo: Cristo ci ha liberato. Anche Lorenzo Lotto, in una delle sue natività, colloca la propria firma sopra una trappola per topi.
Il topo, del resto, per la sua facilità riproduttiva e la rapidità del suo agire, è da sempre simbolo di lussuria e di disonestà. Fra il ricchissimo bestiario di Jeronimus Bosch, il topo compare sovente, proprio a significare l’ingannevole audacia del male. Mentre l’uomo si lascia ingannare dal tentatore, Cristo gioca il male sul suo stesso terreno. Il diavolo, infatti, ingannato dall’umanità del corpo di Cristo, addenta la preda, ma il veleno della vita, nascosto nella divinità di Cristo, lo ucciderà.
A questo significato attribuito alla trappola, in riferimento a Cristo e alla sua passione, concorrono altri elementi del pannello. Ai piedi di San Giuseppe c’è una sega, strumento che - secondo la predicazione del tempo - san Pietro usò per tagliare l’orecchio a Malco, nel giardino degli ulivi; mentre, più a lato, vediamo una scure piantata solidamente in un ceppo. «La scure è alle radici», proclama il Battista all’inizio della sua predicazione: di fronte alle malizie del male, cui l’uomo presta il fianco, c’è un giudizio inappellabile che si compie, quello della verità. Ora, con la venuta di Cristo e con la sua passione (come si vede nel pannello centrale dove Cristo raggiunge il grembo della Vergine imbracciando una piccola croce), si compie il tempo definitivo del giudizio sulla storia.
Non possiamo fare a meno di notare però che san Giuseppe è intento a tutt’altro lavoro che apparentemente poco ha a che fare con la trappola in fabbricazione collocata sul desco. San Giuseppe sta forando una tavola di legno con fori a intervalli regolari. Vediamo l’oggetto perfettamente compiuto nella casa di Maria, proprio dietro le sue spalle, Si tratta di un parafuoco. Il soggetto iconografico della Madonna del Fuoco o del parafuoco, è abbastanza frequente in quel secolo, lo stesso Campin ne realizza alcune, e vuole indicare la verginità della Vergine. Sia per il riferimento al roveto ardente che arde senza consumarsi, sia per il riferimento al fuoco della passione che rimase estranea alla Vergine e quindi anche al coniuge, san Giuseppe.
Allora comprendiamo il simbolo: san Giuseppe fu custode non solo del Redentore ma anche della castità di Maria. Il diavolo sapeva, per il versetto di Isaia 7,14, che Cristo sarebbe nato da una Vergine, ma mai si sarebbe immaginato che questa Vergine avrebbe contratto matrimonio. Sposando San Giuseppe e rimanendo illibata con lui nel matrimonio, il diavolo fu confuso e non comprese la natura divina del Cristo. Perciò, non solo Cristo fu trappola per il demonio, ma anche lo stesso San Giuseppe. La sua santità confuse le aberrate prospettive del Maligno, il quale è incapace di comprendere come le straordinarie vie di Dio possano intrecciarsi con l’ordinarietà della vita. Sì, una vita straordinariamente ordinaria quella di questo anziano Giuseppe che lavora placido accanto alla casa della sua futura sposa! Egli sa che il suo ruolo è quello di custode e si prepara, fabbricando quegli oggetti che più profondamente lo possono portare a identificarsi con il piano divino e ad aderirvi con tutta l’obbedienza del cuore.
* Fonte: Monache dell’Adorazione Eucaristica (Adoratrici.it, 15.03.2020 - ripresa parziale, senza immagini).
La vittima e il sacrificio. L’agnello pasquale tra rito e sensibilità moderna
Perché l’uccisione di questo animale è motivo di scandalo nella società dei consumi? Lo storico Franco Cardini ci spiega la ragione della contraddizione più sentita nelle festività pasquali
di Daniela Guaiti (Linkiesta, 29.03.2021).
«L’uomo per purificarsi deve passare attraverso il fuoco del Signore. Egli è la fiamma divoratrice, che consuma il grasso delle primizie nella festa dell’equinozio, là fuori, davanti alla tenda, mentre si fa buio, e noi dentro sediamo timorosi e mangiamo dell’agnello, il cui sangue colora gli stipiti, perché passa l’Angelo sterminatore». Thomas Mann, “Giuseppe e i suoi fratelli”.
L’agnello, la vittima innocente: dalle “Bucoliche” di Virgilio alla Bibbia, al teatro greco, i riferimenti letterari al candore del sacrificio più gradito alla divinità testimoniano il profondo valore di un rito diffuso in tutte le civiltà antiche.
Figura del Redentore, nella cultura cristiana l’agnello diventa simbolo di resurrezione, centro della Pasqua nelle celebrazioni liturgiche come nelle tradizioni popolari. E, in nome di questa tradizione, in Italia la festività pasquale vede da secoli l’agnello protagonista sulle tavole, in decine di preparazioni regionali diverse.
Un menu che si scontra con la nuova sensibilità ecologista e animalista: la levata di scudi contro la “strage degli innocenti” non coinvolge solo i vegetariani, ma anche chi consuma comunemente carne durante l’anno. Perché? «In questo momento sembra irrazionale uccidere un animale in nome di un’esigenza rituale, di un credo religioso; ci si indigna di fronte a un’uccisione che non è funzionale a nulla e non si riesce a concepire il fine ultimo di un momento rituale».
Così Franco Cardini, scrittore, giornalista, saggista, professore Emerito dell’Istituto italiano di scienze umane alla Scuola normale superiore di Pisa, storico che, al di là dei titoli accademici, è da sempre capace di raccontare il passato al grande pubblico.
«È un po’ come per il toro nella corrida: gli uomini oggi non sono più in grado di capire la necessità di ritrovarsi in comunità a celebrare un rito, che è di per sé uno spreco, perché non offre un concreto riscontro immediato». Manca dunque la consapevolezza di una identità culturale legata al passato, così come si è perso completamente il valore simbolico della vittima: «L’agnello pasquale», spiega Cardini, «non rimanda più a nulla: non si conosce più l’arte che lo raffigura, né la musica che lo celebra, si presta attenzione solo al povero animale che soffre in nome di qualcosa che non si può toccare con mano. E lo si vede soffrire perché è sotto i riflettori. Paradossalmente si ignora la sofferenza di tanti bambini, cuccioli umani, che patiscono fame e malattie, ma non si vedono: possiamo voltare la testa da un’altra parte».
È il valore immediato dell’apparire a dominare nella società attuale: «Possiamo comprare costosi capi di vestiario, spendendo cifre sufficienti a sfamare un intero villaggio africano per settimane. In questo non c’è scandalo. Ma il sacrificio di un montone in pubblico, come viene ancora oggi richiesto nelle festività tradizionali dell’Islam, questo fa scandalo».
Il simbolo come punto di riferimento per l’essere umano si è perso: «Abbiamo sradicato Dio dal centro della vita, e ci abbiamo messo l’uomo. Ma a patto che questo uomo non attribuisca un valore al cosmo, concepito come una grande macchina che gira senza senso: siamo liberi, dobbiamo essere liberi, ma la nostra libertà è quella dei marinai che, aggrappati a un relitto, vagano nel mare buio sotto un cielo senza stelle a guidarli. Oggi non solo non c’è più posto per il rito, ma neppure per la metafisica. Tutto deve essere centrato sull’uomo nel momento in cui vive, su quella che Nietzsche chiamava “volontà di potenza”: una potenza che non è più quella militare, ampiamente condannata, ma quella del denaro. Tutto viene riassorbito dal sistema economico: basti pensare a cosa è diventato il Natale, la festa dei consumi assolutamente slegata dal Dio fatto uomo che dovrebbe esserne il centro. Ma il Natale è una porta lasciata socchiusa sull’aldilà. Si continua ad aver paura della morte e a sperare che dopo ci sia qualcosa: e arriva prima o poi il momento in cui, davanti alla morte propria o di una persona cara, si ritorna al pensiero arcaico».
Ugualmente la Pasqua è oggi una Pasqua senza resurrezione, e senza vittima: «Si prepara la colomba di farina, acqua e lievito, non si mangia più l’agnello di carne perché a scandalizzare è il sacrificio, la sofferenza in nome di qualcosa di “inutile”. I gesti rituali, spogliati di ogni valore, sembrano fatti in gloria del nulla; rimane solo la crudeltà. Ma nelle società contadine l’animale veniva ucciso con rispetto. Il sacrificio non dà piacere a chi lo compie, anzi, va celebrato con gesti e attitudine privi di gioia, ma carichi di rispetto. Chi compra asetticamente la carne in un supermercato non entrerebbe mai in un mattatoio, lo fa con indifferenza: in una società tradizionale può esserci crudeltà, mai indifferenza. E del resto i sacrificatori venivano addestrati perché avessero consapevolezza del loro mandato».
E nelle società tradizionali non solo il sacrificante, ma tutta la comunità è chiamata a partecipare alle celebrazioni. La collettività si fa parte attiva e, una volta di più, consapevole, della solennità. È questo un altro aspetto che viene a mancare nel nostro modo di vivere.
«Assistiamo - spiega Cardini - a un rovesciamento all’interno della società occidentale: un tempo si lavorava da soli o in piccoli gruppi, per poi partecipare alle festività tutti insieme. Oggi Dio è morto: non c’è più necessità di ritrovarsi per glorificarlo, mentre il lavoro è diventato occasione di socialità. Si lavora insieme e si festeggia da soli, o con il proprio nucleo familiare. La festa è stata abolita e sostituita con il tempo libero: cambia la qualità; il tempo della festa era dedicato a qualcosa di altro da sé, alla comunità o alla divinità, era un tempo diverso da quello della quotidianità, in cui ci si vestiva con cura, si compivano ritualità precise, si mangiavano cibi speciali. Una liturgia non solo religiosa, ma fatta di abitudini secolari codificate. Oggi al contrario la festa è il giorno in cui ciascuno può fare quello che vuole, libero dai doveri del lavoro. Abbiamo rinunciato a scandire la nostra vita con momenti di spiritualità collettiva».
In una società dominata in gran parte dall’indifferenza, l’agnello continua comunque a far discutere e a far emergere le contraddizioni presenti nel nostro mondo. E per chi non rinuncia a cucinarlo, come per chi non tollera che venga ucciso, continua in fine dei conti a essere un simbolo, così come lo è stato all’alba della civiltà occidentale.
«Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno [...]. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. [...]. È la Pasqua del Signore!» (Esodo, 12, 5-12).
COME NASCONO I BAMBINI? LA “RISPOSTA” DELLA TRADIZIONE CATTOLICA NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA...
SOLLECITANDO CON QUESTA “RIPRESA” UNA LODEVOLE E RINNOVATA ATTENZIONE AL TEMA DELLA “ANNUNCIAZIONE” NELLA RAPPRESENTAZIONE ARTISTICA E RICORDANDO CHE L’EVENTO “rappresenta il momento in cui l’arcangelo Gabriele annuncia a Maria il concepimento di Gesù e la sua incarnazione [...] il 25 marzo, precisamente nove mesi prima della Natività di Cristo”, e, che “Iconograficamente la composizione vede protagonisti la Vergine, la colomba dello Spirito Santo e l’angelo annunciante”, FORSE, è UTILE riconsiderare come nel “corso dei secoli è cambiato il modo di rappresentare il tema” E ANCORA, se si vuole, cominciare a riesaminare con attenzione proprio il “mosaico dell’Annunciazione” di Pietro Cavallini (del 1291 - vedi, sopra: la seconda figura dell’articolo) e, poi,proseguire con le opere specifiche degli artisti “fiamminghi quali Van der Weyden, Campin, i quali dipingono la Vergine colta nella sua quotidianità domestica all’arrivo dell’angelo Gabriele” - e osservare con attenzione, IN PARTICOLARE, l’immagine del pannello centrale della “ANNUNCIAZIONE” (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin#/media/File:Robert_Campin_011.jpg) del “Trittico di Mérode” (1427) di Robert Campin (https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Campin).
Proseguendo e, non dimenticando di riflettere anche sulla rilevanza per gli artisti del lavoro del cardinale Gabriele Paleotti sulle immagini sacre (“Discorso intorno alle immagini sacre e profane”, del 1582), è opportuno arrivare all’attuale presente storico (il prossimo 25 marzo è anche il giorno della prima Giornata dedicata all’opera e alla memoria di Dante - il “Dantedì”) e ricordare quanto “poco fa”, proprio all’inizio del Terzo Millennio dopo Cristo, il CARDINALE CASTRILLON HOYOS (proprio come un artista del 1200 o del 1400) dichiarò alla XV conferenza internazionale del Pontificio consiglio: “Duemila anni fa, un ovulo fu miracolosamente fecondato dall’azione soprannaturale di Dio, da questa meravigliosa unione risultò uno zigote con un patrimonio cromosomico proprio. Però in quello zigote stava il Verbo di Dio” (la Repubblica del 17 novembre 2000, p. 35).
Forse, in questo “Anno speciale di San Giuseppe” indetto da papa Francesco (cfr. “DE DOMO DAVID”?! GIUSEPPE, MARIA, E L’IMMAGINARIO “COSMOTEANDRICO” .. https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-262319), sarà possibile sapere come nascono i bambini e le bambine e sarà possibile avere un’altra rappresentazione artistica della nostra stessa nascita?! Con Dante, non c’è affatto da dubitare: “L’amore muove il sole e le altre stelle” - e anche la Terra!
Buon lavoro...
"ECCE HOMO" (PONZIO PILATO - NIETZSCHE). Chi ha perduto il filo del messaggio evangelico? ... *
Chi ha perduto il filo del cristianesimo?
Gli orrori del Novecento hanno favorito un nuovo “ateismo”. Occorre ritrovare la forza insostituibile del messaggio di Cristo. Due saggi di Ryrie e De Angelis
di Roberto Righetto (Avvenire, mercoledì 10 febbraio 2021)
«La filosofia hegeliana era stata la forma più compiuta di quella laicizzazione del cristianesimo in cui consiste il pensiero moderno, sì che la sua dissoluzione ha posto un’alternativa, ch’è ancora l’alternativa d’oggi: o condurre sino in fondo la secolarizzazione del cristianesimo verso le forme più radicali di ateismo e di nichilismo, o recuperare il cristianesimo nella sua genuinità religiosa. Insomma, fine o ritrovamento del cristianesimo, questa è l’alternativa d’oggi, e si tratta d’un’alternativa filosofica». Così il filosofo Luigi Pareyson in uno dei suoi ultimi scritti. Una linea radicale che suonava come un verdetto impietoso verso le filosofie contemporanee ridotte all’analisi dei giochi linguistici o alla sudditanza verso la scienza. In questa direzione muovono anche due saggi recenti: Il senso di non credere. Una storia emotiva del dubbio di Alec Ryrie (Utet, pagine 306, euro 23) e Serve ancora Dio? La via di Nietzsche oltre il nichilismo di Massimo De Angelis (Castelvecchi, pagine 288, euro 25).
Partiamo da quest’ultimo, dato che Nietzsche è visto da molti come il sostenitore della "morte di Dio" e l’iniziatore del nichilismo in Occidente. Ma è davvero così? Già il grande antropologo francese René Girard, nel volume Il caso Nietzsche, aveva definito il pensatore tedesco «il preteso distruttore del cristianesimo », anzi «la migliore conferma». Soprattutto negli ultimi tempi, quando firma i suoi aforismi a volte Dioniso a volte Cristo, e a volte entrambi, Nietzsche vuole parteggiare per l’antica divinità pagana e lo oppone a Gesù ma questo suo tremendo sforzo di autoconvincimento lo porterà alla pazzia.
Il saggista De Angelis, già direttore della rivista "Nuova civiltà delle macchine" rileva come la critica del filosofo di Sils Maria al cristianesimo fosse rivolta al suo impianto metafisico e morale, e ricorda l’analisi che fece della malattia il professor Kaftan, secondo cui Nietzsche «non riuscì mai a dimenticare e a superare completamente il cristianesimo, giacché a Dio era destinato e soltanto Dio avrebbe potuto dare una forma grande e armoniosa alla ricca vita spirituale che sgorgava in lui». Tesi contraddette dagli amici più prossimi come Overbeck e Koselitz, ma in un certo senso confermate da Lou Salomé, per la quale l’incontro- scontro con Cristo è rimasto in lui una questione irrisolta e causa di dolore estremo.
La lezione che ci lascia Nietzsche, dopo la demolizione della metafisica e la proclamazione della morte di Dio, è una sfida aperta per un pensiero cristiano che torni alle origini e riscopra la dimensione mistica. Come ha scritto Karl Jaspers: «Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara la trascendenza che egli non mostra». In questo senso ha ragione ancora Girard a definirlo un «pensatore religioso». Si ritorna al passo di Pareyson citato all’inizio, all’alternativa fra un ateismo nichilista e un cristianesimo genuino, non sentimentale né consolatorio.
E qui ci aiuta l’analisi di Ryrie, pastore anglicano e storico delle religioni. La sua è una difesa di un cristianesimo che non dimentica la sfida del dubbio. Ricostruendo la «storia dell’assassinio filosofico di Dio», a suo parere assai più lontana nel tempo rispetto al cliché consolidato del libertinismo e dell’illuminismo come padri della non credenza, Ryrie prende spunto dal dato di fatto inoppugnabile della crisi della fede oggi in America ed Europa a tutto vantaggio dell’agnosticismo e dell’ateismo. Ma contrasta quanto affermato da Charles Taylor nel suo famoso saggio L’età secolare: «Perché era virtualmente impossibile nella nostra società occidentale non credere in Dio, ad esempio, nel 1500, mentre nel 2000 a molti di noi questa appare come una scelta non solo facile, ma quasi inevitabile?». Secondo Ryrie anche durante i cosiddetti secoli cristiani coloro che avevano una fede vera non erano certo la maggioranza ed esisteva comunque chi si dichiarava ateo. E cita vari casi di rivolta verso la Chiesa già in età medievale, anche se all’epoca non si usava certo la parola "ateismo". Da Federico II a Jacopo Fiammenghi e Thomas Tailour, è lungo l’elenco di quanti espressero risentimento verso Dio e scetticismo sulla vita eterna, oltre che rancore verso vescovi e preti. E’ nel ’500 e ’600 poi soprattutto che la ribellione si fa ideologia, dagli umanisti Sozzini e Harvey ai più noti filosofi Hobbes e Spinoza e ai drammaturghi inglesi Marlowe e Jonson. È un ateismo fatto di rabbia e ansia insieme: rabbia per i tradimenti del cristianesimo commessi dai suoi leader e ansia per non essere all’altezza della fede. Così il poeta John Donne poteva distinguere fra «l’ateo presuntuoso, che non crede in alcun Dio», e «l’ateo pensoso, che crede che Gesù non sia sceso in terra per lui». E oggi?
Secondo il pastore anglicano il cristianesimo è inciampato negli orrori del nazismo. Non solo perché questa efferata ideologia è cresciuta in una terra cristiana, ma perché i suoi orrori hanno stabilito nel corso del ’900 un nuovo ordine morale da non oltrepassare, mettendo da parte la visione cristiana delle cose. ’Umanesimo’ è la nuova dottrina cui anche il cristianesimo si deve piegare. Una nuova struttura etica sempre più diffusa (Chesterton l’avrebbe definita ’umanitarismo’) e il cui sostegno è la sola ragione umana. La fede viene messa in disparte. Secondo Callum Brown, autore di una storia orale della miscredenza moderna (Becoming Atheist), col genocidio nazista il cristianesimo ha subito uno smacco. «Ha fallito - commenta Ryrie - non solo nel senso che molte chiese e moti cristiani erano più o meno collusi con nazismo e fascismo, ma in un senso più ampio: la crisi globale rivelò che le priorità morali del cristianesimo erano sbagliate. Era ormai evidente che crudeltà, discriminazione e omicidio erano espressioni del male in un modo ben diverso da fornicazione, blasfemia ed empietà».
Di fronte a questa sfida quale risposta è possibile? Essendo anglicano, Ryrie non cita la svolta del Concilio Vaticano II e gli ultimi pontificati: è convinto che il passato non può tornare e che bisogna riannodare i fili del dialogo fra un’etica cristiana e un’etica laica umanista. Rinunciando a ogni cedimento ai richiami nazionalistici che oggi subiscono molti cristiani europei ed essendo certi della forza insopprimibile della proposta: «Neanche l’ascesa umanista è una nuova realtà solida. Le strutture morali delle nostre culture sono state sempre mutevoli, e sempre lo saranno. Le nostre credenze, inevitabilmente, seguiranno le loro mutazioni. Il finale di questa storia riguarderà tutti, credenti e miscredenti».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Sul tema, le pagine dell’uno e dell’altro (con alcune note)
FLS
Tutte le voci cantano la Fede e la Speranza
Virtù teologali. Sul tema Eugenio Borgna ripercorre le strade cliniche delle terapie psichiatriche e ricorda le riflessioni di scrittori e pensatori, da Leopardi a Sant’Agostino, da Kierkegaard a Bloch.
di Gianfranco Ravasi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 08.11.2020, p. X)
«È sperare la cosa difficile - a voce bassa e vergognosamente. E la cosa facile è disperare, ed è la grande tentazione». Così Charles Péguy nel suo poema Il portico del mistero della seconda virtù (1911), dedicato a questa che è appunto la seconda delle virtù teologali, la «sorella più piccola» rispetto alle altre due, la fede e la carità. Ma, come spesso accade ai bambini che strattonano i loro genitori fermi per strada davanti alle vetrine o a chiacchierare con una persona incontrata, è la speranza a far avanzare le due sorelle maggiori nella via della vita.
A questa virtù e al suo rovescio oscuro, la disperazione, lo psichiatra Eugenio Borgna ha riservato un fascicolo essenziale di pagine, ma che mettono a dura prova il recensore perché sarebbero quasi semplicemente da trascrivere, tanto sono trasparenti e intense, frutto anche di una ricerca come la sua, condotta non solo sui picchi innevati e soleggiati della speranza ma anche negli abissi oscuri e nelle caverne tenebrose della disperazione. Strettamente parlando la sua riflessione è impostata su un dittico.
La prima tavola evoca l’orizzonte immenso che sboccia dalla speranza, vista come «infinita ricerca di senso». Curiosamente la parola spes è ancorata alla radice indoeuropea spat- che genera anche spatium. In realtà questa virtù è più annodata alla categoria «tempo», è infatti soprattutto proiezione sul futuro, sia pur tenendo i piedi piantati nel presente e con le spalle e il volto pronti a girarsi anche verso il passato. Non per nulla il secondo quadro del dittico s’intitola la «speranza come memoria del futuro», intrecciando così in pienezza la tridimensionalità del tempo alla maniera agostiniana. Davanti alle due tavole il lettore è invitato a scoprire i registri molteplici che le compongono.
Da un lato, attesa e paura, etica ed escatologia, ma anche il piombare nel gorgo del suicidio. Emozionante è l’esegesi del diario di Pavese con le sue righe roventi, con le trame inquietanti e sospese fino all’approdo in quell’ultima pagina fremente che vira persino verso un’invocazione orante («Tu, abbi pietà») ma che sarà suggellata da un freddo dato di cronaca: «nella notte tra il 26 e il 27 agosto 1950 moriva ingerendo alte dosi di barbiturici». Borgna convoca, infatti, nella sua ricerca almeno due tipologie testimoniali. Ci sono le voci delle persone che hanno percorso le strade cliniche delle terapie psichiatriche.
L’autore, però, non le fa risuonare mai secondo un freddo referto medico (come è noto, egli ha praticato anche questa via nel manicomio femminile di Novara), bensì si rivela un compagno di viaggio, persino tenero e delicato, con la ricchezza della sua umanità che ben conoscono tutti coloro che l’hanno incontrato (tra l’altro, uno dei suoi testi precedente s’intitolava L’ascolto gentile).
D’altro lato, c’è una voce ulteriore dalle mille iridescenze, ed è quella molteplice degli scrittori, a partire dall’amato Leopardi, ma anche dei pensatori come Agostino, Kierkegaard o Bloch e persino del cinema col folgorante balenare del Posto delle fragole di Bergman, parabola ideale della «memoria del futuro», e dell’apostolo Paolo con la sua lezione sullo «sperare contro ogni speranza».
Come dicevamo, tante altre sono le suggestioni che fioriscono nel lettore di questo volumetto che è posto all’insegna di un incisivo detto leopardiano: «Insomma la disperazione medesima non sussisterebbe senza la speranza, e l’uomo non dispererebbe se non isperasse». Per il teologo, poi, è aperto un campo molto vasto di ricerca e non solo per la meta escatologica che regge il concetto di storia della salvezza (l’Apocalisse insegna), ma per il profilo stesso del Dio cristiano e per la sua parola che invita l’umanità ad alzare sempre lo sguardo, come è dimostrato dall’importante Teologia della speranza di Jürgen Moltmann (1964), tradotta dalla Queriniana di Brescia.
Si è già detto che la speranza ha una sorella maggiore nella carità, e a questa virtù dedica un suo studio un docente universitario, Stefano Biancu, ma lo fa da un’angolatura molto originale. Certo, il dettato ora è quello accademico e le pagine hanno rimandi sistematici e grondano di note, ma l’approccio potrà interessare molti. Se volessimo sintetizzarlo in modo semplificatorio, potremmo ricorrere proprio al titolo, Il massimo necessario. L’amore, infatti, è di sua natura eccedente, non calcola, anzi sciala, tant’è vero che quando due innamorati cominciano a soppesare il valore dei regali che si sono fatti, è segno che stanno per lasciarsi.
Non per nulla, il Nuovo Testamento ha coniato come suprema definizione divina quella giovannea che suona ho Thèos agápe estín, «Dio è amore». La carità s’incrocia con l’infinito e l’eterno e san Paolo ci ha lasciato uno strepitoso inno dell’agápe nel c. 13 della Prima Lettera ai Corinzi, ove dichiara che «la carità non avrà mai fine» (letteralmente «non cadrà mai»).
Per illustrare questa qualità «eccessiva» dell’amore, che diventa anche la cartina di tornasole dell’autentica etica, Biancu ricorre a un curioso vocabolo adottato dalla tradizione teologico-morale, «supererogatorio». Il termine ha la sua sorgente genetica nella versione latina di un celebre passo del Vangelo di Luca, quello dalla parabola del Buon samaritano (10,29‑37): dopo aver raccolto, curato e condotto in un albergo la vittima di un assalto di brigantaggio, il samaritano rassicura l’albergatore - al quale ha già consegnato due denari - di non esitare a «spendere di più» qualora fosse necessario, pronto a rifondere la spesa successivamente (v. 35).
Quello «spendere di più» nel greco neotestamentario è un hapax, prosdapanáô, che si basa sui termini correlati dapánê, «spesa», e dapanáô, «spendere», e che san Paolo userà in un’altra forma composita, ekdapanáô, proprio per indicare il suo «spendersi senza riserve, il consumarsi, il sacrificare se stesso» per l’evangelo (2Corinzi 12,15).
Eccoci, dunque, nel cuore dell’amore che anela al massimo della donazione e che, nel suo scritto, Biancu incarna in una categoria radicale, la fraternità. Essa si sostiene su una duplice base: da un lato, la libertà e l’uguaglianza, che appartengono alla modernità politica e secolare; d’altro lato sull’ospitalità e sul perdono, virtù pertinenti soprattutto alla morale religiosa e che, alla fine, sfociano nella «misericordia impensabile». Non per nulla, a quest’ultimo proposito, Antico e Nuovo Testamento, pur nella loro diversità linguistica, per esprimerla non ricorrono come nel nostro caso al «cuore» (misericordia), bensì al grembo materno (rahamîm in ebraico, splánchna in greco) che simboleggia un amore totale, assoluto, istintivo e radicale.
È quello che Cristo aveva rappresentato nell’asserto pronunciato nell’ultima sera della sua vita terrena nel Cenacolo: «Non c’è amore più grande di chi dà la vita per la persona che ama» (Giovanni 15,13). Naturalmente molto ramificato e sostenuto da un ampio apparato di riflessioni, di applicazioni, di rimandi alla ricerca filosofica è lo studio proposto dall’autore. Certo è che il paradigma del «supererogatorio » è un po’ la pietra di paragone del «dovere» veramente umano e dell’etica genuina, nonostante la deriva attuale che, tendendo sempre al minimo, impedisce e rende incapaci di tentare l’ascesa verso l’alto, fino al «massimo necessario».
Una delle domande conclusive che affiora nel testo è, allora, questa: «come pensare l’antropologia, l’etica, la politica a partire da ciò che è stato fino ad ora impensabile?».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM".
L’ULTIMO PAPA CEDE IL PASSO A ZARATHUSTRA: "CHI AMA, AMA AL DI LA’ DEL PREMIO E DELLA RIVALSA". Una pagina di Nietzsche
Federico La Sala
I DUE CRISTIANESIMI, I DUE PAPI, E LA PENA DI MORTE.....
Lupus in pagina
Fede definita e pena capitale: insieme, ma «con moderazione»?
di Gianni Gennari (Avvenire, 07.0 8.2018)
"Life Site News" 3/8: «La liceità della pena di morte è una verità di fede cattolica... de fide tenenda, definita dal Magistero ordinario e universale della Chiesa... Chi afferma che la pena capitale è in se stessa un male cade nell’eresia». Così Roberto De Mattei, con testo dal latino: «Si può esercitare la pena di morte senza peccato mortale, a condizione che la vendetta sia esercitata non per odio ma per giudizio, non in maniera imprudente ma con moderazione».
Ormai contiamo anche «sette accuse» esplicite di «eresia» a papa Francesco, ma qui fa pensare quell’uccidere «con moderazione»: si prenderà esempio dai briganti che nel Vangelo lasciano al Samaritano quel poveraccio «emithanè», solo «mezzo morto»? Quindi, in rete, esemplare chiarezza non solo evangelica ma anche storica con rimando al «Concilio di Trento» parte III, al «Catechismo maggiore di San Pio X», sempre «parte III» e, oltre queste "modernità" esibite, anche alla «lettera del 18 dicembre 1208» di Innocenzo III contro i Valdesi. Se la fede cattolica continua a sopravvivere, insomma, lo dobbiamo a questi professori integerrimi, infrangibili, che sfidano Chiesa e mondo senza tema del ridicolo.
Altri tempi, se avessero incontrato un Galileo Galilei lo avrebbero condannato, e in coerenza con tanto passato, anche "bruciato" - cosa che quei "lassisti" e "modernisti" del 1600 non hanno fatto! - ma con moderazione, accendendo il fuoco a poco a poco, magari con una sigaretta elettronica, perché la loro vera modernità è aperta e immediata.
A proposito, in questi giorni si parla del 50° della Humanae vitae di un Papa che loro non hanno mai gradito del tutto, ma stavolta lo hanno approvato in pieno, con una sola condizione, esplicita e firmata dallo stesso di cui sopra: non va letta alla luce del Concilio e del Vangelo, ma «alla luce della Casti connubii» di Pio XI, del 1930! Sempre in anticipo: la classe non si smentisce mai!
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DUE PAPI IN PREGHIERA: MA CHI PREGANO?! Bergoglio incontra Ratzinger: "Siamo fratelli". Ma di quale famiglia?!
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere
I "DUE CRISTIANESIMI" E LA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. "Perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto?".
Federico La Sala
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”... *
Gli inediti che Nietzsche non si sentì di pubblicare
di Federico Vercellone (La Stampa, 30.11.2017)
Le eredità culturali sono un lascito molto più pesante di quanto forse, a prima vista, verrebbe da pensare. La relazione con il passato, come ben sappiamo, è determinata da una scelta tra memoria e oblio, tra ciò che va ricordato e quanto invece si può dimenticare senza troppo danno o addirittura con vantaggio. Il passato non sta lì, una volta per sempre, come qualcosa di irrevocabile, bensì come ciò che con sforzo ricostruiamo per e nella coscienza del presente. In questo contesto si propone anche la relazione rinnovata che viene fornita dalle edizioni critiche avviate nella seconda meta del secolo scorso dei grandi classici del pensiero filosofico tedesco dell’800: vere e proprie rivisitazioni di un autore, come testimoniano anche le Opere complete di Nietzsche. Lo dimostra egregiamente l’Introduzione a Nietzsche di Carlo Gentili, uno dei massimi specialisti contemporanei del filosofo, comparsa recentemente presso il Mulino.
Siamo stati abituati a vedere in Nietzsche un autore prometeico che propone al centro del suo pensiero concetti paradossali come quelli di Volontà di potenza, Eterno ritorno e Superuomo. Martin Heidegger era arrivato addirittura ad affermare che tutta l’opera edita di Nietzsche non costituiva altro che l’antiporta del suo pensiero consegnato, nel nucleo fondamentale, alla silloge postuma La volontà di potenza.
Gentili rammenta molto opportunamente che questi inediti, risalenti all’ultima fase della vita cosciente del filosofo, non a caso non furono pubblicati da Nietzsche. Si tratta di esperimenti in cui si affacciano prepotentemente concetti come quelli di Superuomo e di Volontà di potenza che hanno molto meno peso negli scritti pubblicati da Nietzsche stesso. Ciò significa che si tratta di tentativi di cui il loro stesso autore non era pienamente convinto.
A questa luce è la stessa immagine del pensiero di Nietzsche a modificarsi profondamente. Non abbiamo più a che fare con l’outsider che sovverte gli ordinamenti stabiliti, ma con un grande classico del pensiero che ben si inserisce nella tradizione filosofica con una cifra scettica e neokantiana che lo rende un geniale anticipatore delle grandi filosofie della crisi di inizio Novecento.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
"Kant, sapeva - come e più di Nietzsche - che bisogna perdere“la fede in Dio, nella libertà e nell’immortalità [...] come si perdono i primi denti”, scendere all’Averno (come scrive Kant) o, che è lo stesso, all’inferno (...) Molti filosofi sono andati all’inferno, ma non ne sono più usciti; qualcuno è riuscito a venirne fuori, ma non sa nemmeno come e perché, e si illude e sogna ancora, alla Swedenborg (...)".
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Giorgio Agamben: "Il vero Karma dell’Occidente"
Nel suo nuovo libro, “Karman”, il filosofo affronta il tema del rapporto tra un’azione e le sue conseguenze. -Un saggio che analizza i fondamenti dell’etica e del diritto, della teologia e delle filosofie orientali
di CHIARA VALERIO (la Repubblica, 27 agosto 2017)
Se, in questa vita, rispondiamo delle nostre azioni attraverso il sistema delle leggi, e nell’altra ne rispondiamo, secondo il buddismo, attraverso reincarnazioni successive, il motivo sta - scrive Giorgio Agamben nel saggio Karman - nel fatto che morale religiosa, diritto ed etica fondano sul principio per cui ogni azione è legata alle sue conseguenze, e noi, a tale principio, soggiaciamo. Qualche anno fa Agamben ha diviso il mondo in due gruppi. Gli esseri viventi e l’insieme di istituzioni, saperi e pratiche che controllano e orientano i gesti e i pensieri degli esseri viventi: i dispositivi.
Professore, il diritto - le cui porte, se fosse un edificio sarebbero la causa e la colpa - è un dispositivo al quale sottrarsi?
"Il diritto è una parte troppo essenziale della nostra cultura perché ci si possa semplicemente sottrarre a esso. Altrettanto vero è, però, che la nascita del cristianesimo coincide con una critica implacabile della Legge. È difficile immaginare una obiezione più radicale di quella contenuta nelle affermazioni di Paolo secondo cui senza la legge non ci sarebbe stato il peccato e il messia è la fine e il compimento (il telos) della legge. E, tuttavia, come lei sa, la Chiesa ha pazientemente ricostruito quell’edificio della legge che il cristianesimo primitivo intendeva mettere in questione, anche se puntualmente fenomeni come il francescanesimo hanno rivendicato ogni volta la possibilità di una vita al di fuori del diritto. Io penso che una società vivibile possa risultare solo dalla dialettica di due principi opposti e, in qualche modo, coordinati: il diritto e l’anomia, un polo istituzionale e uno non istituzionale o anarchico - o, per usare le sue espressioni, gli esseri viventi e i dispositivi storici. Ciò è evidente nel linguaggio: una lingua viva risulta dalla relazione armonica fra spontaneità (il "parlar materno" di Dante) e regola (la lingua "grammatica" di Dante). Mi sembra che oggi questa dialettica sia dovunque - nella lingua come nei rapporti sociali - distorta o spezzata".
Lei scrive " la volontà agisce come un dispositivo il cui scopo è quello di rendere padroneggiabile ciò che l’uomo può fare". Anche la volontà è un dispositivo al quale sfuggire?
"Nel libro ho cercato appunto di mostrare che il concetto di volontà (quasi sconosciuto al mondo antico) è il dispositivo attraverso il quale la teologia cristiana ha inteso fondare l’idea di un’azione libera e responsabile e quindi imputabile a un soggetto: è il "libero arbitrio", che definisce l’azione umana non meno di quella divina (il Dio cristiano non agisce per necessità, come il dio di Aristotele, ma per arbitrium voluntatis). La volontà è il mistero insondabile che sta alla base di quel concetto di azione legalmente sanzionabile (il crimen- karman) senza il quale l’etica e la politica moderna crollerebbero. Se l’uomo antico è un uomo che può, l’uomo moderno è invece un uomo che vuole. Nel mio libro la critica del primato del concetto di azione procede pertanto di pari passo a una critica del concetto di volontà. Mi ha sempre stupito che da Aristotele a Hannah Arendt l’idea di azione sia sempre rimasta immutabilmente al centro della tradizione dell’occidente. Non so se ci sono riuscito, ma ho comunque provato a spostare altrove il luogo dell’etica e della politica".
Restiamo sull’evoluzione de " l’uomo che può" ne " l’uomo che vuole". Marina Cvetaeva osservava "Non posso" è il superamento di tutti i miei "non voglio", il correttivo di tutti i miei voleri. Che rapporto dovrebbe esserci tra volontà e potenza, oggi?
"Le rispondo con le parole di un’altra grande poetessa russa. Anna Achmatova racconta che mentre negli anni delle persecuzioni faceva da mesi la fila davanti alla prigione di Leningrado dove era recluso suo figlio, una donna un giorno la riconobbe e le chiese: "può dire questo"? La poetessa tacque per un istante e poi, senza sapere come e perché, sentì affiorarle alle labbra la risposta: "sì, io posso". Che cosa intendeva dire? Non certo che aveva un così grande talento o una così grande padronanza della lingua da poter dire tutto ciò che voleva dire. Quell’"io posso" non si riferiva ad alcuna certezza o abilità e tuttavia la impegnava e metteva integralmente in gioco. È qualcosa del genere che aveva in mente Spinoza quando definisce la letizia più grande accessibile a un uomo come la contemplazione di ciò che egli può fare. Per questo la trasformazione cristiana e moderna della potenza in volontà mi sembra deleteria".
Landau ne " La Fisica per tutti" osserva " Se all’improvviso il fermacarte fa un salto, penserete di avere le traveggole. Se si ripete, vi metterete di lena a cercare la causa che toglie questo corpo dallo stato di quiete. Perciò è naturale considerare razionale il punto di vista secondo cui i corpi in quiete non si spostano senza l’intervento di una forza". È razionale pensare che i corpi umani non si spostino, non compiano azioni, senza l’intervento di un fine?
"Nel libro la critica del fine è inseparabile da quella dell’azione. Uno dei presupposti che siamo abituati a dare per scontati è che ogni azione sia rivolta a un fine e che questo fine sia il bene che l’agente ogni volta necessariamente si propone. In questo modo, poiché il fine è concepito come qualcosa di trascendente o comunque di esterno, il bene viene separato dall’uomo. Come mi sembra più convincente l’idea epicurea secondo la quale nessun organo del corpo umano è stato creato in vista di un fine e ogni cosa che nasce genera nell’uso il suo bene! A furia di gesticolare, la mano trova la sua delizia e il suo uso, l’occhio a furia di guardare si innamora della visione e le gambe, piegandosi a tentoni, inventano la passeggiata. Del resto è quel che vediamo avvenire nei bambini ed è quello che ci suggeriscono le arti come la danza, che non hanno altro fine che la pura esibizione di un gesto, di ciò che un corpo può fare. Per questo ho cercato di sostituire al paradigma dell’azione rivolta a un fine quella del gesto sottratto a ogni finalità".
Un filosofo ha detto che definire i termini è il momento poetico del pensiero. Come definirebbe il fine?
"Le dò una risposta insieme stoica e zen: il fine è ciò che si raggiunge solo a condizione di non porselo mai".
Se "agisce contro la legge, chi fa ciò che la legge proibisce" e se " non c’è pena senza colpa", cos’è nata prima, la colpa, la legge o la sanzione?
"Come Paolo aveva capito ("la legge è venuta perché la colpa abbondasse"), ogni giurista intelligente sa che il principio secondo cui "non c’è pena senza colpa" va in realtà rovesciato in quello secondo cui "non c’è colpa senza pena". "Non c’è pena senza colpa" significa che la pena può essere inflitta solo in conseguenza di un certo atto, ma la colpa esiste solo in virtù della pena che la sancisce. La sanzione non è accessoria alla legge: la legge consiste essenzialmente nella sanzione".
Ne "Il Nome della Rosa", Eco racconta che il volume riguardante la commedia di Aristotele non ci è mai giunto perché trattava del riso e il riso crea disordine. In "Karman", lei (come già Guglielmo da Baskerville) lo deduce dal volume sulla tragedia e ipotizza pure che Aristotele non lo abbia mai scritto per muovere una critica a Platone. Quale?
"In Grecia il concetto di un’azione colpevole viene elaborato per la prima volta attraverso una riflessione sull’eroe tragico. È quello che fa Aristotele nella Poetica quando scrive che la felicità consiste nell’azione e che nella tragedia gli uomini non agiscono per imitare i caratteri, ma assumono liberamente il loro personaggio attraverso le azioni. Anche se Aristotele non ha completato la sua trattazione della commedia, possiamo dedurne che il personaggio comico agisce invece per imitare il suo carattere e che per questo le sue azioni non possono essergli mai imputate come una colpa. Platone, che teneva sotto il cuscino non le tragedie, ma i mimi di Sofrone, fa dire al suo eroe antitragico, Socrate, che "nessuno fa il male volontariamente", il che implica l’impossibilità della tragedia".
La filosofia s’interessa prima di tutto dell’essere, ma l’essere appare subito con le sue "qualità": possibilità, contingenza e necessità. Lei osserva che è necessario riflettere sull’utilizzo che la filosofia fa dei verbi modali: " posso", " voglio", " devo". Mi segua in un passaggio di certo azzardato. La lingua della politica, aderendo (talvolta pure nei corpi) a quella televisiva, ha progressivamente abolito le subordinate, le " qualità" della frase: modali, temporali, causali. Senza queste "qualità" siamo costretti a un parlare ( e a un agire) privi di conseguenze. C’è modo di mantenere la complessità del linguaggio e non rimanere chiusi nel presente indicativo (e televisivo) dello stare al mondo?
"Se la sua domanda è di ordine poetico-letterario, allora le rispondo con le tarde poesie di Hölderlin, in cui i nessi sintattici sono aboliti e sospesi e nel verso sembrano sopravvivere solo i nomi nel loro isolamento (a volte, anche solo una particella: aber, che significa "ma"). Vi è nella poesia una tradizione, da Arnaut Daniel a Mallarmé, che tende ostinatamente non alla frase, ma al nome - anzi, forse in ultima analisi ogni poesia non è che una tensione verso il nome, che per definizione è sottratto a ogni articolazione modale. Se la sua domanda è di ordine etico-politico, le risponderei allora che si tratta di disfare il nesso perverso tra i tre verbi modali che Kant ha messo a fondamento della sua etica: "si deve poter volere". Questa frase mostruosa è il condensato parodico dei dispositivi che il mio libro cerca di disattivare".
Sulla quarta di copertina si legge "Giorgio Agamben ha insegnato Filosofia teoretica... è stato visiting professor...". Se le chiedessi cenni biografici al tempo presente?
"Le risponderei spinozianamente: "contempla ciò che può e ciò che non può fare". Ho sempre amato il motto meraviglioso di van Eyck: "Als ich kann", "come posso". Conoscere i propri limiti significa conoscere la misura della propria potenza e della propria impotenza".
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
Federico La Sala
Rassomiglianze: Nietzsche, Cocteau, Satie
di Bruno Dal Bon *
Pochi testi sulla musica hanno la forza stringata e penetrante de Il Gallo e l’Arlecchino (1918) di Jean Cocteau, un lavoro di poche pagine che esalta l’audacia della semplicità e della franchezza nell’arte. Un testo nel quale Cocteau si rivolge anzitutto a Nietzsche come ad un modello che lo aiuti a disfarsi del simbolismo sfumato e malaticcio dei suoi esordi letterari.
Tutto ruota intorno alla musica, non solo perché queste pagine sono di fatto il manifesto della rinascita musicale francese tra anni Dieci e Venti del Novecento incarnata dai giovani compositori appartenenti al Gruppo dei Sei (Darius Milhaud, Arthur Honegger, Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Georges Auric e Louis Durey), ma perché, come per Nietzsche, la musica offre a Cocteau la dimensione immanente di un sentire filosofico, ancor prima che estetico o artistico, che tende verso la verità delle cose prossime, verso la limpidezza e la trasparenza del presente, verso tutto ciò che è lontano “da nuvole o caverne”.
“La folla è sedotta dalla menzogna: è delusa invece dalla verità troppo semplice, troppo nuda, troppo poco indecente [...] quella, non eccita gli uomini”. Ed è nella musica che questa tensione verso la verità del presente è più evidente: “attenzione alla vernice, dicono certi cartelli; e io aggiungo, attenzione alla musica”. Una citazione quasi letterale di quel cave musicam che Nietzsche consiglia a “tutti coloro che son uomini abbastanza da tenere alla limpidezza nelle cose dello spirito”.
Il compositore che, fra tutti, meglio testimonia questo spirito è Erik Satie. Cocteau, insieme al Gruppo dei Sei, ne esalta la musica e la figura, considerandolo un caposcuola, forse l’unico musicista capace di scrivere “una musica a misura d’uomo”. “Satie guarda poco i pittori e non legge i poeti, ma preferisce vivere dove fermenta la vita, [...] basta con le nuvole e le onde, ci vuole una musica di tutti i giorni, [...] basta con le amache e le ghirlande, voglio che mi costruiscano una musica dove possa abitare come in una casa. [...] la musica non è sempre gondola, cavallo da corsa, corda tesa; qualche volta è anche una sedia”.
Questo è ciò che Satie nel suo agire irriverente, controverso ed antiaccademico riesce a realizzare, non solo come compositore, ma anzitutto nella sua vita d’artista. Ed anche in questo aspetto, l’idea di Cocteau di considerare la produzione musicale di un compositore solo come una parte della sua vita di uomo e di musicista, non è diversa da quella che ritroviamo in Nietzsche, di una filosofia come vita filosofica, come filosofia in atto. La vita di Satie nel suo insieme, ancor prima delle sue composizioni o del suo lavoro come pianista di cabaret, è presa a simbolo di quell’esprit nouveau capace di afferrare il senso del tempo, capace di offrire quello che definiva, con una curiosa espressione, il quotidiano “pane musicale”.
Lavoreranno insieme al balletto Parade con scene e costumi di Picasso, che sarà rappresentato dai balletti russi di Sergei Diaghilev il 18 maggio 1917 al Théâtre du Châtelet a Parigi. Una creazione che, seppur presentata come balletto, intendeva rompere con ogni genere di tradizione e di forma teatrale. Appolinaire nel suo testo per il programma della prima rappresentazione scrisse che per gli autori “si trattò prima di tutto di tradurre la realtà” non più di rappresentarla. I movimenti di danza non erano legati a un linguaggio astratto, ma erano naturali, reali “solo amplificati e magnificati fino alla danza”.
Molte furono, inevitabilmente, le contestazioni del pubblico e le ostilità della critica musicale parigina. Cocteau rispose l’anno seguente, proprio dalle pagine de Il Gallo e l’Arlecchino: “i musicisti impressionisti hanno creduto che la musica di Parade fosse povera perché era priva di condimento [...] ciò non possono capirlo orecchie abituate al vago e ai brividi. [...] Per la maggior parte degli artisti, un’opera non può essere bella senza un intreccio di misticismo, di amore o di noia; il breve, il gaio, il triste senza idillio sono sempre sospetti”.
Parole che non possono che ricondurci nuovamente a Nietzsche. La predilezione di Cocteau per Satie è infatti analoga a quella del filosofo tedesco per Bizet e per la sua Carmen così come per quegli autori “audaci e leggeri” che ritroviamo citati in alcune delle ultime lettere, allora inedite, che quasi certamente Cocteau non conosceva. Testimonianze nelle quali Nietzsche esalta l’operetta e la zarzuela spagnola elogiando autori come Audran, Offenbach o Von Suppé. Questi sono i compositori che accompagnano Nietzsche nell’ultima fase della sua vita, quella dell’estrema riflessione filosofica. Queste musiche, ma anche questo modo “semplice” di rappresentarle e di viverle in luoghi d’occasione quasi mai teatrali.
Quasi il medesimo contesto dove le musiche di Satie e dei compositori del Gruppo dei Sei si svilupperanno: non più solo le sale da concerto o i teatri, ma i café chantant e i cabaret parigini senza mai disdegnare gli spettacoli circensi o i luna park, la musica da ballo o il jazz. “Nel gorgo dei perturbamenti del gusto francese e dell’esotismo, il caffè-concerto rimane abbastanza intatto [...] qui un giovane musicista potrebbe riprendere il filo perduto. [...] Il music-hall, il circo, le orchestre americane di negri, tutto ciò feconda un artista allo stesso modo di una vita.”
La riflessione di Cocteau sulla musica, come dicevamo all’inizio, non si limita ad esprimere un gusto o una tendenza stilistica, non intende sterilmente contrapporre una nuova scuola francese in alternativa ad altri stili nazionali. La riflessione sulla musica che Cocteau riesce a tracciare nelle poche righe di questo testo è prettamente filosofica, lo è quasi senza volerlo. Nonostante nessuna affermazione abbia l’ambizione di prendersi troppo sul serio e tutto sia giocato in un’alternanza di brevissime intuizioni, paradossi e aforismi, il lavoro di analisi e di approfondimento sono anzitutto filosofici.
Solo nelle ultimissime pagine Cocteau scrive qualcosa di più compiuto sul piano della riflessione, tentando di teorizzare la nozione di rassomiglianza della musica: “la rassomiglianza è una forza obiettiva che resiste a tutte le metamorfosi soggettive. Non bisogna confondere la rassomiglianza con l’analogia. L’artista che ha il senso della realtà non deve mai aver timore d’essere lirico. Il mondo obiettivo mantiene la propria efficienza qualunque siano le metamorfosi che il lirismo può fargli subire. Il nostro spirito digerisce bene”.
Anche in questo caso poche righe alle quali poi aggiunge: “La musica è la sola arte che, secondo la massa, è autorizzata a non rappresentare qualcosa. E tuttavia la bella musica è la musica rassomigliante a qualcosa [...] la buona musica commuove per certa rassomiglianza misteriosa agli oggetti ed ai sentimenti che l’hanno motivata. La rassomiglianza in musica, consiste, non in una rappresentazione, ma in una potenza di verità velata”.
L’opposizione tra “rassomiglianza e analogia” in musica, la definizione di “mondo obiettivo” come forza che nella musica mantiene la propria efficienza indipendentemente dai possibili interventi compositivi o interpretativi atti a nasconderla o deformarla, la straordinaria intuizione di una musica come “potenza di verità velata”, sono tutti concetti che Cocteau ci lascia come elementi di una mappa filosofica ed estetica ancora tutta da disegnare. Parole di un’insolita serietà quasi accademica che, anche quando sembrano sbilanciare il ritmo brillante, asciutto e nervoso di questo libro, riescono tuttavia ad offrirci un nuovo ed insolito accesso alla comprensione della parte più intima e vitale della musica.
La morte di Dio libera l’uomo o lo priva di ogni senso etico? Due classici visti da Leo Strauss nella crisi della modernità. Resta incerto l’esito del conflitto tra ragione e rivelazione. La fragilità degli ideali illuministi alla luce della terribile catastrofe di Weimar
di Mauro Bonazzi (Corriere della sera, La Lettura, 23.10.2016)
Ci si chiede sempre cosa sia un classico. Leo Strauss non avrebbe avuto dubbi: è chi aiuta a capire i problemi. Come Baruch Spinoza, ad esempio. Strauss gli si era avvicinato quasi per caso, su invito dell’Accademia per le Scienze del Giudaismo. Non se ne allontanò più. La ragione della lunga frequentazione è facile da intuire: chi meglio di Spinoza, emarginato dalla sua comunità per l’empietà delle dottrine professate, il pensatore radicale per eccellenza, poteva servire come guida per indagare il grande problema della modernità, lo scontro tra religione e filosofia (e scienza)? Lo Spinoza del Trattato teologico-politico è colui che più decisamente si era scagliato contro il principio di autorità e dunque la Rivelazione. Ma neppure lui era riuscito a riportare una vittoria definitiva. Quello che rende il suo attacco così interessante agli occhi di Strauss è il fallimento: neanche Spinoza è riuscito a dimostrare la superiorità di filosofia e scienza rispetto alle verità rivelate.
Certo, riconosce Strauss, filosofia e scienza godono ormai di maggior prestigio, nel discorso pubblico, rispetto alle tradizioni religiose. Nel mondo disincantato (il riferimento corre ovviamente a Max Weber) in cui viviamo non c’è più posto per miracoli e profeti. Ma il maggior prestigio di filosofia e scienza rispetto alla religione non si fonda sulle basi solide di una confutazione autentica. Perché se è vero che la Rivelazione non riesce a sottomettere la filosofia, non meno vero è che la filosofia non riesce a debellare la Rivelazione: dimostrare (per via di ragionamento o ricorrendo all’esperienza concreta) che Dio non esiste è impossibile. Così come è impossibile dimostrare che esiste (è un fatto di fede, non di argomentazioni). Ed è questo che importa a Strauss: la persistenza della tensione tra due modi di considerare la realtà, diversi e incompatibili; è lo scontro tra Atene e Gerusalemme, come scriverà negli anni della maturità.
Ma già in quegli anni giovanili, l’analisi di Spinoza lo aveva aiutato a capire che la questione decisiva, in questo scontro, riguardava la (presunta) autonomia della ragione. Il progetto della modernità, che si propaga fino ai nostri giorni, si fonda sulla convinzione che la ragione umana basti per rendere adeguatamente conto della realtà, permettendoci di costruire un mondo di pace e benessere. Il progetto è nobile e ambizioso. Ma anche realizzabile? Strauss aveva iniziato le sue letture nel pieno della crisi di Weimar: una bella espressione, la Repubblica di Weimar, degli ideali illuministici, che però stava implodendo di fronte a una realtà che si rivelava più complicata, refrattaria a farsi irreggimentare secondo schemi e categorie moderni. Non sono diversi i problemi che stiamo affrontando oggi. Intanto Strauss era finito esule, come molti altri, ebrei e non solo.
Il testamento di Spinoza (Mimesis) contiene la prima traduzione italiana dei saggi che Strauss era venuto scrivendo su questo tema tra il 1924 e il 1932, a completamento dell’opera principale La critica della religione in Spinoza, uscita nel 1930, e chiarisce alcuni punti decisivi della sua interpretazione. In particolare, questi lavori aiutano a meglio comprendere l’importanza della presenza di un ospite inatteso, a cui Strauss continuamente pensa quasi mai nominandolo. Friedrich Nietzsche. Senza di lui non si può capire che cosa sia davvero in gioco.
L’ateismo di Spinoza (perché a questo conduceva il suo razionalismo radicale) nasceva con un intento liberatorio, facendo propria la battaglia di Epicuro contro la paura degli dèi. Dobbiamo liberarci di Dio per smettere di vivere nel terrore, e tornare a guardare serenamente il mondo che ci circonda; seguendo le leggi della natura, non asserviti alla minaccia del peccato. Con Nietzsche si comprende che il vero problema è un altro: come pensare a un mondo senza Dio? Questa è la sfida a cui la rivoluzione scientifica, di cui sia Nietzsche sia Spinoza erano convinti sostenitori, ci invita. Liberati dal giogo degli dèi, gli uomini si sono fatti padroni del loro destino. Per farne cosa? Il Dio biblico, il creatore del cielo e della terra, era anche il garante dell’esistenza del bene e del male. Nell’universo retto dalla provvidenza divina vigeva la fiducia che esistessero valori oggettivi come il bene o la giustizia, a cui rifarci per le nostre decisioni. La morte di Dio mette in crisi la fondatezza di questa convinzione: dove contano solo le leggi fisiche di causa ed effetto ha senso parlare ancora di bene o male?
Qualche anno fa Leo Strauss ha goduto di un’improvvisa notorietà, diventando oggetto di critiche veementi e adesioni incondizionate, in un clima quasi da stadio (soprattutto negli Usa). Questo perché si riteneva che il suo pensiero politico stesse alla base dell’ideologia neo-conservatrice della presidenza di George W. Bush. Molti suoi allievi, in effetti, hanno occupato cariche di rilievo nell’amministrazione repubblicana. Ma le interpretazioni solo politiche della sua filosofia sono inutilmente riduttive. Il suo interesse è altrove: in un pensiero inattuale, capace di illuminare le questioni del presente grazie a una ripresa degli antichi - gli ultramoderni, li chiamava lui.
Sono celebri le due definizioni aristoteliche dell’essere umano: l’animale razionale e l’animale politico. Per natura tendiamo tutti al sapere, si legge all’inizio della Metafisica: conoscere, trovare il senso di ciò che siamo e di ciò che ci circonda, esprime un aspetto essenziale della nostra natura. Ma, a differenza di tanti altri animali, non possiamo vivere da soli, perché abbiamo bisogno gli uni degli altri: siamo politici nel senso che viviamo sempre insieme (questa è la Politica). Sembra banale ma non lo è, perché desiderio di conoscenza e rispetto delle norme etico-politiche non sempre vanno d’accordo. Oggi lo sappiamo fin troppo bene. La ricerca scientifica procede impavida verso scoperte sempre più meravigliose, offrendoci possibilità fino a poco tempo fa impensabili. Che uso fare però di queste scoperte? Ci sono dei limiti per la ricerca? E chi li stabilisce?
Con altri termini, discutendo di vita contemplativa (dedicata alla conoscenza) e di vita attiva (dedicata alla politica), sono gli stessi problemi di cui si preoccupava Aristotele, seguito dai filosofi medievali che avrebbero poi influenzato Spinoza (l’ultimo degli ultramoderni, in fondo, perché consapevole di questa tensione insormontabile). L’impulso inestirpabile a conoscere che caratterizza i sapienti, nella misura in cui mette in discussione tutti i valori su cui si fonda la città, non rischia di essere eversivo? Forse che Socrate è stato condannato giustamente? Sono domande inquietanti, che almeno ci aiutano a chiarire la portata dei problemi - di problemi che sembrano scontati e che poi si scoprono d’impervia risoluzione. A questo servono i classici, come ha insegnato Leo Strauss, e per questo conviene continuare a leggerli.
L’arte di dire sì alla vita
La morte di Dio e l’«eterno ritorno» riletti alla luce di una nuova accurata edizione della «Gaia scienza»
di Remo Bodei (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06.03.2016)
Diceva Karl Kraus che «l’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo». Gli aforismi che Nietzsche presenta ne La gaia scienza (prima edizione 1882, seconda, con importanti aggiunte, del 1887), a parte quelli invischiati in polemiche contingenti, sono per lo più delle verità e mezzo.
La nuova traduzione di Carlo Gentili innova rispetto a quelle già eccellenti di Ferruccio Masini (Adelphi 1965) e di Sossio Giametta (Rizzoli 2000) ed è, soprattutto, dotata di un’ampia introduzione e di un capillare e filologicamente rigoroso commento ai testi. Si avvale, inoltre, di alcuni accorgimenti grafici - come il maggior rispetto della punteggiatura e dei trattini di sospensione - che permettono di separare meglio le citazioni dalle parole di Nietzsche.
In questa «opera laboratorio», che contiene in sé altre opere fondamentali (come Zarathustra e Al di là del bene e del male), i componimenti poetici «Scherzo, malizia e vendetta» e le Canzoni del principe Vogelfrei aprono e chiudono le raccolte di aforismi. Alla maniera dei troubadours provenzali da lui ammirati - lo si vede già dal titolo del libro e dalla scintillante poesia finale Al Mistral - la gioia, e non la seriosità, deve per Nietzsche caratterizzare la scienza: «Libera - sia chiamata l’arte nostra / Gaia - la nostra scienza! // [...] Come trovatori danziamo / Tra santi e puttane, / Tra Dio e il mondo la nostra danza!».
Fra le varie questioni dibattute in questo volume, ne seleziono solo due, quelle che hanno avuto storicamente e teoricamente il peso maggiore: la prima, relativa alla morte di Dio (si veda, soprattutto, l’aforisma 125) e la seconda, che contiene in nuce la dottrina dell’eterno ritorno (l’aforisma 341).
L’affermazione di Nietzsche «Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso» - significativamente messa in bocca all’«uomo folle» - non va intesa come un grido di giubilo. Tale morte annunciata del Creatore e signore dell’universo, del Garante di quei valori morali assoluti e indiscutibili che hanno orientato per millenni le azioni visibili e i pensieri e i desideri invisibili degli uomini, lascia un vuoto difficilmente colmabile, scaricando su di loro la tremenda responsabilità di dare senso a un mondo privo di stabili e credibili punti di riferimento.
Eppure, come mostra opportunamente Gentili, l’annuncio del fatto che Dio è morto non è di per sé scandaloso per gli ascoltatori dell’«uomo folle». Il suo uditorio è, infatti, costituito da una folla di non credenti che a tale comunicazione scoppiano in «una grossa risata». In maniera più o meno consapevole, gli “europei” questo lo sanno già. Ciò che ignorano è l’«ombra», la “traccia” che, scomparendo, Dio ha lasciato, vale a dire le premesse nascoste della fede in lui, che ora vengono erose e vacillano nella coscienza e nella scienza degli uomini. Capita al Dio cristiano quel che è accaduto a Buddha: «Dopo che Buddha fu morto, si continuò a indicare per secoli la sua ombra in una caverna, - un’immensa, orribile ombra. Dio è morto: ma, data la natura degli uomini, vi saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si indicherà la sua ombra. - E a noi - a noi resta da vincere anche la sua ombra!».
Certo, ai filosofi e agli «uomini liberi» la morte di Dio appare come la fine delle tenebre (»ci sentiamo illuminati dai raggi di una nuova aurora»). E, tuttavia, anche loro si rendono conto che «un qualche sole è tramontato, che una qualche antica e profonda fiducia sia stata rovesciata in dubbio». Per gli altri uomini l’impresa compiuta da loro stessi compiuta nell’uccidere Dio non è ancora entrata nelle «orecchie», perché non si sono accorti dell’enormità del loro atto. Le sue conseguenze si vedranno solo in seguito, quando un nuovo «oscuramento» colpirà l’Europa, disorientando i propri abitanti, ormai privi dei valori tradizionali e ancora incapaci di sostituirli con dei nuovi.
Leggiamo - o rileggiamo - con calma parte dell’aforisma 341 (che preannuncia l’idea dell’eterno ritorno, più diffusamente elaborata nello Zarathustra e nei Frammenti postumi), anche per assaporare la prosa di Nietzsche nell’efficace traduzione di Gentili. L’argomentazione utilizzata è, significativamente, al condizionale: «Come sarebbe se, un giorno o una notte, un demone s’insinuasse di soppiatto nella tua solitudine e ti dicesse: ’Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla almeno una volta e ancora innumerevoli volte; e non vi sarà in ciò nulla di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e tutto l’indicibilmente piccolo e l’indicibilmente grande della tua vita deve fare ritorno a te, e tutto nella sequenza e successione - e altrettanto questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e altrettanto quest’attimo e io stesso’ [...] Se questo pensiero ti prendesse in suo potere produrrebbe in te, quale tu sei, una trasfigurazione e forse ti annienterebbe [...]».
Da notare come l’esperienza dell’eterno ritorno abbia in Nietzsche un carattere inquietante e quasi sinistro e conservi il sapore di un ricordo infantile, di un déjà vu. Lo si può costatare in un passo dello Zarathustra, anche questo da gustare e perciò degno di una citazione abbastanza estesa: «E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti - non dobbiamo tutti essere stati un’altra volta? - e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via - non dobbiamo ritornare in eterno? [...] E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? E il mio pensiero corse all’indietro. Sì! Quando ero bambino, in infanzia remota: - allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all’insù, tremebondo, nel più profondo silenzio di mezzanotte, quando i cani credono agli spettri: - tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, - tacita sul tetto piatto, come su roba altrui [...]».
Contrariamente a quanto si può supporre, l’idea dell’eterno ritorno non possiede un significato cosmologico, non si riferisce - alla maniera dei pitagorici e degli stoici - all’esatto ripresentarsi dei medesimi eventi, ma costituisce invece uno strumento per selezionare gli uomini, distinguendo chi accetta la decisione suprema di assumersi «il peso più grande» e chi la respinge. Anche se questo pensiero fosse falso, una volta assimilato, sarebbe in grado di dare agli eventi un senso diverso, di plasmare le convinzioni o le azioni di ciascuno.
Volere l’eterno ritorno significa, infatti, determinare il corso della propria vita, così come accade nel cristianesimo, dove la prospettiva della dannazione o della salvezza eterne dirige i comportamenti effettivi in questo mondo. Per Nietzsche, a differenza della fede cristiana nell’al di là, la decisione di sopportare lo spostamento del centro di gravità dal paradiso o dall’inferno all’eterno ritorno terreno è dovuta alla convinzione che quest’ultimo aiuta a sviluppare maggiormente la vita (anche se, per certi aspetti, rappresenta una condanna), mentre il cristianesimo la deprime.
SCHEDA EDITORIALE *
Marco Vannini, All’ultimo papa. Lettere sull’amore, la grazia e la libertà, il Saggiatore, pagine 208, euro 17,00
Le dimissioni di Benedetto xvi sono uno dei gesti più sconvolgenti della storia del cristianesimo e dell’epoca contemporanea: un atto che vuole ricondurre una religione alla sua vera essenza, allo svuotamento dell’io, al nunc dimittis. A coglierne pienamente la potenza è Marco Vannini, tra i massimi esperti europei di mistica cristiana, da mezzo secolo impegnato a scandagliarne i protagonisti, da Meister Eckhart a Sebastian Franck.
Nelle dimissioni di Benedetto xvi Vannini riconosce un fatto indipendente da eventi contingenti e causato invece dalla crisi di un’intera religione, che mostra lo sgretolarsi dei fondamenti delle Scritture sotto i colpi della storia. Nel tentativo estremo di conciliare credenza religiosa e verità oggettiva, il professor Ratzinger ha steso una vita di Gesù, ma la sua fatica è destinata al fallimento: la Chiesa sta percorrendo una strada diversa da quella «religione del Logos» che Benedetto xvi aveva appassionatamente difeso nel discorso a Ratisbona del settembre 2006.
La straordinaria figura di Benedetto xvi è un’occasione, una cifra della storia occidentale, che mostra all’opera l’«ultimo papa» prefigurato nello Zarathustra di Friedrich Nietzsche, che lo ritrae a riposo, anziano ma non sfibrato. Filosofica e appassionante nella sua radicalità, la riflessione di Vannini appare vertiginosa, incardinando il sentimento della fede in un movimento che fa trasalire per intimità e precisione. Nello scrivere queste lettere indirizzate all’«ultimo papa» - lettere insieme accorate e acutamente analitiche, urgenti e profondamente meditate, fortemente cristiane - Vannini non perde mai di vista la particolarità del nostro crocevia storico. Così, le sue riflessioni sul tesoro nascosto e sull’amore, sulla grazia e sulla libertà, sulla fede, sulla giustizia e la fine delle menzogne, sulla vita eterna, sfondano i confini della teologia dogmatica per rivolgere un invito a tutti i cristiani a uscire da ciò che è accessorio e a entrare nel regno della ragione più profonda e abissale, riscoprendo l’essenza autentica del messaggio evangelico: la consapevolezza di sé.
Indice:
Prologo
Lettera prima
Sul tesoro nascosto
Lettera seconda
Sull’amore
Lettera terza
Sulla verità della fede
Lettera quarta
Sulla grazia e la libertà
Lettera quinta
Sulla giustizia e la vita eterna
Lettera sesta
Sulla fine delle menzogne
Lettera settima
Congedo
Riferimenti bibliografici
In un inedito del 1863, il filosofo tedesco ragiona sul sentimento negativo che definisce “errore di conoscenza” e “logorio dell’anima”
Se volete la felicità dovete evitare di essere invidiosi
di Friedrich Nietzsche (la Repubblica, 12.09.2013)
Com’è possibile farsi un’idea della vita e del carattere di una persona che abbiamo conosciuto? In generale in modo simile a come ci si fa un’idea di un paesaggio che abbiamo visitato, del quale è necessario riportare alla mente le peculiarità fisionomiche: i monti, la flora e la fauna, l’azzurro del cielo... È tutto questo, nel suo insieme, a determinare l’impressione che se ne trae. Ma, in sé, non è ciò che vediamo all’inizio - le masse delle montagne, la forma delle rocce e i tipi di pietre - a conferire al paesaggio il suo carattere fisionomico. Anche in regioni diverse tra loro vengono fuori, secondo leggi simili, le medesime formazioni della natura inorganica, come, per esempio, gli stessi tipi di montagne, separate o raccolte in gruppi. Diversamente accade per le formazioni organiche. In particolare, nelle piante sono presenti i caratteri più diversi che si offrono a un’osservazione comparativa della natura.
Qualcosa di simile emerge quando vogliamo osservare e valutare adeguatamente la vita di un uomo. In questo caso non ci dobbiamo far guidare dagli eventi casuali, dai doni della sorte, dai mutevoli destini esteriori che sorgono dalle circostanze esterne che si incrociano tra loro, quand’anche ci saltino subito all’occhio come cime di montagne. Il carattere individuale è invece rivelato nel modo più chiaro proprio da quei piccoli eventi e da quei processi interiori che crediamo di dover ignorare: essi si sviluppano come organismi dalla natura dell’uomo, anche se sembrano esserle legati al modo degli elementi inorganici.
È dunque un errore della conoscenza che si ha della propria interiorità desiderare di trovarsi nelle condizioni esteriori altrui, nella convinzione che su questo nuovo terreno saremmo più felici: a questo desiderio è connessa l’invidia per la felicità degli altri. L’invidia vorrebbe allontanare coloro che sono felici dalla propria condizione, e a tal fine cerca ragioni con perfida sofisticheria. Essa, quindi, è un errore della natura cognitiva e di quella morale.
È un errore della natura cognitiva. È segno di una natura forte riconoscere nelle cose una ininterrotta catena di cause ed effetti non pensando semplicemente che seminare basti a produrre frumento, ma estendendo le medesime leggi anche alla vita umana e alla storia dei popoli. Ma l’invidioso, come, in generale, ogni uomo egoista e miope, vedendo emergere le cime dei monti dalle nuvole crede che esse fluttuino, isolate, nell’aria, mentre un osservatore più acuto intuisce che esse sono legate a qualcosa, seppure in modo nascosto, e comprende che sono i punti più elevati di una catena montuosa.
Agli invidiosi la felicità e l’onore appaiono sotto l’involucro esteriore della ricchezza e dello splendore, dell’acclamazione pubblica e delle lodi dei giornali. Attraverso queste circostanze casuali, che accompagnano una felicità e una fama spesso solo apparenti e raramente reali, essi non riescono a vedere il cuore delle cose.
E qual è questo cuore? Cos’è la felicità? Cos’è l’onore? Come ogni bellezza deve essere organica, come ogni aggiunta ornamentale è soltanto una mostruosità, così anche la felicità e l’onore devono sorgere dallo stesso tronco che poi adorneranno; ci vuole la forza dell’albero fresco e giovane perché i fiori sboccino, ed essi cadono subito quando la linfa che li ha prodotti si esaurisce.
Ammettiamo che il destino regali a un invidioso quello che egli guardava con occhi avidi: esso gli si avvinghierebbe come una escrescenza inorganica, gli succhierebbe le forze, ne logorerebbe la volontà, lo ingannerebbe con nuove, splendide illusioni, verso le quali si volge, bramosa, la sua anima. [...]
L’invidia è anche un errore della natura morale. È una malattia che corrode costantemente l’anima; non come alcune fragilità che lasciano intatto il cuore buono e sembrano solo danni esteriori, conseguenze di malanni fisici o di irritazioni intellettuali.
L’invidia non è associabile all’amore, e senza amore non vi è un buon carattere. Anzi, l’invidia è sotto molti aspetti opposta all’amore, ancor più dell’odio. L’invidia lavora con la rabbia e con il risentimento, l’amore con una lieta calma; i frutti degli sforzi dell’invidia hanno sempre qualcosa di bieco e spiacevole.
Lo sguardo dell’invidioso, che deforma tutto e tutto comprende in modo distorto, ritrova anche nei propri successi i segni di questa insoddisfazione. Esiste una patologia per cui dei bambini tendono ad appagare il loro appetito ricorrendo ad alimenti non commestibili; allo stesso modo l’invidioso pretende continuamente cose che sembrano dargli soddisfazione, ma che, in fondo, accendono sempre più la sua arsura interiore. Questo logorio dell’anima si ripercuote anche sul corpo: gli antichi hanno rappresentato l’invidia come un essere metà uomo metà donna, che procede in avanti con uno sguardo vuoto e torvo, con un velenoso sorriso negli occhi, in modo indolente e con lentezza, molto magra e pallida; insonne e senza pace, sospirando in continuazione dal profondo, nemica della compagnia, è accompagnata da cani serpentiformi (sic!)che la femmina consuma come alimenta suorum vitiorum, come dice Ovidio. [...]
Ma può forse un uomo portare in sé una felicità che illumini ogni piega del suo cuore con un sole interiore e ne riscaldi la freddezza, che rassereni ogni tristezza ma che al contempo si accompagni con un odio radicato verso le altre persone, un’ostilità invidiosa contro tutto ciò che è alto e sublime, un’amarezza avversa a tutte le altre felicità e gli altri onori? Possono nascere dalla medesima radice la rosa che si apre al sole e la malinconica amica della notte, la viola notturna? La felicità, quella aperta e ridente, alla cui luce gli occhi degli sconosciuti si accendono e i volti ostili divengono cortesi, non è compatibile con l’invidia, dal cui sguardo spettrale e dalla cui timida andatura rifugge tutto ciò che è umano.
Secondo un’antica credenza popolare un’anziana donna invidiosa si sarebbe recata su di un’altura di fronte al proprio villaggio e avrebbe scatenato su di esso una tempesta con la violenza del suo sguardo crudele. Nella sua stessa casa e nel suo stesso cortile, uomini e animali sarebbero divenuti preda delle fiamme, mentre la criminale sarebbe stata portata all’inferno dalla nuvola di fumo alzatasi sul villaggio. In questa leggenda, il popolo esprime a modo suo il giudizio sul nefasto peccato dell’invidioso, tratteggiando, d’altra parte, il terribile potere che abita all’interno della sua cattiva volontà. Proprio in questa storia si mostra il ben radicato odio del popolo nei confronti dell’invidia; nelle sue leggende e fiabe, essa non viene trattata scherzosamente e con derisione, come accade con altri vizi, ma con profondo disprezzo e sdegno morale.
Se per trovare dio bisogna rinnegarlo
“Oltre il cristianesimo”, il saggio sulla mistica di Marco Vannini
di Roberto Esposito (la Repubblica, 07.06.2013)
Come i pittori di talento dipingono sempre lo stesso quadro, allo stesso modo i veri autori scrivono sempre lo stesso libro, arricchito di nuovi riferimenti e argomentazioni. Ma raccolto comunque intorno al cuore del problema da cui lo scrittore trae ispirazione ed energia creativa. È quanto si può dire accada a Marco Vannini, di cui Bompiani ha appena pubblicato Oltre il cristianesimo. Da Eckhart a Le Saux.
In esso egli riprende il tema di fondo dei libri precedenti - l’opposizione tra mistica e teologia - spingendolo a un grado di profondità e di radicalità ancora maggiore. Quello che in essi era una direzione possibile, diventa qui l’esito di un percorso compiuto. Il suo sguardo, da tempo volto alle grandi questioni della mistica, nella loro tensione con l’orizzonte cristiano, si sposta adesso oltre di questo. E anzi oltre il linguaggio dei tre monoteismi, in un viaggio senza argini verso la concezione induista e buddista.
Ad accompagnare l’autore in questo esodo verso Oriente è il monaco benedettino francese Henri Le Saux che, arrivato in India, non ne è mai tornato, penetrando nell’anima profonda della spiritualità hindu, senza smettere di sentirsi cristiano. Come risulta dal suo Diario, il suo incontro con il saggio Ramana Maharshi lo ha segnato in maniera indelebile, convincendolo della superiorità spirituale delle Upanishad e della Bhagavadgita rispetto ai testi della tradizione ebraico-cristiana. Ma ciò non in contrasto con l’originario messaggio evangelico - almeno prima che fosse “normalizzato” nella dottrina elaborata da San Paolo - bensì in continuità con esso.
Come aveva sostenuto Simone Weil, sia la Sinagoga che la Chiesa hanno tradito il senso più riposto della parola di Cristo, ingabbiandola nel canone teologico, cui Vannini contrappone la dimensione mistica. Per fissare il punto in cui quest’ultima confluisce nel doppio alveo induista e buddista, Vannini ripercorre originalmente la via tracciata da Ananda K. Coomaraswamy nel suo libro Induismo e buddismo (Rusconi). La porta d’ingresso, per entrambi, è costituita dall’opera del grande mistico medioevale Meister Eckhart, situato all’origine di una tradizione che comprende non soltanto autori di ispirazione spirituale quali Margherita Porete, Giovanni della Croce o Fénelon, ma anche filosofi irreligiosi e perfino atei come Spinoza, Schopenhauer e Nietzsche.
Cosa è che li collega, per nella assoluta distanza? Qual è il punto di raccordo, e certo di tensione, tra mistica e ateismo nel comune contrasto con il lessico teologico-politico del pensiero cristiano?
La figura decisiva di questo problematico nesso, intorno alla quale ruota l’intera ricerca di Vannini, è rappresentata dal distacco. Solo distaccandosi da se stesso, l’uomo può aprire lo spazio vuoto entro il quale accogliere Dio, fino a fare tutt’uno con lui.
Naturalmente ciò prevede una doppia decostruzione della metafisica, insieme greca ed ebraico-cristiana: da un lato la rinuncia all’amor proprio, coincidente con il primato della volontà personale sull’intelletto universale, dall’altro il rifiuto della concezione mitica di Dio come soggetto creatore. In tal modo si rompe la macchina teologica, ma anche politica, del dualismo che fa di Dio null’altro che la proiezione oggettiva di quel che l’uomo presume di sé e si rende possibile il riconoscimento estatico dell’unità del Tutto.
Ogni tipo di beatitudine, pensata in Occidente come in Oriente, riproduce, in forma varia, questo passaggio che identifica soggetto e sostanza, avere ed essere, umanità e divinità. Da Giovanni Taulero a Niccolò Cusano, da Sebastian Franck ad Angelus Silesius, la mistica occidentale perviene a toccare i confini del discorso teologico, eccedendolo nel suo spazio esterno. Se Bruno e Spinoza già rompono il linguaggio della persona a favore di un universo integrato in cui ogni individuo è parte di un tutto che lo comprende, è Nietzsche a compiere il passo ultimo: abbandonare quanto ha di più prezioso, per l’uomo, significa abbandonare anche la sua idea di Dio - «Perciò - conclude Eckhart - prego Dio che mi liberi da Dio». Solo nella sua assenza Dio può mostrarsi senza indossare la maschera dell’idolo. E solo così il fondo dell’anima può identificarsi con il fondo di Dio.
È il punto estremo in cui l’assoluta trascendenza viene a coincidere con l’assoluta immanenza - l’essere, umano e divino, non è altro da una vita infinita che non conosce soglie, disuguaglianze, gerarchie. Pura luce in cui la conoscenza non è diversa dal tutto che conosce e in cui la parola, non potendo definire nulla di delimitato, sfuma nel silenzio.
Da qui il passaggio, per Vannini possibile e necessario, dal nucleo inespresso del Cristianesimo all’Induismo e al Buddismo, a loro volta collegati nel distacco dal proprium e nel ricongiungimento con l’unità divina. Naturalmente è possibile criticare la posizione di Vannini come sincretistica, gnostica e contraddittoria. La massima religiosità appare, in essa, pericolosamente vicina alla massima bestemmia. Ma la sua forza sta proprio nell’assumere e far propria questa contraddizione. Sostenerla in tutta la sua asperità è, per l’autore, l’unico modo di essere religiosi nell’era postreligiosa. O di essere cristiani oltre il cristianesimo.
Tutti gli Anticristi che camminano tra noi
Non l’Avversario né il Grande Satana, ma “tutto ciò che nega la nostra luce”
Ecco l’interpretazione del Male secondo lo studioso di mistica Marco Vannini
di Paolo Rodari (la Repubblica, 21.06.2015)
La storia del cristianesimo ha molteplici fili rossi. Fra questi ce n’è uno enigmatico e a tratti inquietante, la figura dell’Antidio o, per meglio dire, dell’Anticristo. Chi è? Per la Scrittura, Vangelo di Giovanni alla mano, gli Anticristi sono coloro che rifiutano la divinità di Cristo. Così per Marco Vannini, figura di spicco negli studi sulla tradizione mistica occidentale, che in L’Anticristo. Storia e mito, edito da Mondadori, racconta come in realtà gli Anticristi siano due: «Uno vero, della fede, e uno falso, della superstizione... Conosce l’Anticristo chi conosce Cristo, e sa così ri-conoscere anche quegli Anticristi che, come dice Agostino, non si sono rivelati». Pur presentandosi come cristiani, costoro negano la realtà spirituale dell’uomo e di Dio: «Questi sono gli Anticristi oggi tra noi», scrive l’autore.
Insomma, per Vannini l’Anticristo non è l’Avversario nella battaglia finale del Bene contro il Male, «non ha niente a che vedere con le fantasie apocalittiche dei tempi ultimi». È questa a suo avviso una concezione dell’Anticristo «tanto falsa storicamente, filologicamente, quanto perversa moralmente». Perché Anticristo è chi nega il Lògos, lo spirito, «e perciò nega che Cristo sia luce e verità, nega la sua divinità ».
Sono diverse le letture della figura dell’Anticristo fatte durante i secoli. E Vannini le elenca tutte, entrando con dovizia di particolari e competenza dentro un mito che agisce ancora oggi nel profondo dell’immaginario collettivo, come dimostra la sua ampia presenza nella letteratura, nel cinema, nei fumetti, nel web: è sufficiente navigare fra i siti Internet per scoprire che l’idea di un Antagonista, già nato o prossimo a venire, è tuttora molto diffusa. E lo sarà in futuro. Il mito continuerà a vivere, piaccia o meno. Le letture dell’Anticristo saranno ancora con ogni probabilità molteplici, come è stato del resto nel passato. Non a caso, la sua figura compare anche nell’Islam, dove corrisponde a quel «Grande Satana» tanto spesso evocato ieri dai seguaci di Khomeini e dai fondamentalisti di Osama e oggi dagli islamisti del califfato, che lo identificano con la cultura occidentale nel suo complesso e, in particolare, con Israele e gli Stati Uniti.
Ma sono letture in verità parziali o anche false. Perché, appunto, Anticristo è chi nega la divinità di Cristo. La si nega perché «non si conosce se stessi in quanto spirito, in quanto «luce e verità». Perciò, chiosa Vannini, gli Anticristi «sono degni di compassione, se non fosse per la presunzione che li accompagna: quella di fare da maestro, da pastore, dunque da ingannatore, seduttore, plànos, come dice appunto la Seconda lettera di Giovanni ».
Preghiere laiche
L’elezione del Papa ha rinnovato, anche nei non credenti, l’interesse per la Chiesa Ma una verità fondata sul credo non può essere riconosciuta dagli eredi dell’illuminismo
L’incontro tra fede e ragione è nel distacco dall’Io
di Marco Vannini (la Repubblica, 15.04.2013)
Chi passa in questi giorni in libreria resta colpito dalla quantità di libri di e sul nuovo papa: tra editori piccoli e grandi, di area cattolica (San Paolo, Jaca Book ecc.) e non (Rizzoli, Giunti, Mondadori ecc.), sono presenti più di una decina di titoli, alcuni dei quali ai vertici delle classifiche di vendite. L’elezione di Francesco e i suoi primi gesti hanno riacceso nell’opinione pubblica l’interesse per la Chiesa. Un interesse fatto di stupore, di fronte alla inaspettata vitalità dell’antica istituzione, ma anche con una notevole dose di più o meno esplicita ammirazione, che fa venire alla mente l’osservazione di un uomo non certo sospetto di apologetica cattolica: «La finezza dell’alto clero - le figure più nobili della società umana, ove domina il superiore disprezzo per la fragilità del corpo e della sorte, come è degno del soldato nato - ha sempre dimostrato per il popolo le verità della fede».
Quello che Nietzsche, perché di lui si tratta, chiama disprezzo per le vicende della propria vita fisica e della sorte, non è altro che il distacco dall’Io, ovvero quella rinuncia a se stessi che è il nucleo dell’insegnamento evangelico, e con la quale si apre la dimensione dello spirito.
È il frutto di una conversione, nel senso etimologico, ovvero di un rivolgersi non più verso il mondo e i suoi valori, e di una fede nell’assoluto. Chiunque, laico o religioso che sia, avverte, tanto istintivamente quanto profondamente, la nobiltà, la bellezza di questo distacco e di questa fede, ovunque si manifestino. Peraltro, non si tratta qui affatto di adesione a un credo. Infatti questo sentimento di rispetto e ammirazione viene meno, anzi si converte in un moto di ripulsa quando sente proclamare una dogmatica, una teologia, con i suoi risvolti morali e finanche politici.
Quali sono allora le verità della fede «dimostrate per il popolo» da quelle aristocratiche figure? La risposta non è semplice. Per alcuni le verità sono la dogmatica tradizionale, come più o meno si recita ancora nel Credo, ma certo non è così per molti altri, sia pure cristiani, nei quali il passaggio per la scienza contemporanea, che chiameremo illuminismo, non è avvenuto invano.
Prendendo ancora a prestito le parole di Nietzsche, «quando la mattina di domenica udiamo le campane ci chiediamo: ma è mai possibile? Ciò si fa per un ebreo crocifisso, che diceva di essere il figlio di Dio, un Dio che genera figli con una donna mortale, un saggio che incita a non lavorare più, a non pronunciare più sentenze, a badare invece ai segni della prossima fine del mondo, una giustizia che accetta l’innocente come vittima vicaria; qualcuno che comanda ai suoi discepoli di bere il suo sangue; peccati commessi contro un Dio, espiati da un Dio... chi crederebbe che una cosa simile viene ancora creduta?».
È qui che il laico prende le distanze, difende la verità, guardando con commiserazione alla fede come credenza, rispettata solo per un politicamente corretto senso di tolleranza, ma in realtà considerata cosa da bambini, da sciocchi o, peggio, da ipocriti. Il problema sta infatti proprio nel concetto di fede come credenza, che, in quanto tale, confligge spesso con la verità storica, scientifica e assume perciò le vesti di una inaccettabile finzione. In realtà la fede non è affatto credenza, ma il contrario: è distacco, ovvero il movimento del pensiero che, rivolto all’assoluto, spazza via ogni credenza, riconoscendone la finitezza.
Come insegna san Giovanni della Croce, la fede non produce credenza o scienza alcuna, ma conduce nella “notte”, nel “nulla” - ovvero fa il vuoto di ogni presunto sapere, rendendo l’intelligenza finalmente libera da ciò che la teneva legata. Questa è propriamente la verità della fede, non delle cosiddette “verità di fede”, intese come credenze sostitutive della scienza o integrative della medesima, come se la fede completasse la scienza con chissà quale strumento.
Il patrimonio della tradizione religiosa fornisce alimento alla riflessione senza per questo dover diventare verità di scienza. Anzi, non vuole affatto diventare tale, dal momento che il suo spazio proprio è l’interiorità, il luogo della riservatezza, del silenzio, che è, anche etimologicamente, il mistico.
Così ad esempio, il racconto biblico di Abramo, che abbandona la sua patria e parte per una terra sconosciuta, sulla fiducia nella parola di un Dio che gli comanda addirittura il sacrificio del figlio, ha nutrito la profonda riflessione di filosofi come Hegel e Kierkegaard. E ciò anche se sappiamo che si tratta di un mito fondatore di una comunità, anche se non v’è mai stato un Abramo e il sacrificio del primogenito rimanda a una pratica allora comune a molti popoli semiti.
O, ancor più significativamente, il racconto evangelico della concezione verginale di Gesù fa riflettere sulla nascita di un Dio che è spirito e deve perciò generarsi non al di fuori, ma nel più profondo di noi stessi. Pensare invece che descriva un “miracolo” per convincere gli increduli della verità del cristianesimo, in primo luogo riduce la fede a credenza in storie esteriori, la trasforma in una teologia, ovvero ideologia, con un dio-ente tappabuchi, supposto come trascendente, ma in realtà a servizio dell’interesse particolare.
In secondo ma non secondario luogo, se anche la ragione cade nell’errore di considerare la fede come credenza e resta priva della fede come riferimento all’assoluto, che è ciò che la fa davvero ragione in senso pieno, si situa anch’essa sul medesimo piano della credenza, ideologia a servizio del piccolo Io e dei suoi molteplici interessi. Tutto ciò è stato descritto magistralmente da Hegel, nelle pagine sul conflitto tra l’illuminismo e la superstizione della sua Fenomenologia dello spirito (attenti al titolo!). L’illuminismo combatte la fede sul terreno della storia, della scienza, e vince il confronto, perché in quel campo ha ragione. Così, magari dimostrando la falsità di un documento o di un fatto storico, sul quale la fede si basa, crede di averla sconfitta.
Il punto è però che quella non è fede (Glauben), ma superstizione (Aber-glauben), perché la fede non è affatto una credenza, bensì un sapere, conoscenza non di fatti esteriori ma dello spirito e nello spirito, che non dipende da questo o quel documento o fatto storico. Il dramma è che tutto ciò è ignoto non solo alla raison illuministica, ma anche alla fede, che resta quasi sempre a livello di superstiziosa credenza e perciò genera una teologia come presunto sapere.
Il conflitto ragione-fede esiste dunque solo quando la prima non è vera ragione e la seconda non è vera fede. Alla riflessione hegeliana che abbiamo appena evocato fa perciò eco la antica parola della Chandogya Upanishad: «Solamente quando si ha fede si pensa. Chi non ha fede non pensa. Pensa solamente colui che ha fede». Quanto tutto questo sia compatibile con le forme di cristianesimo e di chiesa oggi storicamente presenti costituisce - credo - il vero problema religioso del nostro tempo. Ben oltre lo stupore e l’ammirazione, peraltro passeggeri, che abbiamo ricordato all’inizio.
Il significato psicoanalitico dell’abbandono
Quando Narciso sa dire addio
Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, servono a nascondere il carattere finito e mortale dell’esistenza umana
Si tratta dunque di saper accettare i propri limiti
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 14.02.2013)
La vita umana necessita di maschere per esistere. È un fatto: ciascuno di noi ne indossa una o più d’una quando si trova impegnato nelle funzioni e nei ruoli sociali che lo riguardano. Non a caso l’interrogativo: «ma chi credo di essere?» spesso attraversa il dubbio della coscienza che muove verso il gesto della dimissione da un incarico. Per questo i soggetti che credono senza incertezze al proprio Io, gli “Egoarchi” come li avrebbe definiti Giuseppe D’Avanzo, sono solitamente soggetti immuni dal rischio di dimissioni perché privi di quella quota necessaria di distanza da se stessi che rende possibile l’autocritica e il riconoscimento dei propri errori.
Una leadership consapevole si misura dal modo in cui sa lavorare per preparare la sua dissoluzione rendendo possibile la sua permutazione e la sua trasmissione simbolica. Al contrario un eccessivo attaccamento al proprio Io rende impossibile l’esercizio di una leadership democratica perché resiste al principio della delega della responsabilità. Perché vi sia il gesto autentico delle dimissioni vi deve essere esperienza tormentata del dubbio e della propria vulnerabilità.
Gli incarichi, i ruoli professionali, le funzioni sociali, le investiture pubbliche, insomma tutto ciò che offre una identità collettivamente riconoscibile alla vita umana, ricoprono il carattere finito, mortale, leso dell’esistenza umana. Il gesto delle dimissioni è sempre ricco di echi emotivi perché implica la caduta della funzione stabilizzatrice e rassicurante di queste maschere che agiscono come dei veri e propri abiti identificatori.
Si tratta di una spogliazione traumatica che riporta la nostra vita alla sua condizione più nuda. È l’ora della verità; l’evento che ci ricorda che il nostro essere è irriducibile alla maschera sociale che lo riveste. Per questa ragione nel soggetto dimissionario possiamo rintracciare sempre una quota depressiva legata alla perdita dell’identità narcisistica che l’identificazione alla maschera pubblica gli garantiva.
Ma può valere anche il contrario: dare le dimissioni può significare per chi compie questo atto un effetto salutare di liberazione dai lacci della maschera. All’uomo - che è un essere in continuo divenire - l’abito rigido dell’identificazione appare sempre come un abito troppo stretto; lasciarlo cadere può allora allargare la vita, può essere una perdita feconda che rende possibile un affacciarsi rinnovato sul mondo.
Per la psicoanalisi la malattia e la sofferenza mentale sono legate ad un eccesso di identificazione rigida al proprio Io e al suo Ideale di padronanza. Il gesto della dimissione è un test di salute mentale perché implica la capacità del riconoscimento del proprio limite, cioè della propria castrazione.
Non a caso è proprio la Legge simbolica della castrazione a presiedere l’intero percorso evolutivo della vita, il quale esige continue dimissioni simboliche: il bambino deve dimettersi dal suo ruolo per entrare nella turbolenze attive dell’adolescenza; l’adolescente deve dimettersi per assumersi la responsabilità della vita adulta e, a sua volta, l’adulto deve affrancarsi dal proprio Io per accettare la vecchiaia come transizione finale verso la morte.
E non è forse proprio questo ultimo passaggio della vita a rivelare che l’attaccamento ad una identità rigida non può essere il destino dell’uomo, ma il tentativo, tragico o farsesco, di rivestire artificialmente la sua finitezza mortale? Non è forse questo che s’incontra ogni volta che si dà gesto autentico, non solo tattico, di dimissioni? Non è per questa ragione che Nietzsche pensava all’uomo come ad un “ponte ”, ad un “tramonto”, ad un essere destinato a superare sempre se stesso, ad un “oltreuomo”?
Benedetto XVI come l’ultimo papa di Nietzsche
di Marco Vannini (il manifesto, 13 febbraio 2013)
Le dimissioni di Benedetto XVI hanno sorpreso tutti perché inaspettate. Devo dire però che non mi hanno sconvolto più di tanto, perché le ho viste in quella che credo la loro realtà più semplice e vera, cioè come la rinuncia a un incarico diventato troppo gravoso per il peso dell’età e le condizioni di salute precarie. Vedendo alla tv il volto del papa mentre leggeva in concistoro l’annuncio delle dimissioni, ho percepito i segni della vecchiaia, della stanchezza, da parte di un uomo che probabilmente - che Dio non voglia, e lo conservi in vita ad multos annos ! - si sente vicino alla fine.
Venendo invece a quelle che di queste dimissioni possono essere ragioni diverse, relative a problemi del suo incarico stesso, e dunque inerenti ai problemi della chiesa cattolica in questo frangente storico, dirò con altrettanta franchezza che le considerazioni dei vaticanisti o degli opinionisti del settore, mi sono sembrate inappropriate e riduttive. Forse non sbagliate, nel senso che anche esse avranno probabilmente giocato un ruolo nel far sentire al papa tutto il peso del suo ufficio, ma certamente non essenziali, perché le questioni che rendevano gravosa al papa la sua croce, davvero cruciali, erano e sono ben altre.
Certamente le beghe e gli intrighi curiali sono fastidiosi, ma non nuovi, anzi, presenti da sempre. La vicenda dei preti pedofili è stata ed è penosa per la chiesa di questi anni, ma non è una novità: preti, vescovi , cardinali, sodomiti, così come donnaioli, ci sono sempre stati: nella novella di Abraham Giudeo e Giannotto di Civigny nel Decamerone si sostiene, paradossalmente, che la loro presenza dimostra che Dio assiste la sua chiesa. Doloroso, ma destinato ad esaurirsi in una stagione, anche l’episodio delle carte trafugate dal segretario-maggiordomo: non sarà certo l’evento che affonda una navicella che ha corso ben altri mari e affrontato ben altre tempeste. Anche altri problemi, più seri, come il celibato dei preti o del sacerdozio femminile, non sono nuovi, né tali da scuotere più di tanto un’istituzione abituata a pensare in termini di secoli, se non di millenni.
Il vero dramma del papa è un altro e riguarda una cosa davvero essenziale: una fede che ha perduto le sue fondamenta storiche. Ricordo che la fatica principale di Benedetto XVI in questi anni è stata la redazione di una vita di Gesù, di cui nel Natale scorso è uscito l’ultimo volume, quello dedicato all’infanzia di Gesù stesso. Molto significativamente l’opera è stata presentata come uno studio scientifico, di cui era autore il prof. Joseph Ratzinger, appunto, l’esperto di storia del cristianesimo che dialoga con i dotti, prima ancora che il pontefice romano che parla ex cathedra.
Io credo che un uomo colto come il papa, cui non sono ignoti i risultati della ricerca storica, non possa onestamente credere alle storie bibliche, ma sappia benissimo che sono invenzioni la Genesi, le storie dei patriarchi, l’Esodo, ecc.
Più ancora: costruzione mitica la storia della nascita di Gesù, il concepimento verginale, così come leggendario buona parte del racconto evangelico, ivi compresa - forse - la stessa resurrezione.
Ma il dramma non è solo in questo, sta nel fatto che il papa conosce bene la profondità spirituale del cristianesimo, la fede non come credenza in uno o più fatti storici, ma come esperienza dello spirito.
E dunque il vero dramma viene dalla difficoltà di far comprendere che la verità del cristianesimo sussiste intatta - anzi, viene davvero alla luce - anche senza quelle credenze tradizionali, cui è stata affidata per due millenni. Far passare il cristianesimo da una fede ingenua alla conoscenza dello spirito nello spirito, è in realtà un compito che richiede secoli, probabilmente, e forze molto superiori a quelle di un vecchio papa.
Per questo le dimissioni di Benedetto XVI fanno venire alla mente l’«ultimo papa» di cui parla davvero profeticamente Nietzsche nel suo Zarathustra: quel vecchio papa ormai Ausser Dienst, collocato a riposo, appunto, perché il suo Dio, «un Dio nascosto, pieno di mistero» è morto. È stato ucciso da quello stesso amore di verità che ha fatto dire a un maestro «’Dio è spirito’, compiendo così il più grande passo verso l’incredulità: non è facile infatti sulla terra portare rimedio a una tale parola».
Ma Benedetto XVI conosce anche altre parole di quel maestro: «È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi lo spirito. Esso vi condurrà a tutta la verità». Perciò ha preso congedo con dignità e umiltà commoventi, ma anche e soprattutto con grande serenità, frutto di una fede che non è credenza, ma sapere.
Materiali sul tema:
Se il Paradiso è in questa terra
Le riflessioni sulla preghiera della teologa Adriana Zarri
di Umberto Galimberti (Repubblica 26.1.13
«Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze». Queste parole di Nietzsche le sento risuonare in ogni pagina del libro di Adriana Zarri, Quasi una preghiera.
Quasi perché siamo soliti chiamare “preghiera” l’invocazione, o la richiesta di grazie, o quelle noiosissime nenie che recitano formule senz’anima, senza partecipazione, senza canto. Queste «formule scritte da altri e assunte da noi senza che spesso riusciamo ad aggiungere nulla di nostro» non sono per Adriana Zarri vere preghiere perché «non consentono un libero e personale esprimerci e parlare col Signore».
Ma perché questa preghiera possa sorgere e scaturire spontanea e sincera con tutta la partecipazione del cuore bisogna ribaltare quella concezione teologica che descrive la terra come «valle di lacrime» o come «esilio», perché, scrive la teologa, monaco ed eremita, Adriana Zarri, se la terra è «la creazione bella e buona predisposta dal Signore per noi», se non è «un deserto, ma un giardino: il giardino dell’Eden», se «il Signore non ci ha messi in esilio, ma ci ha collocati nella nostra patria, nella casa che aveva amorevolmente preparato per noi», allora a questa patria, a questa casa, a questo giardino a questa terra dobbiamo essere fedeli e «pregare Dio per questa terra in senso proprio, questa terra di terra, per questo cielo d’aria e non per quello metaforico popolato dagli angeli, per questo cielo nostro, questo cielo di nuvole e di vento, percorso dalle ali degli uccelli».
Così risuona nelle parole di Adriana Zarri l’invocazione di Nietzsche: «Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra», ma risuonano anche le «sovraterrene speranze» a cui Nietzsche invita a non credere.
Eppure la fedeltà alla terra di Adriana Zarri fa la sua comparsa anche nelle «sovraterrene speranze» se appena ascoltiamo l’invocazione della sua ultima preghiera: «E questo nostro dolce mondo, ti prego, Dio, fallo risorgere tutto, così com’è, perché è così com’è che noi lo amiamo, ed è così com’è che noi lo attendiamo quando “i cieli nuovi” e “le terre nuove” che ci hai promesso risorgeranno dal gran rogo finale. Ti prego, non dimenticartene, Signore, perché io aspetto di trovarle di là. Se non ci fossero ne resterei delusa, e in paradiso non può esserci delusione».
Possiamo leggere questo libro di Adriana Zarri, che prega il Signore con il canto che si leva dalla contemplazione delle sue creature e delle sue bellezze, che il succedersi delle stagioni offre nella loro varietà, in sintonia con la variazione che caratterizzala la gamma dei nostri sentimenti, come un libro lirico, mistico, non dissimile dalla mistica francescana.
Ma Adriana Zarri non è solo questo. Perché da teologa ha anticipato il Concilio Vaticano II, e da voce libera e forte ha avuto il coraggio di ribaltare quella visione che il cristianesimo, dimentico del Vangelo, ha ereditato da Platone, il quale ha disprezzato la terra e il mondo sensibile per il mondo delle idee collocate sopra il cielo. Questa tradizione greca e non cristiana è stato ripresa da Agostino che ha deprezzato la città terrena per esaltare quella celeste, e da allora in poi la terra è diventata valle di lacrime e di dolore: il dolore che redime.
Quasi una preghiera, prima di essere un libro lirico o mistico, è un libro teologico, dove ciò che si chiede è di abbandonare il dualismo platonico e poi cristiano che oppone la terra al cielo, lasciando l’uomo senza quella patria, quella casa, quel giardino che il Signore aveva amorevolmente preparato per lui.
* il libro
"Quasi una preghiera" di Adriana Zarri
Einaudi, pagg. 200, euro 18,50
Lo strabismo di Nietzsche
L’“emancipazione dalla verità” in due nuovi testi del filosofo
di Maurizio Ferraris (la Repubblica,10.01.2013)
Se c’è un punto su cui sembra dominare un consenso incondizionato, tra amici e nemici, è il fatto che Nietzsche sarebbe il padre del relativismo postmoderno, attraverso la dissoluzione delle nozioni di verità e di oggettività. Per cui Nietzsche si perderebbe in una “contraddizione performativa” (cioè, in poche parole, in uno strabismo tra il dire e il fare): in nome di una verità più profonda dissolve la verità, in nome del riconoscimento della autentica struttura dell’universo, la volontà di potenza, critica l’oggettività della scienza. Trovandosi alla fine intrappolato in un labirinto da cui non riesce a venir fuori. Ma siamo sicuri che sia così? Prendiamo due testi di epoche molto differenti apparsi in questi giorni, Il crepuscolo degli idoli, nella nuova e riccamente commentata edizione a cura di Chiara Piazzesi e Pietro Gori (Carocci), e Il servizio divino dei greciuscito da Adelphi, con una illuminante postfazione del curatore, Manfred Posani Löwenstein, e con una nota di Giuliano Campioni.
Il servizio divino dei greci raccoglie gli ultimi due corsi tenuti a Basilea da Nietzsche prima di abbandonare l’insegnamento, nel 1875-1876 e nel 1877-1878. In mezzo c’è il soggiorno a Sorrento e la stesura di Umano troppo umano, ossia il passaggio dalla filologia alla filosofia, in quello che viene solitamente definito il periodo “illuministico” di Nietzsche, quando filosofare significa portare lo sguardo di una ragione disincantata su ciò che sembra sublime e magari divino mentre è, appunto, troppo umano. Ebbene, in questi corsi Nietzsche - come già nella Nascita della tragedia ma servendosi ora con abbondanza di materiali etnografici - studia i greci fuori da qualunque classicismo, e li concepisce come una tappa della cultura indoeuropea della casta. Più che gli inventori della democrazia, che è già decadenza, i greci sono i teorici dell’aristocrazia braminica.
Nietzsche rassegna le dimissioni dalla cattedra di Basilea nel 1879, e in un decennio di vagabondaggio tra la riviera francese e italiana, la Svizzera e, infine, Torino, elabora la sua filosofia.
Il crepuscolo degli idoli ne è la sintesi e il documento terminale, la scatola nera, potremmo dire, prima del crollo psichico che ha luogo tra la fine di dicembre 1888 e i primi di gennaio del 1889. Qui dunque vediamo orchestrati tutti i temi della filosofia nietzschiana, che si condensano in una pagina famosa, «come il mondo vero “finì” per diventare una favola», dove si raccontano le tappe che dal cosmo aristocratico di Platone, in cui la verità si identifica con l’autorità, conducono - sulla via di un declino travestito da progresso - al venir meno della verità. L’ultima stazione recita: «Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente? Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! »
Qui c’è qualcosa che suona strano. Nietzsche sta raccontando la storia di un errore e di una decadenza (attraverso il cristianesimo, il kantismo, il positivismo), eppure all’ultima stazione del viaggio dice che assistiamo all’“apogeo dell’umanità”. E uno si può chiedere: che razza di apogeo può esserci ad aver perso tanto il mondo vero quanto quello apparente? La contraddizione si risolve considerando che le ultime parole dell’apologo sono, in maiuscolo, INCIPIT ZARATHU-STRA. Come dire che dopo il lungo errore che consisteva nel cercare la verità come oggettività, una umanità eletta capisce che non c’è né mondo vero né mondo apparente, ma solo volontà di potenza, e l’oggettività viene sostituita dall’autorità, da Zarathustra come profeta di una nuova religione e di un nuovo ordinamento per caste.
Ben lungi dal propagandare la relatività dei valori, il pensiero di Nietzsche trova il suo filo conduttore nella gerarchia, dai primi lavori filologici su Teognide, cantore dell’aristocrazia dorica, sino alla lettura appassionata del Codice di Manu, il testo sacro induista.
A questo punto, i conti tornano, e non c’è alcuna contraddizione performativa. Non abbiamo a che fare con una aporia del relativismo, visto che, in senso stretto, non c’è nulla di relativistico nella prospettiva di Nietzsche, che identifica la verità con l’autorità. L’aporia, semmai, sta nell’idea di emancipazione. Perché Nietzsche, in perfetta buona fede, ritiene di stare avanzando delle prospettive emancipatorie: in effetti, si potrebbe osservare che non c’è liberazione maggiore, non c’è emancipazione più iperbolica di quella che ci toglie di dosso il peso della verità e della oggettività. Ma il problema, ovviamente, resta aperto e si sposta. Trasformandosi in due interrogativi politicamente ben più scottanti (e drammaticamente attuali) di quanto non lo siano i dibattiti un po’ logori sul relativismo: una emancipazione dalla verità è davvero una emancipazione? E, soprattutto, è davvero emancipazione una libertà riservata soltanto al superuomo?
Etica e libertà
Il perdono è rivoluzionario
Un concetto spiazzante, una sfida per il pensiero
È un «dono» difficile da interpretare: si perdona la malvagità o l’incoscienza? L’azione o l’agente? Per ricostruire, ricominciare, comprendere o per dimenticare?
di Laura Boella, Docente di Filosofia morale alla Statale di Milano (l’Unità, 22.05.2012)
Il perdono oggi non viene evocato solo in relazione a offese, torti, malvagità individuali e private, ma spesso in relazione al male commesso in nome di un’idea di civiltà, di un’ideologia totalitaria, di una fede religiosa, di un progetto politico, e anche in sede legale e processuale, ogni volta che la trasgressione della norma ha un effetto destabilizzante sulla convivenza. Sappiamo quanto le azioni umane e i loro “errori” mettano direttamente in questione la storia, la politica, la sopravvivenza e l’identità di individui e gruppi, la lacerazione e la ricomposizione del legame sociale.
Non bisogna poi dimenticare che la questione del perdono si è posta con particolare forza dopo la Shoah, collegandosi strettamente all’ imprescrittibilità del male. Dopo gli eventi che hanno segnato la storia del ‘900 non è pertanto più possibile pensare il perdono senza il concetto di imperdonabile.
L’autentico significato del perdono deve in effetti districarsi dalle implicazioni molteplici e a tratti contraddittorie di una nozione drammaticamente intrappolata nelle maglie del rancore e dell’oblio, della brama di vendetta e della facile liquidazione o della rinuncia ai propri diritti. Una nozione che, oltretutto, appare difficilmente isolabile da altri nuclei tematici, legati a concetti di ordine spirituale e religioso, quali l’espiazione, la redenzione, la remissione dei peccati, l’assoluzione, la pietà, l’amore del prossimo.
Per fare qualche esempio: si perdona l’incoscienza (non sapeva quello che faceva) o la malvagità? L’azione o l’agente? Per ricostruire, ricominciare, comprendere, convertire o semplicemente per dimenticare? Il perdono presuppone una relazione con un altro oppure è l’affermazione della propria superiorità? Chi viene perdonato può anche non sentirsi destinatario di un atto di amore, bensì oggetto di invadenza, di intrusione nella sua coscienza, nel suo mondo affettivo.
Nell’idea di perdono può essere infatti contenuto un giudizio di valore: colui che perdona si colloca dalla parte del bene, quindi al di sopra di colui che viene perdonato. Da questo punto di vista, il perdono può apparire un atto unilaterale, una concessione che annulla ogni scambio e comunicazione tra due soggetti. A complicare le cose contribuisce l’urgenza dell’appello che il male morale continua a rivolgere all’azione: cosa fare per impedire altre sofferenze causate dalla malvagità? Qual è l’imperativo prioritario: la carità cristiana o la resistenza contro il male? Porgere l’altra guancia o ristabilire la giustizia violata?
Il perdono è sicuramente un concetto spiazzante, una sfida per il pensiero, il cui autentico significato deve essere riappreso. Ciò significa riprendere l’eredità della tradizione ebraico-cristiana, che ne costituisce la fonte, e riscoprirlo in condizioni nuove, quelle del mondo attuale che ne ha un gran bisogno.
Non è certo un caso che i (rari) pensatori che nel ‘900 si sono occupati del perdono siano quelli a cui tutti riconoscono una spiccata sensibilità per i problemi del nostro tempo, e insieme il coraggio di affrontare le zone più rischiose dell’etica, senza cedere a nessuna scorciatoia moralistica. Penso in particolare a Hannah Arendt, a Vladimir Jankélévitch , a Emanuel Lévinas, a Paul Ricoeur, a Jacques Derrida. La loro vitale inquietudine ha accompagnato la consapevolezza che il perdono sia un tessuto fittissimo di conflitti e di paradossi che chiama radicalmente in causa la coscienza di ognuno e ne sconvolge le convinzioni più solide.
Fin dalla sua etimologia il perdono è attraversato dal contrasto tra la logica della pena e della riparazione propria della giustizia, e la logica della gratuità, dell’amore. Perdonare rimanda alla “rinuncia” (a un diritto o a un credito), allo scusare, e al tempo stesso si associa al dono un dono in eccesso, il dono d’amore disinteressato delle chansons dei troubadours (ti amerò en perdos, in perdita, gratuitamente).
L’autentico significato del perdono può essere oggi affermato considerandolo una potenzialità dell’azione: esso rappresenta infatti l’altra faccia del rischio dell’agire, che salva la libertà umana in nome di una nuova forma di responsabilità. È impossibile revocare la storia, fare in modo che le azioni non siano accadute, ma si può continuare ad agire andando in un’altra direzione. L’essenza del perdono consiste nel restituire la capacità di agire a un soggetto che resterebbe inchiodato all’azione compiuta, se non gli si offrisse la possibilità di diventare qualcosa di diverso da ciò che ha fatto.
Il perdono è dunque un dono, un dono di libertà, il dono del potere di ricominciare e insieme il tentativo di ricostruzione di una relazione interrotta in seguito a un’offesa. Come se si richiamasse in vita la possibilità di una libertà autenticamente umana, anche per chi ha sbagliato. È innegabile che si tratti di passaggi difficili tra agire, sentire e pensare, ma dotati di una grande forza etica: quella di assumersi il rischio, o meglio, di immaginare un futuro diverso da quello imposto dal passato.
Cacciari
I san Francesco di Dante e Giotto
di Pierluigi Panza (Corriere della Sera, 22.03.2012)
Assisi è il cantiere di nascita dell’Europa moderna. E San Francesco colui che ha avviato il faticoso viaggio che porta al divino partendo dall’umano. Un viaggio tormentato e di sentieri interrotti, che ha accompagnato la storia dell’individuo dall’Umanesimo al nichilismo contemporaneo. Per queste ragioni il filosofo Massimo Cacciari - che non ha mai abbandonato l’interrogazione sui fondamenti - individua in San Francesco, e nelle prime interpretazioni su di lui, l’origine del dipanarsi di narrazioni sulla coscienza e il destino europeo.
Nel suo nuovo libro, Doppio ritratto. San Francesco in Dante e Giotto (Adelphi, pp. 86, 7) Cacciari muove alla definizione del «suo» San Francesco alla luce di una conoscenza bibliografica rigorosa, che passa dagli studi di Paul Sabatier a quelli di Henry Thode. E muove per mostrare un Francesco più complesso di alcune interpretazioni postmoderne, che hanno fatto di lui ora un profeta socialista ora un rivoluzionario New Age. Per raggiungere il suo obiettivo, Cacciari interseca le strade tracciate dai due «maggior fabbri del volgare europeo», cioè Giotto e Dante, sulla figura del poverello. E racconta il conflitto d’interpretazione della rivoluzione francescana innescato dai due.
Giotto e Dante sono entrambi cattolici, nati una quarantina d’anni dopo la morte del Santo (1226). E il loro occuparsi di Francesco è già una testimonianza di come la figura del santo fosse percepita come coesa alla Chiesa. Ma i due fabbri non riescono a dare del tutto ragione del «crocefisso di Assisi», perché la sua forza è troppo vasta: entrambi lo traducono e lo tradiscono. Giotto rappresenta Francesco negli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, rifacendosi alla Legenda Maior di Bonaventura da Bagnoregio, e a Firenze nella Cappella Bardi in Santa Croce. Dante lo colloca nel Cielo degli spiriti sapienti (Paradiso, XI canto) e ne affida l’elogio a San Tommaso d’Aquino.
«Quella giottesca sembra una visione più ingenua e fresca; in realtà è una precisa operazione politica», sottolinea Cacciari. Nel ciclo di affreschi della Basilica superiore di Assisi, infatti, manca l’incontro di Francesco con i lebbrosi, il dono delle stigmate e la scena del mantello donato al povero è edulcorata, sembra uno scambio tra cavalieri. Anche l’episodio della morte non mostra Francesco nudo sulla nuda terra della Porziuncola. «In sintesi, una rappresentazione omogenea con le esigenze del primo Papa francescano (Niccolò IV): Francesco è in perfetta armonia con la Chiesa e si inchina ad essa».
In Dante la prospettiva è diversa. Francesco è l’alter Christus, che riceve le stigmate sulla Verna. Non si prostra, ma sottopone regalmente al Papa la sua Regola. Non fa miracoli, ma è il serafino di una religione quasi solare («non dica Ascesi, ché direbbe corto, / ma Orïente, se proprio dir vuole»). In Dante, Francesco è in guerra con le forze che hanno trasformato il soglio di Pietro in una Babilonia e muore povero e nudo come «profeta» di un nuovo ordine.
Nella Commedia viene trattato al fianco di San Domenico, perché Dante cerca nel cristianesimo una concordia di opposti e apprezza sia la forza rigeneratrice della povertà sia quella della sapienza domenicana. Ma la preferenza del poeta va a Francesco e alla sua follia profetica, anche se Dante, e neppure Giotto, paiono comprendere sino alle estreme conseguenze la forza della rivoluzione della povertà: «Povertà è la violenza di chi vuole il Regno. Soltanto il povero è veramente potente», scrive Cacciari; quello di Francesco è uno «svuotamento del sé» simile a quello voluto da Dio per creare l’universo.
Un libro erudito e intenso questo Doppio ritratto, nel quale Cacciari fa anche incontrare le interpretazioni di Francesco con i filosofi a lui cari, come Nietzsche. E scopre Francesco sotto le spoglie del mendicante «da cui occhi parlava la bontà in persona» incontrato da Zarathustra. Con il quale condivide la nausea verso avidità, cupidigia e orgoglio. E riscoprire anche nell’«Anticristo» Zarathustra il volto di Francesco significa che il messaggio del poverello di Assisi agisce ancora oggi sul doppio piano delineato da Giotto e Dante.
Jung. I seminari Anni Trenta, straordinario esempio di «analisi» su un prodotto culturale
Caro Zarathustra ognuno deve portare la propria croce
Perché è indispensabile l’Ombra, quella parte della psiche rimossa perché non coerente con il canone corrente
di Augusto Romano (La Stampa TuttoLibri, 03.03.2012)
Appare finalmente in italiano la trascrizione dei seminari che Jung tenne negli anni 1934-39 su Così parlò Zarathustra di Nietzsche. Dico «finalmente» perché il testo è di straordinario interesse, anzitutto perché mostra come l’indagine psicoanalitica condotta su di un prodotto culturale possa contribuire a metterne in evidenza i presupposti e i significati che gli sono propri, senza per questo ridurlo a un epifenomeno della biografia psichica dell’autore. Ma anche perché, in questo come negli altri suoi seminari, Jung dà il meglio di sé. Il fatto di parlare a braccio e la sua caratteristica tendenza a divagare tolgono al discorso ogni intonazione accademica e professorale e gli permettono di combinare in un impasto inimitabile cultura, penetrazione psicologica, coinvolgimento personale.
A differenza del modello dello scienziato sperimentale, che si nasconde dietro i dati, Jung è sempre interamente presente in ciò che dice e non teme di manifestare simpatie e idiosincrasie. Ne risulta un discorrere sciolto, chiaro, spiritoso, avvincente, ricco di battute icastiche (ad esempio: «La gente avrebbe di gran lunga meno fantasie sessuali, se se ne andasse in giro nuda»; oppure: «Ci sono così tante persone che predicano per evitare di dover fare ciò che predicano»; e infine: «L’aver commesso una certa percentuale di crimine dà alle persone una bella sensazione»), di aneddoti, di riflessioni che vanno dai rapporti tra il pensiero di Nietzsche e il nazismo allo stile narrativo di Joyce, di abbozzi di storie cliniche e di sogni di pazienti.
Da questo modo di raccontare trae vantaggio anche l’esposizione dei temi essenziali del suo pensiero, che Jung intreccia al commento del testo nicciano. Chi ha letto il Libro Rosso troverà in questo Seminario, esposte in una forma più distesa e discorsiva, molte delle fulminee illuminazioni che erano state registrate in quel libro segreto.
Il testo ora pubblicato è soltanto il primo di tre volumi; gli altri appariranno entro il 2012. Può essere però tranquillamente letto da solo: sia perché ha la compiutezza di un arazzo policromo, sia perché una lettura distanziata dei tre volumi può evitare eventuali effetti di sovradosaggio. Rinviando a traduzione conclusa il commento al rapporto Jung-Nietzsche, accennerò qui soltanto a un tema centrale nel pensiero junghiano, che in questo volume è costantemente richiamato: si tratta della costruzione di un’etica personale, un argomento strettamente connesso a quel percorso di autorealizzazione che Jung chiama «processo di individuazione».
Punto di partenza della riflessione junghiana è l’esigenza di accogliere nello spazio della coscienza egoica la figura dell’Ombra, cioè di quella parte della psiche che è stata rimossa, negata, rifiutata in quanto non coerente con il canone culturale corrente. L’Ombra, dice Jung, è «indispensabile per la realizzazione della totalità di una personalità». Accogliere l’Ombra e legittimarne la presenza significa però accettare il conflitto tra istanze contraddittorie e assumersi la responsabilità delle proprie scelte, rinunciando a ogni garanzia offerta da un potere sovraordinato. Viene qui in primo piano l’importanza dell’esperienza individuale, contrapposta al «tu devi» formulato da un codice preesistente, che presume di dare risposte di validità universale. E’ questa la radice della polemica che oppone Jung alle istituzioni religiose e alla «moralità da pulpito» che, additando l’imitatio Christi, offrono delle ricette di salute spirituale già perfettamente confezionate. «Ognuno deve portare la propria croce, il proprio problema individuale, la propria difficoltà e sofferenza individuale. Un problema è reale solo in quanto è a te che si presenta, solo in quanto sei tu che ti fai carico della tua vita».
Il libro si avvale di una eccellente traduzione e di accurate note esplicative di Alessandro Croce.""
Nietzsche? Tutto ma non fascista
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 08.09.2010)
Nietzsche non fu il precursore ma il costruttore del cuore del fascismo». È lapidario Armando Torno, sul Corsera di ieri l’altro, nella chiusa finale della sua recensione alla nuova traduzione di Così parlò Zarathustra a cura di Sossio Giametta (Bompiani, pp. 1228, Euro 30). Lapidario e brutale, come se a riguardo non fossero state versate tonnellate filologiche di inchiostro. In revisione di un lungo e trito luogo comune: il fascismo, anzi il nazismo vocazionale di Nietzsche.
E quel luogo comune, lo ricordiamo, era condiviso sia dai «nazificatori» di Nietzsche, da Rosenberg allo stesso Hitler, sia dai marxisti alla Lukàcs, che del «superuomo» fecero il vessillifero dell’imperialismo razzista. Persino Mussolini pensava di essere «nietzscheano», discettando da giovane di masse e capi. Mentre di recente Ernst Nolte, «giustificatore» di certe ossessioni naziste, ha creduto, da destra, di ravvisare in Nietzsche il segnale delle reazione borghese europea contro la minaccia dell’«annientamento proletario», incombente tra otto e novecento. Infine, il marxista Domenico Losurdo. Che ha rispolverato la reazionarietà razzista e imperialista del pensatore dell’Eterno Ritorno.
Intendiamoci, Nietzsche non era di sinistra e nemmeno progressista. E la curvatura apocalittica e a tratti risentita dei suoi pensieri, va anche in senso conservatore: filippiche contro l’umanitarismo, il progresso, la morale dei deboli etc.
Ma la direzione del suo pensiero è un’altra. È una critica dirompente delle false giustificazioni del potere e della morale. Una destructio integrale del rapporto servo/ padrone, volta alla liberazione delle energie vitali della soggettività soggiogata. Nietzsche, campione di psicologia politica, parla all’anima di ciascuno, invitando ciascuno alla ribellione. Contro tutti i totem della massificazione e del conformismo. Ben per questo Freud scorse in lui il vero scopritore dell’inconscio oppresso. E ben per questo, come attesta Nolte, con Marx ed Engels, era la lettura preferita degli operai tedeschi nella Germania guglielmina. Solo un caso?
IL DIO CHE NON C’È
Testo preparato da Alberto Maggi per la conferenza di ieri ad Ancora, dal titolo “Il dio che non c’è”. La conferenza è stata organizzata dalla UAAR (Unione Atei Agnostici Razionalistici) è ha suscitato molte polemiche ancora prima del suo svolgimento. Quello che pubblichiamo è il canovaccio, poi sarà disponibile anche il video della stessa conferenza che è lievemente diversa rispetto a questo scritto.
unione degli atei e degli agnostici razionalisti
Il dio che non c’è
ancona, 12 maggio 2009,
ore 17
sala conferenze palazzo bottoni
Da quando il dott. Svarca mi ha gentilmente invitato a tenere questo incontro con voi, conferenza che a quanto pare ha suscitato apprensione in certi ambienti e preoccupazione in altri, ho cominciato a pensare alla tematica da trattare, “il dio che non c’è”, e la mia attenzione è stata attratta da tre affermazioni che di seguito elenco:
Il 22 aprile Rita Levi Montalcini, grande donna e grande scienziato, ha compiuto ben 100 anni, cento anni in splendida forma intellettuale e morale. Alla richiesta se credesse o no in un dio, la Montalcini ha risposto: “Invidio chi ha la fede. Io non credo in dio. Non posso credere in un dio che ci premia e ci punisce”.
Le faceva quasi eco, una settimana dopo su Repubblica, nella sua tanto breve quanto interessante Amaca, Michele Serra, il quale prendendo spunto da quei fondamentalisti religiosi, sia cristiani che islamici, per i quali l’influenza suina era un castigo di Dio, scriveva che:
“Una delle prove dell’inesistenza di Dio, perlomeno del Dio pedante e cattivo invocato in questi casi, sta nel fatto che alcuni dei suoi seguaci in terra non vengano folgorati all’istante ogni volta che dicono una cazzata” (Michele Serra, La Repubblica, L’amaca, 29 aprile 2009).
[...] (PER CONTINUARE A LEGGERE TUTTO IL TESTO, PREMERE SULLA ZONA ROSSA SOTTOSTANTE)
Colui che impedisce il sacrificio non è Elohîm, bensì Yahvé, il Dio d’Israele: “L’Angelo di Yahvé disse: non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male!” (Gen 22,12).
Il significato della narrazione è chiaro: mentre le altre divinità (Elohîm) chiedono sacrifici umani, Yahvé, il Dio d’Israele, non li accetta.
Nietzsche ritiene che è un errore considerare cristiano colui che ha fede nella redenzione ad opera di Cristo; non é la fede ma "la pratica cristiana" non un "credere" ma un "fare", un "diverso essere" a rendere l’uomo un cristiano. Sarebbe pertanto Paolo l’inizo della fine della cristianità autentica, colui il quale "incarna il tipo opposto del buon nunzio, il genio in fatto di odio, di inesorabile logica dell’odio".
La dottrina della resurrezione, Gesù offerto come vittima per la remissione dei peccati, laddove Gesù aveva abolito il concetto di colpa, aveva smentito ogni abisso tra Dio e uomo. Gesù realizzò una prassi di vita laddove i primi cristiani predicarono una fede che divenne dottrina. Un rituale senza partecipazione autentica. La logica di Paolo sarebbe nel suo cinismo, non solo causa del tramonto della figura di Gesù, ma anche affermazione di una immagine dei sacerdoti che, utilizzando idee, simboli, riti, "tiranneggiano masse, formano greggi". In questo modo collocando il peso della vita non nella vita stessa ma nell’al di là, nel nulla, veniva tolto alla vita in generale il suo peso.
Per Nietzsche Gesù non muore per redimere gli uomini, ma per insegnare loro un modo autentico di esistere ed è questo un modo nuovo di essere cristiani. Tuttavia a Gesù egli sembra preferire Dioniso. La morte sulla croce e infatti per Nietzsche espressione di un fallimento della vita laddove in Dioniso mutilato egli scorge la vita che continuamente si riproduce e cresce nell’esaltazione tragica. Dioniso è anche espressione di un politeismo degli dei affermato al posto dell’unico Dio...
IDEE. Dopo le parole del Papa al Giovedì santo, un excursus sulla critica dei pensatori cristiani all’autore di «Così parlo Zarathustra»
Dioniso contro il Crocifisso
I più severi furono il teologo De Lubac e il filosofo Maritain, che videro nel pensatore tedesco incarnato il dramma dell’umanesimo ateo
Più aperto e dialettico il fondatore del personalismo Mounier, pronto ad accettare le domande inquietanti poste al cristianesimo. Sulla sua scia Marcel
DI ROBERTO RIGHETTO (Avvenire, 14.04.2009).
L a disputa fra Dioniso e il Crocifisso ha contraddistinto la storia del pensiero del secolo scorso, segnato così profondamente da Nietzsche e Heidegger.
Giustamente le parole di papa Ratzinger del Giovedì santo hanno fatto discutere, ma come i pensatori cristiani durante il ’ 900 si sono confrontati con l’ateismo del filosofo autore di Così parlo Zarathustra? Quel Nietzsche che ha decretato la morte della metafisica in nome però di un delirio d’onnipotenza ancora più profondo; quel Nietzsche che si esalta autodefinendosi « il nuovo destino » o scrivendo: « Solo a partire da me ci sono di nuovo speranze » ( Ecce homo); quel Nietzsche che vede se stesso « assiso al letto di morte del cristianesimo», affascinato da questo spettacolo « che è riservato ai prossimi due secoli d’Europa » ( Aurora) e che può soddisfatto proclamare: « Cosa sono mai ancora queste chiese, se non le tombe, i monumenti funebri di Dio? » ( La gaia scienza); quel Nietzsche, infine, la cui « dottrina dell’assenza della compassione del superuomo » è sensibilmente contraddetta dalla sua biografia: come pochi altri egli dovette ricorrere alla pietà nei confronti del prossimo.
La critica cattolica al filosofo tedesco comincia con lo scrittore Giovanni Papini, che accusa il superuomo di Nietzsche di volersi sostituire all’umanità di Gesù, ma finendo per proclamare il declino e la morte dell’uomo stesso. Più profonda la riflessione operata da Emmanuel Mounier: per il fondatore del personalismo la sfida che Nietzsche porta al cristianesimo è essenziale ed egli si rammarica che i cristiani non la prendano sul serio. Nietzsche penetra come nessun altro all’interno della crisi della civiltà occidentale e dell’humus cristiano che l’ha permeata, rivela crudelmente ai credenti la loro infedeltà all’annuncio evangelico, la loro incapacità di vivere una fede vigorosa e piena. Mounier vede Nietzsche come un visionario incompreso: solo un cristianesimo all’altezza delle inquietanti domande nicciane può risolvere, o meglio « dissolvere, trasfigurare nella fede vissuta l’angoscia terribile posta da Zarathustra nel cuore della coscienza contemporanea » ( L’affrontement chrétien, 1945).
Anche per l’esistenzialista cristiano Gabriel Marcel la morte di Dio è un punto di partenza, « qualcosa come un trampolino per un balzo prodigioso, per uno slancio creatore » ( L’homme problématique, 1955). Il Dio di cui Nietzsche ha sancito la morte è il Dio primo motore, il Dio della tradizione aristotelica: di ciò, dice Marcel, non si può che essere felici e trarre la conseguenza che il rapporto fra l’uomo e Dio deve passare da un legame formale e puramente causale a una relazione di libertà. L’opera di Nietzsche, la sua malattia è il simbolo dell’inquietudine lacerante del nostro tempo e rinvia all’immagine spezzata dell’uomo moderno. La proclamazione della morte di Dio non è altro che il segno della « tendenza dell’uomo a glorificare se stesso partendo dalle realizzazioni della tecnica » . Nietzsche fallisce il suo disegno di superare il nichilismo del pensiero moderno e il suo appello al superuomo non fa che aggravare la crisi.
Anche per Jacques Maritain, che a Nietzsche dedicò meno attenzione rispetto a Mounier e Marcel, il filosofo tedesco ha contribuito a svelare « la religiosità senza fede della ragione hegeliana » ( La philosophie morale, 1960). Altri cristiani si sono fatti interrogare dal visionario di Sils- Maria arrivando a conclusioni di più aperta condanna. È il caso del teologo Henri de Lubac: Nietzsche non ha solo dissolto il Dio della metafisica, ma ha portato un attacco frontale al Dio cristiano. Egli va considerato un nemico del cristianesimo e purtroppo « continua a drenare a sé anime nobili, a volte anche anime cristiane il cui accecamento fa fremere » ( Il dramma dell’umanesimo ateo). Per De Lubac Nietzsche propugna il neopaganesimo, che è la vera malattia spirituale del nostro tempo. La sua confutazione di Dio precipita l’umanità nella barbarie e De Lubac ne vede la prova nell’avvento del nazismo che immerge l’Europa nella notte più sicura. Il teologo è allarmato perché il pensiero di Nietzsche non solo sfida il cristianesimo, ma lo corrode dall’interno. Lo stesso Marcel d’altronde, nell’ultima fase del suo pensiero, studierà insieme Nietzsche e Heidegger giungendo a respingerli entrambi e leggendo il loro itinerario come emblematico, della deriva di tutta una civiltà ( si vedano i Cahiers pubblicati postumi nel ’ 79). Anche il pensatore russo Vladimir Solov’ev, noto per un suo scritto sull’Anticristo, ispiratore di Dostoevskij e contemporaneo di Nietzsche ( curiosamente, sono morti ambedue nell’agosto del 1900, a pochi giorni di distanza l’uno dell’altro), dipingeva già quest’ultimo come il precursore dei nemici del Dio cristiano della fine dei tempi. Come si vede, il pensiero cristiano ha guardato con scrupolosità al filosofo tedesco.
Per venire a tempi più vicini a noi, basti citare il filosofo francese Maurice Clavel, per cui il postmoderno è segnato soprattutto da Heidegger. Ecco il vero avversario del cristianesimo: il ritorno del neopaganesimo, il « conglomerato niccianoheideggeriano » al quale si convertono, fra l’altro, molti marxisti. Non lontane appaiono le riflessioni dell’ultimo Luigi Pareyson, il maggior filosofo italiano dal dopoguerra, che ha immaginato un cristianesimo tragico come alternativa reale al nichilismo consolatorio.