A TUTTI I NOSTRI SOSTENITORI E A TUTTE LE NOSTRE SOSTENITRICI
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RIPRENDIAMO QUI
il capitolo III della Terza parte del lavoro di Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 162-189.
E’ un capitolo straordinario, per analisi e scrittura: è una re-interpretazione sorprendente (del tutto ignota ai più - filosofi e non) dell’intera storia della filosofia occidentale.
Vale la gioia leggerla!
E’ sicuramente un omaggio al lavoro del nostro prof. La Sala ma vuol essere anche e soprattutto un dono natalizio a chi frequenta, segue, e ha sostenuto e sostiene la Voce di Fiore.
Buona-lettura!!!
La Redazione (16.11.2012)
INDICE DEL LIBRO:
Federico La Sala,
LA MENTE ACCOGLIENTE. Tracce per una svolta antropologica
Introduzione: In principio (o, meglio, all’Inizio)
I PARTE - CON NIETZSCHE ...
I. Nietzsche per ipotesi - Prometeico, dionisiaco e apollineo. - Istante, attimo ed Ewigkeit. - Nietzsche, Benjamin e Marx.
II. Nietzsche, ""Columbus novus". - Da dove parla Nietzsche. - Nietzsche e Freud. - Nietzsche e Benjamin. - Nietzsche e Marx.
II PARTE - ... E CON PARMENIDE
I. Fondazione della filosofia e rifondazione della ricerca. Una rilettura del "Perì physeos" di Parmenide.
III. VERSO LA MENTE ACCOGLIENTE
I. Zarathustra, il nano, e la libertà dal destino della necessità.
II.Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli. .
IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana. Sorte di una metafisica futura che si presenterà come scienza.
V. Un brillante new tono. "Note" per una epistemologia accogliente.
Antonio Pellicani editore, Roma 1991.
EUROPA, FILOSOFIA, ED ELEUSIS 2023:
#METAPHYSICS #ANTHROPOLOGY #PSYCHOANALYS: APRIRE GLI OCCHI SUL SOCRATICO AMORE "CONVIVIALE" (EROS = CUPIDO), SUL DESIDERIO CIECO E VIOLENTO, E PORTARSI CON FREUD, FUORI DAL DISAGIO NELLA CIVILTA’, OLTRE LO STADIO DELLO SPECCHIO DEL TRAGICO PLATONISMO E PAOLINISMO ...
"SAPERE AUDE!". RICORDANDO, CON IL VENOSINO ORAZIO, LE INDICAZIONI DI KANT sul "coraggio di servirsi della propria intelligenza" e sulla necessità di reinterrogarsi sull’intero sapere, ripartendo dalla antropologia, dalla questione antropologica, forse, è il tempo opportuno uscire dal profondissimo letargo (Dante contava XXV secoli di sonno dogmatico) e re-interrogarsi non solo su "come nascono i sogni" e su "come nascono le idee", ma anche, e innanzitutto, come nascono i bambini, e soprattutto non continuare a ripetere vecchi e tragici ritornelli sull’amore di Platone: è una questione di filologia e di teologia-politica (Lorenzo Valla, "La falsa Donazione di Costantino", 1440).
"IL CREPUSCOLO DEGLI IDOLI" (NIETZSCHE). LA ’RISPOSTA’ DI DIOTIMA A SOCRATE: "Caro Socrate, tu sei come Eros - figlio di Ingegno (a sua voìta figlio di Metis. I’intelligenza astuta) e di Povertà - un perfetto #filosofo, perché non sei sapiente come gli dèi né del tutto ignorante come i comuni mortali: sei solo consapevole della tua ignoranza, ma tu sei cieco, cieco e brutto come un ... ciclope. Tu sai che non sai amare e vai in cerca di chi sa amare. Ma tu, caro Socrate. non capisci proprio nulla, né degli uornini, né delle donne. e neppure degli dei: tu sei solo cupìdo (un cieco saettante, avido e vioÌento). Come la rìsposta della Pizia, così la risposta di Diotima: eglì non capisce e va avanti ... a costringere chi ’solo il dio sa’ deve partorire. [...]" (cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica", Roma 1991, p. 184).
CADUTA NELLA CAVERNA PLATONICA E COSMOTEANDRIA. Se non ci si sveglia e si continua a contrabbandare l’andrologia tragica di Socrate e Platone per antropologia e, dall’alto della "dotta ignoranza" (Niccolò Cusano,1440) dell’anatomia e della medicina, si spaccia #Vir per #Homo, dove si pensa di andare, se non all’inferno?!
ANATOMIA, ANTROPOLOGIA, E STORIOGRAFIA. Se si vuole ricominciare umana-mente e riprendere il cammino della rivoluzione copernicana e scientifica, bisogna ripartire quantomeno dalla sapienza di Michelangelo (riprendere il cammIno dei profeti e delle sibille del #TondoDoni, rilanciato alla grande nella narrazione della Volta della Cappella Sistina) e, poi, proseguire seguendo le lezioni di anatomia e di medicina di Realdo Colombo e, infine, leggendo il capitolo 15 del Libro III dell’ Anatomia di Giovanni Valverde, stampata a Roma nel 1560, intitolato “De Testicoli della Donna” (p. 91).
ANTROPOLOGIA STORIA FILOSOFIA PSICOANALISI E PSICHIATRIA. UNA QUESTIONE DI DIGNITÀ DI LUNGA DURATA.... *
Oltre il vicolo cieco degli uomini che uccidono le donne
Violenza maschile. Alla povertà di un gesto, opporre visioni diverse. Non c’è mai una un’unica scelta
di Tiziana Plebani (il manifesto, 17.09.2021)
Una donna uccisa quasi ogni giorno. Ma spostiamo la visuale e guardiamo dall’altra parte: quasi ogni giorno un uomo uccide una donna. Viene da pensare che sia divenuto un gesto imitativo, un modello da seguire, orrendamente, assurdamente, forse inconsapevolmente, ma che, tuttavia, si è imposto nell’immaginario, nel ventaglio di comportamenti e reazioni.
Nel momento della fragilità, della crisi, della necessità di riprogrammarsi, bisogna fare la fatica di trovare una soluzione, una via di uscita. Questa scelta costa. C’è bisogno di silenzio, pena, sofferenza. Cosa fare? Quello che hanno fatto tanti, che ogni giorno viene ripetuto dai media, che è visto di continuo in televisione. È un gesto che si insinua nella testa, e nel momento del bisogno emerge automatico, l’hanno fatto altri. È come se ci fosse una strada maestra di risposta che azzera l’infinità di opzioni a disposizione dell’umano per risolvere un dramma personale.
Ricordo che anni fa, durante la crisi economica del 2008, assistemmo a un’altra di queste associazioni a catena, tragicamente automatiche: più di 1600 imprenditori si tolsero la vita. Cominciò uno di loro a suicidarsi e in poco tempo anche questo gesto venne ripetuto di continuo: una risposta cieca che pure in questo caso si era imposta come l’unica percorribile.
Certo, quegli uomini che ammazzano le donne hanno alle spalle una pratica violenta, tengono armi in casa, hanno coltivato una confidenza con il linguaggio dell’offesa che non si inventa da un giorno all’altro. Sono tutte morti annunciate, come sappiamo.
Che fare dunque? Suggerisco due piani di azione, uno nell’ambito comunicativo, l’altro che riguarda le strategie di prevenzione.
I media ripropongono la sequela di omicidi e purtroppo imprimono e sedimentano questa risposta. Non si tratta ovviamente di tacere questi crimini bensì di accompagnare la notizia con commenti e interpretazioni che innanzitutto smentiscano l’idea che si tratti di raptus, di accecamento istintuale, di rabbia (rimando a questo articolo).
Quasi tutti questi delitti, avvengono dopo episodi di minacce e di brutalità. E soprattutto, come ci insegna la storia delle emozioni, esistono stili di comportamento che emergono rispetto ad altri in alcuni momenti storici, e che in questo caso ci parlano di un deserto e non di un eccesso emozionale, di un analfabetismo dei sentimenti (di cui la nostra società attuale è afflitta), e di un appiattimento delle risorse individuali e collettive ai drammi e alle fatiche della vita.
Televisioni, social media, carta stampata dovrebbero insistere piuttosto sul ventaglio di risposte al disagio, proponendo storie finite in altro modo (che poi sono la stragrande maggioranza). Si deve comunicare la possibilità di uscire da quella che appare in maniera distorta come una strada maestra ma che è invece un vicolo cieco e orrendo.
Opporre alla povertà di un gesto la visione di un paesaggio molteplice e vasto, di scelte multiple, di percorsi attraversati da mille sentieri. Non c’è mai un’unica scelta.
L’altro piano riguarda l’azione preventiva. Si tratta a parer mio di riprendere le modalità con cui si è affrontata la protezione dei testimoni di mafia, ma mutando direzione. Invece che far subire alla donna minacciata e che ha denunciato lo stalking o peggio, l’allontanamento dalla sua casa, dal suo ambiente, dal lavoro e dalle sue reti personali, si vada a trasferire l’uomo violento in un’altra città e almeno in un’altra regione, possibilmente molto distante. E che abbia l’obbligo di firma, come i mafiosi, in modo che si possano controllare i suoi spostamenti.
Perché ciò che non dobbiamo permettere è che le conseguenze di un comportamento violento maschile vengano pagate in qualità di libertà personale femminile. Affinché queste donne non siano viste solo come vittime ma come soggetti autonomi che perseguono le loro scelte di vita.
L’autrice è storica e scrittrice
*
NOTA:
QUASI OGNI GIORNO UN #UOMO UCCIDE UNA DONNA (ma chi l’addestrò per la vittoria?). Forse non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e venir fuori dalla edipica tragedia della cosmoteandria e laica e religiosa?!
ANTROPOLOGIA E STORIOGRAFIA. Per uscire dal manicomio di una storia segnata (e raccontata, come Brecht ben illustra)) da una andrologia di lunga durata, dall’inferno della tragedia (Edipo), e vedere Lucifero a "gambe in sù" (Inf. XXXIV, 92) o, diversamente, la testa di Oloferne tagliata da Giuditta (Botticelli), oggi, è necessario non solo un radicale capovolgimento di ottica, ma soprattutto prendere coscienza della necessità di uscire da dentro un campo antropologico con la bilancia rotta (tutte le relazioni dell’intera società senza più giustizia)) e smetterla di continuare a fare "un’operazione matematica ritenuta abitualmente sbagliata" (come già denunciato da Franca Ongaro Basaglia). O, contro l’evidenza di Dante Alighieri, ogni speranza è ormai solo un’illusione?! E la storia è finita?!
COSTITUZIONE ("BIBBIA CIVILE") ED EPISTEMOLOGIA "BIBLICA"! . Benché sulla questione antropologica (Kant, "Logica", 1800) abbia richiamato tutta la sua attenzione, l’idealismo materialistico (o il materialismo idealistico) l’ha "conservata e negata" ("superata") nella grande "Scienza della Logica" dello Spirito Assoluto di Hegel (Napoleone). Recentemente, Gregory Bateson, benché (come egli stesso dice in una conferenza del 1979) abbia "all’enima della Sfinge" dedicato "cinquant’anni" della sua "vita di antropologo", non è riuscito a venir fuori dall’orizzonte della tragedia e dalla città di Edipo ed è ritornato sulla strada del "sacro"!
("DIGNITÀ DELL’UOMO". Non per sminuire nessuno, ma per uscire dalla "preistoria" (K. Marx), è bene ricordare che il "Dio" a cui guarda Gregory Bateson, è ancora il dio dell’antico patto, quello dell’andrologia di Paolo di Tarso: il cap. XIII di "Dove gli angeli esitano" (Adelphi,1989) è titolato "Il dio che non si può beffare" e mette in citazione la frase di san Paolo: "Non vi fate illusioni: Dio non lo si può beffare" (Gal., VI, 7)!!!
DIGNITÀ. Che dire?! l’antropologa Ida Magli non ha solo scritto "La femmina dell’uomo" (Laterza, 1982) ma anche scritto il libro "SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA"; il sottotitolo è "La violenza sulle donne, il pensiero di Wojtyla". Che dire?! Continuare nello Spirito di Napoleone, Hegel, Bateson, Costantino?! Dopo Dante2021?!
Federico La Sala
Euro2020, la politica nel pallone
Ci sono manifestazioni sportive che raccontano meglio di qualsiasi opera il proprio tempo. È il caso di questi europei di calcio, rimandati, strani, complicati e in fin dei conti meravigliosi. Sia da vincere sia «da leggere»
di Nicola Pedrazzi (Il Mulino, 12 luglio 2021).
«Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e a teatro, le mie vere università». Pare lo abbia detto Albert Camus, ma a prescindere dall’autore l’aforisma è portatore di verità profonde. Lo hanno dimostrato questi Europei 2020, che la Uefa voleva itineranti per festeggiare i sessant’anni della manifestazione, ma che a causa della pandemia si sono svolti un anno più tardi, coinvolgendo undici Paesi di un continente desideroso di assembramento, unito dalla voglia di tornare a dividersi.
Per un mese intero le immagini e le atmosfere provenienti dagli stadi di Azerbaigian, Danimarca, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda, Scozia, Spagna, Romania, Russia, Ungheria, hanno rappresentato un’Europa più estesa e complessa dell’attuale Unione europea, hanno raccontato le fratture del nostro spazio geografico, hanno dimostrato perché la «geopolitica del pallone» è divenuta un genere letterario serio e praticato. Il calcio delle nazionali intreccia da sempre relazioni politiche con gli Stati-nazione, il capitalismo, l’immaginario collettivo europeo, ma gli Euro2020 hanno miscelato questi tre ingredienti in un racconto quasi perfetto del nostro tempo. Proviamo a dipanarne le trame.
Calcio e nazione. Ce lo siamo dimenticati, ma a vincere i primi europei di calcio (luglio 1960) fu l’Unione Sovietica di Nikita Krusciov, che piegò ai supplementari la Jugoslavia del maresciallo Tito: due modelli «alternativi» di comunismo, ma soprattutto due grandi Paesi multietnici che oggi non esistono più. È indicativo che la relazione tra calcio e nazione venga spesso indagata a partire dalla dissoluzione della Jugoslavia.
In un libro romantico uscito nel 2016, il giornalista Gigi Riva è arrivato a chiedersi cosa sarebbe accaduto se ai mondiali italiani il capitano jugoslavo Faruk Hadžibegić non avesse sbagliato il rigore decisivo contro l’Argentina di Maradona.
Era il 30 giugno 1990, e l’eliminazione della nazionale jugoslava consumatasi al comunale di Firenze fece da sfondo alla deflagrazione di uno Stato che per spezzettarsi reclutò proprio nel calcio simboli e milizie, facendo nei suoi stadi le prove generali di una battaglia etnica, come avvenuto un mese prima tra tifosi e giocatori della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado.
Anche alla vigilia di Euro2020 gli organizzatori paventavano operazioni di nation-building calcistico. Si temevano, ad esempio, le gestualità della Turchia di Erdogan che durante le qualificazioni si era rivolta al pubblico parigino con il saluto militare; si temeva che il tabellone incrociasse Russia e Ucraina, la cui maglia ospitava sul petto una mappa comprensiva di Crimea, la penisola del Mar Nero invasa e poi annessa dalla Russia con un referendum molto contestato nel 2014 - nonché, va ricordato, due slogan terrificanti cuciti sul colletto («Gloria all’Ucraina» e «Gloria agli eroi»), entrambi riconducibili ai gruppi nazionalisti che negli anni Trenta finirono per collaborare con la Germania nazista. Alcuni osservatori avevano caricato di valori politici anche il «derby della Brexit» proposto dal gruppo D, tra l’Inghilterra di «God Save The Queen» e una Scozia in cui nazionalismo, indipendentismo ed europeismo sono tornati ad allinearsi. Particolare attenzione era poi rivolta alla Macedonia del Nord, un Paese che non si era mai qualificato alle fasi finali e che esordiva con un nuovo nome negoziato nel 2019 per porre fine al decennale contenzioso con la Grecia, per la quale la «Macedonia» continua ancora oggi a essere una regione del proprio territorio. Pochi in Italia hanno seguito la vicenda, ma su pressione dei tifosi la federazione macedone ha dovuto ripristinare in fretta e furia la vecchia maglia su cui si staglia il sole rosso di Verghina, un riferimento a un reperto archeologico rinvenuto negli anni Settanta nella Macedonia greca che entrambe le tradizioni nazionali riconducono alla dinastia dell’eroe conteso Alessandro Magno.
Se dinanzi a queste dispute «balcaniche» e «primordiali» abbiamo la tentazione di sorridere è soltanto perché abbiamo rimosso che l’azzurro della nostra maglia è il colore di Casa Savoia (peraltro sopravvissuto nel vessillo della presidenza della Repubblica). Come i testi e le musiche degli inni ripassati in queste settimane ci hanno ricordato, gli Stati-nazione sono un’invenzione dei Risorgimenti europei, e questi non sono ugualmente distanti nel tempo e nella memoria di tutti i Paesi. L’Ucraina in fin dei conti non ha inventato niente: durante le qualificazioni all’europeo del 2016 la partita Serbia-Albania fu sospesa a causa dell’atterraggio sul campo di una bandiera raffigurante la Grande Albania etnica, comprensiva del Kosovo e dei faccioni di Ismail Qemali e Isa Boletini, due patrioti fondatori dello Stato albanese. In quel caso la provocazione sui confini non fu organizzata né avvallata dalla federazione albanese, ma il punto da considerare è che i governi dei piccoli Paesi che popolano l’oltre-Adriatico si trovano a stretto contatto con il momento genetico della loro statualità: sono più bisognosi di nation-building e dunque più propensi a conferire alle sfide calcistiche un valore politico. Problema che in diverse forme può valere anche per le Repubbliche dell’Est Europa, che al fine di «ritrovarsi» sono costrette a risalire a prima dell’Unione Sovietica, e fatalmente a ripescare i nazionalismi e le tradizioni del primo Novecento.
Calcio e capitalismo. Sebbene le insidie locali fossero note, la Uefa ha voluto girovagare per un continente post-pandemico, da Roma a Baku, da Bucarest a San Pietroburgo. Perché? La risposta è innanzitutto economica. Come ben spiegato dal giornalista del «Sole 24 Ore» Marco Bellinazzo durante un dibattito organizzato dalla rivista «Le Grand Continent», il principale interesse dell’istituzione presieduta da Aleksander Čeferin - la Uefa in buona sostanza federa gli interessi della Premier League inglese, della Bundesliga tedesca, della Liga spagnola e della Serie A italiana - è di rimettere l’Europa, o meglio la Uefa stessa, «al centro del pianeta calcio». I vessilli locali, di club e nazionali, sventolano ancora fieri tra i mille campanili del vecchio continente, nel mentre però la Fifa, la Federazione internazionale di cui la Uefa stessa è membro, dopo i mondiali di Russia (2018) sta organizzando le prossime edizioni in Qatar (2022: saranno i primi mondiali a tenersi da novembre a dicembre) e in Canada-Usa-Messico (2026: saranno i primi mondiali a ospitare 48 squadre invece che 32, e a svolgersi spalmati su tre Paesi).
Il progetto, sventato solo pochi mesi fa, di una Superlega dei club europei più blasonati di fatto alternativo alla Champions League (la manifestazione più importante gestita dalla Uefa) ha reso evidente che cosa può accadere quando i bilanci scricchiolanti di società storiche con assetti proprietari sempre più internazionalizzati incontrano i finanziamenti di una banca americana, in un contesto tecnologico che spinge per un calcio-intrattenimento globale e digitale e a cui la pandemia ha tolto per mesi ogni addentellato fisico.
L’insistenza con cui la Uefa ha scelto la formula itinerante e ha invitato i Paesi ospitanti a riempire gli stadi si spiega quindi anche con la necessità di uscire dal virtuale pandemico e di recuperare l’immagine di imprescindibile organizzatore delle passioni del popolo del calcio. Per convergenza di interessi populistici, il più disponibile alla mobilitazione di pubblico e alla recita della rinascita è stato il primo ministro ungherese Victor Orban, che ha concesso il 100% della Puskas Arena di Budapest di recente costruzione; ma persino il governo inglese, fiero di una campagna vaccinale gestita fuori dall’Ue e desideroso dell’appoggio Uefa in vista della sua candidatura per i mondiali del 2030, ha messo da parte tante perplessità sanitarie, concedendo una capienza di circa 60.000 spettatori già a partire dalle semifinali.
Negli ultimi mesi la Uefa è stata vissuta e raccontata alternativamente come un baluardo a difesa degli antichi «valori del calcio», come un organismo cosmopolitico che esporta il politicamente corretto dell’anglosfera, come un’istituzione ambigua, che mette l’arcobaleno nel logo ma strizza l’occhio a regimi e sentimenti nazionalistici; quando se guardata con realismo essa ci appare per quello che è: un attore di primo piano di una sport-industry che attraversa una fase epocale di cambiamento, e che dinanzi alla potenza economica di Usa, Russia, Cina e Paesi del Golfo - Bellinazzo l’ha definitiva la «Yalta del calcio» - cerca di difendere con ogni mezzo il suo posto nel mondo. Proprio come fatto per sventare il progetto della Superlega, quando Čeferin ha saputo giocare di sponda sia con diversi governi europei (Macron e Johnson innanzitutto) che con la ricchissima presidenza qatariota del Paris Saint-Germain, la quale tutto è fuorché locale.
Calcio e immaginario europeo. E veniamo così alla dimensione europea di una manifestazione che nasce per essere tale. Qui entra in gioco un immaginario che travalica gli immaginari nazionali e trascura le realtà economiche, perché ha a che fare con l’impareggiabile capacità del calcio periodico e mediatizzato di sincronizzare le esistenze di pubblici che non hanno nulla in comune. Tra dieci anni solo una minoranza di appassionati italiani sarà in grado di discorrere del goal di Pessina contro l’Austria (senza il quale gli azzurri non avrebbero passato il turno), ma milioni di europei ricorderanno il riscaldamento di Italia-Spagna sulle note di «A far l’amore comincia tu», avranno presente che è proprio in quei giorni che se ne è andata Raffaella Carrà, così come è proprio in quei giorni che ho comprato la macchina, ho mangiato in quel posto, ho festeggiato la maturità, si discuteva di arcobaleni, ci siamo conosciuti e ci siamo innamorati.
Come ricordato a più riprese da Simone Conte nel delizioso Podcast Wembley gli europei e i mondiali di calcio costruiscono un lasso di tempo dentro al quale la vita di un atleta può cambiare per sempre, e per estensione la vita di chiunque si sincronizzi con lo spettacolo. Va inserito qui il dibattito, sconclusionato ma molto interessante, sui gesti simbolici come l’inginocchiamento in solidarietà alla lotta contro il razzismo. Un rito consolidato nel mondo anglosassone - tanto che anche chi è favorevole comincia a denunciare l’usura routinaria del gesto -, ma che una volta europeizzato dalle nazionali britanniche - con l’eccezione del Belgio, le nazionali continentali hanno preferito non aderire - ha scatenato discussioni a non finire non solo sul ruolo dello sport nella lotta a ogni discriminazione, ma sulla libertà di coscienza e il senso dei simboli in un mondo in cui, lo ha ricordato molto bene Daniele Rielli sul «Foglio», il marketing corporate e i social network trasformano i campioni in influencer standardizzati, privando di consapevolezza, gratuità e coraggio gesti il cui impatto solitamente è proporzionale al rischio personale che si corre. Giusto per fare un esempio, durante la presidenza Trump il primo atleta a rimanere seduto all’esecuzione dell’inno è stato il quarterback del San Francisco Colin Kaepernick, che di conseguenza non trova squadra dal 2017 - un’esclusione sportiva profondamente sbagliata, che però non gli ha impedito di diventare testimonial della Nike e protagonista di una serie Netflix, ed ecco di nuovo il corporate.
Un gesto poco mediato intendeva forse essere la richiesta del sindaco di Monaco Dieter Reiter di colorare d’arcobaleno l’Allianz Arena in occasione di Germania-Ungheria, per segnalare la protesta della sua città nei confronti dei recenti provvedimenti del parlamento ungherese volti a evitare la rappresentazione dell’omosessualità nei materiali scolastici e educativi (peraltro all’interno di una legge scritta per combattere la pedofilia). Il no dell’Uefa, che ha distinto tra la fascia arcobaleno del capitano tedesco Neuer (un gesto personale contro l’omofobia e dunque irreprensibile) e l’illuminazione dello stadio ospitante (una presa di posizione ambientale contro uno dei Paesi rappresentato in campo, e dunque non autorizzabile) è stato tempestivo nel rispetto dei regolamenti e scaltro nel lasciare comunque spazio al gesto simbolico, che messo in atto a margine della partita ha bucato l’immaginario europeo altrettanto o forse più che se fosse accaduto durante. Nonostante la sua squadra scintillante, talmente bella da impadronirsi dei cuori delle sue vittime - dei belgi in festa per il successo italiano ne vogliamo parlare? - la Federazione italiana ha per converso dimostrato tutta la sua impreparazione sotto al profilo comunicativo: facendosi cogliere di sorpresa da tematiche internazionali più che prevedibili, e poi fabbricando una contorta interpretazione «di squadra», per cui se si abbraccia un simbolo non lo si fa per il suo significato intrinseco (no al razzismo) ma in solidarietà con la battaglia dell’avversario (?!). Lato italiano è forse questa l’unica occasione persa dell’europeo, ma poco importa quando in finale sei l’unico Paese membro e dalla tua hai persino la presidente della Commissione europea, un’istituzione che per sua natura non fa mai simili professioni di fede nazionali.
In conclusione. Gli europei di calcio sono un afflato europeo che sgorga da contrapposizioni nazionali che non sempre il fatto sportivo riesce a sublimare; la Uefa è un attore economico in difficoltà, che sceglie l’arcobaleno per ragioni di marketing, sa vietarlo per ragioni assennate e dimenticarselo per dissennate convenienze (come riempire lo stadio di Budapest); l’immaginario europeo è un mosaico confuso, diviso e interconnesso, in cui è sempre più difficile distinguere tra l’atleta e il tifoso, perché tra Instagram e Playstation il primo rifruisce sé stesso, in un perfetto cerchio chiaraferragnesco in cui il guardante e il guardato, il milionario e il nullatenente contribuiscono alla reciproca omologazione (è per questo che oggi l’inno non si canta ma si urla, perché i giocatori sono tifosi di loro stessi, non è «colpa» di Pertini, Ciampi o Napolitano). Eppure, persino nelle pieghe meno edificanti di queste contraddizioni, persino nei suoi esiti negativi e paradossali, questo periodico modo di incontrarsi non è mai vano, perché nel confronto dei comportamenti delle proprie squadre e dei propri campioni ognuno è portato a chiedersi, fanciullo o adulto, cosa farebbe lui in quella situazione, e in ultima istanza, chi è, come intende stare e spendersi nel guazzabuglio contemporaneo. La metafora del calcio è politica nella misura in cui accende un’immedesimazione che non conosce classi e culture, sintetizzando in novanta minuti di prato i dilemmi più seri delle vite umane: la fatica, la sofferenza e il sollievo di uscirne in qualche modo tutti insieme. Oltre a una nazionale giocosa come non mai e alla sua meritata coppa europea, è questa morale universale che conviene riportare per un po’ di tempo a Roma.
DA VERSAILLES ALLA CIBERNETICA.
di Gregory Bateson
Devo parlare di storia recente, come appare a me nella mia generazione e a voi nella vostra, e mentre giungevo in aereo stamane, nella mia mente cominciarono a riecheggiare certe parole. Erano frasi più roboanti di quelle che io sarei mai capace di formulare. Una di queste frasi era: «I padri hanno mangiato il frutto amaro e i denti dei figli si sono allegati». Un’altra era l’asserzione di Joyce che «La storia è quell’incubo da cui non ci si sveglia». Un’altra era: «I peccati dei padri ricadranno sui figli anche fino alla terza o quarta generazione di quelli che mi odiano». E, infine, non così immediatamente pertinente, ma, penso, sempre pertinente al problema del meccanismo sociale: «Colui che vuol far del bene a un altro deve farlo nei Minuti Particolari. Il Bene Generale è la scusa del furfante, dell’ipocrita e dell’adulatore».
Stiamo parlando di cose gravi. Ho intitolato questa conferenza «Da Versailles alla cibernetica», menzionando i due eventi storici più importanti del XX secolo. La parola ’cibernetica’ è familiare, no? Ma quanti di voi sanno quello che accadde a Versailles nel 1919?
Il problema è: che cosa conterà della storia degli ultimi sessant’anni? Io ho sessantadue anni, e quando ho cominciato a pensare alla storia che ho visto nel corso della mia vita, mi è sembrato in realtà di aver visto solo due momenti che definirei veramente importanti dal punto di vista di un antropologo.
Uno concerne gli eventi che hanno condotto al Trattato di Versailles, e l’altro concerne la rivoluzione cibernetica. Forse sarete sorpresi o stupiti che io non abbia ricordato né la bomba atomica nè, addirittura, la seconda guerra mondiale. Non ho ricordato la diffusione dell’automobile o della radio e della televisione o molti altri fatti che sono accaduti negli ultimi sessant’anni.
Vi dirò il mio criterio per l’importanza storica.
I mammiferi in generale, e noi uomini in particolare, si curano moltissimo non degli episodi, ma delle strutture delle loro relazioni. Quando apro lo sportello del frigorifero e il gatto si avvicina emettendo certi suoni, esso non sta parlando del fegato o del latte, anche se so bene che è proprio quello ciò che il gatto vuole. Posso esser capace di indovinare e dargli ciò che desidera (se ce n’è nel frigorifero). Ciò che il gatto dice, in realtà, è qualcosa che riguarda la sua relazione con me. Se esprimessi con parole il suo messaggio, ne risulterebbe qualcosa del tipo: «dipendenza, dipendenza, dipendenza». In effetti il gatto sta parlando di una struttura piuttosto astratta nell’ambito di una relazione. Da quest’asserzione di una struttura, io dovrei passare dal generale al particolare: dedurre «latte» o «fegato».
Questo punto è fondamentale; questo è ciò che interessa i mammiferi. Essi si curano delle strutture di relazione, della posizione in cui si trovano rispetto agli altri in un rapporto di amore, odio, rispetto, dipendenza, fiducia, e astrazioni analoghe. Questo è il punto ove cadere in errore è doloroso. Se noi ci fidiamo di qualcuno e scopriamo che costui non meritava fiducia; o se diffidiamo di qualcuno e scopriamo che in realtà costui meritava fiducia, ci sentiamo male. Il dolore che può derivare agli uomini e a tutti gli altri mammiferi da questo tipo di errore è grandissimo. Se quindi vogliamo davvero sapere quali siano i punti significativi della storia, dobbiamo chiederci quali sono i momenti della storia in cui sono cambiati gli atteggiamenti. Sono questi i momenti in cui la gente soffre a causa dei ’valori’ precedenti.
Pensate al termostato di casa vostra. Il tempo fuori cambia, la temperatura della stanza scende, l’interruttore del termometro in soggiorno fa quello che deve fare e accende la caldaia, e quando la stanza è calda l’interruttore del termometro spegne di nuovo la caldaia. Il sistema è quello che si chiama un circuito omeostatico, o servomeccanismo. Ma c’è anche una scatoletta sulla parete del soggiorno con la quale si regola il termostato. Se nell’ultima settimana la casa è stata troppo fredda, dovete spostare in su il termostato dalla sua posizione attuale per far oscillare il sistema intorno a un altro livello. Il tempo esterno, in nessun modo, nè col freddo nè col caldo nè in altro modo, potrà cambiare questa posizione, che è detta ’polarizzazione’ del sistema. La temperatura della casa oscillerà, sarà più caldo o più freddo secondo varie circostanze, ma la posizione del meccanismo non sarà mutata da questi cambiamenti. Quando invece io vado a variare la polarizzazione, cambierò quello che si può chiamare l’ ’atteggiamento’ del sistema.
Analogamente, la domanda importante relativa alla storia è: la polarizzazione o l’atteggiamento sono stati cambiati? L’episodico accadere degli eventi sotto una polarizzazione stazionaria è cosa veramente trita. È questo che avevo in mente quando ho detto che i due eventi storici più importanti della mia vita sono stati il Trattato di Versailles e la scoperta della cibernetica.
I più, tra voi, probabilmente non sanno come si giunse a stipulare il Trattato di Versailles. La storia è molto semplice: la prima guerra mondiale continuava a trascinarsi; era abbastanza evidente che i tedeschi stavano perdendo. A questo punto George Creel, che si occupava di pubbliche relazioni (e vorrei che non dimenticaste che costui fu uno dei nonni delle moderne pubbliche relazioni) ebbe un’idea: l’idea era che forse i tedeschi si sarebbero arresi se avessimo offerto loro condizioni armistiziali leggere. Egli preparò allora un pacchetto di condizioni leggere, che non contemplavano provvedimenti punitivi. Queste condizioni erano articolate in quattordici punti; ed egli comunicò questi Quattordici Punti al Presidente Wilson. Se avete intenzione di ingannare qualcuno, come latore del messaggio dovete scegliere un uomo onesto; il Presidente Wilson era uomo di onestà quasi patologica e di sentimenti umanitari. Egli sviluppò i punti in un gran numero di discorsi: non dovevano esserci «né annessioni, nè riparazioni di guerra, nè distruzioni punitive...» e così via. E i tedeschi si arresero.
Noi, inglesi e americani (specialmente gli inglesi) continuammo ovviamente a tenere la Germania sotto embargo, perché non volevamo che i tedeschi si ringalluzzissero prima della firma del Trattato; e così, per un altro anno, essi continuarono a patir la fame.
La Conferenza di pace è stata vivacemente descritta da Maynard Keynes in The Economic Consequences of the Peace (1919).
Il Trattato fu finalmente redatto da quattro uomini, Clemenceau, «la Tigre», che voleva schiacciare la Germania, Lloyd George, che riteneva fosse politicamente vantaggioso ottenere dalla Germania molte riparazioni di guerra, e imporle qualche ritorsione; e Wilson, che doveva essere continuamente menato per il naso. Ogni volta che Wilson aveva dei ripensamenti su quei Quattordici Punti, essi lo portavano nei cimiteri di guerra e lo facevano vergognare di non sentirsi in collera coi tedeschi. Chi era l’altro? L’altro era Orlando, un italiano.
Si trattò di una delle più grandi svendite nella storia della nostra civiltà; un evento tra i più straordinari, che portò difilato e inevitabilmente alla seconda guerra mondiale. Portò anche (e questo è forse più interessante che non la prima conseguenza) a uno scadimento morale della politica tedesca. Se voi promettete qualcosa a vostro figlio, e poi vi rimangiate la promessa, inquadrando però tutta la faccenda su un piano etico elevato, la conseguenza sarà non solo che egli sarà in collera con voi, ma che i suoi atteggiamenti morali peggioreranno, in quanto egli sentirà l’ingiustizia della canagliata che gli fate. Non soltanto la seconda guerra mondiale è stata la risposta appropriata di una nazione che era stata trattata proprio in questa maniera; ciò che è più importante è che era lecito aspettarsi, da questo tipo di trattamento, uno scadimento morale di quella nazione. Lo scadimento morale della Germania ha causato anche il nostro scadimento morale. Ecco perché dico che il Trattato di Versailles è stato un giro di boa nell’ambito degli atteggiamenti morali.
Ritengo che sia necessario attendere ancora un paio di generazioni prima che i postumi di quella svendita esauriscano i loro effetti. Siamo, di fatto, come i membri della casa di Atreo nella tragedia greca. Prima ci fu l’adulterio di Tieste, poi Atreo ammazzò i tre figli di Tieste e glieli imbandì nel banchetto della riconciliazione; poi ci fu l’assassinio del figlio di Atreo, Agamennone, da parte di Egisto, figlio di Tieste; e infine Oreste uccise Egisto e Clitennestra.
La cosa continua ad andare avanti. È la tragedia della sfiducia, dell’odio e della distruzione, che vibrano e si propagano attraverso le generazioni.
Provate a immaginare di capitare nel bel mezzo di una tale sequela di tragedie. Come stanno le cose per la generazione intermedia degli Atridi? Essi vivono in un universo pazzesco. Dal punto di vista di quelli che hanno dato inizio al disastro, non è così pazzesco: essi sanno che cosa è accaduto e in che modo vi sono arrivati. Ma i successori, che all’inizio non erano presenti, si trovano a vivere in un universo pazzesco e si ritrovano pazzi proprio perché non sanno come ci sono capitati.
Prendere una dose di LSD va bene: si prova la sensazione di essere più o meno pazzi; ma ciò ha perfettamente senso, perché si sa che si è presa una dose di LSD. Se invece si prende I’LSD per accidente, e poi ci si sente impazzire senza sapere come e perché, questa è un’esperienza terribile e angosciosa; è un’esperienza assai più seria e spaventosa, molto diversa dal ’viaggio’, che potete anche godere se sapete di aver preso l’LSD.
Considerate ora la differenza tra la mia generazione e quelli di voi che hanno meno di venticinque anni. Tutti viviamo nello stesso pazzesco universo, in cui l’odio, la sfiducia e l’ipocrisia (specialmente a livello internazionale) risalgono ai Quattordici Punti e al Trattato di Versailles. Noi più anziani sappiamo come si è arrivati fino a questo punto. Ricordo che mio padre, leggendo a colazione i Quattordici Punti, disse: «Per Giove, vogliono conceder loro un armistizio decente, una pace onesta, o qualcosa del genere». E ricordo anche, ma non tento di ridirla, la cosa che disse quando il Trattato di Versailles fu reso noto: è una cosa che non si può stampare. Quindi io so più o meno come si è giunti a questo punto. Ma dal vostro punto di vista, noi siamo assolutamente pazzi, e voi non sapete quali eventi storici abbiano portato a questa pazzia. «I padri hanno mangiato il frutto amaro e i denti dei figli si sono allegati». Per i padri va bene: essi sanno che cosa hanno mangiato; ma i figli non sanno che cosa è stato mangiato.
DA VERSAILLES ALLA CIBERNETICA.
di Gregory Bateson
Vediamo che cosa è lecito aspettarsi da persone che abbiano appena subito un atroce inganno. Prima della prima guerra mondiale si pensava generalmente che il compromesso e un pizzico d’ipocrisia fossero ingredienti molto importanti per il raggiungimento di un certo comfort nella vita d’ogni giorno. Se leggete, per esempio, Erewhon Revisited, di Samuel Butler, capirete che cosa intendo dire. Tutti i personaggi principali del romanzo si sono cacciati in guai terribili: alcuni debbono essere giustiziati, altri debbono divenire oggetto di pubblica esecrazione; e il sistema religioso della nazione minaccia di crollare. Queste difficoltà e complicazioni sono appianate da Mrs. Ydgrun (o, come diremmo noi, «Mrs. Grundy») custode dei costumi di Erewhon. Ella ricostruisce con cura la storia, come un rompicapo a intarsio, in modo che nessuno stia realmente male e a nessuno capitino disavventure (e specialmente che nessuno sia giustiziato). Questa filosofia era assai comoda. Un po’ d’ipocrisia e un po’ di compromesso lubrificano gl’ingranaggi della vita sociale.
Ma dopo il grande inganno questa filosofia non può reggere. Avete perfettamente ragione, c’è qualcosa di sbagliato, e questo qualcosa ha la natura dell’inganno e dell’ipocrisia. Voi vivete in mezzo alla corruzione.
Ovviamente le vostre reazioni spontanee sono puritane. Non è un puritanesimo sessuale, poiché sullo sfondo non c’è inganno sessuale. Ma un rigoroso puritanesimo contro il compromesso, un puritanesimo contro l’ipocrisia che finisce col ridurre la vita in piccoli pezzi. Sono le grandi strutture integrate della vita che sembrano aver portato alla follia, e così voi cercate di concentrarvi sulle cose più minute. «Colui che vuol far del bene a un altro deve farlo nei Minuti Particolari. Il Bene Generale è la scusa del furfante, dell’ipocrita e dell’adulatore». Il bene generale puzza d’ipocrisia per la nuova generazione.
Non ho dubbi che se voi chiedeste a George Creel di giustificare i Quattordici Punti, egli invocherebbe il bene generale. È possibile che la sua operazioncella abbia salvato la vita di qualche migliaio di americani nel 1918. Non so però quante vite essa sia costata nella seconda guerra mondiale, e, dopo, in Corea e nel Vietnam. Ricordo che Hiroshima e Nagasaki furono giustificate col bene generale e col risparmio di vite americane. Ci fu un gran parlare di ’resa incondizionata’, forse perché non avevamo fiducia nella nostra capacità di osservare un armistizio condizionato. Il destino di Hiroshima fu decretato a Versailles?
Voglio parlare adesso dell’altro evento storico importante accaduto durante la mia vita, nel 1946-47 circa. Si trattò del coagularsi di numerose idee che erano sorte in luoghi diversi durante la seconda guerra mondiale. Possiamo chiamare l’aggregato di queste idee cibernetica, o teoria delle comunicazioni, o teoria dell’informazione, o teoria dei sistemi. Queste idee nacquero in molti luoghi: a Vienna con Bertalanffy, a Harvard con Wiener, a Princeton con von Neumann, nei Laboratori della Bell Telephone con Shannon, a Cambridge con Craik, e così via. Tutti questi sviluppi separati in diversi centri intellettuali avevano a che fare con problemi di comunicazione e specialmente col problema di quale fosse la natura di un sistema organizzato.
Noterete che tutto ciò che ho detto sulla storia e su Versailles è una discussione sui sistemi organizzati e le loro proprietà. Ora voglio dire che stiamo cominciando in una certa misura a comprendere in modo rigorosamente scientifico questi misteriosi sistemi organizzati. Quello che sappiamo oggi è assai più di quanto avrebbe mai potuto dire George Creel. Egli fu scienziato applicato prima che la scienza fosse matura per essere applicata.
Una delle radici della cibernetica risale a Whitehead e Russell e a ciò che si chiama la Teoria dei Tipi logici. In linea di principio, il nome non è la cosa cui il nome si riferisce, e il nome del nome non è il nome, e così via. In termini di questa potente teoria, un messaggio sulla guerra non è parte della guerra.
Diciamo così: il messaggio ’Giochiamo a scacchi’ non è una mossa del gioco degli scacchi; è un messaggio in un linguaggio più astratto di quello del gioco che si svolge sulla scacchiera. Il messaggio ’Facciamo la pace in questi e questi termini’ non è nello stesso sistema etico al quale appartengono gl’inganni e gli stratagemmi della battaglia. Dicono che tutto è lecito in amore e in guerra, e questo può essere vero all’interno dell’amore e della guerra, ma all’esterno e riguardo all’amore e alla guerra, l’etica è un po’ diversa. Per secoli gli uomini hanno giudicato il tradimento durante la tregua o le trattative per la pace peggiore dell’inganno in battaglia. Oggi questo principio etico trova un rigoroso fondamento teorico e scientifico. Ora l’etica può essere esaminata in modo formale, rigoroso, logico, matematico, e così via; e poggia su basi assai diverse dalle prediche e dalle invocazioni. Non è più inevitabile che ciascuno la pensi a suo modo; a volte possiamo distinguere ciò che è giusto da ciò che è errato.
Ho preso la cibernetica come il secondo evento d’importanza storica nella mia vita perché ho almeno una tenue speranza che possiamo indurci a usare queste nuove conoscenze con un po’ di onestà: se comprendiamo un pochino quello che stiamo facendo, forse ciò potrà aiutarci a uscire dal labirinto di allucinazioni che ci siamo orditi intorno.
La cibernetica, a ogni modo, è un contributo al cambiamento: non solo un cambiamento dell’atteggiamento, ma addirittura un cambiamento nella comprensione di ciò che è un atteggiamento.
La posizione che ho assunto nello scegliere ciò che è importante nella storia (quando ho detto che le cose importanti sono gli istanti in cui viene determinato l’atteggiamento, gli istanti in cui viene cambiata la polarizzazione del termostato), questa posizione deriva direttamente dalla cibernetica. Sono pensieri plasmati dagli eventi accaduti dal 1946 in poi.
Non dobbiamo illuderci di aver trovata la soluzione bell’e pronta. Abbiamo ora a nostra disposizione molta cibernetica, molta teoria dei giochi, e cominciamo a conoscere e comprendere i sistemi complessi. Ma ogni conoscenza può essere usata a scopi distruttivi.
Ritengo che la cibernetica rappresenti il boccone più grosso che l’uomo abbia strappato dal frutto dell’Albero della Conoscenza negli ultimi duemila anni. Ma la maggior parte dei bocconi di questa mela si sono dimostrati piuttosto indigesti (di solito per motivi cibernetici).
In se stessa, la cibernetica è integra, e questo può aiutarci a non essere indotti a più grande follia, ma non possiamo confidare che essa ci preservi dal peccato.
Ad esempio i ministeri degli Esteri di parecchie nazioni utilizzano oggi la Teoria dei Giochi, con l’ausilio del calcolatore, come un mezzo per decidere la politica internazionale. Dapprima, identificano quelle che sembrano essere le regole di gioco dell’interazione internazionale; poi considerano la distribuzione geografica di forze, armi, punti strategici, controversie, eccetera, nelle nazioni identificate. Essi poi chiedono al calcolatore di computare quale dovrebbe essere la mossa successiva per minimizzare le possibilità di perdere la partita; il calcolatore ronza e cigola e dà una risposta: e quasi quasi si è tentati di obbedirgli. Dopo tutto, se si dà retta al calcolatore si è un po’ meno responsabili che se si fosse presa una decisione autonoma.
Ma se si fa ciò che il calcolatore consiglia, con quella mossa si dà il proprio appoggio alle regole del gioco che si erano fornite al calcolatore: si confermano le regole del gioco.
Anche le nazioni rivali hanno certamente i calcolatori e fanno giochi simili e confermano le regole del gioco che essere forniscono ai loro calcolatori. Il risultato è un sistema in cui le regole dell’interazione internazionale divengono sempre più rigide.
È mia opinione che il vero problema in campo internazionale è che le regole debbono cambiare. Non è questione di che cosa sia meglio fare con le regole così come esse sono oggi; ma piuttosto di come ci si possa svincolare dalle regole secondo le quali abbiamo agito negli ultimi dieci o venti anni, o fin dal Trattato di Versailles. Il problema è di cambiare le regole, e nella misura in cui permetteremo alle nostre invenzioni cibernetiche (i calcolatori) di trascinarci in situazioni sempre più rigide, non faremo altro che calpestare e offendere la prima promettente scoperta fatta dal 1918.
Naturalmente vi sono altri pericoli latenti nella cibernetica, e molti non sono stati neppure individuati. Non si sa, ad esempio, quali possano essere le conseguenze dell’impiego del calcolatore per la gestione di tutti gli schedari della pubblica amministrazione. Almeno questo tuttavia è certo: che nella cibernetica è anche latente il mezzo per conseguire una nuova e forse più umana filosofia, un mezzo per cambiare la nostra strategia del controllo e un mezzo per vedere le nostre follie in una prospettiva più vasta.
* Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente [tit. orig.: Steps to an Ecology of Mind, 1972], Milano, Adelphi, 1977, pp. 487-496.
CHE COS’ E’ LA DIALETTICA
di Theodor W. Adorno (Le parole e le cose, 17 marzo 2021)
Il concetto di dialettica di cui ci occuperemo qui non ha niente a che fare con quello diffuso di un pensiero lontano dalle cose, che si smarrisce in meri artifici concettuali. Già nel luogo della filosofia in cui il concetto della dialettica emerge per la prima volta, in Platone, con esso si intende l’opposto, cioè una disciplina del pensiero che ha il compito di proteggerlo dalle manipolazioni sofistiche.
Platone sostiene che si può dire qualcosa di razionale sugli oggetti solo se si ha una comprensione della cosa (Gorgia, Fedro)[iii].
Nella sua origine la dialettica significa il tentativo di superare, proprio grazie a una rigorosa organizzazione del pensiero concettuale, il mero illusionismo concettuale. Il tentativo di Platone è colpire i suoi avversari, i sofisti, con i loro stessi mezzi.
Tuttavia il concetto di dialettica, così come ci è stato tramandato dall’antichità, è molto diverso da ciò che io intendo. Infatti il concetto antico della dialettica è il concetto di un metodo filosofico. E in una certa misura essa è sempre rimasta tale. La dialettica è entrambe le cose: un metodo del pensiero, ma anche qualcosa di più, cioè una determinata struttura della cosa, che d’altra parte, per ragioni filosofiche fondamentali, dev’essere presa a misura e guida dell’indagine filosofica.
In Platone dialettica significa che il pensiero filosofico non si mantiene in vita tale qual è nel singolo punto, bensì in modo tale da plasmare, senza che noi ce ne rendiamo conto, la nostra coscienza. La dialettica platonica è la dottrina del corretto ordinamento dei concetti, dell’innalzamento dal concreto a ciò che è più elevato e generale. Le idee non sono, anzitutto, che i concetti generali supremi cui il pensiero si solleva[iv]. Dall’altro lato dialettica significa anche, viceversa, procedendo dall’alto, suddividere i concetti nel modo corretto[v].
Platone, con la questione della corretta suddivisione dei concetti, si trova di fronte al problema di ripartirli in modo tale che siano adeguati alle cose comprese sotto di essi. Da un lato bisogna esigere la formazione logica dei concetti, ma essa non dev’essere realizzata in modo violento, a partire da uno schema; piuttosto, i concetti devono essere formati in modo tale da essere commisurati alla cosa. Confronto con il sistema della botanica di Linneo[vi] e il sistema naturale secondo la struttura delle piante. Il vecchio, tradizionale concetto di dialettica non era altro che il metodo dell’ordinamento dei concetti.
D’altra parte, era chiaro già a Platone che noi non sappiamo in partenza se l’ordine concettuale che imprimiamo alle cose sia anche quello che hanno gli oggetti stessi. Per Platone e Aristotele era importante riprodurre i concetti della natura in modo tale che portassero a espressione la cosa compresa sotto di essi. Come facciamo a sapere qualcosa dell’essere non concettuale, che si trova anzitutto al di là dei concetti? -Notiamo che i concetti si impigliano in certe difficoltà; allora, a causa di questa deficienza, dobbiamo passare a una migliore formazione dei concetti. Questa è l’esperienza fondamentale della dialettica, la messa in moto dei concetti attraverso il confronto con ciò che essi esprimono. Bisogna andare a vedere se i dati si accordano o meno con i concetti.
La dialettica è certamente un metodo, che si riferisce al modo del pensiero, ma al tempo stesso si distingue da altri metodi, perché cerca continuamente di non rimanere ferma, perché si corregge continuamente sulla datità delle cose stesse. Tentativo di definizione: dialettica è un pensiero che non si accontenta dell’ordinamento concettuale, ma è l’arte di correggere l’ordinamento concettuale con l’essere degli oggetti. È questo il nervo vitale del pensiero dialettico, il momento dell’opposizione. La dialettica è il contrario di ciò che si pensa: non una semplice arte dell’operazione, ma il tentativo di superare la manipolazione meramente concettuale, di portare a compimento, a ogni livello, la tensione fra il pensiero e ciò che sta sotto di esso. Dialettica è il metodo del pensiero che non è semplice metodo, ma il tentativo di superare il semplice arbitrio del metodo e accogliere nel concetto, insieme, ciò che non è a sua volta concetto.
Sull’“esagerazione”[vii]: si dice che la verità dev’essere sempre la cosa più semplice, primitiva; ciò che se ne discosta sarebbe soltanto un’aggiunta arbitraria. Questa immagine presuppone che il mondo coincida con ciò che esso esibisce nella sua facciata. Qui il compito della filosofia è disorientare radicalmente. Un pensiero che non si faccia carico di tutta la fatica necessaria per superare le rappresentazioni impresse nel senso comune, non è altro che la mera riproduzione di ciò che si pensa e si dice. La filosofia deve insegnare a non farsi abbindolare. Hegel in una conversazione con Goethe: “La filosofia è lo spirito di contraddizione organizzato”[viii]. Ogni pensiero che sfonda la facciata, la parvenza necessaria, l’ideologia, è sempre esagerato. La propensione della dialettica a portare agli estremi ha oggi esattamente la funzione di tener testa alla smisurata pressione esterna.
La dialettica è consapevole che da un lato c’è il pensiero e, dall’altro, ciò su cui esso si affatica. Il pensiero dialettico non è qualcosa di puramente intellettualistico, ma anzi il tentativo del pensiero di autolimitarsi attraverso la cosa. Come fa il pensiero, all’interno della determinazione concettuale, a dare alla cosa il suo peso? Hegel, Fenomenologia: l’immediatezza ritorna a ogni livello del movimento compiuto dal pensiero. Continuamente il pensiero si ritrova a confrontarsi con il suo opposto, con ciò che si può chiamare natura.
Una introduzione alla dialettica deve svolgersi in un confronto costante con il problema del positivismo. Non può fare come se i criteri del positivismo non ci fossero, ma deve cercare di commisurarli a loro stessi, e con ciò andare oltre il concetto proprio del positivismo. Quest’ultimo è un elemento della dialettica, non una visione del mondo.
[i] Non esiste una trascrizione della prima lezione dell’8 maggio 1958. Pubblichiamo al suo posto il testo di uno stenoscritto della lezione.
[ii] [La prima e la seconda lezione sono state tradotte a quattro mani con Manfred Posani.]
[iii] Nel dialogo giovanile Gorgia Platone fa sostenere, dapprima, al sofista omonimo (483-375 a.C.) che “non v’è materia su cui [il retore] non riesca più persuasivo di qualsiasi competente di fronte a una massa di persone” (Gorgia 456c, trad. it. di F. Adorno, in Opere complete, Roma-Bari, Laterza, 1993, vol. 5, pp. 133-248; p. 155). Il suo interlocutore Socrate distingue quindi due tipi di persuasione, per mezzo dei quali Platone pone la propria dialettica in contrasto specifico con la sofistica: una persuasione che genera solo opinione e credenza, perché non capisce nulla delle cose di cui parla, e una che produce sapere attraverso la conoscenza della natura, del concetto e del fondamento della cosa rispettiva. La prima parte del dialogo si chiude con l’ammissione di Gorgia che un vero retore deve disporre di una conoscenza oggettiva per poter insegnare la sua arte, la retorica (459c-460b, pp. 458 s.).
Nel più tardo Fedro la seconda parte, dedicata alla differenza fra il buono e il cattivo retore, si apre con la stessa antitesi fra presenza e assenza di una conoscenza oggettiva: “Socrate: Forse un discorso ben detto e con successo non deve presupporre nella mente di chi lo dice la conoscenza della verità sull’argomento di cui sta per parlare?” (Fedro 259e, trad. it. di P. Pucci, in Opere complete, cit., vol. 3, pp. 207-280; p. 254). -Nella sua copia dei dialoghi platonici (Sämtliche Dialoge, a cura di O. Apelt, Leipzig, Meiner, [1922], vol. 2), Adorno ha sottolineato questo passo contrassegnandolo a margine con una F (“Forte”); più in alto nella stessa pagina si trova l’annotazione: “nocciolo della teoria della retorica”. Anche nel Fedro la discussione arriva allo stesso risultato del Gorgia: “Fino a che non si conosce la verità sul soggetto di cui si parla o si scrive e non si è in grado, poi, di definirlo in se stesso [...], fino a questo momento non si sarà in grado di trattare l’oratoria a regola d’arte, per quanto è umanamente possibile, né al fine di insegnare né al fine di persuadere, come tutto quanto s’è detto prima ci ha dimostrato” (277b-c, trad. it. cit., p. 278).
[iv] Per questo movimento ascensionale dal concreto al generale (all’idea), il luogo classico è il passo conclusivo del discorso di Diotima nel Simposio, al quale Adorno si riferisce più volte e che si trova annotato fittamente con sottolineature e commenti a margine nella sua copia del dialogo (Simposio 210a-211b, trad. it. di P. Pucci, in Opere complete, cit., vol. 3, pp. 139-205; pp. 190-192. Cfr. anche infra, p. 23 e n. 26).
[v] Il passo di Platone che Adorno ha chiaramente in mente rispetto a questo doppio movimento (ascesa al concetto generale supremo, discesa all’articolazione del concetto mediante partizione), così come nelle riflessioni che seguono, si trova nella parte finale del Fedro, dove, in base alla determinazione dialettica del concetto di amore come specie divina del delirio, si legge:
“Socrate: Ecco: per la maggior parte il nostro discorso ha giocato in verità festosamente; ma fra le altre cose che abbiamo detto casualmente non sarebbe affatto privo di ricompensa cogliere scientificamente il significato di due procedimenti. - Fedro: Che procedimenti? - Socrate: Uno: abbracciare in uno sguardo d’insieme e ricondurre ad un’unica forma ciò che è molteplice e disseminato affinché definendo ciascun aspetto si attinga chiarezza intorno a ciò di cui s’intenda ogni volta insegnare. [...] - Fedro: E qual è l’altro procedimento che dici, o Socrate? - Socrate: Consiste nella capacità di smembrare l’oggetto in specie, seguendo le nervature naturali [he pephyken], guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio. [...] Credimi, Fedro, io sono innamorato di queste cose, delle suddivisioni e delle riunificazioni [ton dihaireseon kai synagogon], per essere in grado di parlare e di pensare. E se ritengo che qualcun altro sia capace per sua natura di abbracciare l’unità che è naturalmente nel molteplice, lo seguo, ‘tenendo dietro alla sua traccia, come quella di un dio’. E ancora quelli capaci di far ciò - dio sa se dico bene o male - li chiamo finora ‘dialettici’” (Fedro 265c-266c, trad. it. cit., pp. 262 s.).
Questo passo è fittamente commentato nell’esemplare di Adorno. L’espressione “seguendo le nervature naturali” (he pephyken) è tradotta da Apelt “conformemente alla natura” (der Natur entsprechend) e sottolineata da Adorno. Più in alto nella stessa pagina si trova l’appunto sottolineato tre volte: “diairesiV secondo la natura”. L’esigenza, avanzata qui da Platone, di un’aderenza non violenta alla natura della cosa nel processo di determinazione concettuale ha un significato centrale nella concezione adorniana della dialettica. Adorno sviluppa estesamente queste idee, sempre riferendosi al Fedro, nella Dialettica negativa (DN, pp. 40-42). Quelli che Platone formula qui nel Fedro sulla sua concezione matura della dialettica sono, peraltro, semplici cenni generali al nuovo procedimento della definizione come diairesi del concetto, che solo nel Sofista sarà svolto pienamente ed elevato al concetto in quanto “scienza della dialettica” (Sofista 253d-e, trad. it. di A. Zadro, in Opere complete, cit., vol. 2, pp. 173-250; p. 232).
[vi] Carl von Linné (1707-1778). La sua opera Systema Naturae (1735) è considerata la base del moderno sistema biologico. Il suo procedimento di ripartizione degli oggetti era per Adorno la quintessenza di un metodo solo esteriore, che opera secondo uno schema logico-astratto.
[vii] La struttura di questa prima lezione consisteva nell’esame e nella confutazione progressiva di tre pregiudizi diffusi nei confronti della dialettica: che essa consista in un’operazione artificiale con meri concetti, che esageri tutto, che sia intellettualistica.
[viii] Secondo il resoconto di Eckermann Hegel, interrogato da Goethe su cosa intendesse per dialettica, avrebbe risposto: “In fondo, [...] non si tratta d’altro se non dello spirito di contraddizione, regolato e metodicamente sviluppato, che è insito in ogni essere umano e che si manifesta in tutta la sua grandezza come capacità di distinguere il vero dal falso” (J. P. Eckermann, Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita, ed. it. a cura di E. Ganni, trad. di A. Vigliani, Torino, Einaudi, 2008, nota del 18 ottobre 1827, pp. 519 s.; p. 519).
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. --- I "venticinque secoli" di letargo di Dante, la crisi dell’Europa e la poca saggezza della filosofia.
FLS
Intervista
“La sovranità oltre lo Stato” di Enzo Cannizzaro *
Prof. Enzo Cannizzaro, Lei è autore del libro La sovranità oltre lo Stato edito dal Mulino: quali forme assume il dibattito contemporaneo sul concetto di «sovranità»?
Il dibattito sulla sovranità è polarizzato fra la prospettiva del ritorno allo Stato sovrano e le tendenze utopiche di uno Stato mondiale.
La prima tendenza si nutre dell’idea che la comunità nazionale, il popolo, debba riprendere in mano il proprio destino, sottrattogli da procedure decisionali tecnocratiche, prese in luoghi remoti e inaccessibili all’uomo della strada, prive di legittimazione democratica. Pur se, talvolta animate dal genuino intento di ripristinare i processi democratici, tali tendenze appaiono però antistoriche, alla luce dei processi di internazionalizzazione sul piano economico e sociale.
La seconda tendenza, che prospetta la necessità di un governo sovranazionale, se non addirittura mondiale, pecca di astrattismo e di elitismo, e non considera la forte coesione delle comunità nazionali, che condividono valori, tradizioni e modelli di vita.
Quali trasformazioni ha subito la sovranità?
Dalle sue origini, la sovranità è mutata radicalmente nel corso della storia. Sorta inizialmente per fornire legittimazione all’assolutismo regio, essa si è via via adeguata all’evoluzione del costume sociale e delle forme della politica.
La sovranità ha prestato una dottrina politica alle forme di Stato e ai regimi più diversi: alle monarchie costituzionali e ai rivoluzionali borghesi e poi socialisti, ai regimi liberali ai moderni regimi costituzionali, dai regimi democratici a quelli totalitari del Novecento. A questa trasformazione “politica” ha corrisposto una sorta di rarefazione della sovranità. Inizialmente identificata con la persona del sovrano, la sovranità è stata via via identificata nel popolo, nell’ordinamento giuridico, nel potere costituente, fino ad essere identificata come la forma di garanzia esterna all’ordinamento giuridico e politico della comunità.
Eppure, paradossalmente, la sovranità è rimasta eguale a sé stessa. Ancora oggi, la sovranità si esprime, come ai tempi di Hobbes, nel potere assoluto di una comunità di darsi un ordinamento giuridico e politico. Questa assolutezza affascina e atterrisce al tempo stesso. Può esservi, nelle nostre società democratiche, un potere assoluto, non legittimato e non regolamentato che da sé stesso?
Qual è l’impatto dei processi di internazionalizzazione sullo Stato sovrano?
Dire che i processi di internalizzazione premono sullo Stato ed evidenziano l’insufficienza del potere di governo dello Stato sovrano appare un luogo comune. Tuttavia, i luoghi comuni corrispondono spesso alla realtà. Oggi appare illusorio pensare di poter governare i fenomeni economici e sociali attraverso i meccanismi dello Stato sovrano. Nessun Stato, per quanto potente, può agire da solo nel disordine del mondo.
Occorre tuttavia identificare più precisamente cosa si intenda per “processi di internazionalizzazione”. Questa formula è sovente intesa in senso deteriore, come i processi economici e finanziari che, attraverso le libertà di circolazione, sfuggono agli Stati, creando forme di ricchezza sottratte ai sistemi fiscali e redistributivi nazionali. A propria volta, tali processi creano una comunità di individui che se ne avvalgono e costituiscono una sorta di comunità transnazionale ed elitaria che gode di separata da quelle nazionali e privilegiata.
Questa descrizione risponde a verità. Accanto ad essa, tuttavia, ve ne è un’altra, di segno molto diverso. Essa è data proprio dalla esistenza di masse di individui spinte fuori dalla concentrazione di potere e di ricchezza degli Stati nazionali, che si muovono per sfuggire a guerre, carestie, devastazione degli ambienti tradizionali di vita.
Or bene, l’una e l’altra di queste forme di internazionalizzazione premono contro i confini, fisici e giuridici, dello Stato nazionale; l’una e l’altra esprimono il bisogno di un governo dei fenomeni sociali che vada ben oltre lo Stato sovrano; l’una e l’altra - o, per meglio dire, le une e le altre - costituiscono comunità embrionali, in cerca di forme di organizzazione politiche oltre la sovranità.
Come si esprime la sovranità fuori dallo Stato?
La sovranità fuori dallo Stato si è espressa, finora, in forme di organizzazioni internazionali la quali hanno stabilito forme parziali di governo, a livello globale o a livello continentale. L’esempio migliore su base mondiale è dato dalle Nazioni Unite; quello su base continentale è dato dall’Unione europea.
Si tratta di modelli ben diversi. Le Nazioni Unite sono state istituite per sottrarre l’uso della forza agli Stati e per stabilire una forma di amministrazione centralizzata della forza. Con le debite proporzionali, si tratta di quel che ha fatto, con successo, lo Stato sovrano il quale si è gradualmente affermato come il monopolista dell’uso della forza entro i propri confini. Le Nazioni Unite, quindi, si sono proposte un obiettivo ambizioso: quello di sottrarre agli Stati la prerogativa principale della sovranità. In una espressione colorita, hanno teso ad abolire la guerra.
Di converso, l’Unione europea si è posta l’obiettivo esattamente opposto: quello di governare i fenomeni economici e sociali, lasciando, per lo meno formalmente, le prerogative della sovranità in capo agli Stati, nella convinzione che, una volta attuata l’integrazione dei popoli europei, le prerogative sovrane sarebbero spontaneamente venute meno.
Ambedue questi progetti di “esternalizzazione” sono sostanzialmente falliti. Il motivo di questo fallimento appare, paradossalmente, analogo. Esso risiede nel fatto che gli Stati si sono impadroniti delle procedure decisionali delle due organizzazioni, piegandole alle proprie logiche di potere. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Ambedue le organizzazioni sono incapaci di affermare un indirizzo politico se non su impulso degli Stati. Ambedue sollevano aspettative di una forma di governo di una comunità transnazionale, le quali sovente, rimangono irrealizzate.
Che rapporti hanno i diversi modelli di organizzazione politica «oltre lo Stato» con il principio di democrazia?
Il rapporto fra sovranità e democrazia e ambivalente. Nonostante il nobile tentativo di “idealizzare” la sovranità come garante della democrazia e dei diritti dell’uomo, la sovranità non ha bisogno della democrazia. Essa, anzi, ha prosperato - ed esprime le sue potenzialità più perverse - proprio in assenza di democrazia. D’altronde, la storia dimostra che i valori più nobili dell’età moderna, la democrazia e il costituzionalismo, non sono, di per sé, un antidoto alle derive illiberali del potere sovrano.
Tuttavia, oggi possiamo percepire, pur fra molte difficoltà, l’esistenza di una democrazia “oltre lo Stato”. Ciò è possibile proprio in virtù del tramonto dell’idea di comunità quale insieme di individui legati da vincoli etnici, religiosi o culturali, che distinguono una comunità da tutte le altre. Oggi sappiamo che esistono comunità parziali, legate da valori, interessi e da modelli di vita che non hanno la valenza totalizzante ed escludente che caratterizza la comunità chiusa, come immaginavano i primi teorici della sovranità. E queste comunità parziali hanno sviluppato, se pur ancora solo embrionalmente, forme di democrazia transnazionali, che filtrano la legittimazione democratica della propria comunità di riferimento al di là dello Stato sovrano.
Ma gli Stati - monopolisti della democrazia come lo erano dell’uso della forza - guardano a queste nuove forme di organizzazione con grande diffidenza. Lo Stato, sovrano democratico verso l’interno, tende a porsi come l’unico garante della democrazia e della legittimazione politica nell’ambito delle forme transnazionali di governo. In altri termini, la sovranità statale si esternalizza nell’ambito delle dinamiche politiche al di fuori di esso.
La sfida per la democrazia, quindi, è la sfida per l’affermazione di forme di legittimazione e di democrazia fuori dallo Stato. È una sfida difficile, dato che ancora oggi gli Stati sono gli attori “forti” nel panorama delle relazioni internazionali. Ma questa è la sfida che la storia ci propone: Le forme di governo fuori dallo Stato potranno rappresentare una alternativa alla sovranità solo a condizione che esse si dota di una dottrina della democrazia e della legittimazione politica transnazionale.
Quale futuro per la sovranità?
La sovranità non è destinata a sparire. Non vi sono le condizioni affinché ciò avvenga. Non, certamente, in un arco prevedibile di tempo. Se un mondo senza sovranità è difficilmente immaginabile, è però altrettanto difficile immaginare che la sovranità possa per sempre occupare l’orizzonte politico dell’umanità.
La pretesa di governare attraverso la sovranità un mondo sempre più complesso, sempre più interdipendente e sempre più ingiusto, appare illusoria. Piuttosto che inseguire l’impossibile restaurazione dello Stato sovrano conviene quindi volgere l’attenzione verso la costruzione di nuovi modelli di legittimazione e democrazia nelle comunità transnazionali, capaci di governare i fenomeni che sfuggono alla capacità dello Stato sovrano e di incanalare le esigenze di giustizia sociale che emergono a livello globale.
Se le tendenze storiche non ingannano, tuttavia, si può pensare che la sovranità sia destinata a perdere le prerogative di esclusività e di assolutezza che l’hanno caratterizzata fino ad ora. E, con esse, lo Stato sovrano sarà privato della pretesa di esaurire al proprio interno le dinamiche politiche di una comunità composita ed eterogenea. Esso non sarà più il monopolista delle istanze di legittimazione e di democrazia. Né esso sarà l’unico garante degli equilibri sociali. Allo Stato sovrano si dovranno affiancare, in una sorta di poliarchia globale, forme di organizzazione rappresentative di valori e di interessi di una comunità transnazionale e dotate delle competenze parziali necessarie a soddisfarli.
Enzo Cannizzaro è professore ordinario di Diritto internazionale e di Diritto dell’Unione europea presso l’Università Sapienza di Roma. Ha insegnato in qualità di visiting professor in varie Università europee e negli Stati Uniti. Dirige la rivista European Papers. A Journal on Law and Integration; è membro dei Comitati direttivi delle riviste European Journal of International Law, Rivista di diritto internazionale, Il diritto dell’Unione europea. Collabora frequentemente con la stampa periodica su questioni giuridiche e di politica internazionale.
* Fonte: Letture. org
Recensione a:
Sappiamo che Socrate amava intrattenere conversazioni con i concittadini nell’agorà di Atene, ponendoli ironicamente di fronte a insolite questioni e sollecitandoli a spiegare e giustificare le proprie affermazioni al riguardo. Il filosofo non intendeva insegnare qualcosa ai suoi interlocutori e introiettare in loro una qualche conoscenza dall’esterno, bensì condurli a trovare la verità nascosta in se stessi, portandola alla luce attraverso l’interrogazione e lo sradicamento delle false doxai. Lo scopo era, cioè, quello di aiutare il soggetto a partorire la propria verità, seguendo la celebre metafora della maieutica proposta dallo stesso Socrate. L’obiettivo è realizzabile nel corso di una vita fatta di riflessione, interrogazione continua e messa in discussione dei convincimenti più radicati, poiché proprio dietro la più proclamata sicurezza può nascondersi una subdola ignoranza della verità. Solo a partire dalla conoscenza di se stessi e dal riconoscimento dei propri limiti, risulta possibile dare alla luce la verità. Precisamente in virtù dell’attività socratica, la filosofia inizia a delinearsi come conversazione dialettica e come disciplina caratterizzata da lineamenti precisi.
Non è un caso che la personalità di Socrate attraversi e accompagni la totalità della riflessione di Hannah Arendt, fornendo all’autrice un vivo esempio per la formulazione di tesi che ruotano intorno al controverso rapporto tra filosofia e politica, alla coscienza individuale e al tema del male.
Il saggio Socrate compare per la prima volta in traduzione italiana nel 2015, figurando in origine come terza e ultima parte di un corso tenuto presso la Notre Dame University nel 1954.
Il testo si apre con un’introduzione a cura di Ilaria Possenti, la quale contestualizza il contributo arendtiano nel contesto della produzione letteraria dell’autrice, e che nelle sue considerazioni prende avvio da una lettera indirizzata da Arendt a Karl Jaspers nell’estate del 1956, dove l’autrice individua nel processo a Socrate il principio del conflitto tra filosofia e politica. Ricostruendo la genesi di questa contrapposizione, Possenti spiega che Arendt non condanna la polis ateniese, bensì chiama in causa Platone, l’allievo di Socrate. Egli avrebbe lasciato in eredità alla storia del pensiero occidentale due convinzioni fondamentali: “che la politica, così come Atene l’aveva intesa, fosse una pericolosa fonte di ingiustizia; e che i criteri per porre rimedio all’ingiustizia dovessero essere trovati altrove, al di fuori e al di sopra della polis” (p. 9). Ciò è evidente se ci rivolgiamo alla Repubblica: la città ideale delineata nel dialogo si regge su un ideale statico di giustizia, definito a priori, che deve la sua realizzazione nel contesto sociale alla reggenza dei filosofi, coloro che, distanti dalla polis, hanno dedicato la loro vita al puro pensiero inteso come noein, come intuizione e contemplazione della verità.
Secondo Arendt, Platone definì “i termini del conflitto tra filosofia e politica” (p. 10), generando uno iato tra le due, di cui l’autrice lo accusa direttamente. L’allievo fallì così nel cogliere l’eredità del maestro, in cui filosofia e politica risultano invece coessenziali: “così facendo, Platone inaugura la ‘grande tradizione’ rendendo immortale la figura di Socrate e marginale il suo pensiero politico” (p. 11).
Arendt individua, invero, precisamente nella prospettiva socratica un’alternativa a una filosofia ormai esaurita, inserendola peraltro nella sua visione fenomenologica. Nell’ottica arendtiana, l’unica realtà è data dall’apparire e dal mondo comune, lo stesso mondo comune a cui si rivolgeva il filosofo greco. La sua concezione della “condizione umana, in qualche modo intesa come condizione ‘politica’, [...] dovrebbe aiutarci a ripensare da capo il senso della vita della polis [...] e l’oggetto stesso della ‘meraviglia’ filosofica - la pluralità che ci unisce, ci distingue e ci attraversa” (p. 18): è precisamente in ciò che possiamo individuare il fulcro delle riflessioni arendtiane contenute in Socrate.
Il saggio si apre con Il processo di Socrate e la replica di Platone. L’autrice inizia le sue considerazioni partendo dal contesto di appartenenza del filosofo, dominato dall’arte della persuasione, l’arte più elevata e più prettamente politica, che rappresenta ciò in cui fallì Socrate, non riuscendo a persuadere i giudici della sua innocenza. Il filosofo non avrebbe dovuto mirare a far partorire una verità che i giudici non erano disposti ad accogliere, bensì a persuaderli della validità del suo punto di vista.
Nell’ottica platonica, la causa della sconfitta del maestro è da ricercare nel fatto che Socrate si rivolse ai giudici nello stesso modo in cui era solito conversare con gli Ateniesi, secondo il metodo dialettico, e non retorico: il dialeghesthai, però, risulta possibile solo come dialogo tra due soggetti, mentre peitho si rivolge sempre a una moltitudine, ragione per cui Socrate avrebbe dovuto ricorrere alla persuasione piuttosto che alla dialettica. Ciò condusse Platone a dubitare del valore del peithein e con esso anche della doxa, che il maestro cercava di far esprimere agli interlocutori: “è lo spettacolo di Socrate che sottopone la propria doxa alle opinioni irresponsabili degli Ateniesi, e che viene infine sconfitto da una maggioranza, a spingere Platone al disprezzo delle opinioni e a fare di lui un ardente fautore di criteri assoluti” (pp. 26-27).
L’adesione platonica a una normatività suprema è, dunque, motivata da Arendt in base alla delusione provata di fronte alla condanna del maestro. A una politica basata sull’opinione plurale, Platone sostituì principi univoci e inequivocabili che non possono essere oggetto di persuasione. Ma egli andò ben oltre la vendetta del maestro affidando il governo ai filosofi, a quei sophoi che per definizione esulano dalla sfera degli affari della città, ribaltando il vecchio aneddoto di Talete deriso dalla servetta perché caduto nel pozzo, in quanto troppo intento a guardare il cielo. Cionondimeno, se Socrate fu il primo filosofo a rivestire un ruolo politico, Platone fu l’ultimo.
Nella seconda parte del saggio Arendt passa a discutere in maniera sistematica la posizione di Socrate. Nella ricostruzione arendtiana, egli fu indubbiamente il primo a ricorrere al dialeghesthai, ma senza considerarlo la controparte di peitho e della doxa, come arrivò invece a fare l’allievo.
Nella prospettiva socratica, la doxa corrisponde alla comprensione che ognuno ha del mondo, della maniera in cui la realtà si apre e si mostra al soggetto particolare, a seconda del posto occupato in essa. È lo stesso mondo comune a rivelarsi, presentandosi però a ciascuno in modo diverso. Ciò spiega perché la dialettica socratica prenda avvio da una serie di domande attraverso le quali il filosofo cerca di capire quale sia la posizione del suo interlocutore nella realtà, al fine di aiutarlo poi a portare alla luce la propria verità: “Socrate voleva rendere la città più veritiera facendo partorire a ogni cittadino la propria verità. Il metodo per farlo è il dialeghesthai, ma quest’arte dialettica [...] non distrugge la doxa, l’opinione; al contrario, ne rivela la veridicità” (p. 35).
La maieutica di Socrate assume dunque i tratti di un’attività politica, che mira a rendere migliori i cittadini, facendo di loro in ultima istanza degli amici, in contrasto con lo spirito agonale regnante nella polis, costituente una minaccia per il bene comune. In particolare, l’aspetto politico dell’amicizia risiede nel fatto che l’amico è capace di comprendere il modo in cui la realtà si apre all’altro, attraverso il dialeghesthai socratico: si tratta della stessa virtù dell’uomo politico, il quale dovrebbe dimostrarsi in grado di comprendere lo spettro più ampio possibile di realtà, al fine di rendere evidente l’essere-in-comune del mondo e formare su tale base una comunità, costruendola sulla comprensione propria degli amici.
È sul tema della philia che Arendt struttura la parte più dinamica del saggio, La scoperta del “due-in-uno”. -Premessa indispensabile di questo capitolo è il precetto delfico “Gnôthi sautón”, esemplificato dalla personalità socratica. Nell’ottica arendtiana, l’invito alla conoscenza di se stessi comporta che il principio guida del soggetto deve tradursi nella comprensione veritiera della propria doxa e nell’accordo dell’individuo con se stesso, ossia nella philia interiore. La paura di incorrere in questo genere di contraddizione è giustificata in base al fatto che ognuno di noi può parlare con se stesso: nel pensiero ognuno di noi è due-in-uno, e l’armonia di questa dualità si pone come la condizione imprescindibile per l’accordo con l’altro; la paura della contraddizione, dunque, altro non è che timore della scissione e della perdita della coerenza. La pluralità si rivela così come una condizione ineliminabile della natura umana, dacché è sì possibile l’allontanamento da qualsiasi forma di organizzazione sociale, ma mai dall’altro dentro di noi.
Ciò implica la convivenza con un testimone di tutte le azioni individuali, con uno spettatore giudicante a cui non è possibile sfuggire: è quel tribunale che la modernità chiamerà coscienza. L’io è così sdoppiato in imputato e testimone, in esecutore e pubblico.
Vista l’impossibilità della separazione da quest’ultimo, per il soggetto è preferibile essere in disaccordo con l’intera società piuttosto che con se stesso, col quale deve sempre convivere: si tratta precisamente della tesi affermata da Socrate nel Gorgia, dove egli dimostra peraltro con forza che è meglio subire un’ingiustizia piuttosto che commetterla (Gorg. 482b). Il compimento di un atto malvagio comporta la convivenza obbligata con un individuo che vorremmo invece evitare e col quale non è possibile essere in armonia, dacché nessuno sceglierebbe di accompagnarsi a un criminale. Ciò costituisce dunque una situazione di disaccordo interiore, accentuata dalla presenza di un testimone che giudica negativamente le nostre azioni malvagie.
La pluralità esterna può anzi distrarci dalla molteplicità più angosciante, rappresentata dal due-in-uno. Nella discussione, inoltre, l’altro ci riconosce come singolo, come una sola voce.
Poste queste premesse, abbiamo modo di comprendere in che modo le presenti considerazioni si pongano in stretta relazione con quanto affermato relativamente alla philia. Solo chi, vivendo l’esperienza del dialogo interiore, è in accordo con se stesso e una persona affidabile, che in quanto tale può diventare un amico, definito in termini aristotelici come un altro se stesso, secondo a quello che abbiamo dentro di noi. Se, cioè, l’individuo supera il giudizio del tribunale della coscienza presieduto da se medesimo, dimostrandosi un compagno leale, può rapportarsi con l’altro in quanto uno, in qualità di soggetto coerente con se stesso e degno di fiducia.
Nella quarta parte, La sconfitta di Socrate, Arendt riflette sulle conseguenze tangibili della visione socratica analizzata nelle pagine precedenti. “Il conflitto tra la filosofia e la politica, tra il filosofo e la polis, esplose dopo che Socrate, più che svolgere un ruolo politico, aveva voluto rendere la filosofia rilevante per la polis” (p. 48): l’opposizione si concluse con la sconfitta della filosofia e determinò la separazione tra pensiero e azione, conducendo la figura del filosofo a disinteressarsi degli affari della polis.
Nella lettura arendtiana, la filosofia venne così a trovarsi di fronte a un bivio: interpretare l’esperienza filosofica secondo le categorie degli affari umani, oppure giudicare quanto rientra nella sfera politica alla luce della visione filosofica. È in questa seconda direzione che è andato Platone, costruendo una polis retta dai filosofi. Nella parabola della caverna egli condensa la biografia del filosofo, il quale si trova ad attraversare emblematici momenti di ribaltamento del proprio essere.
Ma Platone non ci spiega perché il filosofo decida di intraprendere questo percorso. Per risolvere la questione, Arendt richiama quanto si legge nel Teeteto, dove Platone individua l’elemento alla base della nascita della filosofia: “la meraviglia è ciò che appassiona di più il filosofo, poiché non c’è altra origine della filosofia diversa dalla meraviglia” (Thaet. 155d). Ed è proprio con la questione del thaumazein che Arendt chiude questo scritto. A suo avviso, la meraviglia nell’ottica platonica consiste in un pathos, in qualcosa rispetto a cui il soggetto è passivo e che non può trovare espressione nelle parole, ma che consente al soggetto di cogliere l’autentico significato della formula socratica “So di non sapere”. Nel momento in cui l’individuo subisce il thaumazein, capisce cosa significa non sapere. Da tale consapevolezza deriva l’impulso alla filosofia e alla continua interrogazione socratica. Arendt conclude il saggio rivolgendosi ai filosofi contemporanei, i quali, se vorranno raggiungere una nuova filosofia politica in seguito al conflitto con la polis, dovranno “però assumere come oggetto del thaumazein la pluralità degli uomini, dalla quale sorge [...] l’intera sfera degli affari umani” (p. 62).
I due saggi critici di Adriana Cavarero e Simona Forti, in appendice al testo di Arendt, rappresentano un interessante ausilio alla riflessione sul saggio. Cavarero nel suo commento, Il Socrate di Hannah Arendt, si concentra sulla comparsa della personalità socratica in due particolari momenti della riflessione arendtiana, ripercorrendo anche le differenze originarie rispetto allo sviluppo platonico: la prima scena colloca Socrate all’origine di una “pratica filosofica e insieme genuinamente politica” (p. 73), e individua nell’antitesi tra il maestro e l’allievo la scissione della filosofia dalla sfera politica e la conseguente fuga del sophos da tale contesto; l’altra situazione riconosce in Socrate il fondatore di un modello di pensare critico, l’ideatore della coscienza moderna, intesa nei termini di un tribunale interiore in cui il soggetto si interroga e deve rendere conto di sé a se stesso.
Se, però, nelle sue riflessioni Arendt ci ha convinto a difendere Socrate, Cavarero nel suo commento prende invece le parti di Platone, il quale è messo sotto inchiesta nel saggio arendtiano. Nelle pagine precedenti, infatti, ci siamo imbattuti nella disamina delle colpe metafisiche dell’allievo, che si possono riassumere in ultima analisi nel sacrificio di quella pluralità al cuore dell’insegnamento socratico a favore del totalitarismo dell’Uno, che si pone come l’oggetto supremo della conoscenza muta e contemplativa del filosofo. Cionondimeno, Cavarero ricorda al lettore che l’istante della contemplazione è sì presentato da Platone come la forma più elevata del pensiero, ma il filosofo ammette l’esistenza anche di altre articolazioni del conoscere, tra cui quella del “dialogo senza voce che l’anima fa con se stessa” (Soph. 263e). Tuttavia, Arendt sembra attribuire questo riconoscimento esclusivamente a Socrate, ma risulta evidente la presenza del dialogo silenzioso nell’interiorità dell’individuo anche nel contesto della riflessione platonica. La lezione che indubbiamente è doveroso trarre dall’insegnamento socratico, a discapito dell’allievo, è quella di “ripensare l’umanità, o forse pensarla per la prima volta nei suoi tratti concreti [...] registrare la pluralità che rende ciascun essere umano un essere unico, diverso da ogni altro” (p. 97).
Il saggio di Simona Forti, Letture socratiche. Arendt, Foucault, Patočka, è dedicato alle interpretazioni posteriori della figura di Socrate, in particolare, all’analisi dei tratti di quella “grande tribù del socratismo novecentesco della filosofia come forma di vita” (p. 100). Questa corrente individua in Socrate una testimonianza vivente di una condotta “che si singolarizza scegliendo per quanto possibile lo spazio indeterminato della libertà” (p. 100), distaccandosi da un’etica fondata su regole universali che definiscono a priori il bene e il male, delineandosi peraltro come una soggettività immanente che si assume la responsabilità delle azioni individuali di fronte all’altro e al soggetto stesso. In particolare, l’autrice individua un’affinità concettuale tra la prospettiva socratica sul daimon e la parresia e la riflessione di Hannah Arendt, Michel Foucault e Jan Patočka, commentatori novecenteschi del filosofo greco.
Se al centro della riflessione arendtiana vi è la scoperta del due-in-uno, al cuore dell’indagine di Foucault vi è, invece, la parresia, sulla quale Arendt non si sarebbe soffermata, secondo la lettura di Forti. La parresia può dischiudere uno spazio etico nuovo in cui l’interiorità si apre all’altro e alla collettività, delineandosi come una prassi politica in antitesi con l’adulazione e la retorica tipiche delle strutture di potere, dacché assume ad oggetto la verità.
Per quanto concerne l’altra figura al centro del commento di Forti, Patočka, citato dallo stesso Foucault in un corso tenuto nel 1984, concepisce la cura di sé, dell’anima, come radice della cultura europea, nei termini di una pratica filosofica di continua riflessione e interrogazione del soggetto su se stesso, suscettibile di aprirsi alla prassi e così alla dissidenza nei confronti dei meccanismi di potere.
In ultima analisi, ciò che unisce i tre volti novecenteschi nel loro confronto con Socrate è “la convinzione che l’azione politica [...] deve essere la manifestazione visibile di un’etica [...] l’effetto collaterale di un ethos, di una postura e di una condotta che si radicano saldamente nelle pieghe del ‘modo di vita’ del singolo” (p. 117). Ritornare a Socrate costituisce, dunque, un richiamo alla possibilità del soggetto di opporre resistenza alla forza delle circostanze, “è il nome della possibilità, del potere di ciascuno di resistere a un altro potere” (p. 123).
* Fonte: Discipline Filosofiche.
RICORDANDO IL “MISTICO” WITTGENSTEIN (“L’Io è il mistero profondo”, “e non dell’io in senso psicologico”, Quaderni 1914-1916) E LA MADRE-LINGUA CHE VERRA’...
Una nota a margine di "Letteratura e mistica" *
“[...] 3. Una sponda sicura per sostenermi in quest’operazione la trovo in una recente monografia di Massimo Stella, Madreparola (Mimesis, Milano 2017), nella quale l’autore si preoccupa di osservare le “risorgenze” della Musa fra modernismo europeo e antichità classica: scrive Stella: “[...] la Musa, come sappiamo, è illetterata; è orale, gestuale, corporea. Non sa e dunque non rispetta le regole convenzionali della lingua [...]. La sua è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura” (p. 42). Osservare le metamorfosi della Musa da un punto di vista storico-letterario significa andare al centro del problema della generazione poetica, guardandolo da una distanza prospettica insieme antica e nuovissima (e in questo, Madreparola si dà come strumento preciso e acuminato, uno di quei rari testi che, costruendo un nuovo paradigma, necessariamente obbliga il lettore a un generale ripensamento del letterario): problema dell’indagine è quindi rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva” (Francesca Caraceni, “Letteratura e mistica” , Nazione Indiana, 9 luglio 2020).
SOLO “UNA SPONDA SICURA”, QUELLA DELLA “PAROLE”, NON BASTA. Se la Musa “non rispetta le regole convenzionali della lingua [...] è poesia, parole non langue [...] tantomeno conosce il gioco meticoloso della scrittura”, COME PUO’ PORTARE ALLA SPONDA DELLA “LANGUE”, “al centro del problema della generazione poetica” e, al contempo, ” rintracciare l’origine della letteratura come forma di memoria collettiva”?! Non è, forse, meglio ri-tornare sugli storici passi fatti fino al corrente antropocene, ri-seguire le indicazioni dei “profeti” e delle “sibille” e, ri-evitando gli edipici scogli di Scilla e Cariddi, portarci con l’Ulisse di Dante e Joyce, nell’oceano cosmico (Keplero) di una creatività antropologica all’altezza del pianeta Terra? “Sàpere aude!” O no?!
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INCENDI, ESTINTORI, E ... LANCIAFIAMME!!! Amazzonia... *
Incendi ed estintori. Salvare la foresta amazzonica e riconoscere le proprie colpe
di Gianfranco Pellegrino (Le parole e le cose, 27.08.2019)
Le foreste dell’Amazzonia stanno bruciando. Sappiamo molte cose su questi incendi: sappiamo che sono dolosi, sappiamo che chi li appicca è interessato a sfruttare commercialmente il terreno libero che si otterrà dalla distruzione degli alberi, sappiamo che il presidente Bolsonaro si è mostrato, sino a pochissimo tempo fa, acquiescente nei confronti degli speculatori, sappiamo che il venir meno di larghe parti della foreste pluviali avrà effetti pericolosi nel futuro - in termini di aumento del cambiamento climatico, di decremento della produzione di ossigeno, di aumento della quantità di biossido di carbonio nell’atmosfera (qui la catena causale è indiretta: meno foreste significa minore capacità di assorbimento di biossido di carbonio, e quindi maggiore percentuale di biossido di carbonio che rimane nell’atmosfera), di estinzione di specie animali e vegetali e di cancellazione di ecosistemi e nicchie ecologiche. Sappiamo pure che gli incendi sono in aumento. E, sappiamo che, pure se non fossero in aumento, man mano che ci spingiamo lungo la china del cambiamento climatico quel che non causava effetti nocivi o irreversibili prima può diventare un fattore che ci conduce al di là di punti di non ritorno.
A parte pochi negazionisti climatici - alcuni purtroppo piazzati in posti di potere -, nessuno nega (almeno apertamente) fatti del genere. E cominciano an che a diminuire quelli che rimangono indifferenti. Anche per chi disprezza o dileggia l’attivismo di Greta Thunberg o le dottrine della Laudato Si’ l’alzata di spalle o il silenzio diventano sempre più difficili. Il dileggio è una forma d’attenzione, per quanto contorta e involontaria. Sappiamo, infine, che la sparizione delle foreste condanna all’estinzione anche civiltà indigene che di quegli ambienti hanno fatto la propria nicchia culturale.
Ma, paradossalmente, i fatti importanti non sono questi. Proprio perché sulla descrizione di quel che accade ed accadrà non ci sono più dubbi condivisi, è ora di volgerci con maggiore attenzione alla prescrizione, cioè ai principi etici e ai paradigmi di azione politica che dovrebbero guidare le nostre azioni in frangenti del genere.
Il 5 agosto, su Foreign Policy, Stephen Walt di Harvard ha scritto un breve articolo chiedendosi se gli incendi e la deforestazione dell’Amazzonia potrebbero costituire motivo per un intervento - armato o sotto forma di sanzioni - dell’ONU o della comunità internazionale nei confronti del Brasile (vedi qui: https://foreignpolicy.com/2019/08/05/who-will-invade-brazil-to-save-the-amazon/). Walt è un teorico delle relazioni internazionali di orientamento neo-realista, famoso per il suo scetticismo nei confronti dell’interventismo americano e della presunta base morale di tali interventi. Con l’atteggiamento caratteristico di questo genere di studiosi - presunta neutralità assiologica che nasconde scelte morali di fondo (peraltro spesso ovvie e condivisibili) -, Walt mostra che la prospettiva di muovere guerra o comminare sanzioni ai paesi che più sono responsabili dell’aumento delle emissioni di gas serra - paesi come Cina, India, Stati Uniti e Russia - è del tutto assurda, per quanto possa essere una tentazione. Per Walt, peraltro, la sovranità nazionale, per quanto limitata, rimane un limite alle ingerenze della comunità internazionale. E non è chiaro se l’impatto che le condotte interne di uno Stato può avere sui destini di tutti possa giustificare interventi e intromissioni così drastiche. Ciò che è chiaro è che la comunità degli Stati non permetterebbe mai che si stabilisca un precedente simile. Quindi, in un certo senso secondo questo tipo di prospettiva dovremmo lasciare tutto alla forza di persuasione degli attivisti, o alle politiche felpate di alcuni capi di Stato come Macron, all’interno di organismi come il G7.
Questo modo di procedere si basa sull’idea che ci siano solo due possibili punti di vista per considerare un problema come quello della deforestazione dell’Amazzonia. O si ha un paradigma puramente sovranista, per così dire - l’etichetta è volutamente vaga e suggestiva -, in cui la sovranità nazionale implica che chi detiene il potere politico abbia ipso facto potere sulle risorse naturali e di altro genere presenti nel territorio governato. Oppure si ha un paradigma internazionalista, o globalista, in cui c’è un potere politico globale che può porre limiti al controllo sovrano delle risorse. Entrambe le forme di potere sono soggette al gioco democratico, per molti. La scelta è fra la sovranità nazionale, o interna, di singoli elettorati, o un demos globale.
Se ci fossero solo questi due paradigmi, saremmo alle prese con due strade egualmente bloccate. Da un lato, ipotizzare che un ipotetico governo mondiale, o una comunità internazionale, privi gli elettori brasiliani del potere di scegliere come usare le risorse naturali del loro territorio sembra contrario a qualsiasi principio ovvio di autodeterminazione. Anche se ci fosse veramente un governo mondiale, o una comunità internazionale ben più forte di quel che abbiamo, e non esistessero Stati nazionali, e i principi dell’intervento umanitario coprissero anche le catastrofi ecologiche, che una parte del mondo decidesse, a maggioranza, che uso si dovrebbe fare delle risorse naturali che potrebbero favorire lo sviluppo economico di un’altra parte del mondo apparirebbe comunque una forma di tirannia della maggioranza. D’altra parte, l’impatto della progressiva deforestazione dell’Amazzonia ricadrà sul mondo intero, e lasciare del tutto la scelta ai brasiliani, o al loro governo, significherebbe rassegnarsi a una tirannia della minoranza.
Ma forse questo modo di impostare le cose trascura alcuni aspetti normativi che invece sono rilevanti. Il peggior effetto della deforestazione, come già detto, riguarda la percentuale di biossido di carbonio nell’atmosfera. Deforestare fa aumentare questa percentuale, e ciò aumenta, o rende più probabili, i cambiamenti climatici nel futuro. Deforestare aumenta la percentuale di biossido di carbonio perché fa venir meno gli alberi, che hanno la capacità di assorbire questo gas a effetto serra. Bruciare alberi impedisce che una parte del biossido di carbonio in eccesso venga assorbito. L’effetto della deforestazione, quindi, è nocivo non in assoluto, ma relativamente alle condizioni in cui ci troviamo - relativamente al fatto che, in virtù delle passate emissioni, c’è un eccesso di biossido di carbonio, e altri gas simili, nell’atmosfera.
Sostenere che la deforestazione dell’Amazzonia aumenti il cambiamento climatico, e quindi autorizzi interventi o pressioni, è come dire che chi danneggia un estintore causa un incendio, e quindi va punito come il piromane. Chi danneggia un estintore, o lo sottrae, quando ci sia un incendio in corso è certamente colpevole di qualcosa, ma chi ha appiccato l’incendio non può arrogarsi il diritto di punirlo, o nascondere le sue colpe.
L’eccesso di biossido di carbonio nell’atmosfera è responsabilità del mondo occidentale. La deforestazione dell’Amazzonia peggiora una situazione che è stata resa grave dall’industrializzazione del Primo mondo. Si potrebbe dire questo: in molti casi recenti, Stati che hanno invaso altri Stati, e hanno subito per questo interventi armati, venivano da faticosi processi di decolonizzazione e subivano le conseguenze di molte azioni dei governi occidentali. Ciò non ha reso meno necessari e fondati gli interventi. (Qui la materia è delicata, e dipende dalle convinzioni politiche di ognuno - e il giudizio può cambiare se si pensa al Kosovo degli anni Novanta o alla prima o alla seconda guerra del Golfo). E tuttavia il nesso causale nel caso della deforestazione è più stretto ed evidente. Se non fossimo in una condizione di cambiamento climatico antropogenico galoppante è ovvio che la perdita di alcune foreste sarebbe meno grave.
Quindi, imputare tutta la responsabilità a Bolsonaro e ai brasiliani è un atto di arroganza, anche se questo non vuol dire che bisognerebbe assistere inerti agli incendi. Forse bisognerebbe distinguere fra due risorse naturali. Da un lato, ci sono le foreste, dall’altro c’è la capacità del sistema terrestre di assorbire emissioni di biossido di carbonio senza che il clima muti. Nelle condizioni in cui ci troviamo, le due risorse sono direttamente connesse, ma non lo sarebbero in altre condizioni. In un mondo privo di cambiamento climatico antropogenico, le foreste potrebbero diminuire senza che la capacità della Terra di assorbire biossido di carbonio diminuisca a tal punto da far mutare il clima. Si potrebbe pensare che la prima risorsa, le foreste, sia oggetto della sovranità nazionale del Brasile, mentre le seconda sia una specie di patrimonio comune dell’umanità, che non si può lasciare alle decisioni di un solo governo nazionale - e, forse, dati gli impatti nel futuro, non si può lasciare alla decisione delle sole generazioni presenti.
Ma, una volta che si consideri questa risorsa globale, è difficile dimenticarsi delle responsabilità di chi ha sfruttato nei secoli passati gran parte di essa a proprio beneficio - cioè dei paesi che hanno goduto dell’industrializzazione. Alla luce di tutto questo, la reazione nei confronti degli incendi in Brasile non può essere quella di scegliere fra intervento armato o acquiescenza. Il comportamento dei brasiliani, o almeno del governo brasiliano, dovrebbe indurre la comunità internazionale a proporre vie di sviluppo economico alternative rispetto alla deforestazione. Il fatto che Bolsonaro abbia negato la natura antropogenica del cambiamento climatico e gli interessi economici evidenti di chi appacca gli incendi in Amazzonia non sono sufficienti a diminuire le responsabilità dei paesi che hanno una lunga storia di emissioni in eccesso. Questi paesi dovrebbero pagare il loro debito a chi ha lasciato intatto sin qui uno dei principali serbatoi di assorbimento del biossido di carbonio e garantire l’integrità dell’Amazzonia assumendosi ulteriori oneri. La questione principale, in altri termini, non è la democrazia e la sovranità nazionale, ma la giustizia distributiva e le compensazioni dovute a chi non ha tratto beneficio dall’industrializzazione e rischia di subirne solo gli effetti più negativi - paesi in via di sviluppo e generazioni future.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE “EU-ROPEUO”. Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una “memoria” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=901)
Federico La Sala
L’ordine dei discorsi
Il gesto filosofico di Agamben
di Felice Cimatti (fatamorganaweb, 10 Giugno 2019)
Ogni filosofo, e come è sempre più evidente non basta insegnare filosofia in una università per essere un filosofo, incarna un gesto peculiare. Un gesto che è il suo gesto, solo suo, inconfondibile (per converso, un filosofo privo di un simile gesto non è propriamente un filosofo). Un gesto del genere, la cui imperscrutabile origine si colloca al di qua della scelta soggettiva perché ha a che fare più con lo stile e il carattere che con la volontà, rende quell’essere umano un filosofo. Cioè qualcuno che, proprio con quel gesto, ci mostra la possibilità di un’azione che, prima di quello stesso gesto, nessuno immaginava fosse praticabile. In effetti quello che rimane, di un filosofo (ma anche di un artista, e in fondo di ogni essere umano che abbia fatto della sua esistenza un campo di sperimentazione), è proprio quel gesto.
In questo senso la storia della filosofia non è propriamente la storia delle idee di questo o quel filosofo: è piuttosto una scuola in cui si impara a muovere il corpo/pensiero in un modo particolare. Precisiamo questo punto, perché spesso si pensa che la filosofia sia un fatto prevalentemente, se non esclusivamente, cerebrale. Prendiamo, ad esempio, il caso delle tecniche yoga. Si tratta di imparare ad assumere posizioni apparentemente “innaturali”, come quella che si può vedere nell’immagine del celebre maestro indiano Iyengar. Tuttavia, una volta che tendini e muscoli hanno esplorato questa possibilità, è tutto il corpo/mente che acquista una elasticità che prima era semplicemente impensabile. Il gesto filosofico, come una posizione yoga, rende esplorabile un campo d’azione che, prima di quel gesto, non esisteva. O meglio, quel campo era da sempre virtualmente disponibile, tuttavia nessuno l’aveva ancora esplorato né tantomeno credeva che ci fosse ancora qualcosa da esplorare. Quindi di fatto era come se non ci fosse. In questo senso la filosofia rende liberi, perché ci mostra che laddove pensavamo pigramente che non ci fosse niente da fare, ebbene anche in quel caso c’è una azione possibile. Basta cercarla, e se non la troviamo, allora occorre inventarsela.
Il gesto filosofico, pertanto, è gesto in quanto contemporaneamente pensiero e azione; proprio per questo è filosofico. È quindi anche un gesto potenzialmente politico, benché non nel senso che propone una esplicita azione politica, piuttosto perché è un gesto che offre al corpo un’inaspettata opportunità di movimento. Perché pensare significa agire. Wittgenstein, nel § 11 della prima parte delle Ricerche Filosofiche, propone al riguardo un paragone divenuto celebre: «Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili, c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. - Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là)». Ogni parola del linguaggio, cioè ogni operazione concettuale, dischiude un campo d’azione, che senza quella parola non sarebbe possibile. Ogni gesto filosofico è uno di quegli strumenti, cioè una di quelle possibilità di azione.
È importante sottolineare un punto, che una erronea rappresentazione dalla filosofia oggigiorno porta spesso a trascurare. Un falegname usa tutti quegli strumenti, anche se avrà una particolare predilezione per uno in particolare. Questo significa, per essere più espliciti, che un filosofo non smette mai di pensare insieme ad Aristotele e Platone, ad esempio, anche se non è uno specialista della filosofia aristotelica o platonica. Così come per un falegname il martello è sempre attuale, così per un filosofo Aristotele è sempre attuale. Questo significa che il filosofo, cioè chi propone gesti filosofici, non lavora come uno scienziato, per il quale, invece, una teoria scientifica antica è inutilizzabile.
In questo senso quello filosofico ha a che fare più con il gesto di un falegname, o di un pittore, che con quello di un neurologo che studi le connessioni cerebrali all’interno di una particolare area della neocorteccia. Ma solo “in un certo senso”, perché spesso il neurologo, che crede di avere a che fare solo con fatti, non si accorge che i fatti di cui si occupa sono impregnati di impensati gesti filosofici. Si pensi, per fare un solo esempio, a quegli scienziati che cercano nel cervello quella che chiamano la “base materiale” delle attività mentali. Ma siamo così sicuri che le “attività mentali” esistano davvero? La mente è un fatto, o un pregiudizio metafisico? Vale lo stesso per il corpo, ovviamente, che non è che l’altra faccia dello stesso dualismo originario.
Se ora ci chiediamo qual è il gesto filosofico di Giorgio Agamben, il gesto che ha consegnato alla filosofia, e che d’ora in poi nessun filosofo potrà ignorare, potremmo indicarlo nella paziente e tenace operazione con cui torna alle cesure fondamentali del pensiero (quelle che formano la nostra tradizione metafisica), come appunto quella fra mente e corpo, cercando di mostrarne le impensate possibilità di azione che ancora ci offrono. Ogni dualismo costringe il pensiero, e quindi il corpo, a scegliere fra opzioni precostituite, e quindi comunque insoddisfacenti. Perché ogni dualismo costringe a muoversi o così o così. Il dualismo pensa e agisce per noi.
Agamben non cerca di mostrare che il dualismo è sbagliato, o che è superabile scegliendo uno dei due versanti contrapposti, come il materialista che trascura la mente, o l’idealista che privilegia la mente. Cerca piuttosto di trovare in quel dualismo una via di fuga che finora non avevamo scorto. Una via di fuga che non avevamo intravista proprio perché noi siamo il prodotto di quel dualismo. Tuttavia in quello stesso dualismo è implicito un movimento di pensiero che non abbiamo ancora esplorato. Il gesto filosofico di Agamben consiste allora nel disattivare quel dualismo, cioè nell’impedirgli di pensare al posto nostro.
Pensiamo al dualismo che esplora nel suo ultimo libro, Il Regno e il Giardino. Il regno è il Regno di Dio, che ci aspetta alla fine dei tempi. Il giardino è quello del Paradiso terrestre che, come non facciamo che stancamente ripetere, è definitivamente perduto. La nostra condizione, così vuole il dualismo in cui siamo intrappolati, è sospesa fra un passato per sempre passato, ed un futuro per sempre futuro. In mezzo siamo noi, fra rimpianto e speranza, fra memoria e desiderio, fra una inattualità svanita e un’inattualità a venire. Agamben torna a questo dualismo, e attraverso un lavoro come sempre minuzioso e appassionante, ne mostra non solo i vicoli ciechi, ma anche e soprattutto le vie inesplorate che ancora contiene. Che ha sempre contenuto.
In questo senso si può leggere Agamben a partire dalla sesta tesi de Sul concetto di storia di Benjamin, quando scrive che si tratta di «riattizzare nel passato la scintilla della speranza» (Benjamin 1997, p. 27). Perché la speranza, l’unica speranza effettivamente praticabile, è nel passato, non nell’inesistente futuro. Un passato che continua ad essere operativo nel presente, perché determina il nostro modo di agire e di pensare, e che tuttavia non è mai chiuso in modo definitivo. «Il pensatore rivoluzionario», scrive Benjamin, lavora sul «potere delle chiavi che un attimo» presente «possiede su una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa» (ivi, p. 55). Agamben, nei suoi libri, così come un bravo fabbro, tira fuori dalla sua cassetta degli attrezzi delle chiavi di cui ignoravamo l’esistenza (i fabbri più bravi sono anche un po’ scassinatori), chiavi con cui possiamo aprire stanze del passato che non sapevamo di poter aprire.
Vediamo intanto, prima di entrare nel merito della proposta di Agamben, di capire qual sia la posta in gioco discussa ne Il Regno e il Giardino. Nell’alternativa fra regno e paradiso si perde la possibilità di una esistenza “felice” in questo mondo. Se infatti la beatitudine è possibile solo nel Regno di Dio, allora sicuramente non è possibile in questa esistenza. Vale lo stesso per il Paradiso, la cui felicità è perduta per sempre. Quindi, anche in questo caso è esclusa dal presente. Stretto in questo dualismo si pone la questione di come pensare una vita felice che non sia costretta fra un ieri che trapassa senza fine in un domani, e viceversa, senza mai soffermarsi in un oggi. La posta in gioco, allora, è «la scissione fra “natura e grazia”» (Agamben 2019, p. 87); quindi, o natura o grazia, o vita o salvezza, o corpo o spirito.
Agamben articola la sua operazione di disattivazione lavorando sulla nozione di peccato, che - da Agostino in poi - è stato considerato come l’evento che ha determinato la cacciata dell’umano dal paradiso: «In ogni caso, se il fattore decisivo del dispositivo è il peccato, si può dire allora che il vero senso della dottrina del peccato originale è quello di scindere la natura umana e di impedire che in essa natura e grazia possano mai coincidere in questa vita» (ivi, p. 96). A partire da questa scissione si determina un destino, anche politico, come quello alla base del fallimento disastroso dell’utopia comunista nel secolo scorso, che da un lato rinviava indefinitamente la realizzazione della società senza classi, dall’altro condannava ad una esistenza sotto un paranoico controllo poliziesco. Giorgio Agamben
Ma cos’è allora il paradiso? È davvero contemporaneamente perduto e rimandato, oppure è ancora misteriosamente operativo nelle nostre esistenze? «Il paradiso», scrive Agamben, «è ciò a cui l’uomo deve far ritorno senza esservi mai veramente stato. D’altra parte, il ritorno non va inteso in senso temporale, ma ha già sempre avuto luogo, in modo che uscita e ritorno siano compresenti» (ivi, p. 61). Il dualismo vorrebbe che o si è nel paradiso, o se ne è fuori. Si tratta invece di lavorare sulla possibilità di “abitare” entrambe le situazioni nello stesso tempo. Fare della vita un paradiso, ma anche fare del paradiso una vita. Ossia, per usare l’alternativa discussa più sopra, disattivare la distinzione fra grazia e natura. Questo significa, tornando a Benjamin, che in ogni momento c’è «una chance rivoluzionaria», ossia, c’è una via di fuga.
Agamben, contro il coro disfattista del nostro tempo, mostra come c’è sempre qualcosa da inventare, una mossa inattesa, uno scarto che può rovesciare la situazione. Il Regno non è domani, il Regno c’è sempre stato (il Paradiso era già il Regno); bisogna sempre di nuovo offrirgli una occasione per presentarsi. Bisogna stare nel presente come se ci si trovasse alla fine dei tempi, e quindi non si trattasse più di un presente cronologico. Stare nel tempo senza starci, così come stanno nel tempo un animale, una nuvola oppure un angelo. Riuscire a fare della vita un paradiso, cioè un luogo di grazia, senza tuttavia smettere d’essere un luogo vivente, terreno, qui ed ora:
Il paradiso non è altrove, e non è nemmeno in quella natura “incontaminata” che cercano i palati squisiti dell’ambientalismo. L’antropocene è paradisiaco così come la foresta amazzonica prima dell’arrivo dei conquistadores, o quanto l’immensa discarica che ci travolge nell’immagine seguente. Il paradiso - se c’è - c’è sempre stato. La sfida, immensa come quella discarica, è trovare il paradiso anche là dentro, oltre ogni ingenua idea di purezza, di natura e di bellezza. Perché la grazia non illumina il paradiso perché questo è un luogo meraviglioso; al contrario, è la grazia che rende paradisiaco qualunque luogo, anche e soprattutto una discarica. Ma che cos’è la grazia se non la capacità di vivere una discarica come se fosse un paradiso?
Il gesto filosofico di Agamben, in definitiva, non risolve il dualismo, piuttosto lo scioglie al suo stesso interno. Un gesto che, come scrive Wittgenstein nella Conferenza sull’etica (contenuta all’interno del libro Lezioni e conversazioni), ci offre la possibilità di vedere il mondo come un “miracolo”. E che cos’è un miracolo se non appunto il collasso della distinzione fra Giardino (dell’Eden) e Regno? Il “miracolo” appare quando si diventa capaci di abitare nella congiunzione che unisce e separa allo stesso tempo il giardino e il regno. Nel “miracolo”, il Paradiso è ora, ma questo significa che siamo infine nel Regno; ma siccome il Regno è alla fine dei tempi, quello del “miracolo” non è un tempo cronologico, un tempo misurabile. Al contrario, è un tempo, scrive Agamben sulla scorta di Benjamin, “messianico”, cioè appunto quel momento del tempo in cui si disattiva il tempo cronologico, quello della memoria e della speranza. Il tempo “messianico”, quindi, è il tempo della coincidenza di vita e grazia:
Torniamo, infine, alla discarica: se il Giardino è questa discarica, allora il Regno è questa stessa discarica. Ma questo significa che non è più semplicemente una discarica, perché è illuminata dalla grazia. Vederla come miracoloso apparire del Regno vuol dire infatti destituirla dalla condizione di puro evento del mondo. Così la grazia salva la discarica, ma allo stesso tempo la discarica permette alla grazia di mostrarsi: «Solo il regno dà accesso al Giardino, ma solo il Giardino rende pensabile il Regno» (ivi, p. 120).
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Il Regno e il Giardino, Neri Pozza, Milano 2019.
W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986)
IN MEMORIA DI MICHEL SERRES *. UNA CONFESSIONE (DA "IL MANCINO ZOPPO"):
PER LA FILOSOFIA DI UN ALTRO SOCRATE. AL DI LA’ DI EDIPO...:
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
a) IL PUNTO DI SVOLTA. L’INDICAZIONE DI FACHINELLI E LA SUA IMPORTANZA.
b) LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
c) CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
d) CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
*
Morto Michel Serres, il filosofo della scienza che amava l’Italia
Grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, aveva 88 anni. «I miei miglior amici sono italiani»
di Daniele Zappalà (Avvenire, sabato 1 giugno 2019)
Parigi. Era uno dei pensatori più ammirati a livello internazionale, oltre a rappresentare una figura centrale del mondo intellettuale francese. Il filosofo Michel Serres, grande figura dell’epistemologia e fra i primi a pensare in modo sistematico la necessità di un nuovo approccio alla questione ecologica, si è spento ieri a 88 anni. Accademico di Francia fin dal 1990, aveva insegnato a lungo negli Stati Uniti, all’Università di Stanford, oltre che in vari atenei transalpini. Autore di una cinquantina di volumi e di opere fondamentali sull’origine del pensiero scientifico, come Le origini della geometria (Feltrinelli) o Lucrezio e l’origine della fisica (Sellerio), aveva pure interpretato, nella lontana scia di Leibniz, la pregnanza della comunicazione nel mondo contemporaneo, come nei 5 volumi della serie Hermès (1969-1980).
Figura estremamente originale, aveva scelto come proprio motto «pensare significa anticipare», prevedendo e interpretando nei propri libri diverse rivoluzioni del nostro tempo. Una costante della sua riflessione è stata pure la grande attenzione alla tradizione culturale cristiana, come in La ricerca delle parole. Corpo, scrittura e messaggio evangelico (EDB), o in Darwin, Napoleone e il samaritano. Una filosofia della storia (Bollati Boringhieri).
Fra i volumi di Serres più citati, si può ricordare Il contratto naturale (Feltrinelli), all’origine di una riflessione sull’ambiente approdata poi a volumi più personali, come Biogea. Il racconto della terra (Asterios). Di recente, aveva pubblicato pure dei pamphlet con cui aveva riscosso un notevole successo, come Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, o ancora Contro i bei tempi andati, entrambi tradotti da Bollati Boringhieri.
«Tutti i miei migliori amici sono italiani», ci aveva raccontato nella sua ultima intervista ad Avvenire, da grande innamorato del Belpaese. In proposito, aveva anche dedicato un volume a Carpaccio, edito in Italia da Hopefulmonster. Fra gli altri tratti della tradizione italiana reinterpretati a livello filosofico, spicca la figura di Arlecchino, nel volume Il mantello di Arlecchino (Marsilio). Profondamente segnato dal dramma della guerra, ha lasciato anche importanti riflessioni di stampo pacifista.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff:
UNA METODOLOGIA PER L’ANALISI QUALITATIVA: RESA E CATTURA DI WOLFF (di ROBERTO CIPRIANI)
CON KANT E FREUD, OLTRE. Un nuovo paradigma antropologico: la decisiva indicazione di ELVIO FACHINELLI
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
Federico La Sala
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”.... *
Un piccolo grande passo
di Roberto Mussapi (Avvenire, mercoledì 6 marzo 2019)
«Solo un piccolo passo per un uomo, ma un passo da gigante per l’umanità!». Si avvicina il cinquantenario di uno dei più grandi trionfi umani: lo sbarco sulla Luna. Mentre avveniva compivo diciassette anni: non male come regalo di compleanno.
La frase che sarebbe rimasta leggendaria di Neil Armstrong mi commosse, come commosse il mondo, ma confesso che non la compresi bene. La seconda parte chiara: evidente che quel momento siglava un passo enorme per l’umanità, che dalla sua nascita scruta e interroga il nostro satellite notturno, custode e ispiratore del sogno. Ma non comprendevo perché definire "piccolo", per un uomo, quel primo passo sulla nuova terra sognata.
Ora credo di avere capito. Per immedesimazione, mettendomi nei panni di Armstrong, come fa un attore.
La terra vista dall’alto... E la mia gamba, che piccola cosa! Il mio piedino, dopo questo viaggio nello spazio immenso... Che esserino io sono, qui nell’infinità dell’universo. Il mio passo è piccolo perché io sono piccolo. Ma io non sono solo io, io sono l’umanità. Io sono parte del coro e degli atomi di tutti gli uomini, dal primo apparso sulla terra a tutti quelli che si susseguono, in ogni parte del mondo e in ogni tempo. Il mio piccolo passo è un grande passo dell’umanità, a cui appartengo.
*
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RIVOLUZIONE COPERNICANA. "Vicisti, Galileae" (Keplero, 1611).
UNESCO: IL 2009 ANNO INTERNAZIONALE DELL’ASTRONOMIA. Che farà l’Italia? Galileo di nuovo al confino!?!
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
IL "DIO DI AMORE" DI (OVIDIO E) BRUNETTO LATINI E "L’AMORE CHE MUOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE" DI DANTE.... *
Su Brunetto Latini, “Poesie”, a cura di Stefano Carrai
di Claudio Giunta (Domenicale del Sole 24 ore, 20 marzo 2016)
Il Tesoretto di Brunetto Latini non è certamente quel misconosciuto «capolavoro della letteratura allegorica» che diceva Jauss (ma come mai lo abbiamo preso sul serio?), ma è un modo eccellente per avvicinarsi alla poesia dei primi secoli; e questa nuova edizione a cura di Stefano Carrai è un modo eccellente per avvicinarsi al Tesoretto.
Si tratta di un poemetto, 2944 versi in tutto, scritto da Brunetto Latini al principio degli anni Settanta del Duecento. È uno strano ibrido. Comincia come un racconto di viaggio (il poeta-protagonista si trova a Roncisvalle, e qui incontra uno studente bolognese che gli comunica la sconfitta dei guelfi a Montaperti), prosegue come un trattato didascalico (la Natura personificata illustra al poeta l’ordinamento del cielo e della terra), poi come un trattato morale (il poeta incontra in successione le virtù, il dio d’Amore, il poeta Ovidio), e finisce con una bizzarra ‘Penitenza’, circa 500 versi in cui Brunetto riflette sulla caducità delle cose umane ed esorta un amico a cambiare vita come lui l’ha cambiata («che sai che sén tenuti», scrive, «un poco mondanetti»); dopodiché il racconto riprende e il protagonista si trova sul monte Olimpo, dove incontra il grande Tolomeo, «maestro di storlomia». Qui il testo s’interrompe di colpo.
Al di là però del contenuto, né originale né profondo, e al di là dello stile, senza veneri (anche perché imprigionato in una gabbia metrica da filastrocca: coppie di settenari a rima baciata), il Tesoretto è un testo interessantissimo perché è davvero un repertorio di topoi immaginativi, un campione di medievalità: c’è il viaggio nella foresta, c’è un mondo fantastico all’interno del quale il personaggio-poeta può dialogare via via con la Natura, con Ovidio o con Tolomeo, ci sono le ipostasi delle virtù e delle percezioni, che pescano dall’identico immaginario da cui hanno pescato gli sceneggiatori di Inside Out (Desianza=Joy, Paura=Fear): «Desïanza ... sforza malamente / d’aver presentemente / la cosa disïata / ed è sì disvïata / che non cura d’onore / né morte né romore, / se non che la Paura / la tira ciascun’ora, / sì che non osa gire / né solo un motto dire».
Il commento di Carrai è un commento esatto e intelligente. Sembra poco, ma è tantissimo, perché i commenti alla poesia (e soprattutto alla poesia antica) sono spesso un po’ stupidi. Chi ha studiato per anni un autore o un testo non si rassegna facilmente a farsi da parte, cioè a tacere una volta chiarito ciò che nel testo c’è da chiarire, ed eventualmente a far riflettere il lettore su ciò che il testo può dire sul suo autore o sulla mentalità dell’epoca in cui venne scritto: non si rassegna, gli viene, come diceva il dottor Johnson, «la fregola di dire qualcosa anche quando non c’è nulla da dire», o peggio - e la cosa è specialmente frequente nel campo della medievistica - gli viene la fregola di trovare verità nascoste, di sciogliere gli enigmi, il che porta spesso a postulare enigmi là dove non ce ne sono, onde una ridda di ipotesi e contro-ipotesi da stancare un causidico. E poi, a riempire le pagine, valanghe di ‘riscontri intertestuali’, come se importasse qualcosa che il poeta X ha preso quella parola dal poeta Y o dal poeta Z. Carrai invece non scaraventa sul lettore tutto il contenuto delle sue schede, spiega il testo dove occorre, e dove non riesce a spiegare prospetta delle ipotesi d’interpretazione, appoggiandosi - per consentire o per dissentire - a chi del Tesoretto si è occupato prima di lui.
Al Tesoretto Carrai fa seguire, com’è consuetudine, il Favolello, che è un altro breve poemetto in settenari baciati, più pedestre nel contenuto (è uno scialbo trattatello sull’amicizia), ma interessante soprattutto perché cita come amici-destinatari due rimatori contemporanei, Rustico Filippi e Palamidesse di Bellindote. E al Favolello segue, nel volume (che appunto per questo s’intitola Poesie: è l’opera omnia in volgare italiano di Brunetto), l’unica canzone di Brunetto che ci venga tramandata dai manoscritti, S’eo son distretto, strana poesia d’amore e devozione che alcuni hanno interpretato come un documento dell’omosessualità dell’autore (con ovvi riflessi sull’interpretazione di Inferno XV) e altri, direi più plausibilmente, come canto nostalgico per la patria, Firenze, dal quale il guelfo Brunetto viene bandito dopo Montaperti.
Manca, e avrebbe invece dovuto esserci, la canzone responsiva di Bondie Dietaiuti (così, nel Medioevo, si dissolvevano le tenzoni poetiche: gli scribi copiavano i corpora personali degli autori obliterando i testi missivi e responsivi dei loro corrispondenti, che in questo modo si disperdevano; ma in un’edizione moderna non si vede perché le tenzoni non debbano essere date nella loro integrità).
Il discorso sul Tesoretto e sul Favolello non è chiuso. Sono testi facili solo all’apparenza, specie a causa delle contorsioni che il metro e lo schema delle rime impongono all’autore. Di certi hapax resta poco chiaro, nonostante lo sforzo degli interpreti, il significato. Altri termini sono ambigui (per esempio non parafraserei con ‘verità’, con Contini e Carrai, il drittura di Favolello 7 «e fàllati drittura»: ‘giustizia’, che è il senso che drittura ha usualmente, mi pare più aderente al contesto). E certi passi dovranno forse essere riconsiderati in una futura edizione critica. Per esempio, ai vv. 1275-79 tutti gli editori postulano un (credo inattestato altrove) ablativo assoluto: «E vidi ne la corte, / là dentro, fra le porte, / quattro donne reali / che corte principali / tenean ragione ed uso». Dove «corte principali» vorrebbe dire ‘nella prima corte’. Ma dato che le «donne» di cui si parla sono virtù, e che principales è l’aggettivo che nel Medioevo spesso si predica delle virtù, in genere le cardinali, ci si deve domandare se la lezione corretta non sia piuttosto, con minimo emendamento, «come principali», cioè ‘come signore, regine di quella corte di giustizia’ (e sarebbe un altro errore d’archetipo, da aggiungere a quelli registrati da Pozzi e Contini nei Poeti del Duecento).
Forse potremmo chiudere, invece, il discorso sui rapporti tra Brunetto e Dante, salvo che non saltino fuori nuovi testi che permettano di riconsiderare sotto nuova luce la questione. Questione che è nota ad ogni studente liceale: Dante mette Brunetto all’Inferno, tra i sodomiti, ma non dice nulla della sua colpa (il che sorprende fino a un certo punto, dato che non sempre Dante lo fa), né di questa colpa si parla nelle fonti che non dipendono da Dante (il che non sorprende per niente: ci si aspetta che l’omicidio o la simonia lascino traccia nelle cronache, non necessariamente le inclinazioni sessuali).
Sodomia va allora inteso figuratamente, come ‘peccato contro la propria lingua materna’ (perché Brunetto, fiorentino, ha scritto il suo Tresor in francese)? Oppure come peccato politico (perché Brunetto non avrebbe «riconosciuto la sacra autorità dell’Impero»)? Mi sembra che la soluzione proposta da Zanato e ora da Carrai resti la più sensata: dato che Brunetto ci appare in compagnia di «Prisciano, Francesco Accursio e Andrea de’ Mozzi, [cioè] del gruppo di intellettuali, perlopiù pedagoghi ed ecclesiastici, che si sono resi colpevoli di pratiche omosessuali», non c’è ragione di pensare che lui non si sia macchiato dello stesso - non metaforico - peccato.
Non andrei oltre; né speculerei, per le ragioni che ho già accennato, sulla ‘memoria’ della poesia brunettiana nel canto XV. Il poeta Brunetto non aveva niente da insegnare a Dante, perché il peggior Dante (per esempio quello un po’ lezioso di Inferno IV: «Venimmo al piè d’un nobile castello, / sette volte cerchiato d’alte mura, / difeso intorno d’un bel fiumicello...») è migliore del migliore Brunetto. E l’idea che quando Dante mette in scena un altro poeta si serva - attraverso accorte allusioni - delle parole che quel poeta ha adoperato nelle sue opere mi sembra davvero un’idea tutta nostra, un’idea da filologi moderni, che mettiamo a forza nella testa di scrittori molto meno sottili di noi.
E questo vale anche per la testimonianza che molti (anche Carrai) considerano più probante: l’avvio del canto XV, «Ora cen porta l’un de’ duri margini...», nel quale si condenserebbero «gli echi di mosse identiche del Tesoretto, vv. 1183-84 “Or va mastro Burnetto / per un sentiero stretto”, e 2181-82 “Or si ne va il maestro / per lo camino a destro”». Ma direi di no: è una formula di transizione che si trova molte volte nella poesia narrativa francese, per esempio nel Girart de Rossillon («Ere s’en vait Girarz egal solel / per un estreit sender...» (l’identica immagine del sentiero stretto che si trova in Brunetto Latini), nella chanson de toile Gaiete et Oriour («Or s’an vat Oriour stinte et marrie»), nel Macaire franco-veneto, «Ora se voit sor un corant destrer». Langue, insomma, non parole, come nella poesia medievale capita non dico sempre, ma quasi.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI". DANTE "corre" fortissimo, supera i secoli, e oltrepassa HEGEL.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
ARACNE, FILOMELA, E TRE ARAZZI. Arte e resistenza: ascoltare la voce della spoletta ... *
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Tessere come smascheramento: disfare la violenza dello stupro
La tela di Aracne apre il libro sesto delle Metamorfosi, la storia di Filomela lo chiude.
Per entrambe queste donne, tessere rappresenta lo smascheramento dei "misteri sacri" e il disfare la violenza dello stupro. Prima che la dea adirata Atena (Minerva) stracci la stoffa tessuta da Aracne, la tessitrice, donna mortale, racconta su di essa una storia molto particolare: quella delle donne stuprate da dèi che si mutano in bestie. Prima dell’intervento della dea gelosa, Aracne è il centro di una comunità femminile.
Insuperabile nella sua arte, Aracne è così piena di grazia che donne da ogni luogo vengono da lei per vederla cardare, filare, tessere. Attorno a lei si radunano altre donne che guardano, parlano, lavorano, riposano. Qui il telaio rappresenta un’occasione per creare comunità e pace, un contesto in cui è possibile, per il piacere, essere non violento e non possessivo.
In questo Aracne ricorda Saffo, che pure era il centro di una comunità di donne e a cui similmente Ovidio riserva un vicolo cieco, adottando la tradizione che tenta di sminuire la poetessa facendola morire suicida poiché respinta da un uomo. Ciò che sopravvive del lavoro di Saffo e gli studi successivi respingono come falsa questa ipotesi.
E’ solo facendo uno sforzo di interpretazione che noi oggi possiamo suggerire che Aracne, la donna artista, non si impiccò come ci racconta la storia, ma fu linciata. Il suicidio è un surrogato dell’omicidio. Aracne è distrutta dal suo stesso strumento quando esso è nelle mani della dea irata.
Ma chi è Atena? Non realmente femmina, giacché emerge, priva di madre, dalla testa del padre, una fantasia maschile che si fa carne, che strangola la voce delle donne reali. Lei è la figlia vergine il cui scudo è la testa di un’altra vittima donna, Medusa. Atena è la pseudo-donna che racconta la storia del giusto ordine.
Centrali, nel suo arazzo, sono gli dei in tutta la loro gloria, ma ai quattro angoli della tela, all’interno del bordo di rami d’olivo, Atena tesse un ammonimento alla donna artista, affinché essa non resista all’autorità ed alla gerarchia: in colori brillanti, quattro figure dicono "Pericolo!".
L’errore di Aracne è solo apparentemente l’orgoglio per la propria arte (che è pienamente giustificato: Aracne vince la gara); in verità, lei è in pericolo perché racconta una storia pericolosa. Fra le donne rappresentate nel suo arazzo c’è la stessa Medusa.
Raccontare lo stupro di Medusa da parte di Poseidone è suggerire ciò che può nascondere il mito per cui la donna muta gli uomini in pietra. Il luogo del crimine era l’altare di un tempio di Atena. Il retroterra del crimine era la necessità della città di scegliere un dio per darsi nome e ciò che usualmente viene rappresentato come una rivalità fra Poseidone ed Atena per ottenere tale onore.
Medusa fu stuprata o sacrificata sull’altare di Atena? Fu la donna "punita" da Atena, o fu uccisa durante una crisi, come offerta della città di Atene ad una dea "adirata", proprio come Ifigenia fu sacrificata ad una Artemide assetata di sangue? Dietro alla testa decapitata della donna, che Perseo usa per mutare gli uomini in pietra, c’è l’antica Gorgone, la maschera apotropaica rituale che segnava gli angoli dei camini nelle case ateniesi.
La Medusa mitica può ricordare una reale vittima sacrificale: dietro la testa che tramuta in pietra gli uomini, potrebbe esserci una donna lapidata a morte dagli uomini. E, anche qui, la responsabilità deve cadere su un’altra "donna", Atena.
La storia viene erotizzata dal collocare la violenza fra uomini e donne, e Freud, nella sua equazione "decapitazione = castrazione" rinforza e sviluppa la misoginia presente nel sacrificio mitico. Se Medusa è divenuta una figura centrale con cui ogni donna artista deve fare i conti è perché, ella stessa ridotta al silenzio, Medusa è stata usata per ridurre al silenzio altre donne.
Aracne, narrando sulla tela le storie delle donne stuprate da dei mutati in bestie, demistifica gli dei (il sacro) e li rivela come bestie (la violenza). Ovidio può raccontare la sua versione della storia solo perché la versione della donna è stata strappata in pezzi e lei stessa ricondotta ad uno stato "naturale".
Proprio come Freud, terrorizzato dalla "donna-come-madre" e dalla donna tessitrice, usa la psicoanalisi per riportare le donne ad un’identificazione con la "natura", così il mito usa Atena affinché trasformi Aracne in un ragno repellente, che potrà tessere tele puramente letterali, disegni incomprensibili. La metamorfosi, così come la psicoanalisi nelle mani di Freud, rovescia la direzione della violenza: Medusa, come Aracne, spaventa e minaccia gli uomini.
Il ragno femmina intrappola e divora i maschi che si accoppiano con lei... Lo strumento della tessitrice, la spoletta, viene usato per ridurla al silenzio. Ma non viene usato per zittire l’artista maschio, che si appropria dell’abilità femminile quale metafora per la propria stessa abilità.
Quale strumento di violenza, Atena è un’estensione di Zeus. La vendetta sulla donna artista, che usa il telaio per raccontare storie che non ci è permesso di udire se non sono mediate dagli uomini, non è una vendetta degli dei, è una vendetta culturale.
Quando Filomela comincia a tessere durante il suo lungo anno di prigionia, non è solo la sua sofferenza che la muove ad un nuovo uso del telaio, ma lo specifico scopo di essere udita da sua sorella. Come strumento che lega e connette il telaio (o la spoletta che è una sua parte) ri-membra e aggiusta ciò che la violenza riduce in pezzi: il legame fra sorelle, il potere della donna di parlare, la forma della comunità, la comunicazione. La guerra ed il tessere sono antitetici.
Ma il mito ci chiede di credere che, dopo il suo lungo e paziente sforzo, Filomela sia disposta a trasformare il suo lavoro al telaio in vendetta immediata. Ci si chiede di credere, dopo che Filomela ha trasformato la prigione in laboratorio e la disciplina domestica in un anno di lotta, che tutto ciò l’ha lasciata immutata, che la sua scoperta non ha il potere di cambiare nulla.
E il mito ci chiede di credere che dopo un anno di pianto sulla tomba della sorella, Procne sia disposta non ad un rito di riunione, ma ad uno di omicidio. L’alternativa più importante suggerita dall’arazzo di Filomela non è mai stata considerata: il potere del testo di insegnare all’uomo a conoscere se stesso.
E’ il barbaro Tereo o è il cittadino greco che risponde alla storia tessuta dalla donna con la violenza? All’interno della tradizione greca, il mito è stato usato per insegnare alle donne il pericolo insito nella nostra capacità di vendicarci. Ma se il mito istruisce, così come è istruttivo l’arazzo di Filomela, allora ci dice anche che possiamo insegnare a noi stesse, all’interno del potere dell’arte, le forme della resistenza.
E’ il tentativo di negare che il tessere di Filomela poteva avere altri fini a parte la vendetta che rende il mito così pericoloso, perché esso tenta di persuaderci al considerare la violenza inevitabile e l’arte debole... ma è lo stesso mito a testimoniare contro se stesso, perché se l’arte di Aracne e Filomela fosse davvero stata così debole, non sarebbe stata repressa con violenza così estrema. [...]
*
Federico La Sala
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. In principio era il Logos ... *
Il sogno della Bellezza
di Roberto Mussapi (Avvenire, mercoledì 30 gennaio 2019)
«Un tempo mi stupivo perché una guerra così lunga/ d’Europa e d’Asia davanti a Pergamo/ fosse stata causata da una donna./ Adesso vi comprendo, siete stati saggi,/ Paride e Menelao, tu a rivolerla, / Paride a non volerla cedere. / Fu così bella che valse la pena// che in suo onore Achille morisse, / e Priamo lodasse le cause della guerra.»
Molteplici le cause delle guerre. Spesso economiche, a volte mascherate da valori civili, patriottici o religiosi. Qui però non ci riferiamo a una delle tante tragiche guerre storiche, ma alla prima, che, anche se realmente avvenuta, diviene mito di fondazione del nostro mondo. Troia esiste e fu assalita e arsa dalla lega dei greci.
Ma pur se storica, quella vicenda è mitica, oltre il tempo della storia e del calendario: un poeta, Properzio, il primo ma non l’unico, intuisce il mistero e il segreto di quella terribile contesa: Elena, moglie di un nobile greco, fuggita con un principe troiano: Elena sarà dell’uno e dell’altro, e mai di nessuno definitivamente. È la bellezza assoluta, irraggiungibile, che nessuno potrà mai definitivamente possedere.
La guerra dei primordi è la perversione di un sogno umanamente comprensibile: ognuno di noi vuole la Bellezza, e non comprende che non può essere solo sua. Ci preesiste.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
“La mente accogliente”. Una "vecchia" lettera di commento*
Caro Federico,
mi trovo nelle stesse condizioni di E. Fachinelli in un pomeriggio ventoso di settembre (1985) sulla spiaggia di S. Lorenzo a mare, quando ebbe l’intuizione fondamentale del suo filosofare: rovesciare la prospettiva; si tratta di ristrutturare la coscienza, trasformandola da coscienza chiusa in una coscienza aperta; passare da una monade con porte e finestre sbarrate ad una monade con porte e finestre aperte; per la salvaguardia del pianeta azzurro o la fondazione di una nuova città.
Potrei anche aver detto di trovarmi nelle stesse condizioni tue quando hai avuto chiara, per intuizione o per deduzione dalle ipotesi di E. Fachinelli, la teoria della “mente accogliente”.
Cosa da far tremare i polsi e forse per questo l’hai decodificata in “tracce per una svolta antropologica”! Fuor di metafora e... fuori dal campo di ricerca, devo esprimerti i miei più sinceri complimenti per l’assoluta padronanza del linguaggio e dei concetti che le parole vogliono esprimere; una raffinatezza stilistica voglio dire e una profondità ideo-logica (come vedi riprendo anche il tuo vezzo cesorio!) che non lascia adito a dubbi: sei un vero filo-sofo del pensiero pensata da Eraclito a Marx, da Parmenide a Nietzsche e così via.
La perfezione la raggiungi nell’ultimo pezzo (un brillante new tono): due pagine di assoluta bellezza stilistica e concettuale, dalle quali partire, io auspico e auguro, per una sistematica trattazione dell’argomento della “mente accogliente”, dove ci siano meno padri (altrimenti il mito edipico permane!) e dovrai cavalcare il raggio di luce. Fuori dal cerchio, rompere il cerchio!
Solo così meriterai il “Vicisti Galilaee” di Keplero. Definitivo e inappellabile.
Roma, lì 10 dicembre 1991
I medici nascono senza frontiere
di Roberto Mussapi (Avvenire, venerdì 18 gennaio 2019)
«In quante case io entri mai, vi giungerò per il giovamento dei pazienti tenendomi fuori da ogni ingiustizia e da ogni altro guasto, particolarmente da atti sessuali sulle persone sia di donne che di uomini, sia liberi sia schiavi». Siamo all’inizio di uno scritto che segna una tappa fondamentale della civiltà: il Giuramento di Ippocrate, il medico che fonda il compito e traccia le basi della sua arte. «Io giuro su Apollo medico e Asclepio e Igieia e Panacea, e su tutti gli dei e le dee, prendendoli a miei testimoni...».
Il giuramento di Ippocrate, su cui si fonda la medicina, è fatto agli dèi, il compito del medico non riguarda esclusivamente il mondo della polis, ma è vincolato a quello sacro del divino. Studi recenti datano il giuramento intorno al V secolo a. C, il secolo che vede nascere la tragedia come genere teatrale di poesia, e la filosofia, pensiero come logos. Alle spalle il rito dionisiaco tragico, e il pensiero dei presocratici, i baldi e travolgenti scienziati-poeti. Prodigioso momento di creazione dei Greci che fondano l’Occidente.
Cittadini di una democrazia, non servi di un Re come gli Egizi o i Persiani. Ma civiltà non ancora compiuta. Le donne non godono di diritti civili, né considerazione, meno ancora degli schiavi. Insomma molestare una donna, o uno schiavo, non è, per il greco del tempo, così grave. Non sono cittadini, maschi.
Per Ippocrate invece è la stessa cosa. Supera i limiti della sua civiltà. Va oltre: giuro di non fare violenza a nessuno, perché tutti, comprese donne e schiavi, sono, siamo uguali. Supera i pensatori del suo tempo. È un medico. I medici nascono senza frontiere.
Filosofia. In «Partorire con la testa» (Marsilio) Dorella Cianci ragiona sulla maieutica e fa emergere lati meno noti del pensatore greco, anche al di là della versione platonica
Ritratto inatteso di Socrate, sapiente maestro di ribelli
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 15.01.2019)
Una persistente e densa immagine mentale in evoluzione. Mito e raziocinio ruotano fra la tecnica dell’anamnesi e gli aspetti terapeutici della forma dialogica verso la scoperta del sé nascosto nell’inconscio, sorpreso a ragionare con reminiscenze primordiali. Tant’è che oggi si trovano a confluire sulla genesi del pensiero differenti discipline: pedagogia, storia, antropologia, psicoanalisi, filosofia, retorica, teologia.
Con analisi accurata delle fonti dall’antichità al Medioevo, un inatteso Socrate, non più esclusivamente «controllato» dalla versione platonica, scopriamo ora nel volume Partorire con la testa. Alle origini della maieutica di Dorella Cianci (Marsilio).
Nata a Cerignola (Foggia) nel 1984, filologa classica, docente universitaria, l’autrice ritiene che Socrate sia passato alla storia come filosofo grazie alla volontà dall’allievo Platone. È sufficiente leggere fra le righe dei documenti. Una di queste prove si trova non a caso in un dialogo platonico, il Menone. Un giovane schiavo, che credeva di non avere dubbi, dopo l’incontro con Socrate non ha più certezze. Anzi, il ragazzo viene indotto a ricercare il sapere, perché si trova in uno stato di fame della conoscenza.
Socrate è davvero un maestro di parto, un’abilissima ostetrica. Da dove arriva l’idea di generare senza utero se non dal mito? È noto come Atena, dea della sapienza, fosse la figlia prediletta di Zeus, nata dalla testa del padre, aiutato da Efesto che gli spaccò il cranio in due. La potenza simbolica dei miti è ineluttabile nella cultura classica. Giulio Guidorizzi, grecista di chiara fama, sottolinea nell’illuminante prefazione: «Nulla nasce senza dolore e rottura. Questa è in definitiva la natura della maieutica socratica; ...a poco a poco, una nuova idea viene al mondo e con essa un nuovo modo di essere cresce nella mente di una persona, che alla fine ne viene mutata fondamentalmente».
Senza dubbio la teoria socratica parte dall’assunto che la verità esiste già nella mente di una persona. Siamo nel campo dell’inconscio. Tocca al maestro, induttore di idee e non solo levatrice, far emergere la coscienza di sé, quando ancora l’allievo giace in uno stadio d’inconsapevolezza.
Platone attribuisce al comico Aristofane la maggiore responsabilità per la condanna a morte di Socrate nel 399 a. C. È vero, nelle Nuvole, commedia rappresentata nel 423, Socrate viene trasformato in un buffo manichino, maschera ridicola che si arrabbia nel caso qualcuno gli faccia abortire delle idee, un ateo che rigetta la religione olimpica. È il segno che Aristofane testimonia l’opinione dell’uomo della strada, mentre il pubblico ride del «supremo corruttore dei ragazzi». Nessuna colpa, quindi, del comico per la condanna decisa contro il filosofo dopo più di vent’anni dall’allestimento teatrale.
La questione maieutica in Socrate nasce dall’esigenza di proporre una pedagogia nuova. Chi esce dalla sua scuola è un ribelle pronto a demolire i valori etici dell’educazione tradizionale. Per questo Socrate deve morire.
Il Socrate che non t’aspetti svelato da Dorella Cianci
La rigorosa ricostruzione della figura del pensatore nel suo “Partorire con la testa. Alle origini della maieutica” (Marsilio)
di Mirella Fortis (Leggere:tutti, 28 novembre 2018)
Un lungo minuzioso lavoro di analisi della letteratura greca, ma anche di tanti testi successivi, dell’antichità e del Medioevo. Da questo scaturisce il Socrate che non ti aspetti. Con rigore scientifico è Dorella Cianci a ricostruire in modo anche imprevisto uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi nel suo libro “Partorire con la testa. Alle origini della maieutica” pubblicato da Marsilio. La figura di Socrate si allontana così non solo dai luoghi comuni ma anche dalla descrizione praticamente monopolizzata da Platone.
Antichista e filologa, docente nell’Università Lumsa di Filosofia con i bambini e assegnista di ricerca in storia della filosofia medievale, Dorella Cianci è risalita alle origini della maieutica, parola che deriva dal greco con un richiamo all’arte ostetrica, e che fu adoperata da Platone nel “Teeteto” per definire il metodo attribuito a Socrate: il dialogo ottenuto con il susseguirsi di domande e risposte per sollecitare l’interlocutore, come una levatrice, a partorire la verità.
Stanno proprio così le cose? Attenzione: “E’ Platone che vuol far diventare Socrate un vero filosofo!” esclama la Cianci. Che avverte come Socrate operi con convinzione e agilità “nella paradossalità dei suoi nuovi valori di insegnamento, quegli stessi valori che erano balzati agli occhi di un semplice comico, Aristofane, molto più di quanto il fedele Platone li avesse notati!”.
Ed ecco la conseguenza ricavata dall’esame di un’ampia gamma di fonti: “Socrate abortiva e partoriva idee negli allievi, dicendo poi che questi allievi facevano tutto da sé, ma a ben vedere - da bravo maestro - sapeva tirare da burattinaio colto i fili del suo discorso esattamente dove voleva e anzi,,, in alcuni casi era totalmente proiettato su di sé, tanto da creare idee esclusivamente a sua immagine e somiglianza”.
I primi importanti e qualificati apprezzamenti all’originalità dell’impostazione di Dorella Cianci sono espressi già nella prefazione al libro “Partorire con la testa” scritta dal grecista e filologo Giulio Guidorizzi: “Seguo con un certo agio la strada segnata dalla Cianci” riconosce Guidorizzi. In particolare osserva: “Nel "Menone" Socrate non attua alcun parto, non fa nascere ciò che è dentro il ragazzino, in relazione a concetti complessi a lui estranei. È l’atteggiamento
La Cianci, pertanto, entra nel vivo della “pedagogia del maestro Socrate” che, con il suo “paradosso educativo, si è elevato a potente comunicatore, usando una strategia difensiva che lo mettesse al riparo dall’accusa di corruzione dell’animo giovanile”. Così ha mirato a “creare naturalmente allievi grazie alla sua autorità dialettica, pur affermando di non essere un maestro e chiarendo, già nell’"Apologia", che cosa intende con l’essere o meno maestri”.
A proposito di comunicazione, spicca nella prima citazione di “Partorire con la testa” la constatazione di Diogene Laerzio secondo cui “di fatto Platone ha messo per iscritto un numero importante di discorsi che Socrate non ha tenuto”. Sembra quasi una traccia per arrivare al paragrafo di pagina 28 dedicato a una “Postilla sul fake” anzitempo. Le falsificazioni delle informazioni hanno dunque un cuore antico, fa sapere questo libro.
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Dorella Cianci
Partorire con la testa. Alle origini della maieutica
Marsilio, 2018
Euro 13,00, pp. 160
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.... *
Alle radici della crisi attuale
Quando Nietzsche seppellì l’Occidente
Come in biologia ogni civiltà è un organismo che nasce cresce e muore
E il canto del cigno della nostra ha un volto:quello del filosofo tedesco
I primi sintomi di malessere collettivo si ebbero a metà ’800, con le tesi di Feuerbach, Stirner e Marx
Ma fu l’autore della "Gaia scienza" e di "Ecce homo" a fare piazza pulita di fedi, sistemi, tradizioni e istituzioni
di Sossio Giametta (la Repubblica, 17.11.2018)
Quest’anno si è celebrato il centenario della fine della Prima guerra mondiale (1914-1918). Su questo sono fioriti, in aggiunta alla pletora che già c’era, articoli, servizi, saggi e studi di ogni tipo; sono state rinnovate le analisi delle cause lontane e vicine, delle occasioni scatenanti e delle funeste, ramificate conseguenze, coi prodromi, gli appigli e gli agganci alla Seconda guerra mondiale. Tuttavia nessuno storico è stato in grado di pervenire alla causa originaria delle due guerre e di tutto lo scatafascio che esse hanno comportato. E ciò per la ragione fondamentale che questa causa è metastorica, affonda le radici nella biologia e richiede la partecipazione della filosofia.
L’indagine storica non basta a far capire quello che l’Europa e il mondo hanno fatto e subito in tale periodo: le due più grandi catastrofi della storia.
Un organismo è un’unità in cui il principio vitale - una forza unificante di natura sconosciuta e inconoscibile - stringe insieme una pluralità di forze individuali contrastanti, tendenti ciascuna alla supremazia, in un’unità superiore. Si immagini il nostro organismo, con le cellule che lo compongono. Ogni organismo ha nascita, sviluppo, decadenza e morte. Nelle prime fasi di vita, cioè nella parabola ascendente, la forza unificante, che è forza collettivizzante (strumentalizza gli individui in funzione della collettività) è al suo massimo, come la forza vitale stessa, con cui si identifica. Nella parabola discendente, allenta la sua presa, mentre aumenta la forza individualizzante, cioè la forza dei singoli individui tra loro contrastanti. Ne consegue una tendenza dell’organismo a disgregarsi. Alla fine la forza unificante cede, e nell’organismo si crea una polarizzazione tra le tendenze opposte, che si compattano agli estremi. È il preludio della fine.
Le civiltà, le religioni sono soggetti storici al di sopra degli individui che ne fanno parte. I membri di questi grandi soggetti storici sono organizzati in funzione dell’organismo di cui fanno parte allo stesso modo degli organi del corpo umano. Più sono i membri che li compongono e più ampia è l’articolazione e diversificazione della civiltà o della religione.
Dunque il numero dei loro membri (gli individui) è importante. Che le civiltà, le Kulturen, siano organismi, è stato teorizzato da Oswald Spengler ne Il tramonto dell’Occidente, coevo alla Prima guerra mondiale. In quanto organismi, le civiltà sono soggette al nascere e al perire, come tutto ciò che esiste, compreso l’universo che conosciamo, e tendono a vivere e a svilupparsi secondo la loro legge interna. Cioè pur essendo condizionate dalle circostanze storiche e geografiche, esse non ne sono determinate e si sviluppano in maniera autonoma, come gli uomini stessi, che possono vivere la loro vita negli ambienti più disparati, e in mezzo alle circostanze storiche più svariate, obbedendo soprattutto alla loro legge interna.
Il grande organismo storico alla cui agonia e fine a noi anziani è toccato assistere, è la civiltà occidentale, cioè la civiltà cristiano-europea fondata dal cristianesimo in contrasto dialettico con la civiltà antica, ma in seguito integrata dagli Stati laici, figli del Sacro Romano Impero. Le Kulturen hanno una gioventù, una maturità e una vecchiaia. In vecchiaia diventano, detto nel tedesco di Spengler, Zivilisationen, detto in italiano, civiltà stramature. Esse brillano un’ultima volta prima di sprofondare nella morte e nella decomposizione. Ma ciò non per colpe e vizi, come si crede, ma per compiutezza e sazietà.
Rispetto alle altre nazioni europee, la Germania, divisa e arretrata, esplose in ritardo. Nell’alta marea che ne seguì Hegel, con lo spirito assoluto e un sistema che comprendeva tutti i sistemi e dava senso divino (umanizzato) alla storia, diede la carica ai tedeschi, come «parte razionale dell’Europa».
L’Uebermut, un senso titanico di forza e di superiorità, salì alle stelle, grazie anche all’apporto di Fichte e Schelling. Sarebbe cresciuto sempre più, fino al delirio nazista. Hegel era amico e protetto di Goethe, ma ne tradì il messaggio di misura (nella poesia Prometeo, Goethe si vanta di aver sconfitto der Titanen- Uebermut, la superbia dei titani). Per lui «classico è ciò che è sano e romantico ciò che è malato».
Hegel mise il romanticismo al di sopra della classicità. Goethe predicava la natura, di cui l’uomo è piccolissima parte, Hegel lo spirito. Goethe censurò la troppa importanza data all’individuo e disse che senza la morale lui non era niente. Hegel negò la morale per dare risalto all’etica. Ma quando si arriva al vertice, è prossima la caduta. Già negli anni Quaranta dell’Ottocento esplose, nel segno dell’antihegelismo, la più grande avvisaglia della crisi della quasi bimillenaria civiltà europea, con i giovani hegeliani di sinistra: Feuerbach, Ruge, Marx, Stirner, Bauer, poi Schopenhauer; in Danimarca Kierkegaard. La crisi raggiunse l’acme nella seconda metà dell’Ottocento e fu incarnata soprattutto da Nietzsche.
Contrariamente a quello che credeva di essere: il pensatore più indipendente e inattuale della sua epoca, Nietzsche era inconsapevolmente tutto e solo attualità, una creatura della crisi.
Trasferì verso la Grecia arcaica e dionisiaca le correnti selvagge della sua epoca, sicché alla fine la Grecia risulta essere soprattutto un alibi. Nietzsche fece piazza pulita di sistemi e costumi, morali e religioni, tradizioni e istituzioni, per cui gli rimase solo la natura col suo vitalismo selvaggio. In tal modo costruì nell’empireo della filosofia quello che sarebbe diventato il cuore del fascismo-nazismo. Questo fu l’ultimo colpo di coda dell’Occidente prima di perdere il primato alla fine della Seconda guerra mondiale.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
PLATONE E NOI, OGGI. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!.... *
Nel buio della «notte politica» la sfida di una filosofia militante
Esce giovedì il nuovo saggio di Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri)
Un forte richiamo alla funzione pubblica del pensiero critico
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 22.10.2018)
Un giovane filologo italiano, Max Bergamo, si accinge a pubblicare gli appunti che, alle lezioni di greco di Friedrich Nietzsche professore a Basilea, prese, e conservò, nel semestre invernale 1871-1872, un allievo d’eccezione, Jacob Wackernagel, destinato a diventare uno dei maggiori storici delle lingue classiche. Il corso di quel semestre verteva su Platone. Abbiamo dunque sia gli appunti dell’allievo, sia il molto ricco dossier preparatorio del maestro (ne è imminente la traduzione presso Adelphi), che ormai si integrano a vicenda e si completano.
Scrive Nietzsche: «Non è lecito considerare Platone come un sistematico in vita umbratica, ma come un agitatore politico che vuole scardinare il mondo intero e che è, a questo scopo, tra le altre cose anche scrittore (...) Egli scrive per fortificare nella lotta (bestärken im Kampfe) i suoi compagni dell’Accademia (da lui fondata)». L’allievo annotò le parole del maestro così: «L’Accademia non è per lui che un mezzo. Indirettamente scrittore. (A noi invece appare in primo luogo scrittore). Un politico che vuole scardinare il mondo intero». Notare che «scardinare» appare in entrambi (aus den Angeln heben). Dunque Nietzsche disse proprio così: «Scardinare il mondo intero».
Al centro della lotta per cambiare il mondo c’è Platone. Ed è questo uno dei centri motori - insieme ai «casi» Marx e Heidegger - del nuovo saggio di Donatella Di Cesare Sulla vocazione politica della filosofia (Bollati Boringhieri). Scrive Donatella Di Cesare nel capitolo da cui prende avvio il suo saggio: «Guardiano della città, già prima di Platone e della sua politeia, Eraclito denuncia la notte politica». L’immagine della «notte» viene da un paio di frammenti dell’opera perduta di Eraclito, che paragonano la cecità impolitica dei suoi concittadini (di Efeso, metropoli greca sulla costa asiatica) al torpore del sonno.
A significare che la vocazione politica è inerente al filosofare, e ne costituisce l’avvio o anche la premessa, la Di Cesare parte da ben prima di Platone e segue quel filo fino al nostro presente. L’autrice potrebbe, credo, riconoscersi nelle parole con cui Togliatti tratteggiò il cammino di Gramsci: «Nella politica è contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia, e per il singolo, che è giunto alla coscienza critica della realtà e del compito che gli spetta nella lotta per trasformarla, sta anche la sostanza della sua vita morale» (Convegno Gramsci, Roma, gennaio 1958).
Ma il filo conduttore è: «scardinare» l’esistente (Platone secondo Nietzsche) ovvero «trasformarlo», secondo la insopprimibile «tesi su Feuerbach» di Marx ventisettenne (1845). Il libro della Di Cesare è una battaglia in favore di questa concezione della filosofia, in antitesi rispetto a tutti i benpensanti (da Aristotele alla Arendt) secondo cui la politicità totale del filosofare sarebbe «passo falso» o «tentazione di intervenire».
Per Aristotele (nel secondo libro della Politica) le fondamenta e i presupposti della Kallipolis (città verso cui tendere) di Platone - superamento della proprietà, della famiglia etc. - sono devianze teoretiche e (forse anche) cadute immorali. La Arendt si riferisce a Heidegger. È chiaro che l’impegno a fianco del nazionalsocialismo fu un pauroso andare fuori strada, ma non lo fu il fatto stesso dell’impegnarsi. E questo vale anche per Gentile. Nel concreto dell’esistenza si sta «o con Lutero o con il Papa».
Il caso Heidegger e il suo gigantesco abbaglio sono ben noti alla Di Cesare: soprattutto, vien da dire, a lei, che ne ha attraversato il pensiero come - diceva l’ex coraggioso poeta Orazio all’amico Asinio Pollione - in una traversata «sui carboni ardenti».
Anche Platone, precoce, si era coinvolto nel governo più demonizzato che Atene abbia mai visto nella sua drammatica storia: quello dei Trenta cosiddetti «tiranni», capeggiati da Crizia, socratico e allucinato riformatore, di cui Platone era nipote. E Platone non lo nasconde affatto, al principio della lettera settima (che già per questa «confessione» sofferta e moralmente elevata, è ovviamente autentica!): perché - afferma - quel governo si proponeva come portatore di una rifondazione radicale della politica in nome di alcuni «princìpi». Platone ne descrive anche il fallimento e la sconfitta ma gli rende omaggio, del tutto controcorrente, rispetto al perbenismo della cosiddetta democrazia restaurata. E nel Timeo, al principio del dialogo - dove Socrate viene sollecitato da Timeo a riassumere «ciò che ha detto il giorno prima» (cioè il nocciolo della Repubblica) - Crizia dice a Socrate, rendendogli omaggio: «La città che tu ieri ci hai descritta come una favola (la città riordinata secondo la radicale proposta riformatrice illustrata nella Repubblica) noi la trasferiremo nella realtà e la porremo qui» (Timeo, 26E).
Platone fa, qui, dire a Crizia, cioè al capo dei Trenta, parole che rivendicano orgogliosamente la genesi socratica del tentativo (pur abortito) dei Trenta e la coincidenza di quel tentativo (per lo meno nelle intenzioni) col progetto «utopistico» contenuto nella Repubblica. La «leggenda nera» gravante su Crizia viene così cancellata. Ma nell’Atene democratica queste erano parole indicibili. E come dimenticare, a questo punto, l’appropriazione nazionalsocialista di Platone (Hitlers Kampf und Platons Staat di Bannes)?
Donatella Di Cesare, che ripercorre in questo saggio il cammino di alcuni grandi filosofi che «si sporcarono le mani», e descrive con efficacia l’esito di Marx come studioso che - dopo reiterate sconfitte - «si ritirò sempre più in sé stesso per scoprire anzitempo la legge della storia che avrebbe portato sino all’ultimo salto prima del regno della libertà», lancia al termine una sfida inattuale a chi predica (da qualche decennio) la fine della storia, la fine del pensiero («delle ideologie» dicono i pappagalli semicolti), cioè (suprema stupidità) la fine del moto perenne della storia. E propugna in un «poscritto anarchico» una via d’uscita di rifiuto indomito dell’arché, del comando. È certo consapevole del rischio di ridurre così i filosofi a «testimoni», sia pure emozionanti.
E approda, a mio avviso, a un esito tolstoiano.
Non è superfluo ricordare qui, conclusivamente, che quel gigante del pensiero e dell’arte europea che fu Tolstoj - il quale a lungo rifletté sul «moto storico» incessante - diede impulsi profondi sia a Lenin che a Trotsky.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE... *
Un mondo senza limiti
di Luigi Marfè ("Alfabeta2", 2 ottobre 2017)
Quando, a cominciare dal 1946, i vettori spaziali cominciarono a scattare fotografie della Terra, per la prima volta l’uomo poté vedere il proprio pianeta dall’esterno. Dalle prime immagini sfocate si giunse in breve a rappresentazioni più precise, come la Blue Marble scattata dall’Apollo 17 nel ’72, capaci di imprimersi a fondo nell’immaginario collettivo. Da sempre al centro della fantasia di esploratori e poeti, il sogno di abbracciare l’intero globo e delinearne un’immagine veritiera parve infine realizzarsi.
“Il costituirsi del mondo a immagine” sarebbe del resto, secondo Heidegger, “ciò che distingue e caratterizza il Mondo Moderno”. Le immagini spaziali della Terra - quello “sguardo dal di fuori” di cui parlava nel 1981 Alberto Boatto (il grande critico d’arte e saggista scomparso lo scorso 9 febbraio) in un saggio pioneristico dal titolo omonimo, recentemente ripubblicato da Castelvecchi (2013) - rappresenterebbero, in questa prospettiva, l’ultimo tassello di un processo di “invenzione della tradizione” che risalirebbe molto più indietro nel tempo.
L’invenzione del globo di Matteo Vegetti si concentra proprio su questa storia e ne verifica la consistenza in testi di varia origine, dalla filosofia alla poesia, dalla scienza politica alla dottrina militare, nella convinzione che tale ricostruzione possa contribuire a riflettere con meno approssimazione su uno dei concetti più abusati e consunti del dibattito pubblico attuale: quello di “globalizzazione”.
Punto di partenza di Vegetti è un passo di Terra e Mare di Carl Schmitt (1942), in cui si allude a una vera e propria “rivoluzione spaziale” (Raumrevolution) grazie alla quale l’uomo si sarebbe appropriato dello spazio atmosferico, stravolgendo equilibri geopolitici secolari basati, fin dall’età delle scoperte geografiche, sullo scontro tra forze terrestri e forze navali.
Dopo la lotta tra Behemot, mostro della terraferma, e Leviatano, mostro marino, la nuova epoca si sarebbe aperta nel segno di una nuova creatura biblica: l’uccello Ziz (Salmi, 50:11). Se Shakespeare poteva vantare nel Riccardo II (1595) la protezione dagli stranieri offerta all’Inghilterra dal mare, gli aerei venivano ora a smentirlo, rendendo qualunque paese un’isola affacciata su un altro oceano, quello atmosferico. La conquista dell’aria rappresenterebbe allora un vero e proprio cambio di paradigma, capace di accorciare le distanze e creare nuove relazioni tra i luoghi.
“Nulla più si farà che non vi sia coinvolto il mondo intero”, aveva notato, già nel 1930, Paul Valéry, annunciando l’inizio del “tempo del mondo finito”. E con lui Claude Lévi-Strauss, Ernst Jünger e tutti quanti in quegli anni andavano osservando l’insorgere sempre più frequente di fenomeni di portata globale. Ma nessuno di loro poteva immaginare che, qualche decennio più tardi, le trasformazioni del sistema dei trasporti, limitate ai movimenti materiali di uomini e merci, sarebbero state un’inezia al confronto dell’ulteriore accelerazione dei flussi immateriali di notizie, idee e denaro, prodotta da un’altra forma di colonizzazione dell’aria, l’elettronica. “Dalla scoperta delle onde elettromagnetiche”, ha scritto Marshall McLuhan, “ciascun individuo scopre se stesso [...] simultaneamente presente sulla totalità della terra e del mare - coestensivo al pianeta”.
La conquista dell’aria ha finito così per mettere in crisi la tradizionale “ragione cartografica”, per dirla con Franco Farinelli, imponendo una nuova scala nella percezione dei fenomeni geografici. Se la vecchia rivoluzione marittima era avvenuta grazie alla scoperta di nuovi continenti, quella aerea ha agito più in profondità su territori già noti, rimodellandone la configurazione antropica, sociale, politica, economica. “Lo spazio può essere conquistato soltanto attraverso la produzione di spazio”, ha notato David Harvey: vale a dire, attraverso la creazione di relazioni tra luoghi, trasversali rispetto a ogni confine, capaci di produrre nuovi “paesaggi globali”, nella definizione di Arjun Appadurai, coesistenti ma non coincidenti, in continua tensione, in irresolubile divenire.
“Una volta raggiunta la Luna”, osservava Boatto, “avremmo dovuto guardarci dal di fuori, sentirci liberi finalmente da quell’appiccicosa pelle egoistica da cui trasudiamo tutta la nostra ansia antropocentrica” e, vedendoci “in un’infinitesima piccolezza”, intuire “l’urgenza e la necessità di un solo stato” e “una sola struttura in cui [...] riconoscerci”. Non è andata così. Se “l’imperialismo”, come ha scritto Peter Sloterdijk, “è planimetria applicata”, la conquista dell’aria ha prodotto una irreversibile riconfigurazione di tale “planimetria”, rendendo più complessa la relazione tra sovranità e territorio.
Il globo risulta oggi contraddistinto da “un ordine spaziale discontinuo”, nelle parole di Vegetti, “una geografia post-territoriale composta da una pluralità di centri o nodi fisicamente lontani tra loro” che “non si definiscono in funzione del contesto della loro ubicazione, bensì in funzione della rete che li implica in quanto propri elementi”. Non è ancora chiaro, tuttavia, se tale riconfigurazione dello spazio avrà come risultato la sostituzione dei vecchi equilibri con uno nuovo, o piuttosto una generale riformulazione, a livello sociale e politico, delle categorie di ordine e disordine cui siamo abituati.
L’immagine di un ordine fluido, che si tiene nell’aria, era del resto al centro di uno dei romanzi che meglio descrivono questa “geografia post-territoriale”, e che proprio quest’anno compie vent’anni, Underworld (1997) di Don DeLillo. “Il potere aveva un significato, trenta, quarant’anni fa”, vi si legge, “era una cosa stabile, focalizzata, tangibile. [...] E ci teneva insieme, [...] forse teneva insieme il mondo”. Il mondo narrato da DeLillo, invece, è tutt’altro che stabile, appeso com’è all’andirivieni di una pallina da baseball che un fuoricampo fa volare nell’aria, oltre gli spalti dello stadio di New York, durante la finale del campionato, per ridisegnare la trama di uno spazio urbano disconnesso e frammentario: “Molte cose ancorate all’equilibrio del potere e all’equilibrio del terrore si sono sciolte, liberate, così sembra. Le cose non hanno più limiti adesso”.
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SUL TEMA, BEL SITO, SI CFR.:
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE (Capitolo III della Terza parte del lavoro di Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 162-189.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE. Una "memoria"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO ... *
Una guerra contro le donne
di Tamar Pitch (Il Mulino, 18 settembre 2017)
Chi stupra è sempre l’Altro: i neri per i bianchi, i poveri per i ricchi, gli stranieri per gli autoctoni, e viceversa. Lo stupro è ciò che distingue “il noi”, gli uomini che sposiamo, da “gli altri”, gli uomini che stuprano. Lo stupro, nonché l’accusa di stupro, segna un confine. Un confine, tuttavia, tra gli uomini: noi e loro si riferisce infatti al modo prevalente, sia nell’immaginario sia nelle pratiche e nelle norme, con cui lo stupro è visto e vissuto dagli uomini. E da alcune donne, certo, visto che partecipiamo di questa cultura. Da cui si evince che misoginia e sessismo sono sempre intrecciate a razzismo e xenofobia.
L’ormai enorme letteratura femminista ha messo in luce, tra le altre cose, l’identificazione delle donne, dei loro corpi, della loro capacità riproduttiva con la “comunità”, il “territorio”, la tradizione, l’identità (etnica, nazionale) e dunque il futuro. Di qui l’esigenza di dominare e controllare le “nostre” donne, nonché lo sconcerto e il disagio maschili di fronte alla libertà rivendicata e agita dalle donne.
Stupri e femminicidi vengono così raccontati diversamente a seconda di chi sono gli autori e le loro vittime. Orrore e scandalo quando una di “noi” (ossia una che è ritenuta appartenere al gruppo dei maschi autoctoni, o comunque di quelli cui la “comunità” si riferisce) è violentata o uccisa da uno di “loro”. Perplessità e incredulità quando è uno di “noi” a stuprare e uccidere. In ambedue i casi, il vissuto e la soggettività delle donne sono ignorate. O ci si erge a protettori e vendicatori di chi ha osato mettere le mani su una “cosa” nostra (e dunque in qualche modo le vere “vittime” non sono le donne, ma questi “noi”) oppure “quella se l’è cercata”, ci ha “sfidato”, e in fondo dunque si merita quello che le è capitato. È singolare come questo tipo di narrazione sia ancora così presente, nei nostri media, tradizionali e nuovi, quando invece la vita, l’esperienza e la soggettività femminili sono tanto mutate. Ciò che infatti manca a questa narrazione sono precisamente le voci delle donne, che, interrogate, racconterebbero, tutte, l’onnipresenza della violenza maschile: per strada, al lavoro, ma ancor di più dentro le sicure mura di casa. Se c’è un confine che lo stupro traccia, è quello tra gli uomini e le donne (o chi è “ridotto” nella posizione femminile). Non tutti gli uomini sono stupratori, ma tutti gli stupratori sono uomini, diceva già trent’anni fa Ida Dominjanni.
Stupri e femminicidi avvengono ovunque nel mondo, e nella maggior parte dei casi ad opera di uomini che le donne conoscono bene, mariti fidanzati padri fratelli amici e così via. Poi ci sono gli stupri invisibili, quelli di cui poco o niente si sa e si dice, quelli che non vengono riconosciuti come tali, a danno delle sex workers o, ancor peggio, delle ragazzine prostituite sulle nostre strade, da parte dei suddetti mariti e padri (di altre). Nonché degli uomini delle forze dell’ordine (su cui c’è un’ampia letteratura) che si avvalgono del loro potere di ricatto e dell’omertà diffusa. Perché le sex workers non sono per definizione proprietà di alcun uomo ( a parte il loro eventuale protettore, ma di questo parlo più avanti) e sono quindi di tutti: loro sì, se vengono violentate o uccise, “se la sono cercata”. E gli integerrimi italiani che vanno con le ragazzine, sempre più spesso minorenni, vittime di tratta, non sono forse, per le nostre stesse leggi, violentatori seriali?
Una vittima, per essere riconosciuta tale, deve avere caratteristiche e comportamenti che rispondono allo stereotipo della donna o ragazza “perbene”, ma deve anche essere violentata, meglio in strada e di giorno, da uno (se di più, meglio) sconosciuto, meglio se povero e scuro di pelle. E meglio ancora se questa vittima urla o viene visibilmente ferita. Sembra incredibile quanto questo sia vero, per i media, a quasi quarant’anni dal documentario Processo per stupro e dopo le mille battaglie femministe e la nuova ondata rappresentata dal movimento Nonunadimeno, che riprende l’analogo movimento nato in Argentina e poi diffusosi in tutta l’America Latina.
Insomma, le donne si muovono ormai a livello globale contro violenze e sopraffazioni di uomini singoli o in gruppo e contro le istituzioni che fanno poco per contrastare queste violenze o addirittura le legittimano. I contesti sociali, culturali, politici sono diversi e questa diversità va presa in considerazione per capire le differenze quantitative e qualitative della violenza maschile contro le donne, ma sempre di patriarcato si dovrebbe parlare: ossia di un sistema complesso di potere e dominio maschili onnipervasivi, per battere il quale non bastano certo parità e pari opportunità (negli anni Settanta dicevamo che no, non era metà della torta che volevamo, ma una torta del tutto diversa). Questo sistema è in crisi per via del fatto che sempre più donne gli negano consenso e complicità, cosa che in certi casi può esacerbare violenza e ferocia.
Si ha l’impressione che sia in corso una guerra contro le donne, e tra uomini, per il controllo delle donne e dei loro corpi. È una guerra combattuta con le armi e con gli stupri e, oggi, anche con e su i social media. Difficile, se non impossibile, sconfiggere il patriarcato (soltanto) con il diritto penale. Del quale ci si può e ci si deve servire, naturalmente, ma sempre sapendo che la giustizia penale, a sua volta, è connotata da sessismo, razzismo e classismo. I decreti sicurezza (da ultimo quello firmato Minniti) parlano appunto questa lingua: non sono solo razzisti e classisti, sono anche sessisti, laddove è del tutto ovvio che il soggetto standard di questi decreti è maschio, adulto, non troppo povero. Berlusconi proponeva di mettere un poliziotto a fianco di ogni bella donna (le brutte si arrangiassero). Magari meglio una poliziotta...
Le politiche e le retoriche della sicurezza tendono a una specie di sterilizzazione del territorio urbano, mirano a rendere invisibili povertà e disagio, a recintare più o meno simbolicamente lo spazio dei perbene a difesa dai permale. Ma, benché esse si avvalgano spesso dell’evocazione del femminile (bisogna proteggere donne, vecchi, bambini: i cosiddetti soggetti vulnerabili), sono del tutto cieche e inutili, se non controproducenti, rispetto al contrasto delle violenze contro le donne. Le quali, come dicevo, non avvengono solo e nemmeno soprattutto negli angoli bui delle vie cittadine. Ho detto e scritto più volte che, se seguissimo fino in fondo la logica delle politiche di sicurezza, allora, per proteggere le donne, dovremmo cacciare tutti gli uomini da ogni casa, città, Paese, continente, universo mondo.
Una città, un Paese, un continente sono “sicuri” per tutti se le donne, tutte le donne, possono attraversarli liberamente, di giorno, di notte, vestite come vogliono, ubriache o sobrie. La libertà, per le donne, è un esercizio ancora difficile e contrastato, praticamente ovunque. Ci muoviamo, più o meno consapevolmente, con prudenza, ci neghiamo, più o meno consapevolmente, molte delle libertà di cui gli uomini godono senza rendersene conto. Gesti, atteggiamenti, parole, comportamenti maschili ci ricordano tutti i giorni che dobbiamo stare attente (non serve proprio che ce lo ribadiscano sindaci, ministri, poliziotti), l’aggressione e la violenza sono sempre in agguato. Però, è esattamente il contrario che serve: ai tempi si diceva “riprendiamoci la notte”, e anche adesso andiamo per le strade per dire che vogliamo andare e fare ciò che più ci piace, senza protettori.
Già, il termine protettore. In italiano ha un’ambivalenza significativa: il protettore delle donne che si prostituiscono è precisamente la figura simbolo della protezione maschile, una protezione che implica soggezione e acquiescenza, pena non solo l’abbandono ma la punizione. Sottrarsi alla protezione, sia reale sia introiettata, è invece un passo necessario per affermare la propria libertà. Ed è ciò che le donne, singolarmente e collettivamente, stanno facendo.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO".
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Auschwitz, la parola che fa ammutolire
Un’intervista con Franco Berardi Bifo che ha rinunciato alla sua performance a Kassel, dopo le polemiche suscitate dal titolo «Auschwitz on the beach»
di Lorenza Pignatti (il manifesto, 01.09.2017)
KASSEL Alcune parole sembrano essere impronunciabili, tale è la loro forza e risonanza nell’immaginario collettivo. Una di queste è indubbiamente Auschwitz, come dimostra il clamore che la performance Auschwitz on the beach di Franco Berardi Bifo, Dim Sampaio e Stefano Berardi (era programmata per documenta14 a Kassel, dal 23 al 26 agosto), ha suscitato nella stampa internazionale e nella comunità ebraica, tanto da condurre alla sua cancellazione. In un incontro pubblico, ospitato in The Parliament of Bodies, Berardi ha spiegato le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere quel testo per la performance dall’innominabile titolo.
Era consapevole che la sua performance avrebbe suscitato tanto scalpore?
Dopo molte esitazioni, avevo deciso di usare l’espressione provocatoria Auschwitz on the beach affinché quel nome potesse essere uno «scudo», una protezione contro il pericolo, a mio parere sempre più attuale, che Auschwitz ritorni. Gunther Anders, nel libro Noi figli di Eichmann, nel 1967 scrisse di un possibile ritorno del nazismo in una società in cui la tecnica ha il sopravvento sull’uomo. Non è forse Auschwitz il primo esperimento di una gestione industrializzata e tecnologica dello sterminio? Quello a cui assistiamo oggi è l’inizio di uno sterminio basato sulla supremazia razzista. Pensiamo agli oltre 30mila migranti morti nel Mediterraneo negli ultimi quindici anni e alle decisioni politiche di far rimpatriare i migranti in Libia, dove è probabile che siano torturati o uccisi. E poi si descrivono le Ong - come Medici senza frontiere - in veste di taxisti del mare, quando invece sono organizzazioni che salvano la vita a migliaia di persone.
Sterminio su base etnica. Non è forse legittimo ravvisare gli estremi del nazismo e della supremazia razziale?
Kim Jong-un ha dichiarato che gli occidentali devono smettere di pensare che le guerre riguardino solo gli altri paesi perché ora anche loro sono in grado di portare la morte. E sappiamo che questo è vero, così come sappiamo che dopo l’11 settembre, con la guerra voluta dagli Stati Uniti, un esercito di suicidi terrorizza le città europee, da Parigi a Berlino, da Nizza a Barcellona.
Ricordo quando nel 2004 ho guardato le immagini delle torture di Abu Ghraib in televisione. Ho subito pensato alle conseguenze che quelle immagini avrebbe potuto avere sui milioni di bambini mediorientali che le vedevano non solo in Iraq, in Egitto o in Afghanistan ma anche a Parigi o a Londra. Ora ne conosciamo le conseguenze con i kamikaze che si tolgono la vita indossando cinture esplosive o guidando furgoni per uccidere persone che passeggiano nelle città europee, ed è nostro compito cercare di cambiare tale deriva disumana. La pace, l’accoglienza e la solidarietà sono gli unici modi da attuare per sfuggire a una guerra che stiamo già perdendo, che distruggerà la nostra vita quotidiana e le nostre città.
Al posto della performance è stato organizzato un incontro pubblico che è stato molto emozionante. Si aspettava tanta partecipazione?
Si era acceso un acceso dibattito dopo che la stampa - tedesca, americana, inglese - aveva criticato la performance e alcuni centri di cultura ebraica avevano accusato gli organizzatori di documenta14 di violenza simbolica contro la memoria. Oltre ad aver cancellato la performance, prima dell’incontro pubblico serale, io, Paul B. Preciado e Adam Szymczyk, rispettivamente direttore del programma pubblico e direttore artistico della mostra, ci siamo recati al principale centro ebraico della città.
Abbiamo discusso le nostre motivazioni, i rappresentanti hanno riconosciuto che la performance non aveva un carattere antisemita, pur ribadendo che Auschwitz appartiene alla storia e alla memoria ebraica, e hanno ricordato che nel 1938 gli ebrei tedeschi subirono da parte delle autorità americane e inglesi lo stesso rifiuto che oggi i migranti ricevono dalle autorità europee. Un numero incalcolabile di ebrei sono morti nei campi di concentramento nazisti perché inglesi e americani rifiutarono di accoglierli come rifugiati, con le stesse motivazioni con le quali oggi i governi europei respingono siriani o nigeriani. Diversi rappresentanti sono venuti anche all’incontro serale, intitolato Shame on us. La loro presenza è stata determinante per decostruire i malintesi e riflettere sull’emergere di nuove forme di razzismo. Pur non rinunciando alle mie motivazioni politiche e filosofiche, ho riconosciuto di non avere il diritto di procurare ulteriore dolore alla comunità ebraica, e ho annullato la lettura del testo scritto per la performance.
«Shame on us» è stato quindi il titolo dell’incontro...
Diversi messaggi ricevuti dai nostri accusatori ci dicevano che dovevamo vergognarci. E, in effetti, è accaduto: la vergogna riguardava però il fatto che nessuno di noi riesce a fermare le forme di fascismo che scandiscono l’agenda mediatica nazionale e internazionale. Mi preoccupa l’impotenza rispetto agli atti di brutalità a cui stiamo assistendo. Nel giugno 2016, mentre gli inglesi votavano per la Brexit e gli americani ascoltavano Trump, Zbigniew Brzezinski ha pubblicato un articolo intitolato Toward a Global Realignment. Nel testo rifletteva su quanto i massacri e le guerre compiute dai colonizzatori occidentali si siano risolti nello sterminio dei popoli colonizzati: la scala era paragonabile ai crimini del nazismo della seconda guerra mondiale, provocando centinaia di migliaia e talvolta milioni di vittime. Dovremmo accusare Brzesinski di antisemitismo e di relativizzare il nazismo? Non direi. Il politico americano di origini polacche, consigliere durante la presidenza di Jimmy Carter, scrive che il nazismo è l’aspetto più disumano che abbia caratterizzato la storia della nostra specie. Tale disumanità sta riemergendo nella società contemporanea sia come vendetta da parte degli oppressi, sia come sommossa razzista da parte della popolazione bianca che si sente minacciata e impotente rispetto alla perdita di potere e alla propria supremazia razziale.
Sta facendo riferimento agli eventi di Charlotteville?
Non solo a quelli. Sarebbe ingenuo circoscriverli agli Stati Uniti. L’arrogante supremazia razziale, che è parte della storia del colonialismo occidentale, ha portato all’elezione di Trump, alla Brexit, e alle tante manifestazioni di intolleranza e razzismo a cui assistiamo ogni giorno. Solo l’Internazionalismo proletario avrebbe potuto evitare che la resa dei conti del colonialismo passato e contemporaneo diventasse un bagno di sangue planetario. Ma il comunismo è stato sconfitto e ora vi è la guerra di tutti contro tutti in nome di niente.
Nel corso della sua lunga carriera si è occupato di politica, attivismo, «cognitariato» e semiocapitalismo. Nei suoi ultimi testi, in particolare modo il romanzo «Morte ai vecchi» e «Heroes. Suicidio e omicidi di massa», i toni sono diventati più distopici, terminali: perché?
Forse la risposta a questa domanda sta nelle cose, non nella mia personale evoluzione. La sconfitta del comunismo (della quale i comunisti sono i primi a portare la responsabilità) ha cancellato l’orizzonte internazionalista, cioè l’orizzonte di una possibile solidarietà tra gli oppressi e gli sfruttati, tra operai occidentali e masse dei paesi colonizzati. Ogni forma di solidarietà è stata cancellata dal prevalere dell’ideologia neoliberale e dalla precarietà. Competizione è diventato l’imperativo di ogni relazione sociale. Ora siamo alla precipitazione: gli effetti di trent’anni di egemonia neoliberale e di capitalismo finanziario hanno distrutto il tessuto sociale nei paesi occidentali, e hanno reso possibile una diffusione degli armamenti più distruttivi. L’apocalisse è all’ordine del giorno, non perché la vede qualche esagerato come me, ma perché il capitalismo porta la guerra come la nube porta la tempesta (Lenin).
Giorgio Agamben: "Il vero Karma dell’Occidente"
Nel suo nuovo libro, “Karman”, il filosofo affronta il tema del rapporto tra un’azione e le sue conseguenze. -Un saggio che analizza i fondamenti dell’etica e del diritto, della teologia e delle filosofie orientali
di CHIARA VALERIO (la Repubblica, 27 agosto 2017)
Se, in questa vita, rispondiamo delle nostre azioni attraverso il sistema delle leggi, e nell’altra ne rispondiamo, secondo il buddismo, attraverso reincarnazioni successive, il motivo sta - scrive Giorgio Agamben nel saggio Karman - nel fatto che morale religiosa, diritto ed etica fondano sul principio per cui ogni azione è legata alle sue conseguenze, e noi, a tale principio, soggiaciamo. Qualche anno fa Agamben ha diviso il mondo in due gruppi. Gli esseri viventi e l’insieme di istituzioni, saperi e pratiche che controllano e orientano i gesti e i pensieri degli esseri viventi: i dispositivi.
Professore, il diritto - le cui porte, se fosse un edificio sarebbero la causa e la colpa - è un dispositivo al quale sottrarsi?
"Il diritto è una parte troppo essenziale della nostra cultura perché ci si possa semplicemente sottrarre a esso. Altrettanto vero è, però, che la nascita del cristianesimo coincide con una critica implacabile della Legge. È difficile immaginare una obiezione più radicale di quella contenuta nelle affermazioni di Paolo secondo cui senza la legge non ci sarebbe stato il peccato e il messia è la fine e il compimento (il telos) della legge. E, tuttavia, come lei sa, la Chiesa ha pazientemente ricostruito quell’edificio della legge che il cristianesimo primitivo intendeva mettere in questione, anche se puntualmente fenomeni come il francescanesimo hanno rivendicato ogni volta la possibilità di una vita al di fuori del diritto. Io penso che una società vivibile possa risultare solo dalla dialettica di due principi opposti e, in qualche modo, coordinati: il diritto e l’anomia, un polo istituzionale e uno non istituzionale o anarchico - o, per usare le sue espressioni, gli esseri viventi e i dispositivi storici. Ciò è evidente nel linguaggio: una lingua viva risulta dalla relazione armonica fra spontaneità (il "parlar materno" di Dante) e regola (la lingua "grammatica" di Dante). Mi sembra che oggi questa dialettica sia dovunque - nella lingua come nei rapporti sociali - distorta o spezzata".
Lei scrive " la volontà agisce come un dispositivo il cui scopo è quello di rendere padroneggiabile ciò che l’uomo può fare". Anche la volontà è un dispositivo al quale sfuggire?
"Nel libro ho cercato appunto di mostrare che il concetto di volontà (quasi sconosciuto al mondo antico) è il dispositivo attraverso il quale la teologia cristiana ha inteso fondare l’idea di un’azione libera e responsabile e quindi imputabile a un soggetto: è il "libero arbitrio", che definisce l’azione umana non meno di quella divina (il Dio cristiano non agisce per necessità, come il dio di Aristotele, ma per arbitrium voluntatis). La volontà è il mistero insondabile che sta alla base di quel concetto di azione legalmente sanzionabile (il crimen- karman) senza il quale l’etica e la politica moderna crollerebbero. Se l’uomo antico è un uomo che può, l’uomo moderno è invece un uomo che vuole. Nel mio libro la critica del primato del concetto di azione procede pertanto di pari passo a una critica del concetto di volontà. Mi ha sempre stupito che da Aristotele a Hannah Arendt l’idea di azione sia sempre rimasta immutabilmente al centro della tradizione dell’occidente. Non so se ci sono riuscito, ma ho comunque provato a spostare altrove il luogo dell’etica e della politica".
Restiamo sull’evoluzione de " l’uomo che può" ne " l’uomo che vuole". Marina Cvetaeva osservava "Non posso" è il superamento di tutti i miei "non voglio", il correttivo di tutti i miei voleri. Che rapporto dovrebbe esserci tra volontà e potenza, oggi?
"Le rispondo con le parole di un’altra grande poetessa russa. Anna Achmatova racconta che mentre negli anni delle persecuzioni faceva da mesi la fila davanti alla prigione di Leningrado dove era recluso suo figlio, una donna un giorno la riconobbe e le chiese: "può dire questo"? La poetessa tacque per un istante e poi, senza sapere come e perché, sentì affiorarle alle labbra la risposta: "sì, io posso". Che cosa intendeva dire? Non certo che aveva un così grande talento o una così grande padronanza della lingua da poter dire tutto ciò che voleva dire. Quell’"io posso" non si riferiva ad alcuna certezza o abilità e tuttavia la impegnava e metteva integralmente in gioco. È qualcosa del genere che aveva in mente Spinoza quando definisce la letizia più grande accessibile a un uomo come la contemplazione di ciò che egli può fare. Per questo la trasformazione cristiana e moderna della potenza in volontà mi sembra deleteria".
Landau ne " La Fisica per tutti" osserva " Se all’improvviso il fermacarte fa un salto, penserete di avere le traveggole. Se si ripete, vi metterete di lena a cercare la causa che toglie questo corpo dallo stato di quiete. Perciò è naturale considerare razionale il punto di vista secondo cui i corpi in quiete non si spostano senza l’intervento di una forza". È razionale pensare che i corpi umani non si spostino, non compiano azioni, senza l’intervento di un fine?
"Nel libro la critica del fine è inseparabile da quella dell’azione. Uno dei presupposti che siamo abituati a dare per scontati è che ogni azione sia rivolta a un fine e che questo fine sia il bene che l’agente ogni volta necessariamente si propone. In questo modo, poiché il fine è concepito come qualcosa di trascendente o comunque di esterno, il bene viene separato dall’uomo. Come mi sembra più convincente l’idea epicurea secondo la quale nessun organo del corpo umano è stato creato in vista di un fine e ogni cosa che nasce genera nell’uso il suo bene! A furia di gesticolare, la mano trova la sua delizia e il suo uso, l’occhio a furia di guardare si innamora della visione e le gambe, piegandosi a tentoni, inventano la passeggiata. Del resto è quel che vediamo avvenire nei bambini ed è quello che ci suggeriscono le arti come la danza, che non hanno altro fine che la pura esibizione di un gesto, di ciò che un corpo può fare. Per questo ho cercato di sostituire al paradigma dell’azione rivolta a un fine quella del gesto sottratto a ogni finalità".
Un filosofo ha detto che definire i termini è il momento poetico del pensiero. Come definirebbe il fine?
"Le dò una risposta insieme stoica e zen: il fine è ciò che si raggiunge solo a condizione di non porselo mai".
Se "agisce contro la legge, chi fa ciò che la legge proibisce" e se " non c’è pena senza colpa", cos’è nata prima, la colpa, la legge o la sanzione?
"Come Paolo aveva capito ("la legge è venuta perché la colpa abbondasse"), ogni giurista intelligente sa che il principio secondo cui "non c’è pena senza colpa" va in realtà rovesciato in quello secondo cui "non c’è colpa senza pena". "Non c’è pena senza colpa" significa che la pena può essere inflitta solo in conseguenza di un certo atto, ma la colpa esiste solo in virtù della pena che la sancisce. La sanzione non è accessoria alla legge: la legge consiste essenzialmente nella sanzione".
Ne "Il Nome della Rosa", Eco racconta che il volume riguardante la commedia di Aristotele non ci è mai giunto perché trattava del riso e il riso crea disordine. In "Karman", lei (come già Guglielmo da Baskerville) lo deduce dal volume sulla tragedia e ipotizza pure che Aristotele non lo abbia mai scritto per muovere una critica a Platone. Quale?
"In Grecia il concetto di un’azione colpevole viene elaborato per la prima volta attraverso una riflessione sull’eroe tragico. È quello che fa Aristotele nella Poetica quando scrive che la felicità consiste nell’azione e che nella tragedia gli uomini non agiscono per imitare i caratteri, ma assumono liberamente il loro personaggio attraverso le azioni. Anche se Aristotele non ha completato la sua trattazione della commedia, possiamo dedurne che il personaggio comico agisce invece per imitare il suo carattere e che per questo le sue azioni non possono essergli mai imputate come una colpa. Platone, che teneva sotto il cuscino non le tragedie, ma i mimi di Sofrone, fa dire al suo eroe antitragico, Socrate, che "nessuno fa il male volontariamente", il che implica l’impossibilità della tragedia".
La filosofia s’interessa prima di tutto dell’essere, ma l’essere appare subito con le sue "qualità": possibilità, contingenza e necessità. Lei osserva che è necessario riflettere sull’utilizzo che la filosofia fa dei verbi modali: " posso", " voglio", " devo". Mi segua in un passaggio di certo azzardato. La lingua della politica, aderendo (talvolta pure nei corpi) a quella televisiva, ha progressivamente abolito le subordinate, le " qualità" della frase: modali, temporali, causali. Senza queste "qualità" siamo costretti a un parlare ( e a un agire) privi di conseguenze. C’è modo di mantenere la complessità del linguaggio e non rimanere chiusi nel presente indicativo (e televisivo) dello stare al mondo?
"Se la sua domanda è di ordine poetico-letterario, allora le rispondo con le tarde poesie di Hölderlin, in cui i nessi sintattici sono aboliti e sospesi e nel verso sembrano sopravvivere solo i nomi nel loro isolamento (a volte, anche solo una particella: aber, che significa "ma"). Vi è nella poesia una tradizione, da Arnaut Daniel a Mallarmé, che tende ostinatamente non alla frase, ma al nome - anzi, forse in ultima analisi ogni poesia non è che una tensione verso il nome, che per definizione è sottratto a ogni articolazione modale. Se la sua domanda è di ordine etico-politico, le risponderei allora che si tratta di disfare il nesso perverso tra i tre verbi modali che Kant ha messo a fondamento della sua etica: "si deve poter volere". Questa frase mostruosa è il condensato parodico dei dispositivi che il mio libro cerca di disattivare".
Sulla quarta di copertina si legge "Giorgio Agamben ha insegnato Filosofia teoretica... è stato visiting professor...". Se le chiedessi cenni biografici al tempo presente?
"Le risponderei spinozianamente: "contempla ciò che può e ciò che non può fare". Ho sempre amato il motto meraviglioso di van Eyck: "Als ich kann", "come posso". Conoscere i propri limiti significa conoscere la misura della propria potenza e della propria impotenza".
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
Federico La Sala
Nell’era senza confini rimane una sola patria che si chiama Terra -
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 16.07.2017)
L’acqua di Talete, il fuoco di Eraclito; l’aria e la terra: gli elementi da cui tutto proviene, per i presocratici; teorie ingenue per noi moderni, impegnati nel compito quasi impossibile di capire la meccanica quantistica. Ma non del tutto inutili, forse, se non nel campo della scienza almeno in quello della politica. L’ambizione di quei primi filosofi era quella d’individuare princìpi capaci di fare ordine nella trama dell’universo, di mostrare l’unità che si nasconde dietro alla molteplicità caotica degli eventi. Vale per la realtà fisica, e vale per il mondo degli uomini, che non è certo meno complesso.
Carl Schmitt, quasi un allievo tardivo dei presocratici, aveva avuto l’intuizione che si potessero spiegare le vicende umane proprio partendo dalla coppia terra/ acqua. Dalla terra, in cui gli uomini hanno mosso i primi passi, all’acqua: le grandi esplorazioni che inaugurano la modernità, la conquista degli oceani e del Nuovo Mondo - spazi liberamente contendibili, illimitatamente sfruttabili - aprono prospettive inedite nelle relazioni umane. Delineano un nuovo modello politico, rappresentato dall’impero britannico, in cui il controllo delle vie di comunicazione è di gran lunga più importante dell’inviolabilità dei confini. «Chi governa il mare, governa il commercio, chi governa il commercio dispone della ricchezza del mondo, e di conseguenza governa il mondo stesso». Così parlava Walter Raleigh, corsaro inglese al servizio della regina Elisabetta I.
Ma questa coppia ormai non basta più, spiega Matteo Vegetti nel saggio L’invenzione del globo, appena pubblicato da Einaudi. Sigmund Freud se ne accorse il 25 luglio 1909. L’aviatore Louis Blériot aveva appena compiuto la traversata della Manica, da Calais a Dover, e in Europa si festeggiava, pregustando la nascita di un nuovo mondo in cui tutti avrebbero comunicato con tutti, senza più barriere. Più lucidamente, Freud notò che da quel momento a essere senza confini sarebbe stata la guerra, non la pace.
Un’osservazione di cui gli americani avrebbero compreso la verità il 7 dicembre 1941, mentre l’aviazione giapponese distruggeva la loro flotta a Pearl Harbor. Ad affondare non erano state solo le navi, ma un modo secolare di rappresentarsi il mondo. Anche per questo, mentre allestiva una forza aerea imbattibile, il presidente Franklin Roosevelt invitò tutti i suoi connazionali a dotarsi di un mappamondo, possibilmente il modello che ruotava in tutte le direzioni («Questa guerra è un nuovo tipo di guerra», avrebbe spiegato. «È differente da ogni guerra del passato non solo nei suoi metodi e mezzi, ma anche nella sua geografia»).
C’è uno spazio uniforme sopra alla terra e al mare: lo spazio aereo, trasparente e vuoto, privo di ostacoli, facile da attraversare, che si espande ovunque. Non si trattava solo del volo degli aerei; altrettanto importanti sarebbero state le onde radio e le trasmissioni elettroniche, che avrebbero contratto le distanze ancora di più, fino ad annullarle quasi del tutto. Non era più il tempo di Walter Raleigh, ma di un generale italiano tanto oscuro quanto geniale, Giulio Douhet, autore (nel 1921!) di un libro intitolato Il dominio dell’aria: a controllare il mondo sarebbe stato chi avrebbe controllato i cieli. Il secolo dell’America e dell’ American way of life è il secolo dell’aria.
Studioso appassionato delle tradizioni arcane, Carl Schmitt aveva anche trovato un riferimento biblico-talmudico per rappresentare il nuovo stato di cose. Il regno del Leviatano (il mostro marino che in Thomas Hobbes esprime la potenza dello Stato) è ormai alla mercé di Ziz, un uccello gigantesco, capace di spostarsi continuamente da un posto all’altro della Terra. Un simbolo quanto mai appropriato per descrivere un mondo in cui i confini nazionali non funzionano più, perché quello che importa non sono le sostanze, ma i flussi. A essersi globalizzato è stato il borghese (e dunque l’economia), per così dire, non il cittadino. Questa rivoluzione spaziale non è certo la panacea di tutti i mali, come qualcuno (tra cui Karl Marx) ha creduto. Ma è un fatto da cui non si può prescindere: non sarà qualche muro a riportarci al bel (?) mondo che fu, né possiamo continuare a credere che basti riprodurre su scala mondiale la forma dello Stato nazione per superare tutte le difficoltà. Servono nuove idee politiche per organizzare questo spazio e le sue tensioni.
Perché poi c’è anche il fuoco, o meglio l’etere, un fuoco finissimo di cui erano composti, per Aristotele, le stelle e pianeti che ruotavano intorno alla terra, irraggiungibili. Quando Jurij Gagarin volò nello spazio e Neil Armstrong camminò sulla Luna, anche quest’ultima frontiera fu sfondata. È così conosciuta che quasi non ci si presta più attenzione: ma la prima foto scattata da un satellite lunare, tre anni prima dell’allunaggio, immortala il compimento della globalizzazione. Finalmente l’occhio umano vedeva la Terra come un globo, un tutto finito, senza più punti vuoti e senza più centro, di cui disponiamo completamente. Il Sole è grande come un piede umano, diceva Eraclito irridendo i sapienti del suo tempo: vista dallo spazio, ora è la Terra ad apparire sempre più piccola, in un universo che si scopre immenso.
«Per un’ora un uomo visse al di fuori di ogni orizzonte, intorno a lui tutto era cielo o, più precisamente, tutto era spazio geometrico»: così Emmanuel Levinas commentava i viaggi dei primi astronauti. Ma davvero siamo entrati nell’era della «demondizzazione», dello sradicamento definitivo dalla Terra, come annunciava, profetico e cupo, Martin Heidegger, guardando la solita foto della Terra presa dallo spazio? Certo, l’impulso di Ulisse a spingersi oltre, staccandosi dalla «cara patria», protesi verso nuove mete, è inestinguibile negli uomini. Ma in realtà mai come oggi, proprio perché la vediamo da distanze crescenti, possiamo apprezzare la bellezza e l’unicità irripetibile della nostra casa. Ed è sempre quella stessa foto a spiegare perché. Questo minuscolo pianeta perso in un universo infinito e indifferente è come un’oasi, in fondo: un piccolo miracolo, il pianeta blu, in un deserto spaventosamente immenso e silenzioso. Solo chi è partito può provare il piacere ambiguo della nostalgia. Dal fuoco e dall’etere torniamo alla Terra: e il problema, ora, è quello di coltivare questa piccola oasi, prima che diventi anch’essa un deserto inospitale.
MATERIALE EDITORIALE DEL LIBRO DI
MATTEO VEGETTI
L’invenzione del globo
Spazio, potere, comunicazione nell’epoca dell’aria
Introduzione
Cento anni ci separano dai primi due eventi storici globali per essenza: la Rivoluzione russa e l’ingresso degli Stati Uniti nel pri- mo conflitto mondiale. Agli osservatori dell’epoca come Valéry, Jünger, Schmitt o Freud il perturbante significato di questo duplice passaggio epocale non era sfuggito. Scrive per esempio Valéry:
Il mondo diventa dunque piú piccolo ma insieme piú pericoloso:
Queste parole ci trasmettono un’inquietudine caratteristica del mondo globale, nella quale è ancora oggi facile riconoscersi. Men- tre infatti il globo comincia a lasciarsi percepire come un’unità operativa finita, si determina per contraccolpo una crisi di fiducia nelle coordinate ordinative dello spazio e nella tenuta delle forme politiche tradizionali.
Carl Schmitt avrebbe considerato tutto questo un sintomo di ciò che nel suo gergo filosofico si definisce Entortung : una generale dis- locazione , un dis- orientamento che rimanda a sua volta a una falda piú profonda, quella dalla quale proviene, in rari e decisivi momenti storici, una «rivoluzione spaziale» (Raumrevolution ).
Fra tutti i concetti che hanno provocato un rinnovato interesse per la filosofia schmittiana, quest’ultimo è forse tra i piú stimolanti e i meno indagati. Per restare all’essenziale, una rivoluzio- ne spaziale non è propriamente un fatto storico, o almeno non lo è al modo della rivoluzione industriale o della Rivoluzione russa.
Piú che di un fatto, si tratta di un evento singolare a partire dal quale cambiano le condizioni spaziali dentro le quali i fatti accado- no (per esempio i fatti della politica, della geografia o dell’esteti- ca, intesa come arte e percezione) e che richiede pertanto una sfi- da adattativa, nuovi schemi cognitivi e pragmatici, nuove mappe fisiche e mentali. Una rivoluzione di tale portata si verifica però solamente sotto condizioni del tutto eccezionali. Occorre infatti che uno fra i quattro elementi naturali noti alla filosofia classica (terra, acqua, fuoco, aria) 2 , mobilitato da certe pratiche sociali, si trasformi in spazio, diventando perciò un ambito dove l’agire umano può sperimentare potenzialità prima sconosciute.
Schmitt ha dedicato i suoi migliori sforzi al tentativo di illumi- nare l’origine della modernità (del diritto pubblico europeo, della “civilizzazione”, dell’industria e del capitalismo mondiale) a par- tire dalla rivoluzione spaziale innescata, tra il XVI e il XVII secolo, dalla conquista degli oceani. Di questa lunga storia siamo gli eredi “naturali”, e non ha dunque torto chi sostiene che nel cosiddetto globale c’è poco di nuovo e molto di moderno. Tuttavia, proprio nelle pagine finali di Terra e mare 3 , Schmitt ci ha lasciato in dote anche un’altra affascinante ipotesi: che il nostro tempo sia in realtà già implicato nella fase iniziale di una seconda globalizzazione, o meglio, in una seconda “rivoluzione spaziale” essenzialmente diversa da quella venuta dagli oceani ma altrettanto pro- fonda. A provocarla sarebbe questa volta l’irruzione nella storia dell’elemento aereo, tramutato in estensione spaziale a opera di media intrinsecamente globali come gli aerei, le trasmissioni elettroniche, le onde radio 4 : forze in grado di soverchiare il rapporto dualistico fra la terra e il mare, ovvero l’antico nomos planetario, dando vita a una crisi che coinvolge sul piano storico e categoriale l’insieme di tutti gli ordinamenti riconducibili alla forma-Stato.
Il tema dell’aria occupa comunque in Schmitt un ruolo marginale : è un residuo discorsivo che assegna a chi parla il proprio luogo, sto- ricamente (e ideologicamente) condizionato 5 ; è il margine di una domanda che nel 1942, all’epoca di Terra e mare , non poteva ancora offrirsi a fondate considerazioni, e che forse solo oggi, dunque ben al di là del suo autore, risulta questionabile.
Non è però allo scopo di fornire un “supplemento aereo” al pensiero schmittiano che il presente saggio ripropone a suo modo una lettura elemen- tare dello spazio. Piuttosto, l’aria rappresenta qui l’occasione, il segnavia, per tentare una genealogia della globalizzazione volta a ricostruirne le stratificazioni di senso, i fattori ideologici, gli agenti materiali, le componenti utopiche e distopiche, e soprattutto le visioni politico-spaziali.
Ognuno dei quattro capitoli che compongono il volume assume l’idea del globo secondo una specifica declinazione ermeneutica. Nel titolo del primo capitolo (una discussione intorno alle principali categorie del pensiero politico-elementare di Schmitt) l’espressione unità del mondo fa riferimento all’idea dell’unificazione politica della Terra, o meglio alle condizioni di pensabilità e figurabilità di tale idea. Si tratta di una questione sorta a partire dalla Grande Guerra, divenuta «mondiale» dal momento che gli Stati Uniti vi hanno preso parte. Se dunque le pagine di questo libro esordiscono evocando la scelta interventista dell’America di Wilson ciò è perché in quel decisivo momento tutta la storia moderna (la storia della colonizzazione europea, la storia del mare, la storia del controverso rapporto tra il vecchio e il nuovo Occidente) si è come ripiegata su di sé come un foglio, congiungendo il passato al presente in una sorta di compimento, dato che la Terra e il globo hanno cominciato a coincidere anche in senso geopolitico.
Nel titolo del secondo capitolo ho scelto l’espressione One World (lanciata da un libro di Wendell Lewis Willkie del 1943 e divenuta subito una sorta di manifesto ideologico) 6 per indicare la nascita del globalismo americano. Qui la discussione ruota in vario modo intorno al prefisso geo (geopolitica, geostrategia, geografia) interrogando la genesi di un nuovo punto di vista sul globo, e le implicazioni dell’epoca che con buone ragioni prese il nome di air age 7. Se poi l’America risulterà protagonista del libro lo si deve al fatto di essersi impadronita dell’elemento aereo cosí come l’Inghilterra si era in precedenza impadronita del mare, mantenendo tale pri- mato attraverso tutte le quattro fasi che scandiscono l’ascesa del nuovo elemento: la conquista dell’aria, l’occupazione dell’etere, la colonizzazione del cosmo, l’invenzione dello spazio virtuale.
Nel titolo del terzo capitolo la parola planetarizzazione va presa piuttosto alla lettera, poiché si riferisce alla nascita di una coscienza del pianeta-Terra legata alla colonizzazione dello spazio, alla tec- nologia delle trasmissioni satellitari e alla ricaduta di entrambe le cose sulla Terra, in chiave politica e morale.
Il termine globalizzazione lo si è infine riservato per il titolo dell’ultimo capitolo, dedicato alla genesi dello spazio economico disegnato e percorso da flussi elettronici largamente indipenden- ti dai contenitori nazionali. «La grande opera della modernità di trasformare la sostanza in flusso» 8 potrà dirsi ora effettivamente conclusa, poiché il concetto di «flusso» porta con sé la storia del mare e dell’aria, sublimandola però in un nuovo elemento artificiale che consente il quasi istantaneo movimento globale di tutto ciò che è trasferibile nel medium della rete, a cominciare ovviamente dal capitale. La velocità di trasmissione si confermerà un fattore costitutivo della globalizzazione, ma a interessare questa parte del libro sono soprattutto i suoi effetti sulla geoeconomia, nel tentativo di decifrare alcune tendenze che nell’attuale ordine spaziale eccedono la metrica dello Stato territoriale.
Tuttavia, il predominio dell’aria nell’epoca attuale si dimostra anche nella sempre piú diffusa aspirazione alla ri-territorializzazione della politica e delle economie, ovvero nel desiderio antifrastico di restituire alla terra il suo antico primato e alla sovranità il compito di assicurare il corpo sociale contro i rischi della dissoluzione dell’ordine spaziale internazionale. Il recente riflesso neoisolazionista delle maggiori potenze mondiali (in particolare dell’Inghilterra e degli Stati Uniti), l’anacronistica retorica immunitaria dei muri, le varie dirama- zioni protezionistiche del localismo e persino il ritorno della teologia politica e dei conflitti interetnici: non mancano i segni per dire che la Terra riporta su di sé le ferite della rivoluzione spaziale in corso 9 . Quest’ultima non comporta dunque uno spazio liscio e trasparente, “pura mediazione” contraddistinta dal tratto ontolo- gico del continuum 10 , come suggerirebbero le prerogative naturali dell’aria; piuttosto genera aspre contraddizioni spazio-elementari che turbano la geometria piana del pensiero politico illuminista e le fondamenta ideali del cosmopolitismo, consegnandoci il compito di riorientare il trinomio che lega l’identità e il potere allo spazio.
Ma poiché la conclamata esigenza di un nuovo nomos della terra in grado di contenere i conflitti e gli attriti globali si scontra con l’altrettanto evidente incapacità di immaginarne i principî, la figura e le dimensioni, si ritiene piú prudente, in conclusione al libro, guardare ai frammenti della fase di rinnovamento che ci investe (e che si presenta principalmente nella forma di un cedimento) piuttosto che all’insieme. «La disgregazione - ha scritto Karl Schlögel - è il momento della disillusione, dunque del chiarimento. È lí che si intravedono le forze da cui potrà nascere il nuovo» 11.
Le tre appendici finali, rispettivamente dedicate al «grande- spazio» europeo, all’attacco aereo alle Twin Towers e alla defor- mazione topologica introdotta dai droni, sono appunto da leggere in questa chiave: come frammenti di un discorso politico-spaziale che non ha ancora assunto forma globale.
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE. ( VEDI: LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE - PDF)
Emanuele Severino: "L’Europa è nata vecchia. Il suo destino è segnato dal destino dell’Occidente"
Il filosofo: "Ma celebrare i trattati europei e chi vide nell’unità il sogno dell’Europa è encomiabile"
di ANTONIO GNOLI (la Repubblica, 19 marzo 2017)
Una lunga frequentazione - nel tempo trasformatasi in un’amicizia rapsodica - non mi impedisce di pensare a Emanuele Severino come a un uomo diviso. Da un lato si vede (o si intuisce) la grande costruzione speculativa, impersonale, spoglia di qualunque volontà etica, ideologica, religiosa; dall’altro c’è l’uomo concreto, sorridente, affettuoso, disponibile, con il quale condivido un buon gulasch. Su questo secondo Severino, il primo nutre solo indifferenza, forse perfino fastidio. Non credo si tratti di schizofrenia, non si rileva nessuna patologia, ma la presenza di due anime, questo sì, mi viene spontaneo pensarlo. E ora che sono nella sua grande casa di Brescia davanti a lui e al suo doppio dovrei pormi il problema di capire a quale dei due rivolgermi. Sono qui per interrogarlo sull’Europa e sul modo in cui la sua filosofia - fin dal testo che lo rese popolare sul finire degli anni Settanta Gli abitatori del tempo - ha posto al centro questo tema. Quando gliel’ho proposto per telefono mi ha chiesto perché. Gli ho detto che tutto quanto egli ha scritto ha come sfondo il vecchio continente. Mi ha replicato che l’Europa è Occidente, da sempre destinato al tramonto. Gli ho detto: d’accordo, ma un conto è pensare il tramonto, altro è viverlo. Poteva finire qui la nostra conversazione. E invece si è accesa la miccia dei due Severino. Con questa prima conseguenza: non si può parlare con lui di filosofia e di Europa al di fuori del linguaggio di Severino. Ma anche la sua lingua non è ciò che ascolto da quella voce, dai gesti che l’accompagnano, dalle pause che la ritmano. È una lingua altra e una necessità del pensiero. Se non si accetta questa premessa tutto quello che egli dice e dirà suonerebbe patetico, o peggio ancora ridicolo.
Ci si appresta a festeggiare a Roma i sessant’anni dalla firma dei trattati della Comunità Europea. Che ne pensi?
"Non ne penso niente. O meglio: penso che sia un modo per darsi qualche rassicurazione su un’Europa che sta andando in pezzi".
Quale dei due Severino lo dice?
"Quello che ti parla e che fra un po’ ti invita a pranzo e guarda con timore tutto questo. L’altro Severino, come tu lo chiami, non può che constatare che la dissoluzione dell’Europa è già inscritta nella sua origine".
Che cosa accade in origine?
"Accade che da quando l’uomo è sulla terra, vuole diventare altro da ciò che è. Quando il serpente dice ad Adamo ed Eva se mangerete il frutto della conoscenza diventerete come Dio, è chiara la premessa di voler diventare altro da ciò che essi sono. L’estremizzazione di voler diventare altro da ciò che si è, definisce la novità filosofica nata intorno al V e il VI secolo avanti Cristo".
Diventare altro da ciò che si è può significare banalmente trasformarsi: prima ero un ragazzo ora sono un adulto, poi diverrò vecchio e alla fine per qualche ragione biologica o tragica morirò. Dov’è l’estremizzazione?
"Il pensiero filosofico greco porta l’altro nell’estremo, nel nulla. Intendendo come "nulla" l’altro da cui le cose divengono. Quando la filosofia pensa questo, lo fa in relazione alle cose del mondo".
Chi le pensa?
"Ad esempio Platone quando definisce la produzione, cioè la poìesis, la causa che fa passare qualsiasi cosa dal non essere all’essere. Il significato della poìesis traccia i confini entro i quali si sviluppa la storia d’Europa. Pensa all’idea che Marx ha dell’agire, della prassi. Sono trascorsi duemila e cinquecento anni. Ma il concetto è lo stesso che fissò Platone. Per la prima volta l’ontologia greca immaginò il mondo come una fluttuazione in cui gli eventi provengono dal loro non essere, stanno nell’esistenza e poi precipitano nel non essere".
Sembra un’anticipazione del cristianesimo: veniamo dal nulla e finiremo nel nulla.
"In qualche modo è una conseguenza di quel pensiero. Il cristianesimo eredita dai greci il concetto di niente".
Lo eredita ma fa un passo avanti: possiamo vivere nel nulla?
"Già i greci si posero il problema di che cosa ci fosse oltre il nulla. E se lo posero proprio in rapporto alla morte. Un conto era immaginare la morte come un viaggio dal quale si poteva tornare; altro era pensarla come annientamento della vita. Non fornirono una vera risposta, ma avvertirono, molto prima dell’esistenzialismo, il senso dell’angoscia che la morte provocava. Il cristianesimo cominciò a pensare a un rimedio che arginasse il monstrum del nulla e l’angoscia che la morte provocava".
Il rimedio in cosa consistette?
"Nella sua configurazione più visibile il rimedio fu chiamato Dio, Sacro, Eterno, Immutabile. Lo scopo era proteggersi e contenere il divenire delle cose. Naturalmente, i greci non furono dei teologi. Per loro Dio voleva dire il luogo in cui l’uomo credeva che fossero conservati tutti i tratti che a lui interessavano".
Un Dio che agisse contro il nulla.
"Un Dio custode di tutto ciò che ci interessa e che impedisca che l’annientamento sia totale. Già Eraclito ed Eschilo parlarono di rimedio al processo della morte. Questo quadro della tradizione, con un senso eterno e divino del mondo, si ritroverà con alcune varianti oltre che nel cristianesimo in altre figure della storia europea".
Quali sono le altre figure che hanno inglobato questa affermazione originaria?
"Tutti i grandi eventi della storia - cultura greca, Impero romano, Cristianesimo, Rinascimento, Illuminismo, Capitalismo, Comunismo e la scienza moderna - sono da un lato il risultato della poìesis platonica e dall’altro vogliono porsi come il rimedio all’angoscia del nulla e al fatto che le cose, gli enti sono slegati tra loro".
Che vuol dire slegati?
"Significa separati, isolati, divisi. La causa separante è nell’oscillazione delle cose tra l’essere e il niente. E questa separazione sta alla base di ciò che chiamiamo Europa. Non c’è una sola Europa, ma molte Europe: politica, religiosa, economica, geografica, etnologica ecc. Il loro reciproco isolamento impedisce che sia possibile una vera ed efficace unificazione".
Beh, quando si parla di radici dell’Europa si intende appunto che le radici sono l’identità comune del nostro continente.
"Sono radici improbabili. È vero che le figure storiche che ho indicato, cristianesimo in testa, rappresentano il tentativo di identità e unificazione di un certo mondo storico. Ma è un tentativo destinato a fallire".
Perché?
"Tutte le grandi figure della storia europea - da Alessandro Magno, passando per l’Impero romano, e via via per il cristianesimo e il cattolicesimo - sono dei tentativi di unificazione. Mostrano la volontà di superare la separatezza delle cose. La stessa filosofia, quando si allontana dal mito, intende indicare un principio unitario. Anche la scienza nasce come volontà di unificazione del mondo fisico. Lo stesso capitalismo intende abbattere le barriere e i confini e porsi come visione globale del mondo".
Cosa non funziona in questi tentativi?
"Non funziona l’idea che ci possa essere una forma storica così persuasiva e forte da impedire la dissoluzione delle cose del mondo. A un certo punto della storia del pensiero filosofico qualcuno si renderà conto di questa impossibilità".
Chi?
"Ho usato spesso un’immagine: il "sottosuolo filosofico dell’Occidente". Un luogo abitato da pochissimi pensatori. Tra questi il nostro Leopardi, Nietzsche, Dostoevskij. Essi mostrano l’impossibilità di ogni eterno, di ogni unità definitiva del mondo".
In altre parole mostrano l’impossibilità che un Dio ci possa salvare?
"Esattamente. Ma poiché le figure storiche che ho citato sono delle mondanizzazioni del divino, questa impossibilità si estende anche a quelle forme".
D’accordo, ma che cosa accade nel momento in cui si toglie a Dio la sua funzione di creatore e legislatore?
"Come direbbe Dostoevskij tutto diventa possibile. L’uomo agisce e vuole dominare il mondo. L’esistenza di Dio costituisce un limite all’azione dell’uomo. Dio dice all’uomo: puoi agire fino a un certo punto, oltre violeresti le mie leggi. I pensatori del sottosuolo nel momento in cui distruggono il divino, fanno saltare ogni limite posto dall’assoluto. Essi dicono che non c’è limite all’azione umana e che l’uomo può agire senza remore".
Con quali conseguenze?
"La conseguenza principale è che essi portano alla luce l’assurdo di quella frase iniziale, che è la vera follia dell’Occidente: le cose escono dal nulla, sostano nell’esistenza e finiscono nel nulla. Può sembrare paradossale ma la negazione di Nietzsche e Leopardi che "Dio ha creato il mondo", è la condizione affinché la tecnica, che già guida il mondo, si liberi dagli impacci che la tradizione le pone e possa procedere nell’incremento indefinito della propria potenza. In origine è un fenomeno europeo. Col tempo è diventato planetario".
Stai dicendo rassegniamoci a questo dominio assoluto della tecnica?
"La rassegnazione non c’entra. Tutte le grandi forze che oggi dominano il pianeta ( Cristianesimo, Islam, Capitalismo, Comunismo, Populismo) confliggono tra di loro e si servono della tecnica per realizzare i loro scopi. Proprio perché nessuna di queste forze può fare a meno della tecnica, la tecnica è destinata a prendere il sopravvento. Sta già accadendo. E il problema non è rassegnarsi o reagire".
Escludi dunque le volontà dei singoli?
"Il discorso che faccio non è un’esortazione, un progetto, un invito, una sollecitazione ad agire. Un intellettuale che dicesse cosa fare sarebbe patetico. Non si tratta di indicare ai popoli cosa devono fare, ma mostrare che cosa sono destinati a volere".
Ma l’altro Severino che cosa pensa di tutto questo? Cosa pensa di questa " macchina" che non guidiamo noi e che ci porta dritti verso qualcosa che tu definisci necessario?
"L’altro Severino, come tu lo chiami, non avrebbe niente da dire. È un uomo in carne ed ossa, che ad 88 anni combatte la vecchiaia come può. Che a volte si arrabbia, a volte si commuove, che è preda delle sue debolezze e dei suoi errori. In quanto Severino potrei tranquillamente dire ai miei allievi: guardate che sono più nichilista di voi e in quanto individuo sono fedele a diventare altro".
Sei come si accennava all’inizio un uomo diviso?
"Goethe diceva: ah! due anime abitano nel mio petto. Potrei dire la stessa cosa di me. C’è la grande anima, che non è soggetta al trauma della lingua e della comprensione, non è un luogo o un tempo che tu puoi cambiare a piacimento; e c’è la piccola anima, segnata dagli errori, dai dubbi, dalle incertezze".
Non c’è rapporto, scambio, dialettica tra le due anime?
"Non può esserci. Non si può redimere la piccola anima. Sarebbe come quadrare il cerchio". Perché siamo così? "Questa domanda sottende la possibilità di essere altrimenti. Ma questo non è possibile".
Siamo quel che siamo.
"Non nel senso di essere "gettati" nel mondo, come intendeva Heidegger. Siamo quel che siamo perché questa è la verità".
Quindi i greci, l’Europa, la tecnica hanno profondamente travisato il senso dell’Essere?
"Lo hanno colto in una prospettiva alienante. Il che ha condizionato l’intera storia d’Europa e dell’Occidente. Sicché la terra dell’apparire si è trasformata nella terra desolata di Eliot. O meglio: nella terra infranta".
Alla fine siamo ben poca cosa.
"No, siamo più di Dio, poiché Dio è un’invenzione dell’alienazione. Siamo all’apparire della verità che non appartiene a Dio né alla verità tradizionale. E non ci sono piccole cose, perché tutte sono eterne".
Hai paura della morte?
"Come Severino ho paura del dolore e dell’agonia. La morte mi mette di buonumore. Ma potrei anche esserne terrorizzato. È la mia piccola anima che parla".
La grande anima non ha emozioni, non teme nulla e non vuole nulla. Chi la guida?
"Nessuno può guidarla. Essa appartiene al tratto originario del destino, ossia all’apparire della necessità. Si esce dal nichilismo, di cui l’Europa è stata l’interprete, pensando a qualcosa di infinitamente più grande di Dio. Ogni cosa, anche la più umile è eterna. È ciò che io chiamo destino della necessità".
Non credi che il richiamo al " destino" sia un modo per negare la responsabilità dell’uomo?
"Intanto il destino è qualcosa di profondamente diverso dal fatalismo che è l’altra faccia del culto della libertà. Quest’ultima lega la responsabilità al tempo della decisione. Per cui si è responsabili solo quando si decide di esserlo. Mentre la presenza del destino rende l’uomo responsabile fin dalla nascita. Lo è sempre e non a fasi alterne".
Tutto questo come si traduce in un discorso sull’Europa?
"Non credo che sia facile tradurlo. Parlare di unificazione, celebrare i trattati, tornare alla volontà di coloro che videro nell’unità dei popoli il sogno dell’Europa è individualmente encomiabile. Ma temo che l’Europa sia nata vecchia. Il suo destino è segnato dal destino dell’Occidente. Viviamo in un mondo in cui il prossimo è stato massacrato e le leggi sono state violate. Perché? Se non si sa rispondere a questa domanda in modo radicale, allora ogni tipo di unificazione politica è un dogma. E ogni dogma è una forma di violenza "
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
DONNE, UOMINI E VIOLENZA: "Parliamo di FEMMINICIDIO":
L’accesso alle Scritture per l’altra metà del Settimo cielo
Saggi. Da Giuditta a Chiara da Siena, al papato di Bergoglio. «Il potere delle donne nella Chiesa» di Adriana Valerio per Carocci
di Alessandro Santagata (il manifesto, 14.1.2017)
La questione del ruolo delle donne nella Chiesa cattolica tocca direttamente il nodo del potere pastorale e delle strutture del cattolicesimo. Lo conferma in maniera convincente Il potere delle donne nella Chiesa. Giuditta, Chiara e le altre (Carocci editore, pp. 248, euro 18), l’ultima pubblicazione di Adriana Valerio, storica del cristianesimo e autrice di importanti contributi sul conflitto di genere nella storia della Chiesa.
La riflessione prende le mosse dal recente intervento di papa Francesco volto a istituire una commissione di studio sul diaconato femminile. Si tratta dell’ultimo di una serie di interventi che «hanno riaperto questioni antiche, suscitando speranze e opposizioni che, ancora una volta, indicano come la posta in gioco sia il potere nella Chiesa». «Se infatti - prosegue Valerio - il ministero fosse realmente inteso e vissuto come servizio non ci sarebbe alcun ostacolo per consentirlo anche alle donne. Ma evidentemente non è così. Le donne rimangono «a servizio», ma non hanno alcun ruolo decisionale».
IL TEMA DEL «SERVIZIO» nei suoi molteplici significati rappresenta il filo rosso con il quale si può leggere la vasta, per quanto sintetica, analisi proposta dall’autrice. Nelle Scritture, per esempio, da un lato si rimanda a contesti culturali nei quali la donna è sottomessa alle istituzioni di una società patriarcale e gerarchica, dall’altro non mancano episodi che rimandano alla condizione reale della donna dell’Oriente antico e aprono orizzonti di possibile emancipazione. È da leggere in quest’ottica l’ambivalente figura di Ester che attraverso la seduzione piega il dominio maschile ai propri fini. Lo stesso strumento usato da Giuditta che diventa emblema della fragilità del potere.
Si tratta dunque di un potere ambivalente che può risultare decisivo per le sorti di Israele, ma nello stesso tempo che spaventa e necessita di norme di controllo. In questo contesto - spiega Valerio - Gesù e la sua comunità sovvertono le regole di purità e impurità e integrano a pieno titolo le donne nel loro progetto di rifondazione religiosa. Per Paolo di Tarso «non c’è maschio e femmina, perché tutti siete uno in Cristo». Eppure, il cristianesimo presenta tra le sue aporie l’aver messo in discussione i rapporti di potere tra le persone riproponendoli però in maniera palese già a partire dal primo processo di clericalizzazione tra il II e III secolo.
PRENDE COSÌ FORMA una «teologia del peccato» che si nutre di un’interpretazione forzata delle lettere paoline e «vedrà la donna responsabile in prima persona di un debito infinito davanti a un Dio offeso e punitivo». Arriviamo così al cuore dello studio: l’esclusione dal sacerdozio, motivata da Tommaso sulla base della soggezione naturale del genere femminile, lo stratificarsi di un’antropologia negativa volta stigmatizzare la sessualità della donna («debole nel corpo e imperfetta nella ragione»), e contemporaneamente la presenza di donne in diverse posizione di potere.
L’autrice ci restituisce un panorama popolato da diaconesse e badesse, talvolta dignitarie di poteri feudali e semi-episcopali, e di protagoniste di esperimenti nuovi, come nel caso di Chiara d’Assisi che si presenta come «madre che non domina ma governa». Chiudono la rassegna alcune grandi figure del Novecento come Dorothy Day, fondatrice nel 1933 del movimento Catholic Worker, Eileen Egan, dirigente della sezione americana di Pax Christi, e Barbara Ward, economista di chiara fama e «uditrice» al Concilio Vaticano II.
Parlando dell’attualità della Chiesa di Bergoglio, Valerio auspica un cambiamento profondo che possa conciliare la religione con l’avvenuta trasformazione del paradigma antropologico.
IL CATTOLICESIMO è chiamato a «sperimentare modalità nuove di autorità feconda, creativa e condivisa» rifuggendo l’assimilazione alle categorie politico-androcentrice del passato, riscoprendo il sacerdozio come reale «servizio» e il messaggio originario del Cristo liberatore e sovversivo. Il nodo politico da sciogliere riguarda quindi principalmente la Chiesa, ma le implicazioni tra religioso e secolare analizzate in questo libro lasciano intuire le potenzialità civili di una riforma di questo tipo in una società ancora fortemente androcentrica.
Psicoanalisi, Storia e Politica....
I demiurghi che alimentano la linfa religiosa della sovranità
di Ubaldo Fadini (il manifesto, 27.04.2016)
Con questo suo recente testo - La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin, Ombre Corte, pp. 119, euro 10 - Fabrizio Denunzio sviluppa ulteriormente un radicale e impegnativo confronto con l’opera complessiva del filosofo berlinese di cui si può ricordare perlomeno un’altra tappa particolarmente felice concretizzata in Quando il cinema si fa politica. Saggi su «L’opera d’arte» di Walter Benjamin, pubblicata alcuni fa dalla stessa casa editrice veronese. Ciò che risulta particolarmente chiaro dagli esiti di tale confronto è lo sforzo operato da Denunzio per fornire dei segnavia decisivi che consentano al lettore di orientarsi al meglio nei territori difficili e spesso irregolari della produzione teorica benjaminiana.
La massa dei risentiti
L’attenzione si concentra soprattutto su quei testi e «frammenti» di Benjamin che concorrono alla formazione di una storia dell’interesse manifestato nei confronti del fascismo. Nella prima parte del suo studio, quella più consistente (anche quantitativamente), Denunzio individua tre fasi/momenti di tale manifestazione di interesse. La prima, tra il 1924 e il 1930, delinea un modello di fascismo in termini di analisi «giornalistico-informativa», a partire dal girovagare benjaminiano, soprattutto tra la Francia e l’Italia (senza dimenticare la città di partenza: Berlino).
Tale modello coglie in definitiva il collegamento tra la legittimazione popolare del «duce», assicurata in molteplici maniere, e la presenza di un deficit intrinseco alla modernità, un vuoto che la contraddistingue nel momento in cui l’affermazione del primato della Ragione si accompagna alla abolizione di qualsiasi legame con la trascendenza (ricondotta alla misura, facilmente contestabile, della religione). È questo vuoto ad alimentare quelle dinamiche di compensazione, su base materiale, che troveranno in determinati gruppi sociali, risentiti e impoveriti (dopo la prima guerra mondiale), i soggetti facilmente predisposti all’impiego di classe (al servizio del capitalismo) contro la lotta proletaria e rivoluzionaria. È importante qui l’annotazione di Denunzio, secondo la quale emerge, in questa prima fase, un punto di vista critico di Benjamin nei confronti dell’Illuminismo come marca della modernità, che registra un eccesso di potenziamento della Ragione nel suo rapporto con la trascendenza a cui si può trovare rimedio soltanto con un riequilibrio che impedisca la strumentalizzazione dell’altro (relativo) della medesima Ragione nei modi della violenza fascista al soldo del capitale.
Concetti materiali
A questo modello ne segue un altro, quello del periodo 1934-36, che si qualifica non più come «giornalistico-informativo» ma «politico-combattente», nel senso di una più precisa indicazione dell’importanza anche del momento sovrastrutturale per la comprensione del fenomeno del fascismo, accanto all’ovvia considerazione del valore della dimensione strutturale, economico-materiale, con i suoi determinati rapporti di proprietà. In quest’ottica, Benjamin predispone una batteria di concetti che pretende di dar corpo ad una ragione politica di lotta al fascismo che si vuole articolata sul piano della produzione culturale, con particolare riferimento alla teoria dell’arte e alla registrazione del ruolo dei mass-media (dalla radio al cinema) nella realizzazione di una ben governabile «massa compatta» (disoccupati, reduci, impiegati: quest’ultimi raffigurati attraverso l’indagine preziosa di Siegfried Kracauer), «monumentale», come l’arte veicolata dal regime fascista, in grado di legare/integrare dentro di sé la collettività, i gruppi sociali.
Anche rispetto a questo modello, Denunzio coglie felicemente il diverso rapportarsi di Benjamin all’anima illuminista della modernità, con la sua ambivalenza (indicativa di un volto da opporre a quello fascista) che verrà «lavorata» dagli esponenti di maggior rilievo della «teoria critica», Adorno e Horkheimer: l’attenzione del filosofo berlinese si sposta in effetti dalla coppia di opposti «ragione-trascendenza» a quella «natura-tecnica», individuando in una tradizione di illuminismo «segreto», tipicamente tedesco, carico di spirito rivoluzionario, la possibilità di non considerare la tecnica soltanto come dominio ma di apprezzarne anche un uso «ludico», positivo, in una prospettiva concretamente emancipatrice.
Nell’ultima fase, emblematicamente raccolta nell’anno conclusivo dell’esistenza di Benjamin: 1940, si delinea un terzo modello di fascismo, rispetto al quale il compito teorico/politico appare quello di «salvare» il tempo, di non lasciare irrimediabilmente la modernità al suo rapporto con il fascismo, laddove il capitalismo - come capitalismo di Stato in grado di ricomprendere al suo interno l’esperienza «socialista», anche nella sua prefigurazione saint-simoniana - crea il fascismo statualizzato come dinamica di riunificazione dei poli opposti dell’eternità (il sempre-uguale) e dell’istante (la novità), una dinamica specifica della modernità disegnata in forme classiste nel trionfo fantasmagorico del feticismo della merce, che sembra prolungarsi all’infinito, in una tragica e terribile perpetuazione della propria «logica».
Appare quindi evidente come il confronto di Beniamin con la modernità, la sua particolare «esperienza» di essa, porti con sé anche un rapporto con l’Illuminismo attento a situare materialmente l’operato della Ragione, ad apprezzarne la temporalità plurima, la provvisorietà/revocabilità dei suoi assetti e delle sue configurazioni dalla parte dei soggetti interessati a non s/qualificarsi come subagenti commerciali di quel capitalismo che storicamente si è presentato (si presenta) come ciò che consegna il nostro tempo in mano al fascismo: vale a dire ad una particolare modalità (teoria) di potere da cogliere a tutti i costi - così ancora Benjamin - come il vero e proprio «nemico da combattere».
Il tiranno e il martire
La seconda parte, quella più breve, del testo di Denunzio è dedicata ad una ricostruzione socio-psicologica delle ragioni di carattere anche più «personale» dell’attenzione di Benjamin al fenomeno del fascismo, inteso come figura iper-autoritaria proiettata, per così dire, su piani di formazione individuale e collettiva, al fine di compensare quelle assenze o crisi di autorità (i «vuoti») che costituiscono e accompagnano la vicenda complessa della modernità. In tale prospettiva, la giovanile assunzione benjaminiana di figure «politiche» di sostituzione parziale di una autorità paterna avvertita come carente, viene analizzata, da Denunzio, nei suoi sviluppi e nelle sue trasformazioni, in ciò che prende corpo e si manifesta, ad esempio, in alcuni dei personaggi-chiave del libro sul dramma barocco tedesco (il sovrano: tiranno e martire, anche sulla scia della ripresa dell’idea schmittiana di «stato di eccezione») o nelle pagine straordinarie su Kafka.
Walter Benjamin, l’inquilino in nero
di Massimo Palma (alfapiù, 11 gennaio 2017)
A Fabrizio Denunzio la taccia di eresia non importa. Collocarsi al di fuori di ogni corrente degli studi su Benjamin è in sé un merito, dati i successi di questo loser nelle mode filosofiche, editoriali e culturali di questi anni.
L’angolatura è originale - evidente sin da Quando il cinema si fa politica (2010). Ancor più nella Morte nera. Lo stile è assertorio, didascalico, deduttivo. Denunzio avvicina testi notissimi come fosse la prima volta, li incrocia con frammenti poco visitati e propone un mash up che costringe immancabilmente a leggerlo due volte: quando affianca al celebre saggio su Kraus la poco nota recensione di Haecker, la chiosa è cristallina: «non volendo essere affatto raffinati, anzi, volendo peccare di rozzezza». Lo stesso accade quando impiega concetti inventati con indubbia capacità plastica (l’Illuminismo «compresso»), quasi fossero concetti benjaminiani. In più, Denunzio incrocia temi forti: l’arte politica, l’uso della radio.
Brillante, oggi, la scelta di affrontare una variante della Germania segreta, lemma che Benjamin mutua da Stefan George (chissà perché assente nel libro), e delle tante letture dell’intima affinità tra l’Intelligenz tedesca e le idee naziste, che da Kantorowicz e Lukács a Jesi e Lacoue-Labarthe, hanno attraversato l’incompiuta seduta di autocoscienza europea.
Qui si tocca un capitolo inedito: Benjamin e il fascismo. Fascismo che, ben mostra Denunzio, Benjamin ha visto di persona - nel 1924, nel mitico viaggio a Capri, vede Mussolini, restando colpito da una fisicità goffa e inarticolata -, ha intervistato nella sua versione francese (Georges Valois), ha recensito nella sua variante tedesca prenazionalsocialista (il libro di Ernst Jünger e soci, stroncato nel 1930), per poi farne un oggetto teorico, sicuramente avversario, ma - questa la tesi dirompente - altresì abitante nel corpo biografico e nell’armamentario teorico benjaminiano.
Non solo, quindi, Benjamin studia, avversa e teorizza il fascismo, ma Benjamin ha un fascista dentro di sé: nel senso pasoliniano, deleuziano, che è sempre il caso di riattivare. E Denunzio si cimenta con zelo sull’ipotesi di un Benjamin abitato. Lo mostrerebbero ricordi infantili sedimentati nella Cronaca berlinese, il rapporto negli anni Dieci con Gustav Wyneken, «guida» autoritaria e guerrafondaia del Movimento giovanile, ma anche il ruolo del tiranno nello studio sul barocco tedesco, la cui coincidenza con la «visione» di Capri viene usata come detonatore onniesplicativo, la lettura di Kafka e dei suoi funzionari sadici.
Che i due punti biografici (il padre e Wyneken) ricorrano teoricamente in chiave psicanalitica in due dei suoi scritti maggiori è assunto problematico, ma va a sostanziare la tesi di un inquilino imprevisto nel Benjamin teoreta del fascismo: Benjamin fascista.
Esattamente questo afferma Denunzio: «la coerenza sistemica della teoria del fascismo benjaminiana può essere assicurata solo postulando che il suo autore si sia profondamente identificato con esso. Dal momento che non si può dare fascismo senza l’uomo fascista, allora, la validità di questa teoria di Benjamin sta nel fatto che ad averla pensata è il fascista che lo abitava, ma che, per fortuna, non lo possedeva».
Questo postulato d’inizio libro resta tale. Tutto lo studio ne consegue. Questa premessa-conclusione - «il fascismo intrapsichico di Benjamin», il «padre compensativo interiorizzato da Benjamin per rispondere alla crisi d’autorità paterna: guerrafondaio, criminale e sadico» - si dirama, serpe in seno al lettore, in parallelo alla formula dell’«ebreo comunista esule e perseguitato» che, assieme all’intellettuale antifascista precario declassato non-accademico, classifica WB nel casellario vittimario. Paria come tanti.
Eppure, tale premessa-conclusione per esser presa sul serio deve celare una sottaciuta rilettura del concetto di immedesimazione o empatia, che Benjamin individua come una dannazione operativa della storiografia e della «tecnica» artistica in generale e che legge in questi termini sin dall’Origine del dramma barocco tedesco, per demolirlo nella tesi VII Sul concetto di storia come funzione «fascista» della scrittura.
Ma il libro sul barocco viene ignorato da Denunzio fin quasi alla fine: non lo menziona riguardo alla ricostruzione iper-cattolica, à la Schmitt, della «filosofia» del primo Benjamin (schiacciato sul Programma della filosofia futura e definito «non rassegnato a vivere in un mondo senza dei e trascendenza»), ma solo per affrontare il tiranno. E certo, nel momento in cui si affronta la teoria della storia di Benjamin, la decostruzione dell’Einfühlung deve emergere, perché è una decostruzione politica che modula il concetto anti-fascista di storia che Benjamin lascia ai posteri.
Dobbiamo quindi supporre che Denunzio la dia per scontata, nel momento in cui la sua tesi verte sul consentire col fascismo e sull’identificazione di Benjamin nel capo fascista («Benjamin si trova ad aver interiorizzato proprio una figura di Capo di questo tipo»). Un’immedesimazione il cui precipitato, nel critico che usa fonti tedesche già compromesse col regime, è esposto senza infingimenti: «li si disponga tutti assieme in un’unica immagine, i Kommerell, gli Obenauer e gli Schmitt, a mo’ di foto dell’epoca, semmai con tanto di divise e di fasce al braccio, e si vedrà in tutta la sua crudezza una costante dell’atteggiamento di Benjamin nei confronti di questi gerarchi del sapere fascista idealmente fotografati: la complicità».
Crudo, insinuante, il libro di Denunzio usa una bibliografia parca ed equilibrata (undici titoli di Benjamin, undici di Denunzio, articoli di giornale inclusi, poi altri diciotto testi, poi basta), ed è pieno di intuizioni. Eppure, il tessuto argomentativo rapido, apodittico, oltre al fuoco del libro, lascia colare anche omissioni (dov’è Georges Sorel, menzionato di corsa in un libro sul fascismo e Benjamin?, dove Bachofen?), inutili parafrasi di Habermas (utilizzato a piene mani in un excursus per un riassuntino di storia della filosofia), slalom speciali su temi-chiave: dell’empatia si è detto, ma si pensi al concetto fascista di natura, sfiorato e mai analizzato, ma centralissimo proprio nelle Teorie del fascismo tedesco e possibile volano per sfuggire alla rilettura proposta, iper-francofortese, del bivalente illuminismo benjaminiano; si pensi infine a come, figlio dell’alta borghesia ebraica assimilata, Benjamin della borghesia ha marxianamente mostrato l’ambigua, contraddittoria grandezza.
Restano gli affondo, la profondità abissale del tema, la libertà di ricerca esibita, ma anche l’incedere di un libro pesantissimo che vola da un fiore all’altro dell’orto benjaminiano, decontestualizzando un singolo riferimento epistolare del 1924, un passo di diario del 1938 e passaggi di opere complesse (decenni di ricezione non solo «idealista» né «teologico-politica» sarebbero lì a testimoniarlo), per attribuire all’autore l’inconscia «richiesta di uno Stato forte» e un «desiderio» di fascismo», senza dialogare con alcuno se non i suoi testi.
In questa sua singolare forma anti-scientifica, l’intenzione davvero profonda che abita il saggio, e forse lo possiede, risulta difficilmente comprensibile al di fuori del moto d’identificazione spiegato nelle Memorie di famiglia dell’Introduzione (il lignaggio fascista dell’autore, naturalmente ripudiato). Un tratto, questo, che rende sì il testo una ricerca di antidoti, ma anche una requisitoria senza contraddittorio, perché in sostanza autoaccusa. Raccolta di intuizioni talora lancinanti, La morte nera è un libro da integrare, argomentare, arredare, senz’altro abitare col rigore necessario. Per poi magari espropriarlo di ogni immedesimazione.
Psicoanalisi, Storia e Politica....
‘La morte nera’ e il fascista che è in noi
di Iside Gjergji *
Il recente libro di Fabrizio Denunzio, La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin (Ombre Corte 2016) è uno dei testi più interessanti pubblicati in Italia nel 2016. L’opera prosegue e, forse, conclude una elegante e seducente lettura di Walter Benjamin, già avviata da Denunzio con L’uomo nella radio. Organizzazione e produzione della cultura in Walter Benjamin (Giulio Perrone 2012) e, prima ancora, con Quando il cinema si fa politica. Saggi su “L’opera d’arte” di Walter Benjamin (Ombre Corte 2010).
Il libro tratta un tema attuale - il fascismo - e lo fa attraverso le parole e i silenzi del filosofo berlinese. La morte nera non è solo un testo di critica e, senza dubbio, non è uno di quei lavori che - come va di moda - si accaniscono sul “corpo” di un autore, nella speranza di ricavarne un lembo, al fine di assicurarsi un posto nella koinè culturale che conta.
Al contrario, il testo ha un obiettivo ambizioso: vuole realizzare uno schizzo multidimensionale del fascismo, vuole mostrare il suo cuore segreto, ancora palpitante, per farci sentire anche nella vigna dei testi il suono inquietante del “duro metallo della violenza” (Baudelaire). Obiettivo riuscito.
Inoltre, come si può intuire già dal titolo (per gli amanti di Guerre stellari, la Morte Nera è l’arma potente e segreta dell’Impero, che, da sola, può annientare interi pianeti, cosi come “Morte Nera” è l’espressione con la quale si definisce la peste che sterminò più di un terzo della popolazione europea nel XIV secolo), il lavoro ha un carattere ibrido. Vi si trova la critica più rigorosa attraversata da intuizioni, collegamenti storici e biografici, rimandi a frammenti letterari, epistolari, trasmissioni radiofoniche e film.
Nella prima parte si svolge come una sceneggiatura in tre atti (fasi), denominata “Il fascismo”, il cui prequel, nella seconda parte, è dedicato a “Il fascista”.
Ma andiamo con ordine. Denunzio, come anticipato, individua tre fasi nello sviluppo del pensiero benjaminiano sul fascismo. Nel periodo compreso tra il 1924 e il 1930, Benjamin pensa a un modello di fascismo a partire da una analisi “giornalistico-informativa”, anche come diretta conseguenza del suo girovagare in Europa.
La sua attenzione è catturata pressoché interamente dalla figura del “duce”. L’autore coglie in questa fase lo sguardo critico di Benjamin sull’Illuminismo e la sua conseguente spiegazione della legittimazione popolare del “duce” attraverso il conflitto tra ragione e religione. Il collegamento è da ricercare nel “vuoto che si viene a creare quando la ragione abolisce ogni collegamento con la trascendenza”, creando spazio a “personaggi che, contrabbandando un soprannaturale di scarto, [...] vengono investiti di un potere che sicuramente useranno contro quanti gliel’hanno conferito” (p. 34).
La soggettività a cui Benjamin pensa in questo periodo non coincide con l’uomo razionale, ma con l’uomo religioso, capace di esperire la trascendenza.
La seconda fase, secondo l’autore, coincide con gli anni 1934-36 e si caratterizza per l’approccio “politico-combattente” del filosofo. Benjamin perviene, infatti, a un modello di fascismo fondato su elementi strutturali, tenendo conto della composizione delle classi e delle strategie di dominazione del capitalismo. È in questo passaggio che il filosofo tedesco accantona la coppia concettuale “ragione-religione” e abbraccia un’altra, anch’essa oppositiva, ovvero “natura-tecnica”.
La riflessione più matura sull’Illuminismo e sulla modernità spinge Benjamin a pensare un rapporto inedito tra natura e tecnica, in quanto egli riesce a immaginare la tecnica “liberata dal fine strumentale di dominare la natura e finalmente impiegata per fare giocare e divertire gli uomini” (p. 63).
La soggettività dominante nel pensiero benjaminiano di questa fase non è l’individuo, ma la classe lavoratrice. È il lavoro a mediare le relazioni e, di conseguenza, la trascendenza finisce in secondo piano (senza però scomparire del tutto) per lasciare maggiore spazio alla Ragione.
L’ultimo e terzo atto della sceneggiatura denunziana sulla teoria del fascismo di Benjamin si consuma nel 1940, che è anche l’ultimo anno di vita del filosofo, ormai esule e solitario nelle strade d’Europa, nelle quali imperversa la “follia”. Il modello di fascismo delineato in questa fase conserva il nesso struttura/sovrastruttura sviluppato nelle fasi precedenti, ma questa volta l’elemento (strutturale) economico trova un perfetto rispecchiamento nella sovrastruttura ideologica del fascismo: “La conservazione millenaria della prima si rispecchia fedelmente nell’eternità della seconda” (pp. 72-73). Benjamin perviene così a una riflessione sul tempo nella modernità, sui momenti temporali dell’eternità e dell’istante.
La chiave di lettura dell’intera sceneggiatura è, però, nascosta nel prequel, ovvero nella seconda parte del libro, laddove Denunzio, in modo raffinato, sviluppa un’analisi sociologica e psicoanalitica, setacciando il tempo, la vita e le parole del filosofo tedesco, a caccia di lapsus, di non detti e del rimosso. È nella seconda parte, infatti, che le parole e i silenzi abitano corpi che ci consentono di interpretare e comprendere comportamenti, testi, dottrine ed eventi narrati nella prima parte. E nondimeno ci consegnano un ritratto completo di Benjamin, con le sue luci e le sue (non poche) ombre nere. Qui il fascismo diventa una silhouette autoritaria e tirannica, una presenza che si produce in fasi storiche e passaggi biografici caratterizzati da “vuoti” di autorità e che si manifesta sotto molteplici sembianze: padri sostituivi con simpatie naziste, personaggi letterari che evocano tiranni, poeti vicini alle SS.
L’autore sottolinea, dunque, quanto già evidenziato dalla migliore tradizione della Scuola di Francoforte, ovvero l’imprescindibilità della teoria freudiana nella comprensione del fascismo come fenomeno sociale, in quanto pone l’urgenza di comprendere, accanto a tutto il resto, anche i condizionamenti e le tirannie interne (IL fascista interno) al soggetto. Curiosamente, però, Fabrizio Denunzio attribuisce l’ulteriore sviluppo di tale riflessione, nella seconda metà del Novecento, ad alcuni illustri autori francesi, quali Foucault, Deleuze, Guattari, i quali notoriamente si sono ispirati a pensatori come C. Schmidt, Nietzsche e Heidegger, tutti, almeno a parere di chi scrive, reazionari, anti-dialettici e immersi nel tunnel dell’irrazionale. La lotta contro i residui del “fascista” (morte nera) dentro di noi, a quanto pare, non può mai dirsi conclusa. Che la Forza sia con noi!
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I demiurghi che alimentano la linfa religiosa della sovranità
di Ubaldo Fadini (il manifesto, 27.04.2016)
Con questo suo recente testo - La morte nera. La teoria del fascismo di Walter Benjamin, Ombre Corte, pp. 119, euro 10 - Fabrizio Denunzio sviluppa ulteriormente un radicale e impegnativo confronto con l’opera complessiva del filosofo berlinese di cui si può ricordare perlomeno un’altra tappa particolarmente felice concretizzata in Quando il cinema si fa politica. Saggi su «L’opera d’arte» di Walter Benjamin, pubblicata alcuni fa dalla stessa casa editrice veronese. Ciò che risulta particolarmente chiaro dagli esiti di tale confronto è lo sforzo operato da Denunzio per fornire dei segnavia decisivi che consentano al lettore di orientarsi al meglio nei territori difficili e spesso irregolari della produzione teorica benjaminiana.
La massa dei risentiti
L’attenzione si concentra soprattutto su quei testi e «frammenti» di Benjamin che concorrono alla formazione di una storia dell’interesse manifestato nei confronti del fascismo. Nella prima parte del suo studio, quella più consistente (anche quantitativamente), Denunzio individua tre fasi/momenti di tale manifestazione di interesse. La prima, tra il 1924 e il 1930, delinea un modello di fascismo in termini di analisi «giornalistico-informativa», a partire dal girovagare benjaminiano, soprattutto tra la Francia e l’Italia (senza dimenticare la città di partenza: Berlino).
Tale modello coglie in definitiva il collegamento tra la legittimazione popolare del «duce», assicurata in molteplici maniere, e la presenza di un deficit intrinseco alla modernità, un vuoto che la contraddistingue nel momento in cui l’affermazione del primato della Ragione si accompagna alla abolizione di qualsiasi legame con la trascendenza (ricondotta alla misura, facilmente contestabile, della religione). È questo vuoto ad alimentare quelle dinamiche di compensazione, su base materiale, che troveranno in determinati gruppi sociali, risentiti e impoveriti (dopo la prima guerra mondiale), i soggetti facilmente predisposti all’impiego di classe (al servizio del capitalismo) contro la lotta proletaria e rivoluzionaria. È importante qui l’annotazione di Denunzio, secondo la quale emerge, in questa prima fase, un punto di vista critico di Benjamin nei confronti dell’Illuminismo come marca della modernità, che registra un eccesso di potenziamento della Ragione nel suo rapporto con la trascendenza a cui si può trovare rimedio soltanto con un riequilibrio che impedisca la strumentalizzazione dell’altro (relativo) della medesima Ragione nei modi della violenza fascista al soldo del capitale.
Concetti materiali
A questo modello ne segue un altro, quello del periodo 1934-36, che si qualifica non più come «giornalistico-informativo» ma «politico-combattente», nel senso di una più precisa indicazione dell’importanza anche del momento sovrastrutturale per la comprensione del fenomeno del fascismo, accanto all’ovvia considerazione del valore della dimensione strutturale, economico-materiale, con i suoi determinati rapporti di proprietà. In quest’ottica, Benjamin predispone una batteria di concetti che pretende di dar corpo ad una ragione politica di lotta al fascismo che si vuole articolata sul piano della produzione culturale, con particolare riferimento alla teoria dell’arte e alla registrazione del ruolo dei mass-media (dalla radio al cinema) nella realizzazione di una ben governabile «massa compatta» (disoccupati, reduci, impiegati: quest’ultimi raffigurati attraverso l’indagine preziosa di Siegfried Kracauer), «monumentale», come l’arte veicolata dal regime fascista, in grado di legare/integrare dentro di sé la collettività, i gruppi sociali.
Anche rispetto a questo modello, Denunzio coglie felicemente il diverso rapportarsi di Benjamin all’anima illuminista della modernità, con la sua ambivalenza (indicativa di un volto da opporre a quello fascista) che verrà «lavorata» dagli esponenti di maggior rilievo della «teoria critica», Adorno e Horkheimer: l’attenzione del filosofo berlinese si sposta in effetti dalla coppia di opposti «ragione-trascendenza» a quella «natura-tecnica», individuando in una tradizione di illuminismo «segreto», tipicamente tedesco, carico di spirito rivoluzionario, la possibilità di non considerare la tecnica soltanto come dominio ma di apprezzarne anche un uso «ludico», positivo, in una prospettiva concretamente emancipatrice.
Nell’ultima fase, emblematicamente raccolta nell’anno conclusivo dell’esistenza di Benjamin: 1940, si delinea un terzo modello di fascismo, rispetto al quale il compito teorico/politico appare quello di «salvare» il tempo, di non lasciare irrimediabilmente la modernità al suo rapporto con il fascismo, laddove il capitalismo - come capitalismo di Stato in grado di ricomprendere al suo interno l’esperienza «socialista», anche nella sua prefigurazione saint-simoniana - crea il fascismo statualizzato come dinamica di riunificazione dei poli opposti dell’eternità (il sempre-uguale) e dell’istante (la novità), una dinamica specifica della modernità disegnata in forme classiste nel trionfo fantasmagorico del feticismo della merce, che sembra prolungarsi all’infinito, in una tragica e terribile perpetuazione della propria «logica».
Appare quindi evidente come il confronto di Beniamin con la modernità, la sua particolare «esperienza» di essa, porti con sé anche un rapporto con l’Illuminismo attento a situare materialmente l’operato della Ragione, ad apprezzarne la temporalità plurima, la provvisorietà/revocabilità dei suoi assetti e delle sue configurazioni dalla parte dei soggetti interessati a non s/qualificarsi come subagenti commerciali di quel capitalismo che storicamente si è presentato (si presenta) come ciò che consegna il nostro tempo in mano al fascismo: vale a dire ad una particolare modalità (teoria) di potere da cogliere a tutti i costi - così ancora Benjamin - come il vero e proprio «nemico da combattere».
Il tiranno e il martire
La seconda parte, quella più breve, del testo di Denunzio è dedicata ad una ricostruzione socio-psicologica delle ragioni di carattere anche più «personale» dell’attenzione di Benjamin al fenomeno del fascismo, inteso come figura iper-autoritaria proiettata, per così dire, su piani di formazione individuale e collettiva, al fine di compensare quelle assenze o crisi di autorità (i «vuoti») che costituiscono e accompagnano la vicenda complessa della modernità. In tale prospettiva, la giovanile assunzione benjaminiana di figure «politiche» di sostituzione parziale di una autorità paterna avvertita come carente, viene analizzata, da Denunzio, nei suoi sviluppi e nelle sue trasformazioni, in ciò che prende corpo e si manifesta, ad esempio, in alcuni dei personaggi-chiave del libro sul dramma barocco tedesco (il sovrano: tiranno e martire, anche sulla scia della ripresa dell’idea schmittiana di «stato di eccezione») o nelle pagine straordinarie su Kafka.
LA "COPPIA FREUDIANA". L’OPERA DI CHRISTOPHER BOLLAS "disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca":
Prenderli al volo prima che precipitino
di Pietro Barbetta ( "Doppiozero", 22 ottobre 2016)
Il giovane Holden ha un momento di tenerezza davanti alla domanda della sorellina. Phoebe, questo il nome della piccola, gli chiede che cosa vuol fare da grande. Holden risponde che ci sono tanti ragazzi: “e intorno non c’è nessun altro, nessun grande, voglio dire, soltanto io. E io sto in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco. E non devo fare altro che prendere al volo tutti quelli che stanno per cadere nel dirupo... io devo saltar fuori da qualche posto e acchiapparli”.
È la parte più tenera del romanzo, quella che gli dà il titolo in lingua inglese il suo cuore: The Catcher in the Rye (l’intraducibile: Acchiappatore nella segale). Holden Caulfield prosegue: “Non dovrei far altro tutto il giorno. Sarei solo l’acchiappatore nella segale e via dicendo. So che è una pazzia, ma è l’unica cosa che mi piacerebbe veramente fare. Lo so che è una pazzia” (Salinger, Il giovane Holden).
Una delle ultime opere di Cristopher Bollas s’intitola Catch Them Before They Fall, prendili prima che precipitino. Prima che cadano nel dirupo. Ciò che Il giovane Holden racconta alla sorellina Phoebe, sembra rispecchiare la missione di Bollas nel suo lavoro con gli schizofrenici.
Cristopher Bollas nasce il 21 Dicembre del 1943 a Washington. Negli Stati Uniti riceve formazione umanistica e letteraria, con predilezione verso gli studi storici. Bollas conosce l’opera di Sigmund Freud come pochi e sviluppa, nel corso della sua vita, una pratica clinica intensa. È il più noto esempio vivente di umanista che, fin da giovane, è immerso nel flusso della clinica, ricevendo - nel tempo, col suo trasferimento a Londra - la formazione psicoanalitica. È un’epoca in cui, nel Regno Unito, non si fanno distinzioni tra medici e laici, conta la passione clinica.
La sua vita si svolge tra gli Stati Uniti e Londra. Nell’ultimo libro Se il sole esplode. L’enigma della schizofrenia, uscito per Raffaello Cortina, Bollas racconta il suo lavoro con persone schizofreniche e la sua formazione clinica, come se le due cose andassero in parallelo.
Bollas sembra sostenere che per lavorare con la psicosi, in particolare con la schizofrenia, l’essere psicoanalisti, o psicoterapeuti di qualunque scuola, non basta. Bisogna riconoscere che questo lavoro è una pazzia. Che il terapeuta ha bisogno di condividere la pazzia, di liberarsi dal terrore di venire contaminato, di essere, anche lui, un po’ schizofrenico, folle, delirante; al punto da considerare il delirio nient’altro che un sistema complesso di libere associazioni. Un esempio di sovra-determinazione freudiana.
Autore prolifico - le opere di Bollas hanno avuto particolare successo in Italia, grazie a Raffaello Cortina, Astrolabio, Borla e Antigone - è tra i massimi psicoanalisti viventi e attivi. Mentre qui da noi ci sono ancora psicoanalisti che si chiedono se sia corretto usare la lampadina elettrica, dal momento che ai tempi di Freud si usavano le lampade a gas, Bollas, senza alcuna inibizione da psicoanalista, scrive delle sedute che fa per telefono, via Skype; lasciandoci surplace.
Durante le mie lezioni di psicologia dinamica, propongo a un gruppo di studenti un seminario su Cristopher Bollas. Gli studenti intitolano il paper, scaturito dal lavoro collettivo: Alla scoperta dei temi controversi nella psicoanalisi. Ne nasce un animato dibattito tra il gruppo degli studenti coinvolti, il resto della classe e me. Il gruppo dà questo titolo al seminario per sottolineare come una serie di argomenti di Bollas si sviluppi a partire da riferimenti critici, addirittura di rottura, rispetto alla psicoanalisi. Evocano Ronald Laing e, più in generale, l’idea di psichiatria democratica.
Altri sottolineano che la cultura di Bollas è ricca di elementi storici, letterari, filosofici, che il libro sulla Mente orientale ricorda lo Zen e le considerazioni di Bateson su Bali.
Altri ancora sostengono che il transfert in Bollas è il contrario dell’idea di neutralità nella psicoanalisi classica, che per molti aspetti Bollas somiglia a un terapeuta rogersiano, a un terapeuta narrativo sistemico, a uno psicoanalista della relazione.
C’è chi, infine, dice che tutte queste tematiche sono recepite da buona parte dei membri della società psicoanalitica freudiana (la famosa IPA) e che oggi non si può più definire chi sia eretico in psicoanalisi. Chi, tra gli studenti, è già in terapia, dichiara che il suo terapeuta è come Bollas, ha lo stesso stile.
Forse Bollas dà voce a un modo accogliente di fare terapia che è già diffuso in campo psicoanalitico, transazionale, sistemico, gestaltico. Non fa che descrivere la terapia, distinguerla da quel guazzabuglio di interventi coatti e autoritari che hanno dominato l’inizio del millennio e che - finalmente! - stanno tramontando. Se così, dobbiamo dire che la sua voce è efficace, è un autentico metodo basato sull’evidenza; evidenza che la psicoterapia è, come la follia: creazione.
I racconti dei casi clinici, così come li scrive Bollas - in quello stile elegante tipico della letteratura anglosassone - sono opere letterarie, lontane dai gerghi psicoanalitici. Racconti didascalici, chiari, privi di espressioni tecniche. Bollas non usa la scolastica psicoanalitica in modo diretto. Quando la usa, come nel caso del termine inconscio collettivo, non dà mai per scontato che cosa significhi per lui e come mai, in quella circostanza, ha usato quel termine junghiano.
Il lettore che legge i suoi libri non sente sul collo il fiato della psicoanalisi seria, di quella cosa che Foucault chiamerebbe pratica discorsiva. Mi capita spesso di leggere in parallelo un testo letterario e dei saggi. Mentre leggo Bollas, non mi accorgo della differenza, non sento il salto tra saggistica e narrativa. I suoi scritti partono sempre dal soggetto Christopher, piuttosto che dal dottor Bollas.
Bollas non ha dunque alcuna pretesa teoretica astratta, nessun modello filosofico/antropologico definitivo da proporre. Scrive partendo dalla vita e la vita è vita di relazione tra sé e i suoi casi clinici, casi della vita. Nel libro Il mondo dell’oggetto educativo, Bollas insiste in maniera singolare su un termine: coppia freudiana. Non si tratta di un nuovo concetto da inserire nel lessico psicoanalitico, si tratta di un lemma che riguarda la relazione terapeutica.
Che cos’è la coppia freudiana? La coppia freudiana è un evento. Accade quando l’inconscio del soggetto che frequenta la terapia tocca l’inconscio del terapeuta. Questa definizione della traslazione in psicoanalisi non può non ricordare un autore che sta sullo sfondo del pensiero di Bollas, un po’ come Nietzsche sta sullo sfondo del pensiero di Freud: Sandor Ferenczi.
Il termine coppia freudiana evoca l’analisi reciproca di Ferenczi. L’opera di Bollas disegna il limite al quale si può spingere oggi l’analisi reciproca. Il coraggio di parlare di sé alle persone che frequentano le sedute e di scrivere di sé ai suoi lettori, non va scambiato con il narcisismo. È semmai il contrario. È immerso in un orizzonte di ironia e di curiosità terapeutica. È la maniera di mettere in comune le proprie esperienze con quelle del soggetto in terapia, di condividere le passioni, di reagire agli eventi, di riconoscere gli errori del terapeuta, di entrare in relazione.
Insomma, la traslazione del terapeuta non è contro-transfert, semmai co-transfert, se vogliamo usare il gergo della psicoanalisi.
Il terapeuta non è istruttore, interpretante, riparatore, è la parte di un incontro, non sempre dialogico, non senza conflitti. Ma la terapia è anche un mondo in cui i conflitti si gestiscono insieme.
Vorrei infine sottolineare l’uso diagnostico del termine psicosi per definire il periodo storico di una nazione: le tendenze psicotiche interne agli Stati Uniti negli anni Sessanta, secondo capitolo del suo ultimo libro, nome del capitolo: “La follia di una nazione”.
Mi è capitato di recente di scrivere su doppiozero.com alcune note sull’epoca psicotica che stiamo attraversando in Europa - sto persino cercando di scriverci sopra un libro - e mi conforta sapere che le mie riflessioni sono corroborate da un autore ben più importante. Dall’assassinio di Kennedy alla guerra del Vietnam, venti psicotici hanno pervaso gli Stati Uniti così come oggi questi venti pervadono l’Europa; dai comportamenti delle banche e dei più potenti manager alle incursioni dello Stato Islamico, dal risorgere di venti fascisti e nazionalisti all’insorgenza dei massacri della crescente sociopatia. Come i bimbi dell’East Bay Activity Center di Oakland, in California, negli anni Sessanta sentivano la patologia della nazione dentro la pelle, così gli adolescenti che mi capita di incontrare nel mio lavoro quotidiano sentono i venti psicotici dell’Europa contemporanea.
Dallo Stato sovrano allo Stato partecipato
di Paolo Prodi (Il Mulino, 19 dicembre 2016]) *
In un precedente intervento su questa rivista, ho avanzato la tesi che la riduzione del problema delle pensioni a dilemma tra sistema retributivo e sistema contributivo ‒ come avviene non solo nella stampa e nei talk show, ma anche in interventi di autorevoli esperti ‒ è deviante e pericoloso particolarmente in questo momento storico: quando stiamo già abbandonando, con la rivoluzione tecnologica, il sistema della fabbrica e delle strutture burocratiche sulle quali si era costruito il Welfare State nell’Ottocento, con il coinvolgimento dei lavoratori e delle imprese. Il ricorso alla tassazione generale, al fisco, diventa invece inevitabile e urgente quando le figure del produttore-lavoratore e del consumatore non coincidono più.
Ora penso sia inevitabile ampliare il discorso con una seconda tesi, mettendo in discussione le conseguenze che questa diagnosi ha ‒ se è vera ‒ nel processo generale di superamento del moderno Stato sovrano di diritto. Senza affrontare il problema della crisi dello Stato nazionale nel mondo globalizzato, devo precisare come punto di partenza che per me è in crisi lo «Stato sovrano», non lo «Stato» considerato come realtà che muta attraverso i secoli e che, persa la sovranità tradizionale, sta cercando nuove funzioni. Non si tratta di un mutamento solo di pelle, ma di una metamorfosi che sta investendo sia il potere politico sia quello economico (nonché il sacro, sembra): pensiamo ai fondi sovrani o, forse in senso inverso, al capitalismo di Stato cinese.
È entrata dunque in crisi la sovranità statale, ma con questa anche, secondo l’espressione che era così cara all’amico Roberto Ruffilli, la sovranità del cittadino che sta perdendo con la crisi della rappresentanza politica la sua identità collettiva, la sua personalità sociale senza che nessuno possa fare da arbitro. Quando si parla di crisi della politica mi sembra che anche gli esperti politologi, sia negli interventi più tecnici sia sulla stampa, si limitino, sulle orme dei nostri classici sino a Norberto Bobbio, a grandi discorsi sui sintomi della malattia, senza vedere che la crisi ha le sue radici proprio nella non-partecipazione e non viceversa, nella perdita soprattutto del collante collettivo che un tempo era costituito dalla «Patria».
Per fare un esempio che sembra marginale ‒ ma che non lo è ‒ se io dovessi scegliere una data periodologica per segnare, almeno per l’Italia, un passaggio epocale, io sceglierei il 2005 come anno in cui fu decisa l’abolizione della leva militare obbligatoria: se non si deve più morire per la Patria, mi sembra che tutto il resto diventi secondario.
Venuto meno questo collante, mi sembra che il rapporto tra detentori del potere economico e del potere politico sia radicalmente cambiato dal paradigma che è nato dalle rivoluzioni industriali dei secoli precedenti: è caduta l’ideologia della rivoluzione che ad esse era collegata ma non certo l’idea di rivoluzione come progetto di una nuova società.
La distinzione tra destra e sinistra è messa in causa non perché sia venuta meno, ma perché è venuto meno il rapporto storico, del quale la Rivoluzione francese era stata la massima espressione, tra che ne aveva caratterizzato il successo nel passaggio dal sistema feudale a quello della proprietà.
Da questo punto di vista, le proposte che oggi vengono avanzate non affrontano in nessun modo i mutamenti che procedono con il nuovo capitalismo finanziario. Anche le proposte di un reddito di cittadinanza sembrano partire dalla coda anziché dalla testa del problema; così come il taglio delle pensioni più alte con l’invocazione della solidarietà risulta totalmente al di fuori di ogni logica giuridica nell’ordinamento attuale, anche se malformazioni ereditate dai cosiddetti «diritti acquisiti» possono essere corrette nel breve termine.
L’intervento pubblico organico deve essere basato su un ripensamento della fiscalità generale non per statalizzare, ma ancor più quando si vuole alleggerire il peso del welfare sullo Stato e ricorrere ai corpi intermedi e al volontariato.
Qui si toccano naturalmente i punti più profondi della crisi della democratica parlamentare e dei nuovi populismi. L’obiettivo della politica è ora certamente l’acquisizione del consenso, e non possiamo fermarci alle strutture di rappresentanza parlamentare. Dobbiamo forse arretrare e riflettere ancora una volta sulle origini della democrazia nella Grecia antica: l’acquisto del consenso da parte dei detentori del potere non ha più confini né geografici né di comunicazione nelle nuove cosmopoli (anche il tema delle frodi fiscali può essere evasivo).
*
[Riproduciamo un articolo uscito il 15 giugno 2016. Anche questo breve intervento, come tutte le cose pubblicate da Paolo Prodi per questa rivista, siasu carta sia sul sito, testimoniano una instancabile curiosità per un mondo in continua e faticosa trasformazione. Le sue riflessioni, a partire dallo straordinario lavoro di storico, venivano spesso condivise con alcuni amici e, per fortuna di tutti, si traducevano quasi sempre in scrittura. L’opera di Paolo Prodi è quasi interamente patrimonio del «suo» Mulino, che gli deve molto quanto a lavoro intellettuale e di animatore culturale.]
Teatro classico.
Salvatore Natoli: «Edipo, l’enigma all’interno di ognuno di noi»
Tra libertà e destino: il filosofo Salvatore Natoli rilegge la figura centrale della tragedia antica, in scena a Milano con Glauco Mauri
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 25.11.2016)
Uccide il padre, sposa la madre, trasmette la maledizione ai figli concepiti in quell’unione colpevole. Eppure, nonostante tutto, Edipo è tra le figure del mito non solo maggiormente indagate (il proverbiale “complesso” teorizzato da Sigmund Freud è la più celebre, non la più convincente tra molte interpretazioni elaborate nei secoli), ma anche maggiormente disponibili a una rilettura in prospettiva cristiana. Una stranezza, almeno in apparenza.
Ma il filosofo Salvatore Natoli suggerisce una spiegazione più che motivata. «Il punto è - osserva - che la storia di Edipo ci è nota in particolare attraverso Sofocle e Sofocle è il più religioso fra i tragici greci, il più aperto alla dimensione della pietà e del perdono». Edipo ritorna, dunque, ma in effetti non se n’è mai andato. In questi giorni al Teatro Franco Parenti di Milano va in scena il dittico composto dalle opere sofoclee di cui il personaggio è protagonista, Edipo re ed Edipo a Colono, e contestualmente viene proposto un ciclo di conferenze, Riflessioni sul tragico, che prevede la partecipazione di studiosi quali Maurizio Bettini (30 novembre) ed Eva Cantarella (2 dicembre). A inaugurare gli incontri, questa sera alle 18, è appunto Natoli, al quale è affidato un tema più che impegnativo: Libertà e destino nella tragedia greca. Ma lo studioso non si scompone e ribadisce che è proprio da lui, da Edipo, che occorre partire.
Perché, professore?
«Perché la sua è la tragedia per eccellenza, come già sosteneva Aristotele - risponde -. Una peripezia in senso tecnico, ossia un vagare da un luogo all’altro, che però non coinvolge un dio o un semidio, ma quello che saremmo tentati di definire l’uomo medio. L’umanità media, anzi. Qualcuno che ci assomiglia e che, come capita a ciascuno di noi, trova ad affrontare i dilemmi e le contraddizioni dell’esistenza. Per i greci, del resto, la realtà intera si presenta sotto la cifra dell’antinomia, dell’enigma, addirittura della doppiezza: tutti elementi che richiedono una costante decifrazione da parte dell’uomo».
In questo Edipo è un esperto, no?
«Fino a un certo punto. Non c’è dubbio che lui e lui soltanto riesca a risolvere il famoso indovinello della Sfinge, ma è una vittoria parziale. Edipo è a conoscenza della profezia che lo destina a uccidere il padre e sposare la madre. Anche a questo enigma prova a tenere testa, d’accordo, ma senza mai interrogarsi su se stesso. Ed è per questo che, fuggendo da colui che crede sia suo padre, finisce per imbattersi nel vero padre. Uccidendolo, sposandone la vedova, realizzando la profezia che si illudeva di aver aggirato».
Da dove viene questo fraintendimento?
«Dal fatto che l’enigma del tragico non si situa sul piano esclusivamente logico, è invece un conflitto tra potenze esterne all’uomo, dalle quali l’uomo stesso rischia sempre di essere schiacciato. Nella sua espressione più radicale, l’enigma è quello che ciascuno di noi ignora di se stesso. Il tragico esprime questa lacerazione profonda dell’esistenza, questo destino di morte insito nella vicenda umana fin dal momento della nascita. Così considerata, la vita non può essere se non sfida, battaglia, agone».
Si tratta di una condizione universale?
«Con una distinzione necessaria. Il tragico si manifesta anche nel mondo contemporaneo, ma in un orizzonte post-cristiano, di perdita e smarrimento. Il tragico greco, al contrario, scaturisce dalla natura. Fa perno sulla mancanza di identità e nello stesso tempo la ricostituisce attraverso la peripezia. Edipo conosce finalmente se stesso grazie al viaggio, altrimenti erratico, che da Tebe lo porta a Colono, alle porte di Atene, dove lo attende l’accoglienza ospitale di Teseo, ovvero la svolta capace di dare soluzione alla contraddizione del tragico».
Vuol dire che l’enigma arriva a uno scioglimento?
«Sì, è un’altra caratteristica che differenzia il tragico antico dal moderno. La struttura della trilogia greca prevede che, alla fine, una soluzione ci sia. Meglio ancora, che nell’esperienza della contraddizione l’uomo scopra la misura che gli è propria, secondo una dinamica già intuita da Nietzsche. La catarsi scaturisce da questa consapevolezza e, per compiersi, prende sempre una via obliqua, un detour alternativo al concatenarsi degli eventi. Può accadere per diretto intervento degli dèi, come nell’Orestea di Eschilo, oppure per iniziativa dell’uomo».
È il caso dell’Edipo di Sofocle?
«Esattamente. La figura decisiva è Antigone, il cui atteggiamento non rappresenta semplicemente la rivincita dell’arcaico nei confronti del diritto, come sosteneva Hegel. La mia personale convinzione è che Antigone, in quanto personificazione della pietas, indichi una via d’uscita laterale, e niente affatto arcaica, dalle strettoie della legge: tanto quest’ultima può essere implacabile, tanto la pietà dell’essere umano verso il suo simile si pone sotto il segno della comprensione. Grazie alla pietà, che sostiene le ragioni umane contro la durezza del diritto, la città stessa rivela il suo volto più accogliente, quello che permette a Teseo di prendersi carico dello straniero».
Ma come si realizza allora il rapporto fra libertà e destino?
«Se guardiamo a Edipo, dobbiamo rispondere che per essere liberi occorre conoscere il proprio destino. Il quale, a sua volta, non si colloca nel futuro, custodito magari da un’ambigua preveggenza. No, a condizionare ciascuno di noi è semmai il passato, che è la vera fonte della necessità. Qualcosa che ci spinge, non da cui siamo attratti. In questa chiave, il passato viene a costituirsi come premonizione di un futuro che si presenta sotto la forma della ripetizione, della reiterazione obbligata. Per scardinare questo meccanismo c’è un solo modo».
Quale?
«Fare chiarezza sulle proprie intenzioni. Gnòthi seautòn, il detto delfico solitamente tradotto come “conosci te stesso”, andrebbe inteso nel senso di “sappi che cosa stai domandando”. Affronta l’enigma che tu stesso sei ai tuoi occhi, prima di provare a risolvere l’enigma del mondo. Ma questo Edipo lo comprende solo al termine delle sue peripezie».
Guida al nuovo occidente che ha perduto l’idea di futuro
Il saggio di Massimo Cacciari e Paolo Prodi analizza la crisi della società attraverso il declino di due categorie fondamentali: “profezia” e “utopia”
di Roberto Esposito (la Repubblica, 13.09.2016)
In molti oggi parlano di crisi dell’Europa e dell’Occidente. Ma ben pochi risalgono alla sua origine scavando tanto a fondo nel corpo della nostra tradizione, come fanno Massimo Cacciari e Paolo Prodi nel loro Occidente senza utopie (il Mulino). Ciò che, pur nella diversità degli strumenti, incrocia i loro sguardi è da un lato il rifiuto di categorie lineari come quella di laicizzazione; dall’altra il coraggio di dichiarare il fallimento del progetto moderno.
La grande tradizione che è nata dalla tensione tra Atene e Gerusalemme e che, attraverso Roma, è sfociata nel diritto pubblico europeo, è arrivata a termine e non è possibile riattivarla, se non passando per la piena consapevolezza di quanto è accaduto. Se non si ha la forza, come scrive Paul Valéry, di fissare gli spettri che ci lasciamo alle spalle, non basteranno incontri di vertice o rifondazioni istituzionali per riprendere quel cammino interrotto.
I due paradigmi su cui gli autori misurano la distanza che separa il presente dalle sue radici, sono quelli di profezia e di utopia. Senza la potenza critica che hanno sprigionato nei secoli, alla nostra civiltà mancherebbe un lievito decisivo. Eppure il loro orizzonte è stato profondamente diverso.
La profezia - al centro del saggio di Prodi - ha espresso una critica del potere che ha aperto lo spazio di libertà per la creazione della democrazia. È lo spirito profetico che per la prima volta, in Israele, ha separato il sacro dal politico, rompendo l’identificazione teologico- politica tra potere e legge.
Profeta è colui che, da un punto marginale, ha l’autorità per contestare il potere regale e sacerdotale. Il divieto ebraico di pronunciare il nome di Dio va inteso anche come difesa da ogni indebita sacralizzazione del potere. Ma anche la distinzione cristiana tra quel che è di Cesare e quel che è di Dio conserva, fino a un certo momento, la distinzione.
Tuttavia la figura del profeta non resiste a lungo. Già ridotta nel Medioevo a quella del predicatore, è presto espulsa fuori dall’“accampamento” cristiano, nelle frange ereticali. Tradotta in un impossibile progetto politico da Savonarola, a partire da fine Settecento si fa da un lato anelito rivoluzionario e dall’altro contatto personale con Dio. Dopo la parentesi dei totalitarismi, interpretabili come forme perverse di religione politica, nell’attuale dominio della finanza globale sembra venuto meno ogni impulso profetico. E con esso l’anima stessa dell’Occidente.
Un percorso diverso, ma altrettanto esaurito, quello dell’utopia, ricostruito genealogicamente da Cacciari. Intanto essa non va confusa con le mitologie, antiche e medioevali, di ritorno alle origini. L’utopia si strappa dal passato per radicarsi nel proprio tempo con la potenza di un progetto volto al futuro. Da qui il rilievo che in essa hanno la scienza e la tecnica.
Se si passa dall’Utopia di Moro alla Città del sole di Campanella, alla Nuova Atlantide di Bacone, questo elemento costruttivo, sistematico, viene sempre più in primo piano. Organizzazione economica, incremento del sapere e tolleranza religiosa sono le precondizioni di una società armonica e pacifica. Ma è proprio questo progetto di neutralizzazione dei conflitti a entrare presto in contrasto con la realtà altamente conflittuale dell’Europa moderna. Non solo la politica, ma anche lo sviluppo dell’economia e della scienza passano per un continuo susseguirsi di crisi che rompono ogni immagine di armonia.
Se le utopie ottocentesche di Fourier e Proudhon presuppongono la crisi della forma-Stato, Marx mette impietosamente a nudo il carattere ideologico dell’utopia. Mentre ancora Bloch persegue una proiezione salvifica verso il futuro, Benjamin revoca in causa ogni modello progressivo. Contro il principio-speranza di Bloch e la coscienza di classe di Lukács, egli nega che la redenzione possa passare per la prassi. Solo l’irrompere del divino nella storia può produrre novità radicale. Ormai l’idea di rivoluzione implode su se stessa insieme a quella di riforma.
La via per il futuro è sbarrata. E dunque cosa resta da fare? La risposta di Cacciari, già da tempo avanzata, è quella di un dualismo assoluto. Autonomia del politico, sempre più ridotto a tecnica amministrativa, da un lato. E attesa di un Dio impossibile dall’altro. Weber e Wittgenstein: limpidezza dello sguardo e sobrietà delle parole. Tra i due, l’ascolto dei segni enigmatici con cui il Nuovo può sempre annunciarsi.
Morto a Bologna Paolo Prodi, fratello di Romano
Docente e fondatore de ’Il Mulino’, fratello ex premier Romano
di Redazione ANSA *
(ANSA) - BOLOGNA, 17 DIC - Scomparso a Bologna nella serata di ieri, a 84 anni, Paolo Prodi, fratello dell’ex presidente del Consiglio e della Commissione Europea, Romano Prodi. Storico, intellettuale, è stato docente universitario a Trento, Roma e all’Alma Mater di Bologna, oltre ad essere fondatore della casa editrice ’Il Mulino’ e ex deputato.
Una cerimonia in ricordo di Paolo Prodi è in programma all’Archiginnasio di Bologna alle 10.30 di lunedì 19 dicembre. Seguirà il funerale religioso, probabilmente alle 11.30, nella Chiesa di San Benedetto in via Indipendenza 64. "ll professor Paolo Prodi era uno storico di riferimento dell’Alma Mater - ricorda -. Nel suo percorso di ricerca aveva posto al centro due poli distinti quello del sacro e quello del potere politico considerando la dialettica tra di essi un elemento chiave per interpretare la storia dell’Occidente. Alla passione per gli studi e per l’insegnamento aveva saputo coniugare una passione per le istituzioni universitarie avendo ricoperto il ruolo di Rettore all’Università di Trento e di Preside all’Università di Bologna. Alla famiglia l’abbraccio sincero di tutta la comunità accademica bolognese".
Molti i mesasaggi di cordoglio del mondo politico ed accademico.
"Partecipo con animo commosso e con profondo rispetto al cordoglio per la scomparsa del Professor Paolo Prodi. È stato personalità eminente della cultura italiana del Novecento per l’accuratezza e finezza dei suoi studi, e in particolar modo di quelli dedicati alla storia della Chiesa cattolica, e allo stesso tempo per il suo forte impegno civile e democratico in rapporto dialettico con la politica nazionale ed europea e in una indefettibile dedizione ad ogni causa di progresso. Le mie condoglianze ai suoi famigliari ed il mio più caldo abbraccio a Romano". Lo scrive il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.
"Esprimo il cordoglio di tutto il Partito Democratico per la scomparsa di Paolo Prodi. La sua figura di storico, di docente universitario e intellettuale appassionato alla politica lascia un contributo importante di idee e valori per il Paese. Alla sua famiglia esprimiamo tutta la nostra vicinanza". Così Lorenzo Guerini, vicesegretario nazionale del Pd.
Evoluzione, concorrenza, amore, migrazioni... Da venerdì a Modena, Carpi e Sassuolo l’agonismo è al centro di lezioni, show, mostre
La natura della competizione
“Nelle cose umane e non umane, il divenire altro non è forse invadere, quindi sopprimere l’altro?”, si chiede Emanuele Severino
“Fin dall’infanzia lottiamo contro noi stessi per vincere l’egoismo e accettare la sofferenza”, dice Remo Bodei
di Laura Montanari (la Repubblica, 11.09.2016)
Diciamo agonismo e pensiamo a un campo di calcio, a una pista di atletica, a una competizione sportiva. In realtà il pensiero della gara ha estensioni più ampie se lo caliamo nel quotidiano e pervade non soltanto la vita delle persone nelle corse sul lavoro o nella carriera, ma il nostro io e la collettività nelle mutazioni che l’etá e i tempi ci impongono. È un tema, l’agonismo, che si presta a molte articolazioni, per questo è stato scelto dal Festival della Filosofia per tessere la oramai tradizionale tre giorni di incontri, lezioni, letture, spettacoli, mostre, percorsi gastronomici che si terranno dal 16 al 18 settembre fra Modena, Carpi e Sassuolo.
Una forma di agonismo è anche il conflitto, la guerra, il pòlemos greco. Emanuele Severino, docente di Filosofia teoretica all’ateneo di Venezia e all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, interverrà al festival rovesciando le parole di Eraclito, “la guerra è la madre di ogni cosa” per spingersi a dire che è la cosa concepita dal pensiero greco classico come oscillante tra essere e nulla, a diventare la madre di tutti i conflitti e le contraddizioni. “È la cosa che produce la guerra», spiega Severino, «è il modo in cui sin dall’inizio l’uomo intende l’esser cosa che produce ogni guerra. E una cosa è l’uomo, il cibo, la casa, l’albero, la stella, il dio... Sarebbe già un passo innanzi notevole se si riuscisse a far venire il sospetto in chi ascolta che quanto si sta dicendo non è un vuoto fantasticare. La cosa è sempre stata intesa su come trasformarsi, come diventare altro da ciò che essa è, e come un esser diventata da altro. Ma nelle cose umane e in quelle non umane, il diventare altro non è forse invadere e quindi sopprimere l’altro? Non è forse la forma più radicale di guerra?».
Il senso dell’essere, spiega Severino, sta alle radici delle guerre del nostro tempo, e allora ecco che il viaggio dei filosofi al Festival offre le chiavi o gli interrogativi per affrontare questioni politiche, come fa per esempio Roberto Esposito, docente alla Scuola Normale di Pisa, che terrà un intervento sulla crisi biopolitica dell’Europa. «La crisi economica degli ultimi anni è diventata biopolitica nel senso che impatta fortemente con la vita delle persone», sostiene l’autore del saggio pubblicato da Einaudi Da fuori. Una filosofia per l’Europa. «Pensiamo soltanto alla questione dei migranti che minaccia di cambiare antropologicamente l’Europa o al terrorismo che provoca lutti e distruzioni con i corpi che si fanno esplodere. Viviamo in un momento di paure e insicurezze ». Come ne possiamo uscire? «Con misure urgenti che trasformino l’Unione Europea in un vero soggetto politico e non soltanto economico», risponde il filosofo, «definendo i confini esterni, lavorando all’integrazione delle norme giuridiche, alla riforma delle polizie, trovando un lessico comune per istituzioni e sistemi giuridici».
Il Festival della Filosofia, finanziato dalla Regione Emilia Romagna, da Confindustria e Camera di Commercio di Modena, dal Gruppo Hera, dall’Ente Cassa di Risparmio di Modena e dal Consorzio di enti e istituzioni creato apposta, compie sedici anni: è diventato il primo evento in Europa dedicato in senso stretto alla filosofia. Studenti e giovani rappresentano oltre il 25% del pubblico la cui età media si attesta intorno ai 44 anni (il 60% sono laureati). Si affronterà il tema dell’agonismo con riflessioni che cercheranno di riformulare la tensione tra competizione e collaborazione indagando tanto le valenze della concorrenza economica quanto «il valore positivo che il conflitto può rivestire nella vita delle democrazie», spiegano gli organizzatori.
Lungo l’elenco dei relatori, selezionati fra i nomi importanti del panorama nazionale e internazionale, da Zygmunt Bauman a Jean-Luc Nancy, da Stefano Zamagni a Umberto Galimberti, Massimo Cacciari, Giacomo Marramao, Michela Marzano, Marc Augé, Peter Sloterdijk, Enzo Bianchi, Mario Vegetti, Stefano Rodotà e altri, compresi giornalisti, attori, scienziati.
«Sì, anche scienziati », spiega Michelina Borsari, direttore della manifestazione, «perché il Festival è una piattaforma sulla quale intervengono le varie voci del presente. Discuteremo del pòlemos calato nel contesto astrofisico delle collisioni cosmiche come la fusione di due buchi neri capaci di ingenerare increspature nello spazio che lasciano come tracce le onde gravitazionali». Ne parleranno Paola Puppo e Fulvio Ricci, l’équipe dell’Istituto di Fisica Nucleare che ha collaborato con la statunitense Ligo proprio sulle onde gravitazionali. «Ma avremo anche spazio per discutere del corpo nello sport con un grande sociologo per la prima volta ospite del Festival, George Vigarello, direttore dell’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi; e un altro volto al debutto, Jean Noel Missa, membro del comitato belga di Bioetica, che affronterà il tema del doping. E ancora, c’è l’aspetto biologico legato alla lotta per la vita con l’intervento di Telmo Pievani che parlerà sul carattere casuale e contingente della selezione. E poi ci saranno, fra gli altri, Enrico Alleva e Vittorio Gallese, uno degli scopritori dei neuroni specchio».
Al direttore del Comitato scientifico del Festival Remo Bodei (docente alla Ucla, l’Università della California) è affidata la lectio magistralis sul “Vincere contro se stessi” (venerdì 16, ore 18, in piazza Grande, Modena): «È una lotta che ciascuno di noi conduce fin dall’infanzia per superare ostacoli e difficoltà, per vincere gli impulsi e le tendenze egoistiche, per sottoporsi alla disciplina e saper anche accettare le sofferenze », sintetizza. È l’addio all’etá dell’innocenza, l’elaborazione dei desideri, quel crescere che ci costringe - prima o poi - a misurare la distanza fra aspirazioni e vita quotidiana.
di Marino Niola (la Repubblica, Il Venerdì, 09.09.2016)
La paura degli attentati, la polemica sul burkini, l’emergenza migranti, le discussioni sulla poligamia, il velo trasformato in simbolo identitario, la demagogia xenofoba montante. Le cronache di quest’estate hanno tutte come minimo comune denominatore il rapporto sempre più problematico tra noi e gli altri. Perché da un po’ di tempo la differenza genera diffidenza. E ogni alterità appare come una minaccia alla nostra identità.
Fino a qualche anno fa ci sembrava di essere in grado di assorbire i problemi posti dal multiculturalismo incipiente e di poterne godere i vantaggi, soprattutto economici. Ma oggi i processi di integrazione che sembravano, sia pur faticosamente, avviati, sembrano invece in stand by. E su questo impasse il terrorismo getta benzina sul fuoco, spingendo le teste calde d’Europa verso una radicalizzazione che trova nell’integralismo religioso simboli, parole d’ordine e ideologie per esprimere un antagonismo che in altri tempi avrebbe preso strade diverse.
E quel che emerge in maniera preoccupante è che non ci siamo per nulla attrezzati a governare le differenze con le quali conviviamo gomito a gomito. Perché? Semplice, perché non abbiamo imparato a conoscerle. Ma, come avrebbe detto il maestro Manzi, alfabetizzatore televisivo dell’Italia in bianco e nero, non è mai troppo tardi.
E oggi, proprio come allora, c’è bisogno di una nuova educazione alla convivenza con chi è diverso. In una parola un’alfabetizzazione all’antropologia culturale. Che è l’unico sapere specializzato nello studio delle altre culture e, soprattutto delle compatibilità tra tradizioni, modi di vita, usi e costumi dei diversi popoli. Insomma è urgente avviare un iter formativo che vada dalla scuola all’università alla società.
E proprio per porre all’ordine del giorno questa emergenza pedagogica, gli antropologi europei, riunitisi di recente a Milano rispondendo alla chiamata delle due associazioni italiane, Anuac (Associazione nazionale universitaria degli antropologi culturali) e Aisea (Associazione italiana per le scienze etno-antropologiche), hanno lanciato un appello alle istituzioni scolastiche perché introducano l’antropologia in tutti i percorsi educativi come arma per combattere razzismo, integralismo e intolleranza.
È assurdo e anacronistico che in un mondo sempre più globalizzato, dove credenze, valori, consuetudini antitetiche coabitano in una prossimità sempre più conflittuale, sia clamorosamente latitante proprio una materia come l’antropologia che, dello studio dei modi di fare, pensare e sentire degli altri ha fatto la sua mission conoscitiva.
Figlia primogenita dell’umanesimo e dell’illuminismo occidentale.
Non a caso, come diceva il celebre etnologo Claude Lévi-Strauss, solo l’Occidente ha prodotto antropologi, anche come controcanto critico, e autocritico, del colonialismo. E fa riflettere il fatto che proprio nei Paesi islamici da cui provengono, direttamente o indirettamente, i terroristi di Daesh,l’antropologia sia addirittura bandita dai programmi d’insegnamento. Perché mettendo sullo stesso piano tradizioni, religioni e valori, revoca radicalmente quella superiorità di alcuni popoli sugli altri sancita dal Corano. Una ragione in più per diffondere nelle nostre classi scolastiche e universitarie questo insegnamento doppiamente fondamentale. Sia per i ragazzi di cultura europea sia per i migranti di seconda e terza generazione che, sempre più spesso, reagiscono negativamente all’impatto con il Paese ospitante. Col risultato di rinchiudersi nella propria apartheid identitaria. E di radicalizzare la propria origine, o il proprio credo, trasformandoli in un’arma politica a disposizione del fondamentalismo.
La sfida dell’educazione delle giovani generazioni richiede innanzitutto l’alfabetizzazione degli alfabetizzatori, ovvero la formazione degli insegnanti. Che devono fare propri gli strumenti dell’antropologia «per educare i loro allievi al confronto positivo con le diversità, da quelle di genere, a quelle culturali, fino a quelle religiose».
A dirlo è Cristina Papa, dell’Università di Perugia e presidente dell’Anuac che, insieme a Mario Bolognari, professore a Messina e leader dell’Aisea, sottolinea le possibilità innovative offerte dalla legge 107, la cosiddetta riforma Giannini. Che, tra le competenze trasversali, ritenute indispensabili per tutti i docenti, indipendentemente dalla disciplina che insegneranno, prevede anche quelle antropologiche.
Purché, sottolinea Papa «i decreti attuativi, che sono in via di elaborazione a livello ministeriale, rispondano pienamente agli obiettivi della legge e diano uno spazio adeguato all’antropologia in tutte le fasi della formazione». Si tratta di problemi che Paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Canada affrontano da tempo. Ricorrendo all’aiuto di celebri antropologi per impostare i loro programmi educativi.
Per esempio la grande Margaret Mead (1901-1978), docente alla Columbia University, fu a lungo consulente del Ministero dell’educazione Usa nell’elaborazione di strategie scolastiche per contrastare razzismo, bullismo e disuguaglianze di genere. E Lévi-Strauss (1908-2009) elaborò per conto dell’Unesco progetti educativi contro il razzismo e i pregiudizi etnici. Mentre, nel corso del secondo conflitto mondiale,
Ruth Benedict (1887-1948) docente alla Columbia, e Clyde Kluckhohn (1905-1960), fondatore del dipartimento antropologia di Harvard, collaborarono con il Pentagono e con il generale Mc Arthur per aiutare i comandi americani a capire il sistema di valori dei nemici giapponesi. Il caso più recente è quello della statunitense Montgomery McFate, che nel 2006 venne messa a capo del discusso programma Human Terrain Systems, un esperimento tra ricerca e intelligence condotto in Afghanistan e Iraq per coadiuvare le truppe nella lotta al terrorismo.
A sostenere l’indispensabilità degli antropologi nei teatri di guerra fu il generale David Petraeus, capo dell’US Army in Iraq e poi direttore della Cia, convinto della necessità di una svolta culturale fondata sulla conoscenza dei valori e delle forme di vita delle popolazioni locali, per evitare incomprensioni e malintesi.
Secondo il colonnello Martin Schweitzer l’impiego degli studiosi ha consentito una diminuzione delle operazioni militari del 60 per cento. «Gli antropologi ci hanno liberato dall’ossessione del nemico e aiutato a capire meglio le culture degli altri». A dire il vero sul progetto sono piovute critiche per la sua militarizzazione del sapere.
E in effetti non è questa l’antropologia che ci auguriamo di mettere in campo. Molto meglio le proposte didattiche elaborate nel nostro Paese. Un esempio per tutti, i Laboratori di antropologia educativa proposti dal progetto RibaltaMente, guidato da Giulia Cerri e Gianmarco Grugnetti. Insomma solo una corretta formazione antropologica ci salverà da due errori simmetrici e opposti. Il buonismo beota e il razzismo idiota.
PLATONE, ARISTOFANE, E NOI, OGGI. LE "REGOLE DEL GIOCO DELL’OCCIDENTE" E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE: "L’indicazione
del
Commediografo
è
più
che
chiara
e
non
è
affatto
(non
fraintenderlo,
"non
volgerlo
al
comico",
egli
ripete
a
chi
ascolta
il
suo
discorso -
noi
abbiamo
sempre
sottovalutato
le
sue
Nuvole,
ma
egli
aveva
visto
molto
bene
che
cosa
Socrate
stava
preparando)
una
boutade.
Platone
non
comprende
nulla,
stravolge
e
continua,
con
il
suo
Eros
(avido,
cieco
e
saettante)
e
con
la
sua
filosofia,
sulla
strada
del padre.
Titanicamente come
Zeus,
spaccato
tutto
in
due,
tenterà
di
rimettere
insieme
i
cocci,
con
la
forza -
una
storia
di
steminata
e
"incurabile"
follia.
Aristofane
parla
della
noslra
mente,
della
nostra
anima
e
della
nostra
vita
e
Plalone
taglia
e
ricuce -
a
specchio,
"divinamente"... tutto all’incontrario! - fls! (F. La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp, 187-188)
Sentimenti
Il re degli dei divise i corpi degli androgini. Leopardi ci spiega che cosa vuol dire
Da Zeus la formula del desiderio: l’altra metà non ci apparterrà mai
di Ilaria Gaspari (Corriere della Sera, La Lettura, 28.08.2016)
Prendete un foglio di carta e una matita, e provate a disegnare un essere fatto così: un blocco di un pezzo unico, con dorso e fianchi disposti in tondo; quattro mani e quattro braccia, quattro gambe e quattro piedi. Un collo tondeggiante su cui stanno due facce identiche, ma una testa sola. Quattro orecchie, e genitali doppi.
Molto probabilmente concluderete di essere pessimi disegnatori. Eppure è così, secondo quel che Aristofane racconta nel Simposio di Platone, che apparivano gli androgini, le creature più compiute mai concepite. Questi esseri primordiali partecipavano di nome e di fatto della natura del maschio e di quella della femmina; e quando camminavano di fretta, come acrobati saltellavano su tutte le estremità a disposizione, per un totale di otto fra gambe e braccia. L’immaginazione è costretta ad arrancare, quando tentiamo di dare una forma plausibile alla buffa sagoma sferica dell’androgino.
Ma nella goffaggine di questi scarabocchi potrebbe essere nascosta una chiave per capire come funziona il desiderio. Zeus gli androgini li tagliò in due per punire la loro arroganza, come si tagliano le albicocche per fare le marmellate: voleva indebolirli. È in quella mutilazione che nasce il desiderio - nello struggimento di voler essere una cosa sola con chi si ama, e nel sapere che si tratta di una fantasia irrealizzabile. Proprio l’amputazione imposta agli androgini ci permette di immaginarli e capirli: sappiamo figurarci facilmente la camminata di esseri incompleti che cercano la propria metà su due gambe, mentre non sappiamo fare altrettanto con le strane parabole circolari descritte da quelle coppie di individui fusi insieme, che saltellavano su quattro.
Aveva per l’appunto solo due gambe, e due piedi - di cui uno sollevato quasi verticalmente a sfiorare il terreno nella grazia inconsapevole di un passo disegnato nella pietra - la Gradiva di cui si innamora Norbert Hanold, archeologo, in una celebre novella di Wilhelm Jensen scritta nei primi anni del Novecento, che appassionò Freud. Da una lontananza di secoli, l’incedere della ragazza, colto nel dettaglio di quel piede alzato, scatena in Hanold un desiderio prossimo all’ossessione. E non importa che la Gradiva fosse una figura scolpita in un bassorilievo pompeiano; la storia di questo amore impossibile, di questa fantasia dolorosa, ha molto da dire sugli amori fra esseri in carne e ossa.
Marcel Proust, grande mistagogo dei tormenti del desiderio, ha scritto che le attrattive di una qualsiasi passante sono in genere in rapporto diretto con la rapidità del passaggio, con l’intuizione di una vita che non ci appartiene, di cui cogliamo al massimo un bagliore. Perché nasca il desiderio basta un dettaglio insignificante, spesso spiato, se ci colpisce nell’istante che retrospettivamente sarà chiamato il momento giusto: in genere, quando non ci si sente preparati, quando non si sta attenti, quando non si aveva niente da fare.
Non aveva molto da fare, probabilmente, nella Parigi del Secondo Impero, un certo dandy di nome Swann il pomeriggio in cui - racconta Proust nel primo libro della Recherche - un po’ per curiosità e un po’ anche per noia, va a trovare una piccola cocotte con un nome da gran dama che suona falso come un gioiello d’ottone, Odette de Crécy; la vede piegarsi in un gesto noncurante e imbronciato. E mentre lei si china per guardare da vicino un’incisione, lui - che l’aveva già incontrata, e covava un sottile fastidio per le imperfezioni della sua pelle e la sua aria malaticcia - si sorprende a rivedere in lei una somiglianza con la ninfa Sefora in un affresco di Botticelli.
L’istante del colpo di fulmine rimane fissato come una cesura nella memoria di chi lo vive ed è destinato a essere costruito e ricostruito nel ricordo, con tutte le falsificazioni del caso.
Giacomo Leopardi nello Zibaldone lo associa allo spavento che nasce, nel primo concepimento del desiderio, dalla prefigurazione della sua insaziabilità: «E lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel momento, pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe; (...) perché neppure il possedimento carnale (...) gli parrebbe poter soddisfare e riempere il desiderio ch’egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei vorrebbe diventare una cosa stessa (...); ora ei non vede che questo possa mai essere». E non sarà per caso se nello stesso brano Leopardi riconosce quanto sia profonda la descrizione «scherzevole» che Aristofane fa degli androgini.
È un destino inevitabile, quello prefigurato nello Zibaldone: perché un desiderio completamente appagato non è già più un desiderio. Chi ha visto molte stelle cadenti e per ognuna ha espresso un desiderio sa bene che, quando questo si realizzerà, sarà già cambiato qualcosa in lui, o in lei, rispetto alla notte d’estate in cui ha visto la scia luminosa nel cielo.
Però, molto probabilmente, a ogni nuovo San Lorenzo se lo dimenticherà, e continuerà a esprimere desideri, e a concepirne molti di più di quelli che poi esprime. Il desiderio non conosce il principio dei vasi comunicanti o altri equilibri meccanici di riempimento e svuotamento; il solo fatto di desiderare cambia la persona che desidera e questo può generare grandi delusioni. Lo scrittore americano Truman Capote scelse di intitolare il suo libro di memorie Answered Prayers, da una frase di Teresa d’Avila: «Niente è più tremendo di una preghiera esaudita». Il libro è rimasto incompiuto.
È sempre con il senno di poi che riviviamo l’istante in cui il desiderio si è acceso, portando a conseguenze allora imprevedibili: per questo abbiamo la tentazione - e l’abitudine - di applicare a quello stesso istante un fatalismo che non gli appartiene, di rileggerlo in maniera quasi superstiziosa. Non c’è niente di fatale, invece: un colpo di fulmine non obbedisce a nessuna predestinazione.
È vero, spesso ci si innamora senza farci caso, in un attimo di disattenzione; questo non significa, però, che in quei momenti si sia meno presenti a se stessi. Lo si è, anzi, di più: Swann era più che mai se stesso quando, facendo visita a Odette con la mezza scusa di mostrarle un’incisione che sapeva non interessarla troppo, ritrovava in sé l’occhio del collezionista innamorato di arte rinascimentale. Quando non ci si sovraccarica di aspettative e non si rincorre niente - neppure l’immagine di sé che si vuole mostrare agli altri - è allora che si è più vicini alla propria essenza.
L’attimo in cui intravvediamo distrattamente una vita che non potrà mai appartenerci del tutto - perché non sarebbe più la vita di un altro ma una proiezione della nostra o, nel migliore (peggiore?) dei casi, un suo prolungamento - non è per forza un segno di vulnerabilità, anche se possiamo raccontarcelo così.
È il momento in cui smettiamo di fissare la ferita inferta dal coltello di Zeus e ci accorgiamo della presenza reale di un altro: e proprio lo slancio verso quell’altro ci fa muovere, sulle due gambe che ci restano.
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986):
SCHEDA *
La città divisa
Nicole Loraux
Neri Pozza Editore, pagg.448, Euro 40,00
IL LIBRO - Questo libro è il capolavoro di Nicole Loraux, la grande antichista francese da poco scomparsa. Esso tenta di ripensare da capo la polis greca, questo modello prestigioso di tutta la tradizione politica occidentale. La scoperta della Loraux è che a fondare la città greca, a fungere da paradigma alla democrazia, non sono né la libertà, né l’unità, né la comunità, ma qualcosa come un paradossale legame attraverso la divisione. Si tratta, cioè, di ripensare Atene sotto il segno della “stasis”, della guerra intestina, che divide e insanguina non solo la città, ma anche, l’”oikos”, la famiglia -o, piuttosto, circola, in un movimento incessante, dalla famiglia alla città, dai fratelli rivali ai cittadini nemici. La guerra civile non è, però, soltanto rottura e anomia, ma costituisce il legame politico segreto che anima e segna profondamente la vita e le istituzioni della democrazia greca, dal giuramento all’amnistia, dalla vendetta alla riconciliazione. Una città divisa deve essere, infatti, capace non solo di ricordare, ma anche di dimenticare, di ricomporre attraverso l’oblio (l’amnistia) l’unità perduta. E a poco a poco, come in ogni grande libro di storia, l’analisi del passato permette di guardare in una nuova luce le divisioni e i conflitti, la memoria e la smemoratezza della società in cui viviamo.
DAL TESTO - “La città degli antropologi [...] non agisce nel tempo dell’evento, ma in quello ripetitivo delle pratiche sociali - il matrimonio, il sacrificio -, in cui fare è ancora un modo di pensare. Di pensare se stessi assegnando (tentando di assegnare) un posto all’altro, a tutti gli altri e, di conseguenza, al medesimo: ricollegando i margini al centro, a quegli “andres” che sono la città ma hanno bisogno, per esempio, delle donne per costituirla veramente. Così il matrimonio fonda la città assicurandone la riproduzione. Dopodiché, una volta costituitasi la “polis” in società umana, la si può situare in rapporto a un altrove. O meglio: di questo altrove, tempo degli dei, mondo selvaggio delle bestie, la città proclama la distanza per meglio farlo, mettendolo al posto opportuno. La città ha assorbito il suo fuori, e il sacrificio fonda la “polis”: lontani dagli dei, ma dotati della cultura, gli uomini sacrificano loro un animale, e questo gesto distribuisce il sistema di esplosioni e integrazioni intorno al nucleo degli “andres”. Dal taglio sacrificale e della sua interpretazione in atto nascerebbe a ogni cerimonia il politico: ugualitario come la condivisione, isomorfo... Diremo anche neutralizzato? Il politico come circolazione immobile, o la città a riposo”.
L’AUTORE - Nicole Loraux (1943-2003) ha insegnato «Histoire et anthropologie de la cité greque» presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dal 1981 al 1994. Dei suoi numerosi libri, in italiano sono apparsi: “Come uccidere tragicamente una donna” (Laterza, 1988), “Il femminile e l’uomo greco” (Laterza, 1991), “Le madri in lutto”(Laterza, 1991), “Nati dalla terra. Mito e politica ad Atene” (Meltemi, 1998) e “La voce addolorata. Saggio sulla tragedia greca”(Einaudi, 2001).
INDICE DELL’OPERA - Introduzione, di Gabriella Pedullà - Prefazione - La città divisa: sopralluoghi - I. L’oblio nella città - II. Ripoliticizzare la città - III. L’anima della città - Sotto il segno di Eris e di alcuni suoi figli - IV. Il legame della divisione - V. Giuramento, figlio di Discordia - VI. Dell’amnistia e del suo contrario - VII. Su un giorno vietato del calendario ateniese - Politiche della riconciliazione - VIII. La politica dei fratelli - IX. Una riconciliazione in Sicilia - X. Della giustizia come divisione - XI. E la democrazia ateniese dimenticò il “kratos” - Ringraziamenti - La guerra nella famiglia
* http://www.archiviostorico.info/Rubriche/Librieriviste/recensioni6/Lacittadivisa.htm Rispondere al messaggio
Giorgio Agamben - Stasis. La guerra civile come paradigma politico.
Recensione di Mauro Balestrieri *
Nell’opera complessiva del filosofo italiano Giorgio Agamben emerge con singolare nettezza l’articolato e celeberrimo progetto che va sotto il nome di Homo sacer. È questa un’opera densa e articolata, avviatasi verso la metà degli anni ‘90 con l’omonimo saggio (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, 1995) e definitivamente conclusasi di recente con il volume L’uso dei corpi (Neri Pozza, 2014). Eppure, nella mente e nella penna dell’Autore sembra permanere ancora lo spazio per un’ulteriore incursione nel politico - un’incursione, forse, tra le più problematiche e complesse finora affrontate dall’intellettuale italiano. È questo il caso del recentissimo saggio Stasis. La guerra civile come paradigma politico, che raccoglie i contributi di due conferenze tenutesi presso l’Università di Princeton nel 2001; etichettato con la dicitura Homo sacer, II, 2 il testo si frappone tra il precedente Stato di eccezione ed il successivo Il Regno e la Gloria.
A un primo sguardo, i temi del nuovo volume appaiono collegati e opposti nel medesimo frangente. Da un lato, si assiste a un breve esame critico della nozione greca di stasis, che sinteticamente va a indicare la guerra civile combattuta all’interno di una stessa comunità politica tra fratelli e concittadini. Dall’altro, trova invece spazio un originale e innovativo studio sull’opera più nota del filosofo inglese Thomas Hobbes (Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common Wealth Ecclesiastical and Civil, 1651), ossia su quella costruzione filosofico-giuridica che ergendosi al di sopra della moltitudine sociale scongiura per l’appunto il rischio del conflitto sociale.
Ciò che va fin d’ora notato, tuttavia, è che l’approccio prescelto dall’Autore non è tanto quello di chiosare le note affermazioni che tradizionalmente si ripetono negli studi di settore, né quello di elaborare ex novo una teoria della guerra civile. L’interesse scaturente dalle pagine del breve scritto nasce dal desiderio di tracciare un nuovo filone critico sotteso allo studio della cd. stasiologia, e di sopperire in tal modo alla lacunosità del dibattito filosofico e giuridico attuali.
Secondo Agamben, ciò che manca oggi è propriamente uno studio ragionato e consapevole sul conflitto civile, ossia un tentativo di pensare filosoficamente la crisi e lo scontro. Un tentativo, deve aggiungersi, che ben al contrario si attualizza nel desiderio compulsivo di gestire, risolvere e se possibile anticipare il caso serio, al fine di evitarne ogni possibile problematicità. Proprio alla luce di questa ansia di risoluzione, il dato intellettuale tristemente si smarrisce: a riprova di ciò stanno tanto l’assenza di testi giuridici e politologici di riferimento, quanto la crisi stessa del termine guerra civile, sintagma che nell’ambito internazionale si riduce oramai a fattispecie invocante il mero intervento regolativo degli organismi internazionali. Ecco dunque che di fronte alle civil (o, come sembra ormai consuetudine etichettarle, uncivil) wars non si elabora più una teoria volta alla loro comprensione, bensì si mira a un management delle medesime, ossia a un articolato sistema di iniziative che si esplicita nelle plurime attività «della gestione, della manipolazione e dell’internazionalizzazione dei conflitti interni» (p. 11).
Per colmare questa sorprendente mancanza, il breve saggio di Agamben si incarica di mostrare due eclatanti manifestazioni storiche di tale paradigma, ricorrendo alla tradizione politica della Grecia classica e al pensiero filosofico di Thomas Hobbes. La convinzione che muove l’Autore in questo particolare percorso è infatti che entrambi i momenti rappresentino «le due facce di uno stesso paradigma politico, che si manifesta da una parte nell’affermazione della necessità della guerra civile e, dall’altra, nella necessità della sua esclusione» (p. 12). Tale opposizione, in altri termini, è il segno concreto di una loro intima vicinanza, che il consueto stile espositivo agambeniano chiarisce nelle sue plurime implicazioni.
Prima di tutto, il doppio e opposto significato del termine stasis, che va ad indicare tanto il concetto di immobilità, stabilità e mantenimento dello status quo, quanto quello di sedizione, rivolta e infine rivolgimento politico. Nella sua prima accezione, il termine giunge fino ai nostri giorni nelle forme note di stato ed istituzione (entrambi derivando, come lo stesso termine stasis, dal radicale “-sta” del verbo greco hìstemi). Nel suo secondo senso, il lemma sembra invece essersi dissipato, permanendo solo come antica vox media di un paradigma politico più ampio e quasi sotterraneo.
Attraverso un’analisi delle sue molteplici ricorrenze sia in Tucidide sia in Platone, Agamben arguisce che in realtà l’emblematica indeterminatezza della voce ricade di fatto in una forma di ambiguità concettuale, in base alla quale la guerra civile esulerebbe tanto dall’oikos (ossia dal focolare domestico), quanto dalla pòlis (ossia dalla collettività urbana). Essa sarebbe quindi la zona di indifferenza tra lo spazio impolitico della famiglia e quello politico della città: «nel sistema della politica greca, la guerra civile funziona come una soglia di politicizzazione o di depoliticizzazione, attraverso la quale la casa si eccede in città, e la città si depoliticizza in famiglia» (p.24).
In definitiva, la stasis opera come un reagente che rivela l’elemento politico nel caso estremo, ossia come una soglia di politicizzazione che determina di per sé il carattere politico o impolitico di un certo essere. Ulteriore conseguenza è che questa stessa indeterminatezza concettuale si riverbera nel formante giuridico, così come mostrato dall’istituto penalistico dell’amnistia. Se infatti il prendere parte alla guerra civile era nell’antica Grecia politicamente necessario, a conclusione del conflitto interveniva comunque la pacificazione sociale, che attraverso le forme dell’oblio (amnistia - da amnestèo - indica appunto la dimenticanza) sanava retroattivamente la partecipazione attiva dei suoi componenti. In questo senso, la stasis non è qualcosa che semplicemente deve essere rimosso, ma è «l’indimenticabile che deve restare sempre possibile nella città e che, tuttavia, non deve essere ricordato attraverso processi e risentimenti» (p. 29).
Nella Grecia classica, possiamo allora concluderne, non si dà una sostanza politica omogenea, ma un manifestarsi irregolare e continuo di correnti tensionali e instabili, esprimentesi in ultimo grado nelle forme della politicizzazione e della depoliticizzazione, ossia nella commistione belluina della famiglia e della città.
Ora, è precisamente per sconfiggere questo scenario mortifero e abissale che Hobbes costruirà il suo Leviatano, quell’immenso automa o “Dio mortale” composto da una moltitudine di piccole figure umane tradizionalmente intese come sudditi.
Com’è facile scorgere esaminando i due diversi frontespizi dell’opera (l’uno vede rappresentati i sudditi con il viso rivolto verso il lettore; l’altro, coevo al primo, li coglie al contrario di spalle), gli esserini che compongono l’immenso meccanismo artificiale si uniscono saldamente gli uni agli altri. La spiegazione traslata è che ciò avviene per mezzo del loro reciproco accordo, che consente metaforicamente di compattarli dando luogo a quell’ideale corpo politico (body political) così caro al pensatore inglese.
Proprio la nozione di corpo politico, però, si presta alle più dure contestazioni: data la sua sfuggente consistenza, per Hobbes il popolo esiste solo nell’istante in cui si riunisce per nominare un leader o un’assemblea rappresentativa - ma in questo stesso istante svanisce improvvisamente. Il corpo politico, in altri termini, è qualcosa di altro e di impossibile, destinato continuamente a comporsi e subitaneamente a dissolversi nella costituzione del governo effettivo.
È in questo preciso passaggio che Agamben ricerca un’affinità con il summenzionato meccanismo di esclusione/inclusione visto a proposito della guerra civile nella Grecia antica: «se il popolo, che è stato costituito da una moltitudine disunita, si dissolve nuovamente in una moltitudine, allora questa non soltanto preesiste al popolo/re, ma, come multitudo dissoluta, continua a esistere dopo di questo [...] La moltitudine non ha un significato politico, essa è l’elemento impolitico sulla cui esclusione si fonda la città; e, tuttavia, nella città vi è soltanto la moltitudine, perché il popolo è già sempre svanito nel sovrano» (p. 55).
Hobbes, rendendosi conto di tale aporia, oblitera il paradosso della moltitudine/corpo politico risolvendolo, com’è noto, con il ricorso immediato al pactum subiectionis. Ma se ciò ha il pregio di spezzare il circolo che dalla guerra civile conduce alla riconfigurazione della multitudo dissoluta, permane quale operazione problematica e nient’affatto ultimativa - un’operazione che lascia scoperto l’enorme problema di una possibile ripresentazione dello stato di natura e quindi del conflitto generalizzato.
Senza dubbio, è in questi termini che fino a oggi è stato pensato il fine ultimo del Leviatano: la posticipazione indefinita del conflitto civile. Il covenant alla base della sua formazione agirebbe, si sostiene, quale forza frenante rispetto all’avvento della discordia intestina, ossia quale meccanismo giuridico in grado di disinnescare a priori la fine dei tempi rappresentata dal collasso politico. In fondo, si può anche dire, il Leviatano fa paura proprio per questa ragione: se come si è visto la multitudo dissoluta può effettivamente frammentarsi in ogni istante e generare quindi un nuovo conflitto, lo Stato deve continuativamente incutere timore, un timore rivolto all’impedimento immediato di ogni sua concreta demolizione.
Con un doppio ribaltamento, Agamben costruisce invece la propria conclusiva argomentazione accentuando la dimensione messianica e decisamente escatologica dell’intero pensiero hobbesiano. In tal senso il filosofo inglese, in accordo con il messaggio evangelico, configurerebbe il Leviathan quale “capo” di un political body, con ciò adoperando la nota immagine paolina che predica Cristo stesso quale “capo” dell’ekklesìa, ossia dell’assemblea dei fedeli.
Se Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, allora il Leviathan è il capo del corpo politico. Questo rispecchiamento profano del messaggio paolino conduce però a una precisa conseguenza: «nello stato attuale, Cristo è il capo del corpo dell’assemblea, ma, alla fine dei tempi, nel Regno dei cieli, non vi sarà più distinzione fra la testa e il corpo, perché Dio sarà tutto in tutti [...] Ciò significa che alla fine dei tempi la finzione cefalica del Leviatano potrebbe essere cancellata e il popolo ritrovare il suo corpo. La cesura che divide il body political - soltanto visibile nella finzione ottica del Leviatano, ma di fatto irreale - e la moltitudine reale, ma politicamente invisibile, sarà alla fine colmata nella Chiesa perfetta» (p. 72).
Un nuovo messaggio sembra allora profilarsi quale cifra complessiva di questa antica filosofia: lo Stato (di matrice hobbesiana) non ha affatto la funzione e il ruolo di una forza frenante o catecontica. Esso non vuole in alcun modo posticipare la fine dei tempi, ma al contrario avvicinarla escatologicamente, in modo da rendere reali l’avvento del Regno e la consumazione dei tempi. Buffamente, lo Stato-Leviatano - che nell’immaginario di tutti predicava la garanzia per la pace e la sicurezza dei sudditi - partecipa invece a una visione apocalittica del potere, in cui l’avvento catastrofico del Giorno del Signore è la lettera conclusiva dell’intera esperienza politica occidentale.
Diverse tradizioni sembrano allora confrontarsi nell’immagine storica di questa figura: da un lato quella terrifica di uno Stato assoluto e indomabile, che ingloba senza esitazione le anime di chi tenta di impossessarsene (come sottolinea vividamente Bodin nella sua Daemonomania). Dall’altro, quella cabalistica e messianica che intravede al contrario il grande monstrum scomparire nel festivo banchetto delle sue carni.
Ma se la storia del pensiero politico sembra confinare tali interpretazioni all’archeologia del pensiero storico, una terza e parimenti inquietante forma di manifestazione è stata ben presente nella concezione dello Stato moderno. Una concezione che vedeva il Leviatano quale meccanismo artificiale e impersonale, in cui attraverso la generale neutralizzazione del politico si perveniva a una concezione del diritto quale strumento tecnico neutrale.
L’annoso conflitto tra legalità e legittimità, che oggi prende le forme degli imperativi tecnici e della logica economica, produce ancora manifestazioni assolutizzanti e dotate di un vero e proprio carattere normativo, quali è facile incontrare nelle forme atipiche della soft law e della governance mondiale. Tali istanze scompaginano le categorie giuridiche fondamentali, costruendo e decostruendo lo stesso simbolo del Leviatano, e agendo come operatori eccezionali in grado di (ri)fondare l’ordine politico mondiale.
È forse attraverso la secolarizzazione di questa remota provenienza che sembra giunta allora l’epoca della stasis globale - un’epoca, suggerisce Agamben, in cui la politica contemporanea ricerca il proprio senso teologico senza riuscire pienamente a coglierlo, perché preda di una dimenticanza remota e inquietante che rimonta alle origine stesse della propria costituzione. Il contributo di Agamben, pur nell’estemporaneità della sua trattazione, è allora un piccolo ma denso tassello di un’opera ancora da scrivere e, forse, ancora da pensare.
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Philosophy Kitchen, Recensioni / giugno 2015
"Le passage du Nord-Ouest" (M. Serres, 1980). "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986):
Federico La Sala, La mente accogliente. Tracce per una svolta antropologica, Antonio Pellicani editore, Roma 1991, pp. 138-189 (capp. II e III):
CHI SIAMO NOI, IN REALTA’?! RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTA’: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
In un’epoca di incertezza diffusa in cui Amico e Nemico si scambiano continuamente i ruoli, l’unica strada possibile per sottrarsi alla barbarie è riflettere sulla genesi filosofica della parola “conflitto”. Rileggendo Eraclito
La grande illusione della guerra giusta
Oggi è sparita la dimensione politica degli sforzi bellici: non sappiamo nemmeno per quale pace combattiamo
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 11.06.2016)
Quando altro non è possibile affermare se non che la forma della guerra si è andata radicalmente modificando e che nessun Sovrano sembra oggi in grado di porla in una qualche forma giuridico-politica, proprio allora, forse, diventa più necessario ritornare a pensare i termini fondamentali del problema. Nulla appare oggi scontato o di per sé evidente; nessun paradigma regge alla esperienza fattuale. Allora tutto dovrebbe reimpo-starsi, appunto, dalle fondamenta. E qui troviamo una parola originaria della nostra civiltà, sul cui sfondo hanno continuato a proiettarsi i diversi e, almeno all’apparenza, contrastanti modi in cui l’Occidente ha detto e fatto la guerra. Essa ritorna per forza propria; noi non facciamo che trarla fuori dal suo “eterno passato”, a farne cioè, letteralmente, esegesi, ogni volta che facciamo la guerra.
Questa parola dice: «Polemos (il Colli non lo traduce; Diano: il conflitto; Marcovich: guerra) è padre di tutte le cose, di tutte è re, e gli uni édeixe (valore gnomico: ha mostrato e sempre mostra) dèi, e gli altri uomini, gli uni epoíese (come prima per édeixe: ha fatto e fa) schiavi, gli altri liberi» (Eraclito). Polemos non “sostituisce” Zeus, ma stabilisce un Principio a tutti gli essenti comune, un Principio cui tutti per necessità obbediscono, anche se non lo sanno, quel Principio che parla nel Logos stesso di Eraclito. Tale Principio è pater, cioè potens, solo esso ha patria potestas effettiva. La sua potenza, cioè, non si manifesta distruggendo, ma ponendo: essa costituisce gli uni come dèi, gli altri come uomini; essa rende gli uni schiavi, gli altri liberi. Il Principio-Polemos genera distinguendo, ovvero tutti accomuna proprio nel costituirli come differenti. Polemos pone gli opposti e tra gli opposti deve esservi contesa, éris. La guerra individua, fa emergere il carattere-dèmone di un individuo contra l’altro, entrambi nel loro opporsi manifestano questo comune: il porsi, cioè, di ciascuno come se stesso nella sua differenza dall’altro.
Nello spasmo in cui si è trasformato e serrato in sé il nostro spazio-tempo, popoli e culture vanno incrociandosi e affastellandosi gli uni con gli altri, eliminando ogni “amicizia” o “prossimità”. Più ci si meticcia semplicemente e meno ci si ospita. Sono movimenti tellurici, zolle di crosta terrestre alla deriva, che oggi danno di cozzo. La guerra perde ogni forma. Dove si svolge? Al centro o alla periferia del “comando”, alle porte di Roma o a Palmira? In qualsiasi punto in cui esploda, il conflitto può farsi catastroficamente centrale. È guerra diffusa, policentrica; ogni esplosione minaccia di travolgere il tutto. L’ordinato gioco tra parte e intero, che ci era apparso nell’idea di Polemos, è travolto. Non solo il concetto di guerra giusta crolla definitivamente, ma la stessa definizione di Nemico si fa ardua. Essa diviene preda dell’occasionalità più nuda.
Amico e Nemico si scambiano i ruoli con “insostenibile leggerezza”, rendendo esercizio di scuola il paradigma schmittiano. L’assenza di limiti della guerra contemporanea si era già imposta con il tramonto dello ius belli; le grandi guerre civili mondiali dell’altro secolo avevano già fatto crollare ogni differenza tra combattenti e non combattenti, avevano già fatto uso di ogni strumento ideologico per demonizzare il nemico e ricorso a ogni mezzo terroristico. (Nulla rende più evidente la confusione che regna oggi in questo campo dello scriteriato uso del termine “terrorismo”, applicato indistintamente a ogni azione che sfugga a una logica classica di affrontamento tra eserciti. Terrorismo significa terrorizzare le popolazioni “innocenti”; i combattenti non sono terrorizzabili per definizione).
Oggi questa assenza di limiti assume una forma diversa, totale: da un lato, tende a sparire il “campo di battaglia”; dall’altro, Amico e Nemico si fanno interscambiabili. Ma soprattutto assenza di limiti viene a significare l’assoluta impotenza a definire la guerra in termini morfogenetici. Per la sua capacità di produrre nuove forme politiche, nella sua dimensione costituente, si era sempre potuto parlare di arte della guerra e di una virtus bellica. Questi timbri erano anche avvertibili nell’arcaico termine Polemos. Oggi è la stessa politicità della guerra (la comune radice di pólemos e pólis) che non riesce più a esprimersi. Quale ordine si intende difendere dal presunto attacco? E quale costituire dopo l’auspicata disfatta dell’aggressore? Insomma: per quale pace si fa la guerra? Se non si sa chi sia il Nemico e dove stia, e tantomeno si conosce chi sia l’alleato, la guerra finirà con l’essere condotta con i mezzi più disparati, e con efficacia scarsa o nulla.
Così Polemos, non più pater, finisce con l’apparire sempre ingiusto. Non sapendo dare più al termine “guerra” un significato, si tenta di rimuoverne l’esistenza stessa derubricandola alla famiglia del “sorvegliare-e-punire”, ad azione di intelligence e di polizia. E si sogna che tra politica e guerra si possa scavare l’abisso. Compaiono spezzoni delle antiche “grandi forme”, dei tradizionali “eroici” tentativi di mettere in forma il Gioco crudele - come relitti sulle nostre spiagge abbandonati dalla colossale risacca dell’ultimo secolo.
Con fiducia particolare ci si abbarbica all’idea di “giusta guerra difensiva”. Ma che significa? Difesa del territorio? E quali ne sono i confini reali? Difesa dell’onore? E come impedire, allora, che essa possa farsi anche preventiva, se entra in gioco l’onore di uno Stato? Defensio innocentium? Ma quale Stato non ha da più di due secoli reso “colpevoli” i suoi cittadini? Quale “scala di valore” può affermare se stessa assoluta? Dove siede il Tribunale dell’Umanità? Spezzoni, frammenti, balbettii che si inseguono nel nostro mondo successivo al crollo della forma politico-militare imposta dai grandi Titani usciti vincitori dalla seconda Grande guerra.
Ripetere frammenti e balbettii non renderà più chiara la visione. Tantomeno se si crederà di uscire da questa fase epimeteica inseguendo di nuovo il sogno del supremo Tribunale, capace di ridurre ogni conflitto a formalismo giuridico e a perseguire come un crimine la guerra. Questo sogno non fa che esprimere l’indisponibilità europea, e ormai sempre più di tutto l’Occidente, ad affrontare la “prova del fuoco”. In Polemos il dissidio, in tutte le sue forme, era concepito e affrontato come segno di Dike, della Necessità, e perciò i distinti nel loro opporsi erano anche sempre visti nel Comune, cui appartengono e il cui Logos è pre-potente rispetto a ogni loro manifestazione di potenza. Questa prospettiva appartiene al nostro linguaggio più originario e non può perciò essere definita utopistica. Forse essa ci indica ancora una non vana, non cieca speranza per conferire un senso costituente, morfogenetico all’attuale tumulto, anche se ignoriamo per quali vie e attraverso quali tragedie essa potrà mai realizzarsi.
La competizione viene vissuta come la modalità prima di relazione. È la versione ultima della razionalità moderna che ruota intorno al calcolo. Ma se la vita è solo gara, qual è la sorte di chi perde? Cercherà di rovesciare il verdetto giocando d’azzardo? Il problema è trovare una forma di contesa non distruttiva
Il boomerang dell’agonismo
Destino ineluttabile. Se l’esistenza è una lunga rincorsa al successo, l’ultima sfida diventa la morte. Perciò alla fine, malgrado le vittorie, si viene comunque sconfitti
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 13.03.2016)
«Non arrenderti! Ancora uno sforzo!». «Sei a un passo dalla vittoria!». Sono le parole rivolte di solito da un allenatore agli atleti di cui cura la preparazione. Ma sono anche le formule di incitamento che scandiscono ormai la vita quotidiana di ciascuno, formule che, anzi, ciascuno ripete spesso tra sé e sé, quasi fosse il proprio personal trainer. Come mai? Immaginiamo forse di vivere tutti come atleti? Pensiamo sia un dovere l’esercizio, il perfezionamento continuo? Aspiriamo a primeggiare? Ebbene, occorre ammetterlo, condividiamo, anche se inconsapevolmente, una concezione agonistica dell’esistenza.
Il fenomeno ha assunto negli ultimi anni contorni più nitidi e proporzioni sempre più vaste. Al punto da spingere i filosofi a interrogarsi su ciò che caratterizza l’agonismo diffuso, sui motivi che lo provocano, sulle ripercussioni etiche e politiche. Perché questo è almeno certo: che le generazioni che ci hanno preceduto, quelle delle nostre madri e dei nostri padri, non concepivano la propria vita come una gara incessante. Il che non vuol dire che non si mettessero in gioco o che si sottraessero alle sfide.
Che cos’è cambiato allora negli ultimi vent’anni? La questione è più complessa di quel che appare a prima vista. Senza dubbio la concorrenza è il cardine dell’economia capitalistica, che ha mostrato i suoi effetti esiziali non solo nel consumismo sfrenato, ma anche nell’ingiunzione alla crescita, nella spinta propulsiva, e nondimeno distruttiva, a produrre sempre di più. Tuttavia l’estremizzazione della sfida, l’inseguimento del prestigio, il sogno della superiorità, che si accompagnano perfino a un certo disprezzo per il denaro, sembrano tradire - come osservava già Jacques Derrida - una provenienza non economica.
Se parole come valutazione, classifica, selezione, merito, prevalgono nel discorso pubblico, indirizzano i programmi politici, improntano il lessico dell’economia, è perché il modello competitivo ha un successo incontrastato. La competizione viene vissuta come la modalità prima di relazione, con se stessi e con gli altri, quasi fosse una legge primordiale. Non c’è più quasi lembo di vita che si sottragga al modello della gara.
Non vediamo più il mondo, attraverso le lenti di Marx, solo come un grande magazzino di merci, né più solo come un immane spettacolo; per noi è sempre più lo spazio planetario di innumerevoli e differenti gare che si intersecano e si succedono a ritmo vertiginoso e nelle quali siamo ininterrottamente coinvolti.
Il paradigma agonistico ha un’estensione e una profondità tali da poter essere considerato uno dei tratti peculiari della nostra epoca. La visione imprenditoriale della vita, su cui attirava l’attenzione Foucault, non è sufficiente a spiegare il fenomeno nel suo complesso. Né basta puntare l’indice sull’alleanza che da tempo lega il pensiero liberale alle scienze sociobiologiche, basate, nella vulgata, sulla lotta per la sopravvivenza. Se il mito agonistico si è imposto nel neoliberalismo attuale, è perché questo è la versione ultima della razionalità moderna che - come ha visto Heidegger - ruota intorno al calcolo, a ciò che è quantitativo, a ciò che è oggettivo.
Ecco perché lo sport svolge nella vita attuale un ruolo senza precedenti. Si può essere sedentari, e seguire tuttavia un modello sportivo di vita dove l’imperativo categorico è primeggiare. L’uomo nuovo è l’atleta. Non è un caso che manager e soprattutto politici, da Clinton a Sarkozy, a Cameron, accettino volentieri di essere ripresi mentre fanno jogging o corrono in bicicletta. Sono dunque l’economia e la politica a piegarsi, quasi, allo schema dello sport.
Il successo del paradigma sportivo-agonistico va ricondotto all’esigenza di farsi valere in un mondo dove tutti sono - o dovrebbero essere - uguali in partenza, in cui cioè, secondo i dettami della democrazia, non ci sarebbe margine per nessun privilegio e il merito sarebbe oggettivamente misurabile. In breve, la gara sportiva assurge a modello della competizione democratica. Perché si tratta di un confronto aperto a tutti, dove le prestazioni agonistiche sono quantificabili, dove i tecnici, in veste di arbitri imparziali, proclamano vincitore il migliore. Proprio per questo lo sport, praticato prima da una élite, è divenuto fenomeno di massa. In un libro dedicato a questo tema Alain Ehrenberg ha parlato di «culto della performance». Lo sport concilierebbe concorrenza e giustizia - anche se la giustizia non sarebbe che il diritto del più forte.
Non importa poi che lo sport, tra doping, trucchi e corruzione, sia ben lontano da questo miraggio. L’importante è che resti l’ideale di una gara corretta, perché oggettiva, il cui responso è incontestabile. Chi ha vinto, e ha battuto il record, è migliore, è anzi superiore. Di qui lo spazio enorme che gli sportivi hanno nella sfera pubblica e nei media; osannati come eroi nazionali, vengono presi come veri e propri maestri di vita. Eppure, lo sportivo che ha vinto, ha vinto per sé, non ha combattuto per gli altri; è un eroe isolato che può essere solo ammirato da lontano.
Dietro questa fiducia nel calcolo si cela la terribile convinzione che la vita possa essere ridotta a una gara. L’assunzione di questo agonismo, che porta con sé l’obbligo di vincere, ha conseguenze devastanti. Che ne è, infatti, di chi perde? Disagio, depressione, «passioni tristi», come le chiamava Spinoza, scandiscono questa tarda modernità. Ma qui non deve sfuggire un altro fenomeno correlato: il gioco d’azzardo. Chi si sente escluso, avviato alla sconfitta, tenta la mossa estrema. Il «rischia tutto!», messaggio reiterato dalla pubblicità, viene preso alla lettera: si mettono in gioco non solo i soldi, gli averi, ma il tempo, i legami affettivi, la dignità, la vita stessa. Da un lato il gioco d’azzardo appare la rivolta esterna all’agonismo, la scorciatoia per aggirare tutte le gare vincendo d’un colpo, dall’altro ne è solo la versione parossistica che porta quasi sempre alla rovina.
Se la vita è una gara, un percorso finalizzato alla vittoria, la morte è l’ultima sfida - con inquietanti effetti per la bioetica. E su questo ha invitato di recente a riflettere Remo Bodei. Perché in extremis , nonostante le vittorie accumulate, si viene comunque sconfitti. Il modello agonistico, per l’affinità persino etimologica tra gara e guerra, ostenta non di rado tratti bellici. E se il confronto umano si riduce a uno strenuo misurarsi con gli altri, il conflitto - come già sottolineava Thomas Hobbes - è inevitabile. Se qualcuno vince, qualcun altro deve perdere. Di più: l’altro, se non si erge ad allenatore o arbitro, serve solo a identificare meglio la nostra posizione in classifica, o a riconoscere magari la nostra vittoria. Per il resto l’atleta, che ciascuno di noi dovrebbe essere, punta a essere leggero e flessibile, liberandosi da ogni relazione e da ogni responsabilità. Collabora solo di tanto in tanto o, come si dice, «fa squadra», cioè si aggrega temporaneamente in vista di un avversario comune. Poi fa ritorno a sé. E continua a competere - ma con se stesso.
Nell’età in cui domina l’incantesimo scientista della cifra, il fascino perverso di statistiche, classifiche, sondaggi, la valutazione impronta la vita intera. Si dilata a tutte le età (basti pensare a quel che avviene nelle scuole e negli atenei), non risparmia la politica e il mondo dello spettacolo. La valutazione fa anzi spettacolo, come dimostrano programmi quali MasterChef, The Voice of Italy e i numerosissimi reality.
Occorre essere «in forma», belli, sani, abbronzati - a ogni prezzo, con ogni sforzo. Non per vivere una vita migliore, bensì per vincere. Dal dentista alla palestra, dall’estetista al corso di lingua: la giornata diventa un lungo training, un immenso addestramento. Eccelle chi resiste eroicamente.
Ma l’esercizio non è forse encomiabile? E il desiderio di perfezionamento non va elogiato? Si può rispondere con Peter Sloterdijk, quando riflette su quella che chiama l’antropotecnica del postumanismo. Abbiamo ereditato dal Novecento la figura dell’oltreuomo, la spinta a sfidare i vincoli fisici, a superare ogni limite. Siamo tutti acrobati. Ci misuriamo con difficoltà sempre maggiori. La nostra esistenza è una «prestazione acrobatica». Ma il nostro atletismo eroico è una «ascesi de-spiritualizzata». Abbiamo perso la trascendenza e il senso della verticalità. Procediamo in solitudine, lungo una fune tesa non in alto, ma raso terra - come aveva intuito Kafka. Malgrado la tensione e lo stress, rischiamo miseramente di inciampare a ogni passo.
Si deve per questo condannare la competizione come tale? Certo che no. D’altronde nell’agone greco è sorta la stessa filosofia. È Nietzsche, il filosofo a cui non è sfuggito il tratto tragico-distruttivo del pensiero greco, a offrire nel suo scritto Agone omerico una indicazione decisiva. Nei versi di Esiodo scorge «due dee chiamate Eris». C’è una contesa buona, che «spinge al lavoro anche l’uomo inetto»; il vicino gareggia con il vicino, ma la gara, stimolata dall’invidia e dalla gelosia, tende al benessere. C’è invece una contesa cattiva che porta solo all’annientamento reciproco. Qui non si dà misura e trionfa perciò l’ambizione smisurata dell’unico genio. Per l’agone greco è indispensabile invece un secondo genio - nessuno deve essere per sempre il migliore. Altrimenti il gioco agonistico si esaurirebbe con grave danno per la città e la società politica. Ecco allora il male dell’agonismo moderno: è la cattiva Eris che da un lato favorisce la mediocrità aggressiva, dall’altro non conosce che un singolo, isolato vincitore.
Maternità surrogata, uno scambio ineguale
È generosità nei casi di affetto, intimità, amicizia (la sorella, l’amica). Diverso il gesto della donna che mette il corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti
di Valentina Pazé (il manifesto, 09.01.2016)
Nel dibattito sulla maternità surrogata c’è un grande assente. Si tratta dell’art. 3, secondo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che stabilisce «il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro». In base a questa disposizione, contenuta in un documento che - ricordiamolo - ha oggi lo stesso valore giuridico dei Trattati, sono vietate nell’ambito dell’Unione non solo la vendita del rene o l’affitto dell’utero, ma anche la vendita di “prodotti” corporei come il sangue, gli ovuli, i gameti, che possono essere donati, ma non divenire merce di scambio sul mercato. Simili pratiche (con l’eccezione della vendita del rene, oggi consentita - a mia conoscenza - solo in Iran), sono invece perfettamente lecite al di fuori dell’Unione europea; non solo in India o in Ucraina, ma negli Stati uniti, dove da anni esiste e prospera un fiorente mercato del corpo.
Sottrarre alle persone, uomini o donne che siano, la possibilità di disporre a piacimento di ciò che “appartiene” loro nel modo più intimo significa esercitare una forma di paternalismo? Qualcuno lo sostiene. Se di paternalismo si tratta, certo è lo stesso che giustifica la previsione dell’inalienabilità e indisponibilità dei diritti fondamentali. In stati costituzionali di diritto, come il nostro, non si può vendere il voto, e un contratto con cui qualcuno si impegnasse a farlo sarebbe nullo. Lo stesso dicasi del contratto attraverso il quale qualcuno disponesse, “volontariamente”, di rinunciare alla propria libertà, dichiarandosi schiavo di qualcun altro.
La ratio di simili divieti è chiara: si tratta di impedire che soggetti in condizioni di debolezza economica e culturale compiano scelte a loro svantaggio solo apparentemente libere, in realtà tristemente necessitate. Là dove simili divieti non esistono, o sono rimossi, i diritti diventano, da fondamentali, patrimoniali: la salute e l’istruzione si vendono e si comprano, così come le spiagge, l’acqua potabile, l’aria pulita. L’ultima frontiera è quella della cannibalizzazione del corpo e dei suoi organi che, da «beni personalissimi», «la cui integrità è tutt’uno con la salvaguardia della persona e della sua dignità» (L. Ferrajoli), vengono degradati a beni patrimoniali, merce di scambio sul mercato capitalistico.
«Di quale esercizio della libertà si può parlare quando il condizionamento economico esclude la possibilità di decisioni davvero autonome?»- si chiede Stefano Rodotà. E prosegue: «Ecco perché appare necessario collocare il corpo fuori della dimensione del mercato, consentendo invece che le allargate possibilità di disporre di sue parti o prodotti possano essere esercitate nella forma del dono, come espressione della solidarietà» (Libertà personale. Vecchi e nuovi nemici, in Quale libertà? Dizionario minimo contro i falsi liberali, a cura di M. Bovero, Laterza 2004).
Si tratta di un principio che vale per il sangue, che, nel nostro paese, si dona ma non si vende. Può essere esteso all’utero? È possibile difendere il “prestito” dell’utero, distinguendolo dal vero e proprio “affitto”? Anche sul dono, in realtà, è bene fare un po’ di chiarezza. Sulle pagine dei giornali (come anche sul manifesto) si sono pubblicati racconti di donne che, per “amore”, portano avanti gravidanze per altri. È una generosità che si può ben comprendere quando riguarda persone che intrattengono fra loro legami di affetto, intimità, amicizia: la sorella o l’amica che si offrono di aiutare una persona cara a realizzare il sogno della genitorialità. Davvero eroico - e anche un po’ sospetto - appare invece il gesto della donna che mette il proprio corpo gratuitamente a disposizione di sconosciuti, contattati attraverso un’agenzia (anch’essa mossa da pure intenzioni oblative?).
Di sicuro si tratta di un genere di altruismo che non trova riscontro nell’enorme mole di studi antropologici, psicologici, sociologici che - da Marcel Mauss in avanti - si sono occupati del fenomeno del dono. Questi studi ci dicono che, in realtà, il dono davvero gratuito non esiste. Dalla notte dei tempi, il dono è uno strumento per creare e rinsaldare legami sociali. Comporta sempre l’aspettativa di una restituzione, non intesa nei termini contabili dello scambio mercantile, ma in quelli morali e relazionali propri del paradigma della reciprocità (rinvio, per farsi un’idea a Il dono perduto e ritrovato, Manifestolibri 1994). Come può rientrare in questo schema la maternità surrogata a favore di estranei, in molti casi destinati a rimanere tali?
Il confronto con la donazione del rene - con tutte le differenze del caso - può aiutare ad orientarci. Mentre fino a qualche tempo fa in Italia, come in molti altri paesi, il prelievo del rene da persone viventi era consentito solo a patto che esistesse un legame di parentela o di affetto tra donatore e ricevente, e che fosse escluso il passaggio di denaro tra di loro, una legge del 2010 ha introdotto la cosiddetta “donazione samaritana” (su cui rimando a P. Becchi, A. Marziani, Il criterio di reciprocità nella donazione degli organi. Per un nuovo approccio alla questione dei trapianti, Ragion pratica 39, 2012, cui ho attinto largamente per le considerazioni che seguono ). Si tratta in sostanza della possibilità, aperta a chiunque, di donare un rene a una persona sconosciuta, la cui individuazione spetterà esclusivamente al personale medico.
La legge prevede che il donatore ed il beneficiario rimangano all’oscuro dell’identità l’uno dell’altro e che non stabiliscano alcun legame tra loro neanche dopo l’intervento. Quando ho appreso dell’esistenza di questa norma, ho provato a immaginare l’identità della persona tanto generosa da farsi mutilare “per il bene dell’umanità”. Un angelo? Un autentico soggetto morale kantiano, che agisce per il dovere e solo per il dovere, senza cercare alcuna gratificazione personale? In realtà, se andiamo a vedere come ha finora funzionato questa legge, scopriamo che i (pochi) casi in cui è stata applicata riguardano soggetti in condizioni del tutto particolari, come i detenuti.
È facile immaginare le motivazioni che possono spiegare il loro gesto: il bisogno di espiare, così diffuso tra i soggetti subalterni, incoraggiati magari dalle premurose pressioni di pii assistenti spirituali. La pulsione narcisistica a compiere un atto eroico, super-rogatorio, in grado di riscattare una vita “sbagliata”. Certo, la donazione del rene ha conseguenze ben più devastanti, per il donatore, di quanto non comporti condurre a termine una gestazione per altri (che, pure, non è una passeggiata, né un’esperienza priva di conseguenze sul piano fisico e psichico). Non riesco comunque a non chiedermi se i casi di maternità surrogata per “amore” di estranei non si prestino a una simile lettura.
Teniamo presente che nella stragrande maggioranza dei casi, oggi, nel mondo, la maternità surrogata avviene dietro compenso (talvolta mascherato da rimborso spese o regalo). Un nuovo, potenzialmente enorme, mercato si sta aprendo, con giri di affari per nulla trascurabili se si tiene conto del contorno di agenzie di intermediazione, cliniche private, consulenze legali e assicurative che comporta. È di questo che dobbiamo discutere. Sia che coinvolga donne del terzo mondo, indotte a mettere la propria capacità riproduttiva al servizio di coppie benestanti dell’Occidente, sia che riguardi donne statunitensi che investono i trenta o cinquantamila dollari ricavati dalla gestazione per pagare l’università al figlio, stiamo parlando di scelte necessitate, o fortemente condizionate, da fattori economici.
Non chiamiamola, per favore, libertà. Assomiglia troppo alla libertà del proletario di vendere la propria forza-lavoro al capitalista.
Il mercato dei corpi
Chiamare la maternità surrogata una donazione è un eufemismo perché in realtà si tratta di un vero e proprio mercato che ha dei tariffari, una domanda e un’offerta, dei contratti, un marketing, dei mediatori, come in qualunque scambio di merce o di prestazione
di Mariangela Mianiti (il manifesto, 15.03.2016)
Nel felice racconto della genitorialità con la gestazione per altri si è trattato con pochi accenni a una parte importante della questione, ovvero il prima dell’impianto dell’embrione. Quel prima non è un pezzo da poco perché riguarda la selezione e l’acquisto del materiale genetico che serve per costruire la nuova vita, ovvero lo sperma e gli ovuli, fondamentali perché determinano le caratteristiche di una persona. La scelta di questi donatori e della portatrice di utero hanno dei costi e si stanno muovendo secondo criteri economici e geografici simili a quelli dei movimenti dei capitali finanziari.
Chiamare la maternità surrogata una donazione è un eufemismo perché in realtà si tratta di un vero e proprio mercato che ha dei tariffari, una domanda e un’offerta, dei contratti, un marketing, dei mediatori, come in qualunque scambio di merce o di prestazione. L’invasione del linguaggio e della mentalità del marketing nel mercato dei corpi, perché di questo si tratta, è già avvenuto e basta guardare gli slogan di certe agenzie che ricalcano quelli della promozione di viaggi low cost, come Pacchetto bimbo in braccio, Pacchetto Surrogacy, pacchetto Economy Plus che stabiliscono tariffe diverse secondo i tentativi di fecondazione e le scadenze del compenso.
In questa compravendita lo sperma è la merce che costa di meno. Si va dalle poche centinaia di dollari chiesti da un’agenzia israeliana, ai diversi prezzi che un’agenzia russa paga secondo la nazionalità del donatore/venditore. Per la stessa quantità di liquido seminale a un russo vengono dati meno di 200 euro, mentre a un danese o a uno svedese più di 800. Stessa cosa succede con le donatrici di ovuli. Negli Usa, dove la media per una donazione di ovuli è ricompensata dai 10 ai 15mila dollari, se la donatrice è alta, bionda e ha frequentato Harvard può chiedere un prezzo molto più alto di una donna non laureata.
Anche per le portatrici di utero le tariffe si adeguano a una geografia economica. Un’americana percepisce al massimo 30mila dollari, un’indiana poco più di 5mila, un’ucraina 10mila circa e basta guardare il costo complessivo dell’operazione per farsi un’idea di come si muove questo business. Negli Usa il costo totale di una maternità surrogata può andare dai 150 ai 200mila dollari, in Ucraina dai 30 ai 50mila, in Russia dai 30 ai 65mila dollari. Per offrire prezzi concorrenziali c’è chi si è organizzato con gli stessi criteri della movimentazione dei capitali. E allora ecco agenzie americane che ricorrono a portatrici di utero messicane, o agenzie israeliane che propongono l’inseminazione negli Usa e poi trasferiscono gli embrioni congelati in Nepal dove vengono impiantati nell’utero di donne indiane, per risparmiare.
In «Clinical Labor», libro uscito nel 2014, le ricercatrici australiane Melinda Cooper e Catherine Waldby analizzano le nuove forme di lavoro bioeconomico come la maternità surrogata. Osservano come il mercato della riproduzione assistita cresce sempre di più espandendosi in servizi e settori dell’industria biomedica. Rivelano come il clinical labor diventerà sempre più rappresentativo delle economie neoliberiste del 21esimo secolo.
C’è chi per pagare un percorso così vende una proprietà, se ce l’ha, o chiede un prestito. Dall’altra parte ci sono donne che si sottopongono a cure ormonali e a una gravidanza conto terzi per comprare una casa o pagare l’università ai figli. Intanto medici, cliniche, agenzie, assicurazioni, ospedali e avvocati vedono crescere il proprio conto in banca. In mezzo c’è il desiderio di un figlio. Viene davvero da chiedersi se un bisogno così ha il diritto di essere esaudito a qualunque costo, letteralmente parlando.
Se il carcere cancella la nostra Costituzione di Adriano Prosperi *
«Voi qui non applicate la Costituzione». Così ha detto un detenuto delle carceri italiane. Si chiama Rachid Assarag. Non importa perché si trovi in carcere. Basti solo sapere che ha registrato, con molte altre cose, questo breve dialogo.
Un dialogo con un graduato (un brigadiere) delle forze della polizia carceraria. Gli ha chiesto: «Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?». Gli è stato risposto: «In questo carcere la Costituzione non c’entra niente». E anche: «Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent’anni».
La cosa stupefacente non è che un detenuto sia stato picchiato. Né che ci siano state quella domanda e quella risposta. La cosa fra tutte più singolare è proprio il nostro stupore. Davvero riusciamo a stupirci? Davvero non sapevamo che ci sono dei luoghi dove la Costituzione non vale? E non sapevamo forse che fra quei luoghi ci sono proprio quelli che si richiamano alla Giustizia? Gli uomini che picchiano ne recano il nome sulla loro divisa. Il loro ministero di riferimento è quello che si chiamava di Grazia e Giustizia. La Grazia se n’è uscita alla chetichella. Ma la parola Giustizia è ancora lì.
Non solo: quei luoghi sono governati in nome della Costituzione. La Costituzione è come un cielo che ci copre tutti. Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me, diceva Kant. La Costituzione nasce dalla volontà di sostituire all’illusoria volta di un cielo che, come diceva una canzone di Jacques Brel, “n’existe pas”, la protezione effettiva di un orizzonte comune, quella di princìpi e regole validi dovunque si estendano i confini dello Stato sovrano. È la coscienza di essere coperti da questo cielo che ci fa muovere negli spazi della vita quotidiana.
Ma ora, questo scambio di parole affiora in superficie dal fondo di un carcere e ci sbatte in faccia una verità che abbiamo finto ostinatamente di non conoscere: nelle nostre carceri la Costituzione non esiste. Ma davvero si può dare uno spazio pubblico, addirittura un luogo della giustizia dove la Costituzione non vale? Quando questo accade, è come se sulle mura della casa comune si aprisse una crepa. La crepa, trascurata, si allarga. Come in un celebre racconto di E.A.Poe, minaccia la rovina finale dell’edificio. Sottrarre una parte dello Stato alle regole costituzionali è un reato. La legge deve punirlo. Ma quando nella comune coscienza si installa la certezza che esiste uno spazio - quello carcerario - dove la Costituzione non vale, quando lo si sa e lo si dice apertamente in difesa di una pratica di vessazioni e torture nelle nostre piccole Guantanamo, allora vuol dire che la crepa sta intaccando le fondamenta.
Quel brigadiere ha detto che se la Costituzione valesse in quei luoghi, le carceri sarebbero state chiuse da tempo. Con quel brigadiere siamo in disaccordo totale per le cose che non ha fatto: doveva impedire che il detenuto venisse picchiato e non lo ha fatto. Ma siamo d’accordo con lui su quello che ha detto. Se la Costituzione è in vigore, quelle carceri debbono essere chiuse. Dovevano esserlo da decenni.
È un ritardo da colmare. Rachid Assarag, quali che siano le sue colpe, resterà nella storia italiana per aver smascherato una lunga, non più tollerabile ipocrisia collettiva.
Il pericolo dello «stato di emergenza»
di Raffaele K Salinari (il manifesto, 16.11.2015)
È scattato a seguito degli attentati terroristici di Parigi lo «stato di eccezione». Una condizione che nelle democrazie occidentali è, e deve, restare una misura contingente, ma che rischia invece di diventare la modalità attraverso la quale non solo si cerca di governare l’avvenimento eccezionale ma si normalizza l’andamento democratico in nome della sicurezza nazionale.
L’istituto dello «stato di eccezione» è antico quanto il potere stesso; nell’impero romano esisteva già lo iustitium, cioè la sospensione del diritto durante il periodo che intercorreva tra la morte dell’imperatore e la nomina del successore. In quel periodo non c’era legge dato che era l’imperatore stesso ad essere la legge. Dunque un «momento extragiudiziario», come lo definisce Carl Schmitt nella sua Politische Teologie del 1922, il testo di riferimento per la Costituzione nazista che sugli stati extragiudiziari edificherà il Reich. Carl Schmitt identifica dunque lo «stato di eccezione» con la definizione stessa di potere sovrano.
Sostiene Giorgio Agamben che l’essenziale contiguità fra «stato di eccezione» e sovranità, come viene definita da Carl Schmitt, non ha ancora portato a una vera e propria teoria dello «stato di eccezione», che dunque manca nel diritto pubblico, per cui i giuristi sembrano considerare il problema più come una quaestio facti che come un serio problema giuridico.
Da parte sua, riferendosi proprio ai pericoli che implica questa mancanza definitoria, Jacob Taubes nel suo La teologia politica di San Paolo, argomenta in questo modo l’incipit della Teologia Politica di Carl Schmitt: «Il libro inizia con uno squillo di trombe: ‘Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione’. Qui scrive un giurista non un teologo, ma non si tratta di un elogio della secolarizzazione, piuttosto del suo smascheramento. Il diritto statuale non sa ciò che dice poiché lavora con concetti il cui fondamento, le cui radici, gli sono ignoti... Su questa premessa Schmitt analizza la letteratura giuridica, poiché in effetti è un giurista e sa circoscrivere il proprio ambito. Alla fine del saggio scrive: ‘sarebbe prova di un razionalismo coerente dire che l’eccezione non dimostra nulla e che solo la normalità può essere oggetto dell’interesse scientifico. L’eccezione turba l’unità e l’ordine dello schema razionalistico. Nella dottrina dello Stato positivista si trova spesso un simile modo di argomentare. Alla domanda su come si debba procedere in mancanza di una legge naturale, Anschutz risponde che ciò non costituisce affatto una questione giuridica’».
Continua Taubes: «Qui si palesa non tanto una lacuna nella legge, cioè nel testo della costituzione, quanto una lacuna nel diritto, che nessuna operazione concettuale della giurisprudenza è in grado di colmare. Il Diritto si ferma qui». E ancora Taubes commentando il passo di Schmitt: «Questo si legge nel testo di Anschutz il più grande giureconsulto della sua generazione, ‘Il diritto si ferma qui’. Nel momento decisivo, egli sostiene, il diritto statutale non ha più nulla da dire, incredibile!».
E prosegue con quella parte della citazione di Schmitt che più ci interessa: «Ma proprio una filosofia della via concreta non può tirarsi indietro di fronte all’eccezione ed al caso estremo, ma deve anzi dimostrare il massimo interesse nei suoi confronti. Per essa l’eccezione può essere più importante della regola, non in base ad un’ironia romantica per la paradossalità, ma con tutta la serietà di un giudizio che va più a fondo delle palesi generalizzazioni di ciò che mediamente si ripete. L’eccezione è più interessante del caso normale. La normalità non comprova nulla, l’eccezione comprova tutto; non solo essa conferma la regola, ma la regola stessa vive solo dell’eccezione. Nell’eccezione la forza della vita reale spacca la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione. Lo ha affermato un teologo protestante, dando prova dell’intensità vitale di cui la riflessione teologica sa essere capace nel XIX secolo: ‘L’eccezione spiega il caso generale a se stessa. E se si vuole studiare correttamente il caso generale è sufficiente ricercare una sua eccezione. Essa porta alla luce tutto più chiaramente dello stesso caso generale».
Ecco allora il pericolo di dichiarare lo «stato di emergenza» in un momento così fragile per gli equilibri democratici non solo francesi ma europei.
Bisogna che i democratici si preparino ad evitare che questa situazione venga estesa oltre i limiti del dovuto, cioè la necessità di individuare gli attentatori di Parigi, e non venga invece utilizzata come cornice extragiudiziaria per normalizzare altre libertà repubblicane, come la libera circolazione delle persone o gestire con mezzi eccezionali i flussi migratori e quant’altro attiene alla globalizzazione in un mondo di guerra permanente.
Parigi: la Francia si ferma, un minuto di silenzio. Hollande: "La Francia è in guerra"
Oggi riaperte le scuole
Redazione ANSA ROMA
16 novembre 2015 17:18
"La Francia è in guerra". Lo ha detto il presidente francese Francois Hollande a Versailles davanti le Camere riunite dopo gli attentati di Parigi.
La Francia si ferma, un minuto di silenzio - Tutta la Francia si è fermata per un minuto a mezzogiorno in memoria delle 129 vittime degli attacchi terroristici di venerdì sera a Parigi. Lo riferiscono i media francesi. Questa mattina hanno riaperto tutte le scuole, la riapertura di musei, teatri e altri luoghi di cultura è previsto per le 13.
La Francia si è fermata per un minuto di silenzio in ricordo delle vittime degli attentati di Parigi. Il presidente francese Francois Hollande ha osservato il minuto di silenzio dalla Sorbonne, al termine del quale ha intonato la Marsigliese insieme al congresso riunito a Versailles.
Marsigliese dopo un minuto di silenzio alla scuola ebraica - Prima un lungo e intenso minuto di silenzio. Poi il canto della Marsigliese, a pieni polmoni. E alla fine un lungo applauso. Il ricordo delle vittime degli attacchi di venerdì tra i ragazzi della scuola ebraica ’Ecole de Tavail’, nel cuore di Marais, ha un sapore tutto speciale. L’istituto di rue de Rosiers si trova a due passi dal ristorante Goldemberg, dove nel ’92 un commando terrorista uccise sei persone. Fondato nel 1852, ospita 150 allievi, metà di religione ebraica, 30% musulmani, 20% cattolici. Un esempio di convivenza e di tolleranza.
L’immagine di Moira Orfei era talmente forte che non era necessario cucirle addosso un personaggio. Moira era Moira e basta: domatrice di elefanti nella vita, di uomini e di pubblico sullo schermo - Con il tempo Moira è diventata il simbolo stesso del circo in Italia
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L’artista, nata a Codroipo, è morta a Brescia all’età di 84 anni. Aveva lontane origini sinte ed era considerata la regina della nostra arte circense, ma aveva lavorato anche al cinema diventando un amatissimo volto della tv
Moira Orfei è morta nella notte a Brescia, dove aveva in programma uno spettacolo. È stata trovata questa mattina nella sua casa mobile dai familiari. La indiscussa regina del circo italiano, la più conosciuta fra i nostri artisti circensi, avrebbe compiuto 84 anni il 21 dicembre.
"Moira Orfei - si legge in una nota - ci lascia in serenità e circondata dall’amore dei familiari, in questa mattina di novembre nella sua bellissima e celebre casa mobile. Il Circo Orfei che Moira, insieme al marito Walter Nones ha guidato facendo divertire intere generazioni, per volontà dello stesso, dei figli e dei nipoti andrà avanti per continuare la tradizione in onore della più grande icona circense. Grazie a questa scelta oggi a Brescia, si terranno gli ultimi spettacoli della data lombarda in attesa che il Circo arrivi la prossima settimana a Milano". La camera ardente è stata allestita nella sua casa mobile. La coppia formata da Moira Orfei e Walter Nones ha due figli, Stefano e Lara. Lara ha dato alla luce due bimbi: Moira junior e Walter junior mentre Stefano, dall’unione con Brigitta Boccoli, l’aveva resa nonna di Manfredi.
Miranda Orfei era nata a Codroipo, in provincia di Udine, il 21 dicembre 1931. La sua famiglia ha lontane origini sinti e da generazioni si era dedicata all’arte circense: il nucleo principale del Circo Orfei era composto dal padre Riccardo Orfei, celebre clown Bigolo, dalla madre Violetta Arata, anche lei circense, dai fratelli Paolo, giocoliere e acrobata, e da Mauro, acrobata alle biciclette.
Viene al mondo in un carrozzone nel piccolo circo del padre. Figlia d’arte nata dall’unione di Riccardo Orfei, celebre clown Bigolon, con Violetta Arata, anche lei protagonista del mondo del Circo, Moira ha vissuta sempre all’ombra del tendone. Nel circo si è esibita a sei anni come cavallerizza, virtuosa del trapezio e acrobata. Ancora giovanissima, con le cugine Liana e Graziella fu una delle maggiori attrattive del circo. I figli Stefano e Lara hanno vinto, poco più che ventenni, l’Oscar del Circo Clown d’Argento, consegnato dalla Principessa Caroline al Festival del Circo di Montecarlo.
Con il tempo Moira è diventata il simbolo stesso del circo in Italia. La sua popolarità è così forte che, nel 1960, il nome della compagnia viene cambiata in Circo di Moira Orfei. Le sue specialità erano quelle di cavallerizza, trapezista, acrobata, domatrice di elefanti e addestratrice di colombe. "La produzione Orfei si basa sui tre capisaldi della tradizione circense: acrobati, clown e animali. Il tutto però rivisto in chiave moderna e con artisti tra i più bravi in circolazione", aveva spiegato Moira Orfei in una intervista. "Il nostro successo sta nel fatto che non si tratta del solito spettacolo circense, bensì di uno show che coniuga circo, teatro, danza e musical. Il tutto contornato, attraverso una attenta regia, da musiche dal vivo, costumi sfavillanti, coreografie e luci".
Dal 1975 il suo complesso circense parte per numerose tournée all’estero. Simbolica quella in Iran nel 1977, quando il circo rimane bloccato con 100 artisti e 50 animali in seguito all’insurrezione popolare. Viene mobilitato il Ministero degli Esteri che fa inviare l’Achille Lauro per recuperare lo staff. Il Circo Orfei è stato il primo italiano a conquistare, nel 1987, un Clown d’Oro al Festival Internazionale del Circo di Montecarlo con un numero di 12 tigri.
Bella ed esuberante, la sua fama cresce anche grazie ai ruoli sul grande schermo, dove viene chiamata a recitare nelle commedie e nei kolossal all’italiana e in svariati poliziotteschi, per un totale di circa cinquantina film, e alle numerose apparizioni in tv. Il cambio di nome arrivò prima con Mora, per via della sua carnagione scura, ma sembra che sia il nome Moira che i tratti distintivi della sua immagine festosa le siano stati consigliati dal regista Dino De Laurentiis. Nel tempo ha lavorato a fianco di Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Totò, ed è stata diretta da registi importanti come Lattuada, Visconti, Germi, De Sica.
Nonostante il cinema non abbia puntato mai seriamente su di lei, dopo aver recidato per Pietro Germi in Signore & signori, fu proprio il regista a confidarle che se avesse studiato recitazione avrebbe potuto diventare brava come Sophia Loren. I ruoli che le vennero però affidati furono comunque sempre ppiuttosto marginali e fedeli al suo personaggio circense.
L’immagine di Moira Orfei era talmente forte che non era necessario cucirle addosso un personaggio. Moira era Moira e basta: domatrice di elefanti nella vita, di uomini e di pubblico sullo schermo. Diventa moglie di Christian De Sica in Vacanze di Natale ’90, è Santina in Casanova ’70 di Mario Monicelli, recitando accanto a Marcello Mastroianni, Ottavia con Totò in Totò e Cleopatra e, sempre a fianco dell’attore napoletano, lavora ne Il monaco di Monza. Di lui dirà: "Aveva perso la testa per me e un giorno mi disse: vieni a letto con me, poi ti regalo una casa". Arrivano poi Straziami, ma di baci saziami, con Nino Manfredi, e Profumo di donna, con Vittorio Gassman, film firmati da Dino Risi. La sua ultima apparizione sul grande schermo risale al 2003 quando interpreta se stessa nel film Natale in India. In televisione ha partecipato come ospite fissa, assieme allo stilista Renato Balestra e all’attrice Silvana Pampanini, a Domenica In, con Mara Venier.
* la Repubblica, il 15 novembre 2015 (ripresa parziale)
Enciclopedia delle donne*
Moira Orfei (Miranda Orfei)
Miranda - poi Mora, poi Moira - è figlia di Violetta Arata, funambola, e Riccardo, celebre come clown Bigolon; di origini sinti, la sua famiglia è legata al circo da alcune generazioni.
Il cognome Orfei arriva infatti dal trisnonno, un religioso che si recava in Montenegro per sposare e battezzare i bambini zingari. Durante una di queste missioni però Ferdinando si innamora di Veka Torevich, una bellissima zingara; decide di sposarla e lascia la tonaca. La famiglia racconta che Ferdinando era un bravissimo musicista ma gli venivano negati i teatri a causa dei suoi trascorsi; per lavorare quindi crea un piccolo teatro itinerante, con la bella Veka che canta al suo fianco. [1]
Aggiunge poi il cavallo che sa contare, l’asinello intelligente, un orso, quattro cagnolini e un giullare che fa ridere il pubblico. Il gruppo si esibisce nelle piazze dei paesi: comincia così la storia degli Orfei, a pieno titolo scritta in quella lunga e antica che, attraverso molte vicissitudini, porta il circo ad essere, nella seconda metà dell’Ottocento, il maggiore intrattenimento popolare nel mondo occidentale. In Italia si affermeranno, fra molte altre famiglie (fenomeno tutto italiano quello delle famiglie circensi) i grandi cognomi del circo: gli Orfei, i Togni, e poi i Medini, i Medrano...
La carriera di Moira ha inizio nel circo dello zio Orlando [2] come cavallerizza, virtuosa del trapezio e acrobata. Con le cugine Liana e Graziella è una delle maggiori attrazioni: una canta mentre le altre volteggiano al trapezio. «Moira, Liana, Graziella...vestitevi!», quando il circo si insedia in una nuova piazza, sono loro a darne notizia girando per il paese.
Nello stesso ambiente incontra Walter Nones, nato a Belluno da Giuseppe Nones, sportivo praticante, e da Adele Medini, proveniente da una delle più celebri dinastie del circo italiano. Moira e Walter si sposano nel 1961 e «i fiori li portavano gli elefanti».
Fondano un loro circo: Il circo di Moira Orfei, che con il tempo diventa uno dei più grandi d’Europa. Dopo aver fatto il giocoliere, l’acrobata, il presentatore, l’organizzatore, Walter approda alla carriera di domatore. Introduce l’addestramento in dolcezza, disciplina che lo porta a stretto contatto con le belve, praticamente a mani libere («non è coraggioso, è incosciente!»). Anche Moira inizia a lavorare con gli animali: colombe, tigri e infine i prediletti elefanti, da cui deriverà il nome in cartellone: Moira degli elefanti. È Dino de Laurentis, all’inizio degli anni ’60, a suggerirle quella che diventa la sua immagine universalmente riconosciuta: occhi incorniciati dall’eyeliner, rossetto brillante, un neo accentuato sopra il labbro, capelli raccolti a mo’ di turbante.
Sono ben 47 i film nei quali Moira lavora, fra cui Il monaco di Monza con Totò (Sergio Corbucci, 1963), Totò contro i quattro (Steno, 1963), Straziami ma di baci saziami (Dino Risi, 1968), Signore e Signori (Pietro Germi, 1965), Totò e Cleopatra (Fernando Cerchio, 1963) Profumo di donna (Dino Risi, 1974). Moira non ha mai studiato recitazione, ma porta con naturalezza il suo personaggio in scena, la sua imponente e armoniosa figura, i lunghi capelli neri, il suo bel volto. Ma nell’affrontare il cinema il suo obiettivo principale non è tanto una carriera d’attrice, quanto il desiderio di reinvestire la popolarità e i proventi ottenuti per favorire il suo circo; non lesina inoltre le apparizioni televisive, sempre loquace, sincera e arguta e, nel 1974 incide anche un 45 giri: Noi zingari.
Quando nascono i due figli, Moira e Walter non cambiano la vita girovaga e li portano con loro; Lara si forma come cavallerizza, e resta in pista fino a quando nascono i nipotini (Moira e Walter, in onore dei nonni); Stefano si avvia sulle orme del padre come domatore ottenendo grandi riconoscimenti internazionali, e diventa co-direttore del circo. Moira rinuncia a vivere “in villa”, preferisce la sua roulotte - una suite viaggiante arredata come una casa di bambola. Alle associazioni che contestano l’impiego degli animali nei circhi risponde «I miei animali stanno benissimo, mangiano, dormono, lavorano poco, vengono ammaestrati non più di un’ora e mezzo al giorno.»
Moira è stata l’unica star del circo in grado di reggere il confronto, in quanto a popolarità, con le dive del cinema o della televisione, anche durante decenni difficili per l’arte circense. Le ragioni di questo successo, ininterrotto da più di cinquant’anni, possono essere spiegate non solo dalla sua bravura e dalla ricchezza dei suoi spettacoli, ma anche da un sapiente utilizzo del proprio personaggio, un’attitudine naturale che si è rivelata una strategia comunicativa estremamente efficace. Il trucco, la capigliatura, i costumi ripropongono da oltre quarant’anni una immagine immutabile, come quella di un personaggio di fumetto che si muove in uno spettacolo rutilante e grandioso, degno di Carmen Miranda.
D’altra parte Moira degli Elefanti, con questo nome arcaico, con la forza della sua maschera permeata di un immaginario favoloso ed esotico, ripropone una figura ancestrale che richiama le origini stesse del circo, testimoniate in dipinti a Tebe e Menfi, legate a riti magici e religiosi, nei quali spesso una dea è associata a un animale, per via di narrazione e quindi di immagine. Questa eco così lontana risuona in Moira, modello immutabile nella sostanza ma pronto ad aggiornarsi sul piano dello spettacolo, proprio grazie a una popolarità indiscussa e inossidabile, faticosamente conquistata («mai un giorno di vacanza!!»), a rafforzare la quale contribuisce anche quell’idea, ribadita in ogni occasione, di famiglia forte unita nell’impresa e nella vita, che si direbbe anch’essa impermeabile al tempo e alla storia.
A conclusione dei grandiosi spettacoli del suo circo, Moira attraversava la pista e salutava, a bordo di una carrozza portata dai cavalli.
La regina del circo ci ha lasciato, nel novembre del 2015.
NOTE
1. Questa versione della genealogia è coerente con le dichiarazioni di Moira e di Liana Orfei, che differisce però lievemente e in alcuni nomi da quella riportata nel bel libro di Sandra Mantovani e Alessandra Modignani Litta.
2.Articolo sul Messaggero su Orlando Orfei.
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Alessandro Serena, Storia del circo, Bruno Mondadori
Carlo Bevilacqua, Francesco Di Loreto, Moira, amore e fiori (documentario, 2005)
Sandra Mantovani, Alessandra Modignani Litta, Il circo della memoria. Storie, numeri e dinastie di 266 famiglie circensi italiane
* Enciclopedia delle donne (Luigi Cesareo).
Croce-Gentile, la pace postuma
Grazie a un accordo tra gli eredi sono state raccolte in un unico volume le lettere che i due filosofi si scambiarono prima della rottura (anche politica)
di Giuseppe Salvaggiulo (La Stampa, 07.12.2014)
La prima, una cartolina postale, partì da Torre del Greco il 27 giugno 1896: «Stimatissimo Signore...». Il trentenne Benedetto Croce, che già godeva di considerazione negli ambienti dell’erudizione storica, ringraziava il ventunenne Giovanni Gentile «pel dono cortese del suo studio sulle commedie del Lasca» (la tesi di licenza dopo il secondo anno di Lettere alla Normale di Pisa) e se ne congratulava «pel modo veramente egregio nel quale è condotto», sottolineando «la sua erudizione sobria e calzante» e «le conclusioni esattissime» senza «traccia d’inesperienza». La risposta fu spedita nove giorni dopo da Campobello di Mazzara, dove Gentile trascorreva le vacanze: «Chiarissimo signore...». Lo studente devoto si compiaceva del «giudizio benigno» e, «scusandomi se sono subito un po’ indiscreto», esprimeva il desiderio di «leggere la sua memoria Intorno alla storia della cultura, che mi pare non sia in vendita». Croce risponderà di non poter esaudire la richiesta «perché non ne ho più neanche una copia».
Passando al «Carissimo amico...», ne seguiranno altre duemila, di lettere tra i due principali filosofi italiani del secolo scorso. Per ventotto anni, fino all’ultima del maestro napoletano, datata 24 ottobre 1924: «Certo, noi da molti anni ci troviamo in un dissidio mentale, che per altro non era tale da riflettersi nelle nostre relazioni personali. Ma ora se n’è aggiunto un altro di natura pratica e politica, e anzi il primo si è convertito nel secondo, e questo è più aspro». Evocando l’opposto giudizio sul fascismo, con animo fermo ma non iroso Croce concludeva: «Non c’è che fare. Bisogna che la logica delle situazioni si svolga attraverso gl’individui e malgrado gl’individui. (...) Io ho fiducia nel tempo, e molte volte ho udito dirmi poi: tu avevi ragione; e spero perciò che molte asprezze si spianeranno da sé. Siamo in tempi che, in fatto di cangiamenti, ci hanno abituati a miracoli. Credo di averti risposto con ogni franchezza, e tu forse troverai giuste le cose che ti dico. (...) Abbimi sempre con molto affetto, tuo Benedetto».
Gentile comprese «la logica delle situazioni» e non rispose. Seguirono i rispettivi manifesti pro e contro il regime, a conferire drammaticità pubblica alla lacerazione privata. Invano il comune amico Adolfo Omodeo si adoperò per ricucire lo strappo, divenuto irreversibile nel 1928 quando Croce, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, condannò come «mal consigliere pratico» il pensiero di Gentile, il quale reagì con una dura recensione sul Giornale critico della filosofia italiana, da lui fondato nel 1920. Da amici a irriducibili antagonisti («un’ostile diade», la definisce Gennaro Sasso, presidente della Fondazione Gentile), rappresentanti di due Italie che si combatterono fino al cruento epilogo degli Anni 40, e anche oltre.
A novant’anni dall’ultima lettera e a settanta dall’uccisione di Gentile per mano dei partigiani, Nino Aragno pubblica per la prima volta il carteggio nella sua interezza. A parte alcune lettere e cartoline di contenuto personale, il materiale non è inedito; ma leggerlo in un unicum dialogico è appassionante. In ogni caso, il valore dell’opera travalica quello editoriale, poiché chiude un secolare scisma: familiare, ideologico, antropologico, nazionale.
I discendenti dei due filosofi erano giunti a un accordo di pubblicazione separata nel 1970: scambiandosi i microfilm, Sansoni editò le lettere di Gentile e Mondadori quelle di Croce. Ma i due distinti epistolari era tanto ricchi quanto monchi, perciò alcuni anni fa Natalino Irti, giurista e presidente dell’Istituto italiano per gli Studi storici fondato da Croce nel 1946, prese l’iniziativa di promuovere un nuovo accordo di pubblicazione congiunta «con funzione pacificante». Al primo colloquio con Alda Croce seguirono quelli con Piero Craveri e Sebastiano Gentile, che si sono fatti carico di «suscitare la concorde volontà delle famiglie», sancita due anni fa nella firma del nuovo accordo. Al ricamo diplomatico è seguito il lavoro delle curatrici Cinzia Cassani e Cecilia Castellani per intrecciare correttamente la corrispondenza: in alcune missive la data mancava, era stata cancellata o coperta dal timbro postale.
Il risultato, spiega Irti, è «un altissimo capitolo di pensiero, di dialogo filosofico, di onestà interiore». L’edizione asciutta - in linea con il profilo dell’editore langarolo, il cui mecenatismo è pari solo all’understatement - consente alle due voci di svettare come querce secolari senza il fastidio del sottobosco pedagogico.
La concezione materialistica della storia e la monografia su Pulcinella. La «fierissima emicrania» di Gentile e la «molestissima febbriciattola» di Croce. Le intimità domestiche, gli abbandoni di amicizia e talvolta, più in Croce che in Gentile, le preoccupazioni personali. Pubblico e privato, senza che la confidenza diventi mai corrività stilistica. Fino al vulnus filosofico sulla nascita dell’attualismo. Scrive Gennaro Sasso: «Soltanto la politica, non sembri paradossale, avrebbe potuto rimediare. Ma, invece che unirli, contribuì a dividerli in modo netto e definitivo».
Non trasformate il Colosseo in una scenografia
di TOMASO MONTANARI (la Repubblica, 03 novembre 2014).
Il ministro per i Beni culturali ha annunciato ieri, via Twitter, che gli "piace molto l’idea dell’archeologo Manacorda di restituire al Colosseo la sua arena". Bisogna riconoscere a Dario Franceschini la capacità di tener viva l’attenzione mediatica su alcune emergenze del nostro martoriato patrimonio culturale: questa estate con il tormentone dei Bronzi di Riace all’Expo, ora con l’idea di rifare il pavimento del Colosseo. Ma la domanda è: questa volta si tratta di una proposta più solida, e destinata a miglior fortuna?
Più di un turista si sarà domandato come facessero i gladiatori e le belve a rincorrersi negli angusti corridoi che oggi emergono dalla pancia scoperchiata del colosso: e le foto ottocentesche ieri twittate da Franceschini valgono egregiamente a svelare l’errore.
Cioè a spiegare che ciò che vediamo oggi sono i sotterranei funzionali dell’arena antica. Ma è davvero il caso di riportare indietro le lancette dell’orologio storico, rimettendo il coperchio agli scavi? È una questione che ciclicamente si pone per molti monumenti: quand’era sindaco di Firenze Matteo Renzi lanciò, per esempio, l’idea di ripavimentare in cotto Piazza della Signoria, tornando alla situazione presettecentesca. Ma il rischio di queste iniziative è scivolare nel falso storico, in un kitsch di cui non sentiamo il bisogno: come decidere dove fermarsi, e quale aspetto dare al monumento, quando si decide di salire sulla macchina del tempo?
In questo caso a preoccupare è soprattutto ciò che verrebbe dopo il ripristino: qual è il fine ultimo dell’operazione? Il professor Daniele Manacorda, cui spetta l’idea, ha chiarito che un simile ritorno, un domani, permetterebbe al Colosseo "di tornare ad essere, carico di anni, un luogo che accoglie non il semplice rito banalizzante della visita del turismo massificato, ma un luogo che, nella sua cornice unica al mondo, ospita - nelle forme tecnicamente compatibili - ogni possibile evento della vita contemporanea".
Ecco, è questo il nocciolo del problema. Che cosa vuol dire "ogni possibile evento"? E dove metteremmo gli spettatori? Non è che, subito dopo, si parlerà di ricostruire le scalinate della cavea? Magari in cemento, come si è fatto nel Teatro Grande di Pompei, durante il commissariamento della Protezione Civile? E poi non succederà che qualcuno vorrà coprirlo, il Colosseo, per farci gli spettacoli anche quando piove, e in inverno? Non sembri bizzarro: è quel che il sindaco Flavio Tosi ha chiesto ufficialmente di poter fare per l’Arena di Verona.
E poi siamo sicuri che il limite debba essere solo tecnico? Potremmo trasformare il Colosseo, poniamo, in un campo da golf? L’esempio non sembri fantasioso: lo stesso Manacorda aveva sposato l’idea di realizzare un simile impianto sportivo alle Terme di Caracalla, a ridosso delle Mura Aureliane. Se Franceschini non ha rilanciato anche questa idea è forse perché nel frattempo una sentenza (15 settembre 2014) della sesta sezione del Consiglio di Stato ha fermato il progetto, perché "modificherebbe sensibilmente la percezione e la coerenza complessiva dello speciale contesto ambientale".
Per il Colosseo, invece, il rischio sarebbe un altro, più subdolo: e cioè che questo monumento unico si trasformi nella più imponente delle location commerciali, magari in un’ambitissima arena per spettacoli di suoni e luci, ad uso di un turismo di infima qualità. Oggi è di moda parlare di edutainment (education + entertainment), un ibrido che - almeno in Italia - non riesce a coniugare conoscenza e piacere, ma annulla la prima e persegue un intrattenimento di bassa lega, che trasforma il passato in un gigantesco luna park commerciale.
Ora, non vorremmo che invece di riuscire a liberare l’ingresso del Colosseo dai tristi figuranti travestiti da gladiatori, qualcuno sognasse di farli entrare su quella famosa arena: e magari di assumerli nelle fila del ministero per i Beni culturali, che non riesce più ad assumere i giovani archeologi di cui avremmo, invece, un disperato bisogno.
Quando papa Innocenzo XI chiese a Gian Lorenzo Bernini di costruire un’enorme chiesa dentro il Colosseo - era il 1675 - l’artista più rivoluzionario del suo tempo rispose che non voleva toccare il monumento: "per la conservazione d’una macchina che, non solo mostrava la grandezza di Roma, ma era l’idea stessa dell’architettura". Parole che sembrano tuttora assai sagge.
di Raoul Bruni (Alfabeta2, n. 25, 06.12.2012)
Sono molte le ragioni per cui vale la pena (ri)scoprire oggi la straordinaria figura di Elvio Fachinelli. Attivo nel campo della pedagogia antiautoritaria, lo psicoanalista trentino fondò l’importante rivista (e casa editrice) “L’erba voglio” e si impegnò in prima persona nell’esperienza dell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano; pubblicò pochi ma fondamentali volumi, oggi inseriti nel catalogo Adelphi, ai quali però vanno aggiunti molti sorprendenti scritti estravaganti, come quelli raccolti, per l’appunto, in questo libretto Su Freud. Fachinelli, che ne tradusse varie opere, a incominciare da L’interpretazione dei sogni, instaurò col padre della psicoanalisi un dialogo ininterrotto, tra fedeltà e slanci eterodossi, condotto in sostanziale sintonia con quel “ritorno a Freud” propugnato da Jacques Lacan. Ma a qual era il Freud a cui tornare, secondo Fachinelli?
Nel denso ritratto di Freud, risalente al 1966, che inaugura il volumetto, si punta l’accento, prima ancora che sullo scienziato, sull’uomo e sullo scrittore: «Il rapporto tra il creatore e la sua opera è in questo caso [nel caso di Freud] assai vicino al legame di figliolanza carnale, per così dire, che si stabilisce fra lo scrittore e il suo libro, fra il pittore e il suo quadro, che non al riferimento indiretto dello scienziato con la sua scoperta. C’è qualcosa di irripetibile, che conferisce per sempre alla costruzione freudiana un carattere di unicum culturale e che genera la sempre risorgente difficoltà di ‘collocarla’ positivamente tra le altre scienze».
Del Freud “scrittore” Fachinelli prospetta (in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” nel 1986, incluso in questo libretto) anche un suo proprio canone, inidcandone persuasivamente il vertice nei casi clinici, definiti «dei quasi racconti, dei nuclei narrativi ora più ora meno elaborati» (intuizione che prefigura la recente e felice iniziativa, di Mario Lavagetto, di ripubblicarli, nella collana einaudiana dei “Millenni”, sotto il titolo di Racconti clinici). Sotto questo aspetto, verrebbe da dire, Fachinelli fu perfettamente fedele a Freud, dato che molti dei suoi stessi scritti sono caratterizzati da un evidente afflato narrativo.
Le distanze tra l’autore e il suo nume titolare vengono invece in luce in un articolo in margine al celebre saggio del 1915 in cui Freud, dialogando con un poeta identificabile con Rilke, fornisce una giustificazione filosofica del dramma della caducità. Freud collega la questione della caducità al disastro bellico che allora incombeva sull’Europa, sostenendo che, una volta trascorsa questa terribile crisi, l’uomo avrebbe ricostruito «ciò che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più solido e duraturo di prima».
A differenza di tutti i precedenti commentatori, Fachinelli non sottoscrive la conclusione freudiana, ma anzi osserva: «Il mondo solido e duraturo che Freud si augurava sorgesse dalla catastrofe non sorse affatto. Al contrario. In Europa sorsero nazismo e fascismo e con essi scoppiò una guerra ancor più spaventosa della prima». In questa cogente confutazione della tesi freudiana, si intravede la tipica inquietudine del pensiero psicoanalitico fachinelliano, intrinsecamente riluttante ad ogni soluzione consolatoria dell’enigma dell’esistenza. Fachinelli respinge infatti la tendenza all’«onniesplicabilità, rovinosamente attiva sia dentro l’analisi stessa, sia all’esterno, nel comune gergo psicoanalitico» e auspica invece un’idea quasi zen dell’analisi, basata sull’«elemento sorpresa»: «tutto può essere attivo e fecondo [...] se nasce come sorpresa inaspettata».
L’articolo da cui sto citando (che chiude il volumetto) risale al 1989, l’anno della morte di Fachinelli, e mostra come questi abbia saputo coraggiosamente spingersi ben oltre Freud; d’altronde, in quel periodo, egli stava concludendo La mente estatica, la sua opera testamentaria, incentrata su un’area tematica estranea non solo al freudismo, ma a tutta la tradizione razionalistica occidentale.
A MILANO, A PALAZZO MARINO (DA OGGI AL 13 GENNAIO 2013), DUE OPERE: -"AMORE E PSICHE" DI CANOVA E DI FRANCOIS GERARD. MATERIALI SUL TEMA.
di Alessandro Esposito (“MicroMega”, 28 dicembre 2012)
Noi malpensanti e femministi avevamo provato ad accostare all’indignazione dinanzi alla reiterata violenza di cui le donne sono vittime per mano d’uomo la riflessione relativa alle cause che possono scatenare tale ingiustificabile efferatezza: fortunatamente è giunto, inaspettato, il soccorso di un pio ed acuto parroco ligure ad illuminare la nostra insipienza.
Ma come abbiamo fatto a non pensarci prima? Era evidente: la causa prima della violenza fisica, psicologica, sociale e religiosa quotidianamente inflitta alle donne sono le donne stesse. Il fatto è che era talmente ovvio da essere sfuggito alla nostra capacità d’analisi, immancabilmente condizionata da una lettura ideologica della realtà dei fatti. Ebbene, questa realtà, se ben osservata, ci porta alla conclusione insindacabile che siano le donne le principali (giusto perché affermare «le uniche» deve sembrare eccessivo persino a questi irreprensibili cavalieri della fede) responsabili degli istinti che colpevolmente scatenano nel maschio altrimenti avvezzo per natura a docilità e candore: per cui «chi è causa del suo mal...».
Ci sarebbe da rimanere attoniti se non prevalesse lo sdegno: eppure, una volta ancora, voglio pensare che alla doverosa espressione dei sentimenti sia da preferire un’indefessa ricerca delle cause. In qualità di «addetto ai lavori», vorrei concentrare la mia analisi sul retroterra religioso dal quale questa trivialità continua a trarre alimento e a ricevere legittimazione: a tale proposito limiterò le mie considerazioni a tre aspetti che mi paiono nevralgici.
1. L’universo cattolico intransigente entro il quale quest’ignoranza attecchisce è un universo rigorosamente declinato al maschile: la donna non vi è contemplata se non in qualità di figura deliberatamente relegata ai margini che riflette l’immagine, assai rassicurante per l’uomo, di un’obbedienza che rasenta la remissività. A questa malcelata misoginia l’associazionismo cattolico sta reagendo provando a gettare le basi di un’organizzazione ecclesiale profondamente distinta, che si ispira ai documenti di quel Vaticano II tradito dall’impronta autoritaria degli ultimi due pontificati [1]: l’impressione, però, è che sia la gerarchia, sia una fetta ancora troppo ampia della base cattolica siano sostanzialmente indifferenti (quando non espressamente ostili) alla necessità di proseguire (e in alcuni casi persino di avviare) un percorso di riflessione concernente la centralità e la peculiarità dello sguardo femminile al fine di rifondare il cristianesimo.
2. La tendenza sembra, piuttosto, quella volta a sollecitare l’immaginario sia maschile che femminile rimandandolo a figure in cui non è possibile rinvenire la pienezza della femminilità nella molteplicità delle sue forme espressive, affettive come sessuali. Di qui l’elogio tutt’altro che disinteressato di atteggiamenti quali la castità quando non addirittura di condizioni quali la verginità: null’altro che argini entro cui imprigionare il desiderio. Quello femminile, va da sé.
3. Affinché, però, non sia il desiderio maschile a ridestarsi da quel fondo oscuro entro cui l’educazione ecclesiastica lo relega, nulla di meglio che la famiglia, quella tradizionale, si capisce, per estinguerlo. Pazienza poi se la maggior parte delle violenze di cui le donne sono vittime si consumano entro pareti falsamente protettive che diventano prigioni. Ma tant’è, la famiglia rassicura: specie noi maschi, che così possiamo proseguire nella rimozione di quel timore del femminile a cui abbiamo ovviato con il dominio. E le donne seguitare in aeternum nel silenzio che è loro comandato. Come in chiesa, così in casa.
[1] Vorrei citare, su tutti, il prezioso lavoro svolto dal CTI (Coordinamento Teologhe Italiane; sito intetrnet: www.teologhe.org), presieduto dalla filosofa, teologa e biblista Marinella Perroni.
Alessandro Esposito - pastore valdese
L’epoca senza Edipo
Il desiderio onnipotente di Deleuze e Guattari
Quarant’anni fa il testo dei due studiosi che ha fatto storia
Ma quelle tesi così decisive hanno avuto anche effetti negativi
di Massimo Recalcati (La Repubblica, 17.11.2012)
Quest’anno ricorre il quarantennale dell’uscita di un libro che fece epoca: l’Anti- Edipo di Deleuze e Guattari che uscì a Parigi nel 1972. Si tratta della più potente critica alla pratica e alla teoria della psicoanalisi mossa da “sinistra”. Oggi, come sappiamo, imperversa la critica conservatrice: contro la psicoanalisi vengono invocati la psicologia scientifica, il potere chimico dello psicofarmaco, l’autorità esclusiva della psichiatria nel trattamento del disagio mentale. Invece gli autori dell’Anti- Edipo (un filosofo già molto noto e un brillante psichiatra analizzante di Lacan con il quale ruppe bruscamente) non rimproverano affatto alla psicoanalisi di non essere sufficientemente scientifica nella sue affermazioni teoriche e nella sua pratica clinica, ma qualcosa di assai più radicale. Le rimproverano di essere al servizio del potere e dell’ordine stabilito.
La loro accusa è che la psicoanalisi dopo aver scoperto il “desiderio inconscio” ha volutamente ridotto la portata rivoluzionaria di questa scoperta mettendosi al servizio del padrone. Su cosa si reggerebbe il culto psicoanalitico dell’Edipo se non sull’obbedienza cieca alla Legge repressiva e mortificante del padre? Nonostante la violenza spietata degli Anti-Edipo gli psicoanalisti dovrebbero leggere e rileggere ancora oggi la loro opera come un grande vento di primavera.
Sotto la retorica rivoluzionaria della liberazione del corpo schizo, fuori-Legge, del “corpo senza organi” come macchina desiderante, come fabbrica produttiva del godimento pulsionale, questo libro contiene una serie di rilievi alla psicoanalisi che non si possono accantonare: la critica relativa all’uso paranoico e violento dell’interpretazione (se un paziente dice X vuole dire Y), una rappresentazione dell’inconscio come teatrino familaristico, chiuso su se stesso, che perderebbe di vista il suo carattere sociale e i suoi infiniti concatenamenti collettivi, una apologia conformista e moralista del principio di realtà e dell’adattamento come fine ultimo della pratica analitica, l’uso tutto politico del denaro che seleziona i pazienti in base al loro reddito, una valorizzazione del-l’Io e del suo principio di prestazione, eccetera.
Eppure questo libro va molto al di là di questo, perché ha mobilitato alla rivolta una intera generazione, quella del ’77. Quest’opera è una critica politica alla psicoanalisi che non promuove tanto una improbabile teoria alternativa a quella psicoanalitica (la schizoanalisi) ma una vera e propria teoria della rivoluzione dove “tutto è possibile”.
A questa teoria si sono abbeverati con entusiasmo i giovani della mia generazione. Foucault aveva dichiarato che il nostro secolo forse sarebbe stato deleuziano. Aveva ragione ma in un senso probabilmente molto diverso da quello che auspicava. Il deleuzismo è sfuggito dalle mani di Deleuze (come spesso accade per tutti gli “ismi”).
L’Anti- Edipo ha dato involontariamente la stura ad un elogio incondizionato del carattere rivoluzionario del desiderio contro la Legge che ha finito paradossalmente per colludere con l’orgia dissipativa che ha caratterizzato i flussi - non delle macchine desideranti come si auspicavano Deleuze e Guattari - ma di denaro e di godimento che hanno alimentato la macchina impazzita del discorso del capitalista.
Lacan aveva provato a segnalare ai due questo pericolo. In una intervista rilasciata a Rinascita nel maggio del 1977 a chi gli chiedeva un parere sull’Anti- Edipo rispose che «L’Edipo costituisce di per se stesso un tale problema per me che non penso che ciò che Deluze e Guattari hanno voluto intitolare l’Anti- Edipo possa avere il minimo interesse».
Lacan avverte che non bisogna premere il grilletto troppo rapidamente sul padre. La contrapposizione rivoluzionaria tra le macchine desideranti e la Legge, tra la spinta impersonale e de-territorializzante della potenza del desiderio e la tendenza conservatrice alla territorializzazione rigida del potere e delle sue istituzioni (Chiesa, Esercito, famiglia, psicoanalisi...) rischiava di dissolvere il senso etico della responsabilità soggettiva.
Per Deleuze e Guattari la parola soggetto è infatti una parola da mettere al bando, così come Legge, castrazione, mancanza. L’Anti-Edipo compie un elogio a senso unico della forza della pulsione che lo fa scivolare fatalmente in una prospettiva di naturalizzazione vitalistica dell’umano.
La liberazione dei flussi del desiderio reagisce giustamente al culto rassegnato del principio di realtà al quale sembra votarsi la psicoanalisi, senza accorgersi di generare un nuovo mostro: il mito della schizofrenia come nome della vita che rigetta ogni forma di limite. Il mito del corpo schizo come corpo anarchico, a pezzi, pieno, senza organi, costruito come una macchina pulsionale che gode ovunque, antagonista alla gerarchia dell’Edipo, si è tradotto nei flussi della macchina cinica e perversa del discorso capitalista.
Eppure l’Anti-Edipo a rileggerlo oggi è anche molto più di questo. Non è solo la celebrazione di un desiderio che non riesce a fare i conti con la Legge della castrazione. C’è una linea più sottile che attraversa questo libro e che la nostra generazione non è riuscita probabilmente a cogliere sino in fondo. È un grande tema dell’Anti-Edipo anche se non il tema centrale. Deleuze e Guattari lo ripropongono attraverso le parole dello psicoanalista Reich: «perché le masse hanno desiderato il fascismo? ». Problema che ritroviamo intatto già in Spinoza: perchè gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro libertà?
In Millepiani Deleuze e Guattari, quasi dieci anni dopo l’Anti- Edipo, devono ritornare sull’opposizione tra desiderio e Legge con una precisazione che avrebbe dovuto essere presa più sul serio. Attenzioni ai micro-fascismi, ai micro-edipi che s’insediano proprio là dove pensavamo ci fosse il flusso liberatorio del desiderio. «La madre - scrivono i due - può credersi autorizzata a masturbare il figlio, il padre può diventare mamma». Un’autocritica che suona anticipatrice dei nostri tempi.
Come Nietzsche avvertiva gli uomini che vivevano nell’annuncio liberatorio della morte di Dio del rischio di generare nuovi idoli (lo scientismo, il fanatismo ideologico, l’ateismo stesso, ogni specie di fondamentalismo), allo stesso modo Deleuze e Guattari avvertono che esiste un pericolo insidioso inscritto nella stessa teoria del desiderio come flusso infinito, come “linea di fuga” che oltrepassa costantemente il limite. Attenzione, sembrano dirci, che questa linea «non si converta in distruzione, abolizione pura e semplice, passione d’abolizione». Attenzione che questa “linea di fuga” che rigetta il limite non diventi una “linea di Morte”.
Quando Buddha era un santo cristiano
La storia bizantina di Ioasaf, bestseller del Medioevo che anticipa il Siddharta di Hesse e avvia la lunga marcia dell’Illuminato in Occidente
di Silvia Ronchey (La Stampa, 13.11.2012)
«Perché non possiamo non dirci cristiani», scriveva il laico Croce, riflettendo sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta obiettività dovremmo oggi seriamente riflettere sul «perché non possiamo non dirci buddisti». Più di una filosofia e meno di una religione, il buddismo è forse la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più che dal cristianesimo, la filosofia moderna, esistenzialista e non.
Un silenzioso bestseller, il Siddharta di Hesse, ha orientato spontaneamente la formazione delle due ultime generazioni. Ratificata dalla New Age, ma già anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas Merton, l’accoglienza culturale e cultuale del buddismo ha prodotto un’ibridazione confessionale, in cui lo yoga cristiano e le forme di meditazione miste sono ormai consuetudine pacifica.
In genere si fa risalire l’influsso del buddismo nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire dell’Occidente allo slancio degli studi di orientalistica, da cui si dice fosse influenzato fin da ragazzo Schopenhauer. Ma in realtà il buddismo era già penetrato da secoli in Occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva e si era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il terreno alla definitiva svolta ottocentesca.
Fin dall’XI secolo il Buddha era diventato un santo della Chiesa cristiana. Il suo nome era stato solo lievemente mascherato:Ioasaf, da bodhisattva - budasaf - iudasaf, attraverso le varie versioni che avevano portato la sequenza di fatti, circostanze, archetipi e simboli, per così dire la stringa originaria della vita del Buddha, fino a Bisanzio.
Mai prima coagulata in un testo sacro, lì si era fatta libro. Il buddismo non aveva mai avuto una Scrittura, non essendo un’ortodossia ma un’ortoprassi dove ciò che importa è l’armonia del comportamento e non quella delle dottrine: fatto per adattarsi alle diverse culture, si rispecchiava diversamente nelle loro scritture. Ma la forza plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro per eccellenza, generò un nuovo testo originale: la Storia di Barlaam e Ioasaf, composta tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo da Eutimio di Iviron, un aristocratico ostaggio circasso educato all’alta cultura dei palazzi di Costantinopoli e diventato poi monaco sul Monte Athos.
È a partire da questo primo decalcarsi dell’impronta buddista nello stampo bizantino che la sequenza narrativa della vita del Buddha si moltiplicherà in progressione geometrica nella letteratura occidentale e Buddha estenderà la sua predicazione in Occidente en travesti, sotto forma di santo cristiano.
La storia del bodhisattva Ioasaf sarà uno dei libri più diffusi del Medioevo globale, un Siddharta ante litteram elevato a potenza. Dal testo greco passerà allo slavo ecclesiastico, di qui al russo e al serbo. Nell’Est del mondo la versione di Eutimio sarà tradotta, oltre che in arabo, in etiopico, armeno, ebraico, siriaco. Detti e fatti dell’alias cristiano di Siddharta risuoneranno in ogni lingua occidentale con una diffusione mai raggiunta da nessun’altra leggenda.
Attraverso il latino, ma con l’influenza del manicheismo, la sua storia raggiungerà la Provenza dei catari e degli albigesi. Si trasmetterà alle prime chanson de geste, ai poemi epici medievali in langue d’oïl, a quelli medio-alto-tedeschi, fino al Barlaam und Josaphat di Rudolf von Ems. Sedurrà l’Italia più mistica, il Trecento senese di Caterina, e attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio. Si affrancherà dal latino nei fabliaux, nei sunti dei Leggendari, nei misteri popolari, nelle ballate e nei ludi medievali del Maggio. Stupirà il pubblico nelle piazze e nelle sacre rappresentazioni. Attraverserà i confini settentrionali dell’Europa e arriverà fino al teatro di Shakespeare.
Nel Seicento vedrà la sua massima fortuna, da Port-Royal alla Spagna, dove Lope de Vega ne trarrà il suo Barlán y Josafá, per il cui tramite il giovane principe isolato dal mondo e assorbito nel sogno troverà il più completo ritratto occidentale in La vida es sueño di Calderón de la Barca. Sarà attraverso Calderón che la trama della vita del Buddha - questa leggenda dalle mille facce, questo punto dello spazio letterario che contiene tutti gli altri punti, proprio come l’Aleph di Borges - si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca e troverà ancora interpreti in Hugo von Hofmannsthal e in Marcel Schwob.
Intanto repertori come lo Speculum di Vincenzo di Beauvais e la Legenda aurea di Jacopo da Varazze avevano riflesso e nebulizzato nel loro perdurante raggio di influenza non solo la storia del Gautama Sâkyamuni, ma anche il lucente pulviscolo leggendario e sapienziale delle dieci fiabe o parabole che la scandiscono, la più famosa delle quali, l’apologo del Viandante e dell’Unicorno, oggi nota soprattutto nella sua versione zen, proprio attraverso il Barlaam e Ioasaf è dilagata in tutte le letterature del mondo.
Un uomo è inseguito da un unicorno imbizzarrito. Nella fuga inciampa e cade in un burrone. Mentre precipita riesce ad aggrapparsi a un arbusto. Guardando in giù però si accorge che due topi, uno bianco e uno nero, ne stanno rosicchiando le radici. In fondo al burrone vede un drago che lo aspetta a fauci spalancate. Esaminando il punto in cui appoggia i piedi vede quattro teste di serpenti che spuntano dalla parete di roccia. Alza gli occhi al cielo e vede che dai rami dell’arbusto sta colando del miele. Smette di pensare a tutto il resto e si concentra sulla dolcezza di quella piccola goccia di miele.
Avere portato in Occidente questa parabola, di origine forse giainista, è uno dei più squisiti meriti di Bisanzio. Quell’eco mistica arrivò a Baudelaire, per insinuarsi in Mon coeur mis à nu, e a Tolstoj, la cui Confessione è forse la più chiara enunciazione del buddismo cristiano: conosciuto mediante la tradizione ortodossa dei Menei, il Buddha bizantino, scrive, «gli rivelò il senso della vita».