DISCORSO DI PAPA GIOVANNI XXIII PER L’APERTURA DEL CONCILIO VATICANO II *
"Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo.
Nello stato presente degli eventi umani, nel quale l’umanità sembra entrare in un nuovo ordine di cose, sono piuttosto da vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa."
Giovanni XXIII, Discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962
Sulla questione, nel sito, cfr.:
GIOVANNI XXIII: PREGO PER GLI EBREI
di Orazio La Rocca *
CITTA DEL VATICANO - «Perdonaci, Signore, per non aver capito la bellezza del Tuo popolo eletto... perdonaci, perché nel corso dei secoli non sapevamo quello che stavamo facendo contro gli ebrei...». è un Papa anziano, molto malato, costretto a letto perché colpito da un male incurabile, che scrive queste parole pochi giorni prima di morire. è Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, il papa Buono per antonomasia, il padre del Concilio Vaticano II e del successivo rinnovamento ecclesiale, che Giovanni Paolo II beatificherà nel 2000 sotto i riflettori di tutto il mondo, facendone una delle più importanti icone del grande Giubileo del 2000.
Quasi nessuno, però, finora ha mai saputo che il futuro beato Giovanni XXIII nel chiuso della sua stanza nel Palazzo apostolico, in Vaticano, verso la fine del mese di maggio 1963 - morirà dopo una lunga agonia la sera del successivo 3 giugno all’ età di 82 anni - dedica le sue ultime energie al popolo ebraico sotto forma di preghiera composta quasi di getto su un foglio bianco, davanti al Crocifisso al cospetto del quale ogni notte si era sempre raccolto in preghiera prima di dormire. è una chiara e appassionata richiesta di perdono per le "colpe" commesse dai cristiani nel corso dei secoli con i loro atteggiamenti antisemiti, che papa Roncalli intitola, significativamente, "Preghiera per gli ebrei".
Un gesto fatto quasi di istinto, sincero, scritto con grande passione e dettato da un forte desiderio di "pulizia interiore" per le colpe antiebraiche dei cristiani, che anticipa di molti anni le due storiche tappe di avvicinamento al popolo ebraico compiute da Giovanni Paolo II, la visita alla Sinagoga di Roma del 1986 e la richiesta di perdono per le colpe e le omissioni dei cristiani verso gli ebrei nell’ ambito dei mea culpa del Giubileo del 2000. E che spiega, in qualche modo, anche la nascita del testo conciliare Nostra Aetate, approvato nel 1965, con cui la Chiesa cattolica si aprì al dialogo interreligioso e cancellò l’ anacronistica accusa di deicidio con cui per circa duemila anni erano stati apostrofati tutti gli ebrei.
La Preghiera agli ebrei è un documento finora sostanzialmente inedito in Italia. Era stato pubblicato solo in parte nel 1965, due anni dopo la scomparsa di Giovanni XXIII, su un giornale olandese e brevemente accennato nello stesso anno su un periodico italiano, sembra per iniziativa di un giovane monsignore statunitense che aveva preso parte al Concilio come esperto ed era molto amico dell’ allora pontefice. Lo stesso prelato che ne aveva parlato successivamente nel corso di un incontro interconfessionale, negli Stati Uniti d’ America. Da allora, però, se ne erano perse le tracce.
Il testo giovanneo - una quindicina di righe appena - dopo circa 45 anni di sostanziale e inspiegabile oblio domani pomeriggio (alle 16,30) sarà letto integralmente in pubblico per la prima volta al monastero di Santa Cecilia, in Trastevere, a Roma, nell’ ambito del recital Roncalli legge Roncalli interpretato da un discendente di Giovanni XXIII, l’ attore Guido Roncalli che - accompagnato dal violoncellista Michele Chiapperino - presenterà una serie di documenti editi e inediti di papa Roncalli, relativi sia al suo pontificato che agli anni passati nelle nunziature apostoliche in Turchia e in Francia. Il recital è stato presentato con successo una decina di giorni fa in Vaticano alla presenza del cardinale-governatore Giovanni Lajolo. Ma senza la lettura della preghiera ebraica che domani costituirà, inevitabilmente, il momento clou dell’ incontro, che - preannuncia Guido Roncalli - «avrà un carattere e una impostazione ancora più ecumenica». Nella lettera la parola "perdono" viene evocata più volte.
Nel dirsi certo che Cristo è morto e risorto non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini, anche per gli ebrei, Giovanni XXIII chiede al Signore «di perdonarci perché per molti e molti secoli i nostri occhi erano così ciechi che non erano più capaci di vedere ancora la bellezza del Tuo popolo eletto, né di riconoscere nel volto (di tutti gli ebrei - ndr) i tratti dei nostri fratelli privilegiati...». Una espressione, quest’ ultima, che rievoca in maniera impressionante un’ altra famosa frase, quella con cui Giovanni Paolo II nel 1986 nella Sinagoga di Roma salutò gli ebrei chiamandoli «nostri fratelli maggiori».
«Perdonaci, Signore», si legge ancora nella preghiera di papa Roncalli: perdonaci per le tante "ingiustizie" subite dagli ebrei nel corso dei secoli passati e per le "colpe" commesse dai cristiani nei loro confronti. Colpe, mancanze e ingiustizie che il papa Buono accomuna, con "rammarico", al primo delitto raccontato nel primo libro della Bibbia, la Genesi, dove si parla dell’ assassinio di Abele per mano di Caino. La chiusura del testo è contrassegnata anche da un forte impatto teologico perché Giovanni XXIII si spinge a prendere quasi "in prestito" le parole con cui Gesù sul Golgota dall’ alto della croce, prima di spirare, invocò il Padre per perdonare quelli che lo stavano uccidendo. Signore, "perdonaci", conclude infatti papa Roncalli, «perché i cristiani non sapevano cosa facevano» contro gli ebrei.
«Se da un lato la recita fatta in Vaticano mi ha dato un onore immenso perché ospite del successore di Giovanni XXIII, il recital di domani - commenta Guido Roncalli - sento che sarà particolarmente calzante per la rievocazione di un pontefice sensibile al dialogo interreligioso e all’ ecumenismo, e che in punto di morte si è sentito in dovere di scrivere parole bellissime e profonde per chiedere perdono agli ebrei, come una sorta di testamento».
ORAZIO LA ROCCA
Oggi alle 18.
I cristiani pregano per il Sinodo, veglia ecumenica in piazza San Pietro
Sarà presieduta da papa Francesco. Insieme per dire Dio in tutte le lingue del mondo e sottolineare in unità con i leader della altre confessioni cristiane il dovere di puntare alla comunione
di Riccardo Maccioni (Avvenire, sabato 30 settembre 2023
Insieme, together, per dire Dio in tutte le lingue del mondo. Per abbracciare nella stessa preghiera i tanti carismi che arricchiscono la Chiesa cattolica. Per sottolineare in unità con i leader della altre confessioni cristiane il dovere di puntare alla comunione. Soprattutto per chiedere al Padre il dono dello Spirito perché guidi i lavori della XVI Assemblea generale del Sinodo dei vescovi che inizierà mercoledì prossimo per concludersi il 29 ottobre.
Oggi in piazza San Pietro è il giorno, anzi la sera di “Together”, la grande veglia che il Papa presiederà alle 18, alla presenza del patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I e dell’arcivescovo di Canterbury, il primate anglicano Justin Welby. In realtà però l’appuntamento inizia molto prima, anzi è già partito. La maggior parte dei giovani dai 18 ai 35 anni, provenienti da diversi Paesi europei e di tutte le denominazioni cristiani hanno raggiunto Roma già da ieri pomeriggio. Per loro è stato preparato un programma apposito, che prevede l’accoglienza presso le comunità e le famiglie romane, quindi stamani dalle 9 alle 11 dei “laboratori” in diverse zone di Roma e, a seguire, il pranzo al sacco, la preghiera di lode in San Giovanni in Laterano, il cammino-pellegrinaggio fino a piazza San Pietro e l’animazione con canti e musiche nell’attesa del Papa.
Gli appuntamenti “giovani” inoltre non si esauriranno con la Veglia ma proseguiranno domani mattina con la Messa nelle varie parrocchie di Roma, seguite dal pranzo. Oltre ottanta le comunità dell’Urbe che hanno aperto le loro porte ai graditissimi ospiti. Together, spiega padre Davide Carbonaro, parroco di Santa Maria in Portico in Campitelli è un evento «molto atteso», perché esprime «l’ecumenismo e la sinodalità, che trovano completezza in questa esperienza» in cui un evento «della Chiesa cattolica è preceduto da un momento di preghiera con fratelli delle altre confessioni cristiane» . «L’accoglienza - aggiunge don Stefano Cascio che guida la comunità di San Bonaventura da Bagnoregio a Torre Spaccata - rientra nel concetto che la Chiesa di Roma presiede nella carità, quindi nell’apertura all’altro».
La Veglia stessa del resto respira l’aria dell’universalità. Non a caso l’appuntamento è stato organizzato nel proprio stile dalla Comunità di Taizé, che si è avvalsa della collaborazione della Segreteria del Sinodo dei vescovi, del Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, di quello per i laici, la famiglia e la vita e del Vicariato di Roma. Giunge in questo modo a realizzarsi una proposta lanciata due anni. «All’interno della stessa Chiesa cattolica - disse nell’ottobre 2021 disse il priore di Taizé frerè Alois invitato a parlare a Roma - , il Sinodo porterà alla luce grandi diversità. Queste saranno tanto più feconde nella ricerca della comunione, non per evitare o nascondere i conflitti, ma per alimentare un dialogo che riconcilia. Per favorire questo - aggiunse Alois - , mi sembra auspicabile che nel cammino sinodale ci siano dei momenti di respiro, delle soste, per celebrare l’unità già realizzata in Cristo e renderla visibile».
E sottolineare una volta di più il carattere ecumenico della Veglia, il patriarca ortodosso Bartolomeo I guiderà la preghiera di apertura mentre l’arcivescovo Welby, introdurrà la recita del Padre Nostro. Con loro tante voci differenti legate idealmente insieme dall’impegno a superare le divisioni e a promuovere un cammino di riconciliazione. «È una gioia essere qui - sottolinea Serge Sollogoub, arciprete del Patriarcato ecumenico di Francia - perché quando succede qualcosa in una Chiesa, dobbiamo gioire con essa; il Sinodo della Chiesa cattolica è molto importante». «Questo modo di intendere i legami tra le nostre Chiese - aggiunge la pastora Anne-Laure Danet responsabile delle relazioni tra le Chiese cristiane per la Federazione protestante francese - , legami di interdipendenza, di solidarietà, è essenziale nel movimento ecumenico. E ascoltare la Parola di Dio, lasciare che lo Spirito Santo ci ispiri e ci guidi, è anche parte di questo cammino insieme».
«Taizé è un luogo di ascolto dello Spirito Santo - osserva Karin Johannesson, vescovo della Chiesa luterana di Svezia - parliamo molto nella Chiesa, ma qui vengo per ascoltare, per discernere cosa dobbiamo fare insieme. Il processo del Sinodo è anche un processo di ascolto». Roma più che mai città dialogo dunque. Ma anche scintilla di un percorso virtuoso che vedrà iniziative di preghiera collegate con l’Urbe pressoché in ogni parte del mondo. Come dire che la famiglia dei credenti in Cristo sa che l’invocazione a Dio risulta più efficace se fatta, magari in lingue differenti ma con lo stesso desiderio di unità. Se nata insieme. Together.
60° ANNIVERSARIO DELL’INIZIO DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II
SANTA MESSA
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica di San Pietro
Martedì, 11 ottobre 2022
Memoria di San Giovanni XXIII, papa
«Mi ami?». È la prima frase che Gesù rivolge a Pietro nel Vangelo che abbiamo ascoltato (Gv 21,15). L’ultima, invece, è: «Pasci le mie pecore» (v. 17). Nell’anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II sentiamo rivolte anche a noi, a noi come Chiesa, queste parole del Signore: Mi ami? Pasci le mie pecore.
1. Anzitutto: Mi ami? È un interrogativo, perché lo stile di Gesù non è tanto quello di dare risposte, ma di fare domande, domande che provocano la vita. E il Signore, che «nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi» (Dei Verbum, 2), chiede ancora, chiede sempre alla Chiesa, sua sposa: “Mi ami?”. Il Concilio Vaticano II è stato una grande risposta a questa domanda: è per ravvivare il suo amore che la Chiesa, per la prima volta nella storia, ha dedicato un Concilio a interrogarsi su sé stessa, a riflettere sulla propria natura e sulla propria missione. E si è riscoperta mistero di grazia generato dall’amore: si è riscoperta Popolo di Dio, Corpo di Cristo, tempio vivo dello Spirito Santo!
Questo è il primo sguardo da avere sulla Chiesa, lo sguardo dall’alto. Sì, la Chiesa va guardata prima di tutto dall’alto, con gli occhi innamorati di Dio. Chiediamoci se nella Chiesa partiamo da Dio, dal suo sguardo innamorato su di noi. Sempre c’è la tentazione di partire dall’io piuttosto che da Dio, di mettere le nostre agende prima del Vangelo, di lasciarci trasportare dal vento della mondanità per inseguire le mode del tempo o di rigettare il tempo che la Provvidenza ci dona per volgerci indietro. Stiamo però attenti: sia il progressismo che si accoda al mondo, sia il tradizionalismo - o l’ “indietrismo” - che rimpiange un mondo passato, non sono prove d’amore, ma di infedeltà. Sono egoismi pelagiani, che antepongono i propri gusti e i propri piani all’amore che piace a Dio, quello semplice, umile e fedele che Gesù ha domandato a Pietro.
Mi ami tu? Riscopriamo il Concilio per ridare il primato a Dio, all’essenziale: a una Chiesa che sia pazza di amore per il suo Signore e per tutti gli uomini, da Lui amati; a una Chiesa che sia ricca di Gesù e povera di mezzi; a una Chiesa che sia libera e liberante. Il Concilio indica alla Chiesa questa rotta: la fa tornare, come Pietro nel Vangelo, in Galilea, alle sorgenti del primo amore, per riscoprire nelle sue povertà la santità di Dio (cfr Lumen gentium, 8c; cap. V). Anche noi, ognuno di noi ha la propria Galilea, la Galilea del primo amore, e sicuramente anche ognuno di noi oggi è invitato a tornare alla propria Galilea per sentire la voce del Signore: “Seguimi”. E lì, per ritrovare nello sguardo del Signore crocifisso e risorto la gioia smarrita, per concentrarsi su Gesù. Ritrovare la gioia: una Chiesa che ha perso la gioia ha perso l’amore. Verso la fine dei suoi giorni Papa Giovanni scriveva: «Questa mia vita che volge al tramonto meglio non potrebbe essere risolta che nel concentrarmi tutto in Gesù, figlio di Maria... grande e continuata intimità con Gesù, contemplato in immagine: bambino, crocifisso, adorato nel Sacramento» (Giornale dell’anima, 977-978). Ecco il nostro sguardo alto, ecco la nostra sorgente sempre viva: Gesù, la Galilea dell’amore, Gesù che ci chiama, Gesù che ci domanda: “Mi ami?”.
Fratelli, sorelle, ritorniamo alle pure sorgenti d’amore del Concilio. Ritroviamo la passione del Concilio e rinnoviamo la passione per il Concilio! Immersi nel mistero della Chiesa madre e sposa, diciamo anche noi, con San Giovanni XXIII: Gaudet Mater Ecclesia! (Discorso all’apertura del Concilio, 11 ottobre 1962). La Chiesa sia abitata dalla gioia. Se non gioisce smentisce sé stessa, perché dimentica l’amore che l’ha creata. Eppure, quanti tra noi non riescono a vivere la fede con gioia, senza mormorare e senza criticare? Una Chiesa innamorata di Gesù non ha tempo per scontri, veleni e polemiche. Dio ci liberi dall’essere critici e insofferenti, aspri e arrabbiati. Non è solo questione di stile, ma di amore, perché chi ama, come insegna l’Apostolo Paolo, fa tutto senza mormorare (cfr Fil 2,14). Signore, insegnaci il tuo sguardo alto, a guardare la Chiesa come la vedi Tu. E quando siamo critici e scontenti, ricordaci che essere Chiesa è testimoniare la bellezza del tuo amore, è vivere in risposta alla tua domanda: mi ami? Non è andare come se fossimo a una veglia funebre.
2. Mi ami? Pasci le mie pecore. La seconda parola: Pasci. Gesù esprime con questo verbo l’amore che desidera da Pietro. Pensiamo proprio a Pietro: era un pescatore di pesci e Gesù lo aveva trasformato in pescatore di uomini (cfr Lc 5,10). Ora gli assegna un mestiere nuovo, quello di pastore, che non aveva mai esercitato. Ed è una svolta, perché mentre il pescatore prende per sé, attira a sé, il pastore si occupa degli altri, pasce gli altri. Di più, il pastore vive con il gregge, nutre le pecore, si affeziona a loro. Non sta al di sopra, come il pescatore, ma in mezzo. Il pastore è davanti al popolo per segnare la strada, in mezzo al popolo come uno di loro, e dietro al popolo per essere vicino a coloro che vanno in ritardo. Il pastore non sta al di sopra, come il pescatore, ma in mezzo. Ecco il secondo sguardo che ci insegna il Concilio, lo sguardo nel mezzo: stare nel mondo con gli altri e senza mai sentirci al di sopra degli altri, come servitori del più grande Regno di Dio (cfr Lumen gentium, 5); portare il buon annuncio del Vangelo dentro la vita e le lingue degli uomini (cfr Sacrosanctum Concilium, 36), condividendo le loro gioie e le loro speranze (cfr Gaudium et spes, 1). Stare in mezzo al popolo, non sopra il popolo: questo è il peccato brutto del clericalismo che uccide le pecore, non le guida, non le fa crescere, uccide. Quant’è attuale il Concilio: ci aiuta a respingere la tentazione di chiuderci nei recinti delle nostre comodità e convinzioni, per imitare lo stile di Dio, che ci ha descritto oggi il profeta Ezechiele: “andare in cerca della pecora perduta e ricondurre all’ovile quella smarrita, fasciare quella ferita e curare quella malata” (cfr Ez 34,16).
Pasci: la Chiesa non ha celebrato il Concilio per ammirarsi, ma per donarsi. Infatti la nostra santa Madre gerarchica, scaturita dal cuore della Trinità, esiste per amare. È un popolo sacerdotale (cfr Lumen gentium, 10 ss.): non deve risaltare agli occhi del mondo, ma servire il mondo. Non dimentichiamolo: il Popolo di Dio nasce estroverso e ringiovanisce spendendosi, perché è sacramento di amore, «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Lumen gentium, 1). Fratelli e sorelle, torniamo al Concilio, che ha riscoperto il fiume vivo della Tradizione senza ristagnare nelle tradizioni; che ha ritrovato la sorgente dell’amore non per rimanere a monte, ma perché la Chiesa scenda a valle e sia canale di misericordia per tutti. Torniamo al Concilio per uscire da noi stessi e superare la tentazione dell’autoreferenzialità, che è un modo di essere mondano. Pasci, ripete il Signore alla sua Chiesa; e pascendo, supera le nostalgie del passato, il rimpianto della rilevanza, l’attaccamento al potere, perché tu, Popolo santo di Dio, sei un popolo pastorale: non esisti per pascere te stesso, per arrampicarti, ma per pascere gli altri, tutti gli altri, con amore. E, se è giusto avere un’attenzione particolare, sia per i prediletti di Dio cioè i poveri, gli scartati (cfr Lumen gentium, 8c; Gaudium et spes, 1); per essere, come disse Papa Giovanni, «la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri» (Radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo a un mese dal Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 settembre 1962).
3. Mi ami? Pasci - conclude il Signore - le mie pecore. Non intende solo alcune, ma tutte, perché tutte ama, tutte chiama affettuosamente “mie”. Il buon Pastore vede e vuole il suo gregge unito, sotto la guida dei Pastori che gli ha dato. Vuole - terzo sguardo - lo sguardo d’insieme: tutti, tutti insieme. Il Concilio ci ricorda che la Chiesa, a immagine della Trinità, è comunione (cfr Lumen gentium, 4.13). Il diavolo, invece, vuole seminare la zizzania della divisione. Non cediamo alle sue lusinghe, non cediamo alla tentazione della polarizzazione. Quante volte, dopo il Concilio, i cristiani si sono dati da fare per scegliere una parte nella Chiesa, senza accorgersi di lacerare il cuore della loro Madre! Quante volte si è preferito essere “tifosi del proprio gruppo” anziché servi di tutti, progressisti e conservatori piuttosto che fratelli e sorelle, “di destra” o “di sinistra” più che di Gesù; ergersi a “custodi della verità” o a “solisti della novità”, anziché riconoscersi figli umili e grati della santa Madre Chiesa. Tutti, tutti siamo figli di Dio, tutti fratelli nella Chiesa, tutti Chiesa, tutti. Il Signore non ci vuole così: noi siamo le sue pecore, il suo gregge, e lo siamo solo insieme, uniti. Superiamo le polarizzazioni e custodiamo la comunione, diventiamo sempre più “una cosa sola”, come Gesù ha implorato prima di dare la vita per noi (cfr Gv 17,21). Ci aiuti in questo Maria, Madre della Chiesa. Accresca in noi l’anelito all’unità, il desiderio di impegnarci per la piena comunione tra tutti i credenti in Cristo. Lasciamo da parte gli “ismi”: al popolo di Dio non piace questa polarizzazione. Il popolo di Dio è il santo popolo fedele di Dio: questa è la Chiesa. È bello che oggi, come durante il Concilio, siano con noi rappresentanti di altre Comunità cristiane. Grazie! Grazie per essere venuti, grazie per questa presenza.
Ti rendiamo grazie, Signore, per il dono del Concilio. Tu che ci ami, liberaci dalla presunzione dell’autosufficienza e dallo spirito della critica mondana. Liberaci dell’autoesclusione dall’unità. Tu, che ci pasci con tenerezza, portaci fuori dai recinti dell’autoreferenzialità. Tu, che ci vuoi gregge unito, liberaci dall’artificio diabolico delle polarizzazioni, degli “ismi”. E noi, tua Chiesa, con Pietro e come Pietro ti diciamo: “Signore, tu sai tutto; tu sai che noi ti amiamo” (cfr Gv 21,17).
* Fonte: Vatican.va, Martedì, 11 ottobre 2022 (ripresa parziale).
IL REGNO DELLE DONNE
Ventitré uditrici per una Chiesa “maestra in umanità”
di Marinella Perroni (Il Regno, 09/12/2017)
Dal punto di vista della storia delle donne si può dire che il concilio Vaticano II ha avuto un “prima” e un “dopo”. Lo spartiacque lo hanno segnato, durante la congregazione generale LIII, le parole con le quali l’arcivescovo di Bruxelles, il card. Leo-Joseph Suenens, esprimeva il votum di invitare al Concilio, oltre a uditori maschi, anche l’altra parte dell’umanità.
Quando l’arcivescovo Pietro Fiordelli, prendendo la parola in assemblea disse: «Venerabiles patres, dilecti fratres et sorores», risultò chiaro che qualcosa ormai era cambiato. Era la III sessione del Concilio e, sia pure marginalmente, la breccia era stata aperta: nella tribuna Sant’Andrea, oltre ad altri uditori maschi, era presente anche un manipolo di ventitré sorores, dieci religiose e tredici laiche, rigorosamente tenute alla stretta osservanza dell’interdizione paolina alle donne di Corinto affinché tacessero durante le assemblee liturgiche.
Mute, almeno in assemblea, ma per la prima volta realmente presenti nel momento più alto dell’esercizio della comunione e, quindi, dell’autorità ecclesiale.
La sproporzione numerica, dato che all’inizio della III sessione erano ancora soltanto 15 a fronte di più di 2500 vescovi, rende bene l’idea di una Chiesa che, alle migliori intenzioni di definirsi secondo quella che è stata felicemente chiamata un’“ecclesiologia di comunione”, opponeva il dato di fatto di una plurisecolare esclusione delle donne da ogni forma di esercizio di autorità.
Era del resto molto diffusa tra i padri conciliari l’incapacità di intercettare almeno alcuni dei segnali che, da tempo ormai, attestavano che dal movimento delle donne aveva preso le mosse una rivoluzione profonda che avrebbe contribuito, lentamente ma inesorabilmente, a mettere in crisi i molti modi in cui l’ideologia patriarcale aveva stabilito assetti sociali fortemente asimmetrici e, sempre, a spese delle donne.
Alcuni dei vescovi presenti al Concilio avevano fatto direttamente esperienza della dedizione, ma anche delle competenze con cui tante credenti si mettevano a servizio delle loro Chiese. E per questo avevano appoggiato con forza la richiesta di Suenens. La maggioranza oscillava invece tra una malcelata indifferenza e un’aperta ostilità. Tutti, d’altra parte, erano figli di una teologia di genere tanto incline all’esaltazione del femminile quanto saldamente ferma nell’esclusione delle donne.
Non poteva certo essere quello sparuto gruppetto costretto al silenzio a ribaltare una situazione che gettava le sue radici in un passato molto lontano e che continuava a produrre i suoi frutti di emarginazione ancora a quasi due millenni di distanza. Come Paolo VI aveva osservato, la loro presenza aveva un carattere unicamente simbolico. Più ancora delle parole, però, i simboli depositano nella storia la forza della loro virtualità. Non nascono infatti mai dal nulla e, più di quanto si creda, alimentano germi di novità.
Quel “simbolo”, del resto, era radicato nelle diverse Chiese nazionali e continentali in cui quasi tutte quelle ventitré donne rivestivano ruoli importanti, alcune nelle loro congregazioni religiose, altre in diverse associazioni laicali. Come d’uso, non c’era di loro alcuna traccia nelle narrazioni ufficiali e, forse, neppure nella consapevolezza di molti vescovi dell’epoca, che continuavano a pensare che la Chiesa fosse nella realtà quello che era stato stabilito dovesse essere per principio, cioè animata e guidata unicamente da uomini. La realtà non era questa già allora né, tanto meno, lo è oggi. Quel “simbolo” diceva chiaramente che il mondo era cambiato e imponeva anche alla Chiesa di cambiare.
Le parole con cui Margarita Moyano, la più giovane delle uditrici al Concilio, suggellava quell’esperienza straordinaria prendono oggi, a più di cinquant’anni di distanza, il sapore di una profezia: «A Roma le donne vanno sempre alla fine. È importante, però, che alla fine vadano». Anche per restare solo al nostro paese, infatti, dal 1965 a oggi la presenza delle donne nelle Facoltà Teologiche italiane e perfino nelle Pontificie Facoltà romane è stata un fenomeno crescente e, soprattutto, significativo. Nonostante resistenze e ritardi, una corrente sotterranea contribuisce a precisare i lineamenti della Chiesa uscita dal Vaticano II.
In un tempo come il nostro, in cui si fa un gran parlare di riforme, qualcuno sostiene che la Chiesa cattolica non può riformarsi altro che grazie a eventi del tutto straordinari come quello che ha visto come protagonista Lutero e, in questa ottica, anche il Vaticano II non sarebbe che un episodio del tutto insignificante. A cinquecento anni dall’inizio della guerra dei trent’anni, forse sarebbe il caso riflettere un po’ a fondo sull’importanza che le riforme ecclesiali non cadano preda di prìncipi e imperatori e la Chiesa semper reformanda sia l’unica protagonista del proprio cammino di riforme. Mai, però, al di fuori del mondo e della sua storia.
La Chiesa ha saputo riformare se stessa tutte le volte che è stata in grado di intercettare le grandi mutazioni storiche e di interpretarle alla luce della fede nella rivelazione di Dio. Il femminismo ha fatto da vettore a una di queste grandi mutazioni perché è una vera e propria rivoluzione, strutturale, profonda, che cambia il panorama dell’umano. Una rivoluzione che avanza ormai da più di un secolo senza portare con sé né guerre né fame né lutti.
Fa sorridere che le femministe siano state accusate di violenza solo perché, per cambiare uno status quo oppressivo, hanno levato le loro voci e non hanno mai sparato né con fucili né con cannoni! Saprà la Chiesa, che Paolo VI definì “maestra in umanità”, accettare la rivoluzione femminista che la invita a prendere piena consapevolezza della verità dell’umano?
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E ANTROPOLOGIA.
MEMORIA DELLA MONARCHIA DEI #DUESOLI (#DANTE2021) E STORIA DELLA LOTTA "COSMOTEANDRICA" TRA PAPA (guelfi) E IMPERATORE (ghibellini).
RINASCIMENTO E #COSMOLOGIA. Dante all’inferno per Giovanni XXII e Buffalmacco (https://www.artribune.com/arti-visive/archeologia-arte-antica/2022/02/professoressa-normale-dante-alighieri-affresco-pisano-trecento/ ) ....
Oggi, si continua a parlare di Sole-Luna ma si ignora non solo la cosmologia della relatività di Galileo Galilei e Albert Einstein, ma anche la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo (1948), la Costituzione della Repubblica italiana (1948), la "Pacem In Terris" dfi Giovanni XXIII (1963), ma anche lo stesso #sorgeredellaTerra (https://it.wikipedia.org/wiki/Sorgere_della_Terra), dell’Earthrise (24 dicembre 1968)!
Federico La Sala
QUESTIONE ANTROPOLOGICA E AUTOANALISI ISTITUZIONALE.
PER L’APERTURA DEL SINODO SULLA SINODALITÀ,
UN INVITO E UNA SOLLECITAZIONE
DI PAPA FRANCESCO
A TUTTA LA CHIESA CATTOLICA (E NON SOLO):
"[...] Chiediamoci, con sincerità, in questo itinerario sinodale: come stiamo con l’ascolto? Come va “l’udito” del nostro cuore? Permettiamo alle persone di esprimersi, di camminare nella fede anche se hanno percorsi di vita difficili, di contribuire alla vita della comunità senza essere ostacolate, rifiutate o giudicate?
Fare Sinodo è porsi sulla stessa via del Verbo fatto uomo: è seguire le sue tracce, ascoltando la sua Parola insieme alle parole degli altri. È scoprire con stupore che lo Spirito Santo soffia in modo sempre sorprendente, per suggerire percorsi e linguaggi nuovi. È un #esercizio lento, forse faticoso, per imparare ad ascoltarci a vicenda - vescovi, preti, religiosi e laici, tutti, tutti i battezzati - evitando risposte artificiali e superficiali, risposte prêt-à-porter, no.
Lo Spirito ci chiede di metterci in ascolto delle domande, degli affanni, delle speranze di ogni Chiesa, di ogni popolo e nazione. E anche in ascolto del mondo, delle sfide e dei cambiamenti che ci mette davanti. Non insonorizziamo il cuore, non blindiamoci dentro le nostre certezze. Le certezze tante volte ci chiudono [...] " (cfr. IL TESTO INTEGRALE DELL’OMELIA DELLA MESSA DI APERTURA DEL SINODO)
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL’INCONTRO PROMOSSO DALL’UFFICIO CATECHISTICO NAZIONALE
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
Cari fratelli e sorelle,
vi do il benvenuto e ringrazio il Card. Bassetti per le sue cortesi parole. Ha ripreso le forze, grazie! Saluto il Segretario Generale, Mons. Russo, e tutti voi, che sostenete l’impegno della Chiesa italiana nell’ambito della catechesi. Sono contento di condividere con voi il ricordo del 60° anniversario della nascita dell’Ufficio Catechistico Nazionale. Istituito ancora prima della configurazione della Conferenza episcopale, esso è stato strumento indispensabile per il rinnovamento catechetico dopo il Concilio Vaticano II. Questa ricorrenza è un’occasione preziosa per fare memoria, rendere grazie dei doni ricevuti e rinnovare lo spirito dell’annuncio.
A questo scopo, vorrei condividere tre punti che spero possano aiutarvi nei lavori dei prossimi anni.
Il primo: catechesi e kerygma. La catechesi è l’eco della Parola di Dio. Nella trasmissione della fede la Scrittura - come ricorda il Documento di Base - è «il Libro; non un sussidio, fosse pure il primo» (CEI, Il rinnovamento della catechesi, n. 107). La catechesi è dunque l’onda lunga della Parola di Dio per trasmettere nella vita la gioia del Vangelo. Grazie alla narrazione della catechesi, la Sacra Scrittura diventa “l’ambiente” in cui sentirsi parte della medesima storia di salvezza, incontrando i primi testimoni della fede. La catechesi è prendere per mano e accompagnare in questa storia. Suscita un cammino, in cui ciascuno trova un ritmo proprio, perché la vita cristiana non appiattisce né omologa, ma valorizza l’unicità di ogni figlio di Dio. La catechesi è anche un percorso mistagogico, che avanza in costante dialogo con la liturgia, ambito in cui risplendono simboli che, senza imporsi, parlano alla vita e la segnano con l’impronta della grazia.
Il cuore del mistero è il kerygma, e il kerygma è una persona: Gesù Cristo. La catechesi è uno spazio privilegiato per favorire l’incontro personale con Lui. Perciò va intessuta di relazioni personali. Non c’è vera catechesi senza la testimonianza di uomini e donne in carne e ossa. Chi di noi non ricorda almeno uno dei suoi catechisti? Io lo ricordo: ricordo la suora che mi ha preparato alla prima Comunione e mi ha fatto tanto bene. I primi protagonisti della catechesi sono loro, messaggeri del Vangelo, spesso laici, che si mettono in gioco con generosità per condividere la bellezza di aver incontrato Gesù.
«Chi è il catechista? È colui che custodisce e alimenta la memoria di Dio; la custodisce in sé stesso - è un “memorioso” della storia della salvezza - e la sa risvegliare negli altri. È un cristiano che mette questa memoria al servizio dell’annuncio; non per farsi vedere, non per parlare di sé, ma per parlare di Dio, del suo amore, della sua fedeltà» (Omelia per la giornata dei catechisti nell’Anno della Fede, 29 settembre 2013).
Per fare questo, è bene ricordare «alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa - tu sei amato, tu sei amata, questo è il primo, questa è la porta -, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà - come faceva Gesù -, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, e un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio - e quali sono queste disposizioni che ogni catechista deve avere? -: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 165). Gesù aveva questo. È l’intera geografia dell’umanità che il kerygma, bussola infallibile della fede, aiuta a esplorare.
E su questo punto - il catechista - riprendo una cosa che va detta anche ai genitori, ai nonni: la fede va trasmessa “in dialetto”. Un catechista che non sa spiegare nel “dialetto” dei giovani, dei bambini, di coloro che... Ma con il dialetto non mi riferisco a quello linguistico, di cui l’Italia è tanto ricca, no, al dialetto della vicinanza, al dialetto che possa capire, al dialetto dell’intimità. A me tocca tanto quel passo dei Maccabei, dei sette fratelli (2 Mac 7). Per due o tre volte si dice che la mamma li sosteneva parlando loro in dialetto [“nella lingua dei padri”]. È importante: la vera fede va trasmessa in dialetto. I catechisti devono imparare a trasmetterla in dialetto, cioè quella lingua che viene dal cuore, che è nata, che è proprio la più familiare, la più vicina a tutti. Se non c’è il dialetto, la fede non è tramessa totalmente e bene.
Il secondo punto: catechesi e futuro. L’anno scorso ricorreva il 50° anniversario del documento Il rinnovamento della catechesi, con cui la Conferenza Episcopale Italiana recepiva le indicazioni del Concilio. Al riguardo, faccio mie le parole di San Paolo VI, rivolte alla prima Assemblea Generale della CEI dopo il Vaticano II: «Dobbiamo guardare al Concilio con riconoscenza a Dio e con fiducia per l’avvenire della Chiesa; esso sarà il grande catechismo dei tempi nuovi» (23 giugno 1966). E tornando sul tema, in occasione del primo Congresso Catechistico Internazionale, egli aggiungeva: «È un compito che incessantemente rinasce e incessantemente si rinnova per la catechesi l’intendere questi problemi che salgono dal cuore dell’uomo, per ricondurli alla loro sorgente nascosta: il dono dell’amore che crea e che salva» (25 settembre 1971). Pertanto, la catechesi ispirata dal Concilio è continuamente in ascolto del cuore dell’uomo, sempre con l’orecchio teso, sempre attenta a rinnovarsi.
Questo è magistero: il Concilio è magistero della Chiesa. O tu stai con la Chiesa e pertanto segui il Concilio, e se tu non segui il Concilio o tu l’interpreti a modo tuo, come vuoi tu, tu non stai con la Chiesa. Dobbiamo in questo punto essere esigenti, severi. Il Concilio non va negoziato, per avere più di questi... No, il Concilio è così. E questo problema che noi stiamo vivendo, della selettività rispetto al Concilio, si è ripetuto lungo la storia con altri Concili.
A me fa pensare tanto un gruppo di vescovi che, dopo il Vaticano I, sono andati via, un gruppo di laici, dei gruppi, per continuare la “vera dottrina” che non era quella del Vaticano I: “Noi siamo i cattolici veri”. Oggi ordinano donne. L’atteggiamento più severo, per custodire la fede senza il magistero della Chiesa, ti porta alla rovina.
Per favore, nessuna concessione a coloro che cercano di presentare una catechesi che non sia concorde al magistero della Chiesa.
Come nel dopo-Concilio la Chiesa italiana è stata pronta e capace nell’accogliere i segni e la sensibilità dei tempi, così anche oggi è chiamata ad offrire una catechesi rinnovata, che ispiri ogni ambito della pastorale: carità, liturgia, famiglia, cultura, vita sociale, economia... Dalla radice della Parola di Dio, attraverso il tronco della sapienza pastorale, fioriscono approcci fruttuosi ai vari aspetti della vita. La catechesi è così un’avventura straordinaria: come “avanguardia della Chiesa” ha il compito di leggere i segni dei tempi e di accogliere le sfide presenti e future. Non dobbiamo aver paura di parlare il linguaggio delle donne e degli uomini di oggi. Di parlare il linguaggio fuori dalla Chiesa, sì, di questo dobbiamo avere paura. Non dobbiamo avere paura di parlare il linguaggio della gente. Non dobbiamo aver paura di ascoltarne le domande, quali che siano, le questioni irrisolte, ascoltare le fragilità, le incertezze: di questo, non abbiamo paura. Non dobbiamo aver paura di elaborare strumenti nuovi: negli anni settanta il Catechismo della Chiesa Italiana fu originale e apprezzato; anche i tempi attuali richiedono intelligenza e coraggio per elaborare strumenti aggiornati, che trasmettano all’uomo d’oggi la ricchezza e la gioia del kerygma, e la ricchezza e la gioia dell’appartenenza alla Chiesa.
Terzo punto: catechesi e comunità. In questo anno contrassegnato dall’isolamento e dal senso di solitudine causati dalla pandemia, più volte si è riflettuto sul senso di appartenenza che sta alla base di una comunità. Il virus ha scavato nel tessuto vivo dei nostri territori, soprattutto esistenziali, alimentando timori, sospetti, sfiducia e incertezza. Ha messo in scacco prassi e abitudini consolidate e così ci provoca a ripensare il nostro essere comunità. Abbiamo capito, infatti, che non possiamo fare da soli e che l’unica via per uscire meglio dalle crisi è uscirne insieme - nessuno si salva da solo, uscirne insieme -, riabbracciando con più convinzione la comunità in cui viviamo. Perché la comunità non è un agglomerato di singoli, ma la famiglia in cui integrarsi, il luogo dove prendersi cura gli uni degli altri, i giovani degli anziani e gli anziani dei giovani, noi di oggi di chi verrà domani. Solo ritrovando il senso di comunità, ciascuno potrà trovare in pienezza la propria dignità.
La catechesi e l’annuncio non possono che porre al centro questa dimensione comunitaria. Non è il momento per strategie elitarie. La grande comunità: qual è la grande comunità? Il santo popolo fedele di Dio. Non si può andare avanti fuori del santo popolo fedele di Dio, il quale - come dice il Concilio - è infallibile in credendo. Sempre con il santo popolo di Dio. Invece, cercare appartenenze elitarie ti allontana dal popolo di Dio, forse con formule sofisticate, ma tu perdi quell’appartenenza alla Chiesa che è il santo popolo fedele di Dio.
Questo è il tempo per essere artigiani di comunità aperte che sanno valorizzare i talenti di ciascuno. È il tempo di comunità missionarie, libere e disinteressate, che non cerchino rilevanza e tornaconti, ma percorrano i sentieri della gente del nostro tempo, chinandosi su chi è al margine. È il tempo di comunità che guardino negli occhi i giovani delusi, che accolgano i forestieri e diano speranza agli sfiduciati. È il tempo di comunità che dialoghino senza paura con chi ha idee diverse. È il tempo di comunità che, come il Buon Samaritano, sappiano farsi prossime a chi è ferito dalla vita, per fasciarne le piaghe con compassione. Non dimenticatevi questa parola: compassione. Quante volte, nel Vangelo, di Gesù si dice: “Ed ebbe compassione”, “ne ebbe compassione”.
Come ho detto al Convegno ecclesiale di Firenze, desidero una Chiesa «sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. [...] Una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza». Quanto riferivo allora all’umanesimo cristiano vale anche per la catechesi: essa «afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria, l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura» (Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa italiana, Firenze, 10 novembre 2015).
Ho menzionato il Convegno di Firenze. Dopo cinque anni, la Chiesa italiana deve tornare al Convengo di Firenze, e deve incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi: anche questo processo sarà una catechesi. Nel Convegno di Firenze c’è proprio l’intuizione della strada da fare in questo Sinodo. Adesso, riprenderlo: è il momento. E incominciare a camminare.
Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per quanto fate. Vi invito a continuare a pregare e a pensare con creatività a una catechesi centrata sul kerygma, che guardi al futuro delle nostre comunità, perché siano sempre più radicate nel Vangelo, comunità fraterne e inclusive. Vi benedico, vi accompagno. E voi, per favore, pregate per me, ne ho bisogno. Grazie!
* Fonte: Vatican.va, 30.01.2021.
Il concilio di Albino Luciani
A quarantadue anni dall’elezione di Giovanni Paolo I
di Andrea Tornielli (L’Osservatore Romano, 26 agosto 2020)
La sera di 42 anni fa si affacciava sorridente dalla Loggia centrale della basilica di San Pietro il successore di Papa Paolo VI. Albino Luciani, patriarca di Venezia, il 26 agosto 1978 venne eletto al quarto scrutinio assumendo il doppio nome di Giovanni Paolo, in ossequio ai suoi immediati predecessori, Roncalli e Montini. Il primo l’aveva voluto vescovo di Vittorio Veneto includendolo così tra i padri del Concilio, il secondo l’aveva trasferito a Venezia e creato cardinale. Quella calda sera d’estate nessuno poteva immaginare che il pontificato di Giovanni Paolo I, mite e umile pastore veneto con origini montanare, sarebbe stato tra i più brevi della storia. Quarantadue anni dopo quell’evento, in un tempo in cui il concilio ecumenico Vaticano II è oggetto di attacchi e di critiche, è significativo ricordare Luciani attraverso alcune sue parole scritte quando era vescovo e padre conciliare, per spiegare ai fedeli della sua diocesi ciò che stava accadendo a Roma.
Contro il diffuso pessimismo
Nella fase preparatoria Luciani non fa mancare il suo parere scritto. Nel suo voto il vescovo di Vittorio Veneto auspica che il futuro Concilio metta in luce «l’ottimismo cristiano» insito nell’insegnamento del Risorto, contro «il diffuso pessimismo» della cultura relativistica, denunciando una sostanziale ignoranza delle «cose elementari della fede». Luciani parte per Roma, partecipa alle sessioni del concilio, ascolta con attenzione i dibattiti. Non prende mai la parola ma scrive pagine e pagine di appunti. Rilegge Antonio Rosmini, studia a fondo molti teologi, tra i quali Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar. Scrive spesso ai fedeli della sua diocesi, li tiene aggiornati sui risultati del concilio e spiega argomenti delicati con il consueto stile didascalico e catechistico, evitando però, allo stesso tempo, le semplificazioni eccessive. Il vescovo Luciani indica subito quello che ai suoi occhi sarà l’attore principale del Concilio: «Lo Spirito Santo, presente ai lavori colla sua assistenza a impedire errori e deviazioni dottrinali». Un’assistenza, scrive, che andrà ai membri del concilio collettivamente come a «capi-Chiesa, non come a uomini singoli» che «rimarranno uomini col loro temperamento».
Un’esperienza di Chiesa universale
In un messaggio per la giornata missionaria, datato 14 ottobre 1963, Luciani informa i suoi diocesani che sta toccando le missioni nelle persone dei vescovi convenuti da ogni parte del mondo. E infatti scrive: «Nell’aula conciliare, basta ch’io alzi gli occhi sulle gradinate che mi stanno davanti. Son là: le barbe dei vescovi missionari, le facce nere degli africani, gli zigomi sporgenti degli asiatici. E basta ch’io scambi con essi qualche parola; s’aprono davanti visioni e bisogni, di cui, da noi, non s’ha neppur l’idea». Conclusosi il primo periodo conciliare, Luciani ritorna a casa insieme al suo «vicino di banco», Charles Msakila, vescovo di Karema (Tanganika), suo ospite per alcuni giorni: un gesto di attenzione, ma anche un modo per far respirare alla diocesi la dimensione dell’universalità della Chiesa. L’impeto missionario emerge anche dalle parole che il vescovo di Vittorio Veneto dedica a Papa Giovanni, celebrando nel giugno 1963 una messa di suffragio per il Pontefice appena defunto. «L’idea di Papa Giovanni, che più ha colpito il mio spirito, è questa: Ecclesia Christi lumen gentium! La Chiesa deve far chiaro non solo ai cattolici, ma a tutti; essa è di tutti, bisogna cercare di avvicinarla a tutti».
Riforma liturgica
Due assaggi, dagli scritti del vescovo Luciani, per comprendere come il futuro Papa guardasse ad alcuni dei temi cruciali del concilio. Il primo riguarda la liturgia. «Durante la prima sessione del Concilio - scrive Luciani - il grande problema, circa la Messa, è stato: quali aiuti offrire ai fedeli, perché ricavino il massimo frutto possibile da questo, che è “il punto culminante della vita cristiana?”. Un primo aiuto, è stato detto, venga dalla Bibbia. La Bibbia è parola di Dio; è straordinaria nel creare un clima di giusta e fervida religiosità... La lettura dell’epistola e del Vangelo sia fatta direttamente in italiano, quando alla Messa assistono i fedeli, e sia messa più in risalto... Un secondo aiuto è l’uso della lingua italiana. Alla prima sessione del Concilio ben 81 vescovi hanno chiesto per la liturgia l’uso della lingua materna. Altri vescovi erano timorosi... Altri fecero notare che la Chiesa, in passato, ha più volte cambiato lingua, adattandosi alla lingua del popolo. Gesù stesso parlò e pregò non in ebraico, lingua nazionale della Palestina, ma in aramaico, lingua del popolo... Un terzo aiuto consiste nel semplificare i riti della Messa. Per essere sinceri, alcuni riti, nel corso dei secoli, si sono accavallati, altri non sono capiti dal popolo di oggi, altri, per essere capiti, richiedono complicate spiegazioni. Un rito - s’è detto al Concilio - non dev’essere una cosa, su cui parlare e spiegare, ma una cosa che parla e spiega di per sé; in ogni caso, non imponiamo ai fedeli inutili difficoltà!... Un quarto aiuto consiste nel promuovere e rendere facile la partecipazione dei fedeli».
Libertà religiosa
Uno degli argomenti più delicati e complessi affrontato dal concilio fu quello della libertà religiosa. Per Luciani fu un cambiamento significativo rispetto agli insegnamenti del seminario. Ecco come il vescovo di Vittorio Veneto spiega quel momento: «Tutti siamo d’accordo che c’è una sola vera religione... Ma, detto questo, ci sono anche altre cose che sono giuste e bisogna dirle. Cioè, chi non è convinto dal cattolicesimo ha il diritto di professare la sua religione per più motivi. Il diritto naturale dice che ciascuno ha il diritto di cercare la verità. Ora guardate che la verità, specialmente religiosa, non si può cercarla chiudendosi in una stanza e leggendo qualche libro. La si cerca seriamente parlando con gli altri, consultandosi... Non abbiate paura di dare uno schiaffo alla verità quando date a una persona il diritto di usare della sua libertà».
Rispettare i diritti dei non cattolici
Scrive ancora il vescovo Luciani: «Se uno ha coscienza che quella è la sua religione ha il diritto di tenersela, di manifestarla e di farne propaganda. Si deve giudicare buona la propria religione, ma anche quella degli altri. La scelta della religione deve essere libera; quanto più è libera e convinta, tanto più chi l’abbraccia se ne sente onorato. Questi sono i diritti, i diritti naturali. Ora, non c’è un diritto al quale non corrisponda anche un dovere. I non cattolici hanno il diritto di professare la loro religione, e io ho il dovere di rispettare il loro diritto: io privato, io prete, io vescovo, io Stato».
Fate meglio il catechismo
Infine, negli scritti di Luciani padre conciliare si ritrovano anche queste parole di notevole attualità nel rapporto con i credenti di altre fedi. Nonostante siano state scritte 56 anni fa, colgono ancora nel segno e appaiono in sintonia con la frase di Benedetto XVI frequentemente citata dal suo successore Francesco: «La Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione». E dunque di fronte alla presenza delle altre fedi religiose, non sono certo i divieti a professarle o l’arroccamento difensivo a mantenere in vita il cristianesimo. La fede cristiana esiste e si diffonde se ci sono cristiani che la vivono e la testimoniano attraverso la loro vita.
«Qualche
vescovo - scrive Albino Luciani - si è spaventato: ma allora domani vengono i buddisti e fanno la loro propaganda a Roma, vengono a convertire l’Italia. Oppure ci sono quattromila musulmani a Roma: hanno diritto di costruirsi una moschea. Non c’è niente da dire: bisogna lasciarli fare. Se volete che i vostri figli non si facciano buddisti o non diventino musulmani, dovete fare meglio il catechismo, fare in modo che siano veramente convinti della loro religione cattolica».
Oggi sarà una giornata eccezionale
Nel ricordo di un testimone *
di L’Osservastore Romano, 24 gennaio 2019
Uno dei pochi testimoni ancora in vita è Guido Gusso - in quel periodo “aiutante di camera” del Papa - che accompagnò Giovanni XXIII a San Paolo e assistette allo storico annuncio.
Ci racconta cosa è successo quel giorno?
Ricordo proprio bene quel giorno, il 25 gennaio 1959. Ho dato una mano al Santo Padre a mettersi i paramenti, cioè il rocchetto e la mozzetta. E lui mi ha detto: «Guido, prendi il rocchetto più bello perché oggi sarà una giornata eccezionale, ché dovrò dare un grande annuncio». Allora ho messo a posto tutto, il mantello rosso, il cappello rosso e siamo scesi per prendere l’auto.
Guidava lei?
La portava il cavalier Angelo Stoppa, che era l’autista di Papa Pacelli. Durante il percorso, il Papa si era come assorto, non parlava. Normalmente, lui parlava sempre... ma quel giorno, quella mattina, tutto in silenzio. Siamo arrivati a San Paolo, c’è stata la cerimonia, e poi ha invitato tutti i cardinali ad andare nella “saletta”, una piccola aula. E là mi sono fermato anch’io, perché avevo il cappello, il mantello e la borsa. E lui ha annunciato che avrebbe fatto un sinodo, il Sinodo romano, che il Sinodo sarebbe quello per i preti. Già a Venezia l’aveva fatto, perché io stavo a Venezia con lui. Poi, dopo aver parlato un po’ del Sinodo disse: «Vi debbo dare un grande annuncio: indirò un Concilio». Al momento c’è stato un «ohhhhh!», e poi un silenzio di tomba. Nessuno ha più parlato. E poi c’è stato un brontolio generale... Lui ha spiegato... e poi ha detto anche che doveva fare un’altra cosa...
La riforma del Codice.
La riforma del Codice, ecco. Ha spiegato un po’, e tutti sono andati via, ognuno per conto suo. Il Papa è salito in macchina, serio. E disse: «Non l’hanno presa bene: questa cosa del Concilio a nessuno gli garbava». E basta. Poi siamo tornati a casa. Allora, in camera da letto, mentre si levava il rocchetto, la mozzetta e tutti i paramenti che aveva addosso, io gli chiesi: «Santità, io sono ignorante, non so che cosa sia questo Concilio». «Eh - diceva - come non lo sai?». «No - dissi - ma mi consola che quel cardinale che stava vicino a me ha chiesto al suo collega: “Di’ un po’, ma che è ‘st’affare del Concilio, che non so che cosa sia?”». Allora lui, con pazienza, mi ha fatto sedere nel suo studio e mi ha spiegato i Concili, incominciando dai primi Concili che facevano all’epoca, mi pare secondo o terzo secolo, per arrivare poi al Concilio di Trento e all’ultimo, il concilio Vaticano I, che poi è stato sospeso, perché c’è stata la presa di Roma con Pio IX.
Quindi, alla fine, quel giorno lui era contento o no?
Era contento, altroché contento! È stata un’ispirazione, diceva: «È ora che la Chiesa si modernizzi, con i tempi moderni che abbiamo. Perché noi siamo ancora ancorati al Concilio di Trento. Pertanto la Chiesa si deve rinnovare, si deve adattare ai tempi». Questo era quello che voleva.
E si è meravigliato della reazione dei cardinali?
No... Lo sapeva... Mi ha detto: «Già incominciano a tirarmi le pietre. Stai attento, tu, nella vita ti può capitare come capita a me, che mi tirano i sassi. Non raccattarli, eh?». Era buono, era buono. E posso dire, dopo sessant’anni ci voleva un argentino come Francesco per valorizzare e dare impulso al grande Concilio fatto. È stato grande Paolo VI che l’ha portato avanti, perché credo che chiunque altro avrebbe messo da parte tutto.
Cos’altro disse durante il viaggio di ritorno in Vaticano?
Non ha detto «a»; non ha detto «a». Solo qualche parola con monsignor Capovilla. Però, posso dire che lui per il Concilio ha dato la vita. Poi, l’11 ottobre è stato grandioso: l’apertura, era contento! Lui sperava di poterlo anche chiudere. Purtroppo è morto, per un brutto male. Ha sofferto molto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
Federico La Sala
50 anni dopo
Il Sessantotto. Agostino Giovagnoli (storico): “Profondo legame con il Concilio che ne ha anticipato alcuni tratti”
I legami tra Concilio Vaticano II e Sessantotto sono più profondi di quanto si sia portati a ritenere. Il Concilio ha infatti "preparato" in certa misura il terreno al grande movimento di contestazione. Intervista a tutto campo con lo storico Agostino Giovagnoli
diGiovanna Pasqualin Traversa (Agenzia SIR, 26 aprile 2018)
Gli anni Settanta hanno rappresentato un passaggio cruciale nella vita della Chiesa in Italia. Sono gli anni della recezione del Concilio e sono al tempo stesso attraversati da tensioni e polarizzazioni legate al Sessantotto. Fede e politica intrecciate fra loro? Se sì su quali premesse e con quali sviluppi? Lo abbiamo chiesto ad Agostino Giovagnoli, docente di storia contemporanea all’Università cattolica di Milano
Fra le trasformazioni della Chiesa cattolica legate al Vaticano II e gli eventi del ‘68 c’è stato un intreccio?
Sì; più profondo, soprattutto in Italia, di quanto abitualmente si ritenga.
La contestazione del 1968 si è intersecata in modi diversi con un’evoluzione del mondo cattolico italiano già in corso da tempo.
Non è strettamente sul livello politico che si è sviluppato l’influsso del Concilio sulla società e sulle sue trasformazioni. Il Concilio ha in realtà toccato questioni di grande rilievo, ha aperto una riflessione di fondo sull’organizzazione istituzionale della Chiesa cattolica all’interno di un’ampia trasformazione della società europea e occidentale che stava mettendo in discussione le proprie istituzioni ecclesiastiche, politiche, sociali e familiari. Il ‘68 è stato soprattutto una contestazione anti-istituzionale ed è su questo terreno che è ravvisabile il nesso che lega i due fenomeni.
Il Concilio ha dunque “preparato in qualche modo il terreno” al Sessantotto?
La Chiesa cattolica ha anticipato una trasformazione che poi si è presentata in modo convulso nel 1968, nel senso di un ridimensionamento del peso delle istituzioni all’interno della società. Da questo punto di vista il dissenso cattolico ha rappresentato un fenomeno specifico e forse anche marginale. Ha ripreso alcune modalità della contestazione studentesca ma non è qui il cuore più profondo del rapporto che investe aspetti più globali.
Qual è stata l’intuizione di Giovanni XXIII?
L’avere compreso che la Chiesa aveva bisogno di mettersi in ascolto del mondo e di se stessa. Nella modalità conciliare ha in qualche modo superato la rigidità istituzionale che l’aveva caratterizzata per cinque secoli sul modello tridentino. In questo senso il Concilio ha avviato un processo di cui ravviso alcuni tratti anche nel 1968.
Lo storico gesuita Michel de Certeau, che ha partecipato al “maggio francese” a Parigi, ha scritto che nel ’68 “è stata presa la parola come nel 1789 è stata presa la Bastiglia”. Un’immagine metaforica che sottolinea la liberazione della parola, tipica di quel movimento. L’analogia è profonda perché il Vaticano II ha a modo suo “liberato” la parola, in questo caso la Parola di Dio, da una Chiesa che l’aveva rinserrata all’interno di schemi organizzativi e istituzionali che la rendevano in certa misura marginale e l’ha riportata al centro della vita ecclesiale. E’ dalla Parola di Dio che rinasce la Chiesa.
In che modo il ’68 ha influito su associazioni e movimenti del laicato cattolico?
Per l’Azione cattolica un cambiamento importante è cominciato con il pontificato di Giovanni XXIII e soprattutto con l’elezione di Paolo VI nel 1963. La nomina di mons. Franco Costa quale assistente ecclesiastico generale e di Vittorio Bachelet quale presidente nazionale segnano il definitivo distacco dal modello geddiano. Il rinnovamento si è realizzato pienamente con il nuovo statuto (1969) che ha prodotto una vasta riorganizzazione e ha soprattutto affermato “la scelta religiosa” dell’Ac, espressione che sottolinea la fine di ogni collateralismo con qualsiasi partito politico. L’impatto del Sessantotto sull’Ac è stato soprattutto indiretto e probabilmente ha influito sul calo degli iscritti che dal 1964 al 1974 passano da 3,5 milioni a 600mila.
E per quanto riguarda le Acli?
Anche qui si deve parlare di un impatto indiretto. La trasformazione delle Acli era cominciata all’inizio degli anni Sessanta, in stretto rapporto con l’evoluzione economico-sociale della realtà italiana e il nuovo ruolo assunto dai sindacati. Un’ulteriore svolta è avvenuta a seguito dell’“autunno caldo” nelle grandi fabbriche italiane del 1969 con l’adozione della cosiddetta ipotesi socialista alla quale seguì una richiesta di chiarimenti da parte della presidenza della Cei, una presa di posizione critica del Pontefice e il ritiro dell’assistente ecclesiastico. La contestazione del ’68 ha invece riguardato in modo più diretto Gioventù studentesca, ramo dell’Ac che aveva iniziato un percorso originale, soprattutto in Lombardia, a seguito dell’iniziativa assunta da don Luigi Giussani nel 1954. In questo contesto nasce Comunione e Liberazione.
Il Sessantotto ha dunque interferito con un’evoluzione in atto nell’associazionismo cattolico degli anni Sessanta?
Sì. Forse l’impatto maggiore ha riguardato le grandi questioni internazionali con particolare riferimento al terzo mondo: guerra in Vietnam, Cuba, Biafra, lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Usa. I membri dell’associazionismo cattolico, soprattutto giovani, furono molto sensibili a queste cause e, più in generale, a quella della pace.
Su questo terreno maturarono una sensibilità simile a quella di molti altri giovani di altra provenienza culturale e ideologica, che fece cadere molti steccati tradizionali.
Ci furono infine esperienze nuove che nacquero al di fuori dall’associazionismo cattolico o del rapporto con la Dc, nel clima del Sessantotto, come la Comunità di Sant’Egidio a Roma, segnata fin dall’inizio da un forte rapporto con il Vangelo e i poveri.
Che giudizio ha del Sessantotto?
Ha avuto peso non tanto quale fenomeno politico, ma piuttosto come istanza culturale e sociale di “inventare” un mondo nuovo affrontando le grandi sfide del tempo, le sfide di un mondo terrorizzato dall’arma atomica e in cerca di pace, che vuole dare la parola a tutti, che affronta le gravi disuguaglianze economiche e sociali. Si è disperso di fronte a forze più grandi; in fondo è stato un movimento di studenti, non avrebbe potuto cambiare il mondo, però ci ha provato ed è questa la sua eredità più preziosa.
Pensare al ’68 ci fa bene perché ci ricorda che possiamo anche non subire il mondo in cui viviamo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PAPA [GIOVANNI XXIII, 1962] HA DECISO DI DARE IL VIA AD UN NUOVO CONCILIO, AL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II. PACE E E DIALOGO SU TUTTA LA TERRA, TRA TUTTI GLI ESSERI UMANI, TUTTE LE RELIGIONI, TUTTI I CREDENTI E I NON CREDENTI. QUESTA LA DICHIARAZIONE DI APERTURA
UN NUOVO CONCILIO, SUBITO. 95 TESI? NE BASTA UNA SOLA! Cattolicesimo, fascismo, nazismo, stalinismo: il sogno del "regno di ‘dio’" in un solo ‘paese’ è finito.
UNA MEMORIA DI "VECCHIE" SOLLECITAZIONI. Il cardinale Martini, da Gerusalemme, dalla “città della pace”, lo sollecita ancora!!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Un gesto che ferisce la comunità ecclesiale e l’impegno civile per la pace.
di Sergio Paronetto (presidente Centro Studi di Pax Christi Italia) *
Tristezza, sconcerto e anche indignazione. Che paradosso proclamare papa Giovanni XXIII patrono dell’esercito!
E’ come dichiarare Francesco d’Assisi patrono del sistema finanziario o madre Teresa patrona delle multinazionali.
Le ragioni del patronato sono biograficamente riduttive, forzate o parziali, tutte legate alla sua esperienza di cappellano militare durante la prima guerra mondiale “inutile strage”. Ma Roncalli non è morto in quegli anni. Proclamarlo patrono per le sue doti di cappellano militare vuol dire snaturarne il messaggio, inchiodarlo a un’esperienza discussa e tremenda che ha superato approdando ad altre argomentazioni, ad altri orizzonti (Concilio, Pacem in terris) così come ha fatto Primo Mazzolari.
Già all’indomani della fine della prima guerra mondiale, Roncalli affermava: «Ciò che vale veramente e soprattutto non è la forza delle spade e dei cannoni, ma la forza della giustizia davanti al cielo e alla terra, la forza del diritto e insieme della umana e divina fraternità degli uomini, il senso dell’onore. In queste cose sta il progresso verace degli individui e delle nazioni» (omelia 17 novembre 1918, chiesa di Santo Spirito, Bergamo).
Nel giugno 1940 osservava che “la guerra è un periculum enorme. Per un cristiano che crede in Gesù e nel suo vangelo un’iniquità e una contraddizione”.
Nella Pacem in terris del 1963 invita tutti al “disarmo integrale” considerando la guerra moderna come “l’incubo di un uragano” e un fenomeno assurdo, “alienum a ratione” (60, 61, 67).
E’ di guerre, infatti, che si parla quando si parla di esercito.
Ultimamente, le guerre in Iraq, in Serbia, in Libia, in Afghanistan sono state le azioni scellerate (e controproducenti) che i governi italiani hanno promosso riuscendo sia ad aggirare l’articolo 11 della Costituzione, sia ad arricchire i fabbricanti di armi, complici dei Parlamenti che rinnovano esorbitanti finanziamenti per sistemi d’arma, bombe, missili, aerei e navi da guerra tanto da non avere più denaro per curare i malati, istruire i giovani, sconfiggere le marginalità sociali, contrastare il dissesto idrogeologico, prevenire le calamità.
Le missioni militari cosiddette di pace raramente sono dentro un’ampia strategia ONU di contrasto alle violenze con forme adeguate di polizia internazionale. Oggi “il libro bianco della difesa” prefigura interventi contrari alla Costituzione della Repubblica, colpisce il fondamento giuridico della nostra carta fondamentale che intende ripudiare le guerre e prevenire i conflitti senza l’uso della guerra.
Ezio Bolis, su “l’Osservatore romano” (11 settembre 2017), osserva che tale scelta potrebbe essere “una provvidenziale occasione per riflettere in modo ponderato sul significato e l’opportunità di una presenza, quella dei cappellani militari, all’interno di un’istituzione qual è l’esercito”. Con azzardo utopistico potremmo aggiungere addirittura che la riflessione su papa Giovanni potrebbe ridimensionare lo stesso esercito, allontanarlo dalla Nato, limitarlo a una funzione rigorosamente difensiva.
Magari fosse così. Le dinamiche economiche, politiche e militari vanno in altre direzioni (distruttive e devastanti). Occorre molto realismo per vincere il rischio di ingenuità o di ipocrisia!. In realtà siamo davanti a due tristi operazioni: alla cattura burocratica-castale di un papa noto al mondo per la sua azione di pace e per averci donato la Pacem un terris; al tentativo di imbrigliare e ostacolare il magistero di pace di papa Francesco, ritenuto troppo audace e scomodo, spesso in contrasto con alcune pratiche o silenzi dei vescovi italiani (vedere i suoi interventi al Convegno ecclesiale di Firenze del novembre 2015 o quelli alla CEI nel maggio del 2015 e 2017).
Forse per molti ecclesiastici la via della nonviolenza, indicata da Francesco nel messaggio del 1 gennaio 2017, è ritenuta impossibile e pericolosa. Forse molti ritengono assurdo parlare di terza guerra mondiale a pezzi.
Continuo a ritenere con Francesco che la via per la pace può essere solo una via di pace (come ha detto in Colombia il 10 settembre 2017), un’arte da esercitare, un impegno non proclamato a parole ma di fatto negato con strategie di dominio supportate da scandalose spese per armamenti mentre troppe persone sono prive del necessario per vivere. Il magistero di pace dei papi non si merita simile trattamento!
*Bocche Scucite, 12/9/17 (ripresa parziale - senza immagini).
Il segretario di Roncalli
Addio a Loris Capovilla, l’angelo del Papa Buono
Fu segretario di Giovanni XXIII. Creato cardinale da Jorge Mario Bergoglio è morto oggi. Aveva 100 anni. Paolo VI lo nominò arcivescovo di Chieti e poi delegato pontificio di Loreto.
di Antonio Sanfrancesco (Famiglia Cristiana, 26.06.2016)
«Eminenza» rispose il vicario, «è un buon prete, bravo, non gode però di buona salute e avrà vita breve». E subito il cardinale commentò: «Be’, se non ha salute, verrà con me e morirà con me». Quel «buon prete» che doveva morire giovane,fra qualche mese, a ottobre, avrebbe compiuto la bellezza di 101 anni. È Loris Francesco Capovilla, il segretario di Angelo Giuseppe Roncalli, patriarca di Venezia (1953-1958) e poi Giovanni XXIII (1958-1963). Se n’è andato a cento anni dopo essere diventato dal 15 aprile 2015 il più anziano vescovo d’Italia e il quarto nel mondo. Sempre tra i vescovi, con riferimento agli anni trascorsi dall’ordinazione presbiterale era il primo tra gli italiani, e quarto a livello mondiale. Era stato creato cardinale da papa Francesco il 22 febbraio 2014, lo stesso anno della canonizzazione di Roncalli, a 98 anni, ricevendo il titolo presbiterale di Santa Maria in Trastevere e divenendo in tal modo il membro più anziano del collegio cardinalizio.
Capovilla è stato per una vita il custode attento della memoria storica del “Papa buono”. E quando è stato creato cardinale da Francesco aveva accolto la porpora soprattutto come «un riconoscimento a lui, a Papa Giovanni».
Nato a Pontelongo (Padova) il 14 ottobre 1915, da Rodolfo e Irma Letizia Callegaro, viene battezzato nella chiesa del paese dedicata a Sant’Andrea il 7 novembre dal parroco don Angelo Finco. Il padre, funzionario della Società Belga Zuccherifici, muore a 37 anni il 26 maggio 1922. La sua morte provoca per la vedova e i due figli, Loris e Lia, un lungo periodo di precarietà che costringe la famiglia a continui spostamenti, sino all’approdo definitivo a Mestre nel 1929. Il padre, funzionario della Società Belga Zuccherifici, muore a 37 anni il 26 maggio 1922. La sua morte provoca per la vedova e i due figli, Loris e Lia, un lungo periodo di precarietà che costringe la famiglia a continui spostamenti, sino all’approdo definitivo a Mestre nel 1929.
Alunno del seminario patriarcale di Venezia, viene ordinato sacerdote il 23 maggio 1940 dal cardinale Adeodato Giovanni Piazza. Assolve diversi incarichi nella parrocchia di San Zaccaria e in curia. È cerimoniere capitolare a San Marco, catechista alle scuole medie e superiori, cappellano dell’Opera nazionale di assistenza religiosa e morale degli operai (Onarmo) a Porto Marghera, cappellano del carcere minorile e all’Ospedale degli infettivi.
Durante la Seconda Guerra Mondiale presta servizio militare in aviazione. All’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre 1943, è all’aeroporto Natale Palli di Parma, dove in quei giorni si adopera per sottrarre quanti più avieri possibile all’internamento in Germania. Nel 1945 il cardinale Piazza lo scegli come predicatore domenicale a Radio Venezia, incarico che mantiene sino al 1953. Nel 1949 il patriarca Carlo Agostini lo nomina direttore del settimanale diocesano “La Voce di San Marco” e redattore della pagina veneziana dell’ “Avvenire d’Italia”. È iscritto all’albo dei giornalisti dal 1950.
Per oltre un decennio è segretario particolare di Angelo Giuseppe Roncalli, cardinale patriarca di Venezia dal 1953 al 1958, anno in cui il 28 ottobre viene eletto vescovo di Roma con il nome di Giovanni XXIII. È al suo fianco durante l’esperienza veneziana e poi per tutto il pontificato. Lo accompagna nelle visite e nelle celebrazioni, condivide con lui gioie e difficoltà, è spettatore partecipe della sua paternità pastorale. Ma soprattutto è diretto testimone della straordinaria intuizione di convocare il concilio ecumenico Vaticano II, che il Papa annuncia a sorpresa nel 1959, guidandone poi la preparazione e la prima fase. Alla morte di Roncalli, il 3 giugno 1963, il successore Paolo VI lo nomina perito conciliare, confermandolo inoltre nell’ufficio di prelato d’anticamera, e il 26 giugno 1967 lo sceglie come arcivescovo di Chieti-Vasto, conferendogli l’ordinazione episcopale il 16 luglio successivo, nella basilica di San Pietro.
È lo stesso Pontefice bresciano a nominarlo poi, il 25 settembre 1971, prelato di Loreto e delegato pontificio per il santuario lauretano, assegnandogli la stessa sede titolare di Mesembria che fu dell’arcivescovo Roncalli dal 1934 al 1953. Rinuncia all’ufficio pastorale il 10 dicembre 1988 e si ritira a Sotto il Monte, paese natale di Roncalli, dove si dedica a coltivarne la memoria e a promuovere la conoscenza della sua figura e della sua opera. Cura la pubblicazione degli scritti principali: Il Giornale dell’anima; la trilogia Questo è il mistero della mia vita, Giovanni XXIII, un santo della mia parrocchia e Mi chiamerò Giovanni; le raccolte Lettere ai familiari e Lettere 1958-1963. Ha scritto numerosi volumi sulla vita e le opere del pontefice bergamasco, ai quali si aggiungono centinaia di opuscoli e di articoli apparsi in quotidiani, settimanali e riviste.
Video - 50 anni fa si apriva il Concilio Vaticano II: intervista a mons. Loris Capovilla
fuoritempio
I “segni” di Dio
di Giancarla Codrignani *
L’ombra di tristezza che vela il volto del Signore da quando ha preso la determinazione di seguire fino in fondo la sua vocazione morde di amaro anche lui, che ha condiviso tutto dell’umano, nel profondo dell’io: la gente non lo ha capito e vuole farlo re perché ha dato loro da mangiare e spera che possegga la bacchetta magica per dargliene sempre.
Era stato proprio con il non-miracolo dei pani che Gesù sperava di essersi fatto capire: il problema era dentro chi gli andava dietro e doveva essere risolto con lo sforzo di capire perché il rapporto con qualunque potere mondano era lontano da lui, perfino fisicamente. Invece lo stavano mettendo in pericolo.
Era la stessa gente che avrebbe di lì a poco scelto Barabba, e che poi avrebbe sempre eletto qualunque Pifferaio o qualunque blogger avesse promesso soldi e successo.
Questa gente nemmeno la Bibbia se la leggeva con la propria testa: se la faceva raccontare da Radio Maria e imparava che gli israeliti rumoreggiavano contro Mosè e Aronne perché li avevano portati alla fame nel deserto mentre in Egitto tutti sarebbero stati contenti con le pentole piene.
Questi sulle barche credono che sia la stessa cosa e chiedono che, se è il Profeta, Gesù si comporti come Mosè, che aveva promesso il pane e dato la manna. Invece il Signore li invita a leggere ragionevolmente la "Parola di Dio": non è Mosè che agisce come un dio e si inventa la manna, ma il Padre che ha cura di tutti.
Un lago intero di inconsapevolezza divide questo pezzo del popolo di Dio da Gesù: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane...».
Il Paolo della seconda lettura, invece, è uno che ha capito e solleciterà gli Efesini, anch’essi simili ai pagani per gli stessi "vani pensieri": il cristiano autentico sa di dover abbandonare l’uomo vecchio che non riconosce più il senso della vita; se si rinnova "nello spirito della mente", diventa l’uomo nuovo, quello creato secondo il criterio di Dio, per la giustizia e la vera santità.
Per un momento anche sulle barche c’era stato un sussulto di verità: «Signore, dacci sempre il pane di cui parli... ». Ma ugualmente nessuno capiva che il pane della vita era lui stesso: quando se ne resero conto, molti si scandalizzarono e si tirarono indietro.
Oggi molti che vogliono dirsi cristiani non si chiedono il senso delle loro pie pratiche. Se se lo chiedessero onestamente, o si ritirerebbero o riconoscerebbero di essere uomini (e donne) "vecchi": non per l’età, ma per ignoranza, per ipocrisia, per falsa ricerca di sicurezza.
Molti, poi, che si sono fatti carico dei ministeri e del culto e ritengono di dover cristianizzare il mondo, convertirlo, battezzarlo, continuano a consacrare un pane e un vino che, "per definizione", sono il corpo e il sangue del Signore, stupiti dell’abbandono delle chiese.
Ancora una volta si deve tornare al Concilio Vaticano II e alla Pacem in Terris: Gesù parlava dei "segni" che la gente non aveva saputo vedere. Giovanni XXIII ha indicato altri "segni dei tempi" per chi, 50 anni fa, voleva essere uomo (o donna) "nuovo": l’ascesa economico- sociale delle classi lavoratrici, l’ingresso della donna nella vita pubblica.
L’umanità "secondo il criterio di Dio" ha bisogno di segni che propizino il suo cammino: oggi ne sono nati altri, ancora sospetti per l’autorità ecclesiastica che, purtroppo, determina regole all’accoglienza eucaristica e non riconosce la libertà della ricerca scientifica e tanto meno di quella teologica.
Sono "segni" che ormai hanno evidenza sufficiente: la libertà religiosa, le donne che consacrano, l’accoglienza dei fratelli omosessuali, i diritti dei bambini, la nonviolenza...
Il Signore, come diceva p. Turoldo, non sta al di là delle nubi, ma al di là delle forme, come in quel pane che riceviamo: è andato oltre, verso le cose a venire... Parla un linguaggio duro, poco comprensibile non solo a quelli sulle barche, ma ai discepoli stessi, ignari della tristezza di Gesù, che inquieta gli animi: «Volete andarvene anche voi?».
* Saggista, già parlamentare della Sinistra Indipendente. Questa omelia è già stata pubblicata su Adista Notizie n. 26/12
ADISTA Notizie, 11 LUGLIO 2015, Anno XLIX, n. 6282
La tormentata santità di Roncalli
di Sergio Luzzatto (Il Sole-24 Ore, 6 aprile 2014)
Tra due settimane - domenica 27 aprile - papa Francesco ha un appuntamento importante in piazza san Pietro. Quel giorno, sarà impegnato nell’elevare agli altari due beati della Chiesa che hanno particolarmente contato per lui. Due papi del Novecento, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Il papa bergamasco nel quale Jorge Mario Bergoglio ha riconosciuto da sempre un modello pastorale, il buon prete di campagna capace di restare pastore d’anime anche da vescovo, da nunzio, da patriarca.
Il papa polacco sotto il pontificato del quale il gesuita Bergoglio ha percorso le tappe maggiori della sua carriera ecclesiastica, dal vescovato ausiliario di Buenos Aires alla porpora cardinalizia del 2001. Tra due settimane l’appuntamento sarà importante anche per milioni di fedeli attesi in piazza san Pietro, che vivranno come un evento di grazia la canonizzazione di due papi straordinariamente presenti nella memoria della Chiesa universale. Il 27 aprile, l’elevazione agli altari di papa Roncalli e papa Wojtyla rinnoverà quella peculiare miscela di cerimonia e di festa, di culto e di spettacolo, di pietà e di messinscena, che da quattro secoli a questa parte - dalla canonizzazione di sant’Ignazio di Loyola, nella Roma barocca del 1622 - ha definito e distinto il teatro capitolino della santità.
Nel frattempo, l’attesa dell’evento produce qualche riflesso editoriale. Qualche libro d’occasione, da smerciarsi come viatico ai pellegrini in partenza verso la Città Eterna o come livre de chevet per lettori insonni. Tutt’altro, sia chiaro, che una pioggia di titoli. Al giorno d’oggi, neppure due santi imminenti dotati del carisma di Giovanni XXIII e di Giovanni Paolo II riescono davvero a ritagliarsi uno spazio sui banconi dei librai, tanto riesce onnipresente, inarrestabile, egemonico il carisma di papa Francesco. Ma nella prospettiva del 27 aprile un volume almeno va segnalato, come rappresentativo di un genere. È il libro scritto da Stefania Falasca, e pubblicato da Rizzoli con il titolo Giovanni XXIII, in una carezza la rivoluzione.
C’è chi ha sottolineato la «meticolosa ricostruzione dei fatti» compiuta da Falasca, salutando «notizie e documenti inediti» che «contribuiscono a chiarire aspetti rilevanti nella storia del Concilio e della Chiesa». In effetti, la laboriosa vicenda della causa di beatificazione di papa Roncalli - una vicenda prolungatasi dalla metà degli anni Sessanta alla fine degli anni Novanta - rappresenta uno spaccato particolarmente significativo di storia della vita ecclesiastica (e del vissuto religioso) nell’Italia tardo-novecentesca. Peccato soltanto che poco o nulla dei meriti del libro vada attribuito a Stefania Falasca, il cui zelo di studiosa è principalmente consistito nell’utilizzare a piene mani un volume dello storico Enrico Galavotti: l’autore di Processo a Papa Giovanni. La causa di canonizzazione di A.G. Roncalli (1965-2000), pubblicato dal Mulino nel 2005.
Se l’instant-book di Rizzoli violi qualche diritto è materia per avvocati, che qui non interessa. Qui interessa la rappresentatività di un libro all’interno di un genere, quello della letteratura devozionale. E proprio il fatto che la base documentaria del libro di Falasca sia la stessa del libro di Galavotti consente di porre la questione in tutta la sua evidenza. I documenti che valgono a ricostruire la causa di canonizzazione di papa Roncalli sono, da un volume all’altro, esattamente gli stessi. Ma quanto cambia - e cambia tutto - è il metodo con cui i documenti vengono letti. Nel caso di Galavotti, il metodo è quello dello storico. Nel caso di Falasca, il metodo è quello dell’agiografo. In un caso, l’intenzione è critica. Nell’altro caso, l’intenzione è apologetica.
Così, i medesimi documenti producono risultati totalmente diversi: raccontano due storie che sembrano non avere più nulla in comune. Ciò che l’autore di Processo a Papa Giovanni ha dimostrato complesso, delicato, problematico nella causa canonica di Roncalli, l’autrice di Giovanni XXIII, in una carezza la rivoluzione fa passare per semplice, naturale, edificante. Un lungo fiume tranquillo, l’elevazione agli altari di colui che «per ispirazione divina» (spiega oggi il cardinale vicario di Roma, Agostino Vallini) convocò il Concilio Vaticano II? Tutt’altro. Salvo che l’apologetica cattolica sente spesso il bisogno di sgombrare il percorso della storia da qualunque pietra d’inciampo, per meglio far scorrere il miele di una visione provvidenzialistica.
In realtà, la canonizzazione di papa Roncalli è stata cosa controversa fin dall’indomani della sua morte, il 3 giugno 1963. Si era allora nel pieno del Concilio, e l’ondata di emozione per la scomparsa di Giovanni XXIII produsse tra i fedeli una domanda tanto forte quanto diffusa di riconoscimento immediato della santità del «papa buono»: con quarantadue anni di anticipo sullo slogan circolato alla morte di papa Wojtyla, il 2 aprile 2005, si voleva farlo «santo subito».
Senonché la volontà popolare cozzava contro le articolate procedure che la Sede apostolica aveva messo a punto, fin dal Seicento, per governare dal centro le cause di canonizzazione. Per sottrarre la fabbrica dei santi alle spinte localistiche e incontrollabili della vox populi, affidandola al meditato scrutinio della Congregazione dei Riti e - in ultima istanza - al volere sovrano del Sommo Pontefice.
Dal 1964 al ’65 un gruppo di pressione che faceva capo all’arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro, ed era giuridicamente orientato dal suo perito personale al Concilio, don Giuseppe Dossetti, cercò di convincere i padri conciliari a proclamare la santità di papa Roncalli attraverso una procedura d’eccezione. Più esattamente, attraverso una procedura caduta in disuso nell’età moderna, ma che era stata corrente nei concili medievali: il riconoscimento della santità per acclamazione assembleare. In pratica, il gruppo guidato da Lercaro e ispirato da Dossetti si adoperò perché Giovanni XXIII fosse canonizzato da quello stesso Concilio Vaticano II che tanto egli aveva fatto per indire e per orientare.
Più che una «santità esemplare» (come quella della maggior parte dei santi), per Lercaro e Dossetti si trattava di riconoscere in papa Giovanni una «santità programmatica». Si trattava cioè di consegnare la figura di Roncalli meno alla devozione privata dei singoli cristiani che all’impegno pubblico della Chiesa di uniformarsi alla lezione giovannea. E si trattava di suggellare lo spirito del Concilio attraverso la ripresa di un istituto - la proclamazione assembleare dei santi - che restituisse voce anche in questo alla comunità dei credenti, ridimensionando lo strapotere delle gerarchie vaticane.
L’iniziativa di Lercaro e Dossetti si scontrò tuttavia sia con la comprensibile prudenza del nuovo papa, Paolo VI, sia con la sorda opposizione degli ambienti ecclesiastici più ostili allo spirito come alla lettera del Concilio Vaticano II. Anziché approdare seduta stante, la causa di canonizzazione di Giovanni XXIII era destinata a seguire un percorso lungo e accidentato, che va ritrovato nel libro di Enrico Galavotti molto più che in quello di Stefania Falasca.
In fondo a tale percorso sta la decisione assunta da papa Francesco in occasione del suo primo concistoro, nel settembre 2013, di procedere alla canonizzazione di Giovanni XXIII pro gratia: senza che sia intervenuto - dopo la beatificazione del 2000 - alcun riconoscimento formale di un secondo miracolo compiuto da papa Roncalli. In altre parole, Giovanni XXIII finisce effettivamente per diventare santo attraverso un percorso privilegiato, se non proprio attraverso uno strappo alla regola. Ma diventa santo, oggi, per grazia di un papa, non per voto di un Concilio.
L’Africa e le riforme di papa Francesco di editoriale in “Nigrizia” del novembre 2013
La grande sfida della riforma del governo della Chiesa ebbe il suo punto di arrivo e di partenza nel Vaticano II (1962-1965). Il concilio rilanciò la collegialità, la sinodalità, la comunione del popolo di Dio. Anche nelle modalità del suo svolgersi fu una grandissima rivoluzione. I venti precedenti concili si concentrarono sulla condanna degli errori - anatema sit. Papa Roncalli volle una presentazione serena e dialogica del messaggio cristiano.
Dopo 50 anni, il governo della Chiesa è ancora fortemente centralizzato, piramidale, clericale, maschilista, non trasparente, non sempre in linea con i diritti umani. Tanta parte degli insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa sembrano non essere applicati nella stessa Chiesa che li insegna. Papa Francesco ha il mandato di trasformare il governo e l’esercizio dell’autorità nella Chiesa da due fonti: il concilio Vaticano II e il Conclave, che lo ha eletto in seguito alle dimissioni del suo predecessore.
Papa Bergoglio ha già vinto alcune battaglie: la conquista di fronte al mondo e alla comunità cristiana della fiducia e speranza nella capacità trasformatrice della Chiesa; la conservazione di uno spazio di libertà personale rinunciando al terzo piano dei cosiddetti palazzi apostolici, di fatto prigioni dorate del papa, scegliendo di risiedere a Casa Santa Marta. In questo modo può scavalcare l’imbrigliamento della curia. Il tentativo di muoversi come pastore e non come capo di stato nei suoi viaggi gli permette una libertà che altrimenti non potrebbe avere. Comunicando direttamente con il mondo tramite telefono, lettere, twitter... diventa più facilmente accessibile alla gente. Può l’Africa aiutare Francesco nell’opera gigantesca della riforma dello stile e della struttura di governo della Chiesa? Si possono sottolineare tre piste.
L’ascolto. Lo stile tradizionale africano del governo degli anziani era basato sull’ascolto di tutto e di tutti, senza badare al tempo. Nello stile abituale, il papa è l’ascoltato non l’ascoltatore. Questo è gravissimo perché poi la stessa cosa vale per i vescovi e per i preti. Chi poi obietta o ha una opinione diversa viene fatto passare per disobbediente e ribelle. Forse che nella comunità cristiana non c’è libertà di opinione? Lo Spirito Santo non è nelle comunità? Se il papa parla a nome della Chiesa, il suo mandato viene solo da Dio o anche dalla Chiesa?
Partecipazione diretta. L’accento si sposta dalla rappresentatività, che pur resta un valore, alla partecipazione diretta al governo. Il concilio ha molto insistito sulla partecipazione diretta: dalla liturgia al governo, indicando come strumenti il consiglio pastorale parrocchiale, il sinodo diocesano, il sinodo dei vescovi. Purtroppo vengono mal attuati (si pensi ai sinodi dei vescovi) e sono strumenti del centralismo romano, dove la voce dei vescovi e della base ecclesiale è meno che un sussurro.
Nella tradizione africana non c’è il concetto di spettatore, tutti inter-agiscono, tutti danzano. Uno stile questo sempre più soffocato sotto Giovanni Paolo II e anche sotto Benedetto XVI, si pensi al nuovo messale romano che rende di nuovo i fedeli spettatori della celebrazione fatta dal prete. La scelta di papa Francesco degli 8 consiglieri cardinali dai 5 continenti potrebbe essere un passo nella nuova direzione.
Chiesa locale. Il concilio ha rilanciato la teologia della Chiesa locale, dove il vescovo della diocesi è il rappresentante diretto di Cristo non del papa, con cui pur deve essere in comunione adulta. Il cosiddetto rito zairese, subito dopo il concilio, fu un interessante esperimento e segno della riscoperta della Chiesa particolare. Anche nei due sinodi africani (del 1994 e del 2009) l’insistenza sulla Chiesa locale africana si è levata più volte.
Ma di fatto con l’attuale governo della Chiesa non c’è spazio per vere chiese locali, ma solo per repliche della Chiesa romana. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI hanno interpretato il loro ministero petrino in modo tale da rendere impossibile una molteplicità di chiese locali; ma solo repliche di Roma.
L’insistenza di papa Francesco di presentarsi come vescovo di Roma, fa ben sperare. La Chiesa potrà riscoprire di essere la comunione di chiese particolari unite al papa.
“Benedico in silenzio per rispetto degli atei”
la rivoluzione della liturgia di Bergoglio
di Paolo Rodari (la Repubblica, 17 marzo 2013)
Per non urtare i non credenti ieri ha benedetto in silenzio i giornalisti ricevuti in udienza in Aula Paolo VI: «Poiché molti di voi non appartengono alla Chiesa cattolica, altri non sono credenti, di cuore do questa benedizione in silenzio, a ciascuno di voi, rispettando la coscienza di ognuno, però sapendo che ognuno di voi è figlio di Dio», ha detto mettendo subito in pratica l’auspicio poco prima manifestato di una Chiesa «dei poveri», che non pontifica dai piedistalli ma si fa serva di tutti.
Giovedì scorso, nella messa coi cardinali in Cappella Sistina, al posto degli abiti pontificali ha indossato una semplice casula. Sempre in Sistina ha celebrato non più “spalle al popolo” e con la cattedra al centro, come invece era solito fare Papa Ratzinger ritornando a usi preconciliari, ma di fronte all’assemblea e con la cattedra di lato, sulla sinistra guardando l’affresco del Giudizio universale.
E martedì prossimo, per la messa “d’inaugurazione” del pontificato, un’altra novità: a fianco dei cerimonieri pontifici porterà come ministranti, altrimenti detti chierichetti, non più i seminaristi romani ma i frati francescani del santuario de La Verna, vicino ad Arezzo. Dei religiosi, dunque, e non dei candidati al sacerdozio.
Insomma, tanti piccoli segni che messi assieme formano quella che in molti definiscono la “nuova” impronta liturgica di Papa Francesco, uno stile che di schianto, dopo anni di graduali riavvicinamenti al rito antico e alle sue regole, fa tornare fuori dalle catacombe nelle quali rischiava di essere sepolto il Concilio Vaticano II e con lui tutta la sua teologia: la Chiesa intesa come popolo di Dio, per la quale non soltanto la gerarchia, ma anche tutti i fedeli sono investiti degli uffici del sacerdozio, della profezia e della regalità.
Benedetto XVI amava il rito antico, la messa celebrata in latino con il sacerdote rivolto verso Oriente, il sole che sorge, Cristo che viene. Ma non voleva un ritorno tout court all’antico. Il suo era più che altro un amore per una liturgia a cui aveva partecipato da bambino, nella terra fra le più romane del cattolicesimo tedesco, la Baviera.
Piuttosto, sono stati diversi settori tradizionalisti a sovradimensionare questo feeling di Ratzinger con l’antico, sovrapponendo alla sua idea di un Concilio ancora da interpretare pienamente come rinnovamento nella continuità col passato, il miraggio di un azzeramento delle novità stesse del Concilio.
Ora Papa Francesco azzera ogni nostalgia liturgica e impone uno stile del tutto in scia al Vaticano II: i fedeli non sono dei «presenti assenti», ma sono l’assemblea «soggetto » della celebrazione.
Già dai primi minuti dopo l’elezione, i cardinali che circondavano Papa Francesco hanno compreso che molto sarebbe mutato. Il primo segnale è arrivato dalla stanza delle Lacrime, dove Bergoglio ha abbandonato la talare rossa per indossare la sua nuova veste bianca. Qui, egli ha rifiutato di indossare, sopra la stessa veste, la mozzetta di velluto rosso bordata di ermellino e la croce d’oro.
Alcuni riferiscono che egli avrebbe «liquidato» le insistenze del Maestro delle celebrazioni liturgiche, il fine liturgista Guido Marini, allievo del cardinale Siri, con un deciso: «Questa la mette lei, io mi tengo questa, la croce di quando sono divenuto vescovo». E cioè una croce di ferro che porta incisa la raffigurazione del buon pastore con in spalla la pecorella smarrita e alle spalle il suo gregge.
Ma se resta difficile credere che il mite Francesco abbia usato un tono simile con Marini, è innegabile il suo rifiuto per tutto ciò che non c’entra con l’essenzialità, la fede semplice degli ultimi, Cristo al centro della scena e nessun altro al suo posto.
Quando la Chiesa celebra i sacramenti, confessa la fede ricevuta dagli apostoli. Da qui l’antico adagio: « Lex orandi, lex credendi ». Di qui il detto di Prospero di Aquitania: « Legem credendi lex statuat supplicandi ». La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega.
Per questo Francesco da subito propone il suo stile. Perché è da come prega che la Chiesa crede. La sua Chiesa è umile, povera, anche spoglia. E il primo luogo in cui si manifesta è laddove c’è il suo cuore, appunto la liturgia: a servire alla sua messa d’inizio pontificato verranno dei frati francescani, degli umili religiosi. Francesco non solo predica umiltà, ma anche la ricerca nel suo agire.
Dalla loggia centrale della basilica vaticana la sera dell’elezione ha chiesto al popolo in piazza di pregare in silenzio per lui. Si dice che avrebbe voluto inginocchiarsi per ricevere la preghiera della gente sotto riunita. Gliel’hanno sconsigliato perché la balaustra l’avrebbe nascosto. Così ha semplicemente piegato in avanti il capo, il primo segnale che molto sarebbe cambiato.
Il rottamatore di Dio
di Luca Kocci (il manifesto, 17 marzo 2013)
Con l’ Angelus in piazza san Pietro, questa mattina, ci sarà il primo vero bagno di folla di papa Bergoglio. In attesa di martedì quando, con la messa di inizio pontificato, è atteso a Roma un milioni di persone, con oltre 100 capi di Stato e di governo.
Intanto, nelle occasioni pubbliche di questi giorni, Bergoglio si conferma papa mediatico e innovatore, perlomeno nei gesti e nelle parole. «Un rottamatore che sta smontando pezzo dopo pezzo il cerimoniale moderno dei pontefici», dice lo storico Alberto Melloni.
Ieri, per esempio, alla fine dell’udienza ai 5mila giornalisti che hanno seguito il conclave, il papa ha eliminato la benedizione solenne, che Ratzinger faceva spesso in latino. «Dato che molti di voi non appartengono alla Chiesa e non sono credenti - ha detto in spagnolo -, imparto la benedizione, in silenzio, rispettando la coscienza di ciascuno».
Bergoglio ha anche svelato come sono andate le cose per la scelta del nome Francesco. Appena superato il quorum del 77 voti, il suo vicino di posto in conclave, il francescano brasiliano Hummes, gli ha detto «non dimenticare i poveri». Subito, spiega Bergoglio, «ho pensato a Francesco d’Assisi, l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato, e in questo momento noi non abbiamo una buona relazione con il creato».
E ha confessato anche il suo desiderio di «una Chiesa povera e per i poveri». Un’affermazione decisamente in controtendenza rispetto al trionfalismo trasmesso dagli ultimi due pontificati di Wojtyla e Ratzinger.
Che tuttavia, facendo un po’ di esegesi, rivela una visione diversa da quella conciliare: papa Roncalli parlò di «Chiesa dei poveri», quella di Bergoglio è una Chiesa «per i poveri», in cui quindi la componente paternalistica e caritatevole sembra prevalere rispetto a quella di liberazione.
Arrivano anche i primi atti di governo del nuovo papa, con la conferma, scontata, dei capi dei dicasteri curiali e vaticani « donec aliter provideatur », cioè fino a che non si provveda altrimenti.
Tuttavia, nel comunicato della sala stampa, c’è una precisazione non scontata: «Il santo padre desidera riservarsi un certo tempo per la riflessione, la preghiera e il dialogo, prima di qualunque nomina o conferma definitiva».
Non andò così con Ratzinger il quale, due giorni dopo la sua elezione a papa, confermò come segretario di Stato il cardinal Sodano, citandolo espressamente, e lasciandolo al suo posto per oltre un anno, fino al raggiungimento dell’età pensionabile. E così fece con molti altri, a partire dai due sostituti della Segreteria di Stato, per gli Affari generali e per i Rapporti con gli Stati (i ministri degli Interni e degli Esteri).
Sembrerebbe invece che Bergoglio - perlomeno a questo fa pensare l’inciso del comunicato ufficiale - voglia prendersi ancora qualche settimana di tempo per poi procedere ad un ricambio robusto e generalizzato dei vertici della curia e del governatorato, cominciando proprio dalla Segreteria di Stato di Bertone.
Saranno proprio queste nomine a rivelare se veramente quello di Bergoglio sarà un pontificato di rottura e quale direzione potrà prendere, al di là dei gesti e delle parole apparentemente “rivoluzionarie” di questi giorni.
Domani ci sarà la prima udienza del papa con un capo di Stato: la presidente argentina Cristina Kirchner. E fra i due i rapporti sono tutt’altro che pacifici: Bergoglio, da presidente della Conferenza episcopale argentina (fino al 2011) e da vescovo di Buenos Aires, non è mai stato un suo sostenitore.
Autorità nella Chiesa cattolica di esponenti della Chiesa cattolica universale
in “www.churchautority.org” dell’ottobre 2012 (versione italiana nel sito)
Dichiarazione di studiosi cattolici
In occasione del cinquantesimo anniversario del Concilio Vaticano II (1962-1965), invitiamo tutti i membri del Popolo di Dio a esaminare la situazione nella nostra chiesa.
Molti insegnamenti del Vaticano II non sono stati affatto, o solo parzialmente, tradotti in pratica.
Questo è dovuto alla resistenza di certi ambienti, ma anche, in una certa misura, alla irrisolta ambiguità di alcuni documenti del Concilio.
Una della principali cause della stagnazione odierna dipende dal fraintendimento e abuso nell’esercizio dell’autorità nella nostra Chiesa. In concreto le seguenti tematiche richiedono una urgente riformulazione.
Il ruolo del papato necessita di una chiara ri-definizione in linea con le intenzioni di Cristo. Come supremo pastore, elemento unificante e principale testimone di fede, il papa contribuisce in modo essenziale al bene della chiesa universale. Ma la sua autorità non dovrebbe mai oscurare, diminuire o sopprimere l’autentica autorità che Cristo ha dato direttamente a tutti i membri del popolo di Dio.
I vescovi sono vicari di Cristo e non vicari del papa. Essi hanno la diretta responsabilità del popolo delle loro diocesi, e una condivisa responsabilità con gli altri vescovi e con il papa, nell’ambito dell’universale comunità di fede.
Il Sinodo dei vescovi dovrebbe assumere un più decisivo ruolo nel pianificare e guidare il mantenimento e la crescita della fede nel nostro mondo così complesso.
Il Concilio Vaticano II ha prescritto collegialità e co-responsabilità a tutti i livelli. Questo non è stato messo in atto.
I vari organismi presbiterali e consigli pastorali, previsti dal Concilio, dovrebbero coinvolgere i fedeli in modo più diretto nelle decisioni riguardanti la formulazione della dottrina, l’esercizio del ministero pastorale e l’evangelizzazione nell’ambito della società secolare.
L’abuso di coprire posti di guida nella chiesa con soli candidati di una determinata mentalità, è una scelta che dovrebbe essere sradicata. Al suo posto dovrebbero essere formulate e monitorate nuove norme che assicurino che le elezioni a queste cariche siano condotte in modo corretto, trasparente e, il più possibile, democratico.
La curia romana ha bisogno di una riforma più radicale in linea con le istruzioni e la visione del Vaticano II.
La curia si dovrebbe limitare ai suoi utili ruoli amministrativi ed esecutivi.
La congregazione per la dottrina della fede dovrebbe essere coadiuvata da commissioni internazionali di esperti, scelti, con indipendenza, per la loro competenza professionale.
Questi non sono per nulla tutti i cambiamenti necessari. Ci rendiamo anche conto che l’attuazione di queste revisioni strutturali necessitano di una elaborazione dettagliata in linea con le possibilità e le limitazioni delle circostanze presenti e future.
Sottolineiamo, però, che le riforme, sintetizzate qui sopra, sono urgenti e la loro attuazione dovrebbe partire immediatamente.
L’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa dovrebbe emulare gli standards di apertura, responsabilità e democrazia raggiunti nella società moderna.
La leadership dovrebbe essere corretta e credibile; ispirata dall’umiltà e dal servizio; con una trasparente sollecitudine per il popolo invece di preoccuparsi delle regole e della disciplina; irradiare Cristo che ci rende liberi; prestare ascolto allo Spirito di Cristo che parla e agisce attraverso tutti e ciascuno.
I nomi dei primi 160 firmatari, Sponsor Accademici della Dichiarazione (tra i quali citiamo: Leonardo Boff, Pedro Casaldaliga, Hermann Häring, Hans Küng) e dei (ad oggi 19 febbraio) 2048 sottoscrittori sono visibili al sito:http://www.churchauthority.org/.
Identikit del futuro papa: l’appello di 2.000 teologi (Adista)
Sono arrivate a quasi 2mila le adesioni ad un documento di teologi cattolici di tutto il mondo, lanciato nell’ottobre scorso in occasione dei 50 anni dell’apertura del Concilio Vaticano II, che traccia l’identikit del futuro papa e le priorità del prossimo pontificato.
Da Hans Küng a Leonardo Boff, da Paul Knitter a mons. Calsaldáliga, da Peter Phan a Paul Collins, tutti i più grandi nomi della teologia cattolica compaiono in calce a un documento che torna prepotentemente di attualità in questi giorni precedenti al conclave. Di seguito il testo integrale.
Molti insegnamenti del Vaticano II non sono stati affatto, o solo parzialmente, tradotti in pratica. Questo è dovuto alla resistenza di certi ambienti, ma anche, in una certa misura, alla irrisolta ambiguità di alcuni documenti del Concilio. Una delle principali cause della stagnazione odierna dipende dal fraintendimento e abuso nell’esercizio dell’autorità nella nostra Chiesa. In concreto le seguenti tematiche richiedono una urgente riformulazione:
Il ruolo del papato necessita di una chiara ri-definizione in linea con le intenzioni di Cristo. Come supremo pastore, elemento unificante e principale testimone di fede, il papa contribuisce in modo essenziale al bene della chiesa universale. Ma la sua autorità non dovrebbe mai oscurare, diminuire o sopprimere l’autentica autorità che Cristo ha dato direttamente a tutti i membri del popolo di Dio.
I vescovi sono vicari di Cristo e non vicari del papa. Essi hanno la diretta responsabilità del popolo delle loro diocesi, e una condivisa responsabilità con gli altri vescovi e con il papa, nell’ambito dell’universale comunità di fede. Il sinodo centrale dei vescovi dovrebbe assumere un più decisivo ruolo nel pianificare e guidare il mantenimento e la crescita di fede nel nostro mondo così complesso.
Il Concilio Vaticano II ha prescritto collegialità e co-responsabilità a tutti i livelli. Questo non è stato messo in atto. I vari organismi presbiterali e consigli pastorali, previsti dal Concilio, dovrebbero coinvolgere i fedeli in modo più diretto nelle decisioni riguardanti la formulazione della dottrina, l’esercizio del ministero pastorale e l’evangelizzazione nell’ambito della società secolare.
L’abuso di coprire posti di guida nella chiesa con soli candidati di una determinata mentalità è una scelta che dovrebbe essere sradicata. Al suo posto dovrebbero essere formulate e monitorate nuove norme che assicurino che le elezioni a queste cariche siano condotte in modo corretto, trasparente e il più possibile democratico.
La curia romana ha bisogno di una riforma più radicale in linea con le istruzioni e la visione del Vaticano II. La curia si dovrebbe limitare ai suoi utili ruoli amministrativi ed esecutivi. La congregazione per la dottrina della fede dovrebbe essere coadiuvata da commissioni internazionali di esperti, scelti indipendentemente, per la loro competenza professionale.
Questi non sono tutti i cambiamenti necessari. Ci rendiamo anche conto che l’attuazione di queste revisioni strutturali necessitano una elaborazione dettagliata in linea con le possibilità e le limitazioni delle circostanze presenti e future. Sottolineiamo, però, che le riforme, sintetizzate qui sopra, sono urgenti e la loro attuazione dovrebbe partire immediatamente.
L’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa dovrebbe emulare gli standards di apertura, responsabilità e democrazia raggiunti nella società moderna. La leadership dovrebbe essere corretta e credibile; ispirata dall’umiltà e dal servizio; con una trasparente sollecitudine per il popolo invece di preoccuparsi delle regole e della disciplina; irradiare Cristo che ci rende liberi; prestare ascolto allo Spirito di Cristo che parla e agisce attraverso tutti e ciascuno.
La Chiesa-Popolo di Dio secondo il Concilio
di Giordano Frosini
in “Settimana” n. 5 del 6 febbraio 2013
Nella storia del post-concilio in generale e di quello italiano in particolare, il 1985 è un anno di importanza rilevante per due avvenimenti che hanno avuto un influsso notevole e prolungato nella vita della Chiesa sia italiana che universale.
Nel mese di settembre si tenne il secondo convegno delle chiese italiane a Loreto e, solo pochi giorni più tardi, dal 24 novembre all’8 dicembre, si celebrò a Roma il sinodo straordinario a vent’anni dalla fine del concilio Vaticano II. Se si vuole riflettere in profondità oggi, a cinquant’anni dall’inizio dello stesso concilio, sulla storia della ricezione della grande assise ecumenica, non è possibile prescindere né dall’uno né dall’altro avvenimento, almeno in lontananza uniti insieme dallo stesso spirito e da una comune ispirazione.
Del convegno di Loreto si è parlato a sufficienza nel passato, soprattutto per mettere in risalto il cambio di marcia della Chiesa italiana, che conserva ancora, a distanza di quasi quarant’anni, conseguenze ben visibili, tutt’altro che positive, a giudizio di chi scrive. Vogliamo ora mettere in luce quanto avvenne nel sinodo straordinario che, per il suo influsso, va naturalmente ben al di là dei confini e dei problemi della Chiesa italiana e ha suscitato una discussione sulla quale è opportuno ritornare.
Le tre fasi post-conciliari
Normalmente, nella divisione della ricezione post-conciliare in tre tempi, il sinodo viene considerato come la fine del primo periodo e l’inizio del secondo. Il terzo si fa poi cominciare col giubileo del 2000 e si estende fino ai nostri giorni. Di esso si è parlato soprattutto, ma non soltanto, per la vicenda riguardante il concetto di “popolo di Dio”, sostituito, con una sorta di colpo di mano, con la parola “comunione”. Da allora (si veda, per esempio, l’esortazione post-sinodale Christifideles laici), per esprimere l’ecclesiologia del Vaticano II, si parlerà comunemente di Chiesa-mistero, di Chiesa-comunione e di Chiesa-missione: la Chiesa-popolo di Dio praticamente sparisce dal vocabolario usuale anche dei teologi.
Eppure il termine appare addirittura nello stesso titolo del capitolo secondo della costituzione Lumen gentium, in seguito a una scelta ben ponderata dagli attenti padri conciliari, in diretto collegamento col capitolo primo dedicato al mistero della Chiesa. Come dire: il mistero, che nasconde in sé l’intima natura della Chiesa, si realizza concretamente in un popolo, con tutte le caratteristiche che il termine si porta con sé. La scelta proveniva da un uso molto lontano e frequentissimo sia del Primo che del Secondo Testamento, oltre che della liturgia. Un conteggio preciso, compresi connessi e derivati, sarebbe praticamente impossibile. Il sinodo straordinario terminò con una relazione che sostituiva l’ormai consueta esortazione post-sinodale del pontefice, e un messaggio - si direbbe: ironia della sorte - «al popolo di Dio».
Il teologo Walter Kasper, chiamato per l’occasione a fare da segretario, rilasciò quasi immediatamente i suoi ricordi e il suo commento in una piccola pubblicazione, che ci può aiutare molto a ricomporre il dibattito, svoltosi purtroppo in un tempo abbastanza ristretto: Il futuro dalla forza del concilio. Sinodo straordinario dei vescovi 1985 (Queriniana, Brescia 1986).
Suscita un po’ di meraviglia il fatto che la critica e la sostituzione del concetto di popolo siano state fatte proprie e approvate anche da lui, che pure ha dimostrato più tardi di essere capace di grande originalità e di altrettanto coraggio.
La cosa fu mal digerita in un primo tempo, poi però la contestazione lentamente si organizzò dando vita, specialmente nel Sudamerica, ad una reazione di cui dobbiamo prendere pienamente atto.
Questa sostituzione non è per caso un atto indebito su un testo conciliare, nato non proprio immotivatamente e senza adeguata preparazione da parte della grande assemblea?
Per la verità, la lettura del documento finale destava già in principio una certa sorpresa, perché si affermava che «il fine per cui è stato convocato questo sinodo è stato la celebrazione, la verifica e la promozione del concilio Vaticano II», con una precisazione ulteriore: «Unanimemente e con gioia abbiamo verificato anche che il concilio è una legittima e valida espressione e interpretazione del deposito della fede, come si trova nella sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa» (n. 2). Un sinodo può parlare così di un concilio ecumenico, la massima espressione del magistero della Chiesa? Con questo stesso spirito, chiaramente sopra le righe, si sostituisce una delle espressioni centrali del documento conciliare: quella di “popolo di Dio”.
Lo riconosce W. Kasper nel testo prima citato, quando afferma che la relazione introduttiva «denuncia certi arbitri e soggettivismi nel modo di organizzare la liturgia e un modo d’intendere troppo esteriore la partecipazione attiva in campo liturgico, nel senso cioè di una mera cooperazione esterna, invece di un coinvolgimento nel mistero di morte e risurrezione di Gesù Cristo. Constata poi anche un distacco dall’interpretazione scritturistica della tradizione viva e del magistero della Chiesa, anzi una notevole incomprensione della verità oggettivamente data, soprattutto nella sfera della dottrina morale, e anche un certo “cristianesimo di selezione”. Il cuore della crisi è stato individuato nel modo d’intendere la Chiesa.
La qualifica della Chiesa come “popolo di Dio” spesso è stata mal interpretata: la si è isolata dal contesto storico-salvifico della Scrittura e spiegata a partire dal senso naturale, o politico di “popolo di Dio”. Talvolta anche il dibattito sulla democratizzazione della Chiesa ha subito l’ipoteca di tale malinteso». Così, la relazione finale poteva affermare: «L’ecclesiologia di comunione è l’idea centrale e fondamentale nei documenti del concilio». Una frase certamente accettabile, ma in altro contesto, quello direttamente inteso dai padri conciliari. Era proprio necessario, per evitare i malintesi e le erronee interpretazioni del post-concilio, mettere in disparte il concetto di popolo? Non si potevano evitare gli inconvenienti denunciati purificando l’acqua sporca senza buttare via insieme anche il bambino? La questione è così posta nel suo significato fondamentale e il dibattito che ne seguì di conseguenza, all’interno e all’esterno del sinodo, è colto alla sua radice.
La rivolta dei teologi
I teologi che non vorranno accettare il cambiamento sinodale avranno buon gioco a mostrare i danni che da questo possono derivare e di fatto, almeno alcuni tutt’altro che secondari, sono derivati nella concezione e nella vita della Chiesa. Una constatazione che rende ancora più discutibile, in certo modo anche più grave, l’operazione condotta dai padri sinodali, già in questione per avere indebitamente corretto in un punto importante il pensiero del concilio sottoposto alla loro analisi. Si tratta di un vero e proprio cortocircuito teorico e pratico, per il quale è necessario non rassegnarsi. I vantaggi derivanti dalla dottrina conciliare erano stati ben individuati anche dai primi commentatori della costituzione Lumen gentium, come G. Philips, O. Semmelroth, Y. Congar.
Sostanzialmente tutto nasce dalla considerazione della Chiesa come soggetto storico, «l’ultima fase definitiva dell’alleanza bilaterale, che Dio ha stretto col popolo da lui salvato», la comunità escatologica che «peregrina nella storia come un giorno il popolo eletto peregrinò nel deserto avviandosi verso la terra promessa», l’incarnazione storica del mistero provvidenzialmente messo al centro della stesura del primo capitolo.
Aspetti certamente non del tutto ignoti anche prima della celebrazione del concilio. «Questa presentazione teologica - aggiungeva Semmelroth - non vuole affatto sostituire la dottrina della Chiesa quale corpo mistico del Signore con quella di popolo di Dio. Intende piuttosto integrarla, perché l’essenza della Chiesa è così complessa da non poter essere esaurita né da una definizione logica né da un’unica immagine».
Anzi, la priorità del concetto di popolo rispetto all’immagine del corpo sottolinea ancora meglio uno dei motivi principali, se non il principale, della scelta dei padri conciliari, che è quello dell’affermazione dell’uguaglianza sostanziale fra tutti i membri della Chiesa, il motivo che aveva già consigliato lo spostamento del capitolo dedicato alla gerarchia dal secondo al terzo posto.
Anche nella triade privilegiata fra le diverse immagini della Chiesa (popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo), precede il concetto di popolo, non soltanto per un motivo di carattere trinitario, ma anche perché il corpo mette in luce la diversità delle membra, della quale si parla soltanto dopo aver assicurato la sostanziale uguaglianza fra tutti i battezzati: la diversità dei carismi e dei ministeri non deve ostacolare quel concetto che il n. 32 della Lumen gentium esprimerà con icastica solennità con le note parole: «Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, vige fra tutti una vera uguaglianza (vera aequalitas) riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo». L’aggiunta dell’aggettivo, di per sé non necessario, dà all’espressione una forza e un rilievo singolari.
Certo, fra le caratteristiche del popolo di Dio non andrà mai dimenticata la comunione, che lega essenzialmente la Chiesa al suo fondatore e Signore e, di conseguenza e nella stessa maniera, tutti i membri componenti fra di loro.
Comunione però non è una sostanza, non indica un soggetto; in termini aristotelici, dovrebbe essere catalogata fra gli accidenti. Dunque, più un aggettivo che un sostantivo. Oltretutto, fra le caratteristiche del popolo tutto quanto sacerdotale, il testo conciliare enumera anche la potenziale capacità di raccogliere «tutti gli uomini» di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ogni uomo è ordinato al popolo di Dio e ogni nazione è parte potenziale del regno universale di Cristo. Anzi, di più, «questo carattere di universalità che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende ad accentrare tutta l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo nell’unità dello Spirito di lui» (LG 13). Una potenzialità che incipientemente e misteriosamente prende forma e attualità già nei giorni della storia.
Sulla stessa linea Congar, per il quale il concetto di popolo di Dio mette «in risalto alcuni valori biblici fondamentali e l’orientamento globale verso il servizio missionario del mondo, cosa che risalta già dalle prime parole della costituzione dogmatica Lumen gentium: 1) una prospettiva di storia della salvezza, cioè una prospettiva escatologica; 2) l’idea di un popolo in cammino, in condizioni di itineranza; 3) l’affermazione di una relazione con tutta l’umanità, essa stessa in via di unificazione, e alla ricerca, tra mille difficoltà, di una maggiore giustizia e pace».
Può il concetto di comunione conservare e mettere in evidenza tutte le caratteristiche che il concetto di popolo si porta con sé? Esso possiede una vera ricchezza di significati difficilmente reperibili altrove ed esprimibili diversamente. Popolo come soggetto eminentemente attivo su tutto il fronte dell’attività della Chiesa: un popolo sacerdotale, quindi, profetico e regale. Un ottimo schema di lavoro, di riflessione teologica, di catechesi.
La critica più aspra e decisa, come abbiamo già detto, proviene dal Sudamerica. Ad essa ha dato voce sistematica il teologo belga-brasiliano Joseph Comblin in un libro tradotto anche in italiano, dal titolo originale O povo de Deus (Il popolo di Dio, Servitium/Città aperta, Troina - Enna - 2007), pubblicato nel 2002, «in previsione del nuovo pontificato», come afferma lo stesso autore nelle prime parole dell’introduzione.
«Le critiche al Vaticano II - afferma l’autore - condussero il sinodo del 1985 semplicemente a eliminare il concetto di “popolo di Dio”, sostituendolo con il concetto di comunione, come se questo avesse la medesima risonanza e come se i due fossero alternativi. La conseguenza fu immediata, anche se non sappiamo se fu intenzionale o no». Una categoria troppo sociologica? Ma «la sociologia praticamente non usa mai il concetto di popolo e teme di usarlo».
Perché allora questo timore? Naturalmente la critica di Comblin è condotta secondo gli schemi e il linguaggio della teologia della liberazione e raggiunge il suo vertice con l’affermazione che la scelta del termine comunione potrebbe facilmente far rientrare dalla finestra ciò che è stato messo felicemente fuori dalla porta, imponendo in pratica la comunione come ubbidienza al volere e al pensiero della gerarchia, eliminando o rendendo comunque difficile il contributo da parte del rimanente popolo di Dio. Comunque «il tema della comunione non esclude il tema del popolo di Dio né deve prendergli il posto. Il concetto di comunione è molto più ristretto che il concetto di popolo. Il popolo è una forma di comunione, ma include molti più elementi che il concetto di comunione». Parole, queste ultime, sulle quali non è difficile trovarsi d’accordo.
Il pensiero di Pino Colombo
È questo il pensiero di non pochi altri teologi, fra cui merita di essere ricordato S. Dianich, che in vario modo e da diversi punti di vista hanno sottoposto a motivata critica il cambiamento del testo conciliare.
Ma vorremmo ricordare in particolare il teologo milanese recentemente scomparso Giuseppe Colombo, insospettato sulla base del suo pensiero teologico e meticoloso al massimo nel ricostruire e discutere le diverse concezioni prese in esame.
Ci riferiamo in questo momento soprattutto a un suo contributo pubblicato di recente negli studi in onore di S. Dianich (Ecclesiam intelligere, Dehoniane, Bologna 2012), da considerarsi l’ultimo suo intervento sul nostro problema, aggiornato anche ad una successiva presa di posizione del card. Kasper.
Ricostruita con precisione la vicenda in questione, dopo aver ricordato che «sulla sostituzione di “comunione” a “popolo di Dio”, la Relazione non dice una parola», rimane a noi il diritto di domandarci «perché il sinodo abbia ignorato completamente la nozione di “popolo di Dio”, liberandosi così del dovere di fornire una qualsiasi spiegazione». Anche se, come si afferma, la nozione in questione è stata corrotta, politicizzata, socializzata fino a perdere ogni riferimento alla Chiesa, «la domanda è se la reazione debba spingersi a espungere totalmente dai testi del magistero la nozione di “popolo di Dio”», finendo col porre in questo modo, oltre che un problema storico (perché abbandonare la scelta dei padri conciliari?), un problema teorico di notevole importanza.
Secondo il pensiero dell’autore, mentre «“popolo di Dio” indicherebbe la svolta dell’ecclesiologia del Vaticano II», il concetto di comunione è visto in funzione della collegialità, cioè del rapporto papa-vescovi. «Non è possibile vedere, “oltre” la collegialità e (estendendo la nozione) “oltre” la comunione, il “popolo di Dio” conservandolo nella sua nozione propria, invece di rifiutarlo come una nozione inaccettabile? Di fatto sembra che al sinodo esso sia stato considerato come un’alternativa.
È quindi da chiedersi se, rispetto al “popolo di Dio”, la nozione di “comunione” non stacchi la Chiesa dal mondo, ritraendola in se stessa, sui suoi problemi interni (collegialità, conferenze episcopali, problemi dei laici, vocazione universale alla santità). Nessuno può contestare l’importanza e l’urgenza di questi problemi, ma l’insistente ed esclusivo richiamo ad essi sembrano costituire una penalizzazione evidente rispetto all’apertura al mondo del “popolo di Dio”». Di nuovo, e per altro verso, un ritorno al passato, questa volta per motivi esterni piuttosto che interni, ma sempre fondamentali nella mente dei padri conciliari e nei documenti ai quali essi dettero vita.
Su questo sfondo - continua il teologo milanese - c’è anche da considerare che ai paesi del terzo mondo e dei cosiddetti paesi emergenti va riconosciuto il diritto di elaborare una teologia autoctona, senza imporre loro le linee della teologia occidentale. «In ogni caso, la Chiesa come “comunione” è l’ecclesiologia del sinodo straordinario 1985, non è l’ecclesiologia del concilio Vaticano II, che - salvo meliori iudicio - è quella del “popolo di Dio”». Per questo è meglio tenere distinti il concilio e il sinodo, anche dopo i più recenti tentativi di mantenerli uniti di Kasper e Pottmeyer.
Un necessario recupero
Dopo avere ascoltato le diverse opinioni, una scelta si impone anche per noi. Omnibus perpensis, sembra giusto rispettare la scelta conciliare, a cui i padri arrivarono dopo una riflessione serena e matura durante le sedute assembleari e in non pochi casi anche in precedenza. Essa fa corpo con la scelta fondamentale di evidenziare, prima delle specificazioni, l’elemento unificante di tutte le componenti della Chiesa. Non si perde niente di quanto porta con sé il concetto di comunione e l’incombente immagine di corpo mistico, ma non si può negare che l’intenzione del concilio sia quella di chiamare a raccolta l’intero popolo cristiano e di fare appello al suo comune senso di responsabilità. È bene che questa vocazione risuoni e risplenda chiaramente nel termine stesso scelto avvedutamente dal concilio.
A norma di logica ecclesiale, nessuno ha diritto di cambiare il pensiero e i termini destinati a veicolarlo di un concilio ecumenico, che rimane l’espressione massima dell’insegnamento della Chiesa. Se il concetto di popolo è stato deteriorato da immissioni d’altro genere, si può sempre ricorrere a una sua purificazione, senza metterlo totalmente o quasi in disparte. C’è piuttosto da pensare, in questa fase di stanca della ricezione conciliare, a un suo richiamo perentorio perché la comunità cristiana partecipi attivamente e responsabilmente ai compiti che un concilio coraggioso e innovatore ha ad essa consegnato.
Il Concilio Vaticano II dimenticato
di Filippo Gentiloni (il manifesto, 11 dicembre 2012)
Un discreto numero (42) di teologhe e teologi cattolici di Australia, Austria, Cile, Germania, Gran Bretagna, India, Irlanda, Olanda, Usa e Svizzera hanno messo in rete una «Dichiarazione» critica per i ritardi della curia romana nell’attuare il Concilio Vaticano II. La pubblica la rivista «Confronti»: chi la condivide è invitato a sottoscriverla.
Ecco il testo: «In occasione del cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, noi invitiamo tutti i membri del popolo di Dio a considerare la situazione della nostra chiesa. Molti dei punti-chiave del Vaticano II non sono stati attuati o lo sono stati solo parzialmente. Ciò è dipeso dalla resistenza di alcuni ambienti, ma anche da elementi di ambiguità irrisolta. La principale origine della attuale stagnazione sta nel cattivo uso della autorità nella nostra chiesa».
Il testo (uno dei suoi sponsor è Hans Küng) afferma fra l’altro che il ruolo del papato deve essere ridefinito con chiarezza. Il papa deve contribuire sostanzialmente al bene della chiesa universale: tuttavia, la sua autorità non deve oscurare o reprimere l’autorità direttamente data da Cristo a tutti i membri del popolo di Dio. I vescovi sono vicari di Cristo, non del papa. Il Sinodo dei vescovi dovrebbe assumere un ruolo più decisivo. Il Vaticano II ha previsto una collegialità e corresponsabilità che non è stata realizzata. Il testo prosegue dicendo che dovrebbe essere sradicata la cattiva abitudine di scegliere per ruoli di leadership nella chiesa soltanto candidati di una certa mentalità. Invece si dovrebbero scegliere nuove normative affinché le procedure siano condotte in maniera trasparente e democratica.
La curia romana necessita di una riforma più radicale, in linea con la visione del Vaticano II. La Congregazione per la dottrina della fede dovrebbe essere assistita da esperti indipendenti e competenti. L’esercizio dell’autorità nella nostra chiesa dovrebbe emulare gli standard raggiunti dalla società moderna.
L’abate di Einsiedeln definisce drammatica la situazione attuale della Chiesa
di Josef Bossart
in “www.tagsatzung.ch” del 9 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
La più recente pubblicazione del cinquantenne abate benedettino di Einsiedeln Martin Werlen porta, è vero, l’inoffensivo titolo “Scoprire insieme la brace sotto la cenere” (in tedesco: “Miteinander di Glut unter der Asche entdecken”). Ma la sua “pro-vocazione” per l’Anno della Fede 2012-2013 mette a fuoco dei problemi che, spesso, nella Chiesa cattolica, vengono nascosti sotto il tappeto. Il fatto che l’abate Werlen parli con estrema chiarezza dovrebbe suscitare un certo scalpore in una Conferenza episcopale svizzera polarizzata. “Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza”, dichiarava nella sua ultima intervista il cardinale di Milano, recentemente deceduto, Carlo Maria Martini.
Martin Werlen ha citato queste parole in una relazione tenuta il 21 ottobre scorso in occasione dell’apertura dell’Anno della Fede nella chiesa dell’abbazia benedettina di Einsiedeln. Il testo, che ha destato scalpore, in questi giorni è stato rielaborato e pubblicato sotto forma di opuscolo. Si tratta di un documento di lavoro, che deve essere discusso e forse criticato, si legge nel breve testo di presentazione. “Speriamo che queste parole incoraggino le persone impegnate nella Chiesa, al di là di ogni tentazione di disperazione, a cercare insieme la brace sotto la cenere, affinché il fuoco riprenda ad ardere.”
mucchi di cenere fredda
Martin Werlen considera la sua riflessione assolutamente come una “pro-vocazione”. In questa parola, sono contenuti il termine “vocazione”, che significa “chiamata, invito”, e il prefisso “pro”, che dice chiaramente che tale chiamata è una sfida e uno stimolo “in positivo”. Si tratta di pensieri che “vogliono incoraggiare le persone a cercare insieme la brace sotto la cenere, affinché il fuoco possa tornare ad ardere”.
Werlen scorge innumerevoli mucchi di cenere fredda nella Chiesa di oggi. La sua diagnosi è impietosa: la situazione della Chiesa, cinquant’anni dopo l’apertura del Concilio Vaticano II (1962- 1965), è drammatica, e non solo nei paesi di lingua tedesca. Non solamente continua ad aggravarsi la situazione di carenza di preti e religiosi, né si tratta soltanto del costante regresso della frequentazione delle chiese... Il vero problema, secondo Werlen, è altrove: “Manca il fuoco!” Circa il 20% della popolazione svizzera non appartiene ad alcuna comunità di fede, e questa tendenza è in aumento. Per Werlen è chiaro: “Se le cose proseguono così, la nostra fredda Chiesa, a queste latitudini, può effettivamente scomparire, con le sue istituzioni.”
In questa situazione è grande la tentazione di rimanere attaccati alla cenere, dice Werlen, e giunge allora a parlare della forte polarizzazione esistente tra conservatori e progressisti nella Chiesa di oggi. Da entrambe le parti si gira molto attorno alla cenere. Per lui è chiaro: “Se, come Chiesa, ci blocchiamo nelle polarizzazioni, impediamo alle persone di scoprire la brace che dà la vita e vuole continuare ad ardere anche oggi. L’obiettivo deve essere “ascoltare oggi ciò che Dio vuole dirci, e anche farlo”.
nei guai per colpa propria
Parla molto chiaramente Werlen a proposito dei guai in cui si va a cacciare la Chiesa per propria colpa. Se ci sono ancora oggi esponenti del clero che si lamentano che da quarant’anni vengono proposti alla discussione sempre gli stessi problemi, significa che ci si gioca qualcosa di centrale, dice Werlen. “Se i problemi non vengono affrontati o se neppure è lecito parlarne, con questo comportamento ci si gioca la credibilità - e con essa però anche la fede. È in gioco l’essenziale!” E inoltre: atto di disobbedienza è non prendere sul serio persone e situazioni. Facendo allusione alla Pfarrei-Initiative Schweiz (Iniziativa delle parrocchie - Svizzera) e simili tentativi, diffusi in varie parti del mondo, Werlen scrive: “Poiché coloro che hanno la responsabilità non si rendono conto della situazione e sono quindi disobbedienti, nascono iniziative che sono gridi d’aiuto, interventi d’emergenza, che sono sì comprensibili, ma che possono anche condurre alla spaccatura o all’abbandono dell’istituzione”. Esprime quindi comprensione per le molte iniziative sorte negli ultimi decenni, ma vuole proseguire su un’altra strada: “Scoprire insieme la brace sotto la cenere.”
credibilità perduta
Secondo Martin Werlen, in questi ultimi anni la Chiesa ha “perso molta credibilità”. Se, ad esempio, ci sono ancora oggi dei responsabili ecclesiastici che arrivano a dire pubblicamente che “la maggior parte degli abusi sessuali non avvengono nella Chiesa, ma nelle famiglie”, dimostrano in questo modo “non solo di avere una posizione difensiva irresponsabile, ma anche incompetenza teologica.” In questo modo si indebolisce la testimonianza della Chiesa: “Anche quando gli abusi sessuali avvengono nelle famiglie di battezzati, sono abusi commessi nella Chiesa. Tutti i battezzati fanno parte della Chiesa. La testimonianza deve essere di tutti i battezzati...”
il sistema delle nomine vescovili è superato
Werlen vede cenere fredda da togliere ad esempio nel sistema attuale della nomina dei vescovi. Per la Chiesa del XXI secolo dovrebbe essere naturale che battezzati e cresimati di una determinata diocesi fossero coinvolti “in maniera adeguata” nel processo di nomina. Werlen vede cenere fredda anche nella discussione bloccata sul celibato dei preti. Ritiene che la vita celibataria sia una possibile via per seguire Cristo, così come la vita coniugale. Entrambe queste forme di vita sono doni di Dio, ma questo non viene più percepito dalla gente, neanche dai battezzati. “Siamo riusciti a presentare la sequela di Cristo nel celibato in maniera tale da essere considerata legge”. Cenere fredda vi è anche sulla questione del genere, rispetto alla quale la Chiesa si mostra sempre “maldestra e impotente”: “L’essere umano è uomo o donna. Ma la chiesa continua ad avere difficoltà a dire sì alla donna”.
consigliare il papa per cinque anni
L’abate di Einsiedeln vede anche la possibilità di percorrere nuove vie nell’organo che riunisce i consiglieri del papa. Ritiene che ci sia sufficiente spazio per nuove forme, tenuto conto che alla fine i cardinali non sono parte del deposito della fede. Werlen fa una proposta: ogni cinque anni, delle persone provenienti da tutte le parti del mondo: donne e uomini, giovani e meno giovani, potrebbero essere nominati nell’organo dei consiglieri. Ogni tre mesi si incontrerebbero a Roma con il papa. Nessuno dei presenti direbbe o tacerebbe alcunché per la preoccupazione della propria carriera. Tali incontri, scrive Werlen, “potrebbero portare una dinamica nuova nella direzione della Chiesa”.
L’opuscolo “Miteinander die Glut unter der Asche entdecken” è disponibile nella rivendita del monastero di Einsiedeln e di Fahr al prezzo di 5 FrSv. Il ricavato è destinato all’Istituto Liturgico
Ecco perché Costantino non fu tollerante
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 9.11.2012)
Caro Augias,
vari quotidiani, dando notizia della mostra milanese su Costantino, hanno titolato sulla sua “tolleranza”. -Vorrei ricordare che fu proprio Costantino il padre dell’antisemitismo. Egli emanò, l’11 dicembre 321, l’editto Codex Judaeis, prima legge penale antiebraica, segnando così l’inizio di una persecuzione e del tentativo di genocidio degli ebrei.
L’editto definiva l’ebraismo: “secta nefaria, abominevole, feralis, mortale” e formalizzava l’accusa di deicidio. Da allora, il processo antisemitico non s’è più interrotto, ad eccezione del breve periodo di reggenza dell’imperatore Giuliano detto (a torto) l’Apostata.
I successivi imperatori introdussero le Norme Canoniche dei Concili nel Codice Civile e Penale.
Con Costantino II, Valentiniano e Graziano, dal 321 al 399 d.C., una serie spietata di leggi ha progressivamente e drasticamente ridotto i diritti degli ebrei.
Si condannava ogni ebreo ad autoaccusarsi di esserlo: in caso contrario c’erano l’infamia e l’esilio. -Proibito costruire sinagoghe. Leggi contro la circoncisione. Obbligo di sepoltura in luoghi lontani e separati da quelli cristiani. Altro che tolleranza, c’è un limite anche alla falsificazione della storia.
Arturo Schwarz
La mostra milanese celebra i 17 secoli che ci separano dalla promulgazione di quell’editto di Milano (313 e.v.) con il quale il grande imperatore rendeva il cristianesimo “religio licita”, dopo che per secoli i suoi seguaci erano stati perseguitati. Le ragioni del provvedimento, al di là delle letture agiografiche, furono ovviamente politiche: l’impero tendeva a spaccarsi, la nuova religione parve un “collante” più efficace dei vecchi culti. Costantino peraltro conservò per tutta la vita il titolo “pagano” di pontifex maximus e si convertì al cristianesimo solo in punto di morte.
Né il suo comportamento personale ebbe nulla di veramente cristiano (fece uccidere moglie e figlio) anche se gli ortodossi lo hanno santificato. Quel che più conta, considerata la lettera del signor Schwarz, fu il suo fiero antigiudaismo. Arrivò a definire quella religione “superstitio hebraica” contrapponendola alla “venerabilis religio” dei cristiani. Presiedette, da imperatore, e diremmo da “papa”, il fondamentale Concilio di Nicea (325).
Soprattutto aprì la strada all’unificazione dei due poteri, temporale e religioso, in uniche mani. All’inizio furono quelle dell’imperatore, cioè le sue, col passare degli anni diventarono quelle del pontefice romano. Alla fine di quello stesso IV secolo il percorso si concluse quando un altro imperatore, Teodosio I, proclamò il cristianesimo religione di Stato, unica ammessa, facendo così passare i cristiani dal ruolo di perseguitati a quello di persecutori di ogni altro culto, ebrei compresi.
Concilio Vaticano II
Il “Patto delle Catacombe”
Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari hanno celebrato una Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Dopo questa celebrazione, hanno firmato il “Patto delle Catacombe”.
Il documento è una sfida ai “fratelli nell’Episcopato” a portare avanti una “vita di povertà”, una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito il papa Giovanni XXIII. I firmatari - fra di essi, molti brasiliani e latinoamericani, poiché molti più tardi aderirono al patto - si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il testo ha avuto una forte influenza sulla Teologia della Liberazione, che sarebbe sorta negli anni seguenti. Uno dei firmatari e propositori del Patto fu dom Helder Câmara, il cui centenario della nascita è stato celebrato il 7 febbraio.
Ecco il testo.
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.
Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.
Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.
Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore...). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.
Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.
Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.
Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1 Cor 4,12 e 9,1-27.
Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.
Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.
Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale - due terzi dell’umanità
ci impegniamo: - a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;
a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.
Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così: - ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro; - formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo; - cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti...; - saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.
Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.
Aiutaci Dio ad essere fedeli.
Le vie della rivoluzione conciliare. Religioni non cristiane: dal decentramento al dialogo irreversibile
di Régine Maire
in “www.temoignagechretien.fr” del 14 ottobre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Sono quasi cinquant’anni che la parola dialogo è diventata una categoria teologica cattolica, apparsa per la prima volta nell’enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam (ES) nel 1964. Così egli descrive l’atteggiamento della Chiesa: “La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio”.
Pubblicata prima della fine dei lavori del Concilio Vaticano II, questa lettera dà il tono di un cambiamento profondo nell’approccio. Se la maggior parte dei vescovi sono arrivati al Concilio con una visione centralizzatrice e gerarchica della Chiesa, molto presto appare un “rovesciamento” legato all’aggiornamento auspicato da Giovanni XXIII. Tale aggiornamento può essere qualificato come decentramento, nuovo sguardo elementare ma innovatore sulla gerarchia e su coloro che governano diventati “servi”, sulla comunità dei fedeli diventata popolo di Dio, sul mondo diventato partner di dialogo, sulla verità della Chiesa nella sua relazione con Cristo.
Alla radice, il “decentramento” stesso del Dio trinitario: comunione d’amore tra i Tre, comunicazione d’amore verso ciò che non è Dio. È questa visione di Dio che ispirerà l’aggiornamento. Si tratta quindi davvero di un dialogo di salvezza: “È in questa conversazione di Cristo fra gli uomini che Dio lascia capire qualche cosa di Sé, il mistero della sua vita, unicissima nell’essenza, trinitaria nelle Persone; e dice finalmente come vuol essere conosciuto; Amore Egli è” (ES, 72).
Questo movimento di decentramento, la Chiesa cattolica si trova obbligata a farlo per se stessa: la frattura è tale tra una Chiesa che è rimasta al programma della Controriforma e al Syllabus (1) ed una società che cambia bruscamente, una storia che accelera, che Giovanni XXIII convoca il Concilio per ascoltare “ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa”. Il Concilio ha avuto un senso: “quello di passare dall’ambito ideale o ideologico al concreto della vita della Chiesa. Non per niente Giovanni XXIII lo ha chiamato concilio pastorale. Ciò che designa come “pastorale” era dottrina, ma che si esprime nella storia, nel tempo e nel mondo attuale... Il concilio è dottrinale, ma dottrinale-pastorale, di una dottrina che chiede di essere applicata storicamente” (Yves Congar) (2).
Prendendo coscienza del passaggio da un modello di società del tipo “stato di cristianità” ad una società secolarizzata, globalizzata e scristianizzata, i vescovi produrranno un testo importantissimo per la nostra epcoa la Dichiarazione sulla Libertà religiosa (Dignitatis Humanae). Questa dichiarazione è uno dei testi più forti e più rivoluzionari del Concilio, un testo che riconosce ad ogni uomo, ad ogni comunità umana, la libertà di coscienza, la libertà di credere e di esprimere questa fede pubblicamente, la libertà di culto.
Siamo agli antipodi delle condanne pubbliche degli “errori del nostro tempo” del Sillabus. Riguardando la libertà di religione, l’apertura alle altre confessioni cristiane e alle religioni non cristiane, l’aggiornamento è in opposizione frontale con quel passato ecclesiale, ma in profonda sintonia con la Scrittura e la Tradizione e con ciò che si viveva sul campo, in particolare nelle parrocchie e nei movimenti. In quel testo il Concilio riconosceva la legittima rivendicazione riguardante “la libera responsabilità” dell’uomo e il “libero esercizio della religione nella società”. E vuole impegnare irrevocabilmente la Chiesa davanti al mondo.
Oltre alla definizione della libertà religiosa, la dichiarazione ricorda il dovere di ricerca della verità: non una relativizzazione della stessa, ma la condizione per la quale gli uomini possano ascoltare la Verità di Cristo. Quest’ultima non può rivolgersi che alla nostra libertà. Questo “senso dell’uomo” permetterà l’apertura a tutti: agli atei, ai credenti di altre religioni.
Per la prima volta, un concilio si esprimerà sulle religioni non cristiane con rispetto e riconoscendo il loro valore riguardo alla fede. È la Dichiarazione Nostra Aetate (NA) che incoraggerà il dialogo interreligioso e la collaborazione tra credenti. Dopo aver considerato sobriamente le religioni tradizionali, l’induismo, il buddismo, la Chiesa “esorta i suoi figli affinché... sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi” (NA 2).
Inoltre, il Concilio guarda “con stima” ai musulmani, sottolinea i punti di vicinanza con la fede cristiana ed esorta alla comprensione reciproca. Il n° 4 sottolinea la relazione particolarissima con il popolo ebraico: la Chiesa ha con la discendenza di Abramo lo stesso rapporto esistente tra l’Antico e il Nuovo Testamento. A causa di questo patrimonio comune, il Concilio incoraggia la conoscenza e la stima reciproca... Da allora, le relazioni tra ebrei e cristiani non hanno smesso di trasformarsi: il dialogo è esigente e attraversa momenti di tensione ma la qualità delle relazioni personali, così come il desiderio di conoscenza dell’ebraismo attuale, permette la fraternità.
Per la maggior parte dei cattolici (e dei protestanti) l’apertura alle altre religioni è un dato acquisito, la cui testimonianza più bella è l’incontro di Assisi nel 1986, seguito da iniziative di incontro organizzate da Sant’Egidio in uno spirito di impegno a servizio della Pace e nella fiducia che il disegno di Dio per l’umanità è più ampio del mondo dei credenti.
E inoltre, da allora, si possono contemplare i frutti di questa esortazione: dalle visite dei papi nelle sinagoghe e nelle moschee ai numerosi gruppi interreligiosi che si riuniscono nelle città e nei quartieri. Cammin facendo, abbiamo preso coscienza delle poste in gioco, spirituali certo, ma anche civiche e politiche per il “vivere insieme” e per la pace.
Il dialogo interreligioso fa ora parte del paesaggio: a Lione, ad esempio, i responsabili religiosi si riuniscono regolarmente tra loro ma anche con il sindaco in un organismo di concertazione; vengono organizzate visite fraterne per adulti e ragazzi; si fanno incontri tra imam e preti; vi sono marce per la pace che riuniscono cristiani, musulmani, ebrei e buddisti... Certo, sussistono le tensioni con coloro che non hanno accettato la svolta del Vaticano II, ma la traiettoria mi sembra irreversibile: è ormai superato il ripiegamento su di sé dal vangelo dell’ “ospitalità”, che trova il suo fondamento sullo stile di vita di Gesù Cristo, sulla sua apertura a tutti, sul suo modo di entrare in relazione... anche con Dio, di cui ci rivela il volto di Padre.
(1) “Elenco contenente i principali errori del nostro tempo”, redatto da papa Pio IX nel 1864 e
pubblicato insieme all’enciclica Quanta cura.
(2) “Conversazioni d’autunno, Yves Congar, Cerf.
* Régine Maire è delegata episcopale per le relazioni interreligiose della diocesi di Lione
Sinodo, i mea culpa dei vescovi
“Nella Chiesa arroganza e ipocrisia”
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 12 ottobre 2012)
L’ultimo mea culpa in ordine di tempo è venuto dal cosiddetto “papa nero”, il superiore dei gesuiti. «La nuova evangelizzazione - ha detto padre Adolfo Nicolas - deve imparare dagli aspetti buoni e meno buoni della prima evangelizzazione. Mi sembra che noi missionari non l’abbiamo fatto con la profondità richiesta. Abbiamo cercato le manifestazioni occidentali della fede, e non abbiamo scoperto in che maniera Dio ha operato presso altri popoli. E tutti ne siamo impoveriti». Il Sinodo sulla nuova evangelizzazione si è aperto domenica e in Vaticano la discussione è in pieno sviluppo.
Tra i vescovi prevalgono accenti autocritici. Monsignor Rino Fisichella, che del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione è il presidente, nel suo intervento ha detto: «Ci siamo rinchiusi in noi stessi. Mostriamo un’autosufficienza che impedisce di accostarci come una comunità viva e feconda che genera vocazioni, tanto abbiamo burocratizzato la vita di fede e sacramentale ».
Ancora più duro è l’arcivescovo filippino Socrates Villegas: «Perché in alcune parti del mondo c’è una forte ondata di secolarizzazione, una tempesta di antipatia o pura e semplice indifferenza verso la Chiesa? La nuova evangelizzazione richiede nuova umiltà. Il Vangelo non può prosperare nell’orgoglio. L’evangelizzazione è stata ferita e continua ad essere ostacolata dall’arroganza dei suoi agenti. La gerarchia deve evitare l’arroganza, l’ipocrisia e il settarismo. Dobbiamo punire quanti tra noi sbagliano, invece di nascondere gli errori».
Un altro big come il cardinale Timothy Dolan, arcivescovo di New York e presidente della Conferenza episcopale Usa, rilancia l’importanza della confessione. «La risposta alla domanda “cosa c’è di sbagliato nel mondo?” non è la politica, l’economia, il secolarismo, l’inquinamento, il riscaldamento globale... No. Come scrisse Chesterton, “la risposta alla domanda cosa c’è di sbagliato nel mondo sono due parole: sono io».
Ieri i lavori del Sinodo si sono sospesi per la celebrazione dei 50 anni del Concilio Vaticano II. E alla sera Benedetto XVI ha sorpreso tutti, affacciandosi al balcone e pronunciando la stessa frase detta da Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962 in quello che è passato alla storia come il “discorso alla luna”. «Alla fine oso fare mie - ha detto Joseph Ratzinger - le parole indimenticabili di Papa Giovanni: andate a casa e date una carezza ai bambini e dite che è del Papa».
«Anch’io sono stato in questa piazza 50 anni fa - ha poi dichiarato, anch’egli con parole suonate di critica alla Chiesa - quella sera eravamo felici, pieni di entusiasmo. In questi 50 anni abbiamo imparato che il peccato originale esiste e si traduce in peccati personali. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre la zizzania, che nella rete di Pietro ci sono anche pesci cattivi, che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa. Qualche volta abbiamo pensato che il Signore dorme e ci ha dimenticato». Nella messa al mattino, all’apertura solenne dell’Anno della fede, Ratzinger aveva detto che «nei decenni che ci separano dal Concilio è avanzata una desertificazione spirituale».
L’ottimismo della fede contro i profeti di sventura
di Bruno Forte (Il Sole 24 Ore, 7 ottobre 2012)
È la sera dell’11 ottobre 1962. Volge al termine la giornata di apertura del Concilio Vaticano II. Giovanni XXIII - inizialmente titubante, come testimonierà il suo fedele segretario, Mons. Loris Francesco Capovila - decide di affacciarsi alla finestra dell’appartamento pontificio. Toccato dallo spettacolo della folla raccolta in Piazza San Pietro, le rivolge alcune parole, passate alla storia come i1 "discorso della luna":
«Cari figlioli - dice il Papa -, sento le vostre voci. La mia è una sola, ma riassume tutte le voci del mondo; e qui di fatto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera - osservatela in alto - a guardare questo spettacolo... Noi chiudiamo una grande giornata di pace... Sì, di pace: "Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà"... La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, un fratello divenuto padre per volontà di Nostro Signore... Continuiamo dunque a volerci bene, a volerci bene così, guardandoci così nell’incontro: cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà... Tornando a casa, troverete i bambini. Date loro una carezza e dite: "Questa è la carezza del Papa". Troverete forse qualche lacrima da asciugare. Abbiate per chi soffre una parola di conforto. Sappiano gli afflitti che il Papa è con i suoi figli specie nelle ore della mestizia e dell’amarezza... E poi tutti insieme ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuiamo a riprendere il nostro cammino».
Sin dal primo momento queste parole suscitarono un’ondata universale di tenerezza commossa, che a distanza di anni pare ancora non spegnersi. Con Giovanni XXIII la Chiesa sembrava farsi vicina a tutti, amica di tutti, pronta a condividere con tutti la gioia e la fatica di vivere. Una Chiesa dell’amore, della speranza e della pace, offerte a ogni cuore. Quelle parole erano il frutto di una consapevolezza profonda, che lo stesso Papa aveva espresso al mattino dello stesso giorno in un discorso, cui aveva lavorato personalmente con grande impegno, fino a limarlo più volte.
Si trattava dell’allocuzione inaugurale del Concilio, intitolata "Gaudet Mater Ecclesia" - "Gioisce la Madre Chiesa" dalle parole con cui si apriva. Pronunciato in latino, il discorso non ebbe l’effetto immediato di quello "della luna". Ne costituiva, però, la premessa, il quadro ragionato, l’impostazione programmatica di fondo. A 50 anni da quel giorno - che sarà solennemente commemorato da Benedetto XVI e dai rappresentanti dei vescovi di tutto il mondo riuniti nel Sinodo sulla nuova evangelizzazione, che si apre oggi a Roma - le parole di Papa Giovanni suonano più che mai attuali, capaci di suscitare ancora gioia e stupore.
In primo luogo, il Pontefice incoraggiava tutti alla fiducia e all’ottimismo della fede, pronunciando un "no" tanto convinto, quanto netto a ogni genere di profeti di sventura, di allora, come di ogni tempo: «Alcuni, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori... A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo».
Se di questo sguardo ottimista c’era bisogno allora, ai tempi della guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi contrapposti, è innegabile che ce ne sia bisogno anche oggi: la crisi che attraversa il "villaggio globale" appare di una gravità con pochi precedenti e la tentazione del pessimismo rischia di farsi strada nei cuori. La storia sembra aver dato ragione alla fiducia del Papa buono con l’impensabile evoluzione che ha portato alla fine dei totalitarismi ideologici e della fin troppo scontata contrapposizione ad essi. Così è presumibile che il futuro darà ragione a chi continua a scommettere sull’uomo, a credere nelle vie misteriose della Provvidenza e a seminare un seme oggi, anche dinanzi a quanti sembrano prevedere che il mondo finirà domani...
Un secondo punto toccato da Papa Giovanni nel discorso del mattino dell’11 Ottobre 1962 riguardava la natura e la finalità del Concilio: si trattava di intraprendere un coraggioso lavoro di "aggiornamento" dell’intera comunità ecclesiale, che in nessun senso voleva essere un abbandono della secolare ricchezza della fede, aprendosi alla riforma e al rinnovamento della Chiesa nell’obbedienza ai segni dello Spirito operante nella storia. Diceva Giovanni XXIII: «Altro è il deposito della fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione. Va data grande importanza a questo metodo e, se è necessario, applicato con pazienza; si dovrà cioè adottare quella forma di esposizione che più corrisponda al magistero, la cui indole è prevalentemente pastorale».
La Chiesa intendeva parlare il linguaggio del suo tempo, per comunicare con tutti, per lanciare a tutti ponti di amicizia e di dialogo su cui far passare il tesoro della bellezza di Dio custodito nella sua fede. La finalità pastorale non poteva non presupporre la profondità teologica e questa si lasciava sollecitare dall’urgenza di offrire a tutti i tesori del Vangelo, raccogliendo una sfida non così diversa da quella che oggi chiamiamo "nuova evangelizzazione".
Infine, il Papa buono confessava il suo sogno: promuovere l’unità nella famiglia cristiana e umana, al di là di ogni steccato. «La Chiesa Cattolica - diceva - ritiene suo dovere adoperarsi attivamente perché si compia il grande mistero di quell’unità che Cristo Gesù con ardentissime preghiere ha chiesto al Padre nell’imminenza del suo sacrificio; essa gode di pace soavissima, sapendo di essere intimamente unita a Cristo in quelle preghiere; di più, si rallegra sinceramente quando vede che queste invocazioni moltiplicano i loro frutti più generosi anche tra coloro che stanno al di fuori della sua compagine».
In un abbraccio veramente universale, il cuore del grande Pontefice si dilatava a voler raggiungere tutti. A distanza di 50 anni quest’ansia non è meno bella e attuale. Oggi, come allora, ha abitato e abita il cuore dei grandi protagonisti della storia cristiana, a cominciare dai Papi che sono seguiti a Giovanni XXIII. Oggi, come allora, esige una scelta di vita da parte di tutti, per cercare uniti il bene comune, aldilà di ogni corta visione di parte, con speranza e impegno fiducioso, ben sapendo che - come diceva l’umile e grande Pontefice - siamo ancora soltanto all’aurora: «Il Concilio che inizia sorge nella Chiesa come un giorno fulgente di luce splendidissima. È appena l’aurora: eppure, già toccano soavemente i nostri animi i primi raggi del sole nascente!». Oggi, come allora: «Tantum aurora est!». E questo basta per impegnarsi a quanti si riconoscano "prigionieri della speranza" (Zaccaria 9,12) e vogliano tirare nel presente degli uomini qualcosa della futura, promessa bellezza di Dio.
Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto
I tre fili del Concilio
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore - Domenica, 7 ottobre 2012)
L’11 ottobre prossimo si aprirà ufficialmente l’ "Anno della fede" voluto da Benedetto XVI e destinato a chiudersi il 24 novembre 2013. La scelta della data iniziale è emblematica perché scandisce i cinquant’anni dell’inaugurazione solenne del Concilio Vaticano II. È difficile per me resistere alla memoria autobiografica: giunsi a Roma, non ancora ventenne, per iniziare i miei studi in teologia proprio nel pomeriggio dell’11 ottobre 1962.
Ero, quindi, anch’io presente quella sera nell’immensa folla che, in piazza S. Pietro, ascoltava l’ormai celebre "discorso della luna" di Giovanni XXIII, così come sono stato tra coloro che, tre anni dopo, l’8 dicembre 1965 assistevano alla solenne conclusione dell’assise conciliare con Paolo VI, per non parlare poi delle varie volte in cui - attraverso la presentazione di un vescovo - avevo partecipato alle sessioni in S. Pietro, seguendo gli interventi dei Padri consiliari.
Il Concilio Vaticano II, però, è intrecciato con la mia vita non solo per ragioni biografiche. Lo è per un dato più radicale che è condiviso anche da tutti quei sacerdoti o fedeli che non misero mai piede a Roma in quegli anni, eppure furono in modo benefico "contaminati" da quell’evento.
Naturalmente, di fronte alla massa enorme della documentazione conciliare e alla relativa sterminata bibliografia dalle tonalità più diverse e fin antitetiche (preziosa in questo è stata l’opera di raccolta e di analisi condotta dall’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna creato dal prof. Alberigo), davanti anche soltanto all’eredità ufficiale di quell’assise con le sue quattro costituzioni, nove decreti e tre dichiarazioni, è difficile identificare in maniera semplificata un nodo d’oro che tutto tenga insieme, ne decifri il senso ultimo e ne delinei l’anima genuina. Preferirei, allora, ricorrere piuttosto a una trilogia fatta di fili robusti che percorrono e reggono quel tessuto così complesso, ornato e policromo.
Il primo di questi fili è, in verità, molto fluido, simile quasi a una trama che ha attraversato, fin
dall’annuncio dell’indizione da parte di Giovanni XXIII il 25 gennaio 1959 nella basilica di S.
Paolo, tutto il Concilio e l’intero mezzo secolo che abbiamo alle spalle. Si è, infatti, respirata e
vissuta un’atmosfera intensa e unica, un fremito che paradossalmente faceva guardare la Chiesa
lungo due direzioni antitetiche eppure complementari.
Da un lato, infatti, ci si proiettava verso il mondo in evoluzione e, quindi, verso orizzonti futuri, facendo risuonare quella parola allora un po’ emozionante, "aggiornamento". D’altro lato, però, si voleva liberare dal manto un po’ polveroso di una storia secolare il cuore pulsante del Vangelo, la vitalità delle origini cristiane, la matrice ecclesiale originaria, compiendo così una sorta di sguardo retrospettivo.
Proprio per quest’ultimo aspetto alcuni Padri considerati "progressisti" ribattevano ai colleghi obiettori di essere loro stessi i veri servatores, i "conservatori" dello spirito genuino della matrice originaria cristiana e della sua grande Tradizione mentre gli oppositori in ultima analisi si rivelavano novatores, sostenendo tesi o prassi posteriori.
Il clima di riscoperta delle radici cristiane come autentica "novità’ era vissuto allora in modo forte, talora forte talora frenetico: si spiegano così anche certe sucessive degenerazioni e il parallelo allentarsi di quella tensione spirituale. Tuttavia, penso che questa eredità di indole generale non si sia mai spenta, tant’è vero che ancor oggi l’aggettivo "conciliare" suscita sempre un palpito, una vibrazione, una scossa interiore, un appello a vivere più efficacemente il cristianesimo.
Un secondo filo che si dipana non solo in tutti i documenti conciliare, ma che è divenuto un raggio
solare che ha illuminato fino ai nostri giorni tutta la Chiesa, è stato quello del primato della Parola
di Dio. Essa, certo, ha avuto la sua stella polare nella Costituzione significativamente denominata
Dei Verbum. Inizialmente si era ipotizzato un titolo più riduttivo, De Sacra Scrittura, rimandando
esclusivamente alla Bibbia.
Poi, però, si è marcato il fatto che la Parola di Dio precede ed eccede la Sacra Scrittura: quest’ultima, infatti, è l’attestazione oggettiva della Rivelazione di Dio che però echeggia già nella creazione e nella storia e che si effonde illuminando la lettura e l’attualizzazione della Scrittura nella Tradizione. Si compiva, così, quanto suggestivamente dichiarava S. Gregorio Magno: Scrittura cum legente crescit. Ecco, allora, il titolo finale di quel documento: De divina Revelatione .
La Bibbia col Concilio ha, così, illuminato la liturgia, la catechesi, la spiritualità, la pastorale, la cultura, la teologia. A quest’ultimo proposito, ricordo in quegli anni l’ardua transizione che i miei docenti dell’Università Gregoriana avevano dovuto compiere, rendendo i loro corsi sempre più modellati sulla S. Scrittura come sorgente, superando l’uso secondo cui era la riflessione speculativa a convocare i passi biblici a supporto delle tesi già elaborate. Un’inversione metodologica che ora è normale nei trattati teologici ma che allora sembrava una rivoluzione, anche se in realtà si trattava di un ritorno alle origini. I Padri della Chiesa, infatti, come è stato fatto notare da molti, non parlavano (o scrivevano) della Bibbia, ma parlavano la Bibbia.
Giungiamo, così, al terzo e ultimo filo, quello del confronto e del dialogo col mondo, con la società
e con la cultura contemporanea. Emblematico, al riguardo - come tutti riconoscono - fu il
documento conciliare Gaudium et Spes, un ampio testo di ben 93 paragrafi, capace di dipingere un
affresco dell’orizzonte nel quale la Chiesa si trovava immersa. In realtà, tutto il patrimonio
dottrinale e pastorale del Vaticano II era in filigrana animato dall’istanza di comprendere e di
incontrare un mondo che si rivelava sempre più complesso e incline ad allontanarsi dalla fede non
solo cristiana, ma anche dal puro e semplice ambito del religioso e del sacro. Ecco, allora, la
necessità di un’antropologia che potesse frenare la corsa alla secolarizzazione, alla dissacrazione,
all’indifferenza.
È così che il Concilio volle delineare il ritratto della persona umana nella sua dignità di "immagine" divina, nella sua libertà, coscienza, intelligenza, nei suoi splendori e miserie. Questo ritratto era collocato all’interno della società attraverso la ricerca del bene comune e l’affermazione dell’autonomia della politica e delle realtà terrene. Senza ignorare le degenerazioni che intaccano il singolo, la famiglia, la comunità universale, l’approccio adottato era, però, sempre positivo, anche quando ci si confrontava con fenomeni articolati e delicati come la scienza, l’economia e persino l’ateismo e le crisi spirituali. Certo, la mappa socio-culturale descritta dal Concilio può risultare in alcune aree superata o datata (si pensi solo all’attuale civiltà informatica).
Ma questo si trasforma proprio in un insegnamento. Certo, il cuore del messaggio evangelico è in ogni tempo unico, è «lo stesso ieri, oggi e sempre», come affermava per il Cristo la Lettera agli Ebrei (13,8). Esso, però, deve continuamente incarnarsi nelle mutevoli coordinate storiche entro le quali siamo innestati. Questa "contemporaneità" permanente di Cristo e della sua parola è il grande monito costante del Concilio Vaticano II.
Un po’ come scriveva il filosofo danese Soeren Kierkegaard: «L’unico rapporto che si può avere con Cristo è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette solo di ammirarlo». Il Vivente, invece, com’è il Cristo risorto, «mi costringe a giudicare la mia vita in senso definitivo». Ed è ciò che il Concilio Vaticano II ha ribadito con passione e convinzione a tutta la Chiesa.
Né sudditi, né «società perfetta» ma popolo di Dio
di Raniero La Valle (l’Unità, 7 ottobre 2012)
Se ricordare i 50 anni dall’inizio del Vaticano II consistesse nell’innalzare una nuvola d’incenso che nasconde il Concilio e poi lascia tutto come prima, le celebrazioni di questo anniversario sarebbero inutili e anzi dannose. Ricordare il Concilio vuol dire invece interrogarlo, chiedergli che cosa esso è stato e ancora può essere per la Chiesa e per gli uomini. E qui le domande sarebbero così tante, che a racchiudere le risposte non basterebbero tutti i libri del mondo, come con un’iperbole dicono i Vangeli della testimonianza di Gesù. Infatti il Concilio ha ricapitolato e reinterpretato tutta la tradizione di fede della Chiesa, e l’ha riproposta, «aggiornata», come diceva Giovanni XXIII, agli uomini di oggi in forme nuove, in quel «modo che la nostra età esige».
Dunque qui possiamo solo accennare ad alcune primissime domande; le altre ognuno potrà farle per conto suo.
La prima domanda è come il Concilio ha pensato la Chiesa. Esso poteva pensarla (come del resto appariva in quel tempo) come una piramide clericale col Papa intangibile al vertice, i vescovi come prefetti e i fedeli come gregge o come «sudditi». Invece l’ha pensata come una comunione di Chiese con al vertice il vescovo di Roma, unito però in un collegio con tutti gli altri vescovi, il cui mandato non deriva dal Papa, come se fossero suoi dipendenti o «collaboratori», ma direttamente da Dio. Quanto ai fedeli, non sono dei sudditi, ma un popolo (che per la cultura del nostro tempo non è formato da pecore, ma da sovrani).
La Chiesa non è poi una «società perfetta», al modo degli Stati, ma è una realtà umano-divina; e se come realtà umana si sa dove comincia e si sa dove finisce, come realtà divina rompe ogni frontiera e giunge ad abbracciare non solo tutte le Chiese oggi divise, ma anche uomini e donne di altre religioni e senza religione, perché tutti oggetto dell’amore di Dio. Sicché lo stesso concetto di popolo di Dio si allarga a comprendere potenzialmente, e non certo per un disegno egemonico, l’umanità tutta intera.
Un vescovo francese, monsignor Dubois, in Concilio lo spiegò così: «Il popolo di Dio, nel senso più pieno della parola, è la Chiesa, con tutti i battezzati; ma popolo di Dio è anche il popolo ebreo che nelle sue sinagoghe continua a leggere i testi di Isaia; popolo di Dio sono anche tutti quelli che credono in un Dio personale e che possono essere, sul piano umano, più morali di certi cristiani; ma popolo di Dio sono anche i ‘gentili’, i pagani (le genti) che non credono in Dio ma sono creati da Dio e ricevono la vita da lui; dunque tutti gli uomini sono di Dio e suo popolo». Insomma la Chiesa di Cristo, che «sussiste» ma non si esaurisce nella Chiesa cattolica, è l’umanità in cammino, la «carovana umana», come l’ha chiamata monsignor Dubois.
Ma se così stanno le cose, la Chiesa deve stare attenta a non trattare male questo popolo che sta anche fuori dei suoi confini visibili. E lo deve accettare con le sue istituzioni e culture, non solo quelle del Medioevo, ma anche quelle di oggi. Ed è proprio qui che, come ha detto Benedetto XVI in un suo famoso discorso alla Curia, la Chiesa del Concilio ha introdotto una discontinuità rispetto alla sua tradizione più recente, instaurando un nuovo rapporto con l’età moderna che fino al Concilio, da Galileo al Sillabo, era stata oggetto di aspre e radicali condanne da parte del magistero romano; è cambiato infatti l’atteggiamento della Chiesa rispetto a tre dimensioni fondamentali della modernità: il valore della scienza, il valore dello Stato con i suoi ordinamenti moderni, e il valore della libertà, che non è un’invenzione del liberalismo, ma è l’immagine stessa di Dio impressa nell’uomo.
In questo quadro la Chiesa ha ripensato anche la sua concezione dell’essere umano: non che sia arrivata a metterci dentro come si deve anche la donna, ma certamente ha approfondito e addolcito la sua antropologia, anche se ancora indistinta.
E questa è la seconda grande domanda che si può fare al Concilio: quale uomo? Senza dubbio il Concilio ha abbandonato l’antropologia che considerava l’umanità (a parte i cattolici) come una «massa dannata», per usare l’impietosa espressione di Sant’Agostino. Non è vero che, come si diceva, fuori della Chiesa visibile non c’è salvezza, e che perciò bisogna farci entrare tutti a tutti i costi.
La libertà religiosa («nessuno sia costretto, nessuno sia impedito») è più importante per il Concilio che il numero dei fedeli. Di conseguenza il Concilio ha fatto cadere la dottrina secondo la quale i bambini morti senza battesimo non vanno in paradiso, e restano privi di Dio. «Questa non è la fede delle nostre Chiese», dissero i vescovi in Concilio. Dio ama e vuole che tutti gli uomini siano salvi, figurarsi i bambini!
peccato originale
Di fatto l’antropologia del Concilio non si appella più alla dottrina del peccato originale per spiegare la condizione umana. Pur nella sua debolezza, l’uomo non è storpiato da quel primo peccato, non è stato punito da Dio con la morte (che altrimenti non ci sarebbe) e scacciato lontano finché il Cristo non venisse a salvarlo. Secondo il Concilio, Dio non ha scacciato nessuno, non si è pentito della creazione dell’uomo, ma anzi «dopo la caduta» non abbandonò l’uomo, ma sempre gli diede gli aiuti necessari alla salvezza, in vista di Cristo, che del resto era già all’opera, con lo Spirito, fin dal principio e prima del principio. Sicché il lavoro, la sessualità, i dolori dei parti, la fatica per procurarsi il cibo e anche la morte non sono la pena del peccato, sono l’umanità dell’uomo. È una buona notizia. Ma non era appunto compito del Concilio dare una «buona notizia», cioè l’Evangelo?
DOCUMENTO DEL NOSTRO GIORNALEPER IL CONVEGNO “CHIESA DI TUTTI, CHIESA DEI POVERI” DEL 15 SETTEMBRE 2012 A ROMA
NOTE A MARGINE DEL DOCUMENTO, PER IL CONVEGNO DEL 15 SETTEMBRE 2012
di Federico La Sala *
NOTE A MARGINE DEL DOCUMENTO, PER IL CONVEGNO DEL 15 SETTEMBRE 2012:
1. LA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA HA ROTTO I PONTI CON IL MESSAGGIO EVANGELICO. A 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, bisogna prendere atto che il terribile è già accaduto: il "Lumen Gentium" è stato spento e, sulla cattedra di Pietro, siede il Vicario del Signore e Padrone Gesù ("Dominus Iesus": J. Ratzinger, 2000). Egli regna e governa in nome del suo Dio, Mammona ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006).
2. DIO E’ VALORE! Sul Vaticano, DAL 2006, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)!!! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" su cui posava - in equilibrio instabile - l’intera Costruzione dela Chiesa cattolico-romana ("Deus charitas est": 1 Gv. 4.8).
3. TUTTO A "CARO-PREZZO" ("CARITAS"): QUESTO "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO". QUESTO E’ IL NOSTRO VANGELO: PAROLA DI RATZINGER -BENEDETTO XVI, CARDINALI E VESCOVI TUTTI. IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", SI VENDE A "CARO PREZZO", MOLTO CARO (= "CARITAS")!!!
4. ULTIMA CENA ED ECONOMIA VATICANA. Benedetto XVI cambia la formula: «Il calice fu versato per molti», non «per tutti»!!!
5. IN PRINCIPIO ERA IL "LOGO"!!! SE UN PAPA TEOLOGO LANCIA IL "LOGO" DEL SUO DIO ("DEUS CARITAS EST") E TUTTI OBBEDISCONO, E NON VIENE RISPEDITO SUBITO A CASA, DA "MARIA E GIUSEPPE", PER IMPARARE UN PO’ DI CRISTIANESIMO, DI COSA VOGLIAMO PARLARE DI AFFARI E DI MERCATO?! EBBENE PARLIAMO DI AFFARI, DI MERCATO, DI "MAMMONA", "MAMMASANTISSIMA", E DI COME I PASTORI ... IMPARANO A MANGIARE LE PECORE E GLI AGNELLI, E A CONTINUANO A GOZZOVIGLIARE ALLA TAVOLA DEL LORO "DIO"!!! Avanti tutta, verso il III millennio avanti Cristo!!!
Federico La Sala
Vedi il documento LE CONTRADDIZIONI E I LIMITI DEL CONCILIO VATICANO II,di Stefania Salomone
Per gli altri articoli sul Concilio vedi qui
Disobbedire
di Jacques Noyer (vescovo emerito di Amiens)
in “www.temoignagechretien.fr” del 9 settembre 2012 *
«Signor parroco, vorremmo vederla. Stiamo per sposarci, ma io sono divorziato...» Mi è stato riferito recentemente che un prete sentendo queste parole ha richiuso la porta della casa parrocchiale affermando: «Sono desolato ma non posso far nulla per voi!». Ecco un funzionario come si deve! È questa l’obbedienza?
Senza dubbio molti altri avrebbero fatto entrare la coppia e l’avrebbero ascoltata. Alcuni, con molto garbo, avrebbero concluso con le stesse parole: non posso far nulla per voi. Altri avrebbero cercato di rispondere entrando maggiormente nel merito della richiesta di queste persone abitate dal desiderio di situare il loro amore e il loro progetto di vita sotto lo sguardo del loro Dio o almeno sotto lo sguardo della loro famiglia e dei loro amici cristiani. Molti pastori riterranno loro compito vedere queste persone con lo sguardo di Cristo.
Non possono immaginare che colui che si è fermato a parlare con la Samaritana rifiuti di prestare attenzione alla loro richiesta. In quel dialogo, il pastore si impegna con le proprie convinzioni, ma con la preoccupazione di accogliere la sete profonda dei suoi interlocutori. Non ci sono risposte prefabbricate. Con maggiore o minore audacia, proporrà il cammino che ritiene il migliore per il caso singolare che ha davanti.
Potrà ritenere che l’applicazione pura e semplice delle norme ferirà l’attesa confusa che si trova di fronte. Sa che al di là di Gerusalemme e del Garizim, c’è un Dio d’amore che si adora in spirito e verità. Non ci si può rifiutare di superare la linea gialla quando si tratta di evitare di schiacciare qualcuno. La trasgressione in questo caso non è disobbedienza. È responsabilità.
La situazione ecclesiale che si è creata attorno all’ «appello alla disobbedienza» dei preti austriaci diventa non controllabile. Questa provocazione è molto rischiosa. Vogliamo una reazione intollerante capace di generare drammatiche lacerazioni nella nostra Chiesa? L’inerzia del Vaticano, diffusa da una gerarchia impaurita, avrà, una volta di più, ragione di un modo di sentire di alcuni lasciandolo marcire senza risposte? A mio avviso sarebbe stato meglio un «appello alla obbedienza» all’audacia del vangelo.
La Chiesa non può addormentarsi nelle sue certezze e nelle sue abitudini. Non ha il diritto di sacralizzare un momento della storia per rifiutare di amare il presente. I preti non hanno il diritto di far tacere gli appelli del loro animo di pastori per un’obbedienza formale alla legge. I vescovi non possono giustificare la loro inerzia per la paura di una reazione della Curia.
Il Papa ha sufficientemente ricordato la grandezza del Concilio, perché nessuno si dimentichi delle proprie responsabilità nella missione del popolo di Dio. Abbiamo troppo sofferto per un’obbedienza intesa come una semplice rinuncia all’iniziativa e all’inventiva. Credo che l’obbedienza al Padre di Gesù Cristo è contraria ad una sottomissione cieca al diritto canonico.
Desidererei ascoltare a tutti i livelli della Chiesa il fremito dello Spirito Santo che fa nuove tutte le cose. Mi piacerebbe che ordinare un prete non fosse rinchiuderlo nel ruolo di esecutore di ordini, ma dargli fiducia. Mi piacerebbe che affidare una diocesi ad un vescovo consistesse nel chiedergli pareri e proposte e non invece nell’esigere un giuramento di fedeltà. Mi piacerebbe poter fare ascoltare fino ai vertici le invocazioni di questo popolo che cerca acqua fresca e rifiuta l’acqua stagnante delle cisterne vaticane.
La Volontà del Padre che manda il suo Figlio e ci invita all’avventura del Regno non è un regolamento ma una creazione, un concepimento, una risurrezione. Che la Tua volontà sia fatta, diciamo! Ma non è un abbandono. Come un’eco, ascoltiamo il Padre ridirci che non ha bisogno di schiavi sottomessi, ma di figli liberi alla cui iniziativa affida la responsabilità del suo progetto d’amore
* Fonte: Incontri di "Fine Settimana".
L’impatto sulla società liquida
di Aldo Maria Valli (Europa, 6 ottobre 2012)
Non entrerò nella polemica circa la contrapposizione tra ermeneutica della continuità ed ermeneutica della discontinuità. Mi sembra una discussione piuttosto sterile e francamente poco appassionante. Entrambi i fronti hanno qualche ragione. Il Concilio, come ha detto Benedetto XVI, non può essere considerato una nuova costituzione che revoca la vecchia. Intanto perché la chiesa cattolica non è un regime politico, e poi perché per la Chiesa l’unica “costituzione” è il Vangelo, e il Vangelo non è certamente né revocabile né emendabile. D’altra parte chi sostiene l’ermeneutica della discontinuità ha ragione nel sottolineare che con il Concilio Vaticano II si è aperta una pagina tutta nuova («una transizione epocale e una svolta profonda», l’ha definita il cardinale Roberto Tucci) all’insegna di profondi cambiamenti, come la valorizzazione del ruolo dei laici e la riscoperta della Scrittura.
Con il Vaticano II la Chiesa esce dalla dimensione dogmatica, volta a stabilire verità ed errori nel segno dell’assoluto e dell’indiscutibile, ed entra nella dimensione pastorale, volta a trovare il modo di porgere e trasmettere meglio i contenuti della fede agli uomini e alle donne del tempo. Non si può capire il Concilio se non si tiene conto della sua essenza pastorale. Infatti, non a caso, faticano a capirlo i tradizionalisti, legati al carattere dogmatico del messaggio cristiano.
Con il Concilio la chiesa cattolica, consapevole di non vivere più in regime di cristianità diffusa e scontata, ma in un mondo che prende direzioni molto diverse e a volte opposte rispetto al messaggio evangelico, scopre se stessa come pellegrina e quindi missionaria: una realtà che vive in mezzo al mondo, nel confronto costante con tutte le altre realtà. E proprio perché pellegrina non pensa più se stessa come istituzione rigida, come organizzazione strutturata attorno ad alcuni principi immutabili, ma come popolo in cammino, come autentica ecclesia, comunità di persone. Una comunità che, essendo in cammino, non passa al di sopra delle realtà circostanti, ma vi è mescolata, e non guarda con spirito di superiorità alle difficoltà e ai limiti del resto del mondo, ma vi prende parte, attraverso uno stile misericordioso. Il Concilio si mette alle spalle la Chiesa dei grandi sacerdoti, che giudicano stando al di fuori e al di sopra delle sofferenze e dei peccati del mondo, e valorizza la Chiesa samaritana, che si piega sul dolore del bisognoso e se ne prende cura concretamente, in nome della comune umanità.
Ci sono anche rughe sul volto del Concilio. E la principale consiste forse nel suo modo di porre la questione del rapporto con il mondo. Quando Giovanni XXIII annunciò il Concilio la nozione di “mondo” era di gran lunga più semplice, meno articolata, di quella odierna. Limitandoci al mondo di cultura cristiana, quando i padri conciliari parlavano del mondo avevano in mente una realtà che si stava certamente allontanando, già allora, dalla fede, ma era ancora imbevuta di tradizioni e valori cristiani. Era un mondo più compatto, meno complicato, meno differenziato. Nessuno allora avrebbe mai immaginato, per descrivere il mondo, di ricorrere all’espressione di Zygmunt Bauman: “società liquida”. Il mondo stava cambiando, ma era ancora leggibile attraverso le vecchie logiche. Era ancora unitario, mentre oggi siamo in piena frammentazione. E lo stesso mondo ecclesiale era qualcosa di molto meno complesso rispetto all’oggi.
Il mondo al quale si riferisce il Concilio, con un entusiasmo che oggi ci può legittimamente apparire ingenuo, può anche far paura (come nel caso del rischio atomico), ma è ancora comprensibile, anche sul piano morale. In quel mondo le nozioni di bene e male, di buono e cattivo, sono ancora largamente condivise. Esiste ancora un soggetto che osserva e giudica. Ma oggi tutto è messo in discussione. Basti pensare all’avvento della realtà virtuale, per cui è sempre più difficile definire persino il concetto di esperienza personale Come confrontarsi con questo mondo che sfugge come l’acqua, questo mondo così inafferrabile da non poter nemmeno essere descritto con i vecchi linguaggi?
Il problema, oggi come allora, non sta nelle strutture, ma nel rinnovamento spirituale: nel volto della Chiesa deve risplendere il volto di Cristo. Ovviamente è più facile cambiare le strutture. Molto più difficile è spogliarsi di quello che monsignor Casale chiama «un modo improprio di essere e di sentirsi Chiesa». Occorre ritornare sempre al Vangelo. Occorre rendersi conto del fatto che anche la questione delle strutture, e in primo luogo della curia romana, è problema teologico, non amministrativo. Non a caso Giuseppe Dossetti sosteneva la necessità di una ricerca teologica a sostegno di un’autentica riforma.
Affollata assemblea di gruppi ecclesiali, riviste, associazioni a 50 anni dall’inizio del Concilio *
di Roberto Monteforte (l’Unità, 16 settembre 2012)
Far vivere il Concilio Vaticano II. Dargli applicazione e con gioia, guardando con speranza al futuro. Perché la sua piena ricezione è ancora lontana.
Di questo si è discusso ieri a Roma nell’affollatissima assemblea tenutasi al teatro dell’Istituto Massimo di Roma. «Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri» è il titolo dell’appuntamento autoconvocato e autofinanziato a 50 anni dall’inizio del Concilio cui hanno aderito oltre 104 sigle di associazioni, gruppi ecclesiali, movimenti, riviste e organizzazioni tutte attente all’esigenza che non si disperda o si depotenzi l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Sono stati oltre settecento i partecipanti giunti da tutta Italia. Segno di quanto forte ed estesa sia la domanda per una Chiesa che sappia dialogare con fiducia e speranza con il mondo contemporaneo avendo il coraggio di cambiare se stessa.
L’incontro si è aperto con un ricordo del cardinale Carlo Maria Martini e al suo coraggio profetico. Teologi, storici, studiosi e uomini di Chiesa hanno approfondito i nodi posti dal Concilio alla Chiesa a partire dalla sua ermeneutica. Alla polemica su rottura o continuità con la tradizione della Chiesa.
«È una disputa da abbandonare perché non coglie il nodo rappresentato dal Concilio. Perché il cambiamento era già in corso nella Chiesa. Perché la dottrina cambia sempre e cambiamo i significati. Perché se la Chiesa è sempre la stessa, la Tradizione vivente è in continua evoluzione per rendere “presente” e continuamente aggiornato nella nuova condizione storica ciò che è stato tramandato» lo afferma il teologo padre Carlo Molari. «La pluralità delle dottrine presenti nella Chiesa ed anche le rotture sono importanti per il suo sviluppo». C’è ancora bisogno che la Chiesa sappia «raccordarsi con la modernità».
Lo storico Giovanni Turbanti ha inquadrato il contesto storico, sociale, politico ed economico che ha portato alla sua convocazione. La biblista Rosanna Virgili sottolinea la «festosità liberatoria dell’annuncio cristiano e l’apporto fondamentale dato dalle donne. «Dio parla alle donne - afferma - che sono depositarie di una fede che non esclude. Perché non ci sono più lontani quando si può comunicare e si è abbattuta l’inimicizia fatta di leggi che distinguevano e discriminavano creando inimicizia».
Mentre Cettina Militello ha affrontato il nodo «delle prospettive future nella speranza di un vero aggiornamento». «Bisogna passare dall’ermeneutica conciliare all’attuazione del Concilio. All’attuazione di quanto faticosamente elaborato dai padri conciliari» ha affermato. Sottolinea l’importanza dell’«aggiornamento» della Chiesa. Invita a riflettere sulla speranza di un «vero rinnovamento» della Chiesa, di una sua autentica profezia rispetto alla mutazione culturale in atto. Ne indica gli ambiti: «il piano della Liturgia, dell’autocoscienza di chiesa, dell’acquisizione sempre maggiore della parola di Dio, del dialogo Chiesa con il mondo». Va pure perseguita l’istanza ecumenica, e interreligiosa, l’istanza «dialogica». Sottolinea i limiti della partecipazione attiva, della sinodalità, dell’ ascolto e del dialogo, necessari per attuare quella trasformazione strutturale della Chiesa voluta dai padri conciliari, per il suo ritorno a uno stile evangelico di compartecipazione e effettiva comunione.
Interviene da «testimone» l’allora giovanissimo abate benedettino della Basilica di San paolo, Giovanni Battista Franzoni. Parla della scelta per i «poveri» e del coraggio di Paolo VI. Porta la sua testimonianza il teologo valdese Paolo Ricca. Soprattutto recuperando appieno il ruolo del «Popolo di Dio», dei laici nella Chiesa, successori dei «discepoli». Lo sottolinea Raniero La Valle che conclude i lavori. «Perché - fa notare - non c’è solo la successione apostolica da Pietro sino ai nostri vescovi e al Papa. C’è anche una successione laicale, non meno importante dell’altra che è giunta sino a noi». Senza questa «non vi sarebbe il Popolo di Dio e neanche la Chiesa degli apostoli».
Sottolinea come la forza del Concilio Vaticano II sia stata il fare l’ermeneutica di tutti i concili precedenti. Per questo «non lo si può accantonare ». Sta anche in questo la ragione e la forza dell’assemblea convocata ieri.
La Valle annuncia l’impegno a raccogliere quella domanda che interpella ancora. Chiede una nuova politica, una nuova giustizia, una nuova economia. Che chiede una Chiesa dei poveri e con i poveri. Richiama i compiti nuovi che il Concilio affida e riconosce ai laici. «Sulla riforma della chiesa e delle sue strutture il Concilio è rimasto ai nastri partenza. La Chiesa anticonciliare ha bloccato la collegialità e ha rafforzato i vincoli di dipendenza gerarchica» ma una Chiesa nuova è possibile. Vi è una storia da trasmettere. Un impegno che, assicura La Valle, non si fermerà con questa assemblea. Vi sarà un sito per mettere in rete riflessioni e iniziative e per partecipare alle iniziative delle singole Chiese e a quelle internazionali che culmineranno nel 2015 all’anniversario delle conclusioni del Concilio. Vi sarà un «coordinamento leggero» per far incontrare sforzi diversi e rendere possibile quel «Il Concilio è nelle vostre mani» soprattutto le mani dei poveri invocato dallo stesso Raniero La Valle.
* Titolo redazionale
* Fonte: Incontri di "Fine Settimanana"
Chiesa di tutti, chiesa dei poveri
di Giancarla Codrignani (17 settembre 2012) *
Anche gli amici che non erano a Roma, ma fanno parte di quel popolo di Dio che sente il disagio critico di una transizione necessaria (ma ricusata) della sua Chiesa e, forse, non aveva avuto notizia di questa convocazione, dovrebbero essere grati a Vittorio Bellavite, Emma Cavallaro, Giovanni Cereti, Franco Ferrari, Raniero La Valle, Alessandro Maggi, Enrico Peyretti e Fabrizio Truini, che hanno collaborato per costruire un’agorà comunitaria di credenti nel forte convincimento che il Concilio Vaticano II portò nella storia della Chiesa cattolica un rinnovamento irrinunciabile.
Hanno aderito 99 associazioni grandi e piccole (e le più grandi hanno fatto un passo indietro per non prevaricare) e 28 riviste, concordi nel promuovere a Roma l’evento "Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri" rievocando simbolicamente il radiomessaggio di Giovanni XXIII l’undici settembre 1962, quando invitò i fedeli a costruire la "primavera della Chiesa", della "Chiesa dei poveri".
Nessun’intenzione di "commemorare" il Concilio Vaticano II, ma una rinnovata volontà di cercare nuove vie alla sua troppo rinviata attuazione.
Lo ha detto Cettina Militello nella forma più intensa: siamo tutti responsabili della mancata attuazione di una riforma della Chiesa cattolica, non più rinviabile soprattutto perché non si tratta di alterare la tradizione, ma di metterla in novità per evitarne la cristallizzazione in atto. Nessuna contestazione, dunque, ma una fedeltà coraggiosa che vuole una chiesa dei poveri e per i poveri, una chiesa secondo il Vangelo.
Carlo Molari ha approfondito la necessità di una "tradizione vivente", e di una ricerca dell’azione dello Spirito nella nuova situazione storica, individuando nel post-concilio la grande carenza di una Chiesa che non è "dei poveri per i poveri". Che si tratti di esigenze di cambiamenti urgenti lo ha testimoniato p. Felice Scalia con un sofferto e duro intervento sulla situazione della Compagnia di Gesù, in crisi "numerica e di coscienza". Ovvii i richiami a tutta la problematica in questione, dalla liturgia alla collegialità, dall’ecumenismo (evocato da Paolo Ricca) alla presenza delle donne, dalle parole del card. Martini alla rievocazione di Paolo VI fatta da dom Giovanni Franzoni, dalla discriminazione degli omosessuali credenti al valore del concilio "pastorale".
Non c’erano autorità né religiose né laiche. Nessun prete con la veste; alcune suore sì. Le donne hanno più coraggio. Ma tutti dobbiamo andare avanti.
*Fonte: Incontri di "Fine settimana".
Un vento di aria pura che oggi è imprigionato
di Vito Mancuso (la Repubblica/il venerdì, 14 settembre 2012)
La guerra che si combatte nella Chiesa sul Vaticano II sta tutta in questa domanda: che rapporto c’è tra il più importante evento ecclesiale del Novecento e la Tradizione precedente? Le risposte sono tre: la destra tradizionalista sostiene che fu una rottura così radicale da essere tradimento; il grande centro parla di continuità; la sinistra afferma che fu una svolta così positiva e radicale da costituire un nuovo gioioso inizio.
La Chiesa gerarchica nella sua ufficialità è attestata sulla rassicurante risposta numero due con importanti interventi di Benedetto XVI al riguardo, mentre le minoranze di destra e ai sinistra. accomunate dalla tesi della discontinuità, sono molto più inquiete e premono ovviamente in direzioni opposte: la destra per fare marcia indietro, la sinistra per proseguire lo spirito di apertura al mondo del Vaticano II.
In realtà basta accostare le decisioni più significative del Vaticano II alle impostazioni preconciliari per cogliere una tale differenza da rendere legittimo, anzi doveroso, parlare di discontinuità: 1) la Bibbia, da testo sconsigliato e persino vietato ai laici, viene promossa e diffusa ampiamente; 2) gli ortodossi e i protestanti da scismatici ed eretici diventano «fratelli separati»; 3) gli ebrei da «perfidi giudei» diventano «fratelli maggiori»; 4) le altre religioni da idolatrie diventano vie verso Dio e la salvezza; 5) la libertà di coscienza in materia religiosa passa dalla condanna a esplicito insegnamento papale; 6) il potere viene ripensato alla luce della collegialità; 7) la liturgia ha un nuovo rito, si abolisce il latino, si sposta l’altare. Ma al di là delle singole decisioni, era anzitutto il clima a essere radicalmente diverso.
Ha dichiarato il cardinal Martini in un’intervista ad Aldo Maria Valli: «Conservo il ricordo dell’atmosfera di quegli anni, una sensazione di entusiasmo, di gioia e di apertura... si usciva finalmente da un’atmosfera che sapeva un po’ di muffa, di stantio, e si aprivano porte e finestre, circolava l’aria pura». Come siamo messi oggi? Ancora Martini: «Ciò che si è perso è proprio quell’entusiasmo, quella fiducia, quella capacità di sognare... si è tornati a una certa mediocrità». L’aria, insomma, si è fatta di nuovo pesante.
Il Vaticano II ha avuto una maggioranza progressista e una minoranza conservatrice. A distanza di mezzo secolo la minoranza di allora è diventata maggioranza di oggi, segnale di un complessivo cambiamento a livello mondiale, con tempi sempre più incapaci di nutrire ideali e coltivare speranze. Ma nella Chiesa il problema è più complesso e consiste nel fatto che l’attuale maggioranza sta facendo tabula rasa del campo avversario, privando la Chiesa di una dinamica essenziale alla vita e alla riflessione.
Dopo la morte di Martini nella gerarchia della Chiesa italiana le voci di quella che un tempo fu la maggioranza conciliare sono forse ormai solo tre: Dionigi Tettamanzi, Luigi Bettazzi e Giuseppe Casale, tutti vescovi emeriti, in pensione. Da anni il Vaticano produce nomine tutte a senso unico, tra cui clamorosa quella di Scola a Milano visto che mai un patriarca di Venezia aveva lasciato San Marco se non per fare il papa, e che si spiega solo come il colpo finale agli ideali del rinnovamento conciliare. Se a questo si aggiunge la repressione della teologia e di ogni forma di critica il quadro è completo.
Nell’ultima intervista Martini ha dichiarato: «Vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza», parole che potrebbero essere sottoscritte dalla gran parte dei vescovi e dei periti teologici che cinquant’anni fa arrivavano a Roma per il Vaticano Il. L’ironia vuole che proprio uno di essi sia oggi il pontefice regnante, tra i principali responsabili di questa cupa situazione
«Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri»: Il convegno autoconvocato sul Concilio, tenutosi a Roma il 15 settembre, si è chiuso con la relazione di Raniero La Valle, Il Concilio nelle vostre mani. Il vento di aria pura è rimasto imprigionato nel "cupolone dei cupoloni". L’ "urlo" di un don Mazzolari o di un don Milani è rimasto strozzato in gola....
AVERE IL CORAGGIO di dire ai nostri giovani-vecchi "cattolici" e alle nostre giovani-vecchie "cattoliche" che sono tutte sovrane, tutti sovrani!!! Un nodo ancora non sciolto....
"Sulla riforma della chiesa e delle sue strutture il Concilio è rimasto ai nastri partenza. La Chiesa anticonciliare ha bloccato la collegialità e ha rafforzato i vincoli di dipendenza gerarchica» ma una Chiesa nuova è possibile" (Raniero La valle)
MA QUALE CHIESA, DI QUALE DIO?!
AMORE (PIENO DI GRAZIA): "DEUS CHARITAS EST" (1 Gv. 4.8)
O
MAMMONA (PIENO DI VALORI)": "DEUS CARITAS EST" (Benedetto XVI, 2006)?!
"Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio, e di quale Dio parlano quando parlano di Dio? La domanda è cruciale. Infatti non è per niente chiaro, non è sempre lo stesso, e sovente non è un Dio innocuo" (Raniero La Valle, "Se questo è un Dio", pag. 9)
NONOSTANTE LA PRESENZA DI RANIERO LA VALLE, L’AFFOLLATA ASSEMBLEA DI ROMA NON HA POSTO LA QUESTIONE ALL’ALTEZZA DEL NOSTRO TEMPESTOSO STORICO PRESENTE !!!
CONFIDIAMO E ASPETTIAMO!
SIAMO SOLO A 50 ANNI DALL’INIZIO DEL CONCILIO VATICANO II ....
Il Concilio Vaticano II mezzo secolo dopo
di Nino Lisi (il manifesto, 8 settembre 2012)
L’11 ottobre si compiranno cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II e se ne annunciano le prime commemorazioni. Una si terrà a Roma il 15 settembre nell’auditorium dell’istituto Massimo, all’Eur. La promuovono una novantina di soggetti tra riviste, associazioni e comunità, con l’intento di guardare al Concilio con gli occhi d’oggi. Approccio quanto mai opportuno, perché da anni è in atto un dibattito su un dilemma interpretativo: il Concilio segnò o no una discontinuità con il passato?
La risposta è importante, perché da essa dipenderà se la carica innovativa del Concilio sarà definitivamente soffocata o no; questione che non riguarda solo i «credenti». In realtà, per alcuni temi il Concilio fu davvero dirompente; per altri segnò una conferma. Perché allora il dibattito? Perché dietro di esso si nasconde una dialettica che, non raramente, diviene scontro tra due logiche che si fronteggiano nella chiesa quasi dai suoi albori.
Una, «istituzionale», è protesa a custodire una verità ritenuta compiutamente rivelata e a tutelarne l’integrità. Per farlo si è istituita l’area inaccessibile del sacro, cui solo pochi (la gerarchia) vengono ammessi per cooptazione, e vi si è rinchiuso il «patrimonio della fede». Si è così rinnovato quel potere del tempio che Gesù combatté e dal quale fu messo a morte; potere che, oltre a sospingere uomini e donne a rendere a Dio gloria nei cieli, non può fare ameno di preoccuparsi del proprio rafforzamento.
L’altra logica, «dell’annuncio», è protesa a diffondere il detto evangelico secondo cui perseguire la verità e la sua giustizia rende liberi, e la notizia della fraternità e sorellanza che legano insieme tutti gli esseri umani. Induce a praticare la «libertà dei figli di Dio» e ad occuparsi che in terra si renda giustizia in particolare ai più deboli, essendo questo l’unico sacrificio gradito a Dio. In questa ottica le conseguenze della buona novella vanno scoperte, capite e realizzate nella storia. La logica dell’annuncio porta poi a diffidare di ogni potere e sovente ad opporvisi, mentre il potere del tempio è inevitabilmente contiguo agli altri poteri, perché il potere ha tante facce ma in sostanza è uno ed i suoi diversi aspetti si intrecciano, si contaminano e si spalleggiano reciprocamente.
Quando scoppiano conflitti intestini la logica istituzionale porta a schierarsi con chi difende lo status quo, per l’ovvio motivo che il mantenimento dell’ordine costituito garantisce alla istituzione ecclesiastica la conservazione del suo potere, mentre un sovvertimento potrebbe metterlo in discussione. Due logiche distinte e per molti versi contrapposte generano dunque contraddizioni, tensioni e conflitti nella chiesa come nella vita e nella coscienza di tanti e tante uomini e donne di chiesa. E’ da augurarsi che l’assemblea del 15 settembre riesca a discutere apertamente delle due logiche in conflitto, essendo ciò il presupposto necessario per elaborare proficuamente la memoria del Concilio e farne scaturire impegni per il futuro, come i promotori si ripromettono.
L’andamento del conflitto e l’esito dell’assemblea dell’Eur sono importanti per tutti, non solo per i credenti. In primo luogo perché l’istituzione ecclesiastica, anche in virtù delle oltre cento nunziature e della rete di enti sparsi sul pianeta, è parte integrante del sistema di governo di «questo mondo»; e poi perché, connesse alla dialettica di cui si è detto, ci sono non solo differenti idee di chiesa ma anche visioni diverse del divino e le idee sul divino che circolano in una società hanno grande influenza sul modo in cui essa si plasma. «Si immagini - come suggerisce la teologa femminista Mary Hunt - un mondo in cui il divino venga compreso come Amico invece che come Padre, come Fonte invece che come Signore, come Pacificatore invece che come Sovrano, come cittadino invece che come Re». Si intravedrà qualcosa di quel mondo migliore cui tanti aspirano.
MESSAGGIO EVANGELICO, 2012. A dicembre dovremo ricordare i 50 anni del Concilio ecumenico Vaticano II. Con che coraggio celebreremo questo anniversario? Come ricorderemo il Concilio che ha detto che la Chiesa è una comunità di fedeli e di carità, e non di potere (Lumen Gentium)? E l’opzione per i poveri? E il primato della coscienza personale? Come faremo a parlare di “nuova evangelizzazione”?
Lo Ior era un centro di raccolta di fondi per la carità senza fine di lucro. Poi Papa Pacelli, nel 1942, in piena guerra mondiale, lo trasformò in una vera e propria banca. Ed è diventato un centro di potere. In passato ha avuto a che fare con Michele Sindona. Poi è stato diretto da Paul Marcinkus, che in Vaticano ha trovato riparo da tre mandati di cattura internazionali.
Non si commemora il futuro
di Giancarla Codrignani *
Parto da una citazione ormai famosa di Carlo Maria Martini: " la Chiesa è rimasta indietro di duecento anni ". Forse anche tutti noi, che non siamo come lui così sensibili ai percorsi della storia, non ci rendiamo conto che digitiamo e usiamo tecnologie complesse, ma la nostra mentalità e i nostri linguaggi sono rimasti obsoleti. Ed è per questo che abbiamo attorno pochi giovani e non riusciamo - neppure nei nostri gruppi e neppure con i nostri figli - a trasmettere loro alcun valore se non retorico e opaco: non rispondiamo al loro bisogno relazionale perché sono, almeno intuitivamente, già spostati altrove, anche se destinati a ripetere fallimenti personali ed errori sociali e politici prevenibili se riuscissimo a comunicare.
Anche per una Chiesa auspicabile secondo i valori del Concilio Vaticano II bisogna ripartire dai dati di realtà: i sessantenni di oggi andavano alle elementari quando si apriva - e si chiudeva - il Concilio. Significa che la pubblica opinione, quella dei grandi numeri, interpreta il Vaticano II come uno dei tanti Concili della Chiesa cattolica e non si accorge dell’interpretazione neoconservatrice che viene applicata secondo lo spirito del Vaticano I, se non di Trento.
La diffidenza sostanziale della gerarchia nei confronti di questo Concilio (e dei suoi estimatori) parte dall’accusa al suo primo valore, l’essere stato un Concilio "pastorale", termine ritenuto negativo rispetto al potere dato dal dogma.
Anche la base cattolica, in particolare italiana (di cui è tristemente nota la disinformazione, se non l’inveterata ignoranza sui contenuti della propria religione), non ha chiara né la significazione generale dell’evento (perfino nella terminologia, sostanzialmente poco popolare, da "collegialità" a "ecumenismo"); né i bisogni che il Concilio denunciava, rimossi nonostante lo svuotarsi delle chiese e il contraddittorio affollamento di pompose ritualità; né la deriva delle frammentazioni associative improntate a forte esigenza identitaria e soffocate dal potere delle organizzazioni ufficiali, non più l’Azione cattolica, ma l’Opus Dei o CL.
I punti di riferimento locali, con preti o laici sensibili alle istanze di rinnovamento, di fatto o sono diventati luoghi di condivisione autoghettizzata o hanno accettato ridimensionamenti e scomparse delle loro guide spirituali. Non ci furono più Isolotti e occupazioni di Chiese, ma neppure prese di parola all’altare e nei Consigli pastorali e nemmeno vescovi con la schiena dritta e laici adulti e non passivi.
Certo, non era il caso di riprodurre qualche "sessantotto" parrocchiale; ma è vero che non abbiamo saputo argomentare nelle chiese locali e con le diocesi: la nostra presenza è rimasta di nicchia, timida e anticipatrice dell’abbandono dei figli. I più testardi (e scomodi) hanno fatto e fanno il loro lavoro, placidamente esorcizzati e quasi sempre ininfluenti. Inutile accusare la secolarizzazione: le stesse esigenze spirituali non trovano quasi mai risposta nelle chiese.
Credo, pertanto, che il Vaticano II vada ripreso e praticato riconducendolo, in primo luogo, alla grandezza del Papa che lo ha imposto alla Curia romana con l’espediente di annunciarlo alla presenza di giornalisti che diffusero nel mondo la notizia, allora davvero imprevedibile, prima che la conoscessero i curiali vaticani.
La grandezza di Giovanni XXIII - definito da subito "il papa buono", come se gli altri tali non fossero stati (e, forse, la saggezza popolare aveva le sue buone ragioni) - è riscontrabile soprattutto in quella grande virtù che è il "coraggio derivato da fede autentica" e negli scritti che più direttamente risalgono alla sua ispirazione, come le due encicliche (tanto per fare memoria, la Mater et Magistra del 1961 - lo scorso anno poche commemorazioni - e la Pacem in Terris del 1963 - vedremo l’anno prossimo-).
Le letture retrospettive servono soprattutto per indicare le linee metodologiche da perseguire/proseguire. Con i "segni dei tempi" Gesù indica la nostra ottusità: diciamo "rosso di sera" perché crediamo di interpretare il meteo e non cerchiamo il prevedibile della storia e neppure il sublime dell’ "evento Gesù" a cui parteciparono discepoli, spesso anche loro tardi a capire.
Nella Pacem in terris i "segni" comprendevano eventi umani e sociali che dovevano provocare l’impegno dei cristiani a contribuirvi responsabilmente: l’affermazione dei diritti del lavoro, la liberazione dei popoli soggetti a dittature, la promozione della parità delle donne. Obiettivi realizzati? in qualche modo certamente sì, anche se i diritti sono sempre a rischio di arretramento e lontana ne resta l’universalità.
Per questo occorre far posto a "nuovi segni" di tempi che siano nostri e interpellino con rigore, a distanza di cinquant’anni, le possibilità di futuro.
Riguardano in primo luogo la Chiesa, responsabile (tralasciamo deliberatamente le miserie di peccati, bancari, fiscali o di pedofilia) di ritardi e inadempienze rispetto agli impegni conciliari previsti (c’entrava lo Spirito Santo) dalla Gaudium et Spes, rimasta impigliata nelle reti della Tradizione che riammette il latino di Pio V nella messa o, nel solco storico del potere gerarchico della monarchia vaticana, si è spesso perduta in vane ricerche di autorità e denaro, fino a far lievitare gli apparati burocratici, i riti e gli abiti pomposi, mentre le grandi chiese e le case religiose si sono vuotate.
Non pochi sono al riguardo i "segni" attuali eloquenti: intanto l’introduzione della "povertà della Chiesa" come pratica non irenica, ma come scelta coerente visibile; la necessità di rovesciare la piramide che ancora vede il Popolo di Dio soggetto a una gerarchia che gli toglie la parrhesia e lo condanna all’obbedienza formale; e, come ovvio corollario, l’adozione effettiva della collegialità a limitazione di una monarchia che contraddice il Regno.
Ancora: è "segno" l’urgenza di rileggere la Parola alla luce delle esigenze comunicative e culturali attuali e di rinnovare la liturgia di celebrazioni oggi contigue più al sacro alienante che alla relazione di fede. Di conseguenza è" segno" anche il rispetto della libera ricerca teologica senza censure che mortificano la libertà e la fraternità cristiane.
Una responsabilità della vecchia Tradizione ha indotto le chiese a confermare, con la sanzione del peccato, il negativo della corporeità umana - nonostante la nostra fede si fondi sull’incarnazione - e della sessualità: è "segno", dunque, anche la possibilità di purificare la mente da tabù e pregiudizi.
Tramontato il "regime di cristianità" che ha fatto storia, ma ha anche inquinato la coerenza della verità evangelica, sarà "segno" grande la priorità da dare all’ecumenismo, oggi quasi abbandonato: i cattolici non possono annunciare la pace al mondo se non hanno pace con i fratelli che credono nel loro stesso Signore: altrimenti perché avere detto "ut unum sint" ?
Ma ancora più grande è il "segno" che ci chiede di sostenere la libertà religiosa: al mondo non ci siamo solo noi cattolici e non ignoriamo che uomini e donne di buona volontà abitano il mondo seguendo culture e religioni diverse: come ricordiamo i progressi fatti nella relazione con l’ebraismo, urge spalancare le porte al dialogo con l’Islam, spesso citato con riguardo formale, ma non ancora accolto con il rispetto dovuto ai milioni di credenti che seguono, non senza problemi di interne differenze, la parola del Corano secondo la volontà di Maometto che, due secoli dopo Ambrogio, credette nel dio unico e auspicò una convivenza di pace e solidarietà tra gli umani.
Anche tra il clero illuminato molti respingono l’idea che sia "segno" la presenza della donna nei ministeri; eppure sarebbe forse, proprio in questi tempi difficili, la miglior apertura alla volontà di un Dio che nella Scrittura creò la donna dalla materia organica dell’uomo plasmato dal fango e le chiese di farsi madre del Salvatore.
Ma i tre "segni" di Papa Giovanni erano soprattutto indicatori laici di valori comuni ormai affermatisi almeno per principio. Ma erano soprattutto frecce segnaletiche per la responsabilità creativa dei credenti. Se ripetiamo il metodo, scopriamo tutte le nostre omissioni. Penso che potremmo rimediare.
Un "segno" è la ricerca per la pace a partire dalla condanna della guerra, fenomeno "alienum a ratione": richiama a provvedimenti immediati, come la soppressione dell’Ordinariato militare, e a interventi pastorali per favorire il disarmo e il ridimensionamento del commercio delle armi.
Un ennesimo "segno" è implicito nelle domande che sorgono da scoperte e innovazioni scientifiche spesso problematiche, a cui non serve opporre divieti quando sono in essere, se non si è stati capaci di prevederne l’evoluzione. Cinquant’anni fa sopravviveva la doppia morale, che impediva il riconoscimento della dignità di ciascun uomo e ciascuna donna nel rispetto delle diversità: oggi è "segno" il dovere dell’accoglienza sociale di LGBT (lesbiche, gay, bisessuali, transgender).
Anche gli immigrati rappresentano un "segno" ed è benemerita la Caritas che li assiste, ma è più importante l’esigenza di predicare la cultura della nuova uguaglianza e la nuova parità dei diritti di tutti. Ultimo - ma non ultimo - il "segno" che obbliga a tutelare e conservare l’ambiente, che le chiese chiamano il creato.
Il Vaticano, sia che osservi l’obbedienza al dettato di un Concilio "pastorale", sia che intenda ridursi al lefebrianismo, ha dei doveri, appunto, pastorali. Deve pensare alla qualità del futuro. Le Chiese non possono permettersi stanchezze o presunzioni di verità e tanto meno reagire con le scomuniche e la difesa delle reciproche prerogative anche quando fossero violate: ricordiamo che tutte le religioni - tranne, forse, e solo in qualche misura, quelle orientali - sono in crisi di autorità e rimediano con l’aggressività quando si sentono minacciate.
Il prossimo sarà ufficialmente per i cattolici l’ "anno della fede". Per quello che sta in noi vediamo che sia veramente così. Il che significa che, ciascuno secondo la propria coscienza e possibilmente lavorando insieme, accogliamo una grande responsabilità. Forse, in questa evocazione abbiamo incominciato a sentire che è in gioco il destino della "Chiesa di tutti".
* Fonte: Incontri di "Fine settimana", 6 settembre 2012
Chiesa cattolica e omosessualità. Lettera aperta al vescovo di Firenze
di don Fabio Masi, don Alessandro Santoro, don Giacomo Stinghi, suor Stefania Baldini *
"Il numero di ‘Toscana Oggi’ del 24 Giugno 2012 dedicava largo spazio all’argomento dell’omosessualità e delle coppie di fatto eterosessuali, con alcuni articoli del giornale e diverse lettere al Direttore, queste ultime critiche nei riguardi della posizione ufficiale della Chiesa sull’argomento.
Ci sembra che gli articoli del Settimanale diocesano non facciano che ripetere sull’omosessualità le norme ecclesiastiche di sempre, senza approfondire l’argomento che negli ultimi anni si è notevolmente sviluppato e chiarito e che ha ancora bisogno di ricerca.
Il nostro intervento vuole dare testimonianza della diversità di posizioni che ci sono oggi di fronte a questo tema, nella riflessione laica e anche nelle Chiese. Noi, e insieme a noi anche teologi, vescovi e laici cristiani, non ci riconosciamo in quell’analisi che traspare dagli articoli di ‘Toscana Oggi’. Quello che ha portato ad un cambiamento radicale nella comprensione dell’omosessualità è stato un tragitto importante. Nel passato l’omosessualità era considerata un ‘vizio’ praticato da persone ‘etero’ in cerca di piaceri alternativi, e come tale condannata. Ma allora si parlava di ‘comportamenti omosessuali’; soltanto nel secolo scorso si è cominciato a parlare di ‘condizione omosessuale’ e non solo di ‘atti’, inducendo alcuni ad ipotizzare che l’omosessualità fosse da considerare non un vizio ma una ‘malattia’.
In questi ultimi anni è maturato un modo di comprendere l’omosessualità radicalmente diverso, che ormai, con varie sfaccettature, è accettato da quasi tutti. Si parla dell’omosessualità come di un elemento pervasivo della persona che la caratterizza nella sua profonda identità e le fa vivere la sessualità in modo ‘altro’.
E’ importante che la Chiesa riconosca positivamente il cammino della scienza nella conoscenza dell’uomo e non dichiari verità assolute quelle che poi dovrà riconoscere errate, come è accaduto in passato. Questi fatti ci inducono a vedere l’omosessualità in un orizzonte nuovo e ad affrontarla con uno sguardo morale diverso. Su questo tema la Bibbia non dice né poteva dire nulla, semplicemente perché non lo conosceva, così come non dice nulla sull’ecologia e sull’uso della bomba atomica. Comunque nella cultura biblica, come in tutta l’antichità, è totalmente assente l’idea di ‘persona omosessuale’, si parla solo di ‘comportamenti’ e non di ‘condizione omosessuale’, ed è chiaro che vengono condannati non solo perché infecondi, ma anche in quanto legati alla violenza o alla prostituzione sacra.
A questo riguardo sono opportune alcune precisazioni sulla Sacra Scrittura spesso citata per stigmatizzare il rapporto omosessuale. Nel Nuovo Testamento solo Paolo chiama ‘contro natura’ il rapporto omosessuale (Romani 1, 26-27) ma bisogna tener presente che egli si riferisce, più che all’aspetto fisico, al fatto che l’omosessualità minava l’ordine sociale di allora, quando era la donna, per natura, a dover essere ‘sottomessa’ all’uomo. Fra l’altro è cambiata anche la nostra comprensione del concetto di ‘natura’: l’idea di ‘natura’ come realtà già conclusa non corrisponde più al modo di sentire odierno.
Ormai è anche abbastanza chiaro che quegli episodi dell’Antico Testamento su cui ancora si basa la condanna dell’omosessualità hanno un altro significato: negli episodi di Sodoma (Genesi 19) e di quello simile di Gabaa (Giudici 19) il crimine non sta tanto nell’omosessualità, quanto nella violenza e nella volontà di umiliare e rifiutare lo straniero.
Nell’Antico Testamento invece ci sono segnali molto importanti e molto belli, non esplicitamente riferiti all’omosessualità, ma piuttosto al cammino di maturazione che il popolo ebraico compie rispetto all’emarginazione di gruppi e di persone. La Bibbia ci offre così una cornice più larga in cui porre anche questo aspetto della vita.
Dio ‘sceglie’ il popolo ebraico perché sia segno, in mezzo agli altri popoli, della sua volontà di giustizia che vuole salve tutte le creature. Poi Israele, con l’illusione di essere sempre più all’altezza della missione che Dio gli ha dato, al suo interno opera altre ‘scelte’ emarginando gruppi considerati ‘impuri’. Nel Deuteronomio, per esempio, (23, 2-9) si elencano le categorie escluse dall’Assemblea del culto: gli eunuchi, i bastardi e i forestieri. Ma il cammino verso i tempi messianici è un cammino verso l’inclusione, perché i tempi messianici sono per tutti, come si legge nel Terzo Isaia (56,1.3-5): Osservate il diritto e praticate la giustizia..... Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: «Certo mi escluderà il Signore dal suo popolo!» Non dica l’eunuco: «Non sono che un albero secco!». Perché così dice il Signore: “Agli eunuchi, che osservano i miei sabati, si comportano come piace a me e restan fermi nella mia alleanza, io darò un posto nel mio Tempio per il loro nome. Questo sarà meglio che avere figli e figlie perché io renderò eterno il loro nome. Nulla potrà cancellarlo”.
Questo capovolgimento di Isaia è una pietra miliare! Non ha alcun valore davanti a Dio lo stato oggettivo di natura o di cultura in cui uno si trova: uomo, donna, omosessuale, eterosessuale, bastardo, straniero, genio o di modesta intelligenza; ciò che conta è osservare il diritto e praticare la giustizia, ciò che conta è amare il Signore e i fratelli.
Non vogliamo dire che Isaia in questo passo alludesse agli omosessuali, non poteva per i motivi che abbiamo detto prima. Ma noi non dovremmo vedere l’omosessualità in questa luce? Compito della Chiesa è allargare le braccia, includere e non emarginare, amare le persone piuttosto che salvare i principî. Ha detto il Maestro: “Il Sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il Sabato”. (Marco 2,27)
Di questo cambiamento hanno preso atto anche i Capi della Chiesa cattolica che più volte hanno dichiarato di non condannare gli omosessuali ma l’omosessualità, e questo per loro è un passo in avanti. In realtà non se ne capisce il significato! sarebbe, come dire ad uno zoppo: "Non abbiamo nulla contro il tuo ’essere zoppo’, basta che tu cammini diritto o che tu stia a sedere!"
A proposito dell’essere sterili o fecondi, Gesù ha detto che è il cuore che deve essere fecondo e Paolo dirà che si entra nel popolo di Dio per fede, non per diritto ereditario. Ma allora chi può onestamente definirsi fecondo? Chi può farsi giudice della fecondità altrui o della propria? La sterilità ci può colpire tutti.
Questo modo di accogliere profondamente la vita di ogni essere umano lo abbiamo imparato dalla Chiesa! Per i discepoli di Gesù non si tratta tanto di difendere principî, di custodirli rigorosamente come gli angeli con la spada di fuoco davanti all’albero della vita, ma di ‘scrutare’ la vita delle donne e degli uomini del nostro tempo, per farla progredire verso la pienezza. Si tratta di esser fedeli non ad un Dio noto e posseduto, ma ad un Dio ‘che viene’. Ha detto Gesù: “Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo, come mai questo tempo non sapete valutarlo?” (Luca 12, 56)
A noi sembra che proprio dalla Chiesa dovrebbe arrivare un riconoscimento del modo nuovo di comprendere l’omosessualità, con un segno di accoglienza e di profondo rispetto per i sentimenti di amore di chi vive personalmente questa condizione. Due persone che si amano non sono un attentato alla società né il tradimento del Vangelo. Gli scandali vanno cercati altrove! Rifacendosi da una parte a queste fonti bibliche e dall’altra all’esperienza umana che viviamo ogni giorno con queste persone, sentiamo evangelico e naturale accogliere in pienezza di comunione queste differenti forme di amore. Le sentiamo parte integrante del nostro cammino di comunità di fede e di vita, e con loro, così come con tutti gli altri, partecipiamo insieme alla Comunione sacramentale e comunitaria.
Il Libro della Sapienza (11, 24-26) ci offre un tratto stupendo del Creatore, che dovrebbe essere ‘luce sul nostro cammino’: “Tu, Signore, ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte son tue, Signore, amante della vita”."
* www.gionata.org, 6 settembre 2012
La crisi del Vaticano II: pesa la collegialità mancata
di Alberto Melloni (Corriere della Sera - La Lettura, 17 giugno 2012)
Il Vaticano II non ha tratto grandi benefici dalla stagione nella quale andava di moda. Le sue intuizioni più profonde sono spesso state banalizzate, le sue esigenze più imperative disattese. Adesso il vento dei vezzi ha girato e quelli che si vergognavano di non capirlo, o che osavano dare alle proprie pigrizie spirituali il venerando nome di Tradizione, fanno sogni impossibili. Questa galassia, alla quale Benedetto XVI ha regalato molti gesti di indulgenza, anziché accontentarsi e ringraziare, si è montata la testa.
Alcuni di loro, come padre Gherardini, supplicano da tempo un declassamento del Vaticano II a concilio adogmatico: così da liberarsi di quelle decisioni che hanno ridisegnato il volto ecumenico, interreligioso e eucaristico della Chiesa. E trovano talora sostegno inatteso in una storiografia che sente ormai di aver le prove che il Concilio si è svolto dopo la metà del secolo XX, quasi di sicuro all’inizio degli anni Sessanta, e che, testi alla mano, può dimostrare che in esso affiorano convinzioni religiose di chiara impronta cristiana...
Altri si sono ormai convinti che con poco - un altro decano o un altro segretario di Stato o un’altra infornata o addirittura un altro Papa - si potrebbe davvero seppellire il Concilio e saltare a un punto imprecisato del tempo, all’indietro o se mai in avanti, come se davvero l’esperienza fondamentale del cristianesimo fosse cruda materia, pensabile fuori da una storia. Ma al di là delle mode il Vaticano II rimane al centro della vita cristiana e della Chiesa cattolica, nelle sue decisioni cruciali sulla liturgia, la rivelazione, il ministero, la pneumatologia, la libertà, l’alleanza di Israele, l’alterità, la povertà.
Certo, ci sono decisioni che gli furono sottratte, e che si rischia talora di leggere come lacune. Paolo VI, com’è noto, ritenne che c’erano temi talmente delicati e complessi che il Papa li avrebbe risolti meglio da solo che non con un’assemblea: la guerra nell’era della deterrenza nucleare, il celibato ecclesiastico, la riforma della Curia romana, la contraccezione, la pratica della collegialità episcopale. Nodi che hanno isolato, tormentato, e alla fine schiacciato papa Montini. Giovanni Paolo II li ha letteralmente «sorvolati» col suo stile di non-governo. E sono rimasti lontani dall’agenda di Benedetto XVI.
A partire da quello più «latino» e più istituzionale di tutti che è la forma del governo ecclesiale. I1 Vaticano II, infatti, indicò la via della collegialità - che non è una specie di «democrazia», ma la conseguenza di un modo di vedere la Chiesa universale e le Chiese particolari in un dinamismo di comunione che nasce dal sacramento episcopale e non da una concessione del Papa o da un diritto dal basso.
Quella indicazione non è stata ubbidita: né nelle riforme della curia, né in quella del Codice di diritto canonico e neppure quando una enciclica wojtyliana - Ut unum sint - pose la questione della fisionomia del ministero petrino.
Ma se il Vaticano II non ha voluto costringere, non è stato per debolezza e nemmeno perché ignorava che la nostra storia sarebbe stata rapida: è stato il suo stesso modo d’essere e la convinzione che a esso toccasse iniziare, dare responsabilità. Che con quell’inizio e responsabilità ci si misuri malvolentieri non è colpa del Concilio, ma di chi esita.
L’INCIDENZA SULLA CULTURA
Concilio, scacco al ’68
di Carlo Ossola (Avvenire, 11.06.2012)
«La Cina è vicina», proclamò il Sessantotto e molti (anche giovani credenti impegnati) s’invaghirono di maoismo: il mondo era già globale, nell’attenzione che dal 1960 venne prestata alla guerra americana in Vietnam, mentre i paradigmi culturali delle Università in cui ci formavamo erano - lasciando da parte residui puramente nazionali di molta letteratura - al più europei: si salutarono dunque come un’innovazione libri quali Tristes tropiques (1955, tradotto nel 1960) di Claude Lévi-Strauss; ma quella prima "globalizzazione" degli anni Sessanta fu dolorosa e dilacerante; dappertutto si veniva a conoscenza di disuguaglianze che la decolonizzazione rendeva più vistose (vi perse la vita il Segretario generale dell’Onu Dag Hammarskjöld), il mondo veniva «a portata di mano», ma le mani erano spesso insanguinate.
Il valore prezioso che il Concilio Vaticano II portò in quello scenario fu, innanzi tutto, quello di un’universale fraternità senza frontiere e - un domani - senza più divisioni. Basti ricordare alcuni paragrafi dell’Unitatis Redintegratio ove si auspicava che «tutti i cristiani, in un’unica celebrazione dell’Eucarestia, si riuniscano in quella unità dell’una e unica chiesa, che Cristo fin dall’inizio donò alla sua chiesa».
Al monolitismo cruento, in maniera definitiva svelato dai fatti di Ungheria, del marxismo storico si opponeva, retaggio di secoli e primizia, un nuovo anelito di concordia, quella di un cristianesimo non più assetato di primati, ma pronto al servizio, al dialogo, al riconoscimento del patrimonio prezioso dell’alterità: «È necessario che i cattolici con gioia riconoscano e stimino i valori veramente cristiani, promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi separati [...] perché Dio è sempre stupendo e sorprendente nelle sue opere» (Unitatis Redintegratio).
Nel bel latino dei Padri conciliari quel «Deus semper mirabilis et mirandus» apriva alla letizia della Gaudium et spes, ai «bona humanae dignitatis, communionis fraternae et libertatis»; dava la consolazione di aderire a ciò che di più genuino il pensiero umano (da Agostino a Pascal) aveva espresso del cuore umano: «La chiesa sa perfettamente che il suo messaggio è in armonia [concordat] con le aspirazioni più segrete del cuore umano, quando difende la causa della dignità della vocazione umana». Dignitas vocationis humanae: chiamati, infine, a essere uomini, degni di accogliere l’Incarnazione. Nessun’altra vocazione che un agire vissuto nella fratellanza, poiché l’uomo di Nazareth «pienamente manifesta l’uomo all’uomo», non solo e non tanto nella non imitabile predicazione degli ultimi tre anni di vita, ma soprattutto nella «vita ordinaria» e nascosta dei primi trent’anni, nel lavoro silente che tanto era stato messo in luce da Charles de Foucauld. Un cristianesimo infine «au cœur des masses», lievito operoso, anonimo, fecondo di unità.
Non solo: studiavo allora la storia e la filosofia medievale, il poema di Dante, gli universalia tantum; e il Concilio - di fronte alle riduzioni pietiste cui si era ristretto in molti decenni di mera devozione il cristianesimo delle parrocchie - proclamava nuovamente, con titoli antichi e vigorosi, il De dignitate intellectus, de veritate et de sapientia (Gaudium et spes, §15). Fede e studio si riconciliavano, nel rispetto profondo della coscienza: «Conscientia est nucleus secretissimus atque sacrarium hominis» (Gaudium et spes, § 16).
Si è detto, allora e più tardi, che il Concilio avesse troppo incautamente innovato (ricorderò, per tutti, il manifesto anticonciliare, colto e serrato, di Romano Amerio, Iota unum, 1985); a me pare invece che nei suoi documenti fondanti il Vaticano II non abbia fatto altro che riportare alla luce il grande afflato universale della tradizione patristica e medievale di sant’Agostino, san Francesco, san Bonaventura, san Tommaso, san Bernardo, prima delle divisioni più gravi della cristianità europea e dei nazionalismi che si sono impadroniti di un messaggio che non ha alcun confine, se non quello della creazione stessa (Teilhard de Chardin). Vorrei aggiungere: una sintesi tra l’universalismo medievale e la dignitas hominis umanistica: la «altissima vocatio» dell’uomo che ancora attende di «attingere fastigium», di toccare il proprio vertice.
Proprio per questo il Concilio non è chiuso: chi l’abbia vissuto allora (attraversò tutto il mio liceo e l’inizio dell’Università) e ne abbia oggi coscienza storica, sa bene che momenti così alti di convocazione e dono distendono poi le loro acque e frutti per decenni e generazioni, mentre forme più improvvise - rivoli di qualche debordare - rinsecchiscono e altre maschere già morte, fellinianamente rimuoiono. Non tanto conta che la chiesa sia impari al proprio compito (lo è sempre stata dal tradimento di San Pietro in poi), ma che non abbia più - o molto meno - lo slancio di offrire alle «generazioni di domani ragioni di vita e di speranza» (Gaudium et spes, 31).
Oggi la secolarizzazione compiuta, il disfacimento etico dell’Occidente, il trionfo di un nuovo universalismo più subdolo - e già nei documenti conciliari denunciato - e cioè quello della pura rendita finanziaria di capitali mobili e irresponsabili, rendono l’eredità del Concilio più impegnativa e urgente.
Concludendo il mio seminario al Collège de France, questo marzo 2012, Jean Delumeau, una delle figure-faro del cristianesimo post-conciliare, ha osservato che, sebbene le varie forme di paradiso che l’umanità ha agognato si siano l’una dopo l’altra dissolte, pure rimane un compito sempre nuovo e sempre immane: realizzare le Beatitudini. E, in questo, il cristianesimo non è che a un balbuziente inizio, poiché -insegna ancora la Gaudium et Spes - «tutte queste [ingiustizie] sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor corrompono più coloro che così si comportano che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente l’onore del Creatore». Ecco, non siamo che un semen Gloriae e molto ci dovrà passare sopra...
Carlo Ossola
IN MEMORIA DI DON PRIMO MAZZOLARI.
(...) don Primo Mazzolari era solito dire che rimettersi totalmente, ciecamente a un uomo, per autorevole che fosse, era come dimettersi da uomo. E agli uomini della sua parrocchia puntualmente ricordava: "Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non la testa". (Angelo Casati, Libera parola. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Ovvero della paura di pensare, in “mosaico di pace” del novembre 2010)
Cronache del parroco di Bozzolo
di Angelo Paoluzi (“Europa”, 28 febbraio 2012)
Non è morto nel 1959 perché il suo messaggio sembra scritto oggi. Don Primo Mazzolari, «la tromba dello Spirito Santo della Bassa mantovana» - così lo definì papa Giovanni XXIII -, è ancora fra noi, con il suo potere di ammonimento e possiamo dire di profezia.
Nelle centoventi pagine di un’antologia dal titolo Come pecore in mezzo ai lupi le edizioni, Chiarelettere (Milano 2011, 7 euro) ripropongono testi che continuano a servire come catechismi di moralità politica. Nella prefazione don Virginio Colmegna parla di «attività provocatoria » di don Primo, di una «nuova cultura politica, partecipata, rilanciando la connessione virtuosa fra etica e impegno politico, riscoprendo una soggettività che ha il coraggio del servizio disinteressato, del bene comune come responsabilità».
Un concetto al quale risponde - sembra per i nostri giorni - il brano di un articolo scritto su Adesso nel 1950: «Un popolo che stenta a vivere e conta a milioni i suoi disoccupati e ha lo schifo di pochi avventurieri che buttano via volgarmente il denaro, ha diritto di vedere che almeno gli uomini da lui scelti per governarlo, se non proprio poveri, siano almeno distaccati, in omaggio a quello spirito di povertà da cui prendono nome e vanto».
Così un’amara osservazione sui principi, sui quali «è almeno strano che certe difese a oltranza vengano fatte principalmente nei confronti dei poveri, i quali, posti nel disumano dilemma di scegliere tra un principio morale e una tremenda necessità materiale, all’infuori di qualche caso di grazia, sono costretti ad arrendersi alle necessità». E sullo spettacolo (triste immagine dei nostri tempi) «poco edificante ma istruttivo, di uomini senza fede che si dichiarano per la religione; di senza patria, che s’accendono di furore nazionalistico; di corrotti celibatari, che esaltano la santità della famiglia».
Abbiamo di don Mazzolari un ricordo preconciliare. Si svolse a Napoli, negli anni che precedettero il Vaticano II, un convengo di scrittori cattolici, cui partecipò il meglio della cultura di allora, da Giancarlo Vigorelli a Giorgio La Pira, da Carlo Bo a Mario Pomilio. Fra essi un silenzioso don Primo: il suo Adesso era sotto il tiro della censura clericale. In un gruppo di lavoro si sfogò: chiese a tutti i laici presenti che cosa stessero rischiando, in quanto credenti, della loro libertà: un povero prete come me questo rischia, disse, e sventolò la tonaca. Erano gli anni in cui, fra la generale diffidenza ecclesiale, si batteva per la pace, per l’obiezione di coscienza, per una Chiesa che respingesse - come più tardi essa fece - la legittimità della guerra.
Come pecore fra i lupi restituisce al nostro ricordo il tenace parroco di Bozzolo, che non soltanto i fascisti non riuscirono a piegare
Diamo la parola al silenzio
di Michel Bloch-Lemoine e altri
in “www.groupes-jonas.com” del 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)
Molte donne e molti uomini trovano che la Chiesa stia andando indietro, ma non osano o non possono esprimersi. Dicono: “A che serve?” Sono molte le persone che se ne vanno, deluse.
Vogliamo dar voce al loro silenzio.
L’anno prossimo, si commemorerà il Concilio Vaticano II: sarà per rinchiuderlo nel passato o per rianimare il suo slancio? Invitava il popolo di Dio a diventare vivo e responsabile. Auspichiamo che molti cristiani possano esprimersi liberamente ed essere ascoltati.
Quanti problemi importanti rimasti senza risposta: quello della comunione eucaristica dei divorziati-risposati, quello dell’ordinazione al presbiterato di uomini sposati, quello delle parrocchie senza prete, sempre più numerose, quello della lontananza crescente tra la vita attuale ed un linguaggio che non parla più ai nostri contemporanei.
Constatiamo che preti e laici si prendono la loro libertà rispetto alle prescrizioni romane. Ci auguriamo che dei vescovi abbiano il coraggio di trasmettere i desideri dei cristiani senza sottoporli ad un filtro. Ci aspettiamo da loro che reagiscano quando degli integralisti dichiarano di voler tornare nella Chiesa per distruggere il Concilio dall’interno.
Siamo stati molto sensibili alle iniziative dei teologi tedeschi, di preti e laici in Austria, a Rouen, a Strasburgo, a Vannes. Con loro, vogliamo prolungare il grande atto del Concilio ed essere così testimoni attivi del Vangelo, speranza per la nostra umanità.
Anche a noi spetta riunirci ed agire.
Michel BLOCH-LEMOINE, Michel PINCHON, Jean RIGAL, Gabriel MARC, Simone MARC, Thérèse BLOCH-LEMOINE, Michel DREAN, Thérèse JOUBIOUX, Gérard BESSIERE, Jean- Pierre SCHMITZ, Hyacinthe VULLIEZ, Geneviève de GEVIGNEY, Michel MANCIAUX, Geneviève MANCIAUX, Maurice LEROUX, Yves DREAN, Pierre BACHELARD, Evelyne BACHELARD, Christiane BASCOU.
50° del Concilio Vaticano II
CHIESA DI TUTTI, CHIESA DEI POVERI
a cura di Vittorio Bellavite, Franco Ferrari, Raniero La Valle, Cipax
54 movimenti, associazioni e gruppi di base e 22 riviste convocano l’assemblea “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” il 15 settembre a Roma, a 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II
Comunicato stampa
54 movimenti, associazioni e gruppi di base e 22 riviste convocano l’assemblea “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” il 15 settembre a Roma, a 50 anni dall’inizio del Concilio Vaticano II
L’undici settembre 1962 Giovanni XXIII, un mese prima dell’inizio del Concilio, rivolse un radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo. In esso il grande pontefice parlava di “primavera della Chiesa”, “dei problemi del mondo attuale”, “della Chiesa di tutti e particolarmente dei poveri”, della richiesta “della libertà religiosa” e dell’ ”anelito alla vera pace”.
A cinquant’anni da quel discorso, 54 movimenti, associazioni e gruppi di base e 22 riviste, rappresentativi di una vasta area ecclesiale italiana, hanno deciso di ricordare l’inizio del Concilio Vaticano II nella forte convinzione dello straordinario rinnovamento che esso portò nella storia della Chiesa e della necessità di riflettere sul passato per costruire il futuro, proponendo e testimoniando coerentemente il Vangelo di Gesù all’inizio del terzo millennio.
E’ stata così convocata l’assemblea “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri” per sabato 15 settembre a Roma dalle 10 alle 18 presso l’Istituto Massimo all’EUR.
In allegato il testo di convocazione e l’elenco dei firmatari. Sarà in seguito aperta l’adesione online.
Con preghiera di pubblicazione
Il Comitato promotore dell’assemblea “Chiesa di tutti, Chiesa dei poveri”.
Roma, 10 maggio 2012
Per informazioni e contatti:
Vittorio Bellavite Tel 022664753 - cell. 3331309765 - vi.bel@iol.it
Franco Ferrari Tel. 0521242479 - Cell. 3703061477 - viandanti.prs@gmail.com
La Valle Raniero Tel. 064742791 - Cell.3392529074 - raniero.lavalle@tiscali.it
Cipax (Gianni Novelli e Fabrizio Truini) - Tel.0657287347 - Cell.3398928097- info@cipax-roma.it
Convocazione di un’assemblea nazionale a Roma a cinquant’anni dall’inizio del Concilio
La Chiesa cattolica celebrerà nel prossimo ottobre i cinquant’anni dall’inizio del Concilio e ha indetto, a partire da questa ricorrenza, un anno della fede. Viene così stabilito un nesso molto stretto tra il ricordo del Vaticano II e la fede trasmessa dal Vangelo e annunziata dal Concilio. A ciò sono interessati non solo i fedeli cattolici, ma anche gli uomini e le donne di buona volontà associati, come dice il Concilio, “nel modo che Dio conosce” al mistero pasquale, che intendono, nel nostro Paese come in tante parti del mondo, ricordare e interrogare quell’evento e quell’annuncio.
Per questa ragione i gruppi ecclesiali, le riviste, le associazioni e le singole persone appartenenti al “popolo di Dio”, firmatari di questo appello, convocano un’assemblea nazionale per
sabato 15 settembre 2012 (10-18)
a Roma (EUR)
nell’Auditorium dell’Istituto “Massimo”
Nella consapevolezza dei promotori è ben presente il fatto che ricordare gli eventi non consiste nel portare indietro gli orologi, ma nel rielaborarne la memoria per capirne più a fondo il significato e farne scaturire eredità nuove ed antiche e impegni per il futuro. Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda gli eventi di salvezza (come certamente il Concilio è stato) molti dei quali non furono capiti dagli uomini della vecchia legge e dagli stessi discepoli di Gesù, se non più tardi, quando alla luce di nuovi eventi la memoria trasformatrice ne permise una nuova comprensione. Fu così ad esempio che, dopo la lavanda dei piedi, Gesù disse a Pietro: “quello che io faccio ora non lo capisci, lo capirai dopo”, e fu da questa nuova comprensione che scaturì il primato della carità nella vita della Chiesa.
Così noi pensiamo che in questo modo, non meramente celebrativo, debba essere fatta memoria del Concilio nell’anno cinquantesimo dal suo inizio, e che al di là delle diverse ermeneutiche che si sono confrontate nella lettura di quell’evento, quella oggi più ricca di verità e di frutti sia un’ermeneutica della memoria rigeneratrice. Essa è volta a cogliere l’”aggiornamento” che il Concilio ha portato ed ancora oggi porta nella Chiesa, in maggiore o minore corrispondenza con il progetto per il quale era stato convocato.
L’assemblea di settembre vorrebbe essere una tappa di questa ricerca. Se si terrà a settembre, invece che in ottobre, è perché intende rievocare, sia come inizio che come principio ispiratore del Vaticano II, anche il messaggio radiofonico di Giovanni XXIII dell’11 settembre 1962 che conteneva quella folgorante evocazione della Chiesa come “la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Da questo deriva infatti il tema del convegno.
Dopo un pensiero sulla “Mater Ecclesia” che gioì in quel giorno inaugurale dell’11 ottobre 1962 (intervento di Rosanna Virgili) l’incontro si articolerà in tre momenti:
il primo dedicato a ricordare ciò che erano la Chiesa e il mondo fino al Concilio (intervento di Giovanni Turbanti),
il secondo per discernere tra le diverse ermeneutiche del Vaticano II (intervento di Carlo Molari),
il terzo sulle prospettive future, nella previsione e nella speranza di un “aggiornamento” che continui, sia nelle forme dell’annuncio, sia nelle forme della preghiera, sia nella riforma delle strutture ecclesiali (intervento di Cettina Militello), con parole conclusive di Raniero La Valle (“Il Concilio nelle vostre mani”).
Sono previsti diversi interventi e contributi di testimoni del Concilio così come di comunità, di gruppi e di persone presenti al convegno, che potranno testimoniare la loro volontà di essere protagonisti della vita della Chiesa.
L’ipotesi è che mentre lo Spirito “spinge la Chiesa ad aprire vie nuove per arrivare al mondo” (Presbyterorum Ordinis n. 22), l’eredità del Concilio, nella continuità della Chiesa e nell’unità di pastori e fedeli, ancora susciti ricchezze che è troppo presto per chiudere nelle forme di nuove “leggi fondamentali” (come fu tentato a suo tempo) o di nuovi catechismi, che non godono degli stessi carismi dei testi conciliari; mentre restano aperti gli orizzonti dell’ecumenismo e del dialogo con le altre religioni e tutte le culture per la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato.
In questo spirito i promotori invitano alla preparazione e alla celebrazione del convegno romano di settembre, che parteciperà in tal modo a un programma di iniziative analoghe che si stanno già realizzando, in diverse forme, in Europa e nel mondo e che si concluderanno nel dicembre 2015 con un’assemblea mondiale a Roma a cinquant’anni dalla conclusione del Concilio.
Vittorio Bellavite, Emma Cavallaro, Giovanni Cereti, Franco Ferrari, Raniero La Valle, Alessandro Maggi, Enrico Peyretti, Fabrizio Truini.
Roma, 19 aprile 2012
L’invito è fatto da :
Agire politicamente
Associazione “Cercasi un fine” - Bari
Associazione Cresia - Cagliari
Associazione Esodo - Venezia
Associazione Mounier - Cremona (Rete dei Viandanti)
Associazione nazionale Maurizio Polverari - Roma
Assemblea permanente S. Francesco Saverio - Palermo
Associazione Sulla Strada - Attigliano
Associazione Viandanti - Parma
Beati i costruttori di pace - Padova
Casa della Solidarietà - Quarrata/PT (Rete dei Viandanti)
Centro internazionale Helder Camara - Milano
Chicco di Senape - Torino (Rete dei Viandanti)
Chiesa-Città- Palermo
Chiesa Oggi - Parma (Rete dei Viandanti)
CIPAX- Roma
Città di Dio - Invorio/NO (Rete dei Viandanti)
Comunità cristiana di base di S.Paolo - Roma
Comunità Cristiane di Base italiane
Comunità del Villaggio artigiano - Modena
Comunità di base delle Piagge - Firenze
Comunità di Mambre - Busca/CN
Comunità di S.Benedetto - Genova
Comunità di S. Rocco - Cagliari
Comunità ecclesiale di S. Angelo - Milano
Comunità La Collina - Cagliari
CNCA (Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza)
Fine Settimana - Verbania/VB (Rete dei Viandanti)
Fraternità degli Anavim - Roma
Galilei - Padova (Rete dei Viandanti)
Gruppo ecumenico donne - Verbania (Rete dei Viandanti)
Gruppo Promozione Donna - Milano
Il Concilio Vaticano II davanti a noi - Parma (Rete dei Viandanti)
Il Dialogo - Monteforte Irpino/AV
Il filo - Napoli (Rete dei Viandanti)
Il Guado - Gruppo di riflessione su fede e omosessualità - Milano
Koinonia - Pistoia (Rete dei Viandanti)
La Rosa Bianca
Le radici e frutti - Cagliari
Lettera alla chiesa fiorentina - Firenze (Rete dei Viandanti)
MIR- Movimento Internazionale per la Riconciliazione
Noi Siamo Chiesa
Nuove Generazioni - Rimini
Oggi la parola - Camaldoli/AR (Rete dei Viandanti)
Ore Undici - Roma
Parrocchia S. Maria Immacolata e San Torpete - Genova
Piccola Comunità Nuovi Orizzonti - Messina
Preti del Friuli-Venezia Giulia della lettera di Natale
Preti operai della Lombardia
Progetto Continenti - Roma
Progetto Gionata su Fede e omosessualità - Firenze
Scuola popolare Oscar Romero - Cagliari
Vasti - scuola di ricerca e critica delle antropologie.- Roma
Vocatio - Movimento dei preti sposati
Riviste e agenzie:
ADISTA (Roma)
CEM mondialità (Brescia)
Combonifem (Verona)
Confronti (Roma)
Dialoghi (Locarno/Svizzera)
Esodo (Venezia)
Il Foglio (Torino)
Il Gallo (Genova - Milano)
Il Tetto(Napoli)
L’Altrapagina (Città di Castello/PG) (Rete dei Viandanti)
Missioni consolata(Torino)
Missione oggi (Brescia)
Mosaico di pace (Bisceglie/BT)
Nigrizia(Verona)
Orientamenti sociali sardi (Cagliari)
Popoli (Milano)
Preti operai (Mantova)
QOL (Novellara/Reggio Emilia)
Segno(Palermo)
Sulla Strada (Varese)
Tempi di fraternità (Torino),
Viottoli (Pinerolo/TO)
Il programma dettagliato e le informazioni logistiche seguiranno a breve insieme alle indicazioni per aderire online
Giovanni XXIII annuncia un concilio
di Christine Pedotti
in “www.baptises.fr” del 23 marzo 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il 25 gennaio 1959, nella sacrestia della basilica romana di San Paolo Fuori Le Mura, papa Giovanni XXIII, eletto da soli 90 giorni, annuncia ai 17 cardinali romani venuti a celebrare la chiusura della settimana di preghiera per l’unità, la sua intenzione di riunire un concilio ecumenico. La notizia, che è al contempo oggetto di un comunicato stampa da parte del Vaticano, fa istantaneamente il giro del mondo. A Roma, i cardinali restano, nel senso proprio del termine, a bocca aperta.
Bisogna dire che le parole di Giovanni XXIII sorprendono davvero. Questo concilio, dice il papa, sarà “un invito amabile e rinnovato ai fedeli delle Chiese separate a partecipare con noi a questo convito di grazia e di fraternità ecumenica.” La novità è enorme. A quell’epoca, la sola unità presa in considerazione era il ritorno all’ovile delle pecore smarrite. E non era affatto pensabile mettersi attorno ad un tavolo con degli scismatici o degli eretici, anche solo per dialogare. Nei mesi che seguono, i cardinali romani non sembrano del resto avere molta premura di mettersi a tavola né di avere un particolare appetito.
Eppure, papa Giovanni XXIII continua, di dichiarazione in dichiarazione, a parlare di unità, di ecumenismo, della celebrazione di un concilio come di una nuova Pentecoste che vedrebbe affluire i popoli “di ogni lingua e nazione”. Durante i lunghi mesi del periodo preparatorio al concilio, l’ambiguità resta. Per la teologia romana classica, “ecumenismo” significa stricto sensu “che riguarda tutta la terra abitata” e si oppone a locale o regionale. Occorre attendere che il cardinal Bea, a cui il papa affida il versante ecumenico del concilio, annunci alcune settimane prima dell’apertura che degli osservatori cristiani non cattolici sono invitati dal papa e assisteranno in extenso a tutti i dibattiti affinché la Curia, suo malgrado, constati la volontà di Giovanni XXIII e vi si sottometta.
Ma un’altra parola caratterizza il discorso preconciliare del papa, il termine “aggiornamento”. Anche per questo, a lungo non si capisce di che cosa si tratti. Se Giovanni XXIII usa questo termine, è perché la parola “riforma” è diventata quasi tabù nel cattolicesimo, dopo l’inizio della Riforma protestante, più di quattro secoli prima! Un grande teologo francese, il domenicano Yves Congar, sa quello che gli è costato intitolare una delle sue opere “Vera e falsa riforma nella Chiesa”. Per evitare lo stesso rischio, il giovane teologo germanofono Hans Küng modifica il titolo iniziale del libro in cui espone il suo programma per il concilio, togliendone il termine “maledetto” di “riforma” e pubblica Concilio e ritorno all’unità. È vero che tale parola, “aggiornamento”, lascia molte possibilità di interpretazione.
Durante il periodo preparatorio, da parte dell’amministrazione romana si finge di credere che si tratti di compilare i testi pubblicati dai papi nel corso dell’ultimo secolo, di ricordarne le grandi linee, di riprecisare i limiti e le regole, di riaffermare fastosamente la giusta dottrina e di ripetere solennemente tutto ciò che, da 100 anni, è stato condannato come “modernismo”. Ad esempio, il cardinale Ottaviani, che dirige il Sant’Uffizio, tenta di far convalidare il testo di una professione di fede “aggiornata” che i Padri conciliari dovrebbero sottoscrivere all’apertura del concilio. Vi si ritrova un condensato del Sillabo, del giuramento antimodernista e delle ultime encicliche di Pio XII che condannano la “nuova teologia” e che è valso l’isolamento a Congar, de Lubac, Chenu... e fanno cadere sospetti su un uomo come Karl Rahner. Per fortuna, la commissione preconciliare non convaliderà l’idea.
Da parte sua, Giovanni XXIII non sembra assumere particolari posizioni. Tuttavia, quando gli chiedono che cosa farà il concilio, apre la finestra e commenta: “occorre far entrare un po’ d’aria fresca”. Più tardi, battendo la mano sul bracciolo della poltrona dirà: “bisogna scuotere via la vecchia polvere”. E maliziosamente aggiunge: “dell’impero... romano”. Un’altra volta, misura abbattuto davanti ad uno suo visitatore un testo preparatorio sottoposto alla sua lettura: 5 cm di testo, 25 cm di condanna!
L’11 ottobre 1962, i 2500 Padri conciliari, vescovi, e superiori di Congregazioni religiose si siedono per la prima volta sulle gradinate che sono state preparate nella navata della Basilica di San Pietro. Il discorso di Giovanni XXIII è molto atteso. Il papa darà un’indicazione per il lavoro del concilio?
Del suo lungo discorso, i Padri e la Storia ricorderanno tre passi principali. Innanzitutto, parole severe nei confronti di coloro che chiama “profeti di sventura” che dice di avere accanto quotidianamente: “Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa.”.
Più avanti, il papa osserva che è ora che la Chiesa proponga “la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore”. Come dire che i centimetri di condanna possono essere gettati nel cestino della carta straccia. Poi arriva la frase che più spesso sarà usata dai sostenitori dell’aggiornamento secondo Giovanni XXIII. Il papa dichiara: “Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate ”. In queste parole stava il vero ruolino di marcia del concilio, una marcia che sarebbe durata quattro sessioni di dieci settimane di lavoro ciascuna, fino alla chiusura del concilio, l’8 dicembre 1965.
Christine Pedotti è autrice di La bataille du Vatican, 1959-1965, ed. Plon.
Se Papa Giovanni inventore del
Concilio parlava di “primavera della Chiesa”, il grande teologo Karl Rahner nel 1982, ventesimo
anniversario del Concilio, intitolava un suo intervento critico “L’inverno della Chiesa”.
Ma sentite
che cosa diceva il card. Franz Koenig ai laici della sua arcidiocesi di Vienna in pieno Concilio:
“Quando avete qualcosa da dire rispetto alla Chiesa non aspettate il vescovo. Non aspettate una
parola da Roma. Parlate quando pensate di doverlo fare, fate pressioni quando dovete farle. Tutte le
volte che ne avete occasione informate il mondo e i cattolici. Inoltre dite anche tutto quello che il
popolo e i fedeli si aspettano dalla Chiesa. In tal modo, questo processo che è nato nella speranza,
non cadrà nella disillusione, ma avrà una realizzazione magnifica”
cit. da: Vittorio Cristelli, Chiesa del Concilio e oltre, "vita trentina", 11 marzo 2012
Silenzio stampa
L’Osservatore romano e la censura riservata all’annuncio del Concilio Vaticano II da parte di Giovanni XXIII
di Hilari Raguer
da Adista Contesti n. 7 del 28/01/2012 *
Il cardinal Lercaro, che durante il Concilio Vaticano II era stato uno dei più decisi propulsori del progetto rinnovatore di Giovanni XXIII, poco dopo la morte di questi pronunciò un discorso nel quale osò parlare della «solitudine istituzionale» con la quale il papa dovette lottare per mettere in moto il Concilio: vale a dire l’opposizione che incontrò nelle stanze vaticane. Una manifestazione clamorosa di quella opposizione fu il boicottaggio da parte del quotidiano vaticano, L’Osservatore romano, della notizia dell’annuncio del Concilio. Giovanni XXIII rese pubblica la sua decisione nel solenne atto conclusivo dell’Ottavario di preghiera per l’unità dei cristiani, il 25 gennaio del 1959, nella Basilica di San Paolo fuori le mura.
Lasciando da parte l’intenzione ecumenica propria dell’Ottavario, la celebrazione conclusiva era stata convertita in preghiera per la “Chiesa del silenzio”, specialmente per quella cinese. È l’espressione che aveva coniato Pio XII in riferimento ai cristiani dei Paesi comunisti (altri, maliziosamente la applicavano alla stessa Chiesa cattolica, in cui la voce del papa era l’unica che si potesse ascoltare). Giovanni XXIII nella sua omelia parlò, beninteso, di persecuzione in alcuni Paesi, ma la parte più importante della giornata doveva ancora arrivare. Sua Santità aveva convocato i 17 cardinali presenti a un concistoro, nella sala capitolare dell’abbazia benedettina di San Paolo.
Fu allora che annunciò loro, «ispirandosi alle tradizioni secolari della Chiesa» (la celebrazione di concilii in momenti di difficoltà o di transizione), tre eventi: un sinodo diocesano di Roma, un concilio ecumenico per la Chiesa universale e l’aggiornamento del Codice di Diritto canonico.
Se dispose un sinodo diocesano fu perché, quando comunicò la decisione al suo Segretario di Stato, Domenico Tardini, questi, per non dirgli che era uno sproposito, osservò che secondo il Codice di Diritto canonico le diocesi devono tenere un sinodo almeno ogni 10 anni e a Roma non si era mai fatto. Giovanni XXIII gli rispose tranquillamente: «Allora faremo prima un sinodo romano e poi il concilio universale».
L’Osservatore romano aveva ricevuto con anticipo l’omelia pubblica del papa e l’allocuzione riservata ai cardinali e, nel numero del 26-27 gennaio, apparso nel pomeriggio, come sempre, del 25, annunciava a titoli cubitali: «Il Sommo Pontefice Giovanni XXIII assiste ai Riti Sacri nella Basilica di Ostiense». Sotto, un po’ più piccolo: «Eventi di portata storica per la vita della Chiesa annunciati da Sua Santità». In un riquadro, senza alcun titolo né sottotitolo, la spoglia nota che l’ufficio stampa del Vaticano aveva inviato a tutti i mezzi di comunicazione, con la tripla decisione del papa.
Il resto della prima pagina era occupato dall’omelia pubblica e da due foto della cerimonia nella Basilica. Il quotidiano menzionava infine la riunione con i cardinali, «destinatari di una allocuzione della quale diamo conto in prima pagina». Nessun titolo né sottotitolo, nessun editoriale o commento sottolineava la notizia del secolo, che al contrario faceva il giro del mondo sugli altri mezzi di comunicazione.
Quando nel 1979, in un seminario su Giovanni XXIII e il Concilio, diretto dal professore Giuseppe Alberigo, all’Istituto per le Scienze religiose di Bologna, dovetti analizzare le reazioni della stampa universale di fronte alla notizia del Concilio, restai attonito di fronte al silenzio del quotidiano vaticano.
In un primo momento pensai che la redazione non avesse avuto tempo di reagire. Ma la notizia già la conoscevano, per la nota dell’ufficio stampa riprodotta nel riquadro. Solo vi alludevano con quell’enigmatico sottotitolo: “Eventi di portata storica per la vita della Chiesa annunciati da Sua Santità”. E nemmeno nei giorni seguenti si parlava di quella che era una notizia di portata mondiale.
Il 29, senza dargli rilievo con un titolo particolare, il quotidiano annuncia che il papa, nell’udienza generale, al momento di pronunciare l’Angelus, «ha invitato i presenti e, naturalmente, tutti i fedeli, a dedicare i tre Gloria Patri che si dicono alla fine della tripla invocazione a Maria alle tre intenzioni indicate domenica scorsa da Sua Santità: il sinodo diocesano di Roma, il Concilio ecumenico, l’aggiornamento della legislazione ecclesiastica contenuta nel Codice di Diritto canonico».
Il giorno 30, si menziona “Un documento del cardinal Montini sul prossimo Concilio Ecumenico” (Montini era troppo importante per farlo passare sotto silenzio, però esce all’ultima pagina, in carattere piccolo e tra le varie “Notizie italiane”, alla stregua delle consultazioni per un nuovo governo, il mercato avicolo di Verona e misure per lo sviluppo del Mezzogiorno). Nessun altro riferimento fino all’11 febbraio, quando compare un articolo del cardinal Antonio Bacci, il latinista di Curia, intitolato “In che lingua si parlerà al prossimo Concilio Ecumenico?” (in latino naturalmente).
Il 15 febbraio il teologo Raimundo Spiazzi, domenicano, scrive su “San Tommaso e i concilii ecumenici”. Il 6-7 aprile Carlo Boyer, gesuita, specialista di questioni ecumeniche precisa i “Diversi significati della parola ecumenico”. E il 29 aprile viene pubblicata l’esortazione del papa, in occasione del mese di maggio, che chiede ai fedeli preghiere per il successo del Concilio, ma i titoli dicono solo che il papa «invoca preghiere speciali per l’imminente mese di maggio». Di lì in avanti non hanno altra scelta che dare eco alle notizie che riferiscono del grande evento.
Qualcuno in alto deve aver detto alla redazione dell’Osservatore di non parlare del Concilio, perché era una follia che bisognava per forza fermare. A dispetto della «solitudine istituzionale» di cui parlava Lercaro, il papa continuò a dare impulso ai preparativi e a mantenere vivo con le sue allocuzioni il clima di entusiasmo popolare suscitato dall’annuncio del Concilio. Al momento dell’inaugurazione, l’11 ottobre del 1962, la maggior parte dell’episcopato mondiale era molto lontano dal condividere il progetto di rinnovamento di Giovanni XXIII. Il papa aveva consultato tutti i vescovi sui temi che il Concilio avrebbe dovuto trattare e le risposte erano state deludenti. Quasi tutti i vescovi spagnoli si limitavano a chiedere la solenne condanna del comunismo e l’intensificazione della devozione alla Vergine.
È molto significativo che all’inizio delle sessioni conciliari i cronisti e i giornalisti chiamassero “maggioranza” i vescovi conservatori e “minoranza” gli innovatori e che in poco tempo, settimane, per non dire giorni, si sia invertita spontaneamente le terminologia: di lì in poi si parlò della maggioranza rinnovatrice o conciliare e della minoranza conservatrice o anticonciliare. Fu decisiva per questo capovolgimento la persona di Giovanni XXIII che, nonostante il totale rispetto per la libertà dei padri conciliari (Paolo VI sarà più “interventista”), con le sue allocuzioni ottimistiche incoraggerà lo spirito di aggiornamento. La sua memoria continua a mantenerlo vivo nella Chiesa, contro l’attuale processo di involuzione. È il suo grande e sempre vivo miracolo, per me più grande della guarigione da un cancro.
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* IL DIALOGO, Martedì 24 Gennaio 2012
Con la creazione di 22 nuovi cardinali, Benedetto XVI imprime il suo marchio al conclave che eleggerà il suo successore
di Stéphanie Le Bars
in “Le Monde” dell’8 gennaio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il papa ha annunciato, venerdì 6 gennaio, la creazione di 22 nuovi cardinali, di cui 18, che hanno meno di 80 anni, potrebbero eleggere il suo successore in caso di conclave. Al termine di questo quarto concistoro del suo pontificato, Benedetto XV avrà nominato 63 cardinali in grado di votare, ossia la maggioranza dei membri del collegio. Al di là dell’aspetto simbolico, il papa imprime così il suo marchio all’orientamento del prossimo conclave.
Le creazioni, che saranno ufficialmente confermate il 18 febbraio, portano a 214 i membri del Sacro collegio, di cui 125 elettori con meno di 80 anni, età limite per partecipare al voto. Tra i nuovi cardinali, si contano sedici prelati europei, due americani, un canadese, un brasiliano, un indiano e un cinese di Hong Kong. Nessuno è originario dell’Africa o dell’America Latina, proprio in un periodo in cui la Chiesa cattolica conosce la sua massima vitalità in quelle regioni del mondo. Anche il numero di cardinali francesi resta invariato, con quattro rappresentanti: Mons. André Vingt-Trois, Mons. Jean-Louis Tauran, Mons. Jean-Pierre Ricard e Mons. Philippe Barbarin.
Invece, la parte degli italiani, tradizionalmente preponderante all’interno del collegio, si rafforza. La nomina di sette cardinali italiani porta a 30 il numero di prelati della penisola. Questa proporzione, anch’essa tradizionalmente criticata, potrebbe rafforzare le probabilità di elezione di un italiano come successore del papa tedesco. Oltre ad una prossimità di alcuni di questi vescovi con il numero due del Vaticano, l’italiano Tarcisio Bertone, queste nomine si spiegano con l’accesso automatico degli alti responsabili della curia a questa onorificienza.
Nel gioco dei pronostici a cui si dedicano i vaticanisti ogni volta che Benedetto XVI, che avrà 85 anni in aprile, si mostra un po’ meno in forma, il nome dell’arcivescovo di Milano, Angelo Scola, torna così regolarmente come “possibile papabile”. Mons. Scola è considerato ideologicamente molto vicino all’attuale papa, e il nome di questo prelato di 70 anni era già circolato durante il precedente conclave nel 2005.
Al termine del concistoro di febbraio, gli europei resteranno inoltre in maggioranza, con 67 rappresentanti, che siederanno accanto ai 22 sud-americani - di cui sei brasiliani e quattro messicani -, 15 nord-americani, 11 africani, 9 asiatici e un oceaniano.
Questo annuncio apre un anno che sarà segnato da un viaggio del papa in Messico e a Cuba, alla fine di marzo, ed un possibile viaggio in Libano per consegnare ai vescovi del Medio-Oriente le conclusioni del sinodo sulla situazione dei cristiani d’Oriente, che si è svolto nel 2010.
Il 2012 è anche quello del cinquantesimo anniversario dell’apertura del concilio Vaticano II, l’11 ottobre 1962. Questo avvenimento darà luogo a molte manifestazioni, pubblicazioni e riflessioni sull’applicazione degli insegnamenti venuti dal concilio e sarà accompagnato dal lancio dell’ “Anno della fede”. Destinato a “ravvivare” la fede dei fedeli, sbarcherà con il sinodo sulla “nuova evangelizzazione, preoccupazione centrale di Benedetto XVI.
Preoccupato nel vedere i paesi di tradizione cristiana staccarsi dalle loro radici, il papa ha di nuovo evocato, venerdì, una “civiltà occidentale” che “sembra aver perso l’orientamento, e naviga a vista”, aggiungendo: “La Chiesa, grazie alla parola di Dio, vede attraverso questa nebbia”.
Il Concilio che fa la differenza
di Enzo Bianchi (La Stampa, 29 gennaio 2012)
«Il concilio Vaticano II, come evento intenzionalmente pastorale, non ha aggiunto verità da credere, ma ha riflettuto sulla globalità della vicenda cristiana nel mondo contemporaneo. Per attivare un cristianesimo vivibile, comunicativo, credibile». Così Ugo Sartorio chiude l’introduzione a Fare la differenza. Un cristianesimo per la vita buona (Cittadella, pp. 254, 15,80), con un rimando esplicito al concilio di cui il prossimo ottobre ricorre il cinquantesimo dell’apertura. Un rimando che è anche la chiave di lettura di queste pagine, volte a ripensare la presenza cristiana nella realtà postmoderna. L’autore, francescano conventuale, ha una rara capacità divulgativa: già docente di teologia fondamentale, dirige sia la rivista Credere oggi che il mensile cattolico, Il Messaggero di Sant’ Antonio.
Il lettore si può così incamminare fiducioso in un percorso che tende a ricollocare il cristianesimo attraverso la categoria della «differenza»: lungi dall’ essere una presa di distanza dal mondo, la differenza cristiana qui proposta è innanzitutto uno «stile di vita» che riesce a veicolare il messaggio evangelico meglio di qualsiasi discorso apologetico e a suscitare interesse in una società sempre più indifferenziata quando non addirittura indifferente. Stile di vita che non è «forma» contrapposta al «contenuto», bensì incarnazione della speranza, corpo offerto all’ideale evangelico.
La riflessione di Sartorio si articola così in due blocchi complementari - «pensare la differenza» e «vivere la differenza» che da un lato stimolano la necessaria elaborazione di un pensiero su Dio e sull’umanità radicato nel dettato evangelicoe nella millenaria storia della testimonianza cristiana e, d’altro lato, evidenziano alcune esperienze storiche di «differenza»vissuta: il rapporto tra chierici e laici, il significato della vita religiosa, la complementarietà tra celibato per il regnoe matrimonio cristiano.
Non manca un’attenta disamina delle «figure» che l’annuncio cristiano ha assunto in questa stagione del postmoderno: nuova evangelizzazione, inculturazione, testimonianza sono prese in esame per farne emergere al di là delle diverse terminologie e dei relativi approcci la convergenza attorno al Vangelo stesso e alla figura di Gesù Cristo. Lì e non altrove, infatti, continua a giocarsi la serietà della presenza cristiana nella società di ogni tempo e stagione, come osserva acutamente Armando Matteo nella postfazione al volume: «L’efficacia dell’annuncio di quella vita buona che sgorga dal Vangelo di Gesù dipenderà sempre di più dalla capacità del pensiero e della testimonianza cristiani di farsi pazientemente, rispettosamente e intelligentemente carico di ciò che oggi possiamo e dobbiamo nominare la fatica postmoderna del credere». Ed è forse proprio questa l’impegnativa eredità lasciataci dal concilio.
LA NUOVA ENCICLICA “SPE SALVI...”
BENEDETTO XVI: UN PAPA CHE IGNORA IL CONCILIO VATICANO II
di Alberto Bruno Simoni op *
E’ solo un rilievo di fatto: se si scorrono le note della Enciclica “Spe salvi”, che sono 40, ben 7 sono del Catechismo della Chiesa cattolica, mentre non figura nessun riferimento, non dico all’evento di speranza che è stato il Vaticano II per la storia intera, ma almeno ai suoi documenti.
Se questo è un semplice indizio, non mancano motivi per pensare che il Concilio è chiamato in causa - anzi non è affatto chiamato in causa - proprio quando sarebbe stato necessario e inevitabile: proprio quando l’enciclica mette di nuovo in discussione - e non solo in discussione - il rapporto della Chiesa con la “modernità” o col “mondo moderno”, fino a mettere in mora un cosiddetto “cristianesimo moderno”.
La domanda che nasce è questa: il Concilio era “chiesa” e può essere ancora considerato espressione e insegnamento della chiesa, dal momento che viene così tranquillamente by-passato dal Magistero solenne? E’ una domanda tendenziosa, o c’è motivo di farla?
Il rilievo e l’interrogativo sono plausibili, se si passa alla lettura del testo, sia pure attraverso alcune citazioni e non ancora nel suo impianto generale. Al n.4 si legge: “Se la Lettera agli Ebrei dice che i cristiani quaggiù non hanno una dimora stabile, ma cercano quella futura (cfr Eb 11,13-16; Fil 3,20), ciò è tutt’altro che un semplice rimandare ad una prospettiva futura: la società presente viene riconosciuta dai cristiani come una società impropria; essi appartengono a una società nuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata”. Quindi presenza sì nella storia, ma in quanto questa è depotenziata e svuotata, per fare posto ad una “società nuova” che forse potrebbe essere la Chiesa.
Una conferma l’abbiamo al n.7: “La fede non è soltanto un personale protendersi verso le cose che devono venire ma sono ancora totalmente assenti; essa ci dà qualcosa. Ci dà già ora qualcosa della realtà attesa, e questa realtà presente costituisce per noi una «prova» delle cose che ancora non si vedono. Essa attira dentro il presente il futuro, così che quest’ultimo non è più il puro «non-ancora». Il fatto che questo futuro esista, cambia il presente; il presente viene toccato dalla realtà futura, e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future”.
Ne nasce un confronto tra “vita” ed “eternità”, e al n.11 ci si chiede: “Che cosa è, in realtà, la «vita»? E che cosa significa veramente «eternità»? Ci sono dei momenti in cui percepiamo all’improvviso: sì, sarebbe propriamente questo - la «vita» vera - così essa dovrebbe essere. A confronto, ciò che nella quotidianità chiamiamo «vita», in verità non lo è”.
Parlando di speranza senza un soggetto portante (speranza di Israele, popolo messianico...) diventa necessario precisare “il carattere comunitario della speranza” (n.14), per poi dire al n.15: “Questa visione della «vita beata» orientata verso la comunità ha di mira, sì, qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con la edificazione del mondo - in forme molto diverse, secondo il contesto storico e le possibilità da esso offerte o escluse”. Dove la storia umana appare come un guscio provvisorio e senza significato per la storia della salvezza.
Una domanda veramente cruciale e rivelativa è questa la n.16: “Come ha potuto svilupparsi l’idea che il messaggio di Gesù sia strettamente individualistico e miri solo al singolo? Come si è arrivati a interpretare la «salvezza dell’anima» come fuga davanti alla responsabilità per l’insieme, e a considerare di conseguenza il programma del cristianesimo come ricerca egoistica della salvezza che si rifiuta al servizio degli altri?”.
A parte il fatto che il carattere individualistico del messaggio di Gesù non è da imputare solo a fattori culturali “ad extra”, ma chiama in causa tanta spiritualità, tanta teologia e tanta ecclesiologia, come si fa a dimenticare che proprio il Concilio Vaticano II ha voluto essere nella chiesa e per la chiesa la svolta verso la collegialità, la comunione, la sinodalità, la coscienza di Popolo di Dio, in una parola la koinonia costitutiva?
Si ammette e si auspica un’autocritica anche da parte della chiesa, ma questa dovrebbe interessare e coinvolgere solo il “cristianesimo moderno” in parallelo all’”autocritica dell’età moderna”, come si dice al n.22: “Così ci troviamo nuovamente davanti alla domanda: che cosa possiamo sperare? È necessaria un’autocritica dell’età moderna in dialogo col cristianesimo e con la sua concezione della speranza. In un tale dialogo anche i cristiani, nel contesto delle loro conoscenze e delle loro esperienze, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire. Bisogna che nell’autocritica dell’età moderna confluisca anche un’autocritica del cristianesimo moderno, che deve sempre di nuovo imparare a comprendere se stesso a partire dalle proprie radici”.
Viene ancora da chiedersi se la Chiesa intera non abbia inteso, col Concilio, ripartire dalle proprie radici, per recuperare la sua intrinseca capacità di farsi “giudea con i giudei e greca con i greci”. In questo senso, una lettura più meditata la meriterebbe tutto il numero 24, dove si dice che “un progresso è possibile solo in campo materiale”, mentre nell’ambito delle “decisioni etiche” non è possibile uno sviluppo collettivo, ma tutto è sempre da ricominciare daccapo, fino a dire quanto segue: “Il retto stato delle cose umane, il benessere morale del mondo non può mai essere garantito semplicemente mediante strutture, per quanto valide esse siano. Tali strutture sono non solo importanti, ma necessarie; esse tuttavia non possono e non devono mettere fuori gioco la libertà dell’uomo. Anche le strutture migliori funzionano soltanto se in una comunità sono vive delle convinzioni che siano in grado di motivare gli uomini ad una libera adesione all’ordinamento comunitario. La libertà necessita di una convinzione; una convinzione non esiste da sé, ma deve essere sempre di nuovo riconquistata comunitariamente”.
Si può essere d’accordo, ma si potrebbe auspicare che qualcosa del genere valesse anche per la “struttura chiesa” e nelle relazioni intra-ecclesiali: o anche qui siamo in mondi del tutto diversi e separati? Nel caso ad esempio, che una Teologia della liberazione, per non dire ancora dell’intero Concilio, rientri nel cosiddetto “cristianesimo moderno”, non si capisce come si possa fare questa affermazione al n. 25: “D’altra parte, dobbiamo anche constatare che il cristianesimo moderno, di fronte ai successi della scienza nella progressiva strutturazione del mondo, si era in gran parte concentrato soltanto sull’individuo e sulla sua salvezza. Con ciò ha ristretto l’orizzonte della sua speranza e non ha neppure riconosciuto sufficientemente la grandezza del suo compito - anche se resta grande ciò che ha continuato a fare nella formazione dell’uomo e nella cura dei deboli e dei sofferenti”.
Si può dunque dire che il Concilio viene ignorato nella lettera e nello spirito. Ma si può dire anche di più: il fatto che non venga neanche messo in discussione (come fanno ad esempio i lefebvriani) può far pensare ad una cancellazione tacita, per ridurre tutta la realtà della Chiesa al Papa di turno. E la Chiesa che vive altrove e di altro può e deve solo tacere?
Alberto Bruno Simoni op
Dall’articolo di Eugenio Scalfari
“Il Papa che rifiuta il mondo moderno” (La Repubblica 2 dicembre 2007)
Nei mesi più recenti era emersa una tonalità critica nei confronti della grande revisione conciliare e in un certo senso modernista del Vaticano II, dove dottori e pastori della Chiesa in vesti episcopali avevano aperto alla modernità, all’ecumenismo e perfino ai laici non credenti mettendosi in ascolto per trasmettere il messaggio evangelico e per conciliarlo con le risposte del pensiero laico, della morale laica e della razionalità.
Il Papa sembrava revocare in dubbio il messaggio conciliare e scavalcare a ritroso almeno due dei pontificati precedenti, quello di papa Roncalli e quello di papa Montini, tornando piuttosto alla Chiesa pacelliana e anche più indietro.
Perciò attendevo con interesse la seconda enciclica sperando che da essa si potessero trarre maggiori lumi sul pensiero di papa Ratzinger. Così infatti è stato. Anticipo qui il mio giudizio sul documento papale: Benedetto XVI ha voltato le spalle al Concilio Vaticano
Prima osservazione. L’enciclica porta un sottotitolo che indica i destinatari del documento: "Ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi e a tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana".
E’ strano che un’enciclica elenchi fin dal titolo i suoi destinatari. Tra di essi non sono indicati i seguaci delle altre confessioni cristiane, per non parlare dei fedeli di altre religioni. Solo vescovi, sacerdoti, fedeli cattolici.
Eppure si parla della speranza. Quella parola dovrebbe comunicare la massima apertura verso tutti i punti cardinali dell’orizzonte spirituale. Il vertice della cattolicità si chiude invece in difesa? Parla soltanto a chi è già arruolato e a chi è già convinto? Dov’è lo spirito missionario? Seconda osservazione. Le argomentazioni del documento pontificio sono certamente interessanti e comprensibili dalla cultura europea, ma abbastanza estranee ai cattolici di continenti e culture più lontane, all’Africa, all’Asia, all’America Latina. Che Ratzinger fosse un Papa europeo lo si era capito subito. La "Spe Salvi" ce ne dà conferma.
Ecco un’altra prova del suo voltar le spalle al messaggio ecumenico del Vaticano II.
Articolo tratto da:
FORUM (75) Koinonia
E nel Vaticano II torna la «razza» ebraica
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 06.05.2012)
Lavora o ha lavorato per il sito della Santa Sede. Ignoriamo il suo nome, i suoi studi, cosa abbia pensato mentre mutavano i rapporti fra la Chiesa ed Israele. Ma questo sconosciuto - impunito come chi commercia carte e gossip d’oltre Tevere - è riuscito a depositare nel sito web vatican.va, per sfregio, una riga sulla «razza» ebraica. L’ha infilata nella traduzione italiana del Vaticano II: Nostra ætate affermò che la Chiesa ha sempre innanzi agli occhi le parole di Paolo «de cognatis eius» (cioè «sui suoi congiunti») che dicono che l’adozione, la gloria, il patto, la legge, il culto e le promesse appartengono a Israele e ai padri «dai quali è nato Cristo secondo la carne». Nel sito vatican.va quel «de cognatis» viene oggi tradotto «della sua razza»: ebraica, naturalmente.
Non è un errore antico: è un atto recente, volontario. Il testo latino (lo mostra la mia critica del Vaticano II nei Conciliorum œcumenicorum generaliumque decreta) non dava appigli. L’Osservatore Romano del 17 novembre 1965 traduceva «della sua stirpe». Le altre traduzioni d’allora, raccolte senza ritocchi dal sito, non hanno esitazioni. Il tedesco recita «Stammverwandten», cioè parenti. La versione portoghese parla di «compatriotas». L’inglese «kinsmen», come «soukmenovcích» in ceco. In swahili «juu ya watu wa ukoo wake» indica le persone «del suo clan». Più inquietante l’«hermanos de sangre» dello spagnolo, identica al bielorusso. Solo in francese si era già osato tradurre «race» nel 1965 (idiozia rimasta intonsa anche nel sito odierno).
La traduzione italiana usuale, dunque, è stata volontariamente manipolata per sfregiare il Vaticano II con un termine dalla storia inquietante: la razza. Entrato nella Spagna del secolo XV, passato al linguaggio giuridico e politico, venne consegnato dal trattato Sur l’inégalité des races humaines, opera del 1853 d’un cattolico come de Gobineau, a uno sviluppo «scientifico», di cui s’appropriano i perpetratori della Shoah. In quel lungo lasso di tempo anche il magistero cattolico ha parlato di razze: dalle discussioni sull’ammissione ai sacramenti degli indios fino al formarsi di un magistero sull’unità della famiglia umana, che negli anni Trenta afferma l’«uguaglianza delle razze».
Con la dichiarazione dell’Unesco del 1950 - la Santa Sede era rappresentata dal nunzio Roncalli - il mondo ripudia l’idea di razza: e al Vaticano II, proprio nella dichiarazione Nostra ætate, la Chiesa rompe con l’antisemitismo «di qualunque tempo e di chiunque».
Chissà se l’inventore di un inesistente Vaticano II «razzista» è un cretino inoffensivo o la voce in talare di xenofobi, antisemiti, suprematisti che innocui non sono. Ma che un nemico del Papa e della Chiesa faccia rientrare dalla finestra del web l’ombra d’un pensiero cacciato conciliariter dalla porta, dice che il Vaticano II ha ancora la forza di smascherare cosa c’è davvero dietro il sogno, di liberarsene o di spuntarne con un preambolo tradizionalista lo sperone riformatore che pungola la carne della Chiesa.
COMUNICATO STAMPA DELLE CDB ITALIANE SULL’ENCICLICA Spe salvi
di CDBITALIA
Segreteria Tecnica Nazionale Cdb
Cdb Nord-Milano
c/o Rosario Carlig
Via Petrarca 8/B
22070 Appiano Gentile (Como)
segrcdb@alice.it
www.cdbitalia.it
L’enciclica di papa Ratzinger “ Spe salvi ” ha certamente spunti capaci di alimentare la sete e la ricerca di speranza di donne e uomini in cammino.
Il suo impianto generale però si fonda purtroppo sulla cultura della contrapposizione, che speravamo superata dal Concilio, fra la speranza autentica, dono esclusivo della grazia offerta da Dio attraverso la Chiesa, e le speranze terrene che senza quella grazia sarebbero fallaci.
E’ smentito, nella sostanza, il “ risoluto dissenso ” di papa Giovanni verso “profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio”, pronunciato nel discorso di apertura del Concilio, la teologia dei “segni dei tempi” della Pacem in Terris”, che vede e valorizza gli aspetti di speranza del cammino umano, la riconciliazione della Chiesa col mondo moderno annunciata dal Concilio e perfino “l’amore al mondo” di Paolo VI.
E’ disconosciuto soprattutto il grande impegno di tanti cristiani e cristiane in tutto il mondo che portano quotidianamente il loro contributo di fede e di annuncio evangelico unendolo senza contrapposizioni e senso di superiorità ai contributi di tutti gli uomini di buona volontà di qualsiasi fede, religione, cultura.
Il nostro contributo di speranza sta nell’Incarnazione e non nelle condanne.
Le Comunità cristiane di base italiane
Appiano Gentile, 3.12.2007
* il dialogo, Martedì, 04 dicembre 2007
http://www.ildialogo.org/Ratzinger/specdb04122007.htm
NON C’E’ PIU’ SPERANZA? *
Non ancora riesco a leggere l’enciclica di Benedetto XVI° sulla speranza, ma ho il sentore di andare verso una grande delusione. Ho l’impressione che la chiesa si ritrovi un papa "cortocircuitato": tutto preso dalla stretta delle sue ossessioni, prigioniero della sua "razionalità filosofica" scambiata per "Ragione di fede"!
Nel capitolo 21, versetto 11, di Isaia c’è una domanda alla quale, purtroppo, nemmeno più la Chiesa, questa chiesa, sa dare una risposta: “Sentinella, quando finisce la notte? Dimmi, quanto manca all’alba?” .
Don Giorgio Morlin, parroco di Mogliano Veneto (Treviso) fa una descrizione del cattolicesimo italiano da far cader le braccia! Eppure tale è! E di fronte a questa realtà, il papa e i nostri vescovi continuano a tener chiusi gli occhi e sordo il cuore.
Scrive don Giorgio:
Si registra un cattolicesimo italiano mediaticamente e politicamente imponente ma profeticamente fragilissimo. E’ un cattolicesimo, ad esempio, che, il 12 maggio 2007, riesce a radunare un milione d’italiani per il «Family day» a Roma ad affermare con forza: “No ai DICO!” ma che non riesce a mobilitare nemmeno qualche migliaio di cittadini credenti, nelle piazze di Palermo o di Napoli o di Milano o di Venezia, per proclamare, con altrettanta forza, “No alla mafia!”.
Un cattolicesimo nazionale che è richiamato dall’autorità ecclesiastica, giustamente ma anche ossessivamente, all’osservanza del VI° comandamento (non commettere adulterio: quindi, no alle coppie di fatto!) ma che, allo stesso tempo, in merito ai due comandamenti contigui nell’elenco del decalogo, brilla per il suo grande silenzio: ad esempio sul V° (non uccidere”: quindi, no alla guerra, no alla mafia, no alla camorra...) e sul VII° (non rubare: quindi, no all’evasione fiscale, no alla cultura dell’illegalità...). Si verificano situazioni, paradossali e ridicole allo stesso tempo, in cui, ad esempio, i quattro principali leaders politici del centrodestra (Berlusconi, Bossi, Casini, Fini) che si dichiarano pubblicamente cattolici molto ossequienti al papa e strenui difensori della sacralità del matrimonio monogamico, in realtà risultano tutti e quattro divorziati.
Una cultura cattolica come questa, chiaramente strumentale e schizofrenica, spegne la speranza e la profezia. E’ una schizofrenia, comunque, che si registra in molti ambiti della vita civile e religiosa. Da un punto di vista strettamente religioso e popolare, il mondo cattolico, mentre riesce ogni anno a portare da ogni parte d’Italia circa 6 milioni di pellegrini alla tomba di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, non solo è incapace a mobilitarsi ma anche incapace ad esprimere un minimo di ribellione morale quando, ad esempio, i servitori della giustizia (come i giudici Costa, Chinnici, Livatino, Falcone, Borsellino, ecc...) sono ammazzati dalla mafia o dalla camorra o dalla ’ndrangheta. E’ uno strazio devastante che si abbatte con furia non solo sulla vita dei cittadini ma anche sulla vita della natura stessa attraverso gli incendi dolosi a ripetizione, mirati masochisticamente all’autodistruzione ecologica, economica e urbana delle meravigliose terre del sud.
Tutto questo, tra l’altro, accade con l’omertà colpevole di quelle popolazioni locali, che magari poi sono anche molto devote nel recitare il rosario davanti alle statue di Padre Pio disseminate a migliaia nelle piazze e contrade di città e paesi del meridione, e non solo. Una religiosità come questa è fuori dalla storia e dal vangelo. Anzi, sarà proprio alla storia e al vangelo che, non so come e quando, saremo tutti chiamati come Chiesa a renderne conto...
Fin qui la bella citazione di don Giorgio.
Come non dargli retta?
A tutti un abbraccio e buona resistenza.
*
Aldo [ don Antonelli]
Enciclica Spe Salvi
La liberazione nella sofferenza
di Gianni Vattimo (il manifesto, 01.12.2007)
Non si fa dell’ironia gratuita se si dice che anche questa ultima enciclica di Benedetto XVI dedicata appunto alla speranza, non riesce ad apparirci solo come un ennesimo documento proveniente da una cattedra di conservazione sociale, di banalizzazione delle aspettative etiche, di sostanziale ipocrisia, tratti che troppo spesso siamo legittimati ad attribuire all’insegnamento della Chiesa post e anticonciliare dei nostri giorni. Ogni volta rinasce in noi la speranza che appaia un segno di cambiamento capace di ridarci il gusto di appartenere alla chiesa di Cristo. L’enciclica pubblicata oggi poteva essere una grande occasione di risuscitare questa speranza
Abbiamo subito pensato agli anni trascorsi del prof. Ratzinger a Tubinga quando vi insegnava, se non sbagliamo, anche Ernst Bloch, autore di quel monumentale Principio Speranza che Benedetto XVI non ricorda affatto nelle sue numerose citazioni, del resto prevalentemente riferite ai Padri della chiesa e accuratamente prive di ogni richiamo alla teologia contemporanea. Illusione e delusione, dunque, sono le prime impressioni che ricaviamo dalla lettura che abbiamo potuto fare del testo. Ammiriamo sempre l’aspetto dotto, quasi «scientifico», dei discorsi teologici che possono giovarsi di una tradizione testuale e interpretativa così vasta, che non possiamo mai ridurre alla semplice «astuzia dei preti», come farebbe qualche autore ateo di successo. Quelle pagine e quegli autori sono tracce di esperienze autenticamente vissute e spesso di vere e proprie vite di santità che non riusciamo a banalizzare.
Ma allora perché delusione? Si riassume nella già notata assenza di Bloch - che potremmo anche accettare, visto che non è un teologo cristiano. Ma che dire dell’assenza della teologia della liberazione, o di autori come Moltmann e altri che hanno cercato di dare un contenuto non puramente «spiritualistico» alla dottrina cristiana della speranza? Qui si tocca il senso stesso della trattazione ratzingeriana. Che mette subito le mani avanti, nel paragrafo 4 del testo, dove dice che «il cristianesimo non aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva fallito». Non si esagera se si vede in questa frase, compresa la sua conclusione, la vera e propria cifra del discorso papale. Importa sottolineare la conclusione. Che la speranza portata da Gesù al mondo non possa e debba essere letta in termini di rinnovamento politico-sociale - come verosimilmente fu letta anzitutto da coloro che se ne vollero sbarazzare mettendolo in croce - è come dimostrato dal fallimento storico di rivolte come quella di Spartaco.
Più avanti (per esempio, paragrafo 21), sarà questa la ragione per rifiutare il messaggio rivoluzionario di Marx, al quale viene rivolta l’obiezione, invero ormai piuttosto frusta, per la quale il comunismo sarebbe una pretesa di realizzare il regno di dio sulla terra, impresa evidentemente (?) impossibile e quindi destinata fatalmente a degenerare in violenza. Nelle stesse righe in cui si obietta a Marx di aver dimenticato l’uomo, «che rimane sempre uomo» (e cioè imperfetto e incapace di uscire dallo stato di imperfezione: la ballata del vescovo di Ulm di Bertolt Brecht!), si dice anche che Marx ha ispirato bensì il rovesciamento del vecchio ordine, ma non ha indicato come procedere oltre, sicché il povero Lenin dovette rassegnarsi a sperare che lo stato si dissolvesse da sé.
Già, sia detto di passata: ma quali indicazioni pratiche ci sarebbero nella «vera» speranza cristiana? La preghiera, lo sguardo al giudizio finale dove dio ristabilirà la giustizia, e «agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza». Anche in queste pagine conclusive - dove forse una grande novità ci sarebbe, nel senso che il papa dà buone ragioni per non credere più alle fiamme dell’inferno e nemmeno all’eternità della pena per i dannati (un inferno «purgatorizzato», diremmo, paragrafo 47) - si risente il limite di puro spiritualismo che conferisce un senso del tutto astratto e forse retorico alla dottrina ratzingeriana della speranza. Agire e soffrire sono esercizi di speranza, e di speranza condivisa, in quanto il cristiano soffre con il prossimo e non si sente mai solo.
Ma non sarebbe giusto accentuare un po’ di più l’agire, oltre al soffrire? E’ invece su quest’ultimo che si pone sempre l’accento, secondo una linea che del resto domina la tradizione cristiana nella quale - ma ormai non pochi teologi cominciano a dubitarne - Gesù soffre in croce perché è la vittima capace di soddisfare l’ira del Padre a causa del peccato originale.. Di qui l’esaltazione della sofferenza come merito. E agire con gli altri e soffrire con loro non ha mai - come dovrebbe - il senso di una lotta comune contro ciò che produce sofferenza. Anche se il solo esempio evangelico di giustizia divina che il papa cita è quello del ricco Epulone che dovrebbe espiare la sua tracotanza e il suo attaccamento ai bei terreni, non è nemmeno sfiorato dal sospetto che bene e male abbiano da fare con l’ineguale distribuzione delle ricchezze e del potere. Dimenticare Bloch non è stata effettivamente una buona idea.