BOCCACCIO, POETA TEOLOGO E FILOSOFO CRITICO.
Breve nota introduttiva ad alcune pagine, riprese dalla "De Genealogiis deorum gentilium" e dalla "Vita di Dante" *
Di Giovanni Boccaccio (1313-1375), a 699 anni dalla nascita, l’indignazione contro gli oltraggiatori dell’amore della verità (del "Sapere aude!" del suo tempo), che lo accusavano di riaprire e riallacciare i rapporti con la cultura e la lingua dell’antica Grecia, è tutta integra e fortissima - e quanto mai attuale!
Quanto sia decisivo il contributo di Boccaccio per tutto l’umanesimo e il rinascimento fiorentino e (con esso) per tutta la cultura europea, è ancora (al di là delle cerchie degli specialismi) per lo più sconosciuto. E anche da rivedere e ristudiare, più attentamente!
Proprio nei nostri giorni, un papa teologo - in verità, un papa teologo di Mammona - ha rimesso in circolo e in evidenza quanto la furia di Boccaccio fosse giustificata non solo contro gli intellettuali atei e devoti del suo tempo! Anzi, mai come oggi, contro chi (come il ratzingeriano Benedetto XVI) ha mostrato e mostra di riprendere - negando tutta la volontà ecumenica dantesca di Papa Roncalli (Giovanni XXIII, "Pacem in terris") e tutto il lavoro del Concilio Vaticano II - e insistere a portare avanti ossessivamente e perversamente il folle e fondamentalistico programma di Giovanni XXII e del suo cardinale Del Poggetto di distruggere (con il messaggio evangelico anche) la "Monarchia" e le stesse ossa di Dante (1329), brilla in tutta la sua magnificenza la consapevole scelta di Boccaccio di schierarsi a fianco di Dante e di porsi dentro la sua via filosofica e teologico-politica.
Gerusalemme, Atene, e Firenze. Nel "Decameron", Boccaccio aveva già posto il suo cammino sotto la guida di "Filomena", sotto il segno della Legge, della Giustizia e della Pace - di Melchisedech e di Solone (Trattatello in laude di Dante).
Certamente, oggi, senza l’eredità degli sviluppi della sua sollecitazione a riprendere e a riallacciare i legami con la cultura e la lingua greca, non apparirebbe (come appare!) del tutto ridicola la proposta del papa teologo di restaurare e modificare (sulle basi di una monca e interessata cognizione filologica) l’evangelica espressione «Questo è il mio sangue... versato per voi e per tutti in remissione dei peccati», con un "per voi e per molti" e spingere l’umanità nella palude dell’ignoranza di sè, del mondo, e di Dio!
Boccaccio già sapeva che Zeus (ne parla come del dio "che aiuta") era ed è un dio più cristiano del dio cattolico-romano del ratzingeriano Benedetto XVI ... e sicuramente avrebbe apprezzato e condiviso non solo il "rap" del contadino che da avvocato si conquistò il paradiso, ma anche il "fabliau" di Gianni Rodari.
Federico La Sala (24.05.2012)
Intorno al tema, nel sito E IN RETE, si cfr.:
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TESTI:
A) Da: "De Genealogiis deorum gentilium" (Libro XV, cap. VII) *
Che molti versi si sono posti in molti luoghi dell’opera non senza cagione.
Non dubito che o questi o altri diranno per qual ragione d’auttorità habbia posto nella mia opra molti versi greci. Il che veramente veggio che non procederà da fonte di carità, anzi da origine di malignità et nequitia. Ma non però, con l’aiuto d’Iddio, mi moverò a sdegno, anzi secondo usanza con humil passo andrò per la risposta.
Dico adunque a questi tali, se no’l sanno, che egli è pazzia cercar dai ruscelli quello che si può havere dai fonti.
Io havea i libri d’Homero, et ancho gli ho, da’ quali si sono tolte molte cose accommodate all’opra nostra, et da questi si può comprendere molte cose dagli antichi essere state raccolte. Da’ quali sì come da ruscelli non è dubbio che havrei potuto pigliarle, et spessissime fiate ne ho tolto; ma alle volte mi ha paruto meglio servirmi del fonte che del ruscello, né una sola volta mi è avenuto che nel ruscello non ho trovato quello di che era abondantissimo il fonte. Onde in tal modo hora la dilettatione et hora la necessità mi hanno nel fonte cacciato.
Oltre ciò, tal’hora gli scrittori si dilettano mischiare delle cose negli scritti che in qualche modo habbiano a fermare il lettore et guidarlo in dilettatione overo riposo, accioché con la troppa continuatione eguale della lettione venendoli noia non cessi dalla lettione et la tralasci. Il che forse talhora hanno potuto fare i versi in quella compartiti. Indi, quello che in propria forma è posto ha possa di rendere più stabili le forze del testimonio, se forse l’oppositore vi repugna.
Là onde adunque quelli che non daranno a me credenza sopra i versi notati di Homero, pigliando la Iliade overo l’Odissea potranno da sé stessi farne paragone, et così si chiariranno s’io havrò scritto cose vere o false. Et se saranno poi vere, mi concederanno miglior fede. Né, oltre questo, io son solo che habbia traposto le cose greche con le latine; l’usanza antica fu tale.
Veggano se gli piace i volumi di Cicerone, leggano gli scritti di Macrobio, riguardino i libri d’Apuleio, et per più non produrne, rivolgano le operette di Massimo Ausonio; che spessissime fiate ritroveranno questi havere fraposto i versi grechi nelle latine scritture.
In questo ho io seguito i loro vestigi. Ma m’imagino che subito diranno, se già questo fu lodevole, hoggi è fatica frivola; attento che non v’essendo nessuno che habbia cognitione delle lettere greche, l’antica usanza si è dimessa.
Ma io in ciò ho compassione della latinità. La quale se in tutto ha tralasciato gli studi greci, di maniera che non conosciamo i caratteri delle lettere, egli va male per lei; percioché, se bene tutto l’Occidente si rivolge ad apprendere la latina lingua, et che paia ch’ella da sé stessa negli studi sia sofficiente, nondimeno se fosse accompagnata con la greca molto più della sola greca sarebbe illustre, attento che non ancho gli antichi Latini hanno cavato tutto il buono dalla Grecia ma molte cose vi restano, et spetialmente da noi non conosciute, le quali sapendole potressimo diventare più dotti. Ma di questo, un’altra fiata.
Questi poi non hanno riguardo a cui dirizzi questa fatica, perché vederebbono ch’io la ho fatta a petitione di un re a cui non meno sono famigliari le lettere greche che le latine, et appresso il quale continuamente dimorano molti huomini greci et dotti, a’ quai non parranno superflui questi versi greci sì come paiono a- i Latini ignoranti.
Ma che tante cose? Acconsentiamo un poco a questi oltraggiatori. Per causa di dimostratione ho scritto et notato dei versi greci. Che sarà poi? Gli prego dirmi, debbo io per ciò essere morso? A cui faccio ingiuria io, se uso delle ragioni mie?
Se no’l sanno, questo è honore mio et gloria mia, cioè tra Thoscani usare versi greci. Non sono stato io quello che nella patria mia da Vinegia condussi Leontio Pilato, il quale venendo da lunghi viaggi voleva andare all’Occidentale Babilonia? No’l raccolsi nella mia propria casa, et lungamente ve’l tenni? Non procurai con grandissima fatica che fosse accettato tra i dottori dello studio Fiorentino, et fosse condotto a leggere con publico stipendio?
Fui veramente io, io sono stato il primo ch’a mie spese ho fatto ricondurre i libri d’Homero et alcuni altri greci in Thoscani, dalla cui si erano partiti molti secoli innanzi senza mai più ritornarvi; né solamente gli ho condotti in Thoscana, ma nella patria.
Io sono stato il primo tra Latini che da Leontio Pilato privatamente ho udito la Iliade. Io appresso sono stato quello che ho operato che i libri d’Homero fossero letti in publico; et se bene a pieno non ho compreso la lingua greca, almeno ho oprato et mi sono affaticato quanto ho potuto. Et non v’è dubbio che, se lungamente fosse dimorato appresso noi quel huomo vagabondo, che meglio l’havrei compresa.
Ma come che molti auttori greci habbia veduto, nondimeno per dimostratione del mio precettore ne ho compreso alcuni de’ quali secondo il bisogno nella presente opra mi sono servito.
Che male è questo l’havere scritto le favole de’ Greci, de’ quali questo libro n’è pienissimo; dal nome, per causa di dimostratione, si dice esser fatto, ma l’ha- vervi trapposto alcuni versi cavati dalle lettere greche si biasima. Puotè Mario d’Arpino, vinti gli Africani, i Cimbri et i Thedeschi, a guisa del padre Bacco usare del suo licore un beveraggio. Così ancho C. Duellio, che fu il primo che in battaglia di mare vinse i Cartaginesi, dalla cena ritornando a casa puotè sempre usare i lumi di cera, come che queste cose fossero contra il costume dei Romani. Et eglino il sopportarono patientemente; ma meco si corucciano alcuni, se oltre il solito dell’età nostra mescolo qualche verso greco con le scritture latine, et della fatica mia mi piglio un poco di gloria.
Veramente io istimava apportar qualche splendore alla latinità, là dove veggio contra di me haver mosso una nebbia di sdegno. Certamente mi doglio; ma che penso che faranno i dotti, conciosia che questi tali sono ancho per dir l’istesso degli altri. Nondimeno, se bene egli è da curarsene, tuttavia si può sopportare con patientia.
Finalmente prego tutti che sopportino ciò con animo quieto, ricordandosi (Testimonio Valerio) che non è sì humil vita che non sia toccata dalla dolcezza della gloria.
B) da: "VITA DI DANTE" *
1 - Proposizione
Solone, il cui petto uno umano tempio di divina sapienzia fu reputato, e le cui sacratissime leggi sono ancora alli presenti uomini chiara testimonianza dell’antica giustizia, era, secondo che dicono alcuni, spesse volte usato di dire ogni republica, sì come noi, andare e stare sopra due piedi; de’ quali, con matura gravità, affermava essere il destro il non lasciare alcuno difetto commesso impunito, e il sinistro ogni ben fatto remunerare; aggiugnendo che, qualunque delle due cose già dette per vizio o per nigligenzia si sottraeva, o meno che bene si servava, senza niuno dubbio quella republica, che ’l faceva, convenire andare sciancata: e se per isciagura si peccasse in amendue, quasi certissimo avea, quella non potere stare in alcun modo.
Mossi adunque più così egregii come antichi popoli da questa laudevole sentenzia e apertissimamente vera, alcuna volta di deità, altra di marmorea statua, e sovente di celebre sepultura, e tal fiata di triunfale arco, e quando di laurea corona secondo i meriti precedenti onoravano i valorosi; le pene, per opposito, a’ colpevoli date non curo di raccontare. Per li quali onori e purgazioni la assiria, la macedonica, la greca e ultimamente la romana republica aumentate, con l’opere le fini della terra, e con la fama toccaron le stelle.
Le vestigie de’ quali in così alti esempli, non solamente da’ successori presenti, e massimamente da’ miei Fiorentini, sono male seguite, ma intanto s’è disviato da esse, che ogni premio di virtù possiede l’ambizione; per che, sì come e io e ciascun altro che a ciò con occhio ragionevole vuole guardare, non senza grandissima afflizione d’animo possiamo vedere li malvagi e perversi uomini a’ luoghi eccelsi e a’ sommi oficii e guiderdoni elevare, e li buoni scacciare, deprimere e abbassare. Alle quali cose qual fine serbi il giudicio di Dio, coloro il veggiano che il timone governano di questa nave: perciò che noi, più bassa turba, siamo trasportati dal fiotto, della Fortuna, ma non della colpa partecipi. E, come che con infinite ingratitudini e dissolute perdonanze apparenti si potessero le predette cose verificare, per meno scoprire li nostri difetti e per pervenire al mio principale intento, una sola mi fia assai avere raccontata (né questa fia poco o picciola), ricordando l’esilio del chiarissimo uomo Dante Alighieri.
Il quale, antico cittadino né d’oscuri parenti nato, quanto per vertù e per scienzia e per buone operazioni meritasse, assai il mostrano e mostreranno le cose che da lui fatte appaiono: le quali, se in una republica giusta fossero state operate, niuno dubbio ci è che esse non gli avessero altissimi meriti apparecchiati.
Oh scellerato pensiero, oh disonesta opera, oh miserabile esemplo e di futura ruina manifesto argomento! In luogo di quegli, ingiusta e furiosa dannazione, perpetuo sbandimento, alienazione de’ paterni beni, e, se fare si fosse potuto, maculazione della gloriosissima fama, con false colpe gli fur donate. Delle quali cose le recenti orme della sua fuga e l’ossa nelle altrui terre sepulte e la sparta prole per l’altrui case, alquanto ancora ne fanno chiare. Se a tutte l’altre iniquità fiorentine fosse possibile il nascondersi agli occhl di Dio, che veggono tutto, non dovrebbe questa una bastare a provocare sopra sé la sua ira? Certo sì. Chi in contrario sia esaltato, giudico che sia onesto il tacere.
Sì che, bene ragguardando, non solamente è il presente mondo del sentiero uscito del primo, del quale di sopra toccai, ma ha del tutto nel contrario vòlti i piedi. Per che assai manifesto appare che, se noi e gli altri che in simile modo vivono, contro la sopra toccata sentenzia di Solone, sanza cadere stiamo in piede, niuna altra cosa essere di ciò cagione, se non che o per lunga usanza la natura delle cose è mutata, come sovente veggiamo avvenire, o è speziale miracolo, nel quale, per li meriti d’alcuno nostro passato, Dio contra ogni umano avvedimento ne sostiene, o è la sua pazienzia, la quale forse il nostro riconoscimento attende; il quale se a lungo andare non seguirà, niuno dubiti che la sua ira, la quale con lento passo procede alla vendetta, non ci serbi tanto più grave tormento, che appieno supplisca la sua tardità.
Ma, perciò che, come che impunite ci paiono le mal fatte cose, quelle non solamente dobbiamo fuggire, ma ancora, bene operando, d’ammendarle ingegnarci; conoscendo io me essere di quella medesima città, avvegna che picciola parte, della quale, considerati li meriti, la nobiltà e la vertù, Dante Alighieri fu grandissima, e per questo, sì come ciascun altro cittadino, a’ suoi onori sia in solido obbligato come che io a tanta cosa non sia sofficiente, nondimeno secondo la mia picciola facultà, quello che essa dovea verso lui magnificamente fare, non avendolo fatto, m’ingegnerò di far io; non con istatua o con egregia sepoltura, delle quali è oggi appo noi spenta l’usanza, né basterebbono a ciò le mie forze, ma con lettere povere a tanta impresa. Di queste ho, e di queste darò, acciò che igualmente, e in tutto e in parte, non si possa dire fra le nazioni strane, verso cotanto poeta la sua patria essere stata ingrata. [...]
[...] Similemente questo egregio autore nella venuta d’Arrigo VII imperadore fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale, secondo tre quistioni le quali in esso ditermina, in tre libri divise. Nel primo loicalmente disputando, pruova che a ben essere del mondo sia di necessità essere imperio: la quale è la prima quistione. Nel secondo, per argomenti istoriografi procedendo, mostra Roma di ragione ottenere il titolo dello imperio: ch’è la seconda quistione. Nel terzo, per argomenti teologi pruova l’autorità dello ’mperio immediatamente procedere da Dio, e non mediante alcuno suo vicario, come li chierici pare che vogliano; ch’è la terza quistione.
Questo libro più anni dopo la morte dell’auttore fu dannato da messer Beltrando cardinale del Poggetto e legato di papa nelle parti di Lombardia, sedente Giovanni papa XXII. E la cagione fu perciò che Lodovico, duca di Baviera, dagli elettori della Magna eletto in re de’ Romani, e venendo per la sua coronazione a Roma, contra il piacere del detto Giovanni papa essendo in Roma, fece, contra gli ordinamenti ecclesiastici, uno frate minore, chiamato frate Pietro della Corvara, papa, e molti cardinali e vescovi; e quivi a questo papa si fece coronare. E, nata poi in molti casi della sua auttorità quistione, egli e’ suoi seguaci, trovato questo libro, a difensione di quella e di sé molti degli argomenti in esso posti cominciarono a usare; per la qual cosa il libro, il quale infino allora appena era saputo, divenne molto famoso.
Ma poi, tornatosi il detto Lodovico nella Magna, e li suoi seguaci, e massimamente i cherici, venuti al dichino e dispersi, il detto cardinale, non essendo chi a ciò s’opponesse, avuto il soprascritto libro, quello in publico, sì come cose eretiche contenente, dannò al fuoco.
E il simigliante si sforzava di fare dell’ossa dell’auttore a etterna infamia e confusione della sua memoria, se a ciò non si fosse opposto un valoroso e nobile cavaliere fiorentino, il cui nome fu Pino della Tosa, il quale allora a Bologna, dove ciò si trattava, si trovò, e con lui messer Ostagio da Polenta, potente ciascuno assai nel cospetto del cardinale di sopra detto. [...]
DANTE (Paradiso, Canto XXI):
La polemica anti-ecclesiastica attraversa tutto il poema dantesco ed assume particolare importanza soprattutto nella III Cantica, tuttavia Dante non è l’unico autore del Trecento a rivolgere le sue critiche alla corruzione della Chiesa e al lusso dei prelati: diversi sonetti del Canzoniere di F. Petrarca sono diretti contro la Curia papale di Avignone, descritta come empia Babilonia in cui alligna ogni vizio, e G. Boccaccio in molte novelle del Decameron critica vari aspetti della vita religiosa, in particolare l’ipocrisia dei chierici che si dimostrano avidi di ricchezze e dediti ai piaceri carnali.
Interessante sotto questo punto di vista è la novella che vede protagonista l’abate di Cluny (X, 2), un ricchissimo prelato che si reca a Roma a rendere visita a papa Bonifacio VIII con tutto il suo seguito di servi e bagagli, ottenendo poi dal pontefice il permesso di recarsi ai bagni di Siena per curare il mal di stomaco di cui soffre, probabilmente per gli eccessi di gola a cui solitamente si abbandona. Il prelato si mette in viaggio con tutto il suo corteo di portatori e paggi, montando a cavallo come un nobile signore feudale, ma quando attraversa il territorio controllato dal famoso masnadiero Ghino di Tacco viene fatto prigioniero con tutto il seguito: Ghino era un nobile senese cacciato dalla sua città, che indusse la città di Radicofani a ribellarsi alla Chiesa di Roma e si diede al brigantaggio, citato anche dallo stesso Dante in Purg., VI, 13 come l’assassino del giudice Benincasa da Laterina posto fra i morti per forza dell’Antipurgatorio.
All’inizio l’abate si mostra insofferente alla prigionia e minaccia severi castighi a Ghino, il quale gli si presenta senza rivelare la sua identità e, appresi i problemi di salute del prelato, lo aiuta a guarire facendogli mangiare pane arrostito e vernaccia: la dieta forzata ha il suo benefico effetto, tanto che le condizioni dell’abate migliorano e alla fine Ghino di Tacco si svela finalmente per quello che è, ospitando fra l’altro il prelato e tutto il suo seguito in un raffinato banchetto in cui fa sfoggio di magnificenza e liberalità (è questo il tema della Giornata conclusiva del Decameron).
La vicenda dell’abate è una sorta di edificante apologo, poiché egli guarisce il suo stomaco astenendosi dai suoi stravizi culinari (il riferimento evangelico al pane e al vino ha un evidente significato religioso) e moderando anche il suo orgoglio nobiliare, al punto che non solo rinuncia ai suoi propositi vendicativi contro Ghino ma addirittura intercederà presso il papa Bonifacio VIII perché i due possano riconciliarsi, così che il papa nominerà il brigante frate dell’Ordine degli Spedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, in virtù delle buone cure prestate all’abate di Cluny.
Quanto meno curioso è poi il giudizio benevolo che Boccaccio dà non solo di Ghino, descritto come un nobile e magnificente signore e non come assassino e predone, ma dello stesso Bonifacio VIII, definito colui che di grande animo fu, e vago (compiaciuto) de’ valenti uomini, il che contrasta con la condanna terribilmente severa che contro questo pontefice Dante pronunciò a più riprese nella Commedia: segno che i tempi in cui visse l’autore del Decameron erano decisamente cambiati e lo scrittore del tardo Trecento poteva guardare certi personaggi e episodi storici con occhio meno critico, nonostante il culto che Boccaccio nutrì verso Dante e la sua opera (ben diversa, del resto, era la natura della polemica anticlericale di Boccaccio, rivolta non tanto alla simonia e alla corruzione ma all’ipocrisia dei comportamenti dei religiosi, specie in materia sessuale).
(per ulteriori informazioni è possibile visitare il sito www.decameron.weebly.com)
BOCCACCIO E "DIECI FIORINI D’ORO“: UN PROBLEMA DI STORIOGRAFIA E FILOLOGIA.
Se è vero, come Pupi Avati scrive ("Il mio Dante", "Insula europea", 3 febbraio 2020), che «"L’origine delle idee non la si percepisce mai” lo asseriva il Budda e per quello che mi riguarda ho da sempre la sensazione che sia assolutamente vero» .... allora bisogna solo ringraziarlo per la schiettezza e, al contempo, prendere atto che, con il suo film "il mio Dante", si assiste solo all’ennesimo ritornello storiografico che del viaggio di Dante (dell’uomo e del poeta), per "dieci fiorini d’oro", si compra lo spirito fondante ("l’amor che move il sole e le altre stelle") e si finisce per celebrare il desiderio di fama e di gloria di Boccaccio (non di Dante Alighieri): "Insomma Boccaccio voleva davvero che si facesse questo film" (Pupi Avati)!
#Dantedì 2023. Ma non è il caso e il tempo di uscire dal #letargo (Pd. XXXIII, 94) e ricordare che la primavera è già arrivata e che oggi è il 25 marzo?!
HAMLETICA-MENTE E APOCALITTICAMENTE.
Storia, filologia, antropologia e letteratura:
oltre la tragedia, la divina commedia.
Dopo sette secoli dalla morte di Dante Alighieri non è ora di svegliarsi dal sonno dogmatico e uscire dallo stato di minorità (Kant)?
In memoria di Gioacchino da Fiore ...
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#ACHEGIOCOGIOCHIAMO? A ben considerare, dopo i #maestridelsospetto e, in particolare, dopo #Freud, non è possibile cominciare a pensare che il #sogno di Dante relativo a "Beatrice nuda" sia da interpretare come la visione della sua #beata e #Bella #madre? Non è #ora e qui ("now-here") necessario mettere in conto, filologicamente, che la figlia di Dante Alighieri, Maria #Antonia, quando entra in #convento, prende il nome di (Maria) #Beatrice, e al contempo, che la #Commedia è opera di Dante Alighieri, non di #GiovanniBoccaccio?!
Non è ancora il tempo di uscire dal #letargo (Pd. XXXIII, 94)?
#CINEMA, #LETTERATURA, #FILOLOGIA, E #CRITICA: BOCCACCIO, “IL MIO DANTE”, E “DIECI FIORINI D’ORO“.
Un omaggio a #Pupi Avati...
Se è vero, come Pupi Avati scrive (“Il mio Dante”, Insula europea, 3 febbraio 2020), che «”L’origine delle idee non la si percepisce mai” lo asseriva il Budda e per quello che mi riguarda ho da sempre la sensazione che sia assolutamente vero» .... allora bisogna solo ringraziarlo per la schiettezza (sveglia da un #sonnodogmatico di #lungadurata) e, al contempo, prendere atto che, con il suo #film “il mio Dante”, si assiste solo all’ennesimo #ritornello storiografico che del viaggio di Dante (dell’uomo e del poeta), per “dieci fiorini d’oro”, si compra lo spirito fondante (“l’amor che move il sole e le altre stelle”) e si finisce per celebrare il desiderio di fama e di gloria di #Boccaccio (non di #DanteAlighieri): “Insomma Boccaccio voleva davvero che si facesse questo film” (Pupi Avati)!
LETTERATURA, ANTROPOLOGIA, E PSICOANALISI:
IL "DE AMORE" (Andrea Cappellano), LA "VITA NUOVA" (Dante Alighieri), E IL "DECAMERON" (Giovanni Boccaccio). Una nota su un nodo non sciolto... *
STORIA E STORIOGRAFIA. Sulle ragioni da parte di Boccaccio della costruzione nell’analisi della vita di Dante, forse, concorrono insieme
A) la non comprensione della "Vita Nuova" e della "Commedia" stessa di Dante, che, con l’aiuto di #Virgilio (e di #Beatrice, sollecitata da #Lucia, su intervento di #Maria), cerca di riprendere il filo di tutta la storia dell’#umanità e ri-indicare la "diritta via" per ritrovare il #paradisoterrestre, con la ricostruzione del #presepe (come da indicazione di Francesco d’Assisi),
B) e, al contempo, la volontà di rinchiudere il messaggio di Dante nel suo tempo, quello segnato ancora dall’ amore, entro le coordinate non chiare e non risolte della "sintesi", proposta nel "De amore" di Andrea Cappellano, della letteratura «#cortese»,
C) e, non ultima, una interpretazione della tradizione religiosa diversa dalla radicalità teologico-politica di Dante. Il risultato si vede (ancora) dinanzi agli occhi delll’attuale presente storico: il "De amore" di Cappellano si confonde con l’amore della Divina Commedia e con l’amore del Decameron; e lo sguardo antropologico (prima che politico) dei "due soli" di Dante è ancora addirittura difficile da concepirsi e si confonde ancora "charitas" (amore), con "caritas" (#mammona) e con l’avidità di Eros (#Cupìdo).
#DANTE, #MILTON, E #FREUD. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo #amore, ho trovato consolazione e conforto».
#EARTHRISE #METAPHYSICS #ANTHROPOLOGY #ELEUSIS2023 #ROMA2024
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"DIVINA COMMEDIA" FILOLOGIA E "DISAGIO DELLA CIVILTÀ" (FREUD, 1929).
In onore e in memoria di Gemma Donati e Bella Degli Abati...
Se non si vuol continuare a credere alla tradizionalissima "costruzione" di #Boccaccio su #Dante e la sua famiglia, credo sia opportuno proseguire su questi passi d’indagine #critica (*) e cominciare a pensare che #Gemma, la moglie di Dante, nella #Commedia, sia la figura di #Lucia, e, al contempo, #Beatrice sia la madre di Dante, #Bella degli Abati.
Dopo i #maestridelsospetto (#Marx #Nietzsche e #Freud), come è possibile (#Kant) continuare a pensare, all’altezza del #Dantedi2021, che l’uomo e il poeta Dante tradisca spiritualmente non solo la sua sposa #GemmaDonati ma anche i suoi figli e la sua figlia Antonia, suor #Beatrice?
Non è meglio, forse, uscire dal #letargo e dall’#inferno a rivedere il Sole e le altre stelle... e riflettere un poco su una ipotesi di rilettura della Commedia, avanzata nel 2007? 🌞🌞🙏
* Cfr. Arnaldo Casali, "Gemma, la moglie di Dante", Festival del Medioevo.
#EARTHRISE #METAPHYSICS #ANTHROPOLOGY #ELEUSIS2023 #ROMA2024
Gemma, la moglie di Dante
Dante Alighieri è nel suo studio, intento a correggere il manoscritto della Commedia. “Questo m’è venuto proprio bene - commenta - Lucevan li occhi suoi più che la stella”.
“Sempre a parlare di donne, eh. Ma nessuna, nessuna delle tue poesie parla di me!” sbotta Gemma, entrata nella stanza.
“Ma che c’entra? Tu sei mia moglie!”
“E allora? Sembra sconveniente, per i poeti, scrivere della moglie. Chissà perché invece è del tutto naturale scrivere di un’altra donna. Peraltro moglie anche lei. Di un altro, però...”.
Non è improbabile come potrebbe apparire, questa immaginaria scenata di gelosia ai danni del Sommo Poeta da parte della legittima consorte: l’unica donna di cui Dante Alighieri non parla mai nei suoi scritti, che hanno reso immortali figure femminili come Francesca, Pia, Costanza, Cunizza da Romano, Matelda e persino Piccarda Donati, cugina della stessa Gemma e strappata al monastero per un matrimonio imposto dai parenti.
Gemma Donati era nata a Firenze il 3 marzo 1265, figlia del nobile ser Manetto, ed era coetanea di Dante e un anno più vecchia di Bice Portinari, la donna che le ruberà il posto nella Storia. E certo la povera donna non doveva essere troppo contenta del fatto che tutta Firenze parlasse dell’amore immortale di suo marito per Beatrice.
D’altra parte, di fronte a qualsiasi obiezione il capo famiglia le avrebbe risposto che “le donne non capiscono queste cose. L’amore di cui scrivo è una cosa diversa. Tu sei mia moglie, sei la madre dei miei figli”.
E la moglie non può mai essere la donna che si ama. Basti pensare alle storie di Francia: qualche volta succede che si arriva a sposare la donna che si ama, però poi la storia finisce subito. L’amata può diventare la moglie, ma la moglie non può diventare l’amata. Che cosa sarebbe successo, se Tristano avesse sposato Isotta o se Romeo e Giulietta fossero vissuti felici e contenti?
Certo Dante non avrebbe mai potuto - e probabilmente nemmeno voluto - sposare Beatrice. E anche solo a pensare una cosa del genere, gli sarebbe sembrato di sminuire quell’amore così nobile.
Quanto a Gemma, il 9 gennaio 1277 - quando avevano appena undici anni - era stata promessa a Dante con un atto firmato presso il notaio ser Oberto Baldovini e una dote di 200 fiorini.
I Donati - a cui apparteneva il barone Corso, capo della fazione dei Neri, e Forese, amico di Dante - erano una delle famiglie più influenti di Firenze e storica rivale degli Alighieri. Le nozze erano quindi strategiche per entrambe le casate.
Una decina di anni dopo viene celebrato il matrimonio. La datazione è tutt’altro che sicura: alcuni lo collocano tra il 1283 e il 1285, altri tra il 1290 e il 1295. Dall’unione nascono comunque quattro figli: Iacopo, Pietro, Antonia e Giovanni.
Secondo una teoria piuttosto improbabile di Giovanni Boccaccio, i genitori decidono di far prendere moglie a Dante per consolarlo della morte di Beatrice.
Dante sembra rispondere al più classico stereotipo dell’uomo distrutto: spento, trasandato, con la barba lunga, passa le giornate fissando il vuoto. Quando sembra aver finalmente superato il lutto, racconta l’autore del Decameron, i genitori decidono che è venuto il momento di farlo sposare:
“Rincominciarono a sollecitare lo sconsolato; il quale, come che infino a quella ora avesse a tutte ostinatamente tenute le orecchie chiuse, alquanto le cominciò non solamente ad aprire, ma ad ascoltare volentieri ciò che intorno al suo conforto gli fosse detto. La qual cosa veggendo i suoi parenti, acciò che del tutto non solamente de’ dolori il traessero ma il recassero in allegrezza, ragionarono insieme di volergli dar moglie; acciò che, come la perduta donna gli era stata di tristizia cagione, così di letizia gli fosse la nuovamente acquistata. E, trovata una giovane, quale alla sua condizione era decevole, con quelle ragioni che più loro parvero induttive, la loro intenzione gli scoprirono. E dopo lunga tencione, senza mettere guari di tempo in mezzo, al ragionamento seguì l’effetto: e fu sposato”.
Le conseguenze del matrimonio, però, sono disastrose. D’altra parte, dice Boccaccio, “qual medico s’ingegnerà di cacciare l’aguta febbre col fuoco, o il freddo delle medolla dell’ossa col ghiaccio o con la neve?”.
Secondo il primo dantista il matrimonio per il poeta si rivela una gabbia. Dante non sopporta di dover rendere conto delle sue azioni e dei suoi sentimenti a qualcuno:
“Egli, usato liberamente di ridere, di piagnere, di cantare o di sospirare, secondo che le passioni dolci o amare il pungevano, ora o non osa, o gli conviene non che delle maggiori cose, ma d’ogni picciol sospiro rendere alla donna ragione, mostrando che ’l mosse, donde venne e dove andò; la letizia cagione dell’altrui amore, la tristizia esser del suo odio estimando. Oh fatica inestimabile, avere con così sospettoso animale a vivere, a conversare, e ultimamente a invecchiare o a morire!”.
Insomma Gemma è una donna invadente e indiscreta. In una parola insopportabile, di certo non remissiva e sottomessa e l’insofferenza di Dante è tanta da portare ad una vera e propria separazione dei coniugi:
“Egli, una volta da lei partitosi, che per consolazione de’ suoi affanni gli era stata data, mai né dove ella fosse volle venire, né sofferse che là dove egli fosse ella venisse giammai; con tutto che di più figliuoli egli insieme con lei fosse parente”.
Che le nozze combinate per strategia politica non si fossero rivelate particolarmente esaltanti è probabile. Ma è pur vero che Boccaccio, per sua stessa ammissione, nutre un certo pregiudizio nei confronti del matrimonio, che - a suo avviso - non è roba per intellettuali. -“Lascino i filosofanti lo sposarsi a’ ricchi stolti, a’ signori e a’ lavoratori - commenta infatti subito dopo - e essi con la filosofia si dilettino, molto migliore sposa che alcuna altra”.
D’altra parte è difficile che Boccaccio abbia inventato tutto di sana pianta, visto che per scrivere la biografia aveva effettuato delle vere e proprie interviste a persone che avevano conosciuto personalmente Dante, a cominciare dalla figlia Antonia, monaca a Ravenna; che peraltro, assumendo il nome di suor Beatrice aveva a sua volta dimostrato più venerazione per la musa del padre che per la sua stessa madre.
Se dunque la versione dello scrittore certaldese - pur molto discussa - fosse attendibile, non dovrebbe stupirci vedere Gemma impegnata a chiedere conto al marito del suo amore per Beatrice.
“Se l’avessi amata davvero magari anche nel modo in cui Paolo amava Francesca, l’avresti almeno pensato, di sposarla! Fra te e lei non c’è mai stato altro che un saluto vero? Un saluto suo, peraltro... non si capisce nemmeno se tu rispondevi. Oppure questo è quello che scrivi, e nella realtà le cose sono andate diversamente?”.
“Io non le ho mai sfiorato l’orlo della veste se è questo che vuoi sapere - replica lui, insofferente - nemmeno con il pensiero! E lei è morta da anni, ormai”.
“Lei è morta, lo so - dice Gemma - ma più passa il tempo e più è viva... e se fosse una donna vivente, anche amata da te, non mi darebbe da pensare. I morti sono più forti dei vivi, contro di loro non si può combattere”.
“Lei per me - ribatte Dante - era... un annuncio. Una via d’accesso a un’altra realtà, diversa da questa nostra terrena. Era un’elevazione. -Amandola senza chiedere nulla e senza volere nulla, io mi innalzavo al di là di me stesso. Al di là di questo mondo di vane parvenze. Lei era un’intenzione di Dio fatta visibile. Lei era la più pura immagine vivente di Dio. Tu vivi accanto a me. Lei non ti ha tolto nulla, come tu non potevi togliere nulla a lei. Io ho sposato te”.
“Insomma, io la carne e lei lo spirito”.
“Ecco, sì, qualcosa del genere”.
È pur vero che se della moglie non scrive, con la sua famiglia Dante rimarrà sempre in ottimi rapporti; segno che a prescindere da quanto fosse forte l’intesa tra i due coniugi, una rottura vera non ci fu mai.
Opinione abbastanza diffusa è comunque che Gemma - a differenza dei figli - non abbia seguito il marito nell’esilio. Sarebbe dunque questa la separazione a cui allude Boccaccio.
L’unica certezza è che alla morte di Dante - avvenuta a Ravenna nel 1321 - Gemma era ancora viva, e nel 1329 reclamò presso le autorità fiorentine la parte della sua dote dai beni confiscati al marito.
Trasferitasi dal borgo di San Martino del Vescovo in quello di San Benedetto, Gemma morì tra gli ultimi mesi del 1342 e i primi del 1343: in un atto del 9 gennaio del 1343, infatti, Iacopo Alighieri si dichiara erede della madre.
“Senti un’altra cosa - fa la donna prima di lasciare il marito alle sue pergamene - c’è Nella, la moglie di mio cugino Forese, che è molto offesa con te, lo sapevi sì? In quei sonetti orribili, pieni di oscenità che tu e Forese vi scrivete, devi avere detto qualcosa anche di lei... che Forese a letto non vale niente, che sua moglie ha freddo. Non ho capito nemmeno tutto, di quella roba, ma Nella ha tolto il saluto anche a me”.
“Mai dai, si fa per scherzare - risponde il Sommo Poeta ridendo - Voi donne non le capite queste cose. Tu comunque quelle poesie non le dovresti nemmeno leggere. Mi stupisco di te: non sono cose da donne oneste”.
“Com’è che gli uomini onesti possono scrivere cose che le donne oneste non possono leggere?”.
“Uomini e donne sono fatti da Dio in modo diverso, per diversi destini” conclude il capo famiglia con spocchia e insofferenza, ritornando a lavorare al suo libro. Un libro in cui Beatrice arriverà addirittura a guidarlo in Paradiso, e da cui la moglie resterà completamente esclusa.
Eppure, nel finale del canto quinto del Purgatorio, potrebbe essere nascosto un affettuoso omaggio del poeta a Gemma. Facendo parlare Pia dei Tolomei del suo matrimonio, infatti inerisce - pur se “nascosto” - il nome della moglie.
“Ricorditi di me, che son la Pia: Siena mi fé, disfecemi Maremma: salsi colui che ‘nnanellata pria disposando m’avea con la sua gemma”.
Arnaldo Casali
Dorotea Bucca, la prima insegnante universitaria
di Arnaldo Casali (Festival del Medioevo)
Ha aperto un varco nella Storia come solo pochissime donne sono riuscite a fare: è la Giovanna d’Arco della scienza e della filosofia, l’Ipazia di Alessandria del Medioevo, la Chiara d’Assisi del mondo laico, una precorritrice dell’intero movimento femminista.
Dorotea Bucca è la prima insegnante universitaria della storia, salita in cattedra nella prima università d’Europa, in un’epoca in cui alle donne veniva impedito di studiare anche solo per imparare a leggere e scrivere.
Come Ipazia è figlia d’arte, come Giovanna cresce in una famiglia che asseconda le sue attitudini, come Chiara è la prima donna ad assumere incarichi prettamente maschili, come altre pochissime donne del Medioevo riuscirà a farsi largo in un mondo di uomini divenendo l’autorevole maestra per centinaia di loro.
A differenza però di Ipazia (capo della scuola di Alessandria nel IV secolo), di Giovanna (condottiera dell’esercito francese alla riscossa durante la Guerra dei Cent’anni) e di Chiara (prima donna a scrivere una regola monastica), di Dorotea sappiamo pochissimo; nessuno dei suoi contemporanei, pur riconoscendone l’autorità e l’importanza, si è infatti preso la briga di raccontarne la vita, e nemmeno uno dei suoi scritti è giunto fino a noi.
Tutto ciò che sappiamo su Dorotea Bucca, di fatto, è quanto riportato nel libro di Giovanni Boccaccio Delle donne illustri. Con una piccola notazione da premettere: e cioè che Boccaccio è vissuto tra il 1313 e il 1375, mentre Dorotea dal 1360 al 1436; aveva quindi appena quindici anni quando morì il suo presunto biografo.
In effetti il libro dedicato dallo scrittore fiorentino alle grandi donne dell’antichità e del Medioevo ci è giunto attraverso una stampa pubblicata da Filippo Giunti e curata da Francesco Serdonati nel 1596: è lui, dunque, l’autore del profilo biografico della prima docente universitaria donna, aggiunto - insieme a molti altri - nella nuova edizione dell’opera di Boccaccio, tradotta dal latino in volgare da Giuseppe Betussi e aggiornata “con una giunta fatta dal medesimo d’altre donne famose e un’altra nuova giunta fatta da Francesco Serdonati d’altre donne illustri antiche e moderne”.
Donati racconta che Dorotea, nata a Bologna nel 1360, era figlia di un importante insegnante dell’università di Bologna, di cui ci sono rimaste però ancora meno notizie che su di lei: Giovanni Bucco, “bolognese filosofo e medico di gran fama”.
Giovanni aveva dunque “una figliuola nomata Dorotea, la quale s’esercitò parimente nelle lettere e fece tal profitto, che ancor essa meritò di conseguire l’insegne del dottorato nello studio di Bologna nella scienza di filosofia”.
Giovanni è così fiducioso nel talento della figlioletta, da incoraggiarla nello studio delle lettere e della medicina fino a farle conseguire il dottorato in filosofia. Poco dopo Dorotea si cimenta in una pubblica lettura all’Università di Bologna, ottenendo un successo tale, che alla morte del padre nel 1390 è lei stessa a ereditare la cattedra di medicina e filosofia dello Studio bolognese. “Come ancora oggi - scrive Serdonati - appare nella camera di Bologna al campione dei lettori stipendiati”. Per continuare a insegnare agli studenti del padre, a Dorotea - che ha trent’anni di età - viene garantito uno stipendio di cento lire, cifra enorme per il periodo.
Dorotea, scrive ancora il biografo, “esercitò molti anni tale ufficio con suo grande onore e con soddisfazione di tutta la città e a udir lei concorrevano molti scolari d’ogni nazione, cosa veramente rara e degna d’esser notata e ammirata”.
La prima insegnante universitaria donna occuperà infatti la cattedra per ben 46 anni, fino al 1436, quando morirà quasi ottantenne tra la venerazione dei suoi studenti.
A differenza di molte sue “colleghe” femministe ante litteram, infatti, Dorotea affronta una carriera sostanzialmente priva di ostacoli: i suoi quasi cinquant’anni di insegnamento trascorrono serenamente nel rispetto dei colleghi e degli allievi: forse anche per questo il suo personaggio non ha “fatto notizia” ed è ignorato persino dall’Enciclopedia Treccani.
Se pensiamo a Ipazia (massacrata da fanatici cristiani), a Giovanna d’Arco, abbandonata dal suo stesso re nelle mani del nemico e bruciata sul rogo, e agli stessi scontri tra Chiara d’Assisi e il papato, ci rendiamo conto che la maggior parte delle grandi donne del Medioevo ha fatto emergere la propria grandezza attraverso il conflitto con gli uomini, pagando spesso con la vita il prezzo del carisma e dell’indipendenza.
È vero anche, però, che il contesto in cui cresce Dorotea è il migliore che la giovane intellettuale possa trovare in Europa: c’è infatti molta più apertura in Italia, riguardo all’educazione delle donne in materie scientifiche, di quanto non avvenga nello stesso periodo, ad esempio, in Inghilterra.
Nel suo campo Dorotea trova un antecedente innanzitutto nelle mulieres salernitane, le donne della Scuola medica di Salerno che - caso unico nella storia accademica - godevano di ancora maggiore autorevolezza dei colleghi uomini. La più celebre tra esse era Trotula di Salerno, “magistra” nata tra il 1030 e 1040 e morta verso la fine del secolo, che aveva sposato Giovanni Plateario senior, altro illustre maestro della Scuola, scritto il libro De mulierum passionibus e trovato il tempo di crescere due figli: Giovanni Plateario il Giovane e Matteo Plateario.
Contemporanee di Dorotea sono invece Albella (che compone due trattati in versi), Mercuriade (autrice di quattro opere), Jacobina Felice, Alessandra Giliani e Margherita.
Successivamente si faranno notare invece Costanza Calenda e Rebecca Guarna, fisica, chirurga e scrittrice del XIV secolo, cresciuta in un’importante famiglia salernitana e destinata a lasciare alcuni trattati su febbre, urina ed embrioni.
Quello che stupirà, però, è che Dorotea ha un precedente ancora più illustre in un mondo che immaginiamo il più chiuso in assoluto nei confronti delle donne: l’Islam.
Se l’Università di Bologna è la più antica d’Europa, infatti, è solo la terza ad essere sorta nel mondo: la prima in assoluto è l’Università di al-Qarawiyyin, a Fès, in Marocco, fondata nell’anno 859 proprio da una donna: Fatima, figlia di un ricco mercante chiamato Muhammad al-Fihri. Come la sorella Maryam, Fatima era molto istruita e aveva ricevuto una ricca eredità dal padre, che aveva voluto destinare alla costruzione di una moschea e di un centro di istruzione religiosa e politica per la comunità di al-Qarawiyyūn.
Più che delle grandi eroine che hanno legato il loro nome a imprese gloriose, quindi, Dorotea è testimone eccellente di quell’esercito silenzioso di donne che, nel corso dei secoli, hanno fatto crescere l’emancipazione femminile non attraverso atti eroici ma nella quotidianità, senza lasciare una memoria sensazionale ma dando un fondamentale contributo a rendere normale ciò che un tempo sembrava inaudito.
Radici di futuro/5.
La favola del buon consumo
di Luigino Bruni (Avvenire, domenica 2 ottobre 2022
Per cogliere l’essenziale di una civiltà, la sua arte è sempre strada maestra. Il Mercante di Venezia di William Shakespeare, da solo dice quasi tutto sulla nascita dello spirito del capitalismo. Siamo alla fine del Cinquecento, a Londra. Shakespeare è nella sua maturità artistica. Viene in contatto, ancora una volta, con materiali narrativi italiani. In particolare con la novella "Il pecorone", di Ser Giovanni Fiorentino, composta attorno agli anni ottanta del Trecento, dove ci sono tutti gli elementi del Mercante di Venezia, incluso il centro narrativo della tragedia: la penale di carne prevista dal contratto tra il ricco mercante di Venezia (Ansaldo) e l’usuraio ebreo di Mestre (novella I). Elio Toaf, nel 1966, ha poi riportato un fatto realmente accaduto a Roma (narrato da G. Leti nel 1852) durante il pontificato di Sisto V (1585-1590): Paolo M. Secchi, mercante romano, aveva scommesso una libbra della sua carne con il «giudeo» Sansone Ceneda, un episodio forse conosciuto anche a Londra.
La trama del Mercante di Shakespeare è nota. Bassanio, giovane scialacquatore, ha bisogno di 3mila ducati per poter partecipare a una sorta di concorso amoroso (i "tre scrigni") e poter sposare la ricca e bella Porzia. Si rivolge così al suo amico Antonio, un ricco mercante di Venezia (che, forse, dà il nome all’opera), che non avendo i contanti ma amando follemente Bassanio, cerca di ottenere i denari da un noto usuraio di Rialto: l’ebreo Shyloch. Questi però non gli propone un normale contratto usuraio a interesse. Gli fa un’offerta bizzarra e tremenda: se non restituirà il denaro alla scadenza, l’usuraio preleverà come penale «una libbra della vostra bella carne, su quella parte del corpo che mi piacerà di scegliere». Antonio accetta - sul seguito della storia ci soffermeremo domenica prossima.
Perché un tale contratto? Perché presentare questo usuraio come un carne-fice? Si è molto discusso sulla presenza di un sentimento antisemita in quest’opera. In realtà Shakespeare registra i sentimenti del suo tempo senza esprimere un suo proprio giudizio sul tema - nelle opere d’arte, soprattutto nei capolavori, la descrizione del mondo è la prima critica dell’artista. Studiando quest’opera, e guardandola con gli occhi dell’economista quale sono, mi sono convinto che il giudizio etico di Shakespeare si possa rintracciare, e forse ci sorprenderà. È verosimile che il Mercante contenga una descrizione e una critica del proto-capitalismo di Venezia e, soprattutto, della "sua" Londra.
Shyloch è figura complessa e ambivalente. Una prima chiave di lettura la troviamo nel dialogo iniziale con Antonio, il mercante debitore: «Shyloch: "Ma, udite; mi parve diceste che voi non prestate mai né prendete a prestito con frutto". Antonio: "No, mai"». Antonio era un mercante che svolgeva anche attività bancaria, ma si vantava di prestare senza interessi. Infatti, quando lo vede, Shyloch pensa: «"Come ha l’aspetto di un ipocrita pubblicano! Lo odio perché è cristiano, e lo odio anche più perché nel suo umile candore presta denaro gratis, e fa così scendere a Venezia il tasso d’interesse».
Una prima tensione narrativa: da una parte l’usuraio ebreo e dall’altra il filantropo cristiano. I due si conoscevano: «Shyloch: "Inveisce contro di me, contro i miei leciti guadagni che lui chiama usura"». Antonio lo offende quindi nella piazza di Rialto. Inoltre - dato importante - Antonio non presta a interesse, eppure ora sta accettando un contratto usuraio. Ed è qui che troviamo una prima chiave di lettura. Shyloch cita la Bibbia, riporta il noto episodio dell’astuzia di Giacobbe grazie alla quale si arricchì presso il suocero Labano, un pagano (Genesi, cap. 30). Antonio commenta: «"E che c’entra? Giacobbe prese interessi?". Shyloch: "Non erano interessi diretti, come dite voi"».
L’ebreo spiega allora quell’episodio centrale nella storia d’Israele e nella storia del Mercante di Venezia. Labano vuole liquidare il salario di Giacobbe per il servizio resogli, ma la prima importante risposta di Giacobbe fu: "Non mi devi dare nulla" (Gn 30,31). Una risposta che somiglia al "gratis" di Antonio. Giacobbe e Labano stipulano poi un contratto bizzarro che al lettore appare quasi una burla, non troppo dissimile dal contratto tra Shyloch e Antonio: stabiliscono che tutti gli agnelli nati con il manto striato sarebbero stati di Giacobbe, gli altri di Labano. Il lettore sapeva che in un gregge gli agnelli striati sono molto pochi, quindi si immagina che il contratto sfavorisca Giacobbe, e pensa che quel suo "non voler nulla" fosse quasi vero. E invece ecco il colpo di scena.
Giacobbe trova un espediente (non fa quindi un furto): mentre le pecore più robuste si accoppiavano le metteva di fronte a delle verghe da lui scorticate con striature verticali, in modo - pensava - che guardando pali striati le pecore partorissero agnelli striati (Gn 30,39). L’espediente funzionò, gli agnelli migliori nacquero striati, e Giacobbe divenne molto ricco.
Il riferimento a questo episodio della Genesi è cruciale nell’economia del Mercante di Venezia (trascurato dagli interpreti). Innanzitutto, nella saga di Labano e Giacobbe, il disonesto è il suocero, che continua a non rispettare i patti (li cambiò «dieci volte»: Gn 31,5). L’imbroglione è il pagano: Giacobbe qui è solo furbo e astuto ma, a modo suo, rispetta i patti. Inoltre, Giacobbe non prese il suo salario sotto forma di denaro: prese pecore, che però furono per lui un profitto molto maggiore del salario in denaro. E Antonio chiede: «Vorreste trar da ciò qualche deduzione in favore dell’usura? Il vostro oro e il vostro argento è simile alle pecore e alle capre di Giacobbe?». In realtà la risposta è: le tue pecore lo sono. Shyloch stava infatti dicendo ad Antonio: non c’è nessuna differenza etica tra le tue "pecore" (i tuoi guadagni dai commerci) e i miei interessi sul denaro. Siamo uguali, ma tu sei ipocrita e imbroglione, come Labano, pagano come te.
Ma il senso ultimo della citazione di Giacobbe emerge alla fine: «Il suo era un modo di prosperare [thrive] e Giacobbe fu benedetto: la prosperità [thrift] è benedizione, a meno che non sia un furto». Thrift in inglese non significa profitto né tantomeno usura; significa invece prosperità, beneficio, vantaggio, persino parsimonia, e non ha quindi una accezione negativa. Per l’etica di Shyloch prosperare con la furbizia è benedizione, non è un furto né un comportamento moralmente detestabile. E se fosse questa anche l’etica di Shakespeare?
C’è infatti un secondo elemento altrettanto importante. Ciò che potrebbe essere moralmente condannabile era la prodigalità di Bassanio: «Tu non ignori, Antonio, quanto io abbia dissestato il mio patrimonio conducendo un tenore di vita molto più fastoso dei miei mezzi». Infatti, a guardar bene, nell’opera gli ossessionati dal denaro sono i cristiani (Bassanio su tutti). Shyloch chiede una libbra di carne, di nessun valore economico - il suo spirito è simile a quello di Mazzarò verso la sua "roba".
Le domande della commedia-tragedia diventano: perché prestare denaro a interesse dovrebbe essere più immorale del profitto di un mercante?: «Mi chiamate miscredente, cane assassino... e tutto per l’uso che faccio di ciò che è mio?». E perché, invece, gli scialacquatori come Bassanio sono amici, amati e rispettati? È etico poi per Antonio rischiare la propria carne per soddisfare i capricci di un amico prodigo? Da quale parte sta, allora, l’etica buona?
Ecco dunque una prima conclusione. Con il Mercante siamo in un momento di svolta dell’etica economica nella nascita del capitalismo - va notato che la parola usata per il contratto della libra di carne è «bond».
In questo dialogo-conflitto tra Shyloch e Bassanio ci sono molte radici della modernità. C’è il seme del "vangelo della prosperità", ideologia centrata sulla benedizione della ricchezza che oggi è di nuovo di moda, soprattutto nei Paesi di cultura protestante. C’è anche una radice di quella visione romantica del denaro che è buono solo se viene speso, di una ricchezza etica solo se è consumata, non importa se quel denaro è preso a prestito da istituzioni finanziarie che condanniamo. Vi si trova pure una icona del declino del primo proto-capitalismo italiano del Rinascimento. L’Italia, infatti, che entrò nell’Inghilterra puritana non era più quella dei mercanti parsimoniosi del Trecento. Era invece quella di Francesco Benni: «Non c’è più bella vita al mondo di un debitore, fallito, rovinato e disperato. Questi è colui che si può dir beato. Fate, parente mio, pur de gli stocchi [prestiti], pigliate spesso a credenza, a ’nteresse, e lasciate ch’agli altri il pensier tocchi: perché la tela ordisce uno, l’altro la tesse» (In lode del debito, 1548).
Il Mercante è un’opera cerniera tra due mondi. Nella Londra elisabettiana di Shakespeare era ancora viva un’etica feudale cristiana che lodava il consumo, la terra, la nobiltà, che permetteva il prendere in prestito, ma condannava il dare a prestito - è davvero curioso che alla condanna del prestito a usura non corrisponde una altrettanto ferma condanna del debito a usura, pratica molto più popolare e diffusa. Quell’etica cristiana approvava il debito per il lusso, e stimava i mercanti come Antonio che accumulavano grandi ricchezze nei commerci e potevano permettersi anche di prestare gratis, ma condannava e malediceva il prestito a interesse di ebrei che con il loro denaro consentivano ai mercanti cristiani di arricchirsi e fare beneficenza e lussi: «Come ha l’aspetto di un ipocrita pubblicano». Chi prestava denaro era "come Giuda", chi lo prendeva in prestito per il consumo o per gli affari era invece un "buon cristiano", imitava la "Maddalena" che "sprecò" un profumo dal valore di 300 denari. Non capiamo l’Europa moderna senza queste ambivalenze e ipocrisie, e pochissimi come Shakespeare ce lo fanno vedere con una chiarezza aurorale.
Nella prima parte del Mercante l’ambivalenza decisiva è dunque quella tutta interna a Shakespeare e alla sua età, combattuto tra il vecchio mondo e il nuovo spirito capitalista. Fino al contratto di carne, la tragedia-commedia è ancora tutta aperta: quale delle due etiche prevarrà alla fine?
Sul tema, nel sito, cfr.: I TRE ANELLI E L’UNicO "PADRE NOSTRO".
Federico La Sala
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza (Mc 12,29-30)
#Questione Antropologica.
La cit. di Mc 12, 29-30 ha un senso andrologico (e cosmo-te-andrico) o antropologico,
come il #Padre di ogni essere umano (#PonzioPilato: #Ecce homo),
quell’#Amore (di #Dante Alighieri),
che muove il #sole e le altre #stelle -
e anche la #Terra?!
“Studiare il greco ed il latino porta felicità, vi spiego perché”: parla il professor Nicola Gardini
di Marta Vigneri ("TPI. The Post International", 25 Giu. 2021)
Dalla cattedra dell’Università di Oxford, dove è professore di letteratura italiana comparata, agli scaffali delle librerie, dove ha venduto decine di migliaia di copie con “Viva il latino, storia e bellezza di una lingua inutile” (Garzanti, 2016), “Viva il greco, alla scoperta della lingua madre” (Garzanti, 2021), “Elogio del latino. Una lingua da amare” (la Repubblica-GEDI, 2021) ed altri saggi dedicati alle lingue antiche, Nicola Gardini è uno degli studiosi che ha contribuito a diffondere, negli ultimi anni, il grido d’amore per il greco ed il latino, sempre più marginalizzate nelle Università italiane ma tornate in voga tra il pubblico non accademico grazie a best seller come il suo. Un salto che ha compiuto perché convinto che questi saperi “diano felicità e conforto”. A TPI ha spiegato perché.
Risale a cinque anni fa il boom della sua opera “Viva il latino”. Si aspettava questo successo?
No, è stata una bellissima sorpresa. Il successo non è stato soltanto del libro, ma del discorso che proponeva. Una riflessione critica, appassionata, ma non soltanto privata, perché il libro ha aperto un dibattito. Gli editori hanno cominciato ad interessarsi a questo tema, altri libri sono nati, io stesso ho continuato su questa linea capendo che quello che avevo fatto con il latino potevo farlo con altri libri. Oggi sono passato al greco, che conosco e che è parte di questo discorso, sebbene i pregiudizi che attaccano il latino non siano immediatamente trasferibili al greco. Questo perché è meno presente, è confinato ad una sola scuola, il liceo classico, e perché nell’immaginario collettivo è la lingua mitica, la lingua delle origini.
Si è più indulgenti verso il greco?
Sì, ma non solo: c’è una forma di fascino che forse il latino, imponendosi nel sistema educativo da secoli e sposandosi con la giurisprudenza e con la Chiesa, ha perso. È anche una questione di aura. Il greco mantiene qualcosa di libero, è associato all’idea di democrazia, di ginnastica, ha qualcosa di irrazionale. Del greco ci si invaghisce perché è una lingua un po’ erotica, ed ha creato una nostalgia secoli e secoli fa quando si è rannicchiato nella parte orientale dell’impero romano e lì è rimasto per lungo tempo fino a riemergere nel rinascimento e nell’umanesimo. Il greco è sempre visto come un ospite benvenuto, qualcuno che torna da lontano, che evoca un rispetto benevolo. Verso il greco non si ha quell’atteggiamento di fastidio e noia che purtroppo stupidamente molti hanno assunto verso il latino portandolo nel chiacchiericcio mediatico, che confonde solo le idee, perché qui si parla di istruzione e di quello che serve trasmettere alle future generazioni.
Possiamo dire che nel greco rintracciamo in modo più romantico le origini del nostro pensiero occidentale mentre la conoscenza del latino è stata al centro di polemiche perché considerata, anche dalla politica, elitaria?
Il latino si è compromesso con il potere mentre il greco è rimasto la lingua dell’individuo ragionante e curioso, dell’avventura. Se dici greco pensi immediatamente ad Odisseo, dicendo latino vengono in mente Cicerone, Virgilio, figure dell’ordine. Però questo è l’immaginario collettivo. Nei miei libri cerco di spiegare, senza pregiudizi, che li leggiamo non perché sono dei geni, ma perché la lingua grazie a loro procede in direzioni artistiche, intellettuali. Ed è questo che interessa: si può chiamare Saffo, Platone, Demostene, in ognuno di questi succede qualcosa di miracoloso, cioè la lingua scopre pensieri, idee, metafore. È molto importante poi il nesso tra lingua e verità, lingua ed immaginazione: il greco questo lo ha fatto molto prima del latino. Pensiamo all’Odissea, in cui si assiste ai fatti della vita e poi ci sono i poeti che la cantano. Il greco è la lingua della grande immaginazione che entra in rapporto con la realtà dei fatti, con le esperienze vissute e le éleva eroicamente, filosoficamente, linguisticamente. Ed è anche, come ha suggerito, l’origine del pensiero, dell’investigazione: per questo il mio libro sul greco si intitola “Alla ricerca della lingua madre” perché c’è dietro l’idea di un inizio.
Perché invece anche il latino è una lingua utile?
L’utilità del latino sta nella sua necessità formativa, si tratta di storia e memoria della nostra cultura e del nostro essere. Eliminare questi studi e chiamarli marginali o elitari è un torto che si fa alla costruzione del sapere storico. Sarebbe lo stesso che dire: niente filosofia o niente musica. Ridurre tutto all’applicazione immediata non significa andare avanti, ma fermare lo sviluppo della nostra mente. Le società hanno bisogno di conoscersi profondamente, e lo studio di queste lingue serve a farci capire che l’attualità non è il presente, il presente è fatto di passato, e che la tecnologia non è scienza: la scienza è fatta di interpretazione, come il latino e il greco. C’è un’utilità anche spirituale: farci sentire parte di un lungo cammino e traiettoria dove il latino e questi testi, la loro penetrazione e diffusione hanno determinato i nostri linguaggi, comportamenti mentali, metafore, il senso della nostra vita. Togliere il latino significa darci un alzheimer sociale.
Da ragazzo scrisse un libro violento sull’università italiana, spiegando perché era fuggito per proseguire la carriera all’estero. C’è un nesso con la marginalizzazione delle lingue antiche?
Il nesso tra i miei interessi per il latino e per il greco e il mio disgusto dell’università italiana c’è, perché io credo nella parola libera, nell’intelligenza, nel dialogo, che sono grandi temi del greco. Questo nelle università è difficile che accada, perché il sistema di reclutamento è molto personalistico, crea zone di potere e non un sistema per i migliori. Io me ne andai perché non mi trovavo bene in una mentalità baronale e corrotta, che fa male a chi cerca di entrare e non ci riesce, fa male agli studenti. Il discorso è complesso, recentemente i giornali hanno detto che non bisogna sparare sempre a zero, ma in realtà il sistema di assunzione va sistemato perché non è fatto per la libera circolazione degli intelletti.
Come si passa dal lavoro accademico alla scrittura di un best seller?
Io sono un accademico strano, sebbene lavori per una università molto solida, quella di Oxford. Anche quando scrivo per l’Università evito il gergo specialistico, obbedisco ad una scrittura personale che certo spesso si scontra con criteri molto conformistici. Dal lavoro accademico ho imparato il rigore e a trattare un po’ tutto il mondo come un’Università, che per me non sta soltanto negli edifici. C’è un’università di lettori che ha voglia di conoscere molte cose che magari normalmente sono riservate all’accademia. Parlo a questa università più grande, lo faccio con una lingua semplice, chiara, diretta ma anche molto personale. I miei libri sono un impegno che mi sono preso con me stesso, per comunicare il più possibile. Sono convinto che questi saperi diano felicità, conforto, stimolo ad andare avanti. Non danno risposte ma pongono moltissime domande, e questo ci aiuta a credere nel futuro.
Tra le sue opere dedicate alle lingue antiche compare “Dieci parole latine che raccontano il nostro mondo”: se dovesse sceglierne una, su quale consiglierebbe di soffermarsi?
Claritas, la chiarezza, una parola bellissima che ha una sua storia. La chiarezza non è un punto di partenza ma di arrivo, è una delle più grandi costruzioni perché richiede un apprendistato alla verità, all’ordine, ai pensieri e all’efficacia del ragionamento. La chiarezza ce l’ha chi scrive tanto, chi studia tanto e arriva a capire il modo più diretto e più rapido per attraversare il groviglio, anche rispetto alla conoscenza di sè.
“Boccaccio teologo. Per una rilettura del Decameron” di Antonio Fatigati
Intervista ("Letture")*
Prof. Antonio Fatigati, Lei è autore del libro Boccaccio teologo. Per una rilettura del Decameron edito da Mauro Pagliai. Nell’immaginario collettivo, lo scrittore di Certaldo rappresenta un «autore libertino, anticristiano, divertito e divertente narratore di vite alle quali Dio appare estraneo», eppure, egli ha attinto a piene mani alle più importanti discussioni teologiche del suo tempo: perché possiamo affermare che Giovanni Boccaccio è sia scrittore che teologo?
L’immaginario collettivo, che si costruisce attraverso la grande e plurisecolare fortuna popolare delle cento novelle del Decameron, avrebbe avuto probabilmente esito diverso se la storia personale di Boccaccio fosse stata maggiormente nota. Egli, infatti, pur essendo figlio di mercanti (il padre, Boccaccino, era mercante in Firenze, dove si era trasferito con tutta la famiglia lasciando le originarie terre di Certaldo) ebbe la ventura di trascorrere gli anni della formazione giovanile alla corte del re di Napoli, Roberto d’Angiò per il quale il padre era consigliere e ciambellano.
All’età di 14 anni Giovanni si trovò così a vivere in uno degli ambienti culturalmente più vivaci del tempo e dove poté iniziare gli studi di diritto canonico entrando anche in contatto con figure culturali di ampio spessore, quale Cino da Pistoia (1270-1336), poeta amico di Dante e di Petrarca, Paolo da Perugia, autore di commenti a Persio e Orazio, Paolo dell’Abbaco, maestro in aritmetica, geometria, astrologia, Andalò dal Negro, astronomo e geografo, Graziolo de’ Bambaglioli, teologo tra i primi commentatori di Dante, Paolino Minorita, penitenziere apostolico ad Avignone, nunzio a corte e poi vescovo di Pozzuoli, che probabilmente introdusse il giovane Giovanni ai commentari biblici.
A Napoli Giovanni incontra soprattutto padre Dionigi di Borgo Sansepolcro (1300-1342), agostiniano, dottore in teologia presso la Sorbona di Parigi, amico di Petrarca a cui era molto legato. Sarà Dionigi a introdurre Boccaccio alla lettura delle opere di Seneca, Agostino, Petrarca. Nell’Epistola n. V, Boccaccio riferirà a lui come «il reverendo mio padre e signore maestro Dionigi».
Il pensiero teologico è dunque l’humus nel quale Boccaccio si forma e che gli consente di approfondire le grandi riflessioni del suo tempo, appoggiate fondamentalmente su due grandi colonne: quella tomista di san Tommaso d’Aquino e quella francescana che riferiva a Scoto, Ockham e al meno noto ma fondamentale per Boccaccio, De Wodeham.
Che rapporto esiste, per Boccaccio, tra poesia e la teologia?
Boccaccio ebbe modo di dedicare molte energie alla difesa della poesia a cui pretendeva venisse riconosciuta dignità teologica e nel suo celebre Trattatello in laude di Dante egli destina una parte importante dell’opera a ragionare su come fosse nata la poesia e quale relazione essa avesse avuto con le questioni relative alla divinità. Per Boccaccio gli antichi poeti avevano imitato lo stile dello Spirito Santo che in modo oscuro rivela Dio nella Sacra Scrittura: a loro volta essi hanno astutamente nascosto nelle loro opere ciò che al loro tempo avveniva o ciò che pensavano sarebbe avvenuto in futuro.
La conclusione naturale a una tale similitudine è la famosa dichiarazione presente nel Trattatello che: «la teologia e la poesia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto; anzi dico di più: che la teologia niuna altra cosa è che una poesia di Dio».
Boccaccio ritornerà sul rapporto tra teologia e poesia nelle De genealogie deorum gentilium, opera in latino dedicata ai miti antichi e composta nell’arco di vent’anni, a partire dal 1350 e fino a poco prima della sua morte. Le Genealogie ebbero molta fortuna perché fonte di informazioni preziose sull’arte e la poesia antica ma negli ultimi due libri, il XIV e il XV, Boccaccio si pone innanzitutto il problema di difendere il suo lavoro dalle possibili critiche di quanti avrebbero potuto riconoscervi l’esaltazione dei miti pagani, estranei alla fede cristiana. Il clima del tempo in cui egli scrive è infatti ancora quello della contrapposizione tra classicità e fede cristiana e il testo di Boccaccio si rivela come autentica fonte di informazione sulle ragioni del contrasto: egli infatti immagina che i possibili nemici della sua opera possano essere coloro che vedono la poesia come una perdita di tempo, o qualcosa di profano che nulla ha a che fare con le arti sacre.
Certo, Boccaccio non nasconde che, come sostengono molti critici, i poemi sono spesso oscuri ma questo non può essere ragione di condanna perché, proprio sulla linea dell’azione dello Spirito, che ha ispirato Scritture che richiedono acutezza e passione per essere comprese nella loro pienezza, così anche i poeti hanno voluto evitare di svelare ogni verità.
Quelle verità devono rimanere impenetrabili ai torpidi di intelletto affinché non sviliscano per un eccesso di semplicità. Ma quelle stesse verità sono sempre comprensibili quando a loro si avvicini un’intelligenza acuta.
D’altra parte, il velamento della verità, come modalità scelta dallo Spirito nell’ispirare le Scritture, è riconosciuta e apprezzata anche da sant’Agostino che in alcuni passaggi della Città di Dio e delle Enarrationes in Psalmos sostiene che l’oscurità dei testi è necessaria affinché gli uomini possano generare molte conoscenze e così arricchirsi.
Per Boccaccio, dunque, la poesia, agendo come lo Spirito Santo, non svela immediatamente la verità sottesa per non toglierle quel valore che essa ha e che risalta quando l’uomo è costretto a impegnare il proprio intelletto per comprenderla.
Ecco perché ai poeti spetta pienamente, a parere di Boccaccio, il titolo di teologi.
Quale profonda riflessione religiosa sviluppa il Certaldese nella sua opera più celebre?
Attraverso la sua opera Boccaccio compie una vera e propria (e alquanto misconosciuta) operazione di tipo pastorale accompagnata a un principio di filosofia morale: ai lettori delle novelle, egli intende insegnare come ci si deve comportare, come si persegua la virtù, come si riconosca il male, come si scelga il bene.
Sulla linea aristotelica tomistica, che prenderà definitivamente il sopravvento nella decima e ultima giornata, ragione e logica sono gli strumenti che Boccaccio privilegia: fin dalle prime battute le sette donne che si incontrano a Santa Croce per decidere di uscire dalla città dando vita a un nuovo rinascimento morale, dimostrano di essere in grado di condurre una riflessione che proprio nella logica ha il suo punto di forza.
Se poi nelle prime novelle Boccaccio parla di Dio, regalandoci una visione privilegiata del suo sguardo di credente convinto della assoluta misericordia di Dio e della presenza dello Spirito nella Chiesa di Cristo, nelle successive storie uomini e donne sono messi a nudo nelle loro piccolezze e fragilità dando vita a una commedia umana che si svolge sotto lo sguardo divertito ma compassionevole dell’autore. Una commedia umana che trova la sua inevitabile conclusione nella lezione morale conclusiva, quella che riporta la teologia al centro del Decameron.
Anche lo sguardo compassionevole dell’autore merita un suo rilievo: Boccaccio dichiara subito in apertura che avere compassione degli afflitti è qualcosa che appartiene agli uomini, che caratterizza in modo profondo l’uomo. La lezione opposta che se ne ricava è che senza compassione è impossibile essere uomini. Che se ciò che caratterizza Dio è la misericordia, ciò che caratterizza l’uomo è la compassione.
La misericordia di Dio viene dichiarata subito, in partenza, nella prima e nella seconda novella. La compassione degli uomini avrà modo di emergere, nei suoi chiaroscuri, nel resto dell’opera dove anche coloro che appaiono come vincitori o astuti, in realtà si dimostrano vittime di un male di vivere che prende forme diverse.
Ottantasette storie compongono di fatto la commedia umana. Ottantasette perché alle cento novelle vanno sottratte le prime tre che narrano di Dio, della Chiesa, della religione e le ultime dieci che sono invece l’esempio della rinascita, la descrizione di come Dio vorrebbe gli uomini, l’epopea dell’amicizia, della grandezza d’animo, dell’altruismo.
Il teologo Boccaccio si rivela una continua sorpresa, una fonte ininterrotta di stimoli e di riflessioni. Egli che ridendo castigat mores non è dunque l’autore licenzioso da leggere arrossendo o sogghignando, ma lo straordinario scrittore umanista capace di raccontare l’uomo e di indicargli la via da percorrere.
Quali collegamenti esistono tra le storie narrate nel Decameron e le riflessioni teologiche?
Nella sua opera Boccaccio riprende la riflessione di Agostino sulla libertà dell’uomo di esercitare la propria volontà, il pensiero di Scoto secondo cui è la volontà divina ciò che guida ogni, la teologia di san Tommaso che attinge a piene mani dall’Etica Nicomachea di Aristotele per definire il bene e come compierlo.
Altro teologo le cui riflessioni avranno particolare importanza sulle narrazioni di Boccaccio è Ockham, che sulla libertà arriva a concludere che essa è tale se può indifferentemente far agire o non agire in un senso o nel suo contrario. La conseguenza è che volontà e libertà non si distinguono, formano un’unica cosa, una non è data senza l’altra.
Se Scoto riteneva che il fine dell’uomo fosse il desiderio di Dio e la Sua visione beatifica ma che la volontà dell’uomo fosse libera di scegliere se volere o non volere questo fine, per Ockham attraverso il solo pensiero razionale non è invece possibile dimostrare che questo sia il fine dell’uomo. A sostegno di questa intuizione vi è per il francescano l’evidenza dell’esperienza quotidiana di gran parte degli uomini che si orientano verso felicità più immediate e attuabili nella vita terrena. E i protagonisti del Decameron sembrano proporsi come esempi assoluti di questa riflessione.
In quali, tra le cento novelle che compongono il Decamerone, emerge maggiormente la matrice teologica?
Senz’altro nelle prime tre novelle e nelle ultime dieci.
Le prime tre novelle si pongono tre grandi obiettivi immediatamente dichiarati dai narratori: dimostrare come la misericordia di Dio sia superiore alla fallacia umana, evidenziare come, malgrado i malcostumi del clero, lo Spirito Santo sia presente e agisca nella Chiesa di Cristo, dichiarare la correttezza dell’agire del papa nel difendere gli ebrei assurdamente perseguitati come untori della peste del 1348.
Nella prima novella, celebre per la figura del malvagio protagonista Ciappelletto, la falsità e l’inganno del notaio pisano, pessimo uomo e grande peccatore che riesce a farsi credere santo, risuona la teologia francescana di Scoto, Ockham, de Wodeham convinti che ognuno è responsabile del male che compie e che Dio è assolutamente libero nel suo agire tanto da poter accettare la preghiera che gli uomini gli rivolgono scegliendo l’impostore come loro intermediario.
Nella seconda novella emerge invece pienamente l’apocalittica di inizio millennio e la convinzione del prossimo sorgere di una nuova Chiesa spirituale in cui cristiani ed ebrei avrebbero vissuto insieme superando ogni distinzione. È notevole qui la ripresa che Boccaccio fa di due grandi teologi spirituali del XII e XII secolo, il calabrese Gioacchino da Fiore e il francescano francese Pietro di Giovanni Olivi, fautori della rinascita spirituale della Chiesa.
Nella terza, famosissima novella dei tre anelli, Boccaccio realizza poi una sublime difesa dell’agire del papa che nelle terre di Avignone concede protezione agli ebrei in opposizione al malcostume dei sovrani europei di perseguitarli in ogni modo e per ogni ragione al fine di impadronirsi del loro denaro e eliminare una abilissima concorrenza mercantile.
La teologia di San Tommaso è invece la protagonista della decima giornata dove finalmente Boccaccio conclude la sua opera morale dimostrando, attraverso esempi narrativi, come si comporta chi desidera perseguire il bene resistendo ad ogni avversità e alla malvagità degli uomini. Il culmine lo si raggiunge nell’ultima, celebre novella, con protagonista Griselda: la donna, vittima del crudele marito Gualtieri, marchese di Saluzzo, resiste ad ogni avversità e violenza inflittale dall’uomo. La sua pazienza, così simile a quella biblica di Giobbe produrrà infine i suoi frutti guarendo il marito dalla matta bestialità da cui è afflitto.
Antonio Fatigati (Monza, 1964) è diacono permanente della Diocesi di Milano. Ha conseguito la laurea in Scienze Politiche presso l’Università degli Studi di Milano e il dottorato in Teologia - Studi biblici presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale. Ha pubblicato i saggi Genitori si diventa (Franco Angeli, 2005-2015), Ti ho chiamato figlio (ETS, 2009), L’amore secondo papa Francesco (Paoline, 2017), Storie di ordinaria famiglia (Paoline, 2018), I figli secondo Francesco. Essere genitori nelle parole del papa (Paoline, 2019), Boccaccio teologo (Mauro Pagliai, 2021).
* Fonte: Letture.org.
“Giovanni Aurispa, umanista siciliano” di Salvo Micciché
Intervista ("Letture")*
Dott. Salvo Micciché, Lei è autore del libro Giovanni Aurispa, umanista siciliano edito da Carocci: quale importanza riveste, per la storia dell’Umanesimo italiano, la figura di Giovanni Aurispa?
Come scrive Beate Hintzen, Aurispa - a parte brevi componimenti poetici e svariate lettere del suo Carteggio - non sembra aver scritto alcuna pagina di filologia, ma nonostante questo egli divenne subito uno dei più ambiti umanisti, una figura enigmatica e fascinosa cui tanti altri umanisti si legarono e con cui intrattenevano rapporti epistolari e d’amicizia, apprendendo da lui il greco e l’amore per la cultura ellenica e per i classici greci.
Su Aurispa [Noto, 1376 - Ferrara, 1459] c’è una vasta bibliografia, e nel nostro volume, io e il prof. Augusto Guida (Università di Udine, che ha co-finanziato la ricerca) abbiamo ritenuto utile mettere ordine, riportando in un libro-guida, un manuale si può dire, una bibliografia ragionata, ampliata poi, su suggerimento dei prof. Michele R. Cataudella e Giuseppe Mariotta (autori il primo della Prefazione e l’altro della Postfazione), con passi d’antologia di alcuni autori che si sono occupati di Aurispa, direttamente o almeno in citazione. Abbiamo anche cercato di scoprire che fine ha fatto un codice del Bruni in cui Aurispa aveva annotato qualcosa in merito ad una contrada di Scicli (in provincia di Ragusa), su cui A. Guida ha scritto una interessante Postilla. Interessante ci è parso pure il suo rapporto con la città di origine, Noto (in provincia di Siracusa) che Aurispa non dimenticò mai, pur essendo vissuto decenni a Ferrara, fino alla sua morte, nel 1459.
A lui si deve un contributo importante al ‘ritorno del greco’ in Occidente, lingua non molto nota tra gli umanisti del tempo, che però erano desiderosi di apprenderla per leggere codici greci in originale.
In che modo Aurispa contribuì al ritorno del greco?
Per prima cosa, nei suoi viaggi in Oriente, Aurispa collezionò molti codici greci pressoché sconosciuti al suo tempo. Poi fu precettore di greco (tra i suoi studenti più importanti Meliaduse d’Este, amico che lo convinse ad abbracciare il sacerdozio, e Lorenzo Valla) e diffuse la cultura e la lingua greca tra gli umanisti italiani, che per questo lo tenevano in grande considerazione e lo ricercavano anche per la sua preziosa collezione di testi greci fin allora sconosciuti. Al servizio della Curia Romana accompagnava l’Imperatore Bizantino in alcuni viaggi, approfondendo la conoscenza della cultura greca e bizantina: Segretario prima dell’Imperatore bizantino poi di vari papi, al Concilio di Basilea fu traduttore dei discorsi ufficiali del legato papale in greco e del legato bizantino in latino.
A proposito di codici greci e riscoperta del greco, Giuseppe Mariotta intitola la Postfazione nel libro all’Aristarchus super Iliade, di cui si occupò Diller nel 1960, suggerendo che si dovesse piuttosto trattare o dell’hypomnema all’Iliade di Aristonico, oppure di una raccolta ipomnematica come quella da cui derivano gli scholia A del Marciano greco 454, una tesi molto interessante che dimostra la raffinatezza di Aurispa che non collezionava soltanto codici, ma cercava di capire, apprendere, sezionare, ripartire e ordinare i codici, in particolare quelli greci che prediligeva.
L’apporto dei manoscritti in lingua greca ha dato nuovo impulso agli studiosi del tempo per una rivalutazione della cultura classica ed ha posto le basi per la nostra conoscenza della storia, della cultura e dell’umanità del mondo greco-romano: non era tanto un collezionista di codici quanto un raffinato intenditore della cultura che essi veicolavano, una cultura che rivoluzionò l’Occidente e apportò nuova linfa vitale provocando quella trasformazioni in tutti i campi, letterari e scientifici, che hanno dato vita al Rinascimento e a una nuova visione del mondo di cui noi siamo eredi.
Quali manoscritti riportò dai suoi viaggi in Grecia?
Furono tantissimi i codici che passarono per mano di Aurispa. Nella Descriptio bonorum, la sua eredità, vengono citati 578 codici greci e latini, trattati, tra gli altri, da Adriano Franceschini nel suo studio sulla Biblioteca dell’umanista; la biblioteca dell’Aurispa, al pari di quella del cardinale Bessarione e di altri celebri umanisti come Guarino Veronese, fu una delle più dotate del Quattrocento. Nel volume abbiamo riportato alcune statistiche che riteniamo interessanti. -Si va da opere di filosofia (Aristotele, Teofrasto, Abino Platonico, Boezio e Porfirio per es.), a testi letterari (da Ovidio e Cicerone a Euripide, Lucano soprattutto, Proclo, Pindaro, Apollonio Rodio) ad opere storiografiche (Tacito, Tito Livio, Tucidide) ad opere sulla religione, a testi grammaticali e scolastici (Erodiano, Donato, Esichio, Prisciano...), ma anche opere di matematica e geoponica, per esempio, con Apollonio Rodio e le sue Argonautiche, per fare qualche esempio. Codici latini, ma soprattutto greci provenienti da Costantinopoli, dove si recò al servizio della Curia Romana, riscoprendo i classici ed autori che senza il suo impegno sarebbero forse state dimenticate.
In particolare, tra i codici greci posseduti si segnala Ateneo Naucratita, la versione greca della Summa Theologica di S. Tommaso, tradotta da Demetrio Cidonio, l’Ars Rhetorica di Ermogene, codici con estratti dalla Suda, gli Elementi di Euclide, Galeno e Ippocrate.
Bigi (nell’Enciclopedia Italiana) ricorda che egli da Costantinopoli, in particolare, riportò i più bei titoli della cultura classica soprattutto greca: l’Iliade, l’Odissea, Focilide, le Vite dei Filosofi, di Diogene Laerzio, l’Etica Eudemia di Aristotele, Plotino, Proclo, l’Antologia Planudea e quella Palatina, e l’elenco può continuare: i Katharmoi di Empedocle, le Storie di Erodoto e Tucidide, Diogene Laerzio, centinaia di lettere di Gregorio Nazianzeno e tanti altri autori e scritti di cui il lettore troverà notizia in questa Bibliografia.
Altri codici greci li ebbe o scambiò con altri umanisti, infatti l’Aurispa operò anche come apprezzato traduttore di opere dal greco, fra le quali son da ricordare alcuni dialoghi di Luciano e i Precetti aurei pitagorici di Ierocle. Figliuolo ricorda che nel 1443 Alfonso il Magnanimo gli affidò il codice De Machinamentis bellicis perché lo traducesse. E per quanto riguarda le traduzioni dal greco Aurispa era noto, ad es. ha tradotto Hieroclis philosophi stoici in Aurea Pythagorae praecepta, come egli scrive in una lettera al Panormita.
Quali rapporti intrattenne con gli altri umanisti?
L’Aurispa aveva rapporti di amicizia, testimoniati dal suo Carteggio, magistralmente edito dal Sabbadini con i più grandi umanisti del tempo, a cominciare da Lorenzo Valla, di cui fu maestro di greco e che gli riconosceva gratitudine ed affetto, ad esempio con questa bella dedica a lui e a Leonardo Bruni: «tum precipue Aurispe et Leonardi Aretini, quorum alter grece legendo, alter latine scribendo ingenium excitavit meum, ille preceptoris (uni enim mihi legebat)»; poi con Leonardo Bruni, l’Aretino, in particolare aveva stretti legami con umanisti siciliani, primo fra tutti il Panormita (Antonio Beccadelli), amicizia testimoniata da un folto epistolario, Guarino Veronese, altro umanista con cui ebbe un lungo scambio epistolare e - soprattutto - altri umanisti provenienti da Noto, sua città d’origine: Antonio Cassarino, Giovanni Marrasio, Giovanni Campiano, su cui c’è molto ancora di inedito, ma su cui ottimi studi sono stati compiuti, ad es. da Lucia Gualdo Rosa.
Con molti di loro scambiava codici, li prestava o li richiedeva. Era molto ambito, a volte invidiato per la sua ricca collezione di manoscritti e ammirato per il suo genio. Con alcuni di loro Aurispa scambiava ottimi esempi di epigrammi e sagaci battute: epigrammi e battute sopravvissuti talora casualmente nei manoscritti.
Quali autori si sono occupati dell’umanista siciliano?
Gli autori che si sono occupati di Aurispa sono tantissimi, tra essi, dopo Tiraboschi e Voigt, spicca certo Remigio Sabbadini, il suo principale biografo, che pubblicò vari studi sull’umanista. Nel libro ne riportiamo oltre 170, da Roberto Cessi, Giuseppe Salvo-Cozzo, Galeotti e i pochi che ne scrissero nei primi del Novecento, fino ad arrivare a Grazia Marascia (con la sua tesi del 1948), Benedetto Croce, Oskar Kristeller, Sottili, Marion Giannini, Emilio Bigi, Salvatore Guastella, altro netino che con Francesco Balsamo ed altri gli hanno tributato grandi onori a Noto nel 1976, Franceschini che lo stesso anno ha scritto un memorabile volume sulla sua biblioteca, Schreiner, Vanderjagt, Welsh, Silvia Fiaschi, Beate Hintzen, Lucia Gualdo Rosa, Concetta Bianca, Emanuele Casamassima, Bruno Figliuolo, Gianvito Resta, Mariangela Regoliosi... non possiamo citarli tutti come vorremmo, ma il volume riporta praticamente tutti o quasi coloro che hanno scritto sull’Aurispa o in qualche modo lo hanno citato negli ultimi cento anni. Certamente ne vanno aggiunti tanti altri, che in qualche modo hanno citato Aurispa, ma le pagine a disposizione non sarebbero bastate.
Come accennato, di alcuni di essi abbiamo riportato passi antologici che aiutano il lettore a capire di più sulla personalità, la vita, l’attività e gli studi di Giovanni Aurispa. Ne viene fuori un ritratto affascinante, che invita ad approfondire sia a livello umano che intellettuale, ma anche a rivalutare l’Umanesimo che tantissimo ha significato per la nostra cultura. Umanesimo, nel caso di Aurispa, italiano ma anche prettamente siciliano, e allo stesso tempo universale.
Spigolature
Giovanni Aurispa umanista e intellettuale umanissimo. Potremmo fare alcuni esempi, a cominciare dall’affetto paterno per la sua governante Margherita, molto più giovane di lui e in difficoltà economiche, per cui l’umanista e sacerdote, già sulla soglia degli ottanta anni legittimò i tre figli (non suoi) cui poi lascerà la sua cospicua eredità e i codici. Aurispa non troncò mai il rapporto con la famiglia di origine, in particolare abbiamo notizia di scambi epistolari con un suo parente di nome Lisandro Aurispa. In realtà, il suo cognome doveva essere forse Piçunero (o Pichunero) ma per ragioni probabilmente eufoniche e di assonanza con aurum scelse il cognome Aurispa (forse questo era pure quello della madre, come sostiene L. Gualdo Rosa) e con questo fu sempre conosciuto e citato.
Benedetto Croce ci segnala poi un aspetto della sua biografia, con un momento in cui egli indaga sulla tragica storia di Parisina Malatesta, accusata di amore per il figlio del marito, Ugo d’Este, accostandola a quella dantesca di Paolo e Francesca, Croce la paragona a sua volta a quella della napoletana Tirinella Capece, accusata di tradimento; tre storie di donne (due al livello temporale dell’Aurispa) che ci coinvolgono per le loro vicende descritte con maestria letteraria e partecipazione umana. Nel volume abbiamo anche riportato brevi spunti biografici (pur non volendo farne una biografia), citando, per esempio, il suo desiderio (oramai sacerdote a Ferrara dal 1430) di avere un beneficio ecclesiastico in Noto o almeno nel Siracusano, aspirando alla cantoria della diocesi di Siracusa, desiderio che mai si realizzò ma che mostra come l’umanista non dimenticò mai la sua terra che amava come oramai amava la sua chiesa di S. Maria in Gaibana, Ferrara.
Salvo Micciché è saggista e filologo, ed è direttore editoriale di “Ondaiblea” Rivista del Sud-Est; è membro della Società ragusana di storia patria, dell’Accademia fiorentina di papirologia e dell’Associazione italiana cultura classica e scrive per varie riviste, tra le quali “Il giornale di Scicli”, “Sileno” e “Giornale Italiano di Filologia”. Tra i suoi volumi: Onomastica di Scicli (Scicli 1991); Scicli: onomastica e toponomastica (Ragusa 2017) e per Carocci Editore Scicli. Storia cultura e religione (secc. v-xvi) con Stefania Fornaro, La Sicilia dei Micciché - baroni e briganti, intellettuali e popolo con Giuseppe Nativo, Giovanni Aurispa, umanista siciliano.
*Fonte: Letture. org
L’analisi.
La buona mercatura è sempre arte delle mani e degli occhi
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 30 gennaio 2021)
Tra il Medioevo e il Rinascimento lo spirito dell’economia di mercato era diverso, a tratti molto diverso da quello del capitalismo moderno. Sta in questa differenza il senso di tornare alle domande di quella stagione dell’economia, perché il capitalismo nei secoli successivi non ha risposto diversamente alle stesse domande, ha semplicemente cambiato le domande. Quella prima etica mercantile si sviluppò dentro un mondo che mentre vedeva crescere la ricchezza dei grandi mercanti e cercava una via per tenerli dentro il recinto delle pecorelle di Cristo, vedeva anche il movimento francescano che lottava con Papi e teologi per poter ottenere il privilegio dell’altissima povertà, di poter attraversare il mondo senza diventare domini (padroni) dei beni che usavano.
Tra il Libro della ragione commerciale e il Libro della ragione religiosa scorreva una tensione tragica. L’uno sfidava e limitava l’altro, e così la mercatura non diventava un idolo e la religione non si trasformava in una gabbia.
Non capiamo l’etica economica europea se non la leggiamo a partire da queste tensioni e ambivalenze, se non leggiamo la ricchezza dentro la povertà e la povertà dentro la ricchezza. Quei mercanti divennero molto ricchi, ma quella ricchezza restava una ricchezza ferita, perché, diversamente da quanto avverrà nella modernità, non era né immediato né evidente che la ricchezza fosse di per sé benedizione, mentre era immediato ed evidente che la benedizione era povertà evangelica. Ma, anche in questo caso, i paradossi e le ambivalenze si rivelarono altamente generativi.
Lo leggiamo anche nel volume "Mercanti scrittori" (a cura di Vittore Branca). Tra questi racconti spiccano "I ricordi" di Giovanni di Pagolo Morelli (Firenze, 1371-1444), dove la ragione di mercatura si integra perfettamente con la ragione di famiglia e con la ragion di stato della città di Firenze. Morelli dà anche consigli e raccomandazioni ai suoi "pupilli", figli e nipoti, che è il distillato di generazioni di saggezza mercantile: «Non fare mercantia o alcuno traffico che tu non te ne intenda: fa cosa che tu sappi fare e dall’altre ti guardi, ché saresti ingannato. Istà con altrui a’ fondaci, a’ banchi, e va di fuori, pratica i mercatanti e le mercantie; vedi con l’occhio i paesi, le terre dove hai pensiero di trafficare» ("Ricordi", III, p. 177). Il primo senso del mercante, quello davvero essenziale, è il tatto.
I suoi prodotti li deve toccare, perché i segreti decisivi della conoscenza mercantile si imparano toccando i beni che si comprano e si vendono. I panni, le pezze, le stoffe si conoscono prendendoli in mano, maneggiandoli. Il primo significato del manager rimanda alla mano, al maneggio, dove il cavallo si addomestica tramite l’uso delle mani. Un imprenditore che perde il contatto con le cose che traffica, che non esercita il tatto (con-tatto), che non le saggia sfiorandole con le dita, perde competenza e si mette nelle mani di altri, da cui finisce per dipendere interamente. In questo non vale la divisione del lavoro né la delega: l’imprenditore deve distribuire le funzioni, può e deve delegare molto, ma non il tatto dei suoi beni, questo deve tenerlo per sé.
L’imprenditore italiano è cresciuto toccando i beni. Era competente delle sue cose come e di più dei suoi operai e tecnici. Era questa competenza tattile la sua prima forza. Si capisce quindi che questo "capitalismo" ha iniziato il declino quando ha messo le imprese nelle mani di manager che non toccavano più le cose che compravano e vendevano, perché esperti di strumenti, ma quasi mai di mani e di tatto dei prodotti di quella specifica impresa.
Inoltre messer Giovanni ci dice che il buon mercante deve girare il mondo, deve recarsi di persona nei mercati di molte città. Avrà bisogno di agenti e di procuratori, certo, ma non sarà un bravo mercante se non acquisterà una conoscenza diretta dei luoghi e delle persone, se non frequenterà «fondaci e banchi». Finché l’imprenditore ha la passione, l’energia, l’entusiasmo e l’eros per recarsi di persona nelle fiere, per vedere "col suo occhio" clienti, fornitori, banchieri, ha ancora il controllo della sua impresa, ne detiene le briglia, la maneggia: «Se traffichi di fuori, va in persona ispesso, almeno una volta l’anno, a vedere e a saldar ragione [i conti]. Vedi che vita tiene chi è per te di fuori, s’egli spende di soperchio, che faccia buoni crediti» (p. 178). Quando invece inizia a spendere le sue giornate solo in riunioni in ufficio e in ristoranti stellati, anche se non lo sa è già iniziata la fine, perché ha perso le mani e gli occhi dell’arte della mercatura.
C’è poi un secondo comandamento di etica mercantile: «Va sodamente nel fidarti e non t’abbottacciare [non essere credulone]: e chi più ti dimostra nelle parole essere leale e saputo, meno te ne fida; e chi ti si proffera [offre], non te ne fidare punto in niuno atto. I gran parlatori, millantatori e pieni di moine, goditeli nell’udire e dà parole per parole, ma non te ne fidare punto. D’uno che abbi mutati più traffichi e più compagni o maestri, non avere niente con esso» (p. 178). Quando un imprenditore inizia a circondarsi di "saputi", chiacchieroni, vanitosi, gran parlatori, ha già imboccato il viale del tramonto. Ma per riconoscerli occorre frequentarli fuori dai campi da golf e dagli hotel di lusso, perché è antica legge della mercatura che una persona non la conosci finché non la vedi lavorare. Grave ingenuità pensare di conoscere clienti e agenti nei congressi. È il lavoro il gran setaccio che discerne la pula delle chiacchiere dalla farina del buon mestiere.
Il terzo: «Non fare mai dimostrazione di ricchezza: tiella nascosta e dà sempre a intendere nelle parole e nei fatti che hai la metà di quello che hai. Tenendo questo istile non potrai essere di troppo ingannato» (p. 178). Qui non siamo tanto di fronte a una tecnica di evasione fiscale (forse anche, per qualcuno); c’è di più, c’è uno istile, uno stile di vita. Quei primi mercanti sapevano bene che l’invidia sociale è degenerativa per tutti. La ricchezza civile non deve produrre invidia, ma emulazione, cioè il desiderio di imitazione. Ma in un mondo a bassa mobilità sociale, come era tutto sommato quello medioevale, la ricchezza ostentata crea solo invidia e conflitto. Mostrarla oltre il limite (torna il grande tema dell’intensità lecita delle ricchezze) non giova a nessuno: «Non ti millantare di gran guadagni. Fa il contrario: se guadagni mille fiorini, dì di cinquecento; se ne traffichi mille, dì il simile, e se pur si vede dì "son d’altri". Non ti iscroprir nelle ispese. Se sei ricco di diecimila fiorini, tieni vita come su fussi di cinque» (p. 189).
La sobrietà è rimasta per secoli una grande virtù dell’imprenditore e dell’industriale. I suoi figli andavano spesso a scuola insieme ai figli dei suoi operai, frequentava le stesse chiese, matrimoni, funerali. Erano "signori" ma erano anche com-pagni, almeno i loro figli erano compagni dei nostri. Quando, qualche decennio fa, la competizione si è invece spostata dalla produzione al consumo, il centro del capitalismo è passato dall’imprenditore al manager, e il capitalismo è diventato un enorme meccanismo ostentativo produttore di molta invidia sociale e frustrazione, soprattutto nei tempi di crisi.
Paolo da Castaldo (1320-1370), nel suo "Libro dei buoni costumi" istruisce poi su un quarto pilastro di quella etica degli affari: «Fa’ sempre d’avere i migliori fattori e più sufficienti. E non guardare a costo perché "pigione buona né salario di buoni fattori non furono mai cari"; i cattivi sono cari» (p. 34). Saggezza infinita, che abbiamo dimenticato in un capitalismo dove l’alto salario del manager è il primo e spesso unico indicatore della sua qualità. Paolo qui ci ricorda che il "fattore cattivo" è caro perché in genere è più interessato ai denari che alla mercatura, e che un salario troppo alto diventa un meccanismo di selezione avversa delle persone.
Il quinto: «Fa pure che nei tuoi libri sia iscritto ciò che tu ha fatto distesamente, e non perdonare alla penna e datti bene a intendere nel libro. E viverai libero, sentendoti fermo e sodo nel valsente [capitale] tuo» (p. 178-9). Lo "scriver bello" è il pregio del mercante, nelle parole del mercante e poeta Dino Compagni ("Canzone del pregio"). Non avremmo avuto l’umanesimo civile italiano ed europeo senza lo scriver bello dei mercanti, e non avremmo avuto il loro straordinario successo commerciale senza la cura e la stima per la scrittura e le lettere: «Il pupillo s’ingegni d’essere vertudioso [virtuoso], imprendere iscienzia e di grammatica e ch’egli imprenda un poco d’abaco» (p. 192). Ciò non significa dire che i mercanti fossero (o che dovrebbero essere) dei professori. Lo scriver bello dei mercanti è diverso da quello dei professori, ma è buono e necessario per il bene comune.
Firenze fu capace di secoli di straordinaria economia perché i mercanti nutrivano con la loro ricchezza poeti e artisti, ma Dante e Boccaccio alimentavano i mercanti con la loro bellezza, che così entrava nei libri della ragione e nel parlar fascinoso che incantava il mondo intero: i mercanti lo incantavano con bellissime stoffe, ma anche con parole poetiche, col loro parlare e scrivere bello.
Infine: «Ora, conchiudendo, queste sopra dette cose sono utile a diventare isperto e ’ntendente il mondo, a farsi bene volere e essere onorato e riguardato» (p. 196). La benevolenza, la buona fama, l’onore e la stima, erano beni invisibili ma essenziali, più del profitto. La ricchezza ottenuta con cattiva fama non valeva nulla. Il secondo paradiso che quegli antichi mercanti cercavano era una eredità di buona fama e di onore da lasciare ai figli. Morire ricchi e disonorati era il loro vero inferno. Senza prenderne in considerazione la buona fama non capiamo neanche il fenomeno della vendita delle indulgenze. Quando prossimi alla morte quei mercanti e banchieri donavano buona parte dei loro patrimoni alla Chiesa o al Comune, non lo facevano solo per scontare anni di purgatorio, volevano anche evitare l’inferno della fama sulla terra - per loro e per la loro famiglia. Noi ai figli stiamo lasciando debito pubblico, l’eredità degli antichi mercanti era anche fama e onore.
Dietro il nostro "capitalismo" sorretto ancora dalle famiglie, disprezzato perché qualche volta diventa "familista", c’è tutta l’ambivalenza di quei primi mercanti; ma c’è anche la loro "virtude" e il loro onore.
La congiunzione "e" ha avuto un ruolo decisivo nel nostro primo umanesimo economico e sociale: denaro e Dio, spirito e mercanzia, bellezza e ricchezza, lusso e povertà. Parole che si urtavano e scontravano, e lì nasceva la vita. Abbiamo ancora bisogno di una congiunzione, certamente molto diversa da quella medioevale. Ma la nostra economia diventa civile e civilizzata solo se è relazione, se unisce i diversi, se sa abitare generativamente le sue contraddizioni e le sue ambivalenze.
L’”ECCE HOMO” (E LA “CORONA DI SPINE”)! Non c’è solo Ponzio Pilato, c’è anche Leonzio Pilato. Non dimentichiamolo... *
DAL PEDUNCOLO ALL’OMUNCOLO: UNA “VIA” PER USCIRE DALLA CAVERNA. Sulla parola “omuncolo”, forse, è utile (cfr. A. Polito, "Dialetti salentini: piticinu", Fondazione Terra d’Otranto) rifletterci un momento: a mio parere, tale parola sollecita a portare alla luce la implicita differenza che veicola in sé. Sorprendentemente, se da una parte dice di un giudizio sul comportamento di una persona di sesso maschile che dovrebbe essere “vir-ile” ma che tale non è, dall’altra, per la sua provenienza etimologica “da una base homo, genitivo hominis, che significa uomo”, veicola e produce una generalizzazione indebita che porta a nascondere la presenza dell’altra metà (il sesso femminile) del “genere umano”.
Come per il greco, la parola “antropologia” vale per ogni persona del “genere umano” (e, per il maschio e per la femmina, abbiamo, rispettivamente, l’andrologia e la ginecologia), così per il latino, la parola “umanità” (da “homo”) vale altrettanto per ogni persona del “genere umano”(e, in italiano, per l’homo-maschio, parliamo di “virile” e, per la homo-femmina, parliamo di “muliebre”).
“ECCE HOMO”. Quando Ponzio Pilato pronunciò la frase «Ecco l’uomo», mostrando alla folla Gesù flagellato cosa disse?! Parlò sì di un “uomo”, ma parlò dell’intero “genere umano”! O NO?! A CHE GIOCO GIOCHIAMO?! A METTERE ANCORA IN TESTA AL “GENERE UMANO” UNA BELLA “CORONA” DI SPINE?!
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Sul tema, mi sia consentito, si cfr.:
A) LA GRECIA, LA MEDIAZIONE DELLA CALABRIA, E IL RINASCIMENTO ITALIANO ED EUROPEO. In memoria di Barlaam (Bernardo) e di Leonzio Pilato ... PER BOCCACCIO, UNA GRANDE FESTA IN TUTTA L’ITALIA E L’EUROPA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5421)
B) PER NON DIVENTARE UN “BOCCALONE”, UNA “BOCCALONE” - PER NON FARE LA FIGURA DEL “FESSO” O DELLA FESSA” (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/09/29/fessa-dialetto-salentino-sesso/#comment-63709)
DAL PIEDE ALLA TESTA E DALLA TESTA AL PIEDE: “ECCE HOMO”! *
CARO ARMANDO, credo che la “generalizzazione che finisce per escludere di fatto la donna”, alla luce del prezioso lavoro realizzato da te e dal dott. Marcello Gaballo su “Santa Maria di Casole a Copertino e le sue Sibille” (cfr.: https://www.fondazioneterradotranto.it/2017/03/24/santa-maria-casole-copertino-le-sue-sibille/), non dipende da generici “millenni di maschilismo”.
La riemersione nel nostro presente storico del “piticinu” (“peduncolo”) dell’”ECCE HOMO”, sollecita a riflettere più in profondità sulla nascita dell’uomo Gesù, a reinterrogarci sui suoi genitori e, in particolare, come recentemente e lodevolmente ha fatto la stessa Redazione della Fondazione Terra d’Otranto, su suo padre Giuseppe (cfr. “3 Commenti a De Domo David. 39 autori per i 400 anni della confraternita di San Giuseppe di Nardò”: https://www.fondazioneterradotranto.it/2019/11/10/de-domo-david-39-autori-per-i-400-anni-della-confraternita-di-san-giuseppe-di-nardo/#comment-257181), e a chiedere lumi alla SIBILLA DELFICA (vale a dire, oggi, alla “buonanima” di Sigmund Freud: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=406) per sapere la ragione del diffondersi della peste nella città di “Tebe”!!!
La questione è decisamente antropologica e la situazione storica sollecita ancora e di nuovo a “conoscere sé stessi”, a conoscere sé stesse”, a comprendere finalmente “come nascono i bambini”, “come nascono le bambine”: certamente non da un “omuncolo”(cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2923 )! Ciò che è in gioco è la sopravvivenza della nostra stessa umanità, presente e futura. O no?!
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LA RINASCENZA MEDITERRANEA, L’EUROPA, E IL “MARE NOSTRUM”: IL MEDITERRANEO AL DI LA’ DI OGNI PRETESA “IMPERIALISTICA” DI ORDINE LAICO O RELIGIOSO!!! UN OMAGGIO A PIERO DELFINO PESCE *
RICORDANDO CHE IL FIUME “SELE” è “Un fiume che sfocia in tre mari: nel Tirreno attraverso il suo corso naturale, e nei mari Adriatico e Ionio,attraverso quello artificiale, forzato dall’uomo per mezzo dell’Acquedotto Pugliese che lo ha deviato fino a S. Maria di Leuca e che con il suo tratto terminale diventa fontana monumento (cfr. http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5205#forum2233028) e, al contempo , RICORDANDO QUANTO IL MEDITERRANEO sia stato (ed è ancora!) un “eterno” campo di battaglie tra “opposti estremismi” ateo-devoti, laici e religiosi (cfr. “Due parole. Un segno rivelativo dei tempi. Una ‘memoria’ del 2004”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=899), CONTRO I SOGNI DI OGNI “PRIVATIZZAZIONE” DELL’ACQUA DEI FIUMI come DELL’INTERO MEDITERRANEO, solleciterei (e sollecito!) L’EUROPA a programmare una immediata ricognizione di TUTTI I FIUMI dell’EUROPA, DELL’ASIA E DELL’AFRICA, che sfociano nel MEDITERRANEO.
P. S. In tempi di “coronavirus” e “cavernicole” illusioni politico-religiose, mi sia consentito richiamare alla memoria la figura di Giovanni Boccaccio e, con il suo lavoro, le origini stesse del Rinascimento italiano ed europeo (cfr.: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5421).
EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA *
Roberto Celada Ballanti
La parabola dei tre anelli
Migrazioni e metamorfosi di un racconto tra Oriente e Occidente
Dalla più antica redazione conosciuta, la parabola della perla caduta nella notte, contenuta in un dialogo tra Timoteo I e al-Mahdī nella Baghdad del secolo VIII, alla terza novella della prima giornata del Decameron, fino al dramma teatrale illuminista Nathan il Saggio di Lessing, i racconti degli anelli, migrando tra Oriente e Occidente, trasformandosi, varcando confini identitari, ridisegnando mappe geopolitiche, schiudono nelle religioni del Libro - Ebraismo, Cristianesimo, Islam - un elemento di perturbante problematicità.
Si tratta della ‘lacuna’ segnata dall’anello autentico confuso tra copie fatte forgiare da un buon padre - così nella versione di Boccaccio - per non mortificare nessuno dei tre figli, ugualmente amati, il cui esito è l’indistinguibilità del gioiello originale, il dubbio su chi lo possegga e sul luogo in cui rinvenirlo. È il ‘vuoto’ che, sospendendo la pretesa di un’origine esclusiva, ricorda alle religioni la vanità di ogni chiusura e intolleranza.
Recensioni:
l’Osservatore Romano, 16 giugno 2017, L’assenza luogo di rivelazione, di Marco Vannini;
L’Espresso blog, 20 giugno 2017, Boccaccio maestro di rispetto tra religioni, di Angiola Codacci Pisanelli.
* Edizioni di Storia e Letteratura (RIPRESA PARZIALE).
L’assenza luogo di rivelazione
di Marco Vannini (l’Osservatore Romano, 16 giugno 2017)
Per le romane Edizioni di Storia e Letteratura è appena uscito un prezioso volume La parabola dei tre anelli. Migrazioni e metamorfosi di un racconto tra Oriente e Occidente (Roma, 2017, pagine 254, euro 18). Ne è autore Roberto Celada Ballanti, professore di filosofia della religione e filosofia del dialogo interreligioso presso l’università di Genova, al quale si devono, tra l’altro, importanti studi su Leibniz, su Jaspers, sul pensiero religioso liberale.
Al lettore italiano quella che giustamente viene qui definita “parabola” è nota attraverso la versione del Decamerone, dove compare come Novella di tre anelli. Che essa avesse già nel Boccaccio il carattere religioso di parabola, è però chiaro anche dalla sua collocazione, terza della prima giornata, dopo le due altrettanto “religiose” novelle di ser Ciappelletto e di Abraham giudeo.
Il primo, per salvare da sicura rovina i compatrioti che lo ospitano, non fa conto della sorte dell’anima sua, nella certezza che, avendo «tante ingiurie fatte a Domenedio, per farnegli io una ora in su la mia morte, ne più né meno ne farà», ovvero non gli aggraverà il conto dei peccati, giacché giudica secondo lo spirito e non secondo le misure umane. Il secondo, vedendo la corruzione della corte papale e la Chiesa come una «fucina di diaboliche operazioni piuttosto che di divine», deduce che lo Spirito santo deve davvero esser fondamento e sostegno della religione cristiana, che sarebbe altrimenti scomparsa.
Questo messaggio di una religiosità vera, non legata alla lettera ma allo spirito, si conferma e si esplicita proprio nella Novella dei tre anelli, ove “Melchisedech giudeo”, interrogato a tranello dal Saladino su quale fosse la religione vera, «la giudaica, la saracina o la cristiana», racconta di quel padre che, avendo tre figli ugualmente amati e un anello prezioso, ne fa fare due copie identiche all’originale, dando a ciascuno dei figli un anello, ragion per cui, alla sua morte, ciascuno di essi pretende di essere in possesso dell’anello vero, ma senza che la questione possa essere risolta.
E così è, conclude Melchisedek, per le tre religioni: ciascuna pretende che la sua legge sia la vera, data da Dio Padre, «ma chi se l’abbia, come degli anelli, ancora ne pende la quistione». Melchisedek è un nome scelto non a caso: rimanda al biblico re di Salem, «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita [...] sacerdote in eterno» (Ebrei 7), figura di Cristo e di un cristianesimo ancora precedente all’ebraismo. V’è infatti nella novella del Decameron qualcosa di ben più importante di un generico appello a una tolleranza religiosa frutto del relativismo e dell’agnosticismo, - la tolleranza in versione mercantile, quella sostenuta ad esempio da Voltaire, che invita a entrare nella Borsa di Londra nella quale «l’ebreo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della stessa religione, e danno il nome di infedeli solo a quelli che fanno bancarotta».
No, v’è qui il rimando a una verità che trascende le pretese dogmatiche dei singoli, una veritas che può esprimersi nella varietas, e che chiama non solo alla tolleranza, ma anche alla fratellanza, all’amicizia tra gli uomini. «La tolleranza dovrebbe in verità essere solo un sentimento provvisorio: essa deve portare al riconoscimento. Tollerare significa offendere”» scriveva non caso Goethe. Questo riconoscimento, con l’amicizia, appunto, che finisce per legare Saladino e Melchisedek, è la cifra anche dell’ultimo testo analizzato nel libro in oggetto, quello in cui più scopertamente il messaggio implicito nella novella viene alla luce: il dramma di Lessing Nathan il saggio.
Nato esplicitamente nell’ambito di una polemica che oppose l’illuminista tedesco a un pastore protestante geloso custode del letteralismo biblico, l’opera di Lessing ( 1779 ) ripropone la storia dei tre anelli riallacciandosi al Decamerone. L’ ebreo Nathan (nome del profeta che rimprovera a David il suo omicidio e adulterio) la racconta anch’egli al Saladino, e ne fa scaturire un messaggio di amore, ove ciascuno dei tre fratelli deve fare a gara per dimostrare il possesso dell’anello vero «con la dolcezza, con indomita pazienza e carità, e con profonda devozione a Dio».
La versione di Lessing è solo l’ultimo esito delle “migrazioni e metamorfosi” di un racconto la cui storia l’autore descrive, con straordinaria erudizione e capacità di coinvolgimento, a partire da un testo siriaco cristiano dell’viii secolo, per passare attraverso la cultura medievale ebraica veronese, quella multietnica della Andalusia musulmana, tornando infine nel mondo cristiano, ai repertori dei predicatori e alle redazioni apologetiche della novella, le cui diverse versioni presentano variazioni anche significative, ma che ne lasciano comunque intatta la sostanza.
Oltre all’insegnamento più evidente di questa affascinante storia, Celada Ballanti ne mostra però un altro, religiosamente ancora più profondo. Prendendo lo spunto dalle parole di Clarisse ne L’uomo senza qualità di Musil : - «l’anello nel centro non ha nulla, eppure sembra che per lui sia proprio il centro che contà!» - si può rilevare infatti come la parabola inviti a volgere lo sguardo non tanto a un’essenza, quanto a un’ assenza.
L’anello è infatti un cerchio che racchiude un vuoto, e proprio un vuoto, un’assenza, può essere il più autentico locus revelationis, il “luogo” ove si rivela il Dio nascosto. Allora il non-sapere dei tre fratelli, e di tutti gli uomini insieme, passa dalla condizione di mera ignoranza a quella di docta ignorantia, nel senso mistico che fu di Agostino e di Niccolò Cusano.
Assaporare il «Decameron»
di Lina Bolzoni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15 maggio 2016)
Il cibo è tema onnipresente nei programmi televisivi, declinato nei modi più diversi, a volte con i toni impietosi e crudeli della competizione, che Crozza sa mettere così bene alla berlina. È un piacere invece ritrovarlo nel libro di Laura Sanguineti White, svolto con eleganza e precisione, usato come uno strumento di attraversamento del Decameron, come utile cartina di tornasole per metterne in evidenza la sapienza narrativa, la comicità, lo studio attento dei diversi caratteri.
Il cibo, ci ricorda l’autrice, è un grande tema culturale: riguarda l’antropologia, la storia economica e sociale, il galateo, la cultura materiale, il gender, le prescrizioni della dieta e della medicina (alcune eleganti immagini tratte dai Taccuina sanitatis accompagnano il saggio), ha a che fare con le pratiche della socialità, con la ricchezza e la miseria (e viene in mente lo splendido, pioneristico lavoro di Piero Camporesi, il suo Il pane selvaggio, ad esempio)
Questo approccio si rivela molto fruttuoso per il Decameron: l’autrice lo lega infatti al grande tema dell’importanza, della esaltazione dei sensi, al costruirsi di una comunità che coltiva una socialità raffinata, in cui si cerca il piacere insieme con l’eleganza e la misura. Una scelta di civiltà contro l’abbandono all’eccesso cui altri si danno sotto l’incombere della peste, sotto il trionfo minaccioso della morte
I cibi e le bevande, il momento del convito accompagnato da canti, danze, musica, rallegrato dai motti, intervallato dal narrare, costituisce infatti un ingrediente essenziale della cornice dell’intera opera e delle singole giornate. Questo è del resto uno dei temi portanti del libro: il nesso fra il cibo e la narrazione, il fatto che l’incontro amicale, il convito preludono «al banchetto verbale, al cibo spirituale offerto dalla grande arte del narrare». E proprio la narrazione, e quindi la letteratura, come la critica ha messo in risalto, avrà la funzione di allontanare e in definitiva di vincere la morte: una nuova e eterna reincarnazione della Sherazade delle Mille e una notte.
Ci sono alcune immagini di cibo che hanno una forte qualità visiva, un impatto memorabile, tale da rievocare con forza l’intera novella: pensiamo alle ’insalatuzze’ di ser Ciappelletto, che nella sua improbabile confessione denuncia di aver troppo desiderato «cotali insalatuzze d’erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa», oppure alla montagna di parmigiano evocata da Calandrino nella sua descrizione del paese di Bengodi, e naturalmente al falcone che Federigo degli Alberighi sacrifica al suo amore, o alla gru con una gamba sola, dato che Chichibio, «vinizian bugiardo» e grande cuoco, ha fatto dono dell’altra alla sua bella.
Alle metafore legate al cibo il saggio dedica un’attenta analisi. Sono spesso di natura sessuale: tipico il caso del digiuno, o della dieta, che indicano appunto una privazione sessuale; modi di dire popolari, come ’rendere pan per focaccia’, vengono riusati in questo senso. È interessante notare che le metafore di tipo alimentare-sessuale si intrecciano con l’autorappresentazione della scrittura: divertente il paragone con il porro, che ha la testa bianca come i vecchi e le foglie verdi, come i giovani. Boccaccio lo usa nella introduzione alla IV giornata, dove il famoso aneddoto delle donne-papere serve a ricordare l’invincibile e naturale forza dell’amore e Boccaccio rivendica, sulla scorta di esempi illustri come Dante e Cavalcanti, il suo diritto di amare anche in età avanzata e di dedicare alle donne le sue novelle. Il porro, con i suoi diversi colori, era già apparso nell’ultima novella della prima giornata, dove un vecchio e celebre medico, mastro, Alberto da Bologna, lo usa per rispondere a chi lo prende in giro per l’amore che nutriva verso una giovane vedova. Il porro funziona così da richiamo da novella a novella, a immagine esemplare della diversità degli amori, a difesa di quelli senili (e insieme della libertà del novellare).
Nel descrivere e nel rievocare le bellezze delle donne il cibo svolge naturalmente una funzione di primo piano. Monna Isabetta è «fresca e bella e ritondetta che pareva una mela casolana»; nell’infernale beffa che un abate gioca al povero Ferondo, per poter godersi liberamente sua moglie, gli fa credere di essere in Purgatorio, e tra le sofferenze Ferondo rievoca la bella consorte, «la più dolce: ella era più melata che il confetto».
E a proposito di confetti l’autrice ci fa notare come il binomio vini e confetti sia ricorrente, una specie di contrassegno dei momenti di convivialità. I confetti, come leggiamo da una citazione di Claudio Bemporat, erano composti di «un nucleo di zenzero, mandorle, noci, cannella, semi di finocchio ricoperto da uno strato solido di zucchero, serviti all’inizio e alla fine dei banchetti più lussuosi». La presenza del cibo si delinea nel testo attraverso un gioco di varianti e di articolazioni: se nella cornice il riferimento è generico (vini e confetti, vivande buone e delicate), via via nelle novelle siamo meglio informati di cosa si mangia e si beve, con attenzione alle varietà regionali: così ad esempio la bella -e pericolosa- siciliana offre a Andreuccio da Perugia, arrivato a Napoli, del vino “greco”, mentre il notaio attempato che nell’ultima novella della seconda giornata fa fatica a consumare il matrimonio, ristora poi le sue forze, oltre che con i soliti confetti, con una buona vernaccia.
I cibi si adeguano infatti alle diverse prestazioni: nella prima novella della settima giornata il marito mangia «un poco di carne salata», mentre il giovane e prestante amante si concede, per prepararsi all’incontro amoroso, «due capponi lessi, molte uova fresche e un fiasco di buon vino».
Il cuore umano, in particolare il cuore della persona amata, entra in gioco in alcune delle novelle più tragiche e visionarie: se Ghismonda condisce con «erbe e radici velenose» il sangue dell’amato che il padre geloso ha ucciso, Nastagio degli Onesti vede, nella caccia infernale in cui viene punita la crudeltà della sua bella che rifiuta il suo amore, il cuore di lei gettato ai cani.
Il tema del cibo si rivela così, nel bel libro di Laura Sanguineti White, componente importante di quel libro\mondo che è il Decameron.
Giovanni Boccaccio, amore e cultura nella gloriosa Napoli del Trecento
di Maria Vittoria Romano (Vesuvio-Live, 23 marzo 2015) *
Giovanni Boccaccio, illustrissimo letterato italiano del Trecento, autore di inimitabili opere, abile sperimentatore di generi letterari, ha trascorso la sua intera adolescenza a partire dal 1327 nella gloriosa Napoli del Trecento. L’esperienza nella città partenopea è stata decisamente la più importante per l’evoluzione artista dell’autore. In gran parte delle sue opere infatti, ritroviamo descrizioni di scorci napoletani di strade, vicoli, sentimenti, personaggi. Proprio a Napoli Boccaccio scrive opere come il Teseida, il Filocolo, il Filostrato e la Caccia di Diana.
Nonostante la premura del padre di indirizzarlo verso studi giuridici, il giovane letterato studia da autodidatta ed entra nell’entourage della corte angioina. Sarà proprio in questo ricco ambiente culturale che conoscerà la sua musa ispiratrice, la donna alla quale destinare il suo amore: Fiammetta. Ma chi è Fiammetta? Molto probabilmente è la figlia stessa del sovrano Roberto D’Angiò, Maria d’Aquino con lo pseudonimo di madonna Fiammetta. Insomma Napoli ha giocato un ruolo fondamentale per lo sviluppo letterario del Boccaccio: gli ha donato l’ispirazione poetica e amorosa.
La sua opera più importante, il Decameron, raccoglie una serie di novelle tra le quali diverse sono ambientate a Napoli e nelle zone limitrofe. Nella novella quinta della seconda giornata dedicata alle storie di coloro che per fortuna e non per industria terminano le peripezie con il lieto fine, ritroviamo la descrizione della metropoli napoletana di notte con le sue strade, i vicoli ed anche i suoi pericoli.
Il protagonista è Andreuccio da Perugia, un giovane mercante che recatosi a Napoli con l’intenzione di comperare dei cavalli con cinquecento fiorini viene invece derubato con l’inganno da una vecchia donna e sua figlia che si fingono sue parenti. Ma questo non è l’unico “accidente” che ostacola il soggiorno del povero Andreuccio a Napoli. Il giovane difatti costretto a girovagare senza soldi, nudo e puzzolente tra i vicoli bui incontra due ladruncoli che lo costringono a partecipare al loro piano criminale: rubare un prezioso anello di un vescovo defunto in un sepolcro. Dopo una serie di disavventure, il protagonista diventa scaltro, riesce a sfuggire dai ladri e ritorna a casa con un ricco bottino di gioielli. Questa novella rispecchia in pieno l’atmosfera napoletana del Trecento, molto simile a quella odierna. In particolare il Boccaccio si sofferma sul vociare popolare, le grida di Andreuccio ritenute moleste dai condomini nel profondo della notte scatenano goliardiche scenate tipiche napoletane.
Ma l’influsso della città sulle opere dell’autore non si condensa solo in questa esperienza, anzi tante altre novelle all’interno del Decameron sono ambientate a Napoli! Possiamo citare la novella di Madonna Beritola (novella sesta seconda giornata), Ricciardo Minutolo (novella sesta terza giornata), Elisabetta da Messina (novella quinta quarta giornata), Peronella (novella seconda settima giornata), Niccolò da Cignano (novella decima giornata ottava) ed infine quella di Gian di Procida (novella sesta giornata quinta).
Analizzando le altre opere del Boccaccio, possiamo notare come nel quarto libro del Filocolo l’autore dia grande importanza alla presenza della tomba di Virgilio a Napoli, come segno della continuità classica ed ancora ritroviamo descrizioni napoletane nell’Elegia di Madonna Fiammetta e in varie Epistole tra le quali è presente una lettera scritta in Lingua Napoletana! Questa epistola è importantissima a livello linguistico per comprendere le caratteristiche e le trasformazioni linguistiche del napoletano parlato del Trecento. La lettera, indirizzata a Franceschino dei Bardi residente a Gaeta, informa il destinatario che è divenuto padre di un figlio maschio, partorito a Napoli dalla sua amante Machinti. È l’unica testimonianza di un intellettuale fiorentino che scrive cercando di imitare il Napoletano con differenti ipercorrettismi.
Insomma è ancora Napoli il centro della cultura, una vera e propria metropoli fin dagli albori del Trecento. Sarà proprio nella città partenopea che d’altronde Boccaccio conoscerà gli scritti di Dante ed in particolare la Commedia.
Questo articolo fa parte della rubrica “I figli illustri di Napoli“.
Curiosità: le tre novelle del Decameron ambientate a Salerno
Forse non tutti sanno che, nel Decameron di Boccaccio, ben 3 delle cento novelle hanno come protagonisti dei salernitani: un mercante di Ravello, un principe salernitano e sua figlia ed un maestro della Scuola medica salernitana
di Francesco Bove ("SalernoToday", 4 giugno 2015)
Forse non tutti sanno che, nel Decameron di Boccaccio, ben 3 delle cento novelle hanno come protagonisti dei salernitani. La prima di queste è narrata nel secondo giorno da Lauretta ed ha come protagonista un ricco mercante di Ravello di nome Landolfo Rufolo. La storia, che secondo le regole dell’opera di Boccaccio, ha come tema centrale il Lieto fine, segue le peripezie del mercante di Ravello che, non pago della sua ricchezza, volle viaggiare fino a Cipro per vendere le sue mercanzie. Giunto nell’isola, però, fu vittima di una forte concorrenza e fu costretto a vendere la propria merce sottoprezzo e, per recuperare l’investimento effettuato, anche la sua nave. Acquistata una nuova nave più piccola, Landolfo, si dedicò alla pirateria fin quando venne, però, catturato dalla marina Genovese che lo imprigiona. La nave sul quale fu imprigionato affondò a causa di una forte tempesta ed il mercante di Ravello si salvò aggrappandosi ad una cassa. Salvato da una donna su una spiaggia di Corfù, l’uomo scoprì che la cassa con la quale si era salvato conteneva innumerevoli pietre preziose con le quali ricompensò generosamente la donna, si pagò il viaggio fino alla natia Ravello e visse senza più commerciare il resto della sua vita.
La seconda e la terza storia vengono narrate entrambe il quarto giorno. La prima delle due e raccontata da Fiammetta ha come protagonista Tancredi di Salerno e sua figlia Ghismunda ed ha come tema l’Amore infelice. Tancredi, principe di Salerno, era molto geloso di sua figlia Ghismunda tanto da concederla in moglie solo al duca di Capua che, però, morì poco dopo il matrimonio lasciando la bella fanciulla vedova in giovane età. Tancredi, però, non le volle cercare un nuovo marito e Ghismunda, quindi, intraprese una relazione clandestina con Guiscardo, valletto di umili origini del padre. Scoperta per caso la relazione, Tancredi fece imprigionare Guiscardo e chiese spiegazioni alla figlia. Ghismunda difese strenuamente la posizione del giovane amato dichiarando che, anche se di umili origini, Guiscardo possedeva un cuore nobile e che la nobiltà di cuore fosse ben più importante di quella data da un titolo. Adirato Tancredi fece uccidere Guiscardo e fece recapitare, in una coppa, il cuore del giovane alla figlia infedele. Veduto il macabro dono, Ghismunda versò nella coppa del veleno e lo bevve per raggiungere l’amato nella morte. Venuto a spere dell’insano gesto dell a figlia, Tancredi corse per darle parole di conforto, ma arrivò tardi e non riuscì a salvare Ghismunda.
La terza storia, raccontata da Dioneo, parla, invece, del medico Mazzeo della Montagna. Il protagonista della storia è un grande medico della Scuola medica salernitana che, preso dal suo lavoro e dai suoi impegni, si sposò in tarda età con una giovane salernitana. Sentendosi, però, trascurata, la donna si trovò un amante, Ruggieri d’Aieroli, nobile di stirpe ma conosciuto per la sua condotta poco nobile. Un giorno un infermo venne portato al cospetto di Mazzeo che, dovendolo operare, preparò una bevanda anestetica per farlo addormentare. Chiamato urgentemente ad Amalfi, però, Mazzeo medicò temporanamente la ferita dell’infermo per operarlo il mattino seguente. La moglie di Mazzeo, sapendo della partenza del medico, chiamò Ruggieri per passarci la notte insieme. Lo fece, quindi, nascondere temporaneamente nella stanza dove era stato preparato l’anestetico che il malcapitato bevve scambiandolo per acqua. Ritrovato il corpo addormentato dell’amante, e ritenendolo morto, nascose, insieme ad una serva, il corpo di Ruggieri in un’arca di un falegname vicino. Nella notte, però, al falegname venne rubata l’arca da due usurai. Ruggieri, quindi, si svegliò a casa degli usurai che lo accusarono di furto. Venuta a sapere il fatto, la moglie di Mazzeo, corse per scagionare l’amante e, spiegando la situazione, si scoprì che, in realtà, i ladri fossero i due usurai che vennero arretsati.
Boccaccio segreto: le postille autografe ad Omero
di Carlo Pulsoni *
Firenze, estate del 1360: prende avvio un’impresa che segnerà in profondità la storia culturale europea, il recupero del testo dei due grandi poemi omerici, l’Iliade e l’Odissea. I protagonisti di questa straordinaria operazione, resa necessaria dalla perdita della conoscenza del greco, sono tre: Giovanni Boccaccio, Francesco Petrarca e un monaco dalle abitudini inurbane e dall’aspetto «orrido», Leonzio Pilato. Boccaccio lo aveva chiamato a Firenze in quell’anno, ufficialmente per insegnare il greco nello Studio universitario, ma in realtà perché eseguisse la traduzione e il commento dei due poemi.
Leonzio si mette all’opera subito e dopo parecchi mesi riesce a concludere il suo lavoro, confezionando i volumi e mettendoli a disposizione di chi li aveva così fortemente voluti. Boccaccio, però, decide di non tenerli per sé, ma di mandarli a colui che aveva incoraggiato quell’iniziativa, l’amico e maestro Francesco Petrarca.
Nei primi mesi del 1366, mentre si trovava a Venezia, Petrarca riceve i libri tanto desiderati: in una lettera di ringraziamento al Boccaccio scrive che con l’arrivo di Omero si sono allietati gli altri autori latini e greci riuniti nella sua biblioteca. I manoscritti di mano di Leonzio, contenenti il testo greco corredato dalla sua traduzione interlineare latina, sono visibili presso la Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. Uno di quei codici reca con sé un segreto appena svelato da Marco Cursi, docente di Paleografia dell’Università "La Sapienza" di Roma, nonché tra i massimi esperti della scrittura del Certaldese. Nei margini della copia dell’Odissea - ms. Gr. IX.29 - sono riemerse alcune annotazioni autografe di Giovanni Boccaccio, eccezionali testimonianze del suo modo di leggere e intendere Omero.
Abbiamo raggiunto lo studioso, per avere informazioni più dettagliate sulla scoperta. In quali circostanze è avvenuto il ritrovamento?
«Come spesso accade in casi del genere, mi ero recato in Marciana con l’intenzione di consultare altri manoscritti; in questo periodo sto studiando la scrittura di Pietro Bembo. Prima di cominciare, però, ho avuto l’idea di dare una rapida occhiata ai codici omerici di Leonzio, che non avevo mai visto prima d’ora. Ho iniziato con quello contenente l’Odissea e dopo aver scorso una sessantina di carte ho avuto una grande sorpresa: sotto i miei occhi è apparsa una nota autografa del Boccaccio! A quel punto i piani di lavoro sono totalmente cambiati: quel codice mi ha tenuto incollato al tavolo per molte ore... Quel codice era già noto per la presenza di cinque postille autografe di Francesco Petrarca, ma nessuno vi aveva mai individuato la mano di Boccaccio».
Come si può essere certi che si tratti proprio della mano di Boccaccio?
«Il riconoscimento è avvenuto su base paleografica, grazie ad un confronto con altri esempi noti della sua mano. Negli anni passati mi sono occupato a lungo della scrittura del Boccaccio e non possono esservi dubbi sulla loro assegnazione all’autore del Decameron. In ogni modo ho in corso di preparazione un saggio, destinato ad una rivista scientifica, in cui procederò ad una dimostrazione puntuale dell’autografia».
Nel manoscritto vi sono altri segnali della lettura del Boccaccio?
«Sì, uno dei suoi ultimi interventi è il disegno di una manicula, ovvero un segno d’attenzione a forma di manina per evidenziare un passo ritenuto particolarmente significativo. Al proposito è opportuno ricordare che Boccaccio era anche un abile disegnatore; di recente insieme a Sandro Bertelli abbiamo riportato alla luce un bellissimo ritratto di sua mano raffigurante proprio Omero, in forma di poeta incoronato, posto al termine di una grande silloge dantesca da lui confezionata, oggi conservata nella Biblioteca Arcivescovile di Toledo».
Quante sono le postille boccaccesche e qual è il loro contenuto?
«Una quindicina circa. Sono di contenuto prevalentemente esegetico e funzionale a stabilire paralleli con Virgilio; vi è anche una lunga nota in cui viene segnalata un’incongruenza nell’articolazione cronologica delle vicende narrate nell’Odissea. In realtà però l’errore non è contenuto nell’originale omerico, ma dipende dalla traduzione approssimativa di Leonzio! Forse per questo motivo la nota è stata successivamente depennata, probabilmente dallo stesso Boccaccio».
Quanti autografi boccacceschi ci sono noti?
«Boccaccio fu uno scrivente instancabile; di lui possediamo una lettera privata e ben 33 codici: 22 parzialmente o integralmente autografi, e 11 postillati, ovvero volumi non confezionati di sua mano, ma passati per il suo scrittoio, poiché recano sue notazioni. L’Omero marciano è il dodicesimo postillato, e forse il più prezioso. Innanzitutto per il numero delle postille, eccezionalmente alto rispetto alle abitudini boccaccesche; di solito infatti egli interviene con molta parsimonia, con rare note verbali o figurate. Secondariamente per l’importanza del testo che viene commentato e per la natura stessa degli interventi esegetici. Un ultimo elemento di interesse è dato dalla tipologia grafica, la cosiddetta “mercantesca”, la scrittura d’uso di Boccaccio».
Prima accennavi al fatto che vi sono anche postille di Petrarca; i due letterati apposero le notazioni mentre lavoravano insieme sul codice omerico o in tempi diversi?
«Non è semplice rispondere a questa domanda: Boccaccio potrebbe averle aggiunte mentre il codice era ancora nel suo scrittoio, o forse mentre Leonzio procedeva con la traduzione, ma non è da escludere che furono apposte dai due amici nel corso di un soggiorno comune, dopo il 1366, quando il codice era già in casa di Petrarca. Al proposito è interessante osservare che pure nelle note petrarchesche tornano i rimandi a Virgilio. La circostanza non è dimostrabile, ma mi piace immaginare Boccaccio e Petrarca seduti intorno a un tavolo a parlare di poesia, e con loro il "ritrovato" Omero».
Il classico vicino a noi
La mitografia non passa mai di moda
Una mappatura dei miti greco-latini conterrebbe quasi 14mila nomi e vicende.
Un manuale per navigarci dentro
di Carlo Carena (Il Sole Domenica, 09.03.2014)
Una mappa completa del mito greco-latino, una genealogia che partendo dal regno di Saturno e dalla nascita di Zeus scendesse per li rami alle divinità olimpiche (Era, Apollo, Afrodite, Ermes, Pallade, Posidone, Ade...; e poi Demetra, Persefone, Dioniso...) e agli eroi (Prometeo, Eracle, greci e troiani...) e alle leggende più poetiche (Adone, Arianna, Dafne...) sarebbe impossibile per la sua vastità. Come attesta la Bibliotheca classica, ora Classical Dictionary del reverendo John Lamprière, apparso la prima volta a Londra nel 1738, ripetutamente e tuttora ristampato manuale di inesauribile vantaggio e attrattiva, utilizzato da secoli da studenti, studiosi, poeti: i biografi dicono che Keats lo conoscesse quasi a memoria e i critici ne hanno rilevato tracce quasi letterali nell’Ode su un’urna greca. Vi figurano circa 14.000 nomi propri, di cui forse la metà mitologici o comunque connessi con la mitologia.
È, se non altro, un segno della ricchezza, della penetrazione e dell’insediamento di quel deposito di favole e di verità, di cui era sgomentato anche Boccaccio. Nel Proemio delle Genealogie deorum Gentilium egli scrive di tremare al solo pensiero del soverchio peso di dover addentrarsi «tra gli aspri deserti dell’antichità» per «raccorre lo sbranato, minuzzato, consumato, e quasi in ceneri già ritornato gran corpo de’ Dei Gentili, e de’ famosi heroi». Per non accostarsi all’immenso «tronco metafisico poetico» di Giambattista Vico, attraverso il quale la sapienza poetica si dirama nella fisica, nella cosmografia, nell’astronomia, nella cronologia e nella geografia: prova della verità e risultati veritieri dei miti, non invenzioni oziose e oscene, o suggestive e arcane, ma storia vera espressa da un’età primitiva del mondo e imborghesita nei rifacimenti delle età "colte". «Non si può dare tradizione, quantunque favolosa - si legge nella Scienza nuova -, che non abbia da prima avuto alcun motivo di vero».
Ma proprio questa condizione attraeva poco altri in quello stesso giro di anni. I miti, racconta Fontenelle nella rapida Origine des fables (1724), sono sì espressione genuina e spontanea della fanciullezza dell’umanità, di quei poveri selvaggi che hanno abitato per primi il mondo; ma non per ciò o proprio per ciò meno confusi e menzogneri. Che amore era mai questo degli uomini per falsità manifeste e ridicole? I miti sono «uno dei prodotti più strani dello spirito umano», che vi mescola - miscela la più deliziosa - lo strano al meraviglioso, «filosofia veramente grossolana» di gente ignorante.
Basta e avanza richiamare solamente alcuni miti fondamentali ed esemplari per il loro valore e significato sia nelle religioni e letterature antiche, sia nelle riprese entro le letterature moderne. Queste, specialmente in certe epoche, in taluni generi letterari e in tematiche cruciali, sono state infatti dipendenti o hanno ripreso in vari modi, nel semplice modo poetico o nell’interpretazione e ricreazione letterario-filosofica, grandi e piccoli miti cantati dai poeti classici.
Il mito stabiliva un legame per i gruppi in cui veniva continuamente narrato, esprimeva e costituiva i valori e le istituzioni di quella società. L’aspetto religioso o d’intrattenimento è più accentuato negli uni o negli altri, nei miti cosmogonici e teogonici, eroici o genealogici, rituali o eziologici. Li cantava in epoca omerica l’aedo nel banchetto dei nobili, li ripetevano i cori nelle feste locali e panelleniche, li rappresentava il teatro nella città democratica.
Queste sono anche altrettante tappe e luoghi della sua evoluzione... I Greci cercarono di esorcizzare il mito tenebroso e fatale, di iniettargli una forma, che viene dall’intelligenza e dall’arte; di inserire divinità luminose e sane, belle e serene, la solarità senz’ombra, la luce senza tramonti, piuttosto l’umano, e quindi il possibile se non il vero, anche nella mitologia, anziché il mostruoso e l’assolutamente, inutilmente immaginario, come preferiva l’Egitto e preferirà il Medioevo nordico.
La decorazione scultorea del Partenone con la Centauromachia, l’Amazzonomachia e la Gigantomachia ricordava a tutti gli Ateniesi gli scontri millenari e immani da cui era nata la loro civiltà; la fatica e il rischio attraverso cui si civilizzano le nazioni e gli uomini. Perché un pensiero era insito sin dagli inizi in una simile immaginazione, e una simile mitologia era obbligata a procedere sino alla filosofia.
PACTA . dei Teatri con sede al TEATRO OSCAR Via Lattanzio, 58 - Milano
Per info contattateci allo 02.36503740 / biglietteria@pacta.org
Dal 23 al 27 ottobre 2013
L’AMORE AL TEMPO DEL BOCCACCIO
dal Decamerone di Giovanni Boccaccio
Foto di Gianfranco Carozzi
Adattamento e regia Alessandro Pazzi
Con Alessandro Pazzi, Paolo Marchiori, Filippo Bergamo
Produzione Ossigeno Teatro
A 700 anni dalla nascita di Giovanni Boccaccio, grande autore del ‘300, tre attori, come cantastorie medievali, usando il gioco del travestimento teatrale, con la forza della parola, della pantomima, del canto e della musica, ripercorrono le parole de Il Decamerone, una delle opere più importanti e conosciute della letteratura mondiale. Nel libro un gruppo di giovani per sfuggire alla peste che imperversava a Firenze, si riunisce fuori dalla città per raccontarsi delle novelle, cercando di alleviare la sofferenza del corpo e dello spirito. Boccaccio voleva dimostrare ai Fiorentini che è possibile rialzarsi dalle disgrazie grazie all’amore che è forza insopprimibile, e così si vuole riflettere sull’oggi.
INCONTRI :
Venerdì 11 ottobre, ore 18.00 - Libreria Odradek - ingresso gratuito
Presentazione dello spettacolo
presso la Libreria Odradek, via Principe Eugenio 28, Milano.
Giovedì 17 ottobre, ore 18.30 - Libreria Linea D’Ombra - ingresso gratuito
Presentazione dello spettacolo con il Prof. Giuseppe Girgenti, professore di storia della filosofia antica all’Università Vita e salute del San Raffaele,
presso la libreria Linea d’Ombra, via San Calocero 29, Milano.
Messer Boccaccio che difese le donne Un’eloquenza ricchissima a favore dei sentimenti nei «dilicati petti»
Un grande narratore da rileggere e rivalutare. Soprattutto quando si schiera a sostegno della causa femminile, dando voce ai tormenti e alle passioni di schiere di ragazze e signore. Come Ghismonda Egli fu sempre in grado di tenere conto del dislivello tra sessi, con le donne escluse dalla sfera culturale
di Renato Barilli (l’Unità, 27.04.2013)
I CENTENARI SONO UTILI PERCHÉ CI STIMOLANO A RILEGGERE I CLASSICI CERCANDO DI SPREMERNE FUORI MESSAGGI SEMPRE RINNOVATI E SUL FILO DELL’ATTUALITÀ. Non fa certo eccezione a questa regola aurea il caso del Boccaccio (1313-1375), la cui opera è ben lungi dal doversi considerare esaurita nei tanti motivi che se ne possono trarre. E si può partire proprio da certi aspetti che a questo grande autore si riconoscono per convenzione, tanto da averne modellato l’appellativo di «boccaccesco». A questo aggettivo si possono dare due significati, uno non alieno dal suscitare qualche sospetto e forse da limitare, se non proprio da abbandonare, un altro, invece, di sorprendente e non ancora del tutto sondata profondità.
L’autore di Certaldo è «boccaccesco» non tanto per una sua presunta capacità di inventare storie gremite, articolate, pronte anche a toccare aspetti pruriginosi, mosse insomma da una fantasia illimitata. Al contrario, chi ha avvicinato con gli strumenti della filologia i vari capolavori del grande narratore, e in particola l’opera massima, il Decamerone, ha potuto constatare che quasi tutte le trame erano a lui preesistenti, egli non ha fatto altro che recuperarle, col fine principale di metterle in bella forma.
Già qui si sfiora un motivo di attualità, si può infatti considerare il Boccaccio quale un campione di «riscrittura», di colui che non inventa, ma muta la chiave espressiva delle storie prese da altri. Col che, si passa alla seconda accezione del «boccaccesco», che questa volta è tuttora pienamente rispondente, e anzi da accentuare, da portare agli ultimi esiti. In questo caso ci si rivolge al suo periodare complesso, ricco di incisi e di subordinate, proprio di chi non si limita a riportare «storie» nude e crude, nel puro andamento della trama, ma le arricchisce senza fine di aggiunte, perifrasi, subordinate, nell’intento di circostanziare, precisare, fornire dettagli ulteriori. Basterebbe fare il confronto tra la nuda e scarna povertà di certe vicende quali si incontrano nel Novellino, dovuto a un anonimo scrittore del Duecento, e la pienezza di particolari con cui il Boccaccio le riscrive. Perché egli è stato un allievo ideale di Cicerone, e del suo periodare gonfio, esuberante di svolte e dilatazioni. Sta in ciò l’appartenenza del Boccaccio al fenomeno storico dell’Umanesimo. Ma la gonfiezza di Cicerone, che magari sui banchi di scuola abbiamo imparato a detestare, era in realtà al servizio della professione in cui eccelleva, quella di avvocato, il quale deve essere eloquente al massimo, disteso nel presentare i casi, pro o contro la persona sotto esame. Ebbene, questo è stato il Boccaccio, attraverso il suo strenuo ciceronismo, un grande avvocato, ma a favore di quale causa?
Qui possiamo scoprire in lui un motivo di straordinaria attualità: egli ha patrocinato con ardore, esuberanza, eloquenza generosa e illimitata la causa delle donne. Bisogna premettere che per lui il tema dei temi, in tutta l’opera, è stato quello dell’amore, psicologico e anche fisico, tra l’uomo e la donna, ma subito accompagnato dalla constatazione di un dislivello. Le donne, a suo avviso, nei loro «dilicati petti», sentono, soffrono, vivono più dei maschi le pene d’amore, però mancano di strumenti per comunicarle adeguatamente. Il Nostro parte da una precisa diagnosi sociologica. Le donne, ai suoi tempi, anche se di ceto alto, erano escluse dal ricevere una buona educazione scolastica, non sapevano insomma di latino, non accedevano ai sacri testi ciceroniani, mentre d’altra parte restavano vittime dell’ozio, non essendo concesso loro di lavorare, a differenza delle consorelle degli strati popolari. E dunque, bisognava pure che qualcuno parlasse per loro. Questa la nobile causa cui il Boccaccio si presta, con impegno e devozione: dare la parola, e nei modi più ampi, articolati che la sua frequentazione di Cicerone gli consente, a quei tormenti e passioni muliebri che altrimenti sarebbero condannati al silenzio.
Troviamo in ciò la chiave principale che si può applicare alla maggior parte degli scritti del nostro autore, con applicazione quasi ad apertura di pagina. Tra la infinità di luoghi in cui questo elementare teorema potrebbe essere verificato basterà qui andare a compulsarne due. Per esempio, l’Elegia di Madonna Fiammetta concepita dal Nostro nel fecondo periodo del suo soggiorno a Napoli, allora capitale economica e culturale non seconda a Firenze. Vi si narra di una donna di nobile nascita, mal maritata come allora succedeva a un anziano «buon partito» che la trascura, ma concedendole il diritto di farsi un amante, pur di rispettare le apparenze. Sennonché questo giovane partner si allontana dicendole che deve tornare a Nord dove vive il padre, che essendo morente vuole sistemare con lui le questioni ereditarie, ma stia tranquilla, Fiammetta, che lo vedrà ritornare al più presto. Però passano i giorni, lui non si ripresenta, e anzi ben presto le giungono voci che sta per sposarsi con un conveniente partito della sua terra. Questi i fatti, che suscitano in Fiammetta una serie di commosse orazioni a tutela dei diritti, suoi e delle consorelle, contro il maschio traditore, in un balletto incessante tra la speranza in un ritorno e la cupa delusione di un abbandono definitivo.
Ma rivolgiamoci pure al Decamerone, giornata quarta, dedicata proprio agli amori che vanno a finire male, tra cui quello della Ghismonda, figlia di un principe titolato, Tancredi. La giovane ha la cattiva idea di innamorarsi di un giovane paggio, un legame sconveniente, agli effetti sociali, il che induce il padre a sopprimere addirittura l’indegno pretendente. Quando Ghismonda lo sa, pronuncia un’orazione sublime, che si solleva al livello della tragedia e potrebbe essere declamata sulle scene. O meglio, è l’avvocato Boccaccio a metterle in bocca una delle più belle e commoventi orazioni di tutti i tempi. Questo in deroga, evidentemente, ai canoni di una piatta verosimiglianza psichica, in primo luogo per la ragione a lui ben nota che le donne in quegli anni non erano capaci di tanta eloquenza, e poi per l’altra ragione ancor più cogente che chi è in uno stato di profonda emozione non riesce quasi a parlare. Invece la Ghismoda professa una delle più belle dichiarazioni a favore dell’uguaglianza dei diritti, non conta nulla la nobiltà di sangue, a confronto con quella dell’animo. Male ha fatto il padre-padrone a sopprimerle la generosa figura dell’amante, non pretenda che la figlia accetti quell’ignobile verdetto, essa intanto sente di continuare un dialogo spirituale con l’ombra dell’adorato, e non vuole tardare a raggiungerlo buttandosi dalla finestra e dandosi la morte.
La causa del femminismo è così superbamente tutelata, con anticipo di secoli rispetto allo stato attuale delle cose, in cui le distanze tra i sessi non sono ancora del tutto superate. Non guasterebbe un Boccaccio che si ripresentasse in panni attuali a riprendere la sua perorazione così straordinariamente anticipata e preveggente.
Nel settecentesimo anniversario della nascita, gli studiosi scoprono disegni, annotazioni e curiosità sull’autore toscano
Quei segugi a caccia dei segreti di Boccaccio
di Francesco Erbani (la Repubblica, 08.04.2013)
Una leggenda vuole che Giovanni Boccaccio fosse un ladro. Una leggenda condita da un’immagine: lo scrittore che fugge trafelato lungo le scale dell’abbazia di Montecassino nascondendo sotto l’ampia veste uno, forse due o addirittura tre codici sottratti a quella biblioteca. Non aveva altro scopo, l’autore del Decameron, che quello di attingere alle storie e alla lingua del mondo classico - Cicerone, Vitruvio, Tacito... - ma un ladro è un ladro. Fu Giuseppe Billanovich, fra i grandi filologi del Novecento, ad accertare che solo di leggenda si trattava e che nessun indizio deponeva a carico di un Boccaccio predatore di manoscritti.
Eppure quella di Boccaccio e dei manoscritti da lui posseduti e da lui stesso copiati e sistemati nella sua biblioteca, del Boccaccio che si faceva editore di testi latini e volgari e che tanta cura dedicava alla forma del libro è una delle storie più attraenti fra quelle che lo scrittore del Decameron abbia depositato negli annali della letteratura italiana.
Una delle storie che si sta arricchendo di sorprendenti scoperte, realizzate tutte da giovani ricercatori, una specie di pattuglia di segugi che rende lustro alle celebrazioni del settecentesimo anniversario della nascita dello scrittore che occuperanno tutto il 2013 (Boccaccio, secondo diverse fonti, nacque a Certaldo fra il giugno e il luglio del 1313).
La più recente di queste scoperte è dei mesi scorsi. Laura Pani, paleografa dell’università di Udine, ha trovato alla British Library di Londra un manoscritto contenente l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, un’opera risalente alla fine dell’VIII secolo.
Laura Pani è una studiosa di Paolo Diacono, del quale rincorre i manoscritti nelle biblioteche di tutta Europa. Ma quel testo londinese ha qualcosa di speciale. È un volumetto di pochi fogli, 32, e di piccole dimensioni, 21 centimetri per 13. Sotto gli occhi di molti studiosi per secoli, ampiamente studiato, ha però tenuto nascosto il suo più profondo pregio. È di mano di Boccaccio, pezzo mancante di un più corposo manoscritto, in gran parte sempre autografo di Boccaccio, conservato alla Biblioteca Riccardiana di Firenze. Laura Pani se n’è accorta perché il testo londinese comincia dove finisce quello fiorentino e perché la grafia è senza dubbio quella dello scrittore di Certaldo. Ora si procederà a un restauro virtuale (la parte londinese non tornerà a Firenze).
Ma almeno uno dei misteri della biblioteca di Boccaccio è stato chiarito. Sono emersi anche rilievi filologici. Racconta Laura Pani: «Nel copiare La storia dei longobardi Boccaccio non segue fedelmente il testo, alcuni capitoli li omette, altri li sintetizza, alcuni passaggi, invece, li amplifica». Perché? «Non è ancora chiaro. Però a margine della descrizione di un’epidemia di peste del VI secolo annota che un simile flagello si abbatté a Firenze nel 1348. Ed è noto che la peste raccontata nel Decameron trae ispirazione anche da Paolo Diacono».
Altra scena. Altro paese. Toledo, Spagna. Luglio 2012. Due paleografi italiani, Sandro Bertelli e Marco Cursi (il primo insegna a Ferrara, il secondo a Roma) compulsano un altro manoscritto redatto da Boccaccio. Già conosciuto dagli studiosi. Il volume contiene diverse opere e anche la Commedia di Dante. Nell’ultimo foglio, bianco, si leggono appena due parole: “poeta” e “sov”. Sembra una prova di penna. Più sotto, però, si scorge una linea sottile che traccia un singolare percorso.
I paleografi hanno con sé una lampada Wood, un attrezzo che emette raggi ultravioletti in grado di rendere visibili i pigmenti di un inchiostro svanito. Roba da detective. Con cautela piazzano la lampada al di là del foglio ed ecco comparire una testa di profilo, sormontata da una corona d’alloro. La luce blu completa anche la scritta: «Homero poeta sovrano»: una specie di didascalia, in realtà una citazione dal canto IV dell’Inferno.
Boccaccio prosatore, Boccaccio umanista, Boccaccio copista ed editore: ora anche Boccaccio disegnatore? «Che Boccaccio disegnasse non è una novità, se n’è occupato il filologo Maurizio Fiorilla, che ha dimostrato come fosse di Boccaccio persino un disegno di Valchiusa in Provenza su un codice di Petrarca», dice Cursi. «A volte, a margine dei suoi manoscritti traccia una manina con l’indice puntato che gli serve per evidenziare un passaggio. O delle testine che raffigurano personaggi del Decameron... Mai però era stato rinvenuto un disegno così grande, che riempie quasi una pagina». La testa di Omero è ritornata nel buio da dove veniva. Senza lampada di Wood non è visibile.
Ma qualche tempo prima un altro ricercatore, Marco Petoletti, docente alla Cattolica di Milano, aveva rintracciato una testa molto simile a quella di Omero, più piccola di quella toledana. Anche la scoperta di Petoletti merita di essere segnalata: in un fondo della Biblioteca Ambrosiana di Milano ha rinvenuto un codice contenente gli Epigrammi e altre opere di Marziale tutto di mano di Boccaccio. Evento eccezionale in sé. Ma reso ancor più sorprendente dalle annotazioni a margine. Boccaccio disegna teste (un Seneca, ad esempio), ed esprime consenso e dissenso nei confronti del poeta latino considerato un campione di versificazione popolare, non solo, ma anche di facezie e di scurrilità. Accanto alla descrizione dello scaltro Filomuso, Boccaccio scrive: “Frate Cipolla”, richiamando l’astuto e truffaldino fratacchione protagonista di una celebre novella del Decameron.
Ma quando Marziale enuncia il proprio realistico canone poetico - «Hominem pagina nostra sapit», la nostra pagina ha il sapore dell’uomo - lui sbotta senza remore: «Verum sapit hominem, dum cunnum lingere, futuire et cacare et alia scribit», chiudendo con un’invettiva: «Maledicatur poeta talis». E non bastandogli la maledizione e la censura delle parole che indicano l’organo femminile, l’atto sessuale e quello del defecare, aggiunge anche il disegno di una mano protesa in un gestaccio.
Maddalena Signorini è un’altra delle paleografe che si dedicano a ricomporre la biblioteca di Boccaccio. Come Cursi, è allieva di Armando Petrucci, maestro di tantissimi studiosi e fra i primi a segnalare quanto Boccaccio mettesse cura all’elemento materiale del libro, che deve aderire al contenuto. Lo scrittore si fa forte di competenze sia grafiche (il tipo di scrittura: dalla mercatesca usata dai mercanti fino alla ricca gotica) sia di confezionatore di libri (da quello di piccole dimensioni a quello da banco) o di vero editore, che si impegna a compilare antologie dantesco-petrarchesche da far circolare con la stessa dignità dei classici latini.
Signorini cerca di capire quanto grande fosse la biblioteca dello scrittore. Al momento identifica con sicurezza 31 manoscritti appartenuti a Boccaccio, un patrimonio di grande rilievo, ma inferiore rispetto alla consistenza che si può supporre (Petrarca ne possedeva 65).
Lo scrittore di Certaldo, calcola Signorini, ha copiato di sua mano almeno 18 di quei 31 manoscritti, un po’ perché ci teneva alla cura del testo, un po’ perché non aveva gli stessi mezzi di Petrarca, che invece poteva permettersi un proprio copista per confezionare il suo Canzoniere (Boccaccio invece trascrisse tutto il Decameron nel codice Hamilton, custodito a Berlino e a lui attribuito con certezza nel 1962 da Vittore Branca). Dove possono essere gli altri libri appartenuti a Boccaccio? Perché, si domanda Signorini, mancano del tutto opere religiose?
Quando morì, nel 1375, lo scrittore lasciò la sua biblioteca all’amico frate Martino da Signa affinché la devolvesse al convento agostiniano di Santo Spirito a Firenze. Molti libri andarono in diverse collocazioni, altri negli anni si dispersero e finirono un po’ ovunque, come dimostrano i ritrovamenti di Toledo e di Londra.
Altro dato certo: si sa che Boccaccio possedeva libri di autori molto diversi fra loro, meno selezionati di quelli che custodiva Petrarca. Tanti quesiti, altrettante ipotesi, molti filoni di ricerca. I risultati raggiunti negli ultimi anni confortano. Ma i paleografi non sono studiosi facili agli entusiasmi o alle illusioni. La caccia continua.
Dante Alighieri, Inferno (Canto XIX, vv.103-117)
Di voi pastor s’accorse il Vangelista,
quando colei che siede sopra l’acque
puttaneggiar coi regi a lui fu vista;
quella che con le sette teste nacque,
e da le diece corna ebbe argomento, fin che virtute al suo marito piacque.
Fatto v’avete dio d’oro e d’argento;
e che altro è da voi a l’idolatre,
se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,
non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!».
IL PUTTANESIMO UNIVERSALE:
LA CHIESA E L’ITALIA AL BIVIO: VICO E LA STORIA DEI LEMURI (LEMURUM FABULA), OGGI. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova"
Potrai facilmente, o Leggitore, intendere la bellezza di questa divina Dipintura dall’orrore, che certamente dee farti la bruttezza di quest’altra, ch’ora ti dò a vedere tutta contraria.
MESSAGGIO DELL’EVANGELO ("DEUS CHARITAS EST": 1 Gv. 4.8), MESSAGGIO DEL POSSESSORE DELL’"ANELLO DEL PESCATORE" ("DEUS CARITAS EST": BENEDETTO XVI, 2006), E TEOLOGIA POLITICA DELL’"UOMO SUPREMO" ("DOMINUS IESUS", 2000):
Certaldo festeggia i 700 anni di Boccaccio con la lettura del Decameron *
Certaldo si prepara a festeggiare i 700 anni della nascita di Giovanni Boccaccio. In occasione dell’importante compleanno dello scrittore trecentesco del ’’Decameron’’, la sua città natale mette in campo in anteprima l’appuntamento "Si racconta le novelle del Boccaccio", a cura di Associazione Polis e L’Oranona Teatro.
Il programma A partire dall’ 11 gennaio, per tutto il 2013, una volta al mese, andrà in scena "10 di 100 - Il Decameron in 10 novelle": ogni secondo venerdì del mese (tranne luglio e agosto), verrà presentata la lettura integrale con musica dal vivo di una novella per ognuna delle 10 giornate del ’’Decameron’’, una sorta de "il meglio di" dell’opera massima di Giovanni Boccaccio. Primo appuntamento venerdì alle 21.30, in Casa Boccaccio, con la prima novella della prima giornata, la celebre beffa di Ser Cepparello, uomo di malaffare che, sul letto di morte, con una falsa confessione inganna un santo frate per cui, pur essendo stato un pessimo uomo in vita, da morto viene reputato santo e chiamato san Ciappelletto.
Corriere della Sera, 31.12.2012
Scoperto un autografo di Boccaccio
Il manoscritto Harley 5383, conservato alla British Library di Londra e contenente una quasi completa copia del XIV secolo dell’«Historia Langobardorum» di Paolo Diacono, è stato vergato dalla mano di Giovanni Boccaccio (1313-1375).
La scoperta, pubblicata sul periodico online «Scrineum-Rivista», è opera di Laura Pani, docente di paleografia del Dipartimento di studi umanistici dell’Università di Udine. (n.c.)
Petrarca, «avaro» fra i Tre Grandi
Critico di Dante e sprezzante verso la lingua di Boccaccio
di Cesare Segre (Corriere della Sera, 11.12.2012)
I nostri tre massimi scrittori del Trecento, e massimi in assoluto, furono presto indicati, araldicamente, come «le Tre Corone». Primo fu Dante (1265-1321); seguirono Petrarca (1304-1374) e Boccaccio (1313-1375). I due ultimi, che non poterono conoscere il primo, si frequentarono e furono amici. Ma Dante, pur ormai nel mondo dei più, riuscì ad accendere tra loro un certo, persistente, dissenso. Ammiratore e imitatore di Dante, Boccaccio si era consacrato generosamente alla conoscenza della sua opera, scrivendo un Trattatello in laude di Dante e delle Esposizioni sopra la Comedia, organizzando le prime «lecturae Dantis», trascrivendo materialmente suoi codici, salvando dalla dispersione scritti, come lettere ed egloghe, e memorie.
Tutto al contrario, Petrarca cita pochissime volte, quasi con avarizia, il nome di Dante. Agli amici, come Boccaccio e Francesco Nelli, che sollecitano da lui un giudizio, risponde sempre con reticenze e ambiguità, anche se non riesce a nascondere una certa considerazione. Soprattutto, trasforma il giudizio in una constatazione, ovvia, che lui e Dante appartengono a una diversa fase culturale. Mai si lascia sfuggire una lode esplicita. La critica più chiara è il rimprovero a Dante di avere scritto la Commedia in volgare, e perciò di essere rimasto al di sotto delle sue possibilità. La situazione cambia se si esamina l’influsso esercitato da Dante sulle opere di Petrarca. Che, se le reminiscenze di Dante sono consistenti nel Canzoniere, diventano decisive nei Trionfi, sino a riecheggiare alcune scene della Commedia. Accusato di invidiare Dante, Petrarca si difese energicamente. Ma forse, per comprendere meglio il suo atteggiamento, giova partire da altre considerazioni.
Petrarca tradusse in latino l’ultima novella del Decameron, quella di Griselda. Un grande onore, che moltiplicò il successo internazionale delle cento novelle. Ma con che spirito la tradusse? La lettera con cui Petrarca spiegava a Boccaccio l’inconsueta iniziativa dice che una copia del Decameron era giunta quasi per caso nelle sue mani, e che lui «le ha dato un’occhiata» (traduzioni di L.C. Rossi), non avendo tempo per «un’attenta lettura». L’opera, dice Petrarca, probabilmente con una smorfia, è scritta in volgare (come la Commedia), dunque è «destinata al volgo e in prosa». «Inconsistente l’argomento», insiste, e purtroppo ci sono anche «eccessi di licenziosità». E così via. Più una stroncatura che una lode, a parte il giudizio sulla novella di Griselda: il racconto, dice, lo ha «avvinto al punto da volerla memorizzare», e commosse sino alle lacrime un suo amico autorevole. Insomma, la novella che ha tradotto è molto superiore alle altre; e questo vale anche per lo stile elevato, il tono eroico. E dato che Petrarca, traducendo, accentua altezza di stile e tono eroico, nasce e si fa strada il sospetto che abbia voluto insegnare a Boccaccio come avrebbe dovuto scrivere anche lui (a partire dalla scelta linguistica: ovviamente il latino).
Come per Dante, anche nel giudizio sul Decameron si fa sentire la diversità di gusto: Petrarca preferisce un pubblico, e uno stile, più aristocratico, detesta l’uso della prosa e l’attenzione a racconti popolareschi, fantasie senza rapporti con la realtà. Petrarca aveva in mente gli storici e i moralisti latini, che erano i suoi veri modelli. Ma le sue critiche non potevano essere espresse con toni meno sprezzanti, trattandosi, con Boccaccio, di un amico? La fierezza di appartenere alla nuova civiltà umanistica e di partecipare alla riscoperta del pensiero classico non poteva essere sfumata dall’affetto?
Un libriccino di Francisco Rico, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Padova-Roma, Antenore, pagine 160, 12, ci porta nel pieno della leggenda sull’amicizia Petrarca-Boccaccio. Rico, grande ispanista e studioso del Don Chisciotte, è anche uno dei più brillanti specialisti di Petrarca. Comincia demolendo alcuni particolari della leggenda dovuti a errori d’interpretazione: l’ospitalità offerta a Firenze (1350) da Boccaccio a Petrarca è una metafora erroneamente intesa alla lettera dagli interpreti; un’epistola di Petrarca, che dimostrerebbe l’antichità dell’affetto verso Boccaccio, sarebbe stata retrodatata ad hoc dall’autore. Petrarca, dice Rico, «vedeva Boccaccio a volte come un servitore e a volte come un fratello. Un fratello minore e meno dotato, che s’istruisce e incoraggia ma il cui talento non si apprezza». Un tipo di rapporto evidente nei prestiti e negli scambi di manoscritti, per i quali Boccaccio è estremamente liberale, e Petrarca avarissimo. Il risultato è che spesso Boccaccio ignora opere di Petrarca, e quest’ultimo trascura quelle del collega. Il lavoro di Rico è ancora in corso, ma certo questo cambio di prospettiva riserva altre sorprese.
Da brani di lettere riportati da Rico appare che la devozione di Boccaccio è indefettibile; sappiamo che Petrarca gli appariva talora negli incubi, terrorizzandolo. Eppure, al bisogno, Boccaccio seppe anche criticare prese di posizione politiche del maestro, come quando Petrarca accettò l’ospitalità di Giovanni Visconti, a Milano, nel 1353. L’espansionismo lombardo metteva in pericolo la situazione dei fiorentini, smentiva le idee espresse precedentemente da Francesco, faceva sospettare vantaggi economici consistenti. Sotto il velo di un racconto bucolico, Boccaccio si esprime con severa schiettezza. Generoso, Boccaccio, ma non succube. La lettera è ora ripubblicata da Ugo Dotti, Lettere a Petrarca (Torino, Aragno, pp. 237-51).
Ma alla fine, come sono andate le cose nella nostra prospettiva di posteri? Boccaccio ha puntato giustamente sulla Commedia, che continuiamo a considerare un capolavoro senza rivali. E ha lanciato strofe e generi letterari (il poema in ottave). Ha dunque influenzato profondamente da un lato la novellistica, che, iniziata con lui, è tuttora vivissima, dall’altro l’epica cavalleresca, sino ad Ariosto e Tasso. Gli spagnoli in particolare hanno amato e imitato il suo romanzo d’amore in prosa, la Fiammetta. Per contro, le scelte del Petrarca (prescindendo naturalmente dall’azione complessiva dell’Umanesimo e della nuova filologia sul piano mondiale) sono state in gran parte travolte dal tempo: le sue opere latine sono lette solo dai pochissimi specialisti, l’Africa è quasi dimenticata. Certo, c’è il sublime Canzoniere. Ma è proprio scritto in volgare... Quanto, poi, al giudizio sui comportamenti (che naturalmente non tocca la valutazione artistica), non possiamo fare a meno di contrapporre, secondo quanto suggerisce Rico, la generosità calda e fattiva di Boccaccio alla chiusura superciliosa di Petrarca.
Quando Buddha era un santo cristiano
La storia bizantina di Ioasaf, bestseller del Medioevo che anticipa il Siddharta di Hesse e avvia la lunga marcia dell’Illuminato in Occidente
di Silvia Ronchey (La Stampa, 13.11.2012)
«Perché non possiamo non dirci cristiani», scriveva il laico Croce, riflettendo sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta obiettività dovremmo oggi seriamente riflettere sul «perché non possiamo non dirci buddisti». Più di una filosofia e meno di una religione, il buddismo è forse la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più che dal cristianesimo, la filosofia moderna, esistenzialista e non.
Un silenzioso bestseller, il Siddharta di Hesse, ha orientato spontaneamente la formazione delle due ultime generazioni. Ratificata dalla New Age, ma già anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas Merton, l’accoglienza culturale e cultuale del buddismo ha prodotto un’ibridazione confessionale, in cui lo yoga cristiano e le forme di meditazione miste sono ormai consuetudine pacifica.
In genere si fa risalire l’influsso del buddismo nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire dell’Occidente allo slancio degli studi di orientalistica, da cui si dice fosse influenzato fin da ragazzo Schopenhauer. Ma in realtà il buddismo era già penetrato da secoli in Occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva e si era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il terreno alla definitiva svolta ottocentesca.
Fin dall’XI secolo il Buddha era diventato un santo della Chiesa cristiana. Il suo nome era stato solo lievemente mascherato:Ioas af, da bodhisattva - budasaf - iudasaf, attraverso le varie versioni che avevano portato la sequenza di fatti, circostanze, archetipi e simboli, per così dire la stringa originaria della vita del Buddha, fino a Bisanzio.
Mai prima coagulata in un testo sacro, lì si era fatta libro. Il buddismo non aveva mai avuto una Scrittura, non essendo un’ortodossia ma un’ortoprassi dove ciò che importa è l’armonia del comportamento e non quella delle dottrine: fatto per adattarsi alle diverse culture, si rispecchiava diversamente nelle loro scritture. Ma la forza plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro per eccellenza, generò un nuovo testo originale: la Storia di Barlaam e Ioasaf, composta tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo da Eutimio di Iviron, un aristocratico ostaggio circasso educato all’alta cultura dei palazzi di Costantinopoli e diventato poi monaco sul Monte Athos.
È a partire da questo primo decalcarsi dell’impronta buddista nello stampo bizantino che la sequenza narrativa della vita del Buddha si moltiplicherà in progressione geometrica nella letteratura occidentale e Buddha estenderà la sua predicazione in Occidente en travesti, sotto forma di santo cristiano.
La storia del bodhisattva Ioasaf sarà uno dei libri più diffusi del Medioevo globale, un Siddharta ante litteram elevato a potenza. Dal testo greco passerà allo slavo ecclesiastico, di qui al russo e al serbo. Nell’Est del mondo la versione di Eutimio sarà tradotta, oltre che in arabo, in etiopico, armeno, ebraico, siriaco. Detti e fatti dell’alias cristiano di Siddharta risuoneranno in ogni lingua occidentale con una diffusione mai raggiunta da nessun’altra leggenda.
Attraverso il latino, ma con l’influenza del manicheismo, la sua storia raggiungerà la Provenza dei catari e degli albigesi. Si trasmetterà alle prime chanson de geste, ai poemi epici medievali in langue d’oïl, a quelli medio-alto-tedeschi, fino al Barlaam und Josaphat di Rudolf von Ems. Sedurrà l’Italia più mistica, il Trecento senese di Caterina, e attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio. Si affrancherà dal latino nei fabliaux, nei sunti dei Leggendari, nei misteri popolari, nelle ballate e nei ludi medievali del Maggio. Stupirà il pubblico nelle piazze e nelle sacre rappresentazioni. Attraverserà i confini settentrionali dell’Europa e arriverà fino al teatro di Shakespeare.
Nel Seicento vedrà la sua massima fortuna, da Port-Royal alla Spagna, dove Lope de Vega ne trarrà il suo Barlán y Josafá, per il cui tramite il giovane principe isolato dal mondo e assorbito nel sogno troverà il più completo ritratto occidentale in La vida es sueño di Calderón de la Barca. Sarà attraverso Calderón che la trama della vita del Buddha - questa leggenda dalle mille facce, questo punto dello spazio letterario che contiene tutti gli altri punti, proprio come l’Aleph di Borges - si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca e troverà ancora interpreti in Hugo von Hofmannsthal e in Marcel Schwob.
Intanto repertori come lo Speculum di Vincenzo di Beauvais e la Legenda aurea di Jacopo da Varazze avevano riflesso e nebulizzato nel loro perdurante raggio di influenza non solo la storia del Gautama Sâkyamuni, ma anche il lucente pulviscolo leggendario e sapienziale delle dieci fiabe o parabole che la scandiscono, la più famosa delle quali, l’apologo del Viandante e dell’Unicorno, oggi nota soprattutto nella sua versione zen, proprio attraverso il Barlaam e Ioasaf è dilagata in tutte le letterature del mondo. Un uomo è inseguito da un unicorno imbizzarrito. Nella fuga inciampa e cade in un burrone. Mentre precipita riesce ad aggrapparsi a un arbusto. Guardando in giù però si accorge che due topi, uno bianco e uno nero, ne stanno rosicchiando le radici. In fondo al burrone vede un drago che lo aspetta a fauci spalancate. Esaminando il punto in cui appoggia i piedi vede quattro teste di serpenti che spuntano dalla parete di roccia. Alza gli occhi al cielo e vede che dai rami dell’arbusto sta colando del miele. Smette di pensare a tutto il resto e si concentra sulla dolcezza di quella piccola goccia di miele.
Avere portato in Occidente questa parabola, di origine forse giainista, è uno dei più squisiti meriti di Bisanzio. Quell’eco mistica arrivò a Baudelaire, per insinuarsi in Mon coeur mis à nu, e a Tolstoj, la cui Confessione è forse la più chiara enunciazione del buddismo cristiano: conosciuto mediante la tradizione ortodossa dei Menei, il Buddha bizantino, scrive, «gli rivelò il senso della vita».
Nella favola dei tre anelli tutti figli dello stesso dio
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 30.09.2012)
Ci indigniamo per il film blasfemo sul Profeta, ma è dalla notte dei tempi che circolano testi e libelli che vedono da angolazioni non sempre lusinghiere i fondatori delle religioni rivelate: basti pensare al medievale Trattato dei tre impostori: Mosé, Gesù e Maometto, attribuito a Federico II, ma anche al musulmano Averroè Rappresentazioni irriverenti e libertine ce ne sono sempre state, solo che oggi non rimangono relegate a ristretti cenacoli. Filippo Testa
Caro Testa,
La lista dei possibili antichi autori dei libello citato nella sua lettera è molto più lunga, ma la sua notorietà risale soprattutto al Settecento quando divenne un classico dello scetticismo e per molti, addirittura, una piccola bibbia dell’ateismo. Lo scopo del libro è evidente in questa affermazione del suo misterioso autore sul ruolo dei grandi profeti nella storia delle religioni: «Tra i tanti l’Asia ne ha visti nascere tre, che si sono distinti sia per le leggi e i culti che hanno istituito, che per la nozione che essi hanno dato della divinità e del modo in cui essi se ne sono serviti per far recepire la loro idea e rendere sacre le loro leggi. Mosè fu il più antico. Gesù Cristo, venuto dopo, lavorò in accordo con il piano di Mosè conservando la base delle sue leggi ed abolendo tutto il resto. Maometto, che è apparso per ultimo sulla scena, ha preso dall’una e dall’altra religione quanto serviva per comporre la sua e, in seguito, si è dichiarato il nemico di tutte e due. Vediamo le caratteristiche di questi tre legislatori, esaminiamo la loro condotta, al fine di poter decidere quali hanno i migliori fondamenti, oppure ciò che li rivela come uomini divini o quello che li riduce a furbi e impostori».
A me sembra tuttavia, caro Testa, che la storia più adatta alle vicende di queste ultime settimane sia la favola che il saggio Nathan, facoltoso mercante ebreo nella Gerusalemme delle Crociate, raccontò al Saladino quando questi, un giorno, gli chiese: «Quale è la religione, quale la legge che ti ha maggiormente persuaso?». Nathan parlò di uno splendido anello fatto con un «opale iridescente di cento colori» che aveva la segreta virtù di rendere amabile di fronte a Dio il suo proprietario. Questi lo lasciò in eredità al figlio prediletto e così fecero, di figlio in figlio, i suoi successori sino a quando l’anello toccò a un uomo che aveva tre figli e li amava dello stesso amore.
Per evitare una scelta dolorosa e ingiusta, l’uomo, quando fu vicino alla morte, fece segretamente fabbricare da un orafo altri due anelli identici al primo. Lo scandalo scoppiò quando ciascuno dei tre figli, alla morte del padre, sostenne di essere l’erede preferito. Vi fu un processo, ma il giudice avanzò l’ipotesi che il padre avesse voluto premiare tutti i suoi figli e che a questi spettasse ora il compito di rispettare la volontà paterna e gareggiare fra di loro nel mettere in evidenza le virtù dell’anello. Commosso e sorpreso, il Saladino strinse la mano di Nathan e la tenne a lungo fra le sue.
La favola dei tre anelli era già stata raccontata da Boccaccio nella prima giornata del Decameron. Ma la versione che ho appena riassunto è in Nathan il saggio, un piccolo capolavoro teatrale del romanticismo tedesco. L’autore è un ebreo, Gotthold Ephraim Lessing, e il personaggio storico a cui si ispirò per creare la figura di Nathan è Moses Mendelsohn, filosofo e protagonista dell’Illuminismo tedesco, capostipite di una famiglia che si convertì in buona parte al cristianesimo. La tomba del Saladino è nella grande moschea di Damasco; e ciò che sta accadendo intorno a lui non gli sarebbe piaciuto.
IL PONTEFICE MASSIMO - IL PAPA ATEO: COME E’ STATO ED E’ ANCORA POSSIBILE - OGGI?!
Due note storiche: una di Leonard Boff e una di Luciano Canfora
Ebrei e cristiani, il muro assurdo
di Pietro Citati (Corriere della Sera, 2 agosto 2012)
Marina Caffiero ha pubblicato un libro di grandissimo interesse sui rapporti tra ebrei e cristiani, Chiesa cattolica e rabbini, dal sedicesimo secolo al diciannovesimo secolo (Legami pericolosi. Ebrei e cristiani tra eresia, libri proibiti e stregoneria, Einaudi). Ha lavorato per anni negli archivi: ne ha desunto infiniti particolari, novità, scandali, storie romanzesche, che modificano sensibilmente le nostre idee tradizionali sull’argomento. Credevamo che ebrei e cristiani avessero vissuto per secoli come popoli isolati, religioni contrapposte; e dal libro della Caffiero apprendiamo che sono stati legati da rapporti strettissimi nelle idee e nella vita quotidiana.
Per diciannove e più secoli, gli ebrei sono stati, per la maggioranza dei cristiani, un popolo perverso, perfido, che uccise Gesù sulla croce, e da allora complottò incessantemente contro i cattolici. Il loro crimine consisteva, in primo luogo, nei libri che avevano scritto. Le autorità ecclesiastiche sostenevano che il Talmud nascondeva pratiche magiche e stregonesche: se le prime tre parti erano tollerabili, la quarta conteneva «favole ingiuriose nei confronti di Gesù Cristo, la Vergine, i santi e la fede cristiana».
Si temeva che i cristiani fossero contaminati e contagiati dalla lettura. C’era soltanto un rimedio: requisire i Talmud presenti nelle sinagoghe e nelle case; nel maggio 1753, a Roma, trentotto carri portarono via i testi talmudici e cabbalistici. Alcuni di questi libri erano espurgati da censori, spesso di origine ebraica. La maggior parte venivano mandati al rogo, come raccomandava un decreto del 1553, «de combustione Talmud», promulgato dall’Inquisizione romana. I cristiani, che stampassero o leggessero questi testi, venivano scomunicati.
Se gli ebrei avvelenavano le anime, avvelenavano anche i corpi dei cristiani. La peste del 1348, che causò trenta milioni di morti, veniva attribuita agli ebrei, che avrebbero diffuso la malattia per mezzo di polveri e veleni gettati nelle acque.
Nei secoli successivi, questa accusa non li abbandonò più. Adulteravano e avvelenavano i cibi, per cui venne proibito loro di gestire negozi alimentari; e i loro medici, per i quali si aveva tuttavia una grandissima considerazione, potevano avviare egualmente alla morte. Tutto ciò che era magico e stregonesco discendeva dall’insegnamento ebraico: in parte non senza ragione, perché i testi cabalistici risuonarono di allusioni magiche. Credevano nella trasmigrazione delle anime, nella trasformazione delle anime dei malvagi in demoni: interpretavano i sogni; conoscevano formule misteriose e indecifrabili con le quali addentrarsi nella vita quotidiana; scoprivano i tesori nascosti nella terra. Tutti quelli che erano affascinati dalla magia e dalla stregoneria, si rivolgevano agli ebrei come ai loro maestri naturali. Tra i cristiani erano diffuse le più diverse specie di superstizioni antisemite, che avevano una maggiore eco negli ambienti popolari. Vi era una leggenda antica e famosissima.
Gli ebrei venivano accusati di confezionare il pane azzimo della Pasqua impastando la farina col sangue di bambini cristiani, che venivano uccisi a questo scopo. Un’altra leggenda era meno nota. Quando balie cristiane allattavano i figli degli ebrei, venivano costrette, per alcuni giorni dopo aver ricevuto il sacramento dell’eucarestia, a gettare nelle latrine il latte dei loro seni, così da impedire che i bambini venissero impregnati e contagiati dall’ostia. Un gruppo sociale era ferocemente antisemita: i pescivendoli. Specialmente durante il periodo del Carnevale, inscenavano carri e rappresentazioni teatrali, dette giudiate, che deridevano i riti, le istituzioni, le immagini, le credenze, le preghiere, i personaggi del mondo ebraico.
Specie in alcuni periodi, la Chiesa cattolica coltivò un sogno impossibile: quello di abolire ogni rapporto tra mondo ebraico e mondo cristiano. Una bolla del 1555 proibiva agli ebrei di avere una sia pur minima famigliarità con i cristiani: non dovevano frequentarli, visitarli, parlare con loro, giocare con loro, mangiare con loro, e soprattutto avere rapporti sessuali. Le pene erano severissime: multe pesanti, evirazione. Nel 1606, un teologo famoso, Prospero Farinacci, giunse a sostenere che il rapporto sessuale di un ebreo con una donna cristiana doveva venire punito con la morte.
Il sogno della Chiesa cattolica non si realizzò mai. Gli ebrei, che si pretendeva di chiudere nei ghetti, andavano e venivano attraverso lo Stato Pontificio e l’Italia senza nessuna soggezione e timore, e senza chiedere licenza al vescovo o all’inquisitore, come avrebbero dovuto. Gli ebrei visitavano le monache e monasteri: i cristiani visitavano amici e amiche nei ghetti; e li amavano, sebbene contro la legge. Discorrevano di argomenti religiosi, che li affascinavano profondamente: ora erano d’accordo su alcuni punti essenziali, specie di natura morale; ora litigavano con violenza, soprattutto a proposito della morte di Gesù o della venuta del Messia.
Alcuni ebrei si fingevano cattolici, e si confessavano e si comunicavano: oppure si spacciavano per sacerdoti, e giungevano a confessare e assolvere i cristiani. Molto spesso cambiavano nome. Secondo la legge, avrebbero dovuto esercitare le loro attività commerciali solo all’interno dei ghetti: invece affittavano case e magazzini fuori dai ghetti, avevano servitori cristiani, acquistavano proprietà immobiliari, non portavano il segno giallo che doveva distinguerli. Tutto era mobile, mescolato, confuso, illegale, come se ebrei e cristiani volessero deridere le leggi antisemite che cercavano di separarli.
Le leggi di Solone nell’Atene degli schiavi
di Eva Cantarella (Corriere della Sera, 14.07.2012)
Nato ad Atene attorno al 640 a.C., nel 594 Solone venne eletto arconte e incaricato di dare un corpus di leggi alla città, con il titolo, oltre che di nomothetes (legislatore, appunto) anche di diallaktes (arbitro, riconciliatore). Il momento era molto difficile, le tensioni sociali altissime. Da una parte stavano le famiglie nobili, che detenevano la quasi totalità della terra (ovviamente, la ricchezza dell’epoca); dall’altro una massa di persone che viveva, o meglio sopravviveva in condizioni assolutamente drammatiche.
Secondo alcuni, questa massa era composta da schiavi che coltivavano la terra dei padroni, versando a questi cinque parti del prodotto, e tenendone per sé solo un sesto (donde il nome di ektemori, con cui venivano designati). Secondo altri, invece, erano contadini liberi che, alle condizioni di cui sopra, coltivavano la terra pubblica usurpata dai nobili. E poiché queste condizioni non consentivano loro di sopravvivere si indebitavano con questi, dando in pegno se stessi. Con la conseguenza che, se non pagavano, diventavano schiavi del loro creditore.
Uomo di grande cultura e di larghe vedute, probabilmente nato da famiglia aristocratica, Solone (foto) eseguì il compito che gli era stato affidato, per poi allontanarsi dalla città. E un giorno, interrogato da un amico che gli chiese se riteneva di aver dato agli ateniesi le leggi migliori, rispose «le migliori che essi potessero accettare» (la storia in Plutarco).
Olimpiadi Londra 2012
La storia come un macigno
Show? No, esame di coscienza
Humour, classe e cultura:
è stato un trionfo per lo spirito britannico.
È forte la speranza per il futuro, persino Elisabetta
si prende in giro
di GIANNI RIOTTA (La Stampa, 28/07/2012 )
Londra «And was Jerusalem builded here among these dark Satanic mills...?» si chiede il poeta William Blake nell’inno Jerusalem, scritto nel 1808 e musicato da Sir Parry nel 1916: davvero è possibile costruire la Santa Città di Gerusalemme tra gli oscuri, diabolici mulini della rivoluzione industriale? È la domanda che il regista della cerimonia di apertura delle Olimpiadi a Londra, Danny Boyle, ha posto agli 80.000 spettatori dello Stadio Olimpico e ai milioni intorno al mondo con i versi di Blake e le note di Parry. Il nostro tempo, orfano dell’agricoltura, che ha aperto le scene con le rurali immagini di una fattoria dell’Inghilterra prima che ferrovia, vapore e industria tessile portassero all’industria, sopravviverà alla crisi?
Boyle, autore dei film Transpotting e Millionaire, aveva una sfida non facile, tutte le cerimonie dei Giochi sono noiose e banali come una festa del sabato al Villaggio Vacanze in Mondovisione, balletti mediocri per masse assonnate. Allora Boyle ha usato per la prima volta il pubblico non come comparsa scema cui fare alzare ogni tanto una bandierina colorata o chiedere una ola da Serie B, e neppure, come pure è stato ieri notte allo Stadio Olimpico, palette multicolori con luci elettriche. No, Boyle ha usato il pulpito che i Giochi gli hanno offerto per un dibattito politico in diretta globale. Abbiamo perduto le oche e i mulini che ha portato allo stadio, con pazienti cavalli e pecore così buone da sembrare sedate (gli animalisti han protestato, gli organizzatori negano maltrattamenti), stiamo perdendo quei mulini industriali che Blake trovava satanici ma che hanno dato da mangiare a generazioni, dopo secoli di fame agricola che i poeti cantavano invece come armoniosa. Che ci resta?
«Io non credo in Dio, ma credo nella gente che crede in Dio» dice Boyle. E agli spalti, ogni tanto spazzati da vera pioggia che ha irriso le false nuvole dello spettacolo e i palloni rilasciati fino alla stratosfera, non ha dato uno show, ma un esame di coscienza. Non freddo come il segretario Onu Ban-Ki Moon che mentre la guerra infuria in Siria chiede piatto «pace dai Giochi», ma ricordando come è finito il sogno agricolo, come sta finendo il sogno industriale. Chi è arrivato a Stratford, ultimo quartiere di Londra che portava ancora i segni del Blitz di Hitler e dei razzi V1 e V2, ha visto sotto gli occhi i militari, le crocerossine, gli scioperi, gli operai, le femministe del secolo che lo storico inglese Hobsbawm ha venduto a tutti in un suo libro come «secolo breve», il Novecento, ma che invece è stato lunghissimo, infinito, come mai nessuno prima cambiando la vita degli esseri umani. Perfino il Servizio sanitario inglese ha avuto un balletto, e magari il candidato repubblicano Romney che si oppone alla riforma sanitaria di Obama ha storto il naso.
C’erano allo stadio gli ultimi reduci dei Giochi del 1948, ricordavano una città che aveva perduto l’Impero e vinto la guerra, ma che doveva ritrovare, in pace e austerità una nuova anima. E mentre a Hyde Park, parco della democrazia, 60.000 persone seguivano i Duran Duran e al ponte di Waterloo la polizia arrestava i ciclisti di Critical Mass per invasione di corsia preferenziale olimpica, il premier David Cameron ha posto agli inglesi la domanda che i Giochi dovranno sciogliere: «Vogliamo essere il paese dei Blur e dei Beefeater?» Inglesi che amano i Guardiani della Torre, Beefeater, con le ancestrali divise rosse e nere, corpo fondato da Enrico VII nel 1485, o inglesi che si riconoscono nella musica rock alternativa dei Blur, il cui cantante Damon Albarn ha per divisa T-shirt nere, nati nel 1988?
Referendum: passato o futuro? E la Regina Elisabetta II, che come nonno Edoardo nel 1908 e papà Giorgio nel 1948 ha aperto i Giochi, ha detto a tutti gli inglesi a Londra e nel mondo: futuro. Accettando di recitare in un piccolo show con Daniel Craig 007, lei che finge di paracadutarsi con un elicottero Agusta da Buckingham Palace in diretta allo stadio. Guardate su Youtube il primo appello televisivo di Elisabetta ancora ragazza, Natale 1957, algida, maestosa. Ora, matriarca, la Regina è la star del videogioco in cui Boyle ha trasformato la cerimonia. Si prende in giro, come l’attore Atkinson, Mr Bean, prende in giro il film Oscar Momenti di Gloria.
E così tutti ci siamo presi in giro nel presepe di Boyle, chiuso a notte dal Beatles Paul McCartney, Hey Jude, don’t carry the world upon your shoulders, the movement you need is on your sholders... non portare il mondo sulle spalle... il movimento di cui hai bisogno è sulle tue spalle...
La storia che Boyle ha sceneggiato ci pesa addosso, ma come i nostri padri e nonni possiamo cambiare noi, se perfino la Regina è cambiata, ride di sé. E se, con il padre di internet, Berners Lee, appare la Rowling, mamma di Harry Potter, e legge Peter Pan, favole con la magia dell’umanità a salvare il mondo.
È stato un trionfo per lo spirito britannico, humour, classe, cultura. Shakespeare e Calibano dalla Tempesta, l’isola delle meraviglie, cantanti e balletti pop. Dateci pure degli anglofili a oltranza, ma davanti a gente con questo stile, perché non alzarsi con i londinesi a cantare God save the Queen, salvi l’ironia, la tradizione, l’innovazione, i Guardiani della Torre e il Rock duro dei Blur, la Regina, l’industria e 007? L’abbiamo fatto e quando, benissimo vestiti da Armani in blu, incasinati, goliardi, felici a scattare foto con l’iPhone son passati gli Azzurri d’Italia davanti al presidente Napolitano abbiamo di nuovo applaudito, come già con tutti gli atleti dello squadrone che si chiama Terra. Forza ragazzi.
C’ERANO UNA VOLTA LE OLIMPIADI *
Nell’antichita’ durante le Olimpiadi si sospendevano le attivita’ belliche.
Le guerre che consistono dell’uccisione di esseri umani.
Le guerre che stanno trascinando la civilta’ umana nell’abisso.
Le guerre nemiche dell’umanita’ intera.
Il primo dovere di ogni persona decente e’ salvare le vite, anziche’ sopprimerle.
Il primo dovere di ogni persona decente e’ opporsi alla guerra, agli eserciti, alle armi.
E’ anche il primo dovere di ogni ordinamento giuridico democratico.
E’ anche il primo dovere dell’umanita’ intera.
*
TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 996 del 28 luglio 2012
Telegrammi della nonviolenza in cammino proposti dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532,
e-mail: nbawac@tin.it
London eye
Una passeggiata in paradiso
di Maurizio Crosetti *
Aveva ragione il vecchio Borges: "Ho sempre pensato che il paradiso sia una specie di biblioteca". Forse era passato almeno una volta alla British Library, dove un’ordinatissima coda di persone in fila per uno attende alle dieci di mattina che si spalanchino le porte del paradiso, appunto.
Se amate i libri dovete venirci apposta, trascurate pure tutto il resto che questa città offre, ed è ovviamente moltissimo, anzi di più. Cominciate da quella che chiamano "la stanza dei tesori": nelle vetrine immerse nella quiete di una penombra che s’interrompe solo sugli oggetti in mostra, con luce bianca, per avvolgere il resto, c’è tutto quanto un bibliofilo possa desiderare.
C’è il diario di Jane Austen bambina con la sua scrittura ordinata, accanto al banchetto da lavoro che le regalò il padre: un piano inclinato, foderato di pelle nera, il calamaio, i cassettini e gli occhiali di Jane, minuscoli. Come se la sua vocazione, i suoi desideri, forse il suo stesso talento spinto da papà, o magari solo rispettosamente incoraggiato, fossero tutti presenti e racchiusi in questo scrigno. Ogni pagina del futuro già scritta, solo da raccogliere su un prato, come un fiore.
Oltre i vetri ci sono cimeli inenarrabili (spartiti di Mozart, una Bibbia di Gutenberg, il Roman de la Rose), ma c’è soprattutto un percorso guidato sui sentieri del genio, e del tremendo lavoro che lo accompagna. Una pagina di "Lord Jim" di Conrad racconta come l’autore si arrovellasse su ogni frase, su ogni parola, e il suo tormento è ben chiaro nelle ripetizioni scoperte e smascherate, nelle cancellature, nei segni tirati sopra qualcosa che non gli piaceva dopo che lo aveva scritto.
L’identica sofferenza erompe dal pentagramma di una sonata per violino vergata da Beethoven: il pennino diventa un coltello, una vanga che si abbatte sulle note e le rovescia, le disintegra per ricostruirle nuove e perfette.
Ogni studente dovrebbe essere accompagnato qui: capirebbe, senza tanti discorsi, cos’è scrivere. Altro che "brutta" e "bella": è come se il bellissimo, il sublime di Conrad e Beethoven non potessero nascere altrimenti che passando nel bruttissimo di chi non è mai contento e soffre per creare e le parole e le note non vanno mai bene. Una lezione grandiosa.
Le vetrine sono tutte incastonate nel velluto viola, come gioielli. Una soltanto è rossa, color fuoco acceso, un rosso incendiario: contiene manoscritti dei Beatles. Perché in questo gli inglesi sono formidabili, mettono Ringo Starr e Shakespeare uno vicino all’altro ed è così che dev’essere. Oltre il cristallo, la prima versione di "Yesterday" scritta da Paul McCartney, il titolo bello grande, in stampatello sottolineato. Invece "Michelle" l’avevano scritta su una busta da lettere.
Ci sono cuffie, e bottoni da schiacciare: puoi scegliere una canzone, una sonata oppure una pagina per farti raccontare l’inizio di una storia, come quando eri piccolo. E come allora vorresti non finire mai. Il paradiso dev’essere così, sarebbe bello se fosse così, ci si potrebbe andare subito senza perdere altro tempo. O magari invece ci siamo già, se stiamo leggendo Lord Jim, o Fenoglio, un altro che non è alla British Library ma che pativa ogni pagina come un supplizio, prima di raggiungere il sublime.
Si passeggia tra i disegni di Leonardo e la Magna Carta, nell’oltremondo che è più mondo di quello vero, dietro le porte, nella remotissima strada. E tutti sono gentili, e parlano sussurrando, come se le pagine potessero stropicciarsi solo con la voce. Aveva ragione Borges, ma anche Tolkien nella frase scritta in grande all’ingresso, proprio sulla porta del paradiso. "Non tutti quelli che vagano sono perduti".
* la Repubblica, 02 agosto 2012
Rousseau trasognato
Tornano «Le passeggiate di un sognatore solitario»
Ristampato in occasione dei 300 anni dalla nascita del filosofo ginevrino
il suo libro più sperimentale con un’innovativa traduzione
di Beppe Sebaste (l’Unità, 19.06.2012)
«LE PASSEGGIATE DEL SOGNATORE SOLITARIO», INIZIATE NELL’AUTUNNO 1776, SUBITO DOPO LA REDAZIONE DEI «DIALOGHI» («DIALOGUES OU ROUSSEAU JUGE DE JEAN.JACQUES») LA SECONDA PASSEGGIATA È REDATTA ALLA FINE DELL’ANNO, DOPO L’INCIDENTE DI MÉNILMONTANT DEL 24 OTTOBRE 1776 RIPRESE NEL 1777 (DALLA TERZA ALLA SETTIMA), E POI NEL 1778 (DALLA FINE DELL’INVERNO AL 2 MAGGIO, «JOUR DE PÂQUES FLEURIES»), È FORSE IL MANIFESTO DI CIÒ CHE VIENE CHIAMATO PRE-ROMANTICISMO.
Che cosa vuol dire? Nel suo senso profondo, come il romanticismo, si tratta della precoce scoperta di una dimensione della sensibilità e dell’intelletto una nuova soggettività inseparabile da una consapevolezza critica delle strutture sociali della nostra civiltà, e del conseguente rimpicciolirsi del concetto di realtà, che in compenso si veste di una solida armatura. In Rousseau la fondazione della soggettività si accompagna, è noto, alla passione della politica e all’invenzione della democrazia, quella «sovranità popolare» spesso abusata e manipolata dai posteri.
DALLA «GINESTRA» A L’«ALBATROS»
In questo senso appartengono al romanticismo gli scritti di Rousseau come quelli di Marx (accomunati da una denuncia, pur se su piani diversi, dell’alienazione), la Ginestra di Leopardi e l’Albatros di Baudelaire, la veggenza di Rimbaud e i mondi possibili di Philip K. Dick (e la sua interrogazione sulla realtà della realtà), il Disagio della civiltà di Freud e Eros e civiltà di Marcuse, Allen Ginsberg, gli hippie e il recente movimento di protesta Occupy WS. La dimensione inaugurata dal romanticismo, a differenza di altri ismi, non ci abbandonerà più. Quello di Rousseau, scaturito nel pieno del secolo dell’Illuminismo, è la scoperta che, una volta lasciata la propria casa, è molto difficile ritornarvi, e l’alternativa è tra la deriva nomade (come la Wanderung dei romantici tedeschi) e la costruzione di una nuova, spesso utopica dimora.
Le Passeggiate è un’opera in cui la natura è onnipresente, ma il cui centro è quello che l’autore chiama «il sentimento dell’esistenza», ciò che lo rende il primo testo consapevolmente ecologico (nel senso anche di un’ecologia della mente) della letteratura moderna in Europa. È l’opera in cui con più fascino si dispiega l’incomparabile musicalità della lingua di Rousseau, e dove per la prima volta si fa uso della parola «romantico» (e a volte dell’adiacente «romanzesco») in riferimento a un paesaggio, o meglio, a un modo di vedere il mondo esterno e dirsi consapevoli di essere nel mondo, e che tutto è connesso con tutto.
È anche un documento straordinario della patologia psichica di un individuo che cerca e trova compensazione e sollievo alla propria sofferenza nell’attività di sognare a occhi aperti, nell’ozio e nella contemplazione (che significa: fare il proprio tempio), nel libero divagare con la mente tutte azioni racchiuse nella parola rêverie, «trasognamento»; che trova compensazione e sollievo nel registrare, in una scrittura altrettanto libera, l’ebbrezza e l’incanto di questo abbandono. È la testimonianza poetico-psichica di un’operazione alchemica riuscita, una trasmutazione della sofferenza in musica attraverso una serie di altre trasformazioni esemplari: della passione in pazienza, del disagio in armonia, della lotta in resa, dell’esilio in estasi, dell’odio in conciliazione, della solitudine in grazia e autosufficienza. E dove immanente e trascendente, vita e sogno, come in ogni vera esperienza estatica (ed estetica) coincidono.
È infine il primo testo non di finzione in cui l’autore, esiliato e auto-esiliatosi dal mondo, ormai fuori dal sistema di circolazione e valorizzazione degli oggetti letterari (dall’establishement, si diceva nel Novecento) e dall’orizzonte di un pubblico, è davvero convinto di rivolgersi solo a se stesso (pur non scrivendo un diario), senz’altri testimoni (tranne Dio e il vago fantasma dei posteri), ciò che accomuna le Rêveries alla forma della preghiera.
Sono questi, detti con un pizzico di enfasi sbrigativa, gli aspetti che mi avevano motivato a rileggere e tradurre questo strano testo. Tradurre è immancabilmente entrare nel ciclo di nascita o rinascita di un testo, in cui la vita nuova, la sua sopravvivenza, non fa che confermarne la mortalità e insieme la sua iridescente seminalità (ancora vita postuma come diceva Walter Benjamin Nachleben e/o Fortleben).
Racconterò più avanti l’esperienza di tradurre negli anni ’90 Le passeggiate del sognatore solitario (uscite nel 1996 in questa collana dei Classici Feltrinelli), alternando momenti di grande piacere ad altri di enorme imbarazzo (le Rêveries non sono il testo propriamente più gratificante per un traduttore). Ma prima di spiegare meglio che cosa sia questo libro, e dare alcune coordinate di lettura, vorrei dichiarare e assumere alcune scelte di traduzione.
UN «ALTRO» TITOLO
La mia responsabilità si segnala già dal titolo, che anagrammando l’ordine di quello originale, Les rêveries du promeneur solitaire, evita di incorrere nella falsa, oltre che fastidiosamente cacofonica, traduzione abituale («Le fantasticherie del passeggiatore solitario»), di fronte alla quale provo da sempre un moto di rigetto. Sono molto contento di non adoperare mai né la parola «fantasticheria» né tantomeno «passeggiatore».
Il titolo adottato rispecchia d’altronde le scansioni del testo in capitoli, che Rousseau chiama «Passeggiate», e come si vedrà tutto nella sua concezione porta a un’identificazione tra il camminare e il sognare (e un certo modo di scrivere) nella comune sintesi di vagare, divagare, vagabondare con la mente e col corpo (coi piedi).
Quanto alla bellissima parola rêverie, sogno prolungato e spesso diurno, essa non designa in nessun caso uno sforzo cosciente, non ha la frivolezza di una «fantasticheria» che presuppone già un giudizio, e un’idea di «realtà» da cui il fantasticare è supposto allontanarsi e precede in ogni caso ogni eventuale codificazione letteraria in generi. Ho adottato la parola italiana trasognamento, che dice e mantiene esattamente l’idea di un sogno prolungato e in stato di veglia.
Come ci ricorda Tommaseo nel suo Dizionario, «trasognare» significa «andar vagando nella mente, come fa colui che sogna» (ed è usato in questo senso ad esempio dal Boccaccio nel Ninfale Fiesolano). Occorre poi ricordare che all’epoca di Rousseau non c’era tanta distinzione tra la meditazione, la contemplazione e il sogno a occhi aperti.
Il racconto di Apuleio sul destino dell’anima
Amore e Psiche: mistero, magia e passione
di Franco Manzoni (Corriere della Sera, 14.06.2012)
U n autore dalla personalità polimorfa, complessa e contraddittoria. Le fonti lo tramandano mago, alchimista, avvocato, scienziato. E ancora filosofo platonico, sacerdote del dio Asclepio e di culti misterici, appassionato di occulto, esoterismo e riti iniziatici come quelli di Eleusi, Mitra, Iside. Nato verso il 125 d.C. a Madauro, nell’odierna Algeria, da famiglia benestante, Apuleio studiò a Cartagine e ad Atene. Si vantava di conoscere a fondo ogni artificio retorico e di padroneggiare con virtuosismo il greco e il latino. Per il resto poche e incerte sono le notizie sulla vita di uno scrittore che fu il personaggio più poliedrico dell’età degli Antonini. Di lui più nulla sappiamo dopo il 170.
Apuleio esercitò un naturale fascino sull’ultimo paganesimo e sulla cultura medievale. La sua opera maggiore, le Metamorfosi, divisa in undici libri, è l’unica testimonianza pervenuta intera di un romanzo antico in lingua latina, la cui diffusione si deve a Boccaccio, che ritrovò il codice e ne fece una trascrizione. Il titolo nei manoscritti è Metamorphoseon libri XI, ma l’opera è conosciuta anche come Asinus aureus, così indicata da sant’Agostino nel De civitate Dei (XVIII 18). La storia delle eccezionali avventure di un uomo trasformatosi in asino non è un’invenzione di Apuleio. La trama deriva da un modello greco di Lucio di Patre, opera che non ci è giunta, ripresa in modo sintetico da Luciano di Samòsata, poligrafo coevo di Apuleio, che scrisse in greco Lucio o l’asino.
L’originalità dell’autore latino consiste nel fatto di essere riuscito a rielaborare materiali preesistenti, assegnando significati mistici, metafisici e simbolici autoctoni, che cambiano radicalmente la struttura e gli intenti della narrazione. Non solo puro intrattenimento. Vi è sottesa una progettualità geniale, che riesce a unificare una folla di racconti popolareschi, passionali, erotici, iniziatici. Sullo sfondo dell’odissea di un uomo-asino, Apuleio crea il libro nel libro, mettendo al centro dell’opera la celebre Favola di Amore e Psiche, una narrazione interna in forma di apologo, che occupa i libri IV, V e VI e rispecchia fedelmente l’andamento del romanzo. È il testo in edicola con il «Corriere» ed è la chiave di lettura che permette di comprendere la trama generale in un gioco di parallelismi a specchio.
Il mito, che unisce l’amore e l’anima, viene ascoltato dall’uomo-asino in una caverna di banditi. Qui è trattenuta una fanciulla di nome Càrite, rapita per ottenere un buon riscatto. Per consolarla, la vecchia che la custodisce narra una storia a lieto fine. Figlia di re, Psiche è così bella da suscitare la reazione di Venere, che chiede al dio Amore di ispirare alla fanciulla una passione per l’uomo più brutto della terra.
Ma Amore s’innamora di Psiche. La trasporta nel suo palazzo, dove ogni notte il dio, invisibile al buio, a lei si unisce. Vedere il viso del misterioso amante, però, romperebbe l’incantesimo. Spinta dalla curiositas, la stessa che nella trama generale delle Metamorfosi «costringe» Lucio a provare l’unguento magico che invece lo trasforma in asino, Psiche decide di conoscere Amore, illuminandolo con una lucerna. Si punge con una saetta presa dalla faretra del dio e, perciò, s’innamora perdutamente. Tuttavia, una stilla d’olio cade sul corpo di Amore, svegliandolo. L’incantesimo è finito, il dio fugge e Psiche, disperata, si mette alla sua ricerca. Seguono peripezie e terribili prove da superare, congeniate dalla gelosissima Venere. Alla fine Amore sposa Psiche, ottenendo per lei da Giove l’immortalità. Dalla loro unione nasce la figlia Voluttà.
La storia dell’interpretazione allegorica è plurisecolare. Il racconto ha un iter travagliato: una sequela di cadute, riscatti, dolori, piaceri spirituali dell’Anima umana. Giace sotto ogni evento il pensiero platonico, nella favola come nell’intero romanzo. La vicenda di Amore e Psiche, così ben colta nel capolavoro scultoreo neoclassico di Canova, è incentrata sul destino dell’Anima, che, per aver commesso il peccato di hybris, vale a dire «tracotanza», tentando di penetrare un mistero che non le era consentito svelare, è costretta a scontare la propria colpa con umiliazioni e affanni di ogni genere, prima di essere degna di ricongiungersi al dio. Lo stile di Apuleio è denso di frequenti neologismi, rarità lessicali, giochi di parole, arcaismi, di toni ironici, patetici, delicati, di estrema tenerezza come nell’episodio della deflorazione di Psiche.
Una curiosità troppo umana
Corriere della sera 14.6.12
Il trentunesimo volume della collana propone in edicola la Favola di Amore e Psiche di Apuleio, con la prefazione inedita di Daniele Piccini. Si tratta di uno dei brani più noti e belli delle Metamorfosi del poeta latino. È la storia di una fanciulla, Psiche, visitata ogni notte da uno sposo di cui non può conoscere il volto, pena l’abbandono. Mossa dalla curiosità e soprattutto istigata dalle sorelle, Psiche viola il patto - più un ordine che un accordo paritario - e riconosce Amore, che subito diserta il talamo.
Tuttavia, attraverso dure prove, l’umana si renderà di nuovo degna del dio. Piccini nota che si tratta di «un racconto che in cifra tratteggia il rapporto dell’anima umana con l’elemento divino»: se gli elementi religiosi e filosofici implicati nella favola sono molteplici, anche dal punto di vista narrativo la vicenda di Amore e Psiche è godibile e avvincente (la curiosità umana di Psiche, la gelosia delle sorelle, il rapporto con le dee cui Psiche chiede aiuto per riconquistare lo sposo). Una delle più affascinanti storie giunte a noi dall’antichità. (i.b.)
Federico La Sala ha scritto:
http://www.ildialogo.org/filosofia/documenti_1339674321.htm
Càrite viene rapita da una cricca di banditi (la Chiesa), ma il mito viene ascoltato dall’uomo-asino (noi) nella caverna dei banditi. C’è un concorso di colpa; se l’uomo-asino avesse la volontà di riconoscere che non è tale, i banditi non potrebbero più rapire Càrite.
Antonio Carli
Amore e Psiche
Il mito più amato dagli artisti
di Lea Mattarella (la Repubblica, 1.12.2012)
Amore e Psiche hanno attraversato tutta la storia dell’arte. Sono molti gli episodi della favola narrata da Apuleio che vengono rappresentati dai pittori e dagli scultori nel corso del tempo.
Nel Rinascimento ai due innamorati che si muovono tra la terra e l’Olimpo vengono dedicati cicli pittorici straordinari come quello che Raffaello e la sua scuola realizzano, tra il 1517 e il 1518, per La Farnesina, la villa di Agostino Chigi a Roma. Qui, in un trionfo di festoni di fiori e di frutta di ispirazione classica, sono raffigurati su finti arazzi gli episodi trionfali di questa storia d’amore piena di simboli e significati: Il concilio degli dei che acconsente alle nozze tra i due e Il banchetto degli dei in cui si festeggia Psiche, resa immortale da Giove, e unita per sempre in matrimonio ad Amore. È significativo come ciò che appare dipinto in questa celebre loggia corrisponda perfettamente alla storia narrata dall’Asino d’oro di Apuleio, come se Raffaello e compagni avessero davvero messo in scena una rappresentazione teatrale del testo. Tra nudi, danze, elmi, drappi, corone di fiori si celebra visivamente un rassicurante lieto fine.
Giulio Romano e Perin del Vaga fanno parte della pattuglia di artisti chiamati a collaborare da Raffaello. Entrambi dedicheranno alle storie di Amore e Psiche due decorazioni che finiranno per essere tra le più importanti della loro carriera. Celeberrimi sono il banchetto rustico e quello degli dei affrescati dal primo tra il 1527 e il 1530 nella Sala di Psiche di Palazzo Te a Mantova. Dove, tra l’altro, compaiono nelle lunette tutte le vicissitudini a cui la fanciulla va incontro dopo aver spiato le fattezze del suo amato: eccola tra Tristezza e Ansietà, oppure addormentata dopo essere stata investita dal sonno infernale di Proserpina, o circondata dalle formiche che la aiuteranno a dividere le diverse specie di semi secondo l’ordine ricevuto da Venere.
Qualche anno dopo, nel 1545, Perin del Vaga dipinge un fregio con dieci scene da Apuleio nell’appartamento di Paolo III in Castel Sant’Angelo. Qui fa la sua apparizione gloriosa il momento forse più amato dalla pittura successiva, quello in cui Psiche guarda furtivamente Amore e lo sveglia con una goccia di olio che cade dalla lampada con cui lo illumina. Perché il pontefice avesse scelto tale ciclo è presto detto: Psiche rappresenta in questo caso il percorso che l’anima deve compiere tra le traversie e le difficoltà del mondo per arrivare a Dio, allo spirito, all’immortalità. In chiave religiosa interpreta la vicenda di Psiche anche il pittore a cui si devono le decorazioni di Palazzo Spada-Capodiferro volute dal cardinal Girolamo Capodiferro negli anni del Concilio di Trento.
Nel Settecento invece questa storia appassionante diventa un po’ il manifesto della vittoria dell’amore sulle restrizioni sociali: se il dio si è innamorato di una mortale e l’ha portata con sé nell’Olimpo significa che ci si può scegliere per affinità e non per casta. I pittori colgono anche il lato sensuale della vicenda: Jacques-Louis David raffigura una Psiche addormentata accanto a un giovane Amore dall’aria soddisfatta e un po’ sorniona. Mentre François-Edouard Picot inquadra il dio che sta per andar via dopo una notte d’amore. Guardando l’abbandono della donna si capisce come dai due sia nata una figlia come Voluttà.
Tra i quadri a più alta gradazione erotica c’è sicuramente quello di Jacopo Zucchi che mostra in una specie di alcova dominata dal rosso una Psiche nuda ma ingioiellata che sveglia il suo amato: i fiori che coprono i genitali di lui sembrano alludere senza tanti preamboli al suo desiderio. Pieter Paul Rubens ne dà una versione dal forte impatto scenografico ritraendo la donna quasi persa in un paesaggio mentre accoglie l’aquila di Giove che la aiuterà a riempire il vaso con l’acqua del fiume infernale.
C’è anche chi preferisce interpretare la scena in termini malinconici come succede ad Andrea Appiani nella Villa Reale di Monza, o allo scultore Pietro Tenerani che la ritrae triste e sola come Psiche abbandonata oppure svenuta con le piccole ali di farfalla che sembrano aver perso i sensi con lei. Il disagio, la solitudine dell’uomo moderno non risparmia nemmeno Amore e Psiche. Guardate la versione di Edvard Munch: due figure che più che amarsi sembra si fronteggino, fluide, inafferrabili, ben lontane dall’abbraccio neoclassico.
Amore e Psiche
Due capolavori in mostra
Da oggi e per sei settimane le opere di Canova
e Gérard potranno essere ammirate a Palazzo Marino, Milano
di Flavia Matitti (l’Unità 1.12.2012)
‘LA FAVOLA DI AMORE E PSICHE, NARRATA DA APULEIO NEL SUO CELEBRE ROMANZO INIZIATICO dal titolo Le Metamorfosi o L’asino d’oro (II sec. d.C.), è tra le più ricche e complesse che l’antichità ci abbia trasmesso. La vicenda, che ha per protagonisti l’eroina Psiche e il suo amante Eros (Cupido), in origine era legata ai misteri di Iside, ma in quanto allegoria dell’anima umana, nel suo travagliato destino di caduta e redenzione, ha incontrato poi il favore del mondo cristiano, divenendo fin dal Rinascimento un’importante fonte di ispirazione per gli artisti. Tra tutti spicca naturalmente Raffaello autore di un magistrale ciclo di affreschi dipinto nella Villa Farnesina a Roma.
Ma anche a Milano da oggi e per sei settimane, fino al 13 gennaio 2013, si avrà la straordinaria opportunità di ammirare due capolavori neoclassici dedicati a questo soggetto: il gruppo scultoreo di Amore e Psiche stanti (1797) di Antonio Canova e il dipinto Psyché et l’Amour (1798) di François Gérard, entrambi provenienti dal Museo del Louvre ed esposti ora insieme, per la prima volta, nella Sala Alessi di Palazzo Marino (catalogo Rubbettino, a cura di V. Pomarède, V. Merlini e D. Storti; ingresso gratuito).
Grazie all’ospitalità del Comune di Milano e al sostegno di Eni, che con il Louvre (di cui è mécène exceptionel) ha stretto un accordo di partnership, per la quarta volta consecutiva giungono sotto Natale nella città lombarda i capolavori del museo francese. E dopo le passate edizioni, che avevano visto protagonisti nel 2009 il San Giovanni Battista di Leonardo, nel 2010 la Donna allo specchio di Tiziano e nel 2011 due dipinti di Georges de La Tour, quest’anno viene presentato un inedito confronto tra pittura e scultura e tra due artisti eccezionali, che attraverso la loro sensibilità hanno dato della favola di Amore e Psiche due diverse letture.
Le due opere sono state realizzate ad appena un anno di distanza. Nel 1797 la scultura di Canova fissa i canoni estetici delle sue divinità ricche di dolcezza e di bellezza sensuale. Il dipinto di Gérard, pur essendo ispirato all’opera di Canova, è invece intriso di un erotismo conturbante molto apprezzato al Salon del 1798. Sia la Psiche di Canova sia quella di Gérard, esprimono il pudore e l’innocenza della fanciulla, sorpresa dal tenero gesto dell’altro. Ma mentre Gérard mostra i turbamenti dell’amore che sboccia tra due adolescenti, l’Amore di Canova ha sembianze quasi infantili. Le due opere sprigionano perciò una sensualità diversa e riflettono un diverso modo di intendere la bellezza.
La proposta di Eni, basata sulla gratuità e su un ampio corredo di strumenti di approfondimento, ha ottenuto un ampio consenso dimostrato dagli oltre 210mila visitatori della passata edizione. Quest’anno intorno al tema di Amore e Psiche è stato organizzato anche un ciclo di Incontri, moderati da Lella Costa (4, 11 e 18 dicembre ore 18, ingresso gratuito con prenotazione), tenuti presso il centro congressi della sala conferenze di Palazzo Reale.
Info 24h/24 numero verde gratuito 800.14.96.17
www.amoreepsicheamilano.it
I corvi, il papa e la posta in gioco
di Aldo Maria Valli (Europa, 9 giugno 2012)
A questo punto occorre pur dirlo. La vicenda dei corvi è anche la forma espressiva, sotto molti aspetti sciagurata ma efficace, trovata dalle tensioni interne in Vaticano in vista del nuovo conclave. Senza voler mancare di rispetto al papa regnante, sul piano storico non si può ignorare che siamo entrati nella fase fibrillatoria che contraddistingue la fine dei pontificati, quando le forze in campo si muovono per guadagnare le posizioni migliori e raggiungere equilibri e accordi da far contare nel momento della scelta del nuovo papa.
La posta in gioco è il papato che sarà, e il terreno di scontro è la politica attuata da Ratzinger, specie per quanto riguarda la sua lettura del Concilio Vaticano II. In modo felpato, com’è nel suo stile, ma anche molto chiaro nei contenuti, Benedetto XVI ha di fatto riletto il Concilio in senso anti-innovativo. Basandosi sull’idea, incontestabile, che la Chiesa non ha né può avere una carta costituzionale, perché la sua sola “costituzione” è la sacra scrittura, Ratzinger ha però depotenziato l’eredità conciliare per quanto riguarda almeno quattro contenuti fondamentali del Concilio stesso: la collegialità, la liturgia, l’ecclesiologia, l’ecumenismo.
Circa la collegialità, la prassi dei sinodi fa capire di che tipo sia lo svuotamento attuato. Il sinodo, creatura conciliare, nasce per dare voce al confronto fra i vescovi e per far giungere le loro istanze al papa, ma oggi questa è una finzione, perché al posto di un confronto aperto c’è solo un accostamento di voci sotto il controllo del potere centrale della curia, senza un autentico dibattito e senza la possibilità, per ogni vescovo, di interloquire con il papa e di avere da lui qualche risposta concreta.
Quanto alla liturgia, le simpatie di Benedetto XVI per il rito antico sono note, e da queste derivano le sue scelte. Il concilio, su questo piano, non è mai stato apertamente criticato, ma con l’andare del pontificato sono state ripristinate forme liturgiche decisamente preconciliari e la preoccupazione di Ratzinger per il recupero dei lefebvriani, con tutte le energie spese in proposito, è di per sé eloquente.
Sul piano dell’ecclesiologia, abbiamo un rinnovato centralismo, con il papa e la curia romana in posizione di preminenza, i vescovi nel ruolo di meri esecutori, senza possibilità di vero confronto, e i laici totalmente subordinati, chiamati in causa in funzione di supplenza e solo se del tutto in linea con le indicazioni centrali. La nozione di Chiesa come “popolo di Dio” sembra lontana, persa nelle nebbie di un clericalismo di ritorno.
Infine l’ecumenismo. Anche in questo caso, nessuna sconfessione aperta del concilio, ma se poi si vanno a vedere i comportamenti concreti si nota la regressione. Significativa la giornata di Assisi di un anno fa, dove la preoccupazione di evitare il sincretismo ha svuotato l’incontro di contenuto ecumenico per farlo diventare un pellegrinaggio fatto in comune ma senza reali segni di fraternità, e dove si è preferito accentuare il ruolo dei non credenti, trasportando così il confronto dal piano della preghiera a quello del confronto culturale.
Stando così le cose, mentre la Chiesa (per ammissione dello stesso Benedetto XVI) sta vivendo una pagina “drammatica”, segnata anche dalla disubbidienza di alcuni preti europei che, non trovando altre forme per manifestare le proprie richieste e il proprio disagio, hanno deciso di dire no al magistero su questioni come il celibato, la consacrazione ministeriale delle donne e il divieto di comunione per i divorziati risposati, dentro le sacre mura si confrontano e si scontrano le fazioni: continuare su questa strada che è di sostanziale ridimensionamento dell’eredità conciliare oppure aprire una pagina diversa, all’insegna del confronto tra i punti fermi del concilio, che devono restare tali, e le nuove realtà? Il fatto che il confronto sia emerso secondo le modalità che abbiamo sotto gli occhi, attraverso fughe di documenti, è di per sé significativo.
Quella che vediamo non è soltanto la crisi di questo papato. E una crisi del papato in quanto forma istituzionale. La concentrazione di potere, senza eguali, nelle mani di uno solo, l’influenza inevitabile che il ruolo di capo di stato ha su quello di capo spirituale e la mancanza di veri luoghi di dibattito all’interno della curia stanno determinando una situazione che, specialmente nel confronto con la società della comunicazione, si è fatta insostenibile. Un modello che ha retto per secoli sta mostrando ora crepe sempre più evidenti.
Ma fino a quando la Chiesa, nella sua espressione gerarchica, potrà fingere di non accorgersene? Fino a quando la linea della segretezza potrà essere privilegiata rispetto a quella della trasparenza e la forma dell’assolutismo (che alimenta inevitabilmente manovre oscure e maldicenze) rispetto a un confronto aperto, magari anche duro ma istituzionalizzato? Fino a quando la paura dovrà prevalere sulla fiducia? Questa è la posta in gioco. Questi i veri problemi che i corvi e le conseguenti battaglie fra guardie e ladri hanno portato alla luce.
Queste le vere tensioni che stanno sotto e dietro i fatti di cronaca. Se nella Chiesa cattolica ci fosse un’opinione pubblica sarebbero motivo di dibattito. Ma nella Chiesa una vera opinione pubblica non c’è, perché chi cerca di alimentarla viene costantemente mortificato ed emarginato. Ed anche su questo aspetto, a cinquant’anni dal concilio, bisognerebbe riflettere.
«Se noi continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza la musica». Con questa suggestiva frase di Cassiodoro ieri sera il cardinale Gianfranco Ravasi ha chiuso il "Dialogo su fede e musica" (ultimo appuntamento degli incontri su "L’uomo, l’assoluto e l’arte") che lo ha visto a colloquio col maestro Riccardo Muti nell’eccezionale contesto della Basilica di Santa Maria in Ara Coeli. Un incontro che si è intessuto intorno alla capacità della musica di favorire l’incontro col sacro, e quindi sulla necessità di tornare a fare della buona musica in chiesa, soprattutto nelle liturgie.
Cassiodoro, ha raccontato il cardinale, «nel sesto secolo realizza un’università cristiana sui suoi terreni in Calabria e la chiama "il Vivaio". Nel primo libro del regolamento istitutivo inserisce quella frase riferendosi ai passi biblici dei Profeti e dell’Apocalisse che descrivono il momento del grande giudizio divino, sottolineando che Dio fa tacere tutto, compreso il canto dello sposo e della sposa». Una metafora della società umana e del suo difficile rapporto con Dio: «Se noi continueremo a commettere ingiustizie, Dio ci lascerà senza la musica».
La questione della musica nelle chiese è stata sollevata proprio da Muti, a conclusione di una prima fase del "dialogo" con Ravasi che si è a lungo soffermato sulla musica di Verdi e sul dilemma tante volte dibattuto se fosse ateo o credente. A questo riguardo Muti ha sostenuto che difficilmente si può pensare a Verdi come a un agnostico se si ascoltano i finali del "Requiem" del "Don Carlos", della "Forza del destino" o del "Rigoletto". «Sono opere che tendono a Dio. Come può una persona che non crede scrivere un finale in cui si canta "Libera me Domine de morte aeterna in die ille"? Non so nemmeno come certi direttori contemporanei che dicono di essere atei possano interpretare un simile momento di musica senza porsi una domanda. Non è possibile». Per questo, ha aggiunto, è necessario che «nelle chiese torni musica realmente capace di essere strumento per pregare».
Per far questo, secondo Ravasi, bisogna tornare a costruire una nuova sensibilità musicale, partendo già nei seminari, «così che i preti non si accontentino delle comuni offerte. Il ricorso a musica semplice troppo spesso diventa banale. A Dio non possiamo dare certe cose. Servono musicisti di alto livello. Perché l’ascolto è l’altro volto della parola. È un esercizio faticoso. Quando dobbiamo dire che una realtà è incomprensibile, diciamo che è assurda, che viene da "sordo"». In questo senso certa musica contemporanea non è capace di far aprire le orecchie alla Parola divina, è incapace di far salire a Dio come il "Te Deum" di Verdi.
E Muti tiene a sottolineare che il problema non è nella semplicità o nella difficoltà della musica, il distinguo è nella capacità della musica di farci fare l’esperienza di Dio. «La chitarra rende la musica semplice e forse più comprensibile, ma la vera musica non ha bisogno di comprensione, la vera musica è rapimento. Lo dice con grande efficacia Dante nel Paradiso quando di fronte alla visione celeste in cui gli spiriti beati si dispongono in forma di croce sente una musica che non intende ma che lo rapisce. Ciò che conta non è la tecnica della musica.
Mozart diceva che la musica più profonda è quella che giace fra le note. È lì che si trova la verità. È il rapimento verso l’alto che conquista nella musica». Per questo, ha sostenuto il cardinale, «dobbiamo tornare a fare buona musica nelle chiese tenendo presente che, come diceva il filosofo Jean Guitton, la liturgia è costituita di due momenti in perfetto connubio fra loro, uno in cui c’è il mistero divino che si rende presente e che ha bisogno di musica rispettosa, l’altro in cui c’è la rappresentazione, la partecipazione di tutti. Ecco, abbiamo bisogno di musicisti che ci consentano di vivere questo dualismo con un nuovo linguaggio... Elie Wiesel spiega la musica attraverso la visione di Giacobbe nel sogno in cui scende una scala dal cielo, sulla quale salgono e scendono angeli. Giacobbe si sveglia e riparte. E Wiesel dice che gli angeli quella scala si sono dimenticati di ritirarla ed è la scala musicale, capace di unire la terra al cielo».
Roberto I. Zanini
* Avvenire, 5 giugno 2012
Siamo tutti ebrei greci"
Iniziativa antirazzista in Europa
Uno scossone: il 6 maggio il partito neo nazista Alba dorata ha fatto il suo ingresso nel Parlamento greco. Il partito "Alba Dorata"- con il suo emblema ispirato alla svastica, il saluto hitleriano Mein Kampf come riferimento, l’ideologia razzista e anti semita, il negazionismo, la sua violenza nei confronti di immigrati, la sua lotta contro il giornalismo, il suo culto della personalità - è l’erede diretto del partito nazionalsocialista che ha portato l’Europa e il mondo intero verso il caos e l’eccidio.
La Grecia, purtroppo non è l’unico paese con questa tendenza al ritorno all’ideologia nazista. In Lituania, quest’anno, per la prima volta, il Presidente della Repubblica ha sostenuto la marcia annuale delle Waffen SS nonostante le forti critiche sollevate.
In Austria il Partito delle Libertà Austriaco - FPÖ - Freiheitliche Partei Österreichs; un’organizzazione estrema di destra - che nutre nostalgia per il Terzo Reich è tra i favoriti nei sondaggi per le prossime elezioni parlamentari. In Ungheria il "Movimento della Guardia ungherese" discendente del Partito delle Croci Frecciate - la precedente milizia responsabile dello sterminio di ebrei e nomadi - ha avuto la responsabilità diretta di attacchi e omicidi contro nomadi e terrore nei confronti delle popolazioni ebraiche.
Questa rinascita è stata possibile grazie all’attacco sistematico da parte di partiti di estrema destra all’aspirazione di "unione", l’ideale repubblicano secondo cui tutti appartengono alla comunità nazionale. Questa campagna contro "l’unione" è modellata sulla strategia di Geer Wilder per il suo partito per la libertà agli inizi del 2000. Il nucleo di questa strategia è di nascondere il discorso della disuguaglianza delle razze dietro la maschera culturale della lotta contro la cosiddetta "islamizzazione dell’Europa".
Nel contesto di crisi economica e sociale in cui viviamo, un contesto che favorisce la ricerca frenetica di capri espiatori, e che rafforza il timore del declino del Vecchio Continente, questa strategia si è dimostrata, purtroppo efficiente a livelli preoccupanti.
Inoltre ha consentito presumibilmente il processo di legittimazione dei partiti di estrema destra nel sostenere o addirittura diventare membri di coalizioni governative e ha favorito la "normalizzazione" di discorsi razzisti e antisemiti in Europa.
Infine, il presunto Diritto Estremo "nuovamente nobilitato" ha aperto la strada alle organizzazioni con cui condivide il razzismo e l’ideologia antisemita. E proprio come nel caso del partito "Alba Dorata" può, oggi, ottenere voti mentre promuove apertamente l’incitamento all’odio.
Davanti a questa terrificante situazione - esemplificata con i deputati neo nazisti nel Parlamento greco - noi esprimiamo la nostra solidarietà : "Siamo tutti ebrei greci!"
Rifiutiamo che in Grecia - come in qualsiasi altra parte d’Europa - ebrei, immigrati, musulmani, nomadi o persone di colore possano temere per le proprie vite a causa di ciò che sono. Invitiamo tutti i cittadini, partiti politici, sindacati, attori della società civile, intellettuali e artisti a combattere il diritto estremo promuovendo e facendo vivere il Sogno europeo.
Dobbiamo sempre ricordare che il Sogno europeo, per il quale ci stiamo battendo, è nato sulle rovine del nazismo. Non dobbiamo mai dimenticare la Shoah. Il nostro sogno è un continente libero dal razzismo e da ogni forma di antisemitismo. E’ il progetto di una società basata sulla "unione". Oltre i confini.
Per vedere di nuovo questo sogno realizzarsi, è necessario porre fine a due dogmi.
Primo: dobbiamo rifiutare il dogma secondo il quale l’austerità è responsabile di terribili danni, creando le condizioni che spiegano il successo dei partiti populisti e che limita il futuro dei giovani in Europa al pagamento dei debiti -come se intere generazioni debbano sacrificarsi sull’altare dell’austerità perpetua.
Secondo: dobbiamo rifiutare il dogma della "Fortezza Europea": questo concetto favorisce la diffusione di discorsi contro gli immigrati e il blocco verso il basso delle frontiere europee, minando l’elemento portante dell’identità europea del dopo guerra: il sistema sociale del welfare - che considera l’immigrazione un elemento sostenibile.
E’ di estrema importanza per le istituzioni europee rinnovarsi con la ricerca della democrazia, del progresso sociale e della promozione dell’uguaglianza; con la tutela di quei cittadini che - ancor più in tempo di crisi- sono l’obiettivo di violenza razziale e sociale.
Il concetto di Europa è spesso criticato. Lungi dal rinunciare all’Europa, crediamo fermamente che sia necessario lavorare per un’Europa più forte, dando cosi nuovo slancio e una nuova portata al Sogno Europeo.
Se non saremo in grado di realizzare Il Sogno Europeo, saremo condannati allo stesso incubo in Grecia e nel resto d’Europa.
* la Repubblica, 28 maggio 2012
Delitti e castighi sul soglio di Pietro
di Corrado Augias (la Repubblica, 28 maggio 2012)
Più volte nel corso dei secoli il vento ha scosso la casa di Dio con raffiche anche più intense di quelle attuali. Più volte il fumo di Satana si è infiltrato nelle stanze più sacre dei sacri palazzi, come ebbe a lamentare Paolo VI.
Un ambiente come quello vaticano sembra fatto apposta per scuotimenti e infiltrazioni data la sua scarsa trasparenza, l’ostinata paura di aprirsi al mondo, l’atmosfera che sempre si crea in una corte dove un sovrano assoluto regna su uomini senza famiglia e dipende dal suo favore l’intera loro vita. Il che spiega quasi da solo perché le storie vaticane abbiano dato vita ad un intero filone narrativo che vede nei romanzi di Dan Brown (celebre "Il Codice da Vinci") solo gli ultimi esempi di un ’amplissima casistica.
Uno degli esempi più antichi di violenza e tradimento consumati per la conquista del soglio di Pietro è quello di cui fu protagonista Benedetto Caetani che costrinse il suo predecessore Celestino V (Pietro da Morrone) ad abdicare per l’impazienza di salire al trono dove regnerà col nome, famigerato, di Bonifacio VIII (1235-1303). Il povero Celestino era un uomo umile e pio, certamente inadatto all’incarico. Ma la violenza con la quale il futuro Bonifacio lo scalzò rimane degna delle più sinistre tradizioni del potere. Dante infatti lo caccerà, ancora vivo, all’inferno.
Il periodo più fecondo dal punto di vista narrativo è quello rinascimentale quando la corte di Alessandro VI Borgia divenne sede di intrighi e di delitti commessi a volte alla stessa presenza del papa. Celebre l’episodio di quando Cesare, figlio del papa e fratello di Lucrezia, assalì nei corridoi vaticani un tal Pedro Caldes, detto Perotto, 22 anni, primo cameriere del pontefice proprio come il Paolo Gabriele di cui si parla in questi giorni. Perotto si tratteneva affettuosamente con Lucrezia cosa che rischiava di compromettere il matrimonio al quale la bellissima donna era stata destinata.
Un giorno che Perotto passava per un corridoio s’imbatté casualmente in Cesare. Intuì da uno sguardo ciò che stava per accadere e cominciò a correre gridando a perdifiato, inseguito dall’altro che aveva estratto il pugnale. La corsa ebbe termine nella sala delle udienze dove Perotto si gettò ai piedi del pontefice implorando protezione. Non bastò. Cesare si avventò su di lui trafiggendolo con tale impeto che "il sangue saltò in faccia al papa" macchiandogli di rosso la bianca tonaca.
Non solo delitti ma anche orge caratterizzavano in quegli anni la corte. Preti e cardinali mantenevano una o più concubine "a maggior gloria di Dio", come scrive sarcastico lo storico Infessura, mentre il maestro di cerimonie pontificio Jacob Burchkardt nota che i monasteri di donne erano ormai "quasi tutti lupanari" poco o nulla distinguendo le religiose dalle "meretrices".
Cronache vivacissime ha lasciato il protonotario apostolico Johannes Burchard. Racconta ad esempio che una sera, a una delle consuete feste date dal papa: «Presero parte cinquanta meretrici oneste, di quelle che si chiamano cortigiane e non sono della feccia del popolo. Dopo la cena esse danzarono con i servi e con altri che vi erano, da principio coi loro abiti indosso, poi nude». La serata si concluse come si può immaginare, il protonotario riferisce dettagli che richiamano altre e assai recenti serate di ugual tenore.
Del resto fu questo tipo di atmosfera, aggiunto alla vendita scandalosa delle indulgenze, a convincere il frate agostiniano Martin Lutero a proclamare quella Riforma (1517) che avrebbe drammaticamente spaccato la cristianità fino ai nostri giorni.
Per venire ad anni a noi vicini, una vasta eco ha sollevato una mossa assai ambigua dell’allora segretario di Stato Eugenio Pacelli. Nel 1939, papa Pio XI avrebbe voluto pronunciare un discorso nel decennale del Concordato dove tra l’altro avrebbe denunciato le violenze del regime fascista e la persecuzione razziale dei nazisti contro gli ebrei. Alla vigilia dell’importante allocuzione papa Ratti venne però a morte e Pacelli, che sarebbe stato suo successore, fece prontamente sparire il discorso avendo in mente un diverso tipo di rapporti con le due dittature. Divenuto papa a sua volta col nome di Pio XII, lo dimostrerà. Intrighi e tradimenti all’ombra del trono di Pietro sono tutti accomunati da elementi rimasti invariati nel tempo: ritrosia a dare informazioni e addirittura a collaborare ad eventuali indagini, ostinati silenzi a costo di alimentare le ipotesi peggiori.
Se n’è avuta una prova in occasione della morte, altrettanto repentina, di Giovanni Paolo I, papa Luciani. Ancora una volta l’evento si verificò alla vigilia di una decisione importante con la quale il papa avrebbe riorganizzato la famigerata banca vaticana, in sigla Ior. Così oscure le circostanze dell ’evento che i media anglo-sassoni avanzarono apertamente l’ipotesi di un assassinio. L’autopsia avrebbe probabilmente fugato le voci ma le gerarchie vaticane la rifiutarono preferendo mantenere un silenzio che le ha ulteriormente alimentate.
Il caso più grave di reticenza si è però avuto quando, la sera del 4 maggio 1998, tre cadaveri vennero trovati in una palazzina a pochi metri dagli appartamenti pontifici. Il colonnello Alois Estermann, 44 anni, comandante delle "guardie svizzere"; sua moglie, Gladys Meza Romero di origine venezuelana; il vice-caporale Cédric Tornay, nato a Monthey (Svizzera), 24 anni. Poche ore dopo il portavoce vaticano Joaquin Navarro Valls dette ai giornalisti questa versione: il caporale, in un accesso di collera incontrollata, aveva ucciso il colonnello e sua moglie per poi togliersi la vita. Invano l’avvocato francese Luc Brossolet ha fatto eseguire (in Svizzera) perizie che dimostrano l ’incongruenza grossolana di quella versione. Da allora non è più stata cambiata.
LA GLOBALIZZAZIONE È UN FATTO IRREVERSIBILE CHE NOI TENDIAMO A SPIEGARE IN MODO UNIVOCO, E NON INVECE, COME SI DOVREBBE, IN MODO EQUIVOCO.
La sfida. Diventare cittadini
Dialogare con l’«altro» è il primo passo per uscire dalla crisi
Confronto e riconoscimento nutrono la vita collettiva:
la politica non può limitarsi a prendere atto della realtà, deve riprendere la sua centralità e progettare alternative
di Sergio Givone (l’Unità, 14.06.2012)
Il processo in corso produce uniformità: ovunque andiamo ci ritroviamo sempre allo stesso punto, distinguiamo a stento la periferia di Milano dalla periferia di New York. Una tendenza universale all’omogeneità sta cambiando la fisionomia dei luoghi e degli stili di vita, dei modi di produzione e di distribuzione delle merci o di circolazione delle persone: è il caso degli aeroporti che esprimono un modello urbanistico universale. Tuttavia, questa grande tensione all’omogeneità che è sotto gli occhi di tutti e per questo è enfatizzata cela un altro processo in corso di natura opposta, un vero contromovimento: da un fondo nascosto emergono modi di vivere che costituiscono l’esatto contrario dell’uniformità. Nel mondo globalizzato acquistano nuova forza i localismi, i tribalismi e i fideismi, le religioni tornano a essere superstizioni. Insomma, un mondo in cui viviamo tutti la stessa vita e che dovrebbe portare, se non alla pace universale, almeno a una maggiore comprensione degli uni e degli altri, in realtà acuisce i particolarismi, le tensioni e i conflitti.
Come affrontare questo problema? Non esiste un governo mondiale dell’economia e la crisi che stiamo attraversando lo conferma: non siamo riusciti a inventare un governo dei processi economici e dei rapporti tra le nazioni, e neppure dei giudizi da dare sulle tragedie e sulle guerre che insanguinano il mondo.
La strada da percorrere è un’altra. Dobbiamo ripartire dalle persone, dai loro bisogni e dalle loro contraddizioni, e ciò è possibile solo imparando a dialogare, dunque a capire che io non sono tu, ma che solo grazie al rapporto con il tu io sono e posso dire «io». Quando mi guardo allo specchio accade qualcosa di strano, come se non mi riconoscessi, e ciò non avviene perché non mi piaccio o perché mi rendo conto con amarezza di come mi abbia ridotto il passare degli anni: non è questo il punto. Se guardandomi allo specchio accade che io non mi riconosca, che io non veda sulla superficie dello specchio la conferma inoppugnabile e tranquillizzante della mia identità, ciò è dovuto a una ragione molto più profonda: io sono sempre altro rispetto alla mia identità, o meglio, la mia identità si costruisce solo in rapporto all’identità dell’altro. Allora, se le cose stanno così, imparare a dialogare non significa banalmente imparare a sopportarci, bensì capire che io sono solo grazie all’altro, e non solo grazie a quell’altro che conosco e che amo, grazie all’amico, al familiare, al vicino o al concittadino che con me condivide abitudini e esperienze. No, io sono io anche grazie all’altro che mi dà fastidio, all’altro che mi toglie spazi che ritengo miei. Solo grazie a lui io sono io, sono vivo e vado avanti: capire davvero tutto questo, e da qui ripartire, è la vera rivoluzione. Questo è il nodo di quel processo che, con Bauman, possiamo chiamare glocalizzazione.
Rimane da capire in che modo tale processo rivoluzionario di riconoscimento dell’altro, che sposta l’accento sulle persone - cioè su noi cittadini come soggetti attivi del presente - possa influire sulle grandi decisioni politiche ed economiche. Un buon esempio potrebbe essere questo: fare il contrario di quanto sin qui si è fatto con le legge elettorali, che prevedono apparati che di fatto nominano i rappresentanti dei cittadini. Non può essere così: i rappresentanti dei cittadini devono venire dai cittadini stessi.
Il rischio che la parola dei cittadini si disperda attraverso i numerosi passaggi che portano alle grandi decisioni politiche ed economiche, anche per un problema di competenze, è un rischio reale che va affrontato. I greci avevano coniato una parola bellissima: agoreuein, prendere la parola in piazza. È un verbo carico di significato, che non vuol dire solo esporre una certa tesi, ma anche farsi responsabili di quella tesi di fronte ai concittadini. Ovviamente si tratta di un modello di democrazia diretta adatto a una città stato dove parlamento e piazza coincidevano, ma che certo non funziona in uno stato di diecimila città: qui ci vogliono le mediazioni, è chiaro. Ma le mediazioni non sono imposizioni, dunque non devono essere strumenti in mano a chi ha ottenuto il potere e se ne serve imponendo regole e misure dall’alto. Le cose non funzionano così: le mediazioni devono realmente mediare, devono permettere un autentico interfacciarsi dei cittadini e dei luoghi istituzionali in cui si prendono le decisioni.
In questo modo diverso d’intendere le mediazioni si cela la risposta alla grande domanda sul ruolo e sul destino della politica di fronte all’egemonia dell’economia finanziarizzata. La politica ridotta a tecnica gestionale dell’economia in realtà, ormai è chiaro, non gestisce un bel niente. Questa politica ci dice solo: le cose nel mondo vanno in questo modo perché così vogliono le leggi di mercato, i tassi d’interesse o lo spread. La politica ritiene di poter solo prendere atto della realtà e di avere davanti a sé un’unica soluzione. Poi, però, vediamo che la stessa attualità più stringente smentisce l’idea della soluzione unica dettata dal mercato. Il nodo cruciale della Grecia, ad esempio, può essere affrontato in un modo o in un altro, esistono alternative reali la cui portata va ben aldilà del mero fatto economico.
Dobbiamo capire che restituire alla politica la sua centralità ci conviene, anche dal punto di vista economico. Una simile rivoluzione che parte dalla centralità delle persone e dal riconoscimento dell’altro come origine dell’io va perseguita non perché sia una scelta più etica o più gratificante ma perché, di fronte alla crisi, ci prospetta delle soluzioni alternative. Litigare ci conviene. Confrontarci senza sosta e magari confliggere nelle scelte e nelle visioni da realizzare, liberandoci dall’illusione della soluzione unica imposta dal mercato, è l’unica strada che ci conviene percorrere.
Metafisica del contagio
Il nuovo saggio di Sergio Givone spiega come “la peste” diventi, storicamente e socialmente, un’infezione della mente prima che del corpo
Emergenza, caos e malattia: le metafore delle nostre paure
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 14.06.2012)
Chiudo il nuovo libro di Sergio Givone - Metafisica della peste (Einaudi) - con la sensazione che qualcosa, negli ultimi anni, è accaduto nelle nostre teste. È come se il nostro paesaggio mentale abbia inasprito le parti più dolci e reso impervi certi percorsi psichici. I sentimenti si fanno più precari e inquietanti e ci rendono più deboli e più esposti al contagio. A quei focolai di paura e sfiducia che vediamo crescere intorno. In fondo, l’essenza della peste è nell’improvviso insorgere del timore del contagio. Tutto repentinamente muta. L’ordine fin lì esercitato si riscrive in codici impensabili fino a un attimo prima. Il contagio richiama l’emergenza, lo stato d’eccezione, l’enigma. È di questo che ci parla il libro di Givone? Lungo un percorso nel quale tornano le colte letture di questo filosofo - allievo di Luigi Pareyson, professore di Estetica all’Università di Firenze e da pochi giorni assessore alla cultura al comune di Firenze - scopriamo le forti congiunzioni tra il discorso letterario e quello filosofico.
Non teme una certa confusione di generi?
«E perché mai? I grandi testi che hanno preso a tema la peste non fanno differenza fra filosofia e letteratura. Cos’è Lucrezio - che della peste è il massimo poeta - filosofo o letterato? E Camus che al tema ha dedicato uno straordinario romanzo? Se guardo poi alla nostra tradizione penso che la Storia della colonna infame di Manzoni è probabilmente il più importante libro di filosofia morale del nostro Ottocento ».
La peste è un evento che proprio Manzoni riconduce a un disegno divino. Mentre Lucrezio ha un’idea opposta.
«Intendiamoci: la peste è un’infezione del corpo, una malattia che oggi sappiamo definire con precisione. Ma quando ho citato Lucrezio è perché nessuno come lui ci spinge a liberarci dalla superstizione che la peste ingenera e cioè dalla credenza che essa venga dal cielo. Non c’è nessun disegno divino che ci riguardi. Il mondo è il mondo e basta. Ma proprio questa assenza di trascendenza, questo vuoto nel quale versiamo, è la colpa».
La peste, come tutto quello che rappresenta la regressione estrema, ci trova impreparati. Non pensa che una catastrofe ha sempre qualcosa di inaudito?
«Ogni disastro epocale ci fa entrare in una desolazione primordiale. È vero: prima che accada, la catastrofe è impensabile. Per questo è difficile prendere delle precauzioni. La peste è un fenomeno della natura. Ma la natura non basta a spiegarla».
La peste scatena sia i meccanismi mentali che quelli fisici del contagio. Quali sono i più temibili?
«I meccanismi del contagio sono stati scoperti nell’Ottocento. Ma in fondo, già Omero parlava delle frecce che appestano, scagliate da Apollo nel campo degli Achei. Di solito però gli scrittori, i poeti, i filosofi sono stati attratti più dai meccanismi mentali ed emotivi che non dal carattere meccanico del contagio. Ipotizzando che i primi fossero più importanti del secondo. Artaud sosteneva che la peste è un fenomeno virtuale, ma aggiungeva che il virtuale è più reale del reale».
Oggi il contagio assume forme diverse: le pandemie, l’Aids, i virus nella Rete, il contagio finanziario. C’è in queste espressioni odierne qualcosa di diverso rispetto alle narrazioni che in passato si sono fatte della peste?
«La differenza è che oggi abbiamo occhi solo per la peste qual è veramente e non come la immaginiamo che sia. È chiaro che la medicina combatte la peste in modo più efficace della metafisica. Però allora come oggi la peste è un tremendo carro allegorico che irrompe nelle nostre città e travolge ogni cosa. Solo se ci rendiamo conto che sempre di contagio si tratta, anche se solo in senso traslato, possiamo sperare di scamparla».
Questa relazione che lei stabilisce tra metafisica e peste non rischia di essere equivoca? «In che senso?»
Dopotutto, siamo inclini a pensare che la metafisica debba risalire a una causa prima. In realtà la peste è esattamente l’opposto: un’irruzione del caos, dell’inspiegabile, l’assenza di un fondamento che non sia una spiegazione scientifica. «Dipende da cosa vogliamo intendere con l’espressione “metafisica”. Secondo Aristotele essa è la scienza dell’essere in quanto tale. Dopo di lui si è pensato che in questione fosse appunto il fondamento, la ragione delle cose. Ma questo schema conoscitivo è assai più convincente se è svolto dalla scienza piuttosto che dalla metafisica. Quest’ultima ritengo debba occuparsi non tanto della ragione delle cose, ma del loro senso».
Con quali effetti?
«È la metafisica a dirci che la peste non ha nessun senso e questa insensatezza è il senso dell’essere».
A proposito di insensatezza come giudica l’idea che ci siano in Europa paesi come la Grecia, la Spagna e forse domani l’Italia che minacciano di contagiare il resto del mondo?
«Da un lato digrigno i denti perché trovo eccessivo il tentativo da parte dei paesi che si presumono sani o immuni di colpevolizzare i paesi appestati. Dall’altro mi domando se davvero non abbiamo colpa. E penso al nostro paese e a quegli allegri monatti che per quasi vent’anni hanno distribuito a piene mani intrugli malefici. Chi li ha voluti? Chi li ha eletti democraticamente?»
Anche la politica è vista oggi come un luogo di appestati.
«È un mondo chiuso in se stesso, autoreferenziale, poco incline a farsi tramite delle istanze dei cittadini».
E perché lei ha accettato di farne parte?
«È la prima volta in vita mia che assumo un incarico politico, per la precisione, come assessore alla cultura. Penso, o mi illudo, che ci sia ancora lo spazio per la correttezza del linguaggio del fare e delle parole chiare e coerenti».
La lingua è proprio l’organismo più esposto al contagio.
«Appestata è la lingua che ci ritroviamo a parlare per inerzia, per imitazione: la lingua di Facebook, di Twitter, figlia della televisione, a confronto della quale quella del vecchio e glorioso Bar Sport mi appare salutarmente ironica. La verità è che chi parla male pensa male. E chi pensa male, prima o poi il male lo fa».
Il male, come la peste, produce il disordine?
«L’arrivo della peste produce caos. Ma c’era chi, come Boccaccio, pensava che il crollo di ogni realtà civile fosse già la peste. In ogni caso, la peste è un’occasione per il pensiero: invita a pensare dall’impensabile, dal nulla che ci minaccia».
Caos, disordine, stato d’eccezione. Il tempo della peste sospende il tempo della normalità?
«Daniel Defoe, che scriveva sulla peste di Londra intorno alla metà del XVII secolo, in anni non lontani dal Leviatano di Hobbes, pensava così. Ma sapeva anche che la sospensione del tempo della normalità, in cui ciascuno attende ai suoi doveri, mette capo a un’alternativa. O la rinuncia alla libertà e a tutti i diritti, tranne quello di aver salva la vita. O l’assunzione di una libertà totale, grazie alla quale farsi responsabili di tutto nei confronti di tutti. Anche di ciò che non abbiamo voluto».
Non le pare che è chiedere un po’ troppo a questa fragile creatura che è l’uomo? Non le pare che viviamo ormai immersi nel tempo del colera?
«Penso che si viva sempre nel tempo del colera. E se questo è vero, allora hanno senso quelle vite che, nonostante la fragilità, si fanno carico del problema. Non hanno senso quelle che il problema lo ignorano, come se vivessero nel tempo della beata innocenza».
Premio Boccaccio 2017, la palma a Craveri, Pennac, Altan e Rumiz
La cerimonia di premiazione si terrà sabato 9 settembre a Certaldo Alto *
Adele Benedetta Craveri, Daniel Pennac, Francesco Tullio Altan e Paolo Rumiz sono i vincitori della XXXVI edizione del Premio Letterario Giovanni Boccaccio 2017, rispettivamente per la letteratura italiana, la letteratura internazionale e il giornalismo fra satira e reportage con un ex aequo.
La giuria - presieduta da Sergio Zavoli e rappresentata da Francesco Carrassi, Paolo Ermini, Stefano Folli, Antonella Cilento (da quest’anno in giuria in sostituzione di Margaret Mazzantini), Marta Morazzoni, Luigi Testaferrata) - si è pronunciata all’unanimità sulla rosa degli autori individuati per l’assegnazione del prestigioso Premio Boccaccio. La cerimonia di premiazione si terrà sabato 9 settembre, nel pomeriggio (ore 16.30) a Certaldo Alto, nei locali di Palazzo Pretorio.
Gli eventi culturali del Premio Boccaccio 2017 (promossi e organizzati dall’Associazione Letteraria Giovanni Boccaccio, presieduta da Simona Dei) prevedono anche quest’anno una serie di intrattenimenti sia venerdì 8 che domenica 10 settembre, il cui programma sarà reso noto nel dettaglio a breve.
Chi volesse partecipare alla cerimonia di premiazione può prenotarsi andando sul sito dell’associazione www.premioletterarioboccaccio.it.
Si ringraziano il comune di Certaldo e i numerosi sponsor che ogni anno rendono possibile tale evento e in particolare: Banca di Cambiano, Cabel, Banca C. R. Firenze, Mediolanum, Confindustria di Firenze e il Rotary Club Valdelsa-Distretto 2071. Un ringraziamento speciale va anche ai componenti dell’Associazione letteraria e ai numerosi Amici del Boccaccio per l’impegno e la passione puntualmente garantiti a sostegno della riuscita del Premio.
I vincitori del Premio Letterario Giovanni Boccaccio 2017
ADELE BENEDETTA CRAVERI (Roma, 23 settembre 1942) è critica letteraria e scrittrice. Figlia di Raimondo Craveri ed Elena Croce (e quindi nipote di Benedetto Croce), allieva di Giovanni Macchia, si laurea in lettere (1969) all’università di Roma, divenendo una delle massime studiose italiane di lingua e letteratura francese, materia che insegnerà prima presso l’Università della Tuscia (Viterbo) e successivamente presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa (Napoli).
Acquista notorietà internazionale come autrice di saggi e monografie sulla vita intellettuale dei salotti francesi che, in età moderna, hanno ruotato attorno alla corte di Versailles (Madame du Deffand e il suo mondo e La civiltà della conversazione). Il successo e la diffusione anche all’estero delle sue opere, in cui spiccano sempre i ruoli femminili, poggia sull’abile connubio di un’esposizione brillante con il rigore della trattazione storica. -Profonda conoscitrice del neoclassicismo transalpino del Settecento e dei primi anni dell’Ottocento, ha curato l’edizione italiana dell’opera di André Chénier. Membro dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, integra l’attività accademica con la partecipazione a programmi radiofonici e televisivi e con la collaborazione alle pagine culturali di quotidiani e periodici internazionali, fra cui La Repubblica, The New York Review of Books e la Revue d’histoire littéraire de la France. Vive fra Napoli, Roma e Parigi. In quest’ultima città è stata insignita di un riconoscimento prestigioso, quello di “ufficiale” dell’Ordre des Arts et des Lettres e ha collaborato, in qualità di professoressa invitata, con l’Università della Sorbona (2007).
DANIEL PENNAC, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (Casablanca, primo dicembre 1944), è uno scrittore francese. Romanziere francese. Figlio di un ufficiale dell’esercito francese, dopo un’infanzia in giro per il sia, efinitivamente a Parigi. ofessore di lettere in un liceo parigino, dopo aver esordito con alcuni romanzi per ragazzi tra cui DANIEL PENNAC, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (Casablanca, primo dicembre 1944), è uno scrittore francese. Già autore di libri per ragazzi, nel 1985, comincia - in seguito ad una scommessa fatta durante un soggiorno in Brasile - una serie di romanzi che girano attorno a Benjamin Malaussène, capro espiatorio di “professione”, alla sua inverosimile e multietnica famiglia, composta di fratellastri e sorellastre molto particolari e di una madre sempre innamorata e incinta, e a un quartiere di Parigi, Belleville. Nel 1992, pubblica il saggio Come un romanzo a favore della lettura.
Nato nel 1944 in una famiglia di militari di origini corse e provenzali, passa la sua infanzia in Africa, nel Sud-Est asiatico, in Europa e nella Francia meridionale. Ottiene la laurea in lettere all’Università di Nizza nel 1968, diventando contemporaneamente insegnante e scrittore. La scelta di insegnare, professione svolta per ventotto anni, a partire dal 1970, gli servirà inizialmente per avere più tempo per scrivere, durante le lunghe vacanze estive. Pennac, però, si appassiona subito a questo suo ruolo.
Inizia l’attività di scrittore con un pamphlet e con una grande passione contro l’esercito (Le service militaire au service de qui?, 1973), in cui descrive la caserma come un luogo tribale, che poggia su tre grandi falsi miti: la maturità, l’uguaglianza e la virilità. In tale occasione, assume lo pseudonimo Pennac, contrazione del suo cognome anagrafico Pennacchioni.
Abbandona la saggistica in seguito all’incontro con Tudor Eliad, con il quale scrive due libri di fantascienza (Les enfants de Yalta, 1977, e Père Noël, 1979). Successivamente, decide di scrivere racconti per bambini. -Nel 1985 pubblica Il paradiso degli orchi (Au bonheur des ogres), primo libro del ciclo di Malaussène. Nel 1997 scrive Signori bambini (Messieurs les enfants), da cui verrà tratto un film di Pierre Boutron. Il 26 marzo 2013 è stato insignito della Laurea ad Honorem per il suo impegno nella pedagogia presso l’Università di Bologna.
Nella Lectio magistralis in occasione della Laurea honoris causa, Pennac si sofferma a lungo nella spiegazione della parola passeur (letteralmente: facilitatore) per poi nella parte finale definire il passeur supremo colui che non fa domande su cosa si pensa del libro appena finito di leggere perché le nostre ragioni di leggere sono strane quanto le nostre ragioni di vivere. E nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa intimità. La rivista statunitense Watch and Listen, importante rivista di critica letteraria, che pubblica, ogni dieci anni, la sua classifica dei 50 migliori libri di tutti i tempi, nella classifica 2013 pone la saga Malaussène di Pennac al primo posto con il 45% dei voti, davanti ai I tre moschettieri di Alexandre Dumas con il 31% e ad Harry Potter con il 12%. Ha vinto numerosi premi.
FRANCESCO TULLIO ALTAN (Treviso, 30 settembre 1942) è fumettista, disegnatore, sceneggiatore e autore satirico pluripremiato. Figlio dell’antropologo friulano Carlo Tullio-Altan, inizia gli studi all’Istituto Universitario di Architettura di Venezia che non porta a termine per dedicarsi al cinema e alla televisione nel ruolo di scenografo e sceneggiatore. Nel 1970 si trasferisce a Rio de Janeiro, dove crea il suo primo fumetto per bambini pubblicato da un quotidiano locale. Nel 1974 Altan inizia a collaborare come fumettista per alcuni giornali italiani. Sulle pagine di Linus prende vita il personaggio di Trino, un dio impreparato che si affanna nella creazione del mondo.
Nel 1975, in coincidenza con il suo ritorno in Italia, crea la cagnolina Pimpa, uno dei suoi personaggi più riusciti e famosi, che sarà pubblicato inizialmente sul Corriere dei Piccoli. La Pimpa, la cagnolina a pois rossi dalle lunghe orecchie nata dalla penna di Francesco Tullio Altan nella prima metà degli anni ’70 del XX secolo, arriva come cartone animato in TV per la prima volta nel 1983 con la regia di Osvaldo Cavandoli e vi torna con una seconda serie nel 1997 con la regia del napoletano Enzo D’Alò. Il cartoon è stato trasmesso sulle reti Rai ed in diversi paesi, non solo in Europa, e ha vinto anche il Premio Internazionale “Cartoons on the Bay” per poi essere raccolta e messa in vendita in diversi DVD. Altan stesso ha diretto una terza serie che la Rai ha trasmesso nel marzo 2013 su Rai YoYo, il canale dedicato ai bambini.
La Pimpa non è il solo personaggio per bambini creato da Altan. Oltre alla Pimpa infatti, ci sono Kika e Kamillo Kromo. Anche Kamillo Kromo, pubblicato da Fonit Cetra vinse, come la Pimpa, premi internazionali, e diventò cartoon sempre con regia di Enzo D’Alò e con musiche di Beppe Crovella. Altan ha creato anche storie a fumetti per un pubblico adulto come le storie dell’operaio metalmeccanico comunista Cipputi e celebri biografie in chiave semi-parodica di personaggi famosi, come Cristoforo Colombo, Casanova e Franz (parodia della vita di San Francesco d’Assisi). Inoltre, ha realizzato le vignette di alcuni libri scritti da Gianni Rodari. Decennale è la sua collaborazione con riviste come L’Espresso, Panorama e ultimamente con il quotidiano La Repubblica per il quale disegna vignette di satira politica.
PAOLO RUMIZ (Trieste, 20 dicembre 1947) è giornalista e scrittore pluripremiato. Inviato speciale del Piccolo di Trieste e in seguito editorialista di la Repubblica, segue dal 1986 gli eventi dell’area balcanica e danubiana. Durante la dissoluzione della Jugoslavia segue in prima linea il conflitto prima in Croazia e successivamente in Bosnia ed Erzegovina. Nel novembre 2001 è stato inviato ad Islamabad e successivamente a Kabul, per documentare l’attacco statunitense all’Afghanistan. Molti suoi reportage narrano i viaggi compiuti, sia per lavoro che per diletto, attraverso l’Italia e l’Europa:
• nell’Estate del 1998 pedala in bicicletta da Trieste a Vienna in compagnia del figlio Michele (Dove andiamo stando?, pubblicato poi su Diario nell’autunno 1998);
• nella Primavera del 1999 esplora le regioni della costa adriatica italiana in automobile, da Gorizia al Salento (Capolinea Bisanzio, pubblicato su Repubblica nel gennaio del 1999);
• nell’Inverno del 1999 percorre in treno la tratta Trieste-Kiev (L’uomo davanti a me è un ruteno, pubblicato sul Piccolo nello stesso anno);
• nella Primavera 2000 si imbarca sul Danubio a Budapest per arrivare al confine tra Serbia e Romania (Ljubo è un battelliere, inserito in È oriente del 2003)
• nell’Inverno del 2000 va, ancora in treno, da Berlino a Istanbul (Chiamiamolo Oriente, pubblicato su Repubblica nel gennaio del 2000)
• nella Primavera 2001 girovaga per il nord-est in bicicletta, da Trieste al Gavia (Il frico e la jota, inserito in È oriente del 2003) Da qualche anno a questa parte compie il canonico viaggio ogni Estate, in agosto, raccontandolo di giorno in giorno su Repubblica:
• nel 2001 percorre in bicicletta, insieme al vignettista Francesco Tullio Altan ed a Emilio Rigatti, i quasi 2000 km che separano Istanbul da Trieste;
• nel 2002 gira l’Italia in treno per 7480 km, come la Ferrovia Transiberiana dagli Urali a Vladivostok, in compagnia delle vignette di Altan e di un compagno misterioso (rivelato verso la fine del viaggio). È stato pubblicato sia come rubrica su La Repubblica, che come libro, L’Italia in seconda classe, da Feltrinelli;
• nel 2003 attraversa 6 nazioni a piedi andando da Fiume (Croazia) fino in Liguria lungo i 3000 km delle Alpi;
• nel 2004 in barca a vela, sulle rotte della Serenissima, da Venezia a Lepanto;
• nel 2005, assieme a Moni Ovadia e Monika Bulaj, parte da Torino per raggiungere il sepolcro di Cristo, a Gerusalemme;
• nel 2006, a bordo di una Fiat 500 “Topolino” del ’53, attraversa le strade secondarie dalle Alpi e agli Appennini andando dall’inizio delle Alpi in alta Dalmazia fino all’estrema punta degli Appennini, in Calabria (viaggio raccontato nel libro La leggenda dei monti naviganti);
• nel 2007 segue le tracce del condottiero cartaginese Annibale fino all’imbarco in Calabria, terra abitata anche dal fiero popolo dei Bruzi. Nell’Autunno dello stesso anno pubblica su Il Piccolo Diario minimo, resoconto di un viaggio in Cina.
• Nel 2008, assieme a Monika Bulaj, con bus, treni, traghetti e autostop percorre 7000 chilometri, da Nord a Sud, lungo la frontiera orientale dell’Unione Europea dall’Artico al Mediterraneo;
• nel 2009 con svariati mezzi di trasporto scrive a puntate di un viaggio da sud verso nord, lungo le linee geologiche della penisola, per conto del quotidiano la Repubblica dal titolo L’Italia sottosopra
• nel 2010, sempre per La Repubblica, attraversa i luoghi del Risorgimento per raccontare l’epopea garibaldina;
• nel 2011 viaggia attraverso l’Italia cercando città morte, fabbriche dismesse e miniere ed è stato realizzato il film Le dimore del vento;
• nel 2012 compie un viaggio completo sul Po giungendo, dopo peripezie varie, al delta nel mare Adriatico, per poi toccare anche la Croazia. Il viaggio è stato raccontato da Paolo Rumiz a puntate su La Repubblica ed è stato creato il film Il risveglio del fiume segreto, che ne ripercorre le tappe principali e che è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia;
• nel 2013 ripercorre tutto il fronte italo-austriaco alla vigilia del centenario della Prima guerra mondiale ed è stato realizzato il film L’albero tra le trincee;
• nel 2014 ha viaggiato per tutti i fronti della Prima guerra mondiale, realizzando insieme al regista Alessandro Scillitani un’opera di 10 documentari che mette in relazione l’Europa di oggi con quella di cento anni fa. Per questo lavoro su iniziativa del Presidente della Repubblica ha ricevuto l’onorificenza di Commendatore;
• nel 2014 ha trascorso un intero mese in un faro ed è stato realizzato il film L’Ultimo faro;
• nel 2015 attraversa l’Italia da Roma a Brindisi riscoprendo il tracciato della antica Via Appia.
Fonte: Associazione Boccaccio
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